Love is a dangerous fire di lady lina 77 (/viewuser.php?uid=18117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentasette ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentotto ***
Capitolo 39: *** Capitolo trentanove ***
Capitolo 40: *** Capitolo quaranta ***
Capitolo 41: *** Capitolo quarantuno ***
Capitolo 42: *** Capitolo quarantadue ***
Capitolo 43: *** Capitolo quarantatre ***
Capitolo 44: *** Capitolo quarantaquattro ***
Capitolo 45: *** Capitolo quarantacinque ***
Capitolo 46: *** Capitolo quarantasei ***
Capitolo 47: *** Capitolo quarantasette ***
Capitolo 48: *** Capitolo quarantotto ***
Capitolo 49: *** Capitolo quarantanove ***
Capitolo 50: *** Capitolo cinquanta ***
Capitolo 51: *** Capitolo cinquantuno ***
Capitolo 52: *** Capitolo cinquantadue ***
Capitolo 53: *** Capitolo cinquantatre ***
Capitolo 54: *** Capitolo cinquantaquattro ***
Capitolo 55: *** Capitolo cinquantacinque ***
Capitolo 56: *** Capitolo cinquantasei ***
Capitolo 57: *** Capitolo cinquantasette ***
Capitolo 58: *** Capitolo cinquantotto ***
Capitolo 59: *** Capitolo cinquantanove ***
Capitolo 60: *** Capitolo sessanta ***
Capitolo 61: *** Capitolo sessantuno ***
Capitolo 62: *** Capitolo sessantadue ***
Capitolo 63: *** Capitolo sessantatre ***
Capitolo 64: *** Capitolo sessantaquattro ***
Capitolo 65: *** Capitolo sessantacinque ***
Capitolo 66: *** Capitolo sessantasei ***
Capitolo 67: *** Capitolo sessantasette ***
Capitolo 68: *** Capitolo sessantotto ***
Capitolo 69: *** Capitolo sessantanove ***
Capitolo 70: *** Capitolo settanta ***
Capitolo 71: *** Capitolo settantuno ***
Capitolo 72: *** Capitolo settantadue ***
Capitolo 73: *** Capitolo settantatre ***
Capitolo 74: *** Capitolo settantaquattro ***
Capitolo 75: *** Capitolo settantacinque ***
Capitolo 76: *** Capitolo settantasei ***
Capitolo 77: *** Capitolo settantasette ***
Capitolo 78: *** Capitolo settantotto ***
Capitolo 79: *** Capitolo settantanove ***
Capitolo 80: *** Capitolo ottanta ***
Capitolo 81: *** Capitolo ottantuno ***
Capitolo 82: *** Capitolo ottantadue ***
Capitolo 83: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
"Levati
di mezzo!".
Era
iniziata così, la sua discesa verso l'inferno. O forse no,
era
iniziata prima ma in quel momento, quando Ross aveva pronunciato
quelle parole, si era portato a compimento un processo iniziato tanto
tempo prima, da prima che Francis morisse.
Levati
di mezzo... Voglio andare da lei...
Ross
da sempre aveva voluto andare da lei. Aveva creduto di amarla, forse
ci aveva provato ma il suo cuore aveva sempre pulsato d'amore solo
per Elizabeth. Era solo questione di tempo, Demelza lo aveva sempre
saputo.
L'amore
vero non vince ogni ostacolo? L'amore vero non è quello che
da
sempre sa trionfare?
Demelza
lo aveva sempre saputo, era stata un ripiego. All'inizio del suo
matrimonio era semplicemente felice di essere la moglie di Ross, non
si aspettava nulla in cambio da un uomo che riteneva tanto superiore,
perfetto e irraggiungibile, era solo orgogliosa che lui l'avesse
sposata e ingenuamente convinta che il suo amore per lui sarebbe
bastato. Poi gli angoli si erano smussati, si erano innamorati, erano
stati felici ed era nata Julia. E ci aveva creduto, aveva creduto in
loro due, coppia nata per caso e per i motivi sbagliati ma forse
destinata a brillare come una stella. Eppure, anche nei momenti
più
belli, silenziosa come un fantasma, Elizabeth era sempre stata fra
loro due.
Poi
Julia era morta e l'incantesimo che si era creato fra loro si era
sgretolato. E dopo che era morto anche Francis, il cuore e la mente
di Ross erano andati definitivamente verso Trenwith, verso Elizabeth,
verso Jeoffrey Charles.
Ross
era un uomo buono, generoso, che si faceva in mille per gli altri.
Aveva aiutato i minatori, i suoi amici, aveva aiutato Dwight e
Caroline a ritrovarsi e si era fatto in mille per Elizabeth. Era una
persona dall'animo altruista e votata agli altri. Solo lei veniva
sempre dopo tutti, per lui. Lei e Jeremy.
Ross
non aveva mai voluto Jeremy ma si era illusa che lo amasse. Si era
illusa finché non aveva scoperto che, con lo spettro di due
anni di
prigione davanti, suo marito aveva pensato unicamente al
sostentamento di Elizabeth e Jeoffrey Charles per il periodo in cui
non ci sarebbe stato, senza la minima preoccupazione per lei e
soprattutto per suo figlio, lasciato con calcolo senza sostentamento
e nell'indigenza. Le faceva male pensare a questo fatto, le faceva
male esserne venuta a conoscenza tramite altri e soprattutto le
avevano fatto male le scuse assurde a cui Ross si era aggrappato.
In
fondo, il vero tradimento fisico, non era nell'aria già da
tanto?
Era una questione di tempo ormai...
Nampara
non interessava più, a Ross. Né lei,
né Jeremy, né il nuovo
bambino che stava aspettando. Nulla di tutto questo lo aveva fermato,
quella notte. E ora vivevano sotto lo stesso tetto, in un limbo
doloroso dove ognuno stava sulle sue, dove si respirava astio, dove
Ross vagava confuso senza sapere cosa fare o dire e lei scattava come
una molla alla minima provocazione.
Jeremy,
di cui si occupava prevalentemente Prudie, era fin troppo buono e
tranquillo per i suoi due anni e mezzo ma avvertiva anche lui la
tensione che aleggiava in casa e la notte spesso si svegliava in
lacrime.
Lei
invece, portava avanti una gravidanza che sembrava non darle
più
gioia. Era al quinto mese di gestazione, si sentiva perennemente
stanca e svuotata di ogni emozione e nemmeno i calcetti del bimbo che
aspettava, sembravano regalarle un sorriso. Che vita avrebbe offerto
a questo nuovo figlio? Avrebbe avuto un padre? Avrebbe avuto amore? E
lei, sarebbe stata capace di ritagliarsi la serenità
necessaria a
crescere anche da sola due bambini?
Demelza
aspettava... Che Ross parlasse, che Ross decidesse, che Ross aprisse
la porta per andarsene definitivamente o la chiudesse per restare.
Ma
lui sembrava inerme, lontano, perso quanto lei. Lontano da tutti,
lontano dalla sua famiglia come lo era, stranamente, anche da
Elizabeth.
E
Demelza non chiedeva, non osava rompere quel silenzio per la troppa
paura che dalla bocca di suo marito uscissero parole che potessero
distruggerla definitivamente. E non poteva permetterselo, non poteva
crollare, aveva Jeremy e un altro bimbo in arrivo a cui pensare.
E
allora si trascinava stancamente per la casa, aspettando che venisse
sera e l'oscurità inghiottisse ogni cosa, nella speranza che
il
nuovo giorno fosse migliore del precedente.
Nel
silenzio e nella penombra dell'imbrunire, strofinò con
fatica un
grosso pentolone sporco di grasso. Era un lavoro che avrebbe dovuto
fare Prudie ma la serva si stava occupando di Jeremy che quel giorno
non era stato fermo un attimo e lei, troppo spossata dalla nausea,
non era riuscita a prendersi cura di lui.
Ross,
chiuso in un mutismo impenetrabile, era seduto all'altro lato del
tavolo, intento ad osservare una mappa della Wheal Grace.
Alzò gli
occhi su di lei, sospirò e poi scosse la testa. "Non
dovresti
farlo!".
Lei
lo guardò, con la mente assente e lontana.
"Perché?".
"Perché
è da stamattina che stai male e non dovresti stancarti".
Lei
lo fissò con freddezza. "E' da maggio che sto male, non da
stamattina" – disse, intenzionata a ferirlo. "Ma ti
ringrazio per l'interessamento" – concluse, sarcastica.
Ross,
con un gesto secco, picchiò la mappa sul tavolo.
Evidentemente lo
aveva capito anche lui che stava cercando di provocarlo per avere una
qualche reazione. "Demelza, questo tuo atteggiamento non ci
è
di nessun aiuto!".
"Nemmeno
i tuoi di atteggiamenti, ci sono stati d'aiuto, Ross".
Lui
si morse il labbro. Demelza lo conosceva, sapeva quanto si sentisse
frustrato, in trappola e in difficoltà in quel momento. Ross
era un
uomo d'azione, un uomo del fare, ma gli era sempre risultato
difficile aprire il suo cuore, parlare dei suoi sentimenti e
affrontare le conseguenze dei propri errori.
Demelza
era rimasta, sarebbe rimasta finché avesse sentito che c'era
speranza per loro. O finché Ross non avesse deciso cosa fare
della
sua vita, del loro matrimonio e della loro famiglia. Ma lui taceva e
lei, che pur conosceva a memoria ogni angolo della sua mente, non
riusciva più a leggergli dentro. E quindi cercava di
provocarlo, di
ottenere una reazione, di spingerlo a parlare, a urlare o a dire
qualcosa di dannatamente necessario per loro.
Ross,
sfinito in volto quanto lei, sospirò e abbassò il
capo. "Demelza,
sto cercando di fare del mio meglio".
"Mi
sembra che tu non stia facendo niente. Stai quì, zitto! O
scappi in
miniera e ti nascondi sotto terra come farebbe un ladro... E il tempo
passa e mi sembra che, sempre più, io e Jeremy siamo
diventati
fantasmi fastidiosi per te".
Ross
fece per replicare ma sembrava a corto di parole, in
difficoltà, al
muro. "Tu non sei un fantasma! E nemmeno Jeremy!".
Lei
scosse la testa, esasperata. "Siamo invisibili da così tanto
noi, ormai... Che tu sia quì, che tu sia in miniera, che tu
sia a
Trenwith, per noi non cambia nulla, non ci vedi, siamo trasparenti
ormai ai tuoi occhi".
"Non
lo siete mai stati!".
"E
invece sì! Da quando è morto Francis,
soprattutto... Ma in fondo
anche da prima che lui morisse, a ben pensarci, non hai mai smesso di
invidiare la sua vita e il suo matrimonio".
Ross
avvolse la mappa, la legò con uno spago e la
gettò in una cesta di
vimini vicino al camino spento. "Elizabeth era sola ed incapace
di provvedere a se stessa e come capo della famiglia Poldark era mio
dovere prendermi cura di lei e di suo figlio. Tu avevi me!".
Lei
strinse con forza i pugni e poi, con un gesto stizzito,
gettò la
spugna nel pentolone che stava cercando di pulire. "Te? Quando
avevo TE? Quando hai pensato a noi? Come ti avrei avuto in quei due
anni di prigione? Elizabeth ti aveva, Elizabeth ti HA AVUTO! Non io,
non Jeremy, non il bambino che aspetto". Frustrata, con le
lacrime che le pungevano gli occhi, riprese la spugna e
ricominciò a
strofinare con forza.
E
a quel punto Ross si alzò dalla sedia, togliendole il
pentolone di
mano con un gesto secco. "Ho detto di smetterla! Lo farà
Prudie! Sei incinta, dannazione! E non stai bene!".
"Come
se ti importasse qualcosa" – urlò lei, mentre
ormai le
lacrime le bagnavano le guance.
Ross
fece per replicare, ormai era furibondo e la rabbia sembrava
esplodere da ogni suo poro. Ma fu fermato, provvidenzialmente,
dall'arrivo di Jeremy e di Prudie.
Il
bimbo, preoccupato di vederla piangere, corse da sua madre. "Mamma"
– mormorò con vocina stentata.
Demelza
si sforzò di sorridere. "Amore tranquillo, mamma si
è presa il
raffreddore".
"Ecciù"
– rispose lui saltandole in braccio, ridendo.
Demelza
lo baciò sulla fronte, rimettendolo a terra. Era dolcissimo
Jeremy,
un vero piccolo principe azzurro in miniatura. E sarebbe diventato un
grande uomo un giorno...
Prudie,
quasi timorosa, si avvicinò a Ross. "C'è una
lettera per voi.
Da Trenwith" – mormorò, guardando Demelza con
sguardo triste
e pieno di sensi di colpa.
Ross
divenne di ghiaccio. E anche Demelza. Lei finse indifferenza, lui
prese la busta con un gesto veloce e poi, dopo aver intimato a Prudie
di andare via con Jeremy, si sedette nuovamente alla sua sedia.
Demelza,
sopraffatta dal dolore ma decisa a essere forte, osservò la
busta
bianca fra le mani del marito. Si aspettava qualcosa del genere, era
ovvio che prima o poi Elizabeth si sarebbe fatta viva. Erano passati
quasi due mesi da quella notte maledetta e Ross non era più
andato a
Trenwith da lei e aveva fatto perdere le sue tracce con le persone
che vivevano lì.
Scappava,
da lei come da Elizabeth...
Scappava
e lei non riusciva più a riconoscere l'uomo che aveva
sposato.
Dov'era Ross, il Ross forte, fiero e coraggioso? Cos'era successo a
suo marito? "Non la leggi?".
Ross
sollevò un occhio su di lei. "Suppongo che non dovrei".
"Io
invece suppongo che dovresti farlo. Sarebbe... cortese...
dopo
tutto quello che è successo".
E
a quel punto, Ross esplose. Si alzò in piedi, la sedia su
cui era
seduto cadde con un tonfo sul pavimento e picchiò le mani
sul tavolo
con violenza. "Cosa vuoi che faccia? Sono quì, con te! COSA
DEVO FARE ANCORA???".
Demelza
deglutì. Ecco, la reazione era arrivata e lei era talmente
sfinita
per riuscire a fronteggiarla... E ora dove li avrebbe condotti
quell'esplosione di rabbia repressa? "Devi decidere cosa vuoi
Ross! Essere onesto con te stesso e con le persone coinvolte in
questa storia".
"Sono
quì, non ti basta? Il resto si sistemerà,
è stata solo una dannata
notte Demelza e speravo che tu capissi che non è il caso di
fare
tutte queste tragedie. È finita, andata! E' successo e non
si può
tornare indietro, ma ci si può lasciare tutto questo alle
spalle, se
tu...".
Come
se dipendesse da lei, pensò amareggiata... Come se il
problema fosse
lei... Demelza guardò nuovamente la busta. "Leggi quella
lettera! Dopo tutto, lo devi ad Elizabeth... Una qualche spiegazione,
intendo!".
Ross
le lanciò uno sguardo di sfida. "Lo vuoi davvero?".
"Quello
che voglio io conta poco".
Ross
la guardò storto e poi, stizzito, tolse la ceralacca e
aprì la
busta. Lesse quelle che non dovevano essere che poche righe e poi
distolse lo sguardo, fingendo interesse per qualcosa di inesistente
alla finestra.
"E
allora?" - chiese lei, guardandolo insistentemente in viso.
"Vuole
che vada a Trenwith, dice che deve parlarmi".
Demelza
osservò Ross. Rispetto a quella maledetta notte di maggio,
ora suo
marito aveva un tono freddo e distaccato. Distaccato da lei ma anche
da Elizabeth... "Te ne stupisci?".
Lui
la fissò, torvo. "A me stupisce che tu non sia stupita".
Demelza
sospirò. "Ross, non le hai detto una parola. Sei andato
lì,
hai fatto in modo che rimandasse il suo matrimonio con George, hai
tradito tutti i voti nuziali che ci siamo scambiati nel giorno in cui
ci siamo sposati e poi sei sparito. Certo che vuole parlarti! E
onestamente, io la odio ma credo che tu glielo debba! Se non vuoi
parlare con me, posso accettarlo! Ma lei non è obbligata a
fare
altrettanto".
Ross
ripiegò la busta, mettendosela in tasca. "Mi stai
spingendo...
ad andare da lei?".
"Ti
sto spingendo a prenderti le tue responsabilità. Prima lo
fai, prima
forse supereremo questo momento".
Ross
scosse la testa. "Sono un uomo sposato, le mie
responsabilità
sono quì".
"BALLE!
Tu stai scappando, Ross".
Lui
sussultò, MAI lei era stata tanto diretta e irrispettosa
verso di
lui. E il suo sguardo ferito sembrava urlare ai quattro venti che lei
aveva centrato il bersaglio. "Non sto scappando".
"E
allora, va a Trenwith" – rispose Demelza, con sguardo di
sfida.
Ross
la guardò con malcelato astio. "Andrò domattina"
–
disse, avviandosi verso la porta della biblioteca dove c'era la
brandina che era diventata il suo letto.
Demelza
lo guardò freddamente, poi abbassò lo sguardo,
riprese la spugna e
fece per riprendere fra le mani il pentolone. "Domani...".
Ross
fu subito dietro di lei e, nuovamente, le tolse la pentola dalle
mani. "Ho detto che non devi farlo! Va a letto! Ora!".
Demelza
sussultò. Erano le stesse parole che aveva pronunciato una
sera di
tanti anni prima, mentre lei indossava un abito di seta azzurro
appartenuto a sua madre e cercava un modo per non tornare ad Illugan.
Quella sera era iniziato tutto ma ora, sentire quelle parole, aveva
un sapore totalmente diverso e amaro. "Ross...".
Lui
avvampò e in quel momento lei si rese conto che stava
ricordando la
medesima cosa. "A letto" – mugugnò, distogliendo
lo
sguardo.
E
lei, a malincuore, fu costretta ad ubbidire.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Si
sentiva come un condannato a morte, quella mattina, mentre si
dirigeva verso Trenwith. Ad ogni passo del cavallo era come se un
nodo alla gola gli impedisse sempre più di respirare e
l'ansia era
sempre più opprimente nel suo stomaco.
Demelza
aveva ragione, doveva andare! Lo doveva ad Elizabeth, gli doveva
delle spiegazioni e delle scuse. Gli doveva dire cosa lo aveva spinto
ad agire come un folle quella notte, cosa provasse e cosa volesse.
La
verità però, era che nemmeno lui sapeva cosa si
stesse agitando nel
suo animo in tumulto. Elizabeth era sempre stata il suo sogno,
incarnava la donna ideale da amare e ammirare e rappresentava tutto
ciò che per lui era giovinezza e spensieratezza. Poi era
arrivata
Demelza, sposata per ripiego ma che poi aveva saputo dargli
serenità,
felicità e un nuovo amore che avrebbe dovuto soppiantare i
vecchi
fantasmi del suo passato. Era felice con lei, lo aveva reso uomo e
padre eppure quell'ombra di Elizabeth, quell'ombra di qualcosa a
lungo sognato e mai avuto, era lì, pronta a riespodergli
nella mente
e nel cuore.
Dopo
la morte di Francis si era preso cura di Elizabeth perché
certo, era
suo dovere come capo della famiglia Poldark ma Ross, in cuor suo,
sapeva anche che era stata la sua antica passione per lei a spingerlo
sempre più spesso a Trenwith a discapito della sua famiglia,
cammuffando il suo comportamento egoista per un atto di
generosità
disinteressato. Aveva abbandonato a loro stessi, per lunghi mesi,
Demelza e Jeremy, adducendo mille scuse. Era stato un pessimo marito
e padre per loro perché era sempre impegnato con Elizabeth e
Jeoffrey Charles a giocare al marito e padre della sua famiglia dei
sogni.
Era
quello che voleva? Era Trenwith? Era Elizabeth? Non aveva pensato in
quei mesi, lui stesso e vergognandosene un pò, che se
Demelza,
Jeremy e il nuovo bambino in arrivo non fossero esistiti, lui avrebbe
potuto finalmente avere la donna da sempre amata?
Eppure
era scappato, dopo averla finalmente avuta! Era andato via, mancando
di rispetto a lei, oltre che alla sua famiglia.
Cosa
voleva allora?
Che
razza di uomo era diventato?
Aveva
fatto del male a lungo alla sua famiglia, aveva disonorato, per poi
sparire senza prendersi alcuna resposabilità, una giovane
vedova, e
ora si sentiva come un ragazzino incapace di far fronte alle
conseguenze generate dai suoi atti sconsiderati.
Si
vergognava di se stesso, tanto... Talmente tanto da chiudersi a
riccio con chiunque, in silenzio, aspettando che per magia passasse
la burrasca e tutto tornasse come prima.
Demelza
aveva ragione anche su un'altra cosa, la miniera in cui passava tante
ore da quando quella notte maledetta aveva distrutto le vite di
tutti, era diventato il suo rifugio. Come i topi, si nascondeva sotto
terra per evitare di vedersi riflesso nella luce del sole e vedere
quanto in basso fosse caduto.
Faceva
male constatare che lui, che spesso aveva giudicato severamente
l'operato di altri, era diventato a sua volta quel tipo d'uomo che
aveva a lungo detestato. Non voleva essere così, voleva
essere un
bravo marito, un buon padre, costruire una famiglia serena accanto
alla donna che aveva sposato e reso padre e invece...
E
invece la sua mente vagava fra Trenwith e Nampara, fra due donne che
si contendevano il suo cuore: una era sua, per legge. L'altra era un
suo antico desiderio e Ross non capiva se ora, dopo averla avuta,
fosse ancora tale oppure se si fosse trasformata nella fine di
un'illusione...
Quando
arrivò ai cancelli di Trenwith, il piccolo Jeoffrey Charles
che
stava giocando nei giardini, gli corse incontro contento. "Zio
Ross, mamma e zia Agatha mi hanno detto che oggi saresti venuto!".
Ross
si sforzò di sorridere, guardandolo, ricordando quante
attenzioni
gli avesse riservato in quei mesi e quanto invece avesse ignorato suo
figlio Jeremy. "Sì, devo parlare con lei di qualcosa di
importante".
"Ti
accompagno!" - si propose il piccolo.
Ma
Ross declinò l'offerta. Avere accanto il bambino poteva
essere una
buona scusa per non affrontare certi argomenti, ma quegli argomenti
andavano affrontati ed era arrivato fin lì per quello. Non
poteva
più scappare. "Dobbiamo parlare di cose da grandi, cose
molto
noiose. Credo che ti divertirai di più quì fuori
a giocare".
"Va
bene! Sono contento che sei venuto, zio Ross! Era tanto che non mi
venivi a trovare, prima era sempre quì da noi".
Ross
deglutì. "Mi spiace, ma ho avuto molto da fare in miniera".
"Alla
Wheal Grace? Mamma dice che avete trovato un grande giacimento e che
ora potrai guadagnare molti soldi".
Ross
sorrise amaramente pensando a quanto avesse inseguito quel sogno con
Demelza e a come ora tutto apparisse lontano, senza importanza o
gioia. "Speriamo..." - rispose, vagamente. "Dov'è la
mamma?".
"A
letto, in questi giorni non sta molto bene".
Ross
si allarmò. "E' malata?".
Jeoffrey
Charles alzò le spalle. "Non proprio, ha solo la nausea.
L'ha
spesso, da inizio settimana".
Sospirò
rinfrancato, non doveva essere nulla di grave, solo una banale
influenza. "Vado da lei, grazie per la chiacchierata".
Il
bambino alzò la manina per salutarlo, mentre si allontanava.
"Grazie
a te per essere venuto a trovarci!".
Ross
annuì, prima di entrare in casa. La servitù lo
guardò con aria
torva, ma ignorò i loro sguardi. Sapeva che loro sapevano,
quella
notte aveva buttato giù a calci la porta di Trenwith, aveva
gridato
come un pazzo e difficilmente quanto successo con Elizabeth e il
fatto che aveva dormito lì, erano passati inosservati.
Era
stato sulla lingua di quelle persone e oggetto dei loro pettegolezzi
per tutti quei due mesi, poteva scommetterci la sua miniera.
Cercò
di passare velocemente dal salone principale per evitare zia Agatha
che, seduta al suo tavolino, giocava a carte, ma fallì
miseramente.
"Nipote,
era da tempo che non venivi da queste parti. Troppo, viste le
circostanze...".
Ross
abbassò lo sguardo. "Buongiorno zia Agatha. Sono
quì perché
devo vedere Elizabeth" – sussurrò, chinandosi a
baciarle la
mano rugosa.
L'anziana
donna girò una carta dei tarocchi, la osservò, la
mise sul tavolo e
annuì seria. "Vedere Elizabeth, sì... Certe cose
vanno fatte.
Hanno la priorità, nipote. E tu hai aspettato anche troppo".
Ross
la guardò senza capire se si riferisse a qualcosa di astruso
visto
nelle carte o se stesse parlando di quanto successo fra lui ed
Elizabeth. Fantastico, pure lei sapeva e di certo non se ne
stupiva...
Imbarazzato,
farfugliò un saluto. E poi salì a grandi falcate
le scale.
Quando
fu davanti alla stanza di Elizabeth prese un profondo respiro,
ricordando con vergogna, passo passo quanto successo fra quelle mura
solo due mesi prima, la sua furia, le urla, la litigata e quella
passione furiosa che ben poco aveva di amorevole, scoppiata fra loro.
C'era
tanto da ricostruire nella sua vita e Ross sapeva che doveva
ripartire da quì per farlo. Bussò e quando lo
voce di Elizabeth lo
invitò ad entrare, si fece coraggio e andò da lei.
Elizabeth
era a letto, con i capelli raccolti in una lunga treccia, poggiata
con la schiena contro il cuscino e aveva indosso una camicia da notte
di seta rosa decorata sul petto. Era bella, bella come quei quadri
che si ammirano nei musei...
Eppure
ora la vedeva in maniera diversa, aveva smesso di essere un sogno
utopistico, l'aveva toccata, fatta sua e aveva spezzato quell'alone
di magia che da sempre aveva ai suoi occhi e ora... ora non sapeva
ancora cosa provava per lei ma era qualcosa di diverso rispetto a
prima.
Elizabeth
rimase per un attimo silenziosa quando lui entrò e si
avvicinò al
letto. Il suo sguardo era muto ed immobile e le sue labbra erano
contorte in una smorfia nervosa. "Cominciavo a temere che fossi
ripartito per la guerra, come allora..." - disse, in tono
sarcastico.
Ross
abbassò lo sguardo. "Scusa se sono sparito ma è
stato tutto
molto difficile per me e sapevo che tu avevi tutto quello di cui
avevi bisogno".
"Ti
sbagli!" - disse lei, freddamente. "Mi mancava la cosa più
importante, mi mancava la tua parola e il suo compimento. Sei venuto
quì, hai preso con la forza ciò che volevi e poi
sei scappato e se
io non ti avessi scritto, oggi non ti saresti ripresentato in questa
casa".
Ross
non aveva nulla da obiettare, lei aveva ragione su tutto e lui era un
pessimo uomo. "Scusa" – ripeté di nuovo
– "Devo
ringraziarti per avermi scritto oppure non mi sarei mai smosso da
dove mi ero rifugiato".
"Non
avrei voluto scriverti, Ross! Avrei voluto fare la superiore, avrei
voluto odiarti, far finta che nulla fosse successo e sposare George.
Ma ho dovuto... E tu ora ti assumerai le tue responsabilità".
Ross
sospirò, sedendosi sul letto accanto a lei. C'era tenerezza
e
gentilezza nei suoi gesti, ora, non era come in quella notte
maledetta e tutto quello che desiderava era fare ammenda e magari
tornare ad essere amici come prima, perdonandosi a vicenda per
l'accaduto. "Elizabeth, credi che potremmo mai superare questa
cosa, in qualche modo?".
"No".
"Elizabeth,
ti prego!".
Lei
gli piantò gli occhi addosso ed in essi ora, assieme alla
rabbia, si
scorgeva tanta disperazione. "Avrei potuto sposare George,
vivere bene, tranquilla, con a disposizione tutto ciò che mi
serviva
per garantire un futuro a mio figlio. Eppure per te avrei rinunciato
a tutto questo se fossi rimasto, se fossi tornato come avevi
promesso, se avessi portato a termine quanto iniziato quella notte
fra noi. O, in fondo, quanto iniziato prima che tu partissi per la
guerra, tanti anni fa".
A
quelle parole, ricordando quanta fretta aveva avuto di scappare dopo
quella notte maledetta, Ross pensò a Demelza, a Jeremy e al
bambino
in arrivo. Era tornato da loro, non sapeva cosa lo avesse spinto ad
agire così con Elizabeth né cosa lo avesse spinto
a tornare a
Nampara dopo averla avuta ma il suo istinto e il suo cuore lo avevano
ricondotto a casa e immaginava che fosse quello che desiderava, che
voleva davvero. Elizabeth era stata una dolce illusione giovanile,
Demelza e la famiglia che avevano formato insieme invece erano il suo
presente, la sua realtà, la sua vita. E a quella sua vita
che amava
ma che spesso aveva bistrattato e data per scontata, carico di
sentimenti di colpa, era tornato. "Sono sposato, ho una moglie,
un figlio e un altro in arrivo. Ho sbagliato a fare quello che ho
fatto, ho sbagliato tanto con te quanto con Demelza e ora vorrei solo
trovare un modo per superare tutto questo".
Elizabeth
lo aveva ascoltato in silenzio, non togliendogli gli occhi di dosso.
La sua espressione era seria e contrita e non c'era traccia alcuna in
lei, della spensierata ragazza di sedici anni che era stata. "Aspetti
un figlio, vero! Anzi, due...".
Quelle
poche parole, quella variabile del destino a cui MAI avrebbe pensato,
ebbero l'effetto di un terremoto su di lui. Sentì la terra
sprofondargli sotto i piedi, la vista annebbiarsi e il baratro
aprirsi davanti ai suoi occhi. Le parole di Elizabeth, tanto
sibilline quanto schiette, non lasciavano spazio a troppe
interpretazioni. No, NOOO!!! Non poteva essere, non poteva
dannazione! Se quello era un incubo, sperava di svegliarsi presto.
"Cosa stai dicendo?".
Lei
gli piantò gli occhi addosso, furibonda. "Sono incinta Ross
e
Francis è morto da otto mesi! Sono incinta e questo esclude
ogni
possibilità di matrimonio con George o chiunque altro. Sono
incinta,
hai distrutto la mia vita e la mia reputazione, hai distrutto
l'immagine di me che ho costruito in tutti questi anni! Sono incinta,
aspetto TUO figlio e quando George lo saprà, mi
toglierà Trenwith
per vendetta, usando la scusa di recuperare i debiti di Francis e io
mi ritroverò sola, con due figli, in mezzo alla strada e
allo
scandalo. Ed è tutta colpa tua...".
Sentì
le gambe cedergli. E ora? Ora cosa poteva fare? Elizabeth aveva
ragione, aveva distrutto la sua vita e adesso lo sapeva, anche quella
di Demelza e dei suoi figli. Come avrebbe potuto guardare ancora in
viso quelle due donne? O i suoi figli? O chiunque incontrasse per
strada? Era il peggiore degli uomini e ora non trovava strade
d'uscita per sistemare il disastro che aveva combinato. Non ne
trovava perché non ce n'erano "Io..." - balbettò,
shoccato.
Lei
sorrise freddamente. "Tu ti prenderai le tue responsabilità!
Hai capito? E' colpa tua, è colpa tua se la vita di mio
figlio sarà
un incubo!".
"Cosa
vuoi che faccia?" - chiese, rimettendosi completamente nelle sue
mani.
"Il
padre, il marito, il capo famiglia. Davanti a me, Dio e tutta la
nostra comunità".
Ross
spalancò gli occhi. Che stava dicendo? "Io sono sposato, ho
un
figlio e Demelza ne aspetta un altro".
"E
nonostante questo, sei venuto a letto con me" –
ribatté lei.
"Quindi ora, da uomo, farai quello che va fatto".
"Cosa
dovrei fare? Ho due bambini, non c'è solo questo che aspetti
tu, a
cui pensare...".
"Che
Demelza sia incinta, non è certo motivo di scandalo, al
momento
siete ufficialmente sposati. Ma quando la mia gravidanza
sarà
evidente, allora per me sarà diverso, sarà un
inferno e la mia vita
sarà distrutta. Sarò additata come una
sgualdrina, come la peggiore
delle donne".
"Non
lo permetterei mai". Ross le prese la mano, la strinse fra le
sue e la guardò con disperazione. "E io farò di
tutto per
aiutarti, tutto quello che mi chiederai. Ma sono e resto il marito di
Demelza".
Lei
lo guardò freddamente. "Non legalmente".
"Cosa?".
Elizabeth
soppesò i suoi pensieri, prima di parlare. "Una volta, hai
detto a me e Francis di aver ingannato il Reverendo Halse per poter
sposare subito Demelza. Lei non era ancora maggiorenne e tu hai
mentito, sostenendo che aveva diciotto anni quando in realtà
ne
aveva appena compiuti solo diciassette. Questo, se ne farai
richiesta, renderà il vostro matrimonio nullo! E una volta
fatto,
potrai sposare me e legittimare la mia posizione e quella di nostro
figlio. Non è quello che abbiamo sempre desiderato, in
fondo, dentro
di noi?".
Ross
la guardò, era incredulo. Ciò che gli aveva
appena proposto era
crudele, insensibile, completamente folle e lei ne parlava come si
parla di un pettegolezzo di mercato. Era sempre stata così?
Tanto
fredda, tanto algida, tanto impermeabile ai sentimenti e alla
pietà... Oppure era la disperazione della sua condizione a
farla
parlare così? "Elizabeth, che diavolo stai dicendo?".
"Annulla
il matrimonio con Demelza, è l'unica cosa che puoi fare per
sistemare questo disastro! Io ti avevo detto NO!".
Ross
scosse la testa, questo non era completamente vero. "Tu mi hai
detto no ma volevi dire sì! Tu mi hai scritto quella
lettera, tu hai
voluto che io venissi quì e che fossi fuori di me".
"Tu
volevi ME!" - urlò lei, contro la sua faccia – "Mi
volevi da tanto, io lo so e lo sai anche tu. Mi volevi ed è
per
questo che sei venuto quì ed è successo
ciò che è successo!".
Ross
abbassò lo sguardo, nuovamente preda di sensi di colpa. Era
vero,
era stato un pessimo marito e spesso si era fermato a pensare a come
sarebbe stata la sua vita con Elizabeth. Spesso, l'aveva desiderata,
con la bramosìa con cui si desidera un frutto proibito. E
l'idea che
Francis l'aveva avuta e che persino George l'avrebbe fatta sua mentre
lui aveva avuto solo languidi sguardi e ammiccamenti da lontano, lo
aveva mandato in bestia. In quella notte maledetta avevano smesso di
esistere il Ross di Nampara, il Ross della Wheal Grace, il Ross che
lottava per gli amici più deboli, il Ross che si ribellava
alle
ingiustizie, il Ross marito di Demelza e il Ross padre di Julia,
Jeremy e di un altro piccolo in arrivo...
In
quella notte era diventato un uomo che mai avrebbe perdonato! Mai si
sarebbe perdonato! Aveva infranto ogni suo ideale, tutti i suoi
proponimenti, era andato contro la logica dei sentimenti e della
ragione. Aveva spezzato il cuore della donna che gli era accanto e
che lo amava e ora avrebbe dovuto infliggerle un nuovo dolore...
Si
chiese se mai, a Nampara, sarebbe tornato il sorriso...
"Elizabeth,
quello che mi chiedi è pura follia. Come posso fare questo a
Demelza? E i miei figli? Cosa ne sarebbe dei miei figli?".
Lei
distolse lo sguardo. "I tuoi figli sono nati all'interno di un
matrimonio nullo. Non meritano nemmeno di portare il tuo cognome".
Ross
si morse il labbro. Era preoccupato e si sentiva in colpa ma allo
stesso tempo i modi di fare di Elizabeth lo irritavano. Stava
parlando dei SUOI bambini, dannazione! Non di oggetti di scarso
valore, dei SUOI FIGLI! "Avrò mentito a Padre Halse, allora!
Ma in questi anni lei è diventata ufficialmente mia moglie,
ora è
una donna adulta e maggiorenne e abbiamo dei figli! Il nostro, il mio
e di Demelza, è un matrimonio! Forse traballante, forse
problematico
ma io sono suo marito e lei mia moglie e questa è una
realtà
incontrovertibile".
Elizabeth
parve andare fuori dai gangheri. Lo prese per il bavero, strinse
forte e lo attirò a se. Era una leonessa in quel momento,
una
leonessa che stava lottando per la sopravvivenza sua e dei suoi
figli. "Me lo devi, tu farai quello che ti ho detto di fare!
Demelza sarà la povera vittima, cosa credi? Di farle del
male? Tutta
la comunità coccolerà la povera figlia di un
minatore ripudiata dal
marito... Lei se la saprà cavare, è abituata a
lavorare! Verso i
bambini non avrai obblighi, dopo l'annullamento del matrimonio non
avranno più diritto al tuo cognome e non saranno un tuo
problema. Io
sono stata danneggiata dal tuo comportamento, io e Jeoffrey Charles
finiremo in mezzo a una strada a causa tua, se non mi sposerai! La
gente ti considererà un bastardo, ma a me non importa e in
fondo
nemmeno a te è mai interessata l'opinione altrui. Ne
parleranno e
poi si stancheranno di farlo e le acque torneranno calme e placide,
dopo un pò!".
"Non
posso farlo" – disse lui, con un filo di voce. Non poteva,
non
per le voci o lo scandalo che ne sarebbero conseguiti, non poteva
perché l'idea di fare una cosa simile a Demelza e ai suoi
bambini lo
annientava...
Si
alzò dal letto, si allontanò da lei arretrando
verso la porta e
guardandola come se fosse la sua peggiore nemica. "Non posso..."
- balbettò di nuovo. E poi uscì, correndo verso
le scale, sentendo
nelle orecchie le grida di Elizabeth che gli urlavano ancora e ancora
che glielo doveva!
Quando
giunse nel salone, per poco non si scontrò con zia Agatha
che
sembrava aspettarlo davanti alle scale.
La
donna lo guardò con severità e poi scosse la
testa sentendo le
grida di Elizabeth. Lo fissò come lo fissava da piccolo
quando aveva
combinato qualche guaio e poi, con la sua voce gracchiante, lo
affrontò. "Certe cose hanno la priorità. Sei un
Poldark e
quello che è in arrivo è un Poldark. Mi spiace
per la tua piccola
sguattera e per i suoi bambini ma il tuo posto non è con
lei".
Ross
non rispose, tutto era sempre più cupo e minaccioso. Tutto
era
sempre più assurdo...
Come
potevano quelle persone che tanto amava e di cui tanto si fidava,
parlare a quel modo di Demelza?
Senza
rispondere, si allontanò da lei. E una volta in giardino,
senza
salutare nemmeno Jeoffrey Charles, saltò sul cavallo e
fuggì via.
Di nuovo...
Ma
stavolta lo sapeva, né la miniera né il suo
cavallo avrebbero
potuto condurlo in un nuovo nascondiglio dove nascondersi come un
topo.
Sarebbe
stata una fuga breve, prima di ripiombare all'inferno...
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Mentre
tornava a casa, si sentiva come un condannato a morte. Se Ross avesse
potuto, si sarebbe sotterrato da solo sotto terra per la vergogna che
stava provando verso se stesso e quello che aveva fatto.
In
una notte di follia aveva distrutto tutto ciò che di buono
aveva
costruito nella sua vita. Aveva rimesso in piedi Nampara, aveva
costruito una famiglia assieme a una ragazza buona e gentile che lo
amava e che gli aveva dato dei figli e tutto, TUTTO era stato
spazzato via dalle sue azioni, dai suoi desideri egoistici, dalla
bramosìa di possedere qualcosa che aveva sognato
intensamente da
ragazzo e che non gli apparteneva più.
Ora
che ci pensava, Demelza aveva ragione, non era stata solo una singola
notte a distruggere ogni cosa. Era da tanto che il suo cuore e la sua
mente vagavano verso Trenwith, era da tanto che aveva lasciato da
parte le cose importanti e più amate accampando scuse su
scuse per
correre da Elizabeth, era da tanto che aveva smesso di prendersi cura
di sua moglie e suo figlio. Ogni suo pensiero, ogni suo gesto, ogni
sua azione era stata votata al benessere di quelli di Trenwith e sul
serio aveva abbandonato a loro stessi Demelza, Jeremy e il piccolo in
arrivo. Vero, c'erano tanti problemi attorno a lui da risolvere e che
lo avevano tenuto occupato, ma da quanto non rideva con sua moglie,
da quanto non la baciava e la faceva sentire amata e unica? Da quanto
non giocava con Jeremy...? Anzi, ora che ci pensava, non aveva mai
giocato con suo figlio, lui. E nemmeno aveva mai accarezzato il
ventre di sua moglie che ospitava una nuova vita che si apprestava a
venire al mondo in una famiglia ormai distrutta.
E
ora ce n'era un altro di bambino in arrivo, quello di Elizabeth. E
sarebbe stato il caso di cominciare a pensare seriamente anche a
questa nuova realtà! Che doveva fare? Fingere e far finta di
nulla o
prendersi le sue resposabilità? Aveva messo Elizabeth in un
mare di
guai che difficilmente avrebbe saputo fronteggiare da sola e lui ne
era responsabile. Ed esserne responsabile significava di nuovo
scegliere lei a discapito di Demelza.
Non
riusciva a concepire di fare quanto gli aveva chiesto Elizabeth ma la
voce della sua coscienza gli urlava, come aveva fatto lei poco prima,
che glielo doveva.
Elizabeth
aveva preteso forse a ragione la priorità ma odiava il modo
in cui
aveva parlato di Demelza e di Jeremy, sentendosi superiore a lei. Ma
se Elizabeth aveva parlato a quel modo, era per arroganza? O
perché
lui, in fondo, l'aveva portata a pensare di essere superiore a
Demelza? Non era questo, che gli aveva ripetuto più volte,
sussurrando? Che era lei il suo vero amore, che gli amori veri
superano gli ostacoli, che una parte del suo cuore sarebbe sempre
stata sua... Non era lui che con gesti e sguardi, le aveva fatto
intendere silenziosamente che era lei la donna con cui voleva stare?
Eppure
ora, quando da salvare c'era ben poco, si rendeva conto che era il
Ross ventenne quello che correva da Elizabeth in cerca di attenzioni,
era il Ross adolescente e scavezzacollo che aveva preso il posto del
Ross adulto, da quando Francis era morto. Aveva inseguito come uno
stupido i suoi sogni di ragazzo, non rendendosi conto che ora era
altro che desiderava, che era cambiato e che la sua felicità
risiedeva altrove. Aveva cercato in quel passato fatto di ricordi
perfetti e felici, giovanili, un presente che fosse idilliaco in
egual maniera, senza rendersi conto che la vita vera, che l'amore
vero erano altro rispetto ai sogni di un ragazzino che ancora non
aveva imparato a vivere.
Guardò
al cielo, cercò in esso una soluzione a tutto quel marasma
che era
diventata la sua vita, ma non trovò nulla. Non c'era
soluzione,
c'era solo biasimo per se stesso, per ciò che aveva fatto e
per
l'uomo che era diventato: un uomo che doveva scegliere e non sapeva
più nulla, né quale fosse la soluzione giusta,
né cosa volesse il
suo cuore.
E
si sentiva un mostro...
Quando
giunse a Nampara, era quasi mezzogiorno. Il sole era alto in cielo e
sembrava una di quelle giornate estive perfette dove non ti
può
succedere niente di male.
La
sentì ridere, dal retro...
A
passi lenti, per non farsi sentire, oltrepassò la stalla e
si
affacciò a sbirciare dal muro sua moglie che stava giocando
con
Jeremy. Sistemavano del fieno che il vento aveva sparso nell'aia e
lei rideva... O quanto meno, si stava sforzando di farlo. Le sue
labbra sembravano quelle di una persona felice, sorridenti e
sbarazzine, ma i suoi occhi tradivano una profonda stanchezza e
tristezza. Erano gonfi, doveva aver pianto...
Jeremy,
vicino a lei, trotterellava fra le sue gambe lanciandole manciate di
fieno che coglieva da terra. Rideva, felice dei suoi due anni e mezzo
e completamente all'oscuro di tutto, come era giusto che fosse.
Accanto
a loro, borbottando, Prudie legava delle fascine, per niente felice
di lavorare col caldo e con lo stomaco vuoto.
Ross
rimase lunghi istanti a fissarli, desideroso di unirsi a loro, di
ridere con loro e vivere quella quotidianità fatta di
piccole cose
che forse non si era mai soffermato ad apprezzare. Si chiese se fosse
troppo tardi, se si potesse fare qualcosa, se tutto il male che lui
aveva fatto potesse essere superato ma si sentì piccolo ed
impotente
davanti a quei pensieri e rimase immobile, mentre una fitta gli
faceva dolere lo stomaco.
Fu
Demelza a scorgerlo, con la coda dell'occhio. Smise di ridere e
divenne improvvisamente seria, stringendo a se protettivamente
Jeremy. Poi spinse il bimbo verso Prudie, facendogli segno col capo
di prendersene cura. "Tesoro, vado a preparare il pranzo, tu
resta quì e finisci di sistemare il fieno".
Jeremy
annuì, rifugiandosi fra le braccia di Prudie.
"Sì".
Demelza
gli si avvicinò, non dicendo una parola e sorpassandolo
prima che il
loro bambino vedesse che era tornato. “Entra
dentro” – sussurrò
quindi, in un soffio.
Ross
la seguì silenzioso e ubbidiente come un cagnolino. Era
così strano
vederla tanto fredda, distante, altera e rigida, lei che era sempre
stata dolce e gentile.
Entrarono
in casa e per la prima volta da quando era nato, Ross ci si
sentì un
estraneo. E forse lo era o lo sarebbe stato a breve…
“E
allora?” – disse lei, poggiando le mani sul tavolo
della cucina.
Ross
osservò il suo viso reso stanco dal dolore, dalla gravidanza
e dalle
mille preoccupazioni che le affollavano la mente e si sentì
in colpa
per il male che le avrebbe inferto nuovamente. Ebbe paura, si chiese
se sarebbe stata abbastanza forte da affrontarlo o se sarebbe
crollata, gettandolo ancora di più in una profonda
disperazione da
cui non trovava strade di uscita. Si chiese se essere sincero o se
tergiversare ancora un po’ ma si rese conto che mentire non
sarebbe
servito a nulla se non a farla arrabbiare ancora di più, una
volta
scoperta la verità. Demelza doveva saperlo e lui non aveva
tempo,
aveva decisioni importanti da prendere quanto prima.
“Siediti” –
le disse, in tono gentile.
“Sto
bene in piedi”.
Ross
deglutì. “Forse sarebbe meglio se
tu…”.
Demelza
lo fulminò con lo sguardo. Era sfinita ma aveva ancora la
capacità
di tirare fuori una grinta da leonessa. “Non ho voglia di
sedermi e
non ho voglia di preamboli! Che ti ha detto Elizabeth? Cosa vuole e
cosa hai deciso di fare?”.
Ross
chiuse gli occhi, non c’era modo di indorare la pillola, non
c’erano frasi dolci e gentili che potessero lenire la
gravità di
quanto stava per dire. “E’ incinta”
– disse infine,
rendendosi conto di quanto quelle due semplici parole, dette in modo
tanto diretto e brutale, avrebbero provocato nelle vite di tutti.
La
vide impallidire di colpo, tanto che temette di vederla svenire.
“Cosa?”.
Lo
ripeté, di nuovo. “Elizabeth è incinta.
Aspetta un bambino e il
padre sono io”.
Per
lunghi istanti Demelza non disse nulla, divenne come di ghiaccio, di
pietra. Rimase immobile, non urlò, non pianse, non
imprecò, non lo
prese a sberle. Rimase solo zitta, come se si fosse estraniata da
tutto e tutti e la sua mente fosse fuggita lontana. Il suo viso era
immobile, non esprimeva alcun sentimento o reazione, era come se il
suo cuore e la sua mente si fossero paralizzate. Si sentì
spaventato, di tutte le reazioni che si sarebbe aspettato, era quella
che gli faceva più paura. “Demelza”.
Tentò di avvicinarsi a lei
per scuoterla o per sortire qualche sorta di reazione e a quel punto
lei lo guardò con sguardo vacuo e lontano.
“Non
toccarmi…” – sussurrò, con
una voce che non sembrava nemmeno
sua.
“Demelza”.
“NON-TOCCARMI!”
– urlò stavolta, allontanandolo bruscamente con
una spinta.
Tentò
di afferrarla per i polsi, di attirarla a se ma lei, con la grazia di
un felino, si divincolò. “Sta lontano da
me… Da noi!”.
Spinto
dalla disperazione, tentò di nuovo di avvicinarsi a lei.
“Demelza,
dobbiamo parlare!”.
Gli
occhi di sua moglie divennero lucidi, benché sembrasse
intenzionata
a non piangere. “Di cosa, Ross? Di Elizabeth? Non devi dirmi
niente, immagino già perché ti ha voluto a
Trenwith e quello che ti
ha detto! Vuole che tu ti prenda le tue responsabilità,
giusto? Lo
pretende, vero? E in fondo non era questo a cui mirava quando ti ha
scritto quella lettera, in quella maledetta notte di due mesi fa? Ora
ha tutti gli strumenti per averti, sei in trappola. E immagino che tu
ne sia felice, ora sei davvero legittimato a correre da lei, a stare
con lei e con la tua perfetta famiglia…”.
Ammutolito,
senza parole, si rese conto che Demelza aveva saputo capire i
sentimenti e le azioni di Elizabeth meglio di quanto lui non avesse
mai fatto. "Demelza, come puoi pensare che sia felice? Pensi
davvero che avrei voluto una cosa del genere?".
La
donna strinse i pugni, appoggiandosi con entrambe le mani al tavolo.
"Oh, non lo so! Magari volevi solo una notte di passione o
magari volevi la spinta giusta per rimanere con lei definitivamente.
Non so cosa vuoi, cosa volevi, cosa vorrai fare! Tu lo sai, non io!".
"Demelza,
ascoltami...".
"NO!!!".
Lei indietreggiò, coprendosi protettivamente il ventre.
"Aspetti
un bambino da lei... E io non voglio stare a sentirti! Non voglio
scuse, non voglio bugie, non voglio niente. Dimmi solo cosa vuole
fare lei e cosa vuoi fare tu".
Ross
deglutì. Capiva quanto fosse sconvolta, ne percepiva a pelle
il
dolore che era anche il suo in quel momento, anche se lei non ci
avrebbe mai creduto, e non sapeva cosa fare. "Voglio parlarne
con te, con calma".
"Perché?".
"Per
trovare una soluzione. Deve esserci, Demelza".
Lei
si avvicinò a un vaso di fiori ricolmo di margherite e poi,
con un
gesto violento, lo scaraventò a terra, mandandolo in mille
pezzi.
"Aspetti un figlio da Elizabeth! Che soluzione vuoi che ci sia a
questo? Vuoi stare mezza settimana quì e mezza a Trenwith?
Cenare
con lei e pranzare con noi? Sposare entrambe? Vivere tutti insieme da
qualche parte per caso? La soluzione ideale sarebbe stata una sola,
non correre da lei, ma era più forte di te, è
SEMPRE stato più
forte di te! E ora cosa vuoi, che io ti dia una soluzione? La chiedi
a ME? A me che non hai mai voluto ascoltare e che sono sempre venuta
per ultima? La soluzione te l'avrà prospettata Elizabeth! O
sbaglio?". Gli si avvicinò, il suo volto era sconvolto e
minaccioso, sembrava desiderosa solo di picchiarlo. "E' per
questo che ti ha chiamato, giusto? Cosa voleva Elizabeth,
stamattina?" - chiese sconvolta e sibillina, come percependo la
natura di quanto si erano detti lui e il suo primo amore poche ore
prima, a Trenwith.
Ross
era annientato, non sapeva come dirle quanto gli aveva suggerito
Elizabeth. Gli sembrava una mostruosità e lo era, in
effetti, ma
oggettivamente era l'unica soluzione possibile per ovviare, almeno in
parte, al disastro che aveva combinato. Avrebbe fatto il bene di
Elizabeth, della donna che aveva danneggiato, glielo doveva dopo
averle precluso ogni altra possibilità... Ma il bene di
Demelza? E
dei bambini? Per loro, cosa poteva fare? "Credo che si sia
rivolta a un avvocato che le ha suggerito una soluzione... Non riesco
a trovare altre spiegazioni a ciò che mi ha detto".
Demelza
lo guardò, sconvolta. "Quale soluzione?".
"Una
soluzione che tutelerebbe lei e il bambino che aspetta".
Sua
moglie sorrise, freddamente. "Ovviamente...".
Era
sarcastica, disperatamente sarcastica. Possibile che Demelza avesse
imparato a conoscere Elizabeth meglio di quanto la conoscesse lui?
"Il nostro matrimonio, Demelza, potrebbe non essere valido. O
meglio, potrebbe essere invalidato".
Demelza,
a dispetto della rabbia, spalancò gli occhi sorpresa e si
bloccò.
"Cosa?".
"Abbiamo
mentito sulla tua età, quando ci siamo sposati. Lo ricordi?
E
questo, se si facesse ricorso, renderebbe le nozze nulle".
Lei
lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite, poi
scoppiò a ridere.
Sembrava isterica, fuori di se... Non l'aveva mai vista in quello
stato e aveva paura. Non le faceva bene tutto quello stress, non ne
faceva a lei e nemmeno al bimbo che aspettava. Sperava almeno che
Jeremy, fuori con Prudie, non sentisse nulla... "Demelza, per
favore, siediti. Sei fuori di te".
Come
se non lo avesse nemmeno sentito, lei si appoggiò alla
parete e poi,
una volta smesso di ridere, lo guardò con freddezza. Non
c'era
traccia di lacrime in lei, era come se i suoi sentimenti fossero
congelati. "Ross, io sono tua moglie! Siamo sposati da cinque
anni, abbiamo avuto due figli e ce n'è un terzo in arrivo! E
un
cavillo non annullerà mai tutto questo".
"Per
legge potrebbe" – ammise lui, sconfortato. Era orribile
pensare che un semplice dettaglio potesse annullare un matrimonio, un
amore e tutto quello che si era costruito insieme in giorni duri, di
lacrime e sudore ma fatti anche di amore e risate, di gioia e di
nuova vita venuta ad arricchire le loro.
Demelza
parlò, con freddezza, la sua voce era metallica. "La legge
potrebbe se tu lo vorrai! Elizabeth non può provare nulla e
non può
ottenere nulla, da sola. Potrebbe farlo solo se tu...". Si
bloccò e per un attimo parve vacillare dalla sua freddezza.
Abbassò
il capo, si accarezzò il ventre dolcemente e in quel momento
una
smorfia di dolore le attraversò il viso. "Tu fai sempre quel
che è meglio per lei... Tu lo farai..." -
sussurrò, quasi
stentando essa stessa di sentirsi dire quelle parole. Lo
guardò, ora
smarrita, vedendosi passare davanti ogni azione, ogni parola, ogni
atto occorso fra loro dalla morte di Francis.
Si
sentì morire, vedendola così. E si rese conto che
conosceva a
perfezione ogni sua debolezza, ogni suo tentennamento e tutto quello
che, in quei mesi, lo aveva spinto da Elizabeth. "Demelza, io
non so cosa fare! Non so cosa sia giusto o cosa sia sbagliato!
Qualsiasi decisione prenderò, farò soffrire
qualcuno".
Lei
si toccò il ventre e finalmente una lacrima le
rigò il viso. "Non
sai cosa è giusto e cosa è sbagliato? Questo
bambino è giusto! E
quanto vuole Elizabeth e il bambino che aspetta è sbagliato!
Ma
ormai esistono, esiste tutto questo e tu lo hai creato! E ti conosco,
Ross Poldark! Ti conosco bene e quando devi scegliere fra il mio bene
e quello di Elizabeth, è lei che scegli! SEMPRE!
Perché mi chiedi
cosa fare? Perché vuoi ascoltare ME quando di certo, in cuor
tuo,
hai già deciso cosa vuoi?".
Lui
balzò in piedi, come punto da uno spillo. "Io non ho deciso
niente!".
Lei
calpestò i vetri del vaso rotto, avvicinandosi a lui mentre
questi
le scricchiolavano sotto i piedi. "E invece sì!
Perché se
avessi ritenuto folle l'idea di Elizabeth, le avresti riso in faccia
da subito e poi saresti tornato da me. E invece sei quì e me
ne
parli e forse ora ti sembra di non aver deciso niente ma in
realtà
la tua abnegazione, il tuo senso del dovere, i sensi di colpa per
aver distrutto la vita di una donna per bene e i sentimenti che provi
per lei ti spingeranno a scegliere lei. Lo so io, lo sai tu... Quando
si tratta di Elizabeth, il bene della tua famiglia arriva dopo. Io, i
tuoi figli, tutto quello che abbiamo costruito insieme, non contano
niente se nei paraggi c'è lei".
Non
era così! Non era dannatamente così e avrebbe
voluto urlarglielo in
faccia che forse sì, aveva ragione, che forse avrebbe dovuto
fare
quello che aveva chiesto Elizabeth perché se non lo avesse
fatto
sarebbe stato la causa della sua rovina, ma che non era quello che
desiderava il suo cuore. Ora che aveva avuto Elizabeth, ora che aveva
toccato con mano ciò che era e la freddezza del suo cuore,
si
rendeva conto del perché dopo quella notte il suo istinto lo
aveva
riportato a Nampara, dalla sua famiglia. Si rendeva conto che
Elizabeth era un sogno infantile e che tutto quello che voleva era
l'amore vero, adulto e sincero costruito con sua moglie. Come poteva
dirglielo, come poteva fare in modo che Demelza gli credesse, dopo
quello che aveva fatto? Come poteva quando nemmeno nemmeno lui era
più capace di fidarsi di se stesso? Eppure c'era una
certezza nella
sua vita ed era sempre stata Demelza, lei e solo lei era l'unica
presenza che aveva ritenuto da sempre incrollabile e insostituibile
accanto a se. L'aveva messa da parte, aveva commesso tanti errori con
lei ma MAI avrebbe potuto credere che un giorno le sarebbe sfuggita
dalle mani. E invece ora aveva capito... La amava ma non era stato
capace di prendersene cura.
Se
avesse assecondato Elizabeth non ci sarebbe mai stata gioia in quella
decisione, per lui, MAI. Ma solo dolore e rimpianto per quanto aveva
distrutto da solo... "Demelza, aspetta, lasciami spiegare"
– sussurrò, sfiorandole le braccia.
Ma
lei si ritrasse con la foga di una bestiolina ferita che scappa dal
suo assalitore. Indietreggiò e i suoi occhi si riempirono di
una
ferocia di cui non l'avrebbe mai creduta capace. "Non mi
toccare!".
Non
la ascoltò, le si riavvicinò e la prese per la
vita. "Demelza".
"NON
MI TOCCARE!!!". Lei urlò, si divincolò e lui non
riuscì a
dire nulla. Non riuscì a dirle né che l'amava,
né che nessun
cavillo legale o annullamento di matrimonio avrebbe cambiato
ciò che
lei e i suoi bambini rappresentavano per lui.
"Ti
prego, calmati".
"Sta
lontano da me" – disse lei, fra i singhiozzi. Poi si
accasciò
a terra, improvvisamente, come se di colpo le forze l'avessero
abbandonata. Si prese il ventre con le mani, si rannicchiò
ed emise
un singhiozzo di dolore.
Ross
fu preso dal panico e in un attimo le fu accanto, in ginocchio.
"Demelza, cosa cè?".
"Sta
lontano, ora possa" – sussurrò la donna, fra i
singhiozzi.
Al
diavolo, non si sarebbe allontanato e tutte le sue preoccupazioni in
quel momento presero forma. Stava male ed ancora, era lui la causa di
tutto ciò. Il dolore che le aveva inferto era troppo per una
donna
nel suo stato e anche se Demelza era forte, non sarebbe stata capace
di sopportarlo. "Ti porto in camera".
"No"
– rispose lei, col fiato corto. "Chiama Prudie, non voglio
che
tu mi tocchi".
Beh,
Prudie poteva essere una buona soluzione al momento, l'avrebbe
assecondata per non agitarla ulteriormente. "Va bene, corro a
chiamarla! E poi andrò da Dwight e lo farò venire
quì".
Demelza
annuì, senza obiettare. Non ne aveva la forza e capiva anche
lei che
aveva bisogno di un medico.
Di
corsa Ross uscì fuori e, urlando, disse a Prudie di andare
dentro e
di portare Demelza a letto perché non si sentiva bene. Poi
prese
Jeremy, lo mise sul cavallo, montò anch'esso in sella e, con
la
disperazione che aveva preso possesso di ogni sua fibra,
andò al
galoppo con suo figlio da Dwight.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Aveva
prelevato a forza Dwight dal tavolo dove le cameriere avevano appena
apparecchiato per il pranzo suo e della sua neo-sposina, senza
spiegargli granché.
Con
foga, con Jeremy in braccio, gli aveva solo farfugliato che Demelza
stava male e aveva dei dolori al ventre che lo facevano temere per il
bambino in arrivo e Dwight non aveva voluto sapere altro. Aveva dato
un bacio frettoloso sulle labbra ad una preoccupata Caroline, si era
fatto sellare un cavallo e poi si era diretto con lui a Nampara.
Galopparono
come pazzi costeggiando le costiere che accarezzavano un mare
insolitamente calmo e trasparente.
Ross
credeva che Jeremy si sarebbe spaventato ad andare a cavallo a quel
modo ma il bimbo aveva emesso gridolini felici e divertiti e anzi,
una volta giunti alla stalla di Nampara, aveva protestato vivacemente
quando lo aveva messo a terra.
Dwight
era entrato in casa di corsa e Ross non aveva fatto in tempo a dirgli
nulla sulle circostanze che avevano portato a quel disastro e ora si
chiedeva come avrebbe reagito il suo amico, se fosse stata Demelza a
parlargliene. Non che volesse nascondere a Dwight qualcosa ma si
vergognava di se stesso talmente tanto che non avrebbe potuto
sopportare di vedere biasimo e muto rimprovero sul viso del suo
migliore amico...
Eppure
sapeva che, se non l'avesse fatto Demelza, avrebbe dovuto farlo lui.
Dwight era un amico, era il medico curante della sua famiglia ed era
un ragazzo buono, saggio ed assennato e forse nelle sue parole
avrebbe potuto trovare conforto e una soluzione a tutto il disastro
che aveva combinato.
"Papà".
Ross
abbassò lo sguardo su Jeremy che gli trotterellava intorno
mentre al
piano superiore Dwight, aiutato da Prudie, si prendeva cura di
Demelza. Si sedette sul divanetto del salotto e prese il suo bambino
in braccio, facendolo sedere sulle sue ginocchia. "Dimmi" –
gli intimò in tono gentile, rendendosi conto che erano
rarissime le
volte in cui si era soffermato ad ascoltare e a prestare attenzione a
suo figli.
Jeremy
gli mostrò un piccolo cavallino di legno che teneva stretto
nella
manina e che aveva preso dal cestone di giocattoli accanto al camino.
"Ndiamo?".
Ross
gli sorrise, trovando in suo figlio e nel suo volto tranquillo una
sorta di pace dell'animo. "Vuoi andare ancora sul cavallo?".
"Sì".
Lui
indicò il giocattolo. "Su quello che hai in mano? Forse
è
troppo piccolino per salirci, no?".
Jeremy
rise a quelle parole. "Noooo quetto! Papà, queio
grandiscimo!"
- esclamò indicando la finestra che dava sull'aia e sulla
stalla.
Finse
di stare al gioco, lo sistemò meglio sulle sue ginocchia e
lo fece
saltellare sopra esse. "Così? Vuoi andare così?".
Jeremy
rise ancora. "Sìììì". Poi
si voltò verso di lui,
prendendogli una mano con la sua manina e stringendogliela.
"Ndiamo?".
Si
chinò su di lui baciandolo sulla fronte, chiedendosi cosa
avrebbe
fatto del suo ruolo di padre e maledicendosi per tutto quello che
stavano passando Demelza e il piccolo in arrivo a causa sua. "Presto
Jeremy, presto ci andremo".
"E
mamma?".
Ross
sorrise tristemente. "Anche mamma, quando starà meglio e
sarà
nato il tuo fratellino. O la tua sorellina. Mamma sa andare a cavallo
meglio di me, sai?".
Jeremy
ci pensò su. "E io?".
Gli
strizzò l'occhio, poi osservò la manina di suo
figlio ancora
appoggiata contro la sua. "Quando la tua mano sarà grossa
almeno la metà della mia, ti insegnerò come si va
a cavallo. Te lo
prometto".
"Siiiii".
Eccitato, il piccolo lanciò in aria il cavallino di legno
che teneva
nell'altra manina e il giocattolo cadde in terra, rotolando fin sotto
alla credenza.
Ross
sospirò, divertito nonostante tutto. Suo figlio con la sua
vivacità
ed innocenza, stava riuscendo ad isolarlo dal male che lo circondava
e a fargli godere di uno sprazzo di buon umore che sicuramente non
meritava. "Jeremy, sei un disastro. Ora te lo prendo".
Mise
in terra il bambino e fece per chinarsi quando i passi di Dwight,
dietro di lui, lo fecero rialzare di scatto. Il medico, seguito da
Prudie, scese le scale e poi, con un timido sorriso, gli fece segno
di seguirlo fuori casa per parlargli.
Ross
annuì, carezzando la testolina di Jeremy. "Il cavallino lo
recupereremo dopo. Ora va da Prudie e gioca con lei".
"Sì"
– rispose Jeremy, ubbidiente, correndo con quella sua
andatura
ancora goffa verso la domestica.
Ross
gli diede un'ultima occhiata e poi seguì Dwight nell'aia. Il
sole
era ormai alto nel cielo limpidissimo e terso e l'ora di pranzo
doveva essere passata da un pò. "Mi spiace, non volevo
disturbare te e Caroline ma era un'emergenza".
Dwight
sorrise, appoggiandosi alla staccionata. "Sono un medico Ross e
quando ho deciso di diventarlo, avevo messo in conto cose come
questa. I medici esistono proprio per risolvere le emergenze".
Ross
lo studiò in viso. Dwight sembrava tranquillo e amichevole
come
sempre e Demelza non doveva avergli detto nulla. O forse non ne aveva
avuto la possibilità... "Come sta mia moglie?" -
domandò,
corroso dall'ansia.
Dwight
sospirò. "Demelza si stanca sempre troppo, non sta mai ferma
e
questo di per se non è un problema ma durante una gravidanza
dovrebbe cercare di riguardarsi di più. Le ho dato un
sedativo, ora
sta dormendo e le contrazioni paiono cessate. Deve stare a letto per
un pò di giorni, magari una settimana, servita, riverita e
tranquilla. Mi è parsa molto agitata e scossa e non va bene
nel suo
stato".
"Tenere
Demelza a letto sarà dura..." - rispose Ross, vago.
"Sì,
decisamente!". Dwight si accigliò. "L'ho trovata
stranamente agitata e allo stesso tempo giù di morale. E'
strano,
non è da lei. E' successo qualcosa?".
Ross
abbassò il capo. "E' successo qualcosa...".
Dwight
distolse lo sguardo, imbarazzato. "Scusa, non voglio entrare
nelle vostre faccende private ma vorrei consigliarti di non agitarla.
Ha bisogno di tranquillità e tu sei l'unico che
può dargliela. La
gravidanza va bene, non ha bisogno di particolari cure a parte pace e
riposo, però ci vuole cautela, Ross".
Gli
occhi di Ross divennero lucidi e finse che era per il sole. Pace...
Come poteva dare pace a Demelza? Come poteva lui, che aveva distrutto
ogni cosa e le aveva fatto male più di qualsiasi altra
persona sulla
faccia della terra? Come poteva ora, come? "Dwight, sei mio
amico?".
"Sì,
che domande fai?" - rispose il medico, ridendo.
"Lo
saresti anche se io avessi fatto qualcosa di orribile?".
E
a quella domanda, Dwight smise di ridere e tornò ad essere
preoccupato. "Ross, che succede?".
"Ho
combinato un disastro e non so come uscirne. Aiutami...".
Dwight
lo vide accasciarsi a terra e in un attimo fu al suo fianco, in
ginocchio. "Ross, che succede? Stai male?".
Alzò
lo sguardo su di lui, chiedendosi se avrebbe capito. Ma come poteva
farlo Dwight, se nemmeno lui capiva se stesso e il perché
delle sue
azioni. "Elizabeth è incinta" –
sussurrò, nello stesso
scarno modo in cui aveva comunicato quella notizia a Demelza.
Dwight
spalancò gli occhi. "Elizabeth? La moglie di tuo cugino
Francis?".
"Sì".
"Ma
Ross, Francis è morto da otto mesi ormai e lei non mi
è mai
parsa...".
Ross
lo bloccò, anche se immaginava che non ce ne fosse bisogno.
Dwight
avrebbe fatto due conti e avrebbe capito entro pochi istanti che...
"Non è di Francis, ovviamente".
Dwight
deglutì. "E di chi, allora?".
"Mio".
"Tuo?".
Dwight indietreggiò, inorridito. Poi guardò di
sfuggita Nampara,
rendendosi conto da solo del perché Demelza stesse tanto
male.
"Ross, stai scherzando? Dimmi che è uno stupido scherzo!".
Ross
scosse la testa. C'era stupore nella voce di Dwight, costernazione. E
delusione e rabbia... "Vorrei tanto fosse uno scherzo ma
invece...".
"Come
hai potuto?".
La
voce di Dwight era acuta, fredda. Mai lo aveva sentito usare quel
tono e si trovò costretto ad abbassare il capo. "Non so come
abbia potuto farlo, è successo e basta. Da quando
è morto Francis e
anche prima...". Alzò lo sguardo, come cercando
comprensione.
Che non ebbe... "Era il mio primo amore Dwight ed è rimasta
lì,
nel limbo. Non l'ho mai davvero dimenticata e lei stava per sposare
George e io...".
Dwight
lo prese per il bavero, attirandolo a se. "E tu sei un uomo
sposato, una persona rispettabile e soprattutto un padre! Da quanto
va avanti la tresca fra te ed Elizabeth?".
Ross
spalancò gli occhi, inorridito. "Tresca? Dwight,
è successo
solo una volta".
"Coi
fatti... Ma col pensiero, mi pare di capire, eri sempre lì".
Ancora,
fu costretto ad abbassare il capo. "Già" – dovette
ammettere amaramente.
Gli
occhi di Dwight divennero rossi di rabbia. "Con una moglie come
Demelza, che ti ama, che ti ha supportato in ogni cosa che hai fatto,
anche la più idiota, tu...". Indicò la casa e nel
suo sguardo
c'era solo rimprovero. "La dentro, in un letto, tua moglie lotta
per salvare la vita a tuo figlio! TUO FIGLIO! Che cresceva dentro di
lei, mentre lei si occupava del bambino che già avete, DA
SOLA,
perché tu giocavi all'innamorato con Elizabeth! Non ti
vergogni,
Ross? Da tutti avrei potuto aspettarmi qualcosa di tanto meschino
eccetto che da te...".
Ross
si morse il labbro. Certo che si vergognava, avrebbe voluto
sotterrarsi da solo sotto terra per quanto aveva fatto e per la sua
incapacità ad uscirne. Non sopportava di essere stato
squallido
quanto e più di George, più scorretto degli
uomini che aveva odiato
e che avevano condannato Jim, più meschino di Francis quando
aveva
tradito Elizabeth. Era un uomo sposato con una donna meravigliosa che
aveva dato a lungo per scontata, era un uomo che aveva tradito tutti
i suoi principi e la sua famiglia per il suo orgoglio e per una
manciata di momenti di piacere e follia, era un uomo che non era
stato capace di apprezzare appieno, fino in fondo, la persona che il
destino aveva scelto come sua compagna di vita. "Che posso
dirti, Dwight? Vorrei solo si potesse tornare indietro...".
Il
suo amico scosse la testa. "Non si torna indietro Ross e tu
avresti avuto mille buone occasioni per farlo prima
dell'irreparabile, se lo avessi voluto, nei mesi intercorsi dalla
morte di Francis". Abbassò lo sguardo, affranto. "Ora
capisco perché Demelza, prima, ha detto...".
"Detto
cosa?".
Dwight
scosse la testa. "Che sarebbe stato meglio perdere il bambino.
Non riuscivo a capire perché una donna come lei, una madre
tanto
amorevole, dicesse qualcosa del genere. Ora lo comprendo e non posso
biasimarla".
A
quelle parole, Ross si sentì morire. L'aveva portata a
questo? Era
davvero tanto disperata da non vedere via d'uscita né per
lei né
per il loro bambino? Le parole di Demelza assumevano il significato
di una condanna definitiva per il loro rapporto e il loro matrimonio.
Aveva perso la fede, aveva perso ogni speranza che le cose si
potessero sistemare e si era arresa... "Santo cielo" –
mormorò.
Dwight
sospirò. "L'ho tranquillizzata ed è stato solo un
attimo di
smarrimento più che comprensibile. E' al quinto mese di
gravidanza e
perdere il bambino ora, sarebbe devastante per lei. Non deve
succedere e noi dovremo evitare che accada! Ora riposa e so che ama
il suo bambino e che lotterà per lui. Anche da sola".
"Non
dovrà farlo da sola" – ribatté Ross,
piccato.
"Davvero?
E tu cosa farai allora? Ed Elizabeth?".
Ross
prese un profondo respiro e poi con coraggio raccontò a
Dwight
quanto si erano detti lui e la donna a Trenwith, poche ore prima.
La
proposta fatta da Elizabeth parve non stupire Dwight che forse, come
Demelza, aveva imparato a comprendere la donna meglio di quanto
avesse mai fatto lui. "E tu lo farai, giusto? Distruggerai il
matrimonio con Demelza e correrai da lei. E' questo che fai da tanto,
giusto Ross? E' questo che si aspetta Demelza, è questo che
l'ha
fatta stare male. Lei lo sa, lei è consapevole che per te
Elizabeth
viene prima della tua famiglia e che accetterai la sua idea folle.
Demelza lo sa, anche se ancora tu non sei consapevole di averlo
già
deciso".
Punto
sul vivo, Ross divenne rosso di rabbia. Le parole di Dwight lo
irritavano perché in esse c'era tanta verità e
quella verità lo
faceva sentire un verme. Era vero, era stato così per tanto,
aveva
messo Elizabet al primo posto a lungo, dopo la morte di Francis,
sacrificando tempo, denaro e affetto per la sua famiglia, in suo
favore. Ma ora quella specie di limbo che lo aveva tenuto prigioniero
di un antico sogno giovanile, si era rotto e vedeva Elizabeth per
ciò
che era sempre stata: un amore di ragazzo, un amore idealizzato...
Eppure il danno era fatto e ora toccava a lui rimediare e prendersi
le sue responsabilità, in qualche modo. "Dwight, io ho
mancato
di rispetto ad Elizabeth e l'ho messa in una posizione terribile.
Devo fare qualcosa, né ho il dovere! E non cederò
alle sue
richieste perché è una cosa che voglio fare, per
un capriccio o per
altro, se dovessi... se dovessi...".
"Sposarla?"
- lo interruppe Dwight.
Lui
annuì. "Se dovessi sposarla, sarà
perché devo. Ma la mia
famiglia, quella che io considero la mia VERA famiglia, è
questa. E
non sarà un cavillo legale a cambiare le cose".
Dwight
lo guardò con severità. "Un cavillo legale che
priverà
Demelza e i tuoi figli del nome di famiglia, di ogni diritto e che li
costringerà ad affrontare da soli la vita".
"Io
ci sarò sempre, per loro!".
Dwight
ridacchiò, sarcastico. "Non ci sei mai stato mentre vivevi
quì,
dubito che ci sarai se diventerai il marito di Elizabeth".
Passeggiò avanti e indietro, nervosamente. "Caroline aveva
ragione, sul tuo conto".
"Che
vuoi dire?".
"Lei
mi disse che tu sei quel tipo d'uomo che ha una moglie che tutti
vorrebbero ma che lui non sa apprezzare perché guarda
altrove. Le
dissi che si sbagliava, allora... E invece...".
Ross
abbassò lo sguardo, nuovamente schiacciato dal senso di
colpa. Era
un marito davvero pessimo, anche gli altri se n'erano accorti. Se
n'erano accorti tutti tranne lui, fino a quel giorno. "Non
voglio fare del male a Demelza. Vorrei evitarle tutto questo, vorrei
che fosse solo un incubo".
Dwight
lo guardò, pieno di biasimo. "Penserò io, come
medico, a
Demelza. Tu limitati a... beh, a non fare altri danni. Elizabeth
vorrà una tua risposta a breve e purtroppo Demelza
dovrà affrontare
le conseguenze dei tuoi gesti e delle tue decisioni. Non so come tu
possa fare ma vedi di agire pensando al bene di tua moglie e dei tuoi
figli, vedi di non farla agitare e cerca di tergiversare
finché
puoi. Demelza deve stare tranquilla il più possibile anche
se,
credo, sappia già cosa deciderai".
Ross
annuì. "Tu ci starai accanto?".
"Starò
accanto a Demelza, sempre. Come medico e, assieme a Caroline, come
amico. E quando il bambino sarà nato me ne andrò.
Mia moglie
vorrebbe una nuova vita in posti più agiati come Bath o
Londra e
sai, dopo quello che ci siamo appena detti, credo che vorrò
cambiare
aria e che andrò via assieme a lei. Mi spiace per i
disperati di
queste terre ma non credo di riuscire a rimanere quì e a
guardarti
ancora in volto, dopo che avrai fatto ciò che farai. Il
rispetto,
l'amicizia... Per quel che mi riguarda li hai persi entrambi, ai miei
occhi. Ma per Demelza, solo per lei, resterò quì
fino a fine
anno... Poi andrò via e spero di non vederti più".
"Dwight!"
- cercò di argomentare, sgomento da quello che aveva appena
sentito.
Non poteva perdere anche il suo migliore amico...
"Stammi
lontano!" - rispose il medico. "Non voglio più avere
niente a che fare con te! E ora torna dentro e vedi di fare il marito
e il padre, fintanto che resterai quì".
E
così dicendo, salì in sella al suo cavallo e
sparì al galoppo
nella brughiera, lasciando Ross in pasto alla sua disperazione e ai
suoi sensi di colpa che, anche se ancora non lo poteva sapere, lo
avrebbero tormentato a lungo.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
I
giorni successivi all'incontro con Dwight erano stati strani a
Nampara, come se il tempo si fosse fermato e avesse lasciato tutto in
sospeso...
Ross
aveva continuato a dormire in biblioteca e ogni discorso su Elizabeth
e sul bambino che aspettava era stato congelato dietro a un ostinato
mutismo. Era strano, era come se si crogliolasse nell'illusione che,
se non avesse affrontato l'argomento, il problema si sarebbe risolto
da solo in un modo o nell'altro. E poi c'era Demelza e voleva
lasciarla tranquilla, come aveva prescritto il dottore. E affrontare
quell'argomento poteva essere pericoloso e quindi andava rinviata
qualsiasi discussione, qualsiasi decisione che, giorno dopo giorno,
diventava sempre più inevitabile...
Sua
moglie, di contro, aveva ascoltato le prescrizioni di Dwight. Ross
non avrebbe mai creduto di poterla vedere a letto per giorni e invece
fu quello che accadde... Rimase a letto, mangiò a letto,
giocò con
Jeremy a letto e per ogni cosa di cui avesse bisogno, Demelza
chiedeva a Prudie.
Era
sfinita, Ross lo vedeva bene e sapeva che non era solo per la
gravidanza. L'espressione di Demelza era perennemente triste, i suoi
occhi sempre arrossati e il suo viso solitamente luminoso, era
pallido e sofferente. Quando giocava con Jeremy, quando la sentiva
ridere con lui, di soppiatto li spiava dalla porta per accertarsi che
lei stesse meglio ma ogni sua speranza svaniva appena osservava i
suoi occhi: spersi, tristi, opachi... E sembrava che nulla, nemmeno
il sorriso che si sforzava di fare al loro bambino, potesse curare
quella tristezza perenne di cui lui era responsabile.
Demelza
non gli parlava, se non per motivi di assoluta necessità o
per
facezie che riguardavano Jeremy. Era Prudie a fare da tramite fra
loro, per lo più. E pure Dwight, che veniva ogni giorno a
visitare
sua moglie, non gli rivolgeva la parola.
Ross
si sentiva in trappola, sfinito e senza forze. Mai gli era capitato
di sentirsi così e non trovava via d'uscita...
Il
silenzio da Trenwith di quei giorni sarebbe presto finito, lo sapeva
e non poteva illudersi del contrario. Elizabeth sarebbe tornata e
avrebbe reclamato ciò che le spettava di diritto: la sua
presa di
coscienza e il suo assumersi le proprie responsabilità.
Ross
non riusciva a pensare al bambino in arrivo, non quello di Elizabeth!
Era preoccupato per la gravidanza di Demelza, per Jeremy che
respirava la grande tensione che si era creata in casa, per il suo
matrimonio... Ma non riusciva a pensare al figlio di Elizabeth o, se
ci pensava, non riusciva a sentirlo suo. Era come se
quell'imposizione voluta e decisa dal destino fosse una condanna e
una punizione per quanto aveva fatto.
Sapeva
che Elizabeth lo aveva guidato esattamente dove voleva, Demelza aveva
ragione, lei aveva ottenuto quello che voleva.
Ma
era davvero colpa di Elizabeth? Lui era davvero la povera vittima
della situazione?
Sarebbe
stato bello e comodo pensarlo ma sapeva che non era così.
Per mesi,
forse per anni aveva sognato di avere quella donna che il destino e
Francis gli avevano rubato e che sentiva di aver perso ingiustamente
e dalla morte di suo cugino, quel giovanile ed egoistico sentimento
che lo univa a lei era riesploso, lasciando indietro coloro che amava
e che lo amavano.
Quanto
era successo con Elizabeth era stato voluto, da lei come da lui.
E
in un atto egoistico, infantile e senza senso in cui non aveva
pensato alle conseguenze, aveva distrutto tutto quello che la vita
gli aveva dato di bello e prezioso: la fede di sua moglie, la
serenità di suo figlio e il loro futuro insieme. E ora cosa
sarebbe
successo? Che ne sarebbe stato del suo matrimonio e del suo ruolo di
padre? Ora che aveva toccato con mano quanto effimero e malato fosse
quel desiderio ossessivo verso Elizabeth, ora che aveva distrutto
tutto, come avrebbe fatto? Come avrebbe fatto a raccogliere i cocci e
a conciliare tutto, sempre che fosse possibile? E facendo una scelta
che ai suoi occhi e al suo senso del dovere sembrava inevitabile,
quanto male avrebbe fatto a chi meno se lo meritava?
Rimuginò
davanti al camino a lungo, quella sera, nel silenzio di fine estate
che avvolgeva Nampara. Demelza dormiva ormai da ore o quanto meno
così sembrava, Jeremy era ormai tranquillo nella sua culla e
Prudie,
al piano di sopra, aveva sistemato ogni cosa.
E
lui? Lui sarebbe andato a letto da solo, nella sua brandina, in
biblioteca, come sempre...
Sorseggiò
il suo brandy – era ormai al quarto bicchiere – e
si apprestò ad
alzarsi dalla panca, quando udì i passi pesanti di Prudie
dietro di
lui. "Va tutto bene, di sopra?" - le chiese.
"Sì!
La signora sta leggendo un libro ed ha del miracoloso che abbia
ascoltato i suggerimenti del dottore e sia rimasta a letto per dieci
giorni. Ormai i dolori dovrebbero essere passati ma per fortuna
prolunga il suo riposo".
Ross
scosse la testa. Demelza non stava riposando, Demelza era sfinita
psicologicamente, tanto duramente da non trovare le forze per tornare
quella che era prima di tutta quella storia. "Quanto meno, il
bambino starà bene".
Prudie
si sedette sulla panca accanto a lui e Ross le versò un
bicchiere di
brandy. Ultimanente, miracolosamente, aveva trovato solo in lei una
fidata confidente, lei che lo conosceva fin da quando era un bambino
smarrito che aveva perso la mamma. "Signore, il bambino
starà
bene e forse anche la signora, quando avrete parlato per bene di
tutto quello che è successo".
Ross
sospirò, Prudie sapeva tutto ed era inutile girarci attorno
con lei.
"Se parlo con lei di Elizabeth, la farò stare male di nuovo".
"La
fa star male anche non parlarne".
Ross
si mise le mani fra i capelli. "Non so cosa fare!".
E
la serva disse la cosa più ovvia ma anche la più
difficile da
accettare. "La cosa giusta, signore".
"Non
esiste una cosa giusta, però. Qualsiasi cosa
farò, ferirò
qualcuno".
Prudie
lo fissò, laconica. "Dovevate pensarci prima!".
Ross
sussultò. Era la schiettezza semplice della gente del popolo
che
parlava, quella più autentica e più pratica. Era
vero, come darle
torto? Era colpevole su tutto ed era pronto ad ammetterlo a se
stesso, ma era anche consapevole che non si poteva tornare indietro e
bisognava andare avanti, in qualche modo. "E' nella natura umana
sbagliare, Prudie".
"Quindi,
se avesse fatto questo sbaglio la signora, l'avreste presa allo
stesso modo?".
Punto
sul vivo, Ross scattò sulla sedia. "Non è la
stessa cosa!".
"Oh
certo! L'uomo può fare come gli pare e uscirne fuori dicendo
che può
capitare! Una donna invece no, deve stare a casa accanto al focolare,
zitta e sorridente, mentre il marito la tradisce e fa un figlio con
un'altra!".
Detto
così, era brutale! Faceva male quella verità,
anche perché non
c'era molto che potesse replicare o imputare a Demelza se avesse
fatto qualcosa a danno della loro famiglia come aveva fatto lui.
"Prudie...".
"Discuterne
fra noi non serve a niente, signore! Quando eravate un moccioso e
sono venuta quì, appena morta la signora vostra madre,
quando
combinavate qualcosa vi prendevo sulle ginocchia e vi riempivo il
sedere di sculacciate! Ora non posso farlo – anche se vorrei
– e
quindi la punizione e la via d'uscita ve la trovate da solo! Siete un
uomo, un marito e un padre! Decidete secondo coscienza!".
Ross
la guardò storto, sapeva che non stava scherzando,
soprattutto sulle
sculacciate. Scosse la testa, su una cosa Prudie aveva ragione: era
un uomo adulto e doveva comportarsi come tale. "La coscienza mi
suggerisce di pagare la mia colpa e prendermi ogni tipo di
responsabilità verso chi ho maggiormente danneggiato".
Prudie
spalancò gli occhi, improvvisamente agitata. "Non
vorrete...".
"Devo
farlo, devo prendermi cura di chi non è in grado di farlo,
soprattutto in virtù di quello che è successo. Se
scegliessi ciò
che voglio, ciò che desidera il mio cuore, starei
quì. Ma essere un
uomo, come dici tu, mi spinge a scegliere ciò che DEVO.
Capisci,
Prudie?".
La
domestica si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo.
"Giuda,
siete sposato, avete un figlio e un altro in arrivo. Mi state dicendo
che volete...".
"Sto
dicendo che DEVO prendermi le mie responsabilità. Demelza
è forte,
sa cavarsela da sola e io ci sarò sempre per lei.
Sarà aiutata da
tutti, è amata e sa affrontare ogni cosa. Elizabeth
invece...".
"E'
una gattamorta che vi ha fregato come un poppante!" - tuonò
Prudie. "E per lei volete far del male a chi vi ama e ai vostri
bambini".
Ross
si alzò in piedi, di scatto, fronteggiandola col viso.
"Prudie,
è solo una formalità e non pensare che lo faccia
a cuor leggero.
Non cambierà ciò che provo per Demelza e non
cambierà il mio ruolo
di padre".
Prudie
scosse la testa, esasperata e con gli occhi lucidi. "Giuda, come
potete dirlo? Annullare un matrimonio cambia tutto! Come potete
pensare di... di farlo... e illudervi che rimarrà tutto
uguale?".
"Devo
farlo!" - le disse ancora, esasperato e allo stesso tempo
consapevole di quanto poco lucido fosse nel prendere quella decisione
di cui voleva testardamente ignorare le conseguenze.
La
donna indietreggiò fino alla parete. "Volete farlo... Volete
sempre andare da quella là, a Trenwith".
"Non
è vero".
"Sì
che lo è! Lasciate sempre sola la signora, per la gattamorta
e il
suo bambino. Mentre per il vostro, di bambino, non avete mai una
parola gentile o il tempo per dargli attenzioni".
Si
sentì morire a quelle parole perché era vero,
aveva trascurato a
lungo la sua famiglia ma non era solo a causa di Elizabeth rimasta
vedova e sola e per il senso di responsabilità che sentiva
verso di
lei. C'erano stati la miniera da salvare, i minatori, i debiti...
Come
leggendogli nel pensiero, Prudie lo gelò di nuovo. "Avete
tanti
pensieri e vostra moglie e vostro figlio non sono mai al primo
posto".
Abbassò
il capo, che doveva fare? Aveva ragione, era stato un pessimo marito
e anche se mai, MAI avrebbe desiderato fare del male a Demelza, in
fin dei conti gliene aveva fatto. Aveva fallito, come marito e come
uomo. E come padre... Non aveva voluto Jeremy e anche quando era
nato, gli si era tenuto lontano. Aveva avuto paura di amarlo, aveva
avuto paura di rivivere quanto sofferto con Julia e tenendosi
lontano, aveva finito col perdersi il bello che ogni bambino porta
nelle famiglie dove viene al mondo.
"Sono
arrabbiata!" - tuonò Prudie – "Vi prenderei a
padellate
sulla faccia per questo macello. E per quello che volete fare...".
"Non
ti agitare Prudie, va a letto...".
La
voce stanca e monocorde di Demelza, dalle scale, fece voltare
entrambi.
Ross
deglutì, non l'aveva sentita arrivare. Pallida come un
fantasma, con
indosso la camicia da notte e coi capelli sciolti che le ricadevano
morbidamente sulle spalle, Demelza li fissava dall'ultimo scalino e
solo Dio poteva sapere quanto avesse udito di quella conversazione.
In un attimo fu da lei, non doveva stancarsi nelle sue condizioni...
"Cosa ci fai quì?".
Lei
non lo degnò di uno sguardo ma continuò a parlare
con Prudie. "Va
a letto, è tardi. La casa è in ordine e io sono
scesa solo per
scaldare un pò d'acqua e bere una tisana".
"Te
la preparo io, ragazza" – si affrettò a dire
Prudie.
"Va
a letto" – ripeté Demelza, stancamente.
La
domestica ubbidì, rammaricata e preoccupata per la piega che
avrebbe
preso quella serata. Lanciò un'ultima occhiataccia a Ross e
poi, di
corsa, andò su per le scale, in camera sua.
Rimasti
soli, Ross guardò sua moglie. "Demelza, te la porto io la
tisana in camera, va a letto".
Lei
lo fissò freddamente, prima di avvicinarsi alla brocca sul
tavolo.
"Dovrò abituarmi a farlo da sola, stando a quanto hai detto,
no? Meglio farlo da subito, anzi, meglio non perdere questa mia
abitudine ad arrangiarmi".
Preda
di tanti sensi di colpa, Ross tentò di avvicinarsi,
preoccupato per
lei e soprattutto per quello strano comportamento freddo, distaccato
e distante che sua moglie stava usando. Ogni donna al mondo avrebbe
dato fuori di matto, avrebbe urlato e pianto e lei invece... Lei era
come diventata di ghiaccio. "Demelza, lasciami spiegare".
"Non
c'è nulla da spiegare Ross, ho sempre saputo che sarebbe
finita
così. Mi chiedo solo perché tu ci stia mettendo
tanto a correre da
lei".
"Non
voglio correre da lei!".
Demelza
versò un pò dell'acqua dalla brocca a un
bicchiere e poi prese
delle erbe da un barattolo, versandocele dentro. "Non devi
spiegarmi niente...".
Vinto
dalla disperazione, Ross alzò la voce più di
quanto avrebbe voluto,
rischiando di svegliare Jeremy. "Demelza, non è la scelta
che
voglio fare, è quella che devo fare! Ho distrutto la sua
vita, non
la tua! Come potrebbe sopravvivere, da sola, a uno scandalo? Come
potrebbe sopravvivere a George quando saprà? Come potrebbe
farcela
con due bambini? Chi la vorrebbe ancora come moglie, con un figlio
illegittimo?".
Demelza
lo aveva ascoltato in un silenzio glaciale, la sua espressione
immobile come quella di una statua. "Non devi spiegarmi niente,
lo so... Elizabeth è la povera damigella da salvare e tu
vuoi essere
il suo principe azzurro. So come funziona, ha sempre funzionato
così
fra noi! Ora hai la motivazione giusta per stare con lei".
"Demelza...".
Lei
lo bloccò. "Quindi, che si fa? Dobbiamo andare da un prete?
Da
un giudice? Da un notaio? Elizabeth avrà fretta di
concludere prima
che si veda il pancione...".
Ross
scosse la testa mentre sentiva il terreno che si sgretolava sotto i
suoi piedi... "Demelza, non voglio parlare di questo, non ora e
non con te! Devi riposare e non devi agitarti".
Lei
lo guardò, i suoi occhi iniettati di rabbia che stridevano
con il
suo comportamento fermo ed irreprensibile. "Sono calma, non
vedi? E dobbiamo parlarne, giusto? E' del NOSTRO matrimonio che
stiamo parlando, tuo quanto mio. O la mia opinione non conta nulla
anche in questo caso?".
Era
terribile sentirla parlare così e rendersi conto di quanto
poco
l'avesse fatta sentire amata e importante. Ross sospirò e
poi, con
un gesto gentile le sfiorò il gomito, guidandola verso la
sedia.
"Mettiti comoda e ascolta, ti chiedo solo pochi minuti".
Stranamente,
forse vinta dalla stanchezza, Demelza ubbidì. "Pochi minuti,
Ross. Non voglio sentire nulla di quello che devi dirmi".
Si
sedette davanti a lei, il suo cuore era a pezzi e solo in quel
momento si rese conto di quanto sarebbe stato bello, di quanto
avrebbe amato occupare il suo tempo per stare con lei, per giocare
con Jeremy e per godere insieme dell'arrivo del nuovo bambino.
Demelza era la sua vita e stupidamente aveva data per scontata la sua
presenza, sempre... E ora? Ora che poteva fare per non perderla? "Ti
amo" – disse infine, con il cuore in mano. Ed era la cosa
più
vera e sincera che avesse detto in quel giorno. "Il mio cuore ti
appartiene e so che non puoi crederci ma è così.
Non scelgo
Elizabeth, scelgo te, sceglierò sempre te. Ma il mio senso
di colpa
mi spinge ad andare da lei che è stata l'amore di
gioventù, una
ossessione mai sopita e un affetto che sempre mi
accompagnerà. Vado
da lei perché la mia follia distruggerebbe la sua vita, ora!
Ma non
è amore, non quello vero, ora lo so! Sarà una
formalità, credimi!
Glielo devo ma questo non cambierà cosa provo per te".
Demelza
fece un sorriso freddo, distante, sarcastico. "Come puoi dirlo?
Annullerai il nostro matrimonio illudendoti che niente
cambierà?
Toglierai il tuo cognome ai nostri bambini e continuerai a
considerarti loro padre?".
"Certo,
perché io SONO il loro padre. E non è un atto
scritto che cambierà
questa cosa. Le formalità non hanno mai avuto importanza per
noi,
no?".
Ross
tentò di prenderle le mani ma lei si ritrasse. "Non
è una
formalità! Sarai il marito di un altra e altri bambini
porteranno il
tuo cognome. Non più Jeremy, non questo bambino che aspetto".
"Io
sarò sempre il padre dei nostri bambini e non li
abbandonerò come
non abbandonerò te!".
Demelza
scosse la testa, la freddezza di poco prima vinta dalla stanchezza
infinita che accompagnava ogni suo movimento o parola. "Non
potrai farlo, non quando sarai sposato con Elizabeth".
"Perché
no? Credi che firmando quell'annullamento, smetta di essere il padre
dei nostri bambini?".
"Smetterai
di esserlo per la legge. Non avrai più nessun diritto verso
di loro
ma soprattutto, non avrai doveri".
"Ma
la legge non può spezzare un legame del genere! Io SONO il
loro
padre e questo non potrà cambiare per nulla al mondo".
Demelza
lo guardò con aria di sfida. "Cambierà invece!
Elizabeth non
ti permetterà di avere legami con noi".
Ross
scosse la testa. "Elizabeth avrà in sostanza ciò
che vuole ma
non può impormi una cosa del genere, non glielo
permetterò".
Demelza
abbassò lo sguardo mentre le sue mani tremavano. "Lei
otterrà
tutto come sempre e tu sei un illuso a credere il contrario. Sposerai
lei e sarai suo marito, avrai dei doveri, Ross! Non puoi ignorarlo e
far finta di nulla. Ti vorrà solo per se e per il suo
bambino, vorrà
Nampara, vorrà che noi spariamo dalla tua vita".
"E
io non glielo permetterò!" - rispose lui, sicuro.
Demelza
scostò il viso, pallida come un cencio. "Certo..." -
sussurrò, sarcastica. "E noi? E io e te?".
Già,
e loro? Ross non sapeva cosa dire, cosa fare, come avrebbe gestito
ogni cosa ed era semplicemente in balìa di una tempesta che
faticava
a domare. Ma non voleva arrendersi, non per quanto riguardava lei.
"Posso solo chiederti di avere pazienza, un giorno tutto si
sistemerà".
"Come,
Ross?".
"Non
lo so. Lo scoprirò, però...". Fece per
abbracciarla ma Demelza
si ritrasse.
"No
Ross, non voglio. Non mi toccare, non se sarai suo marito".
La
guardò indietreggiare e si sentì improvvisamente
solo. Avrebbe
voluto avvicinarsi, stringerla a se e dimostrarle che la amava, tutte
cose che avrebbe dovuto farlo prima e che non aveva mai fatto. E ora
era forse troppo tardi... "Demelza".
Sua
moglie, lasciando la tazza con la tisana che non aveva nemmeno
sorseggiato sul tavolo, raggiunse le scale. "Sono stanca, vado a
letto. Vacci anche tu e domani va da Elizabeth e comunicagli la tua
decisione. Dirò a Prudie di aiutarti a preparare le tue cose
da
portare via".
"Demelza...".
Lei
gli voltò le spalle, salendo le scale. "Va da lei,
è inutile
parlarne, hai già deciso. E sono stanca..." -
ripeté di nuovo,
con la voce rotta.
E
Ross rimase solo, nella stanza. Solo, preda dei suoi demoni e della
sua disperazione.
Solo,
come sarebbe stato per molto tempo...
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
La
mattina seguente era uscito presto, alle prime luci del sole. Come un
ladro era scivolato fuori da Nampara quando tutti ancora dormivano e
si era diretto a Trenwith. Era ora di affrontare l'inevitabile...
Aveva
preferito andare via prima che Prudie, Jeremy o Demelza fossero
svegli. Se li avesse visti, non avrebbe avuto il coraggio di andare
via e avrebbe ancora prorogato una decisione che andava portata a
compimento, anche se dolorosamente. Non poteva più
aspettare...
Quando
giunse a Trenwith, il portone principale era già aperto e un
giardiniere era intento a sistemare le rose del roseto. Ross scese da
cavallo e gli affidò l'animale, dandogli una leggera carezza
sul
muso nero. "La signora è già sveglia?".
"Sì
signore, ha fatto colazione con Master Jeffrey Charles e poi
è
tornata a letto in preda a delle nausee".
Ross
sospirò. Ogni fatto, cosa o persona sembravano volergli
ricordare
che stava per diventare padre di un bambino che MAI avrebbe voluto.
"Vado da lei, ho bisogno di parlarle" – disse
frettolosamente, in tono cupo. E poi entrò in casa, salendo
a due a
due le scale ed evitando di soffermarsi a vedere se zia Agatha fosse
già in salotto coi suoi tarocchi. Non aveva la forza di
affrontare
anche lei e sentiva il suo cuore andare in mille pezzi per la
direzione che, da quel giorno, avrebbe preso la sua vita.
Aveva
desiderato tanto a lungo Elizabeth, l'aveva sognata anche dopo aver
sposato Demelza, di nascosto, immaginandola come la realizzazione di
una perfetta utopia. Con Demelza tante cose erano state dure,
difficili: l'aveva sposata senza esserne innamorato, spinto dalle
stesse motivazioni che ora lo stavano portando a sposare Elizabeth,
avevano lottato contro la povertà e lo spettro della
prigione che
poteva portare a una condanna a morte, avevano pianto la morte della
loro bambina. Non era così che aveva immaginato l'amore da
ragazzo,
quando incontrava Elizabeth e sognava un futuro con lei. Immaginava
un amore da romanzo, romantico e sempre felice e ora si rendeva conto
che quelle erano solo illusioni di un ragazzino non ancora cresciuto.
Ora aveva imparato che l'amore non è quello perfetto e
idilliaco ma
piuttosto quello che sa affrontare le battaglie, i dolori, le lotte e
le crisi uscendone più forte di prima.
Sposare
Elizabeth, soprattutto ora, non gli avrebbe regalato la
felicità
perfetta ma avrebbe invece privato la sua vita di una moglie che
amava e che lo amava nonostante tutti i suoi difetti, del profumo di
Nampara e della salsedine, delle serate davanti al camino e dei
pomeriggi nel suo studio passati a osservare mappe della miniera
mentre Demelza lo guardava e poggiava una mano calda e gentile sulla
sua spalla. Avrebbe perso le risate di Jeremy o il vederlo assonnato
e spettinato la mattina mentre ciondolava per casa, i latrati di
Garrick o le sue corse dietro ai poveri conigli che incrociavano il
suo cammino, il calore della sua casa e di tutto ciò che
amava...
Avrebbe
perso il sorriso di Demelza, il sapore dei cibi che cucinava, la
dolcezza del suo sguardo, la passione vera che solo lei riusciva a
trasmettergli, la sua presenza al suo fianco, quando lottava con lui
per qualcosa a cui teneva.
Elizabeth
avrebbe fatto altrettanto per lui? Si sarebbe adattata al tipo di
uomo che ora era, tanto diverso dal ragazzo che era stato e che lei
credeva ancora esistente? Avrebbe fatto sua la povertà, la
mancanza
di certezze o la lontananza dalla vita frivola che avrebbe potuto
offrirle George?
Ora
che ci pensava, ecco qual'era stato il suo errore più
grande:
fermare un matrimonio fra due persone che, in fondo, volevano le
stesse cose. Fermarlo per una sorta di predominio e possesso, per un
diritto che si era arrogato senza averne motivo, spinto da un istinto
cieco che non era stato capace di vedere le conseguenze di quel gesto
e quanto male avrebbe fatto.
Quando
fu davanti alla porta di quella camera dove si era introdotto a forza
mesi prima, distruggendo tutto, si bloccò e stavolta
bussò. Era
strano agire così e pensare che forse, nel giro di poco,
quella
sarebbe stata casa sua.
Una
domestica venne ad aprire e poi lo annunciò. Ross
udì la voce di
Elizabeth che la congedava e, chiedendosi come avrebbe dovuto
rapportarsi con lei, entrò. La salutò con un
cenno del capo e si
accorse che era pallida quanto Demelza e che era a letto
perché
effettivamente non stava bene. Si sentì nuovamente in colpa,
anche
verso di lei... Santo cielo, cosa aveva combinato? "Il tuo
giardiniere mi ha detto che non stai bene, quando sono arrivato".
"Nausee,
dolori al ventre. Devo stare a riposo, dice il dottor Choake".
Ross
sussultò. "Choake è stato quì? Che gli
hai detto?". Se
la notizia della gravidanza fosse trapelata, quel dannato ciarlatano
l'avrebbe urlata ai quattro venti per tutta la Cornovaglia, rendendo
quel dramma famigliare una farsa pubblica.
Elizabeth
alzò le spalle. "Non si è accorto che ero incinta
e del resto
non mi aspettavo che capisse. Non ho detto nulla e lui ha scambiato i
miei malesseri per influenza. Ma ho già avuto un figlio e so
che
questi dolori al ventre non vanno bene e voglio riposare. So di
averne bisogno".
Ross
si sentì sollevato. "Quindi, non lo sa nessuno?".
Lei
aspettò qualche istante prima di rispondere, poi
esibì uno strano
sorriso. "Ci hai messo molto a tornare, mi stavo
preoccupando..." - disse affabilmente, cambiando argomento.
"Beh,
ci ho messo il tempo necessario. Ho una famiglia a Nampara e tu non
hai risposto alla mia domanda. Chi sa di questa gravidanza, oltre a
noi?".
"George
Warleggan".
Ross
spalancò gli occhi, inorridito e completamente spiazzato.
Come aveva
potuto dirglielo? Era impazzita? Come aveva potuto raccontarlo
proprio a LUI? "Sei andata fuori di senno? A George, che non
aspetta altro che un'occasione propizia per rovinarmi!? A lui?".
Lei
sollevò le spalle, incurante del suo turbamento e
assolutamente
tranquilla. "Non c'è da preoccuparsi, Ross. Non
dirà nulla,
non si umilierà davanti a tutti raccontando che ancora una
volta tu
lo hai battuto sul tempo e che il nostro matrimonio non si
celebrerà
a causa tua e di un tradimento avvenuto alle sue spalle.
Starà
zitto, in disparte, aspettando che lo scandalo investa noi due ed
uscendone pulito e senza nulla di cui vergognarsi".
"Ma
perché glielo hai detto?" - urlò lui, esasperato
ed
arrabbiato.
"Ross,
era venuto quì e pretendeva delle risposte! Avevo
posticipato di un
mese il matrimonio con lui ed il mese è passato senza che
gli dessi
notizie! Tu sei sparito, non ti sei fatto vedere per giorni e io ho
dovuto essere sincera con lui".
Ross
si mise le mani nei capelli, era un disastro. "Cosa gli hai
detto?".
"Che
sono incinta di tuo figlio e che ci sposeremo! Che tu hai forzato gli
eventi e che ora ti prenderai le tue responsabilità! Gli ho
detto
che, in virtù dell'antico legame che ci univa e che ancora
ci lega,
è stato meglio così".
"Dannazione,
Elizabeth!". Era annientato, come aveva potuto parlare in sua
vece con George, senza nemmeno sapere cosa aveva deciso in merito a
Demelza e Jeremy? Come poteva fidarsi di lei, ORA? "Avresti
dovuto prendere tempo o dirgli che non desideravi sposarlo! Senza
dargli spiegazioni".
"E
lui mi avrebbe rinfacciato i debiti di Francis e ne avrebbe preteso
il pagamento. Invece così, usando sincerità,
è stato gentile".
Ross
rise, non sapeva se lei lo stesse prendendo in giro o se davvero
credeva alle frottole di quell'idiota. "Gentile? George
Warleggan?".
"Sì!
LUI. Mi ha detto che è dispiaciuto che tu abbia attentato
alla mia
moralità e che apprezza il fatto che mi sia confidata con
lui. Ora
non potrà ovviamente sposarmi ma mi avrà sempre a
cuore e non
pretenderà nulla dei suoi diritti su Trenwith fino alla
nascita di
nostro figlio. E' stato caritatevole e potrò vivere
tranquillamente
quì, nella tua casa di famiglia, la mia gravidanza. Vivremo
quì, il
nostro bambino nascerà quì e magari, ora che la
Wheal Grace va
bene, potremo saldare i debiti di Francis e riscattare la
proprietà.
O, se non ce la faremo, allora ci trasferiremo a Nampara col nostro
piccolo".
Ross
la guardò, con odio. Per la prima volta in vita sua
sentì di
odiarla e di non aver mai capito nulla di lei. Aveva deciso tutto e
come un'abile giocatrice d'azzardo, lo aveva messo al palo e senza
possibilità di replica. Anche se... "Hai detto a George che
ti
avrei sposata? Come hai potuto farlo, visto che non ti ho ancora dato
una risposta?".
"E'
OVVIO che mi sposerai. Perché è quello che devi
fare e quello che
desideriamo da sempre. Non ci sono più ostacoli ormai e
anche il
fato, tramite questo bambino, ci è venuto incontro".
Ross
la fissò, freddamente, impedendo ai sensi di colpa per i
pensieri
malati che aveva nutrito per lei da mesi, prendessero il sopravvento.
"Non ci sono ostacoli? E Demelza? E Jeremy? E il bambino che mia
moglie aspetta?".
Elizabeth
rise. "Ross, pure George non si è stupito del fatto che
finalmente avresti colto la tua occasione di lasciare quella donna.
E' la figlia di un minatore, le devo tanto ma non è e non
sarà mai
al tuo livello. Dal punto di vista burocratico, il notaio che ho
contattato, farà tutto il necessario per annullare il
matrimonio e
non ci saranno problemi perché il matrimonio è
nato sotto il segno
di una menzogna".
Lui
scosse la testa, era così difficile sentirla parlare
così e
paragonarla alla sedicenne piena di sogni che era stata e che aveva
amato. Capiva che Elizabeth voleva proteggere suo figlio ma quella
supponenza e quella voglia di schiacciare la sua famiglia come se
fosse un insetto molesto, lo ferivano. "Io amo Demelza e la
famiglia che ho creato con lei".
"Tu
hai creduto di amarla quando hai pensato di aver perso tutto".
Elizabeth gli prese le mani e tentò di stringerle ma Ross si
divincolò. "Tesoro, mi hai desiderata per tutti questi anni
e
ora sarò tua. Come avrebbe dovuto essere dall'inizio... So
che ti
ferisce lasciare Demelza, ma lei saprà cavarsela e anche i
suoi
bambini. Sono nipoti di un minatore, hanno una madre forte e presto
potranno lavorare per aiutarla a mantenersi. Tu non hai doveri verso
di loro o quanto meno, non li avrai dopo l'annullamento del
matrimonio".
Ross
le rise in faccia, senza temere di ferirla. "I miei bambini NON
lavoreranno per molto tempo ancora. E staranno a Nampara, dove
cresceranno sereni e tranquilli. Io e te non vivremo MAI a Nampara,
Nampara resterà sempre di Demelza e dei bambini e su questo
non
transigo".
Elizabeth
spalancò gli occhi e la sua certezza parve vacillare. "Stai
dicendo che resterai con lei?".
"Sto
dicendo che non abbandonerò a se stessa la famiglia che amo.
Prenderò le mie responsabilità e tu avrai
ciò che vuoi ma per
quanto riguarda Demelza e i bambini, su di loro tu non hai voce in
capitolo".
"Che
vuoi dire?".
"Che
ti sposerò, Elizabeth perché ho fatto tanti
errori e da uomo, ora,
me ne prenderò le responsabilità. Che
farò come vuoi e che questo
mi fa star male perché spezzerò il cuore di
Demelza e distruggerò
tutto quello che ho costruito con lei e che amo. Che perderò
tante
cose dei miei bambini che per te forse non contano nulla ma che sono
la mia ragione di vita e rappresentano il futuro. Che
lascerò la
casa che amo. Ma Nampara resterà a loro, io
pagherò le loro spese e
il loro mantenimento e quando potrò farlo, andrò
da loro a far
visita. E sarò presente per i miei figli, ogni volta che
avranno
bisogno di me, così come per Demelza. Prendere o lasciare
mia cara,
queste sono le mie condizioni e ti avverto che non sono trattabili".
Lei
lo guardò, inorridita. "Vorresti dire che mi sposerai e che
terrai Demelza come amante e seguirai due famiglie?".
Per
un attimo, a Ross mancò il fiato. Certo che no, non avrebbe
mai
agito a quel modo e il solo pensiero che lei lo credesse capace di
qualcosa del genere lo inorridiva, ma c'era dell'altro che si agitava
in lui. Fino a quel momento non aveva pensato a cosa stesse perdendo,
a cosa sarebbe successo sposando Elizabeth e a come sarebbe cambiata
la sua vita ma ora quella semplice domanda aveva scoperchiato un vaso
di Pandora pieno di dolorose incognite per il futuro da cui non
poteva fuggire: avrebbe dovuto rinunciare a Demelza, alla sua
vicinanza, all'intimità che condividevano... Non aveva mai
voluto
ammetterlo a se stesso, fino a quel momento. E il pensare che non
avrebbe più assaporato il sapore dei suoi baci e dei suoi
abbracci,
il calore dei loro corpi fusi, la passione che condivide con lei
soltanto lo annientava. Avrebbe dovuto vivere un'intera vita senza di
lei, come avrebbe fatto? Era strano ma la sua mente, cedendo alle
richieste di Elizabeth, si era cullata nella malata illusione che
sarebbe stato un sacrificio temporaneo ma non era così. Un
matrimonio era per sempre, non c'era via di ritorno...
"Ross?!"
- urlò Elizabeth, stizzita.
Lui
sussultò e i suoi occhi scuri divennero ancora
più cupi. "Certo
che no" – disse infine, col cuore a pezzi – "Non
avrò
amanti, non è quello che intendevo. Volevo solo dire che
sarò
sempre disponibile per Demelza e per ogni suo bisogno materiale. E
che per i miei figli, io resterò un padre. Un pezzo di carta
non può
cambiare questa cosa, sono miei!".
Elizabeth
balzò a sedere, sul letto, stizzita. "Ross, come puoi
pensarlo?
Sarai MIO marito! MIO!!! E mantenere i legami con Demelza e con la
tua vecchia famiglia farà solo del male al nostro
matrimonio. Avrai
dei doveri che per legge ti verranno attribuiti, verso di me! Non
verso Demelza e non verso i suoi figli!".
"E
io onorerò i miei doveri verso di te!" - ribatté
Ross, secco.
"Il
tuo dovere, Ross, è far star bene la tua famiglia. George
è stato
gentile ma Trenwith...".
A
quelle parole, al sentire ancora quel nome, Ross non seppe
più
trattenersi e scoppiò a ridere. "Una volta per tutte,
mettitelo
in testa! GEORGE NON E' GENTILE! Vuole apparirti come il principe
azzurro da cui trovare rifugio dal pessimo marito che sposerai, vuole
fare solo bella impressione e tenersi una porta aperta con te. Ma non
lo fa per gentilezza, lo fa per suo tornaconto. E per dimostrare a se
stesso e al mondo quanto migliore sia di me".
Lei
divenne rossa di rabbia. "Beh, non ha importanza! Potremmo
perdere Trenwith se non pagheremo i debiti di Francis e tu vuoi
lasciare Nampara a Demelza? E io? E i miei figli?".
"Ho
dei cottage! Se perderemo Trenwith, ne sistemeremo uno e ci andremo a
vivere".
Lei
si morse le labbra, trattenendo a stento la rabbia. "Demelza a
Nampara e noi in un cottage? Non sono nata per questo, Ross".
"Mi
volevi come marito e io sono quello che vedi! Non mi interessano le
feste, né i balli e nemmeno il lusso. Voglio far fruttare la
mia
miniera e rendere migliore la vita di chi ci lavora, voglio un mondo
dove non esistano privilegiati o emarginati, voglio essere un uomo
che, quando si guarda allo specchio, non provi vergogna per se
stesso. Non mi piace ciò che sono diventato e ciò
che ho fatto a te
e a Demelza e ti sposerò per rimediare in parte al torto che
hai
dovuto subire a causa mia. Sarò tuo marito e sarò
il padre del
bambino che aspetti e quando usciremo di casa insieme non dovrai
vergognarti di me. Questo te lo prometto. Ma per il resto, non
abbandonerò chi amo e mi ama! O mi ha amato..." - ammise,
rendendosi conto che probabilmente Demelza avrebbe potuto odiarlo,
ormai.
Elizabeth
si alzò dal letto e, cercando di apparire più
calma, si avvicinò a
lui vestita della sola camicia da notte di seta azzurra. Ora non
sembrava più arrabbiata ma pareva volersi dimostrare
seducente e
ammaliante. "Ross" – tentò, in tono più
dolce – "So
che ti senti in colpa adesso ma riuscirò a farti sentire
meglio, te
lo prometto. E presto Demelza e la tua vecchia vita ti sembreranno
fantasmi lontani incapaci di toccarti. Saremo felici e avremo tutto
ciò che abbiamo sempre desiderato e sognato. Non sono
arrabbiata con
te per quella notte e sono felice di portare nel grembo il tuo
bambino, non devi sentirti in colpa verso di me. Per quanto riguarda
Demelza, lei lo ha sempre saputo, lo sa che l'hai sposata come
ripiego e che il vostro matrimonio non avrebbe mai dovuto essere
celebrato. Se la caverà e non dovrai preoccuparti troppo per
lei,
vedrai".
Ross
scosse la testa, come faceva a non capire? "Ma io voglio
occuparmi di lei. Non è Demelza che me lo ha chiesto, sono
io che
sento di doverlo fare. Sto per togliere il mio cognome ai miei figli,
sto per sparire per gran parte della loro vita e questo mi
tormenterà, sempre... Uscirò con nostro figlio
tenendolo per mano e
non potrò farlo con Jeremy o col bimbo in arrivo e magari
loro lo
vorranno e io non potrò essere lì. Sono una
persona orribile
Elizabeth, molto diversa da quella che pensi tu. Te ne accorgerai e
non sarai capace di farmi cambiare idea".
Elizabeht
rimase in silenzio per un pò, poi decise di non insistere,
almeno
per il momento. "Quando ci sposeremo, quindi?" - chiese,
cambiando argomento.
Quella
domanda gli gelò il sangue nelle vene. "Non lo so, non sei
tu
quella che ha contattato un notaio per gestire la parte
burocratica?".
"Sì.
Se allora sei d'accordo, gli dirò di proseguire con la
pratica. A
breve avremo l'annullamento, poi dovrai solo firmarlo e farlo firmare
a Demelza. Dopo di che potremo procedere alle pubblicazioni e
sposarci".
"Sembra
facile" – ammise lui, amaramente.
"Lo
sarà". Elizabeth gli sfiorò il braccio,
gentilmente. "Forse,
già da ora, potresti trasferirti quì. Jeoffrey
Charles ne sarà
contento e io potrò averti vicino. Questa gravidanza
è così
difficile...".
Ross
inspirò profondamente. Sì, forse sarebbe stato
meglio, per tutti.
Rimanere a Nampara in quei giorni sarebbe stata una agonia e avrebbe
aggiunto dolore al dolore. Ogni parola, ogni gesto, ogni abitudine
ripetuta nella giornata, avrebbe ricordato costantemente a tutti che
ogni cosa stava per finire. "Farò preparare i bagagli a
Prudie
ma voglio la tua parola! Non mi impedirai di far loro visita".
Elizabeth
lo fissò con freddezza. "Certamente..." - rispose, con un
tono insolitamente glaciale e apparentemente tranquillo.
Ross
non seppe interpretarla. Fece un leggero inchino, la salutò
frettolosamente e poi, con la morte nel cuore, tornò verso
Nampara.
Vi giunse che il sole era ormai alto e la trovò
insolitamente
silenziosa. Uno strano timore si impossessò di lui, che
stava
succedendo? A quell'ora Jeremy di solito giocava nell'aia e Prudie
dava da mangiare agli animali in stalla mentre ora tutto pareva
deserto.
Entrò
in cucina temendo che se ne fossero andati tutti e sospirò
sollevato
quando vide Prudie seduta al tavolo, intenta a rammendare delle
vecchie calze.
"Signore".
"Dov'è
Jeremy? E Demelza?".
Prudie
guardò verso le scale. "Master Jeremy è con sua
madre, a
letto. La signora non è stata di nuovo bene, ha avuto nausea
e
vomito ed è a letto. E il piccolo, anche se è
tanto piccolo, sembra
capire che sua madre ha bisogno di lui e si è accoccolato
buono
buono a letto vicino a lei per tenerle compagnia".
Ross
sorrise dolcemente, orgoglioso di Jeremy e intristito dal fatto che
suo figlio, di due anni e mezzo, sopperisse da solo alle sue mille
mancanze. "Dormono?".
"Non
lo so, ma tutto è molto silenzioso".
Ross
sospirò. "Vado da loro, devo parlare con lei. Tu, nel
mentre,
prepara il baule con le mie cose. E' ora che inizi a prepararmi per
andare via e prima lo faccio e prima Demelza potrà stare
tranquilla.
Questo momento così confuso non le fa bene e non ne fa
nemmeno a
Jeremy. Non possiamo posticipare l'inevitabile".
Gli
occhi di Prudie divennero lucidi. "Andrete davvero a Trenwith?
Ma è un errore e non ne uscirà nulla di buono.
Per voi, per la
signora, per i bambini... Un matrimonio fatto per forza porta solo
infelicità".
"Lo
so, ma non posso fare altro. Devo dirlo a Demelza".
Prudie
scosse la testa. "Non vuole vedervi, lei lo sa già. Lo sa
che
siete uscito per andare da quella la a Trenwith per dirgli che
l'avreste sposata. Sta male per questo, che credete?".
Ross
abbassò il capo, era a pezzi. Stava facendo del male, tanto
male,
proprio a coloro che non se lo meritavano e non poteva fare nulla per
evitarlo. "Devo parlarle, almeno un'ultima volta".
Prudie
non rispose, non poteva opporsi alla sua volontà. E Ross si
avviò
per le scale.
Quando
entrò in camera, trovò Demelza sveglia, a letto,
che cantava una
canzone a Jeremy steso accanto a lei, rannicchiato sotto le coperte e
felice di farsi coccolare dalla sua mamma.
Rimase
per lunghi istanti fermo, nascosto dietro la porta, a guardarli.
Cercò di imprimersi nella mente il suono dolce della voce di
sua
moglie che cantava, quella sensazione di pace e famiglia che
impermeava la stanza, la dolcezza di quella donna che aveva sposato
per caso e che gli aveva insegnato cos'è l'amore rendendolo
un uomo
migliore e un padre. E lui aveva gettato via tutto in un attimo e in
una notte di follia.
La
porta scricchiolò e Demelza e Jeremy si voltarono di scatto.
Appena
il bimbo lo vide, gli si illuminò il viso. "Papà".
Ross
gli si avvicinò, sorridendogli. E lo prese in braccio. "Ciao
piccolo! Prudie mi ha detto che oggi sei stato davvero bravo ad
aiutare la mamma".
"Sì".
Demelza,
in silenzio, lo guardò senza parlare. Era pallida, i capelli
le
ricadevano disordinati sulla schiena e sembrava sofferente e
smagrita. Non aveva nulla dell'aspetto radioso delle donne incinta.
"Allora, tu e Elizabeth vi siete messi d'accordo?".
Deglutì,
colpito dalla sua fierezza e dal coraggio che sembrava voler
dimostrare. Mise Jeremy a terra, lo guardò e si rese conto
che a
pagare dei suoi errori sarebbero stati lui e Demelza. "Sì.
Penserà a tutto un notaio che lei ha ingaggiato. Dovremo
solo
firmare i documenti quando saranno pronti". Sembrava tutto tanto
freddo, burocratico, ovattato... Ma se avesse fatto trapelare i suoi
sentimenti, tutti i suoi proponimenti sarebbero venuti meno e avrebbe
gettato all'aria il suo senso di responsabilità scegliendo
la strada
che più voleva il suo cuore ma che era quella più
egoistica per
lui, dopo quello che aveva combinato.
"Hai
detto a Prudie di farti i bagagli?".
"Sì"
– rispose, ferito di vederla così distante, fredda
e rassegnata al
fatto che lui stesse scegliendo un'altra. Faceva male rendersi conto
che, in fondo, Demelza se lo era sempre aspettato. Eppure, in quel
momento, fra loro due era lei che mostrava più
dignità di tutti,
lei che sarebbe stata ripudiata e avrebbe cresciuto i suoi figli
principalmente da sola.
"Quando
andrai via?".
"Credo
entro sera. E' meglio per tutti".
Sua
moglie sorrise tristemente. "Di certo è il meglio per quelli
di
Trenwith...".
Lui
sussultò, a quelle parole. "Demelza, potrai stare
più
tranquilla con una situazione definita fra noi e sarò
comunque quì
vicino".
Lei
scosse la testa. "Ci credi davvero a quello che dici?".
"Ci
sarò, fidati di me".
Demelza
guardò Jeremy e il suo sguardo divenne ancora più
sofferente e
pallido anche se, ancora una volta, si impedì di piangere.
"Non
lo farai, non ci sarai e non perché non mi fidi della tua
parola ma
perché è impossibile far funzionare le cose come
credi tu. Non ci
riuscirai ed Elizabeth te lo impedirà".
"Lei
non si intrometterà, in questo! Sono stato chiaro con lei,
oggi".
"Va
bene, sì Ross... Voglio crederti, voglio provarci per
Jeremy. Se non
ci fosse lui, me ne sarei già andata" - rispose, in quel
tono
stanco e rassegnato che spesso aveva usato nei suoi confronti,
ultimamente.
Ross
tentò di avvicinarsi, di abbracciarla, di stringerla a se
per
un'ultima volta ma Demelza si ritrasse, allontanandolo con le poche
forze che le restavano. "No, non puoi più farlo. Nemmeno ora
che siamo ancora sposati! Non puoi farlo più!".
Aveva
ragione, non poteva essere ipocrita e forzarla ad averlo vicino anche
se darle un gesto di affetto e sentirla vicina per un'ultima volta
era quello che più voleva. Ma lei si sarebbe arrabbiato e
non voleva
che il loro bambino assistesse a un litigio. Si chinò per
essere
all'altezza di Jeremy, guardando suo figlio negli occhi.
"Papà
deve andare via e dormirà da un'altra parte. Mentre non ci
sono,
posso fidarmi di te? Ti prenderai cura della mamma e del fratellino
in arrivo?".
Jeremy
lo fissò accigliato. "Dove vai?".
"Sarò
quì vicino e verrò spesso a trovarti.
Semplicemente, non dormirò
quì ma tu non devi preoccuparti per questo".
Il
bimbo si imbronciò. "Quanno veni?".
"Presto,
presto piccolo mio" – sussurrò, chiedendosi come
avrebbe
spiegato ai suoi figli, un giorno, quella difficilissima situazione.
"Davvelo?".
"Certo,
davvero. Io verrò sempre da te".
"Sul
cavallo?".
"Certo,
sul cavallo. Ci andremo sopra insieme e quando sarai più
grande ti
insegnerò a cavalcare come ti ho promesso". Lo
baciò, deciso a
tenere fede a quella promessa, qualunque cosa fosse successa. Poi lo
strinse a se e, guardando Demelza, si accorse che aveva gli occhi
lucidi...
Voleva
abbracciarla ma non poteva...
Voleva
stringerla a se ma non le era più concesso... "Non fare
così".
"Vattene,
per ora vattene e basta. Se avrò qualcosa da dirti,
manderò Prudie
a Trenwith con un messaggio. Tu fai lo stesso con qualcuno della
servitù che avrai laggiù".
Lasciarla
in quello stato era la cosa più difficile che avesse fatto e
nel
viso sconvolto di Demelza e in quelle lacrime che si stava
costringendo a non versare, vide tutta l'entità dei suoi
errori.
Avrebbe voluto tornare indietro, essere un marito diverso. Ma non si
poteva e l'unica speranza che nutriva era che lei, un giorno,
l'avrebbe potuto perdonare.
Ma
ora, era il momento di andare...
Aveva
solo Jeremy da salutare ed abbracciare e per il momento si sarebbe
concentrato su di lui.
Lo
strinse forte, ancora. Ross non poteva saperlo ma quell'abbraccio era
un addio. La vita e il fato lo avrebbero allontanato a lungo da
Jeremy e sarebbe passato molto tempo prima che potesse rivedere suo
figlio.
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Se
qualcuno, anni dopo, le avesse chiesto di raccontare come era stato
vivere dopo che Ross se n'era andato a Trenwith, Demelza non avrebbe
saputo rispondere.
Visse
quel periodo in modo strano, confuso, come sospesa su una nuvola
avvolta dalla nebbia. Per settimane non provò nulla, non
pianse, non
si disperò, isolò il suo cuore e la sua mente da
ogni emozione e,
come un'automa, si limitò ad aggirarsi dentro le mura di
Nampara
sbrigando faccende domestiche, occupandosi del bucato, di Jeremy,
della casa e del giardino. Dwight veniva quasi ogni giorno a
visitarla con la scusa della gravidanza da tenere sott'occhio e
spesso la incitava a lasciarsi andare a piangere, a urlare... Ma lei
scuoteva la testa e diceva che non ne sentiva il bisogno, che andava
tutto bene così...
Era
difficile per Demelza capire quell'assenza di sentimenti che si era
impossessata di lei. Chiunque sarebbe impazzito, al suo posto!
Demelza amava un uomo che l'aveva abbandonata, era rimasta sola con
due bambini, avrebbe perso il suo nome di matrimonio e i suoi figli
il nome di famiglia eppure non sentiva nulla... O così le
sembrava... O in quel modo si illudeva...
Prudie
la osservava attentamente e si limitava ad assecondarla senza
chiedere nulla, forse capendo più di lei cosa si agitasse,
nascosto,
nel fondo della sua mente, pronta a sorreggerla quando fosse
crollata.
La
gravidanza si era assestata, anche da quel punto di vista tutto
pareva essersi congelato in un freddo da cui era difficile uscire. Il
bambino... o la bambina, scalciava con forza e cresceva, anche se lei
mangiava pochissimo e aveva perso peso, invece che metterlo. Ecco,
l'unica cosa che poteva suggerirle un turbamento era la scarsa fame e
la nausea costante che lei, cocciutamente, attribuiva solo al suo
stato fisico. E il pensiero strisciante che forse avrebbe preferito
essere ancora ad Illugan e che in fondo le botte di suo padre non
erano peggio di quello che stava vivendo...
Jeremy
si aggirava dentro il cortile di Nampara sperso. Giocava con lui,
rideva con lui, lo teneva nel lettone, tentava in ogni modo di fargli
apparire quella vita come qualcosa di normale ma il bambino, sebbene
molto piccolo, pareva avvertire quella sorta di strisciante tensione
che aleggiava sulla fattoria. E cercava il suo papà e
spesso, con il
pollice in bocca, lo chiamava piano... Ed era in quei momenti che
Demelza doveva far violenza su se stessa per essere glaciale e non
piangere, per impedire alle emozioni che voleva tenere nascoste di
uscire allo scoperto, distruggendola. Non poteva permettersi di
crollare, non ora, non per Jeremy e non finché il suo
piccolo non
fosse nato sano e salvo.
Ross,
da quel giorno, non era mai tornato. E del resto lei aveva sempre
saputo che non poteva che essere così...
Quando
lui le aveva promesso la sua presenza e l'impegno di esserci sempre,
per loro, era sincero e convinto delle sue parole e delle sue
intenzioni ma non avrebbe potuto... Ross si illudeva ma ciò
che
voleva fare era irrealizzabile. Elizabeth glielo avrebbe impedito e
dopo tutto qualsiasi moglie avrebbe fatto altrettanto.
Forse
in questo gioco perverso che era diventata la loro vita, tutto aveva
un senso. Ross aveva scelto di volgere il suo sguardo su Elizabeth e
con lei avrebbe dovuto costruire il suo futuro. Tenere allacciati i
rapporti con Nampara e con la sua vecchia famiglia, non avrebbe dato
la serenità necessaria al suo matrimonio con Elizabeth per
prosperare. Non poteva funzionare, MAI avrebbe potuto essere
altrimenti...
Non
sapeva cosa provasse, se odio o rassegnazione...
O
dolore...
Ma
no, quello non voleva provarlo, non poteva permetterselo e in fondo,
pensava, era solo se stessa che doveva rimproverare: aveva sposato un
uomo sapendo che non la amava e il cui cuore apparteneva da sempre a
un'altra e da sempre sapeva che, se ne avesse avuto l'occasione, Ross
sarebbe tornato da Elizabeth.
L'occasione,
sotto le spoglie di un bambino illegittimo, era arrivata...
Ross
diceva che lo faceva per dovere ma lei, dopo mesi in cui non era
esistita per suo marito, si era convinta che in fondo fosse
quell'antico sentimento verso Elizabeth, mai morto del tutto, ad
averlo spinto alla decisione finale.
Sapeva
che Ross soffriva per lei e Jeremy, sapeva che lui era consapevole
della gravità di quanto sarebbe successo e probabilmente il
suo
senso dell'onore e di giustizia lo facevano sentire in colpa.
O
forse no, forse non era tornato più perché,
semplicemente, si era
già scordato di tutti loro...
Non
sapeva nulla di lui, non dal giorno in cui se n'era andato
promettendo di tornare presto.
Finché,
tre settimane dopo, un servitore di Trenwith arrivò a
Nampara per
recapitare un messaggio di Ross.
"Spero
che stiate bene, tu, Jeremy e il bambino.
Perdonami
per non essere venuto a farvi visita ma è tutto molto
complicato per
me, molto più di quello che avrei immaginato.
Domani
mattina, verso le dieci, verrò a Nampara a prenderti. Ho
temuto
questo momento ma ormai non può più essere
rimandato. Il notaio
ingaggiato da Elizabeth ci aspetta a Truro prima di mezzogiorno per
la firma sui documenti dell'annullamento del matrimonio. Saremo solo
noi due, non voglio sia presente nessun altro. Se non ti senti bene,
se sei ancora obbligata a stare a letto, fallo sapere al mio
messaggero e organizzerò l'incontro col notaio a Nampara.
Perdonami,
se puoi. Se riuscirai a farlo tu, forse anche io un giorno
riuscirò
a perdonare me stesso".
Ross
Leggendo,
le parve che il suo
cuore si fermasse o rallentasse i suoi battiti.
"Dite al
vostro padrone
che lo aspetto quì, domattina, come stabilito nella lettera"
–
disse, con la freddezza che ormai era sua compagna di vita.
Prudie la
guardò con
grandissima preoccupazione ma nemmeno in quel momento
crollò. C'era
Jeremy e in fondo, perché piangere? Quel giorno sarebbe
arrivato, lo
sapeva...
Fu forte,
anche quella notte.
Non pianse e decise che non avrebbe mai voluto farlo! E al mattino
disse a Prudie di portare Jeremy alla spiaggia per farlo giocare.
Voleva essere forte ma non era certa di riuscirci e non voleva che il
suo bambino percepisse la sua disperazione, lo voleva sereno, aleno
lui.
Si
vestì con il suo soprabito
migliore, mise un cappello in testa e poi, osservando il lettino di
Jeremy, si chiese se stesse facendo la cosa giusta mettendo quella
firma. Era il volere di Ross, certo... Ma lei non avrebbe dovuto
lottare per tutelare i suoi bambini? Mettere quella firma, annullare
il loro matrimonio, non sarebbe stato solo un atto che poneva fine
alla loro storia di coppia ma avrebbe pregiudicato il futuro dei suoi
figli...
Ma d'altra
parte, che poteva
fare? Lei non era che la figlia di un minatore di Illugan e Ross
avrebbe comunque avuto tutti i mezzi per ottenere ciò che
voleva,
lottare sarebbe stato inutile. E poi, per cosa...? Lui amava
Elizabeth e lei non sarebbe stata disposta a una vita in disparte,
passata ad osservare suo marito che usciva di casa ogni volta che
poteva per correre da un'altra e tradirla ancora e poi ancora...
Non sarebbe
stato un bene,
nemmeno per i bambini, vivere così!
Quando Ross
arrivò in
carrozza, lei non disse nulla. Nampara era deserta e il vento pareva
essersi fermato, quel giorno. Faceva caldo, c'era afa e Demelza
sentiva una forte nausea a causa di tutto questo.
Non si
dissero nulla, quando
furono uno di fronte all'altra. Lei si sedette dal lato, lo
guardò
di sfuggita e poi osservò il panorama fuori dal finestrino.
Sembravano due estranei adesso e lo sarebbero stati da quel giorno in
avanti, per sempre...
Ross,
vestito bene e coi
riccioli perfettamente pettinati e domati, pareva rigido come lo era
stato il giorno del loro matrimonio. Il suo sguardo era come quello
di allora, una maschera impenetrabile ed immobile che non permetteva
agli altri di leggere i suoi sentimenti. Era indubbiamente teso e a
disagio ma Demelza non sapeva dire per quale motivo: se fosse per la
scocciatura di dover venire fino a Nampara a prenderla per sbrigare
quella formalità o per il dispiacere di quanto stava per
accadere,
lei non lo chiese e per molti anni visse con quel dubbio nascosto nel
cuore.
"Come
stai?".
Fu l'unica
cosa che lui le
chiese, con una voce che non sembrava nemmeno la sua. "Bene".
"E Jeremy?".
"Bene anche
lui...".
Non si
dissero nient'altro,
non ce n'era motivo. Era tutto così penoso, triste, pieno di
cose
lasciate in sospeso e non dette che era meglio tenere nascoste...
Avrebbe
potuto chiedere come
andava con Elizabeth, come si trovava a Trenwith, perché non
era
venuto a trovare Jeremy ma in fondo decise che non le interessava.
Si era
ripromessa di essere
forte e di non provare emozioni e così avrebbe fatto!
Fu solo
davanti al notaio, un
uomo anziano dall'aspetto bonario e pacioso e dai capelli ricci
completamente bianchi, che si sentì cedere.
Il suo
bambino le diede un
calcione proprio mentre il documento dell'annullamento fu davanti ai
suoi occhi ed ebbe lì davanti, nero su bianco, l'atto che
avrebbe
distrutto la vita sua e dei suoi figli.
Tremò
e sentì gli occhi
diventarle lucidi. Ma la cosa strana fu che pure Ross, nel medesimo
istante, ebbe le stesse reazioni...
Si
voltò verso di lui, lo
cercò con lo sguardo e silenziosamente lo implorò
di bloccarla, di
impedirle di firmare.
Fra loro,
sempre, nei momenti
più difficili le parole non erano mai state necessarie. Ross
poteva
leggere dentro di lei, sapeva che era in grado di farlo se avesse
voluto...
La mano le
tremolò ancora,
tanto che dal pennino cadde una goccia di inchiostro nero sulla
scrivania. "Perdonatemi, signore" – disse quasi a
scusarsi col notaio, con voce rotta.
L'uomo la
guardò e nel suo
sguardo lesse pietà. "Non preoccupatevi, la mia domestica
pulirà più tardi".
Fu a quel
punto che Ross le
sfiorò la mano, stringendola nella sua. Era calda,
confortevole,
forte. "Demelza...".
In quel
momento desiderò non
essere forte come si era ripromessa...
In quel
momento desiderò solo
che lui le strappasse di mano la penna, la abbracciasse e la portasse
via. Non importava dove, come avrebbero vissuto e quanto ci avrebbero
messo a superare quell'incubo. Voleva solo andare via, con lui, a
prendere Jeremy e poi scappare insieme lontano da tutto questo.
Ross per un
attimo, come
leggendole nel pensiero, parve desiderare la stessa cosa.
Le loro
mani si strinsero più
forte e per un istante si sentirono forti come una volta...
Per un
attimo i loro sguardi
si incrociarono e tutto fu come sospeso, come se il tempo si fosse
fermato cristallizzando i loro desideri.
Ma poi Ross
tornò alla
realtà, ai suoi doveri, al peso della sua decisione. Le
accarezzò
la mano, delicatamente, quasi con amore, un amore che non poteva
più
provare, non ora che aveva scelto Elizabeth... "Mi dispiace"
– disse solo, con voce strozzata e sofferente.
E Demelza
capì che voleva
quella firma e che non si poteva tornare indietro. Deglutì,
raccolse
tutta le sue forze e la sua dignità per non scoppiare a
piangere e
poi firmò...
E quando
Ross ebbe fatto
altrettanto, il bimbo scalciò di nuovo con forza.
Guardò
suo marito che non lo
era più, sentendosi quasi svenire...
Quell'uomo
forte, coraggioso,
giusto e battagliero che l'aveva sposata e di cui lei andava fiera,
non era più suo marito.
E lei era
tornata ad essere
Demelza Carne, una povera ragazza di Illugan. Madre di due bambini
illegittimi...
Il notaio
tossicchiò. "Bene,
la transazione è conclusa. Auguro ad entrambi buona fortuna.
Signor
Poldark, entro pochi giorni depositerò l'annullamento in
tribunale e
al massimo settimana prossima, potrete procedere alle pubblicazioni
per il matrimonio con la signorina Elizabeth Chynoweth".
Demelza non
disse nulla, non
ne aveva la forza ma in quel momento le sembrò di odiare
tutti.
Al diavolo
le buone maniere,
al diavolo tutto, al diavolo il saluto di commiato al notaio.
Lasciò
la mano di Ross, calda e confortevole, e uscì dalla porta,
decisa a
tornare a Nampara da sola.
"Demelza,
aspetta".
Ross le fu
dietro e sentì i
suoi passi veloci avvicinarsi e il suo braccio catturarla prima che
potesse raggiungere la strada. "Lasciami" – disse, senza
voltarsi.
"Devo
parlarti, devo
spiegarti, devo...".
"Non mi
devi nulla. Fammi
andare a casa, sono stanca e il bambino è pesante".
"Ti porto
io a Nampara"
– disse lui, come a corto di parole.
Lei
sorrise, tristemente. "Non
è necessario".
"Certo che
lo è!".
Ross indicò lo studio del notaio e il suo sguardo divenne
disperato.
"Quello che è successo la dentro, non cambia nulla per me!
Per
ciò che tu rappresenti, assieme ai nostri figli".
"Certo...
Ma sono solo
parole visto che, nelle ultime settimane, non sei mai venuto a vedere
Jeremy come avevi promesso".
Ross
sospirò, abbassando il
capo. "Elizabeth sta male, sta sempre a letto! E ogni volta che
le parlo di te e dei bambini, di Nampara, ha contrazioni che ci
spingono a chiamare il dottore. Non so cosa fare...".
Demelza
scosse la testa, come
si aspettava Elizabeth stava sfoderando tutte le armi che aveva a sua
disposizione per tenere Ross incatenato a se. Era brava in questo,
molto più di quanto non fosse mai stata lei. "A novembre
nascerà il bambino. Verrai a conoscerlo, quanto meno?".
"Certo, non
potrei
mancare per nulla al mondo! E verrò anche prima, per Jeremy".
A quelle
parole, lei si
allontanò. "No, non lo farai e lo sai anche tu! Elizabeth
avrà
sempre le contrazioni, ogni volta che tenterai di farlo...".
Era
ironica, anche Ross se ne
accorse. "E' un incubo Demelza, per me quanto per te.
Credimi...".
"Non voglio
parlare di
questo, Ross. Voglio solo che tu ci sia, quando il bimbo
nascerà".
"Ci
sarò!".
Demelza lo
guardò e volle
credergli. Ma tutto andava a rotoli e, anche se ancora non era
riuscita a piangere, sapeva di essere distrutta come non le era mai
capitato nella sua vita. E si chiese, silenziosamente, se sarebbe mai
stata capace di essere felice di nuovo.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Il
giorno in cui era morta Julia, Ross aveva pregato silenziosamente Dio
di non fargli più rivivere un dolore simile. Di uccidere lui
piuttosto ma MAI avrebbe più voluto assistere alla morte di
una
persona che amava, di un amore, di un figlio...
Dopo
la morte della sua bambina si era svegliato spesso di soprassalto, di
notte, col fiato corto e il cuore che pareva frantumarsi in mille
pezzi. Incubi... Ricordi di quel dolore lancinante che mai se ne
sarebbe andato via del tutto e che sempre tornavano a tormentarlo...
Julia
sarebbe sempre stata un'ombra nel cuore di Ross, il suo più
grande
fallimento, il più grosso rimpianto...
Aveva
sperato che le sue preghiere potessero trovare accoglimento eppure
nel momento in cui lui e Demelza avevano apposto quelle firme e
avevano annullato il loro matrimonio, aveva sentito il suo cuore
andare nuovamente in frantumi. Ed era stato doloroso come quando
aveva perso Julia...
Per
un attimo Demelza, che fino a quel momento si era dimostrata tanto
forte e fiera, aveva vacillato. Lo aveva guardato con quello sguardo
implorante, in silenzio i suoi occhi lo avevano supplicato di
portarla via, di scappare insieme da quell'incubo con il loro bambino
verso un posto lontano dove nessuno li conosceva e dove avrebbero
potuto ricominciare da zero.
Aveva
desiderato la stessa cosa, nel medesimo momento...
Fregarsene
della parola data ad Elizabeth, delle responsabilità, del
suo
onore...
Avrebbe
voluto prendere quella donna che, da quando se n'era andato da
Nampara, gli mancava come l'aria e con Jeremy scappare via, solo
loro. E al diavolo tutto il resto!
Ma
poi la ragione, stranamente per uno come lui, aveva prevalso.
Le
aveva stretto la mano, aveva cercato di imprimere in se il calore
della pelle di Demelza contro la sua rendendosi conto che, nonostante
tutte le promesse che le aveva fatto, ora sarebbe stato tutto
difficile e che pian piano si sarebbero persi per sempre.
Lui,
lei, i loro figli...
Sarebbe
gradualmente diventato un estraneo per loro, per loro che riteneva la
sua vera e unica famiglia, quella famiglia a lungo bistrattata,
dimenticata, data per scontata e che aveva distrutto con la follia di
una notte.
Aveva
perso tutto ciò che amava e lo meritava anche, ma non era
questo che
lo faceva stare così male. Era aver fatto del male a Demelza
e a
Jeremy, l'esserne consapevole, che lo annientava...
Lui
avrebbe sofferto, in fondo se l'era cercata.
Ma
lei no, non Jeremy, non il loro piccolo in arrivo...
Aveva
distrutto tutto ciò che rendeva la sua vita degna di essere
vissuta
e aveva trascinato nel baratro tutto coloro che, nonostante i suoi
difetti e i suoi mille colpi di testa, gli erano sempre stati accanto
amandolo per quello che era.
Aveva
fatto qualcosa di orribile, firmando quel documento: aveva reso
Demelza una ragazza-madre e aveva reso i suoi bambini dei piccoli
senza nome... Sarebbero stati chiamati 'bastardi' e in mille altri
modi orribili ed era stato lui a renderli tali.
Si
chiese se avrebbero potuto perdonarlo, un giorno. E amarlo come un
padre, di nuovo...
Era
difficile crederlo, sperarlo, aveva il baratro davanti a se.
Viveva
a Trenwith, in una casa di famiglia che aveva sempre visto da lontano
ma che mai avrebbe sentito sua, con una donna che aveva desiderato a
lungo e che, ora che l'aveva, aveva capito essere stata il
più
grande errore e la più crudele illusione della sua vita.
E
c'era un nuovo bambino in arrivo, la causa di tutto quel disastro, un
figlio suo che non voleva, che era reale e che desiderava fosse un
incubo, un essere vivente di cui non si sentiva padre e forse mai
sarebbe riuscito ad esserlo.
In
miniera, i suoi vecchi amici e compagni di gioie e dolori, appena
saputa la notizia dell'annullamento del suo matrimonio, si erano
allontanati con freddezza. Se lo aspettava, amavano Demelza e avevano
una grande stima di lui come uomo, fino a quel momento... E ora? Ora
sguardi ostili lo accoglievano ogni mattino alla Wheal Grace e di
quel calore che faceva sembrare quella miniera una seconda famiglia,
non era rimasto nulla. Lo avevano abbandonato anche i suoi amici,
prima Dwight e poi Zacky e gli altri. Nessuno si era licenziato, era
ovvio che tutti loro avevano bisogno di lavorare e che lui era lunico
sostentamento per le loro famiglie, ma per il resto era trattato
freddamente come se per loro fosse un estraneo.
Avevano
perso pure loro, minatori spesso ubriachi e maneschi, la stima verso
di lui come uomo...
Agatha,
a Trenwith, era stata felice della sua scelta. Nella sua logica di
vecchia matriarca della famiglia, lui aveva preso l'unica decisione
giusta. Era un tipo di pensiero egoista ma Ross non si sentiva di
condannarla. Era cresciuta con quei principi e non poteva cambierli
ora, che aveva quasi cent'anni. Jeoffrey Charles era stato contento
della novità di averlo a casa, accanto alla madre. Era
troppo
piccolo ancora, per capire l'entità di quella scelta e di
quello che
avrebbe comportato per tanti. Aveva perso il suo papà e da
sempre si
erano voluti bene, loro due, ma l'amarezza riusciva a mandare di
traverso anche l'unico rapporto vero e gioioso che aveva in quella
casa. Guardava Jeoffrey Charles e pensava a Jeremy che aveva
abbandonato. Come poteva giocare con un bambino, metterlo a letto,
ridere con lui quando aveva abbandonato i suoi figli?
Aveva
promesso a Jeremy e a Demelza di andare spesso a trovarli ma poi non
era riuscito mai a farlo. Elizabeth stava male, adduceva lo stress
della situazione a Nampara come causa di quella gravidanza complicata
ma non era questo che aveva impedito a Ross ad andare a far visita ai
suoi cari. Spesso, di nascosto, aveva galoppato fino a Nampara. Ma
poi si era fermato, vinto dai sensi di colpa e dalla paura che, se
fosse entrato in quella casa, sarebbe crollato e non sarebbe
più
riuscito ad andarsene...
E
poi era terrorizzato. Aveva paura di vedere il dolore e la delusione
sui volti di Demelza e Jeremy, di vedere quanto quella firma avesse
distrutto le loro vite...
Aveva
creduto di potere esserci per tutti ma ora sapeva che Demelza aveva
ragione: non poteva, non avrebbe mai potuto... Se n'era andato, li
aveva abbandonati a loro stessi e non poteva tornare indietro, non
c'era modo...
Aveva
fatto una scelta, aveva deciso di avere dei doveri altrove e l'unica
consolazione era il sapere che Prudie badava a Demelza come a una
figlia e che se ci fosse stata un'emergenza lo avrebbe chiamato,
portandolo a Nampara a calci nel sedere.
Elizabeth,
dopo l'annullamento del matrimonio, si era addolcita. Forse per il
fatto che la situazione con Demelza fosse stata ufficializzata, forse
per imbonirlo, forse chissà per quale strano motivo... Se la
guardava da lontano, senza pensare al fallimento che era diventata la
sua vita, in alcuni istanti le sembrava la sedicenne di cui si era
innamorato tanti anni prima...
Eppure
era un'illusione che durava poco. Amore, matrimonio e famiglia
significavano, per lui, condivisione di gioie e dolori. Aveva
sofferto in quelle settimane per quanto aveva fatto a Demelza e se
Elizabeth avesse dimostrato di capirlo e comprenderlo, di fare un
pò
suo il dolore di Demelza e Jeremy e dispiacersi per loro, forse
avrebbe visto il suo futuro con lei meno cupo. Invece nulla, tanto
che si era chiesto se lei avesse un cuore, se lo avesse avuto e poi
perso o se l'avesse sempre ingannato con moine e sorrisini a cui lui
aveva sempre creduto. Non c'era nulla che potesse condividere con
lei, non i suoi sentimenti, non i suoi pensieri, non le
preoccupazioni per la miniera e i minatori, niente di niente!
Sarebbe
stato un matrimonio solo di facciata e lui sarebbe morto dentro poco
per volta, lontano da chi amava e aveva trascurato e poi
abbandonato... Non se n'era mai accorto prima di quel momento, non
aveva mai realizzato se non dopo averla persa, quanto Demelza facesse
parte di lui, quanto l'avesse reso un uomo migliore e quanto lontano
era andato, grazie a lei e al suo supporto. E ora non c'era
più...
Quei lunghi capelli rossi, quegli occhi verde-azzurro, quel sorriso
dolce non gli sarebbero più appartenuti e a lui mancavano
come
l'aria.
Si
chiese se agli uomini fosse concessa una seconda
opportunità, nel
tempo e nello spazio... Si chiese se mai sarebbe arrivato un giorno
in cui sarebbe stata di nuovo sua e avrebbero potuto essere ancora,
insieme, una famiglia felice.
Ma
fino a quel momento, se mai fosse arrivato, lui che uomo sarebbe
stato? Un uomo a metà probabilmente, senza voglia di vivere
e senza
voglia di imbarcarsi in nessun obiettivo...
Sarebbe
appassito, come appassiscono i fiori in autunno senza acqua e senza
luce... Perché Demelza era la sua luce...
Siccome
Elizabeth continuava ad accusare dolori e malesseri che, a suo dire,
la costringevano a letto e le creavano ansia assieme alla faccenda di
Nampara, Ross aveva imposto un matrimonio a Trenwith, solo fra loro,
senza festa né ospiti. Avevano chiesto ai domestici di far
da
testimoni e il Reverendo Halse aveva celebrato la cerimonia nel
salone, dopo che Elizabeth si era arresa a quelle sue scelte e aveva
smesso di lottare per una festa più in grande.
Elizabeth
non era stata contenta di quella decisione, avrebbe voluto un
matrimonio elegante ma Ross era stato fermo nella sua decisione. Lo
aveva voluto come marito e avrebbe dovuto imparare a convivere coi
lati più oscuri del suo carattere, quelli che in quel
periodo
avevano preso il sopravvento.
E
poi, dopo averle fatto notare che non riusciva ad alzarsi dal letto,
lei aveva dovuto abbozzare con una smorfia, mordersi la lingua e
accettare.
Aveva
detto quel sì con un peso nel cuore, senza un sorriso o uno
sguardo
amorevole alla sposa. Quando aveva sposato Demelza era confuso e
stupito di essere giunto a quella scelta ma in un certo senso aveva
sentito il suo animo leggero, allora...
Con
Elizabeth non era così, con lei pronunciare quel
sì era equivalso a
sentirsi condannato a una prigione eterna. Per un attimo l'aveva
guardata e si era soffermato a pensare a quanto l'aveva desiderata
senza rendersi conto di avere già tutto quello di cui aveva
bisogno
e lo rendeva felice.
Ora
era sua moglie e si sentiva un mostro: verso di lei, antica illusione
finita in cenere e che mai avrebbe reso felice, verso Demelza e i
loro bambini, verso il piccolo che aspettava Elizabeth che non
sarebbe mai riuscito ad amare del tutto, verso Jeoffrey Charles che
in lui sperava di trovare un nuovo padre e che per questo sarebbe
rimasto deluso. Agatha sorrideva, soddisfatta... Forse solo lei
riusciva a vedere del bene in quel matrimonio, solo lei e i suoi
quasi cent'anni...
Elizabeth,
vestita con un abito color avorio, lo aveva sposato con aria
sgomenta, forse rendendosi finalmente conto anche lei che non erano
fatti per stare insieme e che lui non avrebbe mai potuto darle la
vita che aveva sognato. Ecco, forse in quel momento anche lei, come
lui, si era sentita in trappola...
Dopo
la cerimonia, avevano offerto dei dolcetti voluti da Jeoffrey Charles
alla scarsa servitù di Trenwith e poi, una volta congedati
tutti e
rimasti soli, Agatha aveva insistito per essere lei a mettere a letto
il bambino. "Tua madre ha un marito adesso, per stasera lascia
che pensino a loro e che a te ci pensi io".
Jeoffrey
Charles aveva annuito, sorridendo contento. Si era avvicinato loro
che, imbarazzati, avevano assistito alla scena e poi dopo aver dato a
entrambi il bacio della buona notte, era corso sulle scale. "Zia
dai, andiamo! Prima di dormire mi leggi i tarocchi?".
Agatha,
tutta eccitata, dopo aver lanciato loro un'occhiata maliziosa, era
salita sulle scale con passo piuttosto svelto.
Ross
la osservò salire e appena sentita chiudere la porta della
cameretta
di Jeoffrey Charles, si incupì. Era meglio mettere le cose
in
chiaro! "Io continuerò a dormire nella camera degli ospiti,
ovviamente!". Non riusciva nemmeno a concepire l'idea di
condividere nuovamente un letto con lei. Dopo quella notte maledetta
era scappato e il suo cavallo lo aveva ricondotto a Nampara, quasi
sapesse che il suo cuore apparteneva a quel luogo. E ora dormire con
Elizabeth, svegliarsi con lei accanto, condividere con lei
intimità,
preoccupazioni, pensieri o semplici risate dopo che era stata Demelza
la sua compagna, per anni, gli sembrava assurdo. Non riusciva, non
poteva!
Lei
sussultò. "Siamo sposati, ora! E tutto quello che riesci a
fare
è respingermi. Anche prima, mi hai dato un bacio talmente
freddo e
veloce, quando il prete ci ha sposati...".
Lui
si appoggiò al tavolo, sospirando. "Pensi che per me sia
facile?".
Gli
occhi di lei divennero lucidi. "E tu pensi lo sia per me?".
"Sì,
lo è!" - esplose. "Lo è, lo è sempre
stato. Decidere che
dovevo venire quì, decidere di distruggere la vita di
Demelza senza
averne alcun rimorso e pretendere che io da un giorno all'altro
cambiassi totalmente la mia esistenza col sorriso sulle labbra,
è
stato facilissimo per te!!! Lo hai preteso e ne hai ogni diritto
visto quanto è successo ma vederti esserne contenta
è troppo per
me! Ti ho sposata, ho salvato la tua reputazione, ti ho legittimata
come moglie e compagna abbandonando a se stessa Demelza e i miei
figli! Ma non pretendere di più di questo, non posso
dartelo...".
Lei
si morse il labbro. "Ross, ci siamo desiderati tanto, tanto a
lungo... Lo so che per te è difficile iniziare una nuova
vita e va
bene, ti do tempo. Ma dammi un'opportunità per trasformare
questo
matrimonio frettoloso in qualcosa di bello".
Ross
sorrise amaramente, pensando a quanto in passato l'avesse desierata
tradendo Demelza col pensiero, prima che coi fatti... "La
verità
è che non siamo più ragazzini... Siamo cambiati,
non siamo più
quelli di allora e vogliamo cose diverse. Doveva succedere questo
disastro prima che me ne accorgessi...".
Elizabeth
si toccò il ventre leggermente accentuato. "Disastro? Che
brutto modo di chiamare tuo figlio...".
"Non
sarebbe dovuto esistere e tu lo sai...".
Lei
si indurì. "Ma c'è!".
"E
io ci sarò per lui o lei. Sono quì per questo
bambino".
Elizabeth
si avvicinò, prendendogli la mano. "E non per me?".
Cosa
poteva dirle? Come poteva spiegarle che non era lei la donna che
voleva accanto? "Io mi sento sposato ancora con Demelza e non so
se questa cosa potrà mai cambiare".
"Demelza?
Ancora Demelza?" - urlò lei. "E' finita, Ross! Sei mio
marito, ORA!!!".
La
guardò con odio. La odiava ogni volta che parlava
così, con quella
noncuranza, di Demelza. "Era mia moglie, la amavo e mi ha dato
dei figli e una vita felice! E' stata la mia compagna, la mia
migliore amica, la mia socia, la mia sostenitrice nelle battaglie che
ho intrapreso e che abbiamo condiviso insieme, per la maggior parte
del tempo senza avere nemmeno i soldi per mangiare! E ha salvato
Jeoffrey Charles a discapito di nostra figlia e mettendo a
repentaglio la sua salute, nel caso lo avessi dimenticato! E voglio,
PRETENDO che tu le porti rispetto".
Elizabeth
accarezzò il legno del tavolo, con gli occhi lucidi, forse
ricordando i giorni orribili della gola putrida. "Ross, io so
che lei ha fatto molto per noi e mi dispiace. Ma...".
"Ma?".
Si
accarezzò il ventre e la sua espressione divenne decisa. "Io
vivo per i miei figli e ogni cosa che faccio, la faccio per il loro
bene! E per il loro bene, per proteggerli e garantire loro un futuro,
sono disposta a schiacciare chiunque senza guardarmi indietro. Sono
disposta a mettere a tacere la mia coscienza e il mio cuore e ad
andare contro a sentimenti di solidarietà e
bontà, se necessario.
Sono una madre e questo è quello che fanno le madri. E
dovresti
esserne contento, per il bambino che aspetto da te".
Ross
scosse la testa. "Le madri devono essere d'esempio ai loro
figli... Insegnare loro ad essere brave persone pur facedo
sacrifici... Questo fanno le madri...".
"Anche
i padri!" - ribatté lei. "E un padre dovrebbe mostrare ai
figli rispetto per la loro madre!".
"Non
ti rispetto?".
"Non
vuoi dormire con me, Ross!".
Ross
sorrise, sarcastico. "A nostro figlio, per ora, questo non
importa. Non è ancora nato".
"E
quando nascerà?" - chiese lei, con una nota di disperazione
nel
tono di voce.
"Vedremo...
Per ora viviti la tua gravidanza difficile comodamente, senza
disturbi da parte mia, in camera tua. Poi ci penseremo... In fondo
è
per il tuo bene, no?". Dopo tutto non c'era solo sarcasmo in
quelle parole, era anche per le sue condizioni di salute... Se lei
stava tanto male come diceva, averlo a letto non avrebbe fatto altro
che aumentare il suo stress.
"Ross,
sono tua moglie e voglio tutto di te! E so che lo sai, non puoi non
saperlo che ti ho sempre amato".
"Tu
hai già tutto quello che io posso darti e non posso
assicurarti di
riuscire a darti altro, in futuro" – rispose lui, amaramente
–
"E anche io ti ho amata".
"Parli
al passato..." - commentò lei, con la stessa amarezza.
"Già".
Elizabeth
deglutì. "Lo amerai?".
"Chi?".
"Il
nostro bambino?".
Ross
scosse la testa, sentendo una gran pena per tutta quella situazione.
"Ci proverò...". E poi, mestamente, le voltò le
spalle.
Salì le scale con passo pesante, stanco come se avesse anche
lui
cent'anni come Agatha, e poi in camera sprofondò nel letto,
annegando se stesso e i suoi dispiaceri nel buio di quella notte
senza stelle né luna.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
L'inverno
era arrivato in anticipo e gli ultimi mesi di gravidanza di Demelza
erano stati difficilissimi. Il freddo, la stanchezza fisica e mentale
e la tristezza infinita che l'accompagnava sempre, avevano reso il
suo stato d'animo logorato e sfinito.
Non
era mai stata tanto stanca in vita sua nemmeno ad Illugan e forse
sarebbe stata stanca per sempre...
Era
ricaduto tutto sulle sue spalle da quando Ross se n'era andato. Lui,
come aveva immaginato fin dall'inizio, non era mai venuto ma sperava
che, col parto, quella situazione di stallo avrebbe potuto sbloccarsi
per il bene dei bambini. Di se stessa le importava poco, quello
strappo al suo cuore dopo l'annullamento del matrimonio l'aveva resa
apatica a tutto e non si aspettava nulla di buono per se stessa. Il
dolore di aver perso Ross era stato troppo, l'aveva annientata e non
essere mai riuscita a piangere aveva reso il suo cuore duro come
pietra e impermeabile ad ogni emozione...
Si
chiedeva spesso se e quando sarebbe crollata ma sapeva di non
poterselo permettere per Jeremy e per il bene del bambino che
aspettava. Doveva essere forte, lei per tutti. Anche se aveva perso
l'amore... Il suo uomo... Colui che, nel mondo, era l'unico a farla
sentire completa... La sua ragione di vita...
Per
fortuna aveva due meravigliosi angeli custodi accanto, Prudie che le
era vicina come una mamma e Dwight, sempre disponibile e scrupoloso,
che la seguiva sia come medico che come amico. Erano i suoi unici
appigli, gli unici a cui appoggiarsi quando sentiva che tutto era
troppo e che quella situazione l'avrebbe schiacciata.
Zachy,
dalla miniera, veniva ogni settimana a portare del denaro da parte di
Ross ma Demelza aveva deciso di contare solo sulle sue forze per il
proprio sostentamento, affidandosi ai doni della terra di Nampara.
Non voleva la carità, non voleva nulla da lui!
Aveva
usato una parte di quel denaro solo per Jeremy, quando ce n'era stata
effettiva necessità. Il resto lo aveva chiuso in un
cassetto, dentro
a una busta e lo avrebbe restituito a Ross appena lo avesse visto.
Non
sapeva perché era rimasta, in quei mesi si era chiesta
spesso perché
non era andata via e non aveva tentato di ricominciare una vita
altrove. Se non fosse stato per Jeremy e per il bambino e per la vaga
promessa di Ross di essere presente nella vita dei loro figli, se ne
sarebbe già andata. Ma doveva dare una
possibilità a quella
promessa, lo doveva ai suoi figli più che a Ross. Doveva
tentare
prima di arrendersi e anche se era consapevole che difficilmente lui
sarebbe riuscito ad essere un padre presente, voleva accertarsene di
persona prima di gettare la spugna e andarsene coi suoi figli.
La
gravidanza, nonostante tutto, era proseguita senza troppi problemi.
Il bambino era vispo, scalciava spesso e viste le dimensioni del suo
girovita, doveva essere pure bello grosso.
Jeremy,
la sera, le accarezzava il pancione e fingeva di parlare col
fratellino o la sorellina ed era il momento più dolce della
giornata
per lei, quello, dove si sentiva amata e protetta dalla presenza dei
suoi figli.
Il
resto della giornata non era così, il resto della giornata
era duro
e difficile. Si sentiva sola, spaventata dal futuro e ogni cosa le
sembrava impossibile da superare senza Ross...
Eppure
stringeva i denti, volta per volta, e ce la faceva...
Sempre...
Non
aveva altra scelta se non essere forte, soprattutto per Jeremy. Da
quando Ross se n'era andato, era diventato agitato e capriccioso e
spesso aveva dovuto imporsi a lui con fermezza, quando il bimbo aveva
superato il limite. Faceva storie per mangiare e spesso la notte si
svegliava in lacrime. La cercava ma cercava anche Ross...
E
in quel momento le si stringeva il cuore perché Jeremy
aspettava il
suo papà, non capiva perché non lo vedesse
più e una volta le
aveva chiesto, stentatamente, se se ne fosse andato perché
lui era
stato cattivo.
Aveva
odiato Ross, in quel momento... Quanto male stava facendo a Jeremy?
Ne era almeno consapevole?
Lo
aveva abbracciato, aveva asciugato le sue lacrime e gli aveva detto
che no, non era per quello, che il suo papà aveva delle
faccende
urgenti lontano da casa e che non poteva tornare ma che, alla nascita
del fratellino, sarebbe corso da loro.
E
da allora, ogni mattina, Jeremy aveva chiesto se era arrivato il
giorno della nascita. Aspettava il fratellino ma soprattutto,
aspettava il suo papà... E Demelza pregava in silenzio che
Ross
mantenesse la parola data e che venisse perché in caso
contrario
avrebbe distrutto il cuore di Jeremy e tutto quello che avrebbe
potuto venire...
La
mattina del 20 novembre iniziò in maniera gelida. I campi
erano
coperti di brina, il cielo nuvoloso e spirava da nord un vento freddo
che pareva voler congelare ogni cosa.
Demelza
si svegliò per una fitta al ventre che, da quanto era
potente, le
fece mancare il respiro. Guardò fuori dalla finestra e vide
che
c'era già un pò di luce e che quindi l'alba
doveva essere passata e
rimase ad aspettare. Ma quando, dopo cinque minuti di
immobilità
arrivò una seconda fitta, si convinse ad alzarsi dal letto e
ad
andare a chiamare Prudie. Era arrivato il momento ed era da qualche
giorno che se lo aspettava... Aveva avuto spesso contrazioni e fitte
durante l'ultima settimana e a conti fatti, quelli erano i giorni
indicati da Dwight come i possibili per il parto.
Aveva
paura di quel parto... Per la prima volta in vita sua era
terrorizzata perché sarebbe stato il momento della
verità: per mesi
si era chiesta cosa facesse Ross, cosa pensasse, se sarebbe venuto
dai bambini...
Ora
avrebbe avuto ogni risposta e aveva paura... Paura che venisse, paura
che non venisse... Ogni soluzione la terrorizzava per il carico di
emozioni e decisioni che avrebbe portato con se.
Sapeva
solo, al momento, che era sola. E che doveva partorire con le poche
forze che le erano rimaste.
Prudie,
approfittando del fatto che Jeremy dormisse ancora, era corsa verso
la residenza di Dwight e Caroline infagottata come un pinguino, con
indosso ancora la camicia da notte che non aveva fatto in tempo a
togliere e che aveva coperto con gli abiti da lavoro e il mantello.
Demelza
rimase a letto, in attesa, attenta a non lamentarsi per non far
svegliare Jeremy. Se suo figlio si fosse accorto del trambusto e si
fosse agitato, non sarebbe stata in grado di prendersene cura.
Dwight
arrivò in fretta e per fortuna giusto in tempo,
perché le
contrazioni divennero subito ravvicinate e forti, segno che il parto
sarebbe stato estremamente veloce.
Prudie
corse a dare un occhio a Jeremy e per fortuna il bambino non si era
svegliato, poi tornò in camera con bacinelle d'acqua,
stracci e
asciugamani.
Dwight
le prese la mano, sorridendole e accarezzandole la fronte. "Pare
che questo bambino abbia estremamente fretta di nascere, credo che
sarà un parto rapido".
Nonostante
i dolori, Demelza gli sorrise. Una buona notizia, finalmente! "Mi
spiace di averti buttato giù dal letto a quest'ora, con
questo
freddo".
Dwight
le strizzò un occhio. "Caroline, visto che la partoriente
sei
tu, mi ha dato il permesso di venire... Ma non ho molto tempo e
quindi sù, facciamo nascere questo bambino".
Demelza
annuì e si accorse di avere paura. Non per il parto in se ma
per
quello che avrebbe comportato... Se Ross non si fosse fatto vivo,
avrebbe dovuto prendere decisioni importanti e la
responsabilità dei
due bambini sarebbe ricaduta tutta su di lei. "Se almeno fosse
diverso... Se lui...".
Dwight
le strinse la mano, vigorosamente. "Non pensarci, non adesso! A
tutto c'è rimedio Demelza e ora devi concentrarti unicamente
sul
parto così che, quando Jeremy si sveglierà, si
troverà con un
nuovo fratellino o una sorellina. Questo è un bel giorno per
te,
Demelza! Ricordatelo!".
"Sì".
Chiuse gli occhi, decise che lui aveva ragione e raccolse tutte le
sue forze. Si lasciò guidare da Dwight che, in quei momenti
concitati fu medico oltre che amico, tentò di non urlare per
non
svegliare suo figlio, si aggrappò con forza a Prudie che la
sosteneva mentre spingeva e alla fine, alle otto in punto del
mattino, lei nacque... E il suo pianto, come quello dei bambini nati
prima di lei, gli parve il suono più bello del mondo.
"E'
una bambina! Santo cielo, è pure bella grossa!" -
esclamò
Dwight contento, tenendo la neonata in braccio.
Demelza
si accasciò sul cuscino e Prudie corse a prendere una
copertina con
la quale avvolse la bambina.
"Sta
bene?" - chiese Demelza, col poco fiato che aveva in corpo.
Dwight
osservò la piccola che piangeva stizzita e pareva voler far
tremare
i vetri con la sua voce. "Direi che ha degli ottimi polmoni ed
è
piuttosto arrabbiata per il trambusto che ha dovuto vivere. La senti
strillare? Questa bambolina sta meglio di tutti noi messi insieme,
scoppia di salute ed è assolutamente bellissima".
Le
si avvicinò piano, poggiandole dolcemente la piccolina sul
petto.
Demelza la strinse a se e la guardò, in un misto di gioia
autentica
e vera per essere diventata mamma e di dolore perché Ross
non era
lì, ad accogliere alla vita la loro bambina. Era bellissima,
talmente bionda da non vedersi quasi i capelli, con delle manine
affusolate dalle dita lunghe, la carnagione chiara e gli occhioni
azzurro-verdi come i suoi. Le sue guance erano piene e, anche se non
somigliava per nulla a Ross, aveva ereditato da suo padre lo sguardo
fiero e l'espressione di chi sa quello che vuole.
La
bimba, fra le sue braccia, smise di piangere. Demelza la
baciò sulla
testolina, rendendosi conto che aveva fra le braccia la sua ragione
di vita, assieme a Jeremy. Nonostante il dolore di quanto vissuto in
quei mesi, nonostante Ross non avesse fatto parte di quell'attesa e
di quella nascita spezzandole il cuore, nonostante la paura e le
incognite del futuro, guardandola sentì di amarla e basta. E
che in
quel momento il resto non contava.
"Sembra
una principessina, ha un aspetto nobile..." - disse Prudie,
guardando la neonata.
Demelza
cullò la piccola e sorrise a quelle parole, annuendo. "E'
vero"
– sussurrò, tentando di attaccarla al seno per
allattarla. La
bimba la osservò con il pugnetto della mano in bocca e poi,
come se
non avesse fatto che quello da sempre, si mise a succhiare il latte
con voracità.
Dwight
le accarezzò la spalla. "Complimenti, è
bellissima e te la
meriti tutta, questa bambina. Goditela...".
"Ci
proverò".
"Come
la chiamerai?".
Demelza
ripensò a quegli ultimi mesi dove, per distrarre Jeremy, si
era
impegnata con lui a scegliere il nome del bambino in arrivo. Suo
figlio si era lasciato prendere dal gioco e aveva inventato nomi di
fantasia assurdi che, in quel momento tanto difficile, erano riusciti
a farla ridere. Ecco, se c'era un qualcosa che poteva renderla
ottimista, qualunque cosa fosse successa, erano i suoi figli. Ora ne
aveva due e sarebbero sempre stati fonte di sorprese e gioie per lei.
"Clowance, lei si chiamerà Clowance... Carne".
Lo
sguardo di Dwight si fece serio mentre Prudie, impallidendo,
voltò
la testa atrove. "Demelza...".
Lo
sguardo della donna si indurì e richiamò entrambi
all'ordine. "Non
voglio pietà, posso farcela e ormai le cose stanno
così, è inutile
far finta che la realtà sia diversa. Quindi, per favore, non
guardatemi in quel modo" – disse, stringendo a se la piccola
Clowance.
Dwight
le sorrise dolcemente, sedendosi sul letto accanto a lei. "Hai
ragione, scusa. Trovo che il nome Clowance sia bellissimo e stia
davvero bene a questa bambina".
"E'
un nome elegante e lei sembra una bambina elegante, anche se strilla
come un'aquila quando piange".
Dwight
alzò gli occhi al cielo, sospirando. "Tutte le donne
eleganti
strillano come aquile e fanno capricci..." - commentò,
pensando
scherzosamente a Caroline.
Nonostante
fosse stanca, Demelza rise. "Come sei confortante, Dwight...".
Il
medico rispose al sorriso mentre Prudie prendeva gli asciugamani
sporchi e preparava l'occorrente per aiutare madre e figlia a
lavarsi. "Demelza, devo dirti una cosa e vorrei che prendessi in
considerazione l'offerta mia e di Caroline" – disse Dwight, a
un tratto, con serietà estrema.
Demelza
lo guardò, incuriosita. "Dimmi".
Dwight
sospirò. "Come ben sai, il desiderio di Caroline
è da sempre
quello di iniziare una nuova vita lontano da quì. E dopo
quanto
successo fra me e Ross, ora è anche un mio desiderio e sono
rimasto
fin'ora solo per te, volevo esserci ed aituarti nel parto. Ma fra
qualche giorno io e mia moglie partiremo, eravamo indecisi fra Bath e
Londra e Caroline ha deciso per la capitale dove si trova la dimora
principale della sua famiglia che ora lei ha ereditato. Ci farebbe
piacere se tu venissi con noi, assieme ai bambini... Per te non
c'è
più nulla quì e a Londra potresti ritrovare la
serenità e una
nuova vita. E aiuteresti me tenendomi compagnia e non facendomi
sentire l'unico pesce fuor d'acqua in quella grande città"
–
concluse, cercando di rendere il tono di voce più leggero e
ironico.
Demelza
sentì stringersi lo stomaco e il suo cuore parve andare a
pezzi a
quella proposta sicuramente gentile ma che... Andarsene...? Era vero,
andarsene da Nampara e dalla Cornovaglia era una delle opzioni a cui
aveva pensato ma in cuor suo sperava che Ross potesse trattenerla in
qualche modo, che mantenesse fede alle sue promesse e che sarebbe
stato presente per i bambini. Evidentemente era un'illusa...
Perché
era palese che Dwight non nutriva alcuna speranza su una soluzione
del genere. Scosse la testa, stringendo a se la sua piccolina e le
venne voglia di piangere. Ma ancora una volta si impose di non
farlo... Lasciare Nampara e la Cornovaglia avrebbe significato
lasciare lì un pezzo grandissimo del suo cuore, lasciare
l'unico
posto che per lei era stata casa, arrendersi all'idea che della
famiglia che aveva creato con Ross e del loro amore, non era rimasto
nulla. "Non posso andarmene coi bambini... Ross...
potrebbe...".
Dwight
scosse la testa. "Demelza, credi davvero che verrà?".
"Devo
farlo o per lo meno, devo dargli una chances. Lo devo ai bambini, non
posso andarmene togliendo loro l'opportunità di avere un
padre. Devo
almeno provarci...".
Prudie
prese la bimba per lavarla e Dwight le strinse le mani. "Che
padre sarebbe? Come potrebbe funzionare? Quando nascerà il
bambino
di Elizabeth, come potrete far funzionare la cosa? Demelza, io vorrei
credere che Ross possa gestire tutto ma ti ha dimostrato ampiamente,
in questi mesi, che non è così".
Abbassò
lo sguardo, ancora vinta da quelle emozioni forti e da quel dolore
che mai l'avrebbe abbandonata. "Gli devo scrivere per dirgli che
la bambina è nata e poi, in base a quello che lui
farà, deciderò
il da farsi. Se non verrà...".
"Verrai
da noi a Londra?".
Prudie,
dietro di loro, armeggiando la bambina, attirò la loro
attenzione.
"Io la signora non la lascio. Se lei viene a Londra, trovate una
stanza anche per me perché io parto con lei".
Demelza
si mise le mani nei capelli. "Prudie...".
La
serva si voltò verso di lei, serissima. "Cosa pensi ragazza?
Che lasci te e i bambini? Che stia quì a fare da serva a
quella
gattamorta? Io vengo a Londra, fine del discorso. Avrai bisogno di
una tata, no?".
Dwight
sorrise. "Per me e Caroline andrà benissimo!". Prese un
foglio e scrisse su di esso un indirizzo. "Noi abiteremo
quì.
Se vorrai venire da noi, sarai la benvenuta e farai parte coi bambini
della nostra famiglia".
"Sai
che è difficile, Dwight... Non posso partire
così, coi bambini...".
"Sono
tuoi, di Ross non hanno più il cognome e quindi puoi
decidere per
loro in autonomia".
Le
parole di Dwight facevano male ma in esse c'era l'essenza vera di
quell'incubo che stava vivendo. Era vero, erano i SUOI bambini... E
lei doveva decidere per loro, non Ross. Lui se n'era andato da mesi e
non si era più fatto vedere rendendo chiaro quanto poco gli
importasse di loro...
Guardò
da lontano la piccola Clowance, immaginò il faccino dolce di
Jeremy
ancora a letto e decise che, se Ross non fosse venuto, avrebbe
intrapreso quella strada. Meritava di più di quello,
meritava di più
che rimanere sola in una casa ad aspettare un uomo che l'aveva
abbandonata e che forse non sarebbe mai tornato. I suoi figli
meritavano di più... "Se Ross non verrà, allora
partirò"
– disse, stringendo nella mano il foglio con l'indirizzo.
Dwight
le baciò la fronte e la abbracciò. "Ti
aspetteremo a braccia
aperte e sarà un nuovo inizio per tutti. Ora vado a casa ma
tornerò
stasera per visitarti e per accertarmi che vada tutto bene".
"Grazie"
– rispose lei, sorridendo dolcemente.
Prudie
le si avvicinò, con la piccola avvolta in una copertina
bianca.
"Eccola, pulita e fresca come una rosa. E' bella come una
perla!".
Demelza
la strinse a se e la cullò, stringendola al suo petto e
cercando di
trarre da essa la forza e il coraggio necessari per andare avanti.
Doveva farlo, per lei e per Jeremy! Pur con dolore, pur sapendo che
Londra non sarebbe mai stata la sua casa, doveva dare ai suoi figli
una nuova vita serena, se Ross non fosse venuto...
Sarebbero
partiti, sarebbero andati via e Ross avrebbe fatto parte del passato,
un passato da dimenticare...
Poco
dopo Jeremy si svegliò e Prudie lo portò da lei.
Il bimbo, appena
vista la sorellina, saltò eccitato e contento di essere il
fratello
maggiore e di avere una sorella. "Clowance, Clowance!" -
urlò, prima di salire sul letto e abbracciarla forte.
"Clowance,
sì".
Jeremy
diede un bacio alla sorellina, le pizzicò la guancia e
tentò di
prenderla in braccio ma Demelza lo convinse che non era il caso e che
per ora era meglio che stesse con lei. Ma gli promise che avrebbero
giocato tanto insieme, appena lei fosse stata abbastanza grande per
farlo.
Jeremy
annuì, non molto convinto. "Adesso papà arriva?"
- chiese
infine, formulando la domanda che Demelza più temeva.
"Ora
gli scrivo per dirgli di Clowance".
Jeremy
sorrise, contento. "E papà corre quì".
"E
papà corre quì..." - disse lei, con un filo di
voce rotta. E
sperò per Jeremy che fosse vero! Per lui più che
per se stessa o
Clowance...
E
mentre Jeremy faceva colazione di sotto con Prudie e Clowance dormiva
accanto a lei, Demelza si alzò dal letto e raggiunse la
scrivania.
Prese
un foglio, penna e calamaio e, sedendosi a fatica, iniziò a
scrivere
la lettera più importante della sua vita.
Non
voleva scrivere nulla di lungo o anticipare niente. Se Ross voleva
conoscere Clowance doveva venire a Nampara oppure non avrebbe mai
saputo nulla della sua bambina.
"Caro
Ross, oggi 20 novembre,alle otto del mattino, ho partorito. Se vorrai
venire come avevi detto mesi fa, per ora noi saremo quì ad
aspettarti.
Demelza".
Non scrisse
altro. E nel
pomeriggio, mentre Jeremy faceva il riposino, mandò Prudie a
Trenwith per consegnare la lettera.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Veniva
giù un freddo nevischio e Trenwith era avvolta dal silenzio
nelle
prime ore del pomeriggio di quel 20 novembre.
La
vecchia zia Agatha, dopo pranzo, si era ritirata in camera sua per
riposare mentre Ross, silenziosamente, si era seduto al tavolo del
salone principale a studiare delle mappe della Wheal Grace. Jeoffrey
Charles stava seduto per terra accanto a lui a giocare con dei
soldatini ed Elizabeth era comodamente sprofondata su una poltrona, a
lavorare a maglia.
C'era
un clima opprimente in quella casa e una strana cappa di tensione e
malumore rendeva ancora più cupo quel pomeriggio invernale.
Ross
aveva sempre considerato Trenwith una seconda casa per lui e,
benché
avesse amato quella dimora da bambino, non sarebbe mai riuscito a
considerarla la sua vera casa. Il suo pensiero era sempre rivolto a
Nampara, erano mesi che non vi rimetteva piede e giorno dopo giorno
diventava sempre più difficile tenere fede al proponimento
di
andarci per fare visita. Era difficile, troppo... E sapeva di essere
un codardo perché laggiù c'era sua moglie, colei
che considerava
davvero tale, e i suoi bambini.
E
poi c'era Elizabeth... Stava sempre male o così diceva lei.
Lamentava dolori e contrazioni continue che parevano aumentare per lo
stress di sentirlo parlare della sua vecchia vita e dei proponimenti
di farne comunque ancora parte. Ross non riusciva a capire se
Elizabeth stesse male sul serio o se fosse una semplice tattica ma,
qualunque cosa fosse, lei doveva arrendersi all'idea che prima o poi
lui sarebbe andato a Nampara. Perché per quanto fosse
difficile per
lui farlo, dopo la nascita del bambino suo e di Demelza le cose
sarebbero cambiate! Per tutti!
Fra
lui e la sua nuova moglie c'era una sorta di gelo ed astio, si
parlavano lo stretto necessario e, benché si sforzasse di
avere toni
gentili con lei, proprio non gli riusciva di considerarla la sua
famiglia da lì e per sempre. E quando si soffermava a
riflettere del
diventare padre, era al piccolo Jeremy e al bambino che aspettava
Demelza, che pensava... Non ad Elizabeth e a quel suo pancione ormai
evidente. Non riusciva, non sarebbe forse mai riuscito ad amare quel
bambino che aveva distrutto, assieme ai suoi gesti sconsiderati, la
sua vita e soprattutto quella di chi amava. Ecco, se c'era qualcosa
che lui aveva in comune col figlio che aspettava Elizabeth, era la
capacità di entrambi di portare sofferenza agli altri. In
questo,
era decisamente suo figlio... Non era come Jeremy... Gli aveva
promesso di portarlo a cavallo e di andare spesso a trovarlo. Ed
erano mesi che non lo vedeva! Si chiese se, pian piano, suo figlio si
stesse dimenticando di lui o se fosse arrabbiato per la sua assenza.
O deluso...
Santo
cielo, come avrebbe fatto a sistemare tutto?
Guardò
di sottecchi Elizabeth, era pallida quel giorno. L'aveva adorata ed
amata in silenzio per anni, dandole una devozione che avrebbe dovuto
riservare a sua moglie. E ora che era sua e l'aveva conosciuta, non
riusciva a non chiedersi perché fosse stato tanto cieco. Era
così
diversa da come l'aveva immaginata, così lontana da lui e
dal suo
essere, così fredda verso tutti coloro che per lei
rappresentavano
un ostacolo.
Elizabeth
lo amava? O era possesso il suo? Voleva averlo per via del bambino? O
per amore? O per vendetta, per quanto successo quella notte? O era
per una questione di principio?
Beh,
qualunque cosa fosse, fra loro non stava funzionando nulla. E
dubitava che le cose sarebbero migliorate. Sapeva che lei amava i
suoi figli e si muoveva unicamente per il loro bene ma non poteva
accettare che in virtù di questo, schiacciasse senza rimorso
chiunque: lui, Demelza, i bambini...
Come
avrebbe potuto amarla? COME? Come diavolo aveva fatto a cacciarsi in
quella situazione assurda?
La
signora Tabb entrò, bussando. "Signore, c'è una
lettera per
voi".
Elizabeth
sollevò lo sguardo e Ross parve sorpreso. “Una
lettera per me?”.
“Sì
signore, la porta la serva di Nampara. Ha detto di dirvi che
è
urgente”.
La
signora Tabb gli consegnò la missiva e poi, dopo un inchino,
scomparve dalla porta da cui era arrivata. Ross si sentì
attanagliare dall’ansia. Una lettera da Nampara? Era successo
qualcosa di grave a Demelza o a Jeremy? Oppure…
Oppure…
Col
cuore in gola la aprì, temendo che portasse cattive notizie.
E
quando l’ebbe letta, a fatica, con le mani che gli tremavano,
si
sentì emozionato e vivo come non gli capitava da mesi.
Era
diventato padre… Lontano da casa, dopo tanto dolore e tanti
errori,
era successo qualcosa di bello…
Rilesse
quelle poche parole, era la scrittura di Demelza e se l’aveva
scritta lei, significava che tutto era filato liscio e che stava
bene. La lettera non diceva nulla del bambino. Il suo nome, se fosse
maschio o femmina, niente di niente… Ma non importava,
Demelza e i
suoi figli lo stavano aspettando!
“Che
cosa c’è?”.
La
voce fredda di Elizabeth lo riportò alla realtà.
Sua moglie,
accigliata, lo guardava dalla poltrona. Aveva smesso di lavorare a
maglia e il suo colorito si era fatto più pallido e
verdognolo. “E’
di Demelza. Ha partorito” – disse, alzandosi dalla
sedia.
“Dove
stai andando?” – chiese la donna in tono acido,
tanto che
Jeoffrey Charles fu costretto ad interrompere, sussultando, i suoi
giochi tranquilli.
“A
Nampara” – rispose lui, gelido, sapendo
già che ne sarebbe
scaturita l’ennesima discussione a cui lui stavolta non
avrebbe
abbassato il capo.
“No,
non ci andrai” – disse Elizabeth. E non era una
richiesta, era il
tono di voce con cui si da un comando.
No,
non avrebbe ceduto… “E’ nato mio figlio
stamattina!”.
Lei
guardò la busta fra le sue mani. “La lettera
l’ha scritta
Demelza?”.
“Sì”.
“E
allora vuol dire che sta bene. E anche il bambino! Ragion per cui
puoi e devi rimanere qui, dov’è il tuo
posto!”.
Jeoffrey
Charles arretrò fino all’angolo della sala, aveva
imparato anche
lui a fiutare i guai in arrivo.
Ross
inspirò, tentando di mantenere la calma.
“E’ il mio bambino”.
Lo
sguardo della donna divenne freddo, cattivo. “Non lo
è. Porta il
tuo cognome? NO!”. Si toccò il ventre,
avvicinandosi a lui a
piccoli passi. “QUESTO è il tuo bambino ed
è l’unico verso cui
hai degli obblighi. Nampara, Demelza e i bambini che vivono
laggiù
non sono più un problema tuo!”.
Scosse
la testa, come faceva ad essere tanto fredda e insensibile?
“Elizabeth, a me di quello che ha comportato
l’annullamento del
matrimonio con Demelza, non importa niente! Sono i miei figli quelli,
sono nati da me e dalla donna che per anni è stata mia
moglie! Hanno
un padre e sono io! E tu stai rovinando uno dei giorni più
importanti della mia vita”.
“Non
puoi essere il loro padre, non più! Mettitelo in
testa!”.
Jeoffrey
Charles strisciò fra loro, spaventato dall’aumento
del tono delle
loro voci. “Mamma… Zio Ross…”.
Elizabeth,
quasi non lo vedesse presente in quella stanza, lo
oltrepassò. Era
ancora più pallida, ora… “Vuoi bene a
quei bambini? E allora
fatti da parte e vivi la tua vita QUI’! Non puoi essere
presente
per loro, non puoi essere un padre allo stato attuale delle cose.
Esci di scena, lasciali liberi, lascia che Demelza trovi qualcun
altro che si prenda cura di lei e faccia da padre ai suoi figli e tu
occupati di noi!”.
Quelle
parole ebbero l’effetto di una scossa da mille volt su di
lui.
L’idea che Demelza potesse volgere lo sguardo altrove, a un
altro
uomo, gli era insopportabile tanto che MAI,
un’eventualità del
genere, aveva sfiorato la sua mente. L’idea che un uomo la
amasse,
ricambiato, che la baciasse, che facesse l’amore con lei era
una
realtà che non avrebbe potuto tollerare nemmeno in un
incubo. E
pensare ai suoi figli che chiamavano papà un altro uomo, un
uomo che
sicuramente sarebbe stato meglio di lui…
Non
voleva! Sapeva di essere egoista ma non voleva! Erano… la
sua
famiglia! La famiglia che aveva tradito e abbandonato, la famiglia da
cui avrebbe voluto sempre tornare…
Non
avrebbe potuto biasimare Demelza se avesse voluto rifarsi una vita,
certo. Né avrebbe avuto diritto di replica sulle scelte che
avrebbe
fatto per i bambini, lei aveva voce in capitolo e lui invece, per
legge, non più e su questo Elizabeth aveva purtroppo
ragione. Doveva
andare da lei, subito, era stato lontano da Nampara fin troppo tempo!
Voleva andare da lei, abbracciarla, abbracciare i suoi figli e far
sentire loro che li amava e che ci sarebbe sempre stato.
Arretrò,
facendo cadere la sedia dietro di lui. “Io vado!”.
Elizabeth
si avvicinò ancora di più, minacciosa, mentre il
bambino nella
stanza iniziava a piangere. “Tu non vai! Non so come tu fossi
abituato con Demelza ma io non sono lei!”.
“Che
vuoi dire?”.
“Che
non farò come ha fatto lei, non permetterò che tu
disonori la tua
famiglia e tua moglie facendo come più ti aggrada. Sono tua
moglie,
aspetto TUO figlio ed è con noi che devi stare. Demelza ti
permetteva di andartene dove volevi e da chi volevi, io no!”.
La
osservò e si sentì un verme, oltre che arrabbiato
con lei. Era
vero, Demelza gli aveva sempre conferito la massima fiducia e lui
come l’aveva ricompensata? Tradendola e
abbandonandola… E ora
poteva davvero biasimare Elizabeth, se non si fidava di lui? Era un
uomo che aveva tradito già una volta, chi dava a quella
donna la
garanzia che non sarebbe risuccesso di nuovo? “Venivo da te,
quando
andavo via da lei...” – balbettò.
“E
visti i risultati, Demelza ha sbagliato a permetterti di farlo. Io
non farò lo stesso errore! Non starò zitta come
feci con Francis,
non permetterò che…”.
“E’
MIO FIGLIO!” – urlò infine Ross, quasi
isterico. “E sono con
te, ho sposato te, vivo con te in questa dannata casa in un dannato
matrimonio che non rende felice nessuno e che non porterà a
nulla di
buono! Hai tutto, cosa vuoi ancora? Hai salvata la reputazione, tuo
figlio avrà un cognome, la mia presenza e una famiglia
regolare alle
spalle! Ma questo, QUESTO me lo devi concedere e se non lo farai, io
ci andrò lo stesso”.
A
quel punto Jeoffrey Charles iniziò a piangere, spaventato.
“Zio
Ross…”.
Ma
Ross non poteva sentirlo, non più. Aveva superato il limite
e anche
Elizabeth dovette accorgersene perché impallidì
vistosamente.
“Io
vado a Nampara. ADESSO!”.
“Ross,
no… Se vai non tornerai… Pensa a tuo
figlio” – balbettò
Elizabeth.
Lui
la guardò, gelido. “E’ quello che
faccio, vado a Nampara da mio
figlio, dalla donna che lo ha appena partorito!”.
Elizabeth
tentò di riguadagnare risolutezza ma a un certo punto
impallidì, si
prese il ventre con le mani e, dopo un sibilo di dolore, si
accasciò
a terra.
Jeoffrey
Charles le corse vicino mentre lei, inerme, si lamentava senza
trovare la forza di rialzarsi. “Mamma!”.
Ross
si morse il labbro, avvicinandosi e prendendola per un braccio.
“Alzati, non funziona, non funziona più questo
trucco!”.
Jeoffrey
Charles, col viso rigato di lacrime, si alzò e lo
colpì con dei
pugni sulla pancia, piangendo. “Sei cattivo! Sei cattivo zio
Ross!
Fai sempre piangere la mamma, sta sempre male per colpa tua e non
vuoi il mio fratellino”. Poi scappò via, in
lacrime, sparendo nel
corridoio e lasciandolo pieno di nuovi e dolorosi sensi di colpa.
Ross
si maledì, odiava avergli fatto assistere a quella scena e
si
sentiva in colpa per non aver frenato la lingua in sua presenza. Ma
perché doveva essere tutto tanto difficile in quella dannata
casa?
PERCHE’? Perché doveva essere sempre lui a
rinunciare? Sospirò,
cercando di riguadagnare la calma. “Tirati tu”
– disse,
inginocchiandosi accanto ad Elizabeth e cercando di usare un tono
più
gentile.
“Non
ce la faccio!”.
“Si
che ce la fai”.
Lei
strinse i denti e Ross si accorse che piangeva. “Ross, sto
male…”.
“Faccio
fatica a crederti! Fai sempre così, ogni volta che vedi
insidiato il
tuo ruolo di moglie. Non potremmo parlarne civilmente? Eviteremmo
dolori e dispiaceri ad entrambi, soprattutto a Jeoffrey
Charles”.
Elizabeth
girò il capo, sembrava rabbiosa ed incapace persino di
guardarlo in
viso. Poi si toccò il ventre e abbassò lo
sguardo. I suoi occhi si
riempirono di orrore. Sangue… Il suo abito era macchiato di
sangue…
“Ross!”.
Lui
scattò in piedi, urlando, in preda al panico. Dannazione,
DANNAZIONE!!! Se anche prima di quel giorno Elizabeth aveva mentito,
ora era evidente che non era così. “Signora Tabb,
SIGNORA TABB!!!”
- urlò, terrorizzato. Con Demelza non era mai accaduto nulla
del
genere e si trovò ad avere paura, una paura folle. Era
sempre così,
era difficile per lui affrontare cose che sfuggivano al suo
controllo.
La
cameriera arrivò di corsa. "Signore?".
“Chiamate
il dottor Choake, subito!” – ordinò,
prendendo Elizabeth in
braccio.
La
donna osservò Elizabeth, vide il sangue che le colava dalle
gambe e
corse via in un baleno, spaventata. E Ross, col cuore in gola,
lasciò
la lettera di Demelza sul tavolo e portò sua moglie di sopra
in
camera, di corsa.
...
Il
dottor Choake arrivò subito e Ross si sentì
sollevato, non tanto
per le capacità del dottore, Choake era un ciarlatano che
faceva
pagare care le sue bizzarre teorie mediche, ma quanto perché
comunque ne sapeva più di lui e aveva assistito
già Elizabeth
durante il parto di Jeoffrey Charles.
Il
bambino, mentre il medico visitava la madre, si era rifugiato in
camera sua in lacrime e aveva permesso solo ad Agatha di entrare. Lui
era stato rifiutato e, anche se aveva cercato di parlargli per far
pace, il piccolo aveva frapposto fra loro un muro pieno di astio e
risentimento.
Beh,
a Jeoffrey Charles avrebbe pensato dopo... Ora erano altri i
problemi...
Ross
aveva passeggiato a lungo avanti e indietro nel corridoio del piano
superiore di Trenwith, pieno d'ansia. Era preoccupato, indubbiamente.
Fin'ora aveva avuto poca fiducia nel malessere di Elizabeth, al pari
della scarsa fiducia che aveva lei sul suo ruolo di marito ma ora
doveva iniziare a ricredersi su quella che forse era davvero una
gravidanza difficile, condizione che lo rendeva ancora più
prigioniero in quella casa.
E
questo lo riempiva di disgusto verso se stesso e ciò che era
diventato, oltre che verso il suo matrimonio che si fondava sul nulla
più assoluto. Gli spiaceva che Elizabeth stesse male e che
fosse per
causa sua ma non riusciva a non pensare che, se quella gravidanza si
fosse interrotta prima, quella catastrofe non sarebbe successa.
Non
riusciva ad essere preoccupato anche per il bambino, riusciva solo a
provare umana pietà per un piccolo innocente che stava
rischiando la
vita ma che non sentiva come suo figlio.
Era
a Jeremy e al bimbo appena nato che pensava ed era da loro che voleva
correre ma ora, con Elizabeth in quelle condizioni, era consapevole
di non poterlo fare. E di nuovo doveva accantonare Nampara e la sua
famiglia per far fronte alle conseguenze di quella notte terribile in
cui aveva distrutto tutto.
Scese
stancamente al piano di sotto, nel salone deserto dove aveva lasciato
la lettera di Demelza. La strinse fra le mani, sentiva il suo cuore
andare in mille pezzi al pensiero di non vedere subito il suo bambino
e la donna che lo aveva messo al mondo. Ma stavolta non poteva stare
in silenzio, non poteva davvero...
Andò
allo scrittoio, prese un foglio e una penna e poi si sedette per
scriverle. Doveva farlo, Demelza doveva sapere che, anche se non
fisicamente, il suo cuore era con loro.
"Cara
Demelza, sapere della nascita di nostro figlio e sapere che
è andato
tutto bene mi riempie di gioia. So che forse non riuscirai a
credermi, so di aver mancato in tante cose e in tante promesse ma
sappi che il mio cuore è da voi, a Nampara. Non
quì, questa non
sarà mai casa mia.
Purtroppo
devo chiederti di avere ancora pazienza, ho gravi problemi a lasciare
Trenwith per venire da voi e forse dovrò aspettare il parto
di
Elizabeth per farlo in tranquillità.
So
di chiederti molto, a te e a Jeremy. E al nuovo bambino o bambina che
è nato. So anche che non merito altre
opportunità, so che mi merito
anche il vostro odio. So tutto e in questo momento non riesco a fare
niente per voi e per questo sono il primo ad odiare me stesso.
Abbraccia
i miei bambini, da loro un bacio da parte mia e ti prego, pazienta
ancora un pò. Non c'è altro posto dove vorrei
stare, non c'è altra
famiglia che per me conti se non quella che ho con voi.
Verrò,
aspettatemi, vi prego!
Tuo
Ross"
La signora
Tabb comparve sulla
porta, richiamandolo all'ordine. Il dottor Choake aveva finito di
visitare Elizabeth e lo voleva in camera.
Ross
annuì, mettendo la
lettera per Demelza in una busta e salendo al piano di sopra seguito
dalla domestica.
Quando
entrò nella stanza,
Elizabeth sembrava aver ripreso colore. Era a letto, sprofondata sopra
un numero indefinito di cuscini e dava l'impressione di essere
più tranquilla.
Choake
stava sistemando la sua
borsa da lavoro e non lo degnò di uno sguardo, mentre gli
spiegava
la situazione. "Pericolo scampato. E' stato uno stato indotto
dallo stress, succede alle donne fragili in gravidanza. Elizabeth
deve stare a letto fino al parto e deve godere di tutta la
tranquillità possibile d'ora in poi. Le ho prescritto dei
calmanti,
gradirei che la servitù andasse a Truro in farmacia prima di
sera
per comparli, le distenderanno i nervi e la aiuteranno a riposare"
– disse, dando il foglio della prescrizione alla signora Tabb.
Ross
annuì. "Il bambino
quindi sta bene?".
"Sì,
sta bene ma non
possiamo permetterci che nasca adesso. Manca troppo, tre mesi sono
un'enormità. Riposo signor Poldark, dovete accertarvi che
sia
riposata e tranquilla, non deve avere altre emozioni forti".
Ross
annuì, abbassando il
capo. Era in trappola e se era un uomo, doveva rimanere lì e
prendersi le sue responsabilità, per quanto gli pesasse.
Demelza
aveva partorito e i bambini stavano bene, solo quello importava in
quel momento... A febbraio tutto sarebbe cambiato e dopo tutto a
Nampara riuscivano ad andare avanti anche senza di lui. "Va
bene". Si avvicinò alla signora Tabb e le diede la busta con
la
lettera destinata a Demelza. "Prima di andare in farmacia,
passate da Nampara e consegnate questo alla signora. Non posso andare
di persona, come vedete".
La
domestica annuì e Ross
uscì col dottore, accompagnandolo al piano di sotto per
pagargli
l'onorario e accomiatarlo.
Non disse
nulla ad Elizabeth,
anche se gli eventi avevano preso il sorpavvento, di nuovo l'aveva
avuta vinta lei. Ancora una volta Demelza avrebbe dovuto venire dopo
e questo era terribile da accettare...
Ed era
colpa sua, solo sua!
Non di Elizabeth, non del bambino in arrivo, non di Jeoffrey Charles.
Era colpa sua, solo sua!
E si chiese
per quanto ancora
lo avrebbero aspettato e se quel nuovo intoppo avrebbe potuto
distruggere tutto ciò che di buono poteva essere rimasto fra
loro.
Aveva
foschi presagi nella
mente e nel cuore ma ancora una volta dovette azzittire la sua
coscienza. Non c'era nulla che potesse fare, nulla! Era imprigionato
in una trappola che si era costruito con le sue mani e ora ne era
pienamente consapevole.
Si chiese
com'era il suo
bambino, a chi somigliasse, se era tranquillo o vivace. E come
l'aveva accolto Jeremy... Pensò all'atmosfera calda di
Nampara con
un nuovo neonato, al camino acceso e a Prudie che borbottava in
cucina per il nuovo lavoro che un bambino avrebbe portato sulle sue
spalle. A Demelza, ai suoi lunghi capelli sciolti e al suono della
sua voce mentre cantava una ninna-nanna ai bambini...
Avrebbe
voluto essere lì, con
loro...
...
"Signora
Tabb" –
disse Elizabeth, mentre la domestica le accomodava i cuscini prima di
uscire per le due commissioni di cui era stata incaricata –
"Datemi
la lettera che vi ha dato mio marito".
La
domestica impallidì,
indecisa sul da farsi. "Signora, devo recapitarla a Nampara.
Vostro marito ha detto...".
Elizabeth
si sfiorò la pancia
e decise che doveva proteggere il bambino da ulteriori rischi. Per
lui e per Jeoffrey Charles sarebbe andata nel fuoco e avrebbe votato
la sua anima al demonio, se necessario... "Sarà un segreto
fra
noi che vi verrà ben pagato. Datemi la lettera, consegnatemi
ogni
missiva da e per Nampara, se ne arriveranno altre. Mio marito non
deve saperne nulla, raccontate che aveva fatto come richiesto, al
resto penserò io".
La signora
Tabb sembrava
titubante, nonostante tutto... Ed Elizabeth decise di essere
più
incisiva. Aprì il cassetto del comodino, togliendo da esso
uno degli
anelli d'oro che aveva nel portagioie. "E' vostro, un piccolo
dono per il vostro silenzio circa questo accordo. E' per il bene
della famiglia e io sono la signora di Trenwith da più tempo
rispetto a Ross. E' a me che dovete dar conto, non a mio marito".
La donna si
arrese, com'era
prevedibile, davanti all'oro. Prese l'anello, dando ad Elizabeth la
busta consegnatale da Ross.
Elizabeth
sorrise,
stringendola fra le mani. "E ora andate a Truro, ho bisogno
delle mie medicine".
E quando fu
rimasta sola,
prima che Ross tornasse, aprì la busta e la lesse...
Sembrava... ERA
una lettera d'amore... Impallidì dalla rabbia e dalla
consapevolezza
che le sue paure erano reali e che Ross non era ancora suo, dopo
tutto. Demelza doveva andarsene, sparire dalle loro vite, c'era in
gioco il futuro dei suoi figli e la felicità di tutti
loro... Ross
l'avrebbe amata, col tempo, quando il ricordo di Demelza fosse
svanito... L'avrebbe amata come un tempo e loro sarebbero stati la
famiglia felice che sognavano da ragazzi.
Si
alzò dal letto e
lentamente si avvicinò al camino. E poi vi gettò
dentro la lettera
che bruciò nel fuoco nel giro di pochi istanti.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Clowance
era nata da tre giorni e Demelza aveva lasciato il letto quasi
subito. Non poteva permettersi di poltrire, aveva due bambini piccoli
da accudire, una casa grande da mandare avanti e Prudie non poteva
fare tutto da sola. Anche se si stancava subito ed era perennemente
senza forze, si era imposta di farcela anche quella volta!
La
bimba sembrava piuttosto tranquilla, piangeva solo quando era
affamata e per il resto stava buona e composta nella culla o nella
fascia che si legava in vita, quando doveva portarla in giro per
casa. Era una bambina splendida, dai lineamenti delicati e perfetti,
con degli occhi chiari e trasparenti e un cipiglio deciso quando si
svegliava per la poppata.
Clowance
sapeva cosa voleva, era una Poldark... In teoria...
Demelza
si era imposta di essere forte e non piangere, anche se di Ross non
si era vista nemmeno l'ombra. Piangere per cosa? Non stava succedendo
quello che aveva sempre preventivato?
Ross
forse aveva voluto credere a quelle sue promesse di esserci, non lo
riteneva un bugiardo ma di certo era stato un illuso a pensare di
poter gestire la situazione, e il suo silenzio e la sua assenza di
quei mesi ne erano la prova. Aveva una nuova famiglia, l'aveva per
scelta e aveva voltato pagina, non aveva più tempo per loro
e in
fondo era giusto così. Aveva scelto Elizabeth e stava
costruendo con
lei la sua vera famiglia, di quella che aveva reso illegittima non
gli importava più nulla. Non sarebbe venuto, non si era
presentato
nemmeno per conoscere Clowance e non aveva avuto tempo nemmeno di
risponderle con una lettera per accertarsi delle loro condizioni dopo
quei mesi di silenzio.
Era
finita, ora lo aveva capito anche Ross e adesso lei doveva accettarlo
e voltare pagina, magari seguendo Dwight e Caroline che erano partiti
per Londra quella mattina, dopo essere passati da Nampara per
salutarla e per rinnovarle il loro invito ad unirsi a loro. E forse
lo avrebbe fatto, ora ne era quasi convinta anche se quella decisione
le sarebbe costata sofferenza e dolore. Ma in fondo perché
restare?
Dwight e Caroline le avevano lasciato un foglio con scritto
l'indirizzo della loro casa e una chiave per entrare quando fosse
arrivata, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Era un gesto
bellissimo e di fiducia e amicizia il loro, erano i suoi salvatori in
quei giorni tanto bui, l'unico appiglio per iniziare forse una vita
migliore. In fondo, cosa c'era in Cornovaglia per lei, adesso?
Su
Ross era calato il silenzio e, anche se Demelza aveva il cuore a
pezzi e tutto questo la faceva sentire una nullità, non
voleva che i
suoi figli vivessero le sue medesime sensazioni e forse andarsene
sarebbe stata davvero la scelta giusta. Clowance era troppo piccola
per capire ma Jeremy no, Jeremy cercava il suo papà e la
gioia per
la nascita della sorellina si era trasformata presto in un cocente
delusione per lui. Per mesi aveva atteso la nascita di Clowance con
ansia, collegandola al ritorno del papà a casa e ora che,
giorno
dopo giorno, non lo vedeva arrivare, si era immalinconito ed era
diventato capriccioso e irascibile. Piangeva spesso, cosa che non
aveva mai fatto. E Demelza non era in grado di consolarlo, non aveva
la forza di fare nulla se non faccende di ordinaria amministrazione
della casa che le permettevano di non pensare. Era sempre stanca,
pallida, aveva perso peso e le sembrava di essere un fantasma, quando
si guardava allo specchio. Cercava di lottare con se stessa per
mangiare qualcosa ma il suo stomaco era come chiuso e spesso finiva
col vomitare il poco cibo che aveva mandato giù. Per fortuna
il
latte pareva non mancarle e la piccola Clowance aveva i pasti
assicurati ma, se le sue condizioni non fossero migliorate, presto
anche l'allattamento ne avrebbe risentito, assieme alla sua salute.
Non poteva permettersi di stare male, di piangere, di ammalarsi.
Aveva due figli piccoli che avevano già perso il padre,
erano soli e
lei non li avrebbe abbandonati al loro destino.
"Dovresti
piangere ragazza, ti farà bene".
Demelza,
seduta sul letto e pronta per andare a dormire, osservò
Clowance che
riposava tranquilla fra le sue braccia, avvolta nella sua copertina
bianca di lana. Il tempo era pessimo, quel giorno il buio della sera
aveva abbracciato la Cornovaglia poco dopo le quattro del pomeriggio
e di notte probabilmente avrebbe nevicato. Strinse a se la bambina
mentre Jeremy se ne stava col faccino attaccato al vetro della
finestra ad attendere chissà cosa, chissà chi...
"Non posso
Prudie, non voglio... Non servirebbe a niente".
"Servirebbe
ad alleggerirti l'animo, ti stai ammalando e piangere e urlare un
pò
ti farebbe bene. Ti tornerebbe anche l'appetito...".
"Domani
mangerò!" - le rispose, secca.
Prudie
scosse la testa. "Potresti cenare anche stasera, volendo.
Preparo del brodo per Jeremy, mangiane con noi anche tu".
Guardò
suo figlio. Cenava da solo con Prudie, da quando era nata Clowance e
sapeva quanto triste potesse essere per lui ma non ce la faceva. Si
sarebbe gettata nel fuoco per i suoi bambini, soprattutto ora, ma non
aveva la forza di fare nulla... Si odiava, se fosse stata
più forte
avrebbe potuto essere una madre migliore e se fosse stata
più bella
e più perfetta e colta, Ross non l'avrebbe lasciata. E
invece era
solo la figlia di un minatore, una ragazza che agli occhi di una
famiglia come i Poldark avrebbe sempre contato poco, un banale
oggetto di poco valore da gettare via quando non serviva
più. Così
aveva fatto Ross, dopo tutto...
Aveva
coronato il suo sogno d'amore con la donna che il suo cuore voleva e
lei e i bambini non gli servivano ormai, facevano parte di un passato
che Ross sicuramente voleva dimenticare.
"Mamma...".
La
vocina di Jeremy la richiamò alla realtà. "Amore,
dimmi...".
Jeremy
abbassò lo sguardo e poi appoggiò la fronte al
vetro della
finestra. "E' buio...".
"Sì,
stasera le nuvole han fatto venire presto la sera. Usciremo domani a
giocare".
"Domani
papà arriva?".
Prudie,
che stava piegando delle coperte, sussultò. E Demelza prese
a
tremare senza riuscire a fermarsi, come se quella semplice domanda,
che Jeremy le aveva posto innumerevoli volte, avesse frantumato ogni
sua difesa. In un attimo il peso di quei mesi dolorosi e difficili le
piombò sulle spalle, sentì quasi un dolore fisico
frantumarle le
ossa e spezzarle il cuore e vide tutto nero. Era troppo debole per
resistere ancora e quella domanda di Jeremy era stata la goccia che
aveva fatto inaspettatamente traboccare il vaso.
Prudie
si accorse che stava male, che stava succedendo qualcosa e in un
attimo le fu vicino per sorreggerla con Jeremy che, spaventato, si
era avvicinato al letto.
"Mamma...".
"Signora...".
Con
le poche forze che le restavano, diede la neonata a Prudie. "Portali
di sotto...".
"Ma...
Ragazza...?".
Demelza
chiuse gli occhi. "Portali di sotto per favore. Voglio rimanere
sola per un pò". Pregò che la ascoltasse, che li
portasse
subito via. Non voleva che i suoi figli la vedessero cadere in mille
pezzi e affogare in un pianto disperato che si era tenuta dentro per
troppi mesi e che ora urlava per uscire.
Prudie
la guardò e sussultò quando vide i suoi occhi
finalmente lucidi e
le lacrime che avevano iniziato a cadere. Prese saldamente Clowance
fra le braccia e poi prese Jeremy per mano. "Su, si va di sotto
a preparare la cena mentre mamma riposa. Poi magari più
tardi verrà
a bere la zuppa con noi".
Jeremy
la guardò. "Mamma... piangi?".
Lo
accarezzò sulla guancia, dolcemente. "Sono solo stanca e ho
un
pò di raffreddore tesoro. Mi lacrimano gli occhi... Va con
Prudie,
dopo scenderò a mangiare con voi quando la zuppa
sarà pronta".
Jeremy
la guardò smarrito, aveva capito che stava mentendo e
nonostante
avesse solo tre anni, divenne serio quasi fosse già adulto.
"Mangi
davvero? Con noi?".
"Sì...".
Prudie
lo portò via, cercando di distrarlo con una battuta e
Demelza si
gettò sui cuscini, col viso, affondando in essi. E appena i
passi
per le scale si furono attutiti e nessuno poteva sentirla,
scoppiò a
piangere.
Pianse
ogni lacrima che aveva in corpo, ogni lacrima che per mesi aveva
tenuto dentro di se, urlò tutto il suo dolore e
singhiozzò talmente
forte che le fece male lo stomaco.
Pianse
per il suo amore che se n'era andato e l'aveva dimenticata, pianse
per la vita incerta che l'attendeva, pianse perché lasciare
Nampara
significava lasciare l'unico luogo che avesse sentito casa sua da
quando era nata, pianse per i suoi bambini che sarebbero cresciuti
senza un padre e senza alcuna certezza... Pianse perché era
disperata ed aveva paura, perché era stanca e debole e non
riusciva
a riprendersi, pianse perché non avrebbe avuto nessuno a cui
appoggiarsi, sarebbe stata sola e ogni decisione sui bambini sarebbe
stata una sua esclusiva responsabilità. Pianse per Jeremy
che
aspettava ancora un padre che non lo voleva più e che forse
non lo
aveva nemmeno mai amato, pianse pensando a cosa avrebbe detto ai suoi
figli da grandi, quando gli avrebbero chiesto di lui...
Pianse
per ore, pianse senza riuscire a fermarsi dopo che per mesi si era
imposta di non farlo. Garrick, che riposava per terra accanto al
letto, saltò sul materasso e si stese al suo fianco,
leccandole
dolcemente una guancia. Le rimase vicino, in silenzio, senza
abbandonarla, dandole quell'amore discreto e puro che solo i cani
sanno dare. Lo strinse a se, cercando come da bambina, di trovare in
lui un appiglio per non sprofondare. Bagnò il cuscino, le
lenzuola,
la sua camicia da notte e pian piano si sentì più
leggera e la
morsa allo stomaco si attenuò. E poi, sfinita, si
addormentò e
cadde in un sonno breve ma profondo, buio e senza sogni né
incubi.
Le lacrime si asciugarono sulle sue guance lasciando una traccia di
sale sul suo viso e sulle sue labbra e dormì, cercando in
quel sonno
la pace per rialzarsi, cenare e ricominciare a vivere.
Fu
il profumo della zuppa a svegliarla, che arrivò alle sue
narici
dalla fessura sotto la porta. Sapeva di carne, di carote e di patate,
di casa e di serate invernali attorno al camino.
Si
costrinse ad alzarsi, ricordando quanto promesso a Jeremy. Era
sfinita, si sentiva svuotata di tutto ma, per la prima volta da mesi,
incredibilmente leggera. Era debole, il pianto e lo stomaco vuoto
l'avevano spossata ma in un certo senso si sentiva più forte
di
poche ore prima.
Forse
Prudie aveva ragione, aveva bisogno di piangere per riprendere a
vivere...
Si
guardò allo specchio, sembrava un fantasma da quanto era
pallida e
non voleva essere così. No, i suoi figli non l'avrebbero
vista in
quello stato, aveva loro e loro erano un valido motivo per vivere.
Anche
lontano dalla Cornovaglia.
Si
pettinò, si risciacquò il viso, si tolse la
camicia da notte e si
vestì. Poi si avvicinò al comodino del letto,
prendendo ed aprendo
la busta che Dwight aveva lasciato per lei. Lesse quell'indirizzo di
quella città lontana e a lei sconosciuta ma che poteva
rappresentare
il suo futuro. Non voleva appoggiarsi eccessivamente sui suoi due
amici ma al momento doveva ingoiare il suo orgoglio e rimanere da
loro, finché non si fosse ripresa. Poi avrebbe iniziato a
camminare
nuovamente da sola, coi suoi figli.
Si
guardò attorno, in quella stanza dove era diventata donna e
madre.
Lasciare Nampara sarebbe stato doloroso ma sarebbe stato ancora
più
difficile restare, ora che Ross aveva reso chiaro che per loro non ci
sarebbe più stato. Non avrebbe permesso che i suoi figli
crescessero
affacciati a quella finestra, ad aspettare qualcuno che non sarebbe
mai venuto per loro. No, loro meritavano di più! E pure lei!
Ross
aveva fatto la sua scelta e lei avrebbe fatto altrettanto, non doveva
chiedergli il permesso per andarsene, per legge lui non aveva
più
alcun diritto su di loro, oltre che doveri.
Deglutì,
prese un profondo respiro e scese al piano di sotto con Garrick che
le trotterellava dietro. Aveva pianto, si era disperata e ora si
sentiva nuova. Doveva riprendere a mangiare, preparare i bagagli,
sistemare le ultime incombenze e poi partire.
Prudie,
appena la vede, la osservò preoccupata ma poi le sorrise
notando la
sua espressione più forte e decisa. "Tutto bene?".
Demelza
annuì, chinandosi ad abbracciare Jeremy che le correva
incontro. Lo
prese in braccio, lo baciò sulla fronte e gli fece il
solletico sul
pancino. "Mai stata meglio! Anzi, ho deciso che faremo un
viaggio".
Prudie,
che stava mescolando la zuppa sul fuoco, le sorrise. "Londra?".
"Londra,
sì! Dobbiamo preparare i bagagli e prenotare la carrozza per
il
viaggio. Ci metteremo all'opera domani".
Jeremy
le tirò il colletto del vestito. "Dove andiamo?".
Lo
strinse a se, controllando Clowance che dormiva nella cesta, sulla
panca dov'era seduta. "In una grande città! Vedrai, ti
piacerà!
Andremo da zia Caroline e da Dwight, nella loro nuova casa.
Sarà
bellissimo vedrai! Tu, io, Garrick, Prudie e Clowance ci divertiremo
un sacco e faremo tante cose nuove".
Jeremy
a quelle parole, abbassò lo sguardo, quasi timoroso.
"Papà?".
Si
morse il labbro, ora veniva la parte difficile. "Papà non
viene, resta quì! Pazienza, ci divertiremo tanto senza di
lui...".
Jeremy
non sembrava eccessivamente contento. "Sì mamma...".
Lo
strinse a se, cercando di infondergli coraggio. "Ti fidi della
mamma?".
"Sì".
"E
allora tranquillo, ti prometto che saremo tanto felici".
"Giura!".
"Giuro...".
Prudie
divenne pensierosa, si avvicinò e le poggiò una
mano sulla spalla.
"Come ce lo paghiamo il viaggio? Se non vuoi usare i soldi che
il signore ha lasciato... e non hai voluto quelli del dottore e di
sua moglie...".
Demelza
si morse il labbro, aveva pensato anche a quello poco prima, mentre
si spazzolava i capelli. Voleva iniziare una nuova vita e doveva
liberarsi di tutto quello che l'aveva legata a Ross. C'era qualcosa
che ancora non era riuscita a lasciare e, visto il valore, ora poteva
fare al caso suo. Sarebbe stato difficile fare anche quel passo ma in
fondo quell'oggetto non le serviva più a niente. "Domani,
mentre fai i bagagli, andrò a Truro. Posso vendere la fede,
è un
anello d'oro e dandolo al banco dei pegni, ci ricaverò la
cifra
necessaria per il viaggio".
Prudie
impallidì. "La fede? Ma...".
Demelza
la bloccò seccamente, non voleva sentire obiezioni al
riguardo. "Non
mi serve più, posso venderla! Ciò che mi serve
ora è mangiare ed
essere in forze per allattare Clowance e andare in città
domani.
Portami la zuppa per favore".
Prudie
non aggiunse altro. Si avvicinò alla pentola, prese un
piatto e lo
riempì fino all'orlo.
...
Aveva
aspettato alcuni giorni prima di partire e quando la neve aveva
smesso di scendere dando una breve pausa dal gelo alla gente della
Cornovaglia soffocata da quell'inverno durissimo, si era messa
d'accordo col cocchiere e aveva lasciato Nampara.
Era
stata la cosa più difficile di tutte, quella. Erano partiti
al
mattino presto quando i bambini ancora dormivano e lei, dopo aver
messo in carrozza i due piccoli con Prudie e Garrick e caricato i bagagli,
aveva passato alcuni minuti da sola girando una ad una le stanze
ormai deserte e silenziose di quel posto che avrebbe sempre amato e
sempre portato nei suoi ricordi. Accarezzò quel letto
testimone di
un amore che per lei era stato assoluto, sia verso Ross che verso i
bambini che lì vi erano nati, guardò quella
cucina dove aveva
cucinato da sguattera prima e da moglie poi, sfiorò la
scrivania
nella biblioteca dove spesso, con Ross, si era soffermata a guardare
mappe e piantine delle loro miniere, diede un'ultima malinconica
occhiata al suo amatissimo giardino.
Girò
tutta la casa, mentre ancora una volta il suo viso era inondato di
lacrime. Era la fine di un'epoca, di un mondo, della sua vecchia
vita. Ma era giusto così, era la casa di Ross quella, la
casa che
gli era stata lasciata in eredità dai suoi genitori e lei e
i
bambini la stavano occupando illegittimamente, dopo l'annullamento
del matrimonio. Il loro futuro era altrove adesso...
Uscì,
chiuse la porta con la chiave, se la mise in tasca e si
asciugò le
lacrime. Poi si diede un tono, salì sulla carrozza e prese
in
braccio Clowance, stringendola a se ed ispirandone il profumo buono
che ogni neonato aveva impresso sulla pelle.
Diede
segno al cocchiere di partire e per prima cosa, prima di incamminarsi
verso Londra, si diresse verso l'ultima tappa prima di iniziare
quella nuova vita.
Percorsero
i sentieri infangati che da Nampara portavano a Trenwith, con la
carrozza che sobbalzava e rischiava di impantanarsi ad ogni curva e,
quando furono abbastanza vicini, chiese al cocchiere di fermarsi e
diede Clowance a Prudie. "Aspettami quì coi bambini. Vado a
portare a Ross le chiavi di Nampara, torno subito".
Prudie
strinse a se i due piccoli ancora addormentati. "Non li porti
con te? Non vuoi che il signore li veda, prima di...".
Lo
sguardo di Demelza si indurì. "No, non vedo motivo per
farglieli incontrare. Jeremy piangerebbe, a Ross non importerebbe e a
me verrebbe il fegato amaro. Non è più il loro
padre, non mi pare
che loro gli manchino e prima Jeremy si dimentica di lui, meglio
è".
Dopo aver pianto si sentiva forte, decisa, pronta a fare quanto
necessario per i suoi figli e per la loro felicità. Scese
dalla
carrozza, percorse il sentiero che portava a Trenwith,
oltrepassò il
giardino e bussò con decisione.
Credeva
sarebbe arrivata una domestica ad aprirle, era mattino presto, ma con
sorpresa si trovò Ross davanti, con la mantella indosso e
probabilmente pronto ad andare in miniera. Sussultò,
spalancando gli
occhi come se vedesse un fantasma, appena realizzò che lei
era
davvero lì. "Demelza...".
"Non
ti agitare, mi fermerò solo un attimo" – rispose,
freddamente. Sentì di volerlo picchiare, in quel momento...
Come
aveva potuto non venire nemmeno a conosocere la loro piccola,
bellissima Clowance? Come poteva guardarsi allo specchio sapendo di
non aver preso in braccio la sua bambina? Come poteva aver
dimenticato Jeremy?
“Non
saresti dovuta venire a Trenwith”. La
voce di Ross sembrava stanca e
lui sembrava di colpo invecchiato di dieci anni.
Demelza
osservò Ross e si accorse che, nonostante cercasse di
apparire
fermo, la sua voce tremava e faticava a guardarla in viso. Era
sfinito dalla situazione, era evidente. E lei era stanca, aveva
partorito da poco
e nulla le era stato d'aiuto, in un momento tanto delicato.
“Non mi
fermerò molto, devo solo darti una cosa” - ripeté,
con un filo di voce.
Ross
abbassò il capo, immaginando
più che bene perché lei fosse quì.
“Ho ricevuto la tua lettera... Il bambino... La bambina? Beh,
come
sta? Volevo venire ma è
successo un disastro quì
e... cerca di capire... ho bisogno di tempo per gestire tutto e
capire come farlo... Avevi
ragione, è difficile, quasi impossibile far funzionare le
cose e sto
cercando un modo... Scusa se non ho potuto fare altro che scriverti
una lettera di risposta”.
“Lettera?
Di cosa parli?”. Demelza
lo guardò e non provò nulla. Il suo cuore era
talmente dolorante e
a pezzi che non riusciva più a sentire niente. Dolore,
rabbia,
delusione... Avrebbe voluto avvertirli ma la sua mente e il suo cuore
erano come una tavola bianca e opaca. Si sentiva svuotata, morta,
finita per
quel che riguardava loro due.
E se non fosse stato per i suoi due bambini, si sarebbe abbandonata
all'oblìo ma
doveva vivere, con loro e per loro. Erano la sua ragione di lotta e
nessuna delle farfugliate giustificazioni o scuse di Ross avrebbe
più
potuto ammorbidirla o farla vacillare dalla sua decisione.
“Non devi giustificarti, non fa niente, non sei obbligato a
prestare attenzione a noi”.
“Demelza...”
- chiese lui, accigliato - “Non hai ricevuto la mia
lettera?”.
“Non
so di cosa parli e onestamente non mi interessa”.
Ross
sussultò,
sorpreso e smarrito.
“Sei sicura?
Demelza, so
che sei arrabbiata ma ti prego, questo tuo atteggiamento non
aiuta”.
“Non
sono arrabbiata, sono
solo molto stanca”.
Lui
abbassò il capo. “Lo vedo... Sei così
pallida, sembri malata. E
sei dimagrita così tanto...”.
“Mi
riprenderò!”.
“Lo
so, sei più
forte e brava di me in questo.
Credi che per me sia facile tutta
questa situazione?”.
Lei
fece un sorriso strano, privo di gioia o sarcasmo. “Non so
come sia
per te, ma ti assicuro che al momento io sto peggio”.
Ross
sospirò, si sentiva ferito e in colpa, era evidente.
“Come stai? E
il nostro bimbo? Demelza, vederlo era quanto più
desideravo”.
Lei
deglutì. Non era la LORO bambina. Era solo sua...
“Stiamo tutti
bene”.
“E'
un maschio? O una femmina?”.
“Non
ha importanza”.
Ross
ispirò profondamente, frustrato. “Demelza, ti
prego”.
Lei
non disse nulla, non ne aveva la forza. Allungò la mano,
prese
quella di quell'uomo che un tempo era stato suo marito, una mano che
l'aveva accarezzata, che aveva stretto la sua e l'aveva sorretta
mentre cresceva e, in un gesto che le fece sentire una profonda fitta
al cuore, fece scivolare fra le sue dita la chiave. “Credo
che
debba ridartela”.
Ross
osservò quanto aveva fra le mani mentre un'espressione di
terrore
prendeva possesso del suo viso. “Cosa significa?”.
“E'
la chiave di Nampara. E' casa tua ed è giusto che la riabbia
tu, a
me non servirà più”.
Lui
si avvicinò, prendendola per le spalle. “Demelza,
che significa?”.
“Me
ne vado. Coi bambini, lontano da qui... Prudie vuole venire con me e
io non sono riuscita a farle cambiare idea. Devo andare via o
impazzirò e questo farà solo male ai miei
figli”.
Ross
spalancò gli occhi. Era annientato e si sentiva impotente,
terrorizzato...
“Te lo proibisco”.
Lei
si scostò da lui. “Non ne hai alcun diritto, lo
ricordi che non sono più tua moglie?”.
“Non
ne ho diritto? Te ne vai coi miei figli, dannazione!”.
Lei
sorrise tristemente. “Non sono più i tuoi figli,
hai fatto una
scelta e non siamo più la tua famiglia. Non legalmente
almeno e
nemmeno di fatto visto che da mesi nemmeno vieni a farci visita”.
Gli
occhi di Ross divennero lucidi. “Sarei venuto a Nampara, devi
solo
darmi tempo. E' tutto complicato e faccio del mio meglio ma sarei
venuto! Davvero! Non mi importa cosa dice la legge, ho due figli con
te e io mi sento e mi sentirò sempre loro padre. Amo i miei
figli
e... Dannazione,
DEVI aver ricevuto quella lettera!”.
“Ross,
non sono una bugiarda! Non SO di cosa parli!!!”.
Ross,
disperato, scosse la testa. “Come può
essere...?”. Poi si voltò
verso la porta di Trenwith che aveva chiuso alle sue spalle e il suo
sguardo divenne improvvisamente cupo. “Demelza, posso
spiegarti
tutto...”.
Lei
lo bloccò,
stava per dire qualcosa che non era pronta e non voleva sentire.
“La
tua famiglia ora è questa, Ross. E' a loro che devi pensare,
ad
Elizabeth e al bambino che nascerà. Non hai risposto al mio
messaggio quando ho partorito, non
inventare scuse,
e ora mi rendo conto che hai fatto bene, ciò che succede a
noi non
ti deve più riguardare. Hai la tua famiglia, quella
che hai sempre sognato e desiderato,
e io devo mandare avanti la mia, scegliendo il meglio per i miei
bambini”.
“Demelza,
andare dove? Per fare cosa? Dannazione, devi restare, sono qui e
sarò
sempre qui per voi”.
Lei
scosse la testa. “Andrò ovunque ci sia un posto
per me dove
ricominciare. Andrò dove sarò serena e lo saranno
i miei figli.
Andrò dove Jeremy potrà dimenticarti e non
passerà più ore alla
finestra ad aspettarti, piangendo e chiedendomi se è colpa
sua se
sei andato via. Andrò dove potrò lavorare, sono
la figlia di un
minatore e non sono certo la prima che viene abbandonata dal suo
uomo. Se davvero ami i bambini, non fare storie e fammi andare via in
pace. Per il loro bene e per il tuo, lascia che vada via. Tu potrai
iniziare la tua vita serenamente con il bambino che nascerà
e io
potrò ricostruire la mia, di vita”.
Ross
le strinse il polso, la attirò a se. “Demelza, ti
prego, non
è come pensi, questo non è quello che io voglio...
Dimmi almeno dove hai
intenzione di andare,
dove cercarti...”.
“Non
voglio che tu mi cerchi, questo è un addio Ross. Ti auguro
di essere
felice, davvero! Ora potrai vivere con la donna che sogni da sempre,
con il tuo amore, quello vero. Non pensare a me, a noi...
Andrà
bene, io saprò cavarmela e tu in pochi mesi ti sarai
dimenticato di
me e dei bambini e sarai semplicemente felice come lo è ogni
uomo a
cui la donna che ama da un figlio”.
Ross
la lasciò andare, capì anche lui che non poteva
fermarla e
che forse davvero non ne aveva alcun diritto. L'aveva persa e
chiederle di restare forse sarebbe stato l'ennesimo atto egoistico
nei suoi confronti. Era stanca, distrutta, sull'orlo di una malattia
e se voleva il suo bene e il suo bene era lontano da quell'inferno,
doveva lasciarla andare.
“Sarei
venuto da te, quando Elizabeth partorirà, io...”.
Demelza
sorrise, tristemente. “Ross, lo sai meglio di me che poi
saresti
rimasto bloccato da altre scuse. Non saresti venuto e io non
permetterò che i miei bambini restino sempre alla finestra
di casa
ad aspettare qualcuno che per loro non troverà mai
tempo”.
Ross
strinse i pugni, arrendendosi all'evidenza di quella realtà.
Ormai
capiva anche lui
che non c'era
alternativa, che non ce n'erano mai state. “Ti prego, almeno
scrivimi, di tanto in tanto”.
“No
Ross. Non ne vedo il motivo”.
“E
i bambini?”.
Lei
sorrise tristemente. “Saranno felici, farò in
modo che lo
siano”.
Poi
lo guardò un'ultima volta e lo vide fragile, sperso,
indifeso e
impotente. Sembrava un uomo finito ma era certa che presto sarebbe
rinato e che sarebbe stato felice di nuovo. Era la decisione giusta,
quella che aveva preso. Deglutì, si morse il labbro e si
impose di
non piangere oppure tutti i suoi buoni proponimenti sarebbero svaniti
in un attimo. Gli
si avvicinò, gli diede un delicato bacio sulla guancia e poi
si
allontanò cercando di impedire alle lacrime di scendere.
“Buona
fortuna, Ross”.
Girò
le spalle, accelerò il passo e si diresse al cancello di
Trenwith. A
pochi metri, nascosta fra gli alberi, c'era la carrozza con Prudie e
i suoi figli. Era ora di partire, era ora di andare via e cercare di
vivere. Lontano...
Salì
sulla carrozza, chiuse il portellone e sprofondò fra i
cuscini,
cercando di regolarizzare il suo respiro.
Prudie
le strinse la mano. “Come stai?”.
“Bene,
credo...”.
“Lo
hai visto?”.
“Sì,
mi ha aperto lui di persona... Sembrava stanco e ha parlato di una
lettera... E' arrivato qualcosa per me nei giorni scorsi, da
Trenwith?”.
Prudie
scosse la testa, pensierosa. “No, nulla”.
Demelza
alzò lo sguardo e fissò il soffitto mentre anche
quell'ultima
illusione svaniva. “Lo immaginavo...”.
“Sei
sicura di volerlo davvero fare?”.
Demelza
guardò i suoi bimbi che dormivano ancora tranquilli e
incoscienti di
quello che succedeva attorno a loro. “Sì, lo sono.
Non c'è motivo
per restare, lui ha scelto e lo devo fare pure io. In fondo lo sapevo
fin dall'inizio, è solo colpa mia”.
“Cosa?”
- chiese Prudie, spalancando gli occhi.
Lei
sorrise tristemente, mentre la carrozza iniziava il suo placido
cammino. “L'ha sempre amata, Elizabeth. Come avrebbe potuto
amare
me, la figlia di un minatore? Non sono mai stata alla sua altezza e
nemmeno lontanamente paragonabile alla perfezione di Elizabeth. L'ha
sempre amata Prudie, sempre. E il vero amore a volte ci mette tanto,
a volte si perde e deve percorrere strade tortuose per ritrovarsi ma
poi ce la fa, dovessero volerci anni, lacrime e dolore. Il vero amore
vince sempre...”.
Prudie
restò in silenzio e
con quel pensiero e quelle parole, Demelza lasciò la
Cornovaglia.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Per
un attimo, appena Demelza se ne fu andata, Ross vide tutto nero e fu
assalito da un forte senso di nausea, tanto che dovette appoggiarsi
alla porta per non cadere a terra e vomitare tutta la colazione.
Se
n'era andata... Lei, quei bellissimi capelli rossi pieni di boccoli,
quella voce dolce e melodiosa che sapeva intonare canzoni in grado di
toccare il cuore di chiunque, quel sorriso sincero e gentile, quella
voglia instancabile di lavorare e stargli vicino...
Lei...
E
il suo piccolo Jeremy a cui qualcun altro avrebbe insegnato come
diventare uomo... Stavano andando via, stavano scappando da lui per
sempre perché era stato un marito e un padre orribile e li
aveva
abbandonati a loro stessi a causa dei suoi errori che avevano pagato
loro, più che lui, sulla pelle.
Se
ne stavano andando col suo bambino più piccolo... O
bambina... Non
sapeva nemmeno il sesso di suo figlio, il suo nome, nulla. Non
avrebbe nemmeno mai avuto il ricordo di un attimo insieme e di un
volto da tenere a mente...
Deglutì,
faceva male. Al cuore, a ogni muscolo, a ogni osso, a ogni fibra del
suo corpo che sembrava, in quel momento, disintegrarsi in mille
pezzi.
Poteva
fermarla, poteva urlarle di restare, ma per cosa? Cosa poteva
offrirgli ormai, lui? Come poteva lottare per lei e per la
felicità
dei loro bambini, lui che era stato l'artefice del loro dolore?
"Io
non voglio...". Lo disse ad alta voce, al vento. No, non voleva
che andassero via e non voleva soprattutto che lei partisse pensando
di non contare nulla per lui. Non voleva quella vita, non voleva il
bambino che aspettava Elizabeth, non voleva Trenwith e non voleva un
matrimonio che lo stava rendendo prigioniero, togliendogli carattere,
forza, orgoglio e voglia di vivere.
Doveva
tentare, decidere, essere uomo! E Ross, quello testardo, che
sbagliava ma che sapeva combattere per chi amava, quello orgoglioso e
che non si fermava davanti a niente, non avrebbe fatto andar via la
donna che più amava.
Doveva
tentare, capire cosa fosse successo e trovare una via d'uscita!
Però...
Davvero
Demelza non aveva ricevuto quella lettera? Lei sembrava non saperne
nulla e non era da Demelza mentire ma quindi, che era successo? Aveva
lasciato la busta in mano alla signora Tabb mentre aiutava Elizabeth
a sistemarsi, dopo la visita del dottor Choake, intimandogli di
portarla subito a Nampara...
Vide
nero, di nuovo! E stavolta dalla rabbia!
Era
inutile stare troppo a chiedersi cosa fosse successo, il suo istinto
lo sapeva già e ora era arrabbiato, lo era talmente tanto da
voler
spaccare ogni cosa.
Chiuse
la porta dietro di se e come una furia salì le scale che
portavano
alla camera di sua moglie. In quei mesi era stato un dannato
cagnolino, aveva accontentato Elizabeth in tutto, lei aveva fatto
leva sui suoi sensi di colpa per ottenere tutto ciò a cui
pensava di
avere diritto e lui glielo aveva lasciato fare perché
pensava di
doverglielo. Ma ora basta, che senso aveva continuare quella farsa?
Che senso aveva vivere con una donna che, se il suo istinto non si
sbagliava, agiva alle sue spalle? Come poteva sopravvivere un
rapporto dove non c'era la minima fiducia fra due sposi?
Arrivò
al piano di sopra, percorse a grandi falcate il corridoio e
spalancò
la porta della stanza di sua moglie con violenza, facendola sbattere
contro la parete.
Seduta
alla toeletta, aiutata dalla signora Tabb che le pettinava i capelli,
Elizabeth indossava ancora la camicia da notte e pareva essersi
appena svegliata. La donna sussultò mentre la signora Tabb
impallidì
davanti a quell'arrivo brusco. "Ross, ti sembra il modo di
entrare nella stanza da letto di una signora? Le buone maniere dove
le hai lasciate questa mattina?".
Era
irritata, era evidente. E lui lo era più di lei e non aveva
tempo da
perdere. "Devo bussare per caso, per entrare in camera di mia
moglie?".
"Certo
che no... Ma...".
Ross
guardò la signora Tabb di sbieco, furente. Lei doveva
sparire, da
quella stanza e da Trenwith. "Voi siete licenziata! Prendete le
vostre cose, subito, e andatevene".
La
signora Tabb guardò Elizabeth con terrore e sua moglie si
alzò di
scatto dalla sedia, guardandolo come se fosse impazzito. "Ross,
che stai dicendo?".
"Che
licenzio una persona del mio personale. Non posso? Sono o non sono il
signore di Trenwith? Sono o non sono responsabile della
servitù?".
Lo chiese con tono arrogante, voleva provocarla! Non aveva mai
desiderato essere padrone e capo di una famiglia, aveva sempre
sognato una di avere accanto una donna con cui prendere insieme le
decisioni ma con Elizabeth, in quel momento, sentiva di dover dar
sfogo al suo orgoglio e al suo ego che aveva tenuto troppo a lungo a
guinzaglio per cercare di far funzionare un rapporto che non aveva
comunque futuro.
Elizabeth
si avvicinò con circospezione. Diede una rapida occhiata a
una
terrorizzata signora Tabb intimandole di andare fuori dalla stanza e
poi cercò di prendergli la mano per calmarlo. "Certo Ross,
sei
il capo di Trenwith ma non vedo motivo per licenziare la signora
Tabb. E' sempre stata una servitrice fedele fin dai tempi in cui era
in vita tuo zio...".
La
fissò e in quel momento si rese conto che Elizabeth per lui
era
un'estranea, una donna a lungo idealizzata ma che mai aveva
conosciuto davvero. Gli vennero in mente le parole di Francis di
alcuni anni prima, sussurrate proprio in quella casa in cui aveva
portato Demelza nel loro primo Natale da sposati. Era vero quello che
aveva detto suo cugino, lui aveva già fra le sue mani tutto
quello
che voleva e che pareva invidiare agli altri... E come un idiota se
n'era accorto troppo tardi... "Una servitrice fedele, quando gli
si dice di fare qualcosa, la fa!".
Elizabeth
si accigliò. "Di che cosa parli?".
"Di
una lettera che doveva consegnare a Nampara la settimana scorsa, il
giorno in cui Demelza ha partorito. La ricordi, vero? C'eri anche tu
quando l'ho consegnata alla signora Tabb, intimandole di consegnarla
a Nampara...".
Elizabeth
impallidì, dimostrando di capire perfettamente a cosa lui
alludesse.
"Ross, che è successo?".
"Scommetto
che lo sai". No, non aveva alcuna voglia di essere accomodante.
Elizabeth
deglutì e la sua espressione si indurì come
faceva sempre, quando
batteva i piedi per ottenere qualcosa. "Era necessario evitare
di consegnare quella lettera ed era perfettamente inutile che Demelza
la leggesse. Sei mio marito e non dovresti nemmeno pensarle le cose
che hai scritto ma lo accetto, accetto che per ora tu provi
sentimenti confusi. Ma non permetterò che tu pensi di far
parte
della vita di quelle persone. Non eri obbligato a sposarmi, potevi
voltare la testa dall'altra parte, non interessarti del bambino e
continuare la tua vita con Demelza. Ma hai scelto di sposare me, hai
scelto di essere il capo di questa famiglia. MIO marito e il padre di
NOSTRO figlio! Per tutto il resto non c'è posto".
Santo
cielo, in quel momento sentiva di odiarla... Come aveva potuto
intromettersi in quella faccenda? Era vero, aveva sposato lei... Ma
era altrettanto vero che con Demelza aveva formato una famiglia che
amava... "Era nato mio figlio! E ora Demelza se n'è andata,
lo
sai? Se n'è andata perché tu hai impedito,
bloccando quella
lettera, che lei si sentisse amata e mi sentisse vicino. Se
n'è
andata per permettere ai miei bambini di vivere sereni
perché quì
non possono più farlo, in questo stato di cose! Ho
rinunciato a
tutto per dovere in questi mesi ma i miei figli e Demelza, in un
giorno tanto importante, erano un mio diritto. Un nostro diritto, mio
e di Demelza... Non c'entravi, NON DOVEVI METTERE MANO NELLA NASCITA
DI MIO FIGLIO!".
Elizabeth,
quasi non l'avesse sentito urlare, sembrò per un attimo
sollevata.
"Demelza se n'è andata?".
"E'
venuta quì poco fa!" - disse, togliendosi le chiavi di
Nampara
dalla tasca per mostrargliele – "Mi ha riportato queste e se
n'è andata chissà dove, coi miei bambini che non
rivedrò più".
Elizabeth
lo fissò, glaciale. "Meglio così. Per lei, per
noi... Per i
bambini... La tua vita è quì e lei
potrà ricostruire la sua
altrove, lontano da dove potrebbe far danni a me, te e al nostro
bambino".
Lui
ricambiò quello sguardo con la medesima freddezza. Covava
una rabbia
cieca, apparentemente calma ma proprio per questo terribilmente
pericolosa. "Io non lo voglio, il nostro bambino... Non voglio
vivere quì, non voglio essere sposato con te, non voglio
nulla di
questa vita!". Finalmente l'aveva detto, finalmente aveva
ammesso anche a se stesso, oltre che a lei, ciò che davvero
voleva e
non voleva. Era terribile per Elizabeth sentirselo dire, ne era
consapevole. Ma le cose stavano così...
Elizabeth
spalancò gli occhi, forse finalmente spaventata. Aveva
capito anche
lei che il vento era cambiato e che il Ross arrendevole non esisteva
più. "Che vuoi dire?".
"Quello
che ho detto...".
"Ross...".
Elizabeth
cercò di avvicinarsi ma lui la respinse. "Fa quello che
vuoi.
Tieniti la signora Tabb, organizza la vita di Trenwith come ti pare,
riposa come ti ha detto il dottore... Fa tutto come vuoi e quando
vuoi. Ma da sola...".
"Che
vuoi fare?".
Ross
allargò le braccia, guardando il soffitto e ridendo come
fosse
ubriaco. Che diavolo ci era andato a fare in quel posto? Come aveva
potuto distruggere la sua famiglia? La sua vita, la sua strada e il
suo futuro non gli erano mai parsi tanto chiari come in quel momento.
"Che voglio fare? Uscire, prendere il mio cavallo, cercare la
carrozza che sta portando via la mia famiglia, implorare MIA MOGLIE
di perdonarmi, urlare a lei e ai quattro venti che la amo,
abbracciare forte e prendere in braccio i miei bambini e tornare con
loro a casa nostra. Questo voglio fare e lo farò. Adesso!".
Elizabeth
sbiancò, fece per toccarsi il ventre gonfio ma ormai quella
scusa
non funzionava più. Era terrorizzata, era evidente, ma
questo non lo
avrebbe fermato.
"Ross,
sono tua moglie".
"No!
Non lo sei, non è un pezzo di carta che ti rende tale...
Questo non
è un matrimonio e noi non siamo una famiglia! Annulla il
matrimonio,
se ti va... Visto come può essere facile?".
"ASPETTO
IL TUO BAMBINO!" - urlò lei, isterica.
Aprì
la porta, osservandola di sbieco prima di uscire. "Quando
nascerà, penserò al suo sostentamento".
Elizabeth
gli si gettò addosso, con la forza della disperazione
cercò di
allontanarlo dalla porta ma lui la respinse, di nuovo, costringendola
ad indietreggiare. "Attenta, soffri di contrazioni, no? Choake
ha detto che non devi fare sforzi".
"Ross,
ti prego... Sono incinta, ho bisogno di te".
In
quel momento Ross pensò a Demelza e a come l'aveva lasciata
sola per
mesi nella medesima situazione. LEI aveva voluto che Demelza fosse
sola. "Anche Demelza aveva bisogno di me... Ora immagini come si
è sentita? Forse no, forse però lo imparerai
sulla tua pelle nei
prossimi mesi, vivendo la stessa esperienza che hai preteso che io
infliggessi a lei".
"Ross...".
Le
voltò le spalle, a lei e ai giovani innamorati che erano
stati,
testimoni di un amore che poteva esistere solo nei sogni romantici di
due ragazzini che ormai erano cresciuti e avevano preso strade
diverse. Aveva sbagliato a voler fermare il matrimonio di Elizabeth
con George, sarebbero stati felici insieme... Ma forse doveva
provare, vivere sulla sua pelle il rapporto con lei e conoscersi,
perdere Demelza e il rispetto per se stesso, perdere i suoi migliori
amici e la stima di chiunque... Ora, a carissimo prezzo, aveva capito
e doveva sbrigarsi, trovare Demelza e implorarla di perdonarlo. Non
ne aveva il diritto, non si meritava nessun perdono ma doveva provare
e sperare che il loro amore, nonostante tutto, sarebbe stato
abbastanza forte da rinascere dalle ceneri.
Doveva
correre!
Uscì
di corsa, scese le scale e poi raggiunse le stalle. Sentiva i
singhiozzi di Elizabeth dietro di lui ma stavolta non si sarebbe
fatto incantare da quelle lacrime. Non c'era speranza in quel
matrimonio e rimanere sarebbe stato solo un grosso errore.
Salì
a cavallo, e si immise nel sentiero mentre la neve, ghiacciata,
iniziava a scendere sferzandogli il viso.
Guardò
a destra, guardò a sinistra, non aveva idea di dove fosse
diretta
Demelza e doveva andare a tentativi, contando sulla fortuna. La neve
aveva coperto le tracce delle carrozze sullo sterrato e solo
l'istinto lo guidava.
Spronò
il cavallo, lo fece correre e si avventurò nella tempesta.
Faceva
freddo ma non gli importava. Era la sua ultima possibilità
quella,
poi l'avrebbe persa per sempre.
La
brughiera era deserta, la temperatura glaciale. Però non
avvertiva
freddo anzi, il terrore di perdere la sua famiglia per sempre gli
faceva bruciare le guance e battere all'impazzata il cuore.
Cavalcò
a lungo, alla cieca, per i sentieri e per i prati. Non aveva idea di
dove fosse diretta Demelza, se stesse tornando ad Illugan, se fosse
diretta da Verity, se avesse trovato lavoro a Sawle o a Truro, oppure
se la sua meta fosse più lontana. Le strade erano tante ma
tutte
parevano deserte ed essersi inghiottite, assieme alla neve, qualsiasi
viaggiatore che si era avventurato su di esse.
Il
cielo era plumbeo, forse Demelza e i bambini avevano freddo, forse
sarebbe tornata indietro, forse avrebbe fatto una tappa intermedia
per far giocare Jeremy. Ma non vide nessuno ed era come se, nel
tempo intercorso a litigare con Elizabeth, una coltre di nebbia e di
oscurità fosse calata sulla Cornovaglia, portandosi via con
se
chiunque avesse trovato sul suo cammino.
Galoppò
a lungo, galoppò finché il cavallo
riuscì a farlo ma poi la povera
bestia si fermò. Era esausto, coperto di ghiaccio sulle
gambe e
aveva fame e freddo. Tentò di farlo ripartire ma non gli
riuscì. E
alla fine, sospirando, Ross dovette arrendersi all'evidenza.
Si
guardò attorno, la visibilità non era che di
pochi metri. Nevicava
fitto, l'oscurità pareva voler avvolgere ogni cosa e
d'improvviso
ebbe freddo e si sentì stanco. Senza forze...
Nemmeno
durante la guerra, quando aveva giaciuto a terra ferito e sanguinante
in mezzo ai suoi compagni morti, si era sentito così...
Morto
dentro, col buio nel cuore e con la consapevolezza di aver perso
tutto...
"Dove
sei?" - sussurrò rivolto al vento, consapevole che Demelza
doveva già essere molto lontana.
Non
era mai stato da lui arrendersi ma non poteva fare altro. Ogni
direzione presa poteva essere quella sbagliata e forse Demelza, visto
il tempo pessimo e la presenza di due bambini piccoli, poteva essere
tornata a casa. Certo, aveva lasciato a lui le chiavi di Nampara ma
forse...
Fece
dietro front, accarezzando il cavallo e andando al passo, diretto
verso casa. La sua vera casa...
Che
lei fosse tornata, era la sua ultima speranza. Poi avrebbe dovuto
cercarla ma non sapeva dove, come, in quale luogo. E soprattutto, non
sapeva se ne avesse davvero il diritto. Aveva annullato il loro
matrimonio, tolto il suo cognome ai suoi bambini, non era andato a
conoscere il suo figlio più piccolo ed esisteva un altro
figlio in
arrivo, di un'altra donna. Perché Demelza avrebbe dovuto
accettare
di tornare? Cosa poteva offrirle se non dolore e un futuro incerto?
Arrivò
a Nampara che era ormai quasi sera. Tutto era deserto, l'aia era
battuta dal vento che faceva volare la neve ghiacciata come se fosse
stata borotalco e c'era un silenzio assordante che spezzava la sua
mente e il suo cuore.
Portò
il cavallo nella stalla, gli diede della biada e poi aprì la
porta
di quella casa che era la SUA vera casa, la casa da dove mancava da
mesi. Da troppo tempo per un perdono, da troppo tempo per fare
ammenda...
Era
tornato, lo aveva fatto e non aveva intenzione di lasciarla
più,
Nampara. Ma lo aveva fatto troppo tardi...
Si
guardò attorno, appena dentro. Tutto era in ordine, Demelza
e Prudie
avevano sistemato ogni cosa. Sentì il profumo dei mobili,
delle
tende, osservò pareti e quadri che gli erano famigliari e
per la
prima volta, anche se disperato, si sentì a casa dopo mesi.
Andò in
biblioteca e vide che i suoi libri contabili e le sue mappe erano
riposte ordinatamente sulla scrivania, andò in cucina e
trovò la
dispensa in ordine e infine salì al piano di sopra, era
tutto
perfettamente sistemato anche lì. Il letto era rifatto, ogni
cosa
era al suo posto, nell'armadio c'erano i suoi abiti puliti e piegati,
Demelza aveva lasciato tutto in ordine per lui per quando fosse
tornato.
Vide
la culla accanto al letto e questo gli fece male. Era vuota... In
quella culla, in quei giorni, aveva dormito un figlio che per sempre
gli sarebbe stato sconosciuto, di cui non avrebbe mai scoperto
né
viso né nome. Non c'erano in giro giochi e indumenti
infantili,
quelli li aveva portati via con se Demelza, assieme ai suoi abiti.
Ma
tutto il resto lo aveva lasciato lì...
La
sua attenzione fu improvvisamente catturata da una busta bianca
riposta sul comodino. Ross si avvicinò, la prese e la
aprì e i suoi
occhi si spalancarono. C'era denaro, quasi tutto quello che aveva
mandato a Demelza in quei mesi. Lo aveva lasciato lì...
Sorrise
amaramente, nonostante tutto... Lei era fiera e orgogliosa quanto
lui, non avrebbe mai accettato di farsi mantenere e anche se sola,
incinta e con un bambino piccolo, assieme a Prudie aveva provveduto
con le sue sole forze a se stessa e ai suoi figli.
Di
cosa si stupiva? Demelza era come lui, combatteva le sue battaglie
fino in fondo e lo avevano spesso fatto insieme in passato, era forte
e non aveva bisogno di nessuno accanto, per stare bene.
Si
chiese come avesse fatto a trovare il denaro per il viaggio ma
relegò
quella domanda in un angolo remoto della sua mente, per paura di
trovare risposte a lui inaccettabili o troppo dolorose.
Poteva
cercarla, poteva sperare di trovarla e illudersi di salvarla da una
vita difficile ma la verità era che lei era molto migliore e
forte
di lui. Demelza ce l'avrebbe fatta, avrebbe ripreso in mano la sua
vita e avrebbe dato, da sola, un'infanzia felice e serena ai loro
bambini. Non era una che aspettava il principe azzurro e anche se
l'avesse ritrovata, lui non sarebbe stato capace di salvarla da nulla
perché di certo lei stessa era già riuscita a
salvarsi da sola.
Ross
sentì gli occhi pungergli e con le lacrime che gli solcavano
le
guance, scese mestamente al piano di sotto. Si accorse di piangere
solo quando si accasciò davanti al camino spento e se ne
stupì,
aveva pianto poche volte nella sua vita: quando era bambino ed era
morta sua madre e quando aveva perso Julia. Le lacrime, quelle vere
come quelle di quel momento, le aveva versate solo quando aveva perso
l'amore di persone che per lui valevano tutto. Non aveva pianto per
Elizabeth, quando aveva scoperto di averla persa per Francis, non
aveva pianto per i suoi compagni di battaglione, non aveva pianto per
la fine miserabile delle miniere di famiglia. Solo per sua madre e
per la sua famiglia, che aveva perso per sempre.
Si
accasciò, appoggiando la testa contro la parete e
improvvisamente
notò, sotto la credenza a pochi passi da lui, un oggetto che
lo fece
sussultare e che gli portò alla mente il ricordo di una
promessa che
non avrebbe mai potuto mantenere.
Doveva
essere sfuggito a Demelza durante i preparativi, se no l'avrebbe
portato con se.
Si
avvicinò, spostò il mobile e prese quell'oggetto
che era finito lì
per caso, tirato da Jeremy mesi prima, nel loro ultimo giorno
insieme.
Un
piccolo cavallino di legno...
Lo
strinse in mano quel cavallino, forte, ricordando quando aveva
giurato a suo figlio di insegnargli a cavalcare, da grande. Non lo
avrebbe mai fatto, qualcun altro avrebbe insegnato a Jeremy a
galoppare e a diventare un uomo. O lo avrebbe imparato da solo...
Aveva
fallito, aveva tradito l'amore di sua moglie e di suo figlio, la loro
fiducia, tutto...
Avvolse
il cavallino fra le dita, baciandolo. Quel giocattolo sarebbe stato
per sempre il suo tesoro, l'ultimo testimone della famiglia che aveva
avuto e che aveva perso, la testimonianza del suo fallimento di uomo
e padre e il muto rimprovero di una promessa che non avrebbe mai
potuto mantenere.
Fuori
nevicava e il vento faceva sbattere la porta rimasta aperta. E Ross
pianse, come poche volte aveva fatto nella sua vita.
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
Tornato
a Nampara col cuore a pezzi, la mente in subbuglio e una casa deserta
da gestire, Ross aveva assunto due nuovi domestici, i coniugi Jane e
John Gimlet. Non più giovanissimi, si erano comunque
dimostrati da
subito due persone affidabili, oneste, gran lavoratrici e soprattutto
dedite alla pulizia e al senso del decoro. Molto diversi dai
trasandati Paynter anche se Ross avrebbe pagato oro per riavere
indietro quei giorni con loro, Demelza e Garrick...
Ma
per il momento, i Gimlet erano una soluzione più che buona
per lui e
la sua vita casalinga.
Non
era più tornato a Trenwith dal giorno in cui Demelza era
partita e
anche se questo rimordeva la sua coscienza per via del bambino in
arrivo, era ben deciso a mantenere le sue posizioni a riguardo.
Certo, Elizabeth aspettava suo figlio e a conti fatti, alla sua
nascita, avrebbe provveduto al piccolo ma oltre a questo, non
desiderava offrire nulla. Un suo eventuale ritorno a Trenwith non
avrebbe giovato a nessuno e per quel bambino innocente la vita, con
due genitori dai rapporti tanto logorati, sarebbe diventata un
inferno. Meglio così, meglio lontani, non c'era nulla da
salvare e
nulla da ricostruire. Anche per Jeoffrey Charles questa era la
soluzione ideale, lui che, suo malgrado, era stato costretto ad
assistere a scene incresciose di liti furiose meritava la pace quanto
il fratellino in arrivo.
E
poi Ross sapeva a chi apparteneva il suo cuore e aveva deciso che non
voleva più mentire a se stesso! Nampara era la sua casa e
Demelza
era la donna che amava e con cui aveva creato una vera famiglia. Il
resto era una stupida, patetica farsa a cui si era piegato senza
rendersi pienamente conto delle conseguenze.
Aveva
sperato che Demelza tornasse ma non era successo e i mesi erano
scivolati via velocemente senza che le sue ricerche dessero esito.
Sembrava sparita nel nulla e la gravidanza di Elizabeth, agli
sgoccioli e comunque complicata, gli impediva di partire per
cercarla.
Anche
se spesso, di sera, nel silenzio della sua stanza, si chiedeva come
avrebbe reagito Demelza, se l'avesse trovata. In fondo, lui che
poteva offrirle? Come poteva riottenere la sua fiducia e il suo
amore? E il perdono? Si rendeva conto di aver sbagliato troppo, di
aver passato il limite e spesso la consapevolezza di questo lo
bloccava, spingendolo ad abbandonare il desiderio di riaverla.
Demelza meritava di meglio di lui... E lui non meritava una persona
speciale come lei...
Cosa
poteva darle ora? Un futuro incerto, un figlio nato da un tradimento
che sempre avrebbe ricordato ai suoi occhi il dolore che lui le aveva
inferto, la presenza costante di Elizabeth fra loro e un matrimonio
annullato...
Incertezza,
dolore e nulla più.
Era
condannato, si era condannato con le sue mani!
In
quei mesi si era messo a lavorare come un pazzo, giorno e notte, in
miniera. Il clima e i rapporti con Zachy e gli altri, da quando era
tornato a Nampara, si erano fatti meno tesi e più cordiali
anche se
erano comunque lontani da ciò che c'era prima. Era difficile
per
quegli uomini, quasi quanto lo era per lui guardarsi allo specchio,
conferirgli nuovamente piena fiducia e li capiva. Erano uomini nati
nella miseria e cresciuti con fatica, che si spaccavano la schiena
per la loro famiglia e per garantire ai loro cari un pasto e lui...
lui era un uomo che aveva rinnegato la donna che lo aveva reso padre
e una persona migliore, che gli aveva dato amore e una
felicità che
non era stato capace di apprezzare appieno finché non
l'aveva
perduta.
Aveva
anche pensato, sporadicamente, al bambino che aspettava Elizabeth.
Non riusciva a considerarlo suo e non riusciva a provare per lui o
lei la trepidazione che aveva avvertito, pur da lontano, per la
nascita del bambino avuto da Demelza a novembre.
Era
suo figlio ma non se ne sentiva legato, anzi, era come se lo
ritenesse un perfetto estraneo. Eppure sarebbe nato presto e, bene o
male, avrebbe dovuto impegnarsi per crescerlo al meglio. Il che
presupponeva che lui ed Elizabeth, prima o poi, avrebbero dovuto
incontrarsi a metà strada per il bene del bambino. Non
avrebbero mai
potuto essere una famiglia ma dovevano sforzarsi di essere quanto
meno buoni genitori per chi stava per nascere e non aveva chiesto di
farlo.
Avrebbe
dovuto imparare ad amarlo... Come amava Jeremy e il bimbo o la bimba
avuti da Demelza, a cui pensava sempre con una fitta al cuore. Come
aveva amato Julia...
E
così, con quei pensieri e quella solitaria e nuova routine
di
Nampara, era arrivato febbraio e il 14, in una sera strana dove la
luna si era tinta di nero come per magia e il mare e il vento erano
diventati furiosi e tutti avevano gridato a un segno di cattivo
presagio, dopo cena sentì bussare alla sua porta.
Era
seduto davanti al camino, a fumare la pipa e a cercare di scaldarsi,
quando Jane Gimlet andò ad aprire.
"Avete
visite, signore".
Ross
si voltò, incuriosito, appena l'ospite fu entrato in
salotto. E
sussultò. "Zia Agatha? Che ci fai quì a
quest'ora, con questo
tempo da lupi?".
La
donna lo fissò e la sua aria era palesemente di rimprovero.
"Non
sarà una notte di luna nera a maledire la mia vita, a quasi
cent'anni nemmeno il malocchio riesce più a toccarmi. E
quindi nulla
mi impedisce di recarmi da mio nipote a ricordargli i suoi doveri".
Ross
si alzò di scatto, accompagnandola alla sedia per farla
accomodare.
"Zia, che ci fai quì?" - chiese, ancora. Agatha non usciva
quasi mai da Trenwith e da anni era come diventata un tutt'uno con la
casa.
La
donna alzò un sopracciglio grigio. "Sai che mese
è?".
"Febbraio".
"E
cos'è successo nove mesi fa, a giugno?".
Ross
si accigliò, ci pensò un attimo a poi
impallidì. Era... Era già
passato così tanto? "Vuoi dire che...?". No, non era
pronto, non ancora!
Agatha
si rialzò subito dalla sedia. "Voglio dire che ti devi
sbrigare, venire con me sulla carrozza e tornare a Trenwith. Tuo
figlio sta per nascere, è da stamattina che Elizabeth
è in
travaglio e il dottor Choake sta combattendo contro un parto
complicato. Mi auguro che almeno per la nascita e per ogni
necessità,
tu non vorrai mancare!".
A
Ross venne la pelle d'oca. Il bambino stava per nascere! Santo cielo,
stava per diventare tutto reale... Guardò Agatha,
soppesò le sue
parole e gli sembrò ironico che lei, come Elizabeth,
ritenesse che
lui dovesse assistere alla nascita del bambino quando entrambe, pochi
mesi prima, avevano fatto di tutto per impedirgli di stare accanto a
Demelza quando era stata lei a partorire. Ma non era il momento di
recriminare... Prese il cappotto, il tricorno, disse a Jane e John
che stava uscendo e che non sapeva quando sarebbe tornato e poi prese
Agatha sotto braccio, scortandola alla carrozza. In fondo aveva
ragione lei, doveva esserci! Esattamente come avrebbe dovuto esserci
a novembre, per Demelza...
Aveva
sbagliato una volta e non avrebbe ripetuto quell'errore. Non lo
faceva per lui o la sua coscienza, non lo faceva per Elizabeth. Lo
faceva per il bambino, perché non vivesse sulla sua pelle di
neonato
la stessa ingiustizia che aveva inflitto a un altro suo figlio.
Uscirono
fuori, il vento era furioso e la notte oscura e minacciosa, come la
luna ormai completamente nera. Non aveva mai visto nulla del genere e
sì, non aveva mai avuto paura di molte cose nella sua vita
ma quel
cielo riusciva a farlo tremare. "Hai mai visto qualcosa di
simile, zia?" - chiese, salendo sulla carrozza.
"No".
"Cosa
potrebbe voler dire?".
Agatha
scosse la testa. "Cattivi presagi? La luna nera non porta mai a
nulla di buono e questa notte nascerà quel povero
bambino...".
"Sono
solo superstizioni!" - tagliò corto lui. Non voleva sentire
altro! In quel marasma, ci mancavano solo i foschi presagi di Agatha!
Giunsero
a Trenwith mezz'ora dopo, coi cavalli resi nervosi da quella strana
notte.
Ross
aiutò Agatha a scendere dalla carrozza e poi, dopo tre mesi
che vi
mancava, rientrò a Trenwith.
Un
via vai incessante di cameriere e domestici lo accolse e tutto
sembrava concitato e nervoso. Fermò una domestica, una
giovane dal
viso a lui sconosciuto che doveva aver iniziato a lavorare
lì da
poco e, assieme a zia Agatha, le chiese informazioni. "Elizabeth?
Il bambino è nato?".
"Voi
chi siete?".
Agatha
intervenne. "E' il futuro padre".
"Oh,
scusate signore". La ragazza, arrossendo, scosse la testa. "Non
è ancora nato. La signora è stremata, sta
perdendo tanto... troppo
sangue e il dottor Choake sembra davvero preoccupato. Stiamo facendo
tutti del nostro meglio per assisterla".
Ross
impallidì mentre sentiva nelle orecchie le urla di
Elizabeth. Santo
cielo, che stava succedendo? Anche in quello, lui ed Elizabeth
avrebbero pagato il prezzo di quella loro notte folle? Pregò
che
tutto andasse bene, per il bambino e per Jeoffrey Charles. E per lei
che, anche se si era rivelata il più grosso errore della sua
vita,
era stata un suo grande affetto, era giovane e aveva una vita
davanti.
Il
piccolo Jeoffrey Charles sbucò dal salone del pianoforte,
col muso
lungo e l'espressione corrucciata. Lo fissò e in lui non
vide nulla
dell'affetto di un tempo. Poteva capirlo, aveva abbandonato sua madre
e l'aveva fatta soffrire, Jeoffrey Charles non aveva torto. "Ciao..."
- disse solo.
Il
bimbo girò il viso di lato. "Mamma sta male, per colpa tua e
per colpa di quel cavolo di fratellino che deve nascere!".
"Mi
dispiace" – sussurrò, sfiorandogli la spalla. Ma
Jeoffrey
Charles si ritrasse e poi, singhiozzando, si rifugiò fra le
braccia
di Agatha.
E
in quel momento, dopo un urlo violento di Elizabeth che fece tremare
i vetri della casa, si sentì il pianto vigoroso di un
neonato.
Tutti
sussultarono, guardandosi speranzosi e allo stesso tempo spaventati.
Agatha
alzò lo sguardo verso le scale. "Finalmente..." - disse,
con la voce che però tradiva una certa preoccupazione.
Ross
deglutì. Il pianto di un neonato... Il pianto di suo
figlio... E
lui, santo cielo, non provava la gioia profonda che aveva sentito con
i figli di Demelza. E ora che doveva fare? Salire? Conoscere il
piccolo? Cosa doveva dire ad Elizabeth? Provava solo confusione ma
non quella dettata dalla gioia incontenibile di essere diventato
padre. Era una confusione oscura, un sentirsi inadeguato e fuori
posto, in colpa... Non era quello che voleva, non voleva diventare
padre di un figlio così, come succede ad altri uomini che
tradiscono
la donna che li ama senza nessun rimorso. Eppure eccolo, era nato...
Il simbolo perpetuo del suo fallimento come uomo, marito e padre, era
lì.
Il
dottor Choake scese dalle scale, trafelato. Aveva il viso paonazzo,
era sudato e pareva aver finito un turno di dodici ore in miniera a
picconare. "Signor Poldark, per fortuna siete quì!" -
esclamò.
Ross
gli strinse la mano, nonostante non provasse alcuna simpatia per lui.
"Vi ringrazio per quello che avete fatto, so che è stato
complicato e lungo".
Choake
guardò Agatha, chiedendole di portare via Jeoffrey Charles.
E appena
furono soli e l'anziana donna si fu allontanata col bambino, scosse
la testa. "Andate di sopra, fate in fretta".
"Perché?".
"La
signora deve parlavi e forse non ci sarà molto tempo".
Ross
lo guardò, non capiva ma il suo sesto senso gli suggeriva
che
qualcosa non andava. "Che volete dire?" - chiese,
ripensando ai foschi presagi sulla luna nera di cui gli aveva parlato
Agatha poco prima.
Choake
scosse la testa. "Ha perso molto sangue, ci sono lesioni interne
che favoriscono continue emorragie che non riesco a fermare. Ho
già
visto questo genere di cose e non portano a nulla di buono per la
vita della madre. Andate da lei, io verrò subito. La stanno
assistendo delle domestiche, per ora, che stanno facendo anche il
bagno al bambino. E' un maschio apparentemente in salute e di questo
devo congratularmi con voi".
Un
maschio... Elizabeth che stava forse per morire... Santo cielo, era
troppo! Era tutto troppo e doveva essere stato un uomo orrendo per
meritarsi una cosa simile!
Corse
per le scale, con la stessa disperazione di nove mesi prima quando
aveva distrutto la sua vita, quella di Elizabeth e di tutte le
persone che gravitavano attorno a loro.
Entrò
nella stanza col fiato corto, le cameriere stavano portando via con
delle ceste delle lenzuola impregnate di sangue ed Elizabeth era a
letto, bianca come un cencio, senza forze, con le labbra violacee e i
capelli sfatti e mosci sparsi sul cuscino. Sembrava un fantasma e gli
si contorse il cuore nel vederla così, lei da sempre tanto
bella e
irraggiungibile. L'aveva amata e poi odiata negli ultimi mesi ma MAI
le avrebbe augurato del male.
Si
avvicinò, oltrepassò la culla col bambino non
degnandola di uno
sguardo e le prese la mano. "Elizabeth...".
Lei
aprì gli occhi, a fatica. "Ross... sei venuto allora?".
Le
sorrise, aveva la voce flebile come quella di un uccellino e il fiato
corto. Gli ricordava Julia e sua madre, nei loro ultimi istanti di
vita. "Come ogni padre dovrebbe fare". Non voleva essere un
rimprovero, non in quel momento ma l'allusione al parto di Demelza
era palese.
Elizabeth
abbassò lo sguardo davanti a quelle parole. "Lo amerai? E'
un
bellissimo bambino, ti somiglia...".
"Farò
del mio meglio".
"Lo
devi amare, sei suo padre e avrà solo te!".
Le
strinse la mano, forte. "Non dire così. Presto starai bene".
Elizabeth
sussultò, colta come da uno spasmo e in un attimo la coperta
divenne
rosso sangue, di nuovo.
Una
cameriera corse al suo capezzale, con una coperta pulita. Tolse
quella sporca e Ross vide che la camicia da notte di Elizabeth era
inzuppata di sangue vivo che continuava a sgorgare. Quella visione
gli fece venire le vertigini...
Santo
cielo, era terribile, cosa poteva fare? "Guardami e non dormire!
Non chiudere gli occhi, passerà!" - la implorò,
vedendola come
perdere i sensi.
Lei
riaprì le palpebre, a fatica. "Non volevo che tu mi
odiassi...
Volevo solo avere una famiglia felice...".
"E'
passata" – mentì lui anche se la disillusione per
quell'antico e utopistico amore era ancora ben viva nella sua mente
ed Elizabeth lo sapeva.
Lei
sorrise. "Mentire non ti riesce bene, sai Ross?".
Lui
sospirò, accarezzandole i capelli. "Sono molte le cose che
non
so fare bene, l'ho scoperto nell'ultimo anno".
Lei
lo guardò, il suo sguardo vacuo e lontano. I suoi occhi
sembrarono
diventare di gelatina e trasparenti... "Valentine...".
"Cosa?".
"Il
piccolo si chiama così. Valentine, come il Santo di oggi. Mi
piace
tanto questo nome. Se fosse stata una bimba, avrei voluto chiamarla
Ursula, vuol dire piccola orsa, sarebbe stato adatto a una Poldark.
Ti piacciono?".
Annuì
per farla contenta, il nome del bambino era l'ultimo dei suoi
pensieri. "Tanto".
"Valentine
Poldark" – sussurrò Elizabeth, in un soffio, quasi
assaporando la dolcezza di quel nome sulle sue labbra.
E
poi, silenziosa come un uccellino, spirò.
Ross
non riuscì a fare nulla, a soccorrerla, a chiamare il
medico. Morì
tanto rapidamente che anche le domestiche rimasero gelate e immobili,
come la morte che si era appena portata via quella giovane donna.
Poi
tutto divenne nero, ovattato. I suoni, le grida delle cameriere, il
calpesticcio di passi che correvano, le imprecazioni del dottor
Choake e il pianto di Jeoffrey Charles e di Agatha sembrarono lontani
da lui. Era circondato da persone e si sentiva distante da tutto e
tutti...
Come
un automa, si avvicinò alla culla.
Lui,
Valentine, era lì. Coi suoi capelli neri, il faccino tondo e
la
fronte alta come la sua, era il figlio che più gli
somigliava,
probabilmente.
La
sorte sapeva essere crudele e ironica, pensò...
Eccolo,
la prova vivente dei suoi errori, del suo fallimento. Era
lì, nelle
vesti di un bambino bellissimo la cui madre, per dargli la vita, si
era privata della sua di vita.
Suo
figlio, il bimbo concepito in una notte maledetta e nato in una sera
di luna nera, qualsiasi cosa significasse tutto ciò...
Lo
prese in braccio, avrebbe dovuto imparare ad amarlo, ora più
di
prima. Elizabeth era morta, non poteva più fingere che il
problema
non esistesse e ora doveva diventare davvero uomo. Non poteva
relegare a nessuno il suo ruolo di genitore! Valentine aveva solo lui
e non poteva pagare per le colpe di altri...
Lo
cullò fra le braccia, lo baciò sulla fronte e
decise che lo doveva
ad Elizabeth e a quel bambino, oltre che alla sua coscienza. Lo
avrebbe portato a Nampara, si sarebbe preso le sue
responsabilità e
lo avrebbe cresciuto come meglio poteva, onorando giorno dopo giorno
il debito con la sua coscienza macchiata dalla colpa e dal disonore.
E avrebbe imparato forse ad amarlo come ogni padre col proprio
figlio, col tempo.
"Valentine..."
- sussurrò.
E
il bimbo spalancò due grandi occhioni neri su di lui. Anche
quelli
erano uguali ai suoi.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Era
arrivato dicembre, e con esso si avvicinava il suo secondo Natale a
Londra. Era volato quell'anno e anche se per certi versi la sua vita
era stata più facile e serena, per altri era ancora tutto
difficilissimo per Demelza: una grande città che le faceva
ancora
paura, il suo sentirsi estranea appena usciva di casa, il suo
faticare ad abituarsi a nuove abitudini e la nostalgia... la
nostalgia, sempre, per la sua Cornovaglia e per la sua casa... La
nostalgia per qualcuno che non voleva più nominare ma che il
suo
cuore si rifiutava di dimenticare... La catturava ogni mattina quando
apriva gli occhi e ogni sera, prima di richiuderli e forse non se ne
sarebbe mai liberata.
Aveva
pianto spesso di notte, nei primi mesi a Londra, bagnando il suo
cuscino. Caroline e Dwight, quando era arrivata, le avevano detto che
lì sarebbe stata al sicuro e protetta e anche queste parole,
benché
dette con intenti gentili, avevano scavato un profondo solco nel suo
cuore. La Cornovaglia, Ross, la sua vita laggiù erano
diventati un
male per lei e i suoi figli e leggerlo negli occhi dei suoi amici le
dava l'esatta enormità di quanto stava vivendo.
Ci
era voluto tanto per riprendersi ma pian piano aveva dovuto farlo per
i suoi due bambini. Aveva dovuto imparare a sorridere e a sforzarsi
di farlo anche quando non le andava, a relegare i ricordi in un
angolo lontano e nascosto del suo cuore, a soffocare i sentimenti che
sentiva ancora di provare verso un uomo che, nonostante tutto, sempre
avrebbe amato perché nessun altro ai suoi occhi sarebbe mai
stato
come Ross. Sarebbe stato il suo tormento, sempre!
Giorno
dopo giorno, quei dodici mesi erano scivolati via in fretta,
nonostante tutto...
Clowance
aveva compiuto un anno due settimane prima e, giorno dopo giorno,
diventava sempre più bella. Era biondissima, come uno dei
rami
cadetti della famiglia Poldark, e aveva gli stessi ricci ribelli di
Ross. I suoi occhi erano azzurri, chiari, era vivace e testarda e
dimostrava già, pur essendo ancora molto piccola, di sapere
cosa
volesse dalla vita e dalle persone che la circondavano. Sorrideva
sempre ma sapeva essere pure estremamente capricciosa, quando si
impuntava. E aveva una grazia e una eleganza nei movimenti innata,
che non spariva nemmeno ora che faceva i primi passi e il pannolone
tentava di renderla goffa. Era elegante, elegante come lei non
sarebbe mai stata nei modi di fare, una vera piccola lady, come
diceva spesso Caroline che la riempiva di vestitini pieni di pizzi e
merletti e ogni genere di vizi, cosa che la bambina sembrava
apprezzare.
Jeremy
era più tranquillo e dolce di carattere anche se a volte
assumeva
l'espressione biricchina e pure lui combinava qualche guaio o tentava
di disubbidire davanti ad imposizioni su cui non era d'accordo.
Amava
raccontare barzellette e sapeva farlo in maniera buffa e simpatica,
adorava andare a giocare nei parchetti cittadini, conoscere nuovi
bambini e si era dimostrato estremamente socievole e pronto a nuove
amicizie tanto che, a un anno dal loro trasferimento, conosceva
probabilmente più londinesi di lei.
Era
un bambino gioviale e sensibile, molto protettivo con lei e Demelza
sapeva che in un certo senso si sentiva l'ometto della famiglia.
Cercava di non fargli percepire una tale responsabilità ma
il
piccolo spesso si fermava, la scrutava e pareva percepire i suoi
pensieri e i dispiaceri che ancora le logoravano l'anima.
Inizialmente aveva chiesto spesso di suo padre ma lei aveva sempre
cercato di sviare il discorso su altro e poco alla volta, mese dopo
mese, le domande erano diventate sempre più rade fino a
sparire.
Demelza non si illudeva che non ne soffrisse più ma
probabilmente,
poco alla volta, Jeremy aveva iniziato a scordarsi di Ross e anche se
questo le faceva male, era consapevole che era la cosa più
giusta
per lui e per la sua serenità.
Caroline
e Dwight erano l'immagine perfetta dell'amore, invece! La dolcezza di
Dwight nel prendersi cura di lei, nonostante si sentisse pure lui un
pesce fuor d'acqua a Londra e le frecciatine che nascondevano un
profondo amore di lei, la incantavano... A volte si inteneriva nel
vederli interagire, erano belli non solo esteticamente, erano belli
nel loro animo ed erano forse l'immagine più bella e vera di
come
doveva essere l'amore.
Caroline
aveva ripreso la sua vita mondana e lei si era offerta, in cambio del
vitto e dell'alloggio in quella lussuosa e grande casa londinese, di
cucirle gli abiti che indossava mentre Dwight aveva continuato a fare
il lavoro che più amava: il medico. Curava gente di ogni
ceto e
spesso, quando aveva i pomeriggi liberi, si recava nella parte
più
povera della città per offrire il suo aiuto ai
più bisognosi, cosa
su cui Caroline spesso lo prendeva in giro dicendo che lo faceva
perché gli mancavano i minatori della Cornovaglia che aveva
sempre
amato più di lei.
"Mamma".
Demelza
si girò nel letto e si accorse che Clowance si era svegliata
dal suo
riposino pomeridiano. La piccola sembrava essere di luna buona e
così, visto che Jeremy era fuori al parco con Prudie, decise
di
perdere un pò di tempo a coccolarsela, prima di scendere a
bere il
tè.
La
baciò, le fece il solletico, risero insieme e poi, quando si
accorse
che la piccola era affamata, si alzarono. Demelza si
pettinò, si
sistemò il vestito e poi fece altrettanto con Clowance. Le
mise un
nastro rosso fra i capelli, cosa che alla bambina piaceva tantissimo,
in tinta con l'elegante vestitino natalizio in tulle che le aveva
regalato Caroline, le sistemò le calzine bianche e poi le
fece
indossare un paio di graziose scarpine di vernice, rosse come il
vestito. Clowance aveva un sacco di abiti e Caroline le comprava,
assieme a quelli, una moltitudine di scarpette e nastrini di vari
colori, in modo che avesse un abbigliamento sempre impeccabile e
coordinato. E Clowance pareva gradirlo perché,
benché molto
piccola, aveva un gusto estetico già ben sviluppato ed era
piuttosto
vanitosa.
Jeremy
era diverso, era un maschietto e anche lui veniva riempito da
Caroline di abitini nuovi e alla moda che però, di sera,
finivano
immancabilmente macchiati di erba e fango.
"Andiamo
a fare merenda?" - chiese alla piccola, prendendola per mano.
"Tì".
Era
sempre affamata! Le sorrise e uscirono dalla stanza, nell'elegante
corridoio che portava allo scalone principale da cui poi si accedeva
alla zona-giorno coi salotti, le stanze da pranzo, quelle da biliardo
e le biblioteche del palazzo. E per poco non si scontrarono con
Dwight che, con aria annoiata e allo stesso tempo nervosa, stava
percorrendo il medesimo corridoio. Vederlo a casa a quell'ora
incuriosì Demelza perché di pomeriggio, di
solito, era nel suo
studio a ricevere pazienti. "Dwight, che ci fai quì?".
Lui
sbuffò, dando una carezza sulla testolina a Clowance.
"Caroline
mi farà impazzire! Non so cos'abbia in testa ma il fatto che
oggi
abbia invitato per il tè Lady Allyster con sua figlia, non
mi lascia
presagire niente di buono. Mi ha detto di non uscire e sono due ore
che stanno giù in salotto a confabulare su qualcosa che, me
lo
sento, a me non piacerà per niente".
Demelza
abbassò gli occhi su Clowance. Se Caroline aveva ospiti, era
meglio
non scendere a disturbarla, pensò. "Chi è lady
Allyster?".
"Una
lontana parente degli Hannover".
Demelza
tremò. "Hannover... Stesso cognome del... nostro...".
Dwight
annuì. "Re, esatto! Lady Constanze Allyster e sua figlia
Margarita sono delle lontane cugine di grado collaterale dei nostri
sovrani".
Spalancò
gli occhi, tremò e dovette appoggiarsi alla parete per non
cadere.
"E sono quì sotto?".
"Sì".
Prese
Clowance per mano, stringendogliela forte. "Da dove posso
scappare, Dwight?".
Lui
ridacchiò, prendendole il polso. "Tu non scappi! Anzi, mi
aiuti
ad affrontare la situazione e scendi con me".
Demelza
lo guardò come se fosse impazzito. Lei, figlia di un
minatore, con
due figli e senza un marito, davanti a dei parenti del re?
"Scordatelo!".
Ma
Dwight finse di non sentirla nemmeno, si chinò a prendere in
braccio
Clowance e poi le prese nuovamente il polso, trascinandola
giù
dietro di se.
Demelza
quasi non riuscì ad opporsi e si stupì di quanto
Dwight, quando era
spaventato, sapesse dimostrare un carattere forte.
Quando
entrarono nel salotto, trovarono Caroline vestita con un meraviglioso
abito di seta rosa, i capelli pettinati in lunghi boccoli e un tavolo
pieno di tè e biscotti.
Dwight
mise Clowance a terra e Demelza, tentando di nascondersi dietro di
lui, entrò con passo sommesso, sbirciando le due ospiti.
Lady
Constanze aveva circa cinquant'anni, era magrissima, coi capelli
ormai grigi, il viso aguzzo e due occhi piccolini che rendevano
l'espressione del suo viso piuttosto antipatica. Sua figlia invece
era giovanissima, non poteva avere più di sedici o
diciassette anni
e fisicamente sembrava diversissima da sua madre. Aveva i capelli
color miele pieni di boccoli, alcune graziose lentiggini sul viso
tondo e dai lineamenti gentili, un fisico minuto ma già ben
sviluppato per la sua età, con curve morbide che la facevano
sembrare assolutamente deliziosa e desiderabile e due guance piene,
abbellite da delle simpatiche fossette. Erano entrambe elegantissime,
madre e figlia. La donna aveva modi di fare estremamente controllati
mentre la ragazzina pareva invece più lenta e goffa nel
movimento di
sorseggiare il tè.
Appena
Caroline li vide, si esibì in un sorriso. "Lady Constanze,
lady
Margarita, voglio prestarvi mio marito, Dwight Enys che finalmente si
è deciso di degnarci della sua compagnia. E lei invece
è una
carissima amica, Demelza Carne, mentre la piccolina che gira attorno
al tavolo coi biscotti è sua figlia Clowance".
Lady
Margarita guardò la piccola, sorridendo. "Che carina!".
Ma
quell'espressione cordiale non piacque alla madre che
tossicchiò.
"Margarita, dare confidenze a chi non conosci è cattiva
educazione". Poi alzò lo sguardo su di loro e Dwight e
Demelza
ebbero come l'impressione che li stesse studiando pezzo per pezzo
alla ricerca di difetti e imperfezioni.
Demelza
si sentì come nuda davanti a quello sguardo indagatore ma la
donna
non fece commenti, annuì educatamente, si alzò e
fece un elegante
inchino. "Piacere di fare la vostra conoscenza, signor Enys.
Dicono cose meravigliose di voi, come medico pare facciate miracoli".
Dwight
annuì, imbarazzato. "Io i miracoli, li chiamo in un altro
modo:
scienza...".
La
donna incassò senza dar segno di essere scocciata dalla sua
risposta. "Chiamate le cose come volete, l'importante è che
funzionino".
"Certo
signora".
Poi
Constanze si voltò verso di lei, salutando nuovamente con un
perfetto inchino. "Piacere di conoscervi, signora Carne. Avete
davvero una bambina molto graziosa".
Demelza
osservò Clowance che aveva afferrato un biscotto e lo aveva
già
mangiato. "Grazie, siete gentile. E scusatemi per questa
intrusione".
Constanze
non rispose. Fece cenno alla figlia di alzarsi per salutare
educatamente e Margarita lo fece, abbozzando un inchino che era ben
lontano dalla perfezione di quello di sua madre.
Era
un pò goffa ma in Demelza la ragazzina suscitò
subito simpatia. "E'
un piacere conoscervi, signorina".
Lady
Constanze scosse la testa. "Mia figlia ha diciassette anni,
viene educata dai migliori maestri di Londra da quando è
nata ma è
goffa come un tacchino sgraziato. Scusatela per questo disastroso
inchino".
Demelza
provò pena per quelle parole verso la ragazzina che, colpita
dal
rimprovero della madre, aveva abbassato lo sguardo e aveva preso a
tormentare il suo vestito con le mani, stropicciandone la stoffa. E
in quel momento Clowance si avvicinò barcollando e
osservandole,
dando a Margarita la mazzata finale e abbozzando un inchino che, a
conti fatti, risultava più aggraziato di quello della
ragazza.
Demelza
avvampò, Caroline rise e Lady Constanze osservò
la piccola,
accigliata. "Quanti anni ha vostra figlia, Miss Carne?".
"Un
anno, fatto poche settimane fa".
La
donna si voltò verso la figlia, guardandola storto.
"Margarita,
santo cielo! Persino una bambina di un anno che cammina a malapena,
sa fare l'inchino meglio di te".
"Scusa
mamma..." - rispose la ragazzina, intimorita.
Lady
Constanze si rivolse a Caroline e Dwight, sbuffando. "Vedete
perché non la voglio mai portare con me? E' troppo goffa, mi
fa
sfigurare! E' graziosa ma così lontana dal sapersi
comportare a
dovere. Ma ha diciassette anni ormai ed è ora che faccia il
suo
ingresso nella società e quindi la vostra festa di Natale,
signora
Enys, sarà la giusta occasione per farlo".
Dwight,
che era rimasto in disparte, spalancò gli occhi. "Quale
festa
di Natale?".
Caroline
si esibì in un sorriso amabile e ammaliatore. "Amore mio, la
festa che faremo la sera del 24, quì. Io e lady Allyster
abbiamo
predisposto tutto! Niente di grande, solo una cinquantina di ospiti,
una buona cena, lo scambio degli auguri davanti al dolce e poi tutti
alla Santa Messa di mezzanotte. Una cosa quasi in famiglia, in
pratica. Dwight, Demelza, sarà una serata meravigliosa per
tutti
noi".
Demelza
la guardò, in panico. E lei che c'entrava? "Io... io?".
Caroline
fece finta di non notare il suo sguardo stravolto. "Domani
verrà
il tuo sarto a prendere le misure per l'abito. Anche il tuo, Dwight".
Demelza
e Dwight si guardarono in viso, ormai consapevoli di essere stati
incastrati. "Sarto? Noi non abbiamo un sarto!".
Caroline
sbuffò. "Lo avete, ovviamente! Da quando stamattina ne ho
assunto uno per voi".
Demelza
tentò di argomentare che non era il caso e che stava
già facendo
fin troppo per lei ma si rese conto che non era il momento, davanti a
Lady Allyster.
E
Caroline, ormai certa del successo, continuò la sua opera di
persuasione. "Da quando abitiamo quì, non abbiamo ancora
fatto
nessuna cena importante e una casa di Londra non è una vera
casa di
Londra, senza una festa di Natale! Quindi, prepariamoci a
festeggiare".
Demelza
si guardò attorno, voleva fuggire. Come Dwight e Margarita,
a
giudicare dalle loro facce. E Clowance le venne in aiuto. "Vado
di sopra... Credo che mia figlia abbia bisogno di essere cambiata".
Lady
Allyster sembrò inorridita, da quelle parole. "Non
può farlo
la servitù?".
Demelza
stavolta la guardò a tono, in viso, come faceva sempre
quando
qualcuno metteva becco nelle faccende riguardanti i suoi figli. "No,
preferisco farlo io. Amo occuparmi della mia bambina".
"Posso
venire a vedere come fate?".
La
voce di Margarita, dal suono dolce e gentile, la fece sorridere. Era
così diversa da sua madre, a prima vista... E trovava
irritante come
veniva trattata e umiliata, per il semplice fatto di non saper fare
un inchino. "Certo, se vostra madre ve lo permette".
Lady
Constanze sospirò. "Va e lasciami parlare in pace con
Caroline
per definire i dettagli, visto che ci tieni tanto".
Demelza
si sentì finalmente libera di fuggire e, con Clowance in
braccio e
Margarita dietro di lei, ripercorse velocemente le scale che
portavano al primo piano.
E
quando fu nella sua stanza, tirò un sospiro di sollievo
mentre
metteva sul letto la piccola.
Margarita
le si avvicinò, osservandola incuriosita. "Grazie signora,
mi
avete salvato! Stavo morendo di noia laggiù, con mia madre e
Caroline che parlavano di pizzi, di arrosti e di dolci di Natale.
Odio queste cose e fin'ora son riuscita ad evitarle. Ma ora mia madre
dice che devo entrare in società e che la cena da miss
Caroline è
perfetta per me".
Demelza
sentì di provare un immediato affetto per quella ragazzina.
Era
gentile, apparentemente ingenua e molto sincera nel suo modo di
parlare. E nonostante fosse nobile e di indubbio sangue blu, era una
persona semplice che forse non capiva ancora appieno il suo ruolo
nella società londinese. "Clowance ci ha salvate. Non io!"
- rispose, mentre sistemava il pannolino della bimba.
"Da
dove venite?" - chiese Margarita.
"Dalla
Cornovaglia".
"Avete
una bella bambina! E' stupenda. E' la vostra unica figlia?".
Demelza
osservò la finestra, chiedendosi dove fossero finiti Jeremy
e
Prudie. Stava imbrunendo e pareva in procinto di nevicare... "No,
ho un bimbo di quattro anni che ora è al parco con la mia
domestica".
"E
vostro marito?".
A
quella domanda, Demelza impallidì. Era la domanda
più ovvia certo, era sempre difficile per lei rispondere ma con Margarita
sentì
che poteva permettersi di essere sincera. "Non ho marito. E ora voi sarete inorridita".
Margarita
rimase per un attimo in silenzio. Poi arrossì, abbassando il
capo
come aveva fatto poco prima, quando sua madre l'aveva ripresa.
"Inorridita come voi quando avete visto il mio inchino?".
Demelza
sorrise. "Non ero inorridita".
E
Margarita sorrise di rimando. "Nemmeno io! E scusate, a volte
parlo troppo, sono goffa e non so perfettamente le buone maniere. Mia
madre ha ragione a rimproverarmi sempre...".
Sentì
verso di lei un moto d'affetto a metà fra il materno e
l'amicizia.
"Le madri e i padri a volte sanno essere duri e ci feriscono,
senza rendersene conto. Anche mio padre non era tenero con me, sapete?".
"Perché
non sapevate fare l'inchino?".
Demelza
tossicchiò, sudando freddo nel ricordare suo padre. "No
ecco...
lui aveva altri motivi di... disappunto... nei miei
confronti...".
Margarita
rise. "Mi piacete Demelza. Sono contenta che ci siate anche voi
alla cena di Natale".
"Io
non lo sono per niente, mi sentirò terribilmente a disagio e
inadatta" – rispose, con sincerità.
E
Margarita rise di nuovo. "Allora saremo in due! Ci faremo
compagnia! Volete essere mia amica?".
Demelza
spalancò gli occhi. Lo stava chiedendo a lei? Quella parente
del re
le stava chiedendo di... di...? "Cosa?".
"Vi
va?" - insistette la ragazzina.
Le
sorrise, prendendo Clowance in braccio. Era dolce e aveva provato da
subito simpatia per lei, cosa ci sarebbe stato di male? "Ma
sì,
certo".
"E
allora datemi del tu!" - disse Margarita. "Quando non c'è
mia madre, ovviamente" – aggiunse, sotto voce. "Lei non
gradirebbe...".
"Va
bene, Margarita. Saremo amiche".
La
ragazzina le strizzò l'occhio. "E allora saremo amiche e
insieme ci sentiremo inadatte e imbarazzate alla festa di Natale.
Sei brava nell'inchino?".
"Non
perfetta".
"Come
me! E' fantastico e credo che l'inchino sia troppo sopravvalutato".
Demelza
annuì. "Sono d'accordo ma forse potremo imparare insieme a
farlo meglio".
Clowance
ridacchiò e lo fecero anche loro.
"Potrebbe
insegnarcelo Clowance" – propose Margarita. "E'
più
brava di noi e da grande sarà una vera lady, credo".
Demelza
fece il solletico a sua figlia. "Vuoi essere una lady?".
Clowance
rise.
"Vuoi
sposare un nobile?" - chiese Margarita.
E
Clowance rise più forte.
"Vuoi
sposare un re?" - aggiunse Demelza.
E
a quella domanda, Clowance emise gridolini di gioia.
Margarita
scoppiò a ridere. "Direi che sa cosa vuole! Beata lei".
Poi si voltò verso Demelza, stringendole la mano. "Amiche!
Sono
contenta di essere venuta quì".
Demelza
ricambiò la stretta, vigorosamente. "E io di averti
conosciuta"
– le rispose. Avevano qualche anno di differenza e vite
totalmente
diverse ma in quel momento Demelza sentì di aver trovato una
vera
amica.
...
Poche
ore dopo, finita la cena, Dwight e Demelza se ne stavano seduti l'uno
accanto all'altra nel salotto mentre Prudie correva dietro ai bambini
e Caroline dietro alla servitù, eccitata per l'inizio dei
preparativi della festa di Natale.
"Dwight,
tua moglie ci ha incastrati".
Lui
guardò il soffitto, sconsolato. "Lo so...".
"Sopravviveremo?".
"Non
lo so...".
Dwight
sbuffò. "Lady Constanze è davvero indigesta...
Spero che gli
altri ospiti non siano come lei...".
Demelza
gli sorrise, prendendogli la mano. "Magari saranno come sua
figlia. Margarita è un amore. Mi ha presa in simpatia e mi
ha
raccontato un sacco di cose su, mentre mi occupavo di Clowance. Come
se mi conoscesse da una vita... Mi ha persino parlato del ragazzo che
le piace. E' dolce, ancora una bambina e sua madre è
un'arpia".
Dwight
si accigliò. "La goffa Margarita, innamorata? Di chi?".
Demelza
alzò le spalle. "Oh, credo sia un ragazzino della sua
età. Un
duca... Edward... qualcosa...".
"Beh,
non ha importanza..." - commentò Dwight. "Chiunque sia,
nella notte di Natale si sentirà meno inadeguato di me.
Sarò
l'unico a Londra, a sentirmi così".
Demelza
sospirò, guardando il soffitto scoraggiata. "Saremo in
due...
Anzi, in tre, con lady Margarita".
Il
dottore guardò anch'esso il soffitto. "Bene, questo mi
farà
sentire meno idiota e inadatto...".
"Sono
d'accordo" – borbottò Demelza, che sperava
arrivasse presto
la mattina del 25.
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
Avrebbe
voluto essere in qualsasi posto eccetto in quello, alla Vigilia di
Natale.
Caroline,
nonostante le rassicurazioni di voler fare una cena 'in famiglia',
aveva invitato più di cinquanta persone appartenenti alla
nobiltà
londinese e ora era circondata da elegantissime dame vestite con
abiti da sogno pieni di pizzi e gioielli e uomini distinti che,
probabilmente, con il re e il Parlamento decidevano delle sorti
dell'intero paese e di tutti i suoi abitanti.
Santo
cielo, che ci faceva lei, figlia di un minatore stolto e violento, in
quel salone ricco, elegante, pieno di candele e con una tavola
riccamente imbandita, circondata da persone così
dannatamente
importanti? Attorno a lei era tutto uno svafillare di luci e
ricchezza e davanti a tutto questo si sentiva piccola e fuori posto.
Aveva partecipato ad altri balli e feste eleganti in Cornovaglia ma
nessun evento a cui aveva preso parte era stato così
opulento e
aristocratico.
Avrebbe
voluto scappare e correre dai suoi bambini, giocare con loro,
raccontargli una fiaba sul Natale davanti al camino e stare a
guardarli mentre si addormentavano ma non aveva potuto sottrarsi a
quella festa e alla gioia di Caroline che aveva voluto coinvolgerla.
Non poteva dirle di no, non dopo tutto quello che lei e Dwight
avevano fatto per lei. Avrebbe festeggiato con Jeremy e Clowance il
mattino successivo, con cioccolata calda e dolcetti, regali e coccole
nel letto ma ora aveva dovuto suo malgrado dar loro un bacio e
affidarli alle cure di Prudie.
Caroline
le aveva fatto confezionare un meraviglioso abito di seta blu,
sbracciato come dettava la strana moda che aveva invaso Londra, con
la vita alta e stretta e la gonna lunga che scendeva dritta,
evidenziando le sue curve proprio come il corpetto, dalla scollatura
generosa e intarsiato con decorazioni d'oro. Le avevano legato i
capelli in una lunga ed elaborata treccia abbellita con un nastro blu
come il vestito e si sentiva come se fosse nuda e sconveniente anche
se le altre dame erano vestite in maniera simile. In inverno braccia
e petto non dovevano rimanere coperti?
Seduta
su uno dei divanetti del salone, con Dwight alla sua destra e
Margarita alla sua sinistra, osserva la gente che danzava o
conversava dopo la fine della cena, in attesa di recarsi alla Messa
di mezzanotte.
I
suoi compagni di sventura non sembravano divertirsi più di
lei:
Dwight se ne stava appoggiato al gomito del divanetto, con la mano a
sorreggergli la guancia e una eloquente espressione annoiata sul viso
mentre Margarita si era abbandonata sulla schienale, sbuffando ed
osservando il soffitto.
"Sono
l'unico idiota a non vedere l'ora che tutto questo finisca?" -
chiese Dwight, con voce piatta e sonnolenta.
Demelza
sospirò. "Siamo in due...".
"In
tre..." - aggiunse Margarita, sconsolata. "Per fortuna ci
siete voi a tenermi compagnia o sarei già morta di noia".
Demelza
scosse la testa. In realtà lei non si stava anniando, lei
era
solamente terrorizzata dal trovarsi lì. Aveva sempre amato i
balli e
ne aveva sempre subito il fascino ma lì, sola e lontana
dalla sua
terra, circondata da estranei, le risultava difficile divertirsi.
Margarita era giovane, la più piccola della festa ed era
abbastanza
normale che provasse noia, anche perché caratterialmente non
era
fatta per situazioni del genere, come Dwight del resto.
Improvvisamente
Caroline comparve davanti a loro, bellissima ed elegantissima nel suo
abito natalizio rosso. "Amore, che ci fai quì? Stai per
fonderti con la tappezzeria!" - disse, prendendo Dwight per la
mano e costringendolo ad alzarsi.
"Sono
comodo" – obiettò lui.
"Sei
asociale! Siete asociali, tutti e tre! Santo cielo, è una
festa e
alle feste si deve conoscere gente nuova".
Dwight
parve considerare quelle parole. "Io conosco un sacco di gente a
Londra".
"Gente
malata!" - ribatté Caroline.
"Pur
sempre gente...".
"Che
forse non arriverà viva a capodanno". E con quelle parole,
impedendogli di replicare, Caroline gli diede uno strattone e lo
trascinò via con se, in mezzo alla folla danzante.
Margarita
Sospirò. "Demelza?".
"Sì?".
"Perché
alle feste si deve conoscere gente nuova? E' obbligatorio?".
Ci
pensò su. "Non lo so, perché me lo chiedi?".
Margarita
guardò gli invitati, sconsolata. "Perché
– e ci scommetto
tutta la mia eredità e le monete d'oro che ho nel
salvadanaio –
far poco arriverà quì mia madre e mi
dirà la stessa cosa".
Demelza,
mascherando un sorriso, le prese la mano e gliela strinse per darle
coraggio. Era graziosa e quella sera indossava un delizioso abito
verde che la rendeva ancora più carina. "Se arriva, immagina
di
essere altrove, isola la mente e fa finta di trovarti nel tuo posto
ideale della notte di Natale. Ti alzi, cammini con la schiena dritta
così tua madre non avrà nulla da ridire e
trasforma tutto questo,
con la fantasia, in qualcosa che ti piace".
Margarita
sorrise. "Maud... Il camino... La cioccolata calda!".
"Cosa?".
La
ragazzina ridacchiò. "Il Natale l'ho sempre passato
così, fino
allo scorso anno. Con Maud, che è stata la mia governante da
quando
sono nata, noi sole a casa, mamma e papà invitati a qualche
festa, a
raccontarci storie dell'orrore davanti al camino acceso nella mia
stanza, bevendo cioccolata calda. Ma ora ho diciassette anni, mia
madre ha deciso che non ho più bisogno di Maud e l'ha
licenziata e
io son dovuta venire quì per entrare in società.
E ora..." -
sospirò, sconsolata – "E ora mi annoio da morire e
Maud
lavora in un'altra famiglia e racconta le storie dell'orrore ad altri
bambini".
Demelza
provò la voglia di abbracciarla. Le faceva una tenerezza
infinita
Margarita e la sentiva un'anima affine a lei. Desideravano le stesse
cose, dopo tutto.
Margarita
parve improvvisamente prendere forza, si mise a sedere dritta e la
sua espressione si fece decisa. "Demelza, un giorno mi
sposerò,
sì! Con Edward, figlio dei duchi di Cavendish!".
Annuì,
sicura, anche se quando si erano conosciute, le aveva detto che erano
entrambi talmente timidi da non riuscire quasi a guardarsi in faccia,
nelle occasioni in cui si erano incontrati. "Mi sposerò con
lui, avremo dei bambini e non faremo nessuna festa di Natale!
Passeremo la Vigilia noi, soli, davanti al camino e con la cioccolata
calda, ci racconteremo storie dell'orrore e saremo felici! Questo
è
un vero Natale".
Demelza
sorrise, sembrava decisa e sperò che tutti i suoi sogni si
realizzassero... Beh, ora doveva solo trovare il coraggio di
dichiararsi a questo Edward... O lui a lei... Ma visti i soggetti e
la timidezza di entrambi, unita all'età molto acerba, la
vedeva dura
senza aiuti esterni... Le vennero in mente Verity e il capitano
Blamey e si ripromise di aiutare anche Margarita, se ne avesse avuto
l'occasione in futuro. Adorava combinare matrimoni, dopo tutto!
La
voce della ragazzina la richiamò alla realtà.
"Demelza, non
vai a vedere i bambini?".
"Più
tardi, quando dormono. Se mi vedono ora, scoppieranno a piangere se poi
vado di nuovo via".
"Posso
venire con te se ci vai?".
Demelza
scosse la testa, cercando con lo sguardo Lady Constanze. "Margarita,
tua madre si arrabbierebbe".
E
in quel momento, quasi avesse sentito di essere stata evocata,
Constanze Allyster si materializzò davanti a loro.
"Margarita,
alle feste di Natale non si sta sedute sul divano! Si DEVE conoscere
gente" – disse subito, col consueto tono acido.
Margarita
osservò Demelza divertita, a quelle parole predette poco
prima ed
entrambe lottarono con loro stesse per non scoppiare a ridere.
"Sì
mamma".
Demelza
le strinse la mano. "Ricordati, schiena dritta e pensa ad
altro..." - le bisbigliò.
Margarita
annuì e poi, sospirando, si alzò, si mise ritta
come un fusto, alzò
il mento per darsi un tono e sorpassò sua madre camminando
in
maniera elegante.
"Dio
sia lodato..." - commentò laconicamente lady Constanze
osservandola, prima di seguirla, senza trovare, stavolta, nessun
motivo di rimprovero per lei.
Demelza
rimase sola, guardandole mentre si allontanavano. Attorno a lei tutti
danzavano e chiacchieravano e non aveva il coraggio di avvicinarsi a
nessuna di quelle persone. Che diritto aveva una come lei, la figlia
di un minatore, a rivolgere la parola a gente tanto importante? Santo
cielo, se avessero saputo delle sue origini, l'avrebbero spedita come
minimo in cucina a rassettare!
Osservò
l'orologio e vide che erano quasi le dieci e pensò che i
bambini
dovessero essere ormai profondamente addormentati. Si alzò
di
soppiatto, diede un'ultima occhiata al salone e poi si
allontanò,
superando i corridoi pieni di cameriere che andavano avanti e
indietro per poi salire le scale e arrivare al piano superiore,
deserto ed avvolto nel silenzio. Una fila di candele appese alle
parete rendeva l'atmosfera magica e fioca e i rumori del piano di
sotto arrivavano attutiti e lontani. E finalmente tirò un
sospiro di
sollievo.
Camminò,
sentendo i suoi passi rimbombare piano sul pavimento, fino ad
arrivare alla stanza dei suoi bambini. Entrò piano e vide
che
entrambi erano profondamente addormentati, compresa Prudie che
sonnecchiava russando sul divano, con indosso una coperta di lana
rosa di Clowance.
Si
avvicinò al letto di Jeremy e si accorse che la piccola
dormiva con
lui, abbracciata al fratello. Sembravano pacifici e sereni, nel loro
sonno magico della notte di Natale.
Sfiorò
i loro capelli, quelli fini e castani di Jeremy e quelli color
dell'oro e pieni di boccoli di Clowance, perdendosi nella perfezione
dei loro visi. Erano meravigliosi, il suo capolavoro, il suo unico e
vero amore e non vedeva l'ora che arrivasse il mattino successivo per
festeggiare il Natale, per vederli ridere e respirare la loro gioia
per i regali.
E
in quel momento – e odiava quando succedeva – le
venne in mente
Ross e il loro primo Natale da sposati, quando aveva cantato per lui
a Trenwith implorandolo di amarla. Le tremò la mano a quel
pensiero,
alle bugie, alle illusioni, alle parole d'amore che le aveva
sussurrato e che si erano rivelate come la più crudele beffa
della
sua vita. Ross non l'aveva mai amata, Ross si era accontentato di lei
quando Elizabeth non era a sua disposizione per poi abbandonarla
appena ne aveva avuto l'occasione. Non aveva mai voluto i suoi
bambini, ci aveva provato ad amare Julia ma forse si era solo illuso
di farlo. Jeremy non lo aveva mai desiderato, non lo aveva mai
degnato di uno sguardo e crudelmente, si era divertito a prendersi
gioco di lui prima di andarsene, facendogli promesse che non aveva
alcuna voglia di mantenere e che tanto avevano fatto soffrire il suo
bambino. Clowance... beh, non era mai nemmeno stata nei suoi
pensieri. L'aveva tradita durante la gravidanza, se n'era andato mesi
prima del parto e non si era presentato a conoscerla dopo che era
nata. Cosa Ross provasse per lei, era eloquente! Nulla!
A
volte si sentiva stupida a pensare a Ross, a pensarci ANCORA! Santo
cielo, lui probabilmente si era ormai dimenticato della loro
esistenza! Probabilmente in quel momento era a Trenwith, felice, a
festeggiare il Natale con Elizabeth, a riempirla di attenzioni, stava
giocando con Jeoffrey Charles e col nuovo bambino e forse sua moglie
era di nuovo incinta...
Perché
pensava a Ross? A Ross che si era sempre preoccupato per tutti tranne
che per lei e per i loro figli, non ritenuti meritevoli delle
sue attenzioni? Perché non riusciva ancora ad odiarlo o
quanto meno
a provare indifferenza? Sarebbe stato il suo successo riuscirci, un
giorno... Non valeva la pena pensarci, Ross non lo stava di certo
facendo! Non lo aveva mai fatto nemmeno quando erano sposati e
probabilmente ogni volta che si era avvicinato a lei, che l'aveva
baciata, amata e fatta sua, lo aveva fatto immaginando che lo stesse
facendo assieme ad Elizabeth. Proprio come lei stessa, poco prima,
aveva consigliato di fare a Margarita spingendola ad immaginare una
realtà diversa da quella poco gradita che la circondava.
Baciò
i suoi bambini sulla fronte, rimpiangendo solo di non potersi
più
prendere cura della tomba di Julia che ora, probabilmente, era
rimasta abbandonata a se stessa e sferzata dai venti della
Cornovaglia senza che nessuno pensasse mai a poggiarvi un fiore. Ma
Julia sapeva la verità, sapeva che ovunque lei fosse, sua
madre
l'avrebbe amata sempre. E questo era una consolazione...
Deglutì,
non voleva scoppiare a piangere, non nella notte di Natale e non
durante la festa di Caroline.
Uscì
dalla stanza con passo felpato e percorse a ritroso il corridoio,
sfiorando i muri freddi delle pareti. Dalle finestre delle ombre
dalle forme strane si gettavano sul suo cammino e Demelza si
fermò
davanti ad una di esse, poggiandosi sul davanzale ad osservare il
giardino sottostante invaso da una fitta nebbia.
Non
c'era neve in quella notte di Natale, solo una fitta e gelida nebbia
che avvolgeva ogni cosa e che, a suo modo, rendeva il mondo
circostante così ben conosciuto, un luogo nuovo e misterioso
tutto
da esplorare.
Immersa
in quella visione, sussultò quando avvertì dei
passi dietro di lei
e si girò di scatto per vedere chi fosse.
"Non
volevo spaventarvi, signora".
Demelza
rimase ferma, stupita di non essere sola. C'era un ragazzo giovane,
dai capelli castano chiaro, snello, alto ed affascinante, dietro di
lei... Poteva avere forse la sua età, era vestito
elegantemente e
aveva dei magnetici occhi verdi che le mettevano addosso una strana
soggezione che la costrinse a scostare per un attimo lo sguardo. Chi
era questo giovane uomo che era comparso dietro di lei come un
fantasma? "No... Non mi avete spaventata...".
Lui
sorrise. "Un pò sì, ammettetelo".
Fu
costretta a rispondere al sorriso. "Un pò... Vi siete
perso?".
Lui
la guardò intensamente, quasi con aria sognante. Tutta
quella
situazione, ora che Demelza ci pensava, sembrava un sogno... "Forse
sì, mi sento un pò perso..." -
sussurrò con voce suadente e
forse con un leggero imbarazzo.
Demelza
si sentì arrossire davanti a quelle parole. "La sala da
ballo è
di sotto. Proseguite lungo il corridoio, scendete le scale e vi
troverete immerso nella festa. Siete uno degli ospiti di Caroline?".
"Sì,
mio malgrado mio zio mi ha costretto a venire quì. E voi?".
A
Demelza venne da ridere. A quanto sembrava, la lista delle persone
costrette a partecipare a quella festa stava diventando piuttosto
lunga. "Sono una amica di Caroline".
"Poco
amante del baccano? Per questo vi siete rifugiata quassù
come me?
Non mi sono perso, stavo cercando un attimo di pace per vivermi un
pò
di atmosfera natalizia da solo".
Demelza
sospirò. A quanto pare quel giovane sconosciuto aveva gli
stessi
desideri suoi e di Margarita. "Sono salita a dare un occhio ai
miei bambini, tutto quì".
Il
ragazzo osservò il corridoio deserto e sembrò
vagamente deluso da
quelle sue parole. "Avete dei figli?".
"Sì,
due. Jeremy di quattro anni e la piccola Clowance di uno".
"E,
scommetto, un marito che si starà chiedendo che fine abbiate
fatto".
A
quelle parole, dette sicuramente senza malizia o secondi fini,
Demelza abbassò lo sguardo. Era sempre così
difficile rispondere ad
affermazioni così... "Nessun marito ad aspettarmi..." -
disse infine, frettolosamente, volgendo lo sguardo altrove.
Il
ragazzo sussultò. "Scusate, non volevo sembrarvi indelicato.
A
volte parlo troppo".
Gli
sorrise, aveva una voce gentile e calda, era piacevole parlare con
lui in fondo. Stranamente si sentiva a suo agio e desiderosa di
continuare quella conversazione con lui. "Non dovete scusarvi,
non ce n'è motivo".
Il
ragazzo si appoggiò alla finestra, accanto a lei. "Amate
anche
voi le atmosfere silenziose?".
"A
volte".
Le
indicò col dito il giardino avvolto dalla nebbia, facendo
scorrere
l'indice sul vetro ad indicarle le piante. "Sapete che cosa
dicono della nebbia?".
"Che
è umida?" - rispose lei, divertita.
Lui
rise. "Sì beh, a parte questo...".
"No,
non lo so".
Lui
si voltò verso di lei e quando la guardò in viso,
Demelza sentì un
brivido lungo la schiena. Santo cielo, che le prendeva? "La
nebbia arriva quando le creature magiche invadono il mondo
perché
hanno qualcosa di importante da fare. E quale migliore notte, se non
quella di Natale?".
Demelza
osservò fuori dalla finestra, incantata dal suo modo di
parlare e da
quelle argomentazioni tanto diverse da quelle a cui era di solito
abituata. Aveva davanti un giovane sognatore all'apparenza piuttosto
colto ma dai modi gentili e dolci. "A Londra c'è spesso la
nebbia" – osservò.
"Quindi
siamo circondati spesso da creature magiche. Ora lo sapete anche
voi".
Demelza
guardò la porta della cameretta di Jeremy, pensando a quanto
gli
aveva appena detto quel ragazzo. "A mio figlio questa storia
piacerebbe tanto. Siete uno scrittore di racconti per bambini?".
Lui
si sedette sul davanzale, pensieroso. "Vediamo... Sono il nipote
di un lord, un navigatore e sì, amo scrivere poesie,
immaginare e
disegnare. Odio le feste e mi piace contemplare la vera bellezza,
quando la scorgo..." - sussurrò al suo orecchio, con una
voce
calda che la fece rabbrividire di nuovo. "E forse sono un tipo
banale e noioso ma adoro esserlo".
Demelza
lo guardò, si sentiva stranamente bene in quel momento a
parlare con
quello sconosciuto. "Non mi sembrate noioso".
"Come
vi sembro, allora?".
Demelza
arrossì, a quella domanda. E abbassò lo sguardo,
in preda
all'imbarazzo. "Beh... Dite cose belle, interessanti...
Magiche... E' bello starvi a sentire".
Lui
sorrise, accorgendosi del suo imbarazzo. "Grazie ma è merito
vostro!".
"Mio?".
"Siete
una meravigliosa musa ispiratrice lady...". Si accigliò,
rendendosi conto che non si erano ancora presentati.
"Demelza,
mi chiamo Demelza Carne" – rispose lei, senza pensarci troppo.
Lui
annuì. "Bellissimo nome, il nome di una fata. Siete sicura
di
non esserlo e di non essere apparsa dal nulla in questa notte di
nebbia, come le altre creature magiche che aleggiano nel giardino".
Lei
scoppiò a ridere e sentì il suo cuore farsi
leggero. Nessuno le
aveva mai parlato a quel modo. "Vi assicuro che sono
assolutamente reale".
"Ottimo!"
- esclamò lui, entusiasta. "Allora non scomparirete con il
sorgere del sole e magari mi permetterete di venirvi a trovare per
scrivervi una poesia".
Demelza
arrossì. Poesia? A lei? "Cosa? Oh, non è il caso".
Lui
le strizzò l'occhio. "Oh, certo che lo è! Mi
avete tenuto
compagnia in questa serata in cui rischiavo di morire di noia, avete
ascoltato le mie farneticazioni senza trovarle noiose e avete acceso
la mia ispirazione. Posso farlo per sdebitarmi?".
Santo
cielo, un nobile che le chiedeva il permesso per qualcosa!? Con
gentilezza poi! Per sdebitarsi di un debito che non esisteva! "Certo,
se davvero vi fa piacere" – rispose, pensando che lui stesse
scherzando. Come poteva essere serio, dopo tutto?
Lui
si allontanò dalla parete, esibendosi in un inchino
elegante. "Vi
ringrazio mia lady. Sentirete presto parlare di me, allora". Le
porse la mano. "Scendete? Fra poco dovremo uscire per andare a
Messa".
E
Demelza incrociò le dita con le sue, lasciandosi
accompagnare al
piano di sotto. "Certo. Ma non so ancora il vostro nome".
"Oh,
che sbadato! Hugh Armitage, nipote di Lord Falmouth ed erede della
dinastia dei Boscawen. Orgoglioso di servirvi, lady Demelza Carne".
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Non
credeva che Hugh Armitage parlasse sul serio ma si sbagliava.
Passate
le feste di Natale, col gelo e la neve di gennaio erano iniziate ad
arrivare puntualmente, ogni lunedì pomeriggio, delle lettere
per
lei. Ogni lunedì, verso le quattro del pomeriggio, qualcuno
bussava
al portone principale, consegnava in segreto alla cameriera addetta
al ritiro della posta una busta per lei che gli veniva recapitata e
poi spariva.
Era
strano ma nel giro di poche settimane, anche se Hugh Armitage non si
era più fatto vedere, quella era diventata una piacevole
abitudine
per lei, un piccolo angolo segreto e dolce che la faceva sorridere.
Sapeva
che era lui e trovava dolcissimo quel modo di fare, quel donarle un
pensiero senza farsi vedere quasi fosse lui stesso un essere magico
come quelli di cui le aveva parlato la notte di Natale, col solo
scopo di farle piacere. Erano a volte piccole poesie, a volte
aforismi, a volte semplici pensieri scritti in rima su di lei o sulla
bellezza in generale che circondava entrambi. Hugh sapeva trovare la
bellezza in ogni cosa, anche nella più insignificante
colomba bianca
che volava sui cieli di Londra e questo le toccava il cuore. Era un
animo sensibile e quei piccoli gesti, a cui non era abituata, la
rendevano felice ma le facevano anche scaturire una strana ansia
perché mai nessuno le aveva detto come rispondere a questo
genere di
gentilezze.
Una
delle cose che più adorava era che Hugh, in ogni busta,
mettesse
ogni volta il petalo di un fiore diverso e ogni lettera terminava con
la frase: “Indovina da che fiore l’ho
colto”.
Gli
scriveva la sua risposta su un foglio e lo affidava alla cameriera
incaricata di portarle le missive segrete e lei, ad ogni
lunedì,
consegnava la lettera di risposta al giovane.
Questo
avveniva sotto gli occhi di Dwight e Caroline che forse non si erano
accorti di nulla o forse sì, ma tacevano per senso del
pudore e per
rispettare la sua privacy.
Leggeva
quelle piccole poesie, che poi riponeva in un portagioie sulla sua
scrivania, ogni sera, quando aveva messo a letto i bambini. Era il
suo angolo di pace e quei momenti risvegliavano in lei un profondo
senso di benessere che non provava da… Beh, non lo ricordava
nemmeno più. O forse non l’aveva nemmeno mai
provato perché
nessuno aveva mai avuto pensieri tanto dolci e delicati nei suoi
confronti.
Non
sapeva se facesse bene o male a lasciarlo fare, se fosse sbagliato,
se non era un comportamento corretto e onesto di una donna
già madre
e con un vissuto tanto complicato alle spalle ma non riusciva a
rinunciarci. Anche se nei suoi pensieri c’era innegabilmente
Ross.
Ci sarebbe sempre stato Ross! L’apparizione nella sua vita di
Hugh
Armitage era qualcosa di misterioso ed indecifrabile per lei, nel
tumulto della sua mente e del suo cuore. Era strano avere qualcuno
che pensasse a lei, anche solo per pochi istanti, anche solo il tempo
di scrivere una breve poesia per farla sorridere. In fondo, da quando
era nata, a chi era mai importato davvero che lei fosse felice? Chi,
con piccoli gesti si era dimostrato desideroso di farle piacere? Chi
si era posto, nei suoi confronti, con la nobiltà di un
romantico
principe delle fiabe?
Non
era tanto Hugh Armitage in se a colpirla – non lo conosceva
dopo
tutto, anche se lo trovava affascinante – era quella
situazione
dove per una volta si era trovata nei pensieri di qualcuno a darle
quella strana serenità che non avvertiva da tanto.
Si
era chiesta cosa Hugh volesse da lei, non era tanto ingenua da
pensare che non avesse un fine e probabilmente immaginava anche quale
fosse ma la cosa bella era che cercava di conquistare i suoi favori
con modi gentili, romantici e delicati, senza pregiudizi e con
assoluta incuranza della sua situazione. Chiunque sarebbe fuggito
davanti a una donna sola, dal passato oscuro e con due bambini
piccoli da crescere. Lui no! E questo faceva la differenza.
Quando
arrivò la fine di febbraio, in un lunedì di sole
pallido, decise
che non avrebbe più mandato la cameriera a fare lo scambio
di
missive. E anche se si sentiva imbarazzata come una ragazzina al
primo appuntamento, era ora che lo rivedesse e lo ringraziasse di
ciò
che aveva fatto per lei in quei mesi. Svegliò i bimbi dal
pisolino,
li affidò a Prudie per la merenda e poi sfiorò la
busta con
l’ultima poesia ricevuta la settimana prima. Conteneva un
bellissimo petalo di narciso che stava cominciando proprio in quel
momento la fioritura.
Sorrise,
stavolta glielo avrebbe detto a voce il nome del fiore.
I
bimbi corsero fuori e Prudie, prima di chiudere la porta, si
attardò
ad osservarla mentre si pettinava i capelli. “Non stare a
pettinarti troppo. Ti troverebbe carina anche se ti vedesse appena
sveglia, spettinata e in camicia da notte. Soprattutto in camicia da
notte…”.
Demelza
arrossì. Dannazione, se n’era accorta?!
“Di che parli?” –
chiese, fingendo indifferenza.
Prudie
ridacchiò. “Ragazza mia, ne devi fare di strada
per riuscire a
fare qualcosa sotto ai miei occhi di nascosto”.
Demelza
sospirò. Prudie era come una madre ed era fedele, in fondo
che male
c’era se condivideva con lei quel segreto? “Credi
che faccia
male?”.
“Perché
hai questo timore?”.
Abbassò
lo sguardo. “Non lo so… Ho due figli a cui
pensare”.
Prudie
le si avvicinò, accarezzandole un braccio. “Sei
una madre ma anche
una donna. Non stai facendo niente di male, hai solo conosciuto una
persona gentile che ha piacere ad avere a che fare con te. Non devi
pensare a lui, non devi pensare che stai facendogli un torto”.
Demelza
sussultò, anche se la domestica non aveva detto il nome,
aveva
capito benissimo a chi si riferiva. Prudie aveva centrato il nocciolo
della questione, quella paura di non essere adatta che sempre
l’aveva
accompagnata da quando aveva conosciuto Ross. Anche ora che lui non
faceva più parte della sua vita, in un certo senso aveva
timore di
deluderlo col suo comportamento… “Andrà
mai via questo
fantasma?”.
Prudie
le strizzò l’occhio. “Conosci gente
nuova e pian piano andrà
via. E ora sbrigati o qualcuno se ne andrà senza che tu lo
abbia
incontrato. A proposito, è bello?”.
Demelza,
a quella domanda, scoppiò a ridere senza risponderle. Poi la
baciò
sulla guancia. “Grazie Prudie”. E poi corse via.
Scese
al piano di sotto, era deserto. Dwight era dai suoi pazienti,
Caroline da delle amiche a prendere il tè e le domestiche
erano
affaccendate in cucina ad organizzare la cena. Fuori c'era un clima
ancora freddo ma sereno e nell'aria si avvertiva quasi il profumo
della primavera che, anche se ancora lontana, sembrava impaziente di
arrivare.
Oltrepassò
il giardino ancora spoglio, socchiuse il cancello e si
appoggiò al
pilastro di pietra che lo sorreggeva e aspettò, godendo dei
raggi
del sole sul suo viso. E quando sentì dei passi leggeri
dietro di
lei non si voltò ma, a voce, pronunciò il nome
del petalo del fiore
che lui le aveva portato la settimana prima. "Narciso...".
I
passi si bloccarono di scatto al suono della sua voce e per un attimo
lui parve indugiare. E allora lei prese coraggio, si voltò e
gli
sorrise. "Non avevo della carta da lettera con cui rispondere e
così ho pensato che sarebbe stato educato darvi io stessa la
soluzione al vostro quesito".
Evidentemente
preso in contropiede, Hugh Armitage le sorrise di rimando,
imbarazzato. Era bello come la notte in cui l'aveva conosciuto e alla
luce del sole, coi raggi che rendevano dorati i suoi capelli castani
e ancora più chiari i suoi occhi blu, era ancora
più affascinante.
Era elegante senza essere pomposo, aveva un fisico asciutto e snello
e un sorriso dolce, gentile. "Ve ne intendete davvero di fiori.
Non avete mai sbagliato nessuna risposta".
"Lo
so, non ne avevo alcun dubbio". Demelza si avvicinò a lui,
annuendo. "Amo coltivarli e prendermene cura. E volevo
ringraziarvi per i pensieri gentili che avete avuto per me in questi
mesi. Mi ha fatto piacere ricevere le vostre poesie".
"Pensavate
che non l'avrei fatto? Che scherzassi?".
Lei
arrossì, imbarazzata. "In effetti sì, credevo che
scherzaste...".
Lui
si chinò, le prese la mano e la baciò. "Mia lady,
voi siete
una perfetta musa ispiratrice e non scherzavo affatto la notte di
Natale".
Se
possibile, Demelza arrossì ancora di più. "Giuda,
nessuno me
lo aveva mai detto!".
A
quella imprecazione lui rimase basito alcuni secondi, ma poi
scoppiò
a ridere. "Giuda?! Siete una continua fonte di sorprese e mi fa
piacere vedervi".
Maledicendosi
per l'esternazione poco signorile di poco prima ma piacevolmente
sorpresa dal vederlo divertito, Demelza rise a sua volta. "Scusate,
a volte dimentico dove mi trovo... E fa piacere anche a me avervi
rincontrato. Era tanto che volevo ringraziarvi e mi avrebbe fatto
piacere vedervi per un tè. Perché non siete
più venuto?".
Lui
le diede il braccio e lei accettò l'invito.
"Perché noi poeti
amiamo creare atmosfere soffuse e magiche e agire nell'ombra. Ma ora
che voi siete quì... Vi va di fare due passi, Demelza?".
Santo
cielo, Hugh Armitage sembrava più magico delle atmosfere che
sapeva
creare! "Certo, sono libera per qualche ora".
A
braccetto percorsero un breve dedalo di vie e Hugh Armitage la
scortò
fino ad Hyde Park. "Non vi ho scritto quelle poesie per avere i
vostri ringraziamenti o qualcosa in cambio, l'ho fatto
perché mi
faceva piacere farlo e perché sapevo che faceva piacere a
voi
riceverle. Non volevo altro e forse, se avessi bussato alla vostra
porta, avrei finito con l'essere meno magico e più invadente
e
terreno. Noi poeti amiamo scrivere da soli, nell'oscurità, e
guardare da lontano cosa prova la gente leggendo i nostri pensieri".
Giunti
sotto un grosso castagno, Demelza si fermò. Le sue parole,
il suo
modo di fare e la delicatezza dei suoi pensieri e delle sue parole la
stupivano e confondevano. Erano intenti nobili quelli di Hugh ed era
molto gentile da parte sua ma c'era qualcosa che voleva chiedergli e
ora che lo aveva davanti, prima di decidere se vedersi ancora e
continuare quello strano gioco in rima fra loro, voleva avere una
risposta. "Posso farvi una domanda?".
"Certo".
"Perché
perdete tempo a scrivere poesie a me? Siete giovane, bello,
aristocratico e sicuramente avrete conoscienze più
interessenti di
me a cui dedicare le vostre poesie".
Hugh
la guardò in viso, terribilmente serio stavolta. "Chi siamo
noi, per definirci più o meno interessanti? Vi ho vista la
sera di
Natale, voi e io, due perfetti sconosciuti... E ho parlato con voi
con la stessa naturalezza con cui si chiacchiera con una persona
conosciuta da sempre ed è raro che capiti, fra due perfetti
estranei, succede solo con anime affini. Mi siete sembrata bella come
una fata in quel corridoio avvolto dalla nebbia e mi dispiace che
voi non vi riteniate interessante ma ai miei occhi lo siete e mi
piace scrivere per voi. E vorrei continuare a farlo perché
da molto,
pensando a qualcuno, non provavo tanto piacere a scrivere qualcosa".
Demelza
sorrise, tristemente stavolta. Santo cielo, lui era dolce e
sicuramente genuino e sincero nelle sue parole ma lei non era
così
speciale come lui credeva e non voleva che un giorno restasse deluso
da ciò che lei era davvero. "Hugh, non sono una fata, sono
una
donna sola, con due figli piccoli, che arriva da un mondo opposto al
vostro. Ho tantissimi problemi e vi assicuro che il mondo non mi
guarda con la stessa benevolenza che usate voi. Non sono quello che
credete e forse davvero dovreste volgere lo sguardo altrove e
dedicare le vostre poesie a qualcuno che davvero rispecchi
ciò che
vedete e scrivete".
Hugh
sospirò, prendendole la mano e stringendola nella sua.
"Ditemi
una cosa! Siete una persona cattiva?".
Sussultò
a quella domanda che non si aspettava. "No... No santo cielo!
Cerco di non esserlo quanto meno...".
Lui
sorrise, baciandole la mano che teneva stretta nella sua. "E
questa è l'unica cosa che conta. I problemi arrivano per
tutti prima
o poi, di diversa natura. Non siamo noi a meritarceli, capitano e
basta senza colpa di nessuno. Non mi importa cosa il mondo pensa di
voi e non mi spaventa il passato che vi portate dietro. Solo una cosa
conta, per me, quando guardo una persona...".
"Cosa?".
"Gli
occhi... Voi Demelza avete dei meravigliosi occhi verdi, trasparenti
e lucenti come quelli di un bambino. Occhi così appartengono
a
persone belle di animo e di cuore e sono quelli che ispirano i poeti
e i menestrelli a scrivere poesie e ballate".
Sentì
quei suoi occhi descritti con tanta passione da Hugh farsi lucidi.
Nessuno le aveva mai detto qualcosa di simile, nessuno era mai
riuscito a farla sentire... speciale... Tremò ma non per
paura o
freddo, tremò per un brivido di strano piacere che percorse
tutta la
lunghezza del suo corpo. "Quindi, nonostante le mie OTTIME
argomentazioni, continuerete a scrivermi poesie?" - chiese, con
la voce che le tremava.
"Ovviamente,
nonostante le vostre ottime argomentazioni... Se voi me lo
permetterete ovviamente".
Gli
sorrise, annuendo. Santo cielo, che stava facendo? In che razza di
guaio si stava cacciando? Eppure per una volta decise di essere
irrazionale e di fregarsene del buon senso e in parte delle
responsabilità. Voleva viversi qualcosa di bello per se,
SOLO per
se, qualcosa che la faceva star bene. In fondo con Hugh non faceva
nulla di male e dopo tanto dolore e tante lacrime, era come aver
trovato un raggio di sole capace di scaldarle un cuore che credeva
irrimediabilmente ghiacciato. "Ve lo permetto".
Lui
rise, felice come un bambino. "Potrò godere ancora della
vostra
compagnia come oggi?" - chiese, prendendola per mano e
ricominciando a camminare per Hyde Park.
"Credo
di sì. Ogni lunedì, quando verrete a portarmi la
poesia, se vi
va?".
"Il
lunedì, ovviamente". Hugh divenne pensieroso,
inspirò
profondamente e poi prese coraggio. "Ma se vi chiedessi...
Ecco... Domenica pomeriggio vi andrebbe una passeggiata con me?".
Demelza
si bloccò, gelata e ancora più imbarazzata di
lui. Ecco, se lo
aspettava e gli faceva anche piacere che lui glielo avesse chiesto
però ora quei problemi della sua vita che a lui non
interessavano ma
che c'erano, sarebbero improvvisamente ricomparsi spezzando la magia
che si era creata fra loro. "Ho due bambini... La domenica la
dedico a loro".
Lui
ci pensò su. "Jeremy e Clowance, giusto?".
Stupita
che si ricordasse i loro nomi che gli aveva detto ben due mesi prima,
lei annuì. "Sì, giusto".
"Amano
gli animali?".
Lei
rise, stupita da quella strana domanda. "Sì! In queste sere
gli
sto leggendo una fiaba con protagonista Sveva-la zebra e la adorano.
Jeremy mi chiede un sacco di cose sulle zebre e santo cielo, non so
mai cosa rispondergli. Non ne ho mai vista una".
Hugh
annuì. "Perfetto! Verrò a prendervi domenica
pomeriggio alle
due. Voi e i bambini... E vi porterò a conoscere... Sveva-la
zebra".
"Cosa?".
Lui
le strizzò l'occhio. "Vi fidate?".
Si
sentì leggera, eccitata e curiosa come una bambina. "Dite
sul
serio?".
"Certo!
Non scherzo mai quando si tratta di Sveva-la zebra! E voi, che
animale vorreste vedere?".
Decise
di stare al gioco, si stava decisamente divertendo. "Alcuni
dicono che, con questi capelli rossi, ricordo la fierezza di una
tigre. Non ne ho mai vista una però, per accertarmi che sia
vero...".
"Le
tigri sono esseri meravigliosi!". Lui le baciò nuovamente la
mano. "Sveva-la zebra e la tigre. Si può fare... A
domenica?".
Si
mise le mani sui fianchi, dandogli corda e affrontando il suo sguardo
in attesa. "Due bambini piccoli possono essere peggio di una
tigre! E voi non mi sembrate esperto in materia".
"Parlate
delle tigri?".
"Parlo
dei bambini".
Lui
non parve scoraggiarsi. "Sono affascinanti come la madre?".
"Molto
più che la madre. Sono i bambini più belli del
mondo".
Hugh
le riprese la mano, ridendo. "E allora sarà un piacere
passare
la domenica pomeriggio con loro e con voi".
...
Domenica
arrivò in fretta e per tutta settimana Demelza fu impegnata
ad
evitare ed ignorare le battutine divertite di Dwight e Caroline sullo
strano interessamento 'del tutto disinteressato' di Hugh Armitage.
Dopo
pranzo preparò i bambini per uscire, dicendo loro che
avrebbero
passato il pomeriggio con un amico della mamma. Santo cielo, non
sapeva nemmeno se definire Hugh 'amico' fosse corretto, non era
davvero consapevole di che genere di rapporto li unisse...
Mise
a Jeremy dei pantaloncini verdi lunghi fino al ginocchio e una
giacchetta dello stesso colore e fece indossare a Clowance un
vestitino di lana azzurro, fermando i suoi boccoli ribelli con un
nastrino del medesimo colore.
La
giornata era bella, limpida ma ancora piuttosto fredda come era
normale che fosse, a inizio marzo. Non aveva idea di cosa avesse in
mente Hugh ma decise di non pensarci e di lasciarsi guidare da lui.
Arrivò
a prenderla in carrozza, puntuale, e appena vide i bambini si
esibì
in un sorriso. Strinse la mano, da uomo a uomo, al piccolo Jeremy e
baciò la manina di Clowance che rise diverita. E poi la sua,
lentamente, facendole venire un brivido lungo la schiena.
"Meravigliosamente belli, come la madre" –
sussurrò.
"Una fatina non poteva che mettere al mondo dei capolavori".
Jeremy
gli tirò la giacca, spezzando quel momento romantico. "Dove
andiamo, signore?".
Lui
gli strizzò l'occhio. "Vedrai! E' una sorpresa".
Da
vero gentiluomo prese in braccio i bambini, facendoli salire sulla
carrozza e poi diede la mano a lei, aiutandola a fare altrettanto.
Demelza
rise, non ci era decisamente abituata. Si sedette e rimase in
silenzio, rilassandosi all'andatura placida della carrozza e cullata
dalle chiacchiere di Jeremy che non smetteva di fare domande a Hugh.
Quando
suo figlio iniziava a chiacchierare, era difficile fermarlo ma Hugh
non pareva infastidito dalla cosa e anzi, sembrava in grado di
mettersi al suo livello di bambino e di sostenere alla pari una
conversazione con lui.
Clowance
ogni tanto cercava di attirare l'attenzione del ragazzo e lui alla
fine se la mise sulle ginocchia, facendola saltellare e ridere. E
così dopo un pò anche Jeremy volle fare lo stesso
gioco e Hugh lo
accontentò senza problemi.
Quando
finalmente la carrozza si fermò, erano in aperta campagna.
Scesero e
si trovarono davanti a una grossa stalla dalla quale si accedeva a un
immenso campo delimitato da alte staccionate e recinzioni che si
perdevano a vista d'occhio fino al bosco che si trovava a diverse
miglia da loro.
"Che
posto è questo?" - chiese Demelza, guardandosi in giro.
Hugh,
prendendo Jeremy per mano, le indicò l'ingresso. "Una specie
di
ricovero per animali. Si prendono cura ed allevano animali destinati
ai circhi e agli spettacoli viaggianti. Colui che lo gestisce
è un
mio amico e mi ha permesso di portarvi quì a vedere gli
animali di
cui si sta prendendo cura ora".
Jeremy
saltellò eccitato. "Bello!!!".
"Oh
sì" – rispose Hugh, accelerando il passo e
trascinandoselo
dietro. "Venite".
Con
in braccio Clowance, Demelza seguì i due, osservando il
paesaggio
attorno a se. Passarono davanti a un lago pieno di fenicotteri rosa,
in lontananza videro una giraffa che lasciò lei e i bambini
a bocca
aperta e infine giunsero in un altro recinto interno, posto al
delimitare del bosco.
Hugh
le prese Clowance dalle braccia, mettendola a terra con suo fratello.
"Venite bambini, vi aspetta una vostra amica!".
Entrarono
nel recinto e i due piccoli si bloccarono, quasi senza fiato
dall'emozione.
"IEIA!!!"
- gridò Clowance, indicando un uomo che teneva le redini di
un
grande animale bianco e nero.
Demelza
spalancò gli occhi, guardando Hugh senza parole. "Una
zebra...".
Jeremy
saltellò. "Sveva-la zebra, Sveva-la zebra!!!".
L'uomo
che teneva le redini dell'animale si avvicinò loro,
esibendosi in un
inchino. "Vi aspettavo signorini. E oggi sono a vostra
disposizione". Li prese in braccio e poi li mise sulla groppa
dell'animale che sembrava dolce e docile e i bimbi impazzirono di
gioia.
Demelza
rimase senza fiato. "Ma... ma...".
Hugh
rise. "Sveva-la zebra che è innamorata di...". Si
voltò
verso Jeremy, aspettando che finisse la frase.
E
il bimbo lo accontentò. "Di Nello-l'asinello".
"Esatto"
– disse il poeta. "Oggi Nello non c'è, doveva
lavorare, ma
Sveva sarà la vostra compagna di avventure per tutto il
pomeriggio e
il signor Steve vi farà giocare con lei e vi
insegnerà un sacco di
cose su questo animale".
Il
viso di Jeremy divenne rosso dall'emozione. "E' il giorno
più
bellissimo della mia vita! Signor Hugh ma conosci Sveva-la zebra?".
Anche
Demelza era incuriosita dalla cosa. "Già! La conoscete?".
Hugh
sospirò. "Ho passato QUATTRO giorni nelle librerie di Londra
che si occupano di letteratura infantile, per trovare quel libro.
Volevo essere pronto e quando l'ho trovato, l'ho letto in una notte.
Bellissima storia".
Demelza
scoppiò a ridere. Santo cielo, Hugh era una continua fonte
di
sorprese. "Avete letto una fiaba per bambini?".
Lui
le prese la mano, salutando Steve ed affidandogli i bambini.
"Ovviamente. Io leggo qualsiasi cosa" – disse,
costringendola a seguirlo.
Demelza
si accodò a lui. "Ma... una fiaba... non è una
lettura che
potrebbe amare un poeta adulto".
"Sbagliate!
Io amo ogni tipo di lettura e le fiabe per bambini sono affascinanti
perché sono quelle che ci lasciano più
insegnamenti su cui
riflettere. Hanno tutte una morale da cui anche noi adulti possiamo
imparare".
Demelza
era scettica. "E Sveva-la zebra che morale avrebbe?".
Lui
ci pensò su, mentre la conduceva in un piccolo caseggiato di
legno
nel bosco. "Sveva ama Nello l'asinello. Due esseri diversi che
si innamorano e sanno stare insieme nonostante appartengano a due
mondi opposti. Lo trovo un insegnamento eccezionale! Questo insegna,
che l'amore non ha barriere e non conosce distinzioni. Quando arriva,
lo si deve accogliere e basta. E viverlo... Quando si ama non esiste
diversità, parla il cuore e se lo sai ascoltare, l'amore
vince
sempre. E' una favola affascinante" – concluse, guardandola
intensamente.
Demelza
fu costretta ad abbassare lo sguardo imbarazzata, rendendosi conto
che il discorso non verteva solo su Sveva e Nello ma anche su cose
più terrene e personali che forse aveva paura di ascoltare.
"Dove
stiamo andando?" - chiese, sviando il discorso.
"Le
sorprese non sono finite".
La
fece entrare in un capanno e un altro uomo li attendeva. Era un
ambiente spoglio con un vecchio tavolo di legno al centro, qualche
sedia e un piccolo giaciglio di paglia all'angolo.
L'uomo
si avvicinò, li stava evidentemente aspettando. "Mia lady,
benvenuta" – disse, inchinandosi.
Demelza
guardò Hugh, accigliata. "Che significa?".
"Venite".
Hugh le prese il polso e la condusse fino al pagliericcio davanti al
quale Demelza rimase senza fiato. A pochi passi da lei,
tranquillamente addormentato nel fieno, dormiva un piccolo tigrotto
delle dimensioni di Garrick. Aveva un maestoso pelo giallo e nero,
zampe grasse e imponenti di chi sarebbe diventato, crescendo,
maestoso e fiero e un musino talmente dolce da sembrare uno dei
pupazzetti di Clowance. "Hugh...".
L'uomo
del capanno si avvicinò, prenendo in cucciolo e
mettendoglielo in
braccio. Era morbidissimo e caldo e sotto le mani con cui lo
sorreggeva, poteva sentir battere forte il suo cuoricino.
"E'
figlio di una tigre dello zoo di Londra e arriva dalle Indie. Ha
pochi giorni di vita e la madre lo ha rifiutato. Hugh mi ha chiesto
di poterlo avere per alcune ore e mi ha assicurato che voi ve ne
sareste presa cura per il pomeriggio".
"Io?"
- chiese Demelza, in panico. "Non so come si fa".
Hugh
sorrise. "Ci daranno un biberon e del latte. Bisognerà
sfamarlo
come si fa coi bambini, tutto quì".
Demelza
sorrise eccitata per l'emozione, le tremavano le gambe ed era felice ed
euforica come se fosse essa stessa una bambina. Era
commossa, contenta come vivesse un sogno... Il tigrotto,
quell'esperienza unica, quella gentilezza, quelle attenzioni...
Era
felice perché era come se in quel giorno fosse diventata la
bambina
che non aveva mai potuto essere da piccola e qualcuno era lì
per
starle accanto e vedere semplicemente un sorriso sul suo viso.
Qualcuno al mondo stava facendo tutto questo per vederla contenta. E
questo ai suoi occhi, a lei che non aveva mai avuto nulla, pareva
straordinario. Baciò il piccolo tigrotto sulla testolina e
il
cucciolo aprì i suoi occhietti verdi, leccandola sulla
guancia e
lasciandosi coccolare. Era adorabile ed era incredibile pensare che
di lì a pochi anni sarebbe diventato un animale feroce e
maestoso...
"Latte? Beh, so farlo, posso farlo. Mi occuperò io di lui
oggi"
– disse sicura, felice come i suoi figli che, in quel
momento,
giravano il parco in sella a Sveva-la zebra.
E
quella sera, quando tornò a casa e si trovò da
sola in camera sua,
al buio, dopo aver messo a letto i bambini, si girò e
rigirò sul
materasso, come se fosse stata una ragazzina eccitata per il primo
amore...
Pensò
alla zebra, al tigrotto, al parco, alle chiacchiere dei bambini, ai
loro sorrisi finalmente felici...
E
poi pensò a Hugh e sentì lo stomaco contorcersi e
il cuore batterle
più forte. Che le stava succedendo? Perché
improvvisamente non
vedeva l'ora che arrivasse domani per rivederlo e per ricevere la sua
poesia? Perché voleva sentire ancora e ancora il calore
della sua
mano stretta alla sua, pelle a pelle? E cos'era quella leggerezza del
suo animo e del suo cuore che le faceva apparire il mondo finalmente
bello e migliore di quanto non fosse mai stato prima?
Hugh
diceva che lei era una fata ma quello magico era lui. LUI aveva fatto
una magia, LUI aveva reso il pensiero di Ross e del male che le aveva
fatto più piccolo, più opaco e lontano. Per la
prima volta da
quando era arrivata a Londra, Ross e la Cornovaglia non erano al
primo posto dei suoi pensieri ed erano stati relegati in un angolo
nascosto del suo cuore.
Voleva
Hugh, voleva solo che arrivasse in fretta il giorno dopo per
rivederlo e riassaporare quella leggerezza di vivere che non gli era
mai appartenuta fino a quel momento.
Questo
faceva paura ma allo stesso tempo la riempiva di una strana
felicità
che non riusciva ancora a spiegare!
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
Il
tempo, quando si è sereni e forse anche felici, pare
scorrere più
in fretta.
La
primavera era volata e Demelza aveva imparato a guardare Londra con
occhi diversi, grazie alla vicinanza e alla presenza di Hugh
Armitage.
Lui
era gentile, sempre attento e vicino, sempre pronto a farla sentire
speciale. Avevano abbandonato il 'voi' nel mese di aprile per darsi
del 'tu', avevano cavalcato come pazzi per le campagne di Londra
nelle giornate di sole scoprendo l'amore comune per i cavalli,
avevano assistito a rappresentazioni teatrali di tanto in tanto,
quando Demelza si faceva convincere a lasciare i bambini alle cure di
Prudie di sera, avevano cenato assieme a Dwight e Caroline proprio
come una volta lei faceva con Ross e insieme, loro quattro, erano
diventati un gruppo affiatato e amico.
Hugh
non aveva mai smesso, ogni lunedì, di farle avere una nuova
poesia.
Ispirata a lei o ai bambini, era diventata una piacevole abitudine
che la faceva star bene.
I
bambini si erano affezionati a lui, soprattutto Jeremy che spesso
chiedeva quando sarebbe arrivato a trovarli o quando avrebbero fatto
l'ennesima gita insieme. Con Jeremy e Clowance, lui aveva organizzato
pomeriggi nei vari parchi londinesi, li aveva portati in barca e a
vedere uno spettacolo di marionette destinato ai più piccoli
e
spesso donava loro dei nuovi libri di fiabe che avevano acceso in suo
figlio il desierio di imparare a leggere e scrivere. E Hugh,
nonostante Jeremy non avesse ancora cinque anni, con pazienza aveva
iniziato a insegnargli le lettere, come scrivere il suo nome e tante
cose semplici che però stavano avvicinando suo figlio al
mondo della
lettura e dei libri.
Di
Clowance, Hugh aveva capito la natura vezzosa e vanitosa. Le portava
spesso nastrini o mollettine colorate per i capelli o piccoli oggetti
per le sue bambole e lei appena lo vedeva, gli correva incontro
contenta e lo abbracciava.
Dell'affetto
dei suoi figli verso Hugh, non aveva ancora saputo farsi un'idea. Era
bello che avessero qualcuno che si fosse affezionato a loro ed era
terribile, quando li guardava insieme, ricordarsi ogni volta che quel
qualcuno non era il loro padre, che quel qualcuno aveva fatto per
loro molto più di quello che avrebbe mai fatto Ross...
E
lei? Lei si sentiva strana, in balìa di mille sentimenti
contrastanti che la confondevano ma che sapevano anche inebriarla.
Non poteva mentire a se stessa, la compagnia di Hugh Armitage, le sue
attenzioni, la sua dolcezza e i piccoli gesti gentili che compiva nei
suoi confronti, erano qualcosa che la faceva stare bene e a cui non
voleva rinunciare. Anche se a volte, quando era con lui e ricordava
chi lei fosse e da dove venisse, si sentiva 'sporca', come se stesse
tradendo qualcuno. Ma poi guardava la sua mano, notava la mancanza
della fede nuziale e si rendeva conto che nella sua vita non c'era
proprio nessuno da tradire. Quella tradita e abbandonata era stata
lei ed ora era libera da vincoli e da qualsiasi sentimento di colpa
verso chicchessia.
Hugh
non le aveva mai chiesto nulla del suo passato e lei avrebbe voluto
raccontarglielo un giorno ma temeva che, se avesse saputo che era una
moglie ripudiata, anche lui sarebbe sparito inorridito e spaventato
dalle ripercussioni che il loro rapporto avrebbe avuto sulla
società.
Si vergognava di se stessa e anche se Dwight le ripeteva che non
doveva farlo e che non aveva nessuna colpa, quella sensazione di non
essere pura come le altre donne non la abbandonava quasi mai.
Non
voleva che Hugh sparisse, non voleva perché sapeva che pian
piano
lui era stato la medicina alle sue ferite e l'unico che le stesse
mostrando che poteva ancora vivere.
Non
sapeva cosa desiderasse da Hugh ma spesso, sempre più
insistentemente, aveva desiderato un contatto più
ravvicinato con
lui. Questo le faceva paura, non poteva permettersi di provare un
sentimento del genere verso un Boscawen, non avrebbe portato a nulla
di buono per nessuno dei due. Lui sembrava adorarla, amava quando le
diceva che era la sua fata e spesso aveva desiderato, con terrore,
che le sfiorasse il viso e la baciasse, che la stringesse fra le
braccia e la facesse sentire amata e protetta, ma Hugh fino a quel
momento non aveva mai smesso i suoi panni da gentiluomo e principe
azzurro da fiaba e probabilmente questa era la cosa più
saggia da
fare. Era un tipo poco mondano e molto romantico e sicuramente non
stupido. Hugh forse desiderava le stesse cose ma saggiamente sapeva
che non potevano spingersi oltre! Lui non avrebbe mai potuto
abbassarsi a una come lei, una che avrebbe potuto rovinargli la vita
con la sua sola vicinanza e lei... lei sapeva che il suo cuore non
avrebbe mai potuto appartenere a nessun altro che non fosse Ross.
Hugh lo aveva toccato, curato, coccolato e guarito da molte ferite ma
quel cuore non sarebbe forse mai stato capace di darsi a qualcun
altro totalmente. Desiderava amore, due braccia che la stringessero,
ne aveva dannatamente bisogno ma non poteva... Non poteva, non con
lui, non con la consapevolezza di non poter restituire totalmente
quei sentimenti tanto belli di quel giovane gentile che era piombato
nella sua vita come per magia, rendendola infinitamente più
bella.
Non
c'era futuro, non c'era nulla che potesse realizzarsi se non il
vivere, giorno dopo giorno, quella loro bella e pulita amicizia che
li spingeva a cercarsi sempre, a sorridersi, a prendersi per mano, a
chiacchierare ore o a galoppare col viso accarezzato dal vento nei
verdi prati e boschi che attorniavano Londra.
Nessuno
aveva osato fare di più, spingersi oltre... Il desiderio era
palpabile fra loro, se lo leggevano negli occhi quando si guardavano
ma per mesi, fino all'estate, riuscirono a tenerlo a bada.
Ma
poi venne il ballo d'estate di Lord Bennett. E tutto
cambiò...
"Vieni
con me".
Glielo
aveva chiesto in un pomeriggio caldo di giugno, mentre si trovavano
nel giardino degli Enys dopo il tè e i bambini giocavano con
Prudie
poco lontano, correndo fra gli alberi. Hugh l'aveva guardata
implorante, con uno sguardo a cui difficilmente si poteva dire di no.
Aveva fatto tanto per lei e per i suoi bambini, senza chiederle mai
nulla in cambio, però accettare... "Hugh, non è
posto per me".
"Nemmeno
per me, Demelza! Odio queste cose e di solito ci vanno mio zio o mia
madre. Ma sono entrambi fuori città, Lord Bennett
è un intimo amico
di famiglia e stavolta sono costretto ad andarci io a questo evento,
mio malgrado a rappresentare i Boscawen. Vieni con me, ti prego. Non
posso andarci da solo".
Aveva
deglutito e volto lo sguardo altrove. Santo cielo, possibile che non
capisse...? "Hugh, ho dei figli piccoli e il ballo è in un
cottage fuori Londra. Dovrei star fuori tutta la notte e non
posso...".
"Puoi
affidare i bambini a Prudie, per una notte. Siamo già usciti
alcune
sere per il teatro, no?".
Sospirò.
"Certo. Ma siamo tornati a casa per mezzanotte".
"Giuro
che ti riporterò a casa prima che i bambini si sveglino, al
mattino".
"Sicuramente
conoscerai dame più meritevoli di me di accompagnarti...".
"No,
non direi. Lo sto chiedendo a te perché ai miei occhi la
dama più
giusta sei tu. Chi è più meritevole di una fata?".
Arrossì,
era dolce e la confondeva quando faceva così ma... Scosse la
testa,
si sentiva in trappola e di colpo la differenza sociale fra loro
divenne reale e tangibile e non solo un pensiero astratto. "Hugh,
Lord Bennett è molto nobile?".
"Sì,
abbastanza nobile. Fa parte della Camera dei Lords".
Lei
lo guardò storto. "Io che ci farei a un suo ballo? L'unica
cosa
che potrei fare è andare in cucina a pulire i piatti, cosa
che mi
farebbero fare se conoscessero le mie origini".
Hugh
sorrise, le prese le mani e le baciò dolcemente. "Verresti
come
mia accompagnatrice e mia ospite. Nessuno oserebbe dirti
alcunché,
io glielo impedirei e inoltre sei e sarai fra le dame più
belle del
ballo. Al massimo qualche comare potrebbe essere invidiosa di te...".
"Non
ho un vestito adatto!" - provò ad argomentare.
Lui
rise. "Qual'è il tuo colore preferito?".
"Il
verde, perché?".
Hugh
le strizzò l'occhio, per poi chinarsi a baciarla sulla
guancia.
"Perché avrai un abito di quel colore, al ballo. Te lo
farò
recapitare al più presto".
Rimase
stordita dalla piega che avevano preso le cose e dalla scossa che
aveva attraversato il suo corpo quando le sue labbra avevano sfiorato
la sua guancia. Santo cielo, in che guaio si stava cacciando? Era
ormai evidente che non poteva dire di no. E forse nemmeno lo voleva,
urlò una vocina della sua coscienza che cercò di
ignorare, senza
tuttavia riuscirci.
...
Il
15 luglio, data del ballo, arrivò in un attimo. Aveva
aspettato quel
giorno con un misto di paura ed emozione e quando Hugh le aveva fatto
recapitare l'abito per quell'occasione, era rimasta a bocca aperta:
non aveva mai visto nulla del genere, nulla di tanto elegante in vita
sua. Nemmeno alle feste dove l'aveva portata Ross, nemmeno indosso ad
Elizabeth nei suoi momenti migliori... Ma in fondo non doveva
stupirsi, era ad un ballo di nobili di Londra che doveva andare, era
nella capitale e come accompagnatrice di un Boscawen, doveva
indossare qualcosa che fosse all'altezza...
Deglutì,
tirando fuori l'abito ed osservandolo con mani tremanti mentre
Clowance, incuriosita, le trotterellava intorno nella stanza seguita
da Caroline.
Il
vestito era di un tessuto verde smeraldo lucidissimo e liscio, senza
fronzoli o pizzi e merletti, con una gonna che andava giù
allargandosi attorno alle gambe. Il corpetto era aderente e sembrava
cucito apposta per lei, era perfetto per le sue forme. Smanicato, con
una scollatura sulla schiena, era stretto in vita da un nastro di un
verde più scuro, decorato con cuciture dorate che si
intrecciavano.
E nella scatola, accanto all'abito, c'era un nastro d'oro per
acconciarle i capelli e delle scarpe verdi dello stesso colore del
vestito, col tacco, lucide e dalla forma elegante. "Giuda...".
Caroline
rise. "Giuda un bel niente! Siediti su quella sedia, lascia che
ti aiuti a cambiarti e ad acconciarti i capelli e vediamo di
sbrigarci! O non sarai mai pronta, Hugh sarà quì
fra un'ora".
"Vieni
anche tu, con Dwight!" - la implorò.
Caroline
sospirò. "Mia cara, verrei volentieri se non fosse che
Dwight,
proprio stasera, vuole portarmi con se a un convegno medico. Ti
invidio, tu ti divertirai da morire e io invece morirò di
noia! Il
mondo è proprio ingiusto".
Demelza
sorrise. Amava quando si lamentava così, mentendo anche a se
stessa
su quanto amasse fare le cose con Dwight, anche quelle che riteneva
più noiose. "Su, aiutami. Prima mi preparo, prima vado e
prima
torno...".
"Chissà..."
- rispose Caroline, maliziosamente. "Io vorrei invece che tu
ritardassi e te la godessi...".
Demelza
fece finta di non sentirla e si lasciò accomodare per la
serata
mentre Clowance, attentissima ad ogni preparativo, stava ferma e
buona a guardarla mentre diventava una lady per una sera.
Un'ora
dopo era pronta e quasi non riuscì a riconoscersi,
guardandosi allo
specchio. L'abito era così bello, così perfetto,
senza sbavature e
con quel color verde smeraldo che sembrava ravvivarle il colore dei
capelli e degli occhi. Caroline le aveva prestato degli orecchini di
diamanti e una collana d'oro e le aveva acconciato i capelli in uno
chignon intrecciato col nastro dorato che era abbinato al vestito.
"Sono davvero io?".
"Sei
davvero tu..." - rispose l'amica. "E ora vai e divertiti,
Prudie penserà ai bambini e io e Dwight... ai derelitti di
questa
città" – concluse, con una smorfia.
Rise,
baciò i bambini e scese di sotto col cuore che le martellava
nel
petto. E Hugh quando la vide, elegantissimo davanti alla sua
carrozza, rimase senza parole. Le prese la mano, la baciò e
la
mangiò con gli occhi. "Sei bellissima, piccola fata".
"Merito
dell'abito".
Lui
scosse la testa. "Merito di chi lo indossa".
Gli
sorrise dolcemente e lasciò che la aiutasse a salire in
carrozza. E
poi si diressero verso la periferia di Londra mentre il sole pian
piano tramontava sulla città.
La
grande casa di campagna di lord Bennett era un'immensa costruzione
che spiccava per eleganza nella campagna londinese, circondata da
boschi e campi arati. Dopo aver oltrepassato il grande cancello che
delimitava la proprietà, si percorreva un lungo viale
costeggiato
dai boschi privati della famiglia e poi da lì si accedeva ai
maestosi giardini pieni di roseti, siepi e fontane zampillanti. Un
lusso sfrenato, talmente opulento che Demelza tremò. "Mi
sento
a disagio".
Hugh
sospirò. "Anche io... Odio queste cose".
"Ci
sei nato, in mezzo a queste cose".
"E
ho sempre cercato di sfuggirvi... Perché sono entrato nella
marina e
ho navigato tanto a lungo in acque nemiche, secondo te?".
Demelza
ci pensò su. Era vero, Hugh le aveva raccontato della sua
carriera
nella marina ma ora non ne faceva più parte da un
pò, anche se non
gliene aveva mai spiegato il motivo. "Vuoi dire che ti sentirai
a disagio quanto me?".
"Probabilmente
sì...".
Rise,
nonostante tutto. Non stava mentendo e non la stava prendendo in
giro. Era sincero e smarrito quanto lei, si vedeva che non amava
questo genere di cose e che quella sera era lì per una
costrizione
dettata dalla sua famiglia. "Hugh?".
"Sì?".
"Cerchiamo
di fare bella figura, dai".
Lui
rise. "Cercherò di immaginarmi altrove e nel mentre
penserò
alla prossima poesia per te".
La
carrozza si fermò davanti all'entrata. Altre carrozze
stavano
arrivando e ripartendo e c'era un via vai di nobili elegantissimi e
blasonatissimi, lady in pizzi e merletti e lord in panciotto e abito
nero.
Dei
maggiordomi la aiutarono a scendere e in un attimo si ritrovarono in
un grandissimo salone dove un'orchestra suonava un valzer e alcune
coppie già ballavano mentre altre si soffermavano davanti al
ricco
buffet e alcuni uomini chiacchieravano di politica.
Demelza
guardò Hugh, tremando. "Non lasciami..." - gli
sussurrò.
Aveva paura a trovarsi lì e soprattutto la annientava
l'ipotesi che
lui potesse sparirsene chissà dove, come aveva fatto sempre
Ross
ogni volta che l'aveva portata a un ballo.
Alcune
donne la guardarono di sbieco e Hugh ridacchiò. La prese per
mano,
la condusse nella sala da ballo e dopo averle stretto la vita,
iniziarono a danzare. "Non ti lascio, sta tranquilla".
Demelza
fissò di sbieco le donne che l'avevano guardata storto.
"Quelle
sanno che non dovrei essere quì".
Lui
scosse la testa. "Quelle sono quattro befane vecchie, rugose e
prossime alla tomba... Sono invidiose... Ma non oseranno dire nulla
alla mia compagna, sono di rango inferiore alla mia famiglia e di
certo, a meno che io non sia il primo a rivolgere loro la parola
–
cosa che non farò - non potranno avere a che fare con noi".
"Oh...".
Questa era una delle regole dell'alta società che lei ancora
non
conosceva, evidentemente. "Le persone di rango inferiore non
possono parlare con quelle di rango superiore?".
Hugh
annuì. "In teoria è così. Anche se non
ci ho mai fatto caso e
non mi sono mai attenuto a questa regola".
Demelza
tremò. In quella sala c'erano SOLO nobili e a quanto
sembrava solo
in pochi avevano un rango superiore a Hugh. Cosa ci faceva LEI,
lì,
con LUI? Lui che poteva avere le dame migliori di Londra ai suoi
piedi?
Rimase
silenziosa, pensierosa, stretta a lui mentre ballavano.
Le
danze si fermarono solo all'ora di cena, per il discorso di Lord
Bennett che diede a tutti il benvenuto, fece alcune battute sui
sovrani e sulla politica, elogiò la grazia delle dame
presenti e poi
invitò tutti a sedersi alla lunga tavolata piena di ogni
prelibatezza esistente in Inghilterra.
Demelza
non mangiò quasi nulla, avrebbe voluto sparire. Hugh era
perfetto,
era accanto a lei e pareva smarrito al suo pari ma improvvisamente,
lì in mezzo, si era spaventata per quel legame sempre
più forte con
quel giovane gentile che la adorava. Era vero, Hugh era un poeta, un
ragazzo romantico e appassionato ma era... era tanto, troppo diverso
da lei. Demelza Carne non poteva essere amica di un uomo
così, un
uomo tanto nobile e tanto vicino alla corona... Un uomo con cui
neppure tanti nobili potevano avvicinare...
"Demelza,
cosa c'è?".
Sussultò,
si era accorto che qualcosa non andava in lei. "Niente..."
- mugugnò.
Mangiucchiò
un pò di faraona dorata col miele e delle patate al forno e
assaggiò
la torta di cioccolato e panna ma il suo stomaco era chiuso tanto
che, quando tutti si alzarono dal tavolo per tornare alle danze, con
una scusa si allontanò da Hugh uscendo nel giardino ormai
deserto
per prendere aria.
Voleva
tornare a casa, dai suoi figli... Quello era il suo posto!
Percorse
il vialetto sterrato osservando gli alberi e quei giardini curati. Un
forte vento si era alzato, un vento tanto simile a quelli furiosi
della Cornovaglia e allo stesso tempo diverso. Sentì
nostaglia per
la sua terra, per le corse nei prati, per la morbidezza della sabbia
della spiaggia sotto i suoi piedi nudi e provò la folle
voglia di
tornarvi. Ma non poteva, non ora... Non più...
Si
sedette su una panchina desiderosa di piangere, mentre il vento le
scompigliava i capelli facendo scivolare giù dallo chignon
fattole
da Caroline, alcune ciocche.
"Demelza...".
Sussultò,
voltandosi. Hugh era dietro di lei ed appariva preoccupato. "Scusa,
mi girava un pò la testa la dentro. Volevo stare un
pò fuori..."
- si giustificò, mentendo.
Lui
la scrutò in viso, pensieroso, poi le si sedette accanto.
"Demelza,
cosa c'è che non va?".
Si
morse il labbro, decisa ad allontanarlo e allo stesso tempo devastata
dall'idea di non averlo più nella sua vita. Era dolce, era
l'unico
capace di farla stare bene ma appartenevano a due mondi troppo
diversi e lei... lei e la sua vita complicata avrebbero reso
un'inferno anche la sua, di esistenza. "Voglio andare a casa...
Dai miei bambini".
"Ora?".
"Ora...".
"Perché
Demelza? Cosa c'è che non va? A parte la noia, intendo...".
Lei
lo guardò in volto, in quegli occhi verdi dolci e
trasparenti.
"Hugh, che ci fai quì, con me? Tu, a cui quasi nessuno la
dentro potrebbe rivolgere parola per diritto di rango?".
Lui
parve stupito da quella domanda. "Demelza, sono quì con te
perché volevo venire con te".
Scosse
la testa, disperata. "Perché vuoi me? Vuoi davvero che ti
dica
chi sono? Vuoi davvero che ti dica i mille motivi per cui non
dovresti frequentarmi e che di fatto dovresti già sapere e
fingi di
ignorare?".
Lui
divenne serio, alzò la mano e le accarezzò la
guancia. "Io non
ignoro nulla, io so chi sei e so quel che vedo. E questo mi basta".
"Avevo
un marito! Clowance e Jeremy avevano un padre". Lo disse di
scatto, d'istinto, urlando al vento quel segreto che aveva celato nel
cuore per tutti quei mesi e che ora voleva uscire allo scoperto.
Lui
sussultò. "Cosa?".
"Mi
ha lasciata" – sussurrò, fra i singhiozzi,
crollando fra le
sue braccia vinta dal dolore. "Ha annullato il matrimonio per
sposare la donna che amava davvero... Ha tolto il suo cognome ai
nostri bambini...". Scoppiò a piangere, si fuse col suo
petto e
singhiozzò a lungo, raccontandogli la sua storia,
raccontandogli di
Ross, di Elizabeth, del loro bambino e di come lui fosse sparito
dalla sua vita e da quella dei suoi figli, abbandonandoli a se
stessi. "Non puoi, uno perfetto come te non può voler stare
con
una donna imperfetta come me... Con una vita come la mia, con origini
come le mie... Meriti di meglio, meriti di più. Non sono una
fata,
non sono niente del genere".
Hugh,
per nulla turbato ma solo preoccupato dal vederla così, le
accarezzò
la guancia, i capelli, asciugò le sue lacrime con le dita
della mano
e poi la strinse a se. "Tu sei una fata, lo sei sempre stata ai
miei occhi e niente cambierà per me. Sei speciale e mi
dispiace, non
sei tu e nemmeno io a stabilire chi merita chi. Siamo persone che si
sono conosciute e che stanno bene insieme. Non c'entra il rango, non
c'entrano le nostre origini. Solo noi c'entriamo, ora. Io non conosco
tuo marito, non conosco nulla di lui. Ma conosco te e i tuoi
meravigliosi bambini e per ME siete una ricchezza molto più
preziosa
del mio dannato titolo nobiliare e di quello che rappresenta. Tu
pensi che io sia così perfetto? Cosa ne sai? Cosa sai
davvero di me
per pensarlo? E' il mio titolo nobiliare che parla per me? O sono io,
come persona?".
Demelza
scosse la testa. "Certo che è il cuore a rendere speciale
una
persona! A me del tuo titolo nobiliare non importa nulla. Ma...".
Lui
la fermò. "Lo so che non ti importa, ti credo. Ma
perché non
vuoi credere a me se ti dico in egual misura che non mi importa del
tuo passato e da dove provieni?".
"E'
vero, hai ragione...". Demelza sorrise nonostante tutto, stupita
e sorpresa da quelle parole piene di saggezza su cui non aveva mai
davvero riflettuto. Era vero, a Hugh della differenza fra loro non
era mai importato, lo aveva dimostrato coi fatti, ma sentirglielo
dire... "E ora che sai del mio passato? Mi sarai amico per
pietà?".
"Assolutamente
no, non farei mai nulla di simile. Giudico un onore che tu mi abbia
raccontato la tua storia e ora ti prego, lascia che ti racconti la
mia".
"Certo".
Hugh
sospirò. "Sai che ero in marina, vero?".
"Sì".
Lui
la guardò, intensamente. "Non ci sono più dallo
scorso anno,
sono stato congedato. Ho dei problemi agli occhi, la mia vista sta
calando vertiginosamente e forse te ne sarai accorta dalle mie
poesie, dalla mia scrittura a volte tremolante".
Demelza
fece mente locale e in effetti realizzò di essersi accorta
che la
scrittura di Hugh non era sempre uguale a se stessa. "E' grave?"
- chiese, preoccupata.
Hugh
sorrise con amarezza. "Diciamo che... I dottori che mia madre
paga per dire ciò che lei vuol sentirsi dire, dicono di
no. Che
passerà... I medici seri, quelli che paga mio zio per una
vera
diagnosi, dicono che forse perderò completamente la vista. E
che la
malattia potrebbe essere altrove, più grave e nascosta e che
la
perdita della vista è solo un sintomo di qualcosa
più grave che
potrebbe anche uccidermi, che è solo questione di tempo. Una
volta
ero disperato, spaventato! Lo sono stato fino allo scorso Natale,
quando sono venuto dagli Enys e ho conosciuto te e ora non mi importa
più. Tu mi hai reso il più fortunato fra gli
uomini. E ora lo
chiedo a te, ora che lo sai sarai mia amica per pietà?".
Per
un attimo, mentre lui parlava della sua malattia con la calma e la
placidità di chi ha serenamente accettato il suo destino,
aveva
tremato. Ma poi il coraggio di Hugh, la sua franchezza, i ricordi del
loro vissuto insieme sempre col sorriso sul viso, l'avevano resa
più
coraggiosa e le avevano ricordato chi lui fosse per lei. "Certo
che no...". Non avrebbe mai avuto pena per lui, non era nella
sua natura provare sentimenti simili, come non era nella natura di
Hugh provarne nei suoi confronti. Non era stato il bisogno a farli
incontrare, erano stati caso e destino e stranamente si erano sentiti
vicini ed affini. Lui aveva ragione, non importava altro...
Hugh
si alzò dalla panca, allontanandosi di alcuni passi. "Mi
piaci,
Demelza... Lo sai, vero?".
Abbassò
lo sguardo. "Lo so...".
"E?".
Lei
scosse la testa. "E sei meraviglioso e mi piaci anche tu. In
pochi mesi per me sei diventato... indispensabile... Hai saputo
toccare il mio cuore, curarlo dalle sue ferite e farmi sorridere di
nuovo. Me e i miei bambini. Ma il mio cuore è comunque a
pezzi e
forse non saprà più battere come prima, amare
come prima, essere di
qualcun altro oltre a... Ross... Ancora adesso e forse per sempre,
sarà di Ross".
Lui
abbassò lo sguardo. "Demelza, se anche solo mi permetterai
di
accarezzarlo il tuo cuore, di averne un solo frammento... io allora
mi riterrò l'uomo più felice e fortunato della
terra".
Una
lotta si agitò in lei, a quelle parole. "Hugh, non puoi, non
con me..." - tentò di argomentare, in un ultimo tentativo di
proteggerlo.
Lui
divenne risoluto in viso. La guardò, guardò il
viale deserto che
portava all'uscita della tenuta e il vento attorno a loro si fece
ancora più vorticoso. "Voglio andarmene anche io da
quì, come
te. Se vorrai venire con me, stasera e domani, dopodomani e il giorno
dopo ancora, decidi adesso... E' te che voglio, con la tua storia e
il tuo passato. E non perché la malattia mi preclude un
matrimonio
vantaggioso o una compagna blasonata ma perché TU sei
entrata nel
mio cuore... Decidi Demelza, ora... Accetterò ogni cosa". E
così dicendo le volse le spalle, incamminandosi lentamente,
da solo
verso il cancello d'uscita.
Demelza
fu percorsa da un brivido mentre lo guardava andar via.
Pensò al suo
matrimonio, a Ross, al dolore, a quel giorno orribile
dell'annullamento del matrimonio quando lo aveva pregato di
stringerla a se, di proteggerla e di stare insieme, nonostante tutto.
Parole inascoltate, preghiere non percepite. Ross aveva stretto la
sua mano, allora, solo un istante, illudendola. Ma non c'era nulla in
Ross per lei e quella stretta era solo una spinta a firmare in fretta
per correre dal suo amore, Elizabeth... Poi era sparito e di lei, in
lui, ora non c'era più nemmeno il ricordo.
Hugh
era un salto nel vuoto, una sfida, la prima scelta forse
egoisticamente fatta solo per lei. Voleva amore, voleva essere amata,
voleva la sua voce e le sue poesie. E poi le sue carezze, un
abbraccio, sentirsi nuovamente donna e viva... Voleva quell'uomo che
la adorava...
Voleva
farlo, quel salto nel vuoto? Hugh aveva ragione, doveva scegliere
ADESSO!
D'istinto
si alzò dalla panca mentre il vento faceva volare via il
nastro che
teneva legato il suo chignon e i capelli, rossi e selvaggi, le
ricaddero sulle spalle.
Corse,
corse come una pazza dietro a Hugh, decidendo che non le importava
nulla delle differenze fra loro, delle malelingue della gente, di
tutto e tutti. Corse per lui e per la prima volta, solo per se
stessa. Non sapeva cosa ne sarebbe uscito, non sapeva quanto lei
meritasse l'amore di Hugh ma non poteva più farne a meno.
"Hugh..."
- urlò, a pochi metri da lui.
Il
giovane si voltò, si fermò e rimase in attesa.
E
lei a piccoli passi si avvicinò, gli sfiorò il
petto e gli cinse il
collo. E senza dire nulla appoggiò le labbra alle sue, in un
lungo e
appassionato bacio. Il vento accarezzava i loro corpi, la mano di
Hugh i suoi capelli mossi e fra loro, i loro cuori che battevano
all'impazzata.
Si
baciarono a lungo, come se non avessero bisogno d'altro. "Portami
via..." - disse lei, infine, contro le sue labbra. "Andiamo
via da quì, in un posto solo nostro".
Lui
annuì. La prese per mano, uscirono dal cancello e nel buio
della
notte si incamminarono nelle campagne londinesi, baciati dalla luce
della luna e delle stelle. Arrivarono vicino a un piccolo torrente,
lo percorsero in silenzio per diverse miglia e alla fine, in una
piccola insenatura sabbiosa, si fermarono.
Non
c'era nessuno, solo loro. Demelza prese le mani di Hugh, le
avvicinò
al nastro che teneva in vita e lo invitò a slegarglielo.
Si
svestirono, si stesero sulla sabbia e sull'erba e si amarono per la
prima volta, cullati dal rumore dell'acqua che scorreva nel ruscello.
Un
nuovo uomo, nuovi baci, nuove mani che accarezzavano il suo corpo.
Hugh
la fece sua, con passione e tenerezza, quella stessa tenerezza che
usava nelle sue poesie.
Lasciò
che la amasse, lasciò che quell'amore di cui lei aveva
fortemente
bisogno si impadronisse di lei.
E
dopo tanto tempo, dopo una vita in cui si era sentita solo di Ross,
le sembrò di tornare davvero a respirare e a vedere uno
spiraglio di
luce nell'incubo in cui era capitata.
Una
dolce euforia, una medicina che era uno spartiacque fra il suo
passato in Cornovaglia, da recidere, e un futuro nuovo tutto da
scrivere.
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
A
volte faticava a credere di essere Demelza o meglio, faticava a
capire chi lei fosse adesso. Arrivata a Londra due anni prima, aveva
creduto che per tutta la vita sarebbe rimasta la moglie abbandonata
di Ross Poldark, votata unicamente a vivere di ricordi e a crescere i
suoi due bambini.
Ma
da un anno non era più così, non dalla sera di
Natale in cui la sua
strada aveva incrociato quella di Hugh Armitage. Erano diventati
amici, confidenti e lui una figura di riferimento oltre che per lei,
anche per i suoi due bambini che lo cercavano sempre e che gli erano
ogni giorno che passava più affezionati.
E
poi? Poi lei lo aveva desiderato, in silenzio, a lungo, tenendo a
freno una strana ed inaspettata attrazione che non riusciva
né a
capire né a gestire. E infine era arrivato luglio e un ballo
nelle
campagne londinesi... E l'amicizia era diventata altro, la passione
era esplosa e da allora la Demelza-moglie abbandonata ed ex signora
Poldark, era diventata la compagna di Hugh Armitage.
Non
sapeva dire cosa fosse, non sapeva dare un nome al loro legame. Lui
le diceva cose dolcissime e bellissime e la adorava e amava di un
amore totale come quello delle fiabe che Demelza mai avrebbe pensato
di poter vivere. Lui non aveva occhi che per lei, ogni suo gesto,
ogni sua parola erano dettati unicamente dal desiderio di farla
felice e faceva tutto in maniera talmente naturale e spontanea che,
da solo, era stato in grado di abbattere le differenze sociali fra
loro, cosa che Demelza aveva creduto impossibile fino a luglio. Le
diceva che era la sua fata, la amava con passione e tenerezza e ogni
momento libero lo passavano insieme lontano da tutto e tutti, avvolti
in una strana nube magica che celava al mondo la loro figura di
amanti clandestini.
Hugh
le aveva fatto vedere un volto dell'amore che con Ross aveva
conosciuto poco: le passeggiate fatte solo per il gusto di stare
insieme, le serate a teatro, le gite domenicali coi bambini e i
pranzi e le cene al ristorante, erano qualcosa a lei sconosciuto e
che lui aveva reso parte del suo mondo. Era la lady di Hugh, la sua
donna e quando erano insieme non doveva temere la concorrenza di
niente e nessuno, non c'era niente, non c'era nessuna Elizabeth a
distogliere da lei le sue attenzioni. Tenerezze come tenerle la mano
o baci rubati quando meno se lo aspettava, avevano saputo scaldare il
suo cuore e intenerire la sua mente ormai chiusa ai sentimenti ed ora
viveva in una specie di strana euforia, come quella di quando si
è
ubriachi, che teneva lontani dolore e dispiacere.
Non
sapeva bene cosa provasse per Hugh, non bene quanto lui fosse
consapevole dei sentimenti che nutriva verso di lei. Lo adorava,
aveva imparato a conoscere e apprezzare ogni lato del suo carattere e
dei suoi gesti, ne era diventata amante adattandosi a un nuovo modo
di fare l'amore che all'inizio l'aveva lasciata spersa e che ora era
diventato una piacevole abitudine, ma Demelza sapeva che le mancava
qualcosa e aveva paura di ammetterlo persino a se stessa.
Pensava
ancora a Nampara e al suo amore perduto, nonostante tutto... Gli
mancava il suono caldo della voce di Ross e il calore che emanava il
suo corpo fuso con suo.
Ross
era un fuoco, tenero ma incredibilmente passionale a letto, un uomo
che con un solo sguardo sapeva farti bruciare ancor prima di averti
toccata. Hugh era romantico, delicato. C'era una forte attrazione e
passione fra loro ma mentre con Ross, quando facevano l'amore, il
mondo smetteva di esistere, con Hugh non era così ed era il
contorno, le frasi dolci e le poesie, a farla navigare in un mare di
piacere, come se fossero quelle attenzioni ciò di cui aveva
più
bisogno, più ancora dell'amore fisico.
Era
consapevole che Hugh non era ai suoi occhi come Ross, era consapevole
che lo adorava ma che non avrebbe mai potuto possedere il suo cuore,
però era anche altrettanto certa di desiderarlo vicino, di
voler
sentirlo in lei e con lei e che in quel momento della sua vita fosse
una luce arrivata a rischiarare un mondo fatto di ombre.
Sapeva
che non era amore, non quello con la A maiuscola. Era un sentimento
simile, forte, ma non uguale... Non sarebbe mai stato uguale a
ciò
che aveva provato con Ross e Hugh lo sapeva, glielo aveva detto che
dopo quanto successo non sarebbe più riuscita ad amare
nessuno come
aveva fatto in passato. Hugh lo aveva accettato, aveva accettato
tutto di lei, il suo passato e il suo modo di vivere il presente,
aveva accettato di poter accarezzare il suo cuore e di stringerne fra
le mani un frammento e nulla più ed entrambi, consapevoli di
quanto
avessero bisogno l'uno dell'altra, avevano trovato nella loro storia
una potente serenità e gioia di vivere.
Avevano
la stessa età, amavano le stesse cose e sapevano essere
complici e
coesi quando scherzavano fra loro o coi bambini. La cosa più
bella
di Hugh, il suo regalo più grande, non erano le poesie che
le
scriveva sempre ma l'averle dato la possibilità di ridere di
gusto e
di vivere con spenzieratezza la sua giovane età. Non aveva
mai avuto
questo privilegio prima, non con suo padre e non con Ross dove
c'erano sempre problemi e tensioni da affrontare. Con Hugh poteva
essere la ragazzina che non era mai stata, pur non dimenticando il
suo ruolo di madre.
I
mesi erano passati in fretta, estate e autunno avevano ceduto il
passo ai primi freddi e con essi, era arrivato l'inverno.
E
l'attesa per il Natale...
Hugh
aveva insistito tantissimo per organizzare una piccola festa fra loro
nella sua dimora e Demelza ne era stata terrorizzata sulle prime.
Andare a casa dei Boscawen come compagna di Hugh significava
ufficializzare qualcosa che lei avrebbe voluto per sempre tenere
celato al mondo e solo per loro due, conoscere la sua famiglia che di
certo non approvava il loro legame ed entrare davvero nella sua vita,
in quel genere di vita privilegiata che tanto la terrorizzava e che
Ross, a suo tempo, aveva cercato di combattere.
Lui
l'aveva tranquillizzata, aveva giurato che le cose con sua madre e
suo zio erano a posto e che la festa sarebbe stata a misura di
bambino e che Jeremy e Clowance si sarebbero divertiti tantissimo.
E
alla fine, vinta anche dalle insistenze di Jeremy che aveva preso
Hugh come modello di riferimento, aveva dovuto cedere. Sarebbero
stati in pochi, solo Hugh, sua madre, suo zio, lei e i bambini,
Caroline e Dwight e la piccola Margarita con cui ormai era diventata
amica in quell'ultimo anno. Una cosa semplice, un Natale in famiglia
quasi...
Lord
Falmouth, zio di Hugh, avrebbe voluto una grande festa ma il giovane
lo aveva convinto a fare solo quel piccolo party adducendo problemi
di salute ed emicranie sempre più frequenti che sarebbero
solo
peggiorati in mezzo alla confusione.
Lord
Falmouth aveva ceduto e da quello che aveva capito Demelza, pur non
avendolo ancora incontrato, era un'abitudine e consuetudine, quella
di accontentare ogni richiesa di Hugh. Quello zio cedeva sempre alle
richieste del nipote e Hugh aveva raccontato a Demelza che Lord
Falmouth, non avendo figli, aveva finito per considerarlo un figlio a
tutti gli effetti. E che ora era in ansia ancor più di sua
madre per
le sue precarie condizioni di salute.
Hugh
non era stato davvero bene in quei mesi, non era una scusa e spesso
aveva dovuto passare giornate a letto a settembre e ottobre, cosa che
aveva messo in ansia anche lei, oltre a Lord Falmouth. Ma ora
sembrava più in forze e quei malesseri erano serviti dopo
tutto a
dare un Natale più tranquillo ad ognuno di loro,
più autentico e
più vero. Un Natale in famiglia...
Nel
tardo pomeriggio della Vigilia lei, i bimbi, Caroline, Dwight e
Margarita erano andati in carrozza nell'enorme dimora dei Boscawen.
Avvolta
in una deliziosa mantella di pelliccia bianca, dono di Hugh, Demelza
aveva varcato quei maestosi cancelli con un misto d'ansia e paura,
stringendo a se i suoi due bambini che invece sembravano
eccitatissimi per la serata che li attendeva.
Lei
aveva guardato con terrore a quell'enorme ed elegante palazzo che si
dipanava in tre vie, composto da un lungo corpo centrale e due ali
laterali, circondato da un immenso parco privato pieno di maestose
piante secolari, vialetti di sassolini bianchi, panche in legno e
ferro battuto, che confinava direttamente coi giardini di Kensington
a cui, come le aveva raccontato Hugh, c'era un accesso diretto dalla
tenuta. "Giuda, mai vista una casa tanto maestosa".
Caroline
sorrise, ammiccando e sollevando un sopracciglio. "C'è
qualcuno
nei paraggi che vorrebbe renderti la lady di questa casa TANTO
MAESTOSA, temo".
Margarita
rise, Dwight sospirò preparandosi psicologicamente
all'ennesimo
bagno di nobiltà e sfoggio di ricchezza a cui, come lei, non
si era
minimamente abituato e lei arrossì senza trovare la forza di
ribattere.
Jeremy
si affacciò alla carrozza, eccitato. "Bellissimo mamma! Devo
scoprire dov'è la pianta dove faremo la casetta".
Demelza
si accigliò. "Di che parli?".
Il
piccolo, vestito con un abitino di lana verde che lo faceva sembrare
un piccolo lord, saltellò sul sedile, dondolando le
gambette. "Hugh
mi ha detto che c'è un albero antichissimo e grandissimo
dove ci si
può costruire sopra una casetta per giocare e che se voglio,
possiamo costruirla insieme se mi lasci venire di pomeriggio".
Demelza
impallidì. "Una casetta sull'albero? Te la vuole costuire
Hugh?".
"Sì,
io e lui insieme".
Demelza
sospirò. Idea grandiosa, ma fra le doti di Hugh non spiccava
di
certo la predisposizione per i lavori manuali. E poi... portare
lì
Jeremy di pomeriggio? Santo cielo, il loro rapporto stava diventando
grande, importante e ormai ne facevano parte anche i suoi bambini ed
era bello sì, ma questa idea riusciva ancora a
terrorizzarla. Hugh
adorava i due bimbi e soprattutto con Jeremy aveva stretto un legame
speciale e forte, tanto che insieme sapevano divertirsi come se
fossero coetanei. Suo figlio lo cercava sempre, chiedeva spesso di
lui e questo la faceva felice ma al tempo stesso le stringeva il
cuore pensare che Jeremy, in Hugh, cercasse una figura paterna ormai
assente da due anni e mezzo. "Pensi che ne sarete capaci?"
- chiese, scacciando quei pensieri foschi.
"Sì"
– rispose il bimbo, con sicurezza.
Clowance
tentò di attirare la sua attenzione. "Io?".
Demelza
la prese in braccio, stringendola a se mentre la carrozza arrivava al
grosso portone principale dove erano attesi da dei domestici in
divisa. Baciò i suoi ricciolini biondi e osservò
l'evidente
bellezza di sua figlia, una autentica bambolina che tutti si
fermavano ad ammirare, quando la portava a passeggio per Londra.
Caroline, ma anche Hugh, dicevano che da grande avrebbe fatto girare
la testa a molti uomini e che sarebbe diventata una delle donne
più
belle della capitale. E lei ci scherzava sopra ma dentro di se sapeva
che Clowance, coi suoi boccoli biondi e gli occhi azzurri come il
mare, coi suoi lineamenti delicati e fini e il portamento nobile, era
destinata a brillare di lì a breve. Era decisa, capricciosa,
testarda e allo stesso tempo elegante e raffinata, con le idee
già
chiare su come vestirsi ed agghindarsi per essere bella. Aveva solo
due anni e si intendeva di moda più di lei. "Tu vuoi aiutare
tuo fratello?".
"No!
Vojo giocale".
Risero
tutti. "Ha le idee chiare, far lavorare gli altri e pensare solo
a divertirsi senza sporcarsi le mani" – esclamò
Caroline,
accarezzando la testolina della bimba. "Brava piccola lady, tu
sì che sei saggia".
Margarita
ridacchiò, guardando la piccola. "Mia madre direbbe che ha
già
capito meglio di me come gira il mondo. E la cosa bella è
che
avrebbe pure ragione".
La
carrozza giunse davanti all'ingresso e si fermò e da dietro
i
camerieri apparve un elegantissimo Hugh per dar loro il benvenuto.
Dwight aiutò Caroline e Margarita a scendere dalla carrozza
e il
poeta, dopo aver preso in braccio i bambini, fece altrettanto con
Demelza. "Benarrivata" – sussurrò, baciandole la
mano.
Lei
gli sorrise ma poi si irrigidì quando si accorse che, dietro
al
giovane, erano comparsi un uomo e una donna sulla sessantina, suo zio
e sua madre probabilmente.
Lord
Falmouth salutò educatamente tutti loro e si
inchinò da vero
gentiluomo e lo stesso fece sua sorella, la madre di Hugh. "Benvenuti
nella nostra casa, è un vero piacere avervi come ospiti
questa sera,
per la Vigilia" – disse la donna, in tono gentile e neutro.
Clowance
la osservò. Era bellissima, elegante, coi capelli castani in
cui si
scorgeva qualche filo d'argento, raccolti in una crocca. Indossava un
meraviglioso abito marrone e al collo aveva una collana di diamanti
che risaltava i suoi occhi color ghiaccio. La bimba, attratta
dall'eleganza, le andò vicino e si esibì in un
perfetto inchino che
lasciò la donna a bocca aperta. "Una vera piccola e perfetta
lady" - esclamò. "Come ti chiami, bimba?".
"Clowance
Carne" – rispose la bimba, orgogliosa.
La
madre di Hugh le sorrise, ammirata. "Sei davvero una piccola
signora". Poi sorrise a Demelza, in maniera forzata ma sincera.
"Sono Alexandra Armitage, la madre di Hugh. Tutti però mi
chiamano Alix, in famiglia. E' un piacere conoscervi, signora Carne,
mio figlio ci ha parlato molto di voi e dei vostri figli ed ero
davvero ansiosa di avervi quì. Spero passeremo una piacevole
serata".
Lord
Falmouth si intromise fra loro. "Sono Lord Philippe, duca di
Falmouth e principale amministratore del casato dei Boscawen. Anche
per me è un piacere avervi quì" – disse
l'uomo a lei e a
tutti loro.
Demelza
deglutì, stringendo la mano di Hugh. Erano tutti gentili ma
non
poteva non chiedersi cosa pensassero di lei quelle persone tanto
rispettabili e nobili. E soprattutto, non aveva idea di cosa avesse
raccontato di lei, Hugh.
Entrarono
in casa, un immenso e antico palazzo che, durante il medioevo, doveva
essere stato un castello. L'ingresso, dal corpo centrale e di
proprietà di Hugh, era un susseguirsi di elegantissimi
saloni
decorati con arazzi e mobili di pregio, tappeti soffici di fattura
persiana, quadri e monili antichi in ogni angolo disponibile e tante
librerie che adornavano ogni ambiente. E quì si vedeva
indiscutibilmente l'impronta di Hugh e il suo amore per i libri.
Margarita
e Caroline sembravano a loro agio, Dwight un pesce fuor d'acqua e i
bimbi eccitati di trovarsi in un posto tanto bello.
"Sei
pallida" – disse Hugh, mentre si recavano nel grande salone
del ricevimento. "Rilassati, mia madre e mio zio mi adorano e
adorano tutto ciò che io amo e con loro non ho fatto altro
che
elogiare le tue doti e la bellezza dei tuoi bambini".
Lei
lo guardò storto. "Certo... Immagino la loro gioia nel
sapere
che il loro erede frequenta una ragazza madre sola, senza uno
straccio di titolo e senza denaro..." - disse, sarcastica.
Lui
sorrise, baciandola sulla guancia e facendola avvampare.
"Andrà
tutto bene, loro ti adoreranno e tu adorerai loro...".
Demelza,
imbarazzatissima dal modo genuino in cui Hugh le manifestava il suo
affetto davanti a tutti, non rispose e si tenne per se tutti i suoi
più che legittimi dubbi.
La
serata proseguì tranquillamente, fra un brindisi e l'altro,
fra
chiacchere davanti al camino, giochi con le carte e una
prelibatissima cena.
La
madre di Hugh aveva fatto preparare uno speciale menù per i
due
bambini, con pollo e patate al forno glassate al miele e budino di
cioccolato come dolce mentre per gli adulti erano state servite una
prelibata zuppa di pesce, arrosto di maiale ripieno di castagne e
noci tritate, frittatine di verdure e del pudding al rum.
Demelza
si trovò a suo agio dopo un pò, nonostante tutto.
Alexandra
Armitage dopo cena si era intrattenuta a far vedere a Clowance
nastrini e gioielli e, accortasi che la bimba sapeva abbinare colori
di stoffe e monili preziosi, si era appartata con lei a parlare di
cose da... lady...
Dwight
e Caroline si erano accomodati con lord Falmouth e Jeremy davanti al
camino e l'anziano patriarca dei Boscawen aveva mostrato al bambino i
segreti del gioco delle carte e degli scacchi, trovando nel piccolo
un interlocutore attento.
Demelza,
appoggiata alla parete con un bicchiere di porto in mano, alla fine
si era rilassata come gli altri e aveva preso a chiacchierare con
Hugh, mano nella mano senza vergogna o imbarazzo, e Margarita.
"Però
è un peccato non essere riusciti ad avere quì il
ragazzo che ti
piace" – disse, rivolta alla ragazzina. Lei e Hugh avevano
cercato di combinare la cosa ed avere come ospite anche il giovane
Edward Cavendish ma purtroppo la famiglia di duchi al quale il
ragazzo apparteneva, non rientrava fra le amicizie dei Boscawen e
quindi un invito sarebbe risultato strano ed inappropriato.
Margarita
arrossì. "Oh, siete gentili ad averci pensato, ma ho un
piano
B".
"Quale?"
- chiesero all'unisono Hugh e Demelza.
Margarita
rise, con fare da furbetta. "Ho scoperto che frequenta il centro
di tiro con l'arco, ci va tutti i mercoledì pomeriggio. Mi
ci
iscrivo, mia madre dice che il tiro con l'arco... beh..." - ci
pensò su – "Beh in pratica rende elegante la
figura di una
donna e i suoi movimenti e quindi mi da il permesso. Le ho detto che
ho scoperto che voglio fare attività fisisca e ci ha
creduto... E
quindi...".
"Quindi
ti ci iscrivi?" - chiese Demelza, divertita.
"Sì!
Venite con me?" - li implorò la ragazza.
Hugh
si mise a ridere. "Ho problemi di vista Margarita, direi che il
tiro con l'arco non fa per me. Potrei uccidere qualcuno, se prendessi
male la mira... Potrebbe venire Demelza a farti compagnia, se le va".
Demelza
ci pensò su. Onestamente non aveva mai praticato alcuno
sport ma
l'idea di far da Cupido a Margarita ed Edward la attirava e dopotutto
era solo un pomeriggio a settimana. "Si potrebbe fare" –
esclamò, dando il cinque alla sua amica.
Hugh
rise. "Santo cielo, prevedo guai e ho davvero voglia di venire
per vedervi all'opera con arco e frecce".
Margarita
saltellò contenta fino al divanetto dove si trovavano gli
altri e
Jeremy e Clowance chiamarono Hugh per giocare con loro con delle
costruzioni in legno regalate da Lord Falmouth e Lady Alexandra.
Demelza
sorrise, appoggiandosi alla parete ad osservarli, stranamente serena.
C'era aria di casa, lì... Stranamente si sentiva parte di
una grande
famiglia di amici e non fuori posto, cosa che temeva.
Guardò
Hugh che sollevava Clowance facendola ridere e Jeremy che si
aggrappava alla sua schiena per farsi portare in spalla.
D'un
tratto lord Falmouth le si avvicinò, facendola sussultare.
"Vi
state trovando bene?" - le chiese, porgendole un bicchiere di
porto.
Lei
arrossì, abbassando il capo. "Sì signore".
Lord
Falmouth osservò Hugh che giocava coi bambini e poi
Alexandra. “Mia
sorella ha un debole per vostra figlia. Per intrattenerla, le ha
fatto vedere poco fa un cofanetto pieno di gioielli ed è
impazzita
quando la piccola ha saputo riconoscere le pietre più
preziose”.
Demelza
rise. “Clowance ama le cose che luccicano”.
L’uomo
si accigliò e la scandagliò in viso, come a voler
mettere a nudo la
sua anima. “E voi? Anche voi amate le cose che
luccicano?”.
Quella
domanda e il significato non troppo velato a cui alludeva, la fecero
irrigidire e ancora una volta si sentì fuori posto.
“No, le vere
cose che luccicano per me, le più preziose, sono la
serenità di
vivere e vedere i miei bambini contenti” – rispose,
con
sincerità.
Lord
Falmouth sospirò. “Voi sapete chi siamo e quanto
contiamo nella
società nobiliare di Londra, vero Demelza?”.
“Certo”.
Lui
osservò Hugh. “Voi, in condizioni normali, non
potreste essere
qui. Niente di personale, ma obbiettivamente questo non è il
posto
per voi. Hugh mi ha raccontato cose bellissime sulla vostra persona e
sui vostri bambini e non ho nulla da eccepire, ora che vi ho vista.
Siete una brava donna, educata, che sa stare al proprio posto e avete
due figli deliziosi. Ma noi siamo Boscawen e resta il fatto che voi
siete una ragazza-madre sola, con un dubbio passato e senza il minimo
lignaggio o dote”.
Demelza
deglutì. Tutte quelle cose le sapeva benissimo ma faceva
male
sentirsele elencare, ogni volta. “State dicendo che non devo
più
vedere Hugh?” – chiese, immaginando già
la risposta e dopo
tutto, d’accordo con i suoi pensieri.
L’uomo
scosse la testa. “Hugh mi ha parlato di voi. Non troppo, mi
ha solo
detto quanto per lui siate meravigliosa come una fata e quanto
è
felice di avervi conosciuta. Nient’altro e mi ha fatto
promettere,
a me e a sua madre, di non fare ricerche sul vostro passato e di
lasciare che siate voi, come persona, a farvi conoscere e apprezzare.
Io amo mio nipote e sono un uomo di parola e quindi non
indagherò
mai sulla vostra vita, su chi eravate, sul luogo da cui provenite e
sull’identità dei vostri figli e saprò
queste cose SOLO quando e
SE vorrete dirmele voi. Ho chiesto unicamente a Hugh se nel vostro
passato ci fosse qualcosa di cui vergognarsi e lui mi ha detto di no
e io gli credo perché è un romantico, un
sognatore ma non uno
stupido o uno stolto e sa quanto sia importante il buon nome della
nostra famiglia. E siete amica di Caroline Penvenen, cosa che
garantisce per voi”.
Demelza
prese un profondo respiro di sollievo, prese coraggio e alla fine
decise di chiedere il significato di quella discussione.
“Cosa
volete da me allora, Lord Falmouth?”.
“Conoscete
i problemi di salute di mio nipote?”.
“Sì”.
L’uomo
abbassò il capo, vinto dall’emozione e per un
attimo parve perdere
la sua aria imperturbabile. “Hugh potrebbe non essere
più qui il
prossimo Natale. O quello dopo ancora, lo avete visto pure voi quanto
è stato male lo scorso autunno… E’
questione di tempo e so che
anche Dwight Enys lo ha visitato e non ha una diagnosi favorevole per
i suoi disturbi”.
Demelza
sussultò. Sapeva che Hugh aveva chiesto un parere medico a
Dwight e
sapeva anche che il suo amico era preoccupato per le condizioni di
salute del giovane ma non aveva idea di quale fosse precisamente la
diagnosi. Certo, era consapevole che le sue condizioni di salute
erano serie e che forse presto anche quel giovane dolce e gentile
sarebbe sparito per sempre dalla sua vita lasciandola sola come
avevano già fatto altri, ma sentirselo ricordare
così, con quella
rassegnazione, la feriva e addolorava. “A volte i dottori
sbagliano
e lui è tanto giovane…” –
sussurrò, ricordando la promessa
che aveva fatto a Hugh di lasciar fuori la malattia dalla loro vita e
dalla loro storia. Promessa a cui, giorno dopo giorno, avrebbe tenuto
fede… MAI lo avrebbe trattato come un malato proprio come
Hugh,
MAI, le ricordava il suo triste passato.
Lord
Falmouth scosse la testa. “A volte i dottori sbagliano ma
spesso
non lo fanno. Non quelli bravi, almeno… Hugh avrebbe potuto
ambire
a un matrimonio da favola con una principessa o simili… Se
fosse
sano, se avesse speranze di vita lunga e la certezza di poter
generare un erede, io avrei interrotto con le cattive la relazione
fra voi. Ma la sua malattia, la quasi certa incapacità di
generare
un figlio ed erede e la scarsa speranza di vita, lo rendono inadatto
a qualsiasi matrimonio. E allora, sapete cosa penso,
Demelza?”.
“Cosa?”.
“Che
se devo scegliere fra il prestigio di famiglia e la felicità
che può
dare un amore vero in quel che resta della vita di mio nipote, io
scelgo la seconda opzione. Voi lo rendete felice, immensamente. E
questo mi basta per fidarmi e affidarlo al vostro amore. Hugh
è
sempre stato un sognatore, uno che viveva nel mondo dei sogni e che
sfuggiva ai suoi doveri reali. La vita politica, la ambizioni e le
mie alleanze commerciali non lo hanno mai interessato, ha preferito
la carriera in marina per sfuggire alle sue responsabilità
verso la
famiglia. Ma voi e i vostri figli…” –
alzò la mano ad indicare
i bambini e Hugh – “voi lo avete fatto crescere e
reso uomo. Ha
preso un impegno nei vostri confronti e sa che deve portarlo avanti
soprattutto per l’affetto che i bambini hanno nei suoi
confronti,
oltre che per amore vostro. Per la prima volta non sfugge alle
responsabilità e di questo suo diventare uomo finalmente,
devo
ringraziare solo voi. Promettetemi una cosa, Demelza”.
“Cosa?”
– chiese lei, stupita da quelle parole che mai si sarebbe
aspettata.
“Stategli
vicino. Senza secondi fini, senza pensare di ottenere qualcosa in
cambio. Stategli vicino per il solo piacere di farlo e allora saremo
amici, voi ed io. Non pensate di ottenere qualcosa da questa
famiglia, benefici economici o altro tramite Hugh… Lui
è e sarà
l’ultimo erede dei Boscawen, purtroppo… Quando se
ne sarà andato
e anche io non ci sarò più, non so cosa ne
sarà di questo mio
antico casato ma finché sarò in vita non
permetterò a nessuno di
approfittarne”.
Il
tono della voce di Lord Falmouth era gentile ma fermo. Stava
chiedendo, comandando e mettendo in chiaro. Non era solo un
consiglio, era mettere nero su bianco i rispettivi ruoli e confini
oltre i quali non si poteva andare. Demelza annuì, capiva le
sue
preoccupazioni, le avrebbe avute chiunque nella medesima posizione.
Ma si sentiva tranquilla da quel punto di vista, a lei del denaro e
del prestigio dei Boscawen non importava nulla ed anzi, la
nobiltà
di quella famiglia le faceva solo paura. “Hugh è
stato una
benedizione per me e i miei figli. Ha ridato luce alla nostra vita ed
è solo grazie a lui se riesco ancora a ridere e a sentir
battere il
mio cuore. Non mi importa altro se non rendere serena e felice la sua
vita, come lui ha fatto con me. Il denaro per me non è mai
stato
importante, non ne ho mai avuto molto e di certo non ne avrò
in
futuro. Non chiedo niente, non voglio niente. Solo sapere Hugh felice
con me come io lo sono con lui”.
Falmouth
annuì, dandole una leggera stretta sul braccio. “E
allora andremo
d’accordo. Mai nessuno avrà da dire qualcosa sulla
vostra
‘amicizia’ e io ho il potere di mettere a tacere
ogni malalingua
o pettegolezzo, cosa che farò se necessario, per proteggere
mio
nipote”. E detto questo, l’uomo tornò
dagli altri invitati,
spingendo amichevolmente Demelza a fare altrettanto.
Il
resto della serata trascorse amichevolmente. Alcune domestiche di
vecchia data dei Boscawen intonarono dei canti natalizi, ci furono
giochi di società, un brindisi a mezzanotte e ai bambini fu
dato
l’onore, dopo lo scocco della campana, di mettere la statuina
di
Gesù Bambino nel presepe.
Quando
tutto fu finito e la notte si fece fonda, Lord Falmouth e sua sorella
mostrarono agli ospiti le loro stanze e ognuno di loro andò
ad
accomodarsi per la notte.
Hugh
condusse Demelza ed i bambini nella sua grandissima camera. I
bambini, durante alcuni fine settimana passati fuori Londra, avevano
già visto la mamma e Hugh dormire insieme e quindi non se ne
stupirono e la cosa non li turbò.
Si
misero tutti e quattro nel letto e Hugh ne approfittò, in un
momento
in cui i bambini erano occupati a riporre i loro nuovi giochi, per
baciarla sulle labbra e darle un rametto di vischio in mano.
“Buon
Natale, piccola fata… Sappi che c’è
ancora qualcosa per te,
stasera”.
Jeremy
a quelle parole ridacchiò e Clowance saltò sulle
ginocchia di Hugh.
“Sopplesa mamma!”.
Demelza
li guardò. Che diavolo stavano confabulando quei tre? Erano
giorni
che Hugh stava architettando qualcosa coi bambini e non era riuscita
a carpire, nemmeno implorando, i loro segreti. “Cosa avete
combinato?”.
Jeremy
guardò Hugh il quale tirò fuori dalla tasca della
sua giacca una
busta colorata e piena di disegni dei bambini. La diede al piccolo e
lui la consegnò a Demelza. “Per te mamma,
l’abbiamo fatta io e
Clowance e Hugh ci ha aiutati”.
Si
sentì emozionata e quell’atmosfera famigliare,
complice e gioiosa,
gli fece dimenticare le tristi allusioni di Lord Falmouth di poco
prima sulle condizioni di salute di Hugh. Avrebbe vissuto come Hugh
voleva, attimo dopo attimo, senza pensare al domani e senza
permettere a quella malattia di rovinare quello che di bello
c’era
fra loro. Il destino aveva permesso il loro incontro,
l’incontro di
due anime affini ed affamate d’amore che l’uno
nell’altra
avevano trovato il modo di tornare a vivere ed essere felici. No, non
avrebbe sprecato quel dono che la vita, di solito avara di regali, le
aveva fatto. Aprì la busta e si commosse. I suoi occhi
divennero
lucidi e d’istino strinse a se i suoi due bambini.
“Amori miei,
ma l’avete fatta voi?” – chiese,
baciandoli.
Jeremy
prese il foglietto su cui, con scrittura stentata, c’era
scritto
semplicemente: Buon
Natale mamma, da Jeremy e Clowance.
“Sì, l’ho scritta io. Mi ha insegnato
Hugh a scriverlo. Clowance
ha fatto l’impronta della mano, non sapeva tenere la penna in
mano”.
Intenerendosi
pensando a quanto ci avessero messo per farle quel dono, Demelza
notò
l’impronta della manina fatta col carboncino, a lato del
foglio.
Ecco cosa stavano confabulando da giorni! “Hugh, bambini,
è un
regalo bellissimo, il più bello che abbia mai
ricevuto” –
sussurrò, stringendoli a se.
Hugh
accarezzò la testolina di Jeremy e i due si scambiarono un
segno
d’intesa. “Per ora stiamo lavorando su frasi
semplici e parole
brevi ma per il prossimo Natale ci organizzeremo con una poesia vera
e propria. Vero?”.
Jeremy
saltò sul letto. “Vero! Voglio imparare a leggere
millemila libri
e a scrivere bene”.
Demelza
rise, contagiata dalla speranza nel futuro di Hugh e
dall’entusiasmo
di Jeremy che in lui aveva trovato una figura di riferimento e un
affetto sincero. “Grazie…” –
sussurrò al poeta, baciandolo
sulle labbra. Si sentiva a casa, in famiglia e questo era il
più bel
regalo, assieme al biglietto dei bambini, che potesse ricevere.
Amore, cura, affetto attenzioni… Per lei, che una famiglia
non
l’aveva mai avuta e di cui nessuno si era mai interessato,
questo
era il dono più prezioso e di valore che potesse esserci.
Aveva
accanto una persona che la adorava e due bambini finalmente sereni e
felici che le volevano bene. Non poteva chiedere nulla di
più e fra
le loro braccia il dolore che aveva passato assumeva una sfumatura
opaca e finalmente lontana. Stava tornando a vivere e forse a
lasciarsi per sempre Ross dietro le spalle…
E
quando i bimbi si furono addormentati, fra loro, diede un lungo e
appassionato bacio a Hugh. “Sei speciale… Sei
davvero un tesoro
prezioso…”.
Lui
rispose al bacio. “Se sono speciale, mi faresti una
promessa?”.
“Quale?”.
“Che
penserai a questa casa e a quanto sarebbe bello se vi trasferiste
qui… Insieme, tutti e quattro”.
Si
sentì mancare, tremò dall’emozione e
anche se sapeva che non
sarebbe stato il caso, anche in virtù di quanto giustamente
dettole
da Lord Falmouth, non se la sentì di dirgli di no.
“Te lo
prometto, ci penserò…” –
sussurrò, prima di baciarlo di
nuovo.
…
Ross
aveva passato la sera della Vigilia di Natale a Trenwith. Il successo
della Wheal Grace e la scoperta di nuovi giacimenti gli avevano
permesso di ricomprarla saldando i debiti di Francis e così
Agatha
aveva potuto continuare a vivere nella sua vecchia casa senza che
George potesse allungare su di lei i suoi tentacoli.
Era
stato però, nonostante tutto, un Natale pesante. La decana
dei
Poldark aveva tenuto tutti sull'attenti e in allegria ma
l’astio di
Jeoffrey Charles verso di lui e Valentine aveva guastato
l’atmosfera.
Il ragazzino aveva deciso di rimanere a vivere a Trenwith con la zia
e Ross aveva dovuto alla fine cedere a questo suo desiderio. Dopo
quanto successo, la convivenza fra loro era impossibile.
Anche
Verity e la sua famiglia erano venuti a Trenwith per le feste e Ross
aveva potuto ritrovare nella cugina il vecchio e antico affetto e
supporto che da sempre li univa. Lei era stata ferma a suo tempo a
condannare le sue azioni ma MAI le aveva fatto mancare la sua
vicinanza in quegli anni tanto difficili. Sapeva parlare al suo cuore
ed era amorevole, sempre, col piccolo Valentine. Era la sua ricchezza
Verity e vederla felice e finalmente realizzata lo faceva sentire
orgoglioso di quanto Demelza, a suo insaputa, avesse fatto per lei.
Verity
spesso gli diceva che doveva aver fiducia nel futuro e nel fatto che
forse un giorno avrebbe riabbracciato i suoi cari e lui in quelle
parole trovava una vana speranza in un domani migliore. Sapeva che
era impossibile ma era bello crederci…
Dopo
aver lasciato i parenti a Trenwith, passata la mezzanotte, aveva
preferito tornare a casa a cavallo con Valentine.
Nel
silenzio della brughiera sferzata dai venti freddi, osservò
suo
figlio avvolto in una coperta, intento a giocare fra le sue braccia
con un orsetto che gli aveva regalato Verity. Valentine era un
bambino non semplice, non lo era stato fin dalla sua nascita quasi
due anni prima. Era stato difficile, dopo la morte di Elizabeth,
sobbarcarsi interamente la responsabilità di quel bambino
mai
desiderato e si era affidato ai Gimlet per la sua gestione,
nonché
alla cure di una balia che lo allattasse.
Valentine
piangeva spesso e nei primi mesi della sua vita nessuno riusciva a
dormire a Nampara. Piangeva disperato, di dolore e a sei mesi il
dottor Choake aveva sentenziato che il piccolo soffriva di una forma
di rachitismo e che i pianti erano dovuti ai dolori alle gambe. Aveva
prescritto soluzioni non certo agevoli per un bambino tanto piccolo e
Ross ci si era attenuto solo per un pò ma poi aveva cambiato
medico,
constatato che non c'erano miglioramenti. Avrebbe voluto avere vicino
Dwight, lui avrebbe saputo curarlo al meglio ma il suo amico se n'era
andato ormai da anni e non aveva più notizie di lui.
Valentine
aveva i suoi capelli neri e i suoi ricci, i suoi stessi occhi scuri
ed era un bambino piuttosto chiuso e taciturno, timido e tendente al
pianto.
Ross
aveva tentato di fare del suo meglio ma si rendeva conto che, pur
desiderando essere per lui un buon padre, continuava a fallire. Ogni
volta che lo guardava ricordava quanto aveva perso a causa sua e
anche se sapeva che non era colpa del bambino, il suo pensiero cadeva
sempre irrazionalmente lì... E questo lo faceva scappare e
lo
spingeva ad intrattenere col bambino solo rapporti saltuari e
superficiali. Non riusciva, non riusciva davvero ad amarlo come
avrebbe meritato e si limitava a non fargli mancare nulla di
materiale e ad affidarlo alle cure dei suoi due domestici a cui il
bimbo sembrava affezionato più che a lui. Difficilmente si
fermava a
giocare con lui, difficilmente lo portava in giro per una passeggiata
e mai lo aveva portato alla Wheal Grace. Si vergognava
perché
Valentine, davanti agli altri, rappresentava in maniera concreta ogni
sua colpa e mancanza verso la famiglia che aveva perso.
Arrivati
a casa, Nampara era avvolta nel buio. I Gimlet dormivano e quella
sera avrebbe dovuto essere lui a mettere a letto il bimbo.
"Sù,
ora si dorme senza fare storie" – disse, prendendolo in
braccio ed entrando in casa, dopo aver fatto sistemare il cavallo
nella stalla.
"Noooo"
– piagnucolò il bimbo.
Ross
fece finta di non sentirlo ed entrò, provando un brivido di
freddo.
Nampara, quando tutti dormivano e le candele erano spente, era cupa e
opprimente e del calore della casa e della famiglia che una volta
aveva accolto, non c'era più nulla.
Salì
sulle scale e Valentine pianse più forte, aggrappandosi al
suo
collo. Provò la voglia di svegliare Jane per affidarglielo,
non
amava prendersi cura di lui da solo e ancor meno quando era
capriccioso. Ma alla fine dovette cedere e, cosa che succedeva
raramente, lo portò in camera sua per evitare che strillasse
ancora
di più.
E
finalmente il bimbo smise di piangere, appena capito che avrebbero
dormito insieme. "Nanna io e te?".
Ross
lo guardò storto, cedere ai suoi capricci non era un'opzione
che
amava. "Dovresti dormire da solo".
"No,
io e tu".
Lo
guardò e gli venne voglia di urlare che non era lui il
bambino che
voleva accanto a letto, che non era lui la sua vera famiglia, quella
che voleva vicino la notte di Natale. Provò rabbia per se
stesso e
quell'assurda situazione, acuita ancor di più dall'ennesimo
Natale
senza Demelza e i bambini. Ma poi si costrinse a respirare, a
calmarsi e a fare il padre. Valentine non c'entrava nulla...
Si
avvicinò, lo aiutò a cambiarsi e poi gli
accarezzò i capelli,
mettendolo sotto le coperte. "Ora che sei quì, che ne dici
di
dormire e di fare il bravo?" - chiese, stendendosi accanto a
lui.
Valentine
annuì, si rannicchiò contro il suo petto e Ross
rimase in silenzio
a sentire il suo respiro diventare rilassato e profondo, immerso
finalmente nel sonno.
E
lì, col bimbo finalmente addormentato, trovò il
coraggio di aprire
il cassetto del comò per tirarne fuori il cavallino di legno
che
Jeremy aveva perso quasi due anni e mezzo prima e che conservava come
fosse una reliquia. Lo baciò, cercando di immaginare come
fosse
cresciuto e quante cose sapesse ormai fare suo figlio. Ora era un
bimbo grande, di cinque anni, e suo fratello o sorella ne aveva ormai
due. Sentì una fitta al cuore e gli comparve davanti agli
occhi
l'immagine di Demelza, coi suoi meravigliosi capelli rossi, il suono
dolce della sua voce che cantava e la luce che sembrava donare ad
ogni cosa che incontrava il suo guardo. Aveva dato la luce anche a
lui e alla sua vita buia e lui l'aveva tradita ed abbandonata,
commettendo il più grande errore che un uomo potesse fare. E
lei
aveva pagato, lei e i bambini ancor più di lui, la sua
stupidità.
Nonostante
tutto aveva sperato che in quei due anni lei gli scrivesse, che
tornasse, che si facesse viva in qualche modo ma non l'aveva fatto e
dopo tutto non poteva aspettarsi nulla di diverso, quando se n'era
andata era stata chiara sul fatto che quella era una scelta
definitiva e senza ritorno.
Era
sparita per sempre, lei e i loro due bambini come di fatto lui li
aveva costretti a fare perché tornassero ad essere sereni.
Osservò
quel cavallino, simbolo di tante promesse mai mantenute e
sentì gli
occhi che pungevano. Si odiava, immensamente, quando pensava a
Demelza. Odiava il marito che era stato, odiava se stesso e le scelte
fatte, odiava quella notte dannata in cui aveva rovinato tutto e i
mesi prima dove si era preso cura di tutta la Cornovaglia eccetto che
di sua moglie e suo figlio. E non poteva non chiedersi come, pur
amando tanto una persona, avesse finito col farle così male.
Voleva
sapere dove viveva, come stava, cosa faceva... Sapeva che lei era
forte ed era certo che se la stesse cavando meglio di lui ma
quell'oblìo sulla loro sorte era terribile da sopportare,
giorno
dopo giorno. Sarebbe stata la sua condanna, non avrebbe mai saputo
niente di lei ed avrebbe espiato i suoi errori con una vita fatta di
nulla, accanto a un bambino mai desiderato e col terrore che un
giorno magari avrebbe incontrato i suoi figli da qualche parte e non
sarebbe stato capace di riconoscerli.
Baciò
nuovamente il cavallino, dolcemente, desiderando abbracciare il suo
piccolo Jeremy e fare con lui tutto quello che non era stato capace
di fare quando lui era lì. "Perdonami Jeremy, perdonami... E
tu
Demelza, se puoi, se ci riesci, pensa ancora a me ogni tanto... Mi va
bene tutto, anche l'odio... Tutto eccetto l'ndifferenza e sapere che
non sono più nei tuoi pensieri".
Valentine
si rigirò nel letto e lo riportò alla
realtà. La sua realtà!
Quella che lo avrebbe tormentato e accompagnato per il resto della
sua vita passata a chiedersi se Demelza pensasse a lui come lui
pensava sempre a lei...
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
Con
l'arrivo del nuovo anno, Demelza e Margarita avevano inziato a
frequentare il circolo di tiro con l'arco dove si allenava Edward, il
ragazzo che piaceva alla giovane.
Non
ci era voluto molto tempo per capire però che nelle vene
delle due
non scorreva il sangue di Robin Hood e dopo poche settimane di corso
Margarita aveva già sulla coscienza due piccioni e molti
alberi del
parco che ospitava il circolo portavano impietosamente il segno,
sulla loro corteccia, dei tiri sbagliati da Demelza.
In
tutto questo gli istruttori erano disperati, Hugh si divertiva come
un matto e rideva come non mai quando assisteva alle loro lezioni ed
Edward si vedeva raramente e quando accadeva e notava la presenza di
Margarita, scappava dall'altra parte del parco per la timidezza e i
due finivano col non rivolgersi mai la parola.
Fu
un periodo, quello, che Demelza avrebbe sempre ricordato come il
più
sereno e spensierato della sua vita. Hugh stava bene e si divertivano
insieme, tanto da farsi venire il singhiozzo dal ridere tutti e tre
per la mancanza di talento e mira delle ragazze. Dopo la lezione,
Margarita tornava a casa col suo cocchiere Demelza e Hugh rimanevano
soli, prendendosi quella mezza giornata solo per loro. Passavano la
serata in una deliziosa pensione del centro dove cenavano insieme e
si amavano nelle piccole e graziose stanze la primo piano. Era la
loro serata, quella, dove Demelza lasciava i bimbi alle cure di
Prudie e si prendeva delle ore esclusivamente per se stessa.
Era
una strana euforia, un vivere leggera che mai le era appartenuto e
che la faceva star bene e non pensare ai suoi problemi. Hugh sembrava
in forze, i bimbi lo adoravano e la sua vita a Londra stava
acquisendo riti, abitudini e consuetudini che le facevano sentire un
pò più sua quella città che all'inizio
l'aveva terrorizzata tanto
e che ora invece, pian piano, stava diventando la sua casa.
Jeremy
e Hugh avevano inziato anche la costruzione della casetta sull'albero
nel parco della reggia dei Boscawen. Non aveva idea di cosa stessero
facendo, i due mantenevano il più assoluto riserbo sulla
loro opera
edile ma il fatto che Hugh avesse le mani sempre piene di graffi e
garze e Jeremy tornasse a casa pieno di trucioli e polvere, le
facevano ritenere che la cosa dovesse essere più impegnativa
di
quanto preventivato. Jeremy aveva cinque anni e mezzo, Hugh era un
poeta che nulla sapeva del lavoro manuale e l'unica cosa che la
tranquillizzava era che il giovane si stava facendo aiutare anche dal
giardiniere-capo della sua magione.
Ad
inizio marzo, il giorno in cui Margarita trafisse il suo terzo
piccione, finalmente Demelza riuscì a centrare la parte
esterna del
bersaglio per la prima volta, con grande sollievo degli alberi del
parco che ospitava il tiro con l'arco, e a metà mese Hugh le
propose
a sorpresa, coi bambini, un viaggio in Scozia. Durante i lavori per
la casetta sull'albero, aveva raccontato al bimbo storie di
cavalieri, castelli e draghi di quella terra lontana e piena di
leggende e ora aveva desiderio di mostrargliela di persona e di fare
tutti e quattro una vacanza insieme.
Spinta
da Dwight e Caroline ma ancora un pò titubante, alla fine
aveva
ceduto a quella prima vacanza della sua vita ed erano partiti con una
sontuosa carrozza.
Rimasero
in Scozia per tutta la fine di marzo e l'intero mese di aprile e
Hugh, che già era stato in quelle terre da bambino, aveva
mostrato a
Jeremy antichi castelli abbandonati, foreste rigogliose e piene
– a
suo dire – di spiriti magici, laghi plumbei e pieni di
mistero e
infiniti prati di un verde acceso. Il ragazzo aveva fatto
confezionare, per i bimbi, abiti da piccoli cavalieri e principesse e
i due fratellini avevano corso per i corridoi di antichi e gloriosi
castelli dal passato leggendario vestiti come mini condottieri o
donzelle cantate nelle ballate dei menestrelli secoli prima. Fu
qualcosa di grandioso per Jeremy e Clowance, qualcosa che avrebbero
ricordato sempre per il resto della loro vita.
Era
stato un viaggio meraviglioso. I bimbi avevano vissuto una fiaba e
un'esperienza emozionante, resa ancora più magica dai
racconti di
Hugh, e lei, che non aveva mai visto nulla del mondo, si era sentita
principessa di una fiaba vera, amata dal suo principe azzurro e
spinta verso nuove avventure senza paura dell'ignoto e dei pericoli.
Si
erano amati con passione nelle varie locande in cui avevano
soggiornato durante il loro cammino e Hugh era rifiorito e mai aveva
accusato malesseri mentre erano in viaggio, eventualità che
l'aveva
molto preoccupata alla partenza.
Erano
tornati a Londra a inizio maggio, uniti più che mai da
quell'esperienza vissuta insieme e Hugh aveva organizzato una festa
anticipata per il sesto compleanno per Jeremy nel parco del suo
palazzo, invitando i bimbi degli amici di famiglia dei Boscawen.
Demelza avrebbe preferito una festa in piccolo e amichetti non
così
altolocati per suo figlio ma Hugh aveva insistito, Jeremy pure e lei
aveva ceduto per l'ennesima volta.
Con
la scusa della festa di compleanno, fu inaugurata la casetta
sull'albero di Jeremy, graziosa, tutta in legno, che poteva ospitare
fino a sei bambini al suo interno e altrettanti sulla piccola
terrazza che la circondava e che era costata graffi e tagli ai suoi
due improvvisati costruttori che però alla fine avevano
vinto la
loro sfida.
I
suoi figli e i bimbi che Hugh aveva invitato si divertirono come
matti a salirci e quel giorno Jeremy fece amicizia con Gustav, un
bimbetto biondo suo coetaneo, figlio di un duca che però
aveva modi
impacciati e dolci come Margarita e nulla aveva
dell'altezzosità dei
nobili. I bimbi decisero che sarebbero stati il migliore amico l'uno
dell'altro e da quel giorno, ai giardini di Kensington che si
trovavano dietro la casa dei Boscawen e che erano frequentati dai
pargoli dell'alta società londinese, giocarono sempre
insieme.
Divennero inseparabili, dando vita a una amicizia che sarebbe durata
negli anni e che a Demelza ricordava quella che aveva unito Dwight e
Ross, un tempo.
Fu
dopo la festa di compleanno che Demelza iniziò a stare poco
bene.
Continui giramenti di testa e nausea l'avevano costretta a letto
alcuni giorni e Dwight, sulle prime, aveva dato la colpa a una
intossicazione alimentare. Le aveva prescritto riposo ma Demelza non
era persona da stare ferma e immobile a letto troppo a lungo e, anche
per sopire le preoccupazioni di Hugh sulla sua salute, dopo cinque
giorni di inattività aveva accettato di fare un giro con lui
a una
fiera vicino ad Hyde Park.
Non
era un giorno particolarmente caldo, la notte aveva piovuto
incessantemente e l'aria era talmente carica di umidità che
la
nausea le tornò quasi subito anche se non disse nulla,
limitandosi a
prendere a braccetto Hugh per non cadere a terra a causa dei
capogiri.
Fecero
una passeggiata per Hyde Park, molto più grande dei giardini
di
Kensington dove giocavano i suoi figli e frequentato da una
varietà
più eterogenea di persone e a un tratto la sua attenzione fu
catturata da un prete attorniato da bambini poverissimi, scalzi e
vestiti di stracci a cui l'uomo distribuiva del pane. Demelza
osservò
quei bambini tanto simili a lei da piccola e così
pericolosamente
vicini a ciò che avrebbero potuto essere i suoi figli se non
fosse
stato per Dwight e Caroline e a quei pensieri, la nausea si
accentuò.
Vedere bimbi denutriti che vivevano di nulla faceva sempre male e la
riportava alla vita in Cornovaglia, ai minatori, alla Wheal Grace e
alle lotte di Ross per migliorare la vita di quelle povere persone
come stava facendo, a modo suo, anche quel prete di Hyde Park. "Hugh,
la gente come tuo zio e tua madre, non fa nulla per aiutare i poveri
di questa città?".
Lui
ci pensò su. "Beh, in teoria le sedute in Parlamento
dovrebbero
servire proprio a questo, a rendere l'Inghilterra un posto migliore".
Demelza
storse il naso, era evidente che Hugh non avesse ben chiara la
situazione e che il suo disamore per istituzioni e politica lo
portasse a non conoscere o a ignorare i giochi di potere dei
più
forti e la disperazione dei più deboli. "Certo, in teoria...
Ma
in pratica in Parlamento si fanno leggi per arricchire ancora di
più
chi è già ricco".
Hugh
abbassò il capo. "E' uno dei motivi per cui ho sempre
trovato
odioso partecipare alla politica con mio zio e sono fuggito".
"Ma...
Fuggire e fingere di non vedere da parte di chi ha potere per
cambiare le cose, non è sbagliato?".
Lui
le accarezzò i capelli, baciandola sulla fronte.
"Sì, credo
che lo sia ma io mi conosco e so che in quell'ambiente non combinerei
nulla di buono".
Demelza
abbassò il capo. "Vorrei poter aiutare, in qualche modo...
Cosa
potremmo fare noi, nel nostro piccolo? Vedi, io avrei potuto essere
la madre di uno di quei bambini affamati, bisognosa di tutto...
Vorrei poter dare una mano a chi non ha avuto la mia fortuna!
C'è un
centro per i poveri dove poter offrire un aiuto?".
Hugh
divenne stranamente serio e il suo volto si indurì. "Esiste
ma
non è posto per te, è pericoloso e vorrei ci
stessi lontana.
Parlerò con mia madre, magari lei può aiutarti a
fare qualcosa, se
ti fa piacere".
"Tua
madre?".
Lui
le strizzò l'occhio. "Adora fare cose tipo aste di
beneficenza
e raccolte fondi. Magari potreste organizzare qualcosa insieme".
Lei
sospirò, arresa al fatto che da sola non avrebbe potuto fare
di più
e quella suggerita da Hugh era forse la soluzione migliore e
più
fattibile. La nausea era ancora più forte e la fiera lontana
e di
colpo provò la voglia di sedersi. Era senza forze... "Hugh,
ci
fermiamo un pò?" – propose, indicando una panca in
legno.
Lui
la studiò in viso. "Sei pallida! Stai ancora male?".
Demelza
fece per rispondere quando fu interrotta da un uomo che, con un
sorriso smagliante, si avvicinò loro. Era alto, elegante,
dal fisico
asciutto e atletico, coi capelli castani leggermente mossi, il viso
squadrato e due occhi color ghiaccio.
"Hugh
Armitage, quanto tempo è che non ci vediamo?".
Hugh
stranamente perse il sorriso e si irrigidì e, conoscendolo,
da
quella reazione Demelza si accorse che il nuovo arrivato non gli
doveva piacere molto.
"Monk
Adderley, non immaginavo di trovarvi ad Hyde Park! Di solito sono i
giardini di Vauxall quelli che frequentate" – disse Hugh, in
tono di voce cordiale ma nervoso.
L'uomo,
che anche a Demelza dava una sensazione sgradevole, sorrise sornione.
"Volevo vedere un pò di marmaglia" – disse,
indicando il
prete coi bambini – "Mi giudicano tutti farfallone e amante
del piacere e quindi ho deciso che un'ora del mio tempo la posso
passare fra il popolino per arricchire il mio spirito viziato e
vizioso. In fondo i giardini di Vauxall diventano interessanti di
sera, non a quest'ora del pomeriggio...". Poi osservò
Demelza,
esibendosi in un sorriso suadente a trentadue denti. "Mia lady,
è un vero piacere fare la vostra conoscenza" –
sussurrò,
inchinandosi e baciandole la mano. "Si sussurrava in giro che
questo straniero di Hugh Armitage, sempre in fuga dai doveri di
famiglia, fosse accompagnato da una donna bellissima dai capelli
rossi ma i racconti su di voi non vi rendono onore...".
Demelza
arrossì ma non perché quel complimento le fece
piacere. C'era
qualcosa di subdolo e viscido in quel Monk Adderley e fra lui e la
nausea, sentiva che presto sarebbe stata malissimo. "Grazie
signore" – si costrinse a rispondere in tono forzatamente
gentile, desiderosa che se ne andasse, smettendo di mangiarla con
quegli occhi lussuriosi e sgradevoli.
Lui
sorrise di nuovo, alzò il cilindro in segno di saluto a Hugh
e poi
se ne andò per la sua strada. "Spero di vedervi presto,
madame..." - sussurrò ancora, leccandosi le labbra in un
gesto
che a Demelza fece aumentare la nausea.
"Odioso!"
- sbottò Hugh, appena furono soli.
Demelza
si accasciò sulla panca, esausta. "Chi è
quell'uomo?".
Hugh
si mise accanto a lei, cingendole le spalle col braccio e attirandola
a se. "Uno dei motivi per cui odio il Parlamento! Si chiama Monk
Adderley, è un nobile molto potente quì a Londra
ed è un
parlamentare anche se, di fatto, non presenzia quasi mai alle sedute
di Westminster. E' pericoloso, uno da trattare con riguardo ma da
tenere lontano, ama il gioco d'azzardo, ha un'infinità di
amanti e
adora i duelli. Si dice che abbia già molti uomini sulla
coscienza.
Mio zio lo detesta e mi ha detto di stare sempre attento quando lui
è
nei paraggi. Ma per fortuna frequentiamo posti diversi".
"Ohh...".
Demelza si appoggiò allo schienale della panca, tenendosi lo
stomaco. "Un personaggio pessimo...".
"Già".
Lei
chiuse gli occhi, la nausea sempre più opprimente e le
vertigini
sempre più forti. Non ce la faceva più... "Sto
male..." -
riuscì solo a dire. Prima di cadere svenuta fra le braccia
del
poeta.
...
Quando
riaprì gli occhi era nel suo letto e aveva accanto Dwight e
Hugh,
mortalmente preoccupati. Santo cielo, cos'era successo? Quanto era
rimasta priva di sensi? Non era mai svenuta prima d'ora e si sentiva
debole e senza forze, spaventata e indifesa...
"Piccola
fata, bentornata fra noi..." - susurrò Hugh, baciandole la
mano.
Dwight,
silenzioso, le accarezzò i capelli sulla fronte. "Come va?
Hugh
ti ha portata quì svenuta e ci hai fatto spaventare. Per
fortuna i
bambini, con Caroline e Prudie, sono fuori e non ti hanno vista in
questo stato ma... Santo cielo, eri bianca come un cadavere e Hugh
pure, dallo spavento che si è preso! Non farlo mai
più, non uscire
di casa se non ti senti in forma".
Troppe
parole, le scoppiava la testa e lo stomaco le si contorceva in corpo.
"Dwight, cosa mi è successo?".
Hugh
la baciò sulla nuca, aiutandola poi a sedersi e a poggiarsi
contro
il cuscino. "Sei stata davvero male ma Dwight ti ha visitata e
ora ti farà stare meglio. Non è nulla di grave,
ne sono sicuro".
Demelza
osservò Dwight, mortalmente serio e pensieroso, e poi Hugh a
cui il
suo amico non doveva ancora aver detto niente dopo la visita.
"Dwight, ho due figli, dimmi che non è niente di grave"
–
lo implorò.
Il
medico consigliò a Hugh di mettersi seduto accanto a lei e
appena il
poeta ebbe ubbidito, sospirò. "La Scozia, nei mesi scorsi,
deve
aver rigenerato mente e cuore di entrambi. E quando il cuore e la
mente stanno bene, sta bene anche il fisico che diventa più
forte e
acquisisce nuova energia. Soprattutto nelle persone dalla salute
malferma..." - concluse, guardando Hugh.
Demelza
si accigliò. Che diavolo stava farfugliando Dwight? E
soprattutto,
cosa c'entrava col suo malessere? "Che stai cercando di dirci?".
Il
medico prese un profondo respiro, quasi fosse spaventato lui stesso
da quella diagnosi. "Sei incinta, Demelza. Di quasi due mesi...
Il bambino dovrebbe nascere i primi giorni del prossimo gennaio".
Quelle
semplici parole ebbero l'effetto di una potente bomba su di lei.
Incinta? LEI ERA INCINTA? Era impossibile, non poteva essere, NON
VOLEVA!!! Giuda, Hugh era malato e non in grado di diventare padre e
invece lei ERA INCINTA! Provò la voglia di urlare, di
piangere, di
scappare lontano e fuggire da tutto ma la nausea e la consapevolezza
che nessuna fuga l'avrebbe salvata, la lasciarono piantonata nel
letto. Mille pensieri incoerenti affollarono la sua mente in quel
momento che, sperava, essere un incubo. Ma non lo era, i suoi
malesseri erano troppo reali per essere un sogno... Aspettava un
bambino... Da Hugh... Lei, con la sua vita disperata, il cuore ancora
diviso fra la nuova vita a Londra e la Cornovaglia che nonostante
tutto era cuore e casa, ancora, aspettava un bambino da Hugh... Da
quel giovane dolce, che la adorava, che le voleva regalare il mondo e
che forse non avrebbe mai corrisposto con lo stesso forte
sentimento... Era incinta e non di Ross e santo cielo, anche se lui
faceva parte del passato, aspettare un bimbo non suo la annientava e
la faceva sentire spersa nel nulla. "Non può essere"
–
sussurrò, mentre le mani tremanti di Hugh stringevano le
sue. "Hugh
non può avere figli".
Dwight
sospirò. "Non è esatto. Aveva scarsissime
possibilità di
essere padre ma evidentemente il momento giusto, l'atmosfera
rilassata, un momento di estremo benessere di entrambi...".
Hugh
deglutì. "Ne sei sicuro?".
Dwight
annuì. "Sì. Non c'è ombra di dubbio".
E
a quella sentenza a cui non c'era appello, Demelza sprofondò
fra i
cuscini con le mani premute sul viso. No, no, nooooooo! E ora? E in
quel momento si accorse che quell'anno e mezzo spensierato in cui si
era sentita protagonista di una favola, era finito. Era un ritorno
brusco e traumatico alla vita vera, reale, alla vita dove non va
sempre tutto come nelle favole e non esistono elfi e fate ma
imprevisti e problemi che ti riportano alla vera essenza
dell'esistenza dove spesso c'è poco spazio per il
romanticismo.
Dwight
le mise una coperta addosso. "Vi lascio soli, avrete molto di
cui parlare. E non so se sia il caso ma... congratulazioni... Un
figlio è sempre un miracolo, soprattutto in questo caso. E
Demelza,
qualsiasi paura tu abbia, ricorda che con Clowance hai vissuto di
peggio".
E
detto questo, alludendo alla terribile gravidanza vissuta con la
piccola a causa di Ross, Dwight uscì dalla stanza. Era vero,
Hugh
non era Ross. Nel bene e nel male, non era Ross...
Hugh
la abbracciò forte, rimasti soli. Tremava, forse per la
paura, forse
per l'emozione. "Piccola fata... E' un miracolo! E io sono il
più felice degli uomini".
Quelle
parole sicuramente sincere la intenerirono, così come la
commosse il
suo non saper vedere quale terremoto avrebbe causato quella
situazione. "Hugh, è... è una cosa che non
sarebbe dovuta
succedere". C'era troppo in gioco, troppe implicazioni, due
mondi che mai si sarebbero amalgamati, una famiglia d'origine che non
l'avrebbe accolta con favore e poi Jeremy e Clowance, figli di un
uomo che le aveva mostrato il lato più crudele del
matrimonio e
della maternità.
Hugh
parve non volersi far scoraggiare. "Ma è successo e niente
succede per caso. Il nostro bambino non è in arrivo per
caso... Io,
che non avevo speranze nel domani, avrò un figlio o una
figlia!
Grazie a te... Sei davvero una fata, visto?".
Fata
un corno! "Hugh, non è un gioco questo! E nemmeno una
fiaba...".
"Lo
so, è un figlio, il nostro. E io sono ubriaco dalla gioia".
Demelza
deglutì e poi le lacrime, incontrollabili, iniziarono a
cadere. Si
rannicchiò contro il suo petto, lui la strinse a se e,
vedendola
piangere, tremò come accorgendosi solo in quel momento
dell'enormità
di quello che stava succedendo loro. "Come puoi esserlo? Siamo
felici insieme ma un figlio rende SERIA la nostra storia e
apparteniamo a due mondi incompatibili. Come possiamo essere
genitori? Una famiglia? Quando nemmeno ci sono riuscita in
Cornovaglia, con Ross, da sposata?".
Lui
le prese la mano, baciandola. "Ricordi che a Natale ti avevo
detto di pensarci? Di valutare se venire a vivere con me? So che il
tuo cuore è rimasto la, in Cornovaglia, so che non sono Ross
ma so
che ti amo e che desidero stare con te come lo siamo stati fin'ora.
Averti vicina, viverti, amarti, è la più grossa
gioia che mi sia
mai capitata. Un figlio è un miracolo e il destino, tramite
lui, ci
sta urlando la via che dobbiamo seguire". La baciò
dolcemente
sulle labbra, un bacio lungo e appassionato. "Sposami piccola
fata... E io sarò, per il tempo che ho da vivere, il tuo
compagno,
il tuo sostegno, il padre dei tuoi figli e la tua spalla. Questo
bambino, Jeremy e Clowance avranno un cognome e una casata a cui
appartenere e per me tutti loro saranno la mia famiglia. Con te... E
quando me ne sarò andato, avrò chiuso gli occhi
con la certezza che
tutto sarà a posto per il vostro futuro. Questo è
un inizio nuovo
Demelza e troveremo una soluzione felice che ci farà star
bene.
Tutti quanti. Sposami e sarò, saremo una famiglia. Te lo
prometto".
"Hugh...".
Rimase senza fiato. Le aveva chiesto di sposarlo e sentendolo
parlare, per un attimo le sembrò tutto facile e fattibile...
Una
proposta di matrimonio fatta in modo dolce, romantico, appassionato
come lui era sempre stato... Era così diverso dal matrimonio
con
Ross, dalla sua reazione alle gravidanze, alla sua freddezza e
lontananza... Eppure un filo invisibile e sottile ma forte e
resistente come il granito la collegava ancora a lui e le rendeva
impossibile donare totalmente cuore e vita a quel giovane che aveva
davanti, a cui voleva un mondo di bene ma a cui sentiva di non
appartenere del tutto. Si accasciò sul cuscino, prendendo un
profondo respiro. Le scoppiava la testa... "E' troppo... Tutto
in una sola giornata... Lasciami tempo...".
Hugh
le accarezzò il ventre, piano. "Non negarmi mio figlio"
–
disse, con voce spezzata.
Gli
sorrise, nonostante tutto non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
E vedere un uomo così desideroso di essere padre era
commovente,
dopo quanto aveva vissuto con le gravidanze di Jeremy e Clowance.
"Non lo farei mai e so che lui o lei avrà un meraviglioso
papà.
Ho solo bisogno di stare un pò tranquilla a rimettere in
ordine le
idee. Una cosa così non me l'aspettavo, non sono preparata e
rivoluzionerà tutta la mia vita, assieme a quella dei miei
figli".
La
baciò sulla fronte, scompigliandole i capelli. "Hai ragione,
ho
lasciato che la mia gioia parlasse per me, non dandoti tempo per
riprenderti. Ti lascio riposare, allora. Dwight è
quì e si prenderà
cura di te e io ne approfitterò per andare a casa a
comunicare la
notizia a mio zio e mia madre. Un erede, non ci speravano nemmeno
più... Scoppieranno dalla gioia".
Demelza,
a quelle parole, lo guardò storto. "Ne dubito..." - disse,
con sarcasmo, ancora una volta intenerita dalla sua
ingenuità.
Hugh
la baciò ancora, le chiese di riposarsi, diede un'altra
carezza al
suo ventre e poi, emozionato come un bambino, corse via. "Torno
presto, prestissimo".
Demelza
lo guardò andarsene, comprendendo la sua gioia e le sue
emozioni.
Per lui doveva essere qualcosa di grandioso quell'evento e non
riusciva a scorgerne le problematiche e quanto un bimbo avrebbe
influito sulla sua vita sicuramente agiata, piena di passioni ma
assolutamente priva di responsabilità.
Era
strano per lei che uno come Hugh riuscisse a essere felice di avere
un figlio da una donna con un passato come il suo, con due figli
piccoli e un legame nonostante tutto indissolubile col loro padre. Il
suo innamoramento era sempre stato un mistero ai suoi occhi, anche
perché da subito era stata chiarissima circa i suoi
sentimenti e gli
strascichi che Ross aveva lasciato sulla sua mente e il suo cuore.
Eppure quel legame, ora, doveva essere reciso del tutto
perché un
bambino c'era e lei era sua madre e l'avrebbe amato e protetto come
gli altri due. Si accarezzò il ventre, da stesa, notando
già un
leggero rigonfiamento. "Già la pancia al secondo mese di
gravidanza? Santo cielo, ma quanto sei già grande, bimbetto
scozzese? Non ce l'ho con te, dico davvero... Ma non me l'aspettavo,
sei una sorpresa a cui mai avrei pensato e ho solo bisogno di tempo
per abituarmi all'idea e capire cosa fare. Troveremo...
troverò una
soluzione, come sempre, sta tranquillo piccolo mio".
Si
rannicchiò nel letto e pensò, cercando di calmare
i nervi. I
Boscawen come avrebbero reagito a questo piccolo, inaspettato erede?
E lei, lei che ruolo avrebbe avuto? E Jeremy e Clowance? E Hugh e la
loro storia, in virtù di quel terremoto che li aveva
colpiti? E
Ross, ormai perso nel passato ma che tormentava ancora i suoi
pensieri nascosti, come avrebbe reagito, cosa avrebbe detto se avesse
saputo una cosa del genere? Come l'avrebbe giudicata nel saperla
sposata con un uomo appartenente a una casta che giudicava come il
suo peggior nemico?
Pensò
a quell'anno e mezzo di vita dolce e spensierata vissuta con Hugh,
alla felicità dei suoi figli, al loro futuro e anche a
quello di
questo nuovo piccolino e capì che doveva agire con calma,
mettere in
chiaro un pò di cose, lasciar perdere poesie e fiabe e
tornare coi
piedi per terra per il bene dei suoi tre bambini.
E
poi, spossata, prima di addormentarsi, pensò ai bellissimi
paesaggi
della Scozia, teatro di questa nuova vita... "Accidenti a te,
terra scozzese che fai spuntare bambini dal nulla come funghi!"
– mormorò, prima di addormentarsi.
Si
risvegliò che era ormai quasi buio e probabilmente era
già passata
l'ora di cena, destata dal vociare dei suoi due figli che avevano
fatto irruzione nella sua stanza. Fisicamente stava meglio ma per un
attimo si sentì confusa al suo risveglio, come se fosse
uscita da un
incubo non reale. Però poi si guardò attorno, si
accorse che era a
letto da ore, che lo stomaco era ancora un pò sottosopra e
lo
sconforto l'assalì di nuovo. Era incinta, decisamente!
Jeremy
e Clowance saltarono sul letto illuminato da una candela sul comodino
che qualcuno doveva aver acceso mentre dormiva. "Mamma, mi ha
detto Dwight che sei un pò ammalata" – disse il
bimbo,
guardandola con preoccupazione.
Guardò
i suoi figli, il suo più grande tesoro, l'unico amore che
MAI
avrebbe messo in discussione, l'unica certezza della sua vita. "Sto
meglio, non sono malata".
"Cos'hai?"
- chiese Clowance, curiosa.
Sospirò,
negare o procrastinare non sarebbe servito a niente considerando che
il baby-scozzese sembrava impaziente di farsi vedere al mondo.
"Diciamo che, fra sette mesi, a gennaio, avrete un fratellino o
una sorellina".
Jeremy
divenne rosso per la sorpresa e per l'emozione, Clowance si
accigliò
e per un attimo calò un pesante silenzio nella stanza. Che
durò
poco, per fortuna.
"MAMMA,
C'HAI UN BAMBINO NELLA PANCIA?!" - urlò Jeremy, toccandole
il
ventre, ridendo.
E
la sua risata finì per contagiare anche lei. "Sì,
un
minuscolo, piccolo principe. O una principessina...".
E
a quella parola, Clowance divenne furiosa. Le prese il viso fra le
manine, si fece seria e poi scosse la testa. "Io
plincipettina!".
La
baciò, si era momentaneamente dimenticata che Clowance si
sentiva
l'unica lady della casa e che una eventuale rivale l'avrebbe
decisamente contrariata. "Ma certo amore, la grande principessa
sarai sempre tu. Lei potrà solo imparare da te che sei
già
bravissima".
Clowance
annuì, finalmente soddisfatta.
Osservò
poi Jeremy che, silenzioso, si era fatto però pensieroso.
"Il
suo papà è Hugh?".
Deglutì,
non sapendo bene come spiegare al suo bimbo i rapporti fra uomo e
donna adulti. "Sì tesoro. Probabilmente ci sposeremo e tutti
insieme, voi, lui e il nuovo bimbo, saremo una grande famiglia e
andremo a vivere nella sua grande casa. Sei contento? Avrai tutti i
giorni a disposizione la tua casetta sull'albero". Glielo
chiese, glielo disse, doveva sapere cosa ne pensavano di quella
eventualità che si faceva man mano sempre più
certa... Era ovvio
che per il bene del bambino avrebbe sposato Hugh, se Lord Falmouth
non avesse fatto resistenze. Non era ciò che sentiva come il
suo
destino ma se aveva bisogno di qualcosa per recidere il filo che
ancora la teneva legata a Ross, quel bambino era decisamente la
spinta giusta. Hugh la adorava, si volevano bene, c'era passione fra
loro, un figlio in arrivo e una vita che poteva essere rosea per
tutti. Aveva sposato Ross per amore ed era andata male, avrebbe
sposato Hugh perché la vita l'aveva instradata forzatamente
su
quella scelta suo malgrado, con mille dubbi e paure e forse sarebbe
andata bene proprio grazie a tutte quelle incognite che nel suo cuore
non sentiva con Ross. Quel sonno di poco prima aveva fatto luce sulle
sue mille paure e sulle soluzioni e sposare Hugh era l'unica scelta
per dare un padre, un cognome e una famiglia a suo figlio e anche
agli altri due. Hugh avrebbe annullato il passato difficile che si
portava dietro, dato un nuovo futuro ai suoi figli e soprattutto
amore. Non importava il suo nome e nemmeno il suo denaro, Hugh poteva
essere l'uomo più povero della terra ma desiderava dar loro
una vera
casa e una vera famiglia e per Demelza quello era ciò che
più
contava, soprattutto per i suoi bambini. Se il destino voleva questo
dalla sua vita, non aveva motivo per opporsi. Specialmente ora, con
un nuovo figlio in arrivo, giunto a sorpresa battendo un destino
avverso e una malattia che forse li avrebbe prima o poi privati di
Hugh. E questo doveva avere un perché!
"Mamma...?".
"Dimmi
Jeremy...".
Il
piccolo abbassò il capo. "Se sposi Hugh... allora vuol dire
che
papà non viene più da noi?".
Quella
domanda ebbe l'effetto di un terremoto, di un violento schiaffo in
pieno viso. Giuda, Jeremy allora ricordava ancora Ross? Ancora lo
aspettava? Non ne parlava mai, lo aveva visto per l'ultima volta
quasi tre anni prima e credeva lo avesse scordato e sostituito con
Hugh ma invece... Tremò, era troppo pure quello, per quel
giorno...
"Jeremy, certo che non viene... Credevo che lo avessi ormai
capito, dopo tutto questo tempo".
"Perché?".
Jeremy
fece quella domanda con una serietà che poco aveva a che
fare coi
suoi cinque anni e mezzo di età. Chiuse gli occhi, tanti
ricordi
tristi presero il sopravvento e si sentì gli occhi pungere.
E per un
attimo il dolore e la rabbia presero il sopravvento, facendole dire
cose che mai avrebbe dovuto pronunciare davanti ai suoi figli.
"Perché non ci vuole. Non voleva me, non voleva voi. Voleva
essere il marito di un'altra donna e il padre di altri bambini. Non
lo devi aspettare e non devi ricordarlo. Lui ci ha già
dimenticati e
vive felice con la sua nuova famiglia, lontano...".
Disse
quelle parole come in tranche e si rese conto del loro significato
solo quando vide il viso sgomento di Jeremy, il suo dolore e lo
smarrimento di Clowance che, anche se ancora molto piccola, sembrava
aver compreso l'enormità di quella rivelazione. Si mise le
mani nei
capelli, che aveva fatto? CHE AVEVA FATTO? Tentò di
recuperare,
strinse a se Clowance baciandole i boccoli biondi e
accarezzò il
visino di Jeremy. "Tesoro, forse mi sono spiegata male... Volevo
dire che lui ha seguito il suo cuore, il suo vero amore. Ed
è una
cosa bellissima lottare per chi amiamo veramente. Lo dovrai fare
anche tu da grande, lottare per stare con chi ami. Tuo padre
è un
uomo generoso, che ha sempre lottato per chi amava, che si è
spaccato la schiena per dare una mano ai poveri che lavorano in
miniera, che...".
Jeremy
alzò lo sguardo, serio, guardandola dritta negli occhi.
"Vuol
bene a tutti tranne a noi?".
Demelza
deglutì e per una volta non seppe rispondere. Dire la
verità era
sempre un bene ma in quel caso lei aveva sbagliato a sfogarsi e ora
doveva rispondere con una bugia per sistemare il disastro fatto e non
gliene venivano in mente... E Hugh, il suo amore e la sua gioia per
il bimbo in arrivo, in contrapposizione a quello che Ross aveva fatto
alla sua famiglia divennero reali e lì, davanti ai suoi
occhi ancora
spaventati della scelta che presto avrebbe dovuto fare, le diedero le
risposte che cercava per intraprendere la strada giusta per i suoi
figli . "Jeremy, tu ti ricordi ancora di lui?".
"Non
tanto, non la faccia... Solo una cosa che mi ha detto...".
"Cosa?".
Jeremy
alzò le spalle. "Niente di importante, mamma".
Capì
che non voleva parlare e che forse era meglio non insistere. C'era
un'altra cosa che voleva sapere da lui, ora, importante quanto il
discorso su Ross. "Saresti felice se mi sposassi con Hugh? Lui
ti piace?".
Jeremy
sorrise. "Sì".
"E
a te, Clowance?" - chiese, alla bimba.
"Sì".
Li
baciò sulla fronte, guardando la loro bellezza e
ringraziando il
cielo di averli avuti. Se Ross non era stato capace di amarli e
godere della loro presenza, era un problema suo e lei non avrebbe mai
più dovuto pensarci. Erano la sua ricchezza e a quel
pensiero, unito
a quello del nuovo bimbo in arrivo, si sentì immensamente
grata
verso la vita e un pò più positiva verso quella
nuova ed
inaspettata gravidanza.
"Mamma,
posso chiederti una cosa?".
Credeva,
con terrore, che Jeremy gli chiedesse altro di Ross ma il bimbo la
stupì, cambiando di colpo argomento. "Certo".
"Voglio
imparare ad andare a cavallo. Adesso!".
Si
accigliò davanti a quella richiesta che non capiva,
soprattutto in
quel momento. Ma lo assecondò. "Ovviamente, amore mio! E'
tanto
che ti chiedo, con Dwight, se vuoi provare, ma mi hai sempre detto di
voler aspettare".
Lui
scosse la testa. "Adesso non voglio aspettare più. Gustav va
a
lezioni al maneggio vicino ad Hyde Park, posso andare con lui?".
"Sì.
Lasciami sistemare un pò di cose relative al bambino e a
Hugh e poi
potrai andarci".
"Grazie
mamma" – disse Jeremy, baciandola sulla fronte.
E
dopo quelle parole, calò il silenzio nella stanza.
I
bimbi si addormentarono con lei e quella notte li tenne con se, aveva
bisogno di loro. Odiava essersi lasciata andare parlando a quel modo
di Ross ma i suoi nervi tanto provati non erano riusciti a frenare la
sua lingua. Clowance avrebbe dimenticato quel discorso nel giro di
poco ma temeva che Jeremy prima o poi le avrebbe fatto ulteriori
domande.
Ma
si sbagliava perché da quel giorno, Jeremy non chiese mai
più nulla
di Ross e fu come se quella figura fosse evaporata completamente
dalla sua mente.
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
"Ebbene..."
- disse Lord Falmouth, mostrandole il divano del suo lussuoso salotto
dove voleva che si sedesse, accanto a Hugh.
"Ebbene..."
- ripeté Demelza, spaventata da quello che ne sarebbe uscito
in
quella conversazione ma decisa a mettere ogni cosa in chiaro, prima
di scegliere definitivamente di cambiare il suo destino e la sua
vita.
Aveva
passato dieci terribili giorni a letto, spossata dalla nausea e
terribilmente stanca, senza forze, come se quel bambino che aspettava
le risucchiasse ogni energia. Mai si era sentita tanto debole durante
una gravidanza e quel suo stato fisico era di difficile gestione,
assieme ai mille sentimenti contrastanti che si agitavano dentro di
lei. Certo, rispetto a quando aspettava Clowance era coccolata ed
amata, seguita nel migliore dei modi e con un futuro padre che era
sempre accanto a lei in ogni momento quando questo era possibile, ma
ancora non si sentiva serena ed era piena di incertezze per il
futuro.
All'undicesimo
giorno si era iniziata a sentire meglio e Hugh, dopo averle
comunicato la gioia della sua famiglia alla notizia della gravidanza
– gioia a cui lei credeva poco – le aveva detto che
suo zio e sua
madre avrebbero avuto piacere ad averla a pranzo per discutere il da
farsi, coi bambini. E quella mattina era andato a prenderli in
carrozza ed avevano pranzato tutti insieme dai Boscawen.
La
tavola era piena di prelibatezze e i bimbi ne furono entusiasti,
soprattutto quando fu servito uno speciale dolcetto di cioccolato e
panna fatto preparare appositamente per la loro visita. Lei non
mangiò quasi niente, il suo stomaco faceva davvero fatica a
introdurre cibo, e si limitò a sbocconcellare della
pastasfoglia
ripiena di carne e del pane.
Mentre
i bambini erano a tavola, Lord Falmouth li studiò
attentamente e
studiò lei con lunghi e sornioni sguardi. Demelza si
sentì tutto il
tempo sotto esame perché Lord Falmouth era bravissimo a
dissimulare,
parlando del più e del meno, quel suo silenzioso esame su di
lei e
sui suoi figli. Era difficile capire cosa pensasse, sembrava un uomo
abituato a nascondere i suoi pensieri e i suoi piani,
abilità
appresa durante le trattative in Parlamento o quando concludeva
affari probabilmente, e questo la metteva terribilmente in
soggezione.
La
madre di Hugh invece sembrava una persona dall'animo più
semplice,
portata gioiosamente a parlare di pettegolezzi e si notava una sorta
di predilezione, in lei, per la piccola Clowance che aveva voluto
seduta vicina a tavola, memore dell'interesse comune per il lusso che
avevano scoperto condividere a Natale.
Dopo
pranzo fu chiamata una domestica incaricata di portare i bambini in
giardino a giocare e finalmente i quattro adulti rimasero soli,
seduti su quei comodi divanetti davanti al fuoco, davanti a un
tavolino con del tè caldo.
"Ho
rassicurato Demelza sulla vostra gioia nel conoscere la notizia. Era
preoccupata, molto, della vostra reazione" – disse Hugh,
prendendole la mano.
Demelza
deglutì, Lord Falmouth sospirò e Alexandra rimase
in silenzio,
aspettando che fosse il fratello a parlare.
"Demelza,
la gravidanza come procede? Hugh dice che soffri di molti
malesseri..." - chiese Falmouth, notando il suo scarso appetito
a tavola.
"E'
una gravidanza un pò pesante. Capita...".
Falmouth
rimase in silenzio alcuni istanti, tamburellando le dita sulla gamba.
"La Scozia ci ha fatto una bella sorpresa... Inaspettata e...".
"Sgradita?"
- chiese Demelza, decisa a giocare a carte scoperte nonostante
l'entusiasmo di Hugh. Alla gioia di Lord Falmouty non ci credeva!
Alexandra
sussultò mentre Falmouth parve sorpreso dalla sua faccia
tosta e dal
coraggio nel porgere quella domanda. "Voi sapete che non siete
la donna che io desidero accanto a mio nipote?".
"Sì".
Hugh
fece per intervenire in difesa di Demelza ma uno sguardo di ghiaccio
di Lord Falmouth lo bloccò al suo posto. "Fammi proseguire,
nipote...".
Hugh
annuì, impallidendo e stringendole la mano ancora
più forte.
Lord
Falmouth si schiarì la voce, pronto a fare il suo lungo
discorso.
"Siamo una famiglia nobile, antica e piena di prestigio e Hugh
sarebbe stato destinato a un matrimonio da favola che avrebbe
garantito una discendenza forte a questo casato. A causa della sua
malattia, questo non potrà avvenire e tutti eravamo
rassegnati
all'ineluttabilità del destino. La vostra gravidanza, come
mi hanno
confermato più medici signora Carne, è un evento
più unico che
raro che non capiterà di nuovo, un regalo del fato e del
destino a
cui non voglio rinunciare perché non avrò altre
possibilità per
avere una discendenza. E questo cambia il mio modo di vedervi, cambia
le priorità e cambia le mie aspettative sul futuro. Voi non
siete la
donna che io avrei scelto, vi ha scelto Hugh e io per la sua
felicità
e viste le sue condizioni, ho accettato che vi frequentaste con la
convinzione che poi sareste tornata nel nulla da cui provenite. Ma
ora no, ora voi diventate preziosa non tanto per Hugh e le sue
velleità di padre, quanto per il casato. Ora voi siete e
sarete il
perno di questa famiglia, l'unico appiglio per un futuro ancora
possibile. Aspettate un erede dei Boscawen, un piccolo lord o una
piccola lady. Un bambino o una bambina destinati a diventare gente
che conta, in Inghilterra, e questo vi rende preziosa ai nostri
occhi. E' un miracolo questa gravidanza e come tale va trattato".
Demelza,
durante questo discorso, trattenne il fiato. In realtà si
aspettava
di venir spedita a calci fuori casa visto l'affronto verso la
famiglia ma Lord Falmouth la pensava diversamente, a quanto sembrava.
Non si muoveva per affetto o per la gioia di un nipotino, era un uomo
del fare, una persona pratica che perseguiva i suoi obbiettivi fra
cui quello di garantire il futuro della famiglia e in quella logica
si muoveva. E proprio per questo doveva mettere le cose in chiaro,
prima di decidere una volta per tutte il futuro suo e dei suoi
bambini. "Io non aspetto un piccolo lord o una piccola lady.
Aspetto un figlio, un bambino... E un bambino non è un
titolo
nobiliare o una medaglia da esibire, un bambino è un bene
molto più
prezioso e come tale voglio che sia considerato".
"Che
volete dire?" - chiese Alexandra, incuriosita.
Demelza
deglutì e Hugh la guardò incantato. "Che un
bambino non vuole
essere un vessillo o un trofeo. Vuole una nonna che lo ami e un
prozio che farà altrettanto per affetto e non solo per le
ripercussioni che la sua nascita avrà sul futuro".
Falmouth
assottigliò gli occhi. "Ovviamente sarà
amatissimo. Questo mi
pare fuori discussione e nemmeno trovo motivo per discuterne. Ma la
domanda quì è un'altra, signora Carne... Avrete
tutto ciò di cui
avete bisogno e che mai avreste sognato di possedere, servi,
assistenza, medici pronti ad aiutarvi in ogni difficoltà,
denaro,
abiti di lusso, prestigio, un titolo nobiliare che vi porrà
sopra
molta della nobiltà londinese e gioielli preziosi. E un nome
di
famiglia nobile di cui non godrete solo voi e il piccolo in arrivo ma
anche i vostri primi due figli che non hanno né padre
né cognome.
Promisi a Hugh che MAI avrei indagato sul vostro passato e mai lo
farò ma ora voi dovete fare ciò che è
giusto e io in cambio farò
ciò che è giusto per voi e i vostri primi due
adorabili bambini.
Siamo simili signora Carne, noi due. Siamo persone pratiche e voi
sapete quanto me che un matrimonio è l'unica cosa assennata
da fare.
Non ve lo sto chiedendo, ve lo impongo, spingendovi a pensare a tutti
i benefici che ne trarrete. Ricordate cosa vi dissi a Natale? Mai
avreste fatto parte di questa famiglia ma il destino ha deciso
altrimenti e ora voi siete il tramite al nuovo futuro di questa
casata. Il matrimonio ovviamente, per ragioni di decenza e decoro,
avverrà in forma privata nella cappella di famiglia nel
parco di
questa casa, con pochi ospiti. Si parlerà di voi e forse si
tenterà
di far scoppiare uno scandalo ma... i potenti che potrebbero far
ciò
hanno troppi interessi economici e favori da rendermi e staranno
zitti. E le classi inferiori... Beh, a me di quel che dice la
marmaglia per passare il tempo non interessa. Sparleranno e quando
qualcos'altro attirerà la loro attenzione, si
dimenticheranno di
voi. Vi è tutto chiaro?".
Tremò,
assieme a Hugh. A quanto sembrava Lord Falmouth aveva già
deciso
delle loro vite. Ma lei non era sua nipote come Hugh, non erano
parenti, non gli doveva nulla e voleva mettere in chiaro alcune cose,
prima di accettare. Perché per quanto ne dicesse Lord
Falmouth, lei
era una donna libera e nessuno avrebbe mai potuto gestire la sua
vita. "Un attimo, non così in fretta" – disse,
freddamente. Aveva vissuto un anno e mezzo in un sogno, era stata una
principessa amata e coccolata da un uomo che la adorava ma ora
sarebbe uscita fuori anche la Demelza forte, lottatrice, quella che
combatte per ciò in cui crede e per i suoi figli.
"C'è
qualcosa che non vi è chiaro, signora Carne?".
Hugh
deglutì ma lei decise che non si sarebbe fatta intimorire.
C'era in
gioco il futuro dei suoi figli, il suo passato a cui si sentiva
ancora legata e che avrebbe dovuto recidere mettendo in silenzio la
sua coscienza, avrebbe dovuto dimenticare la se stessa che era stata
per diventare una nuova persona in una nuova famiglia diversissima da
quella in cui era cresciuta e in cui pensava di trascorrere la vita.
Si stava davvero giocando tutto... "Forse c'è qualcosa che
non
è chiaro a voi, Lord Falmouth. Io non voglio bei vestiti,
gioielli,
prestigio o denaro. Non voglio niente di tutto questo, non ho mai
giudicato importanti cose del genere. Aspetto un figlio da Hugh e mi
state chiedendo di unire la mia vita per sempre non solo con lui ma
con tutti voi, per il bene del bambino in arrivo. E io per questo
bambino non cercato ma di certo già amato, farei di tutto.
Ma ho
altri due figli...".
Lord
Falmouth la bloccò. "I vostri due figli ovviamente verranno
quì
con voi. Mi pare che questo sia un desiderio condiviso pienamente da
Hugh e avranno la migliore cura ed istruzione che si possa trovare a
Londra. Col matrimonio saranno adottabili da Hugh e ne trarranno ogni
beneficio economico".
Scosse
la testa, SEMPRE il denaro! Non poteva evitare di nominare qualcosa
di cui non le importava affatto? "Lord Falmouth, non è
questa
la mia preoccupazione e non è questo di cui hanno bisogno i
miei
figli. Loro vengono prima di me in ogni mia decisione e li
porterò
quì e accetterò di sposare Hugh solo a una
condizione: che li
amiate, che mi assicuriate che saranno trattati come il piccolo in
arrivo, che sarete per loro un prozio e una nonna, una famiglia unita
come quella che né io né loro abbiamo mai avuto.
Non chiedo denaro,
non chiedo che vengano ricoperti di giocattoli, vorrei solo che vi
possano conoscere come punti di riferimento e affetti sinceri, come
qualcuno da cui prendere esempio e rifugiarsi nei momenti difficili.
La cosa che vorrei di più non è il lusso, vorrei
solo una famiglia
che insieme, la sera, si sieda attorno a un tavolo a cenare in
armonia, parlando, ridendo, raccontandosi la giornata trascorsa. Solo
quello...".
Lady
Alexandra applaudì, entusiasta. "Cenare insieme è
un'ottima
idea! Ognuno di noi cena da solo nella sua ala del palazzo ma ora che
ci sono dei bambini e una famiglia in formazione, stare insieme la
sera sarebbe bello... Approvo la vostra idea Demelza". Si
alzò,
andandole vicino e prendendole la mano. Era una sognatrice, una donna
elegantissima che viveva in un mondo frivolo ma con un animo buono e
felice di avere una nuova famiglia vicina, dopo aver pensato a lungo
di essere in procinto di perdere l'ultimo pezzo di quella che aveva
creato.
Hugh
sorrise, entusiasta come la madre di quella proposta. Lord Falmouth
si alzò dal divanetto, andando davanti a loro. "I vostri
figli
sono deliziosi e io non farò mancare loro l'affetto che
meritano. Il
bambino che aspettate sarà loro fratello e loro per lui
saranno
punti di riferimento importanti, quando sarà grande. Voglio
che i
bambini crescano insieme, in armonia. Il destino ha scelto questo per
noi, una donna dal passato incerto con due figli, e noi faremo in
modo che tutto funzioni al meglio. Ma...".
"Ma?"
- chiesero Demelza e Hugh, all'unisono.
"Ma
voi avrete comunque abiti e gioielli, Demelza. Non lo troverete
così
terribile da sopportare... E i bambini i migliori giochi e i migliori
maestri a disposizione, su questo non transigo. Entrerete a far parte
di una famiglia importante e farete vostri i nostri principi, le
nostre idee e la nostra tradizione. Siete la madre dell'erede di
questo casato, sarete una figura di riferimento e una donna che
dovrà
essere sempre impeccabile davanti agli altri. Dovrete ispirare
ammirazione, timore e riverenza, in chi vi guarda. Guarderanno tutti
i vostri figli e quando avranno finito con loro, guarderanno voi, non
dimenticatelo mai... Demelza, sarete la Lady di questa casa, vi sto
dando la massima fiducia come ve l'ha data mio nipote e spero che non
mi deluderete". Poi si voltò verso Hugh. "La paternale non
è finita, ce n'è anche per te. Ho sempre
rispettato il tuo voler
vivere ai margini della famiglia, lontano dalla politica e dagli
affari. E ancor più ti ho assecondato in ogni cosa dopo che
ti sei
ammalato, compresa la relazione con la signora Carne che mai avrei
approvato in condizioni normali. Ma ora sarai marito e padre e per
quello che riuscirai a fare, pretendo che tu ti assuma le tue
responsabilità. Avrai una famiglia a cui badare e alle tue
poesie e
ai tuoi libri penserai di sera, se ne avrai tempo. Di giorno, quando
starai bene, verrai con me a Westminster o nel mio studio e
apprenderai le basi per essere un uomo d'affari e un politico.
Demelza imparerà ad essere una lady, tu diventerai uomo e
insieme
crescerete i bambini. Con giudizio!".
Hugh
si oscurò ma annuì. Non amava la politica, stava
andando contro al
suo essere e forse iniziava a comprendere l'enormità di
quella
valanga che aveva investito le loro vite. Era felice del bambino ma
ora si rendeva conto che c'erano infinite responsabilità da
fronteggiare. Il tempo delle fiabe e delle fate era finito, almeno in
parte. Ora doveva sognare un pò meno ed essere un
pò più terreno,
come stava del resto facendo Demelza.
A
lei spiaceva, sapeva quanto tutto questo avrebbe rivoluzionato la
vita di Hugh ma entrambi avevano dato vita a questo figlio ed
entrambi dovevano scendere a patti coi loro ruoli. Hugh avrebbe
iniziato a seguire la strada di famiglia e lei... lei avrebbe messo a
tacere ogni dubbio, ogni battito di cuore rimasto in Cornovaglia e
avrebbe dato davvero un taglio definitivo a quella sua vecchia vita.
Demelza di Nampara, la moglie di Ross che cacciava conigli e lottava
per la sopravvivenza della sua famiglia e per i minatori della Wheal
Grace era finita, non esisteva più. E non esisteva
più nemmeno
Ross, lui aveva scelto tre anni prima chi voleva essere ed era andato
avanti. Lei doveva fare altrettanto e quella scelta era la
più
giusta per lei e per i suoi bambini. Una vita serena, affetti
costanti, un futuro già scritto e radioso per i suoi figli e
soprattutto, un padre. Finalmente avrebbero avuto un padre! E davanti
a questo la Demelza ancora ancorata a Nampara doveva sparire, per
sempre... "Io e Hugh non vi deluderemo, Lord Falmouth".
"Sì
zio, non ti deluderemo. Accanto a Demelza posso essere un uomo
migliore e un buon padre" – aggiunse Hugh.
Ecco,
a proposito di questo, c'era ancora un aspetto che voleva discutere.
"Lord Falmouth, ovviamente voi sarete una guida per i bambini
ma...".
"Ma?".
"Io
e Hugh siamo i genitori e a noi spettano tutte le decisioni su di
loro. Accetteremo consigli, aiuti e pareri ma non dimenticate mai che
sono i nostri figli. E quando il bambino nascerà, voglio
prendermene
cura personalmente. Niente balia, niente nutrice, niente di niente.
Ho sempre badato ai miei figli da sola e continuerò a farlo".
Falmouth
annuì, ancora una volta impallidendo davanti a quella forte
determinazione del resto tanto simile alla sua. In fondo non erano
così diversi, quando perseguivano un obiettivo. "Va bene,
voi
siete la madre e voi saprete fare un ottimo lavoro assieme a Hugh.
Fissiamo la data delle nozze?".
Demelza
deglutì. Santo cielo, se glielo avessero raccontato due anni
prima
avrebbe riso di gusto... Eppure ora era lì, in quella
grandissima ed
elegante casa del centro di Londra, sarebbe stata una lady e la
moglie di un uomo appartenente a una famiglia ricchissima e nobile,
madre di suo figlio, ricca e importante. Non avrebbe mai sentito
però
tutto ciò davvero suo, lo sapeva ma doveva mettere a tacere
la sua
coscienza, nessuno poteva vivere una vita idilliaca e perfetta. Un
angolo nascosto del suo cuore avrebbe sempre considerato sua Nampara,
la spinetta, i campi, il rumore del mare e il passo del
cavallo che portava a casa Ross ogni sera... Ma quel mondo era perso
e ora basta, doveva guardare avanti. "Fissiamo le nozze, certo.
Posso chiedervi ancora una piccola cosa?".
Alexandra
annuì. "Tutto ciò che volete. Nulla vi
sarà mai negato e
siete assolutamente bravissima nelle trattative con mio fratello. Mai
nessuno, prima di voi, aveva ricevuto in una sola volta tanti
sì".
Demelza
rise a quelle parole. La madre di Hugh le ricordava un pò
Margarita,
nella sua spontaneità ed ingenuità. E forte di
quelle parole della
sua futura suocera, si trovò a chiedere di nuovo qualcosa...
Aveva
perso tutto il suo passato ma c'era ancora qualcuno o qualcosa della
Cornovaglia che aveva con se e che mai avrebbe voluto perdere.
"Potrò
portare quì il mio cane, Garrick? E Prudie, la mia domestica
e quasi
seconda madre, che mi è sempre stata vicina? Voglio che sia
lei ad
aiutarmi, col bambino".
Lord
Falmouth annuì. "Ovviamente. Tutto quì? Non
volete un cane di
razza?".
"Tutto
quì, non voglio nessun cane di razza, solo Garrick". Sarebbe
stata dura lasciarlo a Dwight e Caroline. Separarsi dai suoi due
amici e da quella casa che era stata il suo rifugio per due anni era
difficile ma era anche giusto così. Era il momento che
Dwight e
Caroline vivessero il loro matrimonio da soli, senza disturbi, liberi
nella loro casa finalmente vuota. Gli sarebbe stata grata per sempre
per il loro aiuto e li avrebbe considerati suoi amici per
l'eternità
ma ora ognuno avrebbe avuto la sua casa, come era giusto che fosse.
Lord
Falmouth le porse la mano e se la strinsero. Poi diede una leggera
pacca amichevole sulla spalla di Hugh ed infine chiamò una
cameriera
che servisse loro del vino. "Bisogna brindare allora! Al
matrimonio, alla nuova famiglia e all'arrivo del nostro piccolo
erede. Un bambino concepito in Scozia, prova ulteriore della nostra
superiorità in quella terra!".
Demelza
e Hugh si guardarono negli occhi senza capire, Alexandra rise e la
domestica se ne andò alzando gli occhi al cielo.
"Prego?"
- chiese Demelza.
Lord
Falmouth indicò il suo ventre, leggermente gonfio. "Siete
partiti in quattro inglesi e siete tornati in cinque. In terre
inospitali che abbiamo piegato con battaglie gloriose e rese nostre.
Avete sconfitto il destino, ne siete usciti vincitori e in quella
terra avete generato un nuovo inglese destinato a comandare la
società che conta! Un nuovo schiaffo per quella terra
selvaggia
abitata da uomini in gonnella!".
Hugh
ridacchiò, poi le sussurrò all'orecchio. "Mio zio
riesce a
mettere la politica in ogni discorso, devi farci l'abitudine".
Demelza
sospirò. "D'accordo...". E in quel momento si chiese
quanti bicchieri di porto avesse già bevuto di nascosto Lord
Falmouth per apparire già tanto ubriaco. Ora che la tensione
si era
stemperata, era decisamente più ciarliero e simpatico
rispetto a
poco prima.
L'uomo
proseguì, entusiasta. "Vi sposerete quanto prima. Alexandra,
tu
e Demelza penserete al vestito. Gonna larga, il bambino è
una
benedizione ma non è il caso di sbandierarlo ai quattro
venti fino
al matrimonio".
Demelza
abbassò lo sguardo, sbuffando. Santo cielo, non era nemmeno
al terzo
mese e già si notava il pancino, sarebbe diventata una
balena! "Sì,
gonna larga direi...".
Lord
Falmouth rise. "E' un bambino già desideroso di mostrarsi al
mondo per il suo vigore! E' un piccolo gigante Golia, sano e forte,
sembrerebbe... La tempra dei Boscawen si vede già!".
"Già"
– borbottò Demelza, meno entusiasta di lui. "Spero
che il suo
vigore lo mostri dopo la nascita, visto che devo partorirlo io!".
Alexandra
e Lord Falmouth rimasero stupiti da quell'esclamazione che a loro e
alla loro educazione doveva apparire come estremamente impertinente
ma non fecero commenti.
E
in quel momento rientrarono con la domestica Jeremy e Clowance, rossi
in viso per i giochi all'aperto e le corse.
Lord
Falmouth li osservò, compiaciuto stavolta. "Vi piace giocare
quì?".
"Sì,
c'è pure la mia casa sull'albero" – rispose Jeremy.
Lord
Falmouth sorrise, sornione. "Bene... Vi lascio con Hugh e vostra
madre. Devono parlarvi". E così dicendo prese sua sorella
Alexandra sotto braccio, salutando e scortandola fuori dalla stanza.
"Noi andiamo a predisporre i preparativi, voi parlate coi
bambini dei piani futuri".
Clowance
saltò sul divano, sulle ginocchia di Demelza, Jeremy
ridacchiò e si
mise seduto accanto a Hugh. "Io lo so cosa dovete dirci?".
"Cosa?"
- lo sfidò Demelza.
"Vi
sposate!" - rispose il bimbo, sicuro. "Vi ho sentito i
giorni scorsi, che parlavate... Anche se lo facevate piano...".
Demelza
deglutì, pensando al loro discorso su Ross di alcune
settimane prima
e alla delusione che aveva vissuto Jeremy a causa del suo sfogo. Ma
ora sembrava tornato sereno e vivace e pareva entusiasta di avere
Hugh definitivamente nella sua vita. "Sei felice se mi sposo con
Hugh?".
"Sì.
Ma...".
"Ma
cosa?".
Jeremy
le accarezzò il pancino. "Il fratellino, quando nasce,
chiamerà
Hugh papà?".
Hugh
annuì. "Certo".
E
gli occhi di Jeremy divennero lucidi. "Anche io voglio chiamarlo
così. Posso mamma?".
Demelza
sbiancò, Hugh spalancò gli occhi e
calò un silenzio pesante per un
attimo, dopo quella domanda. Demelza guardò suo figlio, un
bimbo che
il suo vero padre non aveva né mai voluto né mai
amato, di cui si
era sempre disinteressato e che aveva abbandonato. Jeremy voleva un
padre, ne aveva diritto, lo desiderava e lei chi era per negargli
quella gioia? Era normale che chiedesse una cosa simile, adorava
Hugh! Davvero, era ora di tagliare ogni ponte con Ross, era finita e
non meritava più un briciolo dei loro ricordi e del loro
futuro.
Iniziava una vita nuova, per lei e per i suoi figli. E Hugh era
l'unico padre che Jeremy avesse mai conosciuto, l'unico che lo avesse
mai ascoltato, sorretto, fatto felice. L'unico che si fosse mai
preoccupato per lui. Deglutì, era difficile, troppo, ma
doveva
essere fatto prima o poi. "Quando un bambino chiama un uomo
'papà', gli conferisce un grande onore. E io credo che
nessuno
meriti questo onore più di Hugh. Per me va bene, se anche
Hugh è
d'accordo".
Hugh
divenne rosso dall'emozione, strinse a se il bambino e se lo mise
sulle ginocchia. "Certo che va bene! E io sono l'uomo più
felice del mondo! Sono padre, sarò marito".
Demelza
gli prese le mani, intrecciandole con le sue. "E io moglie e
madre, di nuovo... Sei sicuro di volerti prendere tutti noi e tutte
queste responsabilità?".
Hugh
si chinò su di lei, baciandola sulle labbra. "Sicuro,
piccola
fata. Anzi, da come hai tenuto testa a mio zio, ora mi sembri
più
una tigre come quella che hai tenuto in braccio lo scorso anno".
I
bimbi e Demelza risero e lei pensò a quanto Hugh avesse
fatto per
loro e agli insegnamenti che avrebbe lasciato soprattutto a Jeremy su
come un uomo dovesse comportarsi con le persone che ama. Questa
sarebbe stata la vera ricchezza per i suoi figli, un esempio per
essere un giorno brave persone.
Jeremy
si rannicchiò fra le braccia di Hugh, chiudendo gli occhi e
assaporando quella sensazione per lui tutta nuova. "E io
sarò
figlio di un papà".
Clowance
picchiettò sulla guancia di Demelza. "Io?".
Lei
rise. "Tu sarai una figlia. Vuoi?".
La
piccola guardò Hugh, annuì come se quel discorso
per lei fosse
superfluo e ovvio e poi sospirò. "Sì. Hugh
papà".
"Hugh
papà..." - sussurrò Demelza. E da quel momento
decise che il
fantasma di Ross non avrebbe più dovuto essere presente
nelle loro
vite.
E
che lei da quel giorno e per sempre sarebbe stata Lady Armitage.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Faceva
caldo, quel primo luglio. Lo avvertiva come soffocante, fastidioso e
la nausea perenne non contribuiva certo a migliorare le cose. A causa
di essa avevano dovuto posticipare il matrimonio due volte ma ora
Lord Falmouth picchiava i piedi e oggettivamente la data in cui
sarebbe stata di nuovo in forma era molto incerta. E così si
era
decisa, nonostante mille paure e mille tentennamenti, a decidere per
il primo giorno del settimo mese dell'anno, per dire sì.
Nell'ultima
settimana si era trasferita coi bambini nel grandissimo palazzo dei
Boscawen, nell'ala riservata alla sua futura suocera, in una
grandissima stanza provvisoria riservata a lei e ai bambini a cui
Hugh, secondo tradizione, non poteva accedere. Questo la faceva
sorridere, era incinta ed era palese che lei e il suo futuro sposo
avessero già vissuto anche l'amore fisico, ma Lord Falmouth
era
stato irremovibile, aveva preteso il rispetto della tradizione
–
anche se era davvero solo una formalità e lo sapeva anche
lui – e
lei su questo aveva dovuto cedere.
Lasciare
la casa di Caroline e Dwight era stato difficile, per due anni e
mezzo vi si era rifugiata e si era sentita in una famiglia, ma si
rendeva conto che era giusto così. Loro dovevano formare la
propria
famiglia e lei la sua.
Si
accarezzò il ventre, già piuttosto evidente sotto
il bellissimo
abito bianco che Lady Alexandra aveva fatto confezionare per lei.
Aveva un corpetto tempestato di gemme e una gonna piena di velluti e
tulle che scendeva larga, cercando di nascondere al senso del pudore
quella gravidanza giunta prima del fatidico sì.
Nonostante
la nausea non la abbandonasse praticamente mai, togliendole la voglia
di mangiare, il bambino sembrava prosperare. Era solo al terzo mese
di gravidanza e la pancia si vedeva già, non era mai
successo. Lord
Falmouth chiamava il bambino 'piccolo gigante Golia', lo diceva pieno
di orgoglio. E Demelza inziava a pensare che avesse ragione. Sarebbe
diventata più grassa di una balena, ora del parto...
La
domestica incaricata di prepararla alla cerimonia le sistemò
i
capelli, pettinandoli delicatamente. "Signora, come li
desiderate? Sciolti o raccolti?".
Sospirò,
guardandosi allo specchio. Era bellissima, elegante, raffinata... E
stentava a riconoscersi, era davvero lei che, di lì a poche
ore,
sarebbe stata la moglie di uno dei rampolli della Londra più
aristocratica? Pensò al matrimonio con Ross, finito
tragicamente, al
suo abbigliamento semplice di quel giorno, ai capelli ribelli ornati
da fiorellini di campagna, al suo stupore di trovarsi nella Chiesetta
di Sawle e alla sua gioia nel guardarlo e sapere di essere in
procinto di diventare la moglie di un uomo che per lei era tutto...
Strinse i pugni a quel ricordo. "Li raccolga, per favore".
No, niente doveva essere uguale a quel giorno in Cornovaglia,
niente...
"Uno
chignon le andrebbe bene?".
"Va
benissimo, fate voi...".
Chiuse
gli occhi, lasciò che la donna la acconciasse e poi, quando
ebbe
finito, si alzò e si guardò allo specchio. Era...
sembrava... una
delle principesse delle fiabe che leggeva a Clowance. Eppure,
nonostante stesse per sposare un uomo che la adorava, che le avrebbe
dato tutto, che l'avrebbe trattata davvero come una regina e che
avrebbe fatto da padre ai suoi bambini, era triste. E sapeva che era
l'ultimo giorno in cui avrebbe potuto permettersi il lusso di
esserlo. Stava per lasciare per sempre la sua vecchia vita, la
vecchia Demelza che era stata e che credeva di essere per sempre per
reinventarsi, per diventare un'altra, per abbracciare una vita che
sempre aveva visto vivere dagli altri, guardandoli dal basso in alto.
Ora altri avrebbero guardato lei in quel modo e faceva paura...
"Siete
bellissima" – esclamò la cameriera.
"Grazie".
Le sorrise, dandole una leggera carezza sul braccio. "Potrei
rimanere da sola due minuti, ora?".
La
ragazza sorrise. "Certo. Ma non fate aspettare oltre il vostro
sposo, non vede l'ora di avervi in moglie".
Annuì,
abbassando il capo. E quando fu sola, si appoggiò al
tavolino della
toeletta, prendendo fiato. Era spersa, spaesata, spaventata. Sapeva
che era dove doveva essere e che non c'erano altre strade
percorribili per lei, ma era difficile lo stesso. Sentiva un dolore
sordo in fondo al cuore che le chiudeva lo stomaco, era consapevole
della sua causa ma non poteva fare nulla per curarlo. Hugh la
adorava, voleva davvero una famiglia con lei e lei gli voleva bene.
Hugh era la sua luce, la ragione dei suoi sorrisi e della
serenità
ritrovata, ne era attratta, stavano bene insieme e si divertivano
ma... bastava questo a far funzionare un matrimonio? Aveva paura di
essere andata troppo oltre, di aver intrapreso una strada che poi non
sarebbe stata capace di sopportare, di non essere adatta a quel mondo
e a quel giovane. Hugh le aveva dato tutto, ma lei? Lei, col suo
cuore spezzato e forse per sempre imprigionato altrove, lei che aveva
un passato difficile alle spalle e due figli senza padre, lei che mai
sarebbe stata capace di sussurrargli, con cuore pienamente sincero,
che lo amava. Perché l'affetto profondo che lei provava per
Hugh era
vero e tangibile ma l'amore era altro... Non che non lo provasse, ma
era un amore diverso, più votato alla tenerezza e alla
dolcezza, un
amore per ciò che lui rappresentava ma che ancora non aveva
abbracciato pienamente ciò che lui era. Stava per sposare un
uomo
buono ma diverso da lei, per visione della vita e aspirazioni, per
carattere e vigore. Ross era stato il suo compagno di vita e di lotte
e avevano combattuto insieme per e con passione. Con lui era un
matrimonio di mente, anima e corpo, ma Hugh...? Hugh sarebbe mai
stato altrettanto? Certo, sarebbero stati sereni, sarebbero stati
capaci di ridere e divertirsi, di vivere con leggerezza e senza
problemi ma ad entrambi, quel matrimonio, stava imponendo qualcosa
che non era nel proprio essere e prima o poi questo avrebbe preteso
il conto.
Si
accarezzò di nuovo la pancia, non poteva avere tentennamenti
ora. La
nuova vita che cresceva in lei stava prepotentemente formandosi e
preparandosi a venire al mondo e aveva diritto a un padre e a una
madre, insieme. E questo e solo questo contava, ora.
Sentì
gli occhi pungerle e in quel momento la porta della stanza si
aprì,
facendola sussultare. Si affrettò ad asciugare quelle
dannate
lacrime che rischiavano di scappare rovinandole il trucco e mettendo
a nudo i suoi pensieri più intimi e profondi, inspirando
profondamente per riprendere il controllo di se stessa. Poi si
voltò,
trovandosi accanto Prudie.
"Ragazza,
tutto bene? Ti stanno aspettando tutti la, nella cappella".
Demelza,
esausta ma rinfrancata dal vederla, si accasciò sulla sedia.
Avere
lì Prudie era una benedizione, era l'unica che la conosceva
da
tanto, l'unica ad aver seguito tutta la sua storia, l'unica che forse
conoscesse davvero i tormenti del suo animo. "Non lo so se va
tutto bene... Questo vestito è bellissimo ma la pancia si
vede lo
stesso, non so come sto coi capelli raccolti, non so se faccio bene o
se faccio male ad essere quì, non so niente...".
Prudie
si inginocchiò davanti a lei, prendendole le mani e
stringendole.
"Piano ragazza, respira e calmati! Tutte le spose sono agitate
il giorno delle nozze".
"Non
sono agitata... Non so come mi sento, non so se sono contenta o se ho
voglia di scappare... Non so niente...".
Prudie
sospirò. "Cosa ti tormenta, piccola? Dillo a Prudie che ti
capisce e vediamo se riusciamo a risolvere la situazione".
Una
nuova lacrima le scappò dall'occhio sinistro, scivolando
sulla sua
guancia. Al diavolo pure il trucco! "Io... Io volevo essere per
tutta la vita la moglie di Ross Poldark... La signora Poldark. Non
volevo essere ricca, essere una lady, essere la mamma di un futuro
lord o di una contessina o di quello che sarà, non ricordo
nemmeno i
titoli nobiliari del bambino che mi ha elencato Lord Falmouth in
questi giorni... Volevo solo Nampara, il mio giardino, il mio
cavallo, i miei animali e... e lui... Avrei combattuto con lui ogni
sua battaglia, anche senza un soldo in tasca e col pensiero fisso su
cosa mangiare domani... Avrei dato la mia vita per lui, per essere ai
suoi occhi degna del suo amore... Non volevo altro, solo il suo
amore... Che mi amasse e che amasse i nostri bambini".
Si
accasciò contro al petto di Prudie, singhiozzando come una
bambina,
sfinita da quell'ammissione che mai avrebbe voluto fare e che
riapriva ferite che mai sarebbero guarite.
"Lo
so, lo so ragazza... Ma non è possibile, non più.
Lui ha scelto e
lo hai fatto anche tu, donandoti al tenente Armitage. Non pensare a
Ross, non puoi, finiresti solo per tormentarti inutilmente. Ce l'hai
messa tutta ma non è bastato e lui ha scelto... quella
spaventapasseri che gli farà pentire ogni sua scelta in
futuro... Ma
se la purgherà da solo, stavolta non ci sarai tu a
raccogliere i
pezzi dei suoi errori".
Demelza
annuì, lo sapeva anche lei che doveva lasciare andar via i
ricordi,
ma il suo cuore in quel momento gridava desideri che per un anno e
mezzo erano come stati congelati dalla favola vissuta con Hugh e ora
cercavano di riprendere il posto che spettava loro di diritto, al
centro del suo cuore. Non era così convinta come lo era
Prudie che
Ross un giorno si sarebbe pentito, amava troppo profondamente
Elizabeth, da sempre, l'aveva sognata e desiderata per anni pur con
tutto il mondo contro e ora che era sua, di certo l'avrebbe venerata
per il resto dei suoi giorni. "Credi che lui si ricordi ancora
di me? O dei bambini...? Ricorda che siamo esistiti, anche se vive
felice con la donna che ama?".
E
Prudie rispose, dicendo qualcosa che le aveva già detto la
dolce
Verity tanti anni prima. "Il signor Ross non dimentica mai
nulla. Fidati, lo conosco fin da quando era un moccioso che frignava
per la morte di sua madre. Ma lui non è quì, non
sarà mai quì e
tu devi vivere. Ed essere felice perché lo meriti. L'uomo la
sotto
ti adora e ti ha reso felice ed è migliore di tanti uomini
in
circolazione. Ti darebbe il mondo se potesse, a te e ai tuoi bambini.
Lascia andare Ross, dimentica il male che hai patito e vivi la tua
vita come lui ha scelto a suo tempo di vivere la sua. Non puoi
tornare indietro, non più... Ai tuoi primi due figli
è stato
portato via un padre, non fare lo stesso con questo nuovo bimbo in
arrivo. Merita un padre e merita una madre felice".
Demelza
sorrise, col viso nascosto contro il suo petto. Prudie era davvero
diventata per lei come la madre che non aveva mai avuto e tante volte
in quel periodo tanto difficile aveva trovato le parole giuste per
acquietare il suo cuore. "Certo che lo merita e io MAI priverei
mio figlio di suo padre. Hugh lo vuole questo bambino, ogni giorno mi
chiede quanto manca alla nascita, fa progetti, è felice ed
emozionato e non vede l'ora di stringerlo fra le braccia. Adora
Clowance e Jeremy e loro amano lui e io so... so che non
sarò
infelice, so che non sarò sola, so che per la prima volta
metterò
al mondo un bambino desiderato da suo padre, ma...".
"Ma?".
Demelza
scosse la testa. "Ma so che questi sono gli ultimi momenti in
cui sono solo Demelza Carne, una ragazza della Cornovaglia. E piango
perché a ciò che ero sto dicendo addio... Fa
paura! Fra pochi
minuti dirò sì e allora sarò Lady
Armitage e ho il terrore di
perdermi, di cambiare e di non ricordare più chi sono
davvero e cosa
vuole il mio cuore. Mi sposerò perché ho voluto
Hugh e perché lui
era ciò di cui avevo bisogno in questo periodo, mi
sposerò perché
è ciò che devo fare e lotterò per la
famiglia che formerò col mio
futuro marito ma... ma mi sento in colpa. Perché sposo un
uomo che
mi adora e per quanto bene gli voglia, io non saprò mai
corrispondere appieno i suoi sentimenti e non so se è
perché
nonostante tutto amo ancora Ross o se sia stato Ross a rendermi
incapace di amare dopo quanto è successo, ma so che
è così. Sai,
in questi giorni ci ho pensato, ad entrambi, a Hugh e a Ross. E ho
capito in cosa sono diversi, ai miei occhi".
"In
cosa?".
Demelza
sorrise dolcemente. "Ross era fuoco, un fuoco che mi è
entrato
nella carne e nell'anima, un fuoco che mi ha fatto sua. E ti senti
viva, completa, avvolta in quella fiamma... Ma proprio
perché ti
entra nel profondo, il fuoco brucia, fa anche male ed è caro
il
conto che ti chiede per la beatitudine che ti ha regalato per un
attimo. Hugh è diverso, Hugh è come il tepore
piacevole di un
camino acceso in una stanza che prima era fredda. Il calore che emana
non fa male, fa bene al cuore, ti fa sentire coccolata e protetta. E
non è come il fuoco sulla pelle, non è
altrettanto pericoloso e
letale, ma non è nemmeno capace di penetrarti dentro fino al
profondo. Un camino acceso ti fa star bene e basta, ti fa stare
tranquilla senza il rischio di scottarti mentre il fuoco ti brucia
anima e cuore quando entra dentro di te".
Prudie
le accarezzò il viso. "E tu cosa vuoi? Scottarti o star bene
e
basta, senza scossoni?".
Ci
pensò, quella domanda era il perno di tutti i suoi dubbi e
paure.
Cosa voleva? Un fuoco pericoloso o, finalmente, la pace per se e i
suoi bambini? "La vita mi ha insegnato che l'amore è un
fuoco
pericoloso, che brucia e fa male... Posso farne a meno, DEVO farne a
meno, anche se questo forse mi farà sentire meno viva".
"Sicura?".
Deglutì.
"Devo esserlo...". Si accarezzò il ventre, ancora,
addolcendo il suo sguardo. "Lo amo, amo questo bambino con tutta
me stessa, anche se è un piccolo gigante che farà
diventare
gigantesca pure me. Voglio che sia felice e se lo sarà lui,
lo sarò
anche io".
Prudie
le asciugò le lacrime cristallizzate sul viso con un
fazzoletto. "E
se lo sarai tu, lo sarò pure io. E i bambini".
Demelza
inspirò profondamente, si alzò in piedi, si
sistemò la gonna e
sorrise. "Prudie, grazie" – sussurrò, baciandole
la
guacia. "Resta sempre con me, cresci i miei bambini con me e
soprattutto, non permettere mai che io dimentichi chi sono. E' il
più
grande favore che potresti farmi".
"Lo
farò, non permetterò che diventi una smorfiosetta
con la puzza
sotto il naso! Tu sei una creatura selvaggia della Cornovaglia e
farai grandi cose con questi ricconi. E anche senza il signor Ross,
col potere che avrai fra le mani, sarai capace di portare avanti le
lotte che combattevi con lui. So che farai buon uso del titolo di
Lady che ti verrà conferito oggi e so che non perderai te
stessa".
Demelza
la abbracciò, forte. Con lei vicino, si sentiva pronta ad
affrontare
quel matrimonio. Prudie aveva ragione, meritava di essere felice e
lei e i bambini avrebbero trovato la pace e il loro posto nel mondo
in quella elegantissima casa di Londra. La vita era strana, a volte
sapeva riservare sorprese inaspettate a cui adattarsi anche con
fatica e se il destino aveva deciso che lei e i suoi figli dovevano
vivere e crescere a Londra e non in Cornovaglia, un motivo ci doveva
essere. "Mi accompagni di sotto?".
Prudie
le offrì il braccio. "Ovviamente, ragazza".
"Sono
bella?".
"Bellissima,
tranquilla".
"Anche
col pancione?".
La
serva rise. "La scelta della tua futura suocera è stata
eccellente. Quella gonna larga nasconde bene il piccolo gigante, la
vecchia se ne intende di moda...".
"Prudie,
stai parlando di mia suocera!". Demelza alzò gli occhi al
cielo, uscendo dalla stanza con lei, osservando ancora il suo ventre
gonfio. "Ti sembra normale la pancia così grande?".
"No,
con gli altri si è vista molto più tardi. E'
strano...".
Ecco,
lo sapeva, se lo diceva pure Prudie c'era da preoccuparsi. "Anche
Dwight è sempre accigliato quando mi visita. Sono
preoccupata, sento
questa gravidanza diversa...".
"Non
ci pensare, non oggi...".
Demelza
fece per rispondere quando, appena uscite nel giardino, furono
raggiunte dalle sue due testimoni e dai bambini.
Deglutì,
emozionata, mentre Margarita e Caroline, le due amiche che aveva
voluto vicine più di chiunque altro, le andavano incontro
tenendo
per mano Jeremy e Clowance. Le due ragazze indossavano degli
splendidi abiti di seta rosa, identici, con un nastro di pizzo rosso
in vita. Clowance indossava un bellissimo abitino bianco come il suo,
identico, che la faceva sembrare una piccola sposa in miniatura
mentre Jeremy aveva degli eleganti pantaloncini blu lunghi fino al
ginocchio e una camicina di seta bianca.
Si
chinò, ad abbracciare i suoi bambini, stringendoli a se.
Ogni
dubbio, ogni paura scomparve vedendoli tanto felici. Prudie aveva
ragione, lo meritavano, loro e lei...
Li
abbracciò, tenendo fra le sue braccia i suoi figli
già nati e
quello in arrivo, che cresceva dentro di lei. I suoi tre tesori...
Margarita
le sorrise, la abbracciò e le diede il bouquet di roselline
con cui
entrare nella piccola cappella in giardino. Caroline la prese sotto
braccio, radiosa e felice. "Sono gelosa, diventerai più
blasonata di me" – disse, col suo solito fare cinico. "Vedi
di non piangere durante il sì, portare Dwight alle cerimonie
è
sempre una sofferenza e io non sono in condizione di sentirlo
lamentarsi per ore...".
Demelza
si accigliò. "Sei malata?".
Caroline
diede un'occhiata al suo ventre. "No, ero solo gelosa di te e
del bambino in arrivo. Mi da fastidio vedere come le donne incinta
attirino su di se l'attenzione di tutti e alla fine ho deciso che
volevo anche io quell'attimo di notorietà".
Margarita,
Prudie e Demelza spalancarono gli occhi, Jeremy si grattò il
capo e
Clowance rise.
"Sei
incinta?" - chiese Demelza, a bocca aperta. "Anche tu?".
Caroline
sospirò, fingendosi scocciata. "Sì... E' una
condizione un pò
noiosa, ma il mio marmocchio è meno grasso del tuo, la
pancia ancora
non si vede e io sarò snella e bella più a lungo
di te. E non
commuoverti e non piangere, io non l'ho fatto e a te colerebbe il
trucco!".
"Congratulazioni
Miss Caroline!" - esclamò Margarita.
Demelza
si bloccò, abbracciandola. Al diavolo il trucco, era
così felice
per lei che sarebbe scoppiata a piangere dalla gioia molto
volentieri. "Congratulazioni, è meraviglioso. Quando
nascerà?"
- chiese, pensando alla gioia che doveva provare Dwight in quel
momento.
"A
marzo. Due mesi dopo tuo figlio". Le lasciò il braccio,
indicandole l'entrata della cappella. "Basta parlare,
ricomponiti, entra e sposati. E' il tuo momento ora, non il mio".
Demelza
tornò alla realtà, dopo quel piacevole diversivo.
Tremò, cercò
con lo sguardo Prudie e la serva le sorrise, annuendo. E Jeremy le
prese la mano per accompagnarla all'altare, stringendogliela forte,
mentre Clowance le sorresse il velo come le aveva insegnato Lady
Alexandra, da perfetta piccola damigella.
Guardò
i suoi figli, prese coraggio e decise che avrebbe lottato per quella
vita, perché fosse felice per lei, per i suoi bambini e per
l'uomo
che l'aveva resa il centro del suo mondo, facendole vivere il sogno
di essere la sua fata.
Entrò,
a testa alta. E Hugh rimase a bocca aperta, incredulo, felice. Si
avvicinò a lui e nonostante il cerimoniale e le occhiatacce
di Lord
Falmouth, si abbracciarono forte, per darsi entrambi quel coraggio
necessario a quel salto nel vuoto.
"Sei
bellissima, piccola fata... E ogni mio respiro sarà atto
solo a
renderti felice. Hai reso vero un sogno".
Gli
sorrise e capì che avrebbe voluto dargli la salute, la gioia
di
vivere e la felicità di una famiglia vera, la loro famiglia.
E che
il tepore costante e dolce di un camino sarebbe andato benissimo per
vivere serena. Non importava quanto tempo avrebbero avuto, quanto
sarebbe durata, vivere pienamente giorno per giorno, godendo di ogni
dono della vita, era un qualcosa che molti non riuscivano a fare per
lunghe esistenze vuote. Ma loro no, loro sarebbero stati diversi...
Volevano essere felici, si meritavano di esserlo e un giorno, un
mese, un anno o dieci non aveva importanza. Avrebbero vissuto
pienamente ogni istante a loro concesso, insieme.
Abbandonò
i ricordi, chiuse a chiave ogni sentimento che la legava a Nampara e
a Ross, alzò lo sguardo e guardò suo marito, il
suo futuro. E poi
disse sì, diventando Lady Armitage.
E
ora non sarebbe più potuta tornare indietro...
...
"Sono
indeciso se rimanere sveglio a pensarti, o dormire con la speranza di
sognarti! Demelza, dove sei?".
Colto
da questo strano pensiero e dalla malinconia che ogni sera, quando
andava a letto, si impossessava di lui, Ross si voltò di
lato. Era
stato un giorno strano quello, dove una opprimente inquietudine lo
aveva tormentato fin dal primo momento in cui aveva aperto gli occhi.
Ci aveva riflettuto
e alla fine aveva capito che il suo sesto senso gli stava urlando che
era il pensiero di Demelza e dei bambini a logorarlo, come se stesse
cercando di dirgli qualcosa di importante che però non
riusciva a
capire. Si era chiesto se fosse successo qualcosa di grave, se
avessero bisogno di aiuto, se quel suo malessere fosse collegato a
loro come un filo invisibile che gli faceva percepire quando qualcosa
non andava ma
non era giunto ovviamente a nessuna conclusione.
E poi, che
poteva fare? Non
sapeva dove fossero, dove cercarli e soprattutto, non sapeva se
stesse definitivamente impazzendo.
Nel
pomeriggio aveva ricevuto la visita di Lord Bassett, un nobile che
cercava invano, da tempo, di coinvolgerlo nella politica, una persona
piacevole, intelligente e con idee affini alle sue che lo voleva con
se a Londra, a Westminster, e che veniva spesso a fargli visita per
convincerlo. Ma Lord Bassett non sapeva che era allergico a ogni
forma di potere e che non avrebbe mai corrotto il suo animo entrando
in un gioco che avrebbe finito con lo sporcare i suoi ideali e
ciò
in cui credeva. Bassett
non demordeva da mesi, era testardo ma forse non aveva ancora capito
che lui lo era ancora di più e che stava perdendo solo il
suo tempo.
Così anche
quel giorno disse cordialmente no, lo salutò e poi
tornò solo coi
suoi tormenti e pensieri, a casa.
Non
era solo, c'era Valentine accanto a lui nel
letto, quella sera.
Solo
Valentine...
Quel
giorno aveva
pianto per i dolori alle gambe e grosse lacrime che gli solcavano il
viso al suo
arrivo a casa,
unito alla preoccupazione che leggeva sul viso di Jane,
gli avevano fatto capire che stavolta non erano solo capricci ma che
stava male davvero. In quei momenti si sentiva ancora più
impotente
e rabbioso. Impotente perché non poteva fare nulla per lui e
per
aiutarlo e perché l'unico medico in grado di farlo se n'era
andato e
non erano più amici da anni. Ed
arrabbiato perché Valentine, la sua esistenza e quella
malattia
c'erano
a causa di quella sua notte di follia in cui aveva distrutto la vita
di due donne, dei suoi figli e aveva generato un bambino votato alla
sofferenza. Era tutta colpa sua, dannazione! Tutti quelli che lo
avevano conosciuto soffrivano a causa sua!
Si
odiava per questo, si odiava quando si trovava a pensare a Demelza e
al fatto che non sapeva dove fosse, cosa facesse, com'era diventato
Jeremy e... l'altro bambino. O bambina. Di cui non conosceva
né
sesso né nome perché quando era venuto al mondo
era stato talmente
codardo da non avere il coraggio di trasgredire come aveva fatto
molte volte nella sua vita e di andare a conoscerlo.
La
manina di Valentine lo toccò, facendolo sussultare.
“Papà, male
quì?” -
chiese,
toccandogli le gambe con la manina.
“No,
certo che no! E
tu, stai ancora male?”.
“Sì.
Tu no?” -
chiese,
ancora, con la sua vocina stentata.
Ross
sorrise amaramente. “No, a me fa un po' male il cuore ma
forse mi
passerà” - rispose,
accarezzandogli i ricciolini neri.
Poi
si voltò nel letto, dandogli le spalle. Guardarlo era sempre
una
sofferenza, soprattutto quel giorno e soprattutto quando stava male e
lui non riusciva a non tormentarsi su quanto la vita di tutti sarebbe
stata migliore se quella notte maledetta fosse rimasto a casa con
Demelza. Vedere Valentine sarebbe sempre stato il suo più
grande
dolore e rimpianto e non sarebbe mai riuscito a godere della sua
presenza in
quella sua
vita tempestata ormai
solo di
rimpianti.
“Papà...”
- piagnucolò il bimbo.
“Dormi...”.
“Papà...”.
Non
si voltò, non ce la faceva. Lo sentì singhiozzare
col visino contro
la sua schiena ma poi, esausto, il suo respiro si fece più
profondo
e lo sentì addormentarsi, avvinghiato a lui come un koala.
“Dormi
e lasciami solo, Valentine... E perdonami. Coi miei figli io sono
destinato a sbagliare, sempre... E tu non fai eccezione”.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Il
tempo era volato, nonostante la gravidanza fosse davvero impegnativa
e pesante rispetto alle precedenti.
La
nuova vita la travolse e anche se all'inizio era spaventata, presto
lei, Hugh e i bambini trovarono il loro posto, nuove abitudini e una
nuova routine nella grandissima dimora dei Boscawen. Lord Falmouth
era il vero capo famiglia, lui decideva, lui programmava, lui
comandava. Ma sapeva anche essere un uomo ironico, era intelligente
ed esperto del mondo e le sue buone maniere erano sempre impeccabili.
Lady Alexandra, che i bambini avevano iniziato a chiamare 'nonna
Alix', era una donna mite, gentile, che dietro la sua aria un
pò
sognatrice e svampita sapeva nascondere il dolore di convivere con la
malattia del figlio.
Come
Demelza aveva desiderato, avevano imparato a cenare tutti insieme
ogni sera e se all'inizio questa era fonte di imbarazzo, pian piano
il ghiaccio si era sciolto fra loro e quello era diventato il momento
migliore della giornata. Lord Falmouth parlava dei suoi impegni in
parlamento e dei suoi affari, i bambini raccontavano dei loro giochi
e della loro giornata, Hugh si sforzava di non morire di noia nel
sentire suo zio parlare di re, regine e politica mentre lei invece da
quei racconti, pian piano, aveva imparato a conoscere quel mondo che
le era sconosciuto, a fare domande e alla fine anche a controbattere,
cosa che allo zio di suo marito piacque molto. Le chiacchiere spesso
si protraevano fino a tardi e per Demelza, costretta al più
assoluto
riposo dalla famiglia e spesso annoiata, quello era un momento
delizioso da condividere. A volte gli scambi fra loro erano condivisi
da Hugh: suo zio gli insegnava la politica e lui in cambio gli
parlava di poeti antichi e di canti medievali. Era un tacito
compromesso fra i due a conoscere meglio i rispettivi mondi e
passioni.
Dopo
cena Lady Alexandra giocava coi bambini e con Garrick, si divertiva a
disegnare nuovi modellini per i vestitini di Clowance e Jeremy aveva
chiesto a Lord Falmouth di insegnargli il gioco degli scacchi, cosa
che aveva reso l'uomo entusiasta. Adorava l'idea di avere una nuova
mente da formare.
In
tutto questo il suo pancione era cresciuto e attorno a lei c'era la
più assoluta riverenza. Era la regina della casa, la madre
dell'erede e ogni suo desiderio, anche solo sussurrato, diveniva
realtà. Non era mai stata tanto viziata in vita sua e spesso
si
sentiva in colpa per il troppo che aveva quando molte donne non
possedevano, nelle medesime condizioni, nemmeno il necessario per
vivere. Lady Alexandra le aveva fatto confezionare centinaia di abiti
eleganti, le aveva insegnato le regole dell'alta società e
le aveva
imposto, nelle occasioni ufficiali, di non indossare MAI per due
volte lo stesso vestito. Troppo sconveniente, diceva! Durante i primi
mesi era rimasta sconvolta dalla quantità di cibo e vestiti
che,
ancora nuovi, venivano gettati e alla fine, visto che non poteva fare
nulla, aveva ideato un piano in cui aveva coinvolto sua suocera per
aiutare i più bisognosi. Aveva chiesto di devolvere il cibo
in più
agli orfanotrofi della città e di non gettare via i vestiti
ancora
nuovi, insegnando alla donna un modo per riutilizzarli. Le aveva
mostrato come disfarli, scucirli e ricucirli, facendone abiti per
bambini, cuffie, mantelle e altri generi da distribuire ai
più
poveri nei centri per i senzatetto di Londra. A Lady Alexandra questo
era piaciuto molto, era una donna nobile e in fondo annoiata dalla
vita, e insieme si erano impegnate in quella missione che per Demelza
era vitale e per sua suocera una piacevole novità. Demelza
le aveva
insegnato a cucire e questo facevano di pomeriggio, quando i bambini
erano fuori con Prudie a giocare.
Anche
Jeremy e Clowance si abituarono presto a quella nuova vita: in estate
con Prudie e Mary, una bambinaia che Lady Alexandra aveva insistito
per assumere, avevano giocato intere giornate nei giardini di
Kensington dietro casa e a novembre, per il terzo compleanno di
Clowance, Hugh aveva organizzato una grande festa e una caccia al
tesoro nel parco del palazzo. I piccoli invitati si erano divertiti
un sacco, avevano esplorato la casa sull'albero di Jeremy, Clowance
era stata ricoperta di regali e a fine giornata, come era successo
fra Jeremy e Gustav, anche lei aveva trovato una migliore amica, Lady
Chaterine, una sua piccola coetanea dai capelli castani e pieni di
perfetti boccoli, indubbiamente capricciosa e vanitosa come la
piccola di casa.
Hugh
si era dimostrato un marito premuroso, attento e soprattutto eccitato
dal suo ruolo di padre. Attaccatissimo ai bambini, era diventato
tutt'uno con Jeremy e negli ultimi mesi della gravidanza avevano
confabulato molto di nascosto, su qualcosa che non era riuscita a
captare nemmeno implorando. C'era un segreto fra loro e lei non
doveva sapere nulla fino a tempo debito, così avevano
detto...
Per
il resto, aveva fatto sistemare la casa perché fosse adatta
alla
nuova famiglia che vi si era trasferita: aveva adattato la sua
camera, rendendola una stanza matrimoniale piena di ogni confort e
aveva poi trasformato la stanza comunicante da biblioteca a nursery,
con tutto l'occorrente per l'arrivo del nuovo bambino.
La
sua biblioteca era stata trasferita in un grande salone al piano
terreno. Aveva diviso la stanza in due, una per i libri degli adulti
e una dedicata interamente alla letteratura per l'infanzia in modo
che Jeremy prima e Clowance e il bimbo in arrivo poi, avessero il
loro spazio per appassionarsi ai libri.
Spesso
di sera, dopo cena e dopo aver messo i piccoli a letto, aveva passato
in quella biblioteca lunghe ore con Hugh, a discutere di libri e
poemi. Gli occhi di suo marito si illuminavano quando parlava di arte
e cultura ed era meraviglioso stare a sentirlo raccontare di quel
mondo che doveva adorare e che considerava amico. Ridevano spesso
insieme, come due ragazzini, oppure discutevano su un romanzo che
Hugh le aveva consigliato di leggere o ancora, fantasticavano sul
bimbo in arrivo. C'era serenità in casa, un qualcosa che
Demelza non
aveva mai provato prima. A Nampara o ancora prima ad Illugan c'erano
sempre problemi e pericoli da affrontare, la fame, i debiti, lo
spettro della prigione o altro ancora... Ora era solo una moglie e
madre in attesa di un bambino, non c'erano problemi, non c'erano
ansie, c'era solo la serenità di una vita tranquilla che la
faceva
sentire coccolata e amata... A volte capitava che si sentisse
spaesata, che non avvertisse quel posto come casa sua ma era un
attimo, bastava un sorriso, un gesto gentile, una parola buona o le
risate dei bambini in giardino e tutto passava e veniva seppellito in
una parte remota del suo cuore.
Il
bimbo in arrivo aveva guadagnato in poco tempo un sacco di
soprannomi: Lord Falmouth lo chiamava 'piccolo gigante Golia', Lady
Alexandra 'Bijoux' mentre Jeremy e Clowance lo avevano preso a
chiamare 'Garrick'. E alla fine, esasperata, aveva implorato Hugh di
scegliere un nome maschile e uno femminile definitivo, con cui
chiamare quel povero piccolo che aspettava. Credeva che lui avrebbe
proposto nomi antichi di famiglia e grande fu la sua sorpresa quando
Hugh le aveva confessato di volere per suo figlio un nome che
iniziasse con la lettera D, come il suo... Si era commossa, aveva
temuto che la famiglia di Hugh si offendesse ma quando lui l'aveva
rassicurata sul fatto che il secondo e terzo nome del bambino sarebbe
stato attinto dall'albero genealogico dei Boscawen, aveva
acconsentito alla richiesta dolce di Hugh. E così avevano
scelto due
nomi semplici, brevi, dal suono gentile: Demian nel caso il bambino
fosse stato maschio, Daisy nel caso fosse stata una femmina.
La
gravidanza si era rivelata pesantissima, il suo pancione immenso e il
bambino aveva iniziato a muoversi presto e si era dimostrato da
subito vivace più dei suoi fratelli maggiori. Si muoveva
sempre, non
c'era sosta, tirava calci che le facevano mancare il fiato e spesso a
causa di ciò aveva passato lunghe notti in bianco. Non
vedeva l'ora
che nascesse per vedere che faccia da pestifero/a avesse... Lo
adorava, ma era decisamente stanca di essere incinta e di sentirsi
come un elefante.
Hugh
le diceva che era bellissima – e non gli credeva –
Lord Falmouth
aveva assunto un infermiere a domicilio per ogni evenienza e anche se
Dwight era e rimaneva il suo medico, ogni giorno doveva rendere conto
delle sue condizioni anche a questo nuovo e sconosciuto medico.
Lady
Alexandra aveva comprato e fatto fare montagne di vestitini per il
piccolo e le aveva comprato anche uno strano trabicolo chiamato
'carrozzina' con cui portare in giro il neonato senza stancarsi di
averlo in braccio e, anche se preferiva tenere i suoi figli accanto,
aveva dovuto ringraziare per quel regalo che forse le sarebbe tornato
utile nei giorni di maggiore stanchezza.
E
così era arrivato il 20 dicembre, con lei che aveva un
pancione
immenso, due settimane ancora di gravidanza da vivere e un ballo di
Natale a casa del Conte Spencer a cui aveva deciso di non mancare,
nonostante tutto. Si sentiva da sempre inadatta fra i nobili, odiava
farsi vedere incinta, avrebbe preferito rimanere a casa col suo
pancione e la sua stanchezza ma aveva buone ragioni per andarci,
stavolta. Lord Falmouth era contento del fatto che partecipasse con
Hugh a quel ballo, Lady Alexandra era elettrizzata dal doverle
preparare un abito nuovo per l'occasione e lei si era fatta dare da
sua suocera la piantina del grande salone da ballo degli Spencer da
studiare attentamente. Aveva in mente un piano...
"Dove
hai preso quella mappa?" - chiese Hugh, osservandola mentre
studiava il da farsi seduta sul letto.
"Me
l'ha data tua madre".
"Perché?
E soprattutto, che posto è?".
Demelza
sorrise. "E' il salone da ballo del Conte Spencer, quello che ci
ha invitato alla festa di Natale a cui andremo stasera".
Hugh
la guardò storto. "Il ballo dove non volevo andare e a cui
tu
mi hai costretto?".
"Proprio
quello...".
Suo
marito le si sedette accanto, facendosi aiutare ad annodare la
cravatta. "Hai sempre cercato di sfuggire a queste cose. Come
mai oggi...?".
Lei
sorrise, si inumidì le labbra con la lingua e
ripiegò la cartina.
"Ci saranno, fra gli ospiti, Margarita e il giovane Duca Edward
Cavendish".
"E
allora?".
"E
allora Edward Cavendish è il ragazzo di cui è
innamorata da sempre
Margarita. Abbiamo una missione, dobbiamo organizzare un incontro
'casuale' fra loro".
Hugh
rise, le scompigliò i capelli e scosse la testa. "Vi siete
iscritte al corso di tiro con l'arco per organizzare un incontro
casuale con lui. E non ha mai funzionato".
"Appunto!
Ma stasera sarà diverso, saranno entrambi sicuramente
presenti ed è
un ambiente chiuso. Non possono sfuggirsi...".
Hugh
si grattò il mento, pensieroso. "Amore? Perché
dovremmo
aiutarli?".
"Perché
da soli non ce la fanno, sono timidi".
"Io
ti ho conquistata senza aiuti!" - obiettò Hugh.
"Tu
sei tu, loro sono loro! E li aiuteremo, fine del discorso e delle
lamentele" – disse, perentoria.
E
Hugh capì che non c'era margine di trattativa. "Sei molto
incinta... Sei sicura di riuscire a farcela a sopportare un ballo?
Mancano solo due settimane al parto...".
Demelza
si toccò il pancione, sospirando. In effetti era esausta ma
doveva
resistere, almeno per quella sera, anche se aveva l'impressione che
il bimbo sarebbe nato un pò prima del termine. "Ci saranno
Dwight e Caroline con noi. Se succederà qualcosa,
avrò il mio
medico del cuore vicino...".
Hugh
spalancò gli occhi. "Hai coinvolto anche loro in questa
storia?".
"Ovviamente!".
Lui
la guardò e scoppiò a ridere. "Ti stai
divertendo?".
Gli
fece la linguaccia, rilassata e incredibilmente felice. Si sentiva
leggera, Hugh stava bene, i bambini anche, era circondata da amore,
stava facendo una cosa che amava e presto sarebbe diventata
nuovamente mamma, senza ansie e pensieri. "Da morire. Mi
aiuterai?" - chiese, baciandolo brevemente sulle labbra.
"Ovvio,
anche perché non ho scelta...".
Lei
annuì, soddisfatta. "Tuo zio ne sarà contento!
Adora quando
coltiviamo le...".
"Relazioni
sociali...?" - concluse lui.
"Esatto,
quelle! E Margarita forse avrà un fidanzato entro domani".
"Sembra
tutto perfetto, socia...".
"Assolutamente,
socio" – concluse lei, stringendogli scherzosamente la mano.
...
La
festa era bellissima, piena di cibo meraviglioso, gente elegante e
con un'orchestra che suonava musiche natalizie in modo divino.
C'erano molti nobili che aveva imparato a conoscere in quei mesi,
tutti si dimostrarono gentili e l'unica pecca era che, quando una
donna era incinta, l'attrazione principale di un evento era il
pancione. Tutti lo guardavano, tutti lo accarezzavano, tutti facevano
mille domande...
Ecco,
era uno dei motivi per cui odiava essere incinta, quello...
Ma
quella sera doveva stringere i denti, essere gentile, sopportare,
essere una perfetta Lady Armitage e futura mamma di un Boscawen e
portare a termine il suo piano.
Dwight,
assieme a Caroline che col suo pancione molto più ridotto
era
destinata ad essere al centro dell'attenzione come lei, dopo cena si
erano messi a chiacchierare vicino al tavolo dei vini osservando di
nascosto le mosse di Edward e Margarita mentre lei decideva il da
farsi.
Demelza
passeggiò con
Hugh nella sala, spiò la posizione di porte e vie di fuga, si
guardò attorno guardinga osservando la scena attorno
a lei, la
posizione degli invitati al ballo e la balconata dove si era
rifugiato il giovane erede dei duchi di Cavendish dopo
il dolce. Poi,
dopo aver visto che Lady Margarita si
era rifugiata in un angolo buio della sala
con lo sguardo perso di chi sa di essere goffa e di non aver ancora
imparato né a ballare né a fare l'inchino
correttamente, prese Hugh
per la giacca, attirandolo vicino. “Vai da Edward sul balcone
e
bloccalo lì. Io cercherò di portarci, con una
scusa, Margarita”.
Hugh
annuì, divertito. “Sembra di essere delle spie che
stanno ideando
un piano segreto. Mi piace, non avrei mai creduto che un ballo
potesse essere tanto divertente. In
fondo hai avuto un'ottima idea ad ideare questo piano”.
Demelza
ci pensò su e
poi annuì, soddisfatta.
“Siamo spie, in un certo senso. Lady Margarita è
una delle mie
migliori amiche di Londra, assieme a Caroline, ma rispetto a Caroline
è goffa e se la lasciamo fare da sola, rimarrà
tutta la vita ad
aspettare che Edward Cavendish, imbranato quanto lei, si dichiari.
Lei ne è innamorata, lui pure, inizia a balbettare appena la
vede e
noi, da amici, dobbiamo cercare di fare qualcosa. Subito, sono troppo
incinta per tentare al ballo post-natalizio
dal principe del Sussex di
settimana prossima...”.
“Che
gli dico?”.
Demelza
sbuffò. “Cerca una scusa, intavola un discorso.
Sei un poeta, no?
Parlagli di arte!”.
Hugh
annuì, ingurgitò il bicchiere di champagne che
aveva in mano e,
mentre Caroline e Dwight li osservavano divertiti da lontano,
andò
sulla balconata.
Demelza
scosse la testa, strizzò l'occhio a Caroline e a uno
smarrito Dwight
e poi si diresse da Margarita. “Non ti senti bene?”
- chiese,
appena l'ebbe davanti. La
ragazza, col
suo grazioso vestito rosso,
si era rifugiata smarrita in un angolo buio della sala, con lo
sguardo basso di chi vuole solo scappare. Non era cambiata, rispetto
a quando l'aveva conosciuta due anni prima...
Margarita
abbassò il viso, stringendo fra le mani il bouquet di
roselline che
aveva portato con se. “Vorrei ballare ma non me lo chiede
nessuno.
La mia fama di pessima ballerina ha raggiunto ogni angolo di
Londra...”.
Demelza
le fece un sorriso malizioso. “Vorresti un ballerino in
particolare
o ti va bene chiunque...? Posso prestarti Hugh, se ti va”.
Margarita
ridacchiò. “Smettila di prendermi in giro, sai chi
vorrei! Ma non
gli piaccio, è persino sparito chissà dove per
non incontrarmi.
Appena mi vede gira la faccia, balbetta e scappa via...”.
Demelza,
dolcemente, la prese sotto braccio. “Sai, gli uomini che
fanno così
non disprezzano. Sono solo timidi e impacciati...”.
“Grazie
Demelza, sei gentile. Ma non gli piaccio, non piaccio a nessuno io!
Mia madre dice che sono goffa e che la mia bellezza ne è
offuscata,
lo sai bene
anche tu. Dice
che persino Clowance sa fare l'inchino meglio di me ormai. E la tua
bambina ha solo tre anni, figurati!”.
Demelza
sospirò, che doveva dirle? In effetti era vero, Clowance era
una
lady già più aggraziata di Margarita, ma non
era quello il punto...
“Sei bella, hai dei meravigliosi capelli color miele, gli
occhi
azzurri e un viso fresco e simpatico. Hai le lentiggini, agli uomini
piacciono, sai? E sei gentile e semplice, non sei vanitosa e hai
sempre una parola gentile per tutti. Poi... sei una lontana nipote
dei nostri sovrani, nessuno oserebbe mai dire che non sei
interessante... Nemmeno Edward”.
Margarita
sospirò. “Magari fosse
così...”.
“E'
così!”. Bene, era ora di passare al piano d'azione
prima che Hugh
finisse gli argomenti di conversazione ed Edward sparisse di nuovo.
“Senti, mi accompagni sulla balconata? Sai, con la gravidanza
ho
sempre caldo e qui dentro si soffoca, ho bisogno d'aria”.
Margarita
le guardò il pancione. “E' immenso, quanto
manca?”.
“Due
settimane! Mi sembra di aspettare un vitello, non un bambino”.
Margarita
rise, prendendola sotto braccio. “Vieni, andiamo fuori, tanto
vedo
che nemmeno Hugh è nei paraggi e tu, con quella pancia, non
credo
riusciresti comunque a ballare”.
Sospirò.
Margarita era una cara ragazza ma a volte fin troppo sincera. Si
sentiva già di suo una balena e sentirselo ribadire...
Raggiunsero
la balconata zigzagando le coppie che danzavano con una leggiadria
che Demelza non riusciva a non invidiar loro. E appena giunte, come
in un tacito accordo, lei e suo marito iniziarono la loro
messinscena. “Amore, sei qui?” - disse Demelza,
allegra, mentre
sentiva Margarita che si irrigidiva appena ebbe notato la presenza di
Edward.
Hugh
le corse vicino. “Demelza, tesoro... Ero uscito a prendere
una
boccata d'aria e mi sono fermato a parlare con il giovane Lord
Cavendish di poesia. Sai che adora Shakespeare?”.
“Oh...
bene! Io invece sono uscita per riprendere fiato, la dentro si muore
di caldo. Margarita è stata tanto gentile da accompagnarmi,
viste le
mie dimensioni...” - concluse, spingendo la ragazza davanti a
lei,
a tu per tu con Edward che divenne di mille colori in viso.
Hugh
si mise fra i due, poggiando loro una mano sulle spalle e spingendoli
ancora più vicino, a tu per tu. “Avete la stessa
età, forse
preferirete parlare fra voi di poeti e scrittori, giusto? Senza
futuri padri e future madri col pancione ad offuscare i vostri
discorsi... Forse
io dovrei cercare un posto tranquillo dove portare Demelza, è
stanca. Ti va
un giro al parco, amore?”.
Demelza
si toccò il ventre, colta da un'improvvisa fitta che la fece
impallidire e le fece mancare il fiato. No,
noooo, non ora!!! Quel dolore la fece vacillare... “Non
ne sono sicura...”.
Hugh
si accigliò, poi le corse vicino. “Demelza, tutto
bene?”.
Anche
Margarita ed Edward le si avvicinarono, preoccupati.
“Demelza?”.
Inspirò
profondamente, accarezzandosi il pancione. “Sto bene, devo
solo
sedermi un po'...” - ammise, aggrappandosi al braccio di
Hugh. Voi
restate qui a chiacchierare, torno subito...
Margarita
e il suo giovane spasimante si guardarono imbarazzati e Hugh ne
approfittò per prendere Demelza sotto braccio e portarla
via. “Ahah,
la mossa dei dolori alla pancia è stata fantastica per
sviarsela e
lasciarli soli!” - esclamò, appena
furono abbastanza lontani dai due ragazzini.
Demelza
lo guardò storto. “Non era
preventivata...”.
“Ma
ha funzionato!”.
Lei
si bloccò, aggrappandosi al suo braccio e dandogli un
pizzicotto.
“Hugh... Non stavo scherzando... Chiama Dwight per
favore...”.
Lui
impallidì. “Demelza...”.
Si
morse il braccio, o suo marito si sbrigava o lo avrebbe preso a
morsi. “CHIAMA-DWIGHT!” - ordinò, mentre
un'altra fitta le
faceva mancare il fiato.
Hugh
indietreggiò, pareva sull'orlo di uno svenimento.
“Stai dicendo
che... che...”.
“HUGH!!!”.
“Ma
mancano due settimane!”.
“Spiegalo
a tuo figlio!”.
“Ma...”.
Alzò
gli occhi al cielo! Giuda, gli uomini erano quanto di più
inutile
esistesse al mondo, quando le donne partorivano. “Va! O
chiami
Dwight e una carrozza o ti giuro che tuo figlio te lo partorisco qui,
in mezzo al salone, al centro della sala da ballo!”.
Hugh
non se lo fece ripetere. Annuì, pallido come un cencio. Poi
corse
via, alla ricerca di Dwight.
Il
medico, con Caroline, fu subito da lei e appena la vide la prese
sottobraccio e la scortò fuori mentre tutti la osservavano
eccitati
facendo battute che lei, in quel momento, non riusciva a ritenere
divertenti. Santo cielo, si sarebbe seppellita sotto terra per la
vergogna! Non era da vera Lady iniziare il travaglio durante una
festa!
La
fecero salire in carrozza e si accasciò fra le braccia di
Hugh. I
dolori erano già fortissimi, il travaglio era partito
velocemente e
non aveva tempo di riprendere fiato fra una contrazione e l'altra.
Dwight
la guardò preoccupato, poi osservò Caroline.
“Amore, SEMBRA
doloroso ma...”.
Demelza
alzò lo sguardo, i suoi occhi facevano fiamme. “Al
diavolo, sta
zitto, fa malissimo GIUDA!!!”.
Caroline
si guardò la pancia, deglutì e poi
impallidì. “Credo di voler
andare a casa...”.
“Certo
amore, ti ci porto subito...” - rispose Dwight asciugandosi
il
sudore e prendendole la mano.
Hugh
fece per accarezzarle i capelli ma Demelza si scostò con un
gesto
stizzito. Faceva malissimo e non voleva essere toccata nemmeno per
una carezza. Le spiaceva essere brusca ma non ce la faceva davvero a
essere ragionevole ed accomodante... Respirò,
tentò di rilassarsi e
di riprendere possesso di se ma si rese conto che era impossibile.
Era un travaglio velocissimo e se non si sbrigavano, il bambino
sarebbe nato in carrozza.
Lasciarono
a casa Caroline, Dwight la salutò con un bacio e poi, a
tutta
velocità, si diressero verso la reggia dei Boscawen.
Dwight
la prese in braccio mentre Hugh, su richiesta di Demelza, corse in
casa a chiamare Prudie.
“Dwight...”
- pianse, accasciandosi contro il suo petto.
Dwight
la strinse a se mentre due domestiche giunte ad aprire il portone li
scortavano verso la camera da letto.
Il
dottore la mise sul materasso, ordinò alle domestiche di
accendere
il fuoco nel camino e quando Prudie fu arrivata con Hugh, le chiese
di aiutarla a spogliare Demelza.
Era
buio pesto, era tardissimo ma quel trambusto parve risvegliare ogni
abitante della casa.
“Hugh,
va a chiamare l'infermiere personale di Demelza, potrei aver bisogno
di aiuto” - ordinò Dwight, tornato nelle vesti
serie di medico.
Demelza,
a quelle parole, fu presa dal panico. Non voleva l'infermiere assunto
da Lord Falmouth, non voleva nessuno a parte Dwight e Prudie, come
sempre era stato... E ancora, per un attimo, schiacciata da dolori
potentissimi che non riusciva a controllare e che le facevano venire
voglia di urlare, si sentì circondata da un mondo estraneo.
Il parto
era qualcosa di violento, potente, qualcosa che rendeva inerme la
mente e la volontà di una donna che lo viveva e che metteva
a nudo
non solo il corpo ma anche tutti i suoi pensieri più
nascosti.
Strinse la mano di Prudie, cercando in lei la guida, il coraggio e
l'appiglio a qualcosa, a un luogo e a un passato pieno di ricordi che
avrebbe potuto aiutarla a calmarsi. “Voglio andare a
casa...” -
mormorò, confessò a lei e alla sua mente che
gridava in quel
momento un desiderio che mai, in condizioni normali, avrebbe espresso
ad alta voce.
A
quelle parole Prudie capì, le strinse la mano e Dwight si
oscurò in
volto, comprendendo anche lui cosa si nascondesse dietro di esse.
Hugh
invece per fortuna non capì o non volle farlo. Si
chinò su di lei,
baciandola sulla fronte. “Sei a casa, sei nella tua stanza
amore
mio...”.
Dwight
lo prese per il braccio. “I papà non sono ammessi,
ora qui sei di
troppo. Va, avverti tua madre e tuo zio che il bambino sta per
nascere e poi dai un occhio, nelle loro stanze, a Clowance e Jeremy.
Controlla che non si sveglino con questo trambusto”.
“Ma...”.
“Niente
ma, Hugh! Fuori, Demelza ha bisogno di gente esperta ora! Chiama
l'infermiere, per favore”.
Demelza
gli strinse la mano per dargli coraggio. Era spaventato, era ovvio,
lo era più di lei probabilmente. “Non voglio
l'infermiere, voglio
solo Dwight e Prudie. Vai dai bambini Hugh, ci vediamo dopo... Sta
tranquillo, andrà tutto bene”.
Lui
deglutì, annuì non troppo convinto e dopo averle
dato un bacio e
aver chiesto a Dwight di fare del suo meglio, uscì
incespicando
dall'emozione sui suoi passi.
Demelza
si accasciò contro il cuscino, lasciando che Prudie le
togliesse i
vestiti e la lasciasse solo con una sottoveste. “Non volevo
dirlo... Sono a casa...”.
“Shhh
ragazza, quando una partorisce dice sempre cose strane... Il dolore
fa straparlare”.
Demelza
le sorrise, nonostante i dolori. Prudie sapeva che non stava
straparlando ma era comunque capace di rassicurarla ed era quanto di
più prezioso avesse accanto a se in quel momento, assieme a
Dwight.
Il
medico la visitò, era preoccupato ed accigliato come spesso
era
accaduto durante quella gravidanza, anche se non ne aveva mai
spiegato il motivo. “Demelza, il travaglio è
velocissimo, quando
senti di dover spingere, fallo pure”.
E
lei lo fece. I dolori divennero lancinanti, urlò forte come
non
aveva mai fatto con gli altri figli, pianse ogni sua lacrima e alla
fine, sorretta da Prudie, dopo uno sforzo immane, sentì il
corpicino
del suo bambino uscire da lei, scivolando verso la vita come fosse un
pesciolino.
Si
accasciò sul cuscino, esausta, sentendo quel pianto
liberatorio che
la rendeva di nuovo mamma.
“E'
una bambina...” - disse Dwight, avvolgendo la neonata in una
coperta.
Demelza,
con gli occhi annebbiati dalle lacrime, la guardò. Il
pancione era
talmente grande che si sarebbe aspettata una bimba gigante ed invece
sembrava più piccolina degli altri figli...
“Daisy...”.
E
dopo aver pronunciato quel nome, improvvisamente tornarono i dolori,
talmente forti da toglierle il fiato più di quanto non fosse
successo poco prima. Urlò, spaventata, schiacciata da quel
dolore
atroce che sembrava smembrarle il ventre. Che succedeva? CHE
SUCCEDEVA???
“Lo
immaginavo...”.
Sentì
solo quelle parole, dalla bocca di Dwight. Sentì in
lontananza che
la incitava a spingere ancora, le urla di Prudie, il pianto di Daisy,
una forte pressione sulla pancia e il sangue che fluiva dal suo
corpo. Poi un nuovo strappo doloroso, tutto divenne nero e opaco e
perse i sensi.
Il
mondo attorno a lei divenne ovattato e attutito, perse consistenza e
si sentì leggera, come se navigasse in una bolla d'aria
trasparente
lontana da tutto e tutti... Forse era morta, forse stava sognando,
forse stava impazzendo... Seppe solo che per un lungo istante fu
lontana da ogni cosa...
…
Fu
un forte profumo di rose a svegliarla, unito alla dolcezza delle dita
di Hugh che le accarezzavano il viso. Aprì gli occhi, a
fatica. Il
dolore era scomparso, era nella sua stanza e suo marito, Prudie e
Dwight erano accanto a lei con gli occhi lucidi.
Santo
cielo, era svenuta! Fu la prima cosa che realizzò! Che le
era
successo? E la bambina? La sua piccola bambina che aveva partorito? E
il dolore successivo?
Dov'era
la sua piccola? “Hugh...”.
Lui
si chinò, stringendola delicatamente a se. “Amore
mio, sei stata
bravissima ma ci hai davvero fatto spaventare. Sei svenuta e per
fortuna Dwight è un medico eccezionale e...”.
Non
le importava di se stessa, non era quello che voleva sapere ADESSO.
“Dov'è la mia bambina?” - lo interruppe.
Prudie
sorrise, guardò Dwight e si allontanarono insieme dal letto.
Poco
dopo il medico tornò, con un fagottino in braccio che le
mise a
fianco, avvolto in una copertina di lana rosa. “Eccola qui la
tua
piccola lady. Sana, perfetta e vivacissima. Non è ancora
stata ferma
un attimo”.
In
quel momento anche Prudie si avvicinò al letto, con un altro
fagottino fra le braccia. “Ed ecco anche il tuo piccolo
Lord” -
sussurrò, poggiandole accanto un altro bambino.
Demelza
spalancò gli occhi incredula, guardò i due
bambini e poi suo
marito, Dwight e Prudie. “Che significa? E questo bambino da
dove
spunta?” - chiese, stringendolo a se.
Dwight
rise, accarezzandole i capelli. “Diciamo che il tuo pancione
non
era dovuto a un bambino molto grosso ma a due piccoli monelli
pestiferi. Sei mamma di due gemellini, un maschio e una femmina.
Sani, vivaci e non molto amanti della nanna, sembrerebbe...”.
A
bocca aperta abbassò lo sguardo sui suoi due piccoli.
Perfetti,
dalla pelle rosea, i lineamenti fini e con due splendidi occhioni
azzurri vivaci ed intelligenti. Bellissimi, coi loro capelli biondi
sottili e morbidi, il nasino all'insù e delle dolci manine
minuscole
che cercavano di afferrarle le dita. Santo cielo, li aveva davvero
fatti lei? “Gemelli?”.
Dwight
fece segno a Prudie di uscire con lui per lasciarla sola coi piccoli
e con Hugh. “Gemelli... E' raro ma può
succedere”.
“Tu
lo sapevi?”.
“Lo
sospettavo ma non ti ho detto nulla. Preferivo non farti preoccupare
inutilmente, non avendone la certezza. Congratulazioni ad entrambi,
è
davvero un miracolo quello che è successo alla vostra
vita” -
disse, conducendo Prudie fuori dalla porta. “Cerca di
riposare ora,
verrò domattina a farti una visita di controllo”.
Demelza
si accasciò sul cuscino, mettendosi sul petto il maschietto
e
stringendo la bimba in un abbraccio. “Gemelli... Demian... e
Daisy...”.
Hugh
sorrise. “Demian e Daisy... Due miracoli come dice Dwight,
non
potevo crederci! Ti amo, piccola fata! Hai reso possibile un sogno...
E amo Jeremy, Clowance e loro due...”.
Demelza
si sentì forte, euforica, piena di gioia. La paura di poco
prima
sparì e finalmente si sentì a casa. Il posto dove
erano nati i suoi
figli era CASA, ora lo era ufficialmente. Baciò i due
bambini sulla
punta del nasino, si perse nei loro visini e si sentì
ubriaca di
gioia. Ogni dolore era dimenticato, era mamma di nuovo.
Baciò Hugh
sulle labbra, felice, perdendosi nella morbidezza delle sue labbra e
nella gioia di averlo conosciuto e di essere arrivata grazie a lui a
quel dono che la vita le aveva fatto quando pensava che mai sarebbe
riuscita ad essere felice di nuovo. Poi il suo sguardo ricadde sul
comodino e rimase a bocca aperta. C'era un grande vaso di rose, un
fiore di certo non tipico di dicembre, ad ornarlo. Tantissime rose,
di tre colori diversi: rosse, rosa e blu... Sfiorò i
petali... “E
queste?”.
“Sono
il regalo mio e dei bambini per te. Io e Jeremy le abbiamo cercate a
lungo in tutti i fiorai di Londra, sappiamo quanto ami i fiori. Ho
persino chiesto ai fiorai di portarne dalle colonie, se qui non fosse
stato possibile trovarne”.
Il
suo cuore accelerò i battiti, era un regalo bellissimo e
dolce.
“Sono meravigliose! Tre colori, perché?”.
Hugh
osservò il vaso. “Rappresentano ciò che
provo per te. Le rose
rosse rappresentano l'amore per la donna che mi ha reso padre. E
quelle rosa e azzurre...”.
“Sì?”.
“Beh,
non sapevamo se il bimbo in arrivo sarebbe stato maschio o femmina,
così assieme a Jeremy ne ho ordinate alcune rosa e alcune
bianche
che ho fatto tingere di azzurro. Alla fine sono tutte adatte a noi e
alla nostra storia, visto che i bimbi sono due: una piccola fatina e
un piccolo elfo”.
Demelza
rise a quelle parole, rannicchiandosi coi bambini fra le sue braccia.
“Gli elfi, a giudicare dai libri di fiabe che leggiamo a
Jeremy e
Clowance, sono esseri dispettosi...”.
Hugh
annuì, guardando i due piccoli ancora perfettamente svegli.
“E
questi due sembrano sapere già il fatto loro. Guarda che
faccini
furbi che hanno...”.
Demelza
li strinse a se. I suoi due bellissimi tesori, una delle sorprese
più
grandi che le avesse riservato la vita... “Li amo... Giuda,
nemmeno
immaginavo che fossero due, ne ho amato solo uno per nove mesi e
invece...”.
“E
invece ora ne ami due. L'amore è il mistero più
grande della vita e
ora che sono padre ne comprendo ancora di più l'enorme
potere”.
Hugh
li strinse a se e a lungo rimasero in silenzio, osservando i due
gemellini fra le loro braccia. “Domani Jeremy e Clowance
impazziranno di gioia quando li vedranno”.
“Anche
tua madre e tuo zio...”.
Hugh
scoppiò a ridere. “Loro lo sanno già!
Ho dovuto impormi per
lasciarti tranquilla altrimenti avrebbero fatto già
irruzione qui.
Credo siano ormai molto ubriachi, stanno festeggiando la doppia
nascita praticamente con chiunque incontrino della servitù.
Mio zio
dice che i gemelli conquisteranno definitivamente l'Inghilterra e la
Scozia!”.
Baciò
i suoi due piccolini sulla fronte. La piccola sembrava tranquilla al
suo fianco ma se la si stringeva troppo pareva lamentarsi, il maschio
invece si era rannicchiato sul suo petto e si lamentava se qualcuno
cercava di allontanarlo.
“Sei
stanca amore mio?”.
“Un
po'...”.
“Posso
lasciarti sola allora? Vado a controllare mio zio e mia madre e a
riferirgli che stai bene”.
Demelza
annuì. Stava bene con lui vicino ma voleva godersi anche i
primi
momenti da mamma da sola, coi due bambini. Voleva conoscerli, voleva
sentire il loro profumo, studiare il loro viso, imprimersi nella
mente ogni particolare. “Va pure, ti aspetteremo
qui...”.
Hugh
la baciò sulla fronte. “Non metterli troppo
vicini. Prima, mentre
eri senza sensi, ho provato a metterli nella culla insieme. Daisy
è
diventata una jena appena le abbiamo messo accanto suo fratello,
voleva la culla solo per se. Credo sia stanca di averlo accanto, dopo
nove mesi insieme. Lui invece piangeva a starci da solo, nella
culla... Sembrano saper già cosa vogliono...”.
Demelza
scoppiò a ridere. “Piccoli elfi, è?
Temo tu ci abbia
azzeccato...”.
Anche
Hugh rise e dopo averle dato un'altra carezza, uscì dalla
stanza. E
Demelza si rannicchiò al caldo, sotto le coperte, respirando
il
profumo e la presenza dei suoi figli, stringendoli a se. Demian, il
suo piccolino, si era rannicchiato forte contro il suo petto e con
gli occhietti aperti la scrutava incuriosito. Daisy, avvolta nella
copertina, muoveva le gambette e si succhiava il pollice, persa in
chissà quali pensieri.
Li
baciò e sentì di amarli già
immensamente. Come Clowance e Jeremy.
Era stata male, aveva creduto di morire ma ora era qui, circondata da
una famiglia felice, con un marito e quattro bambini da amare e che
la amavano... Nampara faceva davvero parte del suo passato ora,
assieme ai ricordi tristissimi della solitaria nascita di Clowance,
venuta al mondo senza una famiglia attorno, in un clima disperato,
senza padre e senza certezza alcuna per il domani.
Era
davvero cambiato tutto, adesso...
Tentò
di allattarli e dopo vari tentativi, ci riuscì. Daisy si
stancò
subito ma Demian parve gradire tanto che, alla fine, si
appisolò
contro il suo seno. E Demelza, coi piccoli, si appisolò a
sua volta,
cercando un po' di riposo.
E
dormì alcuni minuti, finché la porta non si
aprì ed entrò Prudie.
La
serva, mandata da Dwight a darle un occhio,
entrò con passo felpato per
controllare come andassero le cose,
avvicinandosi al letto ed
osservando i bambini.
“Ci ho
pensato e... Questa
cosa non è normale...”.
“Cosa?”
- chiese Demelza strofinandosi
gli occhi, non
capendo a cosa
alludesse.
Prudie
scosse il capo. “Signora, da una pancia nasce un bambino! Non
due!
Mai vista una cosa del genere!”.
Demelza
sorrise, accarezzando dolcemente la guancia del piccolo Demian che,
già sveglio
ed incapace di
stare fermo, giocava con la copertina, muovendo le gambette. Avevano
entrambi la pelle chiarissima che faceva risaltare i loro
meravigliosi occhi azzurri, i capelli biondi e ancora radi e un
visino ancora
più perfetto e bello di poco prima.
“Sono gemelli, Prudie. Dwight dice che è raro ma
può capitare”.
Prudie
però non pareva convinta. “Sicura? Sicura che non
ci sia lo
zampino del demonio in questa cosa?”.
“PRUDIE!”.
La
donna non si fece scoraggiare dalle sue occhiatacce.
“Signora,
hanno la faccia da angioletti eppure secondo me questi due ci stanno
fregando. Dietro a faccini del genere si nascondono calamità
nascoste...”.
Demelza
la guardò storto, sbuffando. Nonostante
tutto era divertita quando Prudie faceva così, esibendo quel
suo
modo burbero che nascondeva un grande cuore.
“Sono normalissimi bambini, nati da un uomo e una donna. Il
demonio
non c'entra, te lo assicuro! Sono solo dicerie e
superstizioni”.
“Non
ho mai visto gemelli!”.
“Nemmeno
io, fino ad
oggi”.
Prudie
si avvicinò al letto, toccando la mano di uno dei due
bambini.
“Questo chi sarebbe? Il maschio?”.
“No,
lei è Daisy Alexandra Charlotte” - disse,
elencando anche il secondo e terzo nome scelto con Hugh nei mesi
precedenti.
“Giuda!
La dobbiamo chiamare con tutti questi nomi?”.
Demelza
rise. “No, sarà solo Daisy ovviamente. E Demian
Philippe Luis sarà
solo Demian”.
Prudie
guardò la neonata, studiandola attentamente e guardandola in
cagnesco. “Come fai a sapere che è la femmina?
Sono uguali,
avvolti nella
coperta”.
Demelza
alzò le spalle. “Sono la loro madre, li
riconoscerei anche al
buio”.
La
donna sbuffò, prendendo la bambina in braccio con un gesto
brusco e
Demelza non fece in tempo a dirle di fare piano che la piccola le
aveva già rigurgitato del latte sul vestito.
Prudie
ringhiò. “Lo vedi? Questa qua fa già
disastri! Vedi che non c'è
da fidarsi di questi due, ragazza?”.
Sospirò,
allungando le braccia per riprendere la sua bambina. “Prudie,
ha
appena mangiato ed è nata da poche ore,
non agitarla troppo,
altrimenti...”
- concluse, indicando la chiazza di latte sul petto della sua serva.
Prudie
osservò ancora più di sbieco i bambini.
“No ragazza, a me questi
due non la contano giusta! Questi ci metteranno a ferro e fuoco la
casa! Londra! L'Inghilterra! Oltre
alla Scozia... Ricorda
queste parole quando li vedrai portare in riformatorio!”.
“Prudie...”
- la implorò.
La
donna osservò Demian. “Quello si vede che
è maschio!”.
“Da
cosa lo vedi?”.
“Come
tutti i maschi, per tenerlo buono basta metterlo fra le braccia di
una donna col viso contro il suo seno... Si
azzittiscono subito!”.
Demelza
sospirò, le prese la mano e sorrise. “Grazie...
Senza di te sarei
persa... Sarei stata persa... Ti prenderai cura dei gemelli? Gli
vorrai bene come ne vuoi a Jeremy e Clowance?”.
Prudie
le diede un buffetto sulla guancia,
decidendo di
andare per farla riposare.
“Oh, gli vorremo bene a questi due, certo! Come a master
Jeremy e
miss Clowance. Li
raddrizzerò io questi due!
Ma posso tenermi le mie riserve per ora? Posso non fidarmi?”.
Demelza
sorrise, stringendo a se i due piccoli. “Certo, come no? Ma
vedrai
che ti sbagli...”.
“Vedremo...”
- rispose Prudie, sparendo dietro alla porta.
Demelza
si gettò sul letto, stringendo Demian sul suo petto e
abbracciando
Daisy. “E' scorbutica ma una brava persona. E' come se fosse
la mia
mamma... Non datele retta, io e papà lo sappiamo che siete
bravi
bambini! Vedrete che lo capirà anche lei”.
Daisy
si stropicciò gli occhi, rannicchiandosi sotto la copertina,
Demian
sbadigliò stringendo la sua camicia da notte con la manina,
ribadendo silenziosamente che lui dal suo petto non si sarebbe
spostato e che non ammetteva repliche.
E
Demelza si rese conto che ora tutto il suo passato doveva davvero
essere lasciato alle spalle e che la sua casa e il suo futuro
sarebbero stati per sempre lì, a Londra.
Quella
era la sua casa, adesso e per sempre!
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitre ***
Quella
Vigilia di Natale furono i gemelli a salvarla dal dover partecipare a
una grande festa. I bambini erano troppo piccoli per essere lasciati
soli a lungo, lei era ancora reduce dalle fatiche del parto, si stava
abituando a quella nuova vita con due figli in più e con
Hugh erano
riusciti così a spuntarla con la voglia di un grande
ricevimento di Lord Falmouth, organizzando una piccola cena in famiglia
e fra amici
con presenti solo Caroline e il suo pancione, Dwight, Margarita e
all'ultimo un amico/nemico dello stesso Falmouth, un tal Lord Bassett
che era arrivato in visita con la moglie e la figlia Emily, una
coetanea di Clowance.
Come
aveva sognato Margarita fin da bambina, avevano passato la serata
bevendo cioccolata calda davanti al calore del camino, raccontandosi
storie dell'orrore che, invece che spaventare i piccoli di casa,
avevano finito per farli ridere, Lord Bassett e Lord Falmouth si
erano stuzzicati con strani anedotti circa la camera dei Lords che
nessuno a parte loro aveva capito e i bambini erano stati sommersi
di regali, avevano giocato assieme attorno all'albero, Lady Alexandra
aveva allietato la serata suonando l'arpa, i due Lords e i poveri
Hugh e Dwight, praticamente costretti, avevano discusso di politica e
povertà bevendo wisky davanti al camino e lei aveva
chiacchierato
con le altre donne di maternità e neonati, rispondendo alle
mille
domande della moglie di Lord Bassett sul mondo dei gemelli. Non che
ne sapesse molto, erano nati da soli quattro giorni, ma sembravano
destare grande curiosità nelle altre donne.
Daisy
dormiva nella carrozzina, a braccia aperte, serafica e incurante del
chiasso attorno a lei. Era una bambina dal carattere deciso,
nonostante avesse il viso di un angioletto biondo. Soffriva di tanto
in tanto di coliche, piangeva spesso, ma non amava stare in braccio.
Ci stava solo se aveva male alla pancia o se era sveglia, ma quando
voleva dormire voleva uno spazio solo per se. La culla e la
carrozzina erano sua esclusiva proprietà e suo fratello non
vi era
ammesso.
Demian
invece era un tesorino che amava sempre stare in braccio, che le
afferrava i capelli o la stoffa del vestito per non perdere il
contatto con lei, che la cercava sempre e che piangeva se non l'aveva
vicina al momento di dormire. Voleva solo lei e in braccio a Hugh,
Jeremy o Clowance ci stava poco. Poi iniziava a cercarla, a piangere
disperatamente e smetteva solo quando lei lo stringeva nuovamente fra
le sue braccia. Lady Alexandra desiderava comprare una seconda
carrozzina visto che i bambini erano due ma l'istinto materno di
Demelza le suggeriva che per Demian sarebbe stata inutile. Non ci
sarebbe stato, avrebbe pianto come un matto e quindi aveva convinto
sua suocera a spendere quel denaro in altro modo, donandolo in
beneficenza.
Essere
mamma e essere parte della famiglia Boscawen aveva indubbiamente
molti vantaggi: era aiutata, c'era sempre qualcuno pronto ad
alleggerirle il peso di dover gestire due neonati, disponeva di ogni
comodità per se e per i bambini, cibo di prima scelta,
servitori
assunti unicamente per far star bene lei e i suoi figli e questo era
fantastico ma...
Ma
era troppo...
Lei
non era una da tate o carrozzine, lei era nata in un posto dove le
mamme partorivano in campagna figli che tenevano in braccio mentre
lavoravano nei campi, che si alzavano dal letto poche ore dopo aver
partorito e che lottavano per mettere insieme un pò di cibo
per i
propri bambini. Certo, era comodo essere tanto seguita e coccolata da
tutti, ma le sembrava davvero un enorme spreco di persone e denaro
tutto ciò che la circondava. Se era stanca c'era subito una
servitrice che si proponeva di tenerle i bimbi mentre dormiva e dopo
una notte in cui Daisy aveva strillato per ore aveva ceduto, ma poi
al risveglio, senza i suoi bambini accanto nel letto, si era sentita
persa e aveva deciso che da lì in poi avrebbe fatto sempre
da sola.
I
gemelli erano creature strane, misteriose ed affascinanti. E forse un
pò magiche, come diceva Prudie, per quella strana ed
evidente
capacità che avevano di sapere sempre tutto l'uno dell'altro
anche
ora che non erano più insieme nella pancia. Si somigliavano
molto
fisicamente ma avevano modi di fare diversi nonostante la fortissima
alchimia fra loro, che si percepiva a pelle. Daisy non voleva accanto
Demian quando dormiva ma quando erano entrambi svegli, sembravano
collegati da un filo invisibile. Se li metteva vicino si cercavano
con le manine, si toccavano, si annusavano, si abbracciavano forte,
come sapendo meglio di tutti il grande legame che li univa... E se
uno dei due piangeva per un malessere, l'altro sembrava agitarsi
anche se era magari in un'altra stanza. Era come se una mano
invisibile li collegasse sempre, facendoli sentire uniti e vicini
come lo erano stati per nove mesi e come forse sarebbero stati
sempre.
Era
una Vigilia di Natale serena, felice, intima ed allietata dall'arrivo
anticipato dei due neonati e dalla gioia che avevano portato con se.
Demelza
era stata ricoperta di regali da Hugh e dalla sua famiglia, Jeremy e
Clowance le avevano fatto un biglietto di auguri ancora più
elaborato e bello dell'anno precedente corredato dei loro disegi sui
fratellini nuovi e la casa era un tripudio di luci e festoni.
Un
Natale così intimo, circondata da chi amava e tanto diverso
da
quelli che aveva vissuto da piccola in Cornovaglia con un padre
ubriaco prima e un marito assente poi...
“Adoro
il tuo ciondolo!” – esclamò Caroline,
osservando la preziosa
collana adornata con un diamante che Demelza aveva al collo.
“Arriva
dalle colonie? E' un gioiello splendido” – chiese
Lady Bassett.
“Non
ne ho idea”. Demelza sospirò, sfiorando il
gioiello e pensando
alla sorpresa avuta ricevendo quel regalo da sua suocera e Lord
Bassett tre giorni prima, quando erano andati a farle visita per
conoscere i gemelli. “E’ un regalo per la nascita
dei bambini. Mi
sembra tanto strano venir premiata per aver messo al mondo dei figli,
ma a quanto pare funziona così quì, a
Londra”. Era strano, non
capiva come la nascita di un figlio, un avvenimento assolutamente
naturale nel corso della vita, potesse venir premiato con un regalo
tanto prezioso il cui valore, quando viveva in Cornovaglia, avrebbe
addirittura potuto aiutare tutti i minatori del distretto di Truro a
passare un Natale sereno, ma ai Boscawen farle quel dono era sembrata
una cosa assolutamente dovuta e necessaria. Naturale... Non che non
le facesse piacere ma non riusciva ad abituarsi a quel mondo e a
quelle abitudini che doveva far sue, prima o poi.
Caroline
rise. “Quando una donna partorisce, un regalo E’
DOVUTO!” –
esclamò, facendo attenzione a farsi sentire da Dwight.
Demelza,
Margarita e Lady Bassett risero, Dwight sbuffò, Hugh le
diede
un’occhiata d’intesa dal divano e Daisy si
agitò nella
carrozzina.
“Si
sta svegliando, temo…” –
osservò lady Bassett.
Demelza
annuì, ormai conosceva bene orari e abitudini dei gemelli.
“La
sera piange sempre un po’, le viene mal di pancia”.
“Che
incubo…” – sbuffò Caroline.
“E l’altro… te lo tieni
sempre in braccio? Da quando è nato ce l’hai
sempre addosso”.
Demelza
strinse a se il piccolo Demian. “Adora il contatto fisico,
è
piccolo ed è nato con due settimane di anticipo. Ha bisogno
della
mamma e io amo sentirlo vicino…” –
sussurrò, baciando la
testolina del figlio.
"La
femmina può fare a meno di te, direi... Ama la sua
carrozzina più
di te!" - osservò l'ereditiera.
"Ogni
bambino è diverso, anche i gemelli" – le rispose,
dando
un'occhiata alla piccola.
Caroline
scoppiò a ridere. “Abbiamo capito chi è
il cocco di mamma, dei
quattro! Lo vizierai così…”.
Demelza
sospirò, era inutile cercare di ribattere e presto Caroline
avrebbe
capito da sola che coi figli bisognava improvvisare man mano che si
conosceva il loro carattere.
Margarita
osservò Daisy che iniziava ad agitarsi.
“E’ così carina! Anche
io voglio fare tanti bambini”.
Demelza
si accigliò, guardò Caroline con sguardo di
intesa e poi di nuovo
Margarita. In effetti, nella concitazione del travaglio, si era
dimenticata di lei ed Edward e non aveva più pensato ai
possibili
esiti del suo perfetto piano di wedding planner al ricevimento di
quattro sere prima. “A proposito…
Com’è andata poi con
Edward?.
Gli
occhi di Margarita scintillarono. “Ohhhh Demelza,
è stato così
bello chiacchierare con lui che non mi sono accorta dello scorrere
del tempo e del fatto che te n’eri andata perché
stavi male.
Scuuusaaaa!!! Sono una amica pessima”.
“Ah,
lascia perdere me e il mio parto e racconta!”.
“Lo
rivedrò dopo Capodanno! Mi ha invitato a un ricevimento a
casa dei
suoi genitori nella loro tenuta di campagna”.
“Lo
hai baciato?” – chiese Caroline, maliziosamente.
Margarita
arrossì. “Baciato? Ohhh no, non così
presto! Bisogna aspettare i
tempi giusti…”.
Demelza
la guardò, era così impacciata ancora,
così poco decisa e tanto
infantile che le faceva tenerezza. Sospirò…
“Margarita,
aspettare i tempi giusti? Santo cielo, ti ho conosciuta due anni fa e
già eri innamorata di Edward mentre io nemmeno ci pensavo a
un nuovo
amore e a un matrimonio! Com’è che in due anni io
ho conosciuto
Hugh, l’ho sposato e ci ho fatto due gemelli e tu stai ancora
aspettando il momento giusto per baciarlo?”.
Margarita
sospirò e Caroline fece lo stesso. “Mia cara, tua
madre ha anche
un po’ ragione però…”.
“Lo
so…” – sospirò Margarita.
“Ma a breve lo farò, giuro!”.
Demelza
le sorrise, abbracciandola. “Ecco brava, inizia dal bacio e
poi,
MOLTO poi, pensa ad avere figli…”.
Caroline
le strizzò l’occhio. “Parte tutto da un
bacio” – disse,
accarezzandosi il pancione.
E
su quelle parole, Daisy, la conseguenza di un bacio e molto altro,
iniziò a strillare, attirando su di se le attenzioni di
tutti.
Demelza sospirò, prendendo in braccio anche lei.
“Le coliche, di
nuovo…”.
"Anche
la mia Emily ne soffriva, poi passano" – osservò
lady Bassett
accarezzando i capelli biondi della piccola che strillava come
un'ossessa, diventando completamente paonazza in viso.
Hugh
le si avvicinò coi bambini, preoccupato. “Il
pancino?”.
Anche
Dwight arrivò, accarezzando la schiena della piccolina. "E
sì.
Bisogna avere pazienza, sono cose comuni nei neonati, col tempo si
sistemerà".
“Sì,
non mi preoccupo troppo ma mi spiace vederla piangere
così” –
rispose Demelza mentre anche Demian, svegliato dalla sorella,
iniziava a strillare. “Scusatemi tutti ma credo sia ora che
io mi
ritiri in camera coi bambini e vi lasci proseguire la festa senza i
loro strilli. E’ tardi per loro, li porto a letto e chiedo a
Prudie
di fare a Daisy una camomilla per calmarla”.
Jeremy
le si aggrappò alla gonna. “Ma mamma…
Noi vogliamo andare fuori
a giocare con la neve, vieni con noi”.
Gli
sorrise, accarezzandogli i capelli. “Amore, come faccio coi
gemelli? Lo vedi come piangono?”.
Fu
Clowance a trovare la soluzione. “Li regali a qualcuno e
vieni con
noi. Così non li sentiamo più, piangono
sempreeee”.
Hugh
e Demelza si guardarono divertiti negli occhi davanti a
quell’evidente esternazione di gelosia di Clowance.
“Tesoro,
nessuno vorrebbe bambini così piagnucoloni, dobbiamo
tenerceli,
temo… Tu e Jeremy uscite con papà e con gli altri
a giocare e io
vi aspetto tranquilla in camera”. Papà... Ogni
volta che definiva
in quel modo Hugh provava gioia per i suoi figli che avevano bisogno
di avere quella figura nella loro vita ma allo stesso tempo un groppo
alla gola per l'uomo che li aveva messi al mondo e invece di amarli e
proteggerli, li aveva gettati via e rinnegati come si fa con un panno
vecchio... Ma era Natale, era una festa e tutto andava bene, doveva
essere felice e basta! "Su forza, tutti fuori da quì".
“Sei
sicura?” – chiese Hugh. “Non vuoi che
resti con te?”.
Demelza
guardò gli ospiti e decise che no, lui doveva rimanere con
loro. Era
stanca, aveva bisogno di stendersi un po’ e per i gemelli era
troppo tardi e necessitavano di pace. Hugh era dolce, tentava sempre
di aiutarla coi bambini ma non era ancora capace – e forse
mai lo
sarebbe stato – di prendersi cura in maniera efficente di
loro e
non sarebbe comunque stato in grado di calmarli. Inoltre Lord
Falmouth pretendeva da lui che facesse gli onori di casa e ritirarsi
in camera con lei e i bambini mentre gli ospiti erano ancora
presenti... sarebbe stato poco onorevole... “Gioca coi
bambini,
godetevi la neve, i regali e il Natale e quando la festa è
finita,
venite a letto. Non preoccupatevi per me…”.
Hugh
annuì poco convinto ed entusiasta ma poi sorrise, prese i
bimbi in
braccio e dopo averle dato un bacio, uscì con gli ospiti in
giardino
per finire lì la serata.
E
Demelza, dopo aver salutato le sue tre amiche e aver augurato loro
buone feste, si ritirò nelle proprie stanze, imitata da una
stanchissima e assonnata Lady Alexandra che voleva darle una mano,
prima di dormire, a calmare i gemelli.
...
Hugh
rientrò dopo mezzanotte, con Jeremy e Clowance. I bimbi la
salutarono, le diedero un bacio e fecero una carezza ai gemellini e
alla fine lei li accompagnò a letto, lasciando i gemelli da
soli con
Hugh.
Quando
Clowance e Jeremy si furono addormentati, tornò in camera e
si sedette accanto a lui sul letto, mettendo i
piccoli fra
loro. Daisy
dopo infiniti pianti e un biberon pieno di camomilla si era
finalmente si
era calmata e ora, esausta, si ciucciava il dito alla ricerca di
tranquillità e sonno. Demian
già dormiva ma Demelza sapeva che si sarebbe svegliato
presto e
quindi lo prese subito in braccio, mettendoselo sul petto in modo che
proseguisse il suo sonno indisturbato.
Hugh,
ancora
preoccupato per il
pianto della figlia a cui non era abituato e
che ancora lo spaventava,
si mise a sedere con la schiena contro il cuscino. “Perdo
ogni volta vent'anni di vita, quando la sento piangere a quel modo”.
Demelza
sorrise, accarezzando il pancino della piccola. “Non devi
spaventarti, i neonati sono così, piangono spesso. E' il
loro modo
di comunicare qualcosa che non va o che desiderano. L'unico modo che
hanno visto che non sanno parlare”.
“E
lei che cos'ha che non va?”.
Gli
sorrise, era così apprensivo... Voleva fare mille cose per
loro ma
alla fine non ne portava a termine nessuna, non per cattiva
volontà
ma per inesperienza. “Aveva semplicemente male al pancino,
ora le
ho dato da bere della camomilla e le è passato. Niente di
grave,
succede spesso anche questo”.
Hugh
sospirò. “Sai, mentre eri incinta ho letto un
sacco di poesie
sulla maternità e sui neonati. Ed erano tutte
così dolci e
delicate, che quasi stento a credere che un bambino possa piangere
così. Insomma, nelle poesie che ho letto non si parlava di
mal di
pancia, pianti, coliche e notti insonni...”.
A
quelle parole, Demelza rise. “Hai letto poesie sulla
maternità
scritte da uomini o donne?”.
“Uomini”.
Gli
strizzò l'occhio. “Mio caro, avresti dovuto
leggere qualcosa
scritto da una donna, su questo argomento. Avresti
trovato una fonte di informazione più attendibile...”.
Hugh
arrossì, sentendosi forse un po' sciocco davanti a
quell'osservazione. Guardò la piccola Daisy che, finalmente,
si era
addormentata e poi la baciò sulla fronte. “Sei
felice di avere
avuto i gemelli?”.
Demelza
si accigliò, mai
le aveva posto quella domanda.
“Certo, peché
me lo chiedi?
Mi hanno preso
furiosamente a calci la pancia per quasi nove mesi, mi hanno fatta
sembrare una balena, mi hanno quasi uccisa nel parto ma... sono
i miei figli, li amo. Sono la mia vita” - concluse,
addolcendo lo sguardo.
“Non
eri contenta però, quando hai scoperto di essere
incinta”.
Lei
gli sorrise dolcemente, accarezzandogli la guancia. “Hugh, quando
ti ho conosciuto non
ero alla ricerca di un marito, di un matrimonio e di altri figli.
Quando ci
siamo incontrati per la prima volta, la
mia vita era a pezzi e non ero in grado di garantire un futuro ai
figli che avevo già. Ma poi sei arrivato tu, mi hai dato
nuovi
orizzonti, amore, mi hai rassicurata e mi hai dato una casa. Per me e
i miei figli. TUTTI i miei figli... Sei
il loro papà... Le
cose sono cambiate da quella
festa di Natale di due anni fa
e se questi bambini sono nati, è perché doveva
essere così. Non
mi sto a chiedere perché ci siano, i bambini bisogna
accoglierli con
amore e basta, senza chiedersi il motivo del loro arrivo. Sono
una benedizione, sempre”.
Hugh
le prese la mano, la guardò negli occhi e il suo sguardo si
fece
serio. “Dimmi una cosa”.
“Cosa?”.
“Mi
ami?”.
Demelza
si irrigidì, era
la prima volta che gli
chiedeva in maniera diretta anche questo.
Dire 'Ti amo', era qualcosa da sempre estremamente difficile per lei,
preferiva dimostrare i suoi sentimenti coi fatti piuttosto che con le
parole e anche ai tempi in cui viveva con Ross non era stata
tanto diversa.
Provava
sentimenti molto profondi per Hugh ma dubitava che avessero la stessa
intensità di quelli che lui provava per lei. Lo
amava? Il suo
cuore, dopo quanto successo con Ross, si era forse
chiuso alla vera essenza dell'amore, si era imposto di non provarlo
fino in fondo
e forse non era più in grado di amare con
l'intensità di un tempo e
questo lo sapeva anche Hugh perché lei stessa glielo aveva
confessato, durante la prima notte d'amore con lui.
O forse il vero amore è qualcosa che si può
provare solo una volta
nella vita.
Sospirò,
sperando di spiegarsi al meglio. “Esistono
tanti tipi di amore Hugh e sì, ti amo. Per quello che sei,
per
quello che fai, per avermi fatto scoprire com'è essere amata
come tu ami me”.
Hugh
sorrise ma c'era tristezza nel suo volto. “Mi hai risposto ma
è
come se non lo avessi fatto...”.
Lo
sguardo di Demelza si riempì di amarezza. Sapeva cosa
intendeva dire
e avrebbe voluto dirgli ciò che Hugh desiderava: che era
pazza di
lui, che viveva per lui, che il suo cuore gli apparteneva
interamente. Ma era una bugia e Demelza sapeva di non essere capace
di
dirne, anche se a fin di bene, e
sapeva anche che Hugh era
in grado di leggerle
fino in fondo all'anima e che non meritava una sua menzogna.
Sapeva di volergli bene, un bene dell'anima, sapeva di esserne
attratta, da lui e da quell'amore candido e pulito che sentiva per
lei, ma sapeva anche che non si sentiva sua. Non del tutto, non come
era con Ross. “Hugh, tu sei il padre dei miei figli e mio
marito.
Esistono tanti modi di amare e io non posso essere diversa da
ciò
che sono”.
“A
volte credo che tu voglia amarmi. Ma che non ci sia mai riuscita del
tutto... Desideri amore e io te ne darò sempre,
finché avrò vita.
SEI la mia
vita! Per me
sei tutto Demelza, tu e i bambini. Ma so che il tuo cuore o una parte
di esso è rimasto in Cornovaglia e non riuscirò
mai ad averlo tutto
per me. Anche
se ti regalassi il mondo”.
“Io
non voglio che tu mi regali il mondo, non voglio niente più
di
questo. Una casa, una famiglia, un uomo che voglia bene a me e ai
nostri bambini, dei figli sani, serenità... Il resto conta
poco per
me e forse
l'amore vero è quello che mi dai tu, quello che ti da la
pace e la
serenità di affrontare la vita senza troppi pensieri e
tensioni.
Io sono questa
che vedi, col mio passato che non ti ho mai nascosto e che tu hai
accettato... E ho scelto di proseguire con te, ho scelto di darmi una
nuova opportunità e di darla a noi e ti assicuro che non
è stato
facile e che l'ho fatto solo per te perché ti ritengo
speciale. Ho
amato un uomo per cui sono sempre stata un ripiego, l'ho amato
più
di quanto forse io abbia mai amato me stessa, l'ho amato sentendomi
sempre infinitamente inferiore a ciò che lui era ai miei
occhi. L'ho
amato nonostante tutto il dolore e il male, l'ho amato per
ciò che
faceva, per come lottava per aiutare chi aveva attorno, l'ho amato
anche se, quando ha dovuto scegliere, ha scelto la lady e non la
donna che proveniva da quel mondo che voleva rendere migliore, l'ho
amato e una parte di me continuerà a farlo e io combatto
contro
quella parte che mi impedisce di essere totalmente tua ma anche se a
volte vinco una battaglia, mai riesco davvero a vincere la
guerra”.
Si rannicchiò
fra le sue braccia, sentendo gli occhi pungerle perché
sapeva di fargli del male in un certo senso, quel male che Ross con
Elizabeth aveva inflitto anche a lei.
Ma Hugh
meritava la sua sincerità! Aveva
accanto un uomo meraviglioso che meritava tutto il bene del mondo e
sicuramente più di quanto lei riuscisse a dargli. Era vero,
lei
voleva amarlo e una parte di se stessa, quella più
razionale, ci era
riuscita. Avrebbe lottato per Hugh e per guarirlo dalla sua malattia
anche se era
una lotta impossibile da vincere,
gli avrebbe dedicato tutta la vita e gli sarebbe rimasta
accanto sempre, come moglie e madre dei suoi figli. Felice
di esserlo! Ma
Hugh aveva ragione, una parte del suo cuore, forse piccola ma dal
potere immenso, era rimasta lontana, avvinghiata in una piccola casa
vicino alle scogliere della Cornovaglia, accanto a un uomo che non
l'aveva voluta e l'aveva cacciata e che ora viveva per un'altra
donna. E lei ma anche Hugh sapevano di dover convivere con questa
realtà per sempre. Ma
ora aveva altri due figli, Jeremy e Clowance un padre e un cognome e
lei una famiglia e amore e avrebbe chiuso per sempre a chiave quella
parte della sua anima che le urlava che voleva rivedere Ross, lo
avrebbe fatto per chi aveva attorno, per
il bene dell'uomo che ora era suo marito
e anche per se stessa perché quel capitolo doveva essere
chiuso o
quanto meno reso muto.
Guardò i gemellini finalmente addormentati e sereni ed erano
loro
più di tutti a dirle che doveva andare avanti, che la sua
vita e il
suo cuore dovevano essere lì. “Hugh... ti sei mai
pentito di
esserti innamorato di me?”.
“No,
mai...”.
“Nonostante
Ross?”.
Hugh
si fece serio, accarezzando la guancia di Daisy. “Sai, a
volte mi
verrebbe voglia di andarci in Cornovaglia, per vedere chi è.
Mi dici
che combatteva per mille ideali, per l'uguaglianza fra le persone,
per un mondo migliore e senza privilegi eppure, come hai detto tu,
quando ha dovuto scegliere per se stesso ha scelto la lady, la donna
nobile... Non te! E sai cosa non mi piace di tutto questo?”.
Demelza
deglutì. “Cosa?”.
“Che
Ross rappresenta tutto ciò da cui io ho sempre voluto
fuggire di
questa società. Mio zio mi vuole in Parlamento e il
Parlamento è
composto da tanta gente uguale a Ross, gente nobile, che ha goduto
come me e lui
di privilegi fin da quando è nata e che gioca a fare le
leggi a
favore dei bisognosi per
alleggerirsi una
coscienza che
sa di vivere
bene sfruttando il dolore di chi vive a stento. Ross, il tuo ex
marito, non era un idealista, era come tutti gli altri, una persona
che cercava di vivere meglio con se stesso e col potere che
rappresentava, cercando di aiutare chi giudicava inferiore. Io
so di essere fortunato, so di aver vissuto nella bambagia e mi ci
trovo bene, so di avere più degli altri e so anche che non
saprò
rendere il mondo un posto migliore, di non averne le
capacità e
quindi vivo nel ruolo che il destino mi ha assegnato, inseguendo
quelle che sono le mie vere passioni. Ora ci sono i bambini, ci sei
tu e ho una famiglia e cerco di imparare da mio zio e di fare
ciò
che lui desidera ma mi sento un ipocrita... Chi fa politica
appartiene alla classe nobiliare e il fine ultimo è quello
di
arricchire sempre più chi è già ricco.
Alla Camera dei Lords non
c'è nessuno che ci si reca per puro spirito
filantropico”.
Demelza
abbassò il capo, riflettendo su quelle parole, sulla visione
pessimista di Hugh e sull'idea che si era fatto di Ross in quegli
anni. Mai aveva parlato di lui, era la prima volta che ne discutevano
e ciò che aveva appena detto poteva mettere in discussione
tutto
quello in cui lei aveva sempre creduto. Ma non lo fece, nonostante
Ross le avesse fatto tanto male lei sapeva cosa muoveva il suo animo
e non era ciò che affermava Hugh. “Ross era
diverso... Non lo dico
perché era mio marito e perché mi senta ancora
legata a lui, Ross
ci credeva davvero in quel che faceva. Non avevamo denaro,
rischiavamo di finire in strada ma lui lottava per i suoi minatori
mettendo a loro disposizione ogni singola moneta che finiva nelle sue
tasche. Lo faceva col cuore, non ci dormiva la notte pensando a delle
soluzioni per loro e non lo faceva per alleggerirsi la coscienza...
Su questo, anche adesso, ci metterei la mano sul fuoco!”.
“E
allora perché ha scelto la lady?”.
“Non
ha scelto la lady, ha scelto l'amore. Avrebbe scelto lei anche se
fosse stata la più povera fra le donne della Cornovaglia...
La
amava, Hugh. La amava come tu ami me, con lo stesso coraggio di
sfidare le regole per stare con lei che hai avuto tu sposando
me”.
Faceva male dirlo, forse pensare che Ross avesse scelto semplicemente
la più nobile sarebbe stato meno doloroso, ma non era la
verità.
Hugh
annuì, chinandosi a baciarla. “Ha fatto la scelta
sbagliata. Ha
lasciato una fata per una che...”.
“Dovresti
vederla Hugh, prima di giudicarla. Forse, se la incontrassi, la
penseresti come Ross”.
“Ne
dubito”.
Gli
sorrise dolcemente, appoggiando la fronte alla sua.
“Elizabeth è
una bellissima donna, nata e cresciuta per essere
ammirata...”.
“Lo
sei anche tu, Demelza...”. La baciò sulle labbra,
stringendola a
se coi bambini. Osservò i suoi figli e il suo sguardo si
fece
stranamente cupo, nonostante la serata fosse stata inizialmente
allegra e leggera. “Demelza, fammi una promessa”.
“Quale?”.
Hugh
accarezzò i capelli biondi dei gemelli. “Quando
cresceranno, ci
saranno pressioni fortissime su di loro. Lo so perché ho
vissuto io
stesso aspettative sul mio ruolo in società che poi ho
disatteso.
Mio zio li ama questi bambini ma si aspetta qualcosa da loro...
Proteggili! Fa che possano essere ciò che VOGLIONO e non
ciò che
DEVONO essere”.
Quelle
parole inaspettate e la loro serietà accesero in lei una
strana
inquietudine. Sembrava quasi un testamento, un lascito, quello... E
non le piaceva per niente. “Perché mi stai dicendo
queste cose?
Stai male di nuovo?”. Ultimamente aveva avuto spesso mal di
testa e
di sera, Hugh faceva leggere a lei la fiaba ai bambini e si limitava
ad ascoltarla. Questo le era sembrato strano, gli aveva chiesto se la
sua vista fosse peggiorata ma lui aveva risposto che le faceva
leggere le fiabe perché era più brava di lui a
farlo, ma ora...
“Hugh...”.
Hugh
strinse a se Daisy. “Sono malato, lo sai anche tu che
potrebbe...”.
“Non
voglio parlarne... Ora stai bene...”.
Pallido
in volto, le accarezzò il viso. “Sai che non
durerà, sai bene che
questo stato di benessere che vivo da quando ci sei tu è un
dono
inaspettato. Vorrei vederli crescere questi bambini, saranno uno
spasso fra qualche anno, ma sono consapevole che probabilmente non
succederà. E lo sai anche tu! Daisy e Demian saranno la mia
impronta nel mondo, tu hai reso possibile tutto questo e sono felice,
nonostante il destino che mi attende, di saperli con una madre come
te che li proteggerà e li farà crescere e
diventare brave persone.
Fa che vivano la loro vita come vogliono, ti chiedo solo questo e ti
prego, dimmi che lotterai perché sia così. So che
non potrò mai
possedere del tutto il tuo cuore ma so che lo saprai donare
interamente a loro e questo è tutto quello che voglio
davvero per
me, tutto quello che posso chiedere alla donna che amo”.
Demelza
sentì il cuore intenerirsi e poi frantumarsi davanti a
quelle
parole, faceva male pensare che forse, presto... Ma doveva essere
forte perché per quanto male facesse a lei, era nulla in
confronto
al dolore di lui che sapeva di non poter vedere diventare grandi quei
bambini che tanto amava. “Te lo prometto. Per i miei figli so
diventare una tigre. Lo hai detto tu, ricordi?” -
sussurrò,
sforzandosi di usare un tono leggero.
Hugh
sorrise. “Promettimi un'altra cosa”.
“Certo”.
“Che
quando non ci sarò più, non permetterai che il
lutto e la tristezza
facciano da padroni in questa casa. Non voglio! Voglio immaginare
quattro bambini contenti, sereni, felici di vivere, che scorrazzano
nei corridoi e nei giardini, che giocano, che litigano, che si fanno
i dispetti e poi fanno pace e vanno a dormire volendosi bene
più di
prima. Fa che questa casa sia piena di risate infantili, è
solo
questo che voglio per i miei figli”.
Lo
baciò sulle labbra, a lungo, sentendosi forse davvero per la
prima
volta come fusa con lui e con i suoi sentimenti. Mai si era sentita
così vicina a Hugh, nonostante quei meravigliosi anni
vissuti
insieme. Non c'erano poesie, fate, principesse o poemi, davanti a lei
aveva il suo uomo che aveva messo a nudo i suoi sentimenti e le sue
paure, rendendola partecipe del suo intimo più profondo,
facendola
sentire davvero sua moglie in tutto e per tutto per la prima volta.
Ed ora vedeva Hugh per ciò che era, non solo un poeta
sognatore
romantico ma un uomo e un padre che parlava della cruda
realtà e del
destino avverso che prima o poi avrebbe affrontato, col suo carico di
dolore e paure. Un uomo... Non più solo un poeta... In quel
momento
erano un uomo e una donna, due sposi, che forse per la prima volta da
quando si conoscevano avevano saputo mettere a nudo la propria anima
e proprio per questo, finalmente, si sapevano sentire una cosa sola.
Demelza
pensò alle sue parole, al suo dolore e ai suoi desideri e
decise che
avrebbe sputato sangue, se necessario, per tener fede a quelle
promesse. Una casa piena di risate infantili... Se fosse successo
qualcosa a Hugh sarebbe stato difficile da superare ma decise che ce
l'avrebbe fatta, che doveva essere felice anche per lui, assieme ai
suoi bambini. “Ti prometto questo e tutto quello che
vorrai”. Lo
baciò sulle labbra, lentamente.
“So
che lo farai, Demelza”.
Gli
sorrise, non voleva più parlare di cose tristi ora.
“E' una notte
lieta questa, una notte magica e come tale dovremmo trattarla.
Dobbiamo sorridere, Hugh. E' la notte di Natale... Il nostro terzo
Natale insieme...”. Nel primo si erano conosciuti, nel
secondo lui
l'aveva condotta orgogliosamente a casa sua presentandola alla sua
famiglia ed ora erano loro stessi una famiglia a cui si erano
aggiunti due nuovi bambini. “Il quarto Natale cosa ci
porterà?”.
Hugh
non rispose, si limitò a stringerla a se. Al quarto Natale
non
voleva evidentemente pensare...
E
nel buio della stanza, Demelza ripensò a quei tre ultimi
Natali: Il
primo era stato quello delle fiabe, il secondo l'inizio di una nuova
famiglia, il terzo il raggiungimento della maturità, un
punto di
arrivo.
E
davanti a questo pensiero decise che nemmeno lei voleva pensare a
cosa avrebbe portato il quarto Natale.
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Capitolo 24 *** Capitolo ventiquattro ***
Hugh
camminava nei corridoi ormai bui della casa, il suo mal di testa
sempre più forte e le sue forze sempre più
esigue, come la sua
vista che era tornata a peggiorare.
Aveva
vissuto due splendidi anni di benessere, intervallati solo da brevi,
seppur violente, crisi che avevano messo a repentaglio la sua salute
e fatto preoccupare tutti ma che poi erano passate. Ma
nell’ultimo
mese di gravidanza di Demelza, le cose erano iniziate nuovamente,
seppur impercettibilmente per gli altri, a peggiorare e non avevano
mai smesso di farlo. Inizialmente erano mal di testa sporadici che lo
colpivano la sera e che passavano poi col sonno ma poi quel malessere
era diventato strisciante e persistente e benché il dolore
fosse
tollerabile e facilmente nascondibile, era diventato continuo. Poi
era subentrata una fastidiosa febbriciattola che a Demelza aveva
spacciato per influenza stagionale, deciso a non turbarla in
prossimità del parto.
Hugh
si conosceva, sapeva che qualcosa di grave e latente si agitava in
lui da anni e che presto avrebbe chiesto il conto ma la
felicità
vissuta da quando aveva conosciuto la sua fata era riuscita quasi per
magia a renderlo immune dalla malattia, a lungo.
La
nascita dei gemellini era stata l’apice della sua
felicità e
benché non fosse in forma, aveva vissuto
quell’evento con gioia
assoluta, gustandone ogni attimo. I bambini erano felicissimi dei
nuovi fratellini, i gemelli erano sani e bellissimi e Demelza era
radiosa quando era circondata dall’amore della sua famiglia.
Tutto
bello, idilliaco… Avere una famiglia lo aveva costretto a
prendersi
delle responsabilità e a scendere a patti con suo zio ma era
una
cosa che faceva per le persone che amava e che avevano dato un senso
alla sua vita e benché politica e finanza non fossero il suo
mondo e
non facessero parte del suo essere, aveva accettato di diventare il
Boscawen che la sua famiglia aveva sempre desiderato.
Era
un marito e un padre, ora, oltre che un poeta. Amava una donna che
giudicava unica, meravigliosa, dal passato difficile e con un velo di
tristezza sempre presente negli occhi, che aveva accettato
coraggiosamente di essere la sua compagna, pur con mille se e ma. Una
donna che lo aveva reso padre di due meravigliosi e miracolosi
gemellini e di due bambini senza papà. Avere accanto Jeremy
e
Clowance e con essi la fiducia che in lui aveva riposto la loro
madre, era il dono più grande che Demelza gli avesse mai
fatto.
In
un certo senso, pur conoscendo il fantasma di Ross Poldark sempre fra
loro e il pericolo dato dalla sua malattia, Hugh sperava che quel
momento magico durasse per sempre, anche fra mille malesseri.
Ma
tre settimane dopo la nascita dei bambini, mentre era nello studio di
suo zio, aveva avuto delle violente vertigini ed era finito sul
pavimento, svenuto. E quando si era ripreso, era stato talmente male
di stomaco che Lord Falmouth aveva fatto chiamare frettolosamente
Dwight Enys che non aveva potuto far altro che sentenziare il
peggioramento della sua malattia.
Suo
zio gli aveva imposto riposo ma, nonostante desiderasse allontanarsi
da politica e burocrazia, questo avrebbe significato rendere
partecipe Demelza del peggioramento delle sue condizioni di salute. E
non voleva, non ora!
Sua
moglie aveva appena partorito i gemelli, stava gustando la gioia
della maternità e non voleva rovinare quello stato di grazia
finché
non fosse stato impossibile nasconderle il peggioramento del suo
male. Così aveva imposto il silenzio a suo zio e a Dwight e
aveva
continuato a lavorare, pur con sempre maggiore fatica. E lo aveva
fatto per quasi tre mesi anche se Demelza spesso gli chiedeva cosa
avesse che non andava ed era troppo intelligente per non capire e per
nasconderle a lungo le sue condizioni. Troppo intelligente
perché ci
credesse. Cercava di essere normale con lei, di scherzare, ridere, di
mantenere le loro vecchie abitudini e di essere un marito presente e
attento ma diventava via via sempre più difficile. La
baciava
spesso, dopo due mesi dalla nascita dei bambini aveva ripreso a fare
l’amore con lei ma ogni volta, nonostante il piacere e
l’estati
che il corpo della moglie fuso con il suo gli procurava, sentiva il
timore che fosse l’ultima…
Aveva
paura… La morte faceva paura anche all’uomo
più coraggioso e lui
non era un’eccezione. Sapeva che quella crisi iniziata in
novembre
non era una crisi come le altre, si rendeva conto delle sue forze
sempre più esigue e ogni volta che guardava i suoi bimbi gli
si
stringeva il cuore all’idea di non vederli crescere e
scoprire che
persone sarebbero diventati. Li voleva felici, sapeva che lo
sarebbero stati con accanto una madre come Demelza ma l’idea
che il
tempo con loro fosse tanto limitato lo annientava… Faceva
male
pensare a quei figli che nessuno avrebbe mai pensato venissero al
mondo, a cui non avrebbe mai potuto fare da padre.
Camminò
nel corridoi diretto alla sua stanza sentendo nuovamente i brividi
della febbre addosso ma doveva cercare di dissimulare, per quanto
possibile. E godersi anche quella sera la sua famiglia…
Stava
per arrivare alla sua stanza quando vide Jeremy che, con un quaderno
in mano, sgattaiolava nel corridoio come un ladro. Adorava quel
bambino, era quello coi gusti e il temperamento più simile
al suo e
ogni cosa che avevano fatto insieme aveva arricchito e reso felice
entrambi. Era colui che lo aveva reso padre prima di tutti. Giocare,
chiacchierare, costruire qualcosa con Jeremy lo aveva cresciuto e
reso un uomo migliore. “Dove scappi come un ladro?
E’ tardi…”.
Jeremy,
colto in fallo, sussultò. “Papà,
ecco… Fuori… Nella casetta
sull’albero. Ed è un segreto, non dirlo a
mamma”.
Hugh
osservò la finestra, era ormai buio e anche se era marzo
inoltrato,
faceva ancora decisamente freddo.
“Perché?”.
Jeremy
gli mostrò il quadernetto che aveva in mano. “Devo
finire i
compiti e nella casetta mi concentro meglio che in camera. Tanto lo
sai, fra un po’ Daisy inizia a strillare e nessuno
potrà più
dormire o fare qualcosa”.
Hugh
ridacchiò, pensando agli strilli della sua adorabile
principessina.
Aveva creduto, durante la gravidanza, che i bambini fossero delle
angeliche e delicate creature ma Demian e Daisy gli avevano
dimostrato subito il contrario. I neonati sono forti, tenaci, sanno
cosa vogliono e quando piangono riescono a far tremare i vetri.
Accarezzò i capelli di Jeremy, lunghi fino al collo e pieni
di
boccoli come quelli della madre. Era un bambino dolce, gentile ed
adorabile, oltre che intelligente. “Senti, facciamo
così! Ti aiuto
io a finire i compiti” – propose, come aveva
già fatto molte
volte da quando, a settembre, Jeremy aveva iniziato i suoi studi con
un precettore.
Il
bimbo sorrise. “Va bene…” –
esclamò, prendendolo per mano e
rientrando con lui nella stanza.
Si
sedettero alla scrivania e Hugh lo prese sulle ginocchia.
“Che devi
fare?”.
"Cosa
sono gli aggettivi?".
"Parole
che servono a descrivere una persona. Perché?".
Jeremy
sbuffò. "Il maestro vuole che scrivo due aggettivi per ogni
persona della mia famiglia. Mi aiuti? Tu sei bravo a scrivere e a
trovare le parole, papà!".
Hugh
sorrise, nonostante la malattia e i problemi alla vista, la scrittura
rimaneva il suo punto forte. "Certo che ti aiuto! Tu come ti
descriveresti?".
"Bello
e simpatico!" - rispose il bimbo, sicuro, iniziando a scrivere
lentamente con una scrittura ancora incerta.
Hugh
rise, viva la modestia! "E Clowance?".
Jeremy
incrociò le braccia, pensieroso. "Femmina e... come si
chiama
chi si guarda sempre allo specchio?".
"Vanitosa".
Jeremy
annuì. "Femmina e vanitosa!". Scrisse soddisfatto, poi
però si bloccò, imbronciandosi. "Ma non
è giusto!" -
esclamò, come se si fosse accorto solo in quel momento di un
particolare che gli era sfuggito.
"Cosa?".
"Il
maestro è cattivo, doveva darmi questo compito prima di
Natale!
Almeno avrei avuto due persone in meno da raccontare".
Hugh
scoppiò a ridere e si sentì come se
l'ingenuità di Jeremy, le sue
esclamazioni infantili e quella tranquillità casalinga
potessero
proteggerlo dal male che lo divorava. "I gemelli! Parli di loro?
Ti è andata male, devi trovare degli aggettivi anche per i
tuoi due
fratellini nuovi, visto che sono nati. Com'è Demian?".
"Mammone...
E frignone!".
Hugh
sospirò. In effetti, come dargli torto? Il bimbo stava
sempre in
braccio a sua madre e se la sentiva allontanarsi, piangeva
disperatamente. "E... Daisy?".
Jeremy
ridacchiò. "Prudie dice che è una fetente!".
Hugh
sollevò un sopracciglio... Sì, come definizione
FORSE era
azzeccata, ma non era il caso di scrivere quella parola e dar adito
a certe voci, anche se in effetti la gemellina pareva già
molto
furba e sicura di quel che voleva... "Al maestro l'aggettivo
'fetente' non piacerebbe. Cerchiamone altri... Urlatrice folle... Che
ne dici?".
"Sì.
E' pure vero, papà, da quando è nata abbiamo
tutti il mal
d'orecchio. E poi... furba! Comanda lei".
Hugh
sospirò. Era vero anche questo...
"E
la mamma? Come la descriviamo, Jeremy?".
Il
bambino si rannicchiò fra le sue braccia, ridendo. "Dimmelo
tu!
Sei bravo a trovare le parole per la mamma".
Lo
baciò sulla punta del nasino, scompigliandogli poi i capelli
con la
mano. "Bella come una fata, forte come una tigre" –
sussurrò, immaginandola nella sua bellezza e nella sua
dolcezza che
gli apparivano come il dono più bello che madre natura
avesse fatto
a lui e alla terra facendola nascere. Non c'era definizione migliore
di Demelza per lui che l'aveva conosciuta in una notte di nebbia e di
fate e l'aveva vista tenere in braccio con assoluta naturalezza un
cucciolo di tigre, come se fosse stata la cosa più naturale
del
mondo.
Gli
occhi vivaci di Jeremy brillarono e lo abbracciò,
sprofondando il
viso contro il sul petto. "Ti voglio bene, papà! Mi piace
come
sei sempre bravo e dici cose belle della mamma".
Si
sentì orgoglioso e fiero di se stesso per quelle parole che
Jeremy
gli aveva rivolto e di cui si sentiva onorato. Non aveva mai
combinato molto nella sua vita ma per fortuna, con Demelza, qualcosa
di buono lo aveva fatto. Guardò Jeremy, il suo piccolo
Jeremy, negli
occhi, sperando di potergli insegnare qualcosa, oltre agli aggettivi,
che gli fosse utile da grande. "Certo, bisogna sempre essere
gentili e trattar bene le donne che amiamo. Ricordalo quando sarai
grande e avrai una fidanzata e una moglie".
Jeremy
annuì. "Va bene, sarò gentile con la donna che mi
piace".
"Bravo".
Jeremy
sorrise, riprendendo in mano il foglio dove aveva scritto gli
aggettivi. "Manchi tu!".
"Cercali
da solo, due aggettivi per me".
"Papà...
e bravo...".
"Papà
non è un aggettivo" – osservò Hugh.
Jeremy
scosse la testa, in disaccordo. "Sì! I papà sono
gli uomini
bravi con le mamme e coi loro bambini. E' un aggettivo che descrive
poche persone, mica tutti gli uomini sono papà. Mica tutti
sono
capaci di esserlo".
Hugh
si chiese se dietro a quelle parole ci fosse un riferimento nascosto
a Ross ma decise di non chiedere. Non voleva sapere, non voleva che
l'ombra di quell'uomo sconosciuto si formasse anche fra lui e quel
bambino che amava quanto sua madre. E così annuì,
fece per
ribattere che forse era d'accordo con lui e quando fece per parlare,
gli strilli di Daisy nella camera matrimoniale dall'altro lato del
corridoio giunsero alle orecchie di entrambi. "Inizia lo
spettacolo serale, a quanto pare" – esclamò,
mettendolo a
terra. "Andiamo dalla mamma?".
"Sì"
– rispose Jeremy, prendendolo per mano.
Riposero
i fogli dei compiti, ordinatamente, e poi uscirono in corridoio
diretti alla camera matrimoniale. Quando vi entrarono, Demelza era
seduta sul letto, vestita ancora con l'abito blu che aveva usato
durante la cena, e accanto aveva Clowance che giocava con una sua
bambola e i gemelli in lacrime, uno in braccio e una avvolta nella
sua copertina, sul letto.
Jeremy
rise. "Ha male alla pancia?".
Hugh
sorrise avvicinandosi al letto e prendendo Daisy in braccio. Era
disperata, urlante e decisamente arrabbiata, aveva un caratterino
già
ben deciso. "Io so cosa vuole... Scommettiamo che, se ottiene
ciò che desidera, le passano tutti i malesseri?".
Demelza
lo guardò storto. "Hugh, non comanda lei...".
"Ma
mio zio dice che Daisy e Demian conquisteranno...".
"La
Scozia!" - esclamò Clowance. "Però piangono
troppo tanto,
mamma perché non li butti via e cerchiamo dei fratellini che
non
piangono mai?".
Demelza
sospirò mascherando un sorriso, poi strinse a se Demian. "I
bambini non si possono buttare via, dobbiamo tenerceli come sono, i
gemelli".
"Peccato"
– sussurrò la piccola, imbronciata.
Hugh
la prese in braccio, gli era venuta un'ottima idea. Stare con la sua
famiglia gli dava benessere e quando erano tutti assieme, anche in
mezzo alla confusione, si sentiva più forte e pieno di
energie.
Sentiva che il tempo a sua disposizione era poco e finché
aveva le
forze voleva sfruttarlo per conservare in se ogni ricordo piacevole
di qualcosa fatto con le persone che amava. E quando in lui ogni
ricordo sarebbe scomparso, sarebbero rimasti però nella sua
famiglia, nei cuori delle persone che lo amavano, rendendolo
immortale. "Usciamo! E' quello che Daisy vuole".
Jeremy
e Clowance si guardarono in faccia, eccitati da quella proposta.
"SIIIIIIIIIIII".
Demelza
lo guardò storto, come se fosse impazzito. "Hugh,
è sera, è
tardi e non è l'orario adatto a portar fuori i bambini. E
Daisy non
ha facoltà di decidere cosa fare...".
"Ma
quando le metti la cuffietta, il cappotto, la imbacucchi e la metti
nella carrozzina, lei smette di piangere, le passa il mal di pancia e
si tranquillizza. Ama uscire, facciamo una passeggiata in modo che si
addormenti".
"Fa
ancora freddo di sera, è marzo, non siamo in estate".
Hugh
decise di insistere e, per una volta, di imporsi a sua moglie. Una
vocina dentro di lui gli urlava di portarli fuori, di vivere una
serata solo loro, insieme, e di fare una passeggiata che forse
sarebbe stata l'ultima. "Oggi il clima è primaverile,
copriamo
bene i bambini e non ci saranno problemi. E Daisy sarebbe contenta".
Demelza
sbuffò, mettendosi le mani sui fianchi per apparire
autoritaria.
"Daisy non è la capo-famiglia".
Hugh
le strizzò l'occhio prima di baciare la neonata sulla
fronte. "Daisy
e i gemelli conquisteranno la Scozia. Si stanno iniziando ad
esercitare ribadendo l'autorità quì, cercando di
prendere il
controllo come capi-famiglia".
Demelza
cercò di essere seria ma alla fine fu costretta a ridere.
"Jeremy,
Clowance, mettetevi i cappotti, coraggio..." – disse infine,
cedendo e rendendosi conto di essere in minoranza. Poi si
alzò dal
letto, diede Demian a Hugh e prese Daisy che ancora strillava come
un'ossessa. Le mise la cuffietta di lana, la avvolse in una coperta e
poi, una volta messa in carrozzina, rimase ad osservarla.
E
la piccola fetente, come la definiva Prudie, appena ebbe capito che
sarebbe uscita, smise immediatamente di piangere. Si esibì
in uno
splendido sorriso, spalancò i suoi occhioni azzurri, si mise
a
pancia ingiù e si rannicchiò col sederino per
aria. Demelza le
diede un leggero colpetto sul culetto, sospirò e poi la
coprì con
un'altra coperta. "Ha vinto di nuovo lei... Comincio a credere
che conquisterà davvero la Scozia, o con suo fratello o da
sola...".
Demian,
che Hugh aveva avvolto in una pesante coperta bianca, la
richiamò
all'ordine frignando e suo marito glielo ridiede in braccio.
Demelza
lo strinse a se, guardando storto pure lui che, se non l'aveva
sott'occhio, piangeva come se lo stessero scannando vivo. "Hugh...".
"Sì,
amore...".
"Dobbiamo
ristabilire la gerarchia di comando coi gemelli...".
"Sì,
amore...".
Jeremy
e Clowance, con le loro mantelline blu, corsero da loro, Demelza si
mise addosso una mantella di lana bianca e di soppiatto, spingendo la
carrozzina, uscirono di casa tutti e sei, in silenzio, in modo da non
essere scoperti.
"Dove
andiamo?" - chiese Demelza, nell'osurità del giardino, coi
gemelli già tranquilli nei loro ambienti preferiti, una
nella
carrozzina e uno fra le sue braccia.
Hugh
le indicò il cancelletto di legno che, dal giardino della
loro
tenuta, portava direttamente ai giardini di Kensington dove giocavano
di pomeriggio Clowance e Jeremy.
I
due bimbi saltarono eccitati. "Sììì,
il parco tutto per
noi!".
Demelza
sorrise, felice di vederli tanto contenti. In fondo era una bella
serata per uscire a fare una passeggiata. Londra dormiva, il cielo
era sereno e pieno di stelle e i giardini di Kensington, deserti,
avevano un qualcosa di magico insito in loro. "Sembra come...
quando ci siamo conosciuti... Era una serata magica come questa, solo
che c'era la nebbia e non le stelle" – sussurrò,
prendendo
per mano suo marito ed intrecciando le dita con le sue.
"Vero...
Visto che era una buona idea uscire?" - la punzecchiò Hugh.
Demelza
mascherò un sorriso, lanciando un'occhiata alla carrozzina.
"Certo... Ne riparleremo domani sera quando Daisy pretenderà
lo
stesso trattamento e strillerà come una pazza per uscire,
svegliando
tutto il palazzo. E questo vizio che le hai dato, sarà colpa
tua e
te lo dovrai gestire". Si fermarono davanti a una panchina,
sedendovisi. Il parco era avvolto dal silenzio ed era tutto per loro.
"Però in fondo sì, è stata una bella
idea venire quì. C'è
un'atmosfera così romantica... E Daisy dorme".
Hugh
allungò il viso verso la carrozzina e poi rise guardando la
bimba,
sentendosi incredibilmente bene in quel momento. "Non dorme...
Sta a pancia in giù e ci spia da sotto la coperta. Se la
ride sotto
i baffi, sembra contenta" – sussurrò, prendendo la
piccola in
braccio e mettendola fra loro.
La
bimba lo guardò, fissò i suoi fratelli e la sua
mamma e poi, per
nulla assonnata, allungò la manina e strinse quella di
Demian che,
in tutta risposta, si agitò muovendo le gambe, divertito.
Quando
erano svegli e vicini, erano sempre contenti.
Jeremy
rise. "Mica c'hanno sonno".
"Nemmeno
un pò..." - sussurrò Demelza, mettendo la sua
mano sotto
quelle dei gemellini che si appoggiarono così al suo palmo.
Clowance
guardò la scena, poggiando a sua volta la manina su quella
dei
gemelli e Jeremy la appoggiò sulla sua. E Hugh
coprì tutti con la
propria di mano, intrecciando le dita con Demelza, in modo che
potessero accogliere e proteggere come in uno scrigno tutte le manina
dei loro bambini.
Demelza
guardò la scena, poi suo marito. E si avvicinò,
dandogli un dolce
bacio sulle labbra. "Famiglia...".
La
strinse a se, coi bambini fra loro. "Famiglia..." -
sussurrò, ringraziando Dio per quel dono che gli aveva fatto
quando
pensava che la vita per lui non avesse più nulla da
regalare. E quei
tre anni erano stati intensi, belli, pieni di risate e sorprese e per
quanto brevi, valevano più di tante e lunghe vite vuote e
fredde.
Era fortunato e se tutto stava per finire, se ne sarebbe andato con
la serenità di aver costruito qualcosa di bello che
avrebbero
portato avanti le persone che amava.
"Che
scenetta stucchevole!".
Quella
battuta inaspettata, detta con l'ancor più inaspettata voce
di
Caroline Enys, fece sobbalzare tutti e sei.
Demelza
e Hugh guardarono nell'oscurità del parco e davanti a loro
si
materializzarono gli Enys con tanto di occhiaie da neo-genitori e di
carrozzina.
Demelza
scoppiò a ridere, ben intuendo cosa ci facessero
lì... Le
motivazioni non potevano essere molto diverse da quelle che avevano
portato anche loro nei giardini di Kensington a quell'ora della sera.
"Zio
Dwight, zia Caroline" – urlarono Jeremy e Clowance, correndo
verso di loro.
Hugh,
con in braccio Daisy, osservò la coppia che si stava
avvicinando.
Era una situazione divertente, a ben pensarci. L'aristocratica,
bellissima, sfuggente ed eccentrica Caroline aveva partorito da tre
settimane una bellissima bambina, Sarah, ed era già
perfettamente in
forma, elegante e tornata allo splendore di prima della gravidanza.
Anche
se, a giudicare da quell'incontro, la piccola aveva sconvolto anche
quell'esistenza dorata che sua madre aveva giurato, fino al mese
prima, nessuno avrebbe mai intaccato. Anche Caroline aveva imparato,
come lui del resto, che i neonati non sono creature angeliche e che
anzi, hanno un potere immenso fra le loro mani che gli consente di
manipolare la vita di chi hanno intorno. "Sarah non voleva
dormire?".
Caroline
lo guardò storto. "Non fare lo spiritoso, Hugh Armitage...
Se
sei quì vuol dire che pure i tuoi di marmocchi, non sono nel
loro
letto nel mondo dei sogni".
Demelza
si avvicinò loro con Demian. "Daisy ha fatto chiaramente
capire
di non voler stare in casa. E Hugh l'ha ovviamente accontentata...".
Caroline
guardò la gemella di sbieco, sospirò e poi
guardò la sua elegante
carrozzina dove la piccola Sarah cercava di trovare il sonno, senza
tuttavia riuscirci. "Beh, guardiamo il lato positivo... Sono
donne nate in un mondo guidato da uomini... Cercano di affermarsi da
subito, sanno già che per noi nulla è mai facile
e affilano le
unghie... Dovremmo esserne fiere".
Demelza
sbuffò. "Lo sarò quando riuscirò a
fare otto ore di sonno
filato. E' da dicembre che non ci riesco".
Caroline
impallidì. "Non me lo dire...".
La
rossa rise. "Non eri tu che mi dicevi che dovevo avere polso coi
gemelli e che non dovevo cedere ai loro pianti? Che non dovevo
viziarli? Visto che cambiano le cose, quando i bambini son nati...?".
"Z-I-T-T-A!!!"
- lo fulinò Caroline, punta sul vivo.
Nonostante
la scenetta divertente e rilassata, Dwight abbassò il capo e
Hugh si
accorse di una strana malinconia e di un velo di tristezza che
attraversava i suoi occhi, qualcosa di inusuale per quel medico
sempre gentile e col sorriso sulle labbra, soprattutto in un momento
di gioia come quello in cui era diventato padre di una bambina che
aveva atteso tantissimo.
Sarah,
nella carrozzina, dimostrò di essere contrariata da
quell'interruzione della sua passeggiata e scoppiò a
piangere e Hugh
si chinò a prenderla in braccio per metterla vicino a Daisy.
"Fate
amicizia, sarete amiche fra qualche anno" –
sussurrò alle due
bimbe.
Ma
Daisy dimostrò di non apprezzare troppo quell'intromissione
di una
sconosciuta fra lei e il suo papà e scoppiò a
piangere disperata
finché Demelza non la prese con se, mettendola accanto a
Demian.
E
Hugh rimase con in braccio solo Sarah. La guardò negli
occhi, aveva
ereditato la bellezza di sua madre e sarebbe diventata una bambina
splendida. "Scusala piccola, Daisy ha un caratteraccio... Ma
sarete amiche lo stesso...".
Dwight
si rabbuiò a quelle parole e anche Demelza se ne accorse e
si
accigliò, anche se rimase in silenzio, stupita.
Caroline
invece pareva non essersi accorta di nulla. Chiaccherò come
se nulla
fosse, lamentandosi di quanto fosse noioso un neonato, e Demelza la
ascoltò pazientemente sedendosi con lei e i gemelli sulla
panchina.
Dwight
e Hugh invece, con Sarah e i due bambini più grandi si
allontanarono
per fare due passi nel parco.
"Papà,
le fate!" - urlò Jeremy, indicando delle luci che si
muovevano
fra gli alberi.
Hugh,
con in braccio Sarah, si inginocchiò. "E' vero... Le
chiamano
'lucciole' ma noi che conosciamo la magia sappiamo che sono fate.
Correte, andate a vederle da vicino".
Jeremy,
emozionato, prese Clowance per mano e insieme corsero verso la fonte
di quelle luci meravigliose, lasciando i due uomini da soli.
Hugh
si voltò verso Dwight, tanto silenzioso e cupo da
preoccuparlo.
"Qualcosa non va?".
Dwight
sussultò, si voltò per vedere se fossero soli e
poi diede un
intenso sguardo a sua figlia. "E' bella, vero?".
"Sì,
lo è. Da grandi lei, Clowance e Daisy faranno girare la
testa a
tutti i giovanotti di Londra".
Dwight
abbassò il capo. "Forse no...".
Hugh
guardò la piccola che, passeggiando, si era calmata.
"Perché?".
"E'
malata, Hugh. Ha una malattia al cuore e quando prenderà un
raffreddore o la sua prima febbre, sarà troppo debole per
superarla
e guarire. Morirà... Sarah non sarà mai grande. E
io, SUO padre, un
medico, non posso fare nulla. Ironico, vero?".
Hugh
si sentì mancare la terra sotto i piedi. Sapere che la sua
vita,
benché breve, fosse giunta al termine dopo un percorso
però pieno,
intenso e bellissimo era duro da accettare ma nel grande schema delle
cose aveva un senso, ma Sarah... Sarah non aveva ancora provato
niente, non aveva ancora iniziato a vivere e a sperimentare il bello
e il brutto che ogni esistenza porta con se, era una bambina senza
colpe e stava per essere colpita dal medesimo e terribile destino che
attendeva pure lui. Si sentì annientato peggio di quando
pensava
alla sua, di malattia. "Caroline... Caroline lo sa? Sembra
così...".
"Non
lo sa!" - lo interruppe Dwight. "Non so come dirglielo...".
Hugh
sospirò, abbassando lo sguardo. "Non posso fare molto per
te,
se non darti la mia amicizia e offrirti una spalla su cui
appoggiarti, quando ne avrai bisogno. Sono padre e posso immaginare
come ti senti e quanto sia difficile parlarne con chi ami... L'idea
di perdere un figlio è inaccettabile, da impazzire... Vorrei
poterti
aiutare, anche se non ho soluzioni da darti. Le mie forze sono esigue
ma per quel che posso e potrò fare come amico, ci sono...".
Dwight
sorrise tristemente, poggiandogli la mano sulla spalla. "Grazie.
E tu? Come stai? Sei pallido, sembri febbricitante".
"Sono
febbricitante...".
"Demelza
lo sa? Le hai parlato del peggioramento delle tue condizioni?".
Hugh
scosse la testa, nessuno poteva capirlo meglio di Dwight. "No,
non voglio dirle nulla finché potrò nasconderlo.
E' così felice e
serena, non posso rovinare tutto coi miei problemi".
"E'
tua moglie, ha diritto di sapere e conoscendo Demelza, lo vorrebbe.
Lei preferisce affrontare la realtà di petto per quanto
brutta, è
una lottatrice, non una damina da proteggere nascondendole le cose
dolorose che dovrà affrontare comunque".
Hugh
lo guardò, intensamente. "E Caroline è la madre
di Sarah e ha
diritto di sapere anche lei... Ma vuoi proteggerla finché
puoi, come
io voglio proteggere Demelza e i bambini. Siamo uguali, tu ed io. Ed
io e Sarah..." - sussurrò, guardando la piccola che aveva in
braccio che in quel momento gli sembrava lo specchio di se stesso.
Dwight
li guardò, insieme. "Vederti con lei in braccio...".
Hugh
capì cosa volesse dire... Teneva in braccio una bambina che
forse
avrebbe condotto con se, a breve, in un viaggio senza ritorno...
Insieme, come lo erano in quel momento. "Non si sentirà
sola,
quanto meno le farò compagnia".
Dwight
sorrise, tristemente. "Se... Se esiste qualcosa... un posto
migliore di questo dopo questa vita... Prenditi cura di lei".
"Se
esiste quel posto, lo farò come avrei fatto coi miei
bambini".
"Grazie".
Hugh
baciò sulla fronte la piccolina, restituendola al padre.
"Sai
una cosa? Siamo quì, con la nostra famiglia! Ed è
una serata
splendida, abbiamo i giardini di Kensington tutti per noi e ci sono
le persone che più amiamo! Godiamoci questo momento e
lasciamo che i
pensieri foschi ci raggiungano quando si presenteranno i problemi. Ci
sono i bambini, le lucciole e un mare di stelle in cielo, è
una
notte magica dove nulla di male può succederci. La morte non
può
raggiungerci stasera, siamo più forti noi".
Dwight
annuì, colpito da quelle parole. Raggiunsero Jeremy e
Clowance che
correvano nel prato inseguendo le lucciole e poco dopo furono
raggiunti da Caroline, Demelza e i gemelli. Giocarono, corsero coi
bambini, risero, osservarono le smorfie dei tre neonati che erano
appena venuti al mondo scrutando e ammirando in loro la vita e non
l'ombra della morte e della malattia.
Fu
una serata bellissima, magica, intensa, nata per caso dal pianto di
due neonate che non ne sapevano di voler dormire e che,
inconsapevolmente, stavano regalando un tesoro prezioso ai loro
genitori: la magia di un ricordo, di un momento perfetto che avrebbe
scaldato i loro cuori nelle notti fredde in cui dolore e lacrime
avrebbero fatto capolino straziando le loro anime colpite da un lutto
a cui non potevano sottrarsi.
Dwight,
Demelza, Caroline, Jeremy e Clowance avrebbero ricordato sempre
quella sera, le lucciole e il silenzio dei giardini di Kensington
mentre Hugh e Sarah avrebbero intrapreso una strada diversa, insieme,
mano nella mano verso un luogo dove non esistevano dolore, malattia e
bambini che non potevano diventare grandi.
...
La
notte magica finì tardi, con dei bambini finalmente
addormentati e
scaldata dai corpi di un marito e una moglie che si concedevano l'un
l'altro in un intenso atto d'amore.
E
mentre guardava Demelza dormire, Hugh decise che non poteva
più
aspettare, che c'erano cose da fare per il bene della donna che amava
e dei loro bambini.
Il
mattino successivo, molto presto, si recò nello studio di
suo zio.
Era ora di sistemare le cose in modo che dopo la sua morte tutto
sarebbe andato nel modo in cui lui voleva. E né la febbre,
piuttosto
alta, nè i capogiri che lo avevano colpito appena messo
piede giù
dal letto, lo avrebbero fermato.
Lord
Falmouh, notoriamente mattiniero e già al lavoro dall'alba,
appena
lo vide arrivare, si stupì. "Stai bene e vuoi lavorare
oppure
fuggi dai pianti dei gemelli?".
Hugh,
stanco come se avesse lavorato venti ore in miniera, si sedette sulla
sedia. "Nessuna delle due cose...".
"Stai
male?".
"Sì
zio...".
Lord
Falmouth perse il suo aplomb, impallidì e sul suo viso si
materializzarono rughe di dolore e preoccupazione per quel nipote che
per lui era sempre stato un figlio. "Vai a letto, riposa... E
parla con Demelza delle tue condizioni di salute".
"Voglio
parlarne con te. E con un notaio".
Lord
Falmouth spalancò gli occhi. "Un notaio?".
Hugh
divenne mortalmente serio. "Sì. Voglio mettere per iscritto
le
mie volontà e amministrare così il futuro del mio
patrimonio e dei
miei beni, decidendo cosa ne sarà dopo la mia morte".
Falmouth
sospirò. "Penserò io a tutto quanto. Il futuro
dei tuoi
bambini è in ottime mani e per ora tu sei quì,
VIVO...".
Hugh
lo guardò. Era suo zio, era come un padre e sapeva che non
accettava
di dover sostenere quel discorso, ma non poteva sottarsi. Doveva
mettere le cose in chiaro e non solo per i gemelli a cui suo zio
sicuramente avrebbe pensato. Ma non era abbastanza, non per lui, non
per l'amore che provava non solo per i piccolini appena nati ma anche
per gli altri due bambini e per sua moglie... Aveva una famiglia e
ogni cosa, PER OGNUNO, doveva essere sistemata senza l'ombra di
fraintendimenti. "Tu penserai al patrimonio di famiglia... Ma il
mio, il mio patrimonio personale che sarà la mia
eredità ai
bambini, credo lo debba amministrare qualcun altro. Qualcuno che lo
farà sicuramente meglio di tutti".
"Cosa
vuoi dire? Non vorrai...".
Hugh
lo guardò, deciso. Il momento delle poesie e dei sogni da
adolescente era finito, aveva poco tempo davanti e doveva sbrigarsi a
sistemare tutto quello che poteva rimanere in sospeso. "VOGLIO!
E ho l'età per decidere. Chiama il nostro notaio di
famiglia".
Lord
Falmouth sospirò, capendo che non c'erano margini di
tratttiva.
"Come vuoi... Ma sappi che io mi prenderei cura di tutti, come
sempre".
"Lo
so... Ma voglio comunque un notaio. E che le mie volontà
restino per
sempre scritte. Sarà un modo per star vicino alle persone
che amo".
Lord
Falmouth sospirò, prese la campanella sulla sua scrivania,
la scosse
e chiamò il suo maggiordomo. "Gaston, fa preparare la
carrozza
e va a chiamare il mio notaio. Devo vederlo, subito".
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Capitolo 25 *** Capitolo venticinque ***
Era
stata una primavera fredda e piovosa a Londra, quell'anno, e il cielo
pareva preannunciare, col suo carico di nubi nere e
oscurità,
l'avvento di tempi difficili.
Hugh
era peggiorato improvvisamente. O, come le aveva detto Dwight,
improvvisamente i sintomi che accusava da mesi e che le aveva tenuto
nascosto, erano diventati evidenti.
E
per Demelza era iniziato un incubo che sempre aveva sentito
incombente su di lei e sui bambini ma che aveva cercato di tenere
lontano dalla mente, aggrappandosi ai momenti sereni che viveva con
la famiglia che avevano formato, la cui forza sembrava aver
allontanato lo spettro della malattia.
Ma
ad inizio aprile, nell'ennesima mattina cupa e piovosa, Hugh era
svenuto appena alzato dal letto e poi era stato colto da una
fortissima crisi epilettica che l'aveva terrorizzata e fatta urlare,
svegliando i gemelli e facendoli piangere spaventati.
Prudie
e altri domestici erano accorsi, l'avevano aiutata a soccorrerlo e
Dwight, chiamato in fretta e furia, non aveva potuto fare altro che
dire di prepararsi all'inevitabile perché le condizioni di
Hugh si
sarebbero aggravate ulteriormente e non c'erano né cura
né via di
ritorno.
Da
quel giorno, difficilmente Hugh riuscì ad alzarsi sul letto.
La
febbre sempre presente, il mal di testa continuo e lancinante e la
vista sempre più debole, gli avevano strappato via ogni
parvenza di
normalità.
Demelza
non lo lasciava mai e anche Dwight non mancava di venire a visitarlo
più volte al giorno, nonostante il dramma personale che
stava
vivendo anch'esso a casa sua, con la salute malferma della piccola
Sarah. Nonostante mille tentennamenti, aveva dovuto trovare il
coraggio di dire la verità a Caroline circa le condizioni
della
bambina e l'ereditiera aveva raccontato tutto quanto, con la
freddezza e il cinismo che usava per nascondere il suo dolore, a
Demelza. Si erano abbracciate, in silenzio, ognuna stretta nel dolore
dell'altra, senza dire nulla. Le parole erano di troppo, ormai...
Hugh per Demelza era un tormento costante e pensare anche alla
malattia della piccola Sarah era per lei un'ulteriore dolore che la
riportava alla sua Julia, persa anch'essa nelle tenebre della morte
tanti anni prima, quando era piccolissima. Sapeva cosa attendeva
Caroline e non riusciva a trovare per lei parole di conforto
perché
sarebbero risultate vuote e fatue e allora rimase zitta
perché
quando non si ha nulla di intelligente da dire, sono meglio il
silenzio e un abbraccio.
Era
come camminare sul vetro, per entrambe le famiglie. Ogni passo falso
poteva aprire una crepa e poi una voragine e far precipitare tutti
sotto quel sottile strato di vita che teneva ancora con loro chi
amavano.
Lord
Falmouth e Lady Alexandra venivano a trovare Hugh in ogni momento e
Hugh stesso aveva insistito perché loro, con Demelza e i
bambini,
continuassero la bella abitudine presa dopo il matrimonio di cenare
insieme, anche se lui non poteva fare parte della tavolata.
Per
il resto, Demelza cercava di essere forte anche se dentro andava a
pezzi. Hugh, il suo raggio di sole, l'uomo che aveva curato le sue
ferite e l'aveva amata senza riserve, che le aveva dato due figli ed
era stato il meraviglioso compagno di un tratto della sua vita, stava
per lasciarla. E non era giusto... Lui, che amava i bambini, che
aveva un animo gentile e un pò sognatore, che la adorava e
che non
chiedeva nulla se non stare con lei, lui che per loro aveva saputo
anche mettere da parte le sue passioni per diventare un uomo di
famiglia, meritava di vivere e veder crescere i suoi figli.
Era
terribile pensare che stesse per andarsene così giovane e
pieno di
progetti e la cosa strana era che, nei momenti di crisi, era Hugh a
consolare lei. Il suo animo filosofico aveva accettato la sua
imminente fine ed era semplicemente grato per la vita piena che aveva
avuto negli ultimi anni. Era saggio, animato da quell'immancabile
spirito di elfo un pò magico che vedeva l'incanto anche se
dilaniato
dalla malattia, mai rabbioso e nemmeno rassegnato. Accettazione...
Era tutto ciò che lo salvava dall'impazzire e che salvava
lei che in
lui trovava la forza di lottare senza crollare.
L'unica
cosa che Hugh desiderava era avere vicino la sua famiglia e Demelza
gli portava i bambini sempre, desiderosa che loro e lui attingessero
gli uni dagli altri degli splendidi ricordi da portare sempre nel
proprio cuore.
Jeremy
gli si sedeva accanto, gli leggeva le cose che faceva col precettore
o un libro di fiabe della libreria per bambini che Hugh aveva fatto
per lui e per gli altri bambini, Clowance gli parlava delle mille
avventure frivole vissute con le sue bambole durante la giornata e i
gemelli, coi loro gorgoglii, gli tenevano compagnia a modo loro. Hugh
sapeva dar loro retta come sempre, riuscendo a nascondere bene la
malattia quando i piccoli erano con lui e per i bambini era diventata
una normalità passare tante ore in camera da letto tutti
insieme.
Per
la gioia di Hugh, i gemelli crescevano benissimo, Dwight diceva che
sprizzavano energia da tutti i pori ed erano molto precoci, molto
rumorosi e decisamente desiderosi di diventare parte attiva della
casa. Bellissimi, biondi e con gli occhi azzurri, paffuti e vivaci,
erano una gioia per gli occhi in quel momento tanto buio e il loro
papà, ogni volta che li guardava, sprizzava orgoglio da
tutti i
pori. Erano la sua vittoria sul destino e sarebbero stati sempre la
sua impronta nel mondo, il segno vivente del suo passaggio. Daisy
aveva iniziato a girarsi da sola, a pancia ingiù,
già a quattro
mesi. Con le gambette tentava di gattonare per scapparsene
chissà
dove ma per fortuna, al momento falliva miseramente. Demian era
rimasto mammone e coccolone ma era oltremodo furbo e capacissimo, col
suo visino d'angelo, ad ottenere attenzioni esclusive e la mamma
tutta per se. Dormiva ancora con lei nel lettone e solo poche notti,
quando Hugh era stato molto male, aveva dovuto cedere e affidarlo a
Prudie, nonostante i suoi pianti disperati.
E
col progredire della malattia di suo marito, aveva anche dovuto
cedere alla richiesta di Lord Falmouth di affidare la cura dei
bambini a un'ulteriore balia. Voleva tenere duro ma purtroppo,
rendendosi conto che non poteva fare tutto, aveva acconsentito e nei
momenti più difficili vi si affidava. Perché non
poteva sdoppiarsi
e arrivare dappertutto, non voleva lasciare il cappezzale di Hugh e
soprattutto, quando le crisi erano forti, non voleva che i bambini vi
assistessero. I gemelli e Clowance erano troppo piccoli per capire ma
Jeremy pareva comprendere la situazione e spesso lo aveva visto
malinconico e con gli occhi rossi dal pianto. Adorava Hugh, era per
lui il padre che non aveva mai voluto essere Ross e aveva capito
perfettamente che stava per perderlo. E Demelza pregava, pregava e
ancora pregava di essere capace di stargli vicino e di trovare le
parole giuste per confortarlo e fargli superare quel dolore che
presto avrebbe travolto tutti.
La
primavera passò in un misto di incertezze e preoccupazioni e
nell'attesa che qualcosa avvenisse... O un miracolo, o l'inevitabile.
A
fine giugno la piccola Sarah prese un forte raffreddore,
materializzando tutte le paure più profonde di Dwight che
temeva
quel momento perché il cuoricino della bimba non aveva
abbastanza
forza per combattere la malattia, purché banale. E
contemporaneamente, anche le condizioni di Hugh precipitarono
ulteriormente, lasciando il giovane preda di febbri altissime, deliri
e lunghe perdite di coscienza.
Demelza
gli rimase a fianco, non abbandonandolo mai. Era stanca, stravolta,
con profonde occhiaie che le solcavano il viso e che facevano
preoccupare Lord Falmouth, Lady Alexandra, Prudie e i bambini,
nonché
tutti i servitori di quella grande casa che le si erano affezionati
nel corso di quell'ultimo anno vissuto lì. Ma decise di
essere
forte, non ascoltò consigli, rifiutò di dormire
in un'altra stanza
e lasciare Hugh con un infermiere, Demelza Carne non era mai stata
una donna che si metteva a sonnecchiare stravolta dalla fatica se
c'era bisogno di lottare e nemmeno Demelza Armitage sarebbe mai stata
quel tipo di persona. Il suo sesto senso le diceva che erano agli
sgoccioli e nella sua vita aveva visto morire già tante
persone, a
partire da sua madre, e questo le aveva dato una certa attitudine a
riconoscere sul viso di un malato i segni della fine imminente.
La
mattina del 23 giugno, Dwight non venne a visitare Hugh.
Mandò un
messaggero ad informarli che preferiva rimanere a casa per
l'aggravarsi delle condizioni di Sarah e consigliava il nome di un
medico suo amico per l'assistenza giornaliera a Hugh.
Ma
stranamente, quel giorno Hugh si svegliò in preda a un
benessere
curioso ed inaspettato, che non provava da lungo tempo e che
lasciò
tutti a bocca aperta visto che stava delirando solo poche ore prima
ed ora sembrava fresco come una rosa, senza dolori né febbre.
Riuscì
a sedersi sul letto, a mangiucchiare qualcosa, a chiacchierare con
lei e coi bambini che non finivano di abbracciarlo e di
rannicchiarsi accanto a lui, si fece leggere il giornale da suo zio e
ricordò con sua madre alcuni avvenimenti della sua infanzia.
Demelza
lo guardò, chiedendosi se esserne contenta o se quello non
fosse
altro che l'ultimo canto del cigno, quello strano senso di benessere
che spesso accompagna le ultime ore di un malato. Ma decise che, se
era davvero così, doveva approfittarne e vivere ogni attimo
con Hugh
intensamente, lei e i bambini. Era un dono vederlo nuovamente fra
loro, sentire la sua voce, godere della sua compagnia.
Non
chiamò il medico indicato da Dwight nel biglietto, non
voleva
nessuno. Scrissero una nota affettuosa per gli Enys insieme, dando un
bacio alla piccola Sarah, e trascorsero la serata tutti e sei sul
lettone, chiacchierando e ridendo.
Era
strano riuscire a ridere ma insieme, loro, riuscivano a fare anche
questo...
Hugh
raccontò una storia ai bambini, la storia di un giovane
poeta che
non sapeva fare niente se non scrivere ma che con la sua tenacia
riusciva a trovare la mitica città di Atlantide, piena d'oro
e di
oggetti preziosi. E alla fine, accarezzando i capelli castani di
Jeremy che gli faceva mille domande, passò al bambino il
testimone.
"Sei molto bravo anche tu ormai, a leggere. Più di me. E sei
anche bravissimo a raccontare fiabe, quindi sai una cosa?".
"Cosa?"
- chiese il bimbo.
"D'ora
in poi sarai tu l'incaricato per la lettura delle fiabe alle tue
sorelline e a tuo fratello".
Jeremy
per un attimo parve onorato da quell'onoreficenza ma poi si
rabbuiò,
rannicchiandosi fra le sue braccia. Era troppo sensibile per non
capire cosa ci fosse dietro quelle parole... "Grazie, ma non
voglio... Sei più bravo tu papà, devi farlo
ancora per un bel pò".
Hugh
gli baciò la testolina. "Leggere le fiabe e i libri
è
importante, non darei a nessuno che non sia davvero meritevole questo
onore. Te lo meriti, sei diventato davvero più bravo di me e
quando
una persona è brava a fare qualcosa, deve farla per il bene
degli
altri. Hai tutta la libreria per voi bambini a tua disposizione, ho
sistemato i libri in ordine di età e potrai scegliere da
solo cosa
leggere a Clowance e ai gemelli. E' un onore grandissimo e tu sei
l'unico bambino speciale a cui darlo".
"Va
bene..." - rispose Jeremy, non obiettando ulteriormente, mentre
i suoi occhi diventavano lucidi. Guardò sua madre,
annuì e poi
baciò Hugh sulla guancia. "Li leggerò tutti i
libri, te lo
prometto. E non ci farò neanche una pieghetta sui lati o gli
angoli".
"Bravo
bambino, sono così orgoglioso di te...". E detto questo,
Hugh
accarezzò i boccoli biondi di Clowance che, nella sua
camicina da
notte di seta bianca, sembrava una bambolina di porcellana. "Domani
dove ti porta la nonna?".
"A
comprare la crinolina per un vestito nuovo. Le serve proprio, io la
aiuto a scegliere".
Demelza
sorrise, Clowance era una bravissima esperta di moda ormai, anche se
aveva solo tre anni e mezzo. "La crinolina è solo per la
nonna?".
Clowance
si mise le manine sui fianchi, stizzita. "Serve anche a me un
vestito nuovo! Devo andare al compleanno di Emily Bassett, che mi
metto?".
Hugh
rise. "Ha ragione Demelza, lei è una lady, deve avere un
vestito nuovo".
"Sì"
– asserì la bimba, decisa e soddisfatta.
Hugh
baciò anche lei sulla fronte, ammirandone la grande
bellezza.
"Clowance, tu farai innamorare tutti gli uomini di Londra da
grande. Vedi di scegliere bene chi sposare però, non tutti
sono alla
tua altezza".
"Io
sposo il re!" - rispose la piccola, sicura, come se fosse la
cosa più ovvia del mondo.
Hugh
spalancò gli occhi, guardò Demelza a bocca aperta
e poi rise, di
nuovo, sciogliendo con quel gesto il cuore triste di sua moglie che
sanguinava nel vederlo, a modo suo, dire addio ai suoi bambini. "Il
re è alla tua altezza davvero, piccola" – disse
infine. "E
tu, amore mio, diventerai la suocera di sua maestà!".
Demelza
sorrise, stringendo a se la piccola, futura regina di Inghilterra. "A
quanto pare...".
E
infine Hugh guardò i gemellini che, sul letto fra lui e
Demelza,
giocavano fra loro o con dei pupazzetti, emettendo gridolini. Erano
meravigliosi, due bambolotti viventi che tutti ammiravano quando
venivano portati fuori a passeggio. Con la mano sfiorò il
mento di
Daisy che da qualche giorno era preda di una salivazione eccessiva e
finiva sempre con l'avere collo e vestitini fradici. La bimba
sorrise, muovendo le gambette e spalancando le labbra. E Hugh fu
colpito da qualcosa che nessuno aveva mai notato prima.
Sfiorò col
dito le gengive della piccola, accarezzando una puntina bianca che
spuntava da esse. "Demelza, guarda".
Lei
guardò, sorridendo. "Sta spuntando il primo dentino! Giuda,
è
talmente tremenda che presto prenderà a mordere tutti
quanti!".
Hugh
prese la piccina in braccio, stringendola a se, poi fece lo stesso
con Demian che quel giorno pareva propenso a farsi spupazzare anche
da lui, oltre che dalla sua mamma. "Daisy non è tremenda,
Daisy
è indipendente e forte e sta diventando grande.
Conquisterà il
mondo e sarà una donna libera che potrà fare
tutto ciò che
desidera. Non una lady da salotto, lei potrebbe..." - guardò
il
faccino furbo della piccola che lo guardava ridendo –
"Potrebbe
benissimo fare la piratessa e mettere a tacere pirati con anni di
esperienza e brigantaggio sulle spalle. Ce la vedo che li comanda a
bacchetta!".
Demelza
sussultò. "Piratessa? Giuda, no!".
"Non
eravamo d'accordo che i bambini dovessero fare ciò per cui
sono più
predisposti e che debbano scegliere liberamente come vivere la loro
vita?".
Demelza
sospirò. "Sì, ma non voglio vedere mia figlia
appesa al cappio
per il collo" – esclamò, mentre Clowance scuoteva
la testa e
Jeremy, nonostante la tritezza nel suo sguardo, ridacchiava.
Hugh
baciò la piccolina. "Non succederà, è
troppo sveglia per
farsi catturare. Mentre lui..." - disse, accarezzando la
testolina bionda di Demian – "Lui è come me, adora
averti
vicina. Sarai sempre il principe della mamma?".
Demian
rise, mettendosi le manine in bocca e succhiandosele, rendendo palese
che a breve i denti sarebbero spuntati pure a lui. E Demelza lo
prese, stringendoselo a se. "Mi chiedo quando vorrà dormire
da
solo nella sua culla...".
Hugh
la strinse a se, coi quattro bambini fra loro. "Lo farà
quando
si sentirà pronto. Ora ha bisogno di te, tienitelo vicino
finché
non sarà lui a volersene andare. Sarà davvero il
tuo piccolo
principe, lo so... Anche lui lo sa che è questo il suo
ruolo...
Quando sarà grande, sarà lui a mollarti per
dormire da solo".
"Ma
certo che lo tengo con me questo piccolo elfetto..." -
sussurrò
Demelza, stringendo il piccolino fra le sue braccia.
Demian
rise e prese dal letto un pupazzetto azzurro a forma di elefantino,
stringendoselo a se per giocare, e Daisy si imbrociò.
Scivoltò
dalle braccia di Hugh, si mise a pancia in giù e, circondata
dalla
curiosità di tutti, strisciò fino al fratello,
cercando di rubargli
il giocattolo.
Demian
strillò, lei tentò di morderlo e di graffiarlo e
lui in tutta
risposta cercò di spingerla via muovendo le gambette per
darle dei
calci.
Due
piccole pesti in erba, decisamente!
E
davanti a quella rappresentazione di tante liti furibonde future,
tutti risero in quello che, negli anni, avrebbero ricordato come
l'ultimo momento felice insieme della famiglia Armitage al completo.
Hugh
riprese Daisy, cercando di calmarla e intrattenendola con un altro
gioco, Clowance le diede una bambola ma la piccola urlò
stizzita,
piangendo per avere l'elefantino azzurro. "Ha più carattere
di
quanto ne potrò mai avere io..." - sussurrò Hugh.
Demelza
lo abbracciò, accoccolandosi fra le sue braccia e i bambini
rimasero
vicino a loro, sul letto, in silenzio finché anche i gemelli
si
furono calmati.
"Daisy
morde davvero. O vuole farlo..." - sussurrò infine Jeremy,
guardando la sorellina.
E
in quel momento entrò Prudie, ciabattando stancamente con
una
lettera in mano. "Scusate il disturbo ma c'è una missiva
dagli
Enys" – disse, guardando in cagnesco i gemelli. "E le
piccole pesti si sentivano urlare fino in fondo al corridoio, vi
faccio notare!".
Demelza
e Hugh si guardarono con un misto di apprensione, una lettera da
Dwight e Caroline a quell'ora della sera non poteva portar altro che
cattive notizie. Fuori era ormai buio, era tardi, mancava poco alla
mezzanotte e se quella lettera diceva ciò che temeva, era il
caso di
mandare a letto i bambini. Hugh appariva stanco e bisognoso di riposo
e lei voleva un attimo di pace sola con lui. Forse domani avrebbero
avuto un altro giorno insieme o forse no e proprio per questo
dovevano vivere il tempo loro concesso attimo per attimo, senza
sprecare nessun istante. Si alzò, prese la busta dalle mani
di
Prudie e poi annuì, indicandole i bambini. "E' ora di
metterli
a letto, potresti pensarci tu?".
"Certo
signora...".
"Potresti
pensare ai gemelli anche stanotte? Vorrei che Hugh riposasse al
meglio".
Prudie
sbuffò. "Sì signora... Ma se strillano, gli
faccio pat-pat sul
sedere a questi due" – sbottò, assumendo
un'espressione
altera che ai gemelli fece solo ridere.
Jeremy
si imbronciò, abbracciando Hugh e scoppiando a piangere.
"Noooo,
io non voglio andare a letto, resto quì!".
Demelza
si avvicinò a suo figlio, stranita da quel capriccio
– Jeremy non
era tipo – e preoccupata che avesse capito la
gravità delle
condizioni di Hugh e non volesse lasciarlo per paura di non vederlo
più. Ma se davvero così doveva essere, voleva che
suo figlio lo
ricordasse sereno, mentre rideva assieme a tutti loro sul letto, non
col volto marmoreo della morte... "Tesoro, su fai il bravo! E'
tardi".
Hugh
lo baciò sul nasino, se lo mise sulle gambe ed
appoggiò la fronte
contro la sua. "Devi sempre ubbidire a tua madre, lei sa cosa
è
meglio per te".
Jeremy
scosse la testa, disperato. "Domani mi darai il buongiorno?".
Hugh
annuì. "Se non dovessi riuscirci... Se non dovessimo
vederci,
beh non sarebbe grave... Tu sai cosa devi fare?".
"No".
"Cercarmi
nei posti della casa che più mi piacciono. Sai quali sono?".
Jeremy
deglutì, asciugandosi una lacrima dal viso mentre anche
Clowance
singhiozzava, pur non capendo appieno il senso di quel discorso. "La
nostra casetta sull'albero?".
"Esatto.
Poi?".
"La
biblioteca...".
"Bravo!
Sai, a volte le persone diventano invisibili, non si possono
più
vedere ma rimangono a vegliare su ciò che amano. Lascerei
mai i miei
libri?".
Jeremy
azzardò un sorriso triste. "No".
Hugh
lo baciò sulla fronte. "Cercami lì, quando sarai
triste. E io
ti guarderò ed ascolterò, nascosto fra quelle
pagine".
"Non
è la stessa cosa" – obiettò il piccolo.
"Oh,
è molto meglio. Fra i libri e sugli alberi, c'è
la conoscenza
assoluta che avvicina le persone le une alle altre. Se starai in
silenzio, se saprai ascoltare... mi sentirai presente. Curerai i miei
libri?".
"Sì.
E leggerò le fiabe...".
Hugh
lo strinse a se. "Lascio tutto nelle tue mani. In ottime mani...
Sarai un grandissimo uomo, Jeremy. E io sono stato fortunato a essere
diventato tuo padre. Il padre di tutti voi..." - disse,
guardando i quattro bambini. "Fate i bravi con la mamma e con
Prudie, con lo zio e la nonna, con tutti quanti...".
Prudie,
con gli occhi lucidi, prese i gemelli in mano, azzardò un
inchino
impacciato e poi lasciò che Hugh baciasse i piccolini che
teneva fra
le braccia. "Buonanotte signore" – sussurrò.
"Buonanotte
e grazie di tutto, Prudie...".
Demelza
baciò Clowance e Jeremy, li abbracciò e
tentò di dimostrarsi
serena e forte mentre li salutava per la notte, immaginando
già come
sarebbe stata triste la loro vita senza quel nuovo padre regalato dal
cielo e dalla fortuna di un incontro inaspettato che aveva reso tanto
ricche d'amore le loro vite.
I
bimbi si lasciarono condurre fuori dalla camera da Prudie ma prima di
uscire, Jeremy e Clowance salutarono Hugh con la manina e i gemelli
urlarono quello che doveva essere un saluto e la domestica
sbuffò,
borbottando che le due bestioline l'avrebbero resa sorda.
Demelza
sorrise tristemente, poi tornò al letto, sedendosi accanto a
suo
marito. Gli accarezzò i capelli, si stese al suo fianco e
lasciò
che lui la stringesse a se. "Non voglio aprirla questa lettera"
– sussurrò, con la missiva che teneva ancora in
mano.
Hugh
prese la busta. "Dobbiamo...".
"Non
voglio... Non voglio niente, solo stare quì con te a parlare
e
ridere come fin poco fa".
"E'
stata una bella giornata... I bambini sono meravigliosi..." -
sussurrò Hugh, accarezzandole la schiena. "Jeremy
è un bambino
geniale, buono e sensibile, farà grandi cose. Come
Clowance... Come
i gemelli, se sopravviveranno a Prudie".
Demelza
sorrise, nonostante tutto. "Comincio a pensare che lei avesse
ragione... Diceva che i gemelli sono esseri terribili e Daisy e
Demian le stanno dimostrando che ci aveva ampiamente visto giusto".
"Bambini
di carattere, non terribili...". Hugh sorrise pensando ai figli
ma poi divenne improvvisamente serio e pensieroso, a quelle parole.
"Lascio tante cose nelle tue mani e mi dispiace saperti sola ad
affrontarle, anche se so che sarai bravissima. Forse domani non
riuscirò a salutare Jeremy...".
"Non
dirlo!".
"Sai
anche tu che oggi è stato un dono... Ricordati cosa mi hai
promesso,
Demelza!".
Lei
si asciugò le lacrime che avevano preso a cadere. "Cosa?".
"Che
questa casa sarà piena di risate di bambini".
"Te
lo prometto" – sussurrò, baciandolo sulle labbra.
Avrebbe
lottato col sangue perché fosse così, per lui e
per i suoi figli.
Hugh
rispose al bacio. "Lo so che lo farai! Sei una donna
eccezionale, una fata, il miglior dono che mi abbia fatto la vita. Mi
hai donato una famiglia, dei figli, obbiettivi per cui vivere e
lavorare. Sono diventato un uomo migliore grazie a te... E il destino
sa essere gentile e prodigo di doni ma ora arriva la parte
più
beffarda, succede sempre così".
"Possiamo
ancora sperare... Sei quì, Hugh! Io voglio sperare, ne ho
bisogno".
Si tirò su, sentiva che doveva dire cosa aveva nel cuore,
cosa
provava, cosa sentiva ora. "Io non voglio che tu te ne vada, non
voglio di nuovo sentirmi sola, coi miei bambini, senza la presenza di
chi mi ha amato. Ti voglio accanto...".
Lui
le prese le mani, stringendole fra le sue. "Ricordi quando ci
siamo conosciuti?".
"Alla
festa di Natale di Caroline, certo".
"C'era
la nebbia, ricordi? Ricordi cosa ti avevo detto?".
Demelza
sorrise dolcemente, ricordando quella sera di due anni e mezzo prima
quando davanti a se non vedeva nulla se non un buco nero senza
futuro. Quanto era diventato importante quel giovane poeta, per lei,
da quella notte? Quanto avevano costruito insieme? Quanto avevano
riso e gioito? "Mi dicesti che nella nebbia si nascondono gli
spiriti e le fate. Le creature magiche...".
"Brava,
piccola fata. La nebbia mi ha portato a te e ora nella nebbia potrai
cercarmi. Io sarò lì, come sarò nella
libreria e nella casetta
sull'albero. Ma soprattutto, per te, nella nebbia. E' il nostro
simbolo. Quando avrai bisogno di me, scrutaci attraverso e mi
troverai e io sarò lì per te".
Demelza
singhiozzò. "Jeremy ha ragione, non è la stessa
cosa".
Hugh
le prese il viso fra le mani, accarezzandolo. "Avrai tutto
ciò
che ti serve per essere felice, serena e senza pensieri per il
futuro. Starai bene e anche i bambini. Avrai una bella vita, non
è
come quando hai lasciato la Cornovaglia, questa è la tua
casa, la
tua famiglia e io sarò in ogni angolo di questo posto, per
voi...
Cercami, parlami col cuore e io troverò il modo di
risponderti. E
ridi, ridi sempre. Viaggia, goditi la vita, divertiti, prendi un
cavallo e galoppa finché sei esausta... Fa quello che vuoi
senza
pensieri, ora puoi e potranno farlo anche i nostri bambini. Tutti e
quattro... Non ho potuto fare molto per loro, troppo poco tempo, ma
gli lascio il mio nome di famiglia e con questo saranno accettati nel
mondo, avranno una posizione e la possibilità di esaudire
ogni loro
desiderio. Sìì solo felice Demelza, vivi e fallo
anche per me, quì
o dove vorrai, dove ti potrai sentire a casa. Anche in Cornovaglia,
se vorrai tornarci".
Demelza
annuì, strinse la sua mano fra le sue, la portò
alle labbra e la
baciò e poi la tenne stretta contro il suo grembo. "Non
c'è
più nulla per me in Cornovaglia, la mia casa è
quì. Sai Hugh, una
volta mi hai chiesto se io ti amassi... E quello che posso dirti ora,
che so ORA, è che sei stato il meraviglioso compagno di un
pezzo
importante della mia vita, l'unica anima gemella capace di
raccogliere il mio cuore a pezzi, curarlo e farlo tornare a battere.
Nessuno al mondo ne sarebbe stato capace... Io non so più se
esiste
l'amore assoluto ma so che tu sei stato l'amore perfetto di questo
pezzo di vita, vero e sincero. Mi hai sempre detto che sono una fata
e all'inizio non ci credevo e forse non ci credo nemmeno ora, ma mi
fai sentire tale, solo tu... Solo tu hai visto una fata in una donna
che, alla meglio, è stata sempre e solo definita la figlia
di un
minatore adatta solo a lavorare. Hai amato i miei figli, li hai
cresciuti con me e loro ti porteranno sempre nel cuore, farai parte
del loro essere e degli adulti che diventeranno. Grazie per aver
incrociato il mio cammino, per avermi amata e per avermi permesso di
amare di nuovo... Questa casa sarà piena di risate
infantili, te lo
giuro. E riderò con loro, ci riuscirò per te...".
Hugh
sprofondò sul cuscino, inspirando profondamente, seppur a
fatica.
"Grazie..." - sussurrò, con gli occhi lucidi di chi
finalmente sente pace e amore su di se.
"Sei
stanco?".
"Voglio
dormire... Ho freddo ma non importa...".
Demelza
deglutì. Era ormai estate, faceva caldo e questo non era un
buon
segno. "Vuoi che accenda il camino?".
"No,
voglio che tu apra la busta di Dwight e Caroline".
Lo
accontentò, non poteva non farlo. Non voleva leggere, non
voleva
sapere di un'altra bambina che, come Julia... Ma lo fece, per lui.
Gli avrebbe regalato il mondo se questo avesse potuto salvarlo.
Aprì
la busta e lesse, con gli occhi gonfi di lacrime. "Sarah è
morta oggi pomeriggio, fra le braccia di Caroline..." - disse
solo, fra i singhiozzi.
Hugh
la guardò ma non pianse come lei. Anzi, sul suo viso
comparve uno
strano senso di pace. "E allora è arrivato davvero il
momento
di andare...".
"Che
vuoi dire?".
La
strinse a se, premendola contro il suo corpo. La baciò
un'ultima
volta sulle labbra, le accarezzò quei lunghissimi capelli
rossi che
adorava e poi chiuse gli occhi. "Che devo mantenere una
promessa... Tutti ne dobbiamo mantenere una...".
Girò
la testa di lato, affondò il viso nel suo collo e pian
piano,
cullato dal respiro di sua moglie, si addormentò senza dire
altro.
Demelza lo strinse a se accarezzandogli i capelli, gli prese la mano,
la tenne stretta nella sua e le loro fedi nuziali tintinnarono
toccandosi. Quella fede era lì, a ricordare a Demelza chi
era l'uomo
che aveva sposato, che era rimasto, che non aveva cercato altrove
altre donne, che l'aveva amata e che era stato il padre dei suoi
figli senza pensare mai di scappare. Suo marito...
La
mano di Hugh divenne fredda nella sua e pian piano scivolò
dal sonno
alla morte serenamente, senza soffrire e senza accorgersene. E lei
pianse in silenzio, disperata, di nuovo sola ad affrontare il mondo,
senza più quell'uomo che le aveva fatto apparire la vita
come
un'immensa favola. Pianse, ci sarebbe stato il momento per essere
nuovamente felici come promesso, ma c'era un momento per ogni cosa e
quello era ancora il tempo delle lacrime.
E
anche se Demelza non lo seppe mai, quel giovane poeta che l'aveva
sposata raggiunse la bambina che, da qualche ora, lo stava aspettando
per intraprendere con lui un lungo viaggio lontano, insieme.
Hugh
aveva mantenuto la sua promessa...
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Capitolo 26 *** Capitolo ventisei ***
Le
avevano spiegato che una Lady non piange mai in pubblico, non deve
mostrare le proprie emozioni e soprattutto le sue debolezze.
Gliel'aveva detto Lord Falmouth nel suo studio, con la sua classica
compostezza unita però a due sofferenti occhi lucidi di chi
aveva
pianto tanto e dormito poco, poco prima dell'inizio della cerimonia
funebre in cui avrebbe dovuto dire addio a quell'uomo che era stato
per lei marito, poeta, anima romantica e innamorata, elfo o principe
azzurro delle fiabe e padre dei suoi figli.
Si
era vestita di nero, aveva cercato di trovare in se la forza di
affrontare quella giornata come ci si sarebbe aspettati dalla Lady di
casa Boscawen, aveva scavato dentro di se alla ricerca di coraggio e
orgoglio perché la sua nuova famiglia e Hugh fossero
orgogliosi di
lei ed era uscita a viso alto e col cuore a pezzi. Aveva pianto tanto
la notte precedente, stringendo a se i suoi figli e avrebbe pianto di
nuovo al suo ritorno ma ora doveva essere forte, questo ci si
aspettava da lei e anche se non capiva cosa ci fosse di male ad
esternare i propri sentimenti, se queste erano le regole, doveva
adeguarsi.
Aveva
affidati i gemellini e Clowance a delle tate, non se la sentiva di
portarli al funerale, erano troppo piccoli per capire e avrebbero
disturbato la funzione, solo Jeremy le sarebbe rimasto a fianco. Suo
figlio era sprofondato in un profondo stato di tristezza quando gli
aveva detto che Hugh era volato in cielo, si era chiuso in camera sua
per un'intera giornata rifiutando di mangiare e parlare con chiunque
e solo con infinita pazienza era riuscita a farlo sfogare e piangere,
come era giusto che fosse. Se lo era tenuto nel lettone, assieme agli
altri bambini, quella notte, accarezzandogli la schiena e asciugando
le sue lacrime ma era annientata e non trovando consolazione in lei,
non riusciva a trovarne per lui. Era terribile, si sentiva sola,
spersa, fredda senza l'alone di calore che Hugh emanava ogni volta
che le era accanto. Era morto, giovane, con una vita davanti, pieno
di sogni e speranze, con tanti libri che avrebbe voluto leggere e mai
avrebbe sfogliato e con la consapevolezza di non poter vedere
crescere i suoi amatissimi figli, portarli al parco di notte
perché
non dormivano, scoprire se avrebbero conquistato davvero la Scozia o
se Daisy sarebbe diventata sul serio una piratessa, Clowance una
regina o Jeremy un letterato. Era morto quando chiedeva solo tempo
per amare e scrivere in versi i suoi sentimenti, era morto nel fiore
degli anni lasciando lei, una donna che credeva di non essere capace
di provare ancora sentimenti, disperata e inconsolabile. Le aveva
fatto scoprire il lato più delicato e puro dell'amore,
quello che sa
dare incondizionatamente cercando di non ferire mai, quello unico e
vero che non si aspetta null'altro in cambio se non di vedere felice
chi si ama, quello vero, quello che non cerca altrove e ferisce e
uccide. Quello che ti fa sentire la principessa di una fiaba amata da
un principe che arriva su un cavallo bianco, che promette di amarti
per sempre e poi lo fa sul serio...
Prese
Jeremy per mano, lui aveva insistito per essere presente al funerale
e non poteva negargli nulla in proposito, era abbastanza grande per
capire, adorava Hugh e aveva diritto a dirgli addio, per quanto
straziante potesse essere... Quando Ross era scomparso dalla vita di
suo figlio, Jeremy era piccolissimo e non aveva realizzato
così
violentemente il distacco e di fatto suo padre non era mai stato
presente per lui, non lo aveva mai né voluto né
amato, ma Hugh...
Hugh era suo padre più di quanto non lo fosse mai stato
Ross, aveva
passato tanto tempo con lui, gli aveva insegnato tutto ciò
che
sapeva, avevano riso e si erano confidati l'un l'altro e costruito
insieme talmente tante cose che ora, per il bambino, si era aperto un
baratro davanti a se. Ora davvero Jeremy si sentiva orfano, ora aveva
davvero perso un padre.
Salirono
sulla carrozza, attesi da Lord Falmouth e Lady Alexandra, anche lei
vestita a lutto, in nero, col viso celato dalla retina di un
cappello. La guardò, provò pietà per
lei perché conosceva bene il
suo dolore e sapeva che non era paragonabile al dolore di nessun
altro fra loro. Lady Alexandra aveva perso suo figlio, il suo unico e
adorato figlio, la luce dei suoi occhi e il suo orgoglio più
grande... Come lei, quando aveva perso Julia... D'istinto
allungò la
mano, accarezzò quella della suocera e la strinse nella sua.
Lady
Alexandra alzò a malapena lo sguardo, annuì e
ricambiò la stretta,
impercettibilmente.
La
Chiesa era gremita e al loro arrivo, Demelza sentì tutti gli
occhi
puntati su di se. Strinse la manina di Jeremy che tremava e
mordendosi il labbro per cercare di non piangere, prese posto nella
prima fila, riservata ai Boscawen.
C'erano
tutti, tutta l'alta società londinese, rappresentanti della
nobiltà,
volti amici e volti meno noti ma comunque tutte persone della Londra
alto-locata che avevano riverenza e rispetto per il casato o che
avevano a che fare con Lord Falmouth, affari in comune o carriere
politiche affini. Hugh non era molto conosciuto in quell'ambiete, era
sempre vissuto ai margini di quella società ma la sua
famiglia era
fra le più antiche e nobili della capitale e godeva del
rispetto di
tutti coloro che contavano a Westminster e a corte. C'erano
rappresentanti del Parlamento, notai, duchi e conti, principi e poi
Lord Bassett, amico-nemico di Falmouth, sua moglie, la dolcissima
Margarita che, fregandosene delle occhiatacce di sua madre e delle
regole dell'etichetta, singhiozzava seduta sulla sua panca e tante
altre persone che in quell'ultimo anno aveva incrociato nella sua
nuova casa e di cui non riusciva, in quel momento, a ricordare i
nomi.
Era
confusa, annientata, l'unica sua certezza, l'unico dono bello della
sua vita se n'era andato. Era suo destino rimanere sola ed era
destino dei suoi piccoli crescere senza padre... Guardò
Jeremy che
aveva perso la sua guida, pensò a Clowance che di Hugh
avrebbe avuto
un ricordo sbiadito e poi gli si strinse il cuore nel realizzare che
per i gemellini lui sarebbe stato solo un'idea vaga, una figura da
immaginare ma che mai avrebbero potuto conoscere.
Guardò
la bara in mezzo alla navata e immaginò il corpo giovane,
dai
lineamenti delicati e dal sorriso gentile che vi riposava dentro, al
buio, senza più nessuna possibilità di assaporare
la vita. Provò
la voglia di piangere, una lacrima le scivolò dal viso e non
riuscì
a fermarla. Giuda, che male c'era a piangere per la morte del suo
uomo?
Avrebbe
voluto avere vicino Dwight e Caroline ma loro erano impegnati, in
un'altra Chiesa, a dire addio alla loro piccola Sarah e in quei
giorni durissimi ognuno di loro aveva dovuto far fronte al proprio
dolore da solo, senza l'aiuto di altri... Demelza avrebbe voluto star
vicino ad entrambi, il loro dolore, come quello di Lady Alexandra,
era anche il suo, ma non poteva. Non ci riusciva... Ed era certa che
anche Dwight e Caroline avrebbero voluto starle accanto ma non
avevano potuto esserci per i medesimi motivi. Ci sarebbero stati, gli
uni per gli altri, dal giorno dopo ma ora, adesso, ognuno sarebbe
rimasto rintanato nel proprio mondo, a sopportare da solo il peso
delle scelte che il destino aveva compiuto sulle loro vite.
La
cerimonia scivolò via, fra parti rituali e ricordi e
aneddoti sulla
vita di questo giovane uomo, poeta e navigatore, che se n'era andato
troppo presto. Jeremy si strinse a lei, affondò il viso
contro il
suo fianco e Demelza lo cinse con le braccia. Non gliene importava
niente dell'etichetta e se Jeremy voleva piangere suo padre, aveva
tutto il diritto di farlo e lei non glielo avrebbe impedito. E non lo
impedì nemmeno a se stessa, quando calarono la bara nella
terra.
Lasciò scivolare silenziosamente le lacrime sul suo viso e
lo
ricordò vivo, che la portava a conoscere un cucciolo di
tigre, che
le lasciava poesie con un petalo di fiore ogni volta diverso nella
busta, che si devastava le dita a martellate per costruire a Jeremy
la casetta sull'albero, che insegnava ai suoi figli a scrivere per
lei una letterina di Natale. Ed era così che lo avrebbe
sempre
portato nel suo cuore, vivo, gentile, sorridente... Non nella terra
fredda, MAI! Hugh sarebbe stato per sempre il suo elfo magico
nascosto nella nebbia, pronto ad accarezzare il suo cuore ogni volta
che lei ne avesse avuto bisogno.
...
Quando
rientrarono a casa, a sera tardi, Lady Alexandra si rifugiò
nelle
sue stanze e Lord Falmouth nel suo ufficio, non prima di averle detto
che voleva parlarle quanto prima.
Lo
rassicurò che sarebbe andata da lui appena sistemati i
bambini e,
dopo essere andata da Prudie ad abbracciare i gemelli e Clowance e
avergli affidato Jeremy, silenzioso e cupo, li baciò e si
recò da
lui.
Percorse
quei lunghi corridoi che ormai erano diventati famigliari ma che
senza Hugh erano diventati come freddi e impersonali, come se non
fossero più casa...
E
mentre camminava, da sola, si concesse un lungo pianto. Si
accasciò
in terra, era in un corridoio buio e deserto e nessuno avrebbe visto
che piangeva come sanno piangere le figlie dei minatori e non le
Lady. E non le importava, lei voleva piangere, voleva lasciar andare
il suo dolore e sentiva di averne il diritto. Aveva perso l'unica
persona al mondo che l'avesse davvero amata, suo marito e il padre
dei suoi bambini ed ora era sola, di nuovo... E doveva essere forte,
per lui e ciò che gli aveva promesso e per i suoi figli.
Soprattutto
per loro!
E
quando si riprese, quando finì quel suo sfogo solitario,
andò da
Lord Falmouth. Bussò alla porta e la voce sommessa dell'uomo
la
invitò ad entrare.
Era
seduto alla sua scrivania, il volto scavato dal dolore e i capelli
sempre perfettamente pettinati ed ordinati erano in disordine come se
ci avesse passato istericamente le dita fra una ciocca e l'altra.
Aveva gli occhi arrossati, come lei... E forse anche lui, da solo,
aveva pianto poco signoribilmente quel nipote ormai perso che per lui
era stato come un figlio. "Demelza, siediti" – chiese,
con aria stanca.
Lei
annuì, andò alla scrivania e si sedette davanti a
lui, sfinita. E
Lord Falmouth le avvicinò dei fogli, scritti in bella
grafia,
firmati da Hugh e da qualcun altro che lei non conosceva. "Cosa
sono?" - chiese, confusa e incerta sul perché fosse
lì quando
avrebbe voluto solo andare dai suoi bambini, chiudersi in camera e
trovare in loro la forza di vivere.
Lord
Falmouth le sorrise, gentilmente. "Le volontà di Hugh, che
ha
redatto tre mesi fa con me e un notaio. Non voleva che te ne parlassi
prima di... prima..." - si interruppe, con voce rotta, poi si
ricompose – "Prima che se ne andasse... Non voleva turbarti
prima del dovuto e ha pensato a ogni cosa per tutelare te e i bambini
senza darti disturbo".
"Cosa?".
Lo guardò, non ci capiva un accidenti di quel fiume di
parole dal
dubbio significato e non aveva idea di cosa Lord Falmouth stesse
parlando.
L'uomo
sospirò, prendendole una mano nella sua e stringendola
gentilmente.
"All'inizio, Demelza, tu non mi convincevi. Ti ho guardata,
soppesata e studiata in silenzio con occhi attenti e clinici, come
Hugh non poteva fare perché guidato dai sentimentalismi che
da
sempre hanno spinto il suo agire. Lo sai bene pure tu, pensavo fossi
una piccola arrivista in cerca di ricchezza e di un nobile dal ricco
patrimonio, ma...".
Lo
sguardo di Demelza si indurì. "Ma?".
"Ma
aveva ragione lui, Hugh..." - ammise infine Falmouth,
sorridendole di nuovo. "Sei entrata in questa casa e in questa
famiglia e noi ti amiamo. Hai portato una nuova luce in questa casa,
hai dato gioia non solo a Hugh ma anche a me ed Alexandra, hai reso
la nostra vita più famigliare e intima, hai portato a noi
due
bambini deliziosi e ci hai resi più ricchi con la nascita
inaspettata e incredibile di due sani gemelli. Hugh ti ha scelta e ha
scelto bene... Il suo cuore lo ha guidato nella giusta direzione e io
sono felice che tu sia quì e mi sarei preso cura di voi in
qualunque
caso... Ma Hugh ha voluto mettere per iscritto ciò che
desiderava e
ora ti devo rendere partecipe delle sue scelte".
Rimase
senza fiato, commossa da quelle parole tanto simili a quelle che le
aveva rivolto Francis anni prima, il giorno in cui era morto alla
Wheal Grace. E quella casa che le era apparsa poco prima fredda e
priva di calore, tornò improvvisamente a battere di calore e
amore
nelle sue vene. Era a casa e quella era la sua famiglia... "Scelte?".
Falmouth
annuì. "Ero intenzionato a gestire da me la parte di
patrimonio
spettante a Hugh, in attesa che i bambini fossero abbastanza grandi
per farlo da soli. Avrei provveduto a te dandoti, come faccio con
Alexandra, un generoso appannaggio mensile e avrei disposto del
denaro di Hugh per la gestione dei bambini. Jeremy e Clowance, in
quanto figliastri, entrano nell'asse ereditario ma in maniera minore
rispetto a Daisy e Demian. Beh, così dice la legge, quanto
meno...
Ma Hugh non era d'accordo, ha dato il suo cognome ai tuoi primi figli
e li ha amati come ha amato i suoi gemelli e in base a questo ha
fatto scelte precise a loro riguardo".
"State
parlando di denaro?". Demelza scosse la testa, i soldi non le
erano mai interessati e non aveva voglia di parlarne proprio ora,
dopo aver seppellito suo marito.
Falmouth
parve capire le sue titubanze e si affrettò a spiegare.
"Dobbiamo
parlarne ora perché Hugh me lo ha chiesto. Ora e poi non
affronteremo mai più l'argomento. Puoi sopportarlo?".
"Se
Hugh voleva questo, lo sopporterò" – rispose,
pensando a
quanto avesse riflettuto Hugh su faccende come denaro e testamento
che tanto distanti erano dal suo essere.
Falmouth
srotolò il documento che teneva in mano. "Hugh desidera che
sia
tu a entrare in possesso dell'intera parte di patrimonio di sua
proprietà. Denaro, titoli, diversi cottage fuori Londra e
altre
proprietà sparse per l'Inghilterra, la parte di questa casa
che era
di sua proprietà, da oggi sono tuoi e a te spetta la loro
amministrazione. Ho piena fiducia in te e ne aveva anche Hugh e...".
Demelza
scattò sulla sedia, incredula. "COSA?". Giuda, come poteva
essere, come poteva fare a gestire un qualcosa di tanto grande? Come
aveva potuto Hugh fare una scelta tanto folle? Era la figlia di un
minatore lei, lui lo sapeva che non poteva esserne capace! Era
impazzito?
Falmouth
sorrise a quella sua reazione. "Hugh mi disse che nessuno
avrebbe saputo amministrare meglio di una madre il patrimonio che poi
passerà in eredità ai suoi figli. Sei una donna
intelligente, piena
di volontà, che apprende in fretta e che ama i suoi bambini
e benché
avrei preferito essere io a gestire tutto, sono d'accordo con la
scelta di Hugh perché in te vedo le capacità per
farcela. Hai
carisma e un occhio più attento e lungimirante di mio nipote
per gli
affari, sono certo che farai bene e di fatto, se ne avrai bisogno, io
sarò quì ad aiutarti. Per quanto riguarda i
bambini... Hugh ha
disposto che il patrimonio che gestirai venga diviso in quattro parti
uguali fra i tuoi figli, equiparando i diritti di Jeremy e Clowance a
quelli dei gemelli. Entreranno in possesso della loro parte al
compimento della maggiore età e sarai tu, nel frattempo, a
gestire
il patrimonio che Hugh ti ha affidato. In più avrai per te
stessa il
tuo appannaggio mensile, della somma doppia rispetto a quella che do
a mia sorella Alexandra perché tu rappresenterai assieme a
me i
Boscawen, parteciperai con me a eventi e feste e le spese per essere
impeccabile e ammirata sono superiori di quelle di tua suocera. Sei
la punta di diamante di questo casato, la Lady dei Boscawen, Hugh ha
deciso di darti piena fiducia e di predisporre perché tu e i
piccoli
abbiate davanti un futuro radioso e sereno. Per il resto, io
continuerò ad occuparmi degli affari di famiglia e di
politica,
gestirò l'immagine del casato e continuerò ad
essere lo zio
presente che sono sempre stato per i bambini. Le abitudini della cena
insieme, delle chiacchiere estive in giardino, delle passeggiate con
Jeremy e quant'altro, che tu hai portato con Hugh in questa casa,
devono proseguire. Ora e per sempre. Hugh desiderava anche questo!".
Tremò,
spaventata da quel fiume di parole e dalla vastità del dono
fattale
da Hugh e dal carico di responsabilità annesso. Lei... Lei,
Demelza
Carne, figlia di un minatore e moglie ripudiata di un nobile di
campagna, giunta a Londra pochi anni prima senza un soldo e con due
figli piccoli da mantenere, era ora una delle donne più
facoltose e
ricche di Londra. Avrebbe avuto mille impegni, mille
responsabilità,
un nuovo stile di vita e il dovere di gestire non solo i suoi figli e
il loro futuro ma anche quello della casata di cui era entrata a far
parte e di cui i suoi bimbi erano di fatto eredi. Tutti, allo stesso
modo... Hugh aveva dimostrato e desiderato mettere nero su bianco
quanto li amasse, senza fare distinzioni. Avrebbe voluto picchiarlo
per la grande responsabilità che le aveva lasciato sulle
spalle e
baciarlo per quella grande prova d'amore che le aveva dato. "Non
so che dire...".
Falmouth
si alzò dalla sedia, invitandola a fare altrettanto.
"Stasera
non devi dire nulla, è il momento del lutto, questo. Ora
devi solo
andare dai tuoi figli, abbracciarli e piangere con loro mio nipote,
tuo marito e loro padre. E da domani penseremo a iniziare una nuova
vita, Lady Armitage. O Lady Boscawen... Ti chiameranno in entrambi i
modi, cerca di abituarti".
"Va
bene... Ma mi aiuterete?".
"Sono
quì per questo, Demelza. Costruiamo un futuro brillante per
i
quattro piccoli eredi di questo casato. In memoria di Hugh...".
Sorrise,
dolcemente. "Per Hugh". Gli strinse la mano ma poi cedette
al desiderio di abbracciarlo. Stava soffrendo, quanto lei. Aveva
perso suo nipote e tante idee che lo avevano sorretto negli anni
erano crollate col suo arrivo e aveva dovuto reinventarsi a
un'età
non più giovane. E ci era riuscito, dimostrando una grande
forza ed
intelligenza. Voleva bene a Lord Falmouth, lo ammirava ed era grata
della sua presenza nella vita dei suoi figli soprattutto ora che Hugh
non c'era più.
Lo
salutò con affetto, col cuore un pò
più leggero e poi tornò nelle
sue stanze.
Quando
arrivò, c'era Mary in camera da letto coi bambini. Era la
domestica
privata di Lord Falmouth e spesso aveva curato i piccoli, dando il
cambio a Prudie. Clowance dormiva sul lettone e stranamente lo stava
facendo anche Demian, fra le braccia della sorellina. Daisy invece
dormiva nella culla, da sola come sempre, mentre Jeremy era seduto
sul davanzale della finestra, intento a guardare il giardino
sottostante ormai avvolto dal buio della sera.
Congedò
Mary e si avvicinò a suo figlio, al suo piccolo ometto che
stava
soffrendo quanto lei e che era quello che più capiva
l'immensità
della tragedia che li aveva colpiti. Era fiera di lui, era stato un
figlio bravo sia durante la vita di Hugh sia durante il suo funerale,
dimostrando una maturità superiore ai suoi sei anni. Era
ancora
tanto piccolo e aveva già così sofferto... "Cosa
guardi?"
- gli chiese, sedendosi sul davanzale davanti a lui.
"Niente...
Pensavo".
"A
cosa?".
Jeremy
abbassò lo sguardo. "Papà mi ha chiesto di
leggere le fiabe ai
miei fratelli. Ma io voglio lui quì a leggerle, anche a me!
Voglio
il mio papà!".
Gli
accarezzò il visino nuovamente rigato di lacrime, lo strinse
a se e
cercò le parole giuste per consolarlo. "Hugh non
è stato per
troppo tempo il tuo papà ma è stato un genitore
talmente bravo che
resterà sempre nel tuo cuore e tu, per farlo contento,
dovresti fare
quello che lui ti ha chiesto".
Jeremy
singhiozzò. "Poco tempo, troppo poco! Non è
giusto...".
Gli
sorrise, se lo prese sulle ginocchia e lo strinse a se. "Vuoi
saperla una storia?".
"Quale?".
"La
mia, di quando ero piccola come te...".
"Sì".
Demelza
sospirò, chiuse gli occhi e con la mente tornò ad
Illugan, nella
povera casa dov'era nata e cresciuta. "Sai, il mio papà...
tuo
nonno... Non era buono con me. E' stato mio padre a lungo, per
quattordici anni. E io per quattordici anni ho ricevuto solo botte,
cinghiate sulla schiena, pugni e brutte parole. Non avevo cibo, non
avevo vestiti e non ho mai ricevuto un gesto gentile da lui... E
quindi vedi, non è importante per quanto tempo un bambino
abbia un
padre, la cosa importante è COME si passa il tempo insieme.
Tu e
papà siete stati insieme solo tre anni ma sono stati tanto
belli,
felici e preziosi, che valgono una vita. E sei stato un bambino
fortunato a vivere questi anni con lui... Ti ha amato tanto, come
pochi padri sanno amare un bambino, eri il suo preferito e stravedeva
per te e quindi Jeremy, tre anni sono pochi ma nel tuo caso valgono
una vita e ne dovrai sempre fare tesoro".
Jeremy
si voltò a guardarla, pensando a quanto le aveva appena
detto. "Sì,
io ho avuto un bravo papà. Non tutti i bambini ce l'hanno...
Tu non
lo avevi, nemmeno io una volta, ne avevo uno cattivo ma poi ho
trovato un papà bravissimo! Tu no?".
Demelza
sussultò per quel vago accenno – voluto o casuale
– di Jeremy a
Ross. Ma decise per il momento di ignorarlo. "No, ma poi son
stata ripagata in un altro modo".
"Come?".
Si
chinò a baciarlo sulla punta del nasino. "Con quattro
bellissimi bambini, i migliori del mondo".
Jeremy
arrossì, imbarazzato. "Mamma?".
"Sì".
"Il
mio primo papà, quello cattivo, mi picchiava come faceva il
tuo?".
Demelza
spalancò gli occhi, presa alla sprovvista da quella domanda
che non
si aspettava. "No... Certo che no! Non era il tipo e io non
glielo avrei comunque permesso".
Jeremy
si rannicchiò fra le sue braccia. "Ma era cattivo lo stesso,
io
non gli piacevo, non mi voleva e voleva buttarmi via... Per fortuna
poi ho avuto un papà nuovo bravo. Hai ragione, sono stato
fortunato".
Era
felice che Jeremy avesse trovato una consolazione ma quelle parole
dette verso Ross... Un papà cattivo... Ricordava quando,
durante la
gravidanza dei gemelli, si era lasciata andare a uno sfogo con lui
che forse avrebbe dovuto evitare e che evidentemente aveva lasciato
il segno ma come poteva mentirgli? Come poteva dirgli che anche Ross
lo aveva amato quando era palesemente una bugia? Ross non aveva mai
voluto Jeremy, non gli era mai importato nulla di lui, né se
avesse
cibo, né se avesse freddo, per lui era importante solo
Jeoffrey
Charles e avrebbe tolto volentieri a Jeremy anche il poco che aveva,
se fosse servito a far contento suo nipote ed Elizabeth. Ross non
aveva mai degnato di uno sguardo Jeremy, mai lo aveva visto guardarlo
con amore, affetto o semplice desiderio di fare qualcosa insieme a
lui... Ross voleva solo prendersi cura di Elizabeth e appena ne aveva
avuto l'occasione, era fuggito da lei abbandonando tutti loro.
"Fortunato, sì..." - rispose, con quel nuovo peso nel
cuore.
"Il
mio primo papà non mi voleva bene?" - chiese Jeremy,
insistendo.
"No".
"E
a te?".
"No".
"E
a Clowance? Clowance piace a tutti, mamma".
Scosse
la testa. "No, nemmeno a Clowance...". Lo abbracciò,
forte. "Nella vita Jeremy, dobbiamo fare delle scelte. E io ho
scelto Hugh come vostro padre, l'UNICO padre. Non pensare a nessun
altro, ricorda lui e quanto ti ha amato. E dimentica tutto il resto,
non ha senso pensarci, non ha senso pensare a chi non ha voluto aver
cura di noi. Questa è la nostra casa, questa è la
nostra famiglia e
noi dobbiamo viver quì, con chi ci ama e ha piacere ad
averci
vicini. Il resto...".
"Non
conta..." - concluse, il bambino.
"No,
non conta. Dobbiamo ricordare chi ci ha fatto del bene, non chi ci ha
fatto del male".
Jeremy
fece per rispondere, ma i vagiti di Daisy dalla culla, fecero voltare
entrambi. "Fra un pò strilla!" - esclamò il
bambino.
Demelza
si avvicinò alla culla, prendendo in braccio la piccola che
si era
svegliata e si tormentava le manine mordendosele. "Amore
mio...". Le davano fastidio le gengive, fra un pò avrebbe
iniziato a piangere sul serio, svegliando i due bambini che ancora
dormivano. "Jeremy, vado a farle un biberon con della camomilla.
Potresti dare un occhio a Clowance e Demian mentre sono via?".
"Sì!".
Gli
sorrise, era un bravissimo bambino. Strinse a se Daisy e
uscì dalla
stanza giusto in tempo prima che la piccola iniziasse a piangere
disperata. "Shh amore, ora passa" – le sussurrò,
pensando a quanto si sarebbe preoccupato Hugh per quei piccoli e
normali malesseri infantili.
Prudie
uscì nel corridoio, destata dal rumore del pianto della
piccola. In
camicia da notte, con la cuffia sulla testa, le si avvicinò
per
aiutarla. "Tutto bene?".
"Vado
a farle una camomilla, piange per i denti...".
Prudie
guardò storto la piccola. "Prima le coliche, ora i denti...
Questa marmocchia trova sempre scuse per piangere".
"Forse
le manca anche il suo papà... Hugh se la cullava sempre la
sera, per
farla addormentare" – sussurrò Demelza, con voce
rotta.
Prudie
abbassò il capo, sospirando. "Vengo io ad aiutarti con la
camomilla, ragazza. Tu occupati della piccolina mentre la preparo".
"Grazie"
– sussurrò Demelza, prendendola sotto braccio.
Scesero
fino alle cucine, deserte, e Demelza si sedette su una sedia con
Daisy sulle gambe mentre Prudie scaldava dell'acqua. "Sai, Hugh
ha fatto testamento alcuni mesi fa... Me lo ha comunicato prima Lord
Falmouth".
Prudie
si voltò, sorpresa. "Ed è una cosa bella?".
"E'
una cosa che fa paura, ora avrò tante
responsabilità. Mi ha
nominata tutore assoluto dei suoi beni, compresa l'eredità
che andrà
ai bambini. Ha disposto che loro quattro abbiamo la stessa
eredità,
tutto sarà diviso in parti uguali".
Prudie
sbiancò. "Clowance e Jeremy avranno le stesse cose dei
gemelli?".
"Sì...
Hugh amava i miei figli, per lui erano suoi come lo sono Daisy e
Demian. Non ha voluto fare distinzioni fra loro e così
facendo ha
evitato gelosie future, garantendo a tutti e quattro un rapporto
sereno fra fratelli. E tutto il resto è in mano mia, mi ha
sempre
dato massima fiducia e ha preferito me a Lord Falmouth per
amministrare i suoi beni e io...".
"E
tu?".
"E
io non so se me lo merito. Sono Lady Armitage ma in fondo al cuore
non ho mai smesso del tutto di sentirmi Demelza Poldark. Non
è
giusto, non verso Hugh. Ross mi ha tradita, mi ha lasciata, ha
abbandonato i suoi figli lasciandoli senza nulla e io, nonostante
abbia trovato un uomo meraviglioso che ha preso il suo posto e ha
fatto ciò che lui non ha mai voluto fare, non ho mai
lasciato andare
completamente quel ricordo di lui. Ma ora basta... Ora voglio essere
una donna degna di lui, una donna di cui Hugh possa essere orgoglioso
assieme alla sua famiglia. Voglio fare bene per chi mi ha fatto del
bene e cancellare ogni traccia dentro di me di chi mi ha solo
umiliata e tradita. Ross nemmeno ricorda che sia mai esistita, vive
felice con la famiglia che ha sempre desiderato e sarà un
padre e un
marito meraviglioso e io... io vivrò la mia di vita.
Quì, con
queste persone che mi amano, che amano i miei figli e che mi hanno
accolto dando a tutti noi una famiglia. Demelza Poldark non esiste
più, da oggi. Sarò Lady Armitage, la Lady di
questa famiglia e
lotterò per rappresentarla al meglio in attesa che i miei
figli
crescano".
Prudie
si avvicinò, accarezzandole la guancia e dando il biberon
con la
camomilla a Daisy. "Ci riuscirai? Riuscirai a dimenticare?".
"Dimenticherò
Ross e il male che mi ha fatto. Non chi sono, quello mai e tu devi
aiutarmi a rimanere me stessa in questo nuovo mondo dove sono
capitata".
Prudie
sorrise. "Dimenticherai Ross? Davvero?".
"Lo
farò, come lui ha fatto con noi del resto".
Prudie
sospirò. "Io non credo che lui abbia dimenticato... Credo
che
abbia fatto errori enormi ma dimenticare, mai. Lui non dimentica,
soprattutto le sue colpe...".
"Lui
non considera una colpa ciò che ci ha fatto. Non valevamo
nulla ai
suoi occhi. Prima di tutto veniva Elizabeth con Jeoffrey Charles, poi
Trenwith, poi i minatori e le loro famiglie e in fondo alla lista, se
gli rimaneva del tempo e ne aveva voglia... arrivavamo noi. Tu c'eri,
tu hai visto... E hai visto anche Hugh e come dovrebbe essere
l'amore".
Prudie
le scompigliò i capelli. "Sì, c'ero e ci
sarò per aiutarti. E
ora su, porta questa monella a letto, è tardi e le orecchie
della
vecchia Prudie sono esauste per i suoi strilli...".
Demelza
annuì, baciò la testolina della piccola che si
era calmata e si
scolava la sua camomilla e tornò in camera accompagnata da
Prudie
che poi si congedò nella sua stanza. Camminando,
guardò le pareti,
i corridoi, i grandi saloni e il giardino fuori dalle finestre. Era
suo, tutto suo. E lei era la moglie di Hugh Armitage, la Lady di
quella casa e la madre dei suoi quattro eredi. Era ora di mantenere
fede al suo ruolo e ricambiare l'amore e la fiducia immensa che le
aveva conferito Hugh...
Entrò
in camera, trovando i bambini svegli. Jeremy, seduto sul letto,
cercava di calmare il pianto di Demian e Clowance faceva le linguacce
al fratellino nel tentativo di farlo ridere.
Demelza
si avvicinò, sedendosi sul letto. "Demian, Demian... Vieni
dalla mamma, su" – disse, prendendo il bimbo fra le braccia.
Demian
la guardò, si strinse al suo collo e si calmò
all'istante, facendo
ridere Clowance. "Mammone!".
"Temo
di sì".
"Posso
dare io il biberon a Daisy?" - chiese la piccola.
"Certo,
dobbiamo aiutarci fra noi, da ora" – rispose Demelza. "Tu
darai il biberon e Jeremy la terrà in braccio mentre io mi
occupo di
Demian il mammone!".
Jeremy,
entusiasta, prese Daisy e Clowance sorresse il biberon per aiutare la
sorellina a bere.
E
Demelza li guardò, sentendosi infinitamente triste per la
perdita di
Hugh che avrebbe saputo amare infinitamente quel momento tutti
insieme, ma anche infinitamente ricca per ciò che la vita le
aveva
dato.
Avrebbe
lottato per i suoi figli e per il futuro che li attendeva, avrebbe
pensato solo a loro e al bello che la circondava, dimenticando le
cose brutte del passato. Sarebbe sempre stata Demelza Carne, nel
cuore. Ma mai più una Poldark...
E
quella notte nacque definitivamente Lady Armitage. Ora era sul serio
una Boscawen.
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Capitolo 27 *** Capitolo ventisette ***
Cornovaglia,
2 anni dopo la morte di Hugh Armitage...
Finito
di ispezionare il nuovo tunnel apertosi dopo l'esplosione con la
dinamite che avrebbe portato, secondo le sue speranze, a un nuovo
filone di rame, Ross risalì le scalette che portavano
all'esterno
della Wheal Grace. Era soddisfatto, i suoi calcoli si erano rivelati
esatti e a breve la sua miniera avrebbe ulteriormente arricchito i
suoi frutti e lui avrebbe potuto dare lavoro a nuovi minatori rimasti
senza occupazione dopo che George Warleggan aveva chiuso, per ripicca
a qualche torto che pensava di aver subito, una delle sue miniere
della zona.
Sudato
e pieno di polvere dalla testa ai piedi, Ross uscì
all'esterno per
prendere una boccata d'aria. Si tolse la camicia, la sbatté
per
togliersi di dosso un pò di sporco e a petto nudo
osservò il
meraviglioso paesaggio estivo della Cornovaglia. Il sole stava
iniziando a tramontare, il cielo era rosato e il vento di solito
impetuoso di quelle terre, quel giorno assumeva i contorni di una
leggera e piacevole brezza. I minatori stavano tornando a casa per la
cena, gli affari andavano a gonfie vele e tutto sarebbe andato
ulteriormente bene col nuovo tunnel da esplorare.
Zachy
Martin, il suo compagno di scorribande nel sottosuolo, lo raggiunse.
Il loro rapporto anni prima, dopo quanto successo con Demelza, si era
raffreddato e deteriorato ma col tempo, lavorando fianco a fianco in
quella miniera che per entrambi rappresentava una ragione di vita, si
erano ritrovati, capiti, avevano compreso gli stati d'animo di ognuno
e pian piano erano tornati il rispetto e una nuova forma di amicizia,
più adulta e consapevole delle rispettive debolezze. "E
allora
Ross? Che ne dici?".
Si
appoggiò alla balaustra, osservando la linea del mare
all'orizzonte.
"Dico che la sotto c'è qualcosa di interessante. Ci
sarà da
lavorare e avremo bisogno di uomini per farlo".
Zachy
alzò un sopracciglio. "Uomini che abbiamo... Ne hai assunti
dieci in più di quanti ce ne servivano, un mese fa. Possiamo
utilizzare quelli per esplorare il nuovo tunnel".
Ross
scosse la testa. "Lavorano ai piani superiori della miniera, ci
sono nuovi filoni anche lì, rimasti inesplorati. Non posso
sovraccaricare i minatori di ulteriore lavoro".
"Ross,
Ross... Non puoi dare lavoro a tutti i minatori disoccupati della
Cornovaglia, non puoi salvare il mondo. Sai benissimo che il
personale già assunto è sotto-occupato e che non
abbiamo bisogno
di uleriore manodopera. Lo so che ti preoccupi per gli uomini
licenziati da Warleggan ma non puoi fare più di quello che
già
fai".
Ross
sospirò, sapeva che Zachy aveva ragione ma voleva comunque
fare
qualcosa e, dopotutto, qualche minatore in più non lo
avrebbe
mandato sul lastrico. Gli affari prosperavano, gli stipendi venivano
pagati con regolarità e tutto andava bene, perché
no? "Dieci
minatori in più aiuteranno a distribuire meglio il carico di
lavoro".
Zachy
spalancò gli occhi. "Dieci?".
"Dieci...
Per ora... Se il filone la sotto si dimostrasse ricco quanto
immaginiamo, dovremo assumerne comunque altri".
Zachy
sbuffò. "SE sarà un filone fiorente, certo. Ma
ora, così,
alla cieca... Ross, tu non diventerai mai ricco, se vai avanti
così".
"Non
voglio essere ricco, voglio solo avere il necessario per mantenere la
mia casa e pagare i miei uomini. Niente più, niente meno...".
Zachy
gli diede una pacca sulla spalla, arreso all'idea che non gli avrebbe
fatto cambiare idea, come al solito. "E allora, fa come
desideri...".
Ross
si appoggiò alla balaustra, pensieroso. "Tuo figlio, Jago,
cerca ancora lavoro?".
A
quella domanda, lo sguardo di Zachy si fece cupo. "Jago è la
mia spina nel fianco. Averlo sott'occhio quì mi sarebbe di
grande
aiuto e mi farebbe stare più tranquillo ma quella testa
calda è
partito in cerca di avventure per mare, spinto da amici che gli hanno
messo in testa pericolose idee rivoluzionarie che arrivano dalla
Francia. Ho paura che si metta nei guai, Ross... I ragazzi, a
quell'età, agiscono senza pensare e lo sai anche tu, a volte
le
conseguenze possono essere gravi".
Lo
guardò, preoccupato, non ne sapeva nulla di quella storia.
"Ora
dov'è?".
"Su
un mercantile nei mari a sud della Francia, credo... O così
mi ha
detto nell'ultima lettera che ho ricevuto ma chi può dire
dove sia
esattamente? Ah Ross, non sapere dov'è un figlio, cosa fa e
se sta
bene, ti assicuro che è una vera tortura...".
Si
bloccò di scatto e Ross capì il perché
di quell'improvviso momento
di imbarazzo. "So bene cosa si prova, Zachy e non devi
preoccuparti a parlarmene...".
L'uomo
si morse il labbro. "Scusa, non volevo essere inopportuno ma
è
passato talmente tanto tempo che a volte dimentico che è
successo
davvero tutto quello che ha colpito te e la tua famiglia. E sai,
viste le scelte che hai fatto allora, non ho mai capito se Demelza e
i bambini siano una tua preoccupazione adesso. Non ne parli mai".
Ross
si oscurò, era davvero questa l'immagine che dava di se agli
altri?
Era questo che pensavano di lui? Che non si logorasse dalla
preoccupazione di sapere dove fossero Demelza e i suoi bambini? Ogni
giorno, appena si svegliava, aveva quel pensiero fisso, quel dolore
nel petto che mai se ne sarebbe andato... Erano passati cinque anni e
mezzo da allora, Jeremy aveva ormai circa otto anni, il suo secondo
figlio o figlia cinque e lui non sapeva più nulla di loro.
"Ho
fatti tanti errori Zachy e li hanno pagati loro in prima battuta. E
poi io, con tutti questi anni di nulla che sicuramente mi meritano ma
che mi uccidono pian piano... Come puoi pensare che non mi importi di
Demelza e dei miei bambini? Erano la cosa più bella che
avevo e ogni
volta che penso a loro, mi sento risucchiare ogni alito di vita in
corpo e realizzo che questa miniera e farla funzionare bene, dare
lavoro a quanta più gente possibile, è l'unica
cosa che mi faccia
sentire utile a qualcosa e vivo".
"Mi
spiace, scusa. Non volevo essere indelicato ma credevo che fosse
stata una scelta condivisa la vostra, quella che lei partisse coi
bambini".
Ross
scosse la testa pensando a quei giorni confusi e ormai lontani dove
tutto pareva sfuggirgli dalle mani e dove ogni cosa che faceva si
tramutava in un disastro. Era passato molto tempo da allora ma faceva
male lo stesso, sempre di più. Ed era in giorni soleggiati
come
quello che, guardando l'orizzonte, si aspettava di vederla arrivare
coi capelli rossi mossi dal vento, sorridente, coi suoi bambini che
gli correvano incontro per tornare a casa tutti insieme dopo una
giornata di lavoro. Come avrebbe voluto che succedesse e come era
cocente ancora oggi, la dura realtà. Nessuno sarebbe venuto
da lui
per tornare a casa insieme e lui non avrebbe mai potuto ammirare di
nuovo quei meravigliosi capelli color fuoco che lo avevano stregato.
Perché non le aveva mai detto quanto li considerasse belli e
seducenti? Perché non le aveva mai confessato quanto amasse
sentire
la sua voce cantare solo per lui e per i loro bambini e quanto ne
fosse geloso? Perché aveva taciuto su quello e tante cose
che,
forse, le avrebbero potuto far piacere e l'avrebbero fatta partire
senza la cocente ed errata certezza che per lui lei non significasse
nulla? Questo faceva più male, saperla lontana e convinta e
di non
essere mai stata amata. "Fu una scelta di Demelza quella di
andarsene, inevitabile. Aveva ragione lei, non poteva fare altro per
il bene dei nostri figli e io non avevo la forza di darle alternative
plausibili. Avevo rovinato tutto e non c'era strada di ritorno. Ma in
tutti questi anni... Questo silenzio che può voler dire che
sono
felici o che non ce l'hanno fatta... Zachy, so cosa provi, so cosa
vuol dire non sapere nulla di chi ami, non sapere cosa fa tuo figlio
e com'è diventato, non sapere se la donna che ami sta bene e
non
sapere come vive e se ha bisogno di qualcosa. Ma non devi
preoccuparti, nel tuo caso Jago ha avuto un buon padre, ha la testa
sulle spalle e lo hai cresciuto tu. Tornerà e tu sarai
orgoglioso di
lui. Ogni ragazzo ha, nella sua vita, un periodo in cui diventa testa
calda, io stesso sono stato così da giovane ma poi, come
vedi... Ora
sono quì. E presto darò lavoro a dieci nuovi
minatori" –
concluse, cercando di alleggerire il discorso.
Zachy
sorrise, tristemente, dandogli una leggera pacca sul braccio.
"Finirai sul lastrico, caro Ross".
Ross
rise. "Finiremo sul lastrico. Sei mio socio, ci terremo
compagnia e farà meno male finire col sedere a terra in
due!".
Zachy
sospirò. "ERI una testa calda? Sei sicuro di non esserlo
ancora?".
Ross
gli strizzò l'occhio. "Sono migliorato. E ora, da buon padre
di
famiglia torno a casa, strada facendo mi faccio una nuotata nel mare
per pulirmi da tutta questa terra che ho addosso e poi vado a vedere
che combinano i miei due domestici e mio figlio".
"Oh,
Valentine! Perché non lo porti quì, ogni tanto?
Giocherebbe coi
figli dei tuoi minatori e si divertirebbe di più che a
Nampara, da
solo coi domestici".
Ross
si adombrò. Non portava mai Valentine con se, faticava
ancora a
stabilire un rapporto sereno e duraturo per tutto l'arco della
giornata con lui ed era più comodo lasciarlo a Nampara e
vederlo
solo di sera. Non aveva un vero e proprio rapporto con lui, non erano
padre-figlio ma il loro sembrava più un freddo rapporto
di...
cortesia... Non che non gli volesse bene ma era come bloccato dal
lasciarsi andare con quel bambino in cui vedeva ancora la causa di
ogni suo male e dispiacere. Era l'emblema vivente del suo fallimento,
Valentine. E poi si sentiva in colpa nell'immaginarsi con lui, a
giocare, quando con i suoi altri due figli non era riuscito a fare
niente del genere ne a prendersene cura. "Valentine lo sai...
è
delicato. I bambini del villaggio lo farebbero a pezzi".
"E'
ora che inizi a conoscere il mondo" – obiettò
Zachy.
"Lo
farà a tempo debito. In fondo ha solo cinque anni"
– disse,
come scusa.
Zachy
capì che non era il caso di insistere e lo salutò
con un cenno del
capo. "Vado a casa adesso, è davvero tardi. A domani allora,
Ross... E medita su quei dieci minatori che vuoi assumere".
Ross
rise, scendendo gli scalini. "Mediterò, stanne certo. Devo
capire se ce ne servono di più".
Zachy
alzò gli occhi al cielo, rassegnato all'inevitabile. "Sei
pazzo".
"Sono
lungimirante" – gli rispose, salendo a cavallo e partendo al
galoppo. Si sentiva tranamente ottimista sulle sorti della miniera e
del nuovo filone di rame che aveva trovato, sarebbe andata bene e
forse avrebbe ulteriormente ampliato il suo giro d'affari e la mole
di lavoro.
Galoppò
col sole negli occhi, arrivò alla sua spiaggia e si
spogliò,
entrando nell'acqua fresca e trovando in essa giovamento da fatiche e
pensieri. Nuotò per lunghi minuti, sentendosi rinascere. Si
lavò i
capelli, si passò il petto incrostato di polvere e quando si
sentì
sufficentemente pulito, uscì fuori e si mise i vestiti di
cambio che
aveva portato con se.
E
poi tornò a casa, al galoppo.
Quando
giunse a Nampara, dopo aver messo a riposo nella stalla il cavallo,
qualcosa di anomalo colpì la sua attenzione. Valentine, che
di
solito se ne stava in cucina a ciondolare attorno ai Gimlet, era
fuori, seduto al tavolo di legno a ridosso del muro di cinta. E non
era solo, ma in dolce compagnia...
Una
bimbetta mora, vestita elegantemente con un vestitino rosso di
fattura scozzese, con lunghi boccoli neri elegantemente pettinati e
un nastrino fra di essi, gli sedeva davanti, chiacchierando con lui
ed esibendo una ricca parlantina. Aveva circa la stessa età
di suo
figlio e non aveva la minima idea di chi fosse...
Appena
Valentine lo vide, lo salutò con la manina. "Ciao
papà!"
- esclamò, contento di vederlo. Da piccolo era stato molto
male a
causa del rachitismo e dopo un pò i rimedi arcaici del
dottor Choake
erano stati abbandonati quando non si erano visti miglioramenti,
perciò Ross aveva deciso che aria e luce gli avrebbero fatto
meglio
che le tante medicine da ciarlatano che i medici gli avevano
prospettato. E Valentine in effetti era migliorato ed ora appariva
molto più florido rispetto ai suoi primi anni di vita, anche
se ogni
tanto capitavano ancora alcune violente crisi che lo facevano
piangere dai dolori alle gambe. Gli somigliava molto fisicamente,
anche se di indole era chiuso e poco combattivo rispetto a lui.
"Ciao...".
Suo
figlio gli indicò la bambina davanti a lui. "Abbiamo ospiti".
"Lo
vedo... Lei è...?".
"Emily"
– rispose il bambino.
"Emily...".
Ross annuì curioso, era davvero perplesso... Valentine aveva
già
iniziato alla tenera età di cinque anni a interessarsi al
gentil
sesso? Eppure era timido e chiuso, non aveva amici e non conosceva
molti bambini della zona, eccetto forse quelli che ciondolavano fuori
Nampara, figli dei minatori che lavoravano per lui. E questa Emily,
dall'abbigliamento, non era certo figlia del popolo. E quindi, da
dove spuntava quella piccola lady?
La
bimba, vedendolo pensieroso, si alzò in piedi, esibendosi in
un
perfetto inchino. "Emily Basset, signore. Piacere di
conoscervi".
Ross
si grattò il mento. Basset... Basset, Basset... E quando gli
venne
in mente dove aveva già sentito quel cognome e
capì cosa stava
succedendo, Jane Gimlet uscì dalla porta, venendo loro
incontro.
"Signore, bentornato. Avete un ospite".
"Lo
vedo" – disse Ross, guardando di sbieco Emily.
Jane
rise nervosamente. "Oh, non la bambina. Suo padre, intendo! E'
in casa, gli ho offerto un tè e vi sta aspettando per
parlarvi".
Ross
sospirò, salutò i bambini ed entrò in
casa, pronto ad affrontare
l'ennesima discussione a fini politici con Lord Basset. Era un
pò
che quell'uomo, un giudice e un politico molto rispettato sia a
Londra che in Cornovaglia, gli girava attorno, alla ricerca di un
qualche accordo politico con lui. Non aveva idea del motivo che lo
aveva portato a mettere gli occhi su un piccolo proprietario di
miniere in quella zona spersa d'Inghilterra ma ultimamente aveva
insistito molto per parlare con lui, cosa che a Ross portava solo
noia. Certo, avevano idee comuni, si auspicavano entrambi un mondo
nuovo senza distinzioni di classe, la pensavano alla stessa maniera
su molti temi d'attualità e anche Basset proveniva dal mondo
delle
miniere, ne gestiva molte che ne avevano decretato la ricchezza,
assieme alla sua brillante carriera di deputato a Westminster, ma le
somiglianze fra loro finivano quì: Basset era una brava
persona e un
uomo sicuramente onesto ma portava avanti le sue idee in un covo di
serpi che Ross odiava e l'idea di essere introdotto in quel mondo
corrotto che funzionava solo con tangenti e accordi sotto banco, lo
nauseava. Scendere a compromessi non aveva mai fatto per lui, non
voleva sporcare la sua coscienza mettendosi alla pari delle vipere
che detenevano potere e ricchezza nella capitale e anche se Basset,
tramite questo modo di fare, riusciva a fare del bene, era comunque
un ingranaggio di un gioco meschino di cui Ross non voleva fare
parte. Gli aveva detto di no quando, un anno prima, gli aveva
proposto un posto in Cornovaglia come Giudice di Pace, incarico che
poi era andato a George Warleggan. E ora gli avrebbe detto di no per
le imminenti elezioni dei due rappresentanti della Cornvoaglia da
portare a Londra, a Westminster. Era sicuro che fosse venuto a casa
sua per quello e sapeva già che lo avrebbe rimandato nella
sua
lussuosa villa con l'ennesimo rifiuto.
Entrò
in casa, trovando Basset seduto al tavolo, col cilindro appoggiato a
una sedia e con indosso un elegante completo di velluto. "Lord
Basset, buon pomeriggio. E' insolito avere visite quì,
scusate se
sono arrivato solo ora ma non ero stato informato del vostro arrivo".
Basset
sorrise, amabilmente. "Oh, passavo di quì per caso con mia
figlia e ho deciso di venire a far visita. Non ero atteso e vorrei
scusarmi per la mia intrusione".
Ross
si avvicinò alla credenza dei liquori. "Posso offrirvi un
bicchiere di Porto?".
"No,
grazie. Sono di fretta, presto Emily inizierà a fare i
capricci per
tornare a casa e la vostra domestica mi ha già offerto una
buona
tazza di tè. Vorrei solo far due chiacchiere, sentirvi
rifiutare
come al solito la mia offerta e poi cercare di convincervi a
valutarla senza scartarla a priori".
Ross
sorrise, sarcastico. "Lo immaginavo! Se è per le elezioni
per
il Parlamento che avverranno fra sei mesi, la mia risposta è
no! Non
ho intenzione di mischiarmi ai vermi che popolano il Parlamento di
Londra. Non ho lo stomaco forte come il vostro".
Basset
scosse la testa, per nulla deciso a demordere. "Ross, so che
fare l'eroe solitario è più affascinante e porta
a non cercare
compromessi che, secondo voi, sporcherebbero la vostra coscienza, ma
gli eroi solitari non possono cambiare il mondo, a un certo punto
bisogna imparare a stare alle regole del gioco, entrarci e cercare di
cambiarle in meglio dall'interno del sistema. Siete un ottimo
oratore, una persona dalle idee nuove e vincenti e a Londra
trovereste persone a voi affini, non sono tutte serpi come pensate
voi. Si discute, si cerca di convincere, si ascolta e magari si
cambiano le proprie idee, anche fra i miei avversari politici ci sono
persone degne di rispetto e dotate di grande carisma ed intelligenza,
come voi. Insieme, noi due, potremmo tentare di portarle dalla nostra
parte, di ampliare il numero di consensi, di fare leggi più
giuste
non solo per noi che comandiamo ma anche per queste povere persone
che lavorano nelle nostre miniere e in queste terre che tanto
amiamo".
Ross
sospirò. Basset sapeva parlare, sapeva discutere e sapeva
argomentare molto bene ma lui era più testardo e mai si
sarebbe
fatto convincere ad entrare in un mondo che non considerava suo. "Io
vivo quì, son nato per gestire le mie miniere e cerco di far
del
bene per le persone a me vicine. Non so trovare compromessi, le mie
litigate di solito si son sempre concluse con una scazzottata e non
solo l'uomo che vi sarebbe utile come alleato".
Basset
si alzò dalla sedia con sguardo deciso. "Ross, quante
persone
potete aituare quì? Altre dieci, venti? Assumendole magari
sotto-impiegate nella vostra miniera? Ma i loro diritti, quelli dei
loro figli, a questo non ci pensate? E' quello che conta, è
quello
che fa la differenza e le regole del gioco le potete cambiare solo a
Londra, nella sede dove le leggi nascono e vengono discusse. Avete
già lasciato un incarico importante a George Warleggan e i
risultati
si sono tristemente visti... Non mettetemelo a fianco anche nelle
elezioni per il Parlamento, fatelo per le persone a cui dite di voler
bene".
"Warleggan
è un candidato al Parlamento più idoneo di me!".
Basset
scosse la testa. "Sapete benissimo che non è vero".
In
quel momento i bimbi fecero capolino nella stanza, con sguardo
annoiato. Emily si aggrappò alle gambe del padre e Valentine
si
appoggiò al tavolo, incuriosito da quel discorso.
Basset,
accarezzando i capelli della figlia, proseguì. "Fatelo anche
per vostro figlio o almeno pensateci. Diventare un politico di Londra
vi permetterebbe di portarlo in un posto nuovo e stimolante per un
bambino. Emily adora Londra, ha molti amici e parchi enormi dove
giocare. Per il giovane Valentine sarebbe un'esperienza emozionante e
formativa".
"Valentine
sta bene quì, dove è ora!" - rispose Ross, secco.
Basset
sospirò. "Siete testardo, per questo mi piacete. Ci sono sei
mesi che ci separano dalle elezioni, promettetemi almeno che ci
penserete".
"Ci
penserò" – disse Ross, con tono di voce poco
convinto.
Basset
lo guardò storto. "Sul serio però".
"Sul
serio...".
L'uomo
prese per mano sua figlia, mettendosi il cilindro in testa.
"Tornerò,
sarò più fastidioso di una zecca nei prossimi
mesi. Se voi pensate
di essere il più testardo, dovrete ricredervi. Io lo sono
più di
voi".
Ross,
mascherando un sorriso, gli strinse la mano e salutò poi la
bambina.
In fondo sapeva che Lord Basset era una brava persona e che insieme
sarebbero andati anche d'accordo, ma era il mondo dove lo voleva
introdurre che lo frenava. Odiava il potere, in ogni sua forma! Anche
se, una vocina nella sua mente, sembrava urlargli sempre più
forte
che lui aveva ragione e che se davvero voleva cambiare il mondo,
doveva iniziare comformandosi alle sue regole per poi cercare di
cambiarle. E sempre quella vocina, gli diceva che in Cornovaglia non
c'era altro che potesse fare, che aveva già dato il massimo
che
potevano permettergli le sue finanze per le povere persone che lo
circondavano e che per sentirsi vivo, dopo quanto successo nella sua
vita, forse c'era bisogno davvero di cambiar pagina e tentare altro.
Ma in quel momento la sua testa dura prevalse e rifiutò,
cordialmente. "Beh, a presto allora!".
"Statene
certo" – rispose Lord Basset, uscendo da Nampara con Emily
per
mano.
La
bambina salutò Valentine con la manina e poi si
allontanò col padre
e Ross chiuse la porta dietro di se, sbuffando. "Mi attendono
mesi di tortura incessante, temo".
Jane
emerse dalla cucina, ridendo. "Oh signore, voi sareste un grande
politico".
"Un
grande ipocrita, vorrete dire".
La
donna rise sotto i baffi e poi tornò in cucina a preparare
la cena.
Ross si mise sul sofà davanti al camino e si immerse nei
suoi
pensieri sul nuovo tunnel alla Wheal Grance, che al momento era la
sua prima preoccupazione.
"Papà?".
Valentine
si sedette accanto a lui, richiamandolo all'ordine. "Dimmi".
"Che
cos'è un politico?".
Ross
sospirò. "Un uomo che è tanto arrogante da
pensare di poter
decidere per tutti".
"Ma
se uno è bravo, magari decide bene".
Ross
sospirò, annoiato da quel discorso e dal fatto che ci si
mettesse
pure Valentine che di solito era silenzioso, a tormentarlo. "Sei
troppo piccolo per capire e non è così semplice".
"Dov'è
Londra?" - insistette il bambino.
Santo
cielo, che avevano tutti quella sera! Perché lo
tormentavano?
"Lontano".
"E'
bella?".
"Interessante...
Deve piacere".
"A
te piace?".
Ross
prese un ciocco di legno, gettandolo nel camino. Era stizzito, ecco!
"Non lo so, non ci ho mai vissuto".
"Ci
andiamo?".
"No!".
Valentine
incrociò le braccia al petto, come se fosse pronto a fare un
capriccio, cosa che di solito non succedeva mai. "Papà,
Emily
dice che vivere a Londra è bello. Ci sono tanti bambini e
lei va a
tante feste di compleanno".
Ross
scosse la testa, irritato. Ecco perché odiava quel mondo
patinato!
Tutti ricchi, viziati e felici di vivere in una bolla dorata
dimenticandosi di chi faticava a mettere del cibo sul tavolo di sera
per i propri figli. "Emily è capricciosa e piena di vizi".
"Che
cos'è una festa di compleanno?".
Ross
si grattò il mento. O gli rispondeva o quella dannata
conversazione
non sarebbe mai finita! "Quando uno festeggia il giorno in cui
è
nato. Alcuni fanno una festa, preparano la torta ed invitano gli
amici per stare tutti insieme".
"Anche
io ne voglio una allora!" - mugnugnò il bambino.
Ross
lo guardò storto. Valentine, nascendo, aveva spezzato e
distrutto le
vite di molti, sua madre era morta dandolo alla luce e non vedeva
alcun motivo né di festeggiare quella ricorrenza
nè di dare vizi da
bambino capriccioso a suo figlio. "Jane ti prepara ogni anno una
torta".
"Ma
non facciamo una festa".
"Hai
degli amici da invitare?".
Valentine
abbassò lo sguardo, triste. "No".
"E
allora, fine del discorso" – ribattè Ross, secco.
Gli
spiaceva ferirlo e non accontentarlo ma vivevano circondati da gente
povera che non poteva permettersi nulla e non avrebbe elevato suo
figlio a damerino del posto, ostentando vizi e ricchezze che gli
altri non potevano permettersi. Nessun bambino di quei luoghi aveva
mai avuto una festa di compleanno e quindi non c'era motivo che ne
avesse una Valentine. Il resto erano capricci. "Va ad aiutare
Jane a preparare la cena. Adora averti vicino" – disse, per
farlo allontanare.
"E
per il compleanno? E Londra?".
"Il
tuo compleanno è lontano, Londra pure e tu soffri ancora,
spesso, di
dolori alle gambe! Fine del discorso". E con quelle parole
sbrigative, concluse ogni genere di trattativa anche con suo figlio.
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Capitolo 28 *** Capitolo ventotto ***
Londra,
due anni e mezzo dopo la morte di Hugh Armitage.
“Ci
siamo ripersi Demian, si è arrampicato di nuovo sul ramo
più alto
del tiglio vicino al cancello e non vuole scendere
giù” - borbottò
Prudie, tutta trafelata e col fiato corto.
Demelza
sospirò, questa non ci voleva proprio! Era già in
ritardo,
dannazione! Guardò sua suocera, ormai rassegnata quanto lei
a
rimandare il
misterioso invito
per il tè da Lady Margarita e
sua madre. Era
sempre così, alla fine qualcosa succedeva e lei finiva per
arrivare
in ritardo da ogni parte! Aveva
quattro figli vivacissimi
ed imprevedibili e tutti
con un carattere diversissimo l'uno dall'altro. Era incredibile che,
bambini tanto diversi, fossero fratelli e tutti figli suoi.
Jeremy
aveva nove anni ormai ed era il suo principe azzurro, il figlio
più
dolce e sensibile, quello più attento a lei, quello che
sembrava
essersi caricato sulle spalle il peso di questa famiglia che non
aveva un padre. Hugh gli aveva trasmesso l'amore per la lettura e
spesso, soprattutto nei mesi invernali, si rintanava per ore in
biblioteca a leggere oppure se ne stava da Lord Falmouth a
giocare a scacchi e a dama o
a sentirlo parlare di politica coi suoi soci. Era un bambino
intelligente, vivace il giusto e con un garbato, sottile ed
irriverente sarcasmo che spesso la lasciava a bocca aperta,
soprattutto quando le sussurrava all'orecchio commenti pungenti su
qualche ospite importante che veniva invitato al loro palazzo. Il
ricordo di Hugh, l'amore smisurato che aveva provato per lui e la
malinconia di non averlo più vicino, lo tormentavano spesso
ma poi
riusciva a distrarsi con qualcosa e tornava ad essere il bambino
sorridente di sempre. Demelza non sapeva quanto ricordasse di Ross,
Jeremy non lo nominava mai e lei non osava chiedere per paura di
aprire una ferita che magari era guarita ed era lasciata alle spalle.
Sapeva solo
che era un bambino sereno, furbo e vivace il giusto e che stava
tenendo fede, sempre col sorriso sulle labbra, alle promesse fatte a
Hugh prima di morire, diventando davvero il punto di riferimento
delle sue sorelle e di suo fratello.
Clowance
era la vera lady della famiglia. Aveva compiuto da alcuni giorni il
suo sesto compleanno e rappresentava tutto quello che una bambina
della nobiltà doveva possedere: era bellissima, con dei
lunghi
capelli biondi pieni di boccoli e dei trasparenti occhi azzurri e una
grazia ed eleganza inusuali in una bambina tanto piccola
accompagnavano ogni suo movimento. Era elegante, adorava i bei
vestiti, era vanitosa e spesso, di nascosto, cercava di truccarsi e
finiva sempre per essere costretta da lei ad andare a lavarsi il
viso. Conosceva perfettamente le buone maniere tanto che sua suocera,
la madre di Hugh, adorava portarla in giro con se perché
sapeva che
con Clowance avrebbe sempre fatto bella figura. Ma nonostante questo,
era anche piuttosto vivace e aveva un carattere decisamente
dispettoso, soprattutto con il fratellino più piccolo ed
ingenuo che
spesso prendeva in giro probabilmente per gelosia. Quando giocavano
tutti insieme al parco, i suoi tre fratelli finivano per essere
sporchi e spettinati ma lei no, lei riusciva a tenere i suoi abiti
lindi e puliti e a non avere un capello fuori posto. L'eleganza era
innata in lei, amava Londra e l'ambiente che la circondava e spesso
Caroline le diceva che Clowance, nel giro di pochi anni, avrebbe
avuto tutta la capitale ai suoi piedi.
E
poi c'erano loro, i gemellini... Che di Hugh, del suo portamento,
della sua dolcezza e della sua eleganza non avevano preso nulla.
Erano due pesti scatenate, dei veri monelli che, dietro i loro
capelli biondissimi e gli occhioni azzurri, sapevano incantare e poi
castigare chiunque gli capitasse a tiro e gli desse fiducia.
Di
loro, Lord Falmouth diceva che sarebbero diventati persone importanti
a Londra, un giorno... Sempre che fossero riusciti ad evitare la
prigione.
A
poche settimane dal loro terzo compleanno, Daisy e Demian sapevano
parlare perfettamente, anche grazie alla vicinanza dei due fratelli
più grandi.
Demian
non stava fermo un attimo, amava arrampicarsi sugli alberi, sui
muretti, su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro e potesse sollevarlo
da terra. Era perennemente in castigo, ma questo non sembrava
fermarlo. Se non si arrampicava, combinava mille pasticci in casa
oppure passava il tempo a fare scherzi alla loro servitù.
Però, di
contro, era un bambino ingenuo, dall'animo buono e il più
attaccato
a lei. Credeva a tutte le frottole che gli raccontava Clowance e se
lei gli diceva che di notte sarebbe entrato un orso nella sua camera
a mangiarlo, lui passava la serata a piangere e poi si rifugiava nel
suo letto. Di sera infatti si trasformava, diventava improvvisamente
dolce e mammone e trovava mille scuse per sgattaiolare nella sua
stanza per dormire con lei. Come faceva Jeremy fino a pochi anni
prima, del resto... Lei lo lasciava fare, era sola ed era bello
stringere a se quel bimbo dai capelli a caschetto color oro e dal
faccino bello e simpatico che, quando era imbronciato o pensieroso,
le ricordava tanto Hugh. Poco prima di morire, suo padre le aveva
detto che Demian sarebbe stato il suo principe azzurro e che avrebbe
preso il suo posto e infatti era stato così. Si era
aggrappato a lei
appena nato e ancora non era riuscita a farlo dormire da solo la
notte. Ma le piaceva averlo vicino e le era stato di grande
consolazione quel figlio che la cercava e la desiderava, dopo la
morte di Hugh. Sapeva che era un vizio, sapeva che sbagliava a non
renderlo indipendente ma Demelza non ce la faceva e quel bambino, che
da Hugh aveva ereditato anche uno strano amore per arte e disegno,
era diventato il suo piccolo principe e, come diceva Caroline, il suo
cocco.
Daisy
era anche più vivace del fratello gemello. Era sempre stata
più
indipendente di Demian e anche da neonata preferiva dormire nella sua
culla o in carrozzina piuttosto che con lei. Crescendo, aveva legato
particolarmente con Clowance perché, benché
fossero diversissime di
carattere, erano anche molto più vicine di età di
quanto non
fossero Jeremy e Demian.
Daisy
aveva imparato tutto quello che non avrebbe dovuto imparare da Prudie
che era quella che più di tutti si prendeva cura dei
bambini: le
parolacce. Spesso la si sentiva imprecare con un 'Giuda' o parole
simili che poi insegnava al parco anche agli altri bambini e non era
mai servito nessun castigo, era incorreggibile. E ribelle. Spesso,
davanti a un no, alzava il faccino, si scostava i lunghi e lisci
capelli biondi dal viso, la fissava con aria di sfida e faceva
davanti a lei quello che le era stato vietato di fare. Con Daisy ci
voleva pazienza, tanta... E spesso Demelza, pensando al futuro,
tremava per il rapporto che avrebbero avuto e silenziosamente pregava
perché la bimba diventasse più tranquilla e meno
ribelle.
Era
strano, quando ci pensava. I figli avuti da Ross somigliavano tanto a
Hugh, per carattere. Quelli avuti da Hugh erano invece similissimi a
Ross... Non sapeva se piangere o ridere, di questa cosa. L'unica
certezza era che sia sua suocera che Lord Falmouth, che i bambini
chiamavano zio, preferivano uscire con Jeremy e Clowance e mai, MAI,
si erano proposti di portare con loro Demian o Daisy, se non quando
era presente anche lei.
Demelza
guardò Lady Alexandra, picchiettando nervosamente il piede
per
terra. “Prudie, cercalo, stanalo e digli che se non scende
dall'albero, stanotte dormirà da solo in camera sua e che
non vorrò
sentire scuse”.
“Ma...
Ma... Quello mica mi ascolta!” - balbettò Prudie.
“Se
lo minacci sul dormire da solo, scenderà subito, lo conosco.
E noi
siamo già in ritardo per il tè...”.
Prudie
annuì, capendo appieno che doveva fare
da sola e che Demelza per quel giorno non poteva aiutarla.
“Vado, ci provo e al massimo chiamo Bastian per tirarlo
giù, se
non scende”.
Demelza
le accarezzò il braccio, era
così grata per la sua presenza. Prudie si occupava dei
bambini più
di tutti e di lei si fidava a occhi chiusi. Al mattino, mentre
Clowance e Jeremy studiavano con il loro precettore e lei usciva di
casa con sua suocera per sbrigare le faccende di volontariato in cui
erano attivamente impegnate, era lei ad occuparsi dei gemellini ed
era quella che, allo stato attuale, li sapeva gestire meglio di
tutti. Li portava al parco e passava la mattinata a inseguirli per i
prati, li preparava per il pranzo e poi li gestiva anche per la
merenda e per il bagnetto serale. Sarebbe stata persa senza se non ci
fosse stata.
“Grazie Prudie... Ci sarei
andata io a
riprenderlo ma
Margarita ha insistito, senza dirci il motivo, per averci ospiti a
casa sua per il tè oggi pomeriggio, dice che deve darci una
notizia
importante ma non ha aggiunto altro, solo che è fondamentale
la
nostra presenza... Sto già tremando”.
Lady
Alexandra sbuffò. “Anche io! Se arriviamo tardi a
causa di Demian,
immagino già le occhiatacce di quell'arpia di sua madre...
Donna
odiosa, non ho mai capito come abbia fatto a mettere al mondo uno
zuccherino come Margarita”. Poi
guardò Demelza, di sbieco. “Così come
non capisco come uno
zuccherino come Demelza abbia potuto mettere al mondo due pesti come
i gemelli”.
Prudie
tossicchiò, imponendosi di non ridere. “Vado a
recuperare la
bestiol... ehm... il piccolo Lord dell'albero. Buon pomeriggio
signore”.
“Anche
a te, Prudie” - rispose Demelza, sorridendole dolcemente. E
poi,
dopo essersi sistemata l'elegante abito verde che indossava, i
capelli, e essersi coperta con una elegante e calda pelliccia sulle
spalle, uscì di casa con sua suocera.
Quando
la carrozza arrivò nella dimora della sua migliore amica,
passando
da strade ghiacciate e innevate di un quell'inverno glaciale che
aveva colpito Londra, Margarita, vedendola arrivare dalla cancellata
spalancò la finestra del salotto.
“DEMELZA!!!” - urlò eccita.
“Finalmente!”.
La
salutò con la mano, attenta a non fare altrettanto baccano e
poi,
dopo essere scesa dalla carrozza ed entrata in casa, fu travolta
dalla corsa e dall'abbraccio di quella che, in quegli anni, era
diventata la sua migliore amica assieme a Caroline. “Hei,
sembra
che non ci vediamo da una vita!” - esclamò,
dimenticando per un
attimo le buone maniere ed attirandosi un'occhiataccia da Lady
Alexandra che ignorò - “Eppure ci siamo incontrate
solo tre giorni
fa, al nostro disastroso corso di tiro con l'arco”. Non lo
avevano
mai abbandonato quel passatempo, fin da quando vi si erano iscritte e
Hugh le accompagnava, ridendo dei loro insuccessi e soccorrendo i
poveri piccioni trafitti dalle loro frecce. Non erano migliorate poi
molto nel tempo ma in quel circolo avevano trovato molti buoni amici
fra cui Daniel Crungle, il loro giovane e simpatico istruttore
privato che spesso incontravano ai vari party della Londra
aristocratica a cui partecipavano.
Margarita
la prese per mano, dopo aver salutato Lady Alexandra.
“Sì, ma oggi
c'è una cosa bellissima che ti devo dire ed è il
motivo per cui vi
ho invitate quì” - esclamò allegra,
salutando con un inchino la
suocera di Demelza.
“MARGARITA!!!”.
La
voce acidula della madre della ragazza, giunta dalla
scalinata alle
sue spalle, fece voltare tutte e tre.
Lady
Constanze, in un elegantissimo abito color senape, guardava sua
figlia con sguardo severo, scuotendo la testa in un ennesimo segno di
diniego. “Ti sembra il modo di accogliere le nostre illustri
ospiti?”.
Demelza
alzò un sopracciglio, ricordando come la considerasse poco
illustre
e degna di considerazione quando si erano conosciute quattro anni
prima e come avesse cambiato idea in un batter di ciglio appena lei
era diventata Lady Boscawen sposando Hugh. Da quel giorno era stata
felicissima dell'amicizia fra lei e Margarita, entusiasta
come una scolaretta al primo giorno di scuola, chissà
come mai...? “Fra noi, Lady Constanze, non c'è
bisogno di
etichetta. Siamo amiche, non usiamo
convenevoli”.
Lady
Constanze annuì contrariata ma non disse nulla
perché Demelza aveva
imparato, in quegli anni, che una donna nobile ma di rango inferiore
a un'altra nobile, non poteva obiettare mai su quanto gli veniva
detto. Anche se erano nella sua casa e
lei ne era la padrone!
E Demelza
aveva imparato che,
in quanto Boscawen, era di fatto di rango superiore alla famiglia di
Margarita e ogni volta che se ne ricordava, le veniva da ridere.
Anche perché
le sembrava assurdo che dei lontani parenti dei sovrani avessero meno
potere e rango di lei. Non avrebbe mai capito questo genere di
gerarchie a cui si era adattata per forza di cose ma che considerava
inutili ed odiose!
La
donna si ricompose mentre Alexandra gongolava a fianco di Demelza,
nel vedere in difficoltà colei che considerava una sua
rivale.
“Volete seguirci nel salotto del tè? Come diceva
mia figlia,
dobbiamo parlare”.
“Demelza
vieni!” - disse Margarita, prendendola per mano.
Le
due giovani arrivarono nel
salotto, sedendosi vicine, mentre le due donne più anziane
prendevano posto al tavolo, una davanti all'altra guardandosi
in cagnesco ma con grazia.
Il
maggiordomo servì loro il tè, portò
dei biscotti e una torta al
cioccolato e dopo i convenevoli, spinta dalla curiosità
sempre più
forte, Demelza si decise a chiedere cosa stesse succedendo. Ormai lei
e Margarita erano come sorelle, c'era una confidenza assoluta fra
loro,
ridevano, scherzavano, la faceva giocare coi suoi figli e lei
aveva ascoltato e sorretto le sue spalle stanche quando, dopo la
morte di Hugh, non riusciva a smettere di piangere. Era stata dura
allora e se non fosse stato per quella ragazza dolce, ingenua e dal
cuore d'oro, forse non sarebbe mai riuscita a rialzarsi e a
ricominciare a vivere, portando nel suo cuore Hugh non come un
ricordo doloroso ma come una presenza dolce e costante. “E
allora,
che succede?”.
“DEMELZA!”
- la rimbeccò Lady Alexandra con fare materno ma
piuttosto simile a quello della sua rivale Lady Constanze,
sbuffando per quei modi tanto sbrigativi e poco da Lady.
Margarita,
infischiandosene dell'etichetta, si alzò dalla sedia,
picchiò
trionfalmente le mani sul tavolo e le guardò tutte quante
con aria
trionfante. “Succede
che... mi
sposo!”.
Lady
Alexandra spalancò gli occhi, Lady Constanze
annuì sollevata per
quell'annuncio in cui non sperava più e Demelza divenne
rossa dalla
gioia e dalla contentezza. Si alzò in piedi di scatto,
abbracciò la
sua amica, risero insieme come
pazze infischiandosene dell'etichetta
e si commossero, guardandosi con occhi lucidi. “Edward?
Giuda, non
me n'ero accorta!”
“DEMELZA!!!”
- la richiamò all'ordine sua suocera.
Ma
la ragazza fece finta di non sentirla.
“Come può
essere? Ogni
volta che viene con noi alle lezioni con l'arco, sembrate tanto
timidi e ancora lontani...”.
Margarita
le strizzò l'occhio. “Sappiamo dissimulare bene...
Volevamo
tenerci ancora un po' per noi la nostra decisione ma ormai ho
ventun'anni e credo sia arrivato il momento di fare il grande passo.
Scusa se te l'ho tenuto nascosto, non vedevo l'ora di dirtelo e
odio mantenere i segreti”.
Demelza
la guardò, emozionata per lei. Era un amore forse ancora dai
tratti
adolescenziali quello fra Margarita ed Edward ma era puro, vero,
sincero e pronto a lottare per crescere. Erano simili, entrambi un
po' imbranati e ancora bambini, senza pretese, desiderosi solo di
stare insieme nel loro mondo e formare quella famiglia che tanto
desideravano, un po' più libera di quella d'origine piena di
regole
ed etichette. Margarita agli occhi di sua madre era la meno nobile di
Londra nei modi di fare ma per lei che ne conosceva il cuore buono e
sincero, era la più blasonata ragazza d'Inghilterra,
la più meritevole di tutto ciò che di buono la
vita poteva portare. “Congratulazioni, sarai
felice...”.
“Margarita...
ehm...” - tossicchiò sua madre, richiamandola
all'ordine.
La
ragazza alzò gli occhi al cielo. Erano ormai lontani i tempi
in cui
temeva il giudizio di sua madre... “Già, siete qui
non solo per
questo annuncio!”.
“E
per cos'altro?” - chiese Lady Alexandra pregando con lo
sguardo
Demelza di risedersi compostamente.
Margarita
prese le mani di Demelza, stringendole nelle sue. “Se mi
sposo, se
io ed Edward abbiamo potuto conoscerci e innamorarci... è
grazie a
Demelza e Hugh e all'incontro che hanno organizzato per noi tre anni
fa a quel ballo di Natale dopo il quale sono nati i gemellini. Senza
voi due non sarei mai riuscita a fare nulla e sarei rimasta tutta la
vita a sospirare per Edward guardandolo da lontano. Sei la mia
migliore amica Demelza e vorrei tanto che fossi la mia damigella
d'onore al matrimonio. La mia testimone... Vorrei anche Hugh come
testimone per
Edward ma siccome purtroppo non è più qui... so
che sarà contento
di vedersi rappresentato da coloro che più amava”.
Demelza
sentì il cuore batterle nel petto a
quel ricordo di Hugh e di quella festa dove, in mezzo a tanti nobili
e nel pieno di un piano perfetto da combina-matrimoni, aveva iniziato
il travaglio.
Da allora
erano passati tre anni, ogni cosa era cambiata nella sua vita e lei
aveva imparato ad essere una lady perfetta ma ancora
adesso, quando aveva tutti
gli occhi puntati su di se,
di nascosto, tremava dalla paura di sbagliare qualcosa. E gli occhi
di tutti, al matrimonio di una lontana parente dei sovrani, sarebbero
stati puntati decisamente anche su di lei, anche se era di rango
maggiore a quello della sposa. “Ohhh... Sei sicura? Non
preferiresti dei parenti?”.
“Lady
Boscawen, avervi come damigella d'onore sarà per noi un
grande onore
che spero accetterete senza riserve” - intervenne Lady
Constanze
notando le sue titubanze e
correndo ai ripari.
Demelza
guardò Lady Alexandra che, con un sorriso gentile e
comprensivo, le
fece cenno di accettare. E
alla fine cedette.
“Va bene, sarò felicissima di farlo”.
“SIIII!!!”
- urlò Margarita, guadagnandosi un'altra sgridata da sua
madre
per quei modi che giudicava selvaggi.
“Quando
sarà il matrimonio?” - chiese Demelza.
“Fra
sei mesi, il primo giugno” - rispose Margarita. “Tu
e i bambini
avrete tutto il tempo di preparavi”.
E
a quelle parole, Demelza e Lady Alexandra spalancarono gli occhi.
“I... bambini?”.
Margarita
annuì. “Certo, è compito della
damigella d'onore preparare
paggetti e damigelle che seguiranno il corteo della sposa. Saranno in
tutto otto bambini, quattro maschi e quattro femmine. Ho scelto Jane
e Grace Constyn, le figlie di una mia cara cugina. Jane ha sei anni
ed è un amore, Grace ne compirà due a marzo ed ha
dei boccoli
stupendi, sarà un tesoro vestita da damigella. E poi i figli
del
Conte Altan, Frederik e Lorys. Hanno nove e cinque anni e hanno
già
fatto i paggetti a un altro matrimonio, sanno come si fa e non
creeranno problemi”.
Demelza
annuì, conosceva quei bambini perché giocavano
spesso al parco coi
suoi figli. “Sono quattro... E gli altri?”.
Margarita
sorrise. “Il tuo Jeremy è un piccolo ometto
giudizioso ed educato.
E Clowance è una bellissima e piccola lady, migliore di
quanto potrò
mai essere io. So che anche Clowance ha già fatto da
damigella,
giusto?”.
Lady
Alexandra, con un moto d'orgoglio, annuì col capo.
“Lo scorso
anno, al matrimonio dei Visconti Dorington. Un perfetto debutto in
società per la piccola ma d'altronde con Clowance non poteva
che
essere così, l'hanno ammirata tutti”.
Demelza
sospirò, scoraggiata nonostante
tutto.
Mancavano ancora due nomi al gruppo e il suo sesto senso stava
facendo nascere in lei un profondo terrore che sua suocera non aveva
ancora captato. “Gli altri due bimbi...?” - chiese,
con
circospezione.
“Ma
che domande!” - esclamò Margarita. “I
tuoi due bellissimi
gemellini! Con
quei visini da angioletti, quei capelli biondissimi e quelle
guanciotte da mordere, saranno un amore”.
Alexandra
sbiancò a quelle parole, Demelza impallidì e se
non fosse stato che
aveva un ventaglio in mano con cui farsi aria, sarebbe caduta a terra
svenuta. “I miei... gemelli?” - chiese, con terrore.
Margarita
la guardò farsi aria col ventaglio, accigliandosi.
“Demelza, hai
caldo?”.
“Sì,
molto!” - rispose, sventagliandosi furiosamente.
“Strano,
siamo in pieno inverno...”.
“Strano,
davvero... Il
tuo camino funziona benissimo”
- biascicò,
desiderando sparire dalla faccia della terra.
Lady
Constanze riprese in pugno la situazione. “Ovviamente
vogliamo
anche i gemelli, ogni bambino che si rispetta e che appartiene
all'alta società deve fare il suo debutto seguendo il corteo
di un
matrimonio. Fa parte delle tradizioni ed è un preciso dovere
di
questi piccoli che un giorno guideranno la nazione. I gemelli avranno
tre anni fra poche settimane, è ora che si facciano
conoscere al
mondo e che debuttino nell'alta società. Quale occasione
migliore
del matrimonio di una delle nipoti dei sovrani?”.
“Ma...
ma...?”. Demelza guardò sua suocera in cerca
d'aiuto ma anche Lady
Alexandra pareva disorientata e terrorizzata dall'idea di quelle due
pesti costrette a stare ferme e brave durante un'intera cerimonia
nuziale.
Margarita
rise. “Oh, non devi preoccuparti, tutti ci siamo passati! Io
a tre
anni ho fatto da damigella al matrimonio di Lord Casper. Mentre
percorrevo la navata con gli anelli sul cuscino, sono inciampata, le
fedi sono finite sotto una panca e zio Karl ha dovuto mettersi a
carponi e passare fra le gambe delle invitate per recuperarli. Eppure
sono sopravvissuta...”.
Lady
Constanze la fulminò con lo sguardo. “Margarita,
non è il caso di
ricordare quello spiacevole episodio”.
“E'
un episodio così simpatico, mamma! Non ti viene da ridere al
ricordarlo?”.
“NO!”
- rispose la donna, prendendo a sua volta a farsi aria col ventaglio.
E
Lady Alexandra la guardò con sguardo maligno. “La
nostra Clowance
invece, lo scorso anno non è inciampata affatto e le fedi
sono
arrivate agli sposi senza incidenti”.
Lady
Constanze divenne rosso fuoco, Margarita rise sotto i baffi e poi si
voltò di nuovo verso Demelza. “Accetti? Avere te e
i tuoi bambini
vicino, significa molto per me”.
Demelza
sospirò... Non poteva dirle di no, non sarebbe mai riuscita
a
deluderla e nemmeno lo desiderava anche se l'idea di avere i gemelli
da gestire in una cosa del genere la annientava. “Certo...
Che devo
fare?”.
“Conservare
le fedi, trovarti un bellissimo vestito in tinta con quello delle
bambine, trovare gli abiti adatti a paggetti e damigelle e istruirli
su cosa dovranno fare. Hai
carta bianca per i bambini, sono sicura che sceglierai al meglio per
loro! Hai dei gusti meravigliosi in fatto di abbigliamento infantile
Demelza, adoro come vesti i tuoi figli! Faremo
delle prove, ci sono sei mesi di tempo e ce la faremo ad organizzare
ogni cosa insieme. Poi mi sposerò e verrò a
vivere in una via
adiacente alla tua, saremo praticamente vicine di casa e ci vedremo
spesso”.
Demelza
la riabbracciò, commossa, mettendo in un angolo ogni
preoccupazione
sui gemelli. Non
era il momento per quello, ora doveva solo gioire per Margarita e per
il meraviglioso futuro che la aspettava. “Sono
felice, tanto”.
“Pure
io... Anche perché finalmente non vivrò
più sotto lo stesso tetto
con mia madre...” - le sussurrò Margarita
nell'orecchio, facendola
ridere. Poi
però le strizzò l'occhio, facendole cenno di non
andare oltre per
evitare di irritare ulteriormente sua madre.
“Grazie,
mia cara damigella” - sussurrò Margarita.
“Grazie,
mia cara sposa. Cercherò di addestrare al meglio i bambini e
di
renderli impeccabili ed eleganti”.
“E
io la aiuterò” - concluse Lady Alexandra,
entusiasta di
sbandierare in faccia alla sua rivale la superiorità dei
piccoli
eredi Boscawen.
Alle
cinque, quando ormai era quasi buio e il gelo si stava facendo
intenso, le due donne salutarono e tornarono a casa nella loro
carrozza.
Appena
furono sole, Lady Alexandra prese le mani di Demelza, stringendole
nelle sue. “Demelza, i gemelli! Davanti a quell'arpia son
stata
zitta ma sono terrorizzata!”.
Demelza
sospirò. “Abbiamo sei mesi di tempo per
prepararli”.
“Ci
vorrebbero sei secoli” - rispose Alexandra. “Giuda,
ma dobbiamo
dimostrare la nostra superiorità! E i bimbi devono comunque
debuttare in società”.
Demelza
sussultò e poi scoppiò a ridere davanti a
quell'espressione così
poco signorile. “Giuda? Santo cielo, non è da Lady
dirlo!”.
Lady
Alexandra ci pensò un attimo e poi scoppiò a sua
volta a ridere,
cingendola con le braccia e stringendola a se. “Ah bambina
mia, è
colpa tua e di Daisy! E di Prudie... La mia buona educazione
è
finita chissà dove ormai, da quando vi conosco”.
Demelza
rise, cullata da quel momento di serenità. Era una donna,
una madre,
aveva tante responsabilità e una vita sulle spalle che era
stata
costellata di grandi dolori ma in Alexandra aveva trovato una specie
di madre. Ed era bello e trovava piacevole venire 'ripresa' da lei
come una figlia, venire guidata, essere abbracciata come non era mai
stata abbracciata da bambina. Lei, che non era mai stata figlia di
nessuno, ora poteva esserlo e poteva anche permettersi di venire
presa per mano e guidata se ne capitava l'occasione. Amava Lady
Alexandra, nonna Alix come la chiamavano i bambini, e in lei e Lord
Falmouth aveva trovato finalmente una dimensione non solo fatta di
doveri e responsabilità ma anche due guide da seguire e in
cui
rifugiarsi. E Alix, che aveva perso un figlio, aveva trovato in lei e
nei suoi bambini una nuova famiglia da vivere e da amare. Un binomio
perfetto, bello, pulito... “Dobbiamo impegnarci! Sono
terrorizzata
da questa cosa ma dobbiamo preparare i bambini, farei di tutto per
Margarita e saperci tutti vicino a lei nel giorno più
importante
della sua vita, è per me un onore. Che gusterò,
appena mi sarà
passata la tremarella e la crisi di panico...”.
“Pure
io” - rispose Lady Alexandra, continuando a tenerla stretta a
se.
…
“Giuda
Prudie, ci sono migliaia di bambini a Londra! E
Margarita vuole proprio i miei,
per accompagnarla all'altare?! Ed
è bellissimo, la adoro per averci scelti ma i gemelli...?
Cos'hanno
di speciale i miei figli?”
- disse,
percorrendo come una folle i corridoi delle sue stanze, appena
tornata a casa.
La
serva, che le stava dietro a fatica e
che era stata travolta da quella crisi di panico,
scosse la testa. “I
tuoi bambini,
ragazza, hanno un cognome nobile. E due di loro hanno sangue
blu”.
Demelza
la guardò storto. “I due che mi daranno
più problemi”.
Prudie
le si parò davanti, con le mani sui fianchi, bloccandole la
strada.
“Niente panico! Abbiamo sei mesi per addestrare i gemelli,
giusto?”.
“E
se dicessi che hanno la febbre?”. Certo,
fino a poco prima era stata pronta ad accettare la sfida ma ora,
tornata a casa in mezzo alla baraonda di giochi disseminati ovunque
dei suoi figli, si rese conto che la faccenda assumeva toni da
impresa.
“Una
febbre per sei mesi? La gente penserà che sono
moribondi”.
Demelza
sospirò, alzando gli occhi al cielo. Santo cielo, la
chiamavano
lady, la consideravano una gran signora e un importante membro
dell'alta società ma lei era Demelza di Illugan e ogni volta
che si
rapportava a quelle persone, voleva solo scappare in cucina a
mangiare con i servi. Soprattutto in situazioni del genere! E ora la
nipote della regina, la sua migliore amica, la voleva al suo
matrimonio, a gestire paggetti e damigelle. Di cui avrebbero fatto
parte i suoi vivacissimi e indisciplinati figli. “Vorrei
annegarmi
nel Tamigi con una macina al collo, Prudie. Prima
quando Margarita me l'ha detto, ero contenta. Ma ora che ci penso,
sono nel panico!”.
“Non
facciamo troppe tragedie, da che mondo e mondo i bambini compongono
il corteo di una sposa. Mi pare sia proprio normale che sia l'impegno
ufficiale per i marmocchi ricchi”. Prudie le mise
amichevolmente
una mano sulla spalla. “Iniziamo subito coi preparativi! Sei
mesi
sono sufficienti per insegnare ai gemelli a non far guai per mezza
giornata. Sono
bestioline, vanno solo ammaestrati”.
Demelza
sbuffò. “Ho mandato Mary a chiamarli, erano in
giardino a giocare.
Prendimi un lenzuolo bianco, iniziamo subito, non
c'è tempo da perdere!”.
“Certo
signora”.
Demelza
osservò Prudie che correva goffamente per i corridoi del
palazzo,
appoggiandosi contro il muro. Era una casa così bella e
raffinata la
sua, come poteva esserne la padrona? Perché lady Margarita
l'aveva
scelta per la preparazione dei paggetti e delle damigelle?
Perché
proprio i suoi bambini? A volte faticava ancora a capire
perché
fosse tanto importante e perché tutti volessero avere a che
fare con
lei, le succedeva sempre di non capirlo o ricordarlo, quando era in
panico. Il suo matrimonio con Hugh le aveva conferito un rango molto
superiore a quello di tanti nobili che lei stessa considerava
irraggiungibili e che invece, nella scala sociale di Londra, dovevano
aspettare un suo cenno per rivolgersi a lei. Era incredibile, non ci
si sarebbe mai abituata.
In
quel momento Mary arrivò, coi bambini. Ripuliti,
lavati, pettinati e rimessi a nuovo, ora la guardavano con fare
interrogativo.
“Signora, ecco i vostri figli. Sono
riuscita a far
loro il bagno, a
parte Clowance erano impresentabili”.
“Ti
ringrazio” -
mormorò, grata
per il suo aiuto.
Si avvicinò ai piccoli, mentre Mary si allontanava. Erano in
fila
davanti a lei, per ordine di età e Demian sembrava
già annoiato
anche se non aveva ancora iniziato a parlare. “Demian,
potresti
ascoltarmi per qualche minuto senza prendere a calci il muro o tua
sorella perché ti annoi?” - disse, rivolta al
piccolo.
“Sì
mamma!”.
Jeremy
osservò i fratellini e poi lei, sospettoso. “Siamo
in castigo?”.
“No,
vi ho fatti chiamare perché dovevo parlarvi”.
Osservò Jeremy e
Clowance, loro sarebbero stati entusiasti della cosa e si sarebbero
comportati bene senza troppa fatica. Ma i gemelli avevano tre anni
scarsi, erano dei bambini vivacissimi e spesso ingestibili e si
faticava a tenere troppo a lungo la loro attenzione e la loro
collaborazione. Erano
alla perenne ricerca di un guaio in cui cacciarsi, erano
imprevedibili e spesso tutto ciò che passava nelle loro mani
finiva
in mille pezzi. “Oggi
ho visto
lady Margarita assieme
alla nonna e
mi ha dato un incarico importante. Fra sei mesi si sposa e vuole che
voi siate i suoi paggetti e le sue damigelle, assieme al vostro
amichetto Frederik, a Lorys Altan e alle bambine di Lord
Constyn”.
Gli
occhi di Clowance si illuminarono. “La damigella?
Sarò una bambina
dei fiori? E avrò un vestito bianco e bellissimo?”.
“Certo
tesoro!”.
La
bimba saltellò contenta e Demelza le sorrise. Clowance, a
sei anni,
era una lady migliore e più entusiasta di lei.
Jeremy
invece la guardò male e questo la destabilizzò.
“Mamma, paggetto?
Come quelli che c'erano al matrimonio dei
visconti Dorington?”.
“Sì”.
Il
bambino indietreggiò, incrociando le braccia davanti al
petto.
“Nooo! Vestirai me e Demian come degli scemi e Clowance e
Daisy
come delle meringhe? Non voglio!!!”.
Demelza
sudò freddo. In effetti, a
quel matrimonio
i bambini che avevano seguito il corteo del erano vestiti in maniera
pittoresca e pacchiana, ma su quel punto voleva rassicurare suo
figlio. Lady Margarita le aveva chiesto di occuparsi interamente
della preparazione di tutti i bambini, compresi abiti e coroncine e
quindi avrebbe scelto qualcosa di elegante ma non troppo pomposo.
“Sceglieremo insieme i vestiti, sono io che devo occuparmene
e ti
giuro, Jeremy, che non sembrerai scemo. E quella non è una
parola
che comunque devi dire!”.
Daisy
alzò il faccino e fece un sorriso divertito.
“Scemo, scemo!”.
E
Demelza sudò freddo di nuovo. “Ecco, appunto! Sai
che tua sorella
ripete solo le parolacce”.
“Scemo”
- disse ancora Daisy prima di bloccarsi davanti allo sguardo omicida
di sua madre.
Si
inginocchiò davanti a loro per essere alla stessa altezza.
“Mi
aiuterete a rendere bello il matrimonio di lady Margarita?”.
Demian
riprese a prendere a calci il muro, ancora più annoiato.
“Non sono
capace”.
“Ti
insegno io. Adesso, con Prudie”.
“Non
voglio” - ribatté il bambino.
“Io
forse devo
fare la pipì.
Adesso!”
- aggiunse Daisy.
Demelza
parve ancora più sconfortata. Santo cielo, non sarebbero
bastati sei
mesi! Nemmeno sei anni o sei secoli! “Per favore” -
li implorò.
Jeremy
sbuffò. “Va beh, alla fine se non ci vesti da
sce... ehm...
stupidi... va bene! Tanto dobbiamo solo seguire la sposa, tenerle il
velo e lanciare i petali di fiori, giusto?”.
“Giusto”.
“Giurami
che al matrimonio non ci sarà nessuno dei miei amici a
vedermi!”.
“Non
posso assicurartelo, non ho ancora la lista degli invitati. Ma
potresti farlo lo stesso? Prometto che non ti vestirò in
modo
ridicolo”.
Jeremy
sbuffò. “Va bene... SOLO per stavolta! Posso
però chiederti una
cosa? Ma se sei tu a dover gestire tutto, mamma, vuol dire che poi
verranno a casa nostra anche gli altri bambini che devono fare il
corteo, per fare le prove?”.
“Sì”.
Jeremy
sbuffò. “Frederik e Lorys li conosco, son
simpatici. “Ma Grace e
Jane Constyn ti prego, no! Frignano sempre e non capiscono niente! E
Grace ha due anni, al parchetto piange sempre e fa un sacco di versi
da bambina stupida, non riuscirai a farle fare la damigella”.
Prudie
arrivò in quel momento a salvarla da quel discorso
complicato da cui
non ne sarebbe uscita viva, con un lenzuolo bianco fra le mani che
dispiegò, mettendolo sulla testa di Demelza come se fosse un
velo.
Clowance
scoppiò a ridere. “Mamma, cosa fai?”.
Demelza
le strizzò l'occhio. “Faccio finta di essere la
sposa. Demian e
Jeremy dovranno reggere il velo e seguirmi e voi due bambine
seguirete loro per il corridoio. Dovrete essere seri, camminare
dritti e non ridere”.
“Io
vi aspetterò in fondo al corridoio facendo finta di essere
il prete”
- concluse Prudie, allontanandosi.
E
a quelle parole, i bambini scoppiarono definitivamente a ridere. E
anche Demelza. E Prudie... Risero di gusto e Demelza si sedette per
terra, lasciando cadere dietro le sue spalle il lenzuolo. Ci sarebbe
stato tempo per fare le prove, ora era troppo divertita per spezzare
quel momento gioioso di risate coi suoi figli. Allargò le
braccia e
accolse i bimbi fra di esse, rendendosi conto di quanto fossero
ridicoli sia quei preparativi, sia le sue paure. Baciò Daisy
sulla
nuca e fece il solletico a Demian, diede un pizzicotto affettuoso
sulla guancia a Clowance e lasciò che Jeremy gli si sedesse
di
fianco. Erano vivaci ed indisciplinati ma non li avrebbe cambiati con
nessun altro bambino al mondo. Né avrebbe permesso a nessuno
di
farlo. “Bambini, d'accordo, per oggi niente prove! Su, andate
a
giocare”.
“Quanti
mesi ci sono, per imparare a fare i paggetti?” - chiese Jeremy
“Sei”.
Jeremy
guardò i gemelli che si erano già rialzati e
avevano ripreso a
rincorrersi e a fare rumore. “Mamma, sei nei guai con loro
due. E
anche con Grace!”.
“Come
sei incoraggiante!” - rispose, scompigliandogli i capelli.
“Lo so
che sono nei guai ma tu cerca di non farmi deprimere troppo
facendomelo notare”.
Jeremy
rise e poi si alzò, prendendo Demian per mano e incitando le
bambine
a seguirlo.
Ma
Demian si divincolò, rifugiandosi fra le braccia di Demelza.
“Io
voglio stare con la mamma”.
“Mammone!”
- ribatté Clowance nel suo elegante abitino rosa, facendo la
linguaccia al fratellino.
Jeremy
rise, la prese per mano per farla smettere e corsero
via, nel
salone di sotto,
sghignazzando
e facendo baccano.
Prudie
li osservò sparire
alla loro vista.
“Ci sei riuscita, ragazza”.
“Non
sono riuscita a far niente e i bambini sono ancora dei
selvaggi”.
“Non
sono selvaggi, sono contenti. Ricordi cosa volevi, quando è
morto
Hugh due anni e mezzo fa? Cosa lui ti aveva chiesto? Cosa
gli hai promesso?”.
Demelza
alzò lo sguardo su di lei, accigliata, poi
il suo sguardo si addolcì e si chinò a baciare la
testolina bionda
di Demian.
“Quando Hugh è morto, non ero nemmeno consapevole
di come mi
chiamassi. Però
sì, ricordo... Quella promessa è stata la mia
ragione di lotta e di
vita”.
Prudie
le sorrise dolcemente. “Hai giurato che per Hugh avresti
riempito
questa casa di risate di bambini. E guarda, ce l'hai fatta e lui ora
ne sarà contento”.
Demelza
sorrise di rimando, ricordandosi di quei giorni nebulosi. Era vero,
ci era riuscita! E in quei due anni e mezzo anche il suo cuore,
assieme a quello dei suoi figli, si era fatto più sereno e
leggero,
mentre li guardava crescere. E lo sapeva che Hugh, il suo poeta
sognatore un po' magico che li spiava nella nebbia, era felice per
loro. Si portò
la mano con la fede al dito alle labbra, la baciò e poi si
alzò in
piedi, tenendo Demian per mano. “Andiamo in camera? Mamma
deve
cambiarsi d'abito e prepararsi per la cena”.
“Sì.
Io sono pronto, guarda!”.
Demelza
congedò Prudie, sorrise e lo guardò mentre
entravano in camera.
Demian indossava un maglioncino blu, dei pantaloncini corti dalla
fantasia scozzese, scuri, calzini fino al ginocchio e i suoi lunghi
capelli biondi erano pettinati e perfetti. Non sarebbe durato a lungo
così agghindato ma era incantevole in quel momento anche se
non
aveva mai amato i dettami in fatto di abbigliamento di Londra che
imponevano i pantaloncini corti ai bambini dell'alta società
fino
agli otto anni, anche in pieno inverno. Aveva dovuto abituarsi a
quella regola, tutti i bambini erano vestiti così e Demian
non
sembrava aver freddo ma considerava quella moda ridicola.
Si
tolse il mantello, lo appoggiò sul letto mentre Demian
ciondolava
per la stanza e improvvisamente un 'piccolo dettaglio'
attirò la sua
attenzione. “DEMIAN PHILIPPE LUIS!!! Vieni
quì” - disse,
scandendo il suo nome per intero, cosa che succedeva solo quando era
arrabbiata con lui. “Cos'è questo?” -
chiese, indicando un
cumulo di pezzi di legno che una volta erano il suo comodino.
Il
bimbo si avvicinò, guardandola con la sua consueta aria da
angioletto. “Volevo vedere com'era dentro. L'ho
aperto”.
Demelza
si mise le mani fra i capelli. “Giuda, lo hai completamente
smontato!”.
“Sì”
- rispose lui, sincero.
Lo
guardò storto, sospirò e poi decise che doveva
sistemare subito
quel disastro prima che qualcuno se ne accorgesse e lo riferisse a
Lord Falmouth. Si avvicinò all'armadio, si chinò
e dal fondo
estrasse una cassettina di legno che teneva segretamente nascosta
sotto cumuli di coperte. Si avvicinò al comodino smontato,
si
sedette per terra e la aprì, facendo vedere il contenuto a
suo
figlio.
“Cos'è
mamma?”.
“Cacciaviti,
viti e cose simili... Servono a sistemare i tuoi disastri” -
disse
Demelza, prendendo a rimettere insieme i pezzi del mobile.
Demian
rise. “Una Lady non lo fa!”.
Quell'espressione
la fece riflettere, prima di farla ridere assieme al bambino.
“Una
lady no. Ma Demelza Carne di Illugan sì!”.
“E
tu chi sei, mamma?”.
Gli
strizzò l'occhio. “Tutte e due”.
Già, era tutte e due. Per
amore di Hugh e della sua famiglia era diventata una Lady ma MAI
avrebbe smesso di essere, quando era necessario, Demelza Carne. E
sapeva che Hugh era fiero di lei ed era così che voleva
vederla.
Anche perché, visti i disastri dei gemelli, aveva dovuto
fare di
grazia, virtù. “Aiutami!” - disse al
bimbo, mettendogli in mano
delle viti. “E ricorda, sei in castigo per tutto
domani”.
Demian
spalancò gli occhi, sbuffò, fece la faccia
sorpresa e poi la
abbracciò da ruffiano. “NOOO!
Perché?”.
Lo
guardò storto, rifiutandosi di rispondere a quella domanda
ovvia.
Era un maestro a fregarla e a farla intenerire ma quella sera Demian
non ce l'avrebbe fatta. “Farai compagnia a Daisy che
stamattina ha
lanciato la marmellata in testa a Silvie, in cucina. Starete tutto il
giorno in casa a sfogliare – SENZA ROMPERLI – i
libri che vi ha
lasciato il vostro papà. E ora su, sistemiamo questo
disastro prima
che lo sappia tuo zio e mi venga a dire di nuovo che sei un selvaggio
e che ti serve un istitutore svizzero che educa col bastone, di nome
Gotfried”.
Demian
incrociò le braccia al petto, imbronciato. Ma poi,
interessato a
quel lavoro manuale, la aiutò a sistemare il disastro che
aveva
combinato e le sue rimostranze finirono lì.
Si
divertirono insieme, come succedeva sempre quando si trovava a fare
qualcosa con Demian. Era, fra i suoi figli, la sua anima gemella, in
un certo senso.
Rimontarono
l'armadietto e poi Demelza ripose di nuovo, al sicuro, la sua
cassetta segreta degli attrezzi. Si avvicinò poi alla grande
finestra che dava sul giardino, osservandolo immerso nel buio e nella
nebbia. Ce n'era tanta, come in quella sera in cui aveva conosciuto
Hugh... Pensò a lui, ai bambini, al matrimonio di Margarita
e al
compito che la aspettava e in silenziò prego.
“Avevi detto che ti
saresti nascosto nella nebbia e che se avevo bisogno di aiuto, mi
avresti ascoltata. Ecco, ho bisogno di aiuto, Hugh. Se sei qui
davvero, se sei il mio elfo... Ecco, aiutami a mettere un po' di sale
in zucca ai gemelli e fa che siano bravi almeno nel giorno del
matrimonio di Edward e Margarita. Per favore...” -
pregò, baciando
nuovamente la fede che aveva al dito. Era terrorizzata da
quell'incarico...
“Con
chi parli?” - chiese Demian, corso al suo fianco ed attaccato
alla
sua gonna.
Demelza
gli sorrise, lo prese in braccio e con lui si affacciò
nuovamente
alla finestra. “Con gli elfi e le fate. Sai, il tuo
papà mi diceva
che si nascondono nella nebbia... Tutte le creature magiche che
esistono, stasera sono nel nostro giardino”.
Demian
si appoggiò con il viso e le manine al vetro, osservando
attentamente fuori, poi rise. “Sì, le
vedo!” - esclamò.
“Cosa?”.
“Le
cose magiche. Ce ne sono tante... Anche gli gnomi”.
Demelza
lo strinse a se, baciandolo sulla fronte. “Davvero, mio
piccolo
principe?” - chiese, chiamandolo in quel modo affettuoso e
segreto
che usava con lui quando erano soli.
“Davvero”.
Guardò
fuori, lei non vedeva niente. Ma forse era così, forse agli
adulti
era precluso vedere cose che, agli occhi ancora trasparenti dei
bambini, era limpido e chiaro. I bimbi sapevano vedere oltre e non
era fantasia, non del tutto. Di questo era sicura! “Farai il
bravo
paggetto?”.
“Sì.
Ma sono ancora in castigo domani?”.
“Sì”.
“Ma
adesso il comodino è guarito...”.
Demelza
rise, mettendolo a terra e osservandolo correre sul letto. Il bimbo
si gettò sui cuscini, rotolando fra essi ridendo.
“Mamma,
giochiamo?” - chiese.
E
Demelza annuì, sentendosi leggera e al sicuro da ogni male
del mondo
nel calore di quella stanza, coi suoi bambini che giocavano di sotto
e con lei. “Giochiamo” - rispose, lanciandogli
allegramente un
cuscino in testa.
Prudie
aveva ragione, stavano ridendo. E lei aveva mantenuto fede alla
promessa fatta a Hugh e lui la fuori, nella nebbia, era orgoglioso di
tutti loro.
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Capitolo 29 *** Capitolo ventinove ***
"Signore,
avete visite".
Ross,
intento a fare colazione, alzò lo sguardo accigliato.
Visite? A
quell'ora? Era presto, il sole non aveva ancora illuminato la
brughiera, Valentine stava facendo baccano picchiando il cucchiaio
nella ciotola con il latte e lui per questo era già di
cattivo
umore. Non sopportava Valentine quando faceva così, quando
faceva
rumore e capricci per attirare l'attenzione. E ora ci si metteva
anche l'ospite mattutino? "Di chi si tratta?" - chiese a
Jane.
"Zachy
Martin. Sembra molto agitato".
Ross
guardò di sbieco Valentine intimandogli in modo brusco,
stavolta, di
smetterla e poi, dopo averlo affidato alle cure di Jane,
andò a
vedere cosa portava il suo socio a casa sua a quell'ora.
Appena
giunse alla porta, trovò Zachy sconvolto, pallido, sudato e
in preda
a un'inusuale agitazione che non aveva mai fatto parte del suo
carattere. "Che succede, amico mio? Vieni dentro dai, non stare
quì sulla porta".
Zachy
scosse la testa, c'era una sorta di disperazione sul suo viso e nella
sua espressione... "No, non ho tempo, non c'è tempo! Ross,
aiutami" – sussurrò con la voce rotta dal pianto,
aggrappandosi alle braccia dell'amico quasi come avrebbe potuto fare
un bambino in preda a un incubo.
Ross
entrò in allarme, se Zachy era in quello stato, doveva
essere
successo qualcosa di grave. "Non c'è tempo per cosa?".
"Per
Jago" – disse l'uomo, accasciandosi a terra piangendo come un
bambino.
"Jago?".
Ross capì subito che, se Zachy si trovava in quello stato,
suo
figlio doveva averla combinata grossa. Jago era stato da subito, fin
da piccolissimo, una testa calda sempre nei guai e sempre pronta a
fare a botte e crescendo non era cambiato. Solo che c'era una bella
differenza fra una scazzottata fra due monelli della Cornovaglia e
guai con perfetti e pericolosi sconosciuti incontrati in giro per il
mondo. "Cosa ha fatto? Mi avevi detto che era impiegato come
mozzo su una nave...".
Zachy
scosse la testa. "E' tornato la settimana scorsa. E' stato a
casa solo pochi giorni, da quando sua madre è morta fugge
lontano
appena può e così è stato anche
stavolta. L'altro ieri... Hai
sentito dei disordini a Truro?".
Ross
si oscurò in volto. "Sì, un gruppo di minatori e
contadini ha
aggredito delle guardie e una è stata uccisa. Non dirmi che
Jago è
implicato...".
Zachy
annuì. "Era lì, ovviamente! Andare in Francia gli
ha messo in
testa idee strane e pericolose e lo avevo messo in guardia, gli avevo
detto che si sarebbe messo nei guai! E' stato arrestato durante gli
scontri e processato immediatamente. E' stato giudicato colpevole,
assieme ad altri due ragazzi, di omicidio e incitazione alla
sommossa".
L'animo
di Ross divenne cupo, erano accuse gravi e non se ne poteva uscire
con una semplice ammonizione da parte del giudice. Eppure non
riusciva a credere che Jago, cresciuto da una famiglia sana e
comunque buono d'animo, potesse aver fatto una cosa simile. "Hai
parlato con lui?".
"L'ho
potuto vedere solo pochi minuti ieri, prima del processo. Mi ha
giurato che è innocente, che si trovava nel posto sbagliato
al
momento sbagliato e che voleva solo protestare con gli altri per un
prezzo del grano più equo. Ha cercato di spiegarlo anche al
giudice,
ma George Warleggan non ha voluto sentire scuse".
Un
brivido freddo percorse la schiena di Ross... Se George Warleggan era
stato il giudice di Jago, la punizione doveva essere pesantissima e
sapendo che i Martin erano amici dei Poldark, sicuramente ci era
andato giù pesante. Era una situazione pessima, quella!
"Warleggan...? Qual'è la sentenza?".
Zachy
si accasciò a terra, piangendo come un bambino a quella
domanda. "Lo
impiccheranno stamattina alle undici a Bodmin, assieme agli altri due
ragazzi condannati con lui". Gli prese la mano, stringendola
convulsamente, cercando in lui una qualche soluzione a quell'incubo.
"Ross, aiutami! E' solo un ragazzo".
Si
sentì le gambe tremare, avrebbe avrebbe fatto qualunque cosa
per lui
ma se George era implicato e aveva emesso quella sentenza, c'erano
poche direzioni da seguire per poter salvare Jago. E lui DOVEVA
salvarlo! Perché era giovane, perché lo conosceva
fin da quando era
piccolo, perché era figlio di Zachy e perché era
un bravo ragazzo
pieno di energia e poco capace di prevedere le conseguenze delle sue
azioni come tanti altri ragazzi della sua età. Non poteva
morire,
non così! Ma andare da George e implorare non sarebbe
servito a
nulla e aveva solo una strada da percorrere!
Si
inchinò, aiutando Zachy a rialzarsi, poi gli diede una pacca
amichevole sulla spalla e gli sorrise forzatamente. "Prendi uno
dei miei cavalli e galoppa fino a Bodmin, Jago vorrà
sentirti
vicino. Io tenterò di parlare con una persona influente che
forse
potrà fare qualcosa per tuo figlio, ci vado subito e
farò quanto in
mio potere per fermare questa pazzia. Poi ti raggiungerò in
quel
luogo dannato dove pure io, anni fa, rischiai la stessa pena inflitta
a Jago". Già, sembravano passati secoli da allora... Julia
era
appena morta, Demelza era sopravvissuta per miracolo alla gola
putrida e nonostante il dolore per la malattia e per la perdita della
loro bimba, aveva trovato la forza per stargli vicino durante quel
dannato processo dove ancora una volta lui aveva messo il suo
orgoglio davanti al suo amore per lei. Demelza... Pensarla, ogni
volta, faceva molto male. Gli era stata sempre vicino e avrebbe
meritato che lui le regalasse il mondo e invece era stato capace solo
di ferirla e di farla soffrire. Ed era l'ultima persona al mondo che
lo meritasse... Ora non poteva più fare ammenda con lei e
coi suoi
figli ma per Zachy e per Jago si sarebbe battuto fino allo stremo e
anche oltre. Questo non avrebbe cancellato i suoi torti passati ma
forse avrebbe potuto alleggerire il suo animo appesantito da tanti,
troppi sensi di colpa.
"Con
chi vuoi parlare?" - chiese Zachy. "Chi può avere il
potere di annullare una sentenza già emessa?".
"Te
lo dirò dopo, ora non c'è tempo. Va a Bodmin
Zachy, ti raggiungo
lì".
Zachy
annuì dirigendosi, apparentemente più
rinfrancato, verso le stalle.
E Ross corse in casa per prendere il suo tricorno e avvertire Jane e
John Gimlet che non si sarebbe recato alla miniera per quel giorno e
che non sapeva a che ora avrebbe fatto ritorno.
Appena
dentro spiegò tutto a John ma fu interrotto nuovamente da
Valentine,
in vena di fare capricci quella mattina.
"Papà".
Ross
lo guardò di sfuggita, il suo cuore era in tumulto per il
destino di
Jago e non aveva tempo da perdere con suo figlio. "Non ora...".
"Ma
devo dirti una cosa importante".
Ross
sbuffò. "Dilla a Jane".
"NOOOO".
Santo
cielo, quella mattina Valentine rischiava di prendersi una
sculacciata! "Che c'è?".
Valentine
gli si avvicinò, tirandogli la giacca. "Mi leggi una fiaba,
stasera quando torni?".
Si
sentì irritato, era un bambino insensibile e viziato che non
sapeva
vedere oltre i suoi desideri. Un ragazzo rischiava di venire
impiccato e lui pensava alle fiabe. "Se il tuo unico pensiero
è
leggere una fiaba, sei un bambino davvero fortunato rispetto a tutti
gli altri... Fattela leggere da Jane, non ho tempo per queste
sciocchezze, soprattutto oggi!".
Gli
occhi di Valentine divennero lucidi. "Ma papà... Lo avevi
promesso!".
Il
bimbo, non sapendo del tumulto e della disgrazia imminente che stava
per abbattersi su una famiglia da sempre amica, scoppiò a
piangere e
Jane accorse per calmarlo. Ross non aggiunse altro, lo
guardò con
irritazione, gli voltò le spalle e poi corse verso le stalle
per
partire a sua volta al galoppo.
Destinazione:
Lord Basset.
Galoppò
come un forsennato, non c'era da perdere nemmeno un minuto e quando
arrivò, nonostante fosse mattino ancora presto, fece
irruzione nella
grande casa di Basset interrompendo l'uomo che stava facendo
colazione nel suo studio mentre leggeva delle carte.
Basset
sollevò gli occhi su di lui, dando un cenno al maggiordomo
che aveva
dovuto seguire l'avanzata di Ross di congedarsi. "Ross
Poldark... Che piacere vedervi quì, non aspettavo la vostra
visita.
Non stamattina almeno".
Ross
si oscurò. "Non è una visita di cortesia, sono
quì per
chiedere di intercedere per un ragazzo condannato ingiustamente
all'impiccagione. L'esecuzione avverrà fra poche ore a
Bodmin e se
la sentenza verrà eseguita, sarà il
più grande crimine che possa
essere perpetrato ai danni del popolo. Conosco il ragazzo e sono
pronto ad intercedere per lui e a prendermi la
responsabilità di
seguirlo da oggi in poi".
Basset
piegò le carte che teneva in mano, sospirando. "Parlate dei
tre
ragazzi condannati per i disordini dei giorni scorsi a Truro?".
"Sì".
L'uomo
scosse la testa. "Sono stati condannati a morte tre giovani,
accusati di aver ucciso una guardia. La guardia è
effettivamente
morta, qualcuno ha armato un fucile e loro sono stati riconosciuti
come gli esecutori materiali dell'omicidio. Ross, non c'è
nessun
errore, questa è la legge".
Ross
scosse la testa, doveva dannatamente fargli capire e chiarire cosa
poteva aver spinto George ad emettere quel verdetto. "Non posso
dire per gli altri due giovani, ma Jago Martin è innocente,
si
trovava lì per protestare e anche se è una testa
calda, è un bravo
giovane cresciuto da una famiglia sana e onesta, non sarebbe mai
capace di uccidere nessuno. E' un ragazzo, solo un ragazzo che si
è
fatto trascinare dagli eventi e purtroppo paga lo scotto di
appartenere a una famiglia amica dei Poldark. E questo, George
Warleggan lo sa bene e ha inciso sul verdetto".
Basset
alzò i suoi piccoli occhi azzurri su di lui, scrutandolo con
furbizia. "Potevate essere voi a pronunciare una sentenza che
poteva salvarlo, se aveste accettato la nomina a giudice di pace. Non
lo avete fatto, George lo è diventato al posto vostro e ha
emesso
una sentenza attenendosi alla legge. Non c'è errore in
questo, la
procudura è corretta e purtroppo la grazia può
essere data solo dal
re".
"E'
INNOCENTE!!!" - urlò Ross.
Lord
Basset si alzò dalla sedia, andando davanti a lui viso a
viso. "Se
lo è, non è stato in grado di dimostrarlo. Ross,
io conosco il
vostro buon cuore e cosa vi ha spinto quì, ma non posso
aiutarvi".
No,
non poteva finire così e non si sarebbe arreso. "Erano
povere
persone riunite per protestare sull'aumento del prezzo del grano.
Disperati che non sanno che cosa dare da mangiare ai propri figli...
Gente senza diritti, che non sa se il giorno dopo avrà un
lavoro e
del cibo in tavola, che vive di stenti e che a volte si lascia
guidare da una disperazione mossa più dalla fame che dalla
cattiveria. Non hanno diritti, non hanno tutele... Voi lo sapete, voi
ed io su questo la pensiamo allo stesso modo".
Lo
sguardo di Lord Basset si fece severo. "Vero, abbiamo visioni
simili ma io, a differenza vostra, espongo la mia faccia e lotto
perché le cose cambino, in sede opportuna, mettendo anche a
tacere
la mia coscienza se necessario! E' vero, non esistono giustizia
sociale, tutele e diritti per i lavoratori e soprattutto non esiste
pietà verso chi non ha nulla ma per cambiare le cose, gli
uomini
GIUSTI devono andare a dire le GIUSTE cose nelle sedi opportune. Voi
non salverete quel ragazzo, Ross. Ad oggi nulla può esservi
d'aiuto
ma se vi metteste in gioco, forse salverete quelli che verranno dopo
di lui".
Ross
scosse la testa, non voleva sentire quel genere di discorsi, non in
quel momento. "Vi prego... Mi metterò in ginocchio se
servisse
a qualcosa...".
"Non
servirebbe a nulla Ross e voi lo sapete".
Lo
guardò, vedendo in lui e nel suo volto il segno della
sconfitta.
Anche Basset si sentiva impotente in quel momento e poteva leggergli
in faccia il dolore di non poterlo aiutare davanti a
quell'ingiustizia. "Suo padre è il mio braccio destro... Un
brav'uomo che ha cresciuto tanti bravi figli, onesti lavoratori che
si spaccano la schiena nelle nostre miniere. Siamo padri anche noi,
cosa faremmo al suo posto?".
Basset
abbassò il viso. "Saremmo semplicemente disperati. Se siete
amico di quell'uomo Ross, andate da lui e stategli vicino.
L'esecuzione sarà fra poco e avrà bisogno di voi".
Ross
lo guardò, pensando a Jago e ricordandolo bambino, quando
giocava ad
inseguire le lepri fuori dalla Wheal Leasure e faceva i dispetti alle
bambine del distretto. Era giovane, aveva davanti una vita... E ora
gli sarebbe stata strappata. Mise il tricorno in testa, annuendo e
capendo che non poteva chiedere nulla e che la legge legava le mani
di Basset quanto le legava a lui. "Scusate se vi ho disturbato".
"Di
nulla, Ross".
Fece
per andare ma Basset lo richiamò ancora una volta. "Ci
penserete?".
Ross
si voltò. "A cosa?".
"A
ciò che vi ho detto, ad arrivare a discutere di queste
tematiche
nelle sedi opportune, con me".
Ross
non rispose, non era il momento per discutere di cose simili e non
aveva tempo di pensare. Salutò con un cenno del capo,
uscì dalla
stanza e dalla casa e poi montò in sella al cavallo,
galoppando come
un forsennato verso la prigione di Bodmin.
...
La
folla gremiva la piccola piazzetta adiacente alla prigione dove si
trovava il palco coi tre cappi.
Gente
che urlava, che cercava di concludere affari approfittando della gran
folla, gente venuta fin lì pensando di godersi uno
spettacolo
macabro. Ross era nauseato da tanta crudeltà ed
insensibilità ma
non poteva andarsene. E fianco a fianco di Zachy aspettavano
l'inevitabile, lui con lo sguardo di pietra mentre guardava George
Warleggan osservare il cappio con aria trionfante e Zachy con il viso
rigato da lacrime che non poteva trattenere.
Ross
gli poggiò la mano sul gomito per dargli coraggio. Sapeva
come si
sentiva, era come fu per Julia mentre la teneva in braccio dopo che
Dwight gli aveva detto che non c'era niente da fare. Era la
disperazione di un uomo che guarda suo figlio non per vederlo
crescere ma aspettando di vederlo morire. Era terribile, un dolore da
cui nemmeno lui si era mai rialzato del tutto e che forse aveva
creato le prime crepe nella felicità perfetta dei primi anni
di
matrimonio con Demelza. Non c'era nulla da dire, c'era solo da stare
accanto a Zachy come a suo tempo Dwight era stato vicino a lui.
Dwight,
Julia, Demelza... Tutte persone belle a cui aveva voluto bene e che
aveva perso... E ora guardando Jago salire sul palco e il boia
mettergli attorno al collo la corda, il senso delle sue perdite
tornava prepotentemente davanti ai suoi occhi con ferocia.
"Ross...".
Zachy
si aggrappò a lui, affondando il viso nella sua spalla e
Ross lo
sorresse. "Zachy... Sarà un attimo, solo un attimo.
Perdonami
se non posso aiutarti, perdonami per non essere stato...". Si
bloccò, rendendosi conto che per salvare Jago non avrebbe
potuto far
nulla quel giorno, tutto quello che poteva fare era decidere altro in
passato. Ma per orgoglio aveva rifiutato un ruolo che poteva portarlo
a fare del bene, mettendo in mano a George Warleggan un potere che
gestito da lui diventava morte e distruzione.
Osservò
quei tre giovani a cui non fu concesso nemmeno di dire un'ultima
parola, i loro occhi pieni di vita ma terrorizzati, il futuro che non
avrebbero avuto più.
E
quando la botola sotto i loro piedi si aprì, l'urlo di Zachy
lo
trascinò a terra in un pianto disperato.
Lo
abbracciò, gli tenne tenuto il viso contro il suo petto per
non
fargli vedere nulla di quello spettacolo magro e in quell'istante
ritoccò con mano quel dolore atroce vissuto quando
morì Julia.
Tutti
coloro che avevano attorno urlavano esaltati. Ma per Ross e Zachy era
come se non esistessero, il loro era un faccia a faccia intimo e
solitario con morte e dolore e niente e nessuno avrebbe potuto
toccare quel momento in cui i fantasmi della loro vita tornavano a
tormentarli.
George
Warleggan, assieme agli altri due giudici che avevano emesso il
verdetto, se ne andò soddisfatto e senza alcun rimorso verso
la sua
carrozza e Ross lo osservò con odio, rendendosi conto che
non poteva
fare niente.
Non
poteva fare niente... Per adesso...
Ripensò
alle parole di Basset di quella mattina e dei mesi precedenti, alla
sua cocciutaggine, a quanto valeva il suo orgoglio rapportato al bene
che avrebbe potuto fare per gli altri, se avesse imparato ad
accettare qualche compromesso...
La
Cornovaglia era la sua terra, la sua vita, lì era nato e
lì
vivevano e avevano vissuto le persone che più amava. Ma era
il
momento di guardare anche oltre, cercando di non snaturare se stesso.
Guardò
le salme di quei tre ragazzi a cui povertà e ingiustizia
avevano
strappato la vita, le lacrime disperate di un padre che aveva appena
visto morire un figlio, ripensò alla vita di stenti dei suoi
minatori, brava gente resa feroce dalla fame e dalla miseria. E
decise...
Sorresse
Zachy, lo costrinse ad allontanarsi da quel luogo di morte dove nulla
poteva più salvare Jago e lo accompagnò a casa,
vegliando su di lui
con gli altri suoi figli finché non si
addormentò, stremato.
E
poi salì nuovamente a cavallo, galoppando verso la casa di
Lord
Basset in quella lunga giornata che sembrava infinita.
Lo
trovò che era in giardino, intento a guardare sua moglie e
sua
figlia che giocavano con un gattino bianco. Un'immagine di
serenità
e pace dopo l'orrore visto poco prima, un qualcosa di piacevole ma
stridente in quella giornata di morte e dolore.
Quando
arrivò, Basset non parve troppo sorpreso. "Vi aspettavo,
Ross.
Sapevo che sareste tornato...".
"Il
ragazzo è morto" – gli rispose, glaciale.
"Lo
so, sono stato informato, fate le mie condiglianze alla famiglia".
Ross
deglutì, strinse i pugni e si rese conto che la sua vita
sarebbe
cambiata da quell'istante. "E' ancora libero quel posto che
volevate assegnarmi, come vostro compagno d'avventura alle prossime
elezioni della Contea per due seggi a Westiminster?".
Basset
lo guardò mentre un lampo di orgoglio gli attraversava gli
occhi.
"Ovviamente".
Ross
annuì. "Beh, da ora non è più libero.
Lo prendo io quel posto
vacante".
"Finalmente!
Sapevo che avreste ceduto, che avreste capito che quello era il posto
da cui siete atteso, da sempre!". Basset gli si avvicinò per
stringergli vigorosamente la mano. "Londra non vi terrà
lontano
da queste terre tutto l'anno, come me potrete tornarci quando vi
aggrada, la strada non è così lunga come sembra.
Apparterrete
sempre a queste terre e potrete continuare a gestire le vostre
miniere".
Ross
annuì, non aveva bisogno di essere confortato su quegli
aspetti,
sapeva che nulla lo avrebbe mai potuto strappare definitivamente
dalla Cornovaglia. "Vinceremo?".
"Se
ci prepareremo a dovere".
"E
quando inziamo?".
Basset
sorrise di nuovo sotto i baffi. "Domani".
...
Quando
tornò a casa era esausto e la fatica e il dolore di quel
giorno
terribile erano un fardello talemente enorme che voleva solo farsi un
bagno e mettersi a letto, dimenticando il mondo attorno a lui per
qualche ora. Aveva fatto una scelta che lo avrebbe costretto a
cambiare vita, ad accettare compromessi e atteggiamenti, aveva deciso
che il suo mondo sarebbe stato anche Londra e aveva assistito alla
morte crudele di tre ragazzi. Era tanto, troppo...
Appena
dentro casa, Jane gli andò incontro, prendendogli mantello e
tricorno. "Bentornato signore".
Ross
si guardò attorno, notando che la casa era insolitamente
più
silenziosa di come l'aveva lasciata quella mattina. "Valentine
dov'è?".
Jane
scosse la testa. "A letto, oggi ha avuto un pò di febbre".
Sospirò
entrando subito in allarme, quel bambino era fonte perenne di
preoccupazione. "E' qualcosa di preoccupante?".
"No,
credo sia perché ha pianto tanto...".
Spalancò
gli occhi. "Pianto? Ancora per la storia della fiaba?".
Jane
lo guardò con una strana aria di rimprovero che mai gli
aveva visto
in volto. "E' solo un bambino, è piccolo e sta crescendo
senza
madre e con un padre perennemente assente. E' di salute delicata,
vive in un posto isolato ed è normale che cerchi attenzioni.
Credo,
signore, che il piccolo Valentine sia il bambino più solo al
mondo".
Ross
abbassò lo sguardo, a disagio. Sapeva le sue pecche di padre
ma era
la prima volta che Jane gliele sbatteva così brutalmente in
faccia.
"Ho molte cose e molti problemi da gestire, Jane... E la tua
presenza, assieme a quella di John, è importante per me e
Valentine.
Voi e vostro marito siete i punti di riferimento più
importanti di
mio figlio".
"Ma
siete voi suo padre, non noi! Signor Poldark, se posso
permettermi...".
"Dite".
"Fate
in modo che voglia più bene a voi che a noi. Valentine vuole
solo un
pò di tempo con il suo papà".
Ross
annuì, colpito da quelle parole. Poche ore prima aveva visto
le
lacrime di un padre che aveva perso un figlio che non avrebbe visto
diventare uomo e lui invece sprecava il tempo che gli era concesso
facendo tutto eccetto che stare con Valentine. Zachy non avrebbe
avuto altre chances e lui non poteva dire con certezza se quel tempo
sprecato con il suo bambino gli sarebbe stato restituito in futuro.
Ci era già passato da errori simili e aveva perso tutto, non
poteva
non aver imparato la lezione! "Grazie Jane, ora vado da lui".
Prima
passò dalla biblioteca per prendere un libro e poi
salì le scale,
stancamente, entrando nella stanzetta del figlio.
Valentine
era seduto sul letto, pallido, intento a giocare con alcuni soldatini
sparsi sulla coperta. "Papà...".
Si
avvicinò, sedendosi accanto a lui. "Jane mi ha detto che hai
avuto la febbre oggi".
Il
bimbo annuì. "Non è stata una bella giornata".
"Nemmeno
per me" – ammise Ross – "A volte il mondo di noi
grandi
è complicato e difficile".
"Anche
quello dei bambini" – rispose Valentine, incredibilmente
serio
per i suoi cinque anni.
Gli
accarezzò i ricciolini neri, guardò i suoi occhi
scuri, erano
identici loro due. Eccetto che gli occhi di Valentine erano sempre
colmi di una tristezza che spesso lui fingeva di non vedere. "Mi
spiace per averti parlato male questa mattina ma ero...".
"Cosa?".
"Niente...
Niente di cui tu avessi colpa. Vuoi che ti legga qualcosa?".
Valentine
osservò il libro nelle sue mani. "Solo se vuoi..." -
disse, timidamente.
Gli
sorrise. "Voglio! Ma sai, le fiabe credo siano per bambini
più
piccoli, questo libro è meglio" – concluse,
alzando il volume
dalla copertina rossa che aveva in mano.
"Che
libro è?".
"Un
libro sui pirati. Sai chi sono?".
Valentine
rise. "Gente con una bella vita interessante".
Ross
annuì, era d'accordo. "Te lo leggo, allora?".
"Sìììì"
– esclamò lui, sorridendo finalmente. Gli si
rannicchiò sul
petto, lo abbracciò e Ross per la prima volta da quando era
suo
padre lesse qualcosa per lui.
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Capitolo 30 *** Capitolo trenta ***
L'invettiva
di George Warleggan contro di lui, orientata a convincere tutti i
votanti a non scegliere Ross Poldark, fu talmente convincente che
pure lo stesso Ross, se fosse stato nei panni degli altri, non
avrebbe votato per se stesso.
Rimase
serio durante la fase delle votazioni, accanto a Lord Basset che, da
vecchia volpe, si guardava attorno lanciando occhiate silenziose ed
eloquenti agli altri rappresentanti delle contee presenti.
George
elencò tutti i suoi peccati di gioventù, i suoi
guai con la legge,
gli incidenti alle sue miniere che avevano purtroppo avuto come esito
alcune vittime, il suo carattere irascibile e poco serio, la sua
scarsa socialità, il suo essere sempre fuori dalle regole...
Fu
convincente a suo modo e Ross, ridendo sotto i baffi, pensò
quasi
quasi di votare lui per il seggio di Londra.
Dopo
un discorso del genere, difficilmente avrebbe preso dei voti. In
tanti lo conoscevano di fama e chi non lo conosceva personalmente...
beh, ora grazie a George sapeva tutto di lui.
Valentine,
accanto a lui, gli tirò la manica della giacca. Lord Basset
aveva
insistito perché lo portasse con loro, convincendolo che
l'immagine
di padre di famiglia avrebbe fatto presa sugli astanti e Ross, anche
se restìo, alla fine aveva portato il figlio con se.
"Papà?".
"Sì?".
"Ma
davvero hai fatto tutte queste cose da giovane? Quelle che ha detto
quel signore?".
Ross
annuì, vagamente orgoglioso di se stesso. "Anche di
più".
Valentine
sorrise, sinceramente colpito. "Forte!".
E
Ross si accigliò, guardandolo storto. "Tu ovviamente NON le
farai queste cose...".
Basset,
con accanto sua moglie e la piccola Emily, gli diede una gomitata
nella schiena. "Iniziano le votazioni, pregate che non debba
fare il viaggio verso Londra con George Warleggan".
"Pregherò...
per il bene dell'Inghilterra" – rispose Ross sarcastico,
guardando il suo storico nemico che, con la consueta faccia
corrucciata, lo guardava dall'altro lato della sala.
I
votanti iniziarono a esprimere le loro preferenze e i primi quattro
voti furono tutti per George. Ross sospirò, preparandosi
all'inevitabile sconfitta. Non aveva mai nutrito troppe speranze e
forse il suo destino sarebbe rimasto comunque quello di rimanere in
Cornovaglia, come era nelle sue idee iniziali, a gestire le sue
miniere.
Ma
poi Basset votò per lui e tutto cambiò,
facendogli comprendere
quanto ascendente e quanto potere sugli altri avesse quell'uomo.
E
dopo il voto di Basset, uno dopo l'altro arrivarono otto voti per
Ross Poldark. Votarono tutti per lui, all'unisono, anche coloro che
più erano vicini alla famiglia Warleggan.
Ross
trattenne il respiro, George divenne paonazzo e quando il Presidente
della seduta decretò la vittoria e l'assegnazione del seggio
a
Westiminster a Ross Poldark, se ne andò a passo spedito
dall'aula,
sbattendo la porta.
"Non
prende bene le sconfitte" – sussurrò Ross,
più divertito da
quella reazione che dall'esito del voto che, forse, non aveva ancora
mentalmente realizzato appieno.
Basset
rise, trionfante, trascinandolo a stringere le mani a tutti coloro
che avevano votato per lui, dandogli fiducia.
Ross
si lasciò trascinare, quasi inebetito da quell'esito
inaspettato che
ora, grazie dopo grazie, diventava improvvisamente reale. Ora era
vero, ora era un membro del Parlamento e sarebbe dovuto partire per
Londra. Era emozionante, eccitante... e pauroso. Mille nuove
responsabilità lo avrebbero atteso, avrebbe dovuto imparare
l'arte
della diplomazia, essere più accondiscente e meno irruento.
Un uomo
rispettabile, insomma, uno che non fa a botte nelle osterie per
risolvere i problemi ma li affronta argomentando nelle sedi
opportune.
Valentine
gli corse vicino, abbracciandolo. "Papà, che vuol dire? Hai
vinto?".
"Sì!"
- gli rispose, accarezzandogli i capelli neri e pieni di ricci.
"Allora
ora sei un uomo importante".
Basset
annuì. "Esatto, ora è uno degli uomini
più importanti della
nazione".
La
piccola Emily Basset, per mano alla sua mamma, arrivò da
loro.
"Valentine, ora verrai anche tu a Londra! Ci sono un sacco di
bambini là, vedrai! Ti presenterò tutti i miei
amici!".
Ross
si accigliò, guardando la piccola Emily e poi Valentine. In
realtà,
fin da quando suo figlio era nato, aveva sempre cercato una scusa per
sfuggire da lui e non essere costretto, tutto il giorno, a guardarlo
e a ricordare il dolore e gli errori che aveva commesso in passato.
Londra avrebbe potuto allontanarlo dal peso dei ricordi per molti
mesi all'anno, avvolgendolo e risucchiandolo in una vita nuova e
frenetica che poteva permettergli di non pensare mentre Valentine
sarebbe rimasto a Nampara, accudito da Jane e John. Erano questi i
suoi piani e, anche se questa scelta era in parte egoistica, la
giudicava anche la soluzione migliore per un bambino tanto timido e
delicato come suo figlio che di certo si sarebbe trovato più
a suo
agio nella casa dov'era cresciuto piuttosto che in una
società
frenetica e diversa come quella di Londra.
Valentine,
incurante dei suoi pensieri, sorrise a Emily. "Amici? Quanti ne
hai?".
"Tanti!
Anzi, tante! Le femmine giocano con le femmine e i maschi coi maschi,
a Londra! La mia migliore amica – ma io non sono la sua
– è Lady
Clowance Armitage. Ma lei preferisce essere la migliore amica di Lady
Chaterine e io sono solo la seconda nella sua lista".
"Ohhh"
– fece Valentine, stranito da quelle strane dinamiche a lui
sconosciute.
Ross
guardò Basset. "Lady Clowance? Lady Chaterine? Emily ha
amicizie adulte?".
Basset
rise. "No, sono due bambine sue coetanee moooolto nobili e con
tanto di titolo nobiliare. Le conoscerete o meglio... ne conoscerete
le famiglie. Soprattutto gli Armitage, del casato Boscawen. Lady
Clowance è la nipote di Lord Falmouth, un mio amico di
bisbocce ma
avversario politico. Uomo furbo, sornione, una vecchia volpe che la
pensa perennemente al contrario di me. Ma potente e che può
veicolare molti voti in Parlamento. Ve lo presenterò una
volta
arrivati a Londra perché se riusciamo a convincerlo della
bontà
delle nostre idee e a portarlo dalla nostra parte, lui farà
piovere
su di noi parecchi voti dei suoi soci e compagni di partito".
Ross
ci pensò su. "Boscawen? Ne ho già sentito
parlare, forse...
Una famiglia molto potente e vicinissima ai sovrani. Che ruolo avrei
io nel convincere questo uomo a darmi fiducia? Come potrei farlo?".
Basset
gli strizzò l'occhio. "Avete una buona parlantina, una
grande
faccia tosta e siete un grande oratore, appassionato e fiero. Tutte
qualità che Falmouth ama. Se gli entrerete in simpatia,
forse
potremmo usufruire del suo aiuto, ogni tanto... Ma nel mentre, quando
partirò con la mia famiglia per Londra, mi
adopererò a trovarvi un
alloggio consono al vostro nuovo ruolo".
Ross
lo guardò storto, rendendosi conto che l'ingresso in quel
mondo
fatto di regole che lui non condivideva era ormai inevitabile e
avrebbe dovuto abituarcisi. "Un uomo che chiama la nipotina con
un titolo nobiliare non mi piace. Mi fa senso, un bambino dovrebbe
essere solo un bambino".
Basset
rise. "Lady Clowance? Oh ma quella è una piccola vera
leader,
una Lady nata. Come suo zio! E' l'idolo di tutte le bimbe dei
giardini di Kensington, tutte vogliono essere sue amiche. Ma sono
bambine e quando sono all'aria aperta giocano esattamente come
giocano i monelli della Cornovaglia, non preoccupatevi".
Valentine
sorrise eccitato, Emily annuì e Ross decise di affrontare il
discorso della partenza con suo figlio da soli, una volta a casa. I
racconti di Basset lo indirizzavano sempre più verso la
scelta di
lasciarlo a Nampara e in fondo avrebbe solo dovuto spiegargli il
perché. Sarebbe stato bene, lui stava sempre bene con Jane e
John e
Londra non era una buona scelta per lui.
"Andiamo
a brindare? Di là, nella sala accanto, hanno imbandito un
banchetto"
– propose Basset, prendendo sua moglie a braccetto.
Ross
li osservò, erano davvero una bellissima coppia e
guardandoli si
chiese se Demelza sarebbe stata orgogliosa di lui quel giorno, se
fosse stata presente. Abbassò lo sguardo, malendicendosi per
quel
pensiero che lo tormentava ad ogni momento del giorno, ricordandosi
che era solo e che lo sarebbe stato per sempre.
Fece
per prendere la mano di Valentine ma suo figlio si era già
allontanato. Anche lui aveva trovato compagnia e, mano nella mano con
la piccola Emily, trotterellava dietro la coppia dei Basset.
A
quanto pare l'unico non accoppiato era rimasto lui...
...
Jane
e John Gimlet gli avevano fatto trovare una torta di mele al suo
ritorno, adducendo che erano sicuri della sua vittoria e volevano
essere pronti per i festeggiamenti.
Banchettarono
con i Basset organizzando date di partenza e districando
difficoltà
organizzative e poi in serata, una volta rimasti soli, Valentine gli
saltò sulle ginocchia. Era eccitato quel giorno, allegro e
insolitamente ciarliero, cosa che non accadeva quasi mai. E non stava
fermo un attimo, segno che non aveva dolori alle gambe e che stare in
compagnia di una bambina gli aveva fatto bene. "Ma papà, a
Londra ti dovrai vestire come Lord Basset?".
"Temo
di sì".
Il
bimbo rise. "Sembrerai un... pinguino".
Anche
Ross rise. "Dove hai visto i pinguini?".
"In
un libro di fiabe che mi ha letto Jane. Anche Jane e John vengono a
Londra con noi?".
Ross
deglutì a quella domanda, era arrivato il momento di
spezzare
l'eccitazione di Valentine e di spiegargli un pò di cose.
"Jane
e John resteranno quì. Con te... Solo io partirò
per Londra".
Valentine
spalancò gli occhi e Ross sentì le sue manine
tremare. "Solo
tu? E io? Mi lasci quì solo?".
"Non
solo, con Jane e John".
Gli
occhi di Valentine divennero lucidi. "Ma starai via tanto
tempo... Senza di me...".
Ross
sospirò, cercando di spiegargli che non poteva fare
altrimenti.
"Valentine, Londra non è un posto adatto a dei bambini,
starai
meglio quì, lo faccio per il tuo bene".
"Emily
Basset ci va però! Il suo papà non la lascia a
casa da sola. E ci
vivono tanti bambini a Londra, perché io non posso andarci?".
"Perché
io ritengo che non sia un bell'ambiente per te! Dovrò
lavorare,
starò fuori tutto il giorno e non ci vedremmo comunque mai!
Quì
starai meglio".
Valentine
lo guardò stranito e... arrabbiato? "Da solo? Per quasi
tutto
il tempo?".
"Valentine...".
Ross era sicuro di essere stato convincente ma guardando suo figlio
si rese conto che non credeva a nulla di quello che lui gli aveva
detto.
Il
bimbo sollevò i suoi occhi scuri, piantandoglieli addosso.
Tremava,
era arrabbiato ma anche deluso e spaventato per la piega che avevano
preso le cose. "Partirai e non tornerai più. E io
sarò da solo
per sempre".
"Non
essere sciocco, certo che tornerò! Quì ci sei tu,
c'è la mia casa
e c'è la mia miniera. Parto per lavoro, non per divertirmi!
E tu mi
aspetterai a casa".
"Perché
Lord Basset ce la porta la sua famiglia? Lui Emily la vuole sempre
con se anche se deve lavorare".
Ross
sospirò. "Lord Basset ha una moglie e Emily una mamma che si
prende cura di lei".
Valentine
abbassò lo sguardo. "Io la mamma non ce l'ho e adesso non
avrò
più nemmeno il papà". Con rabbia gli
voltò le spalle, si
avvicinò alla credenza e prese un foglio e dei pastelli,
sedendosi
poi al tavolo senza degnarlo di uno sguardo.
Ross
gli si avvicinò, preso in contropiede da quella reazione
rabbiosa di
Valentine e indeciso sul da farsi. Fino a quel momento Valentine era
stato zitto e silenzioso davanti alle sue idee e decisioni ma
qualcosa era cambiato, segno che suo figlio stava crescendo e stava
iniziando a sviluppare la sua personalità. "Che cosa stai
facendo?".
"Il
mio ritratto".
Ross
si grattò il mento. "Perché?".
Il
piccolo alzò lo sguardo, serio. "Così te lo puoi
portare a
Londra e non ti dimenticherai di me e magari qualche volta tornerai a
trovarmi".
Rimase
spiazzato da quella risposta, come poteva pensare che...? Si
inginocchiò accanto a lui, cercando la sua attenzione.
"Valentine,
sei mio figlio, come potrei dimenticarmi di te? Come potrei
dimenticarmi di una persona a cui voglio bene?".
Valentine
rimase in silenzio.
"Hei?".
"Lasciami
finire il ritratto" – rispose il piccolo, senza alzare il
viso.
Ross
lo guardò e a un tratto fu colto da un terribile dubbio.
"Valentine,
tu sai che ti voglio bene, vero?".
E
Valentine rimase in silenzio, di nuovo...
Ross
a quel punto fermò la sua manina che disegnava,
posò il pastello e
sedendosi accanto a lui, lo prese sulle ginocchia. "Valentine?".
"Non
vuoi mai stare con me, papà. Non credo che mi vuoi bene, non
sempre.
Quasi mai...".
Ross
deglutì. Sapeva di non essere un buon padre e sapeva anche
quanto
avesse tentato di scappare dal suo rapporto con Valentine ma lo
amava, anche se non era un gran che bravo a dimostrarlo. Era vero,
era un genitore assente e sempre alla ricerca di emozioni che lo
facessero sentire vivo e forse non si era mai soffermato a pensare a
quanto questi suoi comportamenti influissero sul pensiero che
Valentine aveva di lui ma era convinto che suo figlio, proprio in
virtù del fatto di essere suo figlio, sapesse che un padre
ama a
prescindere, anche se non è bravo a farlo vedere. Ma non era
così,
era palese che si era sempre sbagliato... Valentine non era
più un
neonato, aveva ormai sei anni e ormai sapeva valutare il
perché dei
comportamenti di chi gli stava attorno e di certo percepiva il
distacco emotivo fra loro, chiedendosi il perché.
"Valentine,
la mia vita non è facile, spesso sono nervoso e silenzioso.
O
assente. Ma ti voglio bene e se vado a Londra lo faccio anche per te,
per rendere migliore il mondo in cui vivrai da grande".
Valentine
lo guardò in viso. "Ma non mi vuoi mai con te, non fai mai
niente con me. Io ti aspetto sempre ma tu non arrivi quasi mai e
adesso starai a Londra, magari ti piacerà e non tornerai
più".
Ross
lo guardò e in quel momento il viso di Valentine si
sovrappose a
quello di Jeremy, nei loro ultimi momenti insieme più di sei
anni
prima. Stessa tristezza, stesso desiderio di contatto e di essere
visti e ascoltati e in entrambi i casi lui aveva fallito. Aveva
abbandonato Jeremy, non c'erano scusanti, non c'erano la gravidanza
difficile di Elizabeth o l'inferno della situazione vissuta allora a
scagionarlo. Lui, che aveva l'arroganza di voler andare a Londra ad
insegnare come vivere agli altri, aveva ABBANDONATO suo figlio ben
prima che Jeremy lasciasse la Cornovaglia. Lo aveva abbandonato a
ogni sguardo o carezza negato, a ogni fuga verso Trenwith per vedere
Elizabeth, ogni volta che si era preso cura di Jeoffrey Charles e non
di lui, quella notte maledetta dove aveva tradito la sua famiglia e i
suoi figli e dopo, quando aveva promesso di tornare a trovarlo e non
lo aveva mai fatto. E ora si chiedeva cosa pensasse di lui questo suo
bimbo che ormai aveva nove anni e forse si domandava chi fosse suo
padre, perché non c'era mai stato e probabilmente lo
odiava... E
Valentine non era diverso, anche lui era sempre stato abbandonato a
se stesso perché suo padre col suo egoismo era sempre
impegnato in
altro. Aveva ragione, perché credergli? Cosa garantiva a
Valentine
un suo ritorno? Cosa garantiva a suo figlio che lo amasse, lui che
era sempre fuggito lontano da lui? Aveva già fatto quella
promessa,
l'aveva fatta a Jeremy e non era più tornato e ora... E ora
voleva
far credere a Valentine che lo stava lasciando in Cornovaglia per il
suo bene? Non c'era più nessuno della famiglia nelle
vicinanze e
sarebbe rimasto per lunghi mesi solo con dei domestici. Trenwith era
ormai deserta ed abbandonata dopo la morte di Agatha due anni prima e
Jeoffrey Charles, con cui i rapporti non erano mai migliorati, aveva
voluto andarsene e ora studiva in una scuola militare a Southampton.
Suo figlio aveva ragione, sarebbe rimasto davvero solo...
D'istinto
abbracciò Valentine, rendendosi conto che era l'unica
famiglia che
ormai avesse e che era suo e doveva esserne orgoglioso. Poi prese un
pastello dal tavolo, mettendoglielo in mano. "Finisci il
ritratto così che poi, quando arriveremo a Londra,
decideremo dove
appenderlo nella nostra casa nuova".
Valentine,
a quelle parole, alzò la testa di scatto. "Londra?".
Ross
sorrise, decidendo che dovevano stare insieme. "Esatto! Jane e
John verranno con noi e ci trasferiremo la tutti insieme
finché
dovrò lavorarci".
Valentine
divenne rosso dall'eccitazione, gli si aggrappò al collo e
lo baciò
sulla guancia. "Mi porti?".
"Ti
porto".
"Grazie
papà!". Il piccolo saltò giù dalle sue
gambe, correndo verso
la cucina. "Vado a dirlo a Jane".
Ross
annuì, vedendolo schizzare via veloce come il vento. Era
felice,
ora... E forse anche lui, di quella decisione che era votata
più al
bene di Valentine che al suo, forse per la prima volta da quando era
nato.
Poi
salì nella sua camera, sedendosi sul letto e tirando fuori
dal
comodino il cavallino di legno di Jeremy che teneva con se da anni
ormai. Chissà com'era cresciuto, chissà quante
cose sapeva fare
ormai, chissà quanto bene voleva a sua madre e al suo
fratellino...
o sorellina... Chissà cosa stava facendo in quel momento...
Si
mise il cavallino nella tasca della camicia, lo avrebbe portato a
Londra con se, sarebbe stato il suo portafortuna. Non avrebbe potuto
restituirlo a Jeremy, lui sarebbe sempre stato il suo bambino perduto
ma per fortuna aveva capito che non poteva permettersi di perdere
anche Valentine perché una vita a chiedersi anche per lui
dove
fosse, cosa facesse, come vivesse, sarebbe stata un ulteriore
inferno.
Aveva
perso tre figli, una portata via dalla malattia, due dai suoi errori
e dal suo egoismo. Non ne avrebbe perso un quarto!
...
Seduti
nella libreria dei bambini, in attesa di andare a letto, con indosso
le loro camicie da notte, Jeremy, Clowance e i gemelli stavano
scegliendo il libro di favole da leggere quella sera.
Demian
e Daisy si rotolavano sulla moquette con Garrick facendo baccano
mentre Clowance aiutava Jeremy nella scelta della lettura.
"La
principessa nordica! E' un bel racconto secondo me" – propose
Clowance, seduta per terra e intenta ad accarezzare il pelo bianco e
candido della sua lupa albina Queen, regalo di suo zio. L'aveva
desiderata da morire dopo che Jeremy aveva adottato una specie di
meticcio spelacchiato simile a un volpino anche per colore del pelo,
che aveva trovato per strada e chiamato Fox, e Lord Falmouth l'aveva
accompagnata a un allevamento di cani di razza ben felice di
accontentarla. Aveva scelto una meravigliosa cucciola di lupa che si
era accoccolata fra le sue braccia, bella ed elegante come lei e da
quel momento erano diventate inseparabili. Queen, così
l'aveva
chiamata, era altera e regale nei movimenti, sfuggente e ubbidiva
solo a Clowance di cui era l'ombra.
Jeremy,
con a fianco il vivace Fox, la guardò storto. "Favola da
femmina! Leggila tu, se la vuoi".
Clowance
gli fece la linguaccia. "Leggere le fiabe è compito tuo! Lo
ha
detto papà".
"Sì
certo! Ma se lo fai tu per una sera, mica sudi!".
Clowance
lo guardò storto mentre i gemelli ridevano. "Non so ancora
leggere bene!".
"Perché
sei una somara! Lo dice anche il nostro maestro che non hai voglia di
fare niente a lezione".
Clowance
si imbronciò. "Sono una Lady, devo essere educata! Non
istruita".
Jeremy
rise, avvicinandosi e dandole un pizzicotto sulla guancia. "Somara,
somara! Hai sei anni e nemmeno sai ancora leggere bene".
Clowance
gli diede una manata ma poi scoppiò a ridere, dandogli uno
strattone
e facendolo cadere a terra. "Selvaggio! Tu e il tuo cane non di
razza".
Demian
si avvicinò allo scaffale coi libri, prendendone uno dalla
copertina
tutta colorata. "Questo, Jeremy".
Jeremy
lo prese in mano, ridendo. "Sveva la zebra! Clowance, ti
ricordi?".
"No,
cosa?".
Gli
occhi di Jeremy divennero lucidi. "Era il nostro libro preferito
da piccoli! Papà ci aveva portati a vederla, Sveva. E aveva
regalato
un cucciolo di tigre a mamma!".
Per
un attimo calò il silenzio e Clowance divenne triste,
abbracciando
Queen che la leccò sul viso. "Papà scriveva anche
le poesie a
mamma, lei me lo racconta sempre".
"Mi
manca tanto il mio papà" – sussurrò
Jeremy, stringendo a se
il libro.
Daisy,
molto più pratica e decisamente meno sentimentale, gli si
avvicinò,
dandogli una manata sulla schiena. "E allora leggi! Devi farlo
tu, lo aveva detto lui!".
Jeremy
sorrise alla sorellina, sedendosi in terra e prendendola sulle gambe.
Demian sgattaiolò fino a lui sedendosi vicino e lo stesso
fecero
Clowance e i tre cani. Poi aprì il libro, leggendo le prime
parole
di quel racconto che lo riportava a un affetto mai dimenticato e
purtroppo perduto troppo presto.
"C'era
una volta una zebra che si chiamava Sveva e viveva nella Savana...".
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Capitolo 31 *** Capitolo trentuno ***
Quello
verso Londra era stato un viaggio tanto noioso per Ross quanto
eccitante per il piccolo Valentine. Il bimbo aveva guardato ad occhi
spalancati i diversi paesaggi che scorrevano davanti ai suoi occhi
durante il tragitto dalla Cornovaglia a Londra e aveva investito suo
padre di mille e più domande, faticando a star fermo
dall'emozione.
Ross
era stupito nel vederlo così, Valentine era di natura molto
pacato e
timido, mai rumoroso e raramente di indole vivace ma da quando erano
partiti da Nampara suo figlio gli stava mostrando lati del suo
carattere che mai avrebbe sospettato. Era curioso e allo stesso tempo
ingenuo, era palese che non aveva mai conosciuto altre
realtà
rispetto a quella in cui era nato e Ross era felice di vederlo tanto
eccitato ma allo stesso tempo preoccupato dal pensiero che Valentine
non fosse pronto ad affrontare la società di Londra. Non lo
era
nemmeno lui, dopo tutto... Era una città popolata da una
varietà di
gente immensa, con abitudini diverse e piena di persone assolutamente
ricche che vivevano nel loro piccolo mondo dorato attorno ai palazzi
reali, circondate da una moltitudine di poveri che campavano di
stenti e nulla. La Cornovaglia sapeva essere povera ed impietosa ma
era piena di gente pronta ad aiutarsi fra loro, i poveri di Londra
erano poveri e disperati e basta e spesso soccombevano in mezzo al
nulla, circondati dall'indifferenza di tutti.
Ross
dubitava di riuscire ad abituarsi e probabilmente anche Valentine
avrebbe fatto fatica, non era abituato al contatto con altri bambini
e soprattutto non era preparato ai suoi coetanei di Londra.
Lord
Basset aveva trovato per loro un grazioso appartamento in centro, a
pochi isolati da Westminster, in una zona ricca e borghese della
città. Posto al secondo piano, contava tre camere da letto
– una
per lui, una per Valentine e una per i Gimlet – una grossa e
moderna cucina, un salone per gli ospiti con un piccolo studio
adiacente per lui, una sala da pranzo e due stanze da bagno. Era
grande, comodo per lui e grazie all'aiuto di Basset il trasferimento
si concluse velocemente lasciando tutti soddisfatti.
Passò
i primi dieci giorni a Londra al seguito di Basset che gli fece
conoscere la città, i luoghi di ritrovo dei membri del
Parlamento,
gli mostrò i palazzi reali e lo iniziò ad
introdurre nel ristretto
circolo dei suoi amici fidati.
Lord
Basset si dimostrò un buon amico e una brava persona. Ross
ammirava
il modo gentile che aveva di trattare con le persone, senza mai
perdere le staffe, l'armonia famigliare che regnava a casa sua, il
suo ruolo di marito devoto e di padre affettuoso. Tutte
qualità che
Ross in fondo gli invidiava e che se fosse riuscito a fare un
pò
sue, lo avrebbero reso sicuramente una persona migliore. Basset gli
mostrò dove portare Valentine a svagarsi, lo
lasciò giocare con la
piccola Emily mentre loro discutevano di economia e politica e
divenne, in quei primi giorni nella capitale che lo separavano dal
debutto in Parlamento, il suo mentore.
"Che
ne dite di Lord Flint?" - chiese Basset mentre passeggiavano in
un pomeriggio assolato con Valentine nei giardini di Kensington.
Ross
ci riflettè su. Fra due giorni avrebbe presenziato alla
prima seduta
a Westminster e quell'uomo incontrato mezz'ora prima, in un
caffè,
ne era un degno rappresentante. "Penso che sia un gran
bevitore..." - osservò Ross con leggerezza, ricordando le
guance rosso-vino dell'uomo. "Ma non ho capito se ci è
nemico o
amico".
"Né
uno né l'altro. E' molto volubile e questo ci costringe ad
essere
gentili con lui più degli altri. E' nobile di nascita,
è finito in
Parlamento per diritto acquisito da suo padre, non se ne intende di
politica e segue l'onda del vento, non ha interesse ai problemi del
paese, per lui l'unica cosa che conta è il buon rhum che ha
in
cantina. E i suoi cani da caccia. E' un signorotto di poche
qualità
che va coccolato, convinto e trattato da amico. E se lo fai sentire
amato, lui vota per te senza sapere nemmeno di cosa si stia
parlando".
Ross
rise. "Un idiota, in pratica!".
Anche
Basset rise. "Un idiota potente, però. Il suo voto vale
molto".
Ross
sospirò. "Ah, Basset... Sapete, dubito che
riuscirò mai a
farmi piacere questo mondo fatto di sotterfugi e falsità".
"Siete
la persona giusta nel posto giusto. Calamiterete su di voi
l'attenzione di molti e sarete, se vi comporterete sapientemente, una
guida e un punto di riferimento". Basset alzò lo sguardo,
spalancando gli occhi dalla sorpresa. Indicò col braccio il
vialetto
che stavano percorrendo e alzò il cappello in segno di
saluto a un
uomo non più giovane che veniva dalla direzione opposta.
"Diventerete uno che conta. Come lui".
Ross
guardò nella direzione indicata da Basset e vide l'uomo,
vestito
elegantemente, sulla sessantina, che camminava con un cilindro in
testa e col bastone, tenendo per mano una bambina biondissima che
portava al guinzaglio... Ross strabuzzò gli occhi. Un lupo
albino???
"Chi sono?".
Basset
si avvicinò all'uomo, salutandolo con la mano. "Vi ho
parlato
di lui alle elezioni. Lord Falmouth, il rappresentante di una delle
famiglie più potenti di Londra, a passeggio con la sua
nipotina
Clowance".
"Oh...".
Ross guardò Valentine che guardava i nuovi arrivati,
incuriosito
quanto lui. Ricordava quando Basset gli aveva parlato di questo suo
nemico-amico sornione, furbo come una volpe e terribilmente potente
ma ora vedendoselo davanti, rimase un pò deluso. Aveva un
aspetto
ordinario, seppur vestito elegantemente, un fisico non
particolarmente robusto e un viso piuttosto comune. Era la bambina
accanto a lui che pareva brillare di luce propria. Capelli
lunghissimi e biondi, una bellezza da lasciar senza fiato, una
eleganza nei movimenti inusuale per una bimba che poteva avere
l'età
di suo figlio e dei lineamenti del viso talmente delicati da farla
sembrare una bambola. Sembrava possedere il portamento di una
principessa e Ross non ci avrebbe scommesso che non lo fosse. Aveva
indosso un abitino azzurro di ottima fattura, bordato sul collo con
del pizzo colorato, un nastro rosso fra i capelli e delle scarpette
del medesimo colore. E il lupo, che portava al guinzaglio con la
naturalezza con cui avrebbe portato a passeggio un barboncino, la
rendevano unica nel suo genere.
Lord
Falmouth sorrise, stringendo la mano di Basset appena l'ebbe davanti.
"Vecchia canaglia, è un pò che non vi vedo!
Credevo che la
sonnecchiosa provincia che rappresentate vi avesse rapito per
sempre".
Basset
sollevò un sopracciglio. "Ve ne sareste dispiaciuto?".
"Niente
affatto, un sognatore idealista in meno ad annoiarmi in Parlamento".
Basset
rise, segno che quelle battute irriverenti fra loro erano la
normalità nel loro rapporto. "Vi annoiate SENZA di me. E vi
ho
talmente a cuore che ho portato rinforzi".
Lord
Falmouth guardò Ross, incuriosito. "Voi sareste...?".
Ross
annuì, salutando con un cenno del capo. "Ross Poldark, nuovo
membro del Parlamento".
Falmouth
lo guardò stringendo gli occhi e studiandolo. "Oh, ho
sentito
parlare di voi. Pare siate un giovane promettente... Peccato per le
amicizie che vi siete scelto..." - disse, mettendo ancora al
centro dell'attenzione Lord Basset che ridacchiava. "Ci vedremo
fra due giorni, a quanto pare. Sempre che io sopravviva al matrimonio
di domani...".
Basset
rise. "Oh, il matrimonio di Lady Margarita".
Falmouth
sospirò. "Le donne di casa mi stanno facendo impazzire con
gli
ultimi preparativi! Son sei mesi che non dormo pensando al ruolo dei
gemelli e in questo momento ho la casa invasa da paggetti e damigelle
arrivati per le ultime prove del corteo, le mie ladies sono isteriche
perché hanno finito i fiori per le coroncine e sono talmente
disperato che mi sono offerto di uscire a comprarle io stesso pur di
non sentirle! Ci sono schiamazzi ovunque, bambini ovunque e donne
isteriche ovunque! Incredibile come non ci si riesca a nascondere
dalle donne nemmeno se si vive in una casa enorme. Voi siete sposato,
signor Poldark?".
Ross
deglutì, guardando Valentine. "No, non più".
"Io
non mi sono mai sposato, sapete perché?".
"No".
Falmouth
gli diede una pacca sulle spalle. "Il fumo delle candele fa male
ai miei occhi e ai miei polmoni, ho evitato la scocciatura di un'ora
di funzione e soprattutto quello che ne viene dopo: la vita perenne
con una donna che da fanciulla attraente si trasforma in una
bisbetica isterica". Poi il suo viso si addolcì e la sua
mano
accarezzò dolcemente i capelli biondi della bambina al suo
fianco,
rimasta buona e ferma ad aspettare che finisse quella conversazione.
"Escluse le presenti, ovviamente. Vero, Clowance?".
La
bimba sorrise. "Vero, zio!".
Ross
la guardò, ricordandosi dei racconti fatti di lei da Basset
in
Cornovaglia. E così era questa la famosa piccola Lady che
era
l'idolo di tutte le bimbe londinesi? Beh, ora che la vedeva,
cominciava a capire il motivo per cui Emily la ammirava tanto. Era la
perfezione fatta bambina, nessun capello fuori posto, altera, fiera,
bellissima e perfettamente educata.
Basset
si inginocchiò davanti alla bambina. "Clowance, Emily non
vede
l'ora di giocare con te. Ora è a casa con sua madre, ma da
settimana
prossima la troverai quì, al parco".
"Davvero?".
"Davvero.
E tu, sei pronta per il tuo grande ruolo di domani?".
Falmouth
intervenne. "Certo che è pronta, Clowance è nata
per essere al
centro dell'attenzione. Farà sfigurare la sposa, ne sono
certo. Non
che ci voglia molto, dopo tutto..." - concluse, tossicchiando.
A
Ross venne da ridere davanti a quell'evidente orgoglio di zio per la
nipote. Gli ricordava suo zio Charles quando parlava di Jeoffrey
Charles appena nato...
Basset
osservò poi il lupo. "Queen è cresciuta
tantissimo. L'hai
educata tu?".
Clowance
annuì. "Sì, ovviamente".
"Posso
accarezzarla?".
Clowance
si voltò verso la lupa, accarezzandole il viso. "Queen,
seduta.
E lasciati accarezzare da Lord Basset".
Con
grande sorpresa di Ross la lupa ubbidì, sedendosi composta,
ferma e
altera quanto la sua piccola padrona. Ma il suo stupore non era tanto
nel comportamento della lupa, animale altamente intelligente che se
addestrato diventava estremamente fedele, quanto nel vederla ubbidire
a una bambina che aveva avuto talmente tanto carisma da farsi
accettare come capo da un animale selvatico.
Basset
accarezzò il muso della lupa che, guardinga, la fissava con
quei
suoi occhi color ghiaccio. "Animale splendido e perfettamente
ammaestrato. Sei riuscita ad addestrare altrettanto bene la tua
sorellina, per domani?".
Clowance
rise. "Lì è più difficile".
Falmouth
sospirò. "Non parliamo di questioni spinose che mi tolgono
il
sonno... Parliamo di affari, c'è la questione della mia
strada
privata che porta ai miei cottage di Dalston. Potremmo discuterne ad
esempio ora, davanti a un buon bicchiere di brandy".
Clowance
guardò Falmouth, imbroncinadosi. "Ma zio, e i fiori per le
coroncine?".
"Già,
e i fiorellini?" - chiese Basset, prendendo in giro il suo
rivale.
Falmouth
sospirò, alzando gli occhi al cielo. "I fiori! Vero, se non
torno a casa subito con un cesto pieno, le mie ladies mi metteranno a
dormire nella casetta sull'albero dei bambini. Che poi, pensandoci
bene, visto il clima di oggi in casa, sarebbe il mio posto ideale per
trovare pace".
Ross
non riuscì a trattenere un sorriso. In fondo, ora che ci
parlava,
questo nobile di Londra tanto potente e austero non gli sembrava poi
così mostruoso ma anzi, incredibilmente umano nella sua
quotidianità. Era di certo un uomo colto, furbo, istruito e
sornione, sapeva decisamente il fatto suo ma era anche affabile e un
piacevole conversatore. Gli strinse la mano, vigorosamente. "Beh,
visti i vostri impegni urgenti e improrogabili, vi saluto. E' stato
un piacere conoscervi. Ci vedremo fra due giorni".
Falmouth
sorrise. "No, venite domani mattina, tutti e due, a bere un
brandy nel mio studio. Ci faremo una chiacchierata e ci accorderemo
magari sul destino della mia strada privata".
"Che
non avrete mai, se non scenderete a qualche compromesso" –
rispose Basset.
Falmouth
assottigliò i suoi occhietti azzurri. "Vedremo...".
Basset
però, a quel punto, si accigliò. "Ma...
domattina? Non c'è il
matrimonio?".
"E'
a mezzogiorno e ho intenzione di andarci quanto più tardi
possibile,
direttamente in Chiesa. Così eviterò di essere
travolto da quella
mandria di bambini che mi gira per casa da mesi. E poi ve l'ho detto,
il fumo delle candele mi fa male".
Ross
e Basset risero. "D'accordo, verremo a fare un breve giro
domattina presto per salvarvi dai preparativi".
"Voi
verrete al matrimonio?" - chiese Falmouth a Ross.
"No,
non so nemmeno chi siano gli sposi".
"Gente
importante, imparentata con i nostri sovrani, seppur alla lontana. Vi
consiglio di assistere almeno alla cerimonia in Chiesa, di farci un
salto. Incontrerete molta delle gente che conta a Londra e sapete,
è
più facile farsi un amico a un matrimonio che durante un
litigio a
Westminster mentre si discute del prezzo del grano".
Basset
annuì. "Falmouth ha ragione, Ross, anche se mi spiace
ammetterlo. Nemmeno io sono stato invitato ma farò un salto
in
Chiesa. Pensateci!".
Ross
ridacchiò. "Come voi, Lord Falmouth, soffro il fumo delle
candele".
A
quelle parole, Falmouth sorrise e lo guardò con rinnovato
interesse.
"Vi aspetto domattina allora". Poi guardò Valentine,
incuriosito. "Vostro figlio?".
"Sì".
Valentine,
intimidito e silenzioso, annuì. "Buongiorno signore".
Falmouth
gli sorrise, stringendogli la mano. "Benarrivato a Londra,
giovanotto. Come ti chiami?".
"Valentine".
"Bel
nome e bel ragazzo. Bravo Poldark!". Poi Falmouth accarezzò
la
testolina di Clowance. "Saluta, su. Magari diventerete amici".
Clowance
guardò seria seria Valentine, soppesando il nuovo arrivato.
Poi gli
fece un perfetto inchino in segno di saluto. "Piacere di
conoscerti" – disse, aspettando poi ferma e zitta una
risposta.
Valentine
la guardò, indeciso sul da farsi, poi cercò con
lo sguardo l'aiuto
di Ross che, rendendosi conto che suo figlio non sapeva nulla di
buone maniere e di galateo, con un gesto veloce gli mise la mano
sulla testa, obbligandolo a piegarla leggermente in avanti in segno
di saluto.
Clowance
lo guardò malissimo e Ross si rese conto che probabilmente
la
piccola doveva considerare suo figlio un selvaggio per quella
mancanza di etichetta che aveva appena dimostrato.
Falmouth
riprese per mano la piccola. "A domani".
"A
domani" – rispose Basset. "Ciao piccola Clowance,
è
sempre un piacere vederti".
E
finalmente, Ross la vide fare un sorriso genuino, da bambina, e
alzare la mano per salutarlo. Come avrebbe fatto qualsiasi bambina
del mondo! Poi Clowance osservò lui, annuì e fece
un altro perfetto
inchino in segno di saluto.
Falmouth
la riprese per mano e con la piccola e la lupa, si allontanò
mentre
Ross riprese a camminare con Basset. "Che tipo singolare".
"Fa
paura?" - chiese Basset.
"Non
lui, sua nipote! Mai vista una bambina simile e tanto
inquietantemente perfetta! Non è pericoloso che una bimba
tanto
piccola possegga un animale tanto pericoloso?".
"Come
vedete, Clowance ha addestrato perfettamente la sua lupa" –
ribatté Basset.
"Resta
pur sempre una bambina, però. Anche se ha atteggiamenti
davvero poco
infantili... Generalemente, quando penso all'infanzia, mi vengono in
mente bambini spettinati, sudati, sporchi e felici di scorazzare
facendo baccano ovunque, non piccole Lady da esposizione".
Basset
alzò gli occhi al cielo, osservandone l'azzurro intenso,
pensando a
come rispondergli. "Vedete, i Boscawen sono potenti e ogni cosa
che fanno, ogni cosa che posseggono, è atta a dimostrare il
grande
valore del loro casato. La loro potenza. Compresi i cuccioli dei
bambini. E per quanto riguarda la piccola Clowance, è una
bambina
deliziosa, ve lo assicuro".
Ross
scosse la testa, continuando con la mente a pensare a quella
singolare bimbetta che, con poche parole, era stata capace di
assoggettare un animale selvatico. "Come ha fatto quella
mocciosetta ad addestrare quella lupa?".
Basset
rise. "Non ve ne siete accorto? Siete identici!".
Ross
scoppiò a ridere. "Io e la piccola Lady? In cosa sarei
identico
alla nipote di Falmouth?".
"Avete
il medesimo carisma, Ross, non ve ne siete accorto? Conoscendo
entrambi, devo dire che è una cosa che vi accomuna. Avete la
capacità di farvi seguire e rispettare da chiunque, anche da
chi è
apparentemente più forte di voi".
Ross
ci pensò su e non aggiunse altro anche se quelle parole,
unite allo
strano incontro con quella bambina, gli mettevano addosso una strana
ed indecifrabile sensazione. Basset aveva ragione, era dotata di un
potente carisma che aveva colpito anche lui, anche se non ne capiva
il motivo. Poi guardò Valentine che, silenzioso, gli
camminava a
fianco. "Sarà meglio che tu impari le buone maniere.
Perché se
saranno questi i bambini con cui vorrai giocare, temo che ti faranno
a pezzi se non diventi più educato...".
Valentine
annuì. "Faceva un pò paura quella bambina...".
"Già,
anche a me" – rispose Ross, trovandosi d'accordo con suo
figlio.
...
Era
ormai buio, Prudie stava facendo il bagnetto ai bambini e Demelza,
passeggiando nei lunghi corridoi della sua casa, arrivò alla
porta
di Lord Basset per portargli le fedi nuziali di Margarita ed Edward,
da conservare nella sua cassaforte. Era ormai tutto pronto, aveva
fatto del suo meglio per organizzare ogni cosa e adesso poteva solo
sperare che gli otto bambini che aveva seguito in quei sei mesi si
comportassero al meglio.
Bussò,
trovando l'uomo seduto alla scrivania. "Ho portato le fedi".
Falmouth
sorrise, le andò incontro, prese gli anelli e li
portò nel retro
dell'ufficio, nella cassaforte che teneva dietro una parete a
scomparsa. "Nervosa?" - chiese quando tornò, sedendosi
alla scrivania ed invitandola a fare altrettanto, offrendole un
bicchiere di vino.
"Un
pò... La piccola Grace piange spesso e vuole stare in
braccio e
quando la tengo con me, Demian fa i capricci e diventa geloso. E
Daisy... Beh, lei è sempre imprevedibile ma sembra aver
capito che
deve imitare tutto quello che fa Clowance".
Falmouth
picchiettò con l'indice sulla scrivania. "A proposito dei
gemelli... Hai pensato alla mia idea di assumere Sir Gotfried?".
"Chi?".
"L'istitutore
svizzero di cui ti ho già parlato il mese scorso. Usa metodi
severi,
non disdegna una bacchettata sulle mani se serve e ha educato i
migliori rampolli di Londra".
Demelza
lo guardò storto, MAI avrebbe permesso a un uomo del genere
di
avvicinarsi ai suoi bambini. "No, non ci ho pensato. Lo faccio
adesso e... e no, non lo voglio".
Flamouth
si mise le mani nei capelli. "Demelza, sono terribili. Hanno
bisogno di disciplina. Mai visti bambini così. Sai che ha
fatto
Daisy, ieri?".
"No".
"Ha
liberato i pulcini dalle gabbie, ha aperto la stalla e li ha portati
in casa. I pulcini hanno fatto i loro bisogno sulla moquette del
salone principale della parte di casa di Alexandra e quando ho
chiesto spiegazioni a Daisy, sai che mi ha risposto?".
"Ehm...
No...".
Falmouth
sbuffò. "Che erano stati i pulcini ad aprirsi le gabbie da
soli. Le ho detto che era una bugia e lei si è messa le mani
sui
fianchi, ha indicato i pulcini e mi ha detto di chiedere conferma a
loro!!!".
Demelza,
immaginando la faccina di Daisy mentre parlava con suo zio, rise. "Ai
pulcini?".
"Sì,
ai pulcini... Crede di farmi fesso e ha solo tre anni!".
Demelza
sospirò, divertita dal panico con cui Falmouth analizzava il
comportamento dei gemelli ma comunque decisa ad affrontare il
discorso con Daisy e a prendere provvedimenti sulla sua impertinenza.
"Sono bambini piccoli, sani e pieni di vita. Cresceranno e in
loro non c'è nulla che non vada. Dove sono cresciuta io, era
pieno
di bambini anche peggiori di loro. Da grandi vi daranno soddisfazioni
enormi, ne sono certa".
"Certo!
Ma nel mentre demoliranno questa casa!".
Demelza
gli strizzò l'occhio, ancora più divertita. "Beh,
si
esercitano a conquistare la Scozia, dovreste gioirne! E comunque
Daisy sarà punita per la storia dei pulcini... dopo il
matrimonio,
ovviamente... Per ora meglio tenerla buona per evitare brutti
scherzi, domani".
A
quella battuta, Lord Falmouth gli riservò un'occhiataccia.
"Fossero
almeno bravi ed educati come Jeremy e Clowance...".
"Lo
saranno!".
"Lo
spero...".
Demelza
si sporse in avanti, osservando incuriosita la mappa di Londra che
Falmouth teneva sul tavolo. "Cos'è?".
L'uomo
sospirò, indicando un punto sulla cartina. "La nostra
strada,
Demelza! Quella che vorrei costruire, che porta il grano dei nostri
granai direttamente al mercato generale".
"Quella
che dovrebbe partire dai nostri cottage di Dalston?".
"Esatto!".
Demelza
sospirò, conoscendo ormai a menadito quella faccenda che
tormentava
Falmouth da ormai un anno. Voleva una strada privata che portasse in
sicurezza il suo grano alla zona commerciale di Londra, quella dei
mercati, trasportandolo in una strada privata tutta sua, ma il
tragitto su cui sarebbe dovuta sorgere era disseminato di baracche e
case popolari abitate dalla parte di popolazione più povera
di
Londra. Per costruire la strada, quelle baracche avrebbero dovuto
essere abbattute lasciando in strada i suoi abitanti e la faccenda
bloccava, in Parlamento, i desideri di Falmouth che riceveva secchi
voti contrari dai suoi detrattori. "Dovreste dare qualcosa in
cambio, fare una controproposta".
Falmouth
divenne rosso in viso. "Controproposta? Voglio dare commercio
alla città e dovrei anche giustificarmi per questo? La
strada
riqualificherà la zona, fra le più degradate
della periferia!".
"Ma
lascerà senza tetto tanti disperati" –
ribattè Demelza.
"Potranno
ricostruirsi le loro baracche da un'altra parte".
Demelza
sospirò rendendosi conto che, benché gli volesse
davvero bene, lei
e Lord Falmouth avrebbero avuto sempre idee divergenti sulla
povertà.
Provenivano da due mondi e da due tipi di vita troppo diversi per
avere un'opinione comune su certe faccende ma lei, negli anni, aveva
anche imparato a conoscerlo e a guidarlo con furbizia dalla sua
parte. "Sapete che è difficile anche costruire una baracca,
se
non si possiede denaro...".
"I
poveri sanno sempre sopravvivere".
"E
se..." - propose Demelza, bloccandosi pensierosa.
"Se?".
Lei
sorrise, orgogliosa dell'idea appena avuta. "Se ad esempio
trovaste loro un'altra collocazione?".
Falmouth
alzò un sopracciglio. "Del tipo?".
Avvicinò
il viso a quello dell'uomo, decisa a guidarlo in quella che le
sembrava una buona soluzione per tutti. Era già successo in
passato
e trovava divertente parlare di questioni sociali con lui e riuscire
a spuntarla. "La nostra fabbrica dismessa di lana, a Chelsea...
La fabbrica è cadente e abbandonata, così come
gli appartamenti e i
cottage circostanti. Se la riaprissimo... Se affidaste gli
appartamenti e i cottage agli abitanti del Dalston in cambio di
lavori di ristrutturazione e impiego nella fabbrica rimessa a
nuovo... Non credete che lascerebbero volentieri quelle vecchie
baracche per una casa nuova e un lavoro sicuro? E voi potreste
costruire la vostra strada".
Lord
Falmouth si mise a ridere, a quella proposta. "Demelza,
ristrutturare e rimettere in funzione quella fabbrica mi costerebbe
molto denaro".
"Che
abbiamo e che verrebbe comunque riguadagnato nel giro di poco tempo.
La lana è un bene molto richiesto e l'investimento iniziale
verrebbe
ripagato con i profitti che perdureranno nel tempo. E i vostri
cottage dismessi verrebbero rimessi a nuovo dal lavoro manuale dei
lavoranti e delle loro famiglie, senza spese per noi. In cambio
dell'alloggio gratuito potrete risparmiare qualcosa sugli stipendi e
loro avrebbero una casa praticamente gratis e lavorerebbero per noi a
prezzi modici, rimettendo in funzione una fabbrica che, ad oggi, per
noi è solo un debito".
Lord
Falmouth si bloccò, smettendo di ridere. La
osservò come si osserva
una creatura mitologica e rara e il suo sguardo alla fine divenne
furbo e attento. "Sei un genio! Avrei la mia strada... e avrei
allo stesso tempo risolto la questione sociale derivante dalla sua
costruzione...".
"Esattamente!".
Falmouth
si alzò in piedi, si avvicinò e le diede una
pacca sulla spalla.
"Mi piace! Basset resterà a bocca aperta quando
tirerò fuori
quest'idea in Parlamento, dopodomani!".
Demelza
sospirò, soddisfatta e ancora un pò preoccupata.
"Prima di
dopodomani c'è il matrimonio. E il comportamento dei
bambini...".
"Non
pensarci, sono Boscawen! Va a letto e riposa!" - ordinò
Falmouth, improvvisamente allegro come un bimbetto e assolutamente
ottimista circa la vivacità dei gemelli.
Demelza
annuì, era stanchissima e il giorno dopo l'avrebbe attesa
una
giornata campale. "Buona notte" – disse, aprendo la porta
con animo più leggero di quando era arrivata.
Falmouth
la richiamò. "E Sir Gotfried?".
Lei
si voltò, guardandolo con lo stesso sguardo furbo. "Ci ho
ripensato adesso. Ed è ancora NO!". E detto questo, chiuse
la
porta e si diresse verso la sua ala del palazzo, nella sua stanza.
Arrivò
alla sua camera sbadigliando, si svestì e poi, con la
camicia da
notte, si mise a letto. Non aveva fatto in tempo a stiracchiarsi che
la porta della nursery si aprì e Demian, in camicia da
notte, fece
capolino.
“Mamma,
posso venire nel lettone con te?” - chiese, come se facesse
per la
prima volta in vita sua quella domanda
Demelza
si girò di lato, tirando indietro la coperta e poggiando il
viso
contro il braccio. Ecco, era ora di quella scena che si ripeteva ogni
sera da quando era nato. “Cosa c'è?”.
“Sono
preoccupato” - disse lui serio, rannicchiandosi sotto le
coperte ed
affondando il viso contro il suo collo.
Demelza
gli accarezzò i lunghi e sottili capelli biondi, baciandolo
sulla
fronte. “Preoccupato di cosa? Di aver rovesciato il barattolo
di
marmellata in testa a Miss Claire?”.
Demian
rise. “C'aveva tutti i capelli incollati”.
“Lo
so”.
“Però
non sono preoccupato per Miss Claire”.
“E
per cosa, allora?”.
Demian
divenne mortalmente serio. “Clowance dice che
diventerò una
femminuccia”.
A
quell'affermazione, Demelza scoppiò a ridere.
“Cosa?”.
“Sì.
Al matrimonio di Lady Margarita, mi metterai in testa le coroncine
coi fiori che hai fatto oggi con la nonna, me lo ha detto Clowance. E
io diventerò una femmina! Anche Jeremy”.
Santo
cielo, Clowance era tremenda e Demian fin troppo credulone e ingenuo.
“Amore, le coroncine non sono per te e Jeremy! E nemmeno per
gli
altri maschietti che faranno da paggetti! Sono per le tue sorelle e
le altre damigelle”.
“Allora
rimango maschio? Non divento una femminuccia?”.
Scosse
la testa, era da tanto che non era così divertita.
“Amore, non
credo ci sia questo pericolo”.
Demian
sospirò, rinfrancato, sprofondando nel cuscino.
“Mamma?”.
“Sì?”.
“Posso
stare qui con te lo stesso?”.
Demelza
gli diede un leggero pizzicotto sulla guancia. “Non
è molto da
maschietti, dormire con la mamma”.
“Ma
fa niente e io sono piccolo”.
Demelza
sospirò, mascherando un sorriso e stringendolo a se. Gli
uomini più
importanti della sua vita, a parte Hugh, l'avevano ferita in mille
modi diversi e abbandonata come un oggetto di poco valore. Ma Demian
no... E nemmeno Jeremy! E mai, MAI lei avrebbe negato loro il suo
letto e un abbraccio. “Certo amore, dormi qui!” -
sussurrò,
baciandogli la fronte e stringendolo a se. "E promettimi che
domani farai il bravo".
"Sì,
promesso".
Demelza
lo guardò, orgogliosa di lui. Non lo avrebbe cambiato per
nessuna
ragione al mondo e nessun tutore svizzero si sarebbe mai avvicinato
al suo piccolo principe. Era soddisfatta di lui, di come aveva
organizzato le nozze di Margarita, dei suoi quattro bambini e di come
era riuscita a trovare una buona via d'uscita per la strada di
Falmouth. Si sentiva tranquilla e al sicuro e, stringendo a se il suo
bambino più piccolo, si addormentò con la
convinzione che nulla
avrebbe potuto turbare la sua tranquilla routine e serenità.
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Capitolo 32 *** Capitolo trentadue ***
La
grandissima casa dei Boscawen era quanto di più elegante
Ross avesse
mai visto in vita sua. Mobili di pregio, arazzi, quadri di valore
alle pareti, tappeti di pregiata fattura persiana nei corridoi e
nelle camere, un numero impressionante di servitori e personale di
servizio, un parco enorme che abbelliva il retro della dimora pieno
di alberi secolari, panche, fontane e vialetti ben curati. Un lusso
estremo, anche se non pacchiano, che però a Ross non poteva
piacere
se rapportato alla grande povertà della gente che lo
circondava in
Cornovaglia.
Giunsero
da Falmouth, lui e Basset, di mattina presto e un maggiordomo li
portò nello studio dove l'uomo li aspettava già
con la scrivania
piena di documenti, carte e una bottiglia di ottimo brandy da
sorseggiare insieme.
L'unico
aspetto positivo di quella mattinata che, nonostante le buone
premesse, prese subito una presa sonnecchiosa ai suoi occhi di uomo
abituato alla fatica e al movimento.
Ross
si stava annoiando da morire e in silenzio non smetteva di maledirsi
per aver accettato l'invito di Lord Falmouth. Ma d'altro canto,
scegliere di andare a Londra, capire che era da sempre la strada che
faceva per lui e annoiarsi facevano parte del pacchetto, doveva farci
solo l'abitudine. Doveva farlo, per lui che sentiva di essere dove
doveva e per le persone a cui voleva bene che speravano che la sua
presenza a Londra avrebbe migliorato le loro vite o comunque,
più
tardi, quelle dei loro figli. E poi, cosa aveva da perdere, partendo?
In Cornovaglia si sentiva morto e senza più nulla per cui
lottare,
la sua miniera andata a meraviglia e Londra forse sarebbe potuta
diventare un nuovo stimolo per il futuro.
Lord
Basset insisteva con Lord Falmouth da ore, su questioni su cui non
sarebbero andati mai d'accordo e lui li ascoltava cercando di
imparare e chiedendosi come avrebbe fatto, col suo carattere
orgoglioso, a giungere a compromessi con gli altri e la sua
coscienza. L'intento di Basset era trovare alleati preziosi da
portare dalla loro parte, era chiaro da sempre, e questo Lord
Falmouth, da ciò che aveva capito, era un uomo potente e
socialmente
vicino ai sovrani e, anche se affabile e buon conversatore, di contro
rappresentava il vecchio mondo dei privilegi nobiliari che lui non
approvava. E neanche Basset. Come potevano trovare un accordo?
Falmouth era un uomo indubbiamente intelligente e capace ma per Ross
le affinità finivano lì.
Improvvisamente
la porta dello studio si aprì di scatto, sbattendo
rumorosamente
sulla parete e facendolo sussultare, destandolo dal torpore in cui
era caduto.
Quattro
bambini irruppero nella stanza, portando baccano e risate. Ross e
Basset si voltarono e quest'ultimo sorrise. “Oh, i piccoli
Boscawen
al gran completo, pronti per le nozze del giorno. A parte Clowance,
è
molto che non li vedo in giro e tutti insieme non sembrano meno
rumorosi di quanto li ho incontrati a Natale al ricevimento di Miss
Mougless”.
Ross
osservò i bambini, felice per quell'improvvisata che dava
sollievo
alla sua noia. C'era la bambina vista al parco il giorno prima,
quella con la lupa, un bambino di circa nove anni e due splendidi
bimbi più piccoli, un maschio e una femmina, biondissimi,
che a
prima vista avevano circa tre anni e sembravano gemelli. Erano
vestiti con abiti molto eleganti, le due bimbe con vestitini bianchi
pieni di tulle, legati in vita da nastrini azzurri e con una
coroncina di roselline fra i capelli e i maschietti con pantaloncini
di seta blu, nastro in vita azzurro come i nastrini delle bambine e
camicina di seta bianca con colletto di pizzo. Nulla era stato
lasciato al caso, nell'abbigliamento dei piccoli, a quanto poteva
vedere, soprattutto nella scelta dei colori.
Falmouth
osservò i piccoli, sospirando. “Signor Poldark, vi
presento i miei
nipoti al gran completo. Che oggi saranno fra i paggetti e le
damigelle del matrimonio del mese... SPERANDO che adempiano al loro
compito egregiamente”.
Basset
rise. “E allora? Pronti per il matrimonio di lady Margarita
Allyster”.
Falmoth
tossicchiò. “Speriamo che i paggetti e le
damigelle facciano la
loro parte senza fare scherzi... Sarà il debutto ufficiale
dei
gemelli nella società e io al pensiero non ci dormo da mesi,
come
sapete. Che ci fate qui, bambini? Non dovreste essere diretti alla
Cattedrale?”.
Il
bambino più grande, dai capelli castani leggermente mossi,
che a
Ross sembrava stranamente famigliare in certi tratti, annuì.
“Zio,
la mamma ieri ti ha portato gli anelli degli sposi ma stamattina ha
dimenticato di venire a recuperarli. Ci aspetta in carrozza con gli
altri bambini, siamo venuti a prenderli”.
“Se
no gli sposi non si sposano!” - aggiunse Lady Clowance.
“Scusate
signori” - disse Falmouth, alzandosi dalla sedia e
dirigendosi
nella stanza accanto - “Sistemo i bambini in modo che possano
andare a fare il loro dovere e poi torno da voi”.
Ross
sospirò, appoggiandosi allo schienale. Beh, aveva scoperto
un'altra
cosa su Falmouth, aveva quattro nipoti...
I
quattro bimbi, vivacissimi, presero a giocare fra loro e a fare
baccano e Basset rise. “Arriveranno alle nozze sporchi e
spettinati
come i peggiori monelli della Cornovaglia. Ho visto spesso questi
quattro, qui da Lord Falmouth e a qualche ricevimento e sono
scatenati. Quattro pesti furiose molto diversi da quell'angioletto
che è vostro figlio Valentine. Eccetto Clowance,
ovviamente” -
concluse, guardando la bambina più grande che stava
leggermente in
disparte rispetto agli altri tre.
Falmouth,
tornando da loro con due scatoline in mano, sospirò.
“Bambini,
basta!” - li ammonì, porgendo al più
grande gli anelli. Poi
scosse la testa. “Sono sei mesi che ci esercitiamo
perché siano
perfetti! Ma vedo che i risultati sono incerti... Accidenti a Lady
Margarita che li ha scelti per condurla all'altare”.
Occhieggiò il
maschietto più piccolo, un monello con una faccia da peste
evidente
che, da sotto il caschetto biondo, lo guardava per nulla turbato.
“Demian, che ti ha detto la mamma se non fai il
bravo?”.
“Che
mi mette in castigo”.
“Per
quanto?”.
“Tutta
la vita” - rispose il bimbo, strappando un sorriso a Ross.
Falmouth
sorrise. “Tutta la vita è un tempo lungo, vedi di
fare il bravo”.
Demian
alzò le spalle e poi si avvicinò alla scrivania,
mettendosi in
punta di piedi per vedere cosa ci fosse sopra.
“Zio?”.
“Sì?”.
“Che
cosa sono tutti questi fogli?”.
A
quella domanda, Lord Falmouth si affrettò a impignare e ad
allontanare dalle mani del bambino le sue carte. “Niente di
importante, niente che tu debba toccare”.
“Posso
disegnarci sopra?” - chiese Demian, strappando un secondo
sorriso a
Ross che si immaginava il bambino che scarabocchiava sui progetti
dell'agognata strada privata di suo zio.
Improvvisamente
la bambina più piccola, quella che dal viso sembrava la
più
scatenata, si tolse con un gesto secco la coroncina di fiori fra i
capelli. “Giuda, mi da fastidio!” -
esclamò, gettandola a terra.
E
Ross spalancò gli occhi e per poco non cadde dalla sedia. Da
quanto
non sentiva quell'imprecazione? Guardò quella bambina, un
piccolo
soldo di cacio che apparteneva all'alta aristocrazia londinese. Come
poteva conoscere quell'espressione – così poco
regale – in uso
nel mondo dei minatori della Cornovaglia?
“Ha detto... Giuda???”.
Falmouth,
sospirando e torvo in viso, si alzò dal tavolo e si
avvicinò alla
piccola. “Ha detto Giuda e ora raccoglierà la sua
coroncina, se la
rimetterà in testa e farà la brava, se non vuole
ritrovarsi il
sederino rosso entro mezzogiorno”.
Gli
altri tre bambini risero guardandosi in faccia mentre la piccola
guardò lo zio con aria di sfida, incrociando le braccia al
petto.
“NNNNOOOO!”.
“Daisy,
rimettiti la coroncina! Subito!”.
Lei
sostenne lo sguardo, non arretrando di un centimetro. “Se no
che mi
fai?”.
Basset
scoppiò a ridere e anche Ross parve divertito dal vedere
quella
mocciosetta dar del filo da torcere a uno degli uomini più
potenti
di Londra. Era decisamente diversa dalla sorella incontrata ieri,
anche se erano accomunate entrambe da un carattere decisamente forte
che però si
manifestava in modi diametralmente opposti.
A
un certo punto Clowance si avvicinò alla sorella,
raccogliendo la
coroncina e mettendogliela in testa. “Ricordi? Dobbiamo
essere
uguali oggi. Io e te!” - le suggerì, con voce
calma.
“Mi
punge” - si lamentò la piccola.
“Sì,
ma serve mettersela”.
Daisy
sbuffò. “Uguale a te?”.
“Sì,
uguale!”.
E
a quel punto la piccola cedette, con Clowance. NON con Falmouth.
“Va
bene” - disse, prendendo per mano la sorella.
Ross
osservò di nuovo la bambina più grande,
rendendosi conto che Basset
aveva ragione, era davvero capace di catalizzare rispetto e
attenzione su di se. Più di Falmouth stesso. Notevole, come
lo era
stato addestrare la lupa. E
da quel poco che aveva visto, forse rispetto a Queen era più
complessa
e decisamente degna
di lode la sua
capacità di farsi ascoltare da quella sorellina terribile.
Falmouth,
ormai innervosito, indicò loro la porta. “Sparite,
voi e gli
anelli! Correte da vostra madre, andate ad accompagnare la sposa
all'altare, FATE i bravi e vedete di non fare scherzi!”.
I
due bimbi più grandi annuirono.
Il
ragazzino più grande
si mise gli
anelli in tasca, prese per mano Demian e si avvicinò alla
porta. “Tu
quando vieni, zio?”.
“Il
più tardi possibile” - rispose Falmouth.
“Sai
che le candele, col loro fumo, mi fanno male”.
I
bimbi a quelle
parole risero e poi
corsero fuori, spinti dalle occhiatacce dello zio, ma prima di
chiudere la porta, la piccoletta che odiava la coroncina si
voltò,
facendo la linguaccia. “Io vado! Però tu sei
cattivo!” - disse a
Falmouth,
prima di sbattere la porta e correre dietro ai fratelli.
L'uomo
sospirò, mettendosi le mani nei capelli.
“L'istitutore svizzero! O
il collegio fino alla maggiore età!
Ecco che ci vuole! Se solo la loro madre...”.
Ross
osservò la porta dove erano scomparsi i bambini, decisamente
divertito da quell'intermezzo che aveva spezzato la noia delle loro
conversazioni politiche. “Paggetti e damigelle a questo
famoso
matrimonio?” - chiese.
Falmouth
annuì. “Sì”.
Ross
sorrise, ricordando un episodio del suo passato. “A sette
anni mi
fecero fare da paggetto, con mio cugino Francis, al matrimonio di un
parente. Ricordo con orrore i pantaloncini color oro fino al
ginocchio, chiusi con un bottone, la camicia di seta bianca fredda
come il ghiaccio e soprattutto un enorme fiocco giallo che mi hanno
legato al collo che
mi faceva sembrare una capra.
Non ho parlato con mio padre per un mese, dopo, lo
odiavo per avermi costretto a fare una pagliacciata simile...
E' stata la cosa più umiliante che abbia mai fatto in vita
mia... E
tutti dicevano che ero carino...”.
Falmouth
rise. “Beh, i miei nipoti sono belli e vestiti con
gusto!”.
Ross
annuì. “Beh, di certo i loro abiti sono meno
appariscenti di
quelli toccati a me! Ma non è comunque il mio stile. Ho
sempre
odiato i bambini coi pantaloncini corti”.
Basset
rise. “Ross, è la consuetudine. I maschietti
devono indossarli
fino agli otto anni anche in inverno! E' l'etichetta che lo
dice!”.
Ross
alzò gli occhi al cielo. “E poi a otto anni che
succede? Un
bambino acquisisce il diritto di non morire di freddo?”.
Falmouth
lo guardò leggermente interdetto ma poi scoppiò a
ridere. “Ross
Poldark, voi mi piacete! Sfacciato e diretto, come piace a me! Vorrei
parlare con voi più
a lungo ma
temo di dovermi preparare per andare in Chiesa. Ci vediamo
la?”.
Basset
annuì. “Si, mi siederò nelle ultime
file a vedere la cerimonia,
come sapete non sono stato invitato. E spero che Ross vorrà
farmi
compagnia”.
Ross
deglutì. “Ecco... Io nemmeno so chi siano gli
sposi”.
Falmouth
si alzò e Ross e Basset lo seguirono. “Signor
Poldark” - gli
disse, accompagnandoli verso l'uscita - “Gli sposi sono
giovani e
fuori dalla politica ma appartengono a famiglie importanti. Ma la
cosa che conta sono gli invitati! Ci saranno tutti i rappresentanti
della nobiltà e del Parlamento! Se siete furbo come
sembrate,
iniziate a conoscerli in un'occasione lieta come un matrimonio in
modo che domani, in Parlamento, sappiano già chi siete e si
rapportino a voi in via più... amichevole...”.
“Ma...”
- provò ad obiettare.
“Ascoltatemi”
- insistette Falmouth.
Giunti
alla porta, Ross sospirò mentre un maggiordomo gli faceva
segno di
seguirli fino al cancello. “Lord Falmouth, grazie
dell'invito” -
disse.
Falmouth
annuì, strizzando l'occhio a Basset. “Di nulla, vi
voglio qui
spesso! E spero di vedervi anche dopo, alle nozze. Basset,
trascinatelo lì con la forza, se serve!”. E detto
questo, si
congedò, lasciando soli Ross e Basset in giardino, a seguito
del
maggiordomo di casa Boscawen.
“Venite,
che vi costa?” - insistette Basset. “Il matrimonio
durerà si e
no un'ora, non è una tragedia! Sarà interessante
e al massimo, ci
annoieremo insieme”.
“Ho
sempre odiato questo genere di cose... Cerco di evitarle pure quando
a sposarsi sono parenti, figuratevi oggi...” - ammise Ross,
ricordandosi poi di una cosa che lo aveva colpito poco prima, caduta
nel dimenticatoio, che poteva servirgli per sviare il discorso.
“Posso chiedervi una cosa?”.
“Certo”
- rispose Basset - “E io vi risponderò SOLO se
verrete in Chiesa”.
Ross
scosse la testa, divertito e ormai con le spalle al muro. Ma
sì, era
solo un'ora di cerimonia, poteva sopravvivere e se due Lords che se
ne intendevano dicevano che sarebbe servito alla sua carriera...
“Avete vinto... Anche se non capisco perché
insistiate tanto”.
“E'
per il vostro bene, come vi ha anche spiegato Falmouth. Ascoltate
quella vecchia volpe, da buoni consigli ai giovani che ritiene
meritevoli. Ma ora su, che volevate chiedermi?”.
Sospirò,
ormai persuaso ad andare a quelle dannate nozze. “Quella
bambina...
La piccolina... Ha detto 'Giuda'? Come può conoscere quel
modo di
dire? E' un'imprecazione che usano dire i bambini dei nostri
minatori, non la piccola principessina di una delle più
nobili
famiglie di Londra”.
A
quella domanda, Basset scoppiò a ridere. “Ahah,
Poldark!
SELEZIONATISSIME tate della Cornovaglia! La madre è
originaria di lì
e Daisy è tremenda, una piccola peste che apprende il peggio
dalla
servitù di cui è circondata. Fa impazzire suo zio
e il suo
gemellino non è molto diverso”.
Ross
ridacchiò, incuriosito da quella strana famiglia.
“E' molto
diversa dalla sorella maggiore”.
“Assolutamente”
- rispose Basset. “E ora su, andiamo in Chiesa” -
ordinò, mentre
uscivano dalla residenza dei Boscawen. “E' ora che conosciate
chi
conta, qui a Londra!”.
…
La
Cattedrale di Westminster era gremita di gente elegantissima,
distinta e sicuramente piena di denaro e titoli nobiliari e quando
Ross vi arrivò, con Lord Basset, si sentì per un
attimo sperso in
mezzo a tanta opulenza e ostentazione.
Le
panche erano già tutte piene, i posti in prima fila
assegnati ai
selezionatissimi invitati d'onore e i due uomini si misero nelle
ultime panche in fondo alla navata. Basset salutò i Lords e
le loro
mogli elegantissime e piene di gioielli preziosi che ne adornavano il
corpo, lui annuì un po' da orso con la testa e in questo
quadretto
dove si sentiva un pesce fuor d'acqua, sperava solo che quella
tortura finisse quanto prima.
Ross
si sporse e vide lo sposo, giovanissimo ed emozionatissimo, che in
lontananza aspettava la sua futura moglie davanti all'altare e
guardandolo si rese conto che lui non era mai stato colto da quella
felicità mista a paura prima del fatidico sì. Con
Demelza c'era
stata una strana costernazione e una sorta di incredulità
nel
trovarsi alla Chiesetta di Sawle a sposarsi mentre con Elizabeth...
beh, quel giorno aveva detto sì con la morte nel cuore e
senza
alcuna aspettativa per il futuro. Mai, in nessuno dei suoi due
matrimoni, si era sposato con la leggera paura e grande
felicità che
dovrebbe precedere un passo simile... Avrebbe voluto viverla, un
giorno, quella leggera euforia mista ad agitazione che prova ogni
sposo all'altare, mentre aspetta la donna che ama...
Improvvisamente
l'orchestra cominciò a suonare la marcia nuziale e la sposa
fece il
suo ingresso. Aveva il viso pulito e ancora da bambina, un passo
stentato e forse non propriamente aggraziato come ci si aspetterebbe
da una delle rappresentanti della famiglia reale, la sua emozione era
evidente dal colore rosso acceso delle sue guance e dal luccichio
degli occhi e indossava uno splendido abito bianco dal lungo
strascico che veniva sorretto da due bambini che la seguivano nel
corteo.
Ross
si sporse, riconoscendo fra loro i nipotini di Falmouth, oltre ad
altri quattro bambini. Il bimbo dei Boscawen più grande,
insieme a
un altro dei paggetti, reggeva elegantemente il velo mentre gli altri
sei bambini seguivano il corteo, con gli altri due maschietti che
tenevano per mano ognuno due bambine.
Erano
graziosi anche se – Ross ci avrebbe scommesso – si
sentivano
idioti a dover sottostare a quella pagliacciata. MAI avrebbe
costretto Valentine a vestirsi da bambolotto per fare il paggetto a
un matrimonio! MAI!!! E lui lo avrebbe ringraziato per questo, un
giorno!
A
Ross venne da ridere nel vedere la faccia dei due gemelli. La bimba
era imbronciata, il maschietto sembrava annoiato e si guardava
attorno con aria smarrita e un po' spaventata mentre la bambina amica
della lupa pareva invece perfettamente a suo agio e sicura di se. Ma
d'altronde su di lei, Ross non aveva dubbi, quello era il suo mondo!
Si comportarono bene e per la gioia del loro zio, accompagnarono la
sposa fino all'altare senza incidenti e poi furono presi in carico da
una donna assunta probabilmente come bambinaia per intrattenerli
durante la funzione. Erano piccoli dopo tutto e sarebbe stato
impensabile tenerli fermi e zitti nella Cattedrale per l'intero tempo
della Messa. Avrebbe faticato lui a starsene buono, figurarsi loro!
Dietro
la sposa arrivarono i genitori, entrambi elegantissimi, alcuni
parenti stretti e...
E
a un certo punto il cuore di Ross si fermò...
Una
giovane e bellissima donna dai capelli rossi, vestita con un
elegantissimo e raffinato abito blu, avanzò a passo sicuro
nella
navata, in mezzo a quelle persone importanti. I suoi lunghi capelli
erano stati lisciati e poi acconciati in morbidi e perfetti boccoli
sulle punte, il corpetto del vestito, molto aderente, ne valorizzava
le curve, le sue spalle erano nude e il collo era adornato con una
preziosa collana di diamanti e la sua gonna, morbida, che le cadeva
sulle gambe in mille strati di seta e pizzo, ondeggiava
armoniosamente al suo passo.
Santo
cielo, era... era... “Demelza...”.
Forse
era un sogno, forse era impazzito! Anzi, quasi sicuramente era
impazzito perché lei NON poteva essere lì! Non
aveva senso...
Eppure...
Eppure quel viso che sempre aveva sognato e mai dimenticato era per
lui inconfondibile, come il sorriso sulle sue labbra, il colore
chiaro della pelle e quello rosso fuoco dei capelli. Anche se
pettinati e acconciati elegantemente, lui quei capelli li aveva
baciati, accarezzati e fatti scorrere mille e più volte fra
le sue
dita e li avrebbe riconosciuti ovunque, anche ad occhi chiusi.
Ma
nonostante tutto, non poteva essere! Lei, che aveva visto l'ultima
volta sette anni prima pallida, stanca, magra e sfinita e che era
sparita coi loro bambini dalla sua vita, cosa poteva farci
lì, a
quel matrimonio, in mezzo a quella gente aristocratica su cui lei
primeggiava per raffinatezza ed eleganza?
Basset
osservò il suo sconcerto. “Ross, che vi
prende?”.
Lui
deglutì, quasi timoroso di chiedere. “Chi
è quella donna?”.
“Quale?”.
“Quella
coi capelli rossi e il vestito blu” - rispose, sperando che
Basset
gli dicesse che non c'era alcuna donna così a quel
matrimonio e che
era preda di allucinazioni. Sì, voleva essere pazzo!
Basset
però non disse nulla del genere e rise, sotto i baffi.
“Oh, Lady
Boscawen? Bella, vero? E' una donna molto potente e ammirata qui a
Londra, una delle più nobili ma allo stesso tempo gentili e
affabili. Una gran bella persona! Ma non guardatela così,
quella non
potete permettervela”.
“Lady
Boscawen...” - ripeté Ross, quasi in tranche.
Basset
annuì. “Sì! Ha sposato il nipote di
Lord Falmouth, il tenente
Hugh Armitage ed è la madre dei quattro bambini che avete
visto poco
fa nel suo studio. Ed è la migliore amica della sposa
nonché sua
damigella d'onore!”.
Ross
spalancò gli occhi e si sedette, sentendo le gambe
tremargli.
Sposata? Con il nipote di Falmouth? Era un incubo, non poteva essere
altrimenti! Demelza non si sarebbe mai sposata, non avrebbe potuto
farlo e l'unica certezza che lo aveva sorretto in quegli anni era che
lei, come lui, non facesse trascorrere giorno senza rimpiangere la
vita che avevano perso insieme. Non poteva essersi sposata, non
poteva essere lei! Non la sua Demelza... Nonostante tutto, nonostante
il male che le aveva fatto, lei non avrebbe potuto voltare davvero
pagina e dimenticarlo... Si appartenevano, Ross lo sapeva e anche
Demelza! Lei lo sapeva quanto lui! “Come si
chiama...?”.
Basset
gli toccò la fronte, cercando tracce di febbre che
spiegassero
quello strano modo di fare. “Ross, vi sentite
bene?”.
“Come
si chiama Lady Boscawen?” - ripeté lui, senza
nemmeno sentirlo.
“Demelza...
E' amica di mia moglie, a volte sono stato a cena da loro. Anche a
una festa di Natale, tre anni e mezzo fa, quattro giorni dopo la
nascita dei gemellini”.
Gli
occhi di Ross si appannarono, non capì il perché.
Demelza... Era
lei, era sposata e aveva ricominciato una nuova vita accanto a un
uomo che ora aveva la sua dolcezza, la sua vicinanza, i suoi sorrisi,
la sua voce meravigliosa quando cantava, i suoi baci, il suo amore...
“Demelza...” - sussurrò. Prima di
spalancare gli occhi,
rendendosi conto che se lei era... Se lei era...
Due
immagini gli vennero alla mente, quasi istantanee, come se stesse
mettendo a fuoco solo adesso un altro aspetto della valanga che lo
aveva appena travolto: la bambina con la lupa e il bambino che aveva
preso gli anelli e portato il velo della sposa... “Come si
chiamano
i suoi bambini?”.
Basset
si accigliò, ora seriamente preoccupato. “Ross, il
fumo delle
candele vi fa male davvero. Uscite a prendere un po' d'aria!”.
“Come
si chiamano i nipotini di Falmouth?” - chiese ancora.
Basset
sospirò, prendendolo per il braccio. “Demian e
Daisy i gemelli.
Clowance e Jeremy i due più grandi! Che vi prende,
Ross?”.
Jeremy...
Il suo Jeremy, che aveva visto per l'ultima volta quasi sette anni
prima. E ora era lì, a fare da paggetto a una nobile
londinese, era
diventato grande, sapeva parlare perfettamente e aveva un nuovo
papà
che chissà cosa gli aveva insegnato...
E
la bambina col lupo... La nobile, aristocratica e carismatica
Clowance! Era una bambina, allora! Bellissima, eterea e
completamente estranea a lui per conoscenza e modo di vivere... Aveva
incontrato la sua bambina senza sapere nemmeno chi fosse...
Sentì
una fitta al cuore, faceva male saperlo e rendersi conto che erano
due estranei perché lui l'aveva abbandonata prima ancora che
nascesse.
I
suoi bambini, i suoi bellissimi bambini che un altro uomo stava
vedendo crescere e che loro chiamavano papà...
“Devo uscire...”
- mormorò, alzandosi di colpo dalla panca mentre la
cerimonia
proseguiva placida e tranquilla.
Basset
annuì. “Volete che vi accompagni?”.
“No,
no! Ho un po' di nausea ma niente di grave, mi basterà una
boccata
d'aria e riposare un po'. Ci vediamo domani in
Parlamento...”. E
detto questo uscì, in preda a dei conati di vomito che non
riusciva
a trattenere.
Era
un incubo... Un incubo reale che MAI, benché avesse tanto
desiderato
rivedere Demelza, avrebbe voluto vivere. Ma forse se lo meritava,
forse doveva vedere coi suoi occhi a cosa avevano portato i suoi
errori e il male che aveva fatto a chi amava. Aveva tradito e
abbandonato la sua famiglia e loro lo avevano lasciato, cercando la
felicità altrove.
E
Demelza, la sua forte, fiera e combattiva Demelza era riuscita a
rialzarsi e a tornare a vivere come lui non sarebbe mai riuscito a
fare. Era sempre stata più forte di lui, dopo tutto...
Gli
era passata davanti senza notarlo in mezzo a tutte quelle persone,
erano a pochi metri e lei aveva proseguito dritto senza ovviamente
vederlo mentre per lui, una volta accortosi di lei, non era esistito
più nessuno in quella Chiesa.
Si
sedette sugli scalini esterni, mentre le gambe faticavano ormai a
reggerlo. E ora? Ora che doveva fare? Non sapeva, non capiva, non
riusciva a formulare un ragionamento lineare. Era perso e
improvvisamente Londra aveva assunto ai suoi occhi altri connotati.
La sua famiglia era lì, viveva lì e lui senza
saperlo era entrato
nel suo mondo...
Rimase
seduto sugli scalini senza accorgersi del tempo che passava e della
gente che pian piano si affollava davanti ai portoni per vedere sposi
ed invitati. Si alzò, camminò, quasi strisciando
i piedi, fino a
una uscita laterale per evitare di essere travolto dal corteo nuziale
e poi si sedette di nuovo sugli scalini di pietra, incapace di fare
altro se non fissare il vuoto che aveva davanti a se e nella sua
mente. Era tutto ovattato attorno a lui e persino il suono delle
campane che annunciava la fine della cerimonia e le urla festanti
della gente sulla navata apparivano lontane e opache.
E
improvvisamente la porta dietro di lui si aprì e i bambini,
i
quattro paggetti e le quattro damigelle, uscirono assieme alla
bambinaia.
La
donna lo occhieggiò sospettosa. “Signore, potreste
spostarvi?
Abbiamo scelto questa uscita per motivi di sicurezza e dobbiamo far
salire i bambini nella carrozza”.
Ross
osservò lei e poi i bambini. I suoi bambini... Che giocavano
con gli
altri piccoli, non degnandolo di uno sguardo. Vide una elegante
carrozza scoperta che li attendeva a pochi metri, sulla strada, e poi
tornò a guardare i suoi figli. Così belli,
così lontani, così
estranei... Eppure Jeremy lo aveva tenuto sulle ginocchia, avevano
giocato assieme al suo cavallino di legno, lo aveva messo ogni tanto
a letto e lo aveva tenuto fra le braccia, con orgoglio, quando lo
avevano Battezzato. E Clowance... La perfetta, bellissima Clowance...
La sua bambina che mai aveva visto e conosciuto, abbandonata nel modo
più crudele quando ancora era nel ventre di sua madre.
Improvvisamente
Jeremy chiamò uno dei bambini, cercando di non farsi notare
dalla
bambinaia. “Guarda, Frederik” - sussurrò
a quello che sembrava
un suo coetaneo, togliendosi qualcosa dalle tasche.
Frederik
rise, mettendosi le mani davanti alla bocca. “Bello! Con
questa ci
divertiamo dopo, al party in giardino!”.
Ross,
nella sua confusione, notò che Jeremy teneva in mano una
specie di
fionda. Cosa che notò anche la bambinaia che si
avvicinò con fare
severo. “Jeremy, dammi quella fionda!”.
“Non
è una fionda!” - rispose Jeremy mettendo le mani
dietro la schiena
per coprire quella palese bugia.
“E
cos'è?” - chiese la donna.
Il
bambino alzò le spalle. “Un pezzo di legno
CASUALMENTE simile a
una fionda! La natura lo ha fatto così”.
La
donna lo guardò storto, con aria severa che non ammetteva
repliche e
poi allungò la mano. E Jeremy, sbuffando, fu costretto a
consegnarle
il gioco.
Clowance
sbuffò. “Selvaggi! Siete dei selvaggi!”.
Jeremy
le fece la linguaccia. “Zitta! Che ancora nemmeno sai
leggere”.
La
bambina incrociò le braccia al petto. “Meglio
analfabeta che
selvaggia come voi! Noi siamo Ladies, che importanza ha saper
leggere? Basta essere educate!”.
Jeremy
rise, seguito dagli altri bambini. “Come Daisy?”.
Clowance
si voltò e anche Ross lo fece, notando che la piccolina si
era
sollevata la gonna mostrando le mutandine, per grattarsi il
ginocchio.
La
bambinaia corse dalla piccola, tirandole giù il vestito.
“Che
fai?”.
“Mi
ha punto una zanzara! Mi prude! Mi prude tutto, pure la testa con
questi fiori!” - si lamentò la bimba.
I
maschietti risero. “Lady... Mica tanto!”.
Ross
guardò i suoi figli che parlavano, litigavano, cercavano di
fregare
gli adulti e giocavano con altri bambini appartenenti a un mondo di
cui lui non faceva parte.
La
bambinaia, sbuffando, li fece arrivare fino alla carrozza posta in
una strada ormai gremita di gente e Ross continuò ad
osservarli come
se non esistesse altro, anche se era circondato da perfetti estranei
che spingevano per andare ognuno alla propria carrozza.
E
improvvisamente, lei ricomparve...
Bellissima,
sorridente, circondata da altre persone che lui non conosceva ma che
le dovevano essere amiche.
Demelza,
una volta spaventata alla sola idea di un Natale a Trenwith con la
sua famiglia, ora era la principessa di una società ricca,
aristocratica e irraggiungibile quasi per chiunque, vestiva abiti e
indossava gioielli che lui non avrebbe mai potuto permettersi di
comprarle e sembrava trovarsi perfettamente a suo agio.
Il
gemellino più piccolo, Demian, gli corse incontro e lei si
chinò a
parlargli nell'orecchio, come spesso le aveva visto fare anche a
Nampara con Julia e Jeremy quando doveva tranquillizzarli su
qualcosa. Vide il bimbo sorridere, saltarle in braccio e lei
abbracciarlo. Era suo figlio anche lui, ora lo realizzava appieno...
Dei gemellini avuti con un altro uomo...
Era
Demelza, ora ne era certo! Ed erano quei gesti dolci, quel modo di
essere mamma, quel genere di attenzioni che le stava vedendo dare a
quel piccolo a dargliene la conferma, più che le parole di
Basset.
Era
la sua Demelza...
O
no, non era più sua...
Era
di un altro uomo che aveva preso, amato e curato qualcuno che lui si
era fatto sfuggire di mano e non aveva saputo difendere.
Si
guardò attorno cercando quell'uomo che gli aveva portato via
chi più
amava ma c'era troppa gente, troppo rumore, troppo di tutto.
Rimase
immobile, era nessuno fra migliaia di persone, nascosto agli occhi di
lei così infinitamente lucente alla sua vista.
La
vide salire coi bambini sulla carrozza, chiacchierare con loro e poi
allontanarsi diretta a una festa sontuosa alla quale lui non avrebbe
potuto partecipare.
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Capitolo 33 *** Capitolo trentatre ***
Era
stato male, per giorni era stato preda di violenti mal di testa e una
forte apatia aveva preso possesso di lui. Gli scivolava tutto
addosso, la nuova avventura in Parlamento, la scoperta di Londra,
Valentine, ogni cosa sembrava aver perso consistenza davanti ai suoi
occhi, insieme a tutte le certezze che lo avevano sorretto in quegli
anni.
Vedere
Demelza era stato un sogno che si era realizzato ma quel sogno si era
trasformato subito in un terribile incubo. Che meritava tutto ma che
si era abbattuto su di lui con la violenza di un terremoto. L'aveva
pensata tanto in quegli anni, si era isolato dal mondo e aveva
passato ogni attimo della sua vita a preoccuparsi per lei e per i
bambini, convinto che per lei fosse lo stesso e che, ovunque fosse,
rimpiangesse la vita che avevano condiviso assieme e il loro amore.
Ross sapeva di essere arrogante e sapeva anche che Demelza, quando se
n'era andata, lo aveva fatto con l'idea di non tornare e di chiudere
per sempre la storia con lui ma non riusciva ad accettare comunque
ciò che aveva scoperto. Era egoista, ma non ci riusciva! Se
n'era
andata perché non le aveva lasciato altra scelta ma era
sempre stato
convinto che per lei fosse stato doloroso come lo era stato per lui.
Invece si era ricostruita una vita, una vita bellissima da quel poco
che aveva potuto notare. Lo aveva dimenticato, lo aveva lasciato
indietro e assieme ai suoi figli si era proiettata verso un futuro di
cui lui non faceva più parte. Sapeva che ne aveva tutto il
diritto,
che non aveva più doveri verso di lui eppure... Eppure Ross
soffriva, irrazionalmente soffriva moltissimo perché mai,
MAI in
quegli anni, nonostante tutto, aveva smesso di considerarla l'unica e
vera moglie che avesse mai avuto.
Era
arrogante, lo sapeva! Ed egoista, sapeva di nuovo anche questo! E poi
testardo, imprevedibile e mille altre cose che la stessa Demelza, in
passato, gli ricordava. Eppure lei amava quei lati del suo carattere,
anche quelli di cui meno c'era da andare fiero.
Era
cambiata da allora, da quel giorno in cui gli aveva detto addio con
un bacio sulla guancia, il viso pallido e le lacrime trattenute a
stento, sulla porta di Trenwith. Era diventata una nobile, aveva
voltato le spalle a ciò che era e aveva abbracciato persone
che
insieme avevano combattuto, era elegante, potente, altera e
bellissima. La bellezza di una bambola di porcellana però,
finta e
con la medesima freddezza... Lo aveva tradito, non tanto come uomo ma
in ogni cosa in cui avevano creduto e lottato insieme! Era
annientato! E arrabbiato... Con lei, con se stesso, con i Boscawen,
con tutto quel mondo nuovo che l'aveva catturata e cambiata e con
quell'uomo nobile e potente che l'aveva fatta sua.
Un
uomo sconosciuto l'aveva resa così! Un uomo che si era preso
cura di
lei ma che sentiva di odiare! Era egoista anche questo ma l'idea che
qualcun altro l'avesse amata e che lei gli avesse permesso di farlo,
lo faceva impazzire. Chi era questo tenente Armitage? Un uomo di
mare? Non lo aveva mai visto in effetti e forse era spesso fuori, in
navigazione, a costruirsi una carriera acquisita probabilmente per
diritto di nascita più che per merito... Dannazione a lui!
Come
aveva fatto a conoscerla? Era un matrimonio d'amore? Come poteva
Demelza essere stata accettata in casa dei Boscawen, una delle
famiglie più potenti e antiche d'Inghilterra che si muoveva
secondo
regole sociali antiche di secoli e che mai avrebbe accettato in casa
una donna sola con due bambini?
E
i suoi bimbi, già... Jeremy era grande, un bambino bello,
sveglio,
che sapeva fare molte cose e che probabilmente aveva anche imparato a
cavalcare. E non con lui! Quanto aveva immaginato il suo viso in
quegli anni e che colpo al cuore rivederlo ora, com'era diventato.
E
Clowance... Ora lo aveva scoperto, era una bimba quella partorita da
Demelza in quel periodo terribile dove lui aveva lasciato lei e
Nampara. Una bimba che ora aveva sei anni, un carattere aristocratico
come i suoi modi di fare, bellissima, eterea e anche lei distante e
assolutamente estranea al mondo di suo padre e alle sue origini.
E
poi... Gemelli? Demelza aveva avuto altri figli? Cercò di
ricordare,
in quei giorni di buio, i visi dei due bambini più piccoli.
Erano
incantevoli, con lineamenti fini e delicati, capelli biondissimi e
occhi azzurri e trasparenti. Avevano gli stessi colori di Clowance ma
erano allo stesso tempo diversi. Avevano il carattere di Demelza,
quanto meno la bambina, ma le somiglianze finivano lì.
Fisicamente
non avevano nulla della madre e quindi probabilmente somigliavano al
loro dannatissimo padre. Quindi, se i bambini erano belli, il padre
doveva essere affascinante... Dannazione a lui! E se aveva il carisma
di Lord Falmouth e la sua intelligenza, forse Demelza aveva
incontrato il perfetto principe azzurro. Di male in peggio! Ed era
geloso... Forse anche Demelza era stata gelosa così, quando
lui
stupidamente correva da Elizabeth inventando mille scuse per stare
con lei... Faceva male e si odiava per avergli inferto quel dolore,
ora che lui stesso lo provava sulla sua pelle.
Dopo
giorni di mutismo dove usciva di casa solo per le sedute in
Parlamento, adducendo un'influenza si rifugiava subito a casa a
macerarsi nei suoi pensieri. Ma dopo una settimana decise che doveva
trovarla, capire, chiedere, parlarle! Demelza doveva sapere che era
lì! Non era da lui stare a letto a macerarsi in pensieri che
non
portavano a nulla e solo Demelza poteva rispondere alle mille domande
che gli affollavano la testa. Trovarla era stato un miracolo e ora
doveva sfruttarlo per avvicinarla, anche se le conseguenze potevano
essere pesanti e le risposte che avrebbe potuto ottenere, per nulla
piacevoli.
Tornò
a passare i pomeriggi con Basset, a farsi guidare da lui per cercare
di capire la situazione, la società dove Demelza si muoveva,
i posti
dove incontrarla, ma alla fine capì che l'unico posto dove
avrebbe
potuto avere fortuna era proprio l'enorme dimora di Falmouth.
E
quindi, con Basset, accettò ogni invito che il Lord faceva
loro per
discutere di politica. Demelza viveva lì e se era fortunato,
l'avrebbe incrociata. E poi...? Come avrebbe reagito, lei? Beh, non
lo sapeva e ci avrebbe pensato al momento, come faceva da sempre. Per
ora doveva solo cercare di vederla, muovendosi con furbizia
all'interno di quell'enorme palazzo, senza tradirsi, fingendo
interessi politici senza mai nominare il suo nome. Non sapeva che
genere di legami avesse coi Boscawen e cosa sapessero di lei, ma
Falmouth non era a conoscenza del loro legame e quindi non l'avrebbe
tradita.
Per
due settimane, ogni lunedì e giovedì pomeriggio,
lui e Basset
andarono da Falmouth in visita ma a parte l'uomo, Ross non vide
nessuno se non qualche membro della servitù. Demelza e i
bimbi
probabilmente vivevano in un'altra ala di quell'enorme palazzo e
quindi, a meno di fortuite casualità che permettessero loro
di
incontrarsi, ci sarebbe voluta pazienza e perseveranza.
Al
terzo lunedì però, quando il maggiordomo li
scortò nell'ufficio di
Falmouth dicendo loro che il suo padrone sarebbe arrivato nel giro di
pochi minuti perché trattenuto da una faccenda urgente, una
sorpresa
fece sussultare Ross.
Lo
studio non era vuoto come si sarebbe aspettato, ma la testolina di un
bimbo biondo, steso sul pavimento e intento a disegnare, fece
capolino.
Basset
sorrise. “Ciao Demian!” - disse al bimbo, vestito
con una
camicina alla marinara e dei pantaloncini bianchi, abbigliamento che,
unito ai suoi lunghi capelli biondi e alle guance paffute e rosse, lo
faceva sembrare un dolce bambolotto.
Da
sotto la scrivania, Jeremy fece capolino, a carponi, sbucando
all'improvviso e facendolo sussultare. Non aveva notato che c'era
anche lui! Giocava per terra, con dei soldatini, e probabilmente
erano stati entrambi affidati allo zio per quel pomeriggio, per
qualche ignoto motivo. “Buon giorno Lord Basset” -
disse il
bambino.
Basset
annuì. “Ciao Jeremy! Soli? Dove sono le vostre
sorelle?”.
Demian
continuò a disegnare steso in terra, sul foglio che aveva in
mano,
Jeremy sospirò. “A una festa di compleanno. Le ha
accompagnate la
mamma”.
“E
come mai voi due siete qui?” - chiese lord Basset, curioso.
“Non
vi piacciono i compleanni?”.
Jeremy
lo guardò storto, come se lord Basset avesse detto
un'eresia. “Il
compleanno di UNA FEMMINA? Neanche morto! Vero Demian?” -
chiese,
al fratellino.
“Vero!”
- disse il piccolo che probabilmente nemmeno li stava ascoltando.
Lord
Basset rise. “Ah Jeremy, fra qualche anno cambierai
idea”.
“Su
Lady Chaterine?”.
Ross
osservò suo figlio, era la prima volta che lo vedeva tanto a
lungo e
così da vicino. Era incantato nel sentirlo parlare e nel
vedere
quanto fosse cresciuto. Aveva una voce così squillante e
allegra e
pareva spigliato e piuttosto deciso in quel che pensava. Era
così
diverso dall'ultima volta che lo aveva visto, quel giorno in cui gli
aveva promesso di insegnargli ad andare a cavallo... Ora
probabilmente sapeva già farlo, assieme a tante altre cose
che
qualcun altro gli aveva insegnato.
Basset
scoppiò a ridere, come intendendo appieno la situazione che
a Ross
invece sfuggiva. “Lady Chaterine? Lei vuole fidanzarsi con
te, lo
sai? Ha detto alla mia Emily che è innamorata di te e che da
grandi
vi sposerete!”.
“Lo
dice lei, non io!” - rispose Jeremy, secco, mentre Demian in
terra
rideva.
“Perché
ridi, Demian?” - chiese Basset.
“Perché
io, se una mi vuole sposare, gli do un pugno e basta!”. Anche
Demian sembrava deciso sul da farsi, nelle questioni di donne...
“Cambierete
idea” - disse Basset.
“Su
lady Chaterine?”. Jeremy ora sembra proprio terrorizzato e
questa
bambina, chiunque lei fosse, doveva davvero stargli antipatica. A
Ross venne da ridere, lo avrebbe fatto se non fosse stato che,
sentendo quella conversazione, aveva avuto la certezza di quanto
estranei fossero ormai lui e suo figlio e che non conosceva
più
nulla della sua famiglia.
Bassett
sorrise amabilmente. “Lady Chaterine è una bella
bambina, nobile e
di buona famiglia. Ma non è detto che cambierai idea su di
lei.
Intendevo che la cambierai sulle femmine, fra qualche anno”.
Jeremy
sospirò. “Non lo so. Se sono tutte come quella
lì... Lo sapete
Lord Bassett? Al parco, quando mi vede e gioca con Clowance, mi
insegue perché vuole baciarmi. Io sto attento, sono sempre
all'erta
se lei è in giro e scappo in tempo ma una volta son stato
poco
attento e quella lì ci è riuscita. Mi ha dato un
bacio sulla
guancia e mi fa schifo ancora adesso, se ci penso...”.
Lord
Basset scoppiò a ridere, come Demian che, evidentemente,
doveva aver
assistito a quella scena. “E non ti è
piaciuto?”.
“No,
mi ha sbausciato tutta la faccia! Ho tenuto la testa sotto l'acqua
della fontanella mezz'ora, per lavarmi...”.
Ross
lo guardò. Santo cielo, aveva un modo di raccontare le cose
così
leggero, divertente e spigliato che, se non fosse stato che per lui
era un perfetto sconosciuto, si sarebbe unito con piacere a quella
conversazione fra loro. E invece doveva esserne un semplice
spettatore anche se, sentirlo parlare così, con quel modo di
raccontare le cose, lo metteva comunque di buon umore... Somigliava a
Demelza nel carattere, era allegro, espansivo e vivace, diversissimo
da lui.
Basset
gli si inginocchiò davanti, osservando i suoi soldatini.
“Che
battaglia stai conducendo, Jeremy?”.
Il
bimbo indicò i due schieramenti. “Inglesi, questi
qui in rosso.
Contro scozzesi, questi qui con la gonna”.
Demian
a quelle parole lasciò i pastelli e corse da lui, buttando
in terra
con una mano tutti i soldatini in gonnella.
Jeremy
lo guardò a bocca aperta. “Demian, hai appena
conquistato la
Scozia!”.
Demian
rise, saltellando, imitato da Basset. “Tuo zio
sarà contento!”.
Ross
osservò l'uomo, ora davvero smarrito su quel lato della
conversazione. E Basset si affrettò a spiegare. “I
gemelli sono
stati concepiti durante una vacanza in Scozia e Lord Falmouth ci ha
visto un segno profetico del destino”.
Ecco,
forse sarebbe stato meglio non chiedere... Non aveva certo voglia di
sentire di come e quando Demelza avesse concepito i due figli
minori... Santo cielo, questo dannato padre dei gemelli l'aveva anche
portata in vacanza... Cosa che lui non aveva mai fatto, per mancanza
di mezzi economici certo, ma anche perché incapace di
organizzare
qualcosa di romantico solo per loro due.
A
un certo punto Lord Basset, ignaro dei suoi pensieri, guardò
i
ritratti che ornavano la parete e il suo sguardo cadde sul fondo di
uno di essi. Osservò accigliato e Ross guardò
nella medesima
direzione per capire cosa avesse attirato la sua attenzione.
Anche
Jeremy guardò e poi impallidì, guardando il
fratellino. “Demian,
che hai fatto?” - disse, correndo vicino a un ritratto
raffigurante
una donna elegante che pareva di grande valore.
Demian
osservò il ritratto e poi annuì, scuotendo i suoi
lunghi capelli
biondi. “Ci ho disegnato sotto un cagnolino e dei fiorellini
coi
pastelli”.
“Perché?”
- chiese Jeremy. “Lo zio si arrabbierà un
sacco!”.
Il
bimbo si alzò da terra e si avvicinò al fratello
maggiore. “No,
non si arrabbierà! E' più bello adesso! Prima
c'era solo una
signora morta, adesso è diventato un quadro
contento!”.
“Lo
zio te le suona, stavolta! Altro che contento!” - disse
Jeremy con
convinzione.
Demian
lo guardò con aria di sfida. “A me mi piace
così! Anche alla
signora morta gli piace così!”.
Lord
Basset rise, ancora. “Jeremy, credo che avresti fatto meglio
ad
andarci, a quel compleanno!”.
Jeremy
sospirò e in quel momento Lord Falmouth fece il suo ingresso
nello
studio.
Basset
rise. “Caro Falmouth, avete un nipotino che sarà
un grande
artista! Non arrabbiatevi e guardate il lato positivo della
faccenda!”.
Falmouth
lo guardò male, osservò Jeremy, Demian e poi il
grande quadro che
aveva alla parete. I suoi occhi si assomigliarono... “Demian!
Sai
chi è quella donna nel quadro?”.
“Una
signora morta!” - rispose il bimbo.
“Mia
nonna Edgarda! Mi ha cresciuto lei e AMO tanto guardare quel quadro
che me la ricorda! Perché ci hai pasticciato
sopra?”.
Demian,
per nulla intimorito dalle occhiatacce dell'uomo, alzò le
spalle.
“Perché così è
più bello!”.
Falmouth
divenne rosso in viso, quasi fosse sul punto di esplodere.
“Sylvie!!!” - urlò, chiamando una
domestica che giunse poco
dopo.
“Dite
signore”.
“Chiama
il signor Smith, il restauratore! E fa sparire tutti i pastelli a
cera del palazzo”.
Demian
fece per commentare ma lo sguardo dello zio stavolta gli fece
decidere che era meglio stare zitto. La donna raccolse i pastelli,
Falmouth salutò Ross e Basset e Demian si stese in terra a
giocare
coi soldatini mentre Jeremy, forse incuriosito dal trovarsi a quella
riunione di lavoro, si appoggiò al tavolo.
Falmouth
tossicchiò. “E allora, Poldark? Avete cambiato
idea su quelle
questioni di cui vi ho parlato e che vi vedevano in totale
disaccordo?”.
Ross
guardò Jeremy che, sentendo il suo cognome per la prima
volta, era
rimasto assolutamente indifferente e poi sospirò. Il nome
dei
Poldark per il bambino non significava nulla, non risvegliava in lui
alcun ricordo e questo significava che Demelza non lo pronunciava da
anni e che quindi non gli parlava mai di lui. “No, non cambio
idea
facilmente e continuo a pensare che fare uno sforzo per ridurre il
prezzo del grano sia una buona cosa per combattere la fame che
attanaglia grandi fette della popolazione del paese”.
“Signor
Poldark, perché siete tanto testardo? Se Lord Basset, che da
sempre
è mio antagonista, vi ha portato qui, è
perché pensa che noi tre
potremmo trovare una linea comune. Se
lui è testardo, non dovete esserlo anche voi!”.
Ross
era stanco di ascoltarlo, era
stanco di tutto.
Era in quella ricca ed enorme casa per cercare di incontrare Demelza
e anche se la
politica gli interessava, così come le questioni sociali che
agitavano il paese, ora erano altre le faccende che gli affollavano
la mente.
Voleva
incontrare Demelza ma
aveva sempre fallito, non l'aveva mai incrociata in quelle stanze e
l'unico risultato raggiunto era che
le sue continue visite con lord Basset avevano convinto Lord Falmouth
che stesse cercando un accordo con lui.
Eppure
quella visita, di quel giorno, non era stata infruttuosa, non del
tutto! E doveva esserne contento!
Perché arrivare sin lì e trovare Jeremy in quello
studio, che
giocava con quello che chiamava 'fratellino', era di per se
già una
vittoria. Lo aveva ascoltato rapito mentre parlava con Lord Basset
che evidentemente conosceva bene,
era così straordinario sentirlo parlare e vedere quanto
fosse
cresciuto. Ed ora era lì, a
pochi metri da lui dopo che per quasi sette anni erano stati divisi
da centinaia di miglia di distanza.
Ignorando che in quella stanza ci fosse il suo vero padre e
in fondo era normale e giusto
così, non lo conosceva dopo tutto. “Come potremmo
trovare un
accordo, con idee di partenza così distanti?” -
disse infine, per
rispondere a Falmouth.
“Si
potrebbe cercare una buona via di mezzo che unisca il meglio delle
vostre idee con le nostre” - disse Basset, cercando un punto
di
contatto che Ross non era disposto a trovare.
Lord
Falmouth si voltò verso i bambini. “Demian, tirati
su dal
pavimento, smettila di rotolarti!” - intimò al
piccolo che se ne
stava steso sulla moquette.
“Sono
comodo!” - rispose il bimbo, mentre i lunghi capelli biondi
ormai
spettinati gli coprivano gli occhi.
“Composto,
Demian! Non si sta stesi in terra, non durante una riunione di
lavoro”.
“Ma
mica sto lavorando! Tu stai lavorando!”.
Ross
osservò la scena. Il piccoletto concepito
in Scozia aveva
una notevole lingua lunga e una enorme scorta di sfacciataggine.
Falmouth,
pur non alzando il tono di voce, sembrò indispettirsi.
“Se vuoi
stare comodo, mettiti sul sofà. Non in terra! Oggi mi hai
già
rovinato coi pastelli un dipinto di
mia nonna,
vuoi che aggiunga anche questo alla lista di cose da raccontare a tua
madre stasera, quando viene a prenderti?”.
Il
bimbo sbuffò, poi si arrese e andò borbottando
sul sofà, mentre
Basset se la rideva della grossa. E anche Jeremy.
Lord
Falmouth si voltò verso di lui. “Torniamo a noi.
Jeremy, vuoi
aiutarmi a spiegare al signor Poldark come stanno le cose?”.
Ross
sussultò, preso alla sprovvista. Falmouth
che voleva fare?
“Io non credo...”.
Falmouth
sorrise amabilmente. “I bambini a volte sanno spiegare meglio
di
noi adulti l'ovvietà della vita che ci circonda. Jeremy,
tesoro,
andresti a prendermi il libro di storia del diritto dallo
scaffale”.
“Certo
zio”. Il bimbo andò alla libreria, prese un tono
dalla copertina
azzurra e poi tornò da loro, poggiandolo sul tavolo.
“Eccolo”.
Falmouth
gli sorrise, accarezzandogli i capelli. “Jeremy, chi
è più bravo
ad amministrare il potere? Spiegalo, al signor Poldark”.
“Chi
lo ha sempre avuto, zio”.
“E
i poveri?”.
“I
poveri non hanno mai avuto potere e non hanno mai comandato. Non
saperebbero gestire nessun potere, vanno guidati da chi ne sa
più di
loro”.
Ross,
a quelle parole, sentì le viscere rivoltarsi nel suo ventre.
Fece
per replicare, ma che poteva dire? Cosa poteva dire a suo figlio, a
cui avevano messo in testa idee totalmente diverse dalle sue? Il suo
bambino... che parlava del potere intoccabile della nobiltà.
Lo
aveva abbandonato e altri lo avevano cresciuto al suo posto e questi
erano i dolorosi risultati... Ma perché Demelza lasciava che
Jeremy
acquisisse quei valori tanto diversi da quelli che, a Nampara,
avevano sempre guidato la loro famiglia? Era davvero cambiata tanto?
Falmouth
proseguì. “Quindi, Jeremy, cosa possiamo fare di
buono per le
persone povere?”.
“Guidarli
e fare leggi giuste”. Sorrise, soddisfatto nel vedere
Falmouth
compiaciuto. Poi però, dopo due secondi, tornò ad
essere solo un
bambino. “Zio?”.
“Sì?”.
“Io
e Demian possiamo andare da Mary a fare merenda?”.
“Certo,
portami via dalla vista quel piccolo demonio di tuo fratello”.
Demian,
dal sofà, ridacchiò. “Mary non
c'è!”.
“Dov'è?”
- chiese Falmouth.
“Stava
nella biblioteca grande. Mi ero nascosto per giocare a nascondino e
lei era lì e si sbaciucchiava tutta con il tuo
maggiordomo”.
A
quelle parole, i tre uomini spalancarono gli occhi, al colmo della
sorpresa.
Falmouth
guardò Jeremy. “E' vero?”.
“Sì”.
E
Basset scoppiò a ridere. “E' un classico! Tata dei
bambini e
maggiordomo...”.
Falmouth
divenne nuovamente rosso in viso e ancora una volta...
“SYLVIE!!!”.
La
cameriera fu di nuovo lì, in un attimo. “Ditemi,
signore!”.
“Porta
i bambini a fare merenda e poi mandali in giardino a giocare! E poi
va in biblioteca, fa uscire CHIUNQUE vi si trovi e apri le finestre
per arieggiare la stanza!”.
“Certo
signore!”.
Jeremy
ridacchiò, poi si avvicinò allo zio con fare
affabile. “Senti...
Posso chiederti una cosa?”.
“Dimmi”
- rispose Falmouth, sfinito da quella giornata casalinga per nulla
rilassante.
“Dopo
viene Gustav! Posso andare con lui al parco a giocare?”.
“Certo!”.
Jeremy
sorrise. “Ai giardini di Vauxhall?”.
Falmouth
lo guardò, cambiando espressione. “No! Se vuoi
andare al parco,
vai a Kensington, qui dietro casa. Vauxhall non è posto per
bambini,
non puoi andarci non accompagnato e tua madre, se ti dessi il
permesso, questa sera mi metterebbe sulla graticola”.
Jeremy,
buono e ubbidiente fino a quel momento, picchiò i piedi,
pronto a
fare un capriccio. “Ma zio, Kensington è un posto
per poppanti!
Come Demian! E poi sarei accompagnato!”.
“Da
chi?” - chiese Falmouth.
Jeremy
annuì, come rispondendo a qualcosa di ovvio. “Da
Gustav! E' il mio
migliore amico, chi meglio di lui può curarmi con taaanto
amore? E
io curerei lui!”.
Falmouth
sbuffò. “Gustav ha la tua età,
è il bambino più imbranato di
Londra e dubito sia responsabile”.
“Ma
zio... Gustav è il mio migliore amico! E' come il fratello
che non
ho mai avuto!” - rispose Jeremy.
A
quelle parole, il piccolo Demian si avvicinò alla scrivania,
appoggiandocisi con la faccia dopo essersi messo in punta di piedi.
“E io?” - chiese, guardando il fratello.
Anche
Basset e Falmouth guardarono Jeremy. “Esatto, e
lui?”.
Jeremy
li guardò male, come se non capissero una cosa che per lui
era
ovvia. “Ma vedete, Gustav era il mio quasi fratello da prima
che
nascesse Demian. Non è giusto privarlo del suo titolo di
quasi-fratello solo perché mi è nato un
fratellino!”.
A
quelle parole, Basset scoppiò a ridere. “Jeremy,
tu da grande
potresti diventare un avvocato bravissimo! Mi hai quasi convinto,
sai?”.
Falmouth,
meno divertito, guardò Jeremy con aria severa.
“Niente Vauxhall,
va con Demian a fare merenda e poi all'arrivo di Gustav, al massimo
andate a Kensington! Fine del discorso!”.
Jeremy
sospirò, sconfitto. E con Demian e Sylvie uscì
dalla stanza,
borbottando, lasciando però Ross piacevolmente affascinato
da quel
bambino furbo, sveglio e sicuramente più bravo di lui a
portare
avanti i suoi desideri. Aveva un'intelligenza vivace, un vocabolario
ricco e dimostrava una notevole faccia tosta. Certo, era contento che
non l'avesse avuta vinta perché nemmeno a Ross piaceva
l'ambiente
dei giardini di Vauxhall, ma Jeremy aveva portato avanti talmente
bene le sue motivazioni che forse si sarebbe meritato di andarci,
accompagnato da un adulto...
Quando
la porta si chiuse, nelle sue ossa tornò il gelo. Avrebbe
voluto
avere ancora lì il suo bambino, parlare con lui e portarlo a
casa
con se per conoscerlo meglio.
Ma
non poteva. E in pochi minuti tornò nel mare di noia da cui
Jeremy
lo aveva salvato. Era ora della politica e dei doveri ma nel suo
cuore ringraziò Dio per avergli fatto vedere e conoscere
meglio suo
figlio.
...
Erano
passate due ore, da quell'incontro, due ore condite da discussioni
infinite e senza sbocchi, da proposte e controproposte e da un mutuo
scambio di battute che alla fine aveva portato i tre uomini a
conoscersi meglio e a far sentire Ross un pò meno estraneo
in quel
rapporto di amicizia fra Basset e Falmouth.
Passate
le cinque, Falmouth li accompagnò nel corridoio per
scortarli fino
all'uscita e Ross si preparò a lasciare la grande dimora dei
Boscawen senza aver incrociato Demelza per l'ennesima volta ma
comunque felice di aver visto Jeremy.
Non
credeva che l'avrebbe incontrato di nuovo e grande fu la sua sorpresa
quando, sotto il grande portico che portava ai giardini, lo vide
venire con Demian verso di loro. E non erano soli ma c'erano anche le
due sorelle tornate evidentemente dalla loro festa, Clowance vestita
con un elegante vestitino rosa che trascinava un carretto di legno
pieno di orsacchiotti e bambole e Daisy, vestita con un abitino
azzurro e con un nastro bianco fra i capelli.
Ross
non riuscì a trattenere un sorriso, erano dolorosamente
belli e
uniti tutti e quattro insieme e Demelza aveva messo al mondo quattro
capolavori. Demelza... Se le bimbe erano lì, forse c'era
anche
lei... Il suo cuore accelerò.
Guardando
meglio per scorgerla, senza successo, si accorse che il piccolo
Demian era completamento bagnato, con capelli e vestitino alla
marinara fradicio.
Falmouth
sospirò e Basset rise, di nuovo, avvicinandosi ai bambini.
"Demian,
che ci fai così, bagnato come un pulcino?".
"Ho
fatto il bagnetto nella fontana! C'avevo caldo!".
Falmouth
scosse la testa, inchinandosi a strizzare la camiciola del bambino.
"Demian, ma perché fai così? Vedi di metterti al
sole ad
ascigarti o vai a casa a prendere abiti puliti e asciutti".
"E'
poco furbo esserti bagnato così! Tua madre ti
metterà in castigo e
domenica prossima non potrai andare con lei e i tuoi fratelli alla
gara di trotto all'ippodromo".
A
quelle parole, Clowance guardò storto il fratellino. "Lord
Basset, se Demian voleva nascere furbo, nasceva femmina! E
invece...".
Ross
spalancò gli occhi, colpito da quella frecciatina diretta,
elegante
e decisamente poco velata fatta in quei termini così decisi
dalla
piccola, perfetta Clowance. Santo cielo, sua figlia... Che parlava a
quel modo... Deglutì pensando davvero che Clowance, ancora
una
volta, riusciva a fargli paura.
Basset
invece rise. "Sentito tua sorella?".
Demian
scosse la testa. "Mamma è contenta se faccio il bagno!".
"Non
nella fontana!" - ribatté Jeremy.
Stanca
di quella conversazione, la piccola Daisy si arrampicò nel
carrettino dove Clowance teneva le bambole e i pupazzi, buttandoli a
terra per farsi posto.
"DAISY!!!"
- la rimbrottò Clowance.
La
piccola peste dondolò le gambette. "Portami in giro!".
"No,
scendi!".
Falmouth
fece per intervenire ma Jeremy fu più veloce di lui e, da
bravo
fratello maggiore, si chinò a raccogliere le bambole e a
rimetterle
nel carrettino, prendendo in braccio poi Daisy che si
avvinghiò a
lui tutta soddisfatta. "Dai, ti porto io!" - sussurrò alla
sorellina.
Daisy
annuì, stringendosi a lui. "Sì!".
Basset
accarezzò i capelli della bimba. "Ti piace stare in braccio
a
Jeremy?".
"Sì,
è mio fratello grande".
Falmouth
mise a terra Demian, sorridendo a Jeremy. "Vuole essere presa
solo da lui, è il suo eroe!".
E
Ross guardò suo figlio sentendosi estraneo in quel quadretto
famigliare ma anche estremamente orgoglioso per il bambino assennato
e responsabile che era diventato.
Demian,
di soppiatto, si avvicinò a Clowance. "Mi prendi in
braccio?".
"Neanche
morta!".
Gli
occhi di Demian divennero lucidi. "E allora voglio la mamma!".
Ross
lo guardò, lo avrebbe ringraziato in quel momento per averla
citata... Forse avrebbe potuto scoprire dov'era, forse l'avrebbero
chiamata.
Ma
Clowance spense le sue speranze. "Mamma ci ha portate a casa e
poi è uscita, aveva lezione di tiro con l'arco! Torna per
cena e tu
sei un frignone e un mammone! Femminuccia!".
Demian
scoppiò a piangere e Ross guardò Clowance,
accigliato e contrariato
per quell'atteggiamento forse infantile ma comunque molto duro verso
il fratellino. Non la conosceva, non conosceva i rapporti fra i
bambini ma da quel poco che aveva visto, Demian era estremamente
attaccato a Demelza e probabilmente era il figlio più
coccolato e
che più godeva del contatto con lei mentre Clowance,
inquietantemente simile a lui e ai Poldark per orgoglio e
testardaggine, era più riservata e più incapace a
manifestare i
suoi sentimenti o un bisogno di affetto. Questo le rendeva
più
difficile, rispetto a Demian, lasciarsi andare a momenti esclusivi
con sua madre e quindi era gelosa del fratellino che invece le si
avvicinava senza problemi... Se aveva capito un pò Clowance,
forse
aveva compreso anche cosa c'era dietro quell'apparente astio verso il
piccolo Demian. Gli si spezzò il cuore perché sua
figlia stava
facendo i medesimi errori che avevano portato lui a perdere chi
amava.
Falmouth
sospirò, rimproverò Clowance per l'atteggiamento
e poi riprese
Demian in braccio. "Sù, sei un ometto, basta piangere"
–
sussurrò al piccolo che frignava aggrappato a lui, intimando
agli
altri tre di andare e proseguire coi loro giochi.
Ross
scosse la testa, pensando ironicamente che chiedere a un bambino che
assomigliava a un bambolotto e vestito come un idiota, di essere
più
uomo, era davvero troppo. Demian era un bambino bellissimo e con quei
capelli biondi lunghi e quei vestiti sarebbe stato trovato
irresistibile da qualsiasi donna ma agli occhi di un uomo, di
QUALSIASI uomo di classe sociale differente dai Boscawen, sarebbe
apparso ridicolo. Perché Demelza vestiva il suo bambino
così?
Beh,
non aveva importanza! Demelza non era in casa quel pomeriggio e il
fatto che prendesse lezioni di tiro con l'arco lo lasciava perplesso
e gliela faceva sentire ancora più sconosciuta ma ora sapeva
dove
trovarla: la domenica successiva avrebbe preso parte alla gara di
trotto all'ippodromo e lui vi si sarebbe recato. Ora non aveva
più
scampo, ora sapeva dove incontrarla!
Jeremy,
Clowance e Daisy fecero per correre via ma Falmouth li
bloccò.
"BAMBINI!".
"Sì?".
"Salutate
Lord Basset e il signor Poldark!".
I
tre piccoli annuirono. "Buon pomeriggio Lord Basset, buon
pomeriggio signor Poldark!".
E
poi corsero via.
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Capitolo 34 *** Capitolo trentaquattro ***
Era
una domenica di inizio estate bellissima, quella della gara di
trotto.
Ross
aveva affidato il piccolo Valentine ai Gimlet, pagando ai tre un
biglietto per andare a vedere lo zoo cittadino, adducendo degli
importanti impegni che lo avrebbero tenuto occupato tutto il giorno.
Gli
spiaceva mentire, si sentiva un farabutto e un ladro ma per fare
ciò
che si era prefissato, doveva essere da solo. Valentine lo avrebbe
voluto con lui, la domenica era il giorno in cui passavano
più tempo
insieme e ci era rimasto male per il fatto che non fosse andato allo
zoo con lui, ma Ross sapeva di non poter fare altrimenti.
Odiava
quel modo di agire nell'ombra, i sotterfugi... Odiava anche aver
pianificato quel piano per vedere Demelza, a sua insaputa, odiava la
fastidiosa sensazione che gli pareva sussurrare che la stava
pedinando e che stava facendo qualcosa di assolutamente scorretto.
Non
lo avrebbe fatto mai più ma quella dannata gara di trotto
era
l'unico appiglio che aveva per vederla. Non poteva chiedere di lei ai
Boscawen, non poteva esporsi con Lord Basset più di quanto
non
avesse fatto a quel lussuoso matrimonio e non poteva appostarsi sotto
casa sua ad aspettare che uscisse, rischiando di spaventare lei e i
bambini. Sempre che le guardie non lo avessero cacciato prima di
allora...
Demelza
avrebbe preso parte come spettatrice a quella manifestazione e lui
doveva trovarla e affrontarla, tutto quì. Non aveva nemmeno
idea di
cosa gli avrebbe detto, era arrivato a quel giorno spinto da frenesia
e agitazione, senza un piano ben preciso o un discorso preparato. Era
solo il suo istinto a guidarlo...
Doveva
trovarla e sperare che fosse sola. Non era il caso che ci fossero i
bambini con lei, decisamente no! E nemmeno quel damerino di suo
marito... Sola, la voleva sola!
Si
aggirò nel parco, gremito di gente. Ovunque c'erano nobili,
ricchi
uomini d'affari, donne eleganti che sventolavano i loro ventagli,
bambinaie che correvano dietro a una moltitudine di graziosi ed
elgantissimi bambini e venditori di cavalli in compagnia di
purosangue di rara bellezza, pronti per essere acquistati dal
migliore offerente.
Vicino
all'ingresso del parco c'erano degli stands di legno che vendevano
cibo e bevande e vi era un andirivieni di persone che vi si servivano
per ristorarsi e abbeverarsi, sperando di sconfiggere la forte calura
che faceva sudare ad ogni passo.
Beh,
a Ross non importava né del cibo né dei cavalli.
Forse in un altro
momento sarebbe stato diverso, si sarebbe messo vicino alla
staccionata che delimitava il percorso per la gara di trotto e di
galoppo, avrebbe contrattato per acquistare un nuovo purosangue,
avrebbe conversato con altri suoi pari, ma ora...
Camminò
nel parco, sotto le piante del boschetto o nell'erba che lo
delimitava e poi si avvicinò di nuovo alla staccionata del
circuito,
dove tanti uomini e donne erano assiepati per vedere la gara di
cavalli.
Ross
vi camminò vicino, percorrendone l'intera lunghezza e
cercandola con
lo sguardo. E finalmente la vide... Il suo cuore accelerò e
si sentì
emozionato come un ragazzino al primo appuntamento. Era così
meravigliosa, perfetta... Ed era strano pensare che fosse la stessa
donna che aveva vissuto e condiviso con lui la sua vita da moglie e
madre a Nampara, cercando di sopravvivere a stenti, sventure e
privazioni. Era dolorosamente cambiata adesso, troppo bella per non
essere ammirata e troppo diversa per non rimpiangere ciò che
era e
che lui si era lasciato sfuggire. Vestita con un elegante e smanicato
abito azzurro dalle maniche a sbuffo, Demelza osservava i cavalli che
le sfilavano davanti. I suoi lunghi capelli pieni di boccoli erano
stati lisciati e una mezza coda di cavallo li teneva a bada. Era
bellissima come l'aveva vista al matrimonio, anche se leggermente
più
informale. Fece per avvicinarsi, anche se di fatto c'era molta gente
attorno a loro e sarebbe stato meglio un posto appartato, quando si
accorse che non era sola. Accanto a lei vi era un uomo alto, snello,
elegante, dai capelli chiari e dallo sguardo vacuo. Suo marito?
Ross
sulle prime tremò, sentì la rabbia invaderlo e
cercò di mettere a
fuoco la figura, finché si accorse che quell'uomo lo aveva
già
visto, non era il marito di Demelza di certo e non gli era piaciuto
per niente. Passeggiando con Basset alcune settimane prima ai
giardini di Vauxhall, un tardo pomeriggio lo avevano incrociato
circondato da donnine scollate e compiacenti, di dubbia
moralità.
Monk Adderly, ecco, questo era il suo nome, un membro del Parlamento
e dell'aristocrazia londinese che preferiva i tavoli da gioco e i
giardini di Vauxhall con le loro attrattive, alle questioni sociali
affrontate a Westminster. Gli era parso un uomo viscido, sfuggente e
vagamente strafottente, una di quelle persone che, quando la
incontri, ti lascia addosso una cattiva sensazione. Nemmeno a Basset
piaceva, segno che in quell'uomo dagli apparenti bei modi affabili,
c'era davvero qualcosa che irritava chi lo incontrava. Non era il
marito di Demelza ma lei sembrava consocerlo bene, parlavano insieme,
ridevano e sua... moglie... pareva perfettamente a suo agio in sua
compagnia. Certo, era probabilissimo che si conoscessero, Adderly
frequentava spesso i salotti più importanti della capitale
ma il
fatto che Demelza desse confidenza a un uomo apparentemente
così
viscido e che a lui non piaceva, lo irritava. Lui la guardava con
bramosia, Ross sapeva riconoscere in un uomo il volto della lussuria
e di tanto in tanto tentava di sfiorarle la schiena per avvicinarla a
lui anche se, a onor del vero, Demelza sembrava piuttosto agile a
ristabilire subito le distanze.
Ross
scosse la testa, era sfortunato! Se quell'idiota di Adderly non se ne
andava, gli sarebbe stato impossibile andare da lei.
Si
appoggiò al tronco di un grosso albero che lo celava alla
folla e
rimase ad osservare. E Adderly rimase accanto a Demelza, continuando
a parlare, per tutto il tempo della gara. Lei gli dava retta,
sembrava piacevolmente assorta dalla sua compagnia anche se Ross
vedeva nel suo comportamento una sorta di sopportazione concessa per
dovere e celata dalle buone maniere che stava adoperando con lui.
La
gara finì con un frastuono di applausi e a quel punto due
donne si
avvicinarono ad Adderly che, con un inchino, in loro compagnia, si
allontanò da Demelza. Lei lo saluto, la vide sospirare forse
sollevata dal fatto che fosse sparito e poi si mise a parlare con un
venditore di cavalli che, dopo la gara, si era avvicinato agli
spettatori con le sue bestie.
Ross
sospirò. Dannazione, voleva che si allontanasse e che si
mettesse in
un ambiente più riservato ma Demelza pareva intenzionata a
non
muoversi da lì. Si avvicinò di alcuni passi
però, per esserle
quanto più possibile vicino, senza essere visto.
La
lieve brezza estiva gli portò alle narici un soffio del suo
profumo.
Sapeva di albicocca ed era piacevole da respirare.
"Signora!!!".
Improvvisamente,
una voce fece sussultare Ross che si voltò, trovandosi
davanti
un'altra persona del suo passato, persa anni prima a causa dei suoi
errori.
Circondata
dai bambini di Demelza e da quello che sembrava un amichetto di
Jeremy, Gustav probabilmente, la serva si avvicinò alla sua
padrona.
Era cambiata anche lei, dopo tutto... I suoi capelli perennemente in
disordine erano chiusi in uno chignon tenuto a bada da una cuffia,
aveva abiti puliti da tata e anche la sua persona sembrava
più
votata alla pulizia di quanto non fosse stata in passato. E i
bambini... Tutti bellissimi e allegri, chiassosi come li aveva sempre
visti e vestiti allo stesso modo, con abiti alla marinaretta che
parevano andare molto di moda a Londra. Gli pareva tanto strano che
Demelza seguisse i dettami della moda e che agghindasse così
i suoi
figli ma di fatto era entrata in un mondo con norme molto rigide che,
anche se non gradiva, doveva aveva imparato a seguire.
"Mamma!"
- chiamò Jeremy, correndo vicino a Demelza.
Lei
gli sorrise, stringendolo a se in un abbraccio. Gli accarezzò
i capelli mentre i gemelli si arrampicavano sulla staccionata per
vedere meglio i cavalli e Clowance vi si appoggiava,
pensierosa e perfetta, come sempre.
“Allora
Jeremy, che cavallo vuoi? Questo
signore me ne ha fatti vedere alcuni davvero belli”.
Il
venditore sorrise al bambino, mostrandogli un purosangue dal mantello
rosso. “E' un dono importante, piccolo Lord! Scegli bene! E'
il tuo
compleanno?”.
Demelza
intervenne. “No, è un regalo perché
è stato bravissimo negli
studi, quest'anno! Ed è ora che abbia un cavallo tutto per
lui”.
L'uomo
annuì a Jeremy. “Bravo bambino, te lo meriti
allora! Questo qui va
veloce come un fulmine” - gli suggerì,
mostrandogli la bestia che
teneva per le redini. “Costoso, ma un costo che vale appieno
il suo
gran valore, Lady Boscawen”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo, come divertita dal modo di condurre
gli
affari di quell'uomo e Ross, da quella reazione, capì che il
denaro
non era davvero più un suo problema. Osservò
allora Jeremy, il suo
Jeremy che aveva ormai nove anni, era vestito alla marinaretta come
un piccolo Lord e ormai, visto il genere di regalo, doveva aver
imparato a galoppare. E allora cercò di non pensarci,
cercando di
concentrarsi su quella che sarebbe stata la sua scelta, per vedere se
aveva occhio.
Jeremy
osservò il purosangue costoso, ma poi camminò di
alcuni passi lungo
la staccionata ad osservare gli altri cavalli, fermandosi davanti a
un meraviglioso esemplare bianco. “Voglio questo!”.
“E'
bianco come Queen!” - esclamò Clowance, correndo
ad abbraccialo. Rideva, era la prima volta che la vedeva contenta e
sembrava legatissima al fratello.
Jeremy
rise. “E' bianco come il cavallo di papà, non
come Queen!
Voglio questo, mamma!”.
Bianco
come il cavallo di papà... Sentirgli dire quelle parole, fu
come una
frustata al cuore di Ross... Eccolo quell'uomo che ancora sfuggiva
alla sua vista, eccolo che diventava reale attraverso
le parole di Jeremy,
mostrandogli crudelmente
che aveva
preso il suo posto nel cuore di chi lui amava.
Demelza
non lo contraddisse. “E sia, se sei convinto!”.
“Convinto!”.
Il
venditore sorrise. “Ottima scelta, piccolo Lord! Vuoi
salirci?”.
“Sìììì!Gustav,
faccio un giro e poi torno subito e torniamo a giocare nel
bosco!”.
Il
venditore rise, soddisfatto. Poi si rivolse all'amichetto biondo di
Jeremy, Gustav. “E tu, piccolo Lord? Tu non meriti un regalo
per la
tua bravura negli studi?”.
Gustav
scosse la testa, sospirando. “I miei genitori mi hanno
già
regalato un maestro di latino quest'anno e quindi preferisco non
rischiare di chiedere altri regali...”.
Jeremy
rise, imitato da Gustav, poi scavalcò la palizzata, correndo
dal
cavallo scelto. Era stata una buona scelta, un ottimo animale
pensò
Ross, ma che avesse scelto quel colore perché era il colore
del
cavallo di suo padre... Santo cielo, non poteva accettarlo!
Quell'uomo non era suo padre! LUI lo era e Demelza avrebbe dovuto
ricordarglielo!
Lo
osservò e lo vide salire agilmente sul cavallo e si rese
conto che
sapeva farlo. E quando il bambino partì al galoppo, incitato
da
Demelza a stare attento, cavalcò velocemente lungo il
circuito,
saltando senza problemi gli ostacoli sul suo cammino. Era bravo,
aveva imparato a cavalcare senza sbavature e senza paura. Senza di
lui...
Demelza
si concentrò sul venditore di cavalli provvedendo al
pagamento e i
bambini iniziarono a fare baccano. Clowance le si avvicinò,
chiedendole se poteva tornare a giocare con le sue amiche e poi, dopo
aver ottenuto il permesso, corse via mentre il vento faceva muovere
armoniosamente la gonnellina blu del suo abito alla marinara che la
faceva somigliare ancora una volta a una perfetta bambolina.
Gustav
la richiamò. “Vuoi che venga con te?”.
“No!”.
“Ma
io voglio aiutarti a giocare!” - insistette Gustav.
“Non
ne ho bisogno, so giocare con le mie amiche da sola!” -
ribatté
Clowance. “E poi tu continui a venirmi dietro
perché dici che da
grande mi vuoi sposare e io non voglio che lo dici quando ci sono le
mie amiche!”.
Ross
sentì i capelli rizzarsi in piedi. Sposarsi??? Sarebbero
passati
secoli prima che Clowance... la sua piccola Clowance... Non voleva
nemmeno pensarci al fatto che già sua figlia affrontasse
situazioni
del genere, anche se per gioco!
“Va
bene, non lo dico più! Ma mi sposerai?” - chiese
Gustav, mentre
Ross lo guardava scuotendo la testa... Santo cielo, non aveva la
benché minima possibilità di farcela... Se tutti
i pretendenti di
Clowance erano così, lui avrebbe dormito fra due guanciali!
Lei
Gustav lo avrebbe schiacciato, ci riusciva già ora che aveva
solo
sei anni, tre in meno di lui.
Clowance
gli si avvicinò, dandogli una leggera spinta. “Va
in Cornovaglia,
come re Artù! Trova una spada nella roccia, estraila,
diventa re
d'Inghilterra e poi torna da me! E ci penserò...”.
Santo
cielo benedetto... Ross spalancò gli occhi, sinceramente
ammirato ma
ancora una volta intimorito dal caratterino di Clowance, Gustav
annuì
come se quanto chiesto fosse la cosa più facile del mondo e
Demelza
richiamò all'ordine la bambina, mandandola a giocare.
Demian
guardò il ragazzino. “Cambia fidanzata!”
- gli suggerì. E Ross
si trovò decisamente d'accordo con lui.
Gustav
sospirò, si avvicinò a Demian e lo prese per
mano. “Torniamo a
giocare da soli, allora? Dopo viene anche Jeremy, lo aspettiamo sotto
le piante!”.
Demelza
accarezzò i capelli biondissimi del gemellino, gli
sussurrò
nell'orecchio qualcosa e dopo avergli dato un bacio, lo
lasciò
andare con Gustav.
Rimase
solo Prudie, con l'altra gemella, la pestifera Daisy. Ross
osservò
la scena, rendendosi conto che la bambina era scalza nell'esatto
istante in cui se ne accorsero anche Demelza e Prudie.
“Dove
sono le scarpe?” - le chiese sua moglie, in tono dolce.
La
piccola alzò le spalle e Demelza, con un sospiro, la
affidò a
Prudie. “Pensaci tu, ti aspetto alle sei all'uscita, con
tutti i
bambini. Vado a rinfrescarmi alla fontanella vicino alle stalle e a
trovarmi un posto fresco dove sedermi, fa caldissimo. Cerca di essere
puntuale a recuperare tutti i bambini, devo riportare Gustav a casa
per l'ora di cena”.
“Certo
signora!”. Prudie, la cara Prudie che se l'era filata con
Demelza
sette anni prima e con cui avrebbe volentieri fatto due chiacchiere
appena ne avesse avuto occasione, prese per mano Daisy, guardandola
storto. “Dove sono le tue scarpe?” - le chiese, a
una decina di
metri da lui, senza che lo notasse, mentre procedeva verso il parco
dove giocavano gli altri bambini.
Daisy
alzò le spalle. “Non lo so, non lo ricordo! Avevo
caldo...”.
Prudie
ringhiò. “Non si gettano via le scarpe, anche se
si ha caldo!”.
La
piccola alzò lo sguardo a fronteggiarla. “Non le
ho buttate via, è
arrivato un ladro e le ha rubate! I ladri rubano, lo sai?”.
Prudie
si inginocchiò, lanciando fiamme con il suo sguardo.
“E' una
bugia!”.
“No!”.
“Sì
invece!”.
“Invece
no!” - rispose la piccola, non arretrando di nessun passo e
sostenendo lo sguardo di Prudie anche davanti a quella bugia che
portava avanti con tanta faccia tosta e senza il minimo
tentennamento. Ross si accigliò, la mocciosetta aveva un
certo
invidiabile stile e se avesse affinato la tecnica, da grande avrebbe
potuto fregare chiunque con quel faccino da angelo che si ritrovava.
Prudie,
che doveva conoscerla bene, la prese per mano strattonandosela e
trascinandosela dietro. “Andiamo a cercare le tue
scarpe”.
“Non
so dove sono”.
“Cercheremo
in tutti i posti dove sei stata”.
“Ma
sono stata in tanti posti!” - si lamentò la
piccola. “Non li
ricordo!”.
“Non
mi interessa!” - ribatté Prudie.
“Ma
ho camminato tanto!”.
“E
camminerai altrettanto, adesso! Concentrati e pensa a dove sei
stata”.
“Non
so cosa vuol dire”.
“Se
sai cosa vuol dire la parola 'ladro', sai anche che vuol dire
'concentrazione'! Coraggio bestiolina, inizia a pensare e a
camminare”.
Ross
si accigliò... Bestiolina? Si chiese cosa ne pensasse Lord
Falmouth
di quel nomignolo poco lusinghiero dato da Prudie alla sua piccola
principessina ed erede... Ma poi capì che non era il
momento.
Demelza si stava allontanando, era sola ed era diretta ad un posto
più riparato e isolato. Era il momento.
E
con quel pensiero, senza essere visto e nascosto dal flusso della
folla, la seguì. Esserle stato tanto vicino da poterla
osservare
senza essere visto, grazie alla gente che andava e veniva, era stata
una fortuna ma ora doveva uscire allo scoperto. Sentiva il cuore in
gola, le mani che gli sudavano e uno strano tremolio alle gambe e il
suo stato d'animo strideva così tanto con la calma che
ostentava
Demelza in quel momento, tranquilla e all'oscuro di tutto.
La
seguì di soppiatto, rendendosi conto che nonostante vivesse
una vita
agiata, aveva mantenuto il suo passo svelto. Demelza si
allontanò
dallo steccato, percorse un vialetto che portava ai chioschetti dove
in tanti si stavano abbeverando e poi percorse un altro viale che
sfilava dietro a una lunga fila di stalle affollate di cavalli,
venditori e compratori. Ross non la perse di vista un attimo e quando
la vide soprassare la zona delle stalle e fermarsi davanti a una
piccola fontanella più defilata, posta all'inizio di un
boschetto
dove non c'era praticamente nessuno eccetto alcuni bambini che
giocavano in lontananza, decise che era arrivato il momento...
Non
aveva idea di cosa le avrebbe detto e onestamente non sapeva nemmeno
cosa aspettarsi da lei. Demelza non sospettava minimamente della sua
presenza, non si vedevano da anni e sicuramente, vedendolo, sarebbe
stata sorpresa quanto lo era stato lui quando l'aveva vista in
Chiesa. Come avrebbe reagito era un mistero e anche questo faceva
male a Ross... Una volta erano un libro aperto l'uno per l'altra
mentre ora erano praticamente due estranei che si ritrovavano dopo
molto tempo, dolore e incomprensioni. E nessuno poteva prevedere le
reazioni dell'altro...
Demelza
si inginocchiò a bere dalla fontanella, sedendosi sul bordo
di
pietra della stessa. Il cinguettio degli uccelli doveva sembrarle
molto piacevole e rilassante in quel momento, nella penombra degli
alberi, dopo tutto il caldo patito durante la gara, tanto che non si
accorse del suo passo che si avvicinava.
E
quando lei allungò la mano per chiudere il rubinetto
dell'acqua,
Ross era dietro di lei e fece altrettanto, posando la mano sulla sua.
La
sentì sussultare e poi la vide voltarsi lentamente verso di
lui,
come intimorita. E per la prima volta da quasi sette anni i loro
sguardi furono di nuovo incatenati l'uno all'altra, gli occhi scuri
di lui in quelli azzurro-verde di lei.
"Demelza...".
Lei
non ebbe reazioni per alcuni istanti, sbatté le palpebre
come per
metterlo a fuoco, tremò e poi, senza dire nulla, si
alzò di scatto,
spezzando il contatto delle loro mani ancora unite.
Indietreggiò,
pallida come un cencio, fino ad arrivare con la schiena al tronco di
un albero. "Non... Non..." - balbettò.
Ross
per un attimo si trovò spiazzato. Credeva che la sua
reazione
sarebbe stata di rabbia, che avrebbe urlato, che avrebbe tirato fuori
quel suo proverbiale caratterino che spesso li aveva portati a delle
liti ma che la rendevano unica e affascinante ai suoi occhi e invece
sembrava... spaventata... Aveva paura di lui... E non poteva essere,
non poteva accettarlo! Capiva di averla presa di sorpresa, che
probabilmente lui era l'ultimo dei suoi pensieri e che non capiva
cosa ci facesse lì, ma che avesse paura... "Demelza...".
"NO!"
- rispose lei, bloccandolo. "Non sei quì, non sei tu e non
sei
reale... Ora starai zitto, chiuderò gli occhi e quando li
riaprirò,
tu sarai scomparso! Non sei vero, non puoi essere tu...".
Ross
deglutì. La voce di Demelza era metallica, impersonale e
tremante.
Era incredula, lo capiva, lui stesso aveva pensato di essere preda di
allucinazioni quando l'aveva vista per la prima volta. Era normale,
ora si sarebbe calmata e forse avrebbe potuto parlarle. "Sono
vero, reale. Quanto te in questo momento".
Tentò
di avvicinarsi per sfiorarle nuovamente lamano per calmarsi ma
Demelza si ritrasse bruscamente. "Non toccarmi!" - disse,
nello stesso modo in cui glielo aveva detto tanti anni prima, quando
il loro matrimonio stava per finire e non voleva in nessun modo la
sua vicinanza. "Vattene... Non sei vero, sei un sogno! Un
incubo! E' il sole, il caldo... Mi ha dato alla testa e tu non sei
reale! Sei lontano, a casa tua, in Cornovaglia...".
"Lasciami
spiegare!".
Demelza
scosse la testa, con gli occhi lucidi, come rendendosi pian piano
conto che era vero, che era lì. "Non voglio sentire niente,
né
perché sei quì, né come tu abbia fatto
a trovarti davanti a me in
questo momento. Torna da dove sei venuto e lasciami in pace...".
Non
era felice di vederlo, era palese che non volesse incontrarlo mai
più. Ed era normale vista la sua vita e quanto successo fra
loro ma
non poteva, non poteva davvero fare quello che lei gli stava
chiedendo. Non poteva andarsene! "Averti vista è stato un
caso... Lasciami spiegare, voglio solo parlarti!".
Demelza
lo guardò con sguardo perso, sfinito, come se
improvvisamente le
fosse crollato sulle spalle tutto il peso del mondo. Mai l'aveva
vista così da quando l'aveva trovata a Londra e gli spiaceva
farle
quest'effetto e turbare la sua serenità, ma essersi
ritrovati era la
cosa più improbabile del mondo e se il destino aveva
stabilito ciò,
lui doveva cogliere l'occasione che gli era stata data. Era
importante, per lui e per lei! Lo avrebbe capito anche Demelza appena
si fosse ripresa dallo shock.
"Ross...".
Disse quel nome che forse non pronunciava da tanto con un tono amaro
e sofferente. Pareva annientata. "Non devi spiegarmi niente, non
voglio sapere niente e non voglio parlare con te. Ora sparirai, come
spariscono i brutti sogni quando ci si sveglia da un incubo e
qualunque cosa tu faccia quì, andrai avanti a farla lontano
da me".
Fece
per allontanarsi, per scappare ma le corse dietro, prendendola per un
braccio. "Demelza, aspetta! Solo un attimo!". Doveva
parlarle, dirle come aveva saputo di lei, COSA aveva saputo, cosa
l'aveva guidato fino a quella fontanella e chiederle... Chiederle
mille cose che arrovellavano la sua mente! Non aveva diritto a
trattenerla, lo sapeva, ma non si sarebbe fatto scoraggiare.
"Demelza, ti prego! Solo un minuto!".
Lei
si voltò, le guance rigate di lacrime. E a quel punto le
lasciò il
polso, era troppo sconvolta.
"Ti
prego, Demelza...".
"Lasciami
andare... Sparisci, torna nel buio che ha avvolto il tuo ricordo in
questi sette anni... Non c'entri più nulla con me".
"Non
direi!" - rispose, rendendo palese una cosa che sapeva benissimo
anche lei. Non sarebbero bastati quei sette anni e quanto successo a
cancellare il legame che c'era stato fra loro e cosa aveva generato.
Restava l'uomo che aveva amato e sposato e il padre dei suoi due
figli più grandi. E Ross non voleva prendere in
considerazione
null'altro in quel momento, non l'uomo che aveva sposato adesso
né i
bambini che erano nati da quel matrimonio. Doveva parlarle, doveva
discutere con lei di tante cose! Capire cosa provasse, cosa le era
successo in tutto quel tempo, la natura del suo matrimonio, il
ricordo che ancora la legava a lui, se c'era... E Ross era sicuro che
ci fosse! "Demelza, sei sconvolta, lo ero anche io la prima
volta che ti ho vista alcune settimane fa, ma se ti sedessi un attimo
e ti calmassi, io...".
Demelza
si accigliò, a quelle parole. "La prima volta che mi hai
vista?
Settimane fa? Quando...?".
"Beh,
ecco, io...".
Lei
lo bloccò, impedendogli di proseguire in quel racconto.
"Lascia
stare, non mi importa e non voglio saperlo!".
"Demelza!".
La
donna scosse la testa, arretrando. "No! Non voglio sentire
niente! Non voglio sentire la tua voce, mai più!". Gli
voltò
le spalle, d'un tratto corse via allontanandosi e rendendo palese che
nulla l'avrebbe fermata.
Ross
fece alcuni passi per seguirla ma si rese conto che avrebbe solo
peggiorato le cose. Era sconvolta, arrabbiata, ferita... Capiva cosa
provasse, capiva quanto il peso di quei sette anni che lui aveva
sentito giorno per giorno sulle spalle ma che lei forse aveva
relegato in un angolo della sua mente mentre viveva la sua nuova
vita, dovessero pesare su di lei. Era un peso enorme da sostenere
tutto in una volta, all'improvviso.
Non
poteva fermarla, non poteva imporsi, non in quel momento! Lei non lo
avrebbe ascoltato, si sarebbe irrigidita ancora di più e
solo
qualche giorno di pace avrebbe potuto alleviare il suo animo.
Doveva
avere pazienza e in fondo sapeva dove viveva e come trovarla...
Avrebbe cercato un'altra occasione per rivederla e sicuramente
l'avrebbe trovata più agguerrita ma anche più
preparata. Ora lei
sapeva che lui era a Londra e Ross era anche piuttosto certo che nei
giorni a venire sarebbe stato al centro dei suoi pensieri!
...
La
sua mente era come una tavola bianca mentre la carrozza la riportava
a casa. Non era sicura di cosa provasse, se paura o rabbia. O se
fosse semplicemente sconvolta, tanto da non riuscire a formulare
pensieri coerenti. Si sentiva tremare e allo stesso tempo le pareva
di bruciare per la febbre...
Mai,
MAI avrebbe voluto rivedere Ross, mai avrebbe creduto di incontrarlo
di nuovo a Londra. Cosa ci faceva lì? Perché?
Aveva scoperto dove
viveva ed era venuto a cercarla per qualche motivo? O era stato solo
il caso, come aveva asserito vagamente lui? Quando l'aveva vista la
prima volta? Cosa sapeva di lei? C'era Elizabeth con lui? E i loro
figli? Si era trasferito e aveva lasciato la Cornovaglia per qualche
strano motivo?
Se
non fosse scappata, Ross forse avrebbe risposto a tutte queste
domande ma in quel momento si rese conto che non voleva alcuna
risposta da lui.
Voleva
solo l'oblio, quell'oblio inconsapevole che aveva alleviato il suo
dolore in quei sette anni, consentendole di ricominciare a vivere
un'esistenza nuova come una nuova Demelza rinata dalle ceneri.
E
invece Ross era comparso, riportando in vita quella donna lacerata,
ferita e disperata che era giunta nella capitale quasi sette anni
prima, riaprendo ferite che mai si erano chiuse del tutto ma che
erano state alleviate da un nuovo amore, da una nuova famiglia, da
due nuovi figli e dai tanti nuovi amici che aveva incontrato.
Perché
era tornato, PERCHE'???
Non
sapeva cosa volesse Ross, non sapeva nulla. E non voleva sapere
nulla, non voleva permettere a Demelza Poldark di riemergere dalle
tenebre, soppiantando la tranquillità di Lady Boscawen e dei
suoi
bambini.
Demian
le toccò il braccio mentre Prudie la guardava pensierosa e
preoccupata per quel suo mutismo. "Mamma, sei arrabbiata?".
Accarezzò
i capelli biondi del suo piccolo principe. "No amore, sono solo
stanca".
Clowance,
che giocava sul sedile opposto con Daisy ancora scalza e Jeremy
rimasto solo dopo aver lasciato Gustav a casa sua, rise. "E'
stanca perché Monk Adderly l'ha trovata e rapita e a mamma
non piace
ma deve essere gentile ed educata con lui!".
Demelza
le sorrise. "Certo...".
Demian
sospirò, rinfrancato. Poi le diede un bacio sulla guancia,
rannicchiandosi fra le sue braccia. Lui capiva sempre quando qualcosa
non andava in lei, era il più piccolo dei suoi figli ma era
anche
estremamente sensibile e ricettivo se la vedeva turbata.
Lo
coccolò, desiderosa di calmare il suo cuore in subbuglio e
di
trovare la pace nel calore dell'abbraccio del suo bellissimo bambino
biondo. Demian riusciva sempre a calmarla, sempre...
Quando
arrivarono a casa e scesero dalla carrozza, anche Jeremy corse ad
abbracciarla, come capendo che qualcosa non andava. "Mamma...".
"Cosa
c'è?".
"E'
per il cavallo che ho scelto? Costa troppo?".
Gli
sorrise, accarezzandogli i capelli e stringendolo a se. Jeremy, come
Demian, aveva un cuore d'oro e una sensibilità unica. Era
colui che
si sentiva responsabile dei fratellini e anche di lei, dopo la morte
di Hugh. Lo amava immensamente, era stato il suo compagno di dolore
sette anni prima, quando aveva vissuto l'inferno, e lei invece
avrebbe voluto che fosse solo felice e un bambino senza pensieri.
Eppure Ross prima e la morte di Hugh dopo, lo avevano caricato di
responsabilità che non gli spettavano. Lo
abbracciò più forte,
desiderosa di proteggerlo da tutto e TUTTI e di rassicurarlo. "Ho
solo mal di testa, faceva troppo caldo! Non preoccuparti, te lo
meriti il tuo cavallo e niente costerà mai troppo se serve a
renderti felice".
Jeremy
annuì e Prudie si avvicinò, dandogli un buffetto
sulla guancia. "In
casa, tutti e quattro. Non è il cavallo il problema, sono le
scarpe
di quella bestiolina di tua sorella! Non le ho trovate, signora!".
"Non
sono una bestiolina, sono una bambina senza scarpe perché me
le
hanno prese i ladri!" - rispose la gemellina, incrociando le
braccia, con cipiglio imbronciato.
Prudie
le diede una pacca leggera sulla testa. "Zitta, piccola
bestiolina bugiarda! E ora, tutti in casa! Con o senza scarpe!".
Demelza
le sorrise, osservando i bambini correre via più sereni e
chiassosi,
come al solito. "Non importa, gliele ricompreremo le scarpe. Ne
ha tante, dopo tutto...".
Prudie
la guardò, stupita che dicesse una cosa del genere. Non era
da
Demelza sperperare il denaro e soprattutto non insegnare ai bambini
la responsabilità di gestire le loro cose. "Ragazza, cosa
c'è?
Stai male?".
Demelza
scosse la testa con sguardo perso. "No...".
"C'è
qualcosa che non va, sei bianca come un cencio e a Prudie non puoi
non raccontarla giusta! Che succede? Hai la faccia di una che ha
visto un fantasma...".
Un
fantasma... Quale modo migliore per descrivere il suo incontro di
poche ore prima? "Hai ragione, ho visto un fantasma..." -
sussurrò, osservando il vuoto davanti a lei.
Prudie
spalancò gli occhi, prendendola letteralmente in parola.
Impallidì.
"Fantasma? Del signor Hugh?".
Demelza
scosse la testa. "No, non Hugh... Ross!".
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Capitolo 35 *** Capitolo trentacinque ***
Nella
sua vita londinese era stata tante cose: Una fata, una musa amata e
venerata, una Lady e anche, forse per la prima volta, una ragazzina
spensierata, quella che non aveva mai potuto essere dov'era nata.
Era
arrivata a Londra sei anni e mezzo prima con due bambini piccoli, un
cuore a pezzi, un amore perduto in modo crudele e tante incognite sul
futuro. Credeva che nulla di buono avesse in serbo per lei il
destino, ma poi era arrivato Hugh che aveva saputo guardare oltre le
convenzioni e le regole del suo ceto, le aveva dato amore, le aveva
accarezzato quel cuore che credeva ormai di pietra dandogli nuova
vita, un nuovo futuro, un nuovo ruolo e altri due meravigliosi figli.
C'erano
state risate in quegli anni, serenità, gioia e calore
famigliare con
cui poi aveva potuto affrontare il dolore vero di una morte ingiusta
per poi rialzarsi da donna nuova.
Lady
Boscawen, Lady Armitage... Così la chiamavano tutti, con una
strana
ammirazione nel tono di voce che forse non aveva mai compreso e che
la imbarazzava ancora, ma che aveva imparato a gestire con grazia ed
educazione, come richiedeva il suo ruolo.
E
poi di colpo tutto si era interrotto, bruscamente, in un caldo
pomeriggio ad una gara di trotto. Improvvisamente Lady Boscawen era
sparita, così, in un attimo, riportando in vita Demelza
Carne... O
peggio ancora, Demelza Poldark...
Ross,
il suo incubo, il suo dolore nascosto dell'anima e del cuore era
riapparso per qualche strano motivo davanti a lei, a Londra, a
centinaia di chilometri da casa sua... Avrebbe voluto fosse un
incubo, un brutto sogno...
Ma
era davvero lui che aveva toccato con quella sua mano calda le sue
dita, era davvero lui, nessun altro aveva quel tocco e quell'effetto
sulla sua pelle...
Era
scappata, spaventata e sconvolta, sotto shock, incapace di stare a
sentirlo parlare. E ora erano giorni che si chiedeva, passato il
trauma di averlo rivisto, cosa ci facesse lì, se la stesse
cercando,
se fosse stato un caso, se... se... se... Se vederlo fosse stato un
qualcosa di orribile o forse il realizzarsi di un sogno segreto che
aveva sempre cullato nel cuore, di nascosto pure da se stessa...
Mille
se e mille domande di affollavano nella sua testa e non sapeva se
voleva delle risposte oppure no perché non averle avrebbe
significato non incontrarlo più. Ma non si illudeva, se Ross
l'aveva
vista e aveva deciso che doveva parlarle, anche contro ogni logica e
ogni cambiamento intercorso in quegli anni, lui non si sarebbe arreso
finché non fosse arrivato a lei. Lo conosceva, lo conosceva
bene. Lo
conosceva ancora...
Cosa
voleva da lei? Voleva qualcosa? Cosa sapeva della sua vita, ormai
tanto diversa da quella della Demelza che gli aveva detto addio a
Trenwith? Dove l'aveva vista la prima volta?
Tante
domande si affollavano nella sua mente, su di lui. E su se stessa...
Mai aveva pensato all'eventualità di rivederlo e ora non
aveva idea
di cosa fare. Solo Prudie sapeva cosa provasse, Prudie che lo
conosceva, che le era sempre stata accanto e che aveva raccolto, nel
corso di quegli anni, tutti i suoi sfoghi. Come una madre...
Ma
gli altri? I Boscawen non sapevano nulla del suo passato e sembrava
non importare loro da dove venisse, Dwight non aveva mai affrontato
il discorso su Ross e ora si trovava fuori Londra, in campagna, con
Caroline e con la loro piccola Sophie, nata da un mese a colmare il
vuoto lasciato da Sarah e i bambini... No, i bambini non dovevano
sapere nulla!
Si
girò e rigirò nel letto, cercando la pace per
dormire qualche ora,
dopo una notte insonne a causa delle mille preoccupazioni di cui era
preda e del caldo torrido di quell'estate londinese. Stava
albeggiando e la grande casa dei Boscawen era avvolta nel silenzio.
Pensava... Pensava a quando c'era Hugh ed era la sua fata e anche a
com'era serena solo dieci giorni prima...
E
rimpiangeva quei momenti, quella leggerezza che l'aveva cullata a
lungo, spezzata come un fulmine a ciel sereno da quell'incontro. Era
Ross, era Ross ed era lui perché solo Ross Poldark aveva
l'effetto
di un terremoto quando entrava nella tua vita... Non sapeva cosa
provasse ormai per lui o se lo sapeva, aveva preferito per lungo
tempo non pensarci. Era perso, lei era persa e cambiata e qualsiasi
cosa il suo cuore potesse provare per lui, nel bene e nel male,
doveva essere cancellato. E lui doveva essere tenuto lontano!
Solo
così avrebbe potuto rimettere a tacere la sua anima... Era
Lady
Boscawen, aveva ogni mezzo per tenere lontana gente non gradita e
soprattutto era una madre. Avrebbe fatto ogni cosa per difendere la
serenità dei suoi cuccioli e non avrebbe MAI permesso a Ross
di
avvicinarsi a loro. Non aveva mai avuto a cuore i suoi figli, bambini
che per lui erano contati sempre poco più di nulla, bambini
che
aveva abbandonato o forse no, nemmeno quello... Si abbandona chi una
volta si è amato, ma Ross non aveva mai speso un momento dei
suoi
pensieri per amor loro, nemmeno prima di quella dannata notte in cui
l'aveva tradita...
Era
un eroe per tutti gli altri, avrebbe dato la vita per tutti, si
sarebbe sempre speso in grandi battaglie di giustizia per chi
amava... Solo lei e i bambini non avevano mai meritato, ai suoi
occhi, il suo tempo, le sue battaglie, le sue attenzioni e il suo
affetto...
Si
voltò nel letto, albeggiava, la finestra era socchiusa per
lasciar
entrare un pò d'aria e Demian dormiva con indosso solo le
mutandine,
a braccia spalancate e coi suoi meravigliosi capelli biondi sparsi
sul cuscino.
Eccolo
il volto dell'amore, un figlio nato dall'amore di un uomo... Un amore
vero, un amore di un padre emozionato ogni giorno della gravidanza,
un padre che avrebbe voluto assistere al parto, un padre che aveva
sistemato ogni cosa affinché i suoi figli, dopo la sua
morte,
potessero star bene...
Baciò
Demian sulla guancia, dolcemente, sperando di trovare in lui pace e
tranquillità.
In
quei giorni, per fortuna, la sua casa era tranquilla e poco affollata
e lei, fra quelle mura, poteva rifugiarsi e sentirsi più
libera di
vivere quel momento tanto particolare.
Lady
Alexandra e Lord Falmouth, come ogni estate, erano andati per alcune
settimane in un loro cottage fuori Londra, per un periodo di riposo,
visto che il Parlamento era chiuso per la pausa estiva. E come sempre
avevano chiesto di portar con loro Jeremy e Clowance per farli
svagare e divertire all'aperto, all'aria di campagna. Demelza li
aveva lasciati andare come sempre, per il loro bene e anche
perché,
con Ross a Londra, era meglio che se ne stessero lontani.
Lei
era rimasta, adducendo una scarsa voglia a partire con i gemelli,
ingestibili in un lungo viaggio, e la preferenza a rimanere a
vegliare sulla casa. Molta della servitù era stata mandata
in
vacanza e nella dimora c'era il minimo indipensabile di personale e
così, assieme a Prudie, era un pò come tornare ai
vecchi tempi in
cui, da sole, gestivano casa e bambini. Certo, c'era il maggiordomo,
c'erano le domestiche, le cuoche, i giardinieri. Ma tutto a rango
ridotto e tutto vissuto in maniera informale...
Era
la sua casa, quella. E ora anche il suo rifugio dorato dove
nascondersi, pensare, imparare di nuovo a diventare forte e decidere
cosa fare con assoluta tranquillità.
Improvvisamente
la porta si aprì e Daisy sgattoiolò dentro, con
la sua camicina da
notte gialla. Si era legata, non sapeva bene come, i capelli in una
coda di cavallo e ora era lì, cosa stranissima per lei.
La
sera prima era andata più volte a controllarla nella sua
camera
perché temeva a lasciarla sola, data l'assenza di Clowance,
ma la
bambina si era addormentata senza problemi e conoscendo quanto amasse
dormire per i fatti suoi, l'aveva lasciata lì.
Daisy
si avvicinò al letto, appoggiandoci sopra il visino.
"Mamma...
Sono sveglia".
"Lo
vedo! Vuoi venire quì con noi?" - rispose Demelza, facendosi
da
parte per lasciarle spazio in modo che potesse salire sul letto.
Daisy
sbuffò. "Con te e Demian?".
"Sì".
La
bimba scosse la testa. "Fa caldo, non voglio venire da voi! Mi
date fastidio!".
A
quella frase, Demelza ridacchiò, allungando la mano a
pizzicarle
leggermente la punta del nasino. Era straordinariamente sincera, fin
troppo... "Hai il carattere di un orso!".
"Cos'è?".
"Un
animale grande, grosso, feroce e che borbotta sempre!".
Daisy
rise. "Lo voglio!".
Anche
Demelza rise. "Ci basti tu!". Poi si alzò, aprì
ancora un
pò di più la finestra e infine le si
avvicinò, togliendole la
camicina da notte e lasciandola con indosso solo le mutandine, come
Demian. "Così va meglio?".
"Sì".
"E
allora su, vieni a letto con me" – sussurrò
dolcemente
Demelza mentre Garrick, nella sua cesta, si lamentava per quel
chiacchiericcio che lo disturbava nel suo sonno.
Daisy
ci pensò, guardandosi senza vestiti. "E'... è
dis...
dirindingevole...".
"Cosa?".
Daisy
salì sul letto, mettendosi a pancia in giù.
"Diring... Non lo
so, lo dice la nonna!".
"Disdicevole?"
- la aiutò Demelza.
"Sì,
quello! Lo dice nonna Alix".
Demelza
sospirò, chiedendosi quando sarebbe riuscita a far sue tutte
quelle
assurde regole di etichetta che coinvolgevano anche i bambini. "Non
c'è nulla di male se stai solo con le mutandine, sei piccola
e fa
caldo... E nonna Alix non c'è" – concluse,
strizzandole
l'occhio.
Daisy
annuì. "Chiamiamo Prudie? Voglio giocare".
"E'
presto amore, Prudie dorme ancora come sta facendo Demian... Su, sta
quì buona con me per un pò".
"Sì
ma non mi toccare! Mi da fastidio".
Demelza
la guardò con aria di sfida, sfiorandole la base del collo
per farle
il solletico. E la bimba reagì sgambettando nervosamente sul
letto.
"Mamma!" - sbottò, mentre Demian continuava a dormire
beato.
Demelza
non si fece scoraggiare. Era una piccola orsa ma era adorabile e
quella sua inaspettata visita l'aveva distolta un pò dai
suoi mille
pensieri. La baciò sulla testolina e poi la
lasciò tranquilla e
Daisy per un pò rimase ferma. Ma durò poco, come
era normale che
fosse... "Mamma...".
"Dimmi".
"Caldo...".
"Amore,
lo so... Non so come aiutarti".
Daisy
si mise seduta, sul letto. "Andiamo in giardino e facciamo il
bagno nella fontana!".
Non
era una cattiva idea, spesso i bambini in estate avevano giocato
nell'acqua della grande fontana del loro giardino, quella piena di
zampilli e talmente capiente da farli giocare come pesciolini per
ore.
A
quella proposta di Daisy, Demian, che sembrava profondamente
addormentato, si svegliò di colpo, come punto da uno spillo.
Era
strano, anche quando dormiva era come se fosse sempre all'erta,
soprattutto quando Daisy era nei paraggi a proporre cose che
sarebbero piaciute anche a lui. Erano magici come diceva Hugh e
sempre, anche se fisicamente separati, i gemelli si percepivano a
vicenda solo con la forza del pensiero. "Fontana! Sì!" -
strillò Demian, sveglio da subito come un grillo.
I
due gemelli si salutarono come se non si vedessero da secoli, si
abbracciarono emozionati e pronti a giocare, sul letto, rotolando e
strattonandosi a vicenda e Demelza, osservandoli, si rese conto che
ai bambini non servivano quei minuti per riordinare le idee di cui
necessitano gli adulti fra l'attimo in cui aprono gli occhi e quello
in cui lasciano il letto, i bambini una volta svegli, SONO SVEGLI!
Sorrise loro, perché no? Era mattino presto e potevano
giocare
liberamente prima che la casa prendesse vita. "D'accordo, avete
vinto! Andiamo".
Li
prese in braccio e così com'era, in camicia da notte
smanicata e
lunga fino ai piedi, uscì con loro in giardino. Li mise in
terra e i
bimbi, a piedi nudi, corsero fino alla fontana, tuffandocisi dentro
con indosso solo le loro mutandine. L'acqua, decisamente frizzantina
a quell'ora, non fece loro alcun effetto. Iniziarono a schizzarsi, a
tuffarsi, a ridere e a tentare di nuotare come se fossero stati due
ranocchie e Demelza si sedette sul bordo, a osservarli, cercando di
far sua quella serenità e quel momento tanto magico e
piacevole. A
Hugh sarebbe piaciuto esserci e avrebbe riso e giocato con loro...
E
con questo pensiero, decise. Entrò lei stessa in acqua, che
le
arrivava alle ginocchia, si avvicinò ai gemelli e prese a
giocare
con loro, incurante di etichette, regole e buone maniere. E ancora
una volta Demelza Carne l'aveva vinta su Lady Boscawen... Vero, Alix
non avrebbe gradito ma Alix era lontana, lei era la padrona di casa e
soprattutto la mamma dei bambini e vederli tanto felici ed eccitati
dal giocare con lei in acqua, era la giusta risposta ai dubbi se
stesse facendo bene.
Il
tempo perse consistenza e quando Prudie comparve dietro di loro,
erano completamente fradici tutti e tre.
"Ragazza?".
"Prudie,
mi hai spaventato!" - esclamò Demelza, presa alla sprovvista.
Daisy
si affacciò al bordo della fontana. "Giuda, hai spaventato
la
mamma!".
Prudie
le ringhiò, schizzandola sul viso con l'acqua. "Non devi
andare
al centro per i poveri? Non avevi detto che dovevi portare i vestiti
per l'inverno che hai cucito con la signora Alexandra?".
Demelza
sospirò, non l'aveva dimenticato. Nelle settimane precedenti
avevano
scucito i vecchi abiti pieni di inutili pizzi dei bambini e, con
della lana che avevano acquistato, avevano poi fatto dei vestitini
caldi per i bimbi poveri di Londra, da distribuire in vista
dell'inverno. Non erano molti, per ora solo una ventina di abitini
destinati a due grossi ed indigenti nuclei famigliari, poteva
portarli da sola facendo una passeggiata ed era attesa. Uscì
a
malincuore dalla fontana, baciò i gemelli sulla fronte
dicendo loro
di fare i bravi con Prudie e poi uscì per andare ad
asciugarsi,
cambiarsi e svolgere le sue commissioni.
"Bada
ai gemelli, non lasciarli mai soli se sono in acqua" –
raccomandò a Prudie.
"Che
vuoi che succeda?".
"Di
tutto... Sono piccoli e l'acqua è pericolosa".
Prudie
guardò storto i bimbi. "Han più vite di un
demone, non
preoccuparti anche per questo... Ne hai già troppi di
pensieri,
ragazza".
Demelza
sorrise, grata per averla vicina e per la pazienza avuta nei giorni
precedenti quando lo sconforto l'aveva avuta vinta su di lei ed era
stata la spalla su cui piangere e sfogarsi. "Grazie".
Prudie
annuì, capendo che parlava di Ross. "Se lo vedo, lo prendo a
padellate in testa... Ma magari non ha il coraggio di avvicinarsi di
nuovo".
"Ci
credi, Prudie? Pensi davvero che potrebbe arrendersi così,
solo
perché gli ho detto di starmi alla larga?".
La
domestica sbuffò. "No, ma volevo darti conforto".
"Ci
hai provato!". Demelza sorrise, accarezzandole la mano e
chiudendo il discorso. "Ciao, a dopo. Ciao bambini!".
"CIAO
MAMMA!" - urlarono i gemelli, continuando a giocare nell'acqua.
Sorrise
loro e poi tornò in camera per cambiarsi, per la prima volta
sentendo un peso ad uscire di casa. L'intento era nobile, era una
delle sue cause di lotta nella società londinese e far delle
opere
di carità rappresentava una delle poche libertà
concesse a una
donna che voleva impegnarsi nel sociale ma da quel dannato giorno
della gara di trotto, era come se avesse paura ad uscire. Ogni passo,
ogni via, ogni angolo, poteva riportarla a lui... E non voleva
vederlo! O forse, con timore, sì... Per dirgli con fermezza
di
tornare nell'oblio da cui era venuto.
...
Non
era tornato in Cornovaglia, per la chiusura estiva del Parlamento,
com'era inizialmente nei suoi propositi. Non poteva, non dopo aver
scoperto che Demelza viveva lì, a pochi passi da lui.
Dalla
gara di trotto e dalla reazione di paura e rifiuto di Demelza, aveva
rimuginato per giorni cercando di trovare una soluzione a
quell'assurda situazione.
Demelza
non era preparata a un loro incontro, era palese che l'avesse presa
di sorpresa e di certo non si aspettava che gli gettasse le braccia
al collo, ma non poteva demordere, non poteva arrendersi. Doveva
trovare un altro modo, più soft, per giungere a lei senza
spaventarla. Anche se poi, sorgeva il secondo problema. Cosa le
avrebbe detto? Cosa voleva da lei? Come avrebbe reagito a trovarsi
davanti il dannato uomo che aveva sposato? Perché ora, a
mente
fredda, capiva che un marito c'era, c'erano dei figli e c'era una
famiglia potente alle spalle di Demelza che di certo non avrebbe
gradito un suo avvicinamento alla madre dei suoi piccoli eredi. Non
aveva diritti su Demelza e lei non ne aveva su di lui, erano due
estranei, di fatto. Ma due estranei che erano stati marito e moglie,
che si erano persi in maniera drammatica e che avevano messo al mondo
tre bambini di cui lui era padre e per i quali era uno sconosciuto.
Ripensò alla piccola Julia, alla cui nascita era seguito il
periodo
più sereno e bello della sua vita, a Jeremy che teneva in
braccio
mentre giocava col suo cavallino di legno e che ora era cresciuto e a
sua volta si prendeva cura dei fratelli più piccoli, alla
bellissima
ed elegante Clowance, con la sua lupa albina Queen. La sua famiglia,
avrebbe potuto esserlo ancora, per sempre, se lui... Se lei...
Strinse
i pugni, camminando nelle strade afose di Londra. Faceva già
un
caldo tremendo quella mattina, anche se era ancora presto, ma aveva
delle faccende da sbrigare e rimanendo attivo, manteneva attiva anche
la sua mente che cercava incessantemente delle soluzioni ai suoi
problemi.
Negli
ultimi giorni aveva perlustrato le zone più povere di
Londra,
verificando in prima persona le condizioni disumane di vita della
parte più povera della popolazione. Era giunto nella
capitale per
questo in fondo e non voleva dimenticare la missione che l'aveva
portato fin lì. I poveri di Londra erano più
poveri e disperati dei
poveri della Cornovaglia e la miseria era davvero una piaga terribile
in quella città così ricca per pochi e avara di
possibilità per
molti. C'erano padri di famiglia che non riuscivano a sfamare i
figli, madri di famiglia che piangevano neonati morti di stenti che
non erano riuscite ad allattare, bambini che iniziavano a lavorare
ancor prima di aver compiuto sei anni e miseria, miseria ovunque,
assieme a tanta sporcizia che faceva parte della vita quotidiana di
quei disperati.
Si
recò a visitare il centro di assistenza dei poveri, quella
mattina,
per verificare cosa si facesse per quella gente e scoprendo, suo
malgrado, che né i nobili né il Parlamento
avevano alcun merito
nella gestione di quel luogo di speranza gestito solo da dame di
carità e volontari che raccoglievano quel che potevano per
poi
distribuirlo ai più bisognosi. Poco, troppo poco per aiutare
davvero
quella città anche se, di fatto, era davvero ammirato da chi
si
impegnava per migliorare le cose.
Trovò
file di bambini che aspettavano il loro turno per avere un pezzo di
pane, donne che distriuivano abitini trovati chissà dove
alle loro
madri e uomini che discutevano fra loro su dove trovare qualche
lavoretto per la giornata.
Ross
sospirò, andandonese con il peso della sconfitta sulle
spalle. Come
poteva, da solo, aiutare quelle persone? Nessuno di chi contava
sembrava averle davvero a cuore e lui non era che l'ultimo arrivato,
giunto con la baldanza di sfidare regole ormai consolidate da secoli
di privilegi a cui nessuno voleva rinunciare.
Col
viso basso svoltò in un piccolo vicoletto che lo avrebbe
allontanato
da quel luogo di miseria quando fu costretto a fermarsi. Davanti a
lui, come al matrimonio, per magia comparve Demelza. Sbatté
gli
occhi, incredulo che fosse davvero lei e sopreso di vederla in un
luogo del genere, di cui non faceva ormai più parte. Voleva
rivederla, certo! E sembrava essere stato inaspettatamente baciato
dal caso e dalla fortuna! Aveva indosso un abito leggero, azzurro,
legato in vita da un nastro blu e in testa aveva un cappello di
paglia con un nastro anch'esso blu, per proteggersi dal sole. I suoi
capelli sembravano umidi e i boccoli le ricadevano dolcemente sulle
spalle, dandole l'aspetto di una bambolina. Era incredibile che lei
fosse lì e per un attimo, di nuovo, pensò di
essere preda di
allucinazioni. Ma lo sguardo stupito e perplesso di Demelza era la
chiara dimostrazione che non stava sognando. "Demelza?".
Lei,
con aria decisamente meno spaventata del giorno alla gara di trotto,
parve ricomporsi subito dalla sorpresa di quell'incontro inaspettato.
"Che ci fai quì?".
Ross
le si avvicinò di alcuni passi, con circospezione. Era meno
timorosa
di qualche giorno prima ma incredibilmente più fredda.
"Dovrei
chiederlo a te... Non è luogo per Lady Boscawen, questo".
Demelza
si morse il labbro, rendendosi conto che lui conosceva molte cose su
di lei. Strinse un pacchetto che aveva fra le mani e poi
sospirò.
"Vengo quì spesso per portare degli aiuti e sto portando dei
vestiti per l'inverno per alcuni bambini".
"Oh...".
Era stupito, piacevolmente. Allora non era cambiata proprio del tutto
e ancora oggi, anche se in una posizione agiata, non dimenticava chi
aveva meno di lei. Questo gli fece piacere e lo riempì di un
rinnovato ottimismo. Forse la sua Demelza, quella che aveva
combattuto con lui per il bene dei loro minatori ed amici, esisteva
ancora e nulla era perso del tutto... "Sono felice di vederti,
non sapevo come contattarti e ho bisogno di parlarti".
Lei
lo guardò, gelida. "Io non sono altrettanto felice ma in
fondo
è un bene che ci si sia incontrati in modo così
fortuito, oggi.
Potremo chiarire alcune cose...".
"Cosa
vuoi sapere?" - le chiese.
"Cosa
ci fai quì, innanzitutto? E come mi hai trovata? Cosa sai di
me?
Cosa volevi da me alla gara di trotto? Scusa se ti faccio tutte
queste domande ma trovarti alle mie spalle dopo sei anni e mezzo,
quì
a Londra, è stato un qualcosa che mai mi sarei aspettata".
Era
fredda, voleva mantenere le distanze e Ross capiva perfettamente che
dietro a tutte quelle domande c'era una chiara volontà di
capire per
poi agire di conseguenza. Decise di risponderle, con assoluta
sincerità. "Sono stato eletto con Lord Basset, alle elezioni
per rappresentare la Cornovaglia a Westminster. Sono un membro del
Parlamento e...".
"Lord
Basset?" - lo interruppe lei, stupita.
"Sì,
lo conosci anche tu, l'ho scoperto solo una volta arrivato a Londra,
per puro caso. Non sono venuto quì a cercarti, ti ho vista
per caso
a un matrimonio il mese scorso e Lord Basset mi ha spiegato chi
eri... Sono stato a casa tua alcune volte, senza sapere che tu
vivessi lì... E poi alcune volte dopo il matrimonio, per...".
"COSA?".
Lo sguardo di Demelza si indurì, diventando freddo e
rabbioso. "Sei
stato a casa mia?".
"Da
Lord Falmouth... Mi ha introdotto Lord Basset e spesso sono venuto
per discutere di questioni politiche. Ho visto anche i bambini, pur
senza sapere, inizialmente, chi fossero".
Gli
raccontò del giorno del matrimonio e di cosa fosse successo
e
Demelza ascoltò con sguardo di pietra, senza mutare mai la
sua
espressione. Cosa provasse, se fosse sorpresa o arrabbiata, era
difficile da decifrare.
"Ora
capisco..." - rispose lei, lentamente, in tono piatto.
Ross
deglutì, doveva trovare un punto di contatto, un modo per
spezzare
quella freddezza così inusuale per lei. Era da tanto che non
si
parlavano ed era come trovarsi davanti a un'estranea. "Era una
bambina, allora..." - disse, con voce emozionata, pensando a
Clowance.
"Di
cosa parli?".
"Di
nostra figlia...".
A
quella frase, Demelza divenne rabbiosa. "MIA figlia, non tua...
I MIEI figli, non i tuoi. E qualsiasi cosa tu abbia visto, qualsiasi
cosa tu pensi di essere, dimenticala. Non sono figli tuoi, non sono
tua moglie e non voglio che ti avvicini a casa mia. Se vuoi o hai
necessità di vedere Lord Falmouth, l'ingresso ai suoi
appartamenti è
separato dai miei, ragion per cui non c'è motivo che tu mi
veda. Per
te sono una sconosciuta, non osare dire nulla sul mio conto a Lord
Falmouth... Non dire nulla dei bambini... Entra in quella casa quando
vuoi se è per politica, lo fanno in tanti... Ma per tutti,
io e te
non ci conosciamo! Segui questo consiglio e forse andrai d'accordo
con Falmouth e non ti farà sbattere fuori casa e dal
Parlamento a
calci, se sapesse cosa ci hai fatto. Farai un favore a me, ai
bambini, a te stesso e a ciò che di buono potresti fare,
quì".
Ross
parve stupito. Così Lord Falmouth non sapeva nulla del
passato di
Demelza, di lui e di chi fosse il padre dei bambini che lo chiamavano
zio? Che rapporti c'erano in quella casa? Cosa li legava? E chi era e
dov'era il nuovo marito di Demelza? "Non ho detto nulla e non lo
farò, sta tranquilla! Anche se mi sembra davvero strano
che...".
"Ottimo!"
- tagliò corto lei, decisa ad andarsene.
Ma
Ross la bloccò, correndole vicino e prendendola per il
polso.
"Fermati! Dobbiamo parlare".
Con
uno strattone, lei si liberò. "Di cosa?".
"Dei
bambini, di te, di me... Non puoi andartene così! Sei
sparita sei
anni e mezzo e dannazione, hai idea di quanto io sia stato in ansia
per voi? Mai una lettera, un indirizzo, nulla di nulla! Hai idea di
cosa ho provato scoprendo come vivi quì, chi sei, che sei
sposata?
Che hai avuto altri figli, che... che...?".
Demelza
lo fulminò con lo sguardo, si voltò verso di lui
e lo fronteggiò.
"I bambini non sono affar tuo, così come il mio matrimonio e
la
mia famiglia. Non ho vincoli verso di te, tu non ne hai verso di me e
hai una famiglia, mi pare. Quella che hai sempre voluto, quella per
cui hai scelto di abbandonarci e di togliere ai bambini il tuo
cognome. Lo ricordi? E ora cosa vuoi sindacare? Il tuo orgoglio ti fa
andare in bestia all'idea che io e i bambini abbiamo trovato amore e
una famiglia altrove? Che loro abbiano trovato un padre? Beh, non so
cosa farci, so solo che hai delle persone di cui occuparti e di certo
non siamo noi...".
Ross
deglutì, i suoi errori passati li conosceva tutti ma
sentirseli
sbattere in faccia dalla voce di Demelza faceva incredibilmente male.
Come poteva spiegarle quanto avesse sofferto, quanto si fosse
maledetto, quanto l'amava e quanto aveva pensato a loro? Come poteva
dirgli tutto questo e far si che lei ci credesse? "I bambini...
I bambini sono sempre stati i MIEI bambini. Mai ho smesso di pensare
a loro in questi termini e...".
Demelza
fece una risatina sarcastica. "Hai pensato ai bambini? In questi
anni?".
Era
ironica, lo faceva per ferirlo e ne aveva diritto ma non poteva
sfuggire a quella conversazione, anche se dolorosa. "Ogni
giorno. A te e a loro".
"Vuoi
dire che hai sprecato un pò del tuo prezioso tempo a pensare
a una
serva e a dei bambini senza nome? Che onore, Ross Poldark...".
Spalancò
gli occhi, davvero era questo che pensava di lui? Davvero credeva di
essere solo questo ai suoi occhi...? "Non puoi davvero credere a
quello che hai appena detto... Non ho mai pensato a te in questi
termini... E nemmeno ai bambini. Sono stato un padre pessimo e so di
aver fatto molti errori, so di essere stato orribile e... E ho pagato
tutto questo, l'ho pagato vivendo l'inferno... Ma vi ho sempre...".
Lei
sospirò, imperturbabile, poi lo bloccò prima che
finisse la frase.
"Sei un uomo di successo, hai sicuramente una bella famiglia e
un futuro radioso. Non voglio sapere nulla di te e mi auguro che tu
faccia altrettanto con me. Stacci lontano, ti chiedo solo questo, fa
che entrambi viviamo serenamente in questa grande città dove
non
incontrarsi è facile, nonostante questo incontro di
stamattina.
Ignoraci, fa come se non esistessimo, in fondo non deve essere
difficile per te perché è così che hai
sempre fatto, anche quando
vivevo a Nampara. Ultimi nei tuoi pensieri e nelle tue
preoccupazioni... Fallo anche ora, non ho bisogno di te e non ne
hanno i miei bambini. Tu hai una nuova vita e io pure e non voglio
che tu ne faccia parte".
Gli
occhi di Ross presero a pungere. Faceva male vedere quanto Demelza si
fosse sentita non amata, trascurata e sola. Era vero, spesso era
stato assente con lei, troppo occupato a risolvere i problemi di
tutti per pensare a cosa succedeva ai suoi cari, ma era sempre stato
convinto che Demelza sapesse che aveva completa fiducia in lei e che
per questo sentiva che poteva lasciarla a cavarsela da sola. Ora
capiva... Aveva sottovalutato gli effetti delle sue mancanze e
sopravvalutato la forza di quella donna sicuramente di valore ma che
desiderava anche averlo più vicino e sentirsi amata e
protetta,
oltre che apprezzata per le sue capacità di massaia e di
donna di
casa. "Non è come pensi e tu... e i bambini...".
"Non
sono i tuoi bambini, non più. O forse, non lo sono mai
stati. Di
certo non Clowance, mai è stata una Poldark. Per TUA scelta!
E
Jeremy... Non lo volevi, non lo hai mai voluto e lo hai ampiamente
dimostrato. Contava solo Jeoffrey Charles, Jeremy non esisteva e
appena hai potuto, te ne sei andato e lo hai abbandonato. Non sei il
loro padre, Ross! Non basta andare a letto con una donna e metterla
incinta, per esserlo. Essere padre significa sapere qual'è
la fiaba
preferita dei propri figli, sapere di cosa hanno paura,
qual'è il
loro cibo preferito, a che età è spuntato il
primo dente, avere
piacere a stare con loro, a vederli svegliarsi e addormentarsi, a
sentirli parlare storpiando le parole... Sono stata, siamo stati solo
un diversivo mentre cercavi un modo di tornare con la donna che
davvero volevi, tutto quì. Banalmente quì...".
Scosse
la testa, disperato. "Demelza, non è così".
"Non
importa, non più..." - disse lei, in tono stanco e meno
rabbioso. "Sta lontano da noi... Sei un parlamentare, conosci le
regole della società e di certo sai chi sono... Odio usare i
privilegi che la mia condizione mi ha concesso ma per una volta me ne
avvarrò".
"Che
vuoi dire?" - chiese, con paura. Demelza gli stava chiudendo
ogni possibilità e precludendo ogni speranza.
"Che
ho una posizione e un titolo nobiliare superiore ai tuoi. Non hai
titolo di rivolgermi la parola, se io non desidero che tu lo faccia.
E non lo voglio! Sta lontano da noi, Ross, sta lontano da me e dai
bambini. Hai una famiglia tua e io una mia, come ben sai ormai!
Fallo, te lo consiglio... Se ti trovo a girare attorno a casa mia,
chiamerò le mie guardie e ti farò arrestare. Ed
Elizabeth non
gradirebbe...".
"Stai
bleffando" – rispose, cercando in quegli occhi azzurri un
briciolo d'amore che una volta aveva per lui.
"Mettimi
alla prova, allora" – rispose lei, glaciale. E poi si
voltò,
allontanandosi da lui. "Buona giornata e buona fortuna, Ross.
Non ho più nulla da dirti" – sussurrò,
sparendo velocemente
nella via senza dargli modo di ribattere.
E
rimase fermo, incapace di fare qualsiasi cosa, in mezzo alla strada,
chiedendosi se quello fosse l'inferno che meritava per quello che
aveva fatto. Era la moglie di un altro, certo... Lo aveva
metabolizzato e aveva trovato un senso a questa cosa comunque
dolorosa, ma quel che faceva più male era ciò che
pensava di lui,
sentirglielo dire, vederla sicura e con la convinzione di non essere
mai stata nulla mentre non era vero, per lui era stata tutto.
E
ora l'aveva persa... Persa per sempre...
Ross
strinse i pugni. Mai si era arreso nella sua vita ma forse, ora, era
arrivato il momento di farlo, dopo sei anni in cui dolore e speranza
si erano mischiati aiutandolo ad andare avanti. Era finita... Non lo
considerava più un marito e un padre, non era nulla per lei
ormai,
lei che lo aveva così tanto amato una volta, coi suoi pregi
e coi
suoi mille difetti... Demelza e i bambini erano felici senza di lui e
doveva solo accettarlo. Ma come? COME???
...
Demelza
tornò a casa con cuore e mente in tumulto. La sua paura di
incontrarlo si era inaspettatamente avverata anche se, di fatto, le
aveva permesso di dissipare molti dubbi sulla sua presenza a Londra.
Era
stata fredda, distante, decisa e sicura nel confronto con lui. Si era
imposta di esserlo anche se spesso aveva dovuto far violenza a se
stessa per non piangere davanti a Ross, offrendogli uno spiraglio che
poteva costarle un attimo di debolezza che poi avrebbe pagato
amaramente.
Aveva
detto che li aveva pensati... Mai avrebbe creduto possibile una cosa
simile e anche se quando lo aveva affermato sembrava sincero e
commosso, come credergli? Era un uomo dai nobili natali, di successo,
votato a una sicura e brillante carriera e con una famiglia
meravigliosa alle spalle, la famiglia che aveva sempre voluto. Come
poteva credergli? Che senso avrebbe avuto?
Camminò
per i corridoi silenziosi, avvolti dal tepore del riposo del primo
pomeriggio. La casa sembrava addormentata e Prudie, dopo aver messo a
dormire i gemelli, doveva essere andata a sua volta a fare un
pisolino. Arrivò fino alla camera da letto e
scoprì, senza esserne
troppo sorpresa, che i gemelli non dormivano affatto! Trovò
Demian
che, seduto in terra e abbracciato a Garrick, sfogliava un libro di
Hugh spiegando al cane le figure che vedeva e questo strappò
a
Demelza un sorriso. Era incredibilmente calmo, segno che quella
mattina doveva aver giocato come un pazzo ed era stanco. Prudie
doveva averlo lavato, i capelli erano umidi e spettinati e indosso
aveva abitini puliti. Daisy sbucò da sotto il letto,
correndole
incontro. Era ancora mezza nuda come l'aveva lasciata, con indosso
solo le mutandine. E anche lei aveva già fatto il bagno e
profumava
di sapone.
I
bimbi le saltarono fra le braccia, contenti di vederla. Anche Daisy,
di solito avara di coccole... E Demelza li strinse a se... Erano il
suo mondo, la gioia, la pace. La sua pace...
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Capitolo 36 *** Capitolo trentasei ***
Si
passò il rossetto sulle labbra, si incipriò il
viso e si acconciò
i capelli in una perfetta treccia che le ricadeva morbida sulla
schiena.
Non
era mai stata una donna mondana, la vita notturna di Londra non
l'aveva mai attirata e aveva sempre preferito starsene in casa la
sera, coi suoi bambini, a meno che qualche ragione di famiglia o di
rappresentanza la obbligasse a presenziare a qualche festa o ballo.
Anche Hugh era stato così, anche lui aveva cercato di
sfuggire a
quegli obblighi che poi erano ricaduti su di lei, dopo la sua morte.
Ma
quella sera era diverso, non c'erano occasioni ufficiali a cui
presenziare, obblighi da assolvere o la pressione insistente di Lord
Falmouth che spesso le ripeteva che partecipare alla vita mondana e
notturna di Londra era comunque un obbligo a cui ogni gran dama
doveva sottostare, quella sera aveva deciso di uscire per se stessa.
Si era imposta di farlo, per cercare di liberare la mente dal turbine
di emozioni che da un mese la spossavano senza sosta.
Aveva
visto Ross due volte, la prima alla gara di trotto e la seconda dieci
giorni prima, al centro di assistenza per i poveri, poi da allora
più
nulla anche se non si illudeva affatto che non lo avrebbe rivisto.
Lei e Ross vivevano nello stesso quartiere della città,
frequentavano lo stesso ristretto ceto sociale e sicuramente si
sarebbero incontrati a qualche festa, ricevimento o occasione
ufficiale oppure semplicemente al parco o per le vie del quartiere,
mentre passeggiavano o stavano rientrando a casa... E poi... e poi
Ross non si sarebbe arreso tanto facilmente, anche sotto minaccia. E,
peggio ancora, prima o poi le sarebbe toccato anche vedere Elizabeth
e i bambini che aveva messo al mondo con Ross... La meravigliosa,
idilliaca famiglia perfetta sempre sognata da lui...
Era
troppo e voleva non pensarci!
Due
giorni prima Dwight e Caroline, tornati dalla campagna dopo la
vacanza con la loro piccola Sophie, erano venuti a farle visita e lei
aveva raccontato loro del ritorno di Ross e di quanto scoperto dieci
giorni prima.
Caroline
aveva reagito con una apparente leggerezza come sempre, dissimulando
noncuranza. Adorava quel lato leggero del suo carattere, quella
strana malizia che sempre traspariva dai suoi gesti e dalle sue
azioni e spesso si era chiesta se l'avrebbe mai riacquistata, dopo la
morte di Sarah. Caroline e Dwight avevano passato un periodo orribile
dopo la perdita della loro bimba, rischiando di perdersi, nascosti
ognuno nel proprio dolore, ma poi l'amore e la pazienza avevano avuto
la meglio, avevano imparato che dovevano convivere con quella
realtà
e a riprendersi per mano per riscrivere un nuovo futuro. E
così era
arrivata Sophie, bellissima e vezzosa anche se neonata, come la
madre... Bionda, paffuta, la regina della salute... Se lo
meritavano...
Caroline,
dopo il suo racconto, le aveva consigliato di non pensarci, di non
temere Ross e di godersi i suoi soldi senza timore, magari sbattendo
in faccia al suo ex marito il successo raggiunto con le sue sole
forze, se lo avesse rincontrato. Dwight invece era rimasto in
silenzio, non aveva proferito parola ed era diventato cupo e
pensieroso.
Demelza
pensava spesso all'amicizia interrotta fra Dwight e Ross. Le
spiaceva, si sentiva in un certo senso in colpa e quando vedeva
Dwight aggirarsi come un pesce fuor d'acqua fra i nobili amici
londinesi di Caroline, scorgeva in lui il rimpanto di quanto lasciato
in Cornovaglia. Dwight era come lei, nulla li avrebbe mai fatti
diventare per davvero due nobili di Londra, erano diversi da chi li
circondava, per carattere e provenienza sociale, due anime semplici
trovatesi per caso in un mondo complesso e pieno di fronzoli. E
avevano lasciato il loro cuore lontano anche se entrambi erano
consapevoli di non poter più tornare...
Demelza
non sapeva cosa pensasse Dwight di Ross, dopo tutti quegli anni. Non
parlava mai di lui, non lo nominava e se fosse o meno ancora
arrabbiato e deluso nei suoi confronti, era un qualcosa che lui
teneva gelosamente per se. L'unica cosa che le aveva detto era di
distrarsi, di uscire e di tenere la mente occupata, solo questo...
E
lei lo aveva fatto, accettando di uscire quella sera per una
passeggiata ai giardini di Vauxhall, luogo che non le era mai
piaciuto particolarmente per la mondanità spesso volgare che
lo
impermeava soprattutto di sera, con le contesse Martine e Fabianne
Sandringam. Non erano amiche, le trovava frivole e vuote ma le aveva
incontrate spesso nelle occasioni ufficiali dove aveva dovuto
presenziare e avendo circa la stessa età, era capitato di
fermarsi a
parlare con loro che cercavano spesso la sua compagnia ed attenzione.
Nobili, felici di esserlo e votate solo ad essere ricche, eleganti ed
ammirate, erano quanto di più lontano ci fosse dal modo di
essere di
Demelza ma forse, per una sera, vivere qualcosa di diverso l'avrebbe
distratta.
Aveva
accettato l'invito, aveva acquistato un abito all'ultima moda color
cipria, scollato sul petto e piuttosto provocante, aveva preso del
denaro per giocare con loro a dadi e ora era lì, davanti
alla
toeletta, a decidere che nastro mettersi in vita.
Sospirò,
non era davvero portata per queste cose... Ma qualcuno esperto c'era,
nelle vicinanze... "CLOWANCE!!!" - urlò, chiamando la
figlia che giocava nella sua cameretta, dall'altro lato del
corridoio.
Clowance
arrivò di corsa, seguita da Daisy, di nuovo scalza e di
nuovo con
indosso solo le mutandine.
La
figlia più grande la guandò con gli occhi lucidi
dall'emozione.
"Mamma, finalmente sei pronta per una vera serata londinese! Sei
bellissima!".
Sospirò,
decisamente meno entusiasta della figlia. Era già pentita di
aver
accettato di uscire, forse una chiacchierata a casa di Margarita ed
Edward sarebbe stata più rilassante e più
appropriata. "Che
nastro mi metto in vita? Giallo?".
Clowance
la guardò malissimo, come se avesse appena pronunciato
un'eresia.
"Mamma!!! Nastro giallo? Su un abito color cipria? Sei matta?".
Daisy,
che si era seduta sul letto, picchiò la manina sul
materasso. "Porco
Giuda mamma, il giallo sul cipria no!".
Demelza
alzò gli occhi al cielo, cercando di ignorare Daisy come le
aveva
consigliato Dwight, quando diceva le parolacce. "Quindi?".
Clowance
si avvicinò al cassetto. "Questo va bene, è
bianco e si adatta
tantissimo!".
"Grazie
amore".
"Prego
mamma!" - rispose Daisy, che a dire il vero non aveva fatto
nulla.
Demelza
la guardò, non così convinta di lasciar cadere il
discorso delle
parolacce. "Amore? Dove sono le tue scarpe? Te ne ho già
comprate tre paia questo mese e Prudie mi ha detto che oggi, mentre
la accompagnavi a prendere del pane, sono magicamente sparite mentre
era nel negozio e tu stavi fuori ad aspettarla".
"I
ladri, ancora..." - disse, fingendosi sconsolata.
Demelza
le si avvicinò, mentre Clowance rideva, le si sedette
accanto e la
fronteggiò. "E' una bugia! Gli stessi ladri della gara di
trotto?".
"Forse...".
"Daisy...".
La
piccola sospirò. "Li ho dati a una bambina povera. Le
piacevano
tanto e a me davano fastidio! Fa caldo, meglio senza scarpe! E lei
è
andata via contenta".
La
osservò. Daisy diceva spesso bugie ma stavolta sembrava
sincera...
"E alla gara di trotto?".
"Le
ho lasciate nell'erba, non mi ricordo dove! Ma mamma, correre senza
niente fa solletico ai piedi, mi piace!". Anche questa volta era
sincera...
Le
sorrise, era così dannatamente simile a lei quando era
bambina e
correva senza sosta fra l'erba della brughiera e in spiaggia, godendo
della morbidezza della sabbia sotto i piedi. Non riusciva a
sgridarla, non per questo almeno. "Hai fatto una cosa...
ABBASTANZA bella...".
"Cosa
vuoi dire?" - chiese Clowance, avvicinandosi.
Demelza
cercò le parole giuste per spiegare alle bambine il concetto
di
bontà. "Ecco, Daisy ha fatto contenta una bambina povera che
di
certo non ha mai avuto i soldi per comprarsi delle scarpe e questa
è
una bella cosa. Ma gliele ha regalate perché lei non le
voleva, non
per fare del bene. Capite cosa intendo?".
Le
bimbe scossero la testa. "No!".
Le
accarezzò sulle testoline bionde. "Ecco... Se quella bambina
fosse stata affamata e tu avessi avuto con te, ad esempio, l'ultimo
pezzo di cioccolato del mondo, l'ultimo per tutta la tua vita...
Glielo avresti dato?".
Daisy
si imbronciò. "Giuda, NO!".
Ignorò
la parolaccia, ancora. "Ecco, è questa la differenza. Fare
del
bene, farlo davvero, significa privarsi di qualcosa a cui si tiene
tanto per il bene di qualcun altro che ne ha più bisogno di
te. Hai
fatto bene a dare le scarpe a quella bambina ma il tuo gesto non
è
stato generoso. Lo hai fatto per fare un favore a te stessa, non a
lei".
Daisy
sbuffò, non troppo felice di quella spiegazione. "Mamma, ma
per
metà son stata brava, no?".
"Per
metà...".
Daisy
sorrise, da furba. "Allora mi devi fare un regalo! Andiamo al
negozio che vende gli orsi?".
Demelza
rise. "Non esistono negozi così! E non avrai un orso. Ma se
sarai brava, questo autunno ti porto allo zoo a vederne uno vero".
"Ma
io lo voglio a casa!" - si lamentò la gemellina.
Clowance
scosse la testa. "Devi prima regalare il cioccolato a una
bambina povera!".
Demelza
la guardò, cercando di capire quando Clowance, capricciosa e
vanitosa più degli altri figli, avesse capito del discorso
fatto
pochi minuti prima. "E tu... Tu daresti il tuo vestito preferito
a una bambina povera?".
A
quella domanda, inaspettatamente Clowance scoppiò a ridere.
"Ma
mamma, che se ne fa una bambina povera di uno dei miei vestiti? Non
sono adatti ai poveri...".
Demelza
si rabbuiò. Non amava i princìpi con cui stava
crescendo Clowance,
non amava il fatto che si credesse spesso superiore agli altri e
soprattutto non le faceva piacere constatare quanto stesse diventando
egoista e poco sensibile ai problemi di chi aveva meno di lei. Non
era così che voleva che crescesse, non erano questi i valori
che
voleva trasmettere ai suoi bambini! Quel mondo dove vivevano aveva
donato a tutti loro infinite possibilità ma li aveva anche
allontanati dalla vita vera. Erano dei privilegiati in un mondo
composto prevalentemente da gente che aveva sempre fame e Clowance
sembrava non volersene preoccupare...
Pensò
a Ross, al loro incontro di pochi giorni prima e alle battaglie
vissute insieme per rendere il mondo un posto migliore più
giusto
per tutti. Quanto era cambiata da allora? Quanto aveva dimenticato
chi era? Faceva quel che poteva per aiutare i bisognosi di Londra, ma
da cos'era dettato questo interesse? Vera pena e dispiacere oppure il
tentativo di lavarsi la coscienza per quanto aveva in più
rispetto a
chi non aveva nulla?
Improvvisamente
la sua mente gridava a quelle considerazioni e forse era stato
proprio Ross a riaprirle cuore e mente, con la sua comparsa. Lui era
lì perché ci credeva, perché davvero
voleva migliorare il mondo,
aveva sempre lottato per questo e non aveva accettato mai
compromessi. Mentre lei... lei quante volte aveva chiuso gli occhi
per quieto vivere e perché doveva adattarsi allo stile di
vita della
famiglia che l'aveva accolta? Stava facendo la morale alle sue
bambine ma forse non era migliore di loro... "Clowance, forse a
una bambina povera piacerebbe per una volta indossare un abito come
il tuo..." - sussurrò, pensando senza volerlo a quella sera
in
cui mise il vestito azzurro della madre di Ross e scoprì
così il
sapore dell'amore... Anche lei era stata una bambina povera che
sognava di essere una Lady, per una volta... "E se anche non lo
volesse per se, vendendo un tuo vestito potrebbe avere denaro per
sfamare la sua famiglia per giorni".
Clowance
sospirò e Daisy annuì, cogliendo subito la palla
al balzo. "Sì
Clowance, un tuo vestito fa meglio del mio cioccolato ai bambini
poveri. Devi essere generosa!".
Demelza
la guardò storto e si alzò dal letto, legandosi
il nastro bianco in
vita. Stava facendosi tardi e lei doveva uscire ma si ripromise, dal
giorno dopo, di cambiare registro ed educazione con i bambini. Lord
Falmouth e Lady Alexandra erano meravigliosi ma lei era la madre e
lei voleva educarli secondo quelli che erano i suoi
princìpi, quelli
con cui era cresciuta e che una volta la facevano andare a dormire
con la serenità di chi sapeva di aver fatto del proprio
meglio.
Aveva lasciato correre troppo ed era ora di insegnar loro e ricordare
a se stessa le proprie origini.
La
porta si aprì e Demian e Jeremy entrarono per salutarla,
guardandola
a bocca aperta.
"Mamma,
però non è giusto" – sbottò
Jeremy – "Tu vai ai
giardini di Vauxhall e non vuoi che ci vada io, con Gustav!".
"Non
è un posto per bambini!" - rispose lei, pensando a quali
persone sgradevoli lo frequentassero, soprattutto Adderly, e
all'effetto che potevano avere su menti giovani come quella di
Jeremy.
"Però
tu ti diverti! E a noi ci lasci con Prudie!" - si lamentò
Daisy.
Demelza
li guardò mentre Demian le si aggrappava alla gonna. "Fate i
bravi. E tu..." - disse, prendendo in braccio il gemellino –
"Dormi! Non fare capricci quando Prudie ti mette a letto,
tornerò presto".
Demian
sospirò, stringendosi al suo collo. "Giura!".
"Giuro!"
- disse, mettendolo a terra.
Poi
li salutò ed uscì, pronta ad affrontare una
serata che, di nuovo,
l'avrebbe inaspettatamente messa a contatto con quel passato da cui
cercava di fuggire.
...
Spesso
in quelle sere d'estate, quando era stato costretto a tardare e a
cenare fuori, si era fermato ai giardini di Vauxhall, perdendosi
nella loro allegria e frenesia. In Cornovaglia non c'era nulla del
genere ed era un luogo di perdizione e divertimento dove, con la sua
mente in tumulto, amava soffermarsi prima di rientrare.
C'era
ogni genere di divertimento, giocolieri e mangiafuoco, donne
compiacenti e ammiccanti pronte a regalare qualche ora di piacere ai
nobili soli e in cerca di evasione, giochi da tavolo, chiacchiere
bevendo del buon vino ai tavolini del bar, giovani, meno giovani e
tutta la buona società di Londra che cercava una divertente
vita
notturna.
Spesso,
guardando quelle persone vuote che li frequentavano, Ross si era
trovato a disprezzarne la leggerezza e l'apparente noncuranza dei
problemi della società che rappresentavano, salvo poi
pensare che
anche lui era lì e forse anche gli altri cercavano una fuga
dai loro
problemi, senza far nulla di male.
Ecco,
forse gli anni e l'età gli avevano insegnato che niente
è solo
bianco o nero, ma che esiste anche un'immensa varietà di
grigi da
conoscere, prima di valutare...
E
improvvisamente, passeggiando, la scorse... Lei... lì... In
quel
posto in fondo tanto estraneo alla sua personalità.
"Demelza...".
Non
credeva che l'avrebbe rivista lì, i Giardini di Vauxhall
erano
quanto di più lontano ci fosse da Demelza. O da
ciò che lei era...
Perché nonostante il rancore e la rabbia da lei espressi
verso di
lui e la sensazione visiva di quanto fosse diversa dalla donna
semplice che ricordava, Demelza non sembrava cambiata nell'animo, non
del tutto almeno. Aveva scorto ciò che era una volta
vedendola
ridere coi bambini o anche al loro incontro al centro di aiuto per i
poveri, segno che non aveva dimenticato chi aveva meno di lei.
Era
come se ci fossero due Demelza, ora che ci pensava: una semplice,
solare e mamma dolce e presente e l'altra ricercata, elegante, senza
un capello fuori posto, altera e distante, che sorrideva sempre ma
che sembrava a volte sforzarsi di farlo per etichetta e anche, forse,
per nascondere i suoi veri sentimenti... Una volta non era
così, una
volta rideva se era contenta e urlava e piangeva quando era ferita
ed arrabbiata, mentre ora...
La
guardò, rapito dalla sua bellezza. Se ne stava seduta a un
tavolino
rotondo, sotto un grosso tiglio, assieme ad altre donne con cui
sembrava essere intenta a giocare a dadi. Indossava un abito color
cipria
con una provocante scollatura sul seno e i suoi capelli, pettinati in
una perfetta
treccia,
ricadevano ordinati sulla sua schiena.
Il viso era truccato, le labbra erano rosse e la pelle incipriata.
Era
incantevole, molti uomini la guardavano con bramosia, passando.
Rideva, incurante di loro, con le sue amiche, illuminata dal chiarore
della luna.
Ripensò
alla Demelza di Nampara, quella che se faceva tardi lo aspettava
alzata con la camicia da notte e i capelli arruffati, sua moglie...
Che lo aiutava a togliersi stivali e vestiti, che gli massaggiava il
collo e le spalle se era stanco e gli raccontava dei lavori
casalinghi che aveva fatto durante il giorno. Pensò alla
Demelza
che, a letto, al chiarore della candela sul comodino, coccolava
dolcemente Jeremy e Julia mentre li allattava, cantando per loro una
ninna-nanna. Ripensò a tante cose che aveva amato e forse
mai
dimostrato di apprezzare appieno e provò nostalgia per
quella vita
semplice dove erano solo loro due, innamorati e felici di esserlo...
Non aveva bisogno d'altro, aveva tutto e non lo aveva capito! Stolto,
idiota! E guardando quegli uomini che la ammiravano passando, tutti
con l'occhio evidentemente più fine del suo, si chiese come
avesse
potuto essere tanto cieco da non vedere appieno la grande bellezza in
lei e a sottovalutarla rispetto al fascino esercitato da Elizabeth.
Abbassò
lo sguardo, allontanandosi da lei. Avrebbe voluto avvicinarsi ma per
dirle cosa? Demelza era stata chiara, non voleva avere a che fare con
lui e anche se non era intenzionato ad arrendersi, in quei giorni
aveva capito che non poteva seguirla e comparirle davanti ad ogni
passo ma che necessitava di un piano più elaborato e meno
sconvolgente per entrambi. Era difficile essere faccia a faccia, per
lei quanto per lui, e doveva rispettare il dolore di Demelza e i suoi
tempi se voleva instaurare un rapporto quanto meno civile con lei.
Non poteva essere egoista, non più! Comparirle davanti
mentre era
con le sue amiche era una pessima idea e non voleva farla arrabbiare
più di quanto lei già non fosse. Era rientrato
nella sua vita
sconvolgendo la sua quotidianità e la sua
serenità, non
preoccupandosi degli effetti che questo poteva avere su di lei, aveva
agito di nuovo da egoista come sette anni prima e voleva essere
diverso, più maturo, più uomo... Pensare a lei e
non solo a se
stesso...
Erano
estranei ormai, due estranei che si muovevano in un mondo che lei
conosceva bene e in cui lui faticava ad arrancare. Doveva darsi
tempo, capire le regole di quella città e della
società di cui
entrambi facevano parte e solo dopo tentare di avvicinarsi. Vivevano
accanto a una cerchia ristretta di privilegiati che si contendevano
il piccolo spazio ricco della Londra del centro, abitata da nobili e
gente altolocata, avrebbero frequentato le stesse persone e le
possibilità di incontrarsi sarebbero state tante senza che
lui le
cercasse, doveva solo avere pazienza.
Passeggiò
a lungo mentre il rumore dei giochi dei giardini, della folla, dei
cantastorie e dei mangiafuoco allietavano quella calda serata
londinese.
Si
sedette sulle rive di un laghetto dove per lunghi istanti rimase come
incantato a guardare dei bambini che giocavano sul bagnasciuga. Forse
avrebbe dovuto portare Valentine con se... Forse, se avesse visto
Demelza in quel luogo mentre giocava coi suoi bambini spettinata e
chiassosa come una volta, sarebbe stato meno doloroso. Invece i
bambini erano a casa, Demelza era in compagnia delle sue amiche
dell'alta società e forse avrebbe passato fuori la notte con
loro.
Si
chiese che razza di persona fosse suo marito? Dov'era? Non lo aveva
mai visto né accanto a lei né da Lord Falmouth,
ora che ci pensava.
Era davvero così aperto di idee da permetterle di uscire la
sera, da
sola, per divertirsi e fare tardi? Certo, non tutti gli uomini erano
gelosi e forse questo Hugh Armitage magari era un uomo moderno che
lasciava a sua moglie ogni libertà, ma c'era comunque
qualcosa di
stonato in quella situazione, qualcosa che gli sfuggiva. Era fuori
città in viaggio? Era in viaggio per mare, visto che a
quanto
sembrava era un tenente di marina? Ora che ci pensava, non era
presente nemmeno alle nozze di Lady Margarita dove i suoi due figli,
assieme a Jeremy e Clowance, facevano da paggetti e damigelle...
Rimase
fermo e immerso in quei pensieri a lungo, estraniandosi da tutto e
tutti. E improvvisamente si accorse che era buio del tutto, che i
bambini che giocavano a pochi metri da lui se n'erano andati e che i
rumori del parco si erano attutiti e rarefatti. Santo cielo, doveva
essere tardissimo!
Sospirando,
si alzò dall'erba e si avviò verso l'uscita. E
contro ogni
previsione, la rivide!
Demelza,
seduta al tavolo dove l'aveva vista poche ore prima, era rimasta in
compagnia di un uomo che, dall'abbigliamento, doveva essere un
maggiordomo o un cocchiere. Ora non rideva più e sorseggiava
piano
del vino, con lo sguardo perso nel vuoto mentre l'uomo, un suo
sottoposto probabilmente, aspettava pazientemente che lei decidesse
di alzarsi.
C'era
ormai poca gente e fu Demelza a notarlo, sollevando lievemente lo
sguardo dal bicchiere. “Ross?”.
Sussultò,
era meglio che non lo vedesse ma siccome lo aveva notato,
lasciò da
parte i suoi buoni propositi e d'impulso le si avvicinò,
mentre pian
piano la gente defluiva all'esterno e le luci si spegnevano.
“Demelza”.
Lei
lo guardò sospettosa, si morse il labbro e alla fine,
abbassando lo
sguardo, chiuse gli occhi e bevve in una sorsata tutto il vino che
era rimasto nel bicchiere. “Che ci fai qui? Mi
segui?”.
“Signora,
quest'uomo vi importuna?” - chiese l'uomo accanto a lei.
“Non
preoccuparti Bastian, va tutto bene. Aspettami in carrozza,
arriverò
subito”.
“Sì
signora”.
Ross
osservò l'uomo andare via lanciandogli occhiate sospettose e
infine
tornò a fissare lei. “Non ti sto seguendo, tutta
Londra viene qui
di sera. Ti ho vista anche prima, assieme ad altre donne mentre
giocavate a dadi”.
“Avevo
voglia di perdere del denaro! O di vincerlo...” - rispose
lei,
freddamente.
Quel
tono e quella noncuranza lo irritarono. Era così distante e
altera,
rigida e controllata, che avrebbe voluto scuoterla per ottenere una
reazione. “Devi averne molto, di denaro, per poterti
permettere
simili passatempi”.
“Sì,
è così. Problemi, Ross?”.
“Se
non ne ha tuo marito...” - rispose, sibillino.
L'espressione
di Demelza si incrinò a quella frase e con un gesto secco si
alzò
dal tavolo. Per un attimo parve triste e spersa, senza che Ross ne
capisse il motivo. “Mio marito non è affar tuo.
Pensa a tua moglie
e cerca di evitare di capitarmi fra i piedi”.
“Ti
ho detto che è solo un caso esserci trovati qui. Londra
è grossa ma
la parte della città che entrambi frequentiamo è
piccola e capiterà
spesso di incontrarci. Per puro caso!”.
Lei
lo guardò con l'espressione di chi non crede a una parola di
quello
che gli si dice. “Sì certo. Ma ascolta il mio
consiglio, di cuore.
I giardini di Vauxhall offrono a un uomo solo molti svaghi e molte
opportunità di gioire per una sera, salvo poi pagarne le
conseguenze
per tutta la vita. Portaci Elizabeth la prossima volta e non
rischierai di cadere in tentazione. A una come lei piacerà
questa
mondanità”.
Ross
sussultò. Il tono di voce di Demelza aveva un suono quasi
metallico
mentre parlava di Elizabeth... Parlava come se fosse ancora viva e
quindi lei non sapeva che... Non sapeva nulla della sua vita in
quegli anni e di certo non si era premurata di scoprire nulla nemmeno
ora che lo aveva rivisto a Londra. Si rese conto, con dolore, che
avrebbe voluto che lei si impicciasse perché significava che
lui in
qualche modo era ancora importante per lei. E invece... “Non
lo
sai?”.
“Cosa?”.
“Elizabeth
è morta. Di parto, sei anni fa”.
A
quella notizia che forse una volta l'avrebbe sconvolta, Demelza si
accigliò ma non ebbe altre reazioni e se era rimasta
turbata, era
molto brava a nasconderlo. “Oh, condoglianze” -
disse solo in
tono asciutto, cavandosela con quella frase di circostanza.
Ross
deglutì. “Ho un figlio, Valentine. Sono solo con
lui da allora”.
Lei
si scostò una
ciocca dalla
spalla. “E allora dovresti stare con lui e non qui con
me”.
Era
strano, si sentiva annientato. La morte di Elizabeth, ciò
che era
rimasto della sua vita e Valentine non la toccavano più,
anche se di
fatto anni prima tutto questo aveva distrutto le loro esistenze.
Elizabeth e tutto ciò che li aveva divisi in quegli anni non
c'era
più eppure guardandola, si rese conto che non le importava.
Era
troppo tardi, era sposata, era felice e si era dimenticata di lui...
Divenne freddo, per restituirle quel gelo che lei aveva messo fra
loro. “Anche tu hai quattro figli e sei
quì”.
“Sono
accuditi e coccolati. Non preoccuparti, ora torno da loro! Non sono
certo io quella che abbandona i suoi figli e su questo argomento non
accetto la morale da te. Tornatene a casa Ross, tornatene da quel
bambino che HAI SCELTO e che ora ha solo te. Era così
importante...
Vai, fallo per la tua Elizabeth, ne sarebbe tanto contenta e tu non
hai desiderato che la sua felicità”.
Improvvisamente
la freddezza divenne risentimento. Rabbia... Dolore... Ross fece per
reagire, risponderle, dire qualcosa che forse... forse...
Ma
Demelza non gliene diede il tempo. Prese il suo ventaglio dal tavolo
e gli voltò le spalle, avviandosi verso i cancelli
dell'uscita.
“Buona serata Ross” - sussurrò, mentre
la sua voce veniva
portata via dal vento.
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Capitolo 37 *** Capitolo trentasette ***
Aveva
detto a Bastian di far galoppare piano i cavalli mentre in carrozza
la riportava a casa, aveva bisogno di rimettere a posto le idee prima
di tornare dai suoi bambini.
Era
stata una serata orribile, passata in un posto che non faceva per lei
e dove si era imposta di andare per dimostrare a se stessa
chissà
che, aveva giocato a dadi perdendo dei soldi e alla fine, come in un
incubo che era destinato a ripetersi, era comparso Ross.
Era
inutile scappare, chi viveva vicino ai re e faceva parte del
Parlamento, occupava una piccola area di Londra e spesso si sarebbero
trovati faccia a faccia, doveva solo trovare la freddezza per
affrontarlo e abituarsi al fatto che quegli anni di leggerezza
vissuti con Hugh e ora, coi suoi figli, erano finiti.
Si
era imposta fermezza, si era ordinata di essere fredda, diretta e di
non tentennare e tremare davanti a lui. Ogni suo sentimento doveva
essere impenetrabile a Ross e anche a se stessa, non poteva farsi
sopraffare.
Lui
era sembrato un pò smarrito e meno sicuro di se stesso
rispetto ai
loro incontri precedenti, non aveva mentito quando aveva detto che si
trovava lì per caso, Demelza ancora adesso sapeva leggere le
sue
vere intenzioni e sapeva in cuor suo che era stato sincero.
Pensò
al loro colloquio, tanto freddo e formale, arido e privo di
sentimenti, nonostante le rivelazioni che si erano fatti. Era
così
che lei voleva che fosse ma pensare ai suoi baci, alle risate
insieme, alle serate trascorse a Nampara a chiacchierare davanti al
camino, ai momenti dolci che c'erano stati prima della catastrofe,
sentiva un dolore orribile schiacciarle il cuore. Era nostalgia, era
un sotterraneo desiderio che non fosse mai finita, quel desiderio
contro cui aveva combattuto per quasi sette anni... E aveva fallito,
a quanto sembrava.
Era
riuscita ad apparire glaciale e distante, certo, e ora Ross pensava
che fosse diventata una donna senza emozioni e senza cuore e se
davvero era così, aveva raggiunto il suo obiettivo.
Però... Però...
"Elizabeth
è morta. Di parto, sei anni e mezzo fa...".
Quella
frase, a cui aveva apparentemente reagito con noncuranza e con delle
fredde condoglianze, aveva avuto l'effetto di un uragano su di lei.
Ogni certezza, ogni sua convinzione che l'aveva accompagnata in
quegli anni era caduta e adesso si sentiva spersa e alla deriva.
Elizabeth
era morta dando alla luce il bambino di Ross e da donna e madre non
poteva non provare pena per lei. Anche se era la donna che avrebbe
voluto odiare più di chiunque altro, troppo bella, troppo
perfetta,
troppo desiderabile per reggere il paragone agli occhi di Ross con
lei.
Era
morta...
E
forse ognuno ha dal destino quello che si merita e forse in quegli
anni era riuscita davvero ad odiarla o a provarne comunque
compassione per quell'assenza di sentimenti e cuore che avevano
portato Elizabeth a schiacciare una donna che aveva solo cercato di
farle del bene... Forse ci era riuscita o forse no ad odiarla, ma
restava il fatto che la sua morte non l'aveva lasciata indifferente.
Aveva
perso Julia per salvare Elizabeth, ma questo non aveva contato,
né
per Elizabeth né per Ross... Julia era sacrificabile per
quel loro
amore che mai era morto... Non che Demelza si aspettasse qualcosa in
cambio per quanto aveva fatto per Elizabeth e Jeoffrey Charles a
discapito di se stessa e Julia, però quel tradimento aveva
comunque
fatto male...
Si
era fidata di Elizabeth, un tempo, pur conoscendo i sentimenti di
Ross.
Le
aveva fatto delle confidenze sulla gravidanza di Jeremy e lei aveva
finto amicizia e vicinanza, ma nel suo animo tramava per portarle via
suo marito... E poi, appena aveva potuto, gli aveva strappato Ross in
modo subdolo e crudele e lo aveva tenuto con se...
Quanto
era stata ingenua, allora...
Quegli
anni e quel passato tornavano a galla nelle mente di Demelza mentre
tornava a casa, anni di dolore che aveva cercato di dimenticare e di
relegare a un'altra vita. E ora erano di nuovo lì, a
chiederle il
conto stritolando il suo cuore e la sua anima.
Elizabeth
era morta e la morte forse cancella tutto, i torti e il bene fatto. E
in chi resta, rimane la pena per una donna che mai vedrà
crescere
suo figlio e mai vivrà l'amore dell'uomo che ha sempre
desiderato.
Non
avrebbe pianto per lei, no, sarebbe stato troppo. E le condoglianze
erano più che sufficienti. Ma non avrebbe nemmeno gioito,
nonostante
tutto non ne era capace. Era ancora ingenua come allora, dopo
tutto...
Pensò
a Ross, da solo con un bambino da sei anni e mezzo. Pensò a
quanto
doveva aver sofferto per la perdita di chi amava, a quanto l'avesse
pianta, a quanto si fosse logorato per non essere riuscito a
salvarla. Ross era così, non sarebbe mai cambiato e sempre
si
sarebbe sentito in dovere verso chi amava. Ed Elizabeth era il suo
tutto e la sua morte sì, che doveva averlo annientato! Non
la sua
partenza, non l'aver perso i suoi due bambini, no! Quello era niente
per Ross, loro non erano Elizabeth e il fatto che se ne fossero
andati era sicuramente stato vissuto come una liberazione. No, per
loro non aveva pianto. Ma per Elizabeth sì, doveva averlo
fatto e
ora, sicuramente, viveva per quel bambino che lei aveva lasciato...
E
a quel pensiero, la freddezza e l'autocontrollo che l'avevano
contraddistinta in quella serata, crollò. Si
accasciò sulla
poltrona della carrozza che la portava a casa e pianse. E mentre
piangeva per quell'uomo che per lei non aveva versato una lacrima ma
che doveva averlo fatto per Elizabeth, capì che Lady
Boscawen non
poteva nulla contro la Demelza di Nampara, la moglie di Ross.
Era
Demelza Poldark che piangeva, quella sera, non Lady Boscawen...
...
Quando
arrivò a casa, era ormai passata da un pò la
mezzanotte e rimase
per alcuni istanti nella carrozza per ricomporsi. Aveva gli occhi
arrossati e il viso rigato dal pianto e non voleva che qualcuno si
accorgesse che aveva singhiozzato come una bambina, tanto meno i suoi
figli.
Si
asciugò il viso con un fazzoletto e poi, con passo pesante
di chi si
sente profondamente stanco, si avviò verso la sua camera. I
bimbi
dovevano già essere a letto da un bel pò, la casa
era avvolta nel
silenzio e lei ci si sarebbe rifugiata fino al mattino, elaborando la
pesantezza di quella serata di cui non poteva parlare con nessuno e
magari, con la luce del sole, tutto gli sarebbe apparso meno
difficile...
Bastava
mettersi a letto...
Già,
il letto!
Peccato
che, quando entrò in camera, sussultò spaventata
trovandosi i suoi
quattro bambini perfettamente svegli, seduti sulle coperte, che la
aspettavano facendosi luce con delle candele sul comodino.
Spalancò
gli occhi. "Che ci fate quì, ancora svegli?" - chiese,
bruscamente.
"Dovevamo
chiederti delle cose! E dopo che Prudie ci ha messo a letto, quando
si è addormentata anche lei, siamo corsi quì ad
aspettarti".
Jeremy la osservò attentamente e Demelza
ringraziò che la penombra
non rendesse evidenti i suoi occhi rossi. "Mamma, come sono?".
"Cosa?".
"I
giardini di Vauxhall! Sono fantastici come dicono?".
Demelza
si avvicinò loro, sedendosi sul letto. "Non direi... Non mi
è
piaciuto molto".
"Ma
magari a me piacciono!" - insistette il bambino.
Lei
gli sorrise stancamente, cercando di procrastinare a una data lontana
le prime uscite da solo di Jeremy, in un ambiente che non fosse per
bambini. "Lo scoprirai... fra molti anni, temo!".
Clowance
le toccò la stoffa del vestito. "Hai incontrato qualche
principe che si è innamorato di te?".
Demelza
alzò gli occhi al cielo, era quasi crudelmente ironica
quella
domanda. "No, non direi...".
"Sicura?".
Le
sorrise, con sarcasmo. "Sì tesoro, sicura. Mai stata
più
sicura di qualcosa. E' stata una serata orribile, niente divertimento
e niente principe azzurro". Li guardò, osservando i gemelli
che
sembravano anche loro intenzionati a parlare. "E voi? Che dovete
dire?".
Demian
incrociò le braccia al petto, imbronciato. "Mamma, lo sapevo
che non ti piaceva, visto che io non c'ero! E poi hai detto che
tornavi presto e è tardi! Non si dicono le bugie e io ti
aspettavo
da tanto".
Gli
sorrise, chinandosi a baciarlo sulla testolina, pentita di averlo
lasciato solo e decisa a non farlo mai più. "Hai ragione,
scusa".
"Va
bene..." - rispose il bimbo.
E
a quel punto, toccava a Daisy. "Tu? Che cosa devi chiedermi?".
Daisy
le portò il braccio sotto il naso, facendoglielo odorare.
"Senti?".
Demelza
annuì. "Profumo di violetta... Come mai?".
Daisy
si imbronciò più del fratello. "Dopo cena sono
uscita a
giocare scalza, visto che le mie scarpe le ha la bambina povera! E la
nonna mi ha fatto il bagno, anche se me lo aveva già fatto
Prudie!
COL SAPONE!!! Due volte in un giorno!".
Demelza
rise, forse per la prima volta in quella serata difficile. "Beh,
ora capisco! Il sapone alla violetta della nonna... E' prezioso,
dovresti esserne contenta!".
Daisy
scosse la testa, facendosi calare sul viso i suoi lunghi capelli
biondi. "Non mi piace, puzzo di prato adesso! E poi Prudie dice
che i bambini troppo puliti si ammalano! Ecco, adesso io mi ammalo e
muoio ed è tutta colpa di nonna Alix".
Jeremy,
Clowance e Demian si voltarono verso Demelza, preoccupati.
Alzò gli
occhi al cielo, nuovamente, riflettendo che doveva fare due
chiacchiere con Prudie e soprattutto, non lasciare più da
soli coi
Boscawen i bambini, di sera. "Non ti ammalerai, non ci si ammala a
farsi il bagno".
Demian
sospirò. "Allora non resto senza la mia gemellina?".
"No".
"Daisy
non muore? Non resto solo?".
"No,
non muore e resterà con te per tutta la vostra lunghissima
vita di
gemelli!".
I
quattro bambini parvero sollevati da quella spiegazione e a quel
punto, Demelza decise che era ora che dormissero. "Su adesso, se
avete finito, andate in camera vostra a dormire! E' tardi!".
Demian
annuì. "Sì, tutti nel vostro letto, VIA!!!" -
ordinò,
esibendo una notevole faccia tosta.
I
bimbi e Demelza lo guardarono divertiti. "Demian, anche tu
avresti un letto" – disse la donna – "Anzi, due!
Uno
nella nursery e uno in camera con Jeremy" –
osservò.
Demian
si buttò sul materasso, a pancia in giù.
"Domani!" -
rispose, come sempre, chiudendo il discorso.
Demelza
sorrise, chiedendosi quando sarebbe arrivato questo benedetto
'domani', ma allo stesso tempo grata di averlo vicino.
Salutò gli
altri tre, li rispedì con un bacio a letto e si
coricò,
ringraziando Dio di avere quei quattro bambini che sapevano farla
sorridere anche quando si sentiva morire.
La
manina di Demian la toccò, quando rimasero soli. "Mamma?".
"Dimmi".
"Sei
arrabbiata?".
"No,
perché?".
Demian
si voltò verso di lei, stringendosi al suo ventre.
"Perché hai
pianto".
Sussultò,
come aveva fatto ad accorgersene? "No... Non è vero"
–
balbettò, rendendosi conto ancora una volta che era
difficile
nascondere ai propri figli dolore e rabbia, quando li provava. Erano
percettivi su queste cose, non riusciva a nascondere nulla quando si
trattava di sentimenti e Demian soprattutto, era talmente legato a
lei da accorgersi di ogni variazione del suo umore.
"Mamma,
però tu dici che non dobbiamo dire le bugie".
"Non
ho detto una bugia. E' stata solo una brutta serata, capita quando si
è grandi... Passerà!".
Demian
la fissò coi suoi occhioni azzurri e trasparenti. "Davvero?".
"Davvero"
– rispose, stringendolo a se. Doveva passare per forza e
soprattutto, doveva decisamente imparare a gestire meglio i suoi
sentimenti per non renderli chiari ai suoi figli. Esattamente come
aveva fatto con Ross!
...
Quella
mattina Ross si era alzato presto, dopo una notte passata
praticamente insonne.
L'incontro
fortuito con Demelza ai giardini di Vauxhall gli aveva lasciato un
terribile amaro in bocca e non riusciva più a capire cosa
fare, cosa
dire e soprattutto, chi lei fosse.
L'immagine
di quella bellissima e seducente donna dai capelli rossi che giocava
a dadi non rifletteva la sua Demelza, quella dei suoi ricordi, quella
dal sorriso sincero e dai desideri semplici e genuini. No, gli era
apparsa come una donna annoiata, viziata, capricciosa e fredda, come
tante altre in quell'ambiente tanto ricco di Londra.
Eppure
non ci credeva, anche se lei voleva dimostrarsi fredda e distante,
MAI lui l'avrebbe creduta capace di cambiare tanto. Non lei, non
quelle come lei con l'anima buona e candida che nemmeno i dolori
più
grandi potevano macchiare. Nemmeno lui, con tutto il dolore che le
aveva arrecato.
Pensando,
si era reso conto che aveva sbagliato tutto, dal suo arrivo a Londra.
Si era imposto con lei in maniera prepotente e senza considerare la
sua vita e i suoi sentimenti, lo aveva fatto senza conoscere nulla
della sua nuova famiglia e di come viveva e così non aveva
fatto
altro che irrigidirla e turbarla, ottenendo il risultato finale visto
a Vauxhall.
Eppure
Demelza non era così, l'aveva vista alla gara di trotto, da
lontano,
ridere come una volta coi suoi bambini. E al matrimonio, mentre
abbracciava sinceramente commossa la sua amica che si era appena
sposata...
Quella
era la Demelza vera, quella che non sarebbe mai cambiata, non la
donna che per difendersi era diventata fredda e distante ai giardini
di Vauxhall, tanto da apparire noncurante anche davanti alla notizia
della morte di una donna giovane. Elizabeth aveva fatto molto male a
Demelza eppure sapeva che lei non sarebbe mai stata capace di odiarla
né tanto meno di gioire della sua scomparsa.
Doveva
parlarle, mai si sarebbe arreso, ma doveva cambiare registro e
imparare a conoscerla di nuovo per capire come arrivare a lei e al
suo cuore. E per farlo, c'era una sola persona che poteva aiutarlo,
una persona che le era stata accanto e che conosceva bene entrambi e
la loro storia.
"PRUDIE!".
Certo,
doveva pensarci prima! Prudie lo conosceva fin da quando era bambino,
era stata a Nampara con loro e aveva seguito Demelza a Londra. Lei
sapeva tutto, sia di lei che del suo misterioso marito. Da lei
avrebbe potuto avere tutte le risposte che cercava!
Non
aveva idea di come lo avrebbe accolto e magari si sarebbe beccato
anche uno scappellotto ma doveva provare!
Prudie
si prendeva cura dei bambini e quindi, quale posto migliore dei
giardini di Kensington al pomeriggio, per incontrare una tata?
I
suoi figli giocavano la e lei sarebbe stata nei paraggi.
E
così, dopo aver sbrigato alcune faccende in Parlamento, si
era
recato in quel parco pieno di marmocchi ricchi e infiocchettati e
bambinaie. Era stato attento a non farsi vedere, a rimanere
nell'ombra dietro a siepi e piante, aveva atteso con pazienza e
finalmente, dopo le cinque del pomeriggio...
Da
sola, col suo passo pesante, era uscita dal portoncino che collegava
i giardini al parco privato dei Boscawen e la vide dirigersi a
recuperare i bimbi che probabilmente erano lì intorno a
giocare.
Si
nascose dietro una grossa siepe e quando lei vi passò
davanti, uscì
dall'ombra, parandosi viso a viso con lei. "Prudie...".
La
donna divenne pallida come un fantasma, fece per urlare dallo
spavento e lui, prontamente, le coprì la bocca con la mano.
"Vuoi
far spaventare tutto il parco?".
Prudie
indietreggiò, terrorizzata ed evidentemente colta di
sorpresa. Beh,
non poteva darle torto, in effetti era stata una comparsa ad effetto
che poteva farle venire un colpo, dopo quasi sette anni di vuoto...
"Si...
Signore... Allora è vero... Giuda, potevate uccidermi?!".
Ross
la guardò storto. Eccola, la sua domestica scansafatiche che
si era
sistemata in una grande ed elegante casa di Londra dove, poteva
scommetterci, bivaccava alle spalle dei Boscawen. "Quanto
tempo..." - disse, ironicamente.
Prudie
deglutì spaventata. "I... Io devo andare. Non posso parlare
con
voi, la signora, se lo sapesse...".
La
prese per il braccio, bloccandola. "Prudie, ti prego! Se sono
quì, è perché ho bisogno di te e del
tuo aiuto".
Prudie
scosse la testa. "No no, io so che cosa volete e no! Lasciatemi
in pace, LASCIATECI in pace! La signora mi uccide, se lo sa!".
"Prudie!".
Veloce
come un gatto e insolitamente agile nonostante la stazza, Prudie
schizzò via alla velocità della luce, riuscendo a
sfuggirgli.
“Prudie,
aspetta!”. Le corse dietro, deciso
a non perderla di vista.
La
domestica accelerò il passo, diventando rossa dallo sforzo e
dallo
shock di ritrovarselo davanti dopo tutti quegli anni. “Ho
fretta”
- balbettò, mentre lui la superava e le serrava la strada.
“Solo
un attimo”.
Prudie
si bloccò, guardandosi in giro furtiva. “La
signora mi ha detto
che eravate in città ma non vuole vedervi e avere a che fare
con
voi. E la cosa include me e i bambini. Andate
via, prima che qualcuno ci veda! Datemi retta, almeno una volta! O
siete rimasto il caprone testardo di allora?”.
Ross
scosse la testa, per nulla intenzionato ad arrendersi. “Ho
solo
bisogno di fare alcune domande, di avere delle risposte, ho bisogno
di sapere qualcosa dei bambini e
di Demelza e tu sei l'unica che...”.
“La
signora mi ha detto che li avete visti da Lord Falmouth e che sapete
del suo matrimonio con il Tenente Armitage e dei gemellini. Sapete
tutto e io devo andare a riprendere i bambini”.
Ross
spalancò gli occhi, guardandosi in giro. “Sono
qui? Dove?”.
Prudie
sbuffò. “Certo, tutti i mocciosi aristocratici di
Londra giocano
qui, ai giardini di Kensington. I bambini ci vengono da soli, il
giardino del loro palazzo confina direttamente col parco e vanno e
vengono da un cancello sorvegliato dalle guardie di famiglia. Vengono
a giocare qui tutti i giorni e io di solito li vengo a riprendere
prima di cena”.
“Dove
sono?” - richiese.
Prudie
si adombrò. “Signore, state lontano da loro e da
Demelza. Voi non
c'entrate più niente con loro, non vi appartengono
più e sono
felici. Lo è anche la signora e voi non volete farle del
male,
vero?”.
“Certo
che no!” - rispose, piccato, capendo
che Prudie parlava anche per il suo bene ma comunque deciso a non
arrendersi. Sarebbe stato difficile per tutto ma anche Prudie lo
sapeva, che lui e Demelza dovevano parlare.
“Non voglio
farle del male... Non più”.
Prudie
gli toccò gentilmente il braccio. “Ma gliene fate,
ogni volta che
la incontrate o cercate di vederla. Me
lo ha raccontato...
Lei ora è serena ma ha pianto tanto in passato e io c'ero e
la
vedevo. Merita di stare tranquilla e lo meritano anche i bambini.
Loro hanno una nuova vita, un nuovo nome, due nuovi fratellini. E
sono creature di Londra, non appartengono più alla
Cornovaglia e a
Nampara”.
Ross
si adombrò, faceva male sentire quelle cose anche se di
fatto,
avendo visto i suoi figli nella casa di Lord Falmouth, in cuor suo
già lo sapeva. “Posso chiederti solo una
cosa?”.
“Cosa?”.
“Lo
ha sposato per amore, come dicono in giro?”.
Prudie
deglutì, fece per rispondere ma fu interrotta dall'arrivo
delle due
bambine.
Ross
sussultò. Eccola, sua figlia, quella che non aveva mai preso
in
braccio e che per anni non aveva avuto nei suoi ricordi nemmeno un
volto. Bellissima, coi lunghi capelli biondi pettinati in morbidi e
perfetti boccoli tenuti a bada da un nastro azzurro come il suo
vestito di pizzo. Era linda e pulita come se fosse appena uscita da
Messa o da una lezione con un precettore e non sembrava reduce da un
pomeriggio di giochi all'aperto. Aveva un'espressione arrabbiata e
stizzita e la sua camminata era nervosa, furente. E pareva aver
pianto... Dietro di lei c'era la bimba più piccola che, a
differenza
della sorella, aveva i lunghissimi capelli biondi tutti scompigliati
e sparsi anche davanti al viso, era sporca di fango e il suo abitino
rosa era chiazzato di terra e strappato in alcuni punti. Sembrava una
monella di quelle che vedeva attorno alle miniere, che aspettavano il
ritorno dei loro padri dal turno di lavoro, piuttosto che una piccola
lady di Londra.
Prudie
gli fece cenno di non fiatare e poi si rivolse a Clowance.
“Che è
successo? Come mai quegli occhi rossi?”.
La
bambina picchiò il piedino per terra, furente. “Io
lo odio!”.
“Chi?”
- chiese Prudie, per niente turbata e forse abituata a quel tipo di
scene che invece a Ross sembravano così estranee e fuori dal
mondo.
Ma in fondo, di che si stupiva? Non conosceva Clowance, non conosceva
più Jeremy e non aveva idea di come fosse il loro mondo.
“Jeremy!”
- sbottò la bambina.
“Avete
litigato?”.
“Sì,
non vuole fare quello che gli dico”.
Improvvisamente,
arrivò una terza bambina dai capelli biondo rame, tutta
piena di pizzi e fiocchi, anche
lei in lacrime. “Sono disperata!” -
borbottò, rivolgendosi a
Prudie fra i singhiozzi.
La
donna alzò gli occhi al cielo. “Sei di nuovo
zitella, Catherine?
Jeremy ti ha
dato buca ancora?”.
A
quella domanda posta senza tatto e mezzi termini, la piccola
scoppiò
a piangere ancora più forte, correndo via verso quella che
doveva
essere la sua bambinaia.
Ross
si grattò il mento, pensieroso. Quella Catherine, tolto
l'abito
pacchiano e i mille fiocchi, era davvero una bella bambina e suo
figlio in fatto di donne era un idiota quanto lo era stato lui...
Clowance
calciò un sassolino, frustrata. “Jeremy
è orribile, non vuole
fidanzarsi con lei e sposarla! E così io non posso diventare
come
una sorella per la mia migliore amica!”.
Prudie
borbottò qualche parolaccia incomprensibile, poi
sbuffò
rumorosamente. “Dov'è Jeremy? E Demian?”.
Clowance
fece un cenno col capo, indicando un grande tiglio poco lontano.
“Si
è arrampicato la sopra. Lascialo lì, su in alto,
per sempre!”.
“Giuda,
come arrampicato? E Demian?”.
Clowance
alzò le spalle. “Visto che si è
arrampicato Jeremy, è salito
sull'albero anche lui”.
La
domestica sospirò. “Vado a riprenderli, tu va a
casa”.
La
bambina tirò su col naso, trattenendo le lacrime.
“Sì, vado a
casa e mi chiudo in camera mia a piangere per sempre! Per colpa di
Jeremy la mia vita è distrutta”.
Ross
spalancò gli occhi e per un attimo faticò a
credere di essere il
padre di quella bambina di sei anni tanto elegante, che si esprimeva
in maniera così melodrammatica e che pareva piuttosto
portata ai
toni plateali. Si fece mille domande sui rapporti fra i bambini, su
quel mondo patinato dove a sei anni pensavi già a
fidanzarti, sulle
dinamiche che animavano quei gruppetti di piccoli aristocratici che
scorrazzavano nel prato e si domandò se intervenire. E poi,
intervenire? Come? Clowance non lo aveva degnato di uno sguardo ed
era normale così, per lei lui non era che un estraneo
qualsiasi e di
certo non poteva subentrare in quella lite fra bambini come avrebbe
potuto fare da padre, a Nampara, se fossero cresciuti con lui.
Prudie
le diede una leggera spintarella. “Su, va a casa e piangi in
camera
tua fino all'ora di cena. Poi vedi di ricomporti e di scendere a
mangiare o ci penserà tua madre a farti sentire davvero
disperata”.
Clowance
annuì, poi corse via.
Prudie
osservò la bambina più piccola. “Mi
spieghi perché tua sorella
sembra uscita da una boutique e tu da una palude? Guarda come sei
sporca”.
Daisy
alzò le spalle. “Non lo so”.
“Non
toccarti la faccia con quelle mani sporche di terra, mi
raccomando!”.
A
quella imposizione di Prudie, la bimba fece un sorrisetto malizioso e
furbo, dimostrando un'intelligenza e una voglia di provocare inusuale
per una mocciosetta di tre anni. E prima che la donna potesse
fermarla, si diede due sonore pacche sulle guance, sporcandosi il
viso e scoppiando a ridere compiaciuta di essere riuscita a
disubbidire. “Guarda, adesso sembro un brigante!”.
“Giuda,
piccola bestiolina demoniaca!” - urlò Prudie,
prendendola per il
polso e dandole una sculacciata sul sederino che, invece di farla
piangere, la fece ridere più forte.
“Giuda,
mi hai fatto diventare rosso il culetto!” - gridò
Daisy, imitando
la voce di Prudie. “Ma tanto non mi hai fatto
niente!”.
Ross
rimase perplesso ad osservare quella piccola bambina selvaggia e gli
venne da ridere, nonostante tutto. L'aveva già vista
all'opera
alcune volte, assieme al suo degno, biondo gemellino, ed era rimasto
impressionato dalla vivacità e dalla scaltrezza di quei due
che
tutto sembravano, eccetto che piccoli lord destinati a guidare
l'aristocrazia di Londra, un giorno. Ci vedeva Demelza in loro, la
Demelza che aveva conosciuto alla fiera di Redruth tanti anni prima.
Non aveva idea di che tipo fosse il loro padre ma di certo, a parte
il faccino angelico e i capelli biondissimi, avevano preso tutto
dalla loro madre.
Prudie
intercettò il suo sguardo divertito e ringhiò fra
i denti. “Come
vedete, ho da fare! Ho una bambina che piange disperata in camera,
un'altra che vorrei affogare nel laghetto e due bambini da recuperare
dalla cima di un albero. Non c'è davvero posto nel mio
pomeriggio
per voi, signore”.
Ross
deglutì ma Prudie non gli diede tempo di dire altro. La
donna si
voltò verso la piccola, con sguardo severo. “Segui
il percorso
fatto da tua sorella e torna a casa. Dritta a casa!”.
“Sì”.
“Subito”.
“Subitissimo!”
- rispose Daisy, con un sorriso birichino sul viso che non faceva
presagire niente di buono.
Prudie
sospirò, arrendendosi all'idea che doveva portarla con se.
La
riprese per mano, la trascinò via e lo sorpassò,
lasciando Ross
solo, in mezzo al parco, circondato da mille bambini e bambinaie che
correvano ovunque. “Buona serata, signore. A voi e alla
vostra
famiglia”.
Ross
fece per dirle qualcosa ma la donna era già lontana e
poté solo
sentirla chiedere a Daisy maggiori delucidazioni sul litigio dei
fratelli, sulle cui cause la bimba mantenne il massimo riserbo
dicendo che non sapeva nulla. E Ross ebbe l'assoluta certezza che la
piccola peste stesse nuovamente mentendo...
Ad
un certo punto, mentre Prudie la trascinava via, la bimba si
voltò
verso di lui e per un attimo pensò che volesse salutarlo. Ma
non era
niente del genere, ovviamente. Lo guardò, lo
studiò per un attimo e
poi, con una sfacciataggine incredibile, gli fece la linguaccia. E
Prudie, prontamente, le diede un'altra sculacciata sul sedere,
spingendola
avanti con fare non molto materno. “Va a dire a quei due
disgraziati sull'albero di scendere e di correre a casa, prima che
scaldi anche i loro, di sederi!”.
Daisy
capì che era meglio filar via e Prudie, inaspettatamente, si
voltò
verso di lui. “Domattina, alle nove,
quì...”.
Ross
sussultò. “Cosa?”.
Prudie
si guardò in giro guardinga. “Al mattino, mentre
Jeremy e Clowance
studiano, la signora esce con la suocera per delle commissioni e io
porto i gemelli qui al parco per farli giocare, in modo che non
disturbino le lezioni dei due più grandi. Saremo soli, al
mattino
qui c'è poca gente... Distraggo i due mocciosi, li
sguinzaglio per
il parco e vi parlerò, per quel che potrò. Ma non
ditelo a
nessuno... E davanti ai gemelli, attento a come fate e a cosa dite.
Non ci conosciamo, VA BENE?”.
Ross
sospirò, quanto era sospettosa! “Son solo due
bambini piccoli, che
vuoi che capiscano?”.
Prudie
lo guardò storto. “Sono malefici, bisogna stare
attenti, notano
TUTTO!”.
Ross
capì che doveva fare come diceva lei e annuì,
talmente grato che
l'avrebbe abbracciata e baciata, se avesse potuto. “Domattina
alle
nove” - sussurrò.
Prudie
lo guardò con sguardo severo, forse non così
sicura che stesse
facendo bene. E poi sparì, correndo dietro alla gemellina.
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Capitolo 38 *** Capitolo trentotto ***
Quella
notte, Ross non era riuscito a chiudere occhio. Mai nella vita,
avrebbe pensato che un appuntamento con Prudie potesse portarlo a
tanta agitazione ed era ironico pensare che quella donna schietta,
una serva figlia del popolo e poco propensa a lavorare, fosse
l’unico
suo appiglio per sfiorare e accarezzare ciò che era rimasto
della
sua famiglia.
Al
mattino si era svegliato prima dell’alba, con grande sorpresa
dei
Gimlet che, probabilmente, lo avevano sentito girarsi e rigirarsi nel
letto tutta notte, aveva fatto una colazione veloce mugugnando che
aveva impegni urgenti per quella mattina, dato disposizioni sulla
giornata di Valentine, salutato il bimbo ancora mezzo addormentato ed
era uscito subito, arrivando ai giardini di Kensington ben prima
dell’ora concordata per l’incontro.
I
giardini erano deserti a quell’ora e il cinguettio degli
uccelli
che volavano fra i rami degli alberi donavano un piacevole senso di
pace ai suoi sensi annebbiati dall’ansia. Gli scoiattoli
correvano
sui tronchi, giocavano ad inseguirsi e sgranocchiavano ghiande e Ross
si fermò a guardare le piante rigogliose, i vialetti, le
panchine e
tutti gli angoli e gli anfratti che i suoi figli dovevano conoscere
come le loro tasche. Si chiese su quale albero si fosse arrampicato
Jeremy il giorno prima, perché non gli piacesse la graziosa
Catherine, perché Clowance ce l’avesse tanto con
lui, quali
fossero i loro giochi preferiti, i loro gusti a tavola, le loro
abitudini, tutto… Non sapeva nulla di loro, assolutamente
niente e
su questo Demelza aveva ragione, un padre queste cose le sa…
Arrivarono
le nove e le aspettò seduto su una panchina posta nel punto
dove
aveva fermato Prudie il giorno prima, da cui si vedeva il retro
dell’enorme palazzo dei Boscawen. Lei, la sua Demelza era
lì,
dietro quelle possenti mura, magari fra le braccia del suo nuovo
marito che forse la stava baciando, con cui forse…
Tremò dalla
rabbia e dalla gelosia, capendo che non poteva pensarci, non doveva o
sarebbe impazzito! Sembrava tanto felice Demelza prima di incontrare
lui mentre dopo, solo freddo e amarezza erano giunti da lei…
Non
lo voleva a Londra, era palese che lei non lo volesse nella sua vita
e aveva ragione a desiderarlo ma non poteva esaudirla, non in questo,
non dopo sei anni e mezzo passati a prendere a testate il muro per la
preoccupazione di cosa ne fosse stato di lei e dei loro bambini.
Cosa
doveva fare? Lottare per lei? O semplicemente accertarsi che stesse
davvero bene con chi la amava e amava i bambini, lasciando che poi
vivessero la loro vita senza di lui? Non lo sapeva, non sapeva
più
nulla se non che aveva fatto mille errori e ora ne pagava amaramente
le conseguenze. E l’avrebbe fatto per tutta la vita.
Cosa
aveva buttato via per uno stupido sogno? Quante promesse aveva
infranto nel più crudele dei modi? Quante volte aveva avuto
l’occasione di fermarsi e porre rimedio ai suoi errori e poi
non lo
aveva fatto?
Se
n’erano andati, lo avevano lasciato alla sua vita fatta di
sogni
infantili e vuoti e ora c’era un uomo che i suoi bambini
chiamavano
papà e che in quel momento amava in ogni modo possibile la
donna che
per lui era tutto.
Un
vociare infantile lo destò dai suoi pensieri e dal fondo del
vialetto vide comparire Prudie coi due gemellini. Il maschietto
correva davanti, con dei pantaloncini blu e una camicina di lino
bianca, inseguendo uno scoiattolo che cercava di scappare dalle sue
grinfie e la bambina, pettinata con due lunghe treccine e con indosso
un vestitino rosso, saltellava tutta contenta accanto a Prudie che,
dalla faccia, sembrava desiderare solo di trovarsi ancora a letto.
Appena
la donna lo vide, gli fece un cenno impercettibile di saluto col
viso, chiedendogli silenziosamente di non parlare finché ci
fossero
stati i bambini.
Ross
annuì e abbassò il viso, fingendo di leggere un
giornale che aveva
portato con se per passare inosservato. Finse di ignorarli anche se,
con la coda dell’occhio, osservò i gemellini.
Erano impietosamente
belli, due piccoli capolavori di cui sicuramente i Boscawen andavano
fieri anche per l’eccezionalità di un parto
gemellare, cosa
piuttosto rara che destava scalpore e curiosità e che doveva
averli
resi ancora più celebri. Dovevano essere
l’orgoglio del loro
padre, pensò amaramente… E anche di
Demelza…
Prudie
rallentò il passo e la piccola Daisy si guardò
attorno per vedere
cosa fare quando, a sorpresa, si voltò verso di lui,
indicandolo con
l’indice della mano destra. “Tu c’eri
anche ieri, signore!”.
Ross
sussultò, Prudie spalancò gli occhi e per un
attimo calò un
silenzio glaciale. Era vero, a quei due mocciosi non sfuggiva nulla,
dannazione!!!
Prudie
la prese frettolosamente per la mano, cercando di distrarla.
“Non
essere maleducata e non importunare il signore! Abita qui,
probabilmente! E gli piace passeggiare al parco! Su, andate a
giocare!” – ordinò loro, sbrigativamente.
Daisy
si mise le mani sui fianchi, per nulla d’accordo.
“No, voglio
stare qui!”.
Ross
deglutì, si metteva male e in cuor suo sperò che
Prudie potesse
liberarsi di loro in fretta.
La
donna indicò ai bimbi un cespuglio con dei fiori.
“Volete fare un
regalo a Prudie che vi vuole tanto bene?”.
“NO!”
– risposero i gemelli, in coro.
“Non
volete far contenta la vostra Prudie raccogliendo per lei dei
fiori?”.
“NO!”.
La
donna li fulminò con lo sguardo e Daisy sostenne le sue
occhiatacce.
“Sono la i fiori, prendili da sola!”.
Ross
alzò un sopracciglio, cominciando a inquadrare ancora meglio
il
caratterino dei due mostriciattoli. Ciò che dicevano le
leggende su
quanto fossero terribili i gemelli, era vero…
Guardò Prudie,
sperando avesse una soluzione.
E
lei sospirò, sedendosi sulla panca pesantemente, anche se
dallo
sguardo avrebbe voluto mangiarseli, quei due. “Andate,
giocate,
fate quel che volete! Ma sparite!”.
Demian,
il maschietto che a Ross sembrava un bambolotto, prese la parola,
dimostrandosi non meno sveglio della sorella. “Cosa devi fare
di
nascosto, che non ci vuoi?”. No, decisamente non era un
bambolotto
nemmeno lui...
Prudie
ringhiò. “Siete troppo rumorosi, andate a giocare
lontano e fatemi
dormicchiare un po’ ancora! E fate leggere il giornale a
questo
povero signore! Siete autorizzati a fare tutto quello che volete,
basta che ve ne andiate!”.
Demian
sorrise. “Posso salire sugli alberi?”.
“Sì,
scalali TUTTI!”.
“Ohhh,
bello!”.
Daisy
alzò le spalle. “Tutto, tutto? Possiamo davvero
fare tutto quel
che vogliamo?”.
“Sì”
– rispose Prudie, d’istinto. Ma poi si
bloccò, saggiamente,
rettificando… “Tutto quello che NON mi farebbe
arrabbiare. Ti
scaldo di nuovo il sedere prima di mezzogiorno se fai disastri,
ricordatelo!”.
Daisy
annuì, imitata da Demian, poi però
tornò a guardare Ross.
“Signore?”.
Lui
deglutì, era la prima volta che si rivolgevano a lui.
“Sì?”.
“Prudie
è nostra, non tua!” – lo
ammonì, dimostrando che non si era per
niente bevuta la balla del giornale.
“Me
lo ricorderò…” – fu costretto
a rispondere.
A
quelle parole, i gemelli si guardarono in modo furbo, risero e poi
finalmente corsero via.
Ross
si accasciò sulla panchina. “Mai visti dei
gemelli, prima d’ora!”.
E
Prudie lo guardò di sbieco, borbottando. “Certa
gente ha delle
fortune che non si merita!”.
Ross
azzardò un timido sorriso, abbassando lo sguardo. Era
così strano
trovarsi a parlare con Prudie dopo tanto tempo... Sapeva di casa, di
cose antiche, di ricordi di famiglia che aveva perso e cancellato da
anni di dolore e solitudine. "Ti ringrazio per essere venuta,
non ero così sicuro di trovarti quì stamattina".
La
donna sospirò, guardandolo con aria severa. "Non ci ho
dormito
per questa cosa, tutta notte! Ero indecisa se venire in pace o con un
martello da darvi in testa, ma poi col martello non sarei passata
inosservata e ho lasciato perdere! Non sono così certa di
far bene a
stare quì e mi sembra di tradire la fiducia della signora".
"Non
voglio che tu lo faccia e nessuno saprà mai che ci siamo
visti"
– la tranquillizzò.
Prudie
indicò i bambini che, correndo, si stavano allontanando. "Lo
sapranno loro! E loro sono pericolosi".
"Sono
solo due bambinetti... Tremendi, ma pur sempre bambini".
Prudie
alzò un sopracciglio. "Non sottovalutateli, notano tutto e
non
si lasciano fregare tanto facilmente".
Ross
sospirò. "Beh, allora forse dovremmo fare in fretta".
Prudie
annuì. "Cosa volete sapere? La signora mi ha detto di avervi
visto alla gara di trotto e al centro di aiuto ai poveri e ne era
davvero sconvolta. Lo sono stata anche io, non credevo che vi avremmo
rivisto e ci ho pensato per giorni. Ieri mi avete spaventato ma lo
sapevo che mi sareste comparso davanti come uno spettro, prima o poi,
io vi conosco e siete peggio di un cane che fiuta una preda, quando
ne trovate una!".
Ross
sorrise amaramente, era decisamente schietta come la ricordava. "Cosa
voglio sapere? Tutto! Tutto quello che puoi dirmi, perché
Demelza
non mi ha detto nulla... L'ho vista anche l'altra sera, ai giardini
di Vauxhall, da sola. Non te l'ha detto?".
Prudie
spalancò gli occhi, non se lo aspettava. "No, questo no".
Ross
parve sorpreso ma poi capì che forse Demelza, che in
quell'incontro
aveva scoperto cose che lo riguardavano e che le erano sconosciute,
avesse avuto bisogno di tempo per analizzare quanto aveva appreso,
con calma, prima di parlarne. Era cambiata, era meno irruenta e forse
aveva imparato a ponderare azioni e parole, negli anni... "Beh
non importa" – concluse. "Dimmi solo qualcosa di lei, dei
bambini, di suo marito... Io frequento Lord Falmouth ma ovviamente
non mi azzardo a chiedere a lui e Demelza non vuole parlarmi, ma io
DEVO sapere! Lo capisci? Non posso far finta di nulla, dopo aver
rivisto mia moglie e i miei bambini".
Prudie
si accigliò. "La signora non è più
vostra moglie e i bambini
portano un cognome che non è Poldark! Avete deciso che non
volevate
più avere a che fare con loro e hanno iniziato una vita
quì".
Ross
parve ferito da quelle parole di certo vere in chi lo aveva
conosciuto sette anni prima ma che non corrispondevano a
verità nel
suo cuore. Mai! "Non ho mai desiderato questo e tu lo sai,
Prudie... Mi conosci...".
"Credevo
di conoscervi! Ma poi avete abbandonato la signora e il bambino e
siete diventato come tanti altri uomini, egoista e crudele con chi
più vi amava...".
Ross
abbassò lo sguardo, ripensando a quei mesi terribili dove
non solo
aveva perso la sua famiglia ma soprattutto se stesso e il rispetto
per l'uomo che voleva essere e non era stato. "Ho commesso molti
errori, sono stato egoista, idiota e non ho saputo apprezzare
ciò
che avevo. Credevo di avere diritto a qualcosa che non era
più mio,
solo perché lo avevo desiderato tanti anni prima ed era
tornato
libero. Qualcosa che ai miei occhi appariva come puro, candido,
liscio e senza problemi, qualcosa che mi attirava perché mi
allontanava dai disastri della Wheal Grace, dai problemi di denaro,
dal dolore per Julia... Quando Francis morì, improvvisamente
ero di
nuovo io il mondo di Elizabeth, quello che poteva salvarla e
diventare di nuovo un principe ai suoi occhi... Non mi rendevo conto
di quanto lei fosse cambiata e soprattutto io. Non ero più
un
ragazzino ribelle e sognatore, ero un marito e un padre ma non lo
vedevo, non ci riuscivo più... Avevo smarrito me stesso ma
mai, MAI
ho agito con la consapevolezza di far del male a Demelza. Pensavo che
avrebbe capito, accettato, che avrebbe aspettato che tutto finisse
perché SAREBBE finito, in cuor mio sapevo che prima o poi
avrei
capito e sarei tornato ad essere l'uomo che ero diventato e non il
ragazzino che ero stato. Io non volevo finisse così, non mi
rendevo
conto di quanto gravi fossero le mie azioni e i miei comportamenti!
Non pensavo di cadere tanto in basso quella notte, non volevo fare
del male a Demelza e non desideravo certo che ne uscissero
conseguenze tanto gravi. Ero fuori di me! Sono stato idiota e
meschino, hai ragione! Ma mi conosco e se non avessi toccato con mano
il fondo, se non avessi visto coi miei occhi che ciò che
credevo
perfetto era solo un'effimera illusione, non avrei mai smesso di
inseguire quel sogno che mi aveva ricatturato dopo le morti di Julia
e Francis... Il problema era che, quando ho capito, il destino mi ha
chiesto il conto dei miei errori. Ma ho sbagliato, tentando di fare
la cosa più giusta, ho finito per fare la scelta
più infelice... Ho
scelto di prendermi le responsabilità dei miei errori verso
la donna
a cui, col mio gesto, avrei rovinato la vita, ho scelto con la mente
ma non con il cuore, ho scelto credendo di fare ciò che
doveva
essere fatto. Credevo di salvare lei e di potermi prendere cura di
Demelza ma non ce l'ho fatta, era palese che non potevo riuscirci...
Ho sbagliato, avrei dovuto difendere e proteggere la mia famiglia e
avrei dovuto farlo da ben prima di quella notte terribile in cui ho
distrutto tutto, avrei dovuto farlo fin da quando ho deciso di
sposarmi... Demelza e i bambini dovevano essere al primo posto e
nessun altro. L'ho capito quando era troppo tardi e avevo perso
tutto".
Prudie,
silenziosa, era rimasta ad ascoltarlo senza fiatare. "Beh, non
tutto... Ora avrete una bella famiglia con quella gattamorta
là, di
Trenwith".
Ross
sospirò. Già, se Demelza non gli aveva parlato
del loro incontro a
Vauxhall, Prudie non poteva sapere cos'era successo in Cornovaglia.
"Elizabeth è morta di parto, ho solo un figlio che ora ha
sei
anni ed è quì con me a Londra. Demelza lo sa,
gliel'ho detto io
quando l'ho vista l'altra sera".
"Oh...".
Prudie abbassò lo sguardo. "La gattamorta è
morta...? Non lo
avrei mai creduto possibile, la credevo immortale visto il potere che
aveva su di voi. Siete vedovo...".
Il
potere che aveva su di lui... Ross deglutì, rendendosi conto
di
quanto palese fosse agli occhi degli altri la sua adorazione per
Elizabeth e quanto, negli anni, questo avesse fatto soffrire Demelza
senza
che lui ci facesse caso.
Ripensò alla sua freddezza e all'amarezza degli incontri
londinesi
con lei e si rese conto che quel comportamento tanto inusuale
e distaccato ne erano la naturale conseguenza, la reazione di una
donna che cercava di difendersi da nuovo dolore. "Vedovo,
sì... Anche se, a dire il vero, Elizabeth
l'ho
lasciata quel giorno, quando ve ne siete andate. Non vivevo con lei
quando è morta, non
mi sento un vedovo e non mi sono mai sentito suo marito, quel
matrimonio è stato una pura e semplice formalità.
Ricordo solo di avervi cercato nella neve, a lungo. E di essere
tornato a Nampara distrutto, quella sera stessa. E da allora vivo
lì,
con mio figlio. Sono tornato a Trenwith solo
quando mi hanno chiamato per dirmi che Elizabeth stava partorendo e
le cose andavano male...".
Prudie
parve sorpresa da quelle parole e da quella realtà che mai
avrebbe
potuto immaginare. "Come
mai l'avete lasciata? La adoravate...".
"Elizabeth?".
"Sì".
Lui
sospirò, pensando a quanto in fretta il sogno idilliaco si
fosse
trasformato in un incubo. "Era la donna ideale dei miei sogni di
ragazzo, vedevo in lei ciò che non c'era e volevo vedere.
Non
eravamo fatti per stare insieme, la nostra unione è stata
forzata
dagli eventi ed è stato un inferno. Fisicamente ero a
Trenwith ma
con la mente e il cuore ero a Nampara, avrei voluto solo essere con
voi... Non venni a vedere Clowance perché sapevo che non
sarei
riuscito più ad andar via e ormai non potevo più
permettermelo. E'
stato l'errore più grande che io abbia mai fatto, avevo
promesso di
esserci sempre per i bambini... Li amo Prudie, almeno tu riesci a
credermi?".
Prudie
gli diede un buffetto sul braccio. "Sarò stolta e pazza ma
sì,
vi credo... Ma è tardi adesso e l'amore a volte si dimostra
con la
rinuncia... Fate del male alla signora, ora... E' serena, aveva
riacquistato tranquillità e ha una famiglia che l'adora, ha
tutto
ciò di cui ha bisogno e anche i bambini... Non potete
distruggere
tutto! Se sono quì oggi, è per dirvi questo.
Siete testardo ma
avete anche cuore, usatelo!".
Ross
guardò il cielo, limpido e azzurro. Infondeva pace, quella
pace che
cercava disperatamente anche lui e che non poteva permettersi...
"Lasciarli andare... Non riesco, non ci riuscirò mai se...
se
prima non so... che dove sono stanno bene... Meglio di come
starebbero se ci fossi stato io con loro".
Prudie
lo guardò storto. "Senza offesa, ma non che ci voglia
molto!".
Ross
rispose all'occhiataccia. Era
schietta e diretta ma nelle sue parole c'era la saggezza di una madre
che lo conosceva fin da quando era piccolo.
"Dimmi cosa è successo in questi anni, cosa ha portato
Demelza
a Londra, parlami di... di...".
"Del
tenente Armitage?" - lo aiutò Prudie.
"Sì,
di lui...".
Prudie
sospirò, si appoggiò alla panca,
guardò intorno per controllare
dove fossero i gemelli e poi, accertatasi che non erano vicini,
iniziò a parlare. "Quando nacque Lady Clowance, Dwight Enys
aveva già deciso di venire a Londra con la moglie, Miss
Penvenen.
Chiesero alla signora di raggiungerla, volevano aiutarla a rifarsi
una nuova vita ma Demelza sperava che voi sareste arrivato per i
bambini e
inizialmente rifiutò.
Quando ha capito che non sareste arrivato, ha preso la decisione e
siamo partiti. Lo ha dovuto fare, per se stessa e soprattutto per il
piccolo Jeremy che vi aspettava tanto e che era sempre più
triste
per la vostra assenza... Demelza
non
voleva che vivesse accanto a una finestra la sua infanzia, ad
aspettare un padre che non sarebbe mai tornato. Non voleva nulla del
genere per i suoi figli. E ha scelto...".
Il
sangue parve gelarsi nelle vene di Ross nel pensare a quanto male
avesse fatto a chi amava. Ripensò al Jeremy di due anni, al
suo
piccolo bambino di cui non gli era rimasto che un cavallino di legno,
lo immaginò ad aspettarlo, chiedendosi perché suo
padre fosse
sparito, sentì a pelle la sua delusione e il suo dolore e
comprese
che Demelza non poteva fare altro se non andarsene. E poi
pensò al
Jeremy di adesso, spigliato, sveglio, furbo, perfettamente educato
come un piccolo Lord, un Jeremy che purtroppo non si ricordava di
lui... E a Clowance, la sua bellissima piccola principessa che era
diventata una principessa per davvero, ma che era stata cresciuta da
altri e che, lontana da lui, era diventata bellissima ed
irraggiungibile, nella sua ostinata perfezione. Pensò a se
stesso e
a quanto aveva sofferto allora, rendendosi conto che, troppo
accentrato su quello che stava provando lui, forse non si era mai
soffermato a pensare a cosa provassero quelli che aveva lasciato
indietro. E poi a Dwight, quell'amico quasi fraterno che aveva deluso
e di cui non sentiva parlare da anni. E così, era stato lui
ad
aiutare Demelza... Ora
i pezzi di quel puzzle stavano andando ognuno al loro posto e si
maledì per non aver pensato prima a quell'ipotesi.
"Dwight vive quì?".
Prudie
annuì. "Sì, con la signora Caroline.
Demelza ha vissuto a casa loro per un anno, ci hanno trattati come se
fossimo di famiglia ed è in quella casa che la signora ha
conosciuto, a una festa di Natale, il tenente Armitage, che Caroline
aveva invitato".
Ross
deglutì, ora arrivata la parte difficile del racconto.
"Dwight...
E Caroline... Come stanno?" - chiese, cercando di prendere tempo
per sentir parlare di Hugh.
"Beh,
hanno avuto momenti difficili a causa di Sarah" – rispose
Prudie.
"Sarah?".
"La
loro prima bambina" – rispose la domestica. "E' nata
pochi mesi dopo i gemelli ed è vissuta pochissimo a causa di
una
malattia al cuore. E' stata durissima per loro ma adesso... adesso
è
nata Sophie, sana come un pesciolino e bella come la madre e la vita
è tornata a sorridere".
Ross
impallidì. Sarah, Sophie... E Dwight, che gli era rimasto
accanto
quando era morta Julia, che aveva vissuto il
suo
stesso devastante dolore... Quanto aveva perso, quanto aveva gettato
via, quante occasioni per essere un buon amico aveva mancato, a causa
dei suoi errori, in quegli anni? Gli si strinse il cuore a pensare a
Dwight, alla sua sensibilità, alla sua bontà, a
quanto doveva aver
sofferto nel non aver potuto salvare sua figlia... Quanto era
successo in quegli anni, quante cose non aveva saputo? Dwight aveva
perso sua figlia e lui non aveva potuto stargli accanto come aveva
fatto lui per Julia.
Si
sentì
in colpa e si
mise le mani nei capelli, disperato, appallottolando il giornale fra
le mani. "Oh Prudie... Dwight
ha aiutato me e poi Demelza e i miei figli. E io non ho mai potuto
far nulla per lui".
"Ora
gli Enys stanno bene e Demelza li frequenta spesso" – lo
rassicurò Prudie. "Dwight segue i bambini come medico, ha
aiutato Demelza nella gravidanza dei gemelli e si frequentano, in
amicizia. Dopo tanto dolore, le cose si sono assestate. Fino al
vostro arrivo".
Ross
si accorse che i bambini, in lontananza, stavano arrampicandosi sugli
alberi e tormentando dei poveri scoiattoli che cercavano di sfuggire
alle loro grinfie e capì che doveva fare in fretta. Prudie
era
responsabile per loro e non poteva rubare altro tempo al suo lavoro.
"Armitage... Parlami di lui? E' in casa in questo momento? In
viaggio? Non l'ho mai visto e non l'ho nemmeno mai sentito nominare
da nessuna parte". Era la cosa
più dolorosa per
lui, ma
andava affrontata.
Prudie
a quella domanda però fece una faccia sorpresa a accigliata,
quasi
non si aspettasse quelle parole. "In casa? Il tenente Armitage?
Hugh?".
"Sì,
il marito di Demelza!" - sbottò Ross.
Prudie
scosse la testa. "Non sapete proprio tutto, allora...".
"Che
vuoi dire?".
La
donna sospirò. "Il tenente Armitage, Hugh... è
venuto a
mancare sei mesi dopo la nascita dei gemellini. Per questo non lo
avete mai visto".
Ross
sussultò sulla panca, a quella informazione che MAI si
sarebbe
aspettato. E per un attimo, prima ancora che il suo cervello potesse
formulare qualche pensiero coerente, provò un insano senso
di
felicità e rivalsa. Fu solo un attimo di cui poi si
vergognò
subito, ma a caldo non poteva nascondere a se stesso che quella era
la più bella notizia che avesse mai ricevuto da quando era
arrivato
a Londra. Anche
se, il fatto che Demelza non glielo avesse voluto confidare, lo
feriva.
"Morto?".
"Morto..."
- ripeté Prudie. "Quando ha conosciuto la signora, non stava
già bene e la sua malattia, anche se in quel momento era
come
addormentata, era considerata grave e destinata a portarlo prima o
poi alla tomba. Aveva la stessa età della signora, era alto,
affascinante, elegante ed educato, un vero signore che mai ho visto
compiere gesti maleducati e mai ha alzato la voce con qualcuno. La
sua condizione di salute precaria gli permetteva di vivere come
voleva e Lord Falmouth aveva rinunciato a farne il suo erede anche
perché Hugh, a politica ed economia, preferiva la lettura e
la
poesia. La sua malattia lo rendeva inadatto al matrimonio, era stato
sentenziato che non poteva avere figli e quando ha incontrato
Demelza, nonostante lei non fosse certo la donna che i Boscawen
avrebbero voluto vedere vicino al loro erede, loro gli hanno permesso
di vivere quel
rapporto senza interferenze. Falmouth avrebbe fatto di tutto per
accontentarlo
in quello che gli rimaneva da vivere
e anche se all'inizio non era certo felice della scelta sentimentale
del nipote, lo aveva lasciato libero da vincoli dinastici e
famigliari. Hugh aveva un animo delicato, era un poeta e ha scritto
tantissimi poemi per la signora e per i bambini... Era un sognatore,
un... elfo... Come dice Demelza quando parla di lui. Forse era
viziato, forse era una persona poco cosciente dei problemi del mondo
che lo circondava, forse non aveva mai messo il naso fuori dal suo
mondo dorato ma era buono, aveva un animo cavalleresco e gentile e
quando ha conosciuto Demelza, se n'è innamorato follemente. Non
era come voi, non aveva chissà quali ideali e forse nemmeno
la
volontà di perseguirne uno, ma ha lottato per rendere felice
il suo
piccolo mondo e le persone che aveva accanto. Sapeva di non essere
destinato a diventare un eroe, voleva solo essere accettato e amato
da chi amava a sua volta e voleva che la sua famiglia fosse felice e
serena.
Lei, quando
si sono conosciuti,
non
voleva altri uomini, non voleva che crescere i suoi bambini... Ma lui
ha saputo essere talmente romantico e insistente da farla cedere,
pian piano...Nessuna
donna avrebbe potuto resistere alla tentazione e alla dolcezza di un
uomo che la trattava come se fosse la cosa più preziosa al
mondo.
E'
diventato
prima suo amico e confidente e poi... e poi è nato l'amore. Le
dava mille attenzioni, i suoi occhi brillavano quando la vedeva,
avrebbe fatto tutto per vederla contenta. E Demelza, che prima di lui
sentivo spesso piangere la notte, pian piano è tornata a
sorridere e
a vivere. E
con lei i bambini...".
Ross
tremava, mentre Prudie parlava... Dalla rabbia di immaginare
quell'uomo accanto a Demelza e dal dolore di non essere stato lui
quello capace di farla ridere e sentire amata ma al contrario, di
averne causato quelle lacrime che lei versava di nascosto la notte.
Sembrava l'uomo perfetto, quello raccontato da Prudie, quell'uomo
perfetto che lui non era mai stato e mai sarebbe diventato,
probabilmente... "E poi... Poi come hanno fatto a sposarsi? Come
ha potuto, Lord Falmouth, dare il suo consenso alle nozze?".
Prudie
sorrise, come a volergli dare coraggio. "Hugh e Demelza mai
avrebbero pensato di arrivare al matrimonio. Erano felici, vivevano
la loro storia senza pensare al domani e i bambini adoravano il
tenente Armitage. Uscivano spesso insieme, hanno fatto delle vacanze,
Hugh con Jeremy ha costruito nel giardino qua dietro una casetta
sull'albero e gli ha insegnato a leggere e scrivere, trattava la
piccola Clowance come una principessa e Demelza come una fata...
Così
la chiamava... Lui impose a suo zio di non indagare mai sul passato
di Demelza, di conoscerla senza pregiudizi e Falmouth, per rispetto
di Hugh e pensando non ci sarebbero state conseguenze, non lo fece.
Ma poi...".
"Ma
poi?" - le
chiese, capendo infine perché Falmouth non lo aveva
collegato con
lei, quando si erano conosciuti.
Prudie
guardò verso i gemellini che stavano terrorizzando gli
scoiattoli
del parco. "Poi lei è rimasta incinta delle bestioline...
Nessuno
avrebbe creduto possibile qualcosa del genere! E
improvvisamente è diventata
molto speciale e importante per la dinastia dei Boscawen che con la
morte di
Hugh si sarebbe estinta. Rappresentava
un nuovo futuro e a Lord Falmouth non importava più chi lei
fosse e
il suo passato, a
lui importava solo il futuro che avrebbe dato alla famiglia. Pretese
le nozze e Hugh ne era felicissimo. Demelza invece era spaventata e
non molto convinta,
mai avrebbe voluto tanto, mai avrebbe
creduto
di trovarsi in quella situazione, ma lo fece. Io la spinsi a farlo,
quando in lacrime voleva scappare...".
Ross
sentì una profonda irritazione verso Prudie.
"Perché? Perché
l'hai spinta a farlo?".
Lo
sguardo di Prudie si indurì. "Per il suo bene,
perché lei e
Hugh erano felici insieme e avrebbe iniziato una nuova vita con lui!
Per il bene dei bambini che con Hugh avrebbero di nuovo avuto un
padre e un nome. Per le bestioline che ormai c'erano e che avevano
diritto a una famiglia! Non poteva fare altro, Demelza. Io le ho solo
dato la spinta ma anche lei, in cuor suo, sapeva di non avere scelta.
E per fortuna lo fece perché, anche se breve, il loro
è stato un
matrimonio sereno e felice".
Ross
abbassò lo sguardo, Prudie aveva ragione certo, ma si
sentiva lo
stesso furioso. "Se solo fosse stata attenta a non rimanere
incinta...".
E
a quella esclamazione, Prudie lo fulminò con lo sguardo. "Mi
spiace signore ma da VOI questo non lo accetto! Avete fatto lo stesso
errore ma a differenza della signora che era libera di rifarsi una
vita, voi eravate marito e padre! Silenzio, quindi! La signora e i
vostri bambini hanno avuto un futuro assicurato e Hugh li ha amati.
Adorava lei e adorava i bambini, aveva un rapporto bellissimo con
Jeremy e per quel bambino lui è stato un papà
meraviglioso che
ancora rimpiange!".
"Sono
io suo padre!" - la bloccò Ross.
"No,
non lo siete, avete perso questo privilegio! Un padre è chi
ci ama e
ama stare con noi...".
Ross
scosse la testa, disperato.
"Prudie, questo Hugh era sicuramente una brava persona ma era
ricco, non aveva problemi e aveva tutto il tempo del mondo per
scrivere poesie o giocare coi bambini, non aveva la
responsabilità
di dar da mangiare a delle persone senza lavoro che dipendevano da
lui e nemmeno debiti da saldare. E' molto facile essere un perfetto
principe azzurro quando tutto va bene, ma la vita è altro...
E
credevo che Demelza lo sapesse e non ambisse a una vita dove era
semplicemente adulata come una bambolina".
Prudie
annuì. "Lo so, questo lo so io e lo sa anche la signora che
non ha mai ambito a nulla del genere. Lei voleva solo amore, ne aveva
bisogno e ha ceduto al suo richiamo.
Demelza
è stata una bambina senza madre che ha dovuto far da madre
fin da
piccola ai fratelli, che è cresciuta a suon di botte e
frustate, che
ha lavorato duramente fin da giovanissima e che ha amato un uomo che
poi l'ha lasciata sola e in un mare di disperazione. Non ha mai avuto
vita facile, non è mai esistita per lei una vita senza
problemi da
risolvere e per la prima volta... qualcuno si prendeva cura di lei
con amore. Hugh
è stato la sua favola, la sua rinascita, un amore tenero e
delicato,
è stato la spensieratezza di una donna che con lui ha potuto
essere
per
un pò la
ragazzina che non è mai stata e le ha dato una leggerezza di
vivere
senza problemi che non ha assaporato nemmeno da bambina. Ridevano
insieme, li sentivo spesso sghignazzare come dei ragazzini... I
problemi, quando erano insieme, sparivano... Sono stati il balsamo
del cuore l'uno per l'altro... In
quel momento della sua vita, Demelza aveva bisogno di uno come Hugh.
E Hugh di lei, che gli è rimasta accanto fino alla fine".
E
Ross, a quelle parole, trovò il coraggio di porre la domanda
che più
temeva. "Lei lo amava?".
Prudie
sorrise dolcemente. "Queste sono cose personali che riguardano
la signora, dovreste chiederlo a lei. Ma sì, credo lo amasse
davvero
molto. In modo diverso dall'amore che provava per voi, era un amore
più delicato e gentile, ma è stato amore, l'amore
perfetto per quel momento particolare della sua vita...
Non lo ha sposato per interesse e non era semplice affetto... E'
stato la sua rinascita, una nuova vita, il riprendersi in mano la sua
esistenza e uno stimolo di crescita che l'ha resa una donna forte e
sicura di se. Una Boscawen... Falmouth la adora, la considera una
stratega migliore di quanto Hugh avrebbe mai potuto diventare e
ascolta con interesse i suoi consigli. Parlano spesso di politica,
battibeccano e di fatto, in casa, comanda lei... E' l'anima di questa
dinastia, ormai, come
a suo tempo divenne l'anima di Nampara".
"E
i bambini?" - chiese Ross.
"I
bambini sono il cuore di questa casa, sono il futuro di questa casata
e il tenente Armitage ha parificato, prima di morire, i diritti dei
gemelli con quelli di Clowance e Jeremy. Voleva soprattutto che
fossero uguali e che crescessero come fratelli uniti. Jeremy
è un
piccolo ometto che tanto deve a Hugh, nella sua formazione. Adora
leggere ed è un bambino buono e sensibile anche se
decisamente
furbo. Spesso confabula col suo amichetto del cuore Gustav,
ridacchiano e organizzano marachelle ma è intelligente, un
bravo
studioso e si sente responsabile di Demelza e dei fratelli
più
piccoli. Clowance invece...".
Al
nome della figlia, Ross sentì una fitta al cuore. "Com'era?
Quando è nata, intendo? Ogni giorno me lo sono chiesto, in
questi
anni... Chi era, come si chiamava, quanto era bello o bella...".
"Bellissima,
una bambola. Ed era talmente buona e tranquilla da non sembrare vera"
– disse Prudie. "Non dava pensieri, era la signora che mi
preoccupava, aveva tanto bisogno di voi e anche se si sforzava di
essere forte, era a pezzi. Temevo davvero tanto per la sua salute e
anche il dottore. Le avete spezzato il cuore non andando da lei
quando Clowance è nata e anche se Demelza è tanto
forte, ho temuto
che si spezzasse".
Ross
sentì un'altra fitta al cuore al pensiero di quanto male
aveva fatto
all'amore della sua vita. "E' stato il più grosso errore che
potessi commettere... Lo rimpiango ogni giorno!".
Prudie
cercò di tranquillizzarlo. "Clowance è viziata,
pettegola,
capricciosa e sempre perfetta. E' ambiziosa, è bella e sa di
esserlo
ed è anche prepotente, se lo ritiene necessario! Conosce le
buone
maniere, è snob, regale e per questo è amatissima
dai Boscawen
e...".
"E?".
"Ed
è però la più Poldark di tutti!
Orgogliosa e testarda, come
voi...".
A
quelle parole, il cuore di Ross si gonfiò di orgoglio.
Carisma, così
aveva detto Basset... Lo stesso carisma che aveva lui, in quella
bambina mai conosciuta e cresciuta lontano... "Eppure, non sanno
nulla di me".
"No,
la signora ha sempre voluto che fossero sereni e non pensava che
sareste tornato. I bambini, soprattutto Jeremy, hanno sofferto tanto
per la perdita di Hugh e assieme a Demelza hanno dovuto rialzarsi a
fatica, dopo quel lutto. Per Jeremy è stata la nuova perdita
di un
papà, un papà che stavolta aveva avuto
l'occasione di conoscere e
che lo aveva amato tanto... Era troppo per parlare anche di voi e
Demelza ha solo cercato di donare loro di nuovo serenità, in
questi
anni. Non so quanto Jeremy sappia o ricordi di voi, non so cosa
Demelza possa avergli raccontato ma per fortuna pare non ricordare...
Almeno questo dolore gli è stato risparmiato, dopo la morte
di
Hugh".
Ross
si sentì nuovamente in colpa per aver esultato, poco prima,
della
notizia della scomparsa di Hugh. Era stato egoista, di nuovo, aveva
pensato solo a se stesso senza soffermarsi invece sul dolore di
coloro che erano stati accanto a Hugh, che lo avevano amato e che da
lui erano stati amati a sua volta. Guardò Prudie pieno di
gratitudine, le strinse la mano, come a volerla ringraziare per
averlo visto e per quelle parole che gli avevano aperto un
pò gli
occhi, donandogli informazioni ma anche una nuova speranza che forse
non tutto era perso se trovava la strada giusta, la strada guidata
stavolta dal cuore, per giungere a lei. "E i gemelli? Com'è
che
Demelza ha avuto addirittura DUE BAMBINI da uno che non poteva, in
teoria, averne?".
Prudie
sospirò, cercando i bambini con lo sguardo. "Appunto,
è la
teoria che ci ha fregato! Giuda, io lo dicevo che erano demoniaci,
fin dalla prima volta che hanno respirato! Non so com'è
stato
possibile, Dwight dice che è stato un caso eccezionale, che
Hugh
aveva una possibilità su... su non so quante per essere
padre... Lui
e Demelza devono averla sfruttata appieno e sono arrivati quei due
che...". Si bloccò, alzandosi di scatto dalla panca. "Che
ora strozzo! BESTIOLINE, VENITE QUI!!!".
Ross
sussultò, vedendola diventare rossa per la rabbia. Poi si
voltò a
guardare che diavolo fosse successo, notando i bambini correre verso
Prudie, sporchi e spettinati. Il bambino teneva fra le mani, per il
collo, un disperato scoiattolino che cercava di scappare, aveva le
ginocchia graffiate e la camicia bianca ormai marrone mentre la
sorella era sporca d'erba sulle gambe e le sue treccine erano ormai
un ricordo.
Prudie
si avventò su Demian, liberando il povero scoiattolo.
"Smettila
di torturare quella povera bestia!".
"Ma
volevo giocare con lui ma lui non voleva!" - sbottò il
piccolo.
"Certo,
lo capisco!" - rispose Prudie, a tono, prendendolo per il polso.
"Guarda come sei conciato, che hai combinato?".
"Mi
sono arrampicato sugli alberi, hai detto che potevo! TA-NNE-NBAUM!".
"Non
ti inventare le parole, bestiolina! Parla bene" – lo
ammonì
Prudie.
"Ma
parlo bene, vuol dire che...".
Daisy
bloccò il fratellino, imponendogli il silenzio. "Shhhh,
è un
segreto".
E
mentre Demian si metteva la manina davanti alla bocca, come
rendendosi conto di aver detto qualcosa che non doveva, Ross si
fermò
a pensare a dove avesse sentito quella strana parola pronunciata dal
bimbo.
Prudie,
che di questi problemi non si preoccupava, si voltò verso
Daisy,
anche lei sporca in maniera imbarazzante. "E tu?".
"Mi
sono rotolata nell'erba, così puzzo di prato vero, non del
prato
finto del sapone della nonna!".
"Ora
andiamo a casa e vi faccio un bagno, a tutti e due!" - urlò
Prudie mentre Ross, indeciso se esserne divertito o meno, osservava
la scenetta. A quanto sembrava, Prudie aveva guadagnato un posto in
una grande casa di lusso ma allo stesso tempo aveva trovato chi
riusciva a farla lavorare...
Daisy
si imbronciò. "Il bagno? Ancora? Col sapone? Con Demian?".
"Sì,
il bagno, col sapone, con Demian, ANCORA!" - rispose Prudie.
La
bimba scosse il capo. "Nonna non vuole, dice che non devo fare
il bagno con Demian che se lo vedo nudo, mi spavento e cresco
malata".
Prudie
la guardò storto, poi osservò Demian, poi di
nuovo lei. "Quello
che tua nonna – anima innocente – crede che ti
spaventi, non è
un problema, ti ci vorrebbe una lente di ingrandimento per
vederlo...".
"Hei!"
- si lamentò Demian offeso, picchiando il piedino a terra.
Prudie
smise di trattare, li prese sbrigativamente per mano e poi gli diede
un cenno impercettibile di saluto.
E
Ross capì che doveva davvero andare e le sorrise, grato per
l'aiuto
che gli aveva dato.
Prudie
si voltò, spingendo avanti i due gemelli. "A casa, subito!".
Poi, prima di seguirli, si voltò verso di lui. "Lei, la
signora, non è arrabbiata, non vi odia, statene certo. Non
è mai
stata capace di odiare... Sta solo cercando di proteggere se stessa e
i bambini...".
Ross
annuì. "Lo so. Prudie, mi puoi aiutare?".
Daisy
tornò indietro, vedendo che Prudie si era fermata di nuovo.
La prese
per la gonna, la strattonò e poi lanciò a lui
un'occhiataccia che
poneva fine a ogni discorso con la sua vecchia serva. "Ciao
signore che devi leggere il giornale ma non è vero, visto
che lo hai
rotto tutto!".
Ross
si guardò impacciato, notando la rivista appallottolata fra
le sue
mani, Prudie alzò gli occhi al cielo e poi, dopo aver dato
l'ennesima sculacciata sul sedere a Daisy, sparì borbottando
per il
viale.
E
quando furono scomparsi alla sua vista, Ross rimase a lungo ad
osservare quel parchetto, a pensare a quanto aveva scoperto e a
provare, forse per la prima volta, ad immedesimarsi nel dolore di
Demelza, in quello che era stata la sua vita e nelle decisioni che
aveva dovuto prendere. Pensò a Hugh, quel fantasma di cui
non
avrebbe mai visto il volto e che lo avrebbe sempre tormentato, alla
serenità che sembrava permeare quella famiglia dove Demelza
e i suoi
bambini vivevano, all'allegria che comunque regalavano quei due
pestiferi gemelli, pensò a tante cose e per la prima volta,
non era
lui al centro di tutto...
...
Era
passata da poco l'ora del pranzo e Demelza era nel salone con Prudie,
a piegare dei vestitini che il giorno dopo avrebbe dovuto portare a
delle famiglie bisognose. Quella mattina era uscita con sua suocera
per una passeggiata e questo aveva rasserenato il suo animo tanto
che, quasi senza rendersene conto, si mise a canticchiare.
Jeremy
giocava in giardino con Gustav, Clowance era in camera sua a giocare
con le bambole assieme a Catherine e i gemelli erano lì,
nuovamente
puliti dopo il bagno, a giocare e
disegnare su dei fogli sotto
il tavolo da biliardo dello zio.
“Mamma,
sai che Prudie c'ha il fidanzato?”.
Demelza
si voltò di scatto verso Daisy, a quelle parole. Demian
ridacchiò e
Prudie divenne rossa come un peperone. “Cosa?” -
chiese con aria
maliziosa, guardando la sua serva.
“Ma...
ma non è vero!” - balbettò Prudie.
Incurante
del suo imbarazzo e apparentemente concentrata sul suo disegno, Daisy
insistette. “Sì che è vero! Lo hai
visto ieri e oggi al parco”.
“Piccola
bestiolina bugiarda!” - sbottò Prudie, guardandola
minacciosa.
Demelza
scoppiò a ridere e decise che poteva prenderla in giro.
“Prudie, è
bellissimo! Se ti sposi, ti presto i bambini per il corteo nuziale.
Ormai sono esperti”.
Prudie
picchiò i pugni sulle
ginocchia,
guardando Daisy con sguardo omicida. Ma inaspettatamente Demian le
venne in soccorso. “Prudie non c'ha il fidanzato!”.
Prudie
annuì, indicando con orgoglio il bambino.
“Visto?”.
Il
piccolo rise.
“Sì, è troppo grassa e troppo vecchia
per averlo”.
Daisy
alzò le spalle, pensierosa. “Vero! Allora ho
sbagliato!”.
Prudie
ringhiò ma Demelza, di buon umore quel giorno, non
lasciò cadere la
cosa. “Sarebbe bellissimo, ti appoggio!”.
“Pensa
ai tuoi di spasimanti, ragazza! Mi
pare che tu ne abbia molti e che ti diano problemi”
- le rispose, pensando all'incontro con Ross di quella mattina e a
come fare per riavvicinare quei due.
“Non
ne ho”.
“Sicura?
E Adderly? E quel dolce maestro di tiro con l'arco che ti fa gli
sguardi dolci?”. Beh,
nominare Ross sarebbe stato troppo ma forse Demelza avrebbe pensato
anche a lui, in quella lista...
Demelza
rise, divertita, fingendo
di non capire appieno le sue allusioni.
Ma quando fece per rispondere, Jeremy e Gustav la bloccarono,
entrando nel salotto.
“Mamma,
posso uscire con Gustav in carrozza? Ci porta Bastian”.
Demelza
si accigliò. “Con Bastian sì! Ma dove
dovete andare? Non dirmi
che vuoi di nuovo andare ai giardini di Vauxhall”.
Jeremy
scosse la testa. “No, al negozio di spartiti di musica! Devo
prendere delle cose per il mio maestro di tedesco”.
Gustav
fece un passo avanti, mettendosi in mezzo. “Però
signora Armitage,
Vauxhall non è brutta! Mio fratello Leopold, che
è grande e ha
quindici anni, dice che è un posto bellissimo e che di sera,
quando
ci va con i suoi amici, incontra donne che sono molto istruttive. Non
so cosa vuol dire, ma essere istruttivo è una bella cosa,
no?”.
Demelza
avvampò e Prudie rise sotto i baffi.
“Che
vuol dire, mamma?” - chiese Jeremy.
Demelza
prese a sudare freddo, sventolandosi col ventaglio. “Ecco,
è un
genere di cose istruttive... per grandi... Ne parleremo fra qualche
anno, non pensarci e vai pure al negozio di spartiti”.
Jeremy
saltellò, contento, facendo
cadere quel discorso imbarazzante.
“Sììì! Quando facciamo
l'albero di Natale, mamma?”.
Demelza
spalancò gli occhi dalla sorpresa. “Tesoro,
è estate, aspetta almeno che sia autunno”.
“Ma
mi piacerebbe, adesso...”.
“Questo
autunno...” - ribadì Demelza.
Jeremy
sospirò ma poi, contento di poter uscire, sparì
dalla porta con
Gustav e Demelza si accasciò sul divano. “Donne
istruttive a
Vauxhall... Giuda Prudie, cresce così in fretta e fra poco
sarò in
un mare di guai a rispondere alle sue domande. Non
me la caverò in eterno tanto facilmente. Ci vorrebbe un uomo
per
queste cose”.
Prudie
le strizzò l'occhio. “Trovatene uno,
ragazza!”.
Demelza
sbuffò. “Finiscila! Chiederò a Lord
Falmouth, se sarà
necessario!”.
La
domestica scoppiò a ridere. “Falmouth? A quello
zitello? Non ha
mai visto donne in vita sua, quello lì!”.
Demian
fece capolino da sotto il tavolo, incuriosito
da quel discorso.
“Istruttivo vuol dire maestro? Come quello che viene a far la
scuola a Jeremy e Clowance?”.
“Sì,
in un certo senso” - rispose Demelza, in
difficoltà.
Il
gemellino sospirò, tornando sotto il tavolo a giocare.
“Allora non
mi piacciono i giardini di Vauxhall”.
Prudie
scoppiò a ridere, a quel punto, seriamente divertita dal
vedere
Demelza tanto imbarazzata. “Oh Demian, fra dieci anni ti
piaceranno
eccome! E passerai dal petto di tua madre a quello delle donne
istruttive di quel posto, senza che tu te ne accorga!”.
Demelza
la fulminò. “Prudie! E' il mio bambino
quello!” - esclamò,
lanciandole scherzosamente un vestitino in testa. Si alzò,
sospirando, lanciandole occhiatacce. “Vado a prendere altra
stoffa
in camera e tu SMETTILA di dire cose del genere al mio piccolo
principe!”.
Prudie
alzò lo
sguardo al cielo, davvero divertita dalla piega che aveva preso
quella conversazione. Ma poi la
guardò uscire e
tornò seria,
pensando al dolore scorto in Ross quella mattina per lei. Un dolore
vero, sincero, di un uomo disperato che la amava e che senza di lei
non riusciva a vivere. Ripensò alle lacrime di Demelza di
sette anni
prima, a quanto erano stati felici insieme e a quel discorso fra loro
prima del matrimonio con Hugh, quando lei
aveva
paragonato il suo futuro sposo al tepore di un camino e Ross al fuoco
totalizzante che ti avvolge e che forse ti brucia, ma che ti entra
dentro fino al profondo. E decise...
Se
poteva fare qualcosa per loro, che avevano ancora bisogno l'uno
dell'altra, lo avrebbe fatto. Demelza era ferita, impaurita e chiusa
nel mondo che si era costruita coi bambini, ma tutti loro avevano
bisogno di ritrovarsi con Ross, in qualche modo... Lui era cresciuto
ed era
cambiato e forse qualcosa di bello poteva ancora uscirne.
Poi
pensò ad altri piccoli abitanti di quella casa...
Si
alzò, si avvicinò al tavolo da biliardo e ci
picchiò sopra un
pugno. “Bestioline, venite fuori!”.
Da
sotto il tavolo, Demian e Daisy risposero. “NONO!”.
“Venite
fuori che zia Prudie vi spiega un bellissimo concetto: farsi gli
affari propri stando zitti!”.
“Lo
ascoltiamo da qui!” - rispose la vocina di Daisy.
“Se esco mi dai
ancora le botte!”.
Prudie
si appoggiò al tavolo, decisa a farla pagare a quei due per
averla
accoppiata a Ross davanti alla loro madre, facendole perdere
vent'anni di vita al pensiero che Demelza scoprisse il loro incontro.
“Starò qui, non ho fretta e ho tutto il tempo del
mondo per
aspettare che decidiate di uscire”.
“Noi
di più!” - rispose Demian.
“Più
cosa?”.
“Più
tempo! Tu sei vecchia, non dovremo stare qui sotto tanto”.
Prudie
divenne rossa in viso. Li avrebbe scorticati vivi, quei due piccoli
impudenti...
Anzi,
no, c'era un
modo migliore per fare le cose!
Avrebbe aiutato Ross ma Ross meritava una punizione per
ciò che aveva fatto...
E quale miglior punizione se
non quella di
farlo entrare nella vita di Demelza, a contatto diretto coi due
piccoli mostri?
Sì,
aveva deciso! Lo avrebbe aiutato!
|
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Capitolo 39 *** Capitolo trentanove ***
Dopo
aver parlato con Prudie, per molti giorni Ross aveva rimuginato sul
suo passato e i suoi errori e aveva cercato di immaginare
visivamente, nelle mente, cosa doveva essere stata la vita di Demelza
in quei sette anni.
In
questo lasso di tempo lui aveva capito i suoi errori, i passi falsi,
ogni dannata decisione sbagliata presa e aveva sentito sulla sua
pelle e nel suo cuore quel senso di perdita strisciante e continua
che lo aveva portato, giorno dopo giorno, alla più totale
disperazione... Aveva distrutto la sua famiglia mattone dopo mattone
e spezzato un amore, uno di quegli amori belli e rari, che
difficilmente si vivono nella vita e che, se li si possiede, si ha
fra le mani un tesoro. Era consapevole di essere stato orribile e di
non aver molto da recriminare sulle scelte di Demelza, ma grazie a
Prudie aveva iniziato anche ad analizzare non il solo suo dolore ma
anche quello di coloro che amava e che aveva ferito.
L'immagine
del Jeremy di due anni che lo aspettava lo tormentava, così
come
immaginare cosa avesse provato Demelza a partorire da sola la piccola
Clowance, senza che lui si degnasse di andare da loro nonostante le
mille promesse fatte, per codardìa. Perché quello
era stato, un
codardo! E non era colpa di Elizabeth, la colpa era solo sua, lui era
il padre di quella bambina e lui doveva esserci! E invece non era
andato e mai, MAI nessuno avrebbe potuto restituirgli la gioia di
stringere la propria piccola appena nata e di perdersi in un visino
che sicuramente era perfetto già allora e che non avrebbe
più
conosciuto.
Immaginò
la loro vita dopo, la solitudine di Demelza e Hugh, quell'uomo che
sempre sarebbe rimasto senza volto ai suoi occhi, che si faceva
strada nel suo cuore. L'aveva amata, si era preso cura di lei e dei
bambini, era stato molto migliore di lui e lei aveva ricambiato i
suoi sentimenti. Prudie era stata chiara su questo punto e faceva
male... Avrebbe preferito sapere che si era sposata per disperazione,
per dovere, perché era incinta e non aveva altre
possibilità, ma la
realtà era che Demelza aveva scelto Hugh, lo aveva voluto e
aveva
cercato tramite lui di ricostruirsi una vita. Demelza non si sarebbe
mai sposata per interesse, la conosceva, se aveva sposato Hugh era
perché a lui la univano sentimenti forti. E lui era stato
per lei il
marito che aveva perso, per Jeremy il papà arrivato a
soppiantare un
padre che lo aveva abbandonato e per Clowance, l'unico padre che
avesse mai conosciuto.
Non
importava che fosse morto, Demelza era stata felice con lui e insieme
avevano costruito una famiglia... E ora viveva nei suoi ricordi e
sicuramente lei ne sentiva la mancanza, così come i bambini.
I SUOI
bambini, non i figli naturali perché di certo i gemelli non
potevano
ricordarsi di lui. Jeremy e Clowance soffrivano per un padre che
avevano perso... Ed era Hugh, non di lui! In fondo, perché
lui
avrebbe dovuto mancare a tutti loro? Cosa aveva fatto per meritarsi
affetto e nostalgia? Come poteva mancare qualcuno che ci aveva fatto
solo del male?
Per
giorni era stato taciturno e scontroso con tutti, troppo schiacciato
dai sensi di colpa, troppo ferito dal sentire sulla sua pelle il
dolore provocato, troppo confuso per fare qualsiasi cosa
perché per
la prima volta sentiva su di se il terrore di sbagliare ancora con
loro.
Voleva
rivederla, certo, soprattutto ora che aveva scoperto tutto! E allo
stesso tempo temeva di disturbarla e di farla irrigidire di
più. Non
aveva diritto di invadere la sua vita e quella dei suoi figli, non
aveva diritto a niente e accettarlo era difficilissimo.
Si
tenne lontano da casa sua per alcune settimane, sperando di
acquietare il suo animo, sperando che magari lei potesse cercarlo,
sperando qualsiasi cosa che risolvesse per lui quella situazione.
E
poi un pomeriggio, il destino gli venne inaspettatamente in aiuto.
Lord Basset era dovuto rimanere confinato a casa a causa di una
influenza e lo aveva incaricato di andare a firmare dei documenti a
casa di Lord Falmouth. Documenti importanti, che dovevano essere poi
discussi quello stesso pomeriggio in una riunione del circolo
politico che tutti loro frequentavano e che inchiodavano Ross a
recarsi in quella casa dove, stavolta senza volerlo, avrebbe invaso
nuovamente lo spazio privato di Demelza.
Era
vero, lei gli aveva detto di recarsi da Falmouth senza problemi se
era per lavoro e lui non stava facendo nulla di male, ma si sentiva
comunque in colpa... La determinazione dei primi giorni a Londra dopo
averla rivista, aveva lasciato spazio a dolore e sensi di colpa e
adesso era complicato fare qualsiasi cosa avesse a che fare con lei.
Inoltre i gemelli, se lo avessero visto, lo avrebbero potuto
riconoscere e collegare a Prudie e da quel poco che aveva capito,
quei due mocciosetti erano pericolosi come aveva detto la sua vecchia
serva. Non voleva dar problemi a Prudie e non voleva che Demelza si
arrabbiasse con lei, oltre che con lui. E non voleva che Falmouth si
insospettisse circa i suoi rapporti con Demelza, di cui era
all'oscuro.
Andò
suo malgrado da Falmouth però, sperando di non vederla. Non
aveva
scelta! In fondo probabilmente sarebbe andata bene, non aveva mai
incrociato Demelza in quella casa e sarebbe stata una visita veloce,
il tempo di apporre una firma e poi lui e Lord Falmouth sarebbero
usciti insieme in carrozza per andare al circolo.
Quando
arrivò, il giardino era deserto e la casa avvolta in un
piacevole
silenzio. Era il primo pomeriggio e forse i bambini più
piccoli
dormivano e gli altri studiavano, Demelza doveva essere nelle sue
stanze e tutto sarebbe filato via liscio.
Ma
così non andrò perché, appena arrivato
nello studio di Falmouth e
dopo i saluti di rito, prima che riuscisse a sedersi alla scrivania
la porta si aprì e lei comparve, inaspettatamente. Il fiato
gli si
mozzò in gola e Ross maledì la sua sfortuna. E
adesso?
Certo,
sarebbe potuto succedere, lei viveva lì dopo tutto, ma...
Temette
la sua rabbia, sarebbe stato innaturale se non l'avesse provata,
temette che potesse pensare di essere seguita, temette il suo
disprezzo, temette ogni cosa perché non sapeva cosa
aspettarsi in
quel momento da lei. Lui era davvero lì solo per lavoro ma
Demelza
non poteva saperlo e lui non poteva spiegarglielo o giustificarsi,
con Falmouth presente.
Lei
lo guardò, per un attimo la vide impallidire dalla sorpresa
che
doveva averla colta impreparata come era stato per lui, ma poi si
ricompose senza che Falmouth si accorgesse di niente.
Ross,
osservandola, rimase senza fiato. Era bellissima, di una bellezza
elaborata e perfetta, coi capelli elegantemente lisciati e tenuti a
bada da un nastro, l'abito di seta azzurra che richiamava i suoi
occhi e che le ricadeva morbidamente su un fisico perfetto, i
gioielli a ornarle il collo nudo e un lieve trucco che sembrava
renderla simile, ancora, a una bambola di porcellana. Era splendida,
avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo con un solo sguardo ed era
evidente che stava per recarsi a qualche ricevimento importante. Era
bella, altera e distante... Troppo... Molto simile alla Demelza che
aveva visto al matrimonio e ai giardini di Vauxhall e così
diversa
da quella scorta nelle vie vicino al centro di aiuto dei poveri,
quella che davvero preferiva più di tutte, quella che ai
suoi occhi
era la più autentica.
Con
sua somma sorpresa, accanto alla madre, comparve la piccola Clowance,
vestita elegantemente anche lei, con un abito lungo di pizzi e seta
bianco e rosa che le arrivava alle caviglie e i capelli tirati
indietro in un elegante chignon. La sua piccola bambolina... Anche
lei bellissima, anche lei distante ed irraggiungibile.
Falmouth,
all'oscuro dei loro rapporti, le fece un ampio sorriso.
“Demelza,
mia cara, stai andando?”.
Lei
deglutì, in ansia. “Sì. Ci aspettano a
corte per il tè delle
cinque ma Clowance voleva per forza passare da
quì”.
La
bimba avanzo con passo elegante e si avvicinò alla
scrivania. “Zio,
ti porto ancora i confetti al limone?”.
“Ovviamente”
- rispose Falmouth, dandole un affettuoso pizzicotto sulla punta del
nasino.
Demelza
si accigliò. “Confetti?”.
Falmouth
rise. “I reali, a corte, hanno sempre questi confetti che
adoro. E
Clowance è incaricata di portarmene un po' al vostro
ritorno.
Riempiti le tasche, piccola”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo, Falmouth strizzò
l'occhio alla bambina e
Ross si trovò spaesato e incapace quasi di parlare. La sua
bimba era
lì accanto a lui e non lo degnava di uno sguardo,
dolorosamente
estranea a lui e al suo vero ruolo...
Lord
Falmouth lo osservò, poi guardò Demelza,
decidendo di fare le
dovute presentazioni. “Signor Poldark, voglio presentarvi la
moglie
di mio nipote, Lady Demelza Armitage. Avete qualcosa in comune, siete
nati nella stessa regione. Demelza, lui è Ross Poldark, un
nuovo
acquisto di Westminster che sto cercando di portare con la ragione
fra le nostre fila, strappandolo a Lord Basset e alle sue malsane
idee. O cercando attraverso di lui un accordo per veicolare i voti a
nostro favore. E' un giovane uomo molto in gamba”.
Demelza
abbozzò un timido sorriso, annuì e finse
noncuranza facendo un
leggero inchino. “E' un piacere signore. Visti gli argomenti
trattati, credo che sarò felice di andare alla mia merenda e
di
lasciarvi discutere in pace”.
Lord
Falmouth scoppiò a ridere. “Discutere?
Quì bisogna ammansire, mia
cara. Abbiamo davanti un giovane idealista dalla testa dura che pensa
di poter cambiare il mondo e le sue regole a modo suo, senza
l'appoggio di nessuno”.
Demelza
lo guardò freddamente. “Gli accordi, in questo
mondo, fanno parte
del gioco. Sta al giocatore esperto e furbo trovare i più
convenienti. Chi rimane ancorato alle proprie idee senza mettersi in
discussione e senza confrontarsi con gli altri, fa poca
strada”.
Ross
la guardò negli occhi, non riusciva a credere che quella
conversazione fosse reale. C'era una strana guerra silenziosa fra
loro, una sorta di scambio di battute che, sotto la superficie, era
uno stillicidio di nervi. Cosa doveva risponderle? Stare al gioco?
Cercare di capire se stesse cercando di dirgli qualcosa o se stesse
semplicemente cercando di tenere all'oscuro di tutto Lord Falmouth,
portando avanti le sue idee? “Un uomo che tradisce i propri
ideali,
è un uomo a metà. Un fallito”.
“O
troppo orgoglioso e testardo per ascoltare gli altri. L'esperienza di
chi ne sa più di noi, dovrebbe essere usata con giudizio e
con
onore. Nessun uomo, da solo, può cambiare regole in vigore
da
centinaia di anni. Regole che funzionano, tra l'altro” - lo
zittì
lei, fredda.
Falmouth,
con sguardo interessato, la lasciò proseguire mentre
Clowance, un
po' annoiata, prese a giocare con dei fogli di carta.
“Continua mia
cara, sai essere forse più convincente di me. Demelza
saprebbe
mettere a tacere tutto il Parlamento, se alle donne fosse concesso di
entrare in politica, ci è nata per questo genere di cose.
Peccato
che sia donna e che certi posti le siano preclusi per natura”.
“Già,
sono solo una donna...”. Demelza scosse la testa e lo
guardò in
viso, come a voler scandagliare la sua anima. “Non voglio
convincere nessuno e non voglio entrare in Parlamento, non è
mio
interesse farlo. Affidatevi a Lord Falmouth, signor Poldark,
è molto
più bravo di me. E siate meno superbo, accettate l'aiuto di
chi
vuole offrirvelo o altrimenti vi troverete, un giorno, a leccarvi
dolorosamente le ferite dovute ai vostri errori. E lo farete da solo,
perché a quel punto nessuno di quelli che avete lasciato
indietro,
vorrà aiutarvi di nuovo”.
Falmouth
insistette. Sembrava rapito da quella strana tensione che si era
creata fra loro e cercava di portare avanti le convinzioni espresse
da Demelza nella speranza che andassero a segno più delle
sue
parole. Era una vecchia volpe e aveva captato, nell'aria, una strana
energia fra loro, pur non conoscendone i motivi. “Mia cara,
avete
origini comuni e credo potreste trovare ottimi argomenti di
conversazione. E' una brava persona, questo giovanotto
testardo”.
Demelza
si accigliò. “Non è detto che sia una
brava persona solo perché
è nato in Cornovaglia, zio. Non è la provenienza
che fa dell'uomo
un essere rispettabile. Sono animo e cuore a farlo e quelli, ognuno,
se li coltiva dentro di se come preferisce, indipendentemente da dove
è nato”.
Ross
la bloccò. Quella conversazione stava diventando una sfida
di nervi
e ogni parola di Demelza assumeva significati nascosti e messaggi in
codice per lui, che andavano ognuno dolorosamente a segno. Ogni volta
che lei apriva bocca gli faceva male perché aveva ragione,
SEMPRE.
Le sue parole ma anche quel senso di estraneità che
avvertiva quando
la guardava, erano peggio di una pugnalata per lui, era difficile
vedere come una nemica colei che aveva un tempo sempre combattuto al
suo fianco. Eppure... Voleva vedere se, dietro a quella donna fredda
ed elegante, c'era ancora qualcosa della sua Demelza. “Avete
ragione, anche la Cornovaglia ha la sua bella dose di teste calde. Ma
ditemi, quali sono le regole che funzionano, mia lady?
Illustratemele...”.
Lei
gli piantò gli occhi addosso. “Le regole che
fanno, del nostro
piccolo mondo, un buon posto dove vivere. Regole che, se funzionano
per noi, possono essere applicate agli altri. Regole che ti fanno
star bene, che mi fanno star bene e che daranno un futuro ai miei
figli”.
“Si
chiamano privilegi, mia signora. E quelli in più di cui
godete voi,
vengono tolti a chi non ha nulla”.
Demelza
si appoggiò con una mano alla scrivania. “E voi
cosa proponete,
signor Poldark?”.
“Il
diritto garantito ad ogni uomo di poter esprimere la sua opinione e
scegliere, assieme a voi nobili eletti, come gestire il proprio
destino. Regole più vivibili, punizioni meno crudeli verso
chi
delinque per fame, proibizione del lavoro minorile. Leggi uguali per
tutti e fatte da tutti, leggi che permetteranno a ogni bambino di
Londra di vivere con gli stessi agi dei vostri”.
Demelza
sostenne il suo sguardo. “Il potere, in mano di chi non lo sa
gestire, diventa un'arma a doppio taglio. Nelle mani di chi lo ha da
sempre, se ben amministrato, serve invece a rendere servigio a tutti.
Avete belle idee signor Poldark, nobili ma forse ingenue. Il mondo
perfetto non esiste, ma se sarete furbo e scenderete a compromessi
con persone perbene, potrete attuarne qualcuna, delle vostre
proposte”.
“Non
sporcherò la mia anima scendendo a compromessi con chi
persegue
interessi personali e farò a modo mio”.
Demelza
sorrise freddamente. “Siete testardo e forse un po'
arrogante. Vi
credete migliore di noi? Di tutti noi?”.
Ross
deglutì. La conosceva, lei lo conosceva. Demelza sapeva come
colpirlo nell'intimo parlando di cose personali usando una
conversazione politica ed era un qualcosa che doveva aver imparato,
con molta maestria, in quegli anni. C'era molto di nascosto a lord
Falmouth, nelle parole di Demelza, tanti messaggi rabbiosi e delusi
rivolti a lui. Lo stava provocando con una facilità
spaventosa, come
a voler testare fin dove lui voleva spingersi. E ci stava
dannatamente riuscendo. “Non mi credo migliore di
nessuno”. La
guardò, cercando in lei tracce di Demelza, quella Demelza
raccontata
da Prudie che aveva pianto e sofferto ma che non era mai davvero
riuscita ad odiarlo. Ma in quel momento si sentiva talmente
schiacciato da non trovare nulla della donna che era stata, sua
moglie, quella che con un sorriso lo aspettava a Nampara e gli
rimaneva accanto nelle sue battaglie, nel bene e nel male.
Lei
gli spezzò nuovamente le gambe. “Perché
non lo siete... Trovatevi
amici fidati e potenti, attuate delle strategie comuni e imparate a
chinare il capo, ogni tanto. Dovete saper anche ascoltare, l'ascolto
è una delle migliori virtù delle persone
intelligenti... La
rivoluzione francese è partita con idee simili alle vostre,
finendo
poi per annegare in un mare di sangue. Imparate dagli errori altrui,
per essere migliore di chi vi ha preceduto”.
Ross
la guardò negli occhi, penetrandola con lo sguardo.
“Siete
scettica su di me, mia lady. E se ci riuscissi? E se invece, da solo,
ce la facessi?”.
Demelza
sospirò, prendendo Clowance per mano. “Allora
sarò la prima a
congratularmi con voi, signor Poldark”. E così
dicendo, fece
alcuni passi indietro, salutando Falmouth con un cenno del capo.
“Ora
devo andare, mi aspettano a palazzo. Clowance, saluta!”.
“Ciao
zio!” - disse la piccola. Poi guardò lui e, con la
grazia di una
farfalla, fece un elegante inchino da perfetta piccola lady.
“Buon
pomeriggio, signore”.
Un
inchino... Clowance gli aveva fatto un inchino. Anche questo faceva
male perché una bambina, quando vede suo padre, gli corre
incontro e
lo abbraccia, non gli fa un inchino. Un inchino si fa a uno
sconosciuto. E lui lo era, lo era perché aveva sbagliato
tutto.
Sorrise alla bambina, cercando di non soffermarsi troppo su di lei
per non far innervosire Demelza che, sicuramente, osservava con
attenzione ogni sua mossa verso Clowance.
Falmouth
però non era ancora disposto a lasciarla andare.
“Vedervi
battibeccare è stato delizioso! Davvero, credo trovereste
entrambi
piacevole se anche Demelza partecipasse, di tanto in tanto, ai nostri
incontri. Parlo spesso con lei di politica e devo dire che non le
manda a dire nemmeno a me. Che ne dici, mia cara? Lo troveresti
piacevole?”.
Demelza
fece un sorriso di circostanza. “Credo non faccia per me...
Ho
molte altre cose di cui occuparmi”.
Falmouth
annuì. “Sì, ma dovreste conoscervi, voi
due. Potresti riuscire a
far ragionare questo giovanotto meglio di me! E in fondo presto
avrete l'occasione per approfondire la vostra conoscenza”.
Demelza
spalancò gli occhi e Ross fece altrettanto, non capendo a
cosa lui
alludesse. “Cosa?”.
Falmouth
sorrise, un sorriso furbo da vecchia canaglia. “Il ballo
d'autunno
del prossimo mese, che si terrà a casa di Lord Spencer.
Demelza non
è mai mancata, è il ballo che apre la stagione
invernale a Londra.
E anche voi Ross siete stato invitato, no?”.
Demelza
impallidì. “Io non ho ancora deciso se andarci o
meno!” -
rispose, con foga, cercando di uscire quanto prima da quel terreno
minato.
Ross
si morse il labbro, di andare a quel ballo a cui era stato
effettivamente invitato non aveva voglia, ma se c'era lei... Forse...
Falmouth
richiamò Demelza all'ordine. “Mia cara, cosa sono
questi capricci?
Devi andarci, siamo fra gli ospiti d'onore e non sei mai mancata.
Potrebbe accompagnarti il signor Poldark, che ne dici? Che ne dite,
signore? Da quando mio nipote, il marito di Demelza, è
venuto a
mancare, ci va sempre da sola agli eventi mondani... Sareste un
ottimo accompagnatore, ne sono certo, e la vostra presenza al fianco
della mia cara nipote acquisita, avrebbe un certo peso in Parlamento!
Io purtroppo, coi miei problemi di gotta, non posso partecipare e
Demelza mi rappresenta sempre da sola”.
Demelza
impallidì, Falmouth aveva inavvertitamente svelato il suo
segreto e
solo Dio poteva dire a Ross cosa lei stesse provando in quel momento.
Ora lui sapeva ufficialmente della morte di Hugh, lei sapeva che ne
era a conoscenza e forse non ci era preparata. La vide tremare,
cercare il suo sguardo e Ross lo sostenne, scorgendo in lei un attimo
di cedimento nelle sue difese. “Se la signora
gradisce...” -
disse, lentamente. “Deve essere dura per una donna tanto
giovane,
essere già vedova e recarsi da sola ai
ricevimenti”.
Demelza
lo fulminò con lo sguardo, se avesse detto sì, se
avesse
assecondato Lord Falmouth e la sua richiesta, forse lo avrebbe
ucciso. “No zio, preferisco andarci da sola. Niente di
personale
signor Poldark, ma ho dei figli piccoli e ho necessità di
essere
indipendente negli spostamenti, nel caso sia richiesta urgentemente
la mia presenza a casa. Non rientro mai troppo tardi e sicuramente
voi invece vorrete fare notte. Ma grazie per la
disponibilità” -
disse, abbozzando un inchino.
Poi
prese per mano Clowance, fin troppo silenziosa e paziente per la sua
età. “Ora devo davvero andare o farò
tardi”.
“Aspetta!”
- la chiamò di nuovo, Falmouth.
“Che
cosa c'è?”.
L'uomo
si alzò dalla sedia, sistemando in una valigetta i suoi
documenti.
“Lo ricordi, vero? Jeremy e Gustav vengono con me! Adorano
venire
alle riunioni al circolo, soprattutto quando è il Duca di
Brassington a sponsorizzare una votazione. Si divertono un sacco a
vedere la sua faccia quando immancabilmente perde e non riceve alcun
voto favorevole alle sue mozioni. Si divertono un sacco a vedere la
sua grassa faccia rossa, diventare ancora più
rossa!”.
Demelza
si irrigidì, ovviamente contrariata dalla cosa. “E
il signor
Poldark? Non sarebbe meglio se andaste soli, senza bambini a
disturbare?”.
“Il
signor Poldark verrà ovviamente con noi, in carrozza. E non
credo
che sarà infastidito dalla presenza dei bambini”.
Ross
sussultò, sentendo il cuore gonfiarsi di gioia nonostante
tutto.
Jeremy sarebbe venuto con loro... Guardò Demelza che
sicuramente era
meno felice ed eccitata di lui per la cosa e percepì la sua
rabbia e
la sua impossibilità di opporsi. Non poteva ovviamente
farlo perché
si sarebbe esposta troppo e lei lo sapeva.
“Veramente”
- balbettò lei - “Preferirei che i bambini
rimanessero qui a
giocare in giardino. C'è il sole e credo sarebbe meglio
stare
all'aperto, per loro. Fra poco il bel tempo finirà e
passeranno mesi
in casa e...”.
Falmouth
si accigliò, bloccandola. “Mia cara, sei strana
davvero! Jeremy ha
sempre amato venire con me al circolo e non hai mai fatto storie! Che
sono questi capricci, oggi?”.
Demelza
strinse la manina di Clowance che, come Falmouth, pareva stupita per
il suo comportamento. Abbassò lo sguardo, sconfitta, capendo
che non poteva spingersi oltre e che non le restava che chinare il
capo.
“Certo... Va bene, i bambini sono in giardino a giocare nella
casetta sull'albero, li troverete lì”. Poi
guardò
Ross,
silenziosamente, lanciandogli un messaggio eloquente: doveva lasciare
in pace Jeremy e non dire nulla che potesse turbarlo! Quello sguardo
era chiaro e guardandola, si rese conto che sapeva ancora leggerle
nei pensieri come una volta. Annuì, desideroso di
rassicurarla. Non
avrebbe mai fatto nulla per far del male a Jeremy e in silenzio,
senza esporsi, avrebbe semplicemente goduto della sua compagnia, un
dono dal cielo che non credeva di ricevere e meritare.
Demelza
si morse il labbro e non aggiunse altro. Si inchinò di
nuovo,
nervosamente, uscì dallo studio e sparì alla sua
vista.
Falmouth
sbuffò. “Le donne a volte sono creature davvero
strane! Eppure di
solito è così carina e graziosa nei modi, coi
miei ospiti...
Davvero strano... Ed affascinante, nel vederla raffrontarsi a voi con
la grinta di una tigre!”. Si avvicinò, dandogli
una pacca sulla
spalla. “Su Poldark, andiamo a prendere i bambini e
mettiamoci in
marcia! Non vorrei arrivare in ritardo all'ennesima figuraccia di
Brassington!”.
…
Falmouth
era andato a prendere i due bambini in giardino e Ross era stato
scortato da un maggiordomo fino alla carrozza dove lo avrebbe
aspettato.
Il
cielo era sereno e sedendosi sulla poltrona del mezzo, poté
godere
della leggera e fresca brezza del pomeriggio. Era contento, anche se
la sua gioia di poter stare un po' con Jeremy e di aver visto
Clowance, era smorzata dalle reazioni fredde e così estranee
di
Demelza nei suoi confronti e soprattutto, non poteva ignorare quanto
lei fosse contrariata del fatto che il loro bambino avrebbe passato
il pomeriggio con lui.
Eppure,
egoisticamente, decise di essere felice per se stesso... Non aveva
molte possibilità di vedere i bambini, non ne aveva nessuna
di
essere il loro padre e quei momenti rubati al caso e al destino erano
quanto di più prezioso potesse
avere. Non avrebbe importunato Jeremy cercando di fargli capire chi
era, non lo avrebbe mai fatto per il suo bene e per quello di sua
madre, ma poterlo
vedere...
Anche le briciole andavano bene, piuttosto che quei sette anni di
nulla...
I
bambini arrivarono di corsa, con Lord Falmouth, salirono sulla
carrozza e lo salutarono frettolosamente, sedendosi sul
sedile opposto mentre i due uomini prendevano posto uno accanto
all'altro.
Ross
osservò Jeremy. Aveva le guance arrossate per la corsa, i
lunghi
capelli castani spettinati e i riccioli gli ricadevano sul collo e
sulla fronte in maniera disordinata e sembrava contento ed eccitato.
Lui e Gustav avevano lo stesso abbigliamento – un giorno
qualcuno
avrebbe dovuto spiegargli perché quei dannati vestiti alla
marinara
erano considerati tanto carini per i bambini – e
ridacchiavano
senza sosta.
La
carrozza partì e
Falmouth iniziò
subito a parlare
del più e del meno mentre i bambini parlottavano fra loro.
Ross li
osservò rapito, rivedendo se stesso e Francis tanti anni
prima.
Jeremy e
Gustav sembravano
due fratelli e si vedeva che si conoscevano da molto e si volevano
bene. Sghignazzavano, si spintonavano scherzosamente e in maniera
amichevole, parlottavano fra loro e guardando Jeremy, si rese conto
che era un bambino felice.
Ross
sorrise. “Si conoscono da molto?” - chiese a
Falmouth.
L'uomo
osservò i bambini. “Da quando erano molto piccoli,
avevano forse
tre anni quando si sono conosciuti”.
Gustav
prese la parola. “Jeremy è il mio migliore
amico!”.
Jeremy
ridacchiò, dondolando le gambe nel vuoto.
“Sì, sì, anche Gustav!
Però è un migliore amico che non fa l'amico, in
certe cose”.
Ross
alzò un sopracciglio per cercare di capire dove Jeremy
volesse
andare a parare con quella frase sibillina, detta con tono furbo.
Gustav
invece si imbronciò. “In che senso?”.
“Fidanzati
con Catherine! QUESTO sarebbe un gesto da amico, togliermela di
torno!”.
“JEREMY!”
- lo richiamò Falmouth, mentre a Ross venne da ridere per la
furbizia del figlio, unita a una sana simpatia nel modo di fare che
lo rendeva assolutamente grazioso e di compagnia. Era decisamente
dotato di una
sottile furbizia ed era più sveglio di
lui nel portare avanti le sue cause, pensò...
E
Gustav, altrettanto grazioso nei modi di fare, era destinato a cadere
in questi tranelli perché a differenza di
Jeremy,
sembrava ancora ingenuo.
E
infatti... “Ma Jeremy! Io non posso, io amo
Clowance!” - disse
candidamente, facendo sobbalzare Ross e
Falmouth sul
sedile.
Jeremy
lo bloccò subito. “Sì ma lei non ti
vuole!”.
“Non
è vero, mi ha dato una speranza!” -
ribatté Gustav, pieno
d'orgoglio.
Falmouth,
Ross e Jeremy spalancarono gli occhi. “DAVVERO?”.
“Sì
sì, ha detto che per sposarmi, basta che divento re
d'Inghilterra!
Devo solo andare in Cornovaglia e fare come re Artù, trovare
una
spada nella roccia, estrarla e il gioco è fatto!”.
Lo
disse come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo
e a Ross
venne da sorridere guardandolo. Gli spiaceva in fondo, Clowance gli
avrebbe spezzato il cuore...
Falmouth
sospirò, alzando gli occhi al cielo ma Jeremy invece,
inaspettatamente, piantò gli occhi su
Ross, incuriosito. “Signor Poldark?”.
A
Ross si gelò il sangue nelle vene. Era la prima volta da
sette anni
che Jeremy si rivolgeva a lui e anche se non lo riconosceva e usava
un tono formale... suo figlio gli stava parlando... Il
suo bellissimo bambino a cui aveva pensato ogni dannato giorno e di
cui teneva in tasca, come una reliquia, un piccolo cavallino con cui
amava giocare da piccolo e che per anni era stato l'unica cosa che
gli era rimasta di lui. “Dimmi”
- rispose gentilmente, sentendo il cuore in gola.
“Voi
venite dalla Cornovaglia? Lo zio dice che con Lord Basset la
rappresentate”.
“Certo,
vengo da lì”.
“Ci
sono spade nella roccia?”.
“Sì,
ci sono?” - intervenne Gustav, molto preso dal discorso.
Ross
deglutì, era una delle conversazioni più surreali
e allo stesso
tempo belle che avesse avuto da anni. Peccato
che per per il piccolo innamorato di Clowance non sarebbe stato
altrettanto... “Ecco...
Credo che re Artù abbia preso l'ultima... Mi spiace Gustav,
in
Cornovaglia non abbiamo più spade nelle rocce, sono
finite”. Gli
spiaceva spezzare i sogni romantici del bambino ma quel bambino aveva
sogni romantici sulla sua bambina e quindi togliergli ogni speranza
gli donava anche
un sottile
senso di piacere. Non che Gustav avesse speranze con Clowance ma era
meglio essere sicuri...
Jeremy
guardò Gustav, dandogli una amichevole pacca sulle spalle.
“Sei
fregato, allora! Io penserei davvero a Catherine”.
“Non
mi piace! Devo cercare altre spade e diventare re!”.
Jeremy
scosse la testa. “Meglio di no! In Francia al re gli hanno
tagliato
la testa! Anche alla regina! Mi spiacerebbe vedere mia sorella e il
mio migliore amico senza testa, sai?”.
Ma
Gustav decise di insistere. “Ma dai, pensaci! Magari tu sai
se ci
sono altre spade!”.
“Come
faccio a saperlo?”.
“Ci
sei mica nato, in Cornovaglia?”.
A
quella domanda, Ross spalancò gli occhi e prese a guardare
Jeremy
tremando, in attesa della sua risposta. Cosa avrebbe detto? Cosa
ricordava? Era rimasto qualcosa in lui, di Nampara?
Jeremy
però scosse la testa. “Sì, ma che
c'entra? Che ne so? Non me la
ricordo la Cornovaglia?”.
“Niente,
niente?” - insistette Gustav.
Jeremy
ci pensò su. “Mh... solo una cosa, forse! C'era un
sacco d'erba!”.
Ross
abbassò lo sguardo sconfitto, Gustav
sospirò
pensieroso e
Jeremy, incurante
dei sentimenti di entrambi,
tornò all'attacco. “Peeeensa, pensaaaa a
Catherine... Lei se no
muore zitella!”.
Ross
sorrise nonostante
tutto, ancora catturato dalla simpatia birichina di Jeremy,
guardando fuori dal finestrino per non farsi notare. Era adorabile,
un bambino meraviglioso e
intelligente, con una parlantina spigliata e un modo di fare che non
poteva che conquistare chi lo stava a sentire. Era orgoglioso di lui
e si maledisse per non aver capito subito quanto prezioso fosse quel
bambino che non aveva
voluto e di
cui non era riuscito a prendersi cura. Lo guardò,
chiedendosi quanto
fosse merito di Hugh, quanto avesse influito sulla sua crescita per
renderlo così adorabile e simpatico, nonché
sveglio ed
intelligente.
Falmouth
sospirò, picchiando il suo bastone sul fondo della carrozza.
“Ora
basta bambini, siamo quasi arrivati e voglio che vi comportiate bene!
E quando Brassington perderà come sempre, cercate di non
ridere
troppo forte! Ci vuole stile anche coi perdenti!”.
Ross
lo guardò, stupito della sua sicurezza. “Come fate
a sapere che
non avrà voti?”.
Jeremy
e Gustav risero. “Non li ha mai! Perde sempre! E quando
succede, si
gonfia come un tacchino, la faccia gli diventa rossa come una mela e
sembra che gli esca il fumo dalle orecchie! Mi piace tanto vederlo
perdere”.
Ross
deglutì, stavolta non molto ben impressionato dalle parole
di
Jeremy. Non gli piaceva quella strana arroganza che Falmouth
instillava in lui. “Beh, non sempre si può perdere
e non sempre si
può vincere. Tuo zio non te l'ha insegnato?”.
Jeremy
scosse la testa. “No”.
E
Falmouth scoppiò a ridere. “Perché
dovrei insegnare al bambino
qualcosa che non proverà mai? Dillo Jeremy, dillo al signor
Poldark
come vanno le cose, qui!”.
Jeremy
annuì e in un attimo quel grazioso bambino che aveva visto
fino a
poco prima come una proiezione di se stesso da piccolo, con la sua
stessa vivacità, ridivenne un estraneo. “Noi
Boscawen non
perdiamo! Mai!”.
Noi
Boscawen... Il
gelo ripiombò nel cuore di Ross, ricordandogli quanto avesse
perso e quanto gli fosse stato strappato da quella potente famiglia
che aveva assorbito in se le persone che più amava..
E
che non gliele avrebbe restituite indietro.
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Capitolo 40 *** Capitolo quaranta ***
"Assomigli...
sembri...".
"Cosa,
Margarita?" - chiese Demelza, mentre davanti allo specchio si
faceva aiutare da una domestica a prepararsi per il ballo d'autunno.
Aveva deciso di andare al ballo con una propria carrozza ma siccome
la sua amica e il marito avevano insistito, si erano poi ritrovati
tutti a casa sua per prepararsi per la serata e recarsi al
ricevimento insieme. Margarita, sempre graziosa e gentile, indossava
un vestito color panna che la rendeva simile a una piccola meringa
mentre Edward, suo marito, si era preparato nella camera a fianco con
Daniel, il loro amico e maestro di tiro con l'arco.
Demelza
si osservò nello specchio, guardando quel meraviglioso
vestito di
seta color verde smeraldo che le ricadeva morbidamente sul corpo,
lasciando scoperte quasi interamente le spalle. Lo aveva scelto con
Clowance e anche se di solito non avrebbe portato volentieri un abito
così scollato sul petto e sulla schiena e smanicato, quella
volta si
era sentita quasi in dovere di essere seducente, perfetta,
inarrivabile e bellissima. Era o non era Lady Boscawen? E mentre si
infilava un lungo paio di orecchini tempestati di diamanti e una
collana d'oro con un pendaglio di rubino, si chiese perché
volesse
tutto questo, lei che di solito si sentiva fuori posto e inadeguata
ai grandi ricevimenti della capitale. Era per rappresentare al meglio
i Boscawen? Oppure per dimostrare a Ross, che sarebbe stato presente
al ballo, quanto lei fosse irraggiungibile e diversa da come poteva
ricordarla lui? Voleva ferirlo, voleva dimostrargli che senza di lui
era andata lontano? Voleva che vedesse la sua potenza? O forse, ma
rifiutava l'idea, dentro di se voleva stupirlo e piacergli, come una
volta, pur senza dargli la possibilità di toccarla. "E
allora,
che ti sembro?".
Margarita
sorrise maliziosa. "Una che sa di essere bella e vuole
dimostrarlo e mostrarlo al mondo! Stasera sarai la regina del ballo.
Se Hugh fosse quì, rimarrebbe senza fiato".
Lo
sguardo di Demelza si addolcì al ricordo del marito, mentre
la
domestica le passava il rossetto sulle labbra. "Hugh odiava i
balli e la mondanità".
"Anche
tu, una volta!" - rispose Margarita. "Ma evidentemente le
cose sono cambiate!".
Sospirò.
Accidenti, erano cambiate davvero! "Anche tu sembri allegra e
non terrorizzata dalla serata".
Margarita
si sedette sul letto dove Demian, imbronciato e col muso lungo, se ne
stava ad osservarle a gambe incrociate e silenzioso. "E'
perché
mia madre stasera non c'è! Ha il raffreddore e quindi
starà a letto
a bere tisane e non al ballo, a riprendermi ad ogni inciampo nel
vestito! La vita è una cosa meravigliosa, Demelza".
Non
potè non ridere, davanti alla semplicità che mai
avrebbe
abbandonato Margarita e al tono leggero con cui pronunciò
quella
frase. "Ti ricordo che sei sposata e che tua madre non ha
più
così tanto potere sulla tua vita".
"Spiegalo
a lei!" - ribattè Margarita.
"Per
carità!". Demelza si sedette sul letto, accarezzando i
capelli
biondi di Demian. "Piccolo principe, cosa c'è?".
Il
bimbo singhiozzò. "Vai via?".
"Vado
a un ballo, te l'ho spiegato. E' importante che io ci sia, stasera".
"E
io? Io sto qua da solo?".
Sospirò,
ogni volta era la stessa storia e anche se di fatto Demian doveva
imparare a diventare un pò più indipendente anche
di sera, lei si
sentiva mortalmente in colpa quando doveva uscire e non poteva
metterlo a letto. Lui, a differenza dei suoi fratelli, ci soffriva da
morire a non averla vicina quando era ora di dormire e spesso,
soprattutto ultimamente, ricordava quei tempi lontani in cui era solo
una mamma che viveva in una casetta in Cornovaglia e la sera la
passava coi suoi bambini, a giocare con loro e a metterli a letto.
Era difficile ammetterlo ma quella vita più semplice e il
suo essere
solo una mamma votata alla cura dei suoi bambini, le mancava molto. A
quei tempi c'erano tanti altri problemi ma quanto meno non si sentiva
mai in colpa nei confronti dei suoi figli e il passare le serate con
loro era quanto di più bello potesse desiderare. Anche
adesso lo
era, ma non poteva farlo, non sempre... "Demian, non sei da
solo! C'è la nonna, c'è lo zio, ci sono Jeremy,
Clowance e Daisy
con te. E Prudie, Mary e tutti gli altri che lavorano per noi e ti
vogliono bene".
"Ma
tu no!".
"Ma
tornerò, come sono sempre tornata". Lo baciò
sulla fronte per
cercare di tranquillizzarlo mentre Prudie, entrando nella stanza per
annunciare che gli uomini erano pronti e che era ora di andare, si
avvicinava loro.
"Amore,
ti piace come sono vestita?" - chiese al figlio per distrarlo.
Demian,
con gli occhi lucidi, scosse la testa nervosamente. "NO!".
Sospirò,
cercando di abbracciarlo, ma il bimbo sgusciò via dalla sua
presa,
rifugiandosi in lacrime fra le braccia di Prudie. E Demelza, ancora,
si sentì in colpa a lasciarlo così. "Demian...".
Prudie
la spinse un pò lontana. "Su, andate ragazze benedette! A
lui
ci penso io, gli passerà e voi avete due bei ragazzi che vi
aspettano in corridoio".
Margarita
rise, prendendola a braccetto. "Dai Demelza, starà bene! E
anche tu! Io ho Edward e tu Daniel. E stasera sarà il tuo
accompagnatore e potrà godere della tua presenza, che
apprezza
molto, senza il timore che o io o te lo infilziamo con una freccia".
Demelza
diede un'ultima occhiata a Demian e poi si costrinse ad uscire.
Doveva andare e il suo piccolo sarebbe stato bene. Sorrise a
Margarita, cercando di non pensare ai suoi sensi di colpa. "Godere
della mia compagnia? Daniel? E' terrorizzato dal mio scarso talento
nel tiro con l'arco... Mi accompagna per timore di ritorsioni".
"Ti
accompagna perché ti adora! E' biondo, giovane e...".
"Appunto,
giovane!" - la interruppe Demelza, uscendo dalla porta –
"Molto più giovane di me".
"Solo
tre anni. E insieme sareste una coppia meravigliosa, anche Hugh vi
darebbe il suo consenso se potesse! Fareste dei bambini belli quanto
quelli che hai già".
Quell'ipotesi
le fece rizzare i capelli in piedi. Altri figli? Un altro uomo? Santo
cielo, la sua vita era già complicata di suo senza che ci si
mettessero altre cose a complicargliela ulteriormente.
Una
domestica le corse dietro, sistemandole i lunghi capelli tenuti a
bada da una mezza coda e pieni di boccoli perfettamente pettinati, le
mise una mantella sulle spalle e fu pronta.
Si
avvicinò al giovane Daniel, si fece prendere sotto braccio e
uscì,
decisa a dimostrare la potenza di Lady Boscawen ma allo stesso tempo
preoccupata per quanto sarebbe successo a casa. Lady Boscawen e
Demelza Carne o Poldark erano ancora in conflitto dentro di lei, in
quel momento. E forse lo sarebbero state a lungo.
...
Una
volta, alle feste ci andava assieme a Demelza e per quanto potessero
essere sfarzose, erano nulla in confronto al lusso sfrenato di quel
ballo.
Ross
conosceva ancora poca gente a Londra, era sempre stato un misantropo
nelle occasioni ufficiali e a quel ballo c'era andato di malavoglia
anche se, l'idea di rivedere Demelza lo aveva spinto a parteciparvi
con più convinzione rispetto al solito.
In
realtà non sapeva cosa aspettarsi da lei, non si erano mai
incontrati in occasioni ufficiali e per la prima volta avrebbero
affrontato una festa insieme non più da marito e moglie.
Alcuni
uomini del Parlamento lo avevano salutato cordialmente al suo arrivo,
abbozzando un qualche tipo di chiacchiera con lui ma Ross si era
intrattenuto lo stretto necessario liquidandoli poi con una scusa e
finendo per aggirarsi da solo nella sala da ballo.
Dame
elegantissime e cavalieri altrettanto eleganti e all'ultima moda,
parlavano e discutevano fra loro delle più svariate faccende
che
andavano dalla politica al pettegolezzo e Ross li trovava
semplicemente odiosi. Tante chiacchiere, pochi fatti e un
attaccamento al loro piccolo mondo dorato, li rendevano ai suoi occhi
esseri perfettamente inutili.
La
stanza era lussuosa come gli invitati, ampia, piena di luci, enormi
vetrate, lampadari tempestati di pietre preziose e monili d'oro e...
e lui ne era nauseato. E, sperava, anche Demelza...
Improvvisamente,
dopo un tempo che gli parve infinito, la vide arrivare e subito gli
si mozzò il fiato. Era semplicemente incantevole,
elegantissima,
inarrivabile, come gli aveva detto qualche tempo prima Lord Basset.
Indossava
un abito molto scollato, seducente, che le accarezzava le curve del
corpo lasciando poco spazio all'immaginazione e guardando come la
osservavano gli uomini presenti nella sala, si trovò ad
essere
geloso ed irritato. Essere così dannatamente desiderabile
era quasi
un reato, ai suoi occhi feriti e doloranti... Santo cielo, lei una
volta era sua moglie... Ed era bellissima, incantevole e gli abiti di
lusso e i gioielli preziosi che indossava, la rendevano non vezzosa
come le altre dame ma al contrario, una creatura quasi magica ed
eterea. Aveva una grazia naturale, una dolcezza nello sguardo e un
sorriso genuino che sempre l'avrebbero distinta da tutto quel
ciarpame presente alla festa. Lei era superiore a tutti loro e lui,
che aveva avuto a lungo il suo cuore e la sua compagnia, lo sapeva
meglio di chiunque altro.
Quando
arrivò, non era sola. Con lei c'erano un altro giovane
ragazzo
biondo che non si staccava dal suo fianco e con il quale Demelza
rideva e scherzava assieme a un'altra coppia di amici che era con
loro. Ross li osservò meglio e si accorse che erano la
coppia di
sposi che aveva visto quando, per la prima volta, aveva scorto
Demelza a Londra.
Si
appoggiò alla parete, forse sperando che Demelza lo notasse,
che lo
avvicinasse, che andasse da lui anche per un semplice saluto.
Ma
lei ovviamente non lo fece anche se, passandogli davanti, lo
osservò
per un lungo attimo accigliata, proseguendo però poi per la
sua
strada, coi suoi tre accompagnatori.
Non
lo degnò di altri sguardi, né di alcuna parola.
La guardò da
lontano ridere, scherzare, chiacchierare coi suoi amici con cui
doveva avere un rapporto molto profondo e informale e si
trovò
ancora una volta ad essere geloso. Lui una volta era il suo mondo
mentre adesso... Adesso era niente... E lei, che una volta guardava a
quelle feste con terrore e imbarazzo non sentendosi all'altezza, ora
ne era la regina e vi si trovava perfettamente a suo agio, assieme ai
suoi compagni.
La
guardò, nella sua infinita eleganza e bellezza. Tutti la
ammiravano
e tutti sembravano aspettare solo un suo cenno di saluto per essere
avvicinati. E per la prima volta da quando era a Londra e l'aveva
incontrata, si rese conto di chi era davvero Lady Boscawen, di quale
fosse il suo potere e di quanto grande fosse il suo fascino.
Lui
aveva tutto questo una volta e lo aveva perso, gettato via senza
capirne il valore... A quel ballo, se fosse stato meno idiota, ci
sarebbe potuto andare con lei, da marito e moglie. E ne sarebbe stato
fiero e orgoglioso e forse avrebbe apprezzato i balli, l'avrebbe
stretta a se come un tesoro prezioso da non dividere con nessuno e a
fine serata si sarebbero ritirati in una stanza, le avrebbe sfilato
di dosso quel meraviglioso e seducente vestito verde e avrebbe fatto
l'amore con lei...
Santo
cielo, come la desiderava... Ogni gesto, ogni passo, ogni sguardo
rivolto a Demelza quella sera, era pieno di desiderio di lei, delle
sue labbra, dei suoi baci, dei loro corpi fusi insieme dalla
passione...
"C'è
una lunga fila prima di voi, Poldark!".
Una
voce sgradevole giunse al suo fianco e Ross sussultò, preso
alla
sprovvista, trovandosi davanti il volto antipatico di Monk Adderly,
un uomo le cui gesta aveva già avuto modo di disprezzare nei
mesi
precedenti. Era un personaggio potente e viscido, squallido, pieno di
lussuria e dagli scarsi freni morali, che usava il suo potere per
avere ciò che voleva, che fossero donne o denaro...
Teoricamente era
un membro del Parlamento ma di fatto lo aveva visto ben poche volte
ai lavori parlamentari mentre spesso, la sera, invece lo aveva
trovato ai giardini di Vauxhall, circondato da donne compiacenti e
lascive. E la cosa che più lo innervosiva, era che Demelza
sembrava
conoscerlo e frequentarlo senza problemi, come aveva appurato alla
gara di trotto. "Di cosa parlate?".
"Di
come guardate e mangiate con gli occhi Lady Boscawen. Non che non
comprenda il vostro desiderio e ammirazione ovviamente, ma... Siete
l'ultimo arrivato quì e quella donna è il
desiderio di gran parte
della popolazione maschile che conta, di Londra. Ed è un mio
desiderio personale... E ciò che voglio io non è
fruibile agli
altri, sorpattutto a un nobiluccio di provincia come voi... E' una
bella puledrina ma non potrete appurarlo" – gli disse
nell'orecchio, leccandosi le labbra.
Santo
cielo, lo avrebbe ucciso! Lo avrebbe fatto provando un infinito
piacere! Come osava parlare di lei così? Come poteva anche
solo
permettersi? Come poteva sperare che Demelza, con lui...? Ma si
trattenne stringendo nervosamente i pugni mentre una volta, solo
pochi anni prima, lo avrebbe ucciso di botte. Oh, lo avrebbe fatto
anche ora ma sapeva che Demelza si sarebbe infuriata e non voleva
metterla in imbarazzo. "Siete molto sicuro di voi stesso,
Adderly. Ma bisogna vedere se lei è d'accordo".
Adderly
sorrise freddamente. "Si è sposata quel poetucolo idiota di
Armitage. Se è riuscito a portarsela a letto lui, non vedo
come
potrei non riuscirci io. E' molto che ci sto lavorando".
Ross
si accigliò. Avrebbe voluto avere qualche informazione in
più su
Hugh ma di certo MAI si sarebbe abbassato a chiederne ad Adderly che
però pareva averlo conosciuto. "E' sul molto tempo che ci
state
mettendo, che io mi concentrerei" – disse, malignamente,
rendendosi conto con la coda dell'occhio che Demelza lo stava
osservando da lontano, preoccupata di chissà che.
Perché
improvvisamente si era messo ad osservarlo?
Adderly
ridacchiò. "Poldark, la vostra ironia provinciale
è davvero
divertente! Potrei quasi quasi trovarvi simpatico... come un
giullare!". Gli picchiò la mano sul braccio, con un gesto
che
forse avrebbe potuto sembrare amichevole ma che in realtà
nascondeva
l'ennesima provocazione. Si stavano sulle scatole a vicenda, era
evidente. "E allora, domani? Domani che farete a Westminster?
Proverete ancora una volta a far valere le vostre idee provinciali e
sognatrici?".
Monk,
di nuovo, nascondeva dietro ai suoi modi melliflui l'ennesima
provocazione. “E voi...? Voi non venite alla Camera dei Lords
a
esporre le vostre idee”.
“Non
ne ho bisogno, io preferisco agire a contatto con le persone e in
maniera diretta”.
“Intimidatoria,
vorrete dire...”. Stavolta non ci riuscì a non
rispondere a tono.
Monk
fece un sorrisetto finto come la neve di agosto. “Ci sono
così
tanti modi carini per definire il mio operato, capitano Poldark...
Perché volete essere scortese?”.
“Diretto,
non scortese”.
Monk
parve perdere la sua calma ma improvvisamente si impose di
ricomporsi. Sfoderò il suo migliore sorriso e si mise ritto
in
piedi, esibendosi in un elegante inchino. “Lady Boscawen,
vedervi è
sempre un'immensa gioia per me”.
Ross
si voltò, trovandosi davanti Demelza che era giunta alle
loro spalle
col passo felpato di un gatto. Deglutì, colto totalmente di
sorpresa. Era bellissima e ora che la vedeva da vicino, riusciva
a vederlo
ancora meglio.
I suoi capelli erano stati pettinati, lisciati e poi acconciati in
eleganti boccoli che le ricadevano sulla schiena, al collo portava un
collier d'oro, alle orecchie dei lunghi orecchini tempestati di
diamanti, era truccata, altera e sembrava irraggiungibile. Ed era
irraggiungibile... “Demelza...”.
La
donna lo guardò freddamente, poi sorrise ad Adderly.
“Monk, che ci
fate qui tutto solo e appartato? Non è da voi essere tanto
ritirato.
Ci sono un sacco di dame laggiù, che piangono per la vostra
assenza
ed io e Lady Margarita ci stavamo chiedendo perché non vi
uniste al
ballo”.
Monk
guardò Ross in cagnesco, quasi con aria di sfida.
“Il capitano
Poldark mi stava illustrando coi fatti quanto la gente di provincia
sia scortese e seccante”.
Demelza,
ignorando completamente Ross, sospirò ad Adderly.
“Il capitano
Poldark è nuovo in questi circoli, non dovete prendervela.
Abbiate
pazienza e magari siate tanto cortese e insegnategli, con la
gentilezza che vi contraddistingue, le buone maniere che si usano
nella capitale. Sarebbe un bel gesto e noi donne ammiriamo gli uomini
gentili”.
Ross
si irrigidì. Come poteva farlo? Come poteva flirtare con
quel verme
davanti ai suoi occhi?
“Se
me lo chiedete voi” - sussurrò Monk, prendendole
la mano e
baciandola - “Lo farò con piacere. Servirvi
è quanto più mi
compiace”. Poi si rimise dritto, tornando a guardare Ross.
“Siete
nato sotto una buona stella, dovreste ringraziare Lady Boscawen per
aver sedato, sul nascere, la nostra innocente disputa. Mi auguro di
vedervi più educato e meno provinciale al nostro prossimo
incontro”.
E poi, con un inchino, si congedò da loro. “Vi
aspetto alla sala
da ballo, mia Lady?”.
“Sarò
da voi quanto prima” - rispose Demelza, con finta cortesia.
Quando
se ne fu andato, Ross si voltò verso di lei, furente. Come
osava
trattarlo come se fosse un ragazzino da educare, davanti a Monk
Adderly? E che cos'era quella sicurezza, cos'era quell'aria da gran
donna che osteggiava senza problemi? Santo cielo, stentava a
riconoscerla! Sapeva che era cambiata e che la sua vita e il suo
ruolo imponeva un certo tipo di comportamento, ma così era
davvero
troppo! E poi, che ci faceva lì dopo che per tutta la sera
lo aveva
ignorato senza problemi?
Demelza
lo bloccò subito, prima che lui parlasse. “Sai chi
è
quell'uomo?”.
“Un
idiota pallone gonfiato”.
“Un
uomo pericoloso da non sfidare e da cui stare alla larga” -
ribatté
lei, sicura, osservando con la coda dell'occhio Adderly che iniziava
a ballare con una dama.
Ross
le sorrise freddamente. “Stargli alla larga? Non mi pare che
tu lo
faccia visto il modo informale con cui vi parlate”.
Demelza
scosse la testa, decisa a non raccogliere la provocazione.
“Io gli
sto alla larga e quando è in zona so come trattare con lui.
Tutto
quì”.
Le
si avvicinò di alcuni passi, furente. “Lo so pure
io, sta
tranquilla LADY BOSCAWEN”.
“Sei
infantile, Ross!” - mormorò lei, un po' meno
altera e un po' più
arrabbiata rispetto a poco prima. “Ti stavi per cacciare nei
guai,
Adderly è famoso per i suoi duelli e ha sulla coscienza
parecchi
idioti che hanno osato sfidarlo prima di te. Se io non fossi
arrivata, ti saresti cacciato in una situazione pericolosa. Pensi che
ti abbia trattato come un ragazzino? No, non è
così! Ti ho tolto da
un pasticcio e allo stesso tempo non ho ferito l'amor proprio di
Adderly, facendolo sentire importante e rendendolo quindi innocuo.
Devi imparare a rapportarti con queste persone Ross, non sei in
Cornovaglia e se vuoi stare qui ed ottenere dei risultati, devi
imparare a stare alle regole del gioco. E' quello che, in un certo
senso, ho cercato di farti capire anche settimane fa, quando ci siamo
parlati a casa mia, nello studio di Falmouth! Ma evidentemente fai
davvero fatica a capire e ad accettare dei consigli”.
“Io
non amo i compromessi, lo ricordi questo?E non sono un codardo, se
uno mi sfida, io rispondo senza scappare!”.
Demelza
scosse la testa, più esasperata che arrabbiata. “I
compromessi
sono necessari in questo mondo, Ross. Se vuoi ottenere qualcosa di
importante, devi imparare a chinare il capo e a giocare secondo le
regole. Sei l'ultimo arrivato qui e vuoi cambiare usi e consuetudini
in vigore da secoli? Beh, se vuoi iniziare a farlo allora devi
scendere a compromessi con gli appartenenti al vecchio mondo, e da
lì
partire a crearne uno nuovo. E farsi sfidare a duello non è
un buon
modo per farlo”.
Ross
indietreggiò, gli sembrava di avere davanti un'estranea e il
suo
orgoglio gli impediva di comprendere la sensatezza delle sue parole.
“Una volta la pensavi come me”.
Demelza
per un attimo rimase zitta, forse ponderando se rispondergli ed
esporsi oppure andarsene via, lasciandolo solo ad arrangiarsi. Ross
credeva avrebbe scelto la seconda opzione ma stavolta lei parve
volerlo stupire e rimase, aprendogli un piccolo spiraglio ai suoi
pensieri. “La penso ancora come te, ma fare a pugni nelle
osterie o
sfidare Adderly a duello non ti porterà da nessuna
parte”.
Sì,
aveva senso quello che diceva ed era palese che lei sapesse muoversi
e trattare con quell'ambiente meglio di lui. E per la prima volta, da
quando si erano rivisti a Londra, Demelza stava parlando con lui in
maniera abbastanza civile, anche se stava succedendo a causa di
Adderly. “Tu non la pensi come me, non più. Tu
parteggi per Lord
Falmouth che ha idee totalmente opposte alle mie, ad esempio, come
abbiamo già avuto modo di appurare”.
“Lord
Falmouth è zio di mio marito e dei miei figli”.
“Di
DUE dei tuoi figli” - puntualizzò lui.
“Di
tutti i miei figli” - ribatté lei. “Ed
è un uomo intelligente e
sono certa che, se tu ti ponessi in maniera diversa, sapresti
portarlo dalla tua parte. O forse le sue idee non ti sembrerebbero
tanto pessime e insieme potreste trovare buoni compromessi”.
“Fallo
tu, prova a convincerlo...” - la provocò lui.
“Se è vero che la
pensi come me...”.
Demelza
scosse la testa. “Io non mi occupo di politica, Ross. E non
voglio
entrare nelle tue faccende personali più di quanto non abbia
fatto
questa sera”.
Ross
la osservò di sbieco, concentrandosi sulle sue successive
parole.
Già, perché era intervenuta nella sua disputa con
Adderly? “Come
mai mi ha così gentilmente 'difeso' da Monk?”.
Lei
sospirò, prendendo a farsi aria col ventaglio che aveva fra
le mani.
Il suo sguardo tornò duro e freddo e improvvisamente fu di
nuovo
distante. “Perché sei un idiota che si stava
mettendo nei guai. E
Adderly ti stava guidando sapientemente in questo, senza nemmeno che
tu te ne accorgessi”.
“Ma
non sarebbero comunque affari tuoi”.
“Vero,
su questo hai
ragione. Ma evidentemente, nonostante tutto, ho ancora il cuore
troppo tenero. Questa sera ti ho aiutato ma non succederà
più, non
sono affari miei e tu me lo hai appena fatto gentilmente notare. Ma
vedi di stare attento...”. E poi, senza aggiungere altro,
fece per
andarsene verso la sala da ballo.
Ma Ross, a
quel punto, decise
di rischiare il tutto per tutto e la bloccò. Se non ne
approfittava
ora per parlarle, non avrebbe avuto altre occasioni chissà
per
quanto. “Aspetta!”.
Lei
si voltò lentamente, guardandolo. “Cosa
c'è?”.
Ross
assunse una strana aria provocatoria, cercando di ottenere da lei una
qualche reazione. “Volevo solo farti le condoglianze per tuo
marito... L'altra volta, da Lord Falmouth, non ne ho avuto
l'occasione. E tu devi aver dimenticato di comunicarmi la sua morte,
nei nostri precedenti incontri”.
Lei
rimase impassibile, glaciale. “Non l'ho dimenticato, Ross.
Semplicemente, non vedevo motivi per parlarti di mio marito e non
trovo motivo alcuno di interesse per te, di sapere di lui”.
“Io
però ti ho raccontato di Elizabeth” -
ribatté.
“E
io non te l'ho chiesto. Sei stato tu a volermene parlare ma non per
questo, mi dovrei sentire in obbligo di parlarti della mia
vita”.
Ross
deglutì, mordendosi il labbro. Di nuovo quel muro di
freddezza, fra
loro, che lei sapeva ergere con maestria. Era vero, Demelza non aveva
obblighi verso di lui, di certo non gli doveva nulla e sicuramente
aveva ragione, Hugh non erano affari suoi. Ma una volta... Una volta
loro si dicevano tutto e ora invece erano due estranei e lei gli
aveva omesso volontariamente una cosa tanto importante. E lo aveva
fatto per tenerlo lontano perché Demelza sapeva che ora che
lui era
al corrente della verità, non le avrebbe dato tregua.
“Dimmi una
cosa! Sei felice, ora? Così, in questa vita tanto diversa da
quella
che amavi un tempo”.
“Molto”
- rispose, sicura.
“Davvero?”.
Lei
sospirò, forse arrendendosi al fatto che se non avesse dato
una
risposta adeguata, non le avrebbe lasciato tregua. “Non ho
mai
avuto una famiglia e ora ne ho una. E mi amano, i bambini sono
circondati da persone che li adorano e che vogliono vederli crescere,
hanno un futuro e io...”. Alzò le spalle, come a
voler cercare le
parole migliori per spiegarsi. “E io voglio bene a loro. Non
per il
denaro, non per la ricchezza, non per il potere o il prestigio. Ma
per la fiducia e l'affetto che mi hanno dato e perché non
fanno
mancare ai miei figli ciò che da bambina... da sempre...
è mancato
a me: l'amore”.
Ross
per un attimo rimase spiazzato per quelle parole dette sicuramente
con onestà e che per la prima volta da quando si erano
rincontrati,
mettevano un po' a nudo l'anima di Demelza che una volta era sua e
che ora non riusciva più a toccare. Però,
nonostante questo, faceva
male sentire quelle parole e come lei si fosse sentita finalmente
amata a Londra mentre prima scorgeva il nulla. E non era vero.
“Da
sempre? E io, io non ti ho forse amata?”.
Lei
volse lo sguardo altrove, forse pentendosi di quella confessione.
“Non voglio parlare di queste cose, è passato
molto tempo, è
finita e ho accettato la realtà dei fatti”.
“Quale
realtà?”.
Lei
sorrise, amaramente. “Che i sogni di una bambina che faceva
la
sguattera non si possono realizzare... Qualsiasi cosa quella bambina
farà, qualsiasi sentimento lei proverà, qualsiasi
cosa lei dirà...
agli occhi di tutti resterà sempre e solo una sguattera da
gettare
via quando non serve più”. Si allontanò
da lui, questa volta
intenzionata ad andarsene. “E ora scusa, Adderly mi aspetta
per il
ballo”.
No,
non poteva lasciarla andare, non poteva permetterle di pensare
questo. Si era comportato in modo orribile, aveva mancato in mille
occasioni e poi aveva cercato di riparare ai suoi errori, commettendo
errori ancora più grossi. Ma mai, MAI aveva pensato di lei
una cosa
simile. E non poteva permettere che lo pensasse, non voleva che lei
credesse qualcosa del genere. “Demelza, forse non mi
crederai,
forse non ho nemmeno il diritto di chiederti di credermi ma... per
quel che vale non ti ho mai guardata a quel modo. Ne prima, ne dopo
il matrimonio... E non ho mai pensato che tu fossi qualcosa da
gettare quando non serviva più. Non credi che dovremmo
parlarne?”.
“No,
non credo...” - disse lei, abbassando il capo.
“Perché?”.
“Perché
non ti credo e perché non voglio stare a sentirti. Non ho
motivo di
farlo, sono la moglie di un altro adesso e tutto ciò che
c'era prima
è sparito, non esiste più. Così come
non siamo più esistiti ne io
ne i bambini per te, dopo quella notte. Non è vendetta,
è che la
vita va avanti, si deve vivere nonostante tutto e io non sono
più la
Demelza che ricordi tu. E tu hai fatto delle scelte, hai deciso di
chi essere marito e padre e quindi non c'è motivo alcuno per
parlarne. Ti ho lasciato fare come volevi, me ne sono andata e per
fortuna, qualcuno è riuscito ad amarmi nonostante tutto. E
io sono
stata felice e ho scoperto che forse al mondo c'era qualcuno che mi
credesse speciale e bella e che non ero solo una piccola sguattera da
usare a piacimento. Per tanto mi sono creduta solo questo, tu hai
fatto in modo che non lo dimenticassi mai e Ross, guardami! Sotto
questi vestiti e questi gioielli, c'è ancora quella
sguattera che
hai scelto di lasciare per una gran Lady. Perché quindi
perdi tempo
a parlarmi? Di Elizabeth in questa sala, che ai tuoi occhi
appariranno splendide, ne troverai tantissime”.
No,
no e ancora no! Non poteva permettere che lo pensasse, che lo
dicesse, che ne fosse convinta. Voleva solo allungare le braccia e
stringerla a se, portarla via, baciarla, amarla e urlare che non era
vero niente, che di Lady come Elizabeth lui non ne voleva, che tutto
ciò che riusciva a vedere in quella sala era lei e solo lei,
non una
sguattera ma la donna che aveva rubato il suo cuore e che era la sua
ragione di vita, l'unica che avesse mai considerato una moglie, una
amica, una confidente preziosa, l'amore, il futuro e la madre dei
suoi figli. Era un onore per lui, che lei fosse la mamma dei suoi
bambini! Voleva urlarlo davanti a tutti e non poteva farlo, ma in
qualche modo doveva dirglielo. Forse non quella sera, forse non
lì,
forse in un'altra occasione... Ma doveva perché quella
certezza
faceva sicuramente male al cuore di Demelza quanto faceva male al
suo. Non era stato capace di farle capire i suoi sentimenti e a
lungo, schiacciato da problemi e dolori, aveva cercato di ritrovare
l'utopistica e perfetta gioia dell'amore giovanile senza problemi e
aveva sbagliato, era stato orribile e crudele e lo capiva attraverso
l'amarezza delle parole di Demelza, quanto male le avesse fatto senza
pensarci, senza stare a soffermarsi sulle conseguenze delle sue
azioni. Come aveva potuto permettere che sua moglie soffrisse tanto,
senza preoccuparsene? Lei, che gli era stata accanto senza chiedere
nulla mai, sia nei momenti belli che in quelli duri... Lei, che
meritava davvero solo amore e dolcezza...
Guardò
la mano di Demelza, portava all'anulare sinistro una fede d'oro con
un piccolo diamante che non le aveva messo lui. Del loro anello non
c'era traccia, Demelza doveva averlo tolto e messo chissà
dove e ora
solo il matrimonio con Hugh per lei contava. Portava ancora quella
fede, anche se era morto da anni. “Lo amavi?”.
“Non
risponderò a questa domanda!” - ribatté
lei, secca.
“Lo
amavi...” - rispose lui per lei - “E porti ancora
la sua fede al
dito. Non la mia”.
“Il
nostro matrimonio è stato annullato e quindi non
è mai esistito.
Cosa dovrei portarla a fare?”.
Lui
sorrise tristemente. “Non so, credevo che per te contasse
comunque
ancora qualcosa, come per me”.
La
risposta di Demelza però, lo gelò. “Per
quanto riguarda Hugh, sì,
lo amavo e mi manca, vorrei che fosse qui. E se lui fosse vivo ora
sarei a casa, lui odiava i balli. Se fosse vivo non sarei uscita
lasciando il mio bambino più piccolo in lacrime ma starei
giocando
coi nostri figli e starei raccontando loro una fiaba, amavamo fare le
cose insieme ai bimbi. INSIEME! Ma Hugh non c'è e io ora
devo
rappresentare questa famiglia al suo posto e per lui e per il suo
ricordo e ciò che conta per me, voglio farlo al meglio,
anche se per
farlo a volte devo trovare dei compromessi. Per quanto riguarda la
fede, l'ho venduta, sette anni fa, per pagarmi il viaggio per
Londra”.
Gli
si mozzò il fiato, faceva male peggio che cento frustate.
“Demelza...”.
Lei
lo guardò, gelida e questa volta lui non trovò la
forza per
fermarla.
“Buona
serata, Ross...”. E sparì davvero, tornando da
Adderly che la
aspettava impaziente al centro della sala.
Rimase
come un ebete da solo, mentre attorno a lui tutti ridevano e
ballavano felici. Per la prima volta, in un certo senso, Demelza si
era aperta a lui. E gli aveva fatto toccare con mano il suo passato,
il dolore che gli aveva inferto e tutti i suoi errori, quelli
commessi senza stare a pensare alle ferite che lasciavano sulla pelle
di chi amava e i loro strascichi.
Santo
cielo, SANTO CIELO! Per anni aveva sofferto per lei, pensando,
credendo che la loro sofferenza fosse simile.
Ma
si sbagliava, lei aveva sofferto di più e più a
lungo...
Aveva
distrutto con le sue mani quell'amore bello, sincero, unico e pulito
che avrebbe potuto illuminare la sua vita, aveva distrutto la fede
incrollabile di una donna che viveva per lui e lasciato i suoi figli
senza nome e senza padre.
Aveva
venduto la loro fede, Demelza... Anni prima se n'era liberata per
andarsene lontano da lui...
Quell'anello
che li aveva uniti, era stato il viatico per dividerli per sempre.
L'ironia del destino era davvero crudele e lui quella
crudeltà se la
meritava tutta.
...
Quando
Demelza tornò a casa, il suo cuore era in tumulto e
martellava nel
suo petto.
Non
avrebbe dovuto esporsi così con Ross, non avrebbe mai
dannatamente
dovuto riaprire quelle pagine sul passato che dovevano invece
rimanere chiuse, non avrebbe mai dovuto parlargli dei suoi sentimenti
perché questo l'aveva resa vulnerabile ai suoi occhi e lei
non
voleva. Non voleva, non poteva permetterselo! Non voleva parlare di
quelle cose, di quei sentimenti, di quelle sensazioni che non voleva
ammettere nemmeno a se stessa e che invece erano scivolati fuori
dalle sue labbra senza che lei riuscisse o potesse fermarli.
Avrebbe
dovuto far finta di niente e divertirsi coi suoi amici, come da
programma!
Ma
quando l'aveva visto parlare con Adderly, quando aveva visto il
furore negli occhi di Ross, quel furore che spesso, in passato, era
stato fonte di guai, non era riuscita a far finta di nulla.
Adderly
era un uomo letale e infido e Ross non era in grado ancora di capirne
la pericolosità e di avere a che fare con lui.
Si
chiese perché si fosse preoccupata, perché fosse
andata a dividerli
visto che non erano affari suoi, ma per la prima volta non seppe o
non volle darsi risposte.
Persa
in quei pensieri, percorse i corridoi, salì le scale della
sua casa
e nel silenzio della notte fonda, andò da Prudie a
riprendersi
Demian.
Quando
entrò, trovò la domestica ancora sveglia e la
candela sul comodino
ancora accesa. Demian dormiva accanto a lei, rannicchiato contro le
sue gambe e Prudie aveva la faccia stravolta. "Che è
successo?"
- chiese, preoccupata.
Prudie
osservò il bambino. "Un disastro, stasera! Ha pianto tutto
il
tempo, ha pianto mentre vi guardava andare via in carrozza, ha pianto
durante la cena e a un certo punto Lord Falmouth si è
spazientito e
ha alzato la voce per tutti quelli che lui chiama capricci. Demian ha
pianto più forte e Daisy – la sua piccola
avvocatessa – a quel
punto è intervenuta come sempre a difesa del fratello e ha
lanciato
il suo piatto di minestra calda in testa allo zio".
Demelza
sbiancò, era una catastrofe... "COSA?".
Prudie
sospirò. "Lo sai ragazza, i gemelli si difendono sempre fra
loro, guai a chi prova a contrariare l'altro... Falmouth li ha
mandati in castigo in camera senza cena e ora sono in castigo. E
ovviamente Jeremy e Clowance son stati preoccupati e silenziosi tutta
sera per l'accaduto".
Demelza
chiuse gli occhi, in cerca della calma necessaria ad affrontare la
cosa. Oltre a Ross, ci mancava pure questo! La sua piccola e
selvaggia orsetta aveva difeso suo fratello ma ovviamente non poteva
comportarsi così e il giorno dopo l'avrebbe rimproverata a
dovere. E
Demian... Gli si strinse il cuore al pensiero del suo piccolo
principe e di tutte le lacrime che aveva versato.
Si
chinò, prendendolo in braccio, e nel sonno il bimbo si
avvinghiò a
lei. Lo osservò, le sue guance erano ancora rigate di
lacrime e lo
strinse a se coccolandolo. "Lo porto a letto, grazie Prudie. E
domani penseremo a risolvere questo disastro".
Prudie
annuì. "Com'è andata al ballo? Lui c'era?".
Demelza
sospirò fra i capelli di Demian. "Sì... E
preferirei non
parlarne ora. Scusa!".
Prudie
annuì, capendo il suo turbamento. E Demelza uscì,
portando Demian
nella loro stanza e cullandolo andando avanti e indietro nella stanza
con lui in braccio, proprio come faceva quando era neonato per
tranquillizzarlo. "Piccolo principe, ti prometto che per un
pò
staro con te, la sera. Ma tu non devi far così, d'accordo? O
altrimenti succedono disastri" – sussurrò,
immaginando con
terrore Falmouth con in testa il piatto di minestra di Daisy che gli
colava sul viso.
Nel
sonno lui annuì, aprendo gli occhietti lievemente per poi
richiuderli e abbracciarla più forte.
Demelza
lo baciò sulla fronte. "Sistemeremo tutto, tesoro. Il mio
passato che è tornato, i miei sentimenti che non capisco e
non so
tenere a bada e soprattutto... Tuo zio che da domani tornerà
alla
carica per assumere l'istitutore svizzero" – concluse,
alzando
gli occhi al cielo.
La
vita è una cosa meravigliosa, aveva detto poche ore prima in
quella
stanza, Margarita. Sarebbe stato bello se fosse stato davvero
così...
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Capitolo 41 *** Capitolo quarantuno ***
"Ho
trovato molto interessante, la scorsa volta, l'accesa discussione che
hai avuto con Ross Poldark e come lo hai rimesso in riga. Ti voglio
al nostro prossimo incontro di venerdì pomeriggio, Demelza!
Dovrà
venire a discutere del prezzo del grano e spero di trovare un buon
accordo con lui da portare poi alle votazioni in Parlamento. Puoi
aiutarmi a fargli comprendere come ci si deve comportare, cosa sia
giusto fare o no e come può portare il suo carisma e la sua
intelligenza brillante al servizio di Westminster. E mio.
Altrimenti... Credo che domani pomeriggio assumerò in pianta
stabile
Ser Gotfried Lehmann, brillante e rinomato educatore svizzero, come
istitutore dei gemelli".
Demelza
stavolta aveva dovuto accettare e chinare il capo davanti al non
troppo celato ricatto posto in essere da Falmouth. Non poteva
obiettare, non poteva argomentare senza esporsi e dover raccontare il
suo passato e soprattutto, dopo quanto combinato da Daisy mentre lei
era al ballo d'autunno, sarebbe stato difficile convincerlo che i
gemellini erano semplicemente un pò vivaci. Ci voleva
disciplina, ci
volevano regole, lo sapeva anche lei che Demian doveva imparare a
diventare più indipendente e Daisy più educata,
così come sapeva
che i bambini dovevano iniziare a portare il giusto rispetto agli
adulti e che la situazione con loro stava sfuggendo di mano. Ma non
voleva un educatore, non riteneva fosse quella la soluzione al
problema sorto coi figli più piccoli e benché
ormai fosse convinta
che bisognasse intervenire, avrebbe lottato strenuamente
all'assunzione di un estraneo che si occupasse dei gemellini.
"Va
bene, sarò presente al vostro incontro" – disse
quindi
sconfitta, non potendo fare altro, anche se rivedere Ross le
infliggeva continue fitte al cuore e si stava facendo coinvolgere,
più di quanto avesse mai voluto, nella sua nuova vita di
parlamentare di Londra. E poi... E poi era difficile guardarlo negli
occhi dopo quanto si era lasciata scappare dalle labbra durante il
ballo. Uno sfogo, un liberare nell'aria sentimenti e dolori a lungo
repressi... Forse ne aveva bisogno, ma non avrebbe dovuto farlo
davanti a lui! Con lui! Si era resa vulnerabile e ora Ross sarebbe
partito al contrattacco!
Falmouth
sospirò. "Dirò a Ser Gotfried che può,
per ora, ritenersi
libero da impegni con noi. Ma per quanto riguarda Daisy...".
Demelza
sospirò. "Sì, va punita! Ma ha solo tre anni...".
"Quattro,
fra pochi mesi! Troppi per essere così selvaggia!".
Lei
abbassò il capo. "Intendevo che la punizione andrebbe
rapportata alla sua età".
Falmouth
la studiò con gli occhi. "Esattamente! E ne ho
già in mente
una per quella bambina che mi ha ustionato il cranio, con quella
minestra calda".
Demelza
deglutì. "Quale?".
"Si
eserciterà ogni pomeriggio a scrivere il suo nome e non
potrà
uscire a giocare all'aperto finché non avrà
imparato a farlo
correttamente, in bella grafia".
Tirò
un sospiro di sollievo, pensava a qualcosa di molto peggio...
"D'accordo, mi pare una buona soluzione. E quanto meno
imparerà
a scrivere il suo nome, Daisy Armitage".
Falmouth
fece un sorrisetto un pò maligno. "Oh, non Daisy Armitage!
Voglio il nome completo!".
"Cosa?".
L'uomo
si avvicinò alla finestra, osservando il parco. "Daisy
Alexandra Charlotte Armitage, Lady Boscawen. Appartiene a una
famiglia importante, deve imparare a scrivere il suo nome e il suo
titolo nobiliare per intero. E' ciò che la rende
ciò che è e sarà
in futuro".
Demelza
lo guardò esasperata. "E' troppo piccola per riuscirci! Non
riusciremo a farla stare in casa finché non avrà
imparato a farlo.
Farà impazzire Prudie e tutte le domestiche che le si
affiancheranno. E me!".
Falmouth
le si avvicinò, poggiando una mano sulla sua spalla. "Non
farà
impazzire nessuno! Si eserciterà con me, nel mio studio!
Assistendo
ai miei incontri politici".
Demelza
sbiancò in volto. Santo cielo, era impazzito? Come poteva
pensare
che Daisy potesse reggere senza fare disastri? E soprattutto...
Giuda, la sua bambina sarebbe stata presente anche all'incontro con
Ross!? Lei, Falmouth, Ross e Daisy... Era un incubo, doveva
esserlo...
Falmouth
si concentrò ad osservarla in viso. "Sei pallida, mia cara!
Non
ti senti bene?".
"N...
No, sto benissimo!".
"Bene,
allora comunica di persona a Daisy quale sarà la sua
punizione".
E così dicendo uscì dalla stanza, lasciando
Demelza in preda
all'ansia e alla frustrazione. In quel momento non sapeva chi volesse
strozzare per primo fra Daisy che l'aveva messa in quella
situazione, Falmouth che ne aveva approfittato subito e Ross che, suo
malgrado stavolta, gli sarebbe comparso nuovamente davanti agli
occhi...
...
Era
arrivato un pò in anticipo nella grande residenza dei
Boscawen e il
maggiordomo lo aveva accompagnato allo studio di Lord Falmouth
dicendogli che il signore e Lady Armitage sarebbero arrivati nel giro
di pochi minuti.
Ross
era stato sorpreso di apprendere, il giorno prima da Falmouth stesso,
che Demelza sarebbe stata presente al loro incontro. Non che la cosa
non gli facesse piacere ma da quando l'aveva saputo, non aveva fatto
altro che chiedersi perché. Lei di certo non ne aveva
piacere,
doveva esserci stata costretta e nella sua mente si erano formate
mille ipotesi e suggestioni sulle dinamiche famigliari della nuova
famiglia di Demelza. Dinamiche che, poteva scommetterci, la
costringevano a stare nell'unico posto al mondo dove non voleva
essere: con lui. Doveva essere così e non poteva essere
stata una
libera scelta di Demelza quella di partecipare, ricordava bene come
avesse già declinato un analogo invito di Falmouth, con
fermezza,
solo poche settimane prima.
Dalla
sera del ballo non l'aveva più vista ma mai aveva smesso di
pensare
a lei e alle parole che gli aveva rivolto. Non rabbiose ma piene di
dolore e rassegnazione, sentimenti che doveva aver covato in lei in
quegli anni di lontananza ma anche prima, a Nampara, quando era sua
moglie. Senza che lui si accorgesse di niente perché troppo
preso a
essere il principe azzurro di un'altra per rendersi conto che la sua
famiglia aveva bisogno di lui e del suo amore.
Santo
cielo che pessimo marito era stato... Orrendo, per averla portata
alla conclusione di non aver mai contato nulla per lui. Ora, dopo
tutto quel tempo, capiva quanto il suo darla per scontata, il suo
essere sempre a disposizione per tutti eccetto che per lei
perché la
considerava troppo forte per aver bisogno d'aiuto, l'avesse pian
piano ferita e annientata. Si erano allontanati e Ross sapeva che era
per colpa sua, del suo egoismo e della sua arroganza, del suo animo
inquieto, della sua lotta alle ingiustizie del mondo che mettevano a
rischio anche il benessere della sua famiglia, della sua abnegazione
verso Elizabeth che lo aveva portato al baratro...
Aveva
perso tutto, per egoismo e incapacità di dimostrare il
proprio amore
alla donna della sua vita...
L'aveva
come dimenticata in quel periodo seguito alle morti di Julia e
Francis, si era allontanato da lei inseguendo un giovanile sogno
utopistico, aveva dato per scontato l'avere diritto a quel sogno
anche se era ormai marito e padre, che lei dovesse capire ed
accettare, che dovesse rimanere al suo posto ad aspettare il suo
momento, che... che... Come aveva potuto ferirla tanto? Come aveva
potuto non dirle che l'amava, non farglielo sentire? Come aveva
potuto spingere le persone che erano il suo mondo e che avrebbe
dovuto proteggere, a scappare lontano da lui? Come aveva potuto
abbandonare Jeremy e Clowance? I suoi bambini, come Julia... Che come
Julia meritavano solo un padre che lottasse per rendere il mondo un
posto migliore per loro...
Quando
entrò nello studio di Falmouth, i suoi pensieri si
interruppero
bruscamente perché seduta alla scrivania, al posto del Lord,
c'era
la biondissima gemellina di Demelza, quella piccola peste che aveva
fatto dannare Prudie al parco durante il loro incontro. L'esempio
vivente del fatto che aveva perso Demelza e che la vita aveva fatto
il suo corso, dandole un nuovo amore e altri due figli.
La
bambina stava seduta con aria annoiata, con davanti un calamaio e un
foglio pieno di scarabocchi. E quando alzò gli occhi su di
lui, Ross
sbiancò. Se lo riconosceva e lo diceva a Demelza, lui era
nei guai!
E anche Prudie che aveva voluto aiutarlo... E non osava immaginare la
reazione di Falmouth!
Daisy
spalancò gli occhi, borbottando qualcosa che
spezzò le speranze di
Ross di essere stato dimenticato. "Il fidanzato di Prudie..."
- disse, guardandolo storto.
A
Ross si rizzarono i capelli in piedi davanti a quelle parole. Santo
cielo, lui e Prudie fidanzati... Non che non volesse bene alla sua ex
domestica ma se c'era un limite al senso dell'orrido, la mocciosetta
lo aveva decisamente superato. "No, ti sbagli. Sono un signore
di passaggio che lavora con tuo zio".
Daisy
non credette ovviamente a una parola. "Sei venuto per chiedere
allo zio il permesso di sposare Prudie? La vuoi portare via?".
Ok,
era nei guai e lei sembrava arrabbiata! E ora come ne usciva? E
soprattutto, che diavolo ci faceva lì Daisy? "No,
tranquilla,
non sono venuto per Prudie. Sono quì per parlare con tuo zio
di
lavoro. Non sono il fidanzato di Prudie" – ripeté.
Le
si avvicinò, osservando cosa stesse facendo, nella speranza
di
distrarla. "Cosa fai? Disegni?".
Daisy
si imbronciò. "Giuda, no! Sono in castigo e lo zio e la
mamma
vogliono che scrivo tutto il mio nome intero! Mi hanno dato un sacco
di nomi apposta, quei cattivi, per mettermi in castigo meglio!
Davvero non sei venuto a trovare Prudie? Non la porti via?".
"No".
Si inginocchiò di fianco a lei, doveva cercare di distrarla
dal
pensiero di Prudie e se tanto gli dava tanto, quella piccola
carognetta bionda aveva un modo di ragionare molto simile al suo, da
bambino. Doveva usare l'astuzia o lei lo avrebbe fregato. Con le
piccole canaglie funzionava così: doveva dimostrarsi
più canaglia
di lei e ottenerne così ammirazione e attenzione,
nonché rispetto.
"Senti, ma Prudie ti da molte sculacciate?".
"Giuda,
ho il culetto viola!".
A
Ross venne da ridere ma si trattenne anche se la trovava davvero
strepitosa. Aveva davanti una autentica monella di Cornovaglia, altro
che mini-Lady londinese, anche se la bellezza di quella bambina era
abbagliante e sprigionava signorilità da ogni poro. Suo
padre doveva
essere stato un uomo davvero affascinante per generare due bambini
come i gemelli... Beh, era meglio non pensarci ora! "Sai,
capitava anche a me da piccolo e se vuoi, posso insegnarti un modo
per sfuggirle".
Daisy
lo guardò sospettosa ma allo stesso tempo interessata.
"Quale?".
"Te
lo dico, se facciamo un patto!".
"Cos'è?".
"Un
accordo. Io do qualcosa a te e tu ne dai una a me. E' una cosa
importante, che si fa solo fra vere persone d'onore! Gente che
mantiene la parola e di cui fidarsi. Ne sei capace?".
"CERTO!"
- rispose lei in tono di ovvietà, alzando le spalle con
noncuranza.
"Tu mi insegni come non avere il culetto viola e io cosa devo
fare?".
"Solo
non dire alla mamma e allo zio che ho chiacchierato con Prudie al
parco. Deve rimanere un segreto, sei capace a mantenerne uno?".
Daisy
ci pensò su. "Ti ho detto di sì! Va bene, sto
zitta! Io sono
brava lo sai, sono anche la più brava a dire le bugie,
giuro! Ma
come faccio con le botte?".
Ross
fece un sorrisetto furbo, l'aveva in pugno. E che fosse una
conta-frottole professionista era indubbio, non c'era bisogno che lei
glielo assicurasse anche se si auspicava, non ne stesse raccontando
anche a lui in quel momento. Sperò che Prudie lo perdonasse,
dopo
tutto lo stava facendo anche per lei oltre che per se stesso. "Prudie
è anzianotta e grassa, fa fatica a muoversi, giusto? Tu
invece sei
piccola e veloce e quindi, quando lei vuole darti una sculacciata e
sta per prenderti, tu gettati in terra. Lei non riuscirà a
prenderti, non è così agile a chinarsi, le
farebbe male alla
schiena. Se stai stesa in terra o seduta quando lei ti insegue, non
riuscirà mai ad averti. E avresti il sederino salvo". Non
era
corretto, lo sapeva! Ma in fondo era compito di un ex-bambino
terribile insegnare ai suoi successori i trucchi del mestiere... "Mi
raccomando però, anche questa nostra conversazione deve
rimanere un
segreto fra noi due".
"Mh...
sì!". Daisy, che fino a quel momento lo aveva guardato con
sospetto, cambiò espressione e a Ross parve di scorgere nei
suoi
occhi azzurri, una sorta di ammirazione e rispetto. "Ohhh...
Sicuro che funziona? Con le botte!".
"Sicuro!
Da piccolo sculacciavano anche me e quando succedeva, io facevo
così
e riuscivo sempre a cavarmela". Le prese la manina, conferendo
al loro patto segreto un tono di solennità. "Accordo fatto?".
Lei
sorrise, rispondendo alla stretta. Era un patto fra due persone
rispettabili, no? "Sì. Shhh, è un segreto che sei
il fidanzato
di Prudie!".
"Non
sono il fidanzato di Prudie! Ma non importa, non dirai niente,
vero?".
Lei
scosse la testa. "Niente. Però mi giuri che non la porti
via,
Prudie?".
Le
sorrise, in fondo sotto quella scorza da bambina terribile, doveva
aver sviluppato un forte affetto per chi si prendeva cura di lei,
anche se lo manifestava in maniera curiosa. "Te lo giuro. Parola
d'onore". Certo, era la verità dopo tutto anche se, per il
suo
bene, decise di tacere che in realtà il suo desiderio era
portarsi
via la sua mamma...
Daisy
annuì. "Grazie signore".
Ross
fece per rispondere quando la porta si aprì. E Falmouth e
Demelza
entrarono nello studio.
Falmouth
era impeccabile e distino come sempre mentre Demelza, vestita con un
elegante abito giallo e coi capelli raccolti in una treccia, sembrava
imbronciata e nervosa.
Ecco,
quindi non si era sbagliato, se era lì con loro, doveva
essere
contro la sua volontà! Ma fece finta di nulla,
salutò entrambi con
un elegante cenno del capo e poi si mise composto sulla poltrona, ad
aspettare che loro facessero altrettanto.
Falmouth
si sedette alla scrivania, di fianco a Daisy e Demelza nel piccolo
divanetto accanto, silenziosa ed evidentemente a disagio. Si
accomodò, accavallò le gambe e poi
sospirò, forse per evidenziare
il suo scontento.
Daisy
guardò lo zio e lui guardò il foglio con gli
scarabocchi. “E
allora? Vedo che non hai combinato nulla!”.
Ross
osservò Demelza che sembrava tesa come una corda di violino
per
quella situazione che forse, oltre a lui, comprendeva anche un
qualcosa che riguardava la bambina, poi osservò la piccola
che,
imbronciata, riprese il foglio stropicciandolo fra le manine.
“NON-SONO-CAPACE!”.
Falmouth
non si scompose. “Imparerai! Ma non ora! Adesso assisterai a
una
conversazione interessante fra me e il signor Poldark sul prezzo del
grano! Ti interessa il prezzo del grano? E’ una questione
importante”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo e Daisy guardò suo zio
con una faccia
talmente buffa che, se non fosse stato per la situazione di gelo con
la sua ex moglie, sarebbe scoppiato a ridere molto volentieri.
“No,
non mi interessa” – rispose la piccola con
sincerità, dondolando
le gambine che penzolavano dalla sedia.
“Non
importa, ascolterai lo stesso”.
Daisy
sbuffò e Ross si trovò un po’ in
difficoltà. “Ecco… Forse
questi non sono argomenti adatti a una bambina” –
tentò di
argomentare, suscitando lo sguardo sorpreso di Demelza che fino a
quel momento era rimasta stranamente in silenzio.
Falmouth
osservò la sua nipotina. “Daisy è in
castigo, ma il castigo può
e deve trasformarsi in qualcosa di istruttivo per la giovane mente di
una futura Lady. Imparerà a scrivere il suo nome, come
funziona la
politica e soprattutto si ricorderà come ci si deve
comportare e
cosa è bene fare e cosa no”.
Ross
osservò la piccola che, dall’espressione, era
già più che
annoiata. “Che… che ha fatto per
meritarselo?” – chiese
infine, vinto dalla curiosità, guadagnandosi
un’occhiataccia da
Demelza per quell’intromissione nelle sue faccende personali.
Falmouth
scosse la testa, impilando dei fogli che si trovavano davanti a lui.
“Non accetta i no, è disubbidiente, bugiarda e
aggressiva. L’altra
sera mi ha lanciato in testa un piatto di minestra bollente che,
oltre ad avermi scottato viso e fronte, è stato un atto di
insubordinazione che non posso tollerare”.
Ross
guardò Demelza sempre più silenziosa e
imbronciata e poi Falmouth e
poi la piccola peste. Santo cielo, aveva voglia di ridere di nuovo,
mentre immaginava la scena.
Daisy
sbottò, picchiando le manine sul tavolo. “Giuda,
mica mi sono
divertita! Mi sono scottata le manine per prendere il piatto e
lanciarlo! E poi lo zio era cattivo e ha fatto piangere Demian!
Demian è mio fratello, nessuno deve farlo
piangere!”.
Ross
la guardò e sentendola parlare, gli tornò in
mente il giorno in cui
conobbe Demelza e lei si era dimostrata pronta a rinunciare
all’occasione di lavorare per lui che gli stava offrendo, per
amore
di Garrick. Erano simili, anche se agivano in modi diversi.
“Beh,
forse la causa era nobile ma la reazione sbagliata”.
Ancora
Demelza lo guardò, stavolta impressionata ed attenta a quel
suo
tentativo di salvataggio di Daisy. Decise quindi di proseguire, un
po’ per aiutare lei in quella situazione in cui si era
trovata a
causa della bimba e che ora cominciava ad essergli chiara, un
po’
perché in fondo, anche se figlia di Armitage, Daisy gli
stava
dannatamente simpatica.
“Che
volete dire?” – chiese Falmouth. “Non
c’è nulla di nobile in
ciò che Daisy ha fatto”.
“Certo,
sono d’accordo. Ma ecco, credo che a volte, con certi
bambini, non
serva a nulla dire no e basta, sperando che ubbidiscano senza capire.
Io da piccolo ero molto simile a vostra nipote e se mi davano dei
divieti senza darmi la spiegazione del perché, io li
infrangevo per
il semplice gusto di farlo. Se invece mi si spiegava che, ad esempio,
era giusto proteggere mio fratello ma che farlo lanciando del cibo
era sbagliato per tutta una serie di motivi, ci pensavo due volte a
rifare la stessa cosa. Questo non vuol dire che un bambino diventa
ubbidiente totalmente ma che forse lo sarà più
spesso e che quanto
meno avremo un dialogo con lui”.
Falmouth
scosse la testa, non troppo convinto. “Avete idee strane
Poldark,
nella politica come nella vita. I bambini devono ubbidire e basta,
non servono spiegazioni. E devono fidarsi delle scelte degli adulti
che li amano, senza recriminare”.
“Non
sono d’accordo!” – ribatté
Ross. “I bambini devono dire la
loro e devono fare le loro rimostranze quando non la pensano come
noi! Sta agli adulti insegnar loro il modo di farlo. Devono imparare
a dire cosa pensano, sempre”.
“Sì,
ha ragione lui!” – sbottò Daisy,
picchiando le manine sulle
scrivania e guadagnandosi un’occhiataccia da suo zio.
“Daisy,
silenzio! E voi Poldark, è la politica che usate con vostro
figlio?”.
Ross
sospirò, non era un buon padre e non si reputava tale ma
sì,
sarebbe stato il modo in cui si sarebbe sempre approcciato a
Valentine ed era con questo spirito che lo aveva portato a Londra con
se, dopo le sue rimostranze al fatto che volesse lasciarlo a Nampara
coi Gimlet. “Mio figlio è timido, taciturno e
molto delicato di
salute, quindi difficilmente ho avuto discussioni con lui ma quando
è
successo ho cercato di ascoltarlo e capirlo, per quanto
possibile”
– concluse, trovandosi a disagio a parlare di Valentine
davanti a
Demelza. Sapeva che questo aspetto della sua vita era una ferita
ancora sanguinante e aperta in lei e odiava farle di nuovo del male.
Demelza
però non parve particolarmente turbata o, se lo fu, lo
dissimulò
bene. E anzi, lo guardò con curiosità, tanto che
a Ross sembrò sul
punto di dire qualcosa.
Falmouth
invece sembrava propenso a chiudere la questione
sull’educazione
dei bambini. “Beh, parliamo di cose serie! Demelza, ora ho
bisogno
del tuo aiuto”.
Lei
sospirò. “Se non conosco la natura del vostro
contendere, dubito
di potervi aiutare…”.
Ross
rimase colpito dal suo modo di parlare tanto forbito mentre Falmouth,
forse molto più abituato a trattare con lei,
proseguì nella sua
invettiva. “Il signor Poldark ha promosso una mozione che
verrà
votata domani in Parlamento per la riduzione di 12 scellini al sacco,
del prezzo del grano. Vorrei mi aiutassi a convincerlo a
ritirarla!”.
“Non
ci penso proprio!” - Ribatté Ross con aria di
sfida. “Il grano
ha raggiunto prezzi proibitivi per la maggior parte della popolazione
e ci stiamo avvicinando all’inverno. E tutti noi sappiamo
quanto
può essere duro superarlo, se non si ha la pancia piena.
Soprattutto
per i bambini come la vostra adorabile nipotina”.
Demelza
fece correre lo sguardo fra lui e Falmouth, pensierosa. Poi…
“Non
credo che una riduzione di 12 scellini ci manderà sul
lastrico,
negli ultimi anni in effetti il prezzo del grano è aumentato
molto
mentre gli stipendi della popolazione più povera,
no!”.
Ross
le lanciò uno sguardo di ringraziamento per
quell’inaspettato
aiuto. In fondo chi meglio di lei poteva conoscere cosa fosse la
fame?
Falmouth
invece sembrava fermo nelle sue convinzioni. “Se si trattasse
di un
solo sacco di grano, si potrebbe anche fare! Ma Demelza, hai idea di
quanti soldi in meno guadagneremmo noi produttori?”.
Lei
rispose a tono. “Ne guadagneremmo comunque meno, se nessuno
potrà
comprare il grano perché troppo costoso! Resterebbe
invenduto nei
magazzini, col rischio di venire rubato da chi è disperato e
non ha
altra scelta”.
Ross,
imitato da Daisy, fece scorrere lo sguardo fra lei e Falmouth, rapito
da quel botta e risposta fra i due. Si chiese cosa la spingesse ad
aiutarlo così. Certo, Demelza aveva sempre avuto a cuore i
problemi
sociali, ma era solo quello? O stava cercando di irritare Falmouth in
modo che non la invitasse più ai loro incontri?
L’uomo
digrignò i denti. “Demelza, non è
questo il punto! Il signor
Poldark non può pretendere che ogni sua mozione venga
approvata
senza discussione, così, a scatola chiusa! Non scende a
compromessi,
perché dovrei scendere io a patti con lui, se non viene
incontro
alle mie esigenze e alle esigenze degli appartenenti alla nostra
classe?
Demelza
si voltò verso di lui, stavolta parlandogli in modo diretto.
“E’
così?”.
Ross
sostenne il suo sguardo. “Non scendo a compromessi quando so
di
essere nel giusto”.
“Certo,
capisco! Ma anche chi vi ribatte, è convinto di essere nel
giusto.
Non potete andare in Parlamento e chiedere e pretendere, senza
ascoltare nessuno e senza scendere a qualche compromesso che possa
aiutarvi a raggiungere i vostri obiettivi. Bisogna saper ascoltare,
come avete suggerito poco fa quando parlavate della mia
bambina…”.
Ross
deglutì. Colpito ed affondato! “Cosa
proponete?”.
“Un
giusto accordo fra voi, che veicoli i voti verso la vostra proposta
senza troppi malumori”.
“Del
tipo?”.
“Del
tipo che dovreste trovarvi a metà strada. Una riduzione di
12
scellini a sacco sarebbe vista con malumore dai più, non
ricevereste
voti da nessuno, eccetto forse dai vostri più strenui
sostenitori. E
chi muore di fame, continuerebbe a morire di fame! Ecco, una via di
mezzo che tenga conto di guadagni e benefici anche sociali e di
immagine ai più, potrebbe essere meglio accolta”.
Falmouth
non sembrava entusiasta. “Una riduzione della
metà, sarebbe di sei
scellini! Comunque troppi”.
Demelza
annuì mentre Ross la ammirava per quella sua innata
capacità di
conversare, coinvolgere e convincere, come se per tutta la vita non
si fosse occupata d’altro che di politica. “Sei
scellini nei mesi
invernali, i più duri. E una riduzione di quattro nei
restanti mesi
dell’anno. Non inciderebbe che di poco sui nostri guadagni ma
per
chi non ha denaro per sfamare i propri figli, sarebbe una grande
benedizione che attirerebbe su entrambi il favore popolare”.
Ross,
non molto abituato a trattare, si trovò improvvisamente
d'accordo
con quella soluzione che poteva accontentare entrambi, scorgendo
nelle parole di Demelza un rimando a quello che doveva essere stato
il suo triste passato di bambina sempre affamata. Falmouth invece
fece per obiettare. “Ma…”.
Demelza
si alzò, a quel punto, prendendo Daisy per mano.
“Volevate la mia
opinione e ve l’ho data. Ad entrambi! E ora scusate, ma la
bambina
deve fare merenda”.
Falmouth
guardò storto la piccola Daisy che gli restituì
l’occhiataccia.
“E’ in castigo!”.
“Giuda,
ho fame!” – protestò la bambina.
“Pensate ai poveri e non a
me!”.
“Ho
detto di no!” – ribatté Falmouth mentre
Demelza sembrava
innervosirsi.
E
a quel punto, Ross captò un movimento veloce della mano
della
bambina che non avrebbe portato a nulla di buono. La vide puntare la
boccetta d’inchiostro e se tanto di gli dava tanto,
l’avrebbe
presa e tirata in testa allo zio come aveva fatto con la minestra.
Per un attimo si chiese se intervenire e distrarla in qualche modo
prima che peggiorasse la sua situazione e quella di Demelza, ma non
ce ne fu bisogno. Perché anche Demelza, che conosceva la
figlia
meglio di chiunque altro, captò con l’occhio il
gesto della
piccola, prendendole la manina appena in tempo prima che Falmouth si
accorgesse delle sue intenzioni.
Osservò
l’uomo, risoluta e pronta a combattere se necessario.
“E’
stanca e affamata e non otterremo nulla da lei, se la teniamo qui a
forza. La mandiamo a fare merenda e a riposarsi mezz’ora e
poi
tornerà qui più tranquilla e pronta per scrivere
il suo nome.
Giusto, Daisy?” – disse, fulminando la piccola con
uno sguardo di
rimprovero per ciò che voleva fare con
l’inchiostro.
“Giusto”.
Ross
sorrise. Sapeva trattare, tanto in politica, tanto nelle questioni
famigliari. Era cresciuta molto in quegli anni, era maturata e aveva
affinato le sue già eccellenti doti di consigliera nelle
questioni
dove sorgevano discussioni. “Credo… Credo che
quanto suggerito da
Lady Boscawen sia ragionevole. Per il prezzo del grano, intendo. Se
accettate, Lord Falmouth, io riformulerò la mia proposta
secondo i
nuovi termini suggeriti dalla signora”.
Demelza
guardò Falmouth, incuriosita. “E
allora?”.
E
Falmouth cedette. “E sia, avremo questi sconti per un anno.
Poi
vedremo… Avrete il mio voto e quello dei miei alleati,
signor
Poldark. Sei scellini in inverno, quattro nei mesi caldi. Non uno in
meno, non uno in più! E mi dovete un voto per la mia nuova
strada
privata che sorgerà a Norcross!”. E,
più di buon umore e in fondo
contento per aver ottenuto anche un tornaconto personale che era
sicuro di sfruttare a breve, prese per mano la nipotina.
“Vado a
prendere delle carte nella mia stanza per siglare l’accordo e
nel
mentre porto la bambina a fare merenda” - esclamò,
rimangiandosi
quanto detto poco prima sul castigo di Daisy.
Demelza
sorrise, Daisy saltellò contenta e Ross e Demelza si
guardarono
negli occhi con terrore, davanti all’evidenza del fatto che
sarebbero rimasti da soli per qualche minuto.
Falmouth
li ignorò e uscì dalla stanza con la piccola
Daisy che però, prima
di uscire, si voltò verso Ross strizzandogli
l’occhio in segno
d’intesa per il loro patto segreto di poco prima.
Ross
sospirò. Non aveva altra scelta se non fidarsi di quel
piccolo e
poco affidabile soldo di cacio!
Appena
rimasti soli, credeva che il gelo sarebbe piombato fra loro ma
Demelza lo stupì, di nuovo. Seduta, col viso basso e le mani
in
grembo, si rivolse a lui in modo del tutto inaspettato.
“Grazie”.
Ross
spalancò gli occhi. “Per cosa?”.
Lei
alzò lo sguardo su di lui, timidamente. “Per
prima, per quello che
hai detto su Daisy… Lei è… un
po’…”.
“Oh…”.
Ross abbassò lo sguardo, non c’era davvero bisogno
che lo
ringraziasse per aver detto ciò che pensava.
“E’ un po’
vivace, come lo ero io. E’ solo una bambina ma per un lord
come
Falmouth è difficile da capire e trovare il modo di essere
meno
rigido nel rapportarsi con lei”.
Lei
lo stupì di nuovo, aprendosi a una piccola confessione.
“E’ più
che vivace! Daisy ci sfida, da quando è nata… Io
la adoro ma credo
di dover imparare a essere più dura e ferma con
lei!”.
Ross
sospirò. “Sei sua madre, suppongo che tu sappia
cosa fare”. La
guardò e in quel momento gli sembrò
incredibilmente stanca e
lontana dalla donna scaltra e risoluta che si era dimostrata pochi
minuti prima. “Dovrei ringraziarti anch’io per
prima, per come
hai trattato la disputa fra me e Falmouth. Suppongo che trovare
accordi e delle vie di mezzo, sia un buon modo per sopravvivere in
questo ambiente e fare qualcosa di buono”.
“Suppongo
di sì” – disse lei. “E credo
che questo… Questo…”.
“Cosa?”.
Lei
alzò gli occhi su di lui. “Ci ho pensato e credo
che anche noi due
dovremmo trovare delle buone vie di mezzo per vivere qui, a stretto
contatto e con infinite possibilità di vederci. Il passato
non
conta, non più. Cerchiamo di essere civili e di non
intralciarci,
cerchiamo di vivere il meglio possibile questa cosa o finiremo per
farci del male. E io non ho né tempo né voglia di
rischiare che
succeda. Voglio solo stare in pace. Tu sei quì, io anche,
dobbiamo
solo accettarlo da persone adulte, senza recriminare sul
passato”.
Lui
annuì. “Sono d'accordo”.
Lei
abbozzò un timido sorriso. “Avrei votato per quei
12 scellini in
meno però purtroppo non dipende da me e non funziona
così a
Westminster. Ma ritieniti fortunato a essere entrato nelle grazie di
Lord Falmouth, scende a compromessi solo con chi ritiene meritevole
di avere a che fare con lui. E poche persone appartengono a questo
gruppo. Fattelo amico, da lui potrai imparare molto, così
come ho
imparato io negli anni”.
Ross
annuì, lei stava dandogli un suggerimento disinteressato e
lo stava
facendo senza secondi fini. Lo apprezzava perché doveva
costarle
molto e in questo dimostrava una grande maturità che a lui
forse
ancora mancava. E sì, si trovò d'accordo con lei,
doveva davvero
solo imparare ad ascoltare di più e a essere meno cocciuto.
“Lo
farò, anche se lui ed io siamo molto diversi”.
La
porta improvvisamente si aprì e Ross e Demelza si voltarono,
pensando fosse Falmouth che era tornato coi documenti.
Ma
si sbagliavano perché davanti a loro si materializzarono
Jeremy e
Gustav.
Ross
sorrise, era felice di vedere suo figlio e di tutte quelle occasioni
che, la stima di Falmouth, gli regalava per incontrarlo.
I
bimbi lo riconobbero e salutarono ma dopo un po’ si
concentrarono
su Demelza.
“Mamma!
E l’albero di Natale?” – chiese Jeremy.
Ross
si grattò il mento, pensieroso. Cos’era un albero
di Natale?
Demelza
invece sospirò. “Ancora con questa storia? Manca
un sacco di
tempo, mesi! E non lo voglio in mezzo ai piedi già da
adesso!”.
Jeremy
si imbronciò, picchiando un piede a terra come avrebbe fatto
Daisy
nella medesima situazione. “Ma hai detto in autunno! E adesso
è
autunno, è settembre! Dai mamma, daiiiii!!! Ci
serve!”.
“No
che non ti serve, aspettiamo ancora un po’!”
– disse lei,
osservando pensierosa Gustav che, stranamente, continuava a grattarsi
le braccia e la pancia. “Gustav, che
c’è?”.
Jeremy
rise. “Sembra una coccinella, c’ha puntini rossi
dappertutto!”.
“E
mi prudono pure!” – aggiunse Gustav.
Ross
si accigliò e Demelza impallidì, alzandosi di
scatto e prendendo un
braccio di Gustav per osservarlo. “Giuda!”
– esclamò.
Gustav
la guardò preoccupato. “Che
c’è?”.
Lei
parve scoraggiata. “Varicella…”.
“E’
una malattia, mamma?” – chiese Jeremy.
“Sì”.
Gustav
divenne pallido come un cencio e prese a tremare. “Grave?
Tanto
tanto grave?”.
Lei
sospirò mentre Ross, decisamente divertito e con
l’animo più
leggero per quanto si erano detti poco prima, provò di nuovo
la
voglia di ridere.
Demelza,
decisamente meno divertita di lui, prese Gustav per mano, portandolo
verso la porta. “No, non è grave ma è
infettiva! Corri da Bastian
e fatti portare a casa”.
Gustav
sospirò. “Infettiva? Che vuol dire?”.
“Che
potresti infettare anche gli altri!”.
Il
bimbo abbassò lo sguardo, mortificato. “Anche la
mia amata
Clowance?”.
Ross
si voltò dall’altra parte per non ridergli in
faccia. Non che
avesse chissà quali speranze con sua figlia, ma quelle poche
che
forse, in un altro universo, poteva avere, sarebbero svanite come
neve al sole se lei avesse preso la varicella a causa sua. Non
sarebbero bastate tutte le spade nella roccia del mondo per ottenere
un perdono!
Demelza
sospirò, scoraggiata. Aveva quattro figli, quattro
potenziali
bambini con la varicella e doveva muoversi subito! Lo salutò
frettolosamente, ordinò a Jeremy di correre via e
portò Gustav,
trascinandoselo dietro, dal loro cocchiere, con l’ordine di
rispedirlo subito a casa sua.
Rimasto
solo Ross sorrise, osservando il bellissimo soffitto affrescato di
Falmouth. Era una bella giornata, nonostante tutto… Demelza
sembrava meno aggressiva e più propensa ad avere a che fare
con lui,
il muro che li aveva tenuti divisi a lungo iniziava a scricchiolare,
Falmouth pareva apprezzarlo e si era fatto una potente alleata in
quella casa, Daisy.
Era
decisamente un nuovo inizio, pensò…
...
Era
ormai passata l'ora di cena e in casa c'era stato scompiglio anche
se, stranamente, dopo la chiacchierata con Ross del pomeriggio,
Demelza si sentiva stranamente meno angosciata e più serena.
Aver
capito di dover accettare la presenza di Ross a Londra le conferiva
una nuova pace d'animo, le aveva fatto capire che non poteva lottare
contro l'inevitabile e le aveva dato la forza di voltare pagina,
cercando di impedire al passato di influenzare il presente.
L'unico
neo della giornata era stato che Prudie era rimasta bloccata con la
schiena mentre inseguiva Daisy dopo una marachella e avevano dovuto
chiamare Dwight che aveva sentenziato che la sua domestica aveva 'Il
colpo della strega' e che doveva stare a riposo dieci giorni.
Non
ci voleva, c'era già il rischio varicella che incombeva su
tutti
loro e Prudie bloccata a letto era una catastrofe.
Salì
al piano di sopra diretta alla camera da letto, desiderosa di
rilassarsi leggendo un libro, quando notò che Daisy era
seduta per
terra in mezzo al corridoio, meditabonda. "Orsetta, che ci fai
in terra?".
Lei
alzò le spalle. "Così, niente! Prudie
è a letto?".
Demelza
si inginocchiò davanti a lei. "Sì, ha mal di
schiena e non può
alzarsi. Tu sai perché la sua schiena fa male?".
"Noooo".
Daisy picchiettò le dita sul pavimento, pensierosa. "Ci deve
stare tanto?".
"Dieci
giorni, dice Dwight".
Daisy
alzò un sopracciglio. "Dieci giorni e non può
andar via?".
"Ovviamente
no!".
E
a quelle parole, inaspettatamente, Daisy si alzò in piedi e
senza
spiegazioni, sorridendo soddisfatta per qualcosa, le diede un bacio
sulla guancia. "Buona notte mammina, ti voglio bene! Se mi davi
meno nomi te ne volevo di più, ma fa niente".
E
così dicendo, sollevando il sederino in alto mentre
camminava, se ne
tornò verso la sua cameretta lasciando Demelza ancora
più
perplessa. Le stava nascondendo qualcosa, ne era certa... Ed era
altrettanto certa che qualunque cosa fosse, Daisy non avrebbe aperto
bocca.
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Capitolo 42 *** Capitolo quarantadue ***
La
varicella era arrivata dopo dieci giorni in casa Boscawen, colpendo
tre dei quattro bimbi che vi vivevano. Solo Demian era stato esentato
e miracolosamente, in quei giorni di malattia e serve col mal di
schiena, era più visto e chiacchierone del solito.
E
arrabbiato...
Perché
i suoi fratelli avevano quei bellissimi puntini rossi su tutto il
corpo e lui no e li voleva! Lui voleva sempre essere uguale ai suoi
fratelli e soprattutto, non accettava che Daisy avesse la varicella e
lui no! E Demelza aveva ovviato alla cosa dipingendogli sul faccino,
ogni mattina, dei puntini rossi usando i pastelli a cera con cui il
bimbo amava disegnare, a patto che la sera si facesse fare il bagno
senza storie. E dopo questa operazione, eccitato e contento, Demian
correva in camera dai fratelli per farsi vedere, pieno di orgoglio
nell'essere come loro!
Per
fortuna la varicella non fu presa in maniera violenta e la febbre, a
parte una sera in cui divenne piuttosto alta per Daisy, non diede mai
particolari preoccupazioni. La cosa più difficile era tenere
però
impegnati i bambini in quei giorni di immobilità in cui
erano
costretti a letto.
Demian
era stato affidato alle cure di tata-Mary visto che Prudie era ancora
convalescente per il problema alla schiena e Lord Falmouth aveva
ceduto alle richiesta di farlo disegnare pure fuori dalla sua stanza
da letto anche se poi se n'era pentito subito, visto che aveva
scoperto il bambino che disegnava sulle pareti del salone da ballo
principale, rischiando di finire in castigo a scrivere il suo nome
come la sua gemella pochi giorni prima.
Il
tempo divenne freddo e piovoso in quei giorni, era ormai autunno e
Demelza trascorse le sue giornate cercando di intrattenere i bambini
che si ritrovavano tutti in camera di Jeremy per trascorrere il
tempo, lui da solo nel suo letto e le bambine insieme nel letto che
avrebbe dovuto essere di Demian, se mai avesse deciso di dormire da
solo.
Il
figlio più grande si contava con orgoglio, ogni giorno, i
puntini
che aveva su pancia, gambe e braccia, annotando su un quaderno ogni
variazione al tema, Clowance piangeva disperata pensando di rimanere
sfigurata e maledicendo Gustav ogni due per tre mentre Daisy era come
una bestiolina in gabbia che, appena cessata la febbre da cavallo,
era difficile tener ferma.
"Mamma...
ora che si fa?" - chiese Jeremy mentre lei riponeva un libro che
aveva appena letto loro.
"Volete
dormire un pò?".
"No,
vogliamo fare l'albero di Natale!" - insistette Jeremy, di
nuovo, mentre il suo cagnolino Fox gli faceva da eco, abbaiando
allegramente mentre saltellava sul letto. "Dai, ti prego! E'
autunno per davvero adesso, piove pure e fra poco avremo tanta
nebbia! E papà sarebbe contento, amava gli alberi di
Natale!".
"Sì
dai mamma!" - insistette Clowance mentre accarezzava il pelo
bianco di Queen, stesa accanto a lei sulle coperte. "Se vai a
comprare gli addobbi nuovi, poi facciamo l'albero insieme. E mentre
ti aspettiamo, riposiamo! Giuro!".
Daisy,
seduta sulle sue gambe, la tirò la stoffa della manica. "Ce
lo
hai promesso. Mi hai promesso anche che in autunno andavamo allo zoo
a comprare il mio orso!".
Demelza
rise, baciandola sulla fronte. Nonostante la varicella, era e
rimaneva una piccola e furba canaglia. "Piccola orsetta, non ti
ho mai promesso nulla del genere! Ti ho promesso solo che saremmo
andati allo zoo a VEDERE gli orsi! Ci andremo, appena sarai guarita".
"E
gli addobbi?" - insistette di nuovo Jeremy.
Demelza
sorrise, in fondo perché no? Ci tenevano tanto e quel rito
che ormai
si ripeteva ogni anno, rendeva lei e i bambini uniti nella
costruzione di una favola e l'idea di passare le serate successive
con loro accanto all'abete addobbato, sorseggiando cioccolata calda e
raccontandosi storie davanti al camino, metteva di buon umore anche
lei. "Dormirete, mentre esco a comprare gli addobbi?".
I
tre bimbi annuirono, eccitati e contenti. "SIIIIIII!!!".
Demelza
mise Daisy sul letto, rimboccandole le coperte. "E allora,
aspettatemi quì e dormite un pò! Esco, compro una
montagna di
addobbi bellissimi e poi quando torno, tiriamo fuori dalla soffitta
le sfere di vetro colorato e rendiamo questa casa, una vera casa di
Natale".
Gli
occhi dei bimbi brillarono dalla contentezza. E lei sentì il
cuore
gonfiarsi di gioia...
Li
mise a letto e poi, dopo aver indossato un caldo mantello di lana
verde, chiese a un domestico di procurare un grosso abete da mettere
nel salone, predispose la servitù affinché
preparasse l'occorrente
e infine uscì di casa, decisa a fare una passeggiata fino al
vicino
negozio di addobbi dove si riforniva ogni anno.
Pioveva,
ma trovò la passeggiata piacevole e quando giunse alla sua
meta,
comprò ogni cosa attirasse la sua attenzione e tutto
ciò che ai
bambini sarebbe piaciuto. Poi, dopo aver pagato e chiesto di
recapitare a casa sua gli oggetti più pesanti, con due
grosse borse
piene di decorazioni, uscì per fare due passi e vedere se
trovava
qualcos'altro in giro.
E
fu allora che, di nuovo, il destino la fece quasi scontrare con Ross.
Letteralmente, all'angolo fra due vie, per poco non rischiarono di
darsi una sonora testata.
Doveva
essere una maledizione quella, pensò sconsolata.
Demelza
lo guardò spalancando gli occhi, lui fece altrettanto,
evidentemente
sorpreso quanto lei di trovarsi in giro in un pomeriggio di pioggia.
Il mondo era davvero un posto piccolo... E ancor più lo era
il
centro di Londra, evidentemente...
"Demelza?".
"Ross?".
Demelza lo osservò, accorgendosi subito che era pallido e
preoccupato. "Che ci fai quì? Stai venendo a casa mia per
vedere Lord Falmouth?". Non era usuale vederlo da quelle parti e
di solito l'aveva incontrato lì solo quando si era recato a
casa sua
per delle visite di lavoro. Ma quel pomeriggio Falmouth era fuori
Londra per degli affari e quindi...?
"No...
No, sono stato a cercare il dottor Wilson ma purtroppo il suo studio
è già chiuso e sto tornando a casa".
Demelza
sentì una strana ansia attanagliarle lo stomaco. Ansia che
non
voleva provare, accidenti! "Stai male?".
Lui
sembrò in imbarazzo, davanti a quella domanda. "No, non io"
– rispose, frettolosamente, come a voler tagliare quel
discorso.
"Un
tuo servo?".
Ross
sospirò. "No, mio figlio. Ha la febbre e dolori forti alle
gambe e continua a piangere. Scusa, non voglio annoiarti con queste
cose".
Demelza
avvertì in lui una sorta di ritrosia a parlare di Valentine
e
apprezzò che volesse in un certo senso proteggerla dalla
presenza di
quel bambino che tanto aveva influito sulla sua vita. Ma si
sentì di
tranquillizzarlo, almeno su questo. "Mi dispiace. Purtroppo il
dottor Wilson fa orari di visita risicati e anche io in questi giorni
son stata costretta a rivolgermi a lui per necessità visto
che il
mio medico di fiducia è fuori città, e ho fatto
fatica a trovarlo".
A
questo punto anche Ross parve preoccupato. "Sei stata malata?".
Lei
sospirò, alzando gli occhi al cielo. "Gustav... E la
varicella...".
Ross
spalancò gli occhi. "Ha contagiato qualcuno?".
"Jeremy,
Clowance e Daisy".
Lui
parve andare in ansia a quella notizia. "Jeremy e Clowance?!
Come stanno adesso?".
Demelza
si irrigidì, non voleva che lui chiedesse di loro. Non era
necessario, non ci era abituata e non desiderava che sapesse
più del
necessario delle loro vite. "Stanno bene, sono in via di
guarigione" – disse, frettolosamente. "Scusa, ma non sono
abituata a parlare dei bambini con...".
"Con?".
"Con
qualcuno che non fa parte della famiglia" – rispose. Sapeva
di
fargli male ma Ross non aveva mai fatto parte della vita dei bambini
e anche a Nampara non si era mai preoccupato per Jeremy, quindi era
assolutamente inutile che fingesse di farlo ora per farle piacere.
Ross
assunse un'aria colpevole e fu come se percepisse i suoi pensieri.
"Scusa, non volevo essere invadente ma loro sono...".
"Sono
a casa, accuditi e tranquilli! Va tutto bene" – decise infine
di dire, per rassicurarlo ma soprattutto per chiudere il discorso.
Ross
cercò di sforzarsi di apparire sereno e di assecondarla.
"Pure
Daisy? Pure quella piccola peste è ammalata?" - chiese, per
smorzare la tensione.
Demelza
sorrise dolcemente a quella domanda. "Daisy è tremenda ma,
assieme a Jeremy, è per ora la più delicata di
salute. Clowance e
Demian invece sono due rocce, difficilmente si ammalano e se lo
fanno, guariscono prima degli altri".
Ross
rispose al sorriso, anche se sul suo viso comparve una smorfia di
dolore. "Jeremy ha problemi di salute?".
"No,
certo che no! Ma è quello che, semplicemente, si becca
più
facilmente raffreddori e mal di gola! Niente di grave, crescendo si
rinforzerà. Era così anche a Nampara".
Ross
abbassò lo sguardo. "Non lo ricordo... Non ricordo che si
sia
mai ammalato".
E
a quel punto, per un attimo, il gelo calò su di loro. E a
Demelza
venne voglia di fargli del male, ricordando il passato che li aveva
divisi. "Non lo ricordi perché non c'eri mai e se c'eri, non
lo
degnavi di uno sguardo. Non ti importava molto di lui e l'unico
bambino che avevi a cuore, non viveva a Nampara".
Come
punto sul vivo, Ross alzò lo sguardo su di lei, penetrando i
suoi
occhi azzurri coi suoi, scuri come la pece. "Non è
così... Se
solo mi lasciassi spiegare...".
"No,
non voglio!" - lo stoppò lei, colpita dal tono doloroso e
colpevole della sua voce. "Non ha più importanza ora,
scusami
per averne parlato". Non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe
dovuto cedere alla tentazione di rinfacciargli quanto fosse stato
anaffettivo e disinteressato verso Jeremy, non aveva più
senso ormai
ed erano discorsi pericolosi quelli, fra loro. Da evitare.
Ross
annuì, ferito. Abbassò lo sguardo e
fissò le borse che portava fra
le mani. "Cosa sono? Vuoi una mano a portarle?".
"No,
non sono pesanti, son solo addobbi di Natale per i bambini. Non so
come tenerli tranquilli e quindi ho ceduto al loro desiderio di
decorare la casa per le prossime festività, già
adesso".
Ross
annuì. "Beh, sono sicuro che vi divertirete e ne
uscirà
qualcosa di bello anche se, onestamente, non ho idea di cosa abbiate
in mente".
Demelza,
vedendolo così confuso, rise. Nonostante tutto,
riuscì a trovarlo
buffo... In effetti in pochi conoscevano le tradizioni natalizie dei
regni di Germania che le aveva insegnato Hugh e che erano diventate
una tradizione a casa sua ed era normale che Ross non sapesse di cosa
stesse parlando. "Ah, ho in mente cose grandiose per questo
Natale! Ormai sono diventata un'esperta di questa festa".
Ross
le sorrise, capendo che non voleva parlare d'altro che del presente e
che forse per ora era meglio così. Non era pronta... "Beh,
ti
lascio alle tue faccende. Torno a casa e vedo che posso fare per
passare in maniera decente la notte".
Demelza
lo guardò, pensierosa. Non avrebbe dovuto preoccuparsene,
non erano
affari suoi, non avrebbe dovuto immischiarsi nella vita di Ross, si
era ripromessa di non farlo, non avrebbe dovuto farsi impetosire da
un bambino, doveva ricordare a se stessa cosa quel bambino aveva
fatto alla sua vita...
Ma
il suo cuore di madre cedette, all'idea di un bambino lasciato a
piangere dal dolore di notte e di un padre che non sapeva che fare,
come pareva evidente. "Piange perché ha male? Cos'ha?".
Ross
parve sorpreso da quella domanda e si trovò in
difficoltà a
rispondere. "Ecco... da piccolo soffriva di rachitismo e anche
se ora è in via di miglioramento, ogni tanto ha delle
ricadute. Si
spaventa, piange soprattutto per quello più che per il
dolore a cui
comunque è abituato e che è sempre più
raro e meno intenso ad ogni
attacco, man mano che cresce".
Demelza
sospirò, era ancora presto dopo tutto e forse... Dannazione,
non
voleva farlo ma d'istinto sentì che doveva aiutarlo. Aveva
quattro
figli e sapeva come i bambini avessero bisogno di essere rassicurati
quando stavano male, sapeva quanto questo influisse positivamente
sulle loro condizioni e sapeva anche che Ross in queste cose era poco
portato... "Vuoi una mano? Vuoi che venga a dare un'occhio al
bambino?".
"Cosa?".
Lei
alzò le spalle, come giustificandosi innanzitutto verso se
stessa.
"So come trattare coi bambini, quando sono malati... Magari
posso tranquillizzarlo, credo di essere abbastanza brava in questa
cosa".
Ross
spalancò gli occhi. "Davvero lo faresti?".
"Davvero...
Non lo faccio per te, lo faccio per il bambino, sia chiaro".
Ross
guardò le borse che teneva fra le mani. "E gli addobbi?".
"Li
farò coi bambini, appena arriverò a casa. Ora
riposano e mi va bene
che lo facciano il più a lungo possibile". E così
dicendo gli
si affiancò, maledicendosi e allo stesso tempo
giustificandosi. Non
poteva far finta di nulla, non poteva davvero e dopo tutto, pochi
giorni prima, Ross era stato davvero carino e gentile a prendere le
difese di Daisy. Doveva restituirgli il favore, DOVEVA. "Su,
portami a casa tua".
...
Quando
arrivò a casa di Ross ed entrò nel suo
appartamento, si sentì
spaventata come la prima volta che, tanti anni prima, aveva varcato
le porte di Nampara. Ed era così stupido sentirsi
così. Non era
venuta per restare, sarebbe stata lì pochi minuti e basta,
non era
per sempre, non era come allora...
Ross
le disse che aveva assunto una coppia di domestici, due brave persone
che si prendevano cura di lui, del bambino e della casa e Demelza lo
ascoltò in silenzio per essere preparata a cosa avrebbe
trovato, ma
quando la porta si aprì e la serva di Ross li fece entrare,
fu colta
da un brivido.
Era
nella casa di Ross e dopo tanto tempo stava toccando con mano la sua
vita...
“La
signora è un dottore?”.
Demelza
guardò di sbieco i due domestici di Ross e poi
l'appartamento. Era
pulito, ordinato, dal mobilio decoroso anche se meno elegante
rispetto a casa sua e della grandezza giusta per un uomo solo con suo
figlio e due servitori al seguito. C'erano un salottino, una cucina,
una sala da pranzo e tre stanze da letto lungo il corridoio.
Nient'altro, a parte un minuscolo giardinetto sul retro.
Non
era una casa piccola ma le sembrava tale, da quando si era sposata
con Hugh. Tutte le case le sembravano piccole, da allora... E per un
attimo si chiese se, in quegli anni, fosse diventata viziata e troppo
pretenziosa.
Ross,
con lo sguardo cupo, le sfiorò la spalla. “No, ma
credo che
potrebbe aiutarci. Lei è...”.
Demelza
lo fermò, non voleva che lui dicesse il suo nome e nemmeno
quale
fosse il loro legame! Era lì – e ne era
già pentita – per cause
di forza maggiore ma non sarebbe successo di nuovo e la sua visita
doveva rimanere un segreto. “Sono una sua vecchia conoscenza
e la
parente di uno degli uomini che lavorano in Parlamento con il signor
Poldark. E sono madre di quattro bambini piccoli, ho una certa
esperienza in malanni infantili e siccome è pomeriggio tardi
e il
medico ha già terminato il suo servizio, sono passata per
vedere se
posso dare una mano”.
La
domestica, non molto convinta, li lasciò passare.
“Il signorino
Valentine è in camera, a letto. Continua a piagnucolare,
senza un
vero medico sarà una notte difficile”.
Demelza
prese un profondo respiro. Un bambino, stava per incontrare un
semplice bambino, Valentine era solo questo. Non avrebbe mai voluto
incontrarlo, non avrebbe mai voluto vedere il volto di colui che,
indirettamente, anni prima aveva distrutto la sua vita ma era una
donna e una madre che non sarebbe mai stata capace di rimanere
indifferente a un bimbo in difficoltà e dopo tutto Valentine
non
aveva colpe per quanto successo. Ed era malato per giunta... Su
questo doveva concentrarsi ed evitare di pensare che fosse figlio di
Ross ed Elizabeth... Lui era un bambino innocente, come i suoi. E non
meritava alcun sentimento negativo da parte sua.
“Vieni”
- le intimò Ross, piuttosto a disagio.
Lei
lo seguì in silenzio, chiedendosi perché si fosse
proposta di
andare in quella casa. Non era un medico, Dwight lo era ed era fuori
città con Caroline e la piccola Sophie! Che diavolo ci
faceva in
casa di Ross, cosa avrebbe potuto fare di utile, lì? Un
conto era
curare i suoi figli che conosceva ma Valentine...? Era una estranea
per lui, come avrebbe potuto tranquillizzarlo e distrarlo?
Perché il
caso e il destino le avevano fatto incontrare Ross quel pomeriggio?
Perché non aveva proseguito per la sua strada, alla ricerca
degli
addobbi da mettere sull'albero di Natale? Aveva un sacco di pacchi
con le decorazioni da portare a casa, avrebbe ritardato e i bambini
si sarebbero arrabbiati! E avrebbero avuto ragione!
Stava
per dire che non aveva molto tempo e che forse era meglio che se ne
andasse, quando Ross le spalancò la porta della camera.
E
lei non ebbe scelta se non quella di restare...
Era
una bella stanzetta per un bambino, con un letto, una scrivania, un
armadio bianco, un tappeto con dei giocattoli e una finestra che dava
sul giardinetto. Era tutto ordinato, era molto diverso dal caos che
facevano i suoi bambini nella loro stanza dei giochi.
Deglutì,
quando lo vide, prendendo poi un profondo respiro per non essere
vinta dalla fitta al cuore che la colpì appena lo ebbe
davanti. Quel
bambino era identico a Ross, il figlio che più gli
somigliava. Con
una enorme massa di riccioli neri, gli occhi penetranti e profondi,
le guance piene e un visino che poteva attirare chiunque. Ispirava
simpatia, gliene avrebbe fatta se non fosse che in un certo senso si
sentì di aver fallito. Elizabeth aveva dato a Ross un figlio
che gli
somigliava tantissimo mentre i suoi erano un miscuglio fra loro due.
E Ross doveva davvero essere fiero del figlio che gli aveva dato la
donna che aveva amato, un figlio tanto uguale a lui...
“Tu
non sei un dottore, tu sei una donna!” - disse il bimbo,
osservandola.
Ross
si avvicinò al letto, guardandolo con severità.
“Quando parli con
una persona che non conosci, devi essere educato”.
Valentine
abbassò lo sguardo, mortificato. “Scusate signora,
mi sono
dimenticato di darvi del voi. Sono capace, ma a volte mi
dimentico”.
Demelza
sorrise a lui e guardò storto Ross per il tono usato, mentre
per
Valentine sentì solo una grande tenerezza. Soprattutto
perché
rapportato a quei terremoti dei suoi figli, Valentine era decisamente
più posato ed educato di loro. “Non devi darmi del
voi, sei un
bambino. Il modo in cui mi hai parlato prima va bene”.
Valentine
guardò suo padre in cerca di un cenno di assenso, poi di
nuovo lei.
“Io ho bisogno di un dottore. Mi fanno male le
gambe” - disse,
piagnucolando.
Demelza
osservò lo sguardo di Ross incupirsi e decise che non andava
bene
che Valentine lo vedesse così turbato. “Io non
sono un dottore ma
ho quattro bambini piccoli che a volte si ammalano e quindi un po' me
ne intendo di mal di pancia, gambe, testa o di graffi e taglietti. E
di raffreddori e febbre. Il dottore a quest'ora non c'è ma
conosco
tuo padre da molto e mi ha chiesto un aiuto”.
“Hai
quattro bambini?” - chiese Valentine, stupito.
“Sì,
due maschi e due femmine”.
Valentine
smise di piagnucolare e si sedette, incuriosito. “Come si
chiamano?”.
Demelza
sorrise. Ci aveva visto giusto, in fondo. Valentine era sicuramente
debole a causa del rachitismo ma molti dei sintomi che avvertiva
erano dovuti a solitudine e paura. Era lasciato troppo spesso solo
con se stesso e benché Ross e i due servi non gli facessero
mancare
nulla di materiale, era il contatto umano che a lui mancava. Ed era
evidente perché era bastato farlo parlare e distrarlo per
fargli
dimenticare i dolori alle gambe. “Jeremy e Demian i maschi. E
le
bambine Clowance e Daisy. Demian e Daisy son gemelli”.
Valentine
spalancò gli occhi. “Ohhh., forte! Non ho mai
visto i gemelli!
Come sono?”.
“Come
gli altri bambini. Anzi, peggio, sono vivaci, disubbidienti e
finiscono sempre in castigo”.
Valentine
rise, completamente catturato da lei. “Io non vado mai in
castigo!
Papà dice che non gli somiglio, che lui da piccolo ci si
trovava
spesso in punizione”.
Demelza
guardò Ross di sbieco. “Non ne dubito”.
“E
poi ho un cane di nome Garrick. E il mio bambino più grande,
Jeremy,
ne ha uno di nome Fox. Mentre la mia figlia maggiore Clowance ha una
lupa bianca di nome Queen”.
“Ohhh,
quattro bambini, due cani e un lupo. Deve essere bello abitare in
casa tua, signora. Qui non abbiamo neanche un animaletto, solo ogni
tanto gli scarafaggi che entrano dalla finestra e fanno urlare la
signore Gimlet che ha paura. A casa invece nella stalla abbiamo le
galline, i polli, una capra e dei maiali. Ma nemmeno un cane”.
Lei
gli sorrise, quasi percependo quanto fosse diversa e solitaria la
vita di quel bambino rispetto ai suoi. “Sì, lo
è. Con quattro
bambini, due cani e una lupa, sono sempre stanca e di corsa,
c'è
sempre rumore in casa e tanta confusione ma a me piace tanto”.
Ross
si allontanò, poggiando le mani contro il davanzale della
finestra.
Demelza leggeva in lui sofferenza e impotenza davanti a quella loro
conversazione, ai ricordi, al dolore che provava nel sentire delle
vite di persone che una volta erano state la sua famiglia mentre ora
non aveva che un figlio a cui non mancava nulla di materiale ma che
era affamato di calore famigliare e affetto che non sapeva dargli nel
modo giusto. Ma lei non poteva farci nulla, lui aveva scelto e quella
era la vita che Ross aveva voluto e doveva imparare a viverla al
meglio, come aveva fatto lei quando aveva incontrato Hugh.
Allungò
una mano a massaggiare il ginocchio di Valentine, piano. “Va
meglio?”.
Valentine
osservò le sue gambe. “Oh, sì! Mi ero
dimenticato che stavo male.
Signora, sei magica! Basta parlare con te e tutto passa!”.
“No,
non sono magica ma grazie ai miei bambini ho imparato che
chiacchierare e non pensare al fatto di essere malati, aiuta a stare
meglio. E quindi, quando starai male ancora, trovati qualcosa da fare
che ti piace e vedrai che ti sentirai più in forma. Puoi
farti
leggere una storia, puoi giocare a qualcosa, fare un disegno o tante
altre cose che ti fanno sentire sereno. E tutto passa!”.
Valentine
annuì. “Sì, ma...”.
Guardò suo padre, come in una richiesta
silenziosa di attenzioni ma Ross voltò il capo e si
appoggiò
nuovamente al davanzale della finestra. E il bimbo sospirò,
abbassando il capo. “Signora, come ti chiami? Non me lo hai
ancora
detto”.
“Demelza”.
“Demelza,
stai qui con noi a cena?”.
Ross
sussultò a quell'invito inaspettato uscito dalla bocca di
Valentine,
solitamente molto chiuso e timido, mentre Demelza spalancò
gli
occhi. “Mi dispiace, non posso fermarmi, devo tornare a casa
dai
miei bambini. Ma sono felice che tu stia meglio, davvero”.
“Dai
resta” - piagnucolò il bambino, aggrappandosi al
suo braccio.
Demelza
scosse il capo. Non poteva, non avrebbe mai potuto nemmeno
volendolo... E lei non lo voleva, si sentiva orribile ma non se la
sentiva di prolungare più del necessario quella visita!
Valentine
era un bimbo dolce e adorabile ma lei si sentiva come se stesse
facendo una violenza su se stessa a stare in quella casa... Ci
sarebbe voluto tempo per superare quei sentimenti, forse molto. O
forse non ci sarebbe riuscita mai, non sapeva dirlo. “Devo
andare
via, sono uscita per comprare degli addobbi per i miei bambini per
fare l'albero di Natale e ora sono a casa che mi aspettano. Sono
già
in ritardo”.
Valentine
spalancò gli occhi. “Ohhh, l'albero di Natale?
Forte, non lo
abbiamo mai fatto. Anzi, neanche so cos'è. Cos'è
papà?”.
“Non
ne ho idea...” - rispose Ross, con sincerità
disarmante,
guardandola in cerca di una spiegazione.
Demelza
sorrise, ricordando quando Hugh le aveva parlato di quella tradizione
così bella e radicata in Germania, che aveva scoperto alcuni
anni
prima che loro si conoscessero, durante un suo viaggio nel centro
Europa. “Ecco, qui da noi ancora non c'è questa
tradizione, che
invece è molto famosa in Germania. A Natale, ogni casa si
riempie di
addobbi e festoni, si mette il vischio sulle porte e si prepara un
albero di Natale per accogliere la nascita di Gesù Bambino.
Si
prende un grande abete, lo si mette nel salone principale della casa
e lo si addobba con tanti nastri colorati rossi e dorati, con le
candele e con delle piccole palline di vetro soffiato di mille
colori. E' un albero magico e i bambini, la mattina di Natale, ci
trovano sotto i doni che nella notte ha portato Babbo Natale per
loro. Mio marito era un navigatore e un viaggiatore prima che ci
conoscessimo e mi ha parlato di questa tradizione e abbiamo deciso di
farla diventare una tradizione anche nostra. E l'abbiamo insegnata ai
nostri bambini che ogni anno non vedono l'ora che arrivi l'autunno
per fare il loro albero di Natale nel salone. In Germania lo chiamano
'Tannenbaum' e quando diverrà tradizione anche qui in
Inghilterra,
anche noi gli troveremo un nome adatto”.
Valentine
l'aveva ascoltata con gli occhi lucidi ed emozionati, come se gli
avesse appena raccontato la più magica delle fiabe.
“Bello...
Papà, noi non facciamo mai niente a Natale. Neanche un
nastrino alla
porta... Ci proviamo anche noi quest'anno? Così
Gesù Bambino nasce
più contento e Babbo Natale trova la strada per portarmi i
doni”.
A
quelle parole, sorpresa dal fatto che per Natale in quella casa non
si facesse nulla di speciale anche se c'era un bimbo, Demelza si
voltò verso Ross fulminandolo con lo sguardo. Che razza di
padre
era? Qual'era il suo concetto di famiglia? E di padre? Cosa faceva
con Valentine, con quel bambino per cui aveva gettato via il loro
matrimonio? Era il bambino che gli aveva donato la donna che
più
amava e con lui stava ripetendo gli stessi sbagli commessi a suo
tempo con lei e Jeremy! Lo sguardo di Ross parve ferito e punto sul
vivo davanti alla sua espressione delusa che doveva aver ben
interpretato e Demelza si morse il labbro per non urlargli contro
cosa pensasse di lui. Sorrise, si sforzò di farlo per
Valentine.
“Beh, dovresti proprio provare ad addobbare un abete,
sai?”.
“Sì,
dovrei” - rispose il bimbo.
Lei
gli strizzò l'occhio. “Beh, quando avrai di nuovo
male alle gambe
e vorrai distrarti, allora dì al tuo papà di
prendere un abete e di
addobbarlo insieme. Vedrai che starai meglio”.
Lo
sguardo del bimbo si accese di speranza e contentezza.
“Sìììì!
Allora spero di avere mal di gambe ancora e presto”.
Lo
disse con leggerezza ma Ross parve ferito da quelle parole.
Esprimevano un grande bisogno e desiderio di averlo vicino e lui
sembrava incapace di accontentarlo. Sembrava bloccato e lei non ne
capiva il motivo e non si riusciva a capacitare del comportamento
scostante di Ross... Demelza non sapeva nulla di loro due, di quali
fossero i loro rapporti, di cosa fosse successo in quegli anni ma era
abbastanza sicura che lui amasse suo figlio anche se, per qualche
motivo, non era capace di esprimerlo. Certo, non era mai stato molto
espansivo nei sentimenti e di carattere era chiuso, però...
Doveva
amarlo, non poteva non amare Valentine! Glielo aveva lasciato
Elizabeth, la donna che amava! Quel bambino era nato dall'amore, non
come Jeremy e Clowance che lui aveva avuto da una donna che
considerava di poco conto e che non aveva voluto né amare
né avere
accanto.
Avrebbe
voluto fargli mille domande ma si impose di stare zitta. Non erano
affari suoi e si era intrattenuta anche troppo. Accarezzò i
ricciolini neri del bambino, gli sorrise e poi si alzò dal
letto su
cui era seduta. “Ora devo andare”.
Valentine
annuì, un po' corrucciato. “Dai tuoi
bambini?”.
“Sì”.
“Tornerai
a trovarmi, Demelza?”.
Lei
volse il capo, non era mai stata brava a dire bugie ma non aveva
scelta. Valentine ora sembrava sereno e tranquillo e farlo agitare
non gli sarebbe stato di nessun supporto. “Certo, quando
riuscirò
a trovare tempo, verrò a trovarti”. Era una bugia,
la più palese
delle bugie. Non voleva tornare in quella casa e non voleva avere
rapporti con Ross che andassero oltre alla sua conoscenza con lord
Falmouth e il suo ingresso in Parlamento e doveva mantenere questo
proposito, a tutti i costi.
Ma
fu convincente e il bimbo sembrò crederle. “Buon
albero di Natale,
Demelza”.
“Grazie,
faremo del nostro meglio per farne uno bellissimo”. Lo
salutò con
un cenno del capo e Valentine rispose da ometto, stringendole la
mano. Dopo di che, Ross la riaccompagnò nel corridoio, verso
l'uscita.
“Come
ci sei riuscita? A farlo calmare intendo”.
Lei
lo fulminò con lo sguardo. “Gli ho parlato, l'ho
ascoltato, l'ho
fatto giocare. Non sono stata lì a guardarlo impalata come
fai tu,
con quella faccia da funerale. E' un bambino Ross, vuole giocare,
vuole essere ascoltato, vuole suo padre vicino. Un padre che ogni
tanto gioca e ride con lui... Sembri di ghiaccio, quando hai a che
fare con lui e mi auguro che tu non sia così tutto il
tempo”.
Ross
fece per ribattere ma poi abbassò il capo come se sulle
spalle
portasse un peso immenso. “Lo so, Valentine è
sempre stato...
complicato... per me”.
“E
allora, visto che lo sai, vedi di migliorarti! Ha solo te ed
è
debole e malato. Fai almeno l'albero di Natale con lui,
dannazione!”.
“Non
sapevo nemmeno che esistessero, questi alberi di Natale!” -
rispose, a tono. “Io non sono come il tuo Hugh, non sono
capace a
trovare e rendere mie delle tradizioni di famiglia... Anche se trovo
davvero bello quello che avete ideato per Natale”.
Demelza
sospirò. “Ross, non è l'albero di
Natale. E' fare qualcosa
insieme, qualcosa che sia solo vostro. Anche dei semplici addobbi da
mettere alla porta, andrebbero bene. Purché li facciate tu e
lui. Io
e Hugh non amavamo i grandi balli natalizi londinesi, a noi piacevano
le feste in famiglia e abbiamo trovato il nostro modo per renderle
speciali e nostre... Con la nostra impronta. E i bambini si sentono
parte di un progetto comune nato da noi e che loro portano avanti, di
una famiglia e nell'albero hanno il loro punto di riferimento e
simbolo per questo periodo dell'anno”.
Lui
sospirò. “Capisco cosa vuoi dire e... e lo so,
sono stupido a non
aver mai dato tanta importanza a cose del genere, cose che fanno di
un gruppo di persone una famiglia. Nessuno mi ha mai insegnato nulla
del genere, a casa mia ognuno viveva la sua vita quasi zingara, dopo
la morte di mia madre. Ma hai ragione, se per me è stato
così, non
necessariamente deve esserlo per Valentine.
Credo di non avere scelta ormai, visto cosa gli hai detto.
Probabilmente se lo inventerà il mal di gambe, ora, per
avere il suo
albero!” - concluse, sorridendo.
Demelza
scosse il capo. “E' suo diritto averlo, come è suo
diritto avere
un padre che gli sta vicino e lo ama”. Aprì la
porta, si mise la
mantella sulle spalle e si calò il cappuccio in testa, ma
poi la sua coscienza la costrinse a fermarsi perché in
effetti c'era
qualcosa di importante che poteva fare per Valentine, senza che lei
venisse coinvolta direttamente.
“Vorresti
che Dwight lo visitasse? Ti farebbe stare tranquillo?”. Non
sapeva
quanto Ross sapesse di Dwight, né se fosse a conoscenza
della sua
vita a Londra e del fatto che l'aveva aiutata appena giunta in
città
dopo aver lasciato la Cornovaglia, ma lui era un medico, un BRAVO
medico e di certo poteva fare per quel bambino molto più che
tanti
giovani dottorini del quartiere.
Ross
spalancò gli occhi e poi divenne meditabondo, probabilmente
a causa
dei loro dissapori passati e per la sorpresa di sentir pronunciare
quel nome. Sapeva o non sapeva che viveva a Londra? L'espressione di
Ross non faceva trapelare alcuna risposta a questo quesito...
“Lo...
vedi?”.
“Sì,
certo, lui e
Caroline. Sono
stati la mia salvezza appena arrivata qui,
si sono presi cura di me e dei bambini per un anno e ho vissuto da
loro prima del matrimonio con Hugh.
Gli parlerò di te e di Valentine, se
ti fa piacere sentire un suo parere sui problemi del bambino”.
“E
credi che accetterebbe? Anche se si tratta di me?”.
Demelza
sospirò, guardandolo con biasimo. “Ross, Dwight
è un medico e
mette al primo posto il benessere del paziente! Sai che è
così, lo
conosci! Sai che non si tirerebbe indietro davanti alla malattia di
un paziente, nemmeno se tu ne sei il padre! Non mischia il lavoro...
la sua missione... con semplici questioni personali. So che la vostra
amicizia si è interrotta anni fa e so che in un certo senso
ne sono
responsabile, ma se gli chiedo di venire per visitare Valentine, lui
verrà”.
Ross
deglutì e le mani gli tremarono. “Ora?”.
“E'
fuori Londra con Caroline e Sophie per una breve vacanza di una
settimana... Sophie è la loro seconda figlia, nata la scorsa
primavera. La prima, Sarah, purtroppo è morta pochi mesi
dopo la
nascita, alcune ore prima che morisse Hugh. Fu un giorno terribile,
quello...”.
Lui
abbassò lo sguardo e gli occhi gli divennero lucidi ma
Demelza non
seppe dire se fosse per il dolore di sapere quanto era successo al
suo vecchio amico o perché la morte di una bimba piccola, in
un
certo senso riportava entrambi al giorno in cui persero Julia.
Julia...
Demelza deglutì, chiedendosi se Ross pensasse a lei ogni
tanto,
anche se non era la perfetta figlia avuta dal suo perfetto amore
Elizabeth. E quel pensiero la ferì e le fece venire voglia
di
scappare perché chiedersi certe cose, la riportava a un
passato che
non voleva più affrontare e ricordare. “Devo
andare, adesso. Che
faccio, con Dwight?” - disse, improvvisamente con tono freddo.
Ross
non capì il perché di quel cambiamento di voce ma
i Gimlet che
facevano avanti e indietro dalla stanza di Valentine, gli impedirono
di chiedere. “Sì... Sì, mi faresti un
favore”.
Lei
annuì. “Glielo dirò appena torna in
città, ti farò recapitare
un biglietto per farti sapere data e orario di visita”.
“Va
bene”.
Demelza
si voltò, aprì la porta di casa e fece per
uscire, ma Ross la
fermò, bloccandola per il polso.
“Aspetta”.
“Che
c'è?”.
“Volevo
ringraziarti per quanto hai fatto per Valentine oggi. Non eri
obbligata e so che per te non è facile...
vederlo...”.
Lei
scosse la testa. “Come non dev'essere facile per te vedere i
miei
due gemellini. Ma sono bambini, tutti loro. E non hanno colpe, vanno
solo amati e aiutati a crescere. Dovresti farlo, anche se la vita con
te ed Elizabeth non è stata generosa”.
“Ma...”.
Ross
fece per obiettare ma Demelza non gli diede tempo di dire o fare
qualcosa che avesse attinenza col passato. “Credi che per me
sia
stato facile? Che dopo quanto successo con te o dopo la morte di
Hugh, io avessi voglia di ridere o giocare o rotolarmi su un tappeto
coi bambini? No, non lo è stato, mi sono costretta a
scendere dal
letto per non affogare nelle mie lacrime per tante, tante mattine,
Ross! Ma i bambini c'erano, non avevano chiesto di venire al mondo e
io avevo il dovere di prendermi cura di loro! Io pretendo che siano
felici, che si sentano amati e che siano sereni! Dovresti pretenderlo
anche tu, da te stesso”.
“Ci
proverò! Ma io non sono come te, non ho la tua forza di
volontà
e...”.
“Vedi
di trovarla, Ross! Non hai scelta!” - rispose lei,
mortalmente
seria.
E
dopo aver detto ciò, prese le borse con gli addobbi in mano,
chiuse
la porta dietro di se e se ne andò, lasciando ancora una
volta Ross
con l'amaro in bocca per non essere riuscito a dirle la
verità sui
suoi sentimenti per lei.
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Capitolo 43 *** Capitolo quarantatre ***
"Non
lo voglio un dottore, sto già meglio, guarda!".
Ross
osservò suo figlio che, per convincerlo a non sottoporlo
all'ennesima visita, gli dimostrava di essere in forma saltellando
per il salotto. Ma purtroppo per Valentine, lui non avrebbe ceduto
visto che Demelza gli aveva mandato un biglietto che annunciava di
aver parlato con Dwight e che sarebbe venuto nel tardo pomeriggio a
visitare il bambino.
Ross
non sapeva perché Demelza avesse deciso di aiutarlo, non
meritava
sicuramente nulla del genere e al pensiero di quanto generosa fosse
stata nei suoi confronti, si sentiva piccolo ed insignificante per
come l'aveva trattata. Lo aveva saputo da sempre quanto fosse buono
il suo cuore eppure c'era stato un tempo in cui era come se l'avesse
dimenticato e aveva preferito cercare altro, abbandonando chi aveva
accanto e lo amava...
E
poi Dwight... Dopo sette anni lo avrebbe rivisto e al pensiero di
quell'incontro si sentiva emozionato e allo stesso tempo imbarazzato.
Non si erano lasciati nel migliore dei modi e Ross sapeva di aver
deluso Dwight forse ancor più di quanto lui avesse deluso se
stesso... Cosa aveva pensato di lui in quegli anni? Lo aveva
perdonato? Aveva cercato di capire? O ancora, lo biasimava e
detestava come si detesta il peggiore fra gli uomini? Doveva essergli
apparso davvero meschino e crudele, all'epoca... E lo era stato, ora
ne era pienamente consapevole. Aveva perso ogni cosa, il rispetto per
se stesso ma anche il rispetto di chi aveva accanto e lo apprezzava.
Lui,
che aveva creduto di essere un brav'uomo, si era dimostrato il
peggiore di tutti.
Demelza
era buona. E anche Dwight!
Non
lui, lui non meritava nulla! Ricordava bene la delusione negli occhi
di Dwight quel giorno in cui si erano detti addio, le sue parole, la
sua rabbia, il suo disprezzo...
E
ora, nonostante tutto, stava venendo per aiutarlo...
Era
stato gentile da parte di Dwight accettare la richiesta di Demelza di
visitare Valentine, avrebbe potuto declinare con una scusa, ma Ross
sapeva bene quanto la sua anima di dottore fosse votata ad accorrere
da chiunque sapesse in difficoltà. Non era cambiato in
quegli anni,
era palese...
Dwight
era un medico meraviglioso, Ross ricordava quanto aveva fatto per i
suoi minatori e quanto la sua partenza fosse stata un duro colpo per
tutti loro che non potevano permettersi altre cure decorose per se
stessi e per le loro famiglie...
Anche
questo, negli anni, aveva distrutto l'animo di Ross... Il sapere di
essere la causa di quella perdita tanto importante per la
comunità,
la conseguenza vivente dei suoi dannatissimi errori che avevano
costretto Dwight ad andare lontano.
Era
passato molto tempo da allora e Prudie – anche se non poteva
farne
parola – gli aveva raccontato quanto Dwight avesse vissuto in
quel
lasso di tempo, compresa la morte della sua prima figlia. Un dolore
che Ross conosceva bene e che mai avrebbe augurato al suo migliore
amico, all'uomo che aveva votato la sua vita alla cura e alla
salvezza degli altri...
Poteva
immaginare il suo dolore, poteva toccarlo con mano perché
era stato
il suo stesso dolore, quel dolore che lo aveva portato alla deriva
rendendolo un uomo abietto e traditore, un uomo che aveva distrutto
la famiglia che aveva costruito per inseguire un sogno che lo portava
con la mente alla gioventù, a un'età dove tutto
era perfettamente
bello e lineare e non c'erano lutti e problemi da risolvere.
Ma
Dwight era stato diverso, era stato capace di soffrire ma poi di
rialzarsi, rimanendo fedele a se stesso e a chi amava. Aveva tenuto
fede al suo ruolo di marito e aveva saputo accogliere nella sua vita,
senza timori, un'altra figlia. Tutte cose che lui non era riuscito a
fare con Demelza e Jeremy...
"Papà..."
- piagnucolò ancora Valentine, aggrappandosi ai suoi
pantaloni.
Sospirò,
accarezzandogli i ricciolini neri. "Avanti, non è la prima
visita che fai! Pensa a quante volte è venuto a casa nostra
il
dottor Choake!".
"Appunto!"
- ribatté scoraggiato il bimbo, ricordando i metodi di cura
arcani
di quel macellaio che era rimasto l'unico medico della zona a cui
affidarsi.
Ross
gli sorrise. "Si, puoi stare tranquillo, io questo nuovo dottore
lo conosco e ti assicuro che è molto bravo e che ti
piacerà".
"Conoscevi
anche il dottor Choake! E non era bravo!".
Jane
Gimlet, intenta a spolverare una mensola, ridacchiò cercando
di non
farsi vedere e anche Ross trovò divertente la battuta di
Valentine
che, pian piano, sembrava uscire dal bozzolo di timidezza in cui si
era sempre rifugiato.
"Valentine,
giuro che se non ti piacerà, questo dottore non lo
chiameremo più!"
- disse, cercando di tranquillizzarlo
Il
bambino fece per rispondergli quando Dwight bussò alla porta
e
quindi arretrò, voltò le spalle a Ross e corse in
camera sua,
chiudendocisi dentro.
Jane
gli andò dietro per recuperarlo e Ross, con un groppo alla
gola,
aprì.
Faccia
a faccia dopo tanti anni, per un attimo i due uomini rimasero in
silenzio, guardandosi negli occhi.
Dwight
sembrava all'apparenza sempre lo stesso anche se, dopo alcuni
istanti, Ross si accorse che attorno agli occhi gli erano comparse
delle leggere rughe, segno del tempo passato ma anche di quanto fosse
stata impietosa la vita con lui e la sua famiglia.
Lo
guardò, chiedendosi se anche lui apparisse invecchiato, dopo
quanto
successo e quanto patito in quel lasso di tempo... Come lo vedeva
Dwight? E Demelza? Era sicuramente un uomo più amaro,
più maturo,
senza sogni e inaridito dal dolore causato dai suoi errori e questo
quanto poteva farlo apparire estraneo agli occhi di coloro che un
tempo erano il suo mondo?
Dwight,
mantenendo la massima serietà e celandosi dietro a un
comportamento
strettamente professionale, lo salutò con un cenno del capo.
"Ross,
Demelza mi ha dato il tuo indirizzo e mi ha chiesto di venire a
visitare il bambino. Scusa l'orario ma avevo altre visite oggi, a cui
presenziare".
Ross
sussultò, colpito dal tono gentile ma che cercava di
mantenere le
distanze, di Dwight. Era il suo migliore amico, un fratello... E
santo cielo, come avrebbe desiderato fosse ancora così!
Anche se
forse, per Dwight non era così e si era ricostruito vita e
nuove
amicizie a Londra. "Ti ringrazio per essere venuto. Avanti,
accomodati".
Dwight
entrò nel salottino, appoggiando sul divano la borsa da
lavoro.
"Dov'è il bambino? Quali problemi ha di preciso?" - chiese
senza perdere tempo, guardandosi in giro.
Ross
osservò la porta della stanza di Valentine, udendo il
borbottio di
Jane che cercava di concincerlo a farsi vedere. "E' in camera e
fa resistenza, ma ora la mia domestica ce lo porta quì. Da
neonato e
nei primi anni, ha sofferto di rachitismo. Era in cura, con scarsi
risultati, col dottor Choake, cure che poi ho deciso di interrompere
perché per lui erano una tortura e non producevano effetti".
Dwight
sollevò il sopracciglio. "Lo hai fatto curare da Choake?".
"Era
l'unico medico disponibile" – si giustificò Ross,
colpito dal
tono di rimprovero di Dwight che mai aveva apprezzato troppo il
dottore storico della loro regione d'origine. "Ho fatto a modo
mio, dopo, cercando di dargli cibi nutrienti e di farlo stare di
più
all'aria aperta. Un pò è migliorato, ma ogni
tanto ci sono delle
ricadute".
In
quel momento Jane tornò, tenendo fra le braccia il bambino
che
cercava di sfuggire alla sua presa.
"Non
voglio!" - piagnucolò.
La
donna lo mise a terra e Ross lo arpionò, stringendolo per la
vita.
"Farà un pò resistenza, è intimorito
dai dottori" –
avvertì.
Dwight
guardò il bambino, accorgendosi che aveva gli occhi lucidi.
"E
così tu sei Valentine?" - chiese, in tono gentile.
"Sì"
– rispose il bimbo, tirando su col naso.
Dwight
gli si avvicinò, inginocchiandosi davanti a lui. "I dottori
non
ti stanno simpatici, vero? Nemmeno a me, mi piace curare i pazienti
ma se mi ammalo, mi spavento da morire a farmi curare dagli altri".
Valentine
smise di piagnucolare. "Davvero?".
"Davvero?
Non lo sai che sono proprio i dottori ad essere i pazienti
più
paurosi del mondo?".
"No,
non lo sapevo".
Dwight
sorrise e Ross si accorse che coi bambini ci sapeva davvero fare.
Doveva essere un padre meraviglioso!
Dwight
proseguì, guadagnandosi poco alla volta l'attenzione di
Valentine.
"Però, come dottore ti giuro che non ho mai torturato nessun
bambino! Ne curo tanti, anche i quattro di Lady Boscawen. E lei non
manderebbe mai da nessun bambino un cattivo dottore".
Valentine
sorrise. "Lady Boscawen è bella! Mi piace! Davvero ha
quattro
bambini? Anche gemelli? Lei dov'è adesso?".
"Adesso
è a casa coi suoi bambini, hanno la varicella! Quattro
bambini,
pensa un pò... E i gemellini ci sono davvero e li ho fatti
nascere
io".
Valentine
spalancò gli occhi. "Wow! E non avevi paura?".
"Dei
gemellini?".
"Sì!
Dicono che sono magici".
Anche
Dwight rise. "I gemelli non sono magici, sono dei combinaguai!
Di questo bisogna avere paura, quando si è con loro".
Valentine
rise e, più tranquillo, si mise sul divano, guardando Ross.
"Va
bene, posso farmi visitare un pochino, papà".
Ross
sospirò, sollevato. Era raro che Valentine facesse i
capricci ma
quando succedeva, diventava irremovibile e testardo come un mulo.
"Andate in camera, allora! Lo accompagni tu nella tua stanza?
Vuoi che venga anch'io? O Jane?".
Dwight
intervenne, a quel punto. "Non serve stare in camera, posso
guardarlo quì".
Valentine
parve gradire quella soluzione. "Cosa devo fare?".
Dwight
gli si inginocchiò davanti, piegandogli i pantaloni sopra le
ginocchia per osservare le gambe. Gli sfiorò i muscoli, le
ossa
delle ginocchia, le caviglie e poi si rialzò, dandogli una
mano per
aiutarlo ad alzarsi. "Visita finita!" - sentenziò.
Ross
spalancò gli occhi dalla sorpresa e Valentine fece
altrettanto. "Di
già?".
Lui
sospirò, sorridendogli e accarezzandogli la testolina. "Solo
una cosa... Potresti provare a correre intorno al divano e saltare?".
"Certo!"
- rispose il bambino prima di fare quanto gli veniva richiesto,
divertito per il tono di quella strana visita.
Dwight
lo osservò muoversi con sguardo clinico, accigliato, poi
dopo
avergli fatto fare un paio di giri del locale, lo fermò.
"Direi
che ho visto abbastanza! E sono soddisfatto!".
"Non
sono malato?" - chiese il piccolo.
"Dwight?"
- aggiunse, Ross.
Il
medico chiuse la sua borsa da lavoro, spingendo il bambino ad andare
verso Jane per fare merenda. "Sei in via di guarigione e non ci
vorrà molto per guarire del tutto! Vai a mangiare qualcosa,
mentre
parlo con tuo padre e gli spiego che fare".
Valentine,
sicuramente tranquillizzato da quella visita tanto diversa da quelle
a cui l'aveva sottoposto Choake, da bambino ubbidiente
annuì,
correndo dietro a Jane in cucina.
Ross
si alzò in piedi, fronteggiando Dwight. "E allora?".
Dwight
annuì. "Hai avuto la giusta intuizione, Ross, togliendolo
alle
cure arcaiche di Choake. Gli hai dato cibo nutriente e vita all'aria
aperta e devo dire che non noto in lui segni di malattia".
"Però
ha questi dolori..." - lo bloccò Ross.
Dwight
annuì. "I muscoli delle gambe sono ancora deboli, non
è un
bambino particolarmente attivo e la corsa è piena di
inceppature che
non dovrebbero più esserci alla sua età. Deve
stare all'aria
aperta, giocare con gli altri bambini, correre, cadere, rialzarsi e
ricadere. Deve rinforzarsi e quando succederà, i muscoli
smetteranno
di fargli male".
Ross
sospirò, pensieroso. Era più facile a dirsi che a
farsi... "E'
timido e non abituato a stare in compagnia di altri bambini. E'
uscito un paio di volte a giocare al parco quì a Londra, ma
è
terrorizzato dal rapportarsi ai suoi coetanei. Corre da Jane e vuol
subito essere portato a casa... E fra poco arriverà
l'inverno e farà
troppo freddo per farlo uscire. E' delicato...".
Dwight
scosse la testa. "Smettetela di trattarlo da bambino malato! Non
lo è, non più! Ed è tanto delicato
perché lo trattate come se
fosse di vetro. Deve imparare a stare con gli altri bambini, va
incoraggiato in questo, è importante, non può
stare aggrappato alle
sottane della tua domestica! E per quanto riguarda l'inverno...
coprilo bene, si fortificherà! Fatti passare tutte queste
ansie, non
fa bene né a te né a lui".
Ross
abbassò il capo, Dwight aveva ragione. Santo cielo, quanto
gli erano
mancati i suoi consigli! E quanto era diventato bravo ed autoritario
nel suo lavoro, sicuro nelle diagnosi e meraviglioso nel rapportarsi
con dolcezza ai bambini. "Ti ringrazio, farò come dici... Lo
costringerò a star fuori, anche se dovesse piangere!
Uscirò io
stesso con lui per aiutarlo in questo".
"Bene"
– rispose Dwight – "Allora io posso andare. Se hai
bisogno
di altre visite per il bambino, puoi trovarmi a questo indirizzo"
– concluse, dandogli il suo biglietto da visita.
Ross
deglutì, stava già andandosene, sfuggiva a lui
come sfuggiva
Demelza. Non volevano avere nulla a che fare con lui, entrambi. Era
palese che non lo volessero nella loro vita se non per lo stretto
necessario.
Ma
Dwight, almeno con lui doveva chiarire. O provarci... "Aspetta".
"Cosa
c'è?".
"Non
mi hai detto qual'è la tua parcella".
Dwight
voltò il capo. "Non ce n'è bisogno, non ho fatto
nulla di
che".
Ross
non era d'accordo, non stavolta. "Non è così e lo
sai!" -
sussurrò. Aprì la porta, uscendo con lui
nell'atrio perché
rimanessero soli. "Volevo ringraziarti per essere venuto, è
stato un gesto... grande... visto quanto successo fra noi. Siamo
estranei ormai e non eri obbligato a venire".
Dwight,
come imbarazzato, chinò il capo. "Sono un medico, vado dove
posso essere utile e Demelza mi ha chiesto questo favore. Se
è
riuscita a venire lei quì, non vedo perché non
avrei dovuto venirci
io".
Demelza...
Ross sospirò. "Lei è sempre migliore di tutti
quanti noi. Lo
ha dimostrato...".
"Sempre!"
- concluse Dwight, mortalmente serio.
E
Ross si trovò a chinare il capo. "Sempre...".
Dwight
gli lanciò un'occhiata seria, inquisitrice e pensierosa. "Le
dissi io di partire, di lasciare la Cornovaglia, allora... E non me
ne sono mai pentito, si sarebbe ammalata se fosse rimasta e solo Dio
sa cosa ne sarebbe stato dei suoi figli se le fosse successo
qualcosa. Volevo lo sapessi! Volevo dirtelo da allora che volevo solo
portarla via da tutto quel male che le era piovuto addosso e che non
meritava! La stava annientando e tu non sembravi interessato a
salvarla...".
Ross
deglutì, faceva male sentire quelle parole di rimprovero e
già
attraverso Prudie aveva potuto toccare con mano quanto Demelza fosse
stata vicina a spezzarsi, sette anni prima. Era stato un dannato
codardo, avrebbe dovuto mantenere le sue promesse e starle vicino
quanto più poteva e invece, schiacciato da sensi di colpa e
vergogna, se n'era rimasto rintanato a Trenwith a soffrire in
silenzio sul SUO dolore, senza forse cercare di immedesimarsi davvero
in quello di Demelza, lasciata sola a vivere una esperienza terribile
e una gravidanza complicata. Santo cielo, se le fosse successo
qualcosa... I suoi pugni si strinsero a quel pensiero! Mai si sarebbe
perdonato qualcosa del genere e Dwight l'aveva salvata, l'aveva
salvata quando lui non era stato capace di farlo. "Ti devo
ringraziare per quello che hai fatto per lei" – disse solo.
Non c'era molto da recriminare e sapeva benissimo anche lui che
venire a Londra era stato il meglio per Demelza e i bambini.
Dwight
parve sorpreso da quelle parole. "Mi ringrazi... per avertela
tolta dai piedi?" - chiese, cauto.
Ross
sorrise amaramente, rendendosi conto di quanto ormai apparisse come
un mostro agli occhi di tutti coloro che un tempo gli erano stati
vicini, amandolo e sostenendolo. "Ti ringrazio per averla
salvata e per esserti preso cura di lei e dei bambini. Io non ero in
grado di farlo, allora... Perderla per me è stato terribile,
non una
liberazione! Ma lei doveva andar via e ricominciare, per il suo bene
e per quello dei bambini! E senza di te non ce l'avrebbe mai fatta".
Era
sincero, lo erano le sue parole colme di una profonda malinconia e
dolore e Dwight se ne accorse, rimanendone turbato. "Posso
chiederti una cosa? Solo una, che mi frulla in testa da anni...".
"Certo".
"Fingevi,
allora?".
Ross
si accigliò. "A cosa ti riferisci?".
Gli
occhi di Dwight divennero lucidi. "Il giorno in cui morì
Julia,
mentivi? In fondo, era 'solo' la figlia che ti aveva dato Demelza,
non la figlia avuta da Elizabeth... E visto come ti sei comportato
dopo verso di lei e i figli venuti dopo, mi son chiesto se tu avessi
mai amato davvero la piccola Julia. Scusa se sono brutale ma sai,
sono padre ora e me lo sono sempre chiesto, ogni volta che ho pensato
a te".
Ross
spalancò gli occhi. Era davvero, davvero un mostro ai loro
occhi,
agli occhi di tutti! Di Demelza, di Dwight, probabilmente dei suoi
figli... Se Dwight gli aveva chiesto una cosa del genere, doveva
ritenerlo davvero un piccolo uomo e sicuramente tale si era
dimostrato, col suo comportamento passato. Ma mai avevrebbe pensato
che qualcuno mettesse in dubbio l'amore verso Julia, nonostante
tutto. Anche Demelza aveva gli stessi pensieri? Si sentì
annientato,
davanti a quell'evenienza... Pensò a Julia, alla sua piccola
e
preziosa Julia. Una ferita ancora aperta che mai sarebbe guarita. Sua
figlia, che non aveva potuto salvare, sua figlia, la cui bara aveva
trasportato a mano fino alla sua destinazione finale... La figlia a
cui aveva promesso di rendere il mondo un posto migliore, per amor
suo. E Dwight pensava che fingesse, quel giorno, che il suo dolore
fosse solo un esercizio di stile da mostrare in pubblico per
sostenere il suo ruolo di genitore. "Quel giorno ho perso un
pezzo di anima e di cuore, Dwight. Era la mia bambina, l'ho amata e
attesa fin dal primo momento in cui ho saputo della sua esistenza.
Sono davvero mostruoso ai tuoi occhi, se ti sei chiesto una cosa del
genere".
"Scusa".
Dwight si appoggiò alla parete dell'atrio mentre da dentro,
proveniva il vociare allegro di Valentine e Jane. "E' che... io
non capisco, non ho mai capito come hai potuto, dopo...". Si
bloccò, deglutendo e tremando, come se stesse rivivendo un
grande
dolore. Prese un profondo respiro per riuscire a proseguire. "Sai,
come ti dicevo, sono padre. Da pochi mesi c'è Sophie nella
vita mia
e di Caroline, la nostra gioia! Ma non è la mia unica
figlia, prima
di lei c'è stata Sarah, vissuta solo pochi mesi e volata via
troppo
presto, come Julia".
Ross
abbassò lo sguardo, sapeva di quanto successo, glielo aveva
detto
Prudie ma non poteva parlarne, non poteva tradire le confidenze della
sua vecchia domestica. Lo guardò con gli occhi lucidi,
provando
un'infinita pietà per Dwight e per quel dolore che aveva
provato e
che Ross conosceva più che bene, limitandosi a sfiorargli il
braccio
in un gesto di amicizia. "Mi dispiace" – disse solo. Che
altro poteva dirgli, come poteva consolare un uomo la cui missione
nella vita era curare chi soffriva per delle malattie e ironicamente
era stato impossibilitato dal destino a salvare la propria figlia?
Dwight
osservò la mano di Ross sul suo braccio e poi
sospirò, senza
interrompere quel contatto fra loro. "E... E per questo mi
chiedevo... Come dopo tu non sia riuscito ad amare Jeremy e Clowance,
ad abbandonarli assieme alla loro madre e a vivere come se nulla
fosse. Perché dopo Sarah, Ross, mi sembra impossibile che un
uomo
possa farlo, che un uomo possa dimenticarsi di essere padre. Quando
è
arrivata Sophie, per me è stato come tornare a vivere, anche
se di
fatto nulla sostituirà mai Sarah. Mentre tu, con Jeremy...".
Ross
osservò il soffitto, guardando dentro se stesso come molte
volte
aveva fatto in quegli anni. Spesso si era chiesto come avesse potuto
non tanto fare ciò che aveva fatto dopo il tradimento, ma
prima...
Era prima che aveva compiuto gli atti più orribili verso la
sua
famiglia, era prima che aveva smesso di prendersene cura, era prima
che aveva guardato altrove. Ed era giunto, negli anni, a tante
risposte. "Julia, cambiò tutto in me. La sua morte
segnò la
fine dell'età della spensieratezza, del romanticismo, del
mondo
bello dove tutto era possibile. Improvvisamente diventai adulto,
padre in lutto e tutto smise di avere senso. Non c'erano più
ideali
e fini da perseguire, tutto mi sembrava misero e senza sensodavanti
alla morte di mia figlia. Il mondo era diventato improvvisamente
cattivo! E non lo so quanto è iniziato, quando è
accaduto, quando
ho cominciato ad allontanarmi da Demelza... Volevo tornare indietro,
Dwight! Volevo tornare a quel tempo in cui ero un ragazzo con un
futuro brillante davanti, in partenza per la guerra con una
meravigliosa divisa rossa, innamorato della ragazza più
bella della
zona, quella che tutti volevano e che mi corrispondeva. Un bel mondo
perfetto, un mondo di fantasia, un mondo utopistico che non esisteva
ma in cui non esistevano nemmeno lutti, dolori, lotte continue e...
dove le bambine non morivano. Elizabeth rappresentava tutto questo e
dopo la morte di Francis era come se tutto fosse tornato a portata di
mano, come se la vita mi stesse dando davvero un'occasione per
tornare a quel tempo dove la vita era bella e perfetta e non
complicata e difficile – ma incredibimente vera e ricca nella
difficoltà – come quella che avevo con Demelza.
Improvvisamente
non ero più il Ross tornato dopo tre anni di guerra, sposato
e
padre. L'uomo che ha smesso di prendersi cura di sua moglie e del suo
bambino era il Ross ventenne e scapestrato. Non mi rendevo conto che
stavo solo scappando da un dolore troppo grande e che non riuscivo ad
affrontare, non mi rendevo conto di quanto male stessi facendo a chi
amavo, non mi rendevo conto che il mio mondo perfetto io lo avevo
già
e che lo stavo buttando via. Dovevo toccare il fondo, dovevo toccare
con mano quella vita utopistica per rendermi conto che era tutto
finto. Non volevo far del male a Demelza, era come non voler rendermi
conto di quanto le mie azioni ricadessero su di lei. Non volevo
ascoltare chi mi diceva che stavo sbagliando, non volevo... Ero
tornato ad essere il principe azzurro della più bella
ragazza di
Cornovaglia, era come essere tornato a quei tempi... Ma quando ho
toccato quel sogno, mi sono accorto che era un incubo, che tutta
quella bellezza non era reale. Ma ormai era troppo tardi, non potevo
tornare indietro. Ciò che ho fatto dopo, è stato
per cercare di
rimediare ai miei errori, al guaio in cui avevo messo Elizabeth...
Pensavo di poter tenere sotto controllo tutto, ero un idiota e un
pallone gonfiato! Che non è riuscito a fare nulla di buono
per
nessuno".
Inaspettatamente,
Dwight sorrise anche se il suo era un sorriso triste. "Sai,
speravo mi rispondessi così".
"Cosa?".
Dwight
cercò di spiegarsi meglio. "Se non ci fosse stato
Valentine...
Tu...?".
Ross
sospirò, Valentine c'era e giornalmente lo metteva davanti
ai suoi
errori e alle sue conseguenze. Lo amava certo, ma spesso si chiedeva
cosa sarebbe successo se non ci fosse stato. "Io scelsi, dopo
quella notte maledetta. Tornai a casa, da Demelza. Improvvisamente le
tenebre che mi avevano catturato si erano diradate ed ero tornato a
guardare alla vita come il Ross adulto. Sarebbe finita lì,
avrei
strisciato per farmi perdonare di tutto quello che avevo fatto, avrei
sputato sangue per recuperare il tempo perduto con Jeremy, avrei
voluto solo fare la pace con chi amavo, lasciarmi alle spalle quel
periodo in cui ero stato orribile e aspettare l'arrivo della mia
bambina. Solo questo... Ma il destino non perdona a chi fa del male,
il destino chiede sempre il suo conto! Ed è stato salato e
io ho
perso tutto! E me lo meritavo di perdere tutto ma Demelza no, lei non
meritava quel dolore! Per questo ti ho ringraziato per averla portata
via, prima. Tu l'hai davvero salvata ma allora non potevo e non
riuscivo a capirlo!".
Fu
Dwight stavolta a dare a Ross una leggera stretta al braccio. "Le
chiamano... lezioni... Servono a farci crescere".
"Queste
lezioni però le hanno subite anche gli altri che non le
meritavano"
– commentò Ross, amaramente.
"Parli
anche di Elizabeth?" - azzardò Dwight.
Ross
sorrise amaramente. "Fu un inferno, con lei. Dopo quella notte
non ci fu più niente se non liti e rabbia. Me ne andai, sai?
Da
Trenwith... Quel giorno in cui Demelza andò via, io lasciai
quella
casa dopo aver scoperto alcune cose che mi erano state tenute
all'oscuro e ho deciso che dovevo essere uomo e vivere dove e con le
persone che avevo nel cuore. Cercai la carrozza che aveva portato via
Demelza, ma non la trovai e la persi. E per sette anni io ogni giorno
mi son chiesto dove fosse, cosa stesse facendo e come fossero
diventati i miei bambini. Non sapevo nemmeno se Clowance fosse
maschio o femmina! Non sapevo nulla! Non potevo nemmeno immaginare la
mia bambina... L'ho rivista quì, a Londra, ormai grande e
col
cognome di un altro uomo che le aveva fatto da padre! Ho perso tutto
Dwight e me lo merito, mi merito di guardare la donna che amo e i
miei figli da lontano, come un estraneo, senza poter allungare una
mano per far loro una carezza o abbracciarli".
Dwight
scosse la testa. "Sai Ross, in questi anni ho pensato spesso a
te. Di nascosto, facendomi tante domande... Me ne andai
perché ero
arrabbiato con te e mortalmente deluso e non sto dicendo che ho
rivalutato il tuo operato, ritengo tu abbia fatto davvero tanti
errori e che siano stati orribili. Ma...".
"Ma?".
"Umani.
Sei umano, Ross. Io ti credevo diverso, indistruttibile, infallibile.
E per questo la delusione è stata ancora più
cocente, ma vedi...
Vedi in questi anche io ho pensato molto al passato e agli errori che
ognuno di noi ha commesso e mi sono ricordato di una cosa a cui non
avevo pensato quando sono partito".
"Cosa?".
"Pure
io mi ritenevo una brava persona ma pure io ho fatto errori gravi di
cui ancora oggi mi vergogno. E tu mi sei stato accanto allora, senza
giudicare e senza recriminare. Da amico... Capendo, aiutando,
tendendomi una mano in silenzio... E mi sono vergognato di me stesso
perché io non ho fatto lo stesso con te".
Ross
si accigliò, cercando di capire a cosa si riferisse. "Scusa,
ma...".
E
Dwight sorrise. "Parlo di quando ho amato Keren, sposata con un
bravo uomo di cui ero amico. Ho avuto una relazione che ha macchiato
la mia coscienza per sempre e che ha provocato la morte di una
giovane ragazza, nonché la disgrazia dell'uomo che l'aveva
sposata e
amata. E tu non mi hai giudicato, non hai sentenziato, hai solo
cercato di dare una mano".
Ross
spalancò gli occhi, ricordando quei giorni che onestamente
aveva
rimosso dai ricordi in quegli anni in cui ogni suo pensiero era stato
volto unicamente a Demelza e ai bambini. Sospirò,
rispondendo al
sorriso triste dell'amico. "Sei una brava persona Dwight, una
delle migliori che conosco. E sei umano, hai sbagliato pur senza
desiderare che finisse tanto male... Hai sbagliato, come sbagliamo
tutti nel corso della vita, chi più, chi meno. Ma se dovessi
fare un
bilancio di ciò che conosco sulla tua esistenza, il
risultato è più
che positivo. Un errore non può pregiudicare un'intera e
onesta
esistenza".
"E
tu non hai fatto lo stesso, Ross? Non hai commesso un errore
all'interno di una vita spesa ad aiutare gli altri? Ciò che
hai
detto e che vale per me, non dovrebbe valere per te?".
Ross
scosse la testa. "Io ho commesso errori gravi e non merito
perdono".
"E
io col mio comportamento ho provocato la morte di Keren. Non
è
altrettanto grave?".
Ross
lo guardò, cercando di capire a cosa stesse cercando di
arrivare. "E
quindi?".
Il
sorriso di Dwight si distese. "E quindi forse dovremmo accettare
le nostre debolezze, far tesoro del passato e cercare di perdonare
noi stessi. I nostri errori li abbiamo pagati entrambi e tu li stati
scontando ancora adesso. Forse crescere significa capire di non
essere infallibili e farne tesoro".
"Forse
sì!" - rispose Ross – "Io non posso che fare
ammenda e
sopravvivere a ciò che ho fatto. Tu invece puoi vivere
davvero, ora!
Hai la tua famiglia vicino".
Dwight
annuì. "Vero! Ma sai, pure io e Caroline, dopo Sarah,
abbiamo
rischiato di perderci come è successo a te e Demelza. Io mi
ero
gettato nel lavoro e Caroline... Beh, lei come te ha cercato la se
stessa giovane, la vita che conduceva prima di sposarsi ed essere
madre. Ha cercato quel periodo dove feste, balli e vita mondana erano
la sua quotidianità, fuggendo dal suo presente di madre in
lutto. E'
stata dura, era come se ognuno avesse intrapreso strade separate e
fossimo estranei. Ma poi ci siamo guardati negli occhi e abbiamo
capito che quel presente doloroso, ci aveva comunque donato dei mesi
indimenticabili con la bambina migliore del mondo. E non volevamo
rinunciarci!".
"Sei
sempre stato più saggio di me!" - concluse Ross, con un
sorriso. "Vorrei essere stato altrettanto saggio... E invece ho
perso tutto e ora Demelza ha un marito che piange e che amava e i
miei bambini hanno un altro padre a cui pensano e due nuovi
fratellini che non sono miei. E fa male... Io li guardo e tutti,
tutti loro, vorrei solo fossero ancora miei".
Dwight
annuì. "Non devi essere geloso di Hugh".
"Lo
conoscevi?".
"Sì,
ed era una brava persona. Non l'uomo per la vita per Demelza, erano
troppo diversi, come il giorno e la notte in un certo senso. Ma era
l'uomo perfetto per lei per QUEL periodo della sua vita. Demelza
aveva bisogno di un uomo come Hugh accanto, allora... In quel momento
preciso lui era la sua anima gemella. E lei quella di Hugh. E quando
erano insieme sapevano essere felici nonostante tutto, sapevano
gioire del tempo loro concesso e farne tesoro, senza farsi sopraffare
dai problemi che aleggiavano sulle loro vite. Sapevano farli sparire!
Fu il destino a decidere, come fu per te con Valentine. Non lo
avrebbe sposato se non fosse stato per i gemellini e credo che col
tempo ognuno avrebbe preso la sua strada e fra loro sarebbe finita,
ma il destino ha deciso altrimenti e lei ora rappresenta degnamente
la grande famiglia in cui è entrata, famiglia che la ama e
che le è
sempre mancata. Demelza è così, rende magica ogni
casa e ogni
persona che incontra nel suo cammino. E Hugh le ha lasciato in
eredità una vita prestigiosa e senza pensieri che lei sa
interpretare benissimo, con grazia e generosità, che
darà un futuro
ai suoi figli oltre che una grossa mano alla comunità
bisognosa di
Londra, che Demelza aiuta come può".
"Già,
ha saputo andare lontano e ha saputo farlo benissimo" –
sussurrò Ross, con amarezza. "La vita che non ho saputo
darle
io, se l'è costruita da sola".
Dwight
gli diede un'altra carezza sul braccio. "Ti ha riaperto in parte
una porta, Ross. Abbi pazienza con lei... E' confusa dal tuo ritorno
e cerca di proteggere i suoi figli, eppure in un certo senso ti sta
aiutando. Tacendo il vostro passato per permetterti di lavorare senza
scandali a scalfire la tua persona, preoccupandosi della salute di
Valentine, facendoti comunque vedere i bimbi da lontano o anche da
vicino, se capita. Non avere fretta, non puoi permettertelo. Aspetta
e vedi che succede... Hugh era l'uomo giusto per lei anni fa ma
quello giusto per la sua vita sei tu e l'ho sempre saputo. Il destino
ha portato entrambi quì, ci sarà un
perché. Se sei diventato più
saggio per davvero in questo periodo, abbi la costanza di saper
aspettare. Anni fa io portai via Demelza da te ma oggi, se
potrò
aiutarti, cercherò di riportarla da te".
E
Ross in quel momento capì di aver ritrovato un amico che gli
era
mancato tantissimo.
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Capitolo 44 *** Capitolo quarantaquattro ***
“Sono
stanco!”.
“Cammina!”.
“Ma
mi fanno male le gambe!”.
“Perché
corri troppo poco! Nemmeno cammini quanto dovresti e se non fai come
ci ha consigliato Dwight, dovrò richiamare il dottor
Choake!”. Ok,
era scorretto e non era carino far spaventare Valentine ma era
importante che seguisse le prescrizioni di Dwight, era per il suo
bene e tutti quei capricci che si ripetevano da una settimana ogni
mattina, per una semplice passeggiata nel parco, non avevano motivo
di esistere! Ross aveva deciso di essere più presente e un
padre
migliore per Valentine, un padre più simile a quello che era
stato
per Julia e il più lontano possibile dal padre che era stato
dopo,
con tutti i suoi figli. La domanda di Dwight sul suo dolore per Julia
lo aveva colpito nel profondo, dandogli la reale visione di come lo
vedessero gli altri. Era stato un padre assente e orribile, per
ognuno dei suoi bambini venuti dopo di lei, tutti sacrificati al suo
orgoglio, al suo dolore e ai suoi fantasmi per le scelte sbagliate
fatte. Non voleva essere così, non voleva che suo figlio
pensasse di
non essere amato e soprattutto non voleva che pagasse per i suoi
errori come era stato per Jeremy e Clowance! Amava i suoi figli e
anche se non era stato in grado di dimostrarlo, sarebbe stato pronto
a dare la vita per ognuno di loro. Per questo si era alzato al
mattino presto, aveva preso Valentine e aveva iniziato con lui quella
routine di passeggiate nel parco per renderlo più forte.
Sapeva che
non c’era abituato, che faticava, sapeva che era sempre stato
troppo tempo in casa e poco fuori e per questo voleva accompagnarlo
in quella nuova avventura, per quanto difficile fosse in quei primi
tempi. Dovevano allenarsi, ognuno per un motivo diverso, e insieme
migliorarsi e stare meglio.
“Nooo,
ti prego, il dottor Choake NO!”.
“E
allora cammina senza lamentarti!”.
“Dopo
però la facciamo colazione?” – chiese
Valentine, con le guance
rosse per lo sforzo di camminare tanto velocemente.
Ross
lo prese per mano, accelerando il passo. “Certo, ma te la
devi
guadagnare la colazione! Sai, me lo dicevano sempre quando ero un
soldato!”.
“Ma
io non sono un soldato” – obiettò il
bambino.
“Fa
finta di esserlo”.
Valentine
ridacchiò a quella risposta, forse reso di buon umore dal
tono
leggero in cui Ross l’aveva pronunciata. Fece per rispondere
ma poi
si fermò, attirato da qualcosa che aveva scorto in
lontananza.
“Papà, guarda! La bambina col lupo
bianco!”.
Ross
si bloccò e in lontananza la vide. Clowance, con un nastro
rosso fra
i lunghi capelli biondi e un vestitino scozzese, giocava in
lontananza con Queen e non era sola: c’erano i suoi fratelli
con
lei e altri due cani.
Ross
deglutì, uno lo conosceva. “Garrick”
– sussurrò piano, mentre
i tanti ricordi legati a quel cane lo investivano con violenza.
Quella vecchia canaglia era ancora viva e vivace, da quel che vedeva,
e i bimbi, oltre all’amore di Demelza, lo tenevano giovane e
attivo!
Valentine
lo riportò alla realtà. “La bambina con
la lupa e gli altri
bambini, devono venire al parco a correre come me? Per questo sono
qui a quest’ora?”.
Ross
si accigliò, in effetti era molto presto.
“Non… Non lo so…”
– disse, rapito dal vederli giocare e dal costatare che anche
Clowance sembrava spensierata e allegra, mentre si inseguiva coi
gemellini che non finivano di tormentare lei e i cani.
L’unico
che stranamente sembrava più ombroso era Jeremy, seduto su
una
panchina col muso lungo, in compagnia di un cagnolino dal pelo rosso
e arruffato. Non lo aveva mai visto così e di solito era
Clowance
quella sempre pensierosa e accigliata.
D’un
tratto, la voce di Demelza richiamò i bimbi e Ross la vide
uscire
dal suo immenso giardino, dal cancelletto privato che separava la sua
proprietà da Kensington. Aveva i capelli sciolti ma ben
pettinati,
indossava un abito rosa e portava sulle spalle un morbido bianco
giallo che le conferiva un aspetto dolce e gentile.
Valentine
si illuminò. “Papà, lady
Boscawen!”. Si staccò dalla sua mano
e finalmente, anche se era l’occasione meno adatta, lo vide
correre
e raggiungerla prima che potesse fermarlo. Quella piccola canaglia,
quando voleva correva! Eccome!
Demelza
si voltò a guardarlo, stupita nel sentirsi chiamare da lui e
nel
trovarselo davanti. Anche gli altri bimbi si bloccarono a guardarlo,
incuriositi, avvicinandosi a lei. E Ross fu costretto a fare
altrettanto e ad avvicinarsi a sua volta per riprendersi Valentine e
togliere Demelza da quella situazione che doveva sembrarle davvero
imbarazzante e soprattutto inaspettata.
Appena
i gemelli lo videro, prima ancora che Demelza potesse dire qualcosa,
il piccolo Demian spalancò gli occhi e Ross se la fece quasi
sotto.
Santo cielo, aveva stretto un accordo di silenzio con Daisy, ma
lui...?
Infatti
il bimbo, indicandolo, rischiò di farlo finire nei guai in
due
secondi. "Ma tu sei...".
E
a quel punto la sua gemella, che Ross aveva già appurato
essere
sveglia e scaltra come una volpe, lo salvò, sovrastando la
voce del
fratello. "Lui è un signore che LAVORA CON LO ZIO!".
Lo
disse alzando la voce per risultare incisiva e guardando il
fratellino negli occhi, bloccandolo dal parlare e rovinargli
l'esistenza. E Demian capì, stranamente tacque e non fece
domande.
Ross osservò quei due, chiedendosi se davvero fossero vere
le
leggende sui gemelli e sulle loro capacità quasi magiche di
capirsi
con un solo sguardo. Daisy poi si voltò verso di lui, gli
lanciò
un'occhiata di intesa e Ross capì comunque di essere nei
guai. La
piccola jena gli aveva fatto un favore, ne era consapevole e lui
sapeva anche che presto gli avrebbe ricordato questa cosa,
chiedendogli un favore di ritorno in cambio. Non lo avrebbe
dimenticato, prima o poi avrebbe chiesto il suo compenso e anche se
era piccola, era abbastanza canaglia per creargli problemi...
Falmouth sarebbe stato orgoglioso di lei, se avesse saputo...
Demelza
osservò sua figlia, quella dolce frugoletta col vestitino
blu, il
golfino rosso e il fiocco fra i capelli dello stesso colore
dell'abito, fiutando qualcosa di strano nel suo atteggiamento ma non
facendo domande sul momento. Conosceva sua figlia, era palese,
così
come lo era il fatto che quella strana situazione era appunto...
strana...
Anche
Clowance guardò i gemelli con aria interdetta e Ross decise
che era
meglio distogliere l'attenzione di tutti da quanto appena successo.
In fondo era un momento bello, no? Era bellissimo, ogni volta,
rivedere Demelza soprattutto quando era coi bambini, perfettamente
guariti dalla varicella, sani come pesci e vivaci come sempre.
Si
inchinò leggermente, doveva interpretare al meglio quella
situazione. "Lady Boscawen, buon giorno".
Valentine
le prese la mano, eccitato di vederla. "Che bello vederti
Demelza" – disse, saltellando.
Demelza
gli sorrise, anche se in un modo un pò tirato. "Valentine,
che
ci fai quì?".
"Devo
correre, lo dice il dottore! E papà mi ci porta tutte le
mattine in
questo parco, a farmi allenare. E tu, perché sei
quì? Questi sono i
tuoi bambini?".
Ross
tossicchiò. "Valentine, basta domande, non è
educato e credo
che Lady Boscawen abbia molto da fare". Santo cielo, Clowance in
quel momento sicuramente stava pensando di avere a che fare con un
selvaggio!
Demelza
sorrise, indicandogli i figli. "Sì, sono i miei bambini.
Jeremy, quello seduto col broncio sulla panca, Clowance e i gemellini
Daisy e Demian. Abitiamo quì e stamattina stiamo uscendo per
una
gita e perciò abbiamo portato i nostri cani a fare un giro
prima di
uscire".
Ross
osservò la bellezza di Queen e il cagnolino che teneva in
braccio
Jeremy, ancora in disparte e ancora silenzioso, che gli accarezzava
il pelo.
Garrick,
che Demian bloccava con le mani, invece lo guardò
scodinzolando e
poi gli andò vicino, saltandogli sulle gambe. Demelza
impallidì e
Ross deglutì. Lo aveva riconosciuto!
Valentine
rise per quella reazione mentre i bambini di Demelza ne sembravano
stupiti.
"Gli
stai simpatico, signore!" - disse Daisy, ridendo.
"Garrick,
buono!". Demelza si chinò subito, prendendolo in braccio.
"Dai
bambini, è ora di andare. Portiamo i cani in casa e poi
andiamo alla
carrozza. E' tardi" – ordinò, nervosa pure lei dal
fatto che
il suo amato cane, quel cane che tanti anni prima li aveva fatti
conoscere, lo avesse riconosciuto. Era o non era dopo tutto il suo
padrone, una volta?
Valentine
si imbronciò. "Vai già via?".
"Sì,
sto uscendo" – rispose lei, in tono gentile.
"Mi
avevi detto che venivi a trovarmi e non sei venuta... Io ti ho
aspettato, sai?".
Demelza
impallidì davanti a quell'osservazione e Ross
capì che si sentiva
in colpa per quella bugia detta a Valentine sicuramente a fin di bene
ma, appunto, una bugia... Demelza sapeva che non sarebbe tornata a
trovarlo ma Valentine ci aveva creduto e sperato in una sua visita...
Intervenne
per sbloccare la situazione, prendendo il figlio per mano. Non voleva
che lei si sentisse in colpa, non ce n'era motivo e aveva fatto fin
troppo per loro. "Lady Boscawen è molto occupata e
sicuramente
ha avuto cose importanti da fare. Su, saluta e andiamo, Valentine".
Inaspettatamente,
Demelza si inginocchiò davanti a lui. No, lei non era
d'accordo a
far cadere quel discorso. "Mi dispiace, non volevo che ci
rimanessi male ma...".
"Ma
mi hai detto una bugia..." - ribattè il bimbo, deluso.
"Scusa"
– rispose lei, con la sincera dolcezza che sempre l'aveva
contraddistinta. Poi sospirò, guardando i suoi bambini.
"Senti,
stiamo andando allo zoo, porto la mia bimba più piccola a
vedere gli
orsi. Ti va di venire con noi? Così posso farmi perdonare
per non
essere venuta".
Valentine
si illuminò, dimenticando il broncio di poco prima.
"Sììì!
Papà, possiamo?".
Ross,
preso allo sprovvista e sorpreso per quella proposta, la
guardò con
aria smarrita. Era una cosa bellissima quella che Demelza stava
facendo per Valentine, una cosa che doveva costarle molto, una
proposta fatta col cuore a pezzi e il sorriso sul viso per celare i
suoi veri sentimenti. Non era cambiata, non sarebbe mai cambiata da
ciò che era stata a Nampara e che lui amava... Ma forse era
troppo,
forse doveva declinare, forse doveva prendere Valentine e andarsene,
lasciandola libera di vivere una giornata piacevole coi bambini. "Non
vorremmo disturbare".
Demelza
annuì, facendogli capire che poteva andar bene lo stesso.
"Non
disturbate! Vero bambini?".
Clowance
sospirò. "Un maschio? Un altro oltre a Jeremy e Demian?".
Demelza
la fulminò con lo sguardo e la piccola tacque.
Il
gemellino le fece la linguaccia. "Sì Clowance, bello! Siamo
di
più e può venire col suo papà. Saremo
tantissimi maschi e voi
poche femmine! Anche se...". Si avvicinò deciso a Demelza
che
teneva ancora per mano Valentine, si mise fra i due, spezzò
il
contatto fra loro e si rannicchiò fra le braccia di sua
madre.
"Mamma deve tenere per mano me che sono piccolo! Tu dai la mano
al tuo papà, se vieni! La mamma è MIA!".
Ross
sorrise. Santo cielo, Clowance aveva ragione! Era un mammone ed era
assolutamente geloso e possessivo verso sua madre. Aveva già
notato
in altre occasioni quello strano e simbiotico rapporto fra lui e
Demelza e ora aveva la certezza che fosse qualcosa di molto forte e
difficile da spezzare.
Daisy,
decisamente più indipendente del gemello a prima vista,
invece non
sembrava turbata. "Sì, vieni pure! Ma l'orso è
mio!".
Valentine
annuì. "Sì, non lo voglio un orso! Non ci sta in
casa".
"In
casa mia sì, guarda quanto è grande!" -
ribattè la bimba,
indicandogli con la mano la loro immensa dimora che si stagliava
dietro agli alberi.
Valentine
spalancò gli occhi, tutto doveva davvero apparirgli immenso
rispetto
alla piccola Nampara e alla realtà a cui era abituato.
Demelza
invece guardò Jeremy, preoccupata. "Tu sei d'accordo se
vengono
con noi?".
Il
ragazzino alzò le spalle. "Per me va bene, per me possono
anche
venire al mio posto! Posso stare a casa?".
Demelza
scosse la testa. "No!" - rispose, decisa. "Tua sorella
ci tiene e voglio fare questa gita tutti insieme, come sempre".
Jeremy
non rispose. Stizzito si alzò dalla panca, mise in terra il
suo cane
e si avviò verso il giardino. "E allora andiamo! Prima
facciamo, prima torniamo".
Clowance
e Daisy gli andarono dietro e Demelza, con aria preoccupata,
lasciò
a terra Demian, dando una leggera spinta a Valentine. "Seguì
i
bimbi e i cani nel giardino, ti porteranno alla nostra carrozza".
Il
bambino non se lo fece ripetere e con gli altri piccoli, scomparve
all'interno del giardino, correndo.
E
a quel punto, rimasti soli, Ross le rivolse la parola. "Non sei
obbligata a farlo, Valentine se ne sarebbe fatto una ragione".
Lei
scosse la testa. "Ho sbagliato e gli ho mentito! Ed è una
cosa
che non si fa, non coi bambini... Non è niente di che, solo
una gita
allo zoo, non essere ansioso".
"Tu
non lo sei?".
Lei
piantò gli occhi nei suoi, seria e forse tesa. "No, non lo
sono". Lo disse ma Ross si accorse che le tremavano le mani.
"Sicura?".
"E'
solo una gita e come ti ho detto, il passato è passato.
Viviamo il
presente...".
Ross
sospirò, il discorso per lei era chiuso. "Perché
lo zoo?".
Demelza
sorrise dolcemente. "La piccola orsa vuole vedere gli orsi...
Gli avevo promesso di portarla allo zoo e sto mantenendo la mia
promessa. Tutto quì".
Ross
sorrise. "Orsa? Daisy?".
"Sì,
lei, la chiamo così! La piccola orsa che si è
comportata in modo
strano prima, quando ti ha visto... Ne sai qualcosa, Ross?".
Lui
deglutì, quando mentiva Demelza lo beccava sempre. Ma
cercò di fare
del suo meglio. "No... La conosco a malapena".
Lei
ovviamente non ci credette ma finse, mentre insieme si avviavano
verso il giardino. "Sta attento a Daisy, Ross... E' piccola ma
molto furba e vivace".
Sì,
se n'era accorto, non c'era bisogno che lei glielo spiegasse e sapeva
già di suo di essere nei guai... "E Jeremy? Cos'ha?" -
chiese cambiando discorso, colpito dallo strano atteggiamento del
figlio che al momento lo preoccupava quanto il patto d'acciaio
stipulato con la piccola peste.
Demelza
abbassò lo sguardo a quella domanda. "Non voleva venire,
tutto
quì".
"Non
ama lo zoo? Piace a tutti i bambini".
Lei
strinse nervosamente la stoffa della sua gonna. "Gli ricorda
Hugh. Da piccolo, con lui e Clowance, eravamo andati in un parco e
Hugh aveva organizzato una giornata con gli animali che preferiva e
di cui gli leggevo le fiabe. Non vuole andarci più, non
senza
Hugh... Ma la vita va avanti, voglio che lo impari e lo superi e
voglio che ci sia, che stia accanto a Daisy per cui è un
eroe, come
Hugh è stato accanto a lui e il suo eroe, allora...".
Quella
spiegazione sicuramente sincera, lo ferì. Non erano capricci
quelli
di Jeremy, era il dolore per la perdita di un padre. E quel padre non
era lui, era Hugh. Hugh gli mancava, Hugh lo aveva fatto divertire,
Hugh era stato il suo eroe, era Hugh che Jeremy rimpiangeva. Non
lui, lui non aveva mai fatto nulla con suo figlio e quando non dai
amore a un figlio, a sua volta non puoi pretendere di riceverne... Le
parole di Dwight di pochi giorni prima gli tornarono alla mente,
dolorosamente. Era stato un padre orrendo e un marito ancor peggiore
e ora, ora che cosa recriminava? Cosa pretendeva? Ferito
guardò
Demelza, chiedendosi se provasse le stesse sensazioni di Jeremy e non
riuscì a non domandarglielo. "E tu...?".
"Io
cosa?".
"Tu
senti le stesse cose di Jeremy ad andare a uno zoo?".
Lei
per un attimo vacillò, incerta se rispondergli o meno. Ma
poi
coraggiosamente parlò. "Io provo le stesse cose molte volte
in
molte occasioni. Era mio marito, il padre dei miei figli e l'uomo con
cui ho condiviso una parte bella ed importante della mia vita. Molte
cose me lo ricordano, non solo lo zoo e ogni volta che guardo i miei
figli fare qualcosa che a lui sarebbe piaciuto, mi manca... Non solo
oggi ma ogni giorno. Però la vita va avanti e dobbiamo
viverla al
meglio, senza lasciarci condizionare dal passato ma custodendolo,
QUANDO NE VALE LA PENA, come un tesoro. E vorrei che questo lo
imparasse anche Jeremy. Hugh avrebbe voluto così".
Ross
deglutì. Era sincera, spietatamente sincera. Hugh non era
ormai che
un'ombra ma aveva lasciato una traccia importante in Demelza. Avrebbe
voluto che fosse stato un perfido marito, un bastardo come sono tanti
nobili che usano a loro piacimento le donne che provengono dal
popolo, ma... Aveva amato Demelza, Jeremy e Clowance. E loro erano
stati una famiglia felice che ora che lui non c'era, ne sentiva la
sua mancanza. Demelza voleva guardare avanti portandosi dietro quel
ricordo dolce, non voleva perderlo ma allo stesso tempo lottava per
non farsene condizionare! E quando diceva che non voleva farsi
condizionare dal passato, non lo diceva solo pensando di vivere al
meglio perché Hugh avrebbe voluto così, ma era un
messaggio anche
per lui: il passato è passato, la famiglia che ho costruito
con Hugh
il mio presente.
Ross
non seppe cosa dire, riuscì solo a chiedersi se lei, qualche
volta,
pensasse alle cose belle che li avevano uniti con la stessa
intensità
con cui pensava a Hugh. Ma questo non ebbe il coraggio di
chiederglielo... E se anche lo avesse fatto, lei non avrebbe
probabilmente risposto.
Daisy
corse indietro, richiamandoli all'ordine e spezzando quel momento
difficile fra loro. "ALLORA?!".
E
Demelza sorrise. "Hai ragione, ora veniamo!".
E
insieme si avviarono attraverso i grandi giardini di casa Boscawen,
verso la carrozza.
...
Quando
arrivarono allo zoo cittadino, dopo un breve viaggio in carrozza
silenzioso per i grandi e pieno di chiacchiere per i bambini
incuriositi dal nuovo amichetto che si era aggiunto alla combricola,
i piccoli si scatenarono.
Demelza
aveva spiegato brevemente a Ross che esisteva un altro parco fuori
Londra che ospitava animali selvatici in un regime di maggiore
libertà, lo stesso parco visitato anni prima con Hugh dove
aveva
dato il latte alla tigre, ma che aveva optato per quella soluzione
cittadina dove delle grandi gabbie avrebbero impedito ai gemelli,
turbolenti ed imprevedibili, di avvicinarsi troppo e cacciarsi
pericolosamente nei guai.
Ross
si sentiva a disagio, di troppo in quella gita. Era un qualcosa che,
sentiva, legava ancora Demelza e Hugh e lo sguardo perso di Jeremy
che si era un pò lasciato andare a qualche chiacchiera con
Valentine, glielo confermava.
Guardò
i bambini che correvano per i grandi viali del parco dove, appena
dopo l'ingresso, un uomo vendeva acquiloni e faceva accarezzare delle
innocue caprette ai piccoli ospiti che man mano giungevano.
Era
domenica, vi era un continuo via vai di gente e famiglie venute per
una gita e lui... lui era con la sua famiglia, in un certo senso.
Guardò Jeremy che osservava assorto e pensieroso gli
animali,
Clowance che con eleganza passava da una gabbia all'altra e Valentine
che, un pò intimidito, li seguiva cercando di conoscerli e
di
viversi al meglio quell'avventura. Erano i suoi figli, tutti e tre...
E per una volta, LA PRIMA VOLTA, erano insieme.
Un
nodo gli strinse la gola a quel pensiero perché quella
visione era
assieme bellissima e terrificante: cose belle ed errori che si
mischiavano e che assumevano la forma di tre bellissimi bambini che,
ognuno a modo suo, avevano pagato gli errori dei grandi che li
circondavano.
Di
sbieco guardò Demelza che, con le labbra serrate e vagamente
pallida, osservava nella medesima direzione. Anche lei, poteva
leggerglielo in viso, stava provando le sue stesse sensazioni, non
sarebbe riuscita a non pensarci.
I
cinque bambini, dopo aver fatto baccano ed esplorato l'area
dell'ingresso, tornarono da loro.
Valentine
cercò di attirare l'attenzione di Demelza per vedere un
qualche
animale e Demian, veloce come uno dei felini chiusi nelle gabbie, si
mise fra loro due, dividendoli nuovamente.
Demelza,
pazientemente, sorrise ad entrambi. "Che volete vedere?".
"Gli
orsi!" - esclamò Daisy, risoluta. Degli altri animali non le
interessava nulla e aveva guardato in malo modo il signore con le
caprette che le aveva chiesto se volesse accarezzarne una.
"La
giraffa!" - propose Clowance.
"Orsi!
Orsi!!!". Daisy picchiò il piedino per terra e Demelza le si
inginocchiò davanti. "Tesoro, siamo quì per
vedere tutti gli
animali, non solo gli orsi. Su, facciamo contenta Clowance, andiamo a
vedere le giraffe e gli altri animali che sono su questo viale e poi
andiamo a vedere i tuoi orsi. Sono in fondo al parco, non
c'è
fretta".
Daisy
si imbronciò ancora di più. "Voglio vederli
adesso! Sono a
giocare nel bosco?".
"No,
sono belli tranquilli e al sicuro nelle loro gabbie. Ti aspettano
felici e contenti per conoscerti, ma vogliono vederti brava"
–
la rimbeccò Demelza, cercando di calmarla.
Jeremy,
imbronciato, calciò col piede un sassolino. "Non sono felici
e
contenti, gli orsi! Nessuno di questi animali lo è e questo
posto
non mi piace".
Ross
si intromise, d'istinto. Jeremy era indubbiamente nervoso e di
malumore ma non gli andava che fosse tanto brusco nel rispondere a
sua madre, pur comprendendone i motivi che lo spingevano a
comportarsi così. "Perché dici questo?".
Jeremy
si voltò verso di lui e Ross sentì il sangue
gelarsi nelle vene per
quello sguardo tanto profondo e pieno di pensieri che tutto sembrava,
fuorché quello di un bambino. "Voi signor Poldark, sareste
felice di vivere in una gabbia? Nessuno lo sarebbe, nemmeno un orso!
SOPRATTUTTO un orso!".
Ross
non seppe cosa rispondergli e nemmeno Demelza ci riuscì. I
restanti
bambini rimasero in silenzio, ammutoliti per quelle parole che, in
effetti, nascondevano una grande verità e una dimostrazione
della
profondità dell'animo di Jeremy. Ross si ritrovò
ad essere fiero di
lui, era un bambino dall'animo buono e sensibile e come sua madre
prima di lui, gli stava dando una lezione su quanto anche gli animali
sapessero vivere, amare e soffrire. "Scusa, hai ragione... Ma
credo che siano tenuti più che bene quì. Non sono
abituati a vivere
allo stato selvaggio, sono nati in cattività e non
saprebbero
sopravvivere all'infuori di questo zoo".
Daisy
ci pensò su e poi trovò la sua soluzione. Quella
più adatta agli
orsi, secondo il suo modo di vedere. Quella più adatta a
lei,
secondo il modo in cui la vedeva Ross. "Mamma, Jeremy ha
ragione! A casa nostra l'orsetto starebbe bene, più meglio
che nella
gabbia".
Demelza
sospirò, riprendendo il polso della situazione. "Non si dice
'più meglio'" – la corresse.
Daisy
fece la linguaccia e Ross se la prese per mano. "Su, la porto io
dagli orsi! Voi guardate gli altri animali e poi raggiungeteci
là".
Demelza
lo guardò storto, nuovamente. Era palese che captasse che
c'era
qualcosa fra lui e la piccola canaglia bionda ma doveva rimanere
impassibile e reggere il gioco a Daisy che fingeva indifferenza
meglio di lui.
"Se
sei d'accordo, ovviamente" – tentò.
Demelza
assunse un'aria di sfida. "Non verrà con te! Daisy non si
lascia prendere per mano o in braccio tanto facilmente, soprattutto
da uno sconosciuto".
Daisy
guardò lui e poi sua madre e alla fine strinse forte la
manina in
quella di Ross, decidendo da sola come porre fine a quella disputa
giocata sulla sua persona. "Sì, orsi! Con il signor Poldark!
Dopo ci vediamo la".
Demelza
sospirò, stupita e con aria sconfitta. "Va... Va bene, ci
vediamo dopo. Ma fa la brava". Poi guardò Ross, sospettosa.
"Sta attento a lei, mi raccomando! E' imprevedibile". E
prendendo con se Demian, Valentine, Clowance e Jeremy, si
avviò
verso le giraffe.
Ross
si incamminò nel viale laterale, a passo spedito, stupito ma
anche
felice che si fosse fidata a lasciargli la piccola pestifera
gemellina. "Sei stata bravissima prima, a bloccare tuo fratello!
Oppure per il nostro patto segreto sarebbe stata la fine. Ti devo un
favore" – mugugnò, trovandosi a pensare a come
diavolo si
fosse trovato in quell'assurda situazione con quella mocciosa di
nemmeno quattro anni.
Lei
annuì, seria. "Vero! Anche a Demian".
Carinissima
a puntualizzarlo, davvero! La piccola Boscawen era la vera erede di
Falmouth, altro che il suo gemello su cui probabilmente, in quanto
maschio, la famiglia puntava di più. Era una jena, Prudie
aveva
dannatamente ragione. "Cosa vuoi che faccia?".
"Non
lo so! Con Demian ci penso e poi te lo dico".
Grandioso!
Ross alzò gli occhi al cielo, rendendosi conto che era
davvero nei
guai. "Fammi sapere".
"Ti
devo dire un'altra cosa, signor Poldark!".
"Cosa?".
"Avevi
ragione, ha funzionato".
Ross
si accigliò, guardando la piccola che ridacchiava in modo
furbo.
"Cosa?" - chiese, provando uno strano terrore.
"Come
salvare il mio culetto dalle botte!".
Ross
rise. "Hai battuto Prudie?".
"Sì!
Mi sono buttata in terra come hai detto tu e lei si è
bloccata
tutta. Voleva prendermi ma le è venuto mal di schiena e non
riusciva
più a muoversi e ora sta a letto".
Ross
impallidì, sentendosi mortalmente in colpa. Santo cielo, la
mocciosetta aveva davvero messo in pratica il suo consiglio e Prudie,
non più giovane come quando badava a lui, ne era rimasta
vittima in
modo pesante. "E ora... Ora come sta?".
Daisy
alzò le spalle con noncuranza. "Oh, Dwight diceva che
guariva
in dieci giorni. Ma mica era vero! Sta a letto e dice che sta meglio
solo se le portano tre volte al giorno il tè con la torta e
i
biscotti. A letto! Dice che è l'unica medicina per la sua
povera
schiena... Sta a letto da tanto, sai? Mica lavora più e al
parchetto
al mattino ci andiamo con Mary e Mary non mi da le sculacciate!
Grazie signor Poldark! Anche il mio culetto ti ringrazia".
A
Ross venne da ridere. Santo cielo, era fantastica, la miglior terapia
contro la depressione! Se avesse potuto l'avrebbe rapita e se la
sarebbe portata a casa, era uno spasso quella mocciosetta. Divenne di
buon umore, dimenticando i malesseri di Prudie che, dalle parole di
Daisy, si deduceva non fosse cambiata. Ancora oggi odiava lavorare e
trovava tutte le scuse valide per non farlo... Ce la vedeva a letto,
stesa come un pascià, a farsi servire come una gran dama...
Daisy
improvvisamente gli sfuggì dalle mani, mettendosi a correre.
E Ross,
preso dal panico, le andò dietro. Che diavolo le prendeva?
"Daisy!".
La
piccola corse veloce, rapita da quello che vedeva, fermandosi a pochi
centimetri dalla gabbia dove una grossa mamma orsa giocava coi suoi
due cuccioli. Dal pelo scuro, maestosa e imponente, sembrava dominare
gli altri animali. Daisy ne era rapita e non si spostò di un
millimetro nemmeno quando l'animale ruggì contro di lei per
essere
stato disturbato.
Ross
la prese in braccio, in un gesto veloce, spostandola da lì.
"Non
farlo più!" - le disse, brusco. "E' pericoloso, non si
scappa!".
Ma
Daisy, rapita dall'animale, parve non sentirlo nemmeno. I suoi occhi
brillavano e sembrava un tutt'uno con quelle bestie feroci che
adorava e a cui ambiva. Erano esseri simili, pensò Ross,
selvagge ed
imprevedibili...
La
piccola gli cinse le spalle con le braccia, appoggiandosi al suo
petto con la testolina. "Signor Poldark... Glielo dici a mamma
se dopo andiamo nel negozio che vende gli orsi e ne compriamo uno?".
Ross
sospirò. "Daisy, non esistono negozi del genere".
"Perché?".
"Perché
gli orsi sono pericolosi, non si possono tenere in casa e quindi
nessuno li vende".
"Ma
io lo voglio" – mugugnò lei.
Ross
ci pensò su e alla fine capì che doveva usare la
furbizia e
l'intelligenza, nonché l'esperienza, per convincerla. "Sai,
tu
saresti bravissima a prendertene cura e il tuo orso ti vorrebbe anche
bene. Ma vedi, io da giovane ho combattuto in America e di orsi ne ho
visti tanti e ho imparato una cosa su di loro".
"Cosa?".
"Che
amano e accettano come padrone solo una persona. Te!".
Daisy
si eccitò a quelle parole. "Davvero?".
"Davvero...
Ma gli altri, la tua mamma e i tuoi fratelli, sarebbero in
pericolo... Per un orso sarebbero prede e li attaccherebbe e li
mangerebbe. Vuoi davvero che succeda una cosa così? Rimanere
sola?".
Daisy
spalancò gli occhi, spaventata davanti a
quell'eventualità. "Sola?
Ma anche senza Demian? Io non posso stare senza Demian, è il
mio
gemello! Dove c'è lui ci sono anche io e se l'orso se lo
mangia,
come faccio?".
Ross
gli strizzò l'occhio. "Devi scegliere. Lasciare gli orsi
quì
oppure portarne uno a casa e rimanere senza gemello. Chi vuoi, l'orso
o Demian".
Daisy
ci pensò su qualche secondo di troppo rispetto a quelli
preventivati
da Ross, ma poi annuì, sconsolata. "Demian! Lui è
sempre con
me e sarà sempre con me. Se ci sono io c'è anche
lui, se lui non
c'è non ci sono più nemmeno io. Per sempre...".
Ross
non capì appieno quel concetto ma percepì che
questo tipo di legame
intercorso fra i gemelli era davvero un qualcosa di unico ma che
Demelza avrebbe dovuto spezzare prima o poi. Dovevano imparare a
pensare da singolo, da persone separate. Non erano un'unica
entità
ma due persone diverse che avrebbero dovuto condurre vite diverse.
Non che fosse il migliore dei padri o degli educatori ma gli appariva
davvero stonato quel modo di pensare di Daisy che, seppur molto
indipendente, sembrava faticare nel vedersi separata dal fratello.
La
voce di Demelza e dei bambini dietro di loro li fece voltare,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Jeremy sembrava
più di
buon umore, come Clowance e i due piccoli contendenti di Demelza che,
uno preso per mano da un lato e uno dall'altro, si dividevano la loro
principessa.
Demelza
rimase di stucco vedendo che teneva in braccio Daisy. "Non ha
mai amato essere presa in braccio... Come hai fatto?".
Ross
strizzò l'occhio alla piccola, rimettendola a terra. "Basta
guardarli nel modo giusto e col giusto fascino e cadono come
birilli".
Clowance
rise, osservandolo incuriosita. "Signor Poldark, voi lavorate
davvero con mio zio?".
"Sì,
in Parlamento".
"Siete
nobile?".
"Un
nobile di campagna".
Clowance
divenne pensierosa a quella risposta, prima di voltarsi verso sua
madre. "Mamma, i nobili di campagna sono nobili come quelli di
città?".
Ross
sospirò, rispondendo al posto di Demelza. Clowance era una
lady e
sicuramente lo guardava e giudicava dall'alto in basso e non aveva
voglia di dirle qualcosa che la ferisse o contrariasse. Era cresciuta
in quell'ambiente e doveva accettarlo e quindi, perché non
dirle ciò
che voleva sentire? "Ovviamente no! I nobili di città son
più
nobili di quelli di campagna".
La
piccola emise un sospiro di sollievo ma Demelza non fece altrettanto.
Lo guardò contrariata da quella risposta che evidentemente
non aveva
gradito. Ross pensò che fosse sul punto di dire qualcosa,
che lo
volesse davvero ma vista la presenza dei bambini, alla fine lei si
trattenne.
I
piccoli si misero a guardare gli orsi e Demian rimase fisso a
osservare la madre coi cuccioli. "Bella! Mamma orsa!".
Valentine
annuì. "Tutte le mamme sono belle, anche le mamme orse!".
Jeremy
rise e Demian si avvinghiò a Demelza. "La mia mamma
è la più
bellissima di tutte".
Valentine
osservò Demelza con aria sognante ma poi aprì
bocca, dicendo
qualcosa che fece gelare il sangue nelle vene di Ross e, forse, anche
di Demelza. "Anche la mia lo era! Papà dice che era la
più
bella del mondo".
Lo
disse con naturalezza, com'era ovvio che fosse per un bambino che
idolatrava una madre mai conosciuta, lo disse spinto dai racconti di
Ross su di lei perché non poteva dirlgi la
verità, non poteva
dirgli che era nato per errore e che lui e sua madre avevano finito
per odiarsi dopo che da giovani si erano amati, non poteva dirgli che
la sua nascita gli aveva rovinato la vita, la sua e quella delle
persone presenti in quella gita. Non poteva dire a Valentine la
verità e in quegli anni, ogni volta che gli aveva chiesto di
Elizabeth, aveva fatto con lui come poco prima con Clowance: aveva
detto ciò che Valentine e ogni bambino al mondo desiderano
sentirsi
dire, ciò di cui suo figlio aveva bisogno.
Demelza
però si irrigidì e per un attimo voltò
lo sguardo di lato, tanto
che Ross non potè vedere la sua espressione per alcuni
secondi.
Quelle parole l'avevano ferita e colpita, lo sapeva, lo percepiva a
pelle e sapeva quanto dolore potevano aver risvegliato in lei. I
gemelli e i bambini non si accorsero di nulla, lei rimase zitta ma
lui percepì nelle ossa un incredibile gelo e il peso del
tanto
dolore che lei, a causa di Elizabeth, aveva vissuto sulla sua pelle,
il senso di inadeguatezza che lui non aveva mai avuto tempo di
curare, le tante parole non dette quando poteva, parole che le
avrebbero fatto capire che per lui non esisteva altro che lei.
Avrebbe
voluto spiegare, se fossero stati soli lo avrebbe fatto e l'avrebbe
costretta ad ascoltare, ma non poteva. E allora sperò
semplicemente
che lei capisse cosa ci fosse dietro a quelle parole.
Dopo
alcuni istanti Demelza prese un profondo respiro, tornando padrona di
se. Sorrise, in modo tirato, ma sorrise. "Su, salutate questi
famosi orsi!" - disse ai bambini che erano arrivati con lei.
Daisy
le si avvicinò, sospirando. "Mamma, non posso tenerlo a
casa".
"Come
lo hai capito?" - chiese lei, stupita.
"Il
signor Poldark mi ha detto che non si può e
perché... Non lo voglio
l'orso, fa niente, lo lasciamo quì".
Demelza
osservò Ross a bocca aperta, chiedendosi come diavolo avesse
fatto a
convincerla e lui ringraziò Dio e Daisy per averla distratta
dal
discorso di poco prima.
"Le
ho solo detto che è pericoloso..." - disse lui.
Jeremy,
seguito da Demian e Valentine, andò avanti e indietro dalla
gabbia,
osservando l'enorme belva. "Mamma, ma potremmo noleggiarlo?!".
"Per
cosa?".
"Per
la festa di compleanno di Clowance! Almeno si mangia Catherine e le
altre stupide sue amiche".
Demelza
lo fulminò con lo sguardo, Clowance gli diede una spinta che
fece
ridere i gemelli e Valentine ma Ross si trovò gelato, ancora
una
volta. Il compleanno di Clowance era a novembre, fra poche
settimane... E lui li aveva persi tutti... La sua nascita, i suoi
primi passi, le prime parole, il calore del suo corpicino fra le sue
braccia, come aveva sentito poco prima quello di Daisy, le
chiacchiere, tutto... Avrebbe compiuto sette anni, sette anni in cui
non c'era mai stato. Ricordò i giorni terribili della sua
nascita e
tutti gli errori commessi che avrebbe potuto evitare... Aveva perso
tutto allora, infranto ogni promessa e si era dimostrato il
più
piccolo e abietto fra gli uomini. Quanto doveva aver sofferto
Demelza? Sola, con due bimbi piccoli e un uomo che non era mai
tornato... La guardò, le chiese scusa con lo sguardo ma gli
occhi
della donna che amava erano nuovamente di ghiaccio. Distolse lo
sguardo da lui, avvicinandosi a Clowance. "Su, non ti
arrabbiare, Jeremy scherza e dopo il discorso che gli ho fatto prima
davanti alla gabbia delle scimmie, sono felice che lo faccia! Anche
se fa lo stupidino!".
Jeremy
rise mentre Ross, ancora turbato da tante cose, si chiedeva cosa si
fossero detti.
Clowance
si mise le mani sui fianchi. "Niente maschi e niente orsi alla
mia festa! Solo le mie amiche! Vero mamma?".
"Vero,
è la tua festa e la fai come vuoi".
Jeremy
pareva contento della cosa. "Evviva! Niente festa, niente
bambine vestite da stupide, niente bambole, NIENTE CATHERINE! Oggi in
fondo è una bella giornata!".
Clowance
lo spinse di nuovo e Demelza andò a dividerli. "Su, non
serve
litigare! Tu avrai la tua festa e di sera andremo insieme, solo io e
te, a teatro. Come mi hai chiesto".
Fu
la volta di Ross ora, di girare il viso. Avevano organizzato una
festa per Clowance e ovviamente lui non era stato invitato. Non ci
avrebbe mai nemmeno sperato ma sentirlo dalle sue orecchie, sentire
come in nessun modo fosse ritenuto uno di famiglia, uno che doveva
esserci al compleanno di sua figlia, faceva male. Guardò il
cielo e
da padre, decise che l'unica cosa che potesse sperare era che
Clowance avesse un bellissimo compleanno, come più voleva e
con chi
amava.
Valentine
però sembrava di nuovo incuriosito. "Festa? Fate una festa?".
Clowance
annuì. "Ne avremo un sacco, da ora! La mia a novembre, la
festa
da bambini piccoli per i gemelli a dicembre e poi...". Lei,
Jeremy e i gemelli si guardarono in faccia, divennero rossi
dall'eccitazione e poi risero, come se condividessero un grande
segreto che li univa più di quanto non fossero
già e faceva sentire
estranei gli altri.
Anche
Demelza rise, intuendo a cosa si riferissero. "Poi c'è la
festa
della Vigilia di Natale... Ho in mente grandi cose per quest'anno".
"Anche
noi!" - ribattè Demian, orgoglioso. "Vedrai mamma, ti
faremo una sorpresa bellissimissima quest'anno".
"Shhh"
– lo zittì Jeremy.
Il
piccolo si mise la manina davanti alla bocca. "Ops".
Valentine
a quel punto però era ancora più incuriosito da
quel mondo e quelle
usanze a lui tanto sconosciute. "Che succede la sera di
Natale?".
Demelza
gli sorrise. "Beh, noi organizziamo feste di Natale magiche! La
nostra casa diventa una specie di villaggio di Natale con tante luci,
torce, addobbi di mille colori e candele. E festeggiamo con i nostri
amici sorseggiando cioccolata, giocando insieme ed aspettando che
Babbo Natale arrivi di notte a portare i dolci e i doni ai bambini
buoni".
"Chissà
io quanti regali, quest'anno!" - intervenne Daisy, guadagnandosi
un'occhiataccia di sua madre e facendo ridere nuovamente Ross.
Valentine
però non rise e rimase assorto ad osservarla con gli occhi
lucidi.
"Oh, dev'essere bellissimo. Sei magica Demelza, mi sa. Io a casa
mia mica le faccio queste cose a Natale!".
"Noi
sì, sempre!" - intervenne Jeremy. "Vieni anche tu, dai!
Col tuo papà, come oggi!".
Demelza
spalancò gli occhi e lo stesso fece Ross. I bambini, prima
Valentine
e ora Jeremy, li stavano mettendo in una situazione difficilissima.
"Ehm,
no! Ti ringrazio Jeremy ma non vogliamo disturbare, è una
festa di
famiglia e fra amici".
"E'
una festa di Natale" – puntualizzò Daisy,
aggrappandosi alla
sua mano. "Dai signor Poldark, vieni! Ti faccio vedere tutte le
palline di vetro dell'albero! Tu sei grande, puoi anche toccarle
senza romperle, io non posso invece".
Demelza
rimase nuovamente stupita dalla reazione di Daisy a cui si aggiunse
subito quella di Valentine. "Dai papà, possiamo? Demelza,
possiamo?".
E
lei capitolò, nuovamente. Non sarebbe mai riuscita a dirgli
di no e
Ross lo sapeva. E sapeva anche che, di nuovo, la stava mettendo in
una situazione difficile. "Non insistere Valentine, non possiamo
andare così, come nulla fosse, in casa delle persone a
Natale".
Ma
Demelza lo bloccò, cercando di fare violenza su se stessa
per
apparire accogliente e gentile. "Ci farebbe piacere avervi con
noi, Valentine. Ci saranno tanti bambini e ti divertirai, ne sono
sicura".
Valentine
rise e saltò dalla contentezza, alla faccia delle sue
gambette
ancora deboli. Anche i gemelli e Jeremy sembravano contenti mentre
Clowance aveva un pò il muso. "Un altro maschio? Pure a
Natale?".
"Clowance!"
- la rimbeccò Demelza. "Siete in vantaggio! Ci sarai tu,
Emily
Basset, Daisy, Catherine, sua sorella Jane... E Sophie Enys, anche se
ancora è piccola e non la vuoi contare fra le tue amiche. I
maschi
sarebbero stati solo in tre: Jeremy, Demian e Gustav. Che male
c'è
se arriva un bambino in più?".
Valentine
sembrava eccitato. "Emily Basset? C'è pure lei?".
Demelza
annuì. "Certo, viene a casa nostra ogni anno per Natale,
assieme alla sua famiglia".
Valentine
abbracciò suo padre per la contentezza, era felice, felice
veramente. E Ross sapeva che sarebbe stata una serata che mai avrebbe
dimenticato... "Va bene" – fu costretto infine, a dire.
"Evviva!".
Contenti,
i bimbi corsero a giocare nuovamente vicino alla gabbia degli orsi,
facendo baccano e disturbando il sonno dei due cuccioli.
E
rimasti momentaneamente soli, Ross si avvicinò a lei.
"Dovevi
dire di no, non sei obbligata a sopportarci anche a Natale".
Demelza
guardò i cinque piccoli che si rincorrevano. "E' un
bambino...
E per metà ha lo stesso sangue di Jeremy e Clowance, che
dovevo
fare? E' una festa, è Natale e a Natale bisognerebbe aprire
i nostri
cuori. Sento che è la scelta giusta ed è una
festa piena di amici,
sarà piacevole in fondo. So che con Dwight le cose vanno
meglio e
conosci sia Lord Basset che Falmouth. Lo troverai piacevole e forse
ti piacerà pure, anche se non hai mai amato troppo questo
genere di
cose".
"Perché
lo fai?" - insistette.
"Non
me lo chiedere, per favore..." - disse lei, in un soffio.
Ross
chinò il capo. "Grazie... E per prima...".
Lo
sguardo di Demelza si indurì. "A cosa ti riferisci?".
Lo
chiese ma Ross sapeva benissimo che aveva capito. "Le cose che
Valentine ha detto di Elizabeth. E' sua madre e io cerco di
dirgli...".
Lei
lo bloccò, come faceva sempre quando lui cercava di riaprire
il
passato. "Gli dici quello che ogni uomo dice della donna che
ama, la madre dei suoi figli. Anche Hugh diceva cose così su
di me,
l'amore rende bella ogni cosa amata".
"Non
è come pensi!" - cercò di spiegarle.
Ma
lei non lo ascoltava già più. Gli
voltò le spalle, si allontanò e
raggiunse i bambini, decisa a proseguire in modo sereno quella
giornata con loro.
E
Ross rimase fermo a chiedersi come diavolo avrebbero fatto ad
affrontare insieme il Natale, una festa che per loro in passato aveva
significato tanto e in cui erano racchiusi i loro ricordi
più belli.
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Capitolo 45 *** Capitolo quarantacinque ***
La
domestica le portò il suo abito per la sera, di seta rossa,
come si
conveniva per una festa di Natale. Demelza lo indossò,
guardandosi
allo specchio in un misto di emozione e nervosismo. Sarebbe stata una
grande festa di famiglia fra parenti e amici, assiema a coloro che in
quegli anni aveva imparato ad amare e che erano diventati il suo
mondo. Ma per la prima volta ci sarebbe stato qualcuno che arrivava
dal suo mondo 'di prima', quel mondo che aveva lasciato con dolore e
che da qualche parte della sua anima gridava per tornare a vivere in
lei e attorno a lei.
Non
era contenta della presenza di Ross ma allo stesso tempo sapeva che
il fatto che lui ci fosse e che Valentine stesse in compagnia e
vivesse una festa vera, fosse la cosa giusta da fare. Era stato
così
contento quando i suoi figli lo avevano invitato e anche se aveva
letto in Ross esitazione e preoccupazione per ciò che
avrebbe potuto
essere, lei non aveva saputo dire di no. E anche Ross aveva dovuto
cedere, alla fine. I loro sentimenti, i loro sensi di colpa e il
dolore che si portavano dietro non potevano ricadere sui piccoli
innocenti con loro e Demelza non avrebbe mai permesso che succedesse
il contrario, né per i suoi figli, né per
Valentine. I bambini
cercano da sempre la compagnia di altri bambini ed era giusto
così.
E poi Demelza non riusciva a non pensare a quanto fossero legati,
nonostante ne fossero all'oscuro, quei fratelli cresciuti l'uno
lontano dagli altri.
In
quelle settimane la sua casa era diventata un vero villaggio di
Natale, addobbata in armonia coi suoi figli e coi domestici in un
clima di attesa e armonia. I bimbi avevano abbellito i corridoi con
festoni dorati, argentati e rossi che, sotto alla luce delle candele,
donavano a posti solitamente silenziosi e bui, un alone magico dove
tante luci si riflettevano sui muri al passaggio, di sera. Un grosso
albero di Natale era stato allestito nel salotto, pieno di lanterne e
palle di Natale pregiate, di fine vetro soffiato di mille colori che
Falmouth ed Alexandra avevano fatto arrivare dalla laguna di Venezia
e ovunque, su ogni porta e ad ogni angolo, c'erano altri addobbi
colorati che richiamavano il Natale. Nella grande sala da pranzo
avevano allestito un enorme Presepe anche se spesso Garrick e Fox si
erano divertiti a rubare le statuine e a correre per casa tenendole
fra i denti, come in un divertente gioco dove domestici, bambini e
famiglia li inseguivano per farseli restituire.
Il
camino era stato abbellito con addobbi composti da rami di abete,
pigne, lanterne e nastri rossi e quando il fuoco era acceso, la sera,
i bimbi ci si mettevano davanti a raccontarsi storie e a giocare
prima di andare a letto.
Per
la cena di quella sera di Vigilia, si era scelto un menù
senza
piatti troppo elaborati che i più piccoli non avrebbero
gradito, era
stata acquistata una montagna di cioccolata da fondere e bere insieme
chiacchierando dopo cena e Demelza aveva pagato un uomo anziano del
centro dei poveri per arrivare a sorpresa, vestito da Babbo Natale,
poco prima di mezzanotte, con un grosso sacco pieno di dolcetti e
cioccolatini da distribuire ai bambini presenti. I regali veri
sarebbero stati aperti la mattina successiva, ognuno a casa propria,
ma la sera di Natale Demelza aveva voluto organizzare comunque
qualcosa di magico e speciale per i piccoli, con la
complicità di
Jeremy che ormai non credeva più a quella fiaba di Natale.
Nel
giro di poche ore sarebbero arrivati tutti, pensò Demelza
mentre si
preparava. Ci sarebbero stati Dwight e Caroline con la piccola Sophie
che sarebbe stata, in quanto neonata, la star della festa proprio
come lo furono quattro anni prima i gemelli appena nati, Gustav con i
suoi genitori, Catherine e la sua sorellina Jane, una piccola
pestifera di due anni che, a vivacità, faceva concorrenza a
Demian e
Daisy, Margarita ed Edward, la famiglia Basset con la piccola Emily e
ovviamente Lord Falmouth e nonna Alix. Non sarebbe stata una festa
come le altre, sfarzose e fredde, che si celebravano nelle grandi
case della Londra-bene attorno a loro, al contrario sarebbe stata una
festa gioiosa ed informale, fatta coi bambini e a misura di bambino,
tradizione nata da lei e Hugh e proseguita negli anni con successo.
Anche Lord Falmouth ormai amava più quello stile di vita
rispetto a
quello aristocratico e pieno di etichette tenuto fino al suo arrivo e
tutti insieme avevano imparato a vivere il Natale come una famiglia
e non col blasone del loro casato.
Dal
giorno allo zoo, Demelza non aveva più incontrato Ross. Gli
aveva
fatto recapitare un formale invito per la festa di Natale con una
lettera e lui aveva risposto, sempre via lettera, che sarebbe venuto,
ma non si erano più visti da allora. Spesso Londra sapeva
essere sia
troppo piccola che troppo grande, per chi desiderava vedersi o
evitarsi...
Ma
Demelza aveva deciso di mantenere fede stavolta alla promessa fatta a
Valentine e quindi aveva mandato l'invito, scritto assieme ai suoi
bambini. E andava bene così...
In
quel mese e mezzo erano successe tante cose in casa. Clowance aveva
compiuto sette anni e aveva avuto la sua festa con tutte le sue
migliori amiche, come la voleva lei. E di sera, insieme, da madre e
figlia e anche da amiche come sarebbero state di lì a
qualche anno,
erano andate a teatro a vedere una commedia per bambini a cui
Clowance desiderava assistere.
Anche
i gemelli, pochi giorni prima di Natale, avevano compiuto gli anni.
Quattro... Crescevano in fretta anche se quell'anno in più e
lo
spirito del Natale imminente non li avevano resi né
più tranquilli
né meno combina-guai. Daisy continuava a dire parolacce e
bugie, a
sfuggire alle regole e a toccare le palle dell'albero di Natale.
Nonostante i divieti erano un richiamo irresistibile per lei e ci
girava sempre attorno. Ne aveva già rotte alcune e alla fine
Prudie
le aveva dato delle sculacciate sulle manine che però non
avevano
sortito effetto alcuno. Anche Demian era attratto dall'albero di
Natale, ma in lui prevaleva il suo spirito di scalatore e spesso i
domestici avevano dovuto fermarlo dalle sue arrampicate in salotto
prima che cadesse e si facesse male, ribaltandosi con l'albero. Anche
lui era stato rimproverato più volte e anche lui continuava
a non
ascoltare, facendo come meglio voleva appena non era guardato a
vista.
Però
erano adorabili e spesso, coi fratelli più grandi, si
chiudevano in
soffita a preparare non si sapeva quale sorpresa per lei da darle la
notte di Natale. Demelza non aveva idea di cosa avessero organizzato
ma doveva essere qualcosa di estremamente impegnativo visto il tempo
che ci stavano impiegando per giungere a un risultato. Avevano
coinvolto anche Gustav e Catherine e Demelza pensava, sorridendo, a
quanta strada Jeremy avesse fatto da quel primo bigliettino di auguri
che tanti anni prima le aveva regalato per Natale, fatto con l'aiuto
di Hugh.
Hugh
e Ross erano stati pensieri costanti in quel periodo di compleanni.
Ross ovviamente non poteva partecipare a quello di Clowance e anche
se riteneva fosse la naturale conseguenza delle sue azioni e scelte
passate, Demelza non poteva non provare tristezza pensando che per i
compleanni di sua figlia, lui non c'era mai stato. E mai avrebbe
potuto esserci, forse... Le si spezzava il cuore... Per lui e anche
per Clowance... Lei non sapeva, non poteva capire... Ma suo padre era
lì vicino e avrebbe potuto vivere con lei le tappe
più importanti
della sua vita, se... se...
E
Hugh... Hugh avrebbe amato veder crescere i suoi gemellini, avrebbe
adorato e trovato divertene il loro modo di fare e la loro
vivacità,
il loro essere così biricchini e canaglie, la loro dolcezza,
il loro
modo unico di scoprire il mondo e guardarlo con quegli occhi magici e
incantati di ogni bimbo ancora piccolo che in fondo Hugh non aveva
mai perso nemmeno crescendo. Nemmeno lui c'era e per lui non ci
sarebbe mai stata possibilità d'appello. Ed era duro da
accettare
pure quello...
Finì
di mettersi il vestito, indossò un ciondolo con un fine
corallo
rosso ad ornarlo e poi lasciò che per una sera i suoi
capelli
rimanessero liberi e sciolti come una volta.
Poi
guardò i bambini che si stavano a loro volta vestendo,
aiutati da
Prudie. Clowance e Daisy avevano dei vestitini rossi come il suo,
scarpine di vernice rosse, nastro rosso fra i capelli e calzine
bianche. Sembravano due bamboline...
Demian
una salopette con gli immancabili pantaloni corti, in fantasia scozzese
rossa e blu, camicina bianca e golfino grigio mentre Jeremy
indossava una camicia bianca e dei pantaloni lunghi fin sotto il
ginocchio, rossi e di seta. Erano bellissimi e decisamente eccitati e
pronti per il Natale.
Tese
loro la mano. "Su, scendiamo! A breve arriveranno i nostri
ospiti!".
...
Ross
era già stato diverse volte nella grandissima ed elegante
dimora dei
Boscawen ma sempre nel lato del palazzo di Lord Falmouth. Mai aveva
avuto accesso all'ala della casa di proprietà di Demelza e
dei
bambini e quella sera, quando arrivò per la cena della
Vigilia con
Valentine, si trovò ad osservare tutto a bocca aperta con la
stessa
meraviglia con cui suo figlio guardava ciò che lo circondava.
La
casa di Demelza era bellissima, elegante, arredata con buon gusto e
rispetto alle stanze di Falmouth, più fredde ed austere,
sembrava
trasudare calore e senso di famiglia. Si percepiva solo respirando
che lì vivevano una donna e dei bambini e che la loro
quotidianità
veniva vissuta in armonia e in modo allegro. Tutto era in ordine e
allo stesso tempo informale, tutto era elegante ma lasciava in chi
guardava una sorta di buon gusto per le cose semplici e... ed era
casa.
Ross
deglutì perché entrando in quelle stanze e saloni
eleganti a lui
tanto sconosciuti, pieni di ornamenti natalizi, si trovò a
provare
le stesse perdute sensazioni di tanti anni prima quando tornava a
casa da Demelza dopo una dura giornata in miniera e veniva accolto
dalla... famiglia...
Già,
famiglia... Era incredibile pensare che la donna che amava e i suoi
bambini vivessero lì, in quel mondo tanto lontano da quello
che li
aveva visti nascere e che avevano condiviso.
Appena
dentro, una domestica prese il suo soprabito e la mantellina di
Valentine e Ross si trovò immerso in un caldo ed accogliente
salone.
Il maggiordomo chiese loro di seguirli verso il salone principale e
Ross vi si accodò tenendo un eccitato Valentine per mano.
Percorsero
un lungo corridoio pieno di quadri antichi e di valore, camminando su
morbidi tappeti di fattura persiana, osservando gli addobbi di Natale
che, alla luce delle candele, riflettevano sul muro mille lucine
danzanti, entrambi col cuore gonfio per mille ragioni diverse.
"E'
una casa magica, papà!" - sussurrò Valentine, con
la manina
stretta nella sua che tremava dall'emozione.
E
Ross si trovò d'accordo, né Nampara né
il loro appartamento di
Londra avevano mai regalato al bimbo un ambiente del genere.
Si
sentiva un pò a disagio, anche se conosceva gran parte degli
invitati. Sapeva che non avrebbe dovuto trovarsi lì e che
Demelza
avrebbe volentieri fatto a meno di lui per quella serata in famiglia
e fra amici, ma allo stesso tempo era grato a Valentine che aveva
reso possibile tutto ciò. Era un mese e mezzo che non vedeva
Demelza
e i bambini e sentiva la loro mancanza ancora di più di
quanto non
l'avesse avvertita in quei sei anni da solo a Nampara.
In
lontananza si sentì un allegro vociare proveniente da un
grande
salone illuminato dove dovevano essere già arrivati gran
parte degli
ospiti e d'un tratto Dwight, con Caroline, uscirono nel corridoio.
Ross
li guardò, felice di vedere una faccia amica in quel momento
dove si
sentiva estremamente in imbarazzo.
Dwight
gli sorrise gentilmente e Caroline, bella ed elegante come Ross la
ricordava, per un attimo parve sorpresa ma poi sorrise, come il
marito.
"Capitano
Poldark, quando Dwight mi ha detto che eravate quì e che
avreste
partecipato a questa festa, non volevo crederci! Piccolo il mondo"
– disse in modo civettuolo, porgendogli la mano per farsela
baciare.
Ross
fece il baciamano, pensando a quanto lei fosse brava a dissimulare i
dolori che la vita le aveva riservato, usando il sarcasmo come arma
per difendersi. In fondo non erano molto diversi, lui e lei... "E'
un piacere vederti, Caroline".
"Anche
per noi" – disse Dwight.
Sentendoli
parlare, dalla porta del salone comparve improvvisamente Demelza e
come già era capitato altre volte, lasciò Ross a
bocca aperta.
Indossava un meraviglioso abito di seta rossa che le fasciava il
petto e la vita e che scendeva elegantemente sulle sue gambe,
valorizzandone il fisico asciutto e perfetto, era seducente,
bellissima e la indiscussa regina della casa.
Lei,
attorniata da servitori che andavano e venivano dal salone, appena lo
vide abbozzò un sorriso di saluto. Un sorriso perfetto, da
perfetta
padrona di casa, cordiale ma che a Ross parve freddo. Sembrava
imbarazzata e non poteva essere diversamente. "Benarrivati"
– disse.
"Ciao
Demelza". Valentine le corse incontro, salutandola festante e
aggrappandosi alla sua mano. "Hai una casa bellissima, è
tutto
magico!".
Lei
gli strizzò l'occhio. "Te l'ho detto che lo sarebbe stata!
Merito dei miei bambini che l'hanno decorata e son mesi che ci
lavorano". Poi guardò verso il salone, chiamando Jeremy e il
bambino in un attimo fu lì, assieme a tutti gli altri.
E
Ross e Valentine si trovarono circondati da bambini vestiti con
abitini natalizi, urlanti e festanti. C'erano i quattro bimbi di
Demelza, vestiti in tinta come lei, Emily Basset che si
esibì in un
caloroso saluto a Valentine, Gustav, Catherine e una bimbetta dalla
faccia pestifera più piccola dei gemelli di un paio d'anni
che lui
non conosceva.
Jeremy
prese Valentine per mano, attirandolo verso di se. "Ti
aspettavamo, noi maschi avevamo bisogno di rinforzi!".
"JEREMY"
– lo sgridò Demelza.
Ma
Jeremy non si fece intimorire. "Troppe femmine e troppo pochi
maschi. Vieni Valentine".
Demelza
lo richiamò all'ordine, insieme agli altri. "NON-LITIGATE!".
E
a quel punto, Catherine sorrise maliziosamente, avvicinandosi a
Jeremy che, appoggiato alla parete, non si era accorto di essere
finito sotto una delle foglie di vischio messe ad ornamento. "Non
vogliamo litigare, Lady Boscawen! Vogliamo volerci bene".
Jeremy
la guardò storto, osservò la sua posizione e
resosi conto del
pericolo, si spostò subito. "Ohhh, non ci pensare proprio!".
Ross,
che non ci capiva nulla, osservò il suo bambino in cerca di
spiegazioni. "Che succede?".
Nonostante
le occhiatacce di Demelza, Jeremy mantenne la sua posizione. "E'
pericoloso il vischio, signor Poldark! SOPRATTUTTO A NATALE! Non lo
sapete?".
"No...".
Catherine
prese Jeremy per mano e poi tentò di abbracciarlo. "Non
è
pericoloso, è bellissimo a Natale! Quando due si amano,
è
tradizione darsi un bacio se ci si trova sotto il vischio, signore! E
tu sei quì e adesso mi baci, Jeremy".
"Ma
neanche morto".
"Dai..."
- piagnucolò la bimba.
Demelza
sospirò, Clowance picchiò i piedi per l'ennesimo
rifiuto occorso
alla sua amica e a Ross, agli Enys e agli altri bimbi venne da
ridere.
Caroline
osservò Catherine. "Sa cosa vuole e sa chiedere ed esigere!
Insisti, prima o poi cede".
"NOOOO"
– urlò Jeremy.
"Almeno
dammi la mano" – implorò Catherine.
"Perché?".
"E'
Natale!".
Jeremy
si allontanò da lei, una specie di fuga che lo
portò a nascondersi
dietro a Gustav che forse stava meditando l'ennesimo assalto a
Clowance usando la scusa del vischio.
"Jeremy!"
- piagnucolò Catherine.
Lui
si imbronciò. "E' Natale ma sai camminare da sola pure se
è
festa!".
Demelza
a quel punto intervenne in maniera più incisiva. "Basta, ora
da
bravi ve ne andate a giocare dove eravate prima. SENZA LITIGARE!".
"E
senza baciarci!" - aggiunse Jeremy con aria di sfida, prima di
ubbidire e sparire nel salone.
I
bimbi grandi corsero via mentre i gemellini e la piccoletta che Ross
ancora non conosceva, si attardarono a vedere il nuovo arrivato.
Daisy
gli fece un enorme sorriso. "Ciao signor Poldark! Ben arrivato,
dopo vieni a vedere il mio albero?".
"Certo".
La
piccoletta coi gemelli, a Ross sconosciuta, balzò su Demian,
stampandogli un bacio sulla guancia. E Ross scoprì che si
trattava
della sorellina di due anni di Catherine, Jane, decisamente
più
svelta e furba della sorella, che prendeva senza chiedere.
Daisy
rise come una matta e Demian, schifato come se gli avessero spalmato
addosso dello sterco, corse da sua madre e si lavò la
guancia
strofinandola sul suo vestito rosso. "Che schifo!!!" -
piagnucolò, strappando un sorriso a Ross. Santo cielo, ai
maschietti
di quella casa era il caso di spiegare qualcosa...
Sospirando
esasperata, Demelza spinse via tutti e tre in tono perentorio e
tornò
la pace. "I bambini sono agitatissimi stasera, anche i grandi,
dovrai preparati a sentire un pò di baccano e ad assistere a
parecchie scene come questa. Quì è la norma,
soprattutto a Natale.
Su, andiamo nel salone, gli altri son già tutti arrivati".
Caroline
sorrise maliziosa, dando un bacio a Dwight sulle labbra. "Adoro
questa tradizione del vischio e se pure i piccoletti la seguono,
perché noi non dovremmo farlo? A te non piace, Demelza?".
Lei
si accorse del tono volutamente frivolo di quella domanda posta
davanti a Ross e per un momento arrossì. "No, io sono come
Jeremy, non amo le cose fatte per forza, soprattutto i baci"
–
rispose, in tono fermo e deciso.
Ross,
in modo malizioso, diede un'occhiata al vischio e poi lei che cercava
di fare la dura e tenere le debite distanze. Avrebbe imparato un
sacco di cose quella sera... Come addobbare una casa per Natale, come
tener buoni una mandria di bambini scalmanati, com'era un albero
addobbato e tante belle ed interessanti tradizioni... Sì, il
vischio
era una cosa che gli piaceva, decise. E forse un giorno sarebbe
piaciuta anche a Jeremy...
Seguì
Demelza nel grande salone e si accorse che erano ormai tutti
già lì.
Le donne stavano sul divano a chiacchierare fra loro, vestite con
abiti rossi e dorati oppure verdi, i bambini giocavano nel salottino
adiacente adibito a camera dei giochi e facevano baccano mentre Lord
Basset e Lord Falmouth discutevano amabilmente seduti a un tavolino,
accanto a quello che doveva essere l'albero di Natale. C'erano anche
i due sposini il cui matrimonio gli aveva permesso di rivedere
Demelza l'estate precedente, seduti su un divanetto a chiacchierare
fra loro mangiando cioccolata calda, che furono raggiunti poi da
Caroline e Dwight dopo che quest'ultimo era andato a recuperare sua
figlia dalle braccia di Lady Basset che se la cullava fra le braccia.
Ross sentì il cuore intenerirsi nel vedere quella bimba
bellissima
come una bambola, bionda come sua madre e perfettamente a suo agio in
mezzo a tutte quelle persone, come se la vita mondana facesse parte
già di lei, fra le braccia di suo padre. Era felice per
Dwight e
vedere il suo sguardo innamorato mentre guardava sua figlia e se la
stringeva a se, riempiva di serenità Ross e allo stesso
tempo feriva
il suo cuore. Lui non aveva mai tenuto in braccio a quel modo i suoi
figli ed eccetto Julia, aveva perso ogni cosa di loro.
Guardò Dwight
e per un attimo desiderò essere lui per provare quelle
emozioni che
si era precluso da solo e che mai nessuno gli avrebbe restituito.
Lanciò un'occhiata alla camera di fianco dove giocavano i
bambini e
per un attimo rimase a guardare Clowance, rendendosi conto che non
l'aveva mai nemmeno tenuta per mano e che da idiota non era corso a
conoscerla quando era nata e lei aveva bisogno di lui. E poi
tornò a
guardare Dwight, decisamente un uomo migliore di lui, che non si era
rifugiato nel dolore rinnegando se stesso e i suoi affetti ma anzi,
aveva lottato per tenere accanto a se chi amava, venendo premiato con
quel bellissimo dono chiamato Sophie.
E
poi distolse lo sguardo, concentrandosi sul grande abete addobbato
davanti a lui. Ross rimase ad osservarlo con la stessa
incredulità
di un bambino. Non aveva mai visto nulla del genere, mai avrebbe
immaginato che un semplice abete potesse diventare magico e abbellire
un salotto, diventando il simbolo del Natale.
Demelza
si accorse della sua sopresa e stranamente sorrise davanti alla sua
espressione incredula. "Tannenbam".
"Cosa?"
- chiese, ricordandosi che aveva già sentito dire quella
parola in
giro e che l'aveva pronunciata anche il piccolo Demian durante il suo
incontro segreto con Prudie al parco. Ma non ne conosceva il
significato...
Demelza
si affrettò a spiegargli, con la cordialità di
una perfetta padrona
di casa. "Nei regni tedeschi lo chiamano così, Tannenbaum.
Albero di Natale... Decorano, da tradizione, un abete nel periodo
natalizio. Con candele, luci, addobbi colorati... E attorno ad esso,
la famiglia aspetta il Natale. E' una tradizione radicata da loro ma
da noi ancora sconosciuta anche se forse chissà, fra qualche
anno
potrebbe diventare famosa pure quì. Fu Hugh a parlarmene, ne
venne a
conoscenza durante un suo vecchio viaggio in Baviera prima che ci
conoscessimo e l'idea mi piacque talmente tanto che insieme decidemmo
di farla diventare una nostra tradizione. I bambini ne furono
entusiasti e da allora, ogni anno, in questa casa durante l'Avvento
se ne fa uno".
Ross
deglutì, non sapendo cosa rispondere. Quando Demelza parlava
con lui
di Hugh, lo faceva con una naturalezza e una tranquillità
che lo
ferivano. C'era un tono di affetto nella sua voce, nei suoi ricordi
per lui e soprattutto, c'erano racconti di due persone che avevano
saputo costruire una famiglia unita e che nel poco tempo a loro
disposizione avevano creato delle tradizioni, dei bei momenti e dei
ricordi rimasti indelebili in chi era rimasto. Lui non aveva mai
fatto nulla del genere, mai si era soffermato a pensare a cose che
riteneva futili e di poca importanza ma osservando quell'albero,
l'atmosfera gioviale di quella casa, il calore di quella famiglia e
di quelle persone amiche riunite attorno ad esso, si rese conto di
aver sbagliato. Sarebbe bastato poco, non era necessario un grosso
abete decorato con addobbi preziosi ma anche una semplice cena tutti
insieme, dei giochi sul pavimento coi bambini che aspettavano la
notte più magica dell'anno, fare qualcosa di speciale con la
donna
che amava... Qualcosa, qualunque cosa. Non aveva mai fatto nulla di
davvero speciale con e per la sua famiglia e in fondo la spiegazione
che avesse cose più importanti a cui pensare non reggeva.
Non più,
non ora che Demelza gli stava mostrando che c'erano tanti modi belli
di vivere la vita pur nelle difficoltà.
Lord
Falmouth e Lord Basset lo invitarono al loro tavolo e Ross dovette,
suo malgrado, allontanarsi da Demelza che comunque aveva i suoi
ospiti di cui occuparsi.
Era
una perfetta padrona di casa e osservandola, Ross si accorse di
quanto si sentisse a suo agio in quell'ambiente e accanto alla
meravigliosa rete di amicizie che aveva creato attorno a se. Lui
aveva sempre odiato quel genere di ambienti ma Demelza gli stava
mostrando che anche nelle classi sociali più elevate c'era
un cuore,
calore, amore e che i veri sentimenti esistevano ovunque la gente
desiderasse viverli.
Falmouth
e Basset parlavano di politica e Ross finse di ascoltarli ma i suoi
occhi erano tutti per lei. Demelza era magnetica quella sera,
incatenava ogni sua emozione a se ed era stata gentile ed accogliente
con lui, pur mantenendo una certa distanza. Certo, il suo ruolo di
padrona di casa le imponeva cordialità ma essere al suo
fianco e
parlare tranquillamente con lei, anche di un semplice albero di
Natale, lo metteva a suo agio più di quanto non lo fosse al
suo
arrivo. La osservò parlare con Caroline e con la sua giovane
amica
sposina e si accorse che rideva e scherzava, che era a suo agio e che
aveva saputo trasformare quel tipo di ambiente che una volta la
terrorizzava, in un rifugio e nella sua casa...
Era
bellissima come una gran Lady di Londra doveva essere, impeccabile
nell'abbigliamento, nella scelta dei gioielli, nei dettagli che
facevano risaltare la sua persona e il suo ruolo nella
società ma
allo stesso tempo sembrava brillare di una luce a se stante
conferitale dalla dolcezza semplice del suo sorriso e dei modi di
fare gentili e mai studiati.
La
osservò prendere in braccio la piccola Sophie e cullarla e
per un
attimo la rivide a Nampara a compiere gli stessi gesti con Julia e
Jeremy.
La
nostalgia lo stava vincendo col rischio di tradirlo davanti agli
altri lords, quando una manina tirò la sua giacca. "Signor
Poldark?!".
Ross
abbassò lo sguardo, incontrando quello di Daisy. "Hei,
ciao!"
- le disse, trovandola adorabile con quel vestitino rosso e col
nastrino del medesimo colore fra i capelli.
"Vieni
con me?! Ti voglio far vedere il mio albero".
Falmouth
intervenne, deciso. "Daisy, lascia stare i nostri ospiti e torna
a giocare".
Ma
Ross non era d'accordo. Valentine era nella camera accanto e si stava
divertendo, c'era Demelza a pochi passi e onestamente non aveva
voglia di passare la serata di Natale a parlar di politica. Si
alzò,
prendendo la bimba per mano. "Nessun disturbo. E credo di aver
bisogno di sgranchire le gambe".
Falmouth
sospirò, Basset rise sotto i baffi immaginando la sua noia e
Ross ne
approfittò per allontanarsi con la bimba.
Attorno
a loro tutti chiacchieravano e ridevano, i domestici portavano vassoi
di cibo e nessuno badava a loro, apparentemente. "Cosa vuoi
farmi vedere?".
Daisy
alzò le braccia. "Prendimi!" - ordinò, a pochi
passi dal
grande abete addobbato.
Ross
la sollevò e lei gli indicò le palle di Natale
più in alto. "Le
hanno messe sopra le più belle, perché dicono che
io e Demian le
rompiamo! Sai che Prudie mi ha dato le botte sulle mani?".
"Perché?".
"Perché
non devo toccare l'albero ma l'ho toccato e ne ho rotte un
pò".
Ross
rise. "Allora hanno ragione loro".
"Posso
accarezzarne una, con te?".
Ross
la guardò, scettico. Come lui da piccolo, per Daisy il
fascino del
proibito era irresistibile. "Se te lo faccio fare, poi
sgrideranno e daranno una pacca sulle mani a me!".
Lei
lo guardò seria. "Ma mi devi un favore!".
Ross
sospirò. Era una dannatissima e furbissima canaglia! "Se te
lo
faccio fare, piano piano, poi non saremo più in debito?".
"Sì!
Solo con Demian!".
Beh,
era tanto carina e spietata, nel ricordargli che aveva un gemello...
Non dimenticava niente, baby Boscawen! Ed era meno pericoloso avere
debiti col fisco, piuttosto che con lei! "Lo ricordo bene, sta
tranquilla! Quale pallina vuoi toccare? Questa dorata, da
principessa?".
Lei
rise. "Non sono una principessa! Clowance è una
principessa!".
"E
tu cosa sei?".
"Una
bestiolina! Lo dice Prudie!".
Non
riuscì a trattenere un sorriso, era adorabile e spiazzante
nei modi
di fare e parlare e aveva un fascino talmente magnetico di cui era
inconsapevole che da grande avrebbe fatto innamorare chiunque. "Su,
accarezza la pallina che vuoi e poi allontaniamoci da quì
prima di
finire nei guai".
Daisy
allungò la manina ma in quel momento arrivò
Demelza a romperle le
uova nel paniere. "Giù le mani, orsetta!".
La
bimba sbuffò mentre Demelza la prendeva, levandogliela dalle
braccia. Daisy tentò di spingerla via ma sua madre fu ferma
e decisa
e senza badare alle sue proteste, la rimise a terra. "Daisy,
basta! Devi lasciare in pace gli ospiti e devi stare lontana
dall'albero!".
"Ma..."
- sbottò lei picchiando a terra il piedino – "Io
non lo
volevo toccare! Lui voleva toccare le palline, lo stavo aiutando a
non romperle!" - disse, indicando il povero Ross che però,
nonostante tutto, si trovò ad ammirare i tempi di reazione
di quella
piccola peste. Era una dannatissima bugiarda che sapeva mentire senza
tentennare, guardando negli occhi il suo interlocutore.
Ma
per sua fortuna, Demelza conosceva sua figlia e le sue
abilità di
bugiarda. "Il signor Poldark è grande abbastanza da saper
fare
le cose da solo senza bisogno del tuo aiuto! Va a giocare e fai la
brava" – disse, accarezzandole i lunghi capelli biondi.
Ma
la piccola, stizzita, si allontanò bruscamente da lei,
decisa a non
farsi sfiorare da lei. E Demelza, sospirando, rinunciò a
quel
momento di coccole e la spinse verso il salone dove c'erano gli altri
bambini senza ulteriori discussioni. Poi sospirò. "Da te si
lascia prendere in braccio, da me non vuole nemmeno una carezza!
Certe volte mi sembra di starle antipatica" – disse,
sovrapensiero, rivolta più a se stessa che a lui.
Ross
la guardò e nelle sue parole scorse una nota di amarezza.
Non era
così, non era come pensava lei e se aveva capito come
ragionava
Daisy e il suo carattere... "Tu sei l'autorità e lei ama
fare
come le pare, per questo ti sfida. Con me è semplice, sono
solo uno
di passaggio quì e lei lo sa... E' fatta così,
è sfuggente ma sai,
io non ero molto diverso da piccolo. E quelli che sembrano sfuggire
all'amore, a volte sono quelli che più ne hanno bisogno".
Demelza
a quelle parole lo guardò e per un attimo i loro sguardi si
incrociarono. Non seppe cosa dire ma le sue labbra tremarono, per un
istante.
E
in quel momento, sembrò che tutto e tutti sparissero,
attorno a
loro... Santo cielo, avrebbe dato tutto per un attimo di pace con
lei, per parlarle con calma. Doveva trovare il modo, era a casa sua,
era vicina e Demelza sembrava tanto forte e assieme fragile, in quel
momento... Voleva dirle tante cose, spiegarle e ascoltarla, sentire
cosa la faceva soffrire, gioire, preoccupare... Per un attimo gli
sembrò di esserci vicino, che si stesse aprendo a lui
proprio come
aveva fatto poco prima parlando di Daisy, ma Caroline, Dwight,
Margarita e suo marito arrivarono a spezzare l'incanto.
Caroline
addentò una focaccina salata, dopo averla inzuppata nella
tazza di
cioccolata calda che aveva in mano e lo stesso fece Margarita.
Ross
le guardò stranito, come Dwight... Santo cielo, che strano
intruglio!
"Dolce
e salato insieme! Oh Demelza, queste focaccine e questa cioccolata si
sposano alla perfezione!" - disse Caroline. "Dwight, vuoi
provarle?".
"NO!
Smettila di mangiare a quel modo!". Il medico guardò Demelza
e,
accigliato, gli ridiede per un attimo Sophie fra le braccia. "Cara,
non è sano".
Margarita
venne in soccorso dell'ereditiera, guadagnandosi a sua volta
un'occhiataccia dal marito. "No Dwight davvero, sono splendide!
Un sapore unico! Demelza, hai mai avuto voglia di mischiare cibi
diversi? Non hai mai sentito questa esigenza improvvisa che poi si
trasforma in...".
Demelza
alzò un sopracciglio, osservando Sophie fra le sue braccia.
"Sì,
mi è capitato... Circa quattro volte nel corso della mia
vita...".
Dwight
spalancò gli occhi, Ross fece altrettanto ed Edward, forse
non
troppo avvezzo ancora a queste cose, guardò tutti come se
fossero
impazziti.
Demelza
non aggiunse altro e Ross guardò Dwight che, bianco come un
cencio,
doveva aver realizzato il senso di quelle parole...
Ross
sorrise. "Beh, complimenti!".
"Per
cosa?" - chiese Caroline, addentando un'altra focaccina col
cioccolato.
Demelza,
stranamente, gli resse il gioco. "Per qualcosa che io, dopo i
gemelli, credo di non desiderare più... Ma voi siete
altro...
Complimenti!".
Ross
sorrise, pensando che non aveva mai notato quanto sapesse essere
sottilmente ironica...
Demelza,
ridendo, si allontanò da loro, chiamata da Jeremy che, a
gran voce,
invitava tutti a raggiungerli nella camera dei giochi.
Ross
osservò i bambini e con gli altri, si avvicinò
loro. Che succedeva?
Valentine
gli corse vicino, abbracciandolo, e tutti si misero ad osservare la
scena.
I
bimbi sembravano tanto seri, ora...
Clowance
si sedette alla spinetta mentre i gemellini, Jeremy, Gustav e
Catherine si posizionarono uno accanto all'altro all'ingresso del
salone.
Jeremy
prese la parola. "Quest'anno come regalo abbiamo deciso che
eravamo troppo grandi per fare un semplice biglietto di auguri e
così, visto che l'albero di Natale è nato in
Germania, il nostro
maestro di tedesco ci ha insegnato una canzone di quella terra
sull'abete addobbato. In questi mesi l'abbiamo imparata, studiata e
Clowance ha imparato a suonarla visto che non le andava di saperla a
memoria che è una somara...".
"Hei!"
- si lamentò Clowance.
Tutti
parvero sorpresi e gli occhi di Demelza si illuminarono dalla
sorpresa, evidentemente erano stati bravi a fare tutto di nascosto e
Ross si trovò a guardare i suoi bambini e a provare un
profondo
orgoglio per loro.
Osservò
Clowance che con grazia suonava la spinetta alla perfezione, come sua
madre, notando quanto la sua eleganza e il suo portamento la
facessero dolorosamente sembrare più grande e poi gli altri
bambini,
tutti bravissimi, a cantare quella canzone in lingua tedesca
sconosciuta ai più.
Tannenbam...
Ora Ross sapeva che significava...
Strinse
a se Valentine che guardava quei bambini affascinato, Lord Basset che
teneva in braccio Emily e Caroline e Margarita che mangiavano come
non ci fosse un domani che presto, se Demelza non si era sbagliata,
sarebbero diventate madri. E provò orgolio per quelle
persone e per
il modo in cui vivevano la loro vita e si prendevano cura di chi
amavano, mentre lui...
Clowance
continuò a suonare e i bambini cantarono...
"O
Tannenbaum, o
Tannenbaum!
Du kannst mir sehr gefallen!
Wie oft hat nicht zur
Weihnachtszeit
Ein Baum von dir mich hoch erfreut!
O
Tannenbaum, o Tannenbaum!
Du kannst mir sehr gefallen!"
Una
strana, magica atmosfera che Ross mai aveva sentito in vita sua,
invase la casa. Non conosceva quella canzone, non sapeva nemmeno una
mezza parola di lingua tedesca ma in quel momento sentì di
essere un
padre orgoglioso e si rese conto che la punizione massima per i suoi
errori la stava vivendo in quel momento. Tutti i genitori dei bimbi
andarono ad abbracciare i loro piccoli, quando ebbero finito, tutti
orgogliosi ed emozionati per quel dono e l'impegno che ci avevano
messo per imparare e lui non poté farlo...
Dwight
lo guardò accorgendosi di quanto doveva essere difficile ma
ovviamente tacque. Cosa poteva dire, dopo tutto?
Gustav
fu baciato da sua madre, Catherine dai genitori che se la
sbaciucchiavano assieme alla pestifera sorellina e Demelza strinse a
se i suoi piccoli e anche Daisy si lasciò abbracciare,
ridendo col
suo modo di fare furbetto.
Valentine
gli tirò la giacca. "Bello! Papà, voglio imparare
il
tedesco!".
Ross
gli accarezzò i ricciolini neri. "Vedremo... Ma ora su,
torna
dai tuoi amici a giocare!".
Lui
ubbidì e i bimbi ripresero subito a fare baccano e anche
Lord
Falmouth, dopo la canzone, sembrava più propenso a
sopportare,
osservando con sguardo orgoglioso i suoi eredi senza lementarsi.
E
poi ad un tratto le luci delle candele del corridoio si spensero come
per magia e i bambini si bloccarono, attorniati da quella luce che si
era fatta fioca e magica grazie alla semi ombra e alle luci riflesse
dalle candele sugli addobbi di Natale.
E
una seconda magia accadde, in quell'atmosfera così rarefatta
e
unica...
Un
uomo anziano, dalla lunga barba bianca e con uno strano vestito
rosso, apparve dalla porta con un enorme sacco sulle spalle e i
bambini, compreso Valentine, spalancarono gli occhi per lo stupore.
Anche
Ross si trovò emozionato come se fosse stato lui stesso un
bambino e
capì cosa intendesse Demelza con 'magia di Natale'. E
così era lui
l'uomo pagato da Demelza per rendere magica quella Vigilia? Era
davvero questo, il fantomatico Babbo Natale che porta i doni ai bimbi
buoni?
L'uomo
rise in modo buffo, chiedendo ai piccoli se fossero stati buoni e
loro, prima di tutti Daisy, dissero di sì.
Ross
rise quando la gemellina si dichiarò buonissima, soprattutto
osservando le facce dei suoi famigliari tutt'altro che d'accordo con
questa affermazione.
Ma
la bimba li ignorò e quando Babbo Natale invitò
tutti ad
avvicinarsi, lei corse e assieme agli altri si ritrovò
immersa in
una montagna di dolcetti e caramelle che Babbo Natale fece cadere in
terra, svuotando il suo sacco che ne era pieno.
Valentine,
con gli occhi spalancati, tremò accanto a lui e per un
attimo parve
spaventato. Ma Ross sapeva che era solo un attimo e che quel Natale
lo avrebbe ricordato come il più bello della sua infanzia.
Mai lui
era riuscito a regalargli qualcosa di tanto bello fino a quel momento
e se stava vivendo quella magia, era solo Demelza che doveva
ringraziare... Lo spinse verso gli altri, per unirsi al gioco dei
piccoli. "Sù, va... Babbo Natale ti ha invitato a prendere i
suoi dolcetti".
Il
piccolo ubbidì un pò incerto e Ross
osservò Demelza, grato per
quella serata che davvero era magica e che aveva creato lei da sola,
con le sue mani. Era meravigliosa e santo cielo, la amava...
Avrebbe
fatto follie per riaverla, era e sarebbe sempre stata la sua ragione
di vita e si chiese se lei fosse consapevole di cosa lui stesse
provando in quel momento... Se percepisse la voglia di abbracciarla,
stringerla, baciarla e averla vicina coi loro bambini, come tutte le
altre famiglie presenti a quella festa. Se percepisse il dolore
lacerante e continuo di averla persa e averle fatto del male, la
disperazione della sua assenza giorno per giorno accanto a lui, il
vuoto che aveva generato in lui la sua partenza.
Poi
il chiassò dei bambini che giocavano e si litigavano
cioccolatini e
dolcetti, lo riportò alla realtà. Era una festa e
per rispetto a
Demelza che lo aveva invitato, doveva godersela senza pensare troppo
al passato ma vivendo il presente, quel presente che gli aveva
consentito di averla vicina quella sera.
Babbo
Natale accarezzò sulla testolina i bambini, uno ad uno,
intimò loro
di essere buoni e non litigare e poi, dopo aver dato appuntamento al
prossimo anno, uscì con un impercettibile cenno di saluto a
Demelza.
Ross
sorrise nel vederlo andar via e nella gioia che aveva generato nei
più piccoli.
E
la festa proseguì, coi bambini ancora più
eccitati e chiassosi, con
Caroline e Margarita che mangiavano senza fermarsi, Sophie contesa da
tutti, Basset e Falmouth che fumavano una pipa davanti al camino e
Demelza che si destreggiava fra tutti loro con maestria, da perfetta
padrona di casa.
A
un certo punto i bimbi divennero ancora più chiassosi e
parvero sul
punto di litigare.
Clowance
comparve dalla stanzetta dei giochi e con fare stizzito
chiamò la
madre. "Mamma, vieni a picchiare i gemelli?".
Demelza
le si avvicinò. "Che succede?".
"Fanno
i dispetti! Non ci lasciano in pace, fanno gli stupidi".
Demelza
sospirò e poi, dopo aver dato un'occhiata al salone con gli
ospiti,
le sorrise. "Li porto fuori in giardino a sfogarsi un pò,
così
si stancheranno e vi lasceranno in pace! Son troppe ore che son
chiusi in casa e lo sai che fanno così quando stan troppo
tempo
senza uscire. Così ne approfitto per portare fuori anche i
cani".
Clowance
parve soddisfatta e Ross capì che era arrivato il suo
momento, che
se non ne avesse approfittato ora, non avrebbe avuto altre occasioni.
Demelza sarebbe finalmente stata sola in quel giardino e mentre i
gemelli giocavano e si sfogavano correndo fra alberi e vialetti, lui,
lei...
Decise,
forse per la prima volta senza tentennamenti da quando era arrivato a
Londra. E furtivo come un gatto, dopo che lei ebbe preso i gemellini,
la seguì senza farsi vedere da nessuno.
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Capitolo 46 *** Capitolo quarantasei ***
Incrociando
diversi domestici nei corridoi, Ross seguì il percorso fatto
da
Demelza coi bambini e i tre cani, che lo condussero nel retro del
grande giardino a cui si accedeva, una volta usciti, da una piccola
scalinata in pietra.
Demelza
era uscita dopo aver indossato un morbido mantello bianco di lana e
aver messo addosso ai due bimbi una mantellina blu per coprirli dal
freddo pungente della tarda sera. Il clima era gelido, il giardino
era avvolto dalla nebbia e per terra c’era ovunque neve
ghiacciata
caduta nei giorni precedenti.
Faceva
freddo tanto quanto in casa si avvertiva tepore e calore,
pensò
Ross, aggirandosi per i vialetti mentre i sassolini ghiacciati del
selciato scricchiolavano sotto i suoi piedi.
E
finalmente la vide, appoggiata a un vecchio pozzo ben tenuto, vicino
a una grande fontana circondata da piante maestose. Vide i gemellini
correre via allegri seguiti dal Queen e Fox mentre Demelza,
tranquillamente, prendeva posto sedendosi sul bordo della fontana,
con Garrick che le si accoccolava accanto per farsi accarezzare.
La
guardò e nonostante la nebbia gli offuscasse la visuale, gli
sembrò
stranamente assorta in chissà quali pensieri.
Le
si avvicinò e il rumore dei suoi passi la fece sussultare,
prendendola totalmente alla sprovvista. “Ross?!”
– esclamò,
spalancando gli occhi per la sorpresa.
Garrick
lo vide e ancora una volta, proprio come aveva fatto il giorno in cui
erano andati allo zoo, gli corse incontro festante. E stavolta Ross,
senza occhi indiscreti attorno, si inginocchiò ad
accarezzarlo sulla
testolina mentre lui gli faceva mille feste e tentava di leccargli le
dita.
Demelza
guardò entrambi, pensierosa. “Che ci fai qui?
Qualcosa non va?”.
“No,
va tutto bene. Complimenti, è una bellissima festa e non so
come
ringraziarti per averci invitato. Valentine ricorderà questa
serata
tutta la vita”.
Garrick
tornò di corsa da Demelza e lei tornò ad
accarezzarlo piano. “Non
devi ringraziarmi, in fondo non è nulla di così
eccezionale. Sei
venuto quì fuori al freddo solo per dirmi questo?”.
Ross
deglutì. Erano soli, i gemellini sembravano giocare
piuttosto
lontano e nessuno degli altri ospiti sarebbe uscito a disturbarli,
con quel freddo. “No… Ti ho vista uscire e mi
sono… beh…”.
Santo cielo, si sentiva impacciato come un ragazzino! “Beh
ecco…
ho pensato che da sola, al buio, qui fuori…”.
Lei
ridacchiò, forse divertita dal suo imbarazzo. “Non
sono sola, ci
sono i gemelli con me. E i cani! E questa è casa mia! Ho
portato
fuori i bambini per farli correre e sfogare un po’
perché quando è
tardi e sono stanchi, diventano nervosi e ingestibili. Tutto qui, ora
sono in giardino a giocare e fra un po’ li riporto
dentro”.
Ross
guardò Garrick. “Lui non è andato con
loro?”.
“No,
essere anziani significa diventare saggi e Garrick lo sa che lo
torturerebbero e alla sua età, lui vuole solo pace. Queen e
Fox sono
giovani e una segue per istinto i bambini e l’altro per puro
piacere di giocare. Ma Garrick no, lui sta sempre con me”.
“Come
una volta…” – osservò Ross.
“Come
una volta…” – rispose lei.
“Dovresti rientrare comunque, qui
fuori fa freddo”.
Ross
osservò la direzione in cui erano scomparsi i gemelli.
“Se riesce
a non congelare tuo figlio con quei pantaloncini corti che gli
mettete sempre, anche se nevica…” –
osservò, con tono
sarcastico.
“Ci
è abituato ed è il più sano fra i
bambini” – si giustificò
Demelza anche se il suo tono di voce tradiva stupore per
quell’osservazione che Ross voleva farle da tanto.
“Ed è la
moda, pare che qui i bambini debbano vestirsi così e non
posso fare
la guerra a Falmouth pure su questo”.
“Da
quando segui le mode?” – chiese lui allora,
diretto, guardandola
negli occhi.
Lei
sostenne il suo sguardo. “Faccio parte di questa famiglia e
ne devo
osservare le regole proprio come una volta facevo con te, quando sono
diventata una Poldark”.
Colpito
ed affondato, come darle torto? “Scusa, non volevo essere
scortese
ma tutto questo mi sembra… strano. Questa festa, essere qui,
vedere
i bambini fare e muoversi in un ambiente tanto diverso da quello in
cui sono nati… Tu forse ti ci sarai abituata negli anni ma
io
faccio davvero fatica”.
Lei
annuì, abbassando lo sguardo. “Lo so e ti
ringrazio per la
discrezione che usi quando ci sono Jeremy e Clowance. So che per te
è
difficile ma ho anche capito di potermi fidare”.
Sospirò.
“Dovrò mentire e fare così per sempre?
Ti rendi conto di come mi
sento quando mi chiamano Signor Poldark e Clowance mi fa
l’inchino?”.
“Sei
un estraneo per loro e la buona educazione li spinge a rapportarsi
così con te”.
Ross
scosse la testa. “E’ così strano che
Jeremy non mi ricordi, che
non ricordi nulla e che il mio nome di famiglia gli risulti tanto
sconosciuto”.
Demelza
assunse un’aria severa. “Per fortuna ha
dimenticato, pare… Ma
non ci eravamo messi d’accordo sul non rivangare il
passato?”.
“Sai
benissimo che dobbiamo parlarne!”.
Lei
parve punta sul vivo. “Ora? La notte di Natale?”.
“E’
l’unico momento che ho trovato da solo, con te!”.
Demelza
si morse il labbro, guardandosi attorno nervosamente.
“E’ per
questo che mi hai seguita qui?”.
“Sì”
– disse, in assoluta sincerità.
Lei
fece per alzarsi e andarsene ma stavolta Ross fu più veloce.
La
prese per i polsi, attento a non farle male, la fronteggiò e
le
impedì di scappare. “Stavolta no,
Demelza”.
“Lasciami
o urlerò!”.
“No,
non lo farai. Lo so io e lo sai anche tu! Se mi ritenessi pericoloso,
non mi avresti invitato qui”.
Demelza
si arrese, in fondo lo sapeva anche lei che era inutile lottare
quando lui si metteva in testa qualcosa, così come sapeva
perfettamente che non avrebbe urlato per farsi aiutare
perché
perfettamente consapevole di non essere in pericolo. “Cosa
vuoi
Ross?” – chiese infine, con aria stanca.
“Solo
parlare…”.
Lo
guardò, sospirando. “Senti, so che per te
è difficile e io non ho
risposte da darti sui bambini. Credi sia facile, per me? Che lo sia
stato? Che non mi chieda cosa dovrei fare ogni dannata sera, ora che
sei qui?”.
Quelle
parole lo colpirono. “Lo fai?”.
“Certo,
sempre! Ma non trovo risposte”.
Ross
sorrise. “Non voglio fare del male ai bambini”.
“Come
posso crederti?”.
Quella
domanda lo colpì, faceva male ma era sacrosanto che lei
dubitasse di
lui. “Sono i miei figli…”.
“Non
li ha mai voluti, Ross. Come puoi affermare che sono tuoi?
L’unico
padre che hanno avuto, il loro punto di riferimento e il centro dei
loro ricordi è Hugh, non tu… Di te non
è rimasto nulla in loro e
mai ho pronunciato il tuo cognome in loro presenza, da quando me ne
sono andata. Che senso aveva farlo? Hai deciso che non erano degni di
essere Poldark e noi sulla base delle tue decisioni abbiamo dovuto
sopravvivere e iniziare una nuova vita”.
Ross
deglutì, vinto dal peso del rimorso e dal ricordo doloroso
di quei
giorni lontani, tanto difficili per lui ma sicuramente più
devastanti per lei. “Non feci quella scelta per mancanza di
amore
verso di voi, la feci cercando di fare la cosa giusta per
tutti”.
Lo
sguardo di Demelza si indurì. “Per tutti? Togliere
il tuo cognome
ai tuoi figli fu un giusto gesto d’amore?”.
“No,
certo che no” – fu costretto ad ammettere.
“Fu un gesto idiota
di cui non immaginavo le conseguenze. Non volevo farvi del male, non
volevo sparire dalla vostra vita e men che meno che voi spariste
dalla mia. So che hai fatto la scelta giusta, so che già
allora
sapevi essere più lucida di me nelle scelte che hai fatto
per il
bene dei bambini, so tutto quanto. So di essere stato orribile con
voi, di meritarmi il tuo odio e il tuo disprezzo, so di non meritare
né fiducia né altro per quello che ho fatto
quella notte e prima di
quella notte. Era come se il Ross che ti aveva sposato e ti aveva
amata, fosse stato soppiantato dal Ross ribelle e giovane, partito
per la guerra da ragazzo. Ero felice con te, eravamo felici insieme e
tu lo sai che non era una menzogna, che ciò che
c’era fra noi era
vero e forte, più forte di tutto il resto che avrei potuto
trovare
nel mondo. Ma la morte di Julia mi ha fatto fuggire e desiderare
–
ora lo so – di tornare indietro a un tempo dove non ero un
padre
che piangeva la morte di sua figlia. Ed Elizabeth rappresentava quel
tempo”.
Gli
occhi di Demelza divennero lucidi nel sentire quel nome…
“Non
voglio parlare di Julia! E nemmeno di Elizabeth, sono affari
tuoi!”.
“Demelza…”.
Lei
lo bloccò. “Che senso ha parlarne, Ross? Ora?! Che
senso ha…? E’
passato tanto tempo e tutto quello che riesco a ricordare è
che hai
sempre scelto lei… Non me, non i bambini… Quando
lei appariva i
tuoi occhi erano solo per lei, quando parlavi di me con lei, io ero
solo la figlia di un minatore che poteva arrangiarsi e lavorare,
quando Francis è morto è di lei che ti sei preso
cura e hai
abbandonato me, Jeremy e Clowance. Quando quella notte mi hai detto
di togliermi di mezzo perché dovevi correre da lei, hai
scelto
ancora una volta Elizabeth così come quando di nascosto hai
venduto
le quote della Wheal Leisure perché avesse denaro nei due
anni che
avresti dovuto passare in prigione, lasciando me e Jeremy ad
arrangiarci, come sempre! Non ho dimenticato nulla Ross, sono andata
avanti ma ricordo ogni cosa. Quindi non venirmi a dire che è
per
colpa di Julia, che soffrivi troppo, che… che…
Scuse Ross, sono
solo scuse. Amavi lei, l’ho accettato, l’ho vissuto
sulla mia
pelle e ne ho pagato le conseguenze. Ma ora basta, non voglio
più
parlare di quel tempo e sai, credo che tu non ti debba nemmeno
giustificare. Non è colpa tua ma mia! Non avrei mai dovuto
sposare
un uomo che sapevo innamorato di un’altra! E soprattutto non
avrei
dovuto mettere al mondo dei bambini che sapevo tu non avresti mai
amato”.
La
ascoltò, rendendosi conto che cercando quel confronto,
avrebbe
dovuto ascoltare parole che facevano male e che Demelza, forse per
voglia di dimenticare o magari semplicemente perché
desiderosa di
non rivangare, si era tenuta dentro tutti quegli anni. Era doloroso
per lui, era terribile leggere nelle sue parole ogni mancanza, ogni
errore, ogni torto che aveva dovuto subire a causa della sua
arroganza e del suo egoismo e che l’avevano portata lontana e
con
la convinzione di non essere mai stata amata. Faceva male sentirla
dire che non avrebbe dovuto sposarlo e nemmeno avere figli con lui
perché lei e i bambini erano stati il più bel
dono che il cielo gli
avesse mai fatto, erano stati la sua scelta più felice e la
parte
migliore di lui che aveva perso quando se n’era andata.
“Io non
pretendo che tu mi creda, forse non lo merito nemmeno. Ma puoi almeno
ascoltare ciò che ho da dire? Solo pochi
minuti…”.
“Cosa
c’è da dire, Ross? Che senso ha adesso?
Ciò che hai da dirmi non
cambierebbe nulla in ciò che è stato”.
“Ma
forse potrebbe fugare certe certezze che tali non
sono…”.
Lei
si accigliò. “Che vuoi dire?”.
La
guardò negli occhi, intensamente. Non lo avrebbe mai
perdonato forse
ma sperava almeno che gli credesse e che non vivesse con la continua
convinzione di non aver contato nulla per lui. “Me ne sono
andato
da Trenwith, quel giorno, pochi minuti dopo che tu sei
partita”.
Demelza
spalancò gli occhi. “Cosa?”.
Le
lasciò i polsi per farla sentire più libera e
darle fiducia sul
fatto che non sarebbe scappata e lei non si mosse. “In questi
anni
hai creduto che fossi felice con Elizabeth e la famiglia che abbiamo
costruito insieme ma non è vero nulla. Non è mai
esistita nessuna
famiglia, non è mai esistito niente e il periodo che ho
trascorso a
Trenwith è stato il più duro della mia vita e ha
trasformato un
sogno giovanile in un incubo. Un puro matrimonio per
formalità, non
c’era niente, nulla! Non intimità, non
condivisione, non felicità
ma solo liti, musi lunghi, recriminazioni e alla fine, odio…
Non
volevo scegliere Trenwith e non dovevo lasciarti ma ho fatto la
scelta che sentivo necessaria, sbagliando. Avrei voluto prendermi
cura di te ancora, essere una famiglia nonostante tutto
perché
burocrazia a parte, TU eri la mia famiglia, l’unica con cui
volessi
stare. Ma fare quella scelta – e tu lo sapevi –
avrebbe reso
impossibile tutto questo. Stupidamente, me ne sono reso conto solo
dopo aver preso quell’assurda decisione. Non sono tornato
come
avevo promesso perché temevo di non riuscire ad andarmene e
mantenere fede all’impegno che avevo preso con la mia
coscienza, se
fossi venuto anche un solo istante a Nampara, sarei rimasto per
sempre. Per questo non venni quando nacque Clowance e i motivi che
gravitavano attorno alla gravidanza di Elizabeth erano solo
marginali. Non cerco scappatoie, non sono venuto perché
avevo paura
di guardarti in faccia e vedere il dolore che ti avevo procurato,
avevo paura di vedere la mia bambina e scoprire che non avrei potuto
amarla come volevo e lei meritava, avevo paura del biasimo sul viso
di Jeremy. Per questo scrissi quella lettera che non ti
arrivò mai,
una lettera dove ti raccontavo cosa stessi provando. Elizabeth la
intercettò e la bruciò e tutto rimase sospeso,
fra noi… E tu sei
giustamente partita!”.
Demelza
deglutì. “Hai lasciato Trenwith?”.
“Quel
giorno stesso! E ti ho cercata ovunque ma la neve aveva nascosto le
tracce della carrozza e io… e io da allora ho vissuto da
solo a
Nampara chiedendomi ogni giorno dove foste, cosa faceste e quale
fosse il volto dei miei bambini”.
Gli
occhi di Demelza divennero lucidi. "Perché mi stai dicendo
queste cose adesso? E come posso crederti, crederci? Non pensavi a
noi quando eravamo a Nampara, perché avresti dovuto farlo
dopo,
quando siamo partiti?".
Lo
sguardo di Ross parve perso a quella domanda, era normale che lei non
gli credesse, come avrebbe potuto dopo tutto? Era stato il peggiore
fra i mariti e pur amandola tantissimo, non era stato capace di
dimostrarglielo, non appieno. "Non sono uno da smancerie, da
feste, da vita mondana o da serate fra amici, non sono uno che sa
scrivere poesie romantiche o organizzare sorprese per mia moglie o i
miei figli. E' un mio limite...".
Lei
lo bloccò. "Non ti ho mai chiesto nulla del genere!".
"Lo
so... Però credevo che sapessi quanto importante fossi per
me e che
ti amavo. Non ho mentito, non ho mentito mai quando te l'ho detto! E
quando sei partita, per me non è stata una liberazione come
credi
tu, ma l'inizio di un incubo. E' vero, dopo la morte di Francis mi
sono perso e ho smarrito la strada, era come se improvvisamente non
sapessi più cosa volessi e chi fossi e ti ho trascurata. Non
mi
rendevo conto di farti del male e stupidamente, ero convinto che
fossi così forte da farcela da sola mentre io... pensavo a
tutto il
resto... A tutti gli altri... Dopo la morte di Francis ero diventato
il capo famiglia e spettava a me prendermi cura di chi era rimasto a
Trenwith ma hai ragione, non era l'unico motivo per cui correvo
lì,
mi piaceva essere importante, adoravo essere tornato il principe
azzurro che ero stato una volta e mi faceva sentire bene, come se i
problemi che gravavano su di me non ci fossero più. Volevo
tornare a
prima e ti chiedo scusa, sono stato sciocco e infantile
perché non
si poteva tornare indietro e mai l'ho desiderato davvero. Volevo solo
accarezzare per un pò quella vita priva di problemi e
indirizzata al
bello a cui credevo di avere diritto da giovane, un'utopia, un sogno,
un mondo idilliaco e perfetto che nella realtà non esiste,
che sai
che non esiste ma che vuoi con tutto te stesso quando tutto attorno a
te cade, comprese le tue certezze. Ma non ho mai pensato, non
coscientemente, di farti del male. Eppure te ne ho fatto ma non me ne
rendevo conto e scioccamente pensavo che dopo ogni tempesta, noi ci
saremmo sempre ritrovati insieme. Era una mia fede incrollabile,
forse l'unica che avevo! Ma ho sbagliato troppo e ho capito troppo
tardi che non si poteva tornare indietro e che le mie azioni si
stavano spingendo talmente oltre da non poter tornare indietro. Mai
avrei voluto farti qualcosa di simile e non mi rendevo conto di aver
superato il limite consentito e che ti stavo perdendo, che stavo
tradendo tutto ciò che ero, il mio matrimonio e te. Mi sono
comportato come mai avrei creduto di fare e ancora oggi non me lo
perdono. Quando ho venduto le quote della Leisure, l'ho fatto per
ripagare Francis dei soldi che aveva investito e che lui stesso
avrebbe donato a te se non fossi sopravvissuto al processo ma
è
vero, avrei dovuto parlartene, dirtelo... Avrei dovuto farlo
perché
la situazione era grave e io avrei dovuto pensare anche a te, oltre
che ad Elizabeth. Soprattutto a te e a Jeremy! Ma ancora una volta mi
ha guidato il mio ego ed ero convinto stupidamente che tu ce
l'avresti fatta comunque e forse fu la mia coscienza a farmi stare
zitto e a non farne parola con te. Sapevo di sbagliare, dopo tutto,
sapevo di fare un torto alla mia famiglia e che era un mio dovere
provvedere a voi. Dentro di me lo sapevo dannatamente bene... Forse
tutto potrebbe essere riassunto così: ho sottovalutato la
gravità
delle mie azioni e sopravvalutato la tua forza. Avevi bisogno di me,
anche se eri più forte di quanto potrò mai essere
io. L'unica cosa
che posso dirti è che non è vero, questo posso
garantirtelo senza
ombra di dubbio, che non ho mai amato i nostri figli. Sono stati la
miglior cosa che abbia fatto in una vita piena di fallimenti. Avevo
paura, dopo Julia... Ma darei la vita per loro e non potrò
mai
esprimere a parole quanto sia orgoglioso di ciò che sono
diventati.
Sei stata brava, ma d'altronde non avevo dubbi in merito".
"Non
li ho cresciuti da sola" – puntualizzò lei, con un
filo di
voce.
Ross
abbassò lo sguardo, faceva male vedere quanto Hugh avesse
amato ciò
che lui si era lasciato scappare dalle mani, capendone l'infinito
valore quando lui aveva fallito. Faceva male vedere Demelza che
glielo stava ricordando non per vendetta ma perché
così era stato.
"Hugh...".
Demelza
prese un profondo respiro. Se dovevano parlare, se avevano iniziato a
farlo, tanto valeva farlo fino in fondo. "Lui... Lui mi ha resa
capace di credere all'amore, di nuovo. Non so cosa ci abbia visto in
me, diceva che ero una fata e io all'inizio credevo che fosse folle.
Era giovane, bello, ricco e poteva avere chiunque. Ma voleva me e ha
voluto solo me fino alla fine... Ha curato le mie ferite, ha ridato
un futuro alla mia vita e io non volevo un nuovo amore ma ho finito
per caderci perché era impossibile resistergli. Avevo
bisogno di
lui, di uno come lui! E' stato la medicina al buco nero in cui ero
precipitata ed è stato unico e perfetto, conosciuto al
momento
giusto, nel momento in cui più ne avevo bisogno. E ha amato
i
bambini, senza se e senza ma. Io lo so che è facile quando
si hanno
soldi e una posizione sociale solida, quando la vita non ti costringe
a prenderti responsabilità, quando hai tutto per diritto di
nascita.
E so che per te è stato difficile, che hai sempre lottato
per
conquistare ogni cosa e che a volte questo fa smarrire la strada che
si è scelto di percorrere. Io le so queste cose Ross, so che
non eri
tipo da poesie e che non ne avevi nemmeno il tempo, così
come so che
Hugh non era portato a una vita fatta di responsabilità che
lo
costringevano a essere ciò che non era e questo avrebbe
chiesto il
conto, prima o poi. Il destino ci ha lasciato in dono il periodo
più
bello e poi l'ha portato via quando iniziava forse la vita vera,
terrena, giornaliera, quella dove a volte si litiga. Io dicevo che
era un elfo e sono contenta che sia potuto rimanere così, un
pò
magico come voleva essere, per tutta la sua vita, senza snaturare la
sua natura. Lo immagino quì, nella nebbia, dove lui diceva
che lo
avrei ritrovato, come tutte le creature magiche che al sole non si
vedono. Ci credeva e alla magia ho imparato a crederci anche io
perché sai, su una cosa hai ragione: posso lavorare, essere
forte,
cavarmela da sola ma una parola amica, l'amore, le attenzioni, vivere
per qualche istante senza pensare ai problemi del mondo, aiuta ad
affrontare la vita con un sorriso in più. Sapere di avere
accanto
qualcuno disposto a tenderti una mano e ad aiutarti a rialzarti se
cadi, aiuta e fa sentire bene... Non importa se non
succederà ma sai
che qualcuno che tiene a te, c'è! A volte serve solo quello.
Non
rinnegherò mai di essere felice per averlo conosciuto,
sposato ed
essere diventata la madre dei suoi figli. Hugh è e
farà sempre
parte del mio cuore e sono ciò che sono solo grazie a lui. E
Jeremy
e Clowance anche, ha lasciato la sua impronta anche su di loro ed
è
una bella impronta. E per quanto riguarda i gemelli, sono felice che
abbia fatto in tempo a conoscerli e a goderseli per un pò.
Li ha
aspettati tanto, ogni giorno mi chiedeva quanto mancasse al parto...
Pensavamo fosse uno e quando ne son nati due di bambini, era ubriaco
di gioia. Ed io non ero abituata a tante attenzioni e a tutto questo
ed ero felice. Felice solo perché lui c'era mentre tu non
c'eri mai
stato".
"Scusa".
Disse l'unica cosa che poteva dire, non c'erano spiegazioni,
recriminazioni, rimostranze da fare... Demelza aveva dolorosamente
ragione, l'aveva lasciata sola talmente tante volte per correre
dietro a mille cose e prendere parte a mille battaglie che alla fine
si era sentita non amata. Chiunque sarebbe arrivato a quella logica
conclusione. "Volevo che la Wheal Grace funzionasse e ci desse
da mangiare, a noi e a chi lavorava per noi. E seguendo lei, seguendo
Elizabeth, ho finito per perdere di vista le cose più
importanti".
Demelza
scosse la testa. "Non devi chiedermi scusa, era il tuo lavoro,
avevi delle responsabilità ed era il tuo sogno".
"Il
NOSTRO sogno, Demelza" – puntualizzò.
La
donna si morse il labbro. "Non mi sono mai sentita parte di
nessuno dei tuoi sogni. Quel posto era occupato da Elizabeth, non da
me".
Quelle
parole gli spezzarono le gambe e rappresentavano appieno la distanza,
le incomprensioni e il muro che il dolore aveva eretto fra di loro.
Se solo fosse stato attento ai suoi sentimenti anche solo la
metà di
come era stato attento ai sentimenti di Elizabeth, forse... "Sai
che non è così! Lo sai benissimo dentro di te!
Abbiamo combattuto
tante battaglie insieme, uno a fianco dell'altra e sei stata oltre
che mia moglie, la mia compagna, la mia confidente e la mia alleata
più preziosa. Non avrei fatto nulla senza di te! So che ti
ho fatto
del male ma so anche che mi conosci! Elizabeth non avrebbe mai potuto
essere ciò che sei stata per me, non sarebbe mai stata nulla
del
genere. Era un'illusione e se ti avessi detto queste cose una volta,
invece che darle per scontate, forse adesso mi crederesti. Io ed
Elizabeth non saremmo mai andati d'accordo insieme e le mie battaglie
avrei finito per combatterle da solo, per sentirmi solo e
fraintendere a vita come avrebbe dovuto essere l'amore, quello vero.
Sai come sarebbe finita se l'avessi sposata al ritorno dalla guerra?
Lei mi avrebbe odiato per la vita non agiata che avrebbe condotto con
me, non si sarebbe rimboccata le mani, non mi sarebbe stata accanto
anche nei momenti difficili e non sarebbe stata la moglie e la madre
che tu sei stata per me e per i nostri bambini. E non ti avrebbe
restituito il favore, sai...? Se fosse quì, non avrebbe
fatto per
Jeremy e Clowance quello che tu hai fatto stasera per Valentine".
Lo sapeva, Ross lo sapeva benissimo perché ricordava con
quanto
disprezzo lei avesse parlato dei suoi figli, sette anni prima...
Garrick
si stiracchiò e Demelza gli accarezzò la
testolina. Il suo sguardo
pareva triste... "Non ho invitato quì Valentine stasera, per
dimostrarmi migliore di lei".
"Lo
so, non c'è bisogno che tu me lo dica" – rispose,
avvicinandosi a lei e sfiorandole la vita. La attirò a se e
la
guardò negli occhi mentre lei, presa alla sprovvista, si
irrigidiva
per quel contatto ravvicinato ed inaspettato. "Come non dovrebbe
esserci bisogno di dirti cose ovvie per me e per te, che sai
benissimo! Sai che ti amavo così come sai quanto ho
sbagliato! Sai
che eri importante per me e sai benissimo che mai avrei voluto
perderti! E sai anche che fare la scelta di annullare il matrimonio
non è stata dettata dal mio cuore ma dalla mia testa e dai
sensi di
colpa. Non avrei dovuto farlo, avrei dovuto trovare altre soluzioni
ma su una cosa hai ragione: recriminare ora non serve a nulla e non
ci ridarà ciò che abbiamo perso".
Demelza
deglutì, cercando di mantenere le distanze fra loro. "Io non
so
più nulla Ross e forse non voglio sapere! Che senso avrebbe,
ora? Le
nostre vite e le nostre strade si sono separate e rivangare il
passato e ciò che è stato o abbiamo creduto che
fosse, a cosa
potrebbe portarci? Io sono diversa, ho una vita lontana dalla tua e
tu hai la tua di esistenza! Ci facciamo del male, ce ne siamo fatti
adesso a parlarne! Vivere il presente come conoscenti, è la
cosa più
indolore che possiamo fare".
"Ma
non siamo conoscenti!".
Demelza
abbassò lo sguardo. "Dovremmo imparare ad esserlo!".
Ross
la attirò a se. "Credi di esserne capace?".
"Non
è quello che ho fatto fin'ora?".
"Ci
hai provato ma puoi dire di esserci riuscita davvero? Puoi dire di
non provare nulla quando ci vediamo? Puoi dire che non è mai
esistito nulla fra noi? Stai parlando con me, Demelza, e a me non
puoi mentire e lo sai!".
Lei
si guardò in giro, forse cercando una via di fuga a lui e al
suo
corpo sempre più vicino. "Ross, ci sono i bambini...".
"E
se non ci fossero? Se nessuno potesse vederci?".
Non
seppe cosa rispondere. "Ross...".
No,
non l'avrebbe lasciata scappare. "Credi a ciò che ti ho
detto?
Su di me, si di te, su quanto io ami la nostra famiglia?".
Demelza
si morse il labbro, pallida e tremante. "Non lo so... Mi hanno
fatto piacere le tue parole, ma io... Io ricordo sulla mia pelle il
dolore che mi hai fatto provare e quella sensazione di non essere
nulla per te che mi ha accompagnato sempre, non se ne andrà
troppo
facilmente".
Insistette,
le sue difese stavano cedendo e se lei fosse riuscita a parlargli e
ad aprirsi come aveva fatto lui, forse la nebbia fra loro un
pò si
sarebbe diradata. "Parla! Dimmi cosa provi, cos'hai provato,
come ti senti! Dimmi pure che mi odi e tutto quello che vuoi, fallo
come avrebbe fatto Demelza Carne e dimentica di essere Lady Boscawen
perché sai benissimo che non potrai mai esserlo, non del
tutto!".
A
quelle parole, Demelza voltò il viso di lato. "Non voglio,
non
posso... Penserò a cosa mi hai detto, lo giuro! Ma non
chiedermi
questo, non chiedermi di parlare di allora... Vivere il presente e
chiudere gli occhi sul passato è l'unica cosa che mi fa
stare
serena".
Ross
scosse la testa, esasperato. Non voleva ferirla, non voleva riaprire
vecchie ferite e anzi, voleva solo curare quelle lacerazioni ancora
brucianti che aveva prodotto sul suo cuore. Non voleva altro o forse
sì ma non sapeva ancora cosa e se quel 'cosa' fosse
fattibile.
Sapeva che Demelza stava bene, che aveva attorno quella famiglia
unita che sempre le era mancata e sapeva anche che i loro bambini
erano amati e curati più di quanto non fossero stati con lui
a
Nampara e mai avrebbe voluto distruggere quella serenità che
dovevano aver raggiunto a fatica anche grazie a Hugh, anche se gli
faticava ammetterlo. "Non ti sto chiedendo di rinunciare alla
tua vita di ora, a ciò che hai costruito, alla famiglia che
hai
trovato e alla quotidianità che vivi e che ti fa stare bene!
Ti
chiedo solo di pensare a noi e iniziare a credere che, nonostante me
e i miei mille errori, ci sia stato amore vero, un amore di quelli
rari da trovare e che per questo è devastante perdere".
Lei
chiuse gli occhi dolorosamente. "Ci penserò...".
Era
sincera, sapeva che non stava mentendo per chiudere il discorso e
sapeva anche che quanto le aveva detto doveva aver scardinato almeno
in parte alcune delle convinzioni che con dolore l'avevano
accompagnata in quegli anni. E anche se non c'era il vischio, anche
se forse non lo avrebbe voluto, si chinò su di lei dandole
un bacio
leggero sulla fronte a cui Demelza non si sottrasse. La
sentì
tremare e i loro sguardi presero fuoco. Ross sapeva che lo erano, che
insieme erano un incendio e percepiva sotto al suo tocco ai suoi
fianchi, un brivido di strano piacere che in quel momento avvertiva
in lui quanto in lei. Era così da sempre fra loro, bastava
un solo
tocco ad accendere il fuoco e quegli anni non avevano cambiato questo
aspetto del loro rapporto fatto di passione, dolcezza e fusione
totale di cuore e anima. Non aveva idea se lei avesse provato le
stesse sensazioni con Hugh, non aveva il coraggio di chiederglielo e
di certo Demelza non gli avrebbe risposto ma in quel momento non era
importante Hugh ma loro e quelle sensazioni che pensavano morte e che
invece si stavano palesando con prepotenza. E anche Demelza lo
avvertiva.
Garrick
prese improvvisamente ad abbaiare e Demelza, come destata da uno
stato di tranche, bruscamente interruppe il contatto con lui.
Da
lontano, dalla nebbia, Ross intravide le sagome dei gemellini, di Fox
e Queen che arrivavano di corsa e capì che la discussione
era
finita.
Demelza
gli lanciò un'eloquente occhiata di fare silenzio, si
schiarì la
voce e tornò ad essere padrona di se stessa e del suo ruolo
di
madre. "Bambini, dove siete finiti?" - chiese,
inginocchiandosi per accoglierli fra le sue braccia.
I
gemelli la guardarono, poi guardarono interdetti Ross chiedendosi
forse perché fosse lì e poi tornarono a prestare
attenzione alla
madre. "Cercavamo gli elfi di Babbo Natale! C'è la nebbia,
si
nascondono..." - sussurrò Demian al suo orecchio, col suo
sguardo biricchino, mentre Daisy continuava ad osservarlo con occhio
fin troppo indagatore che a Ross metteva soggezione.
"E
mentre ero quì fuori ad aspettarvi col signor Poldark che mi
ha
tenuto compagnia, li avete trovati, gli elfi?" - chiese Demelza,
cercando di catturare la loro attenzione e allo stesso tempo di
spiegare la sua presenza lì.
Demian
annuì, soddisfatto. "Sì, un milione di miliardi!
Ma si
nascondono, tu non li puoi vedere mamma, sono magici!".
Demelza
lo baciò sulla fronte. "Lo so!". Poi si rivolse alla
figlia. "E tu Daisy, li hai visti?" - chiese, prendendola
fra le braccia per baciarla sulla fronte.
Lei
scosse la testa. "No, nemmeno uno. Ma ho trovato questa!" -
esclamò, togliendosi dalla tasca del vestitino una monetina
che
qualcuno doveva aver perso in giardino. "Sono ricca?".
E
a quel punto, Ross intervenne, notando in quella breve scenetta i
caratteri diametralmente opposti dei due: sognatore Demian e
decisamente più terrena e pratica Daisy. "Sì, lo
sei. Più di
quanto non lo eri poco fa! Dovresti metterla in un salvadanaio".
"Cos'è?".
Demelza
le sorrise. "Un posto dove conservare i soldini che guadagniamo
o troviamo! Te ne troverò uno e quando sarà
pieno, sarai la bambina
più ricca della casa".
Come
se Daisy ne avesse avuto bisogno! Ross guardò la piccola
sorridendo,
rendendosi conto che l'atmosfera si era rilassata con l'arrivo dei
gemellini. Aveva detto tanto a Demela, più di quanto si
fosse
prefissato, ed ora era giusto lasciarla in pace a godersi i suoi
figli e darle tempo per rifletterci.
A
Daisy l'idea del salvadanaio piacque. "Sì, lo voglio!".
E
Demelza le strizzò l'occhio. "Vedremo se Babbo Natale
può
lasciartene uno stanotte". Si rialzò, prendendoli per mano.
"Su, rientriamo adesso! Fa freddo".
"Ma
prima mi posso arrampicare un pochino su un albero a salutare gli
elfi?" - chiese Demian, puntando i piedini per terra.
Demelza
lo guardò storto. "No, certo che no! C'è ghiaccio
ovunque, è
buio e sai che non amo che tu lo faccia!".
"Un
pochettino-ino-ino" – piagnucolò il bimbo.
Ross
osservò il piccolo, rendendosi conto che in certi aspetti
pure lui
gli ricordava il se stesso bambino. "Anche io so arrampicarmi
sugli alberi. Lo faccia da quando avevo la tua età".
Demian
lo guardò, scettico. "Non è vero!".
"Sì
che lo è!".
Demian
scosse la testa. "No, è una bugia e tu sei troppo vecchio!".
Ross
lo guardò in cagnesco. Demian non poteva saperlo ma l'aveva
in
pratica appena sfidato a duello! "Vuoi vedere?".
Il
bimbo annuì, mettendosi le mani sui fianchi e mettendo lui
alla
prova ma Demelza intervenne, lanciando un'occhiataccia a Ross che non
lasciava adito a interpretazioni romantiche. "No, Demian non
vuole vedere! Ci fidiamo e rimandiamo questa cosa a una giornata
calda e di sole, fra tanto tanto tempo". Dopo di che prese Daisy
per mano, cercando di trascinarla verso gli scalini, ma la bimba
puntò i piedini come il suo gemello. "No, devo dire una cosa
al
signor Poldark!".
"Ok,
digliela ed entriamo".
"Da
sola..." - puntualizzò lei, seria. "E' una cosa segreta".
Demelza
la guardò con sospetto, poi guardò lui con la
stessa espressione e
poi, sospirando, prese Demian in braccio. "Un giorno mi
spiegherai il perché di tutti questi segreti con lui... Vi
aspetto
dentro ma fate in fretta. E per quanto riguarda te, Ross...".
"Dimmi".
Demelza
guardò nuovamente sua figlia, forse cercando di capire cosa
la
facesse sentire tanto legata a un uomo che in fondo era uno
sconosciuto per lei e poi si rivolse a Ross. "Penserò a cosa
hai detto e devi ringraziare Daisy per questo... Se piaci a lei a cui
non piace quasi nessuno, allora devo pensarci davvero!".
E
così dicendo, entrò in casa con Demian,
lasciandolo da solo e
vagamente interdetto con la piccola jena che, a quanto sembrava,
aveva un grande potere su sua madre, come tutti i suoi fratelli del
resto.
Daisy
gli tirò la manica della camicia. "Ho sbagliato! Non vuoi
sposare Prudie!".
Spalancò
gli occhi, finalmente qualcuno aveva capito qualcosa! "Esatto".
Ma
Daisy non aveva ancora finito. "Tu vuoi sposare la mia mamma!".
Ross
rimase di sasso, gelato sul posto e guardandola si rese conto che
lei, con poche semplici parole, aveva reso palese quel suo desiderio
tanto nascosto da non avere il coraggio di rivelarlo nemmeno a se
stesso. Aveva ragione, non era proprio per questo che cercava sempre
Demelza? Non era perché la rivoleva con se, anche se era il
desiderio più assurdo ed irrealizzabile del mondo? Si chiese
cosa
dire, se negare, se cercare con una scusa di fregarla ed evitare
quella discussione ma poi guardò Daisy, ne
percepì l'intelligenza,
la forza, il carisma e quel carattere che da subito gli era sembrato
tanto complementare al suo e capì che non poteva farlo.
Daisy era
sfuggente e selvaggia, una che difficilmente dava confidenza e si
apriva alle persone, una piccola anima indipendente che spesso
sfuggiva al prossimo e che invece a lui aveva dato fiducia. Non
poteva tradirla, non poteva e non voleva perché sapeva che
se lo
avesse fatto, lei non gli avrebbe dato seconde opportunità.
E quindi
non parlò, né per negare, né per
confermare. Allungò una mano
verso di lei, guardandola intensamente e sperando che capisse senza
bisogno di parlare e lei la prese, lasciando che lui la stringesse. E
quindi, ancora una volta lei aveva capito...
"Signor
Poldark, è anche questo un segreto?".
"Sì,
certo. Quindi sono ancora una volta in debito con te".
Lei
annuì. "Sì...".
Ross
sospirò. Non l'avrebbe passata troppo liscia con lei ed era
inutile
anche solo sperarci. E tenendola per mano, rientrò in casa
da
Demelza e Demian per poi raggiungere gli altri invitati con loro.
...
Valentine
piagnucolò, quando fu ora di andare a casa. Mai si era
divertito
così, mai era stato ad una festa tanto magica e mai era
stato
circondato da tanti bambini. Non voleva più venire via e
anche se
tutti se ne stavano andando, lui sarebbe andato avanti ancora per ore
a giocare.
Non
aveva avuto modo di parlare ancora con Demelza dopo il colloquio in
giardino e l'unica cosa che riuscì a fare, cammuffandola per
gesto
educato e signorile, fu un baciamano a cui lei non poteva sottrarsi.
Gesto un pò scorretto visto che di certo Demelza, un
pò sfuggente e
turbata dal loro discorso in giardino, ne avrebbe fatto volentieri a
meno, ma posare nuovamente le labbra su di lei fu il suo regalo di
Natale dopo il bacio in fronte dato poco prima.
Avrebbe
pensato alle sue parole e anche questo era un regalo di Natale...
E
Daisy era la sua migliore alleata... Anche questo, benché
pericoloso, era un regalo di Natale...
Sulla
carrozza che li portava a casa, Valentine sospirò
appoggiandosi a
lui. "Mi sono divertito tanto! Papà, quando ci torniamo da
Lady
Boscawen?".
"Quando
ci inviterà! SE ci inviterà".
Valentine
rise. "E' magica e anche la sua casa. Ed è anche amica di
Babbo
Natale!".
Ross
gli accarezzò i capelli, sollevato che si fosse trovato bene
coi
suoi coetanei. "Non hai avuto paura di stare con gli altri
bambini?".
"No!
Jeremy, Gustav e Demian sono simpatici".
Ross
sollevò un sopracciglio. "E le femmine?".
Valentine
sospirò. "Mi fanno paura e sono strane, però mi
piacciono.
Soprattutto Emily Basset! Ma non lo dire a Jeremy, Gustav e Demian
perché se no non sono più miei amici".
"No,
non glielo dirò" – disse Ross, sollevato che ad
almeno un
figlio piacessero le femmine. Gli sorrise, quella serata magica per
Valentine non era ancora finita e un'altra sorpresa attendeva suo
figlio a casa, organizzata coi Gimlet. Anche lui voleva dare un
Natale a suo figlio e aveva capito che la magia non poteva essere
donata solo dalla festa di Demelza. Era LUI a dover qualcosa a quel
bambino forse troppo a lungo trascurato ed erano stati proprio i
bambini di Demelza, assime a Dwight, a suggerirgli il regalo giusto
per lui, da fargli trovare quella sera a casa, un regalo che lo
aiutasse nei suoi problemi di salute e di socializzazione.
Quando
giunsero in casa, Valentine si stupì di trovare le luci
delle
candele accese e i Gimlet ancora svegli, nonostante l'ora.
Ross
lo spinse in casa e il bimbo, un pò titubante,
entrò. Certo, non
c'erano le decorazioni e l'atmosfera natalizia di casa Boscawen ma i
Gimlet, durante la loro assenza, avevano arredato il salottino con
candele rosse, piccoli nastri sulla porta e sopra al camino e la luce
ovattata della tarda notte rendeva magica anche la loro piccola casa.
E sul tavolo avevano messo delle tazze con della fumante cioccolata
calda da gustare tutti e quattro insieme perché Ross, prima
di
uscire, aveva chiesto loro di preparare quel piccolo rinfresco di
famiglia perché loro quattro erano una famiglia e aveva
imparato che
le famiglie dovevano festeggiare il Natale insieme! Ross sapeva che
mancava una parte importante della sua famiglia ma aveva capito che
questo non poteva ricadere su Valentine e in fondo, nemmeno su di
lui. Doveva godere delle piccole cose, di ciò che aveva,
doveva
prendersene cura e non permettere che qualcosa, un giorno, lo
portasse a mille rimpianti come stava succedendo con Demelza e gli
altri suoi due figli.
La
porta della cameretta di Valentine, socchiusa, si aprì e ne
sgattaiolò fuori un cucciolo dal pelo nero che, vista la
giovane
età, corse verso di loro in modo scoordinato e allegro,
cercando in
loro, amici con cui giocare.
Valentine
spalancò gli occhi. "Papà!".
Jane
sorrise al bimbo. "Babbo Natale è passato di quì
e ha lasciato
questo per te! Un amico, un cucciolo di cui dovrai prenderti cura e
con cui potrai giocare".
"Davvero?!".
Valentine, emozionato e contento, si rotolò in terra,
raggiungendo
il cagnolino che, festante, gli si lanciò sopra,
mordicchiandolo in
maniera festosa. "E' mio?! Mio davvero?".
Ross
annuì, felice di vederlo tanto eccitato. "Sì,
è tuo e te ne
dovrai prendere cura, dargli da mangiare, tenerlo pulito e
soprattutto, portarlo in giro a fare lunghe passeggiate".
Valentine
rise ancora. "Mi sa che anche Babbo Natale vuole vedermi con le
gambe forti".
"Direi
di sì". Ross annuì, divertito. Aveva comprato per
Valentine
quel cucciolo di Terranova proprio per questo, per invogliarlo a
correre e a muoversi di più, ma anche perché
avesse un amico col
quale, al parco, trovare nuovi amici con cui giocare. Aveva osservato
il grande legame fra Jeremy e Fox e fra Clowance e Queen e gli
effetti positivi che aveva su di loro e quindi aveva deciso, anche se
sarebbe stato impegnativo, che fosse una cosa giusta anche per
Valentine. Aveva quasi sette anni ed era grande abbastanza per quella
responsabilità. "Devi cercargli un nome" – gli
suggerì,
sedendosi sul divano coi Gimlet.
Valentine
saltò sulle sue ginocchia, imitato dal cucciolo che aveva
imparato
subito che il divano era un posto comodo dove stare. "Tannen".
"Tannen?"
- chiese John Gimlet che ovviamente non sapeva una parola di tedesco.
Valentine
annuì. "Sì, Jeremy mi ha detto che vuol dire
abete, come
quello addobbato a casa sua! E siccome il cane me l'ha portato Babbo
Natale, io lo chiamo Tannen!".
Ross
sospirò. "E Tannen sia!". E con suo figlio, Tannen e i
Gimlet, come una piccola armoniosa famiglia, festeggiò il
suo primo
vero Natale bevendo in armonia la loro cioccolata calda.
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Capitolo 47 *** Capitolo quarantasette ***
Le
luci magiche del Natale avevano lasciato il posto a un gennaio
terribile. Un'ondata di gelo e neve si era abbattuta su Londra,
piegando ancora di più le misere condizioni di vita della
gran parte
della popolazione che viveva di stenti.
Per
giorni fu come se il giorno avesse lasciato spazio a una notte
perenne di tormente e in mezzo a quel gelo era prosperata una
pesantissima epidemia di febbre che aveva piagato ancora di
più ogni
classe sociale.
Anche
casa Boscawen non era passata indenne da quel tormento. Per primo si
era ammalato Lord Falmouth, costretto a letto oltre che
dall'influenza, da un terribile e doloroso attacco di gotta, poi si
era ammalata Lady Alexandra e infine i gemellini che, a causa della
febbre molto alta, avevano tolto il sonno a Demelza per diverse
notti.
Dopo
la pausa natalizia, il Parlamento avrebbe dovuto riprendere i lavori
ma la neve aveva ritardato la riapertura di Westminster e
così la
popolazione, che viveva all'ombra di una famiglia reale sorda ai loro
bisogni e senza guide politiche che potessero dare direttive per
fronteggiare la grave situazione, era abbandonata a se stessa. In
quelle prime settimane di gennaio erano stati molti gli assalti ai
granai e alle botteghe di alimentari, gli attacchi alle carrozze dei
signori più ricchi e le proteste più o meno
violente fra le vie
della città.
Il
Ministro Pitt aveva deciso di intervenire con un discorso pubblico in
un sobborgo fra i più poveri di Londra, atto a calmare gli
animi e a
cercare soluzioni per fronteggiare l'emergenza e aveva invitato gli
altri politici a unirsi a lui. Demelza sapeva che Lord Basset e Ross
avevano accettato subito l'invito assieme ad altri e alla fine aveva
dovuto soccombere, anche se non molto entusiasta, Falmouth che
però
all'ultimo, causa influenza, aveva dovuto rinunciare.
"Quel
dannato Basset penserà che l'ho fatto apposta ad ammalarmi,
per non
presenziare a questa pagliacciata con cui pensano di risolvere il
problema del gelo!" - sbottò, a letto, mentre Demelza
sistemava
un vaso di fiori sul suo comodino.
Lei
alzò gli occhi al cielo, assolutamente in disaccordo con
lui. "Non
credo che Basset, Pitt e i loro sostenitori vogliano far sciogliere i
ghiacci e far tornare il sereno, penso che vogliano cercare soluzioni
utili a far passare l'inverno in maniera decente ai poveri della
città" – sbottò, faticando a nascondere
il tono sarcastico
della sua osservazione.
"Lavorare
sodo è un buon modo di sopravvivere all'inverno..." -
mormorò
lui, reso scorbutico dal dolore alla gamba.
Demelza
scosse la testa, sentendo un brivido nella schiena e nelle ossa. Non
si sentiva bene per niente da quella mattina e aveva la costante
sensazione di avere un pò di febbre. I gemellini dovevano
averla
infettata ma per il momento doveva tenere duro per loro, ancora
convalescenti e febbricitanti, e per Falmouth che doveva sostituire
in quell'evento. Se doveva sorbirsi l'influenza, non avrebbe avuto
tempo per farlo fino a sera! "Di lavoro ce n'è poco per
chiunque e Lord Basset non avrà nulla da ridire sulla vostra
assenza, tranquillo! Ci sarò io a rappresentare la famiglia".
Falmouth
sospirò. "Sì e sei preziosa! Ma per quanto tu sia
in gamba,
dovrei essere io a pensare a queste cose...". Si massaggiò
il
ginocchio, col viso che tradiva profonda sofferenza fisica. "Sai,
pensavo...".
"Cosa?".
"Ci
sarà anche Ross Poldark al discorso e tu sembri andare molto
d'accordo con lui".
A
quelle parole, per poco non spezzò il gambo di un fiore che
stava
sistemando, fra le sue mani. Con cautela si girò verso il
letto,
cercando di capire dove volesse arrivare Falmouth con quel tono
sibillino. "Prego?".
Falmouth
rise sotto i baffi. "A Natale siete spariti insieme per un bel
pò e noto sempre quel qualcosa di... sanguigno... nei vostri
sguardi, quando vi vedete".
Demelza
arrossì di colpo. E così se n'era accorto di
quanto successo a
Natale! "Ero fuori a far giocare i gemelli che disturbavano e
lui gentilmente mi ha tenuto compagnia perché aveva bisogno
di
prendere un pò d'aria. Tutto quì, due chiacchiere
mentre i bambini
giocavano" – rispose, sulla difensiva.
"Perché
lo hai invitato?" - insistette lui.
"Perché
questa conversazione?" - rispose a tono lei.
Falmouth
non si fece scoraggiare. "Ho chiesto prima io...".
Demelza
chiuse gli occhi, ripensando forse per la millesima volta al
colloquio avuto con Ross quella sera. Aveva avvertito un brivido
davanti a quelle parole a cui forse non avrebbe dovuto credere mai ma
che le avevano fatto piacere, aveva dovuto iniziare a credere
possibile una spiegazione diversa da quella che si era data in quegli
anni sul loro matrimonio e sui sentimenti di Ross, aveva sentito il
fuoco invadere ogni fibra del suo essere quando lui l'aveva baciata
sulla fronte e aveva provato piacere nel sentire il calore della sua
voce pacata, gentile e allo stesso tempo così accattivamente
e
seducente. Non voleva ammetterlo e non voleva che succedesse ma per
un attimo quella sera aveva chiuso gli occhi e si era cullata nella
beata fantasia che fossero a Nampara, davanti al camino, a parlare e
a scherzare come facevano tanti anni prima. Era stato solo un attimo
e poi aveva riaperto gli occhi, trovandosi in quel giardino di Londra
dove tante volte aveva passeggiato con Hugh, dove aveva portato a
spasso con lui i gemelli appena nati, dove era cresciuto il loro
rapporto... E Ross era tornato ad essere un fantasma del passato
tornato a stravolgere il suo sonnecchioso e sereno presente. Gli
aveva promesso di pensare a quanto si erano detti e lo aveva fatto,
aveva riflettuto sulle sue parole, su quanto raccontato di Elizabeth,
su come aveva vissuto con Valentine in quegli anni a Nampara, sui
suoi sentimenti e Demelza aveva deciso che gli credeva –
perché da
sempre era capace di capire se lui mentisse o meno – ma che
questo
non poteva influire sulla sua vita, su quella dei suoi figli e sul
suo presente. Non sapeva cosa volesse da lei Ross, non sapeva se il
suo fosse un semplice desiderio di alleggerirsi la coscienza, non
sapeva cosa si aspettasse dal loro rincontrarsi ma decise che non
voleva nemmeno scoprirlo! Non ne aveva il coraggio! Non voleva dare
spazio a Ross, stravolgere la sua vita e di certo non voleva
sconvolgere quella dei suoi bambini e poi... Poi ora era una
Boscawen, una donna molto diversa da quella che Ross ricordava e il
suo ruolo era quello di madre degli eredi di quel casato e moglie e
vedova rispettosa di Hugh. Fine, il resto non aveva senso e per
quanto la riguardava, non voleva rivelare nemmeno a se stessa cosa
provasse e di certo quindi non ne avrebbe parlato a Ross! O si
sarebbe aperta una voragine nel suo cuore e lei ci sarebbe finita
dentro, diventando vulnerabile a lui e al richiamo magnetico della
sua persona. Doveva stare attenta perché da Ross era
attratta
ancora, nonostante tutto, e la nostalgia per ciò che erano e
i suoi
sentimenti potevano spingerla a fare qualcosa che poi non sarebbe
riuscita a gestire... "L'hanno invitato i bambini, non io! In
realtà hanno invitato suo figlio e non mi sembrava educato
rimangiarmi quella proposta".
Falmouth
sospirò. "Una buona risposta da una buona politica..." -
notò. "Sai perché ti sto parlando in questo modo,
Demelza?".
"Non
credo di volerlo sapere".
Ma
Falmouth non si fece scoraggiare. "Non sono più giovane e i
miei acciacchi ovviamente aumentano, col trascorrere degli anni. Tu
ora mi sostituisci, oggi andrai a quel dannato discorso al mio posto
ma se io fossi impossibilitato a lungo... o per sempre... nei miei
compiti...".
Demelza
si accigliò. "E' solo influenza ed è solo gotta!
Andrete
avanti a guidare questa famiglia per anni!".
Falmouth
non parve ottimista quanto lei. "Non è detto e lo sai pure
tu!
E anche se sei in gamba, tu non puoi sostituirmi in tutto e se mi
succedesse qualcosa, chi guiderebbe questa famiglia? Non Alix, non ne
è in grado... Non i bambini, sono ancora troppo piccoli...
Ricadrebbe tutto sulle tue spalle e io sarei più sereno se
avessi al
tuo fianco qualcuno disposto a portare questo peso con te".
Demelza
sospirò, volgendo lo sguardo altrove. Capiva il suo punto di
vista
ma non amava questo genere di discorsi. "Volete che mi risposi?
Avete in mente un matrimonio combinato? Sono e resto la moglie di
Hugh!". Stava entrando in panico...
Lui
scosse la testa. "Niente matrimonio combinato, so che non
accetteresti e non mi piace nessuno degli uomini che ti gravitano
attorno, adoranti! Come quell'Adderly, quel dannato viscido Adderly!
Ross Poldark mi piace, è giovane, affascinante, carismatico
ed
intelligente e sembra interessato a te, lo vedo come ti guarda ogni
volta che siete insieme...".
"No"
– rispose Demelza, secca, mentre sentiva la febbre che
aumentava.
Doveva chiudere quel discorso, SUBITO!
Falmouth
sospirò. "Pensaci... Se non a lui, pensa comunque a tenerti
aperta questa possibilità. Sei giovane e hai tutta la vita
davanti,
ancora! E i bambini hanno bisogno di una guida forte come un padre,
soprattutto i gemelli che non avvertono l'autorità di
nessuno! E non
sarai irrispettosa di Hugh se ti rifai una vita, così come
non sarai
una vedova più virtuosa se resti ancorata a come sei ora!".
Demelza
sollevò lo sguardo, come a cercare una soluzione a quel
discorso che
non le piaceva per niente. Falmouth non aveva torto e sapeva anche di
non fare nessun torto a Hugh se mai avesse deciso di risposarsi visto
che Hugh stesso, sul letto di morte, l'aveva incitata a non sentirsi
in colpa se avesse voluto tornare addirittura in Cornovaglia,
però
non era pronta, non si sentiva abbastanza coraggiosa anche solo per
pensare di fare un passo simile. Un passo che mai avrebbe fatto se
non per amore... E poi Falmouth si sbagliava, era stata abituata a
lavorare fin da quando era in fasce e se ce ne fosse stato bisogno,
avrebbe portato avanti da sola quella famiglia e i suoi figli. Non
voleva pensare ad altre soluzioni, non voleva ulteriori spinte oltre
a quelle che le suggeriva il suo cuore, verso Ross... "Si sta
facendo tardi! Vado a dare un occhio ai gemelli e poi con Clowance e
Jeremy, andrò all'arringa di Pitt".
Falmouth
la guardò storto. "E' proprio necessario portare i bambini
in
quel posto malfamato e dimenticato da Dio?".
Demelza
sostenne fermamente il suo sguardo. "Sì, è
necessario per me!
Voglio che vedano e capiscano che non tutti hanno la loro ricchezza e
fortuna, voglio che facciano loro i problemi della gente comune e
voglio che ascoltino i discorsi di fratellanza e solidarietà
di
Pitt. Hanno troppo e conoscono troppo poco della vita vera e la
giornata di oggi sarà assolutamente formativa e istruttiva
per
loro".
Lord
Basset sprofondò sui cuscini, rendendosi conto che non
poteva fare
nulla per farle cambiare idea. "Sta attenta però! A me
questa
tua idea di portare i bambini a vedere i poveri, non piace nemmeno un
pò! E fa freddo, congeleranno".
"Hanno
i loro caldi cappotti, i cappelli, le sciarpe e gli stivali! A
differenza dei bambini scalzi di quei quartieri, che restano scalzi
anche se nevica...".
E
a quella parole a cui non poteva controbattere, Falmouth chiuse gli
occhi. "Va, va... Prima che mi venga mal di testa".
Prendendo
un profondo respiro e dopo avergli suggerito riposo, Demelza
uscì
dalla sua stanza per tornare nei suoi appartamenti.
Prudie
stava aiutando Jeremy e Clowance a vestirsi e così aveva
qualche
minuto per se e i gemelli che dormivano nel lettone nella sua stanza.
Entrò
di soppiatto per non svegliarli, avevano avuto la febbre altissima e
anche se ora stavano meglio, Demelza non era ancora del tutto
tranquilla, soprattutto per Daisy che era quella che si ammalava
più
di tutti e più pesantemente, tanto che Dwight le aveva
spesso
consigliato di portarla al mare nei mesi estivi, per fortificarla. A
quella raccomandazione Demelza sorrideva spesso perché se le
cose
fossero state diverse, Daisy al mare ci sarebbe cresciuta. Era la sua
terra d'origine e Demelza ne provava spesso nostalgia. La spiaggia,
la sabbia, le onde che si infrangono sui piedi, il rumore del vento e
il canto dei gabbiani... Il mare, la Cornovaglia, casa...
Si
avvicinò al letto e guardò i gemellini che vi
dormivano insieme.
Anche Daisy non aveva protestato ad essere portata in camera sua,
segno di quanto fosse ancora debilitata e poco reattiva.
Sospirando
si sedette fra di loro, sentendosi in colpa nel lasciarli soli quel
pomeriggio, visto che ancora la guarigione era lontana.
Accarezzò i
capelli biondi di Demian e lui come al solito si rannicchiò
sereno
contro di lei, mugugnando nel sonno, poi allungò una mano
verso la
testolina di Daisy e lei aprì gli occhi d'istinto, come se i
suoi
sensi non dormissero mai e fosse sempre all'erta se qualcuno si
avvicinava.
La
osservò e Demelza si bloccò, come timorosa che la
respingesse, come
sempre. Per un lungo attimo rimasero ferme a guardarsi e studiarsi e
Demelza si chiese cosa fare, come avvicinarsi a lei e farle sentire
il suo affetto senza che Daisy se ne sentisse sopraffatta e alla fine
le venne in mente Ross. Ross, che Daisy non conosceva e che eppure
era riuscito a fare stranamente breccia in lei, Ross che non la
cercava quando erano vicini e lasciava che fosse lei ad avvicinarsi a
lui quando ne sentiva la necessità. E forse era questo il
segreto
con Daisy, aspettare e rispettare i suoi tempi, lasciando a lei la
scelta di quando fare il primo passo. Ross lo aveva capito,
chissà
come...
Fermò
la mano a pochi centimetri dalla bimba appoggiandola mollemente sul
cuscino e Daisy rimase ferma, nascosta sotto le coperte a guardarla.
E poi dopo infiniti secondi, silenziosamente e inaspettatamente,
allungò la sua manina stringendo la sua e rannicchiandosi
contro di
lei alla ricerca di calore. E a quel punto la baciò sulla
fronte
calda, senza che lei la respingesse, avvertendo il senso di sollievo
della sua bambina ad averla vicina. Forse per la prima volta...
Un
giorno avrebbe chiesto a Ross come aveva fatto a capire come
funzionasse con Daisy...
La
porta in quel momento si aprì piano e Jeremy e Clowance, con
Prudie,
entrarono nella stanza.
"Signora,
i bambini sono pronti!".
E
Demelza, nonostante si sentisse spossata a sua volta dalla febbre, si
alzò mollemente dal letto. I bambini erano imbacuccati e
pronti per
uscire, dei gemelli si sarebbe occupata Prudie e lei doveva davvero
andare. "Sù o faremo tardi".
"Ma
non posso stare a casa?" - si lamentò Clowance, non molto
entusiasta di quella gita nei sobborghi poveri della città.
Demelza
assunse uno sguardo severo, decisa a correggere l'atteggiamento a
volte decisamente snob di Clowance. "No, non puoi". E dopo
aver rimboccato le coperte ai gemellini e raccomandato a Prudie di
mettere loro delle pezze bagnate sulla fronte, la prese per mano e
con Jeremy uscì.
...
Il
viaggio in carrozza, in una Londra semi-deserta per il freddo, fu
avvolto da un gelido nevischio che finiva con l'attutire ogni rumore,
anche quello delle ruote sul selciato.
Clowance,
nel suo cappottino di pelliccia bianco, si calò il berretto
di lana
sulla fronte nascondendo le manine nello scaldamani mentre Jeremy si
coprì metà del viso con la sciarpa.
Demelza,
dal canto suo, strinse le braccia attorno al suo corpo alla ricerca
di calore, calore che non riusciva a trovare nemmeno nel suo
meraviglioso mantello di calda e morbida lana color crema e
nell'ulteriore scialle che aveva messo sulle spalle. Stava congelando
e i brividi le percorrevano la schiena in modo fastidioso, segno che
la febbre stava salendo.
Man
mano che si allontanavano dalle ricche ville del centro, le case
divennero meno lussuose ed abbienti, finendo per assumere la forma di
baracche e catapecchie tanto simili a quelle dove Demelza era nata e
cresciuta. Avrebbe voluto raccontare ai suoi bambini della sua
infanzia, di come lei stessa fosse venuta al mondo in mezzo a mille
difficoltà e alla povertà più nera, ma
non poteva, non ora in quel
mondo dove era finita. Raccontare avrebbe significato scoperchiare un
vaso di pandora enorme e col ritorno di Ross nella sua vita, le cose
da spiegare sarebbero state tante e lei non si sentiva abbastanza
forte per farlo. Coi bambini, con Lord Falmouth e Lady Alexandra, con
tutti coloro che conosceva... Come poteva spiegare? Come poteva
riaprire quel capitolo della sua vita? Per tutti lei era la
misteriosa fata amata da Hugh Armitage, arrivata dal nulla e con un
passato misterioso alle spalle e avevano imparato ad amarla con
quell'idea in mente. Ma cosa avrebbero provato per lei, se avessero
saputo la verità? E i bambini? Jeremy e Clowance come
avrebbero
reagito? Sapevano di non essere i figli di sangue di Hugh e Jeremy
sapeva anche di più perché lei qualcosa gli aveva
raccontato e i
termini in cui aveva descritto Ross a suo figlio non erano certo
lusinghieri e adesso, dopo quanto si erano detti la notte di Natale,
si pentiva amaramente di essersi lasciata andare a quegli sfoghi col
bambino.
Chiuse
gli occhi sprofondando nella poltrona, quando la carrozza si
fermò.
Clowance
si affacciò e sbuffò vistosamente. "E' brutto
questo posto,
non mi piace!".
Jeremy
invece, di natura più curiosa ed accomodante, scese di corsa
e
Demelza lo seguì tenendo la figlia per mano.
Si
guardarono attorno, trovandosi in un piccolo spiazzo che si trovava
al centro di uno stretto dedalo di vie sterrate percorse da
catapecchie, stalle, ruderi cadenti e piene di persone vestite di
stracci accompagnate da bambini scalzi e sporchi che li osservavano
come se provenissero dalla luna, in cagnesco e con evidente
ostilità.
Demelza li capiva, capiva cosa potesse passare nella mente di chi
aveva lo stomaco sempre vuoto vedendo persone ricche e ben agghindate
che forse il cibo lo buttavano via senza troppi pensieri.
Un
piccolo palco di legno era stato costruito a ridosso di una stalla e
il Ministro Pitt, assieme ad altri politici fra cui Basset, era
già
sul posto a controllare su un foglio che il suo discorso fosse
perfetto, attorniato da povera gente del posto, curiosa, che andava
e veniva dalle proprie case in attesa di sentire cosa avesse da dire.
Appena
li vide, Lord Basset andò verso di loro, sorridendo. "Lady
Boscawen? Mai mi sarei aspettato una fuga di quella vecchia volpe e
la vostra presenza al suo posto!".
Demelza
sorrise, lasciandosi baciare la mano. "Lord Falmouth è a
letto,
bloccato dalla febbre e dalla gotta. E' malato sul serio questa volta
e sarò io, con Jeremy e Clowance, a rappresentarlo".
L'uomo
guardò i bambini. "Non è posto per loro, di
questi tempi i
sobborghi di Londra sono pericolosi e la fame rende la gente rabbiosa
e violenta".
"Credo
che sia giusto che vedano una realtà diversa dalla loro"
–
rispose Demelza, stringendo a se Clowance che si era aggrappata alla
sua vita.
"Come
volete voi, mia Lady". Lord Basset, un pò contrariato e
sicuramente per nulla d'accordo, accarezzò i capelli biondi
di
Clowance, salutò Jeremy e poi tornò dagli altri
politici e Demelza,
coi bambini, si sedette su una specie di vecchia panchetta di legno
mezza rotta, fuori da una delle casette che componevano quella
piccola piazza.
"Questo
posto è brutto, puzza e la gente ci guarda in modo strano!"
-
piagnucolò Clowance.
Jeremy,
seduto sulla panca, dondolò le gambette nel vuoto.
"Sì, è
tutto un pò sporco e la gente credo abbia fame. Ci guardano
come
fanno i nostri cani quando ci dimentichiamo di dargli il cibo a
pranzo!".
Demelza
fulminò con lo sguardo Jeremy per quella che voleva essere
una
battuta detta senza malizia ma che trovò di pessimo gusto.
"Non
farlo più! Non paragonare mai una persona a un animale!".
"Ma
non volevo offendere! I nostri animali sono belli".
Demelza
si morse il labbro, non sapendo bene come affrontare il discorso ma
comunque decisa a non far cadere la questione, rendendosi conto che
era proprio per frasi del genere che aveva portato lì i
bambini.
"Jeremy, avere fame e non avere modo di riempirsi lo stomaco,
è
orribile. Non ci dormi la notte e sai che quando sarà
mattina, la
cosa non si risolverà! Ti alzerai e avrai ancora fame e
forse ne
avrai tutto il giorno".
Clowance
si accigliò. "E tu come lo sai?".
"Lo
so e basta!". E in quel momento di difficoltà – e
non credeva
che avrebbe mai potuto dirlo – vide arrivare Ross. A piedi,
comparendo da uno dei vicoli adiacenti alla piazza, si
materializzò
davanti a loro e appena li vide, rimase paralizzato dalla sorpresa.
Demelza
deglutì, abbassando lo sguardo in imbarazzo. Non si erano
più visti
dalla notte di Natale e nel vederlo, il ricordo del suo fiato caldo
sul viso e delle sue labbra sulla sua fronte le provocarono un
brivido ancora peggiore di quelli causati dalla febbre.
Ross,
dopo aver salutato i suoi compagni di partito, le si
avvicinò. "Lady
Boscawen" – salutò educatamente, recitando la sua
parte
davanti ai bambini – "Cosa ci fate quì?".
Il
tono di voce preoccupato di Ross non sfuggì a Demelza.
"Rappresento
Lord Falmouth a letto con l'influenza".
"Anche
mamma ha la febbre!" - la interruppe Jeremy.
E
lo sguardo di Ross divenne ancora più cupo, come se le
stesse
lanciando un muto rimprovero. "Non dovreste essere quì,
questi
posti sono pericolosi di questi tempi e a maggior ragione se non vi
sentite bene".
Demelza
distolse lo sguardo per evitare di guardarlo in viso e sentirsi
spogliata dai suoi occhi. Odiava quando Ross la guardava a quel modo
e allo stesso tempo non sopportava che tutti quel giorno la stessero
rimproverando per aver portato con se i bambini. "E' solo un
pò
di febbre, stasera mi metterò a letto con un pò
di latte e miele e
domani sarò come nuova".
E
Jeremy intervenne di nuovo. "Non è vero, i gemellini sono
tre
giorni che ce l'hanno e mica sono come nuovi! Anche la nonna e lo zio
mica sono come nuovi...".
Ross
entrò in allarme. "Sono tutti malati tranne voi?".
Clowance
annuì, sospirando. "Sì... Vorrei esserlo anche
io, così non
starei in questo brutto posto!".
"Sì,
è un brutto posto davvero e...".
E
Demelza lo bloccò prima che potesse rimproverarla pure lui
per aver
portato lì i bambini. "Qualche ora quì
insegnerà loro
qualcosa di utile per il futuro" – tagliò corto.
Ross
rimase per un attimo in silenzio, forse d'accordo sul concetto ma
decisamente meno sul metodo. "La gente di questi quartieri
arriva da settimane durissime e ci vede come nemici che tolgono loro
di bocca il poco pane che hanno".
Demelza
alzò lo sguardo a fronteggiarlo. "Pensate che non le sappia,
queste cose?".
Ross
impallidì e Demelza capì che aveva realizzato e
forse ricordato da
dove lei provenisse. "Sì, so che le sapete...".
Un
giovane strillone urlò che il discorso di Pitt stava per
iniziare e
una piccola folla si radunò attorno al palco.
Ross
aiutò Demelza ad alzarsi e coi bambini, si mise in un angolo
mentre
la gente attorno a loro formava una muraglia umana poco
raccomandabile. "Statemi vicino, non ho idea di come la gente
reagirà a quanto lui dirà".
"Non
dovreste stare con i vostri colleghi, signor Poldark?" - chiese
Jeremy.
Lui
divenne cupo. "Non devo fare discorsi, sono solo quì come
sostegno morale a Pitt e alla popolazione. In mezzo a questa gente
farò migliore impressione che su quel palco, in alto".
Demelza
avrebbe voluto reagire e dire qualcosa ma la spossatezza della febbre
e la constatazione che Ross aveva ragione e che la situazione poteva
diventare pericolosa, la bloccarono dal fare qualsiasi rimostranza.
Si sentì nuovamente in imbarazzo, chiedendosi cosa lui
pensasse dopo
Natale, se si aspettasse qualcosa da lei e soprattutto...
Guardò i
suoi due bambini e si rese conto che dopo tanti anni erano solo loro
quattro, la famiglia che avrebbe dovuto essere, la famiglia nata e
creata a Nampara che avrebbe dovuto crescere insieme e che invece...
Guardò
Jeremy e Clowance e si rese conto che, senza che loro lo sapessero,
per la prima volta erano da qualche parte insieme al loro
papà e
alla loro mamma. Insieme! Non c'erano gli altri, non c'era il mondo
di Londra, non c'era quello che era venuto dopo! Erano solo loro, la
famiglia Poldark di Nampara...
Gli
occhi di Ross, osservandoli, divennero per un attimo lucidi e Demelza
capì che stava pensando alla stessa cosa. I bambini erano
davanti a
loro, le parole di Pitt risuonavano fra la folla urlante e quel
chiasso per un attimo li isolò da tutti. Nessuno badava a
loro e
Ross così allungò la mano, stringendo la sua per
un attimo, come a
voler cercare in lei la forza per sopravvivere a quei pensieri di
ciò
che era e poteva essere.
E
Demelza non si ritrasse... Era debole, sentiva la febbre che
progressivamente si alzava e aveva dannatamente freddo mentre la mano
di Ross era così dannatamente calda...
Lui
la guardò preoccupato, mentre Pitt parlava dell'inverno
duro, dei
suoi sforzi per distribuire razioni di grano gratuito alla povera
gente o comunque a prezzi calmierati e tutti gridavano la loro rabbia
e frustrazione per quella situazione durissima che aveva già
mietuto
parecchie vittime, soprattutto fra i bambini più poveri.
"Sei
calda... Dannazione, quanta febbre hai?".
Demelza
deglutì. "Non ha importanza... Passerà!".
La
gente attorno a loro urlò di più ed
iniziò a spingere.
Imprecazioni giunsero anche dalle case e una pioggia di sassi e pezzi
di legno cominciò a piovere violentemente sugli astanti,
lanciata
dalle persone appollaiate sui tetti e sui ballatoi.
"Mamma..."
- piagnucolò Clowance, aggrappandosi a lei.
Ross
si guardò attorno, capendo che la situazione stava
degenerando,
mentre anche Pitt si fermava, capendo che gli animi si stavano
surriscaldando e la gente era pronta ad attaccare con la forza,
spinta dalla disperazione. Forse era una situazione programmata dagli
abitanti del quartiere o forse qualcosa nato spontaneo, ma Ross
capì
che la situazione sarebbe divetata pericolosissima e che tutti loro
che rappresentavano la Londra più ricca, erano potenziali
bersagli
da attaccare.
La
gente iniziò a spingere e i bambini parvero spaventarsi.
E
a quel punto Demelza si arrese, rendendosi conto che forse aveva
sbagliato e che aveva portato i bambini in un posto pericoloso. Le
urla aumentarono fino a diventare un frastuono e Ross a quel punto
prese in mano la situazione. Prese in braccio Clowance, per la prima
volta nella sua vita, avvicinò a se Demelza mettendole una
mano
sulla spalla e ordinò a Jeremy di tenere per mano sua madre,
senza
lasciarla mai.
E
poi, con la forza della disperazione, mentre la gente spingeva per
attaccare il palco e sassi piovevano da ogni dove, mentre le guardie
cercavano di mantenere inutilmente la calma e Pitt e gli altri
tentavano di trovare vie di fuga scortati dalle loro guardie, Ross si
fece largo fra la folla urlante, aprendosi un varco e trascinando
con se la sua famiglia.
"Cosa
faremo?" - urlò Demelza, tentando di tenere Jeremy quanto
più
vicino a se.
"Dobbiamo
uscire da questa dannata piazza, immetterci in un vicolo e trovare un
rifugio finché la situazione non si sarà
calmata!" - urlò
Ross mentre lei, confusa dalla febbre e dalla situazione esplosiva
attorno a se, sentiva che le forze le stavano venendo meno e che
forse sarebbe svenuta.
Ma
un pensiero in quel momento la cullò, dandole la certezza
che tutto
sarebbe andato per il meglio: c'era Ross con loro e lui non avrebbe
mai permesso che succedesse nulla di male a lei e ai loro bambini. E
per un attimo si stupì di quel pensiero ma fu solo un
momento perché
si rese conto che quella certezza era da sempre stata radicata dentro
di lei.
|
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Capitolo 48 *** Capitolo quarantotto ***
Aveva
combattuto in guerra, fatto a botte in infinite risse, rischiato il
cappio al collo qualche volta di troppo ma mai si era sentito
impaurito come in quel momento. Non per se stesso, certe situazioni
erano a lui congeniali e servivano a farlo sentire vivo ma in quel
momento non era solo lui e non era la sua la pelle da portare a casa
ma quella della sua famiglia...
Sentì
il corpo di Demelza, che sorreggeva, farsi per un attimo pesante e
capì che non si sentiva bene e che quella gente che urlava,
spingeva
e la pressava da ogni parte, non facevano altro che peggiorare la
situazione. La scosse, cercando la sua attenzione. "Non svenire,
non ora!".
Lei
boccheggiò, pallida come un fantasma. "Non è una
cosa che si
decide, succede e basta".
Ross
si rese conto che quel dialogo era piuttoto surreale. "Beh,
falla succedere dopo!" - le ordinò, pretendendo che
collaborasse e lo facesse, mentre Clowance fra le sue braccia si
aggrappava spaventata a lui. Solo in quel momento realizzò
che
quella bimba mai riconosciuta e mai conosciuta prima d'ora, quella
bimba che era sua ma non lo era più per legge e che aveva
lasciato
ancor prima che nascesse, per la prima volta era fra le sue braccia.
Sua figlia... Hugh Armitage poteva aver sposato Demelza e averle dato
il suo cognome ma Clowance rimaneva sua e nelle sue vene scorreva il
sangue fiero dei Poldark. Hugh era stato un padre per lei ma mai
sarebbe stato l'UNICO! Forse era arrogante pensarlo ma dentro di lui
mai avrebbe rinunciato a quella certezza: erano i suoi due bambini,
quelli...
Jeremy
osservò Demelza preoccupato, rendendosi conto che stava male
e
quando fece per chiamarla, uno dei manifestanti si avventò
su di lui
urlando frasi minacciose.
"Dannato
moccioso aristocratico! La ghigliottina ci vorrebbe, come in
Francia!".
Jeremy
spalancò gli occhi con terrore, Demelza sussultò
spaventata e
Clowance pianse affondando il viso nel suo collo. E a quel punto a
Ross del politicamente-corretto, non interessò
più nulla. Per un
attimo lasciò libero il braccio con cui sosteneva Demelza e
con la
mano, assestò un violento pugno in faccia all'assalitore di
suo
figlio, facendolo stramazzare a terra col naso sanguinante.
Demelza
alzò lo sguardo su di lui e a Ross parve sinceramente
impressionata.
"Certe cose non cambiano mai..." - mormorò vicino al suo
orecchio, in modo che nessuno potesse sentirla in mezzo a quel
frastuono. E il fiato sul suo collo, la voce della donna che amava e
che in quel momento si rivolgeva a lui solo, in uno strano momento di
intimità e cameratismo, gli fecero venire la pelle d'oca.
Santo
cielo quanto la voleva, quanto la RIVOLEVA...
Jeremy
guardò l'uomo appena colpito che rotolava per terra, poi
guardò lui
e poi di nuovo il suo assalitore. "Wow Signor Poldark! Questa la
devo davvero raccontare a Gustav! Dove avete...?".
Ross
riprese Demelza e ricominciò a spingere per farsi strada
nella
folla, trascinandoli con se. "Dove ho imparato? Nelle peggiori
locande che un uomo potrebbe frequentare, Jeremy! Posti che tu
probabilmente non vedrai mai".
"Ohhh"
– rispose il bimbo, sinceramente ben impressionato.
Clowance
non disse nulla e probabilmente nella sua piccola mente
aristocratica, stava pensando che lui fosse un troglodita selvaggio
ma per il momento andava bene così. Il pericolo era scampato
e
stavano tutti bene...
Spingendo
– e dando qualche calcio un pò scorretto negli
stinchi dei
manifestanti – Ross continuò a farsi largo nella
folla,
allontanandosi dal palco del comizio. Pitt e gli altri, sicuramente,
si erano messi in salvo aiutati dalle loro guardie e ora toccava a
lui trovare un posto sicuro dove aspettare la fine degli scontri. Il
suo obiettivo era uscire dalla piazza e trovare un qualche magazzino
o stalla vuota dove rifugiarsi e sicuramente quei viottoli fatiscenti
offrivano molti posti del genere ai fuggitivi. Nevicava, la gente era
in tumulto e Ross ne capiva appieno i motivi ma doveva salvare la sua
famiglia e al momento questa era la sua priorità!
Finalmente
riuscirono a raggiungere un piccolo vicolo che portava
chissà dove
ma non era importante. Ross lo imboccò, trascinandosi dietro
Demelza
ormai esausta e i bambini, correndo nel senso opposto alla piazza e
lasciandosi i tumulti alle spalle anche se la loro eco sembrava non
voler lasciare le sue orecchie.
L'acciotolato
lasciò il posto a una pavimentazione sconnessa e poi a uno
sterrato
sporco e pieno di pozzanghere e sporcizia e le case, man mano che si
allontanavano dalla piazza, parevano sempre più baracche che
stavano
in piedi per grazia di Dio ma che potevano volare via con un soffio
di vento un pò più forte degli altri.
Sentì Demelza che rallentava
il passo e si accorse che non ce la faceva più e visto che
ormai
sembravano piuttosto lontani dai tumulti, si fermò per farle
riprendere fiato. Mise a terra Clowance con immenso dolore
perché
sapeva che non gli sarebbe capitato tanto presto di rifarlo e poi si
concentrò su Demelza. "Come va?".
Lei,
col fiato corto, lo guardò. Il suo sguardo pareva annebbiato
e le
sue guance erano diventate paonazze, segno che doveva avere una
febbre altissima. "Gira tutto...".
E
poi si accasciò, rischiando di finire a terra se non fosse
stato per
i riflessi pronti di Ross che la prese al volo.
"MAMMA!"
- urlarono i bambini, terrorizzati.
Ross
cercò di tranquillizzarli. "Non è nulla, ha la
febbre ed è
svenuta. Le passerà, dobbiamo solo trovare un rifugio caldo
dove
stare finché gli scontri non saranno finiti. Un posto dove
potrà
riposare... E anche voi!".
Clowance
si guardò attorno, sconfortata e spaventata da
quell'ambiente che
doveva apparirle orribile rispetto a quelli a cui era abituata. "Ma
dove? Quì non c'è niente!".
Jeremy
la prese per mano, deciso. "Basta cercare! E accontentarsi".
Ross
provò un'immenso orgoglio verso Jeremy. Era cresciuto negli
stessi
ambienti di sua sorella ma non era stato abbagliato da etichette e
lusso ed anzi, pareva aver ereditato lo spirito pratico e l'animo
semplice e gentile di sua madre. Era un bambino in gamba e sarebbe
diventato un uomo infinitamente migliore rispetto al padre che
l'aveva messo al mondo. "Giusto! Cerchiamo!" - disse
infine, stringendo Demelza a se. Stava malissimo e nonostante quanto
detto per tranquillizzare i bambini, era davvero molto preoccupato
per lei.
Il
vicolo, piccolo e maleodorante, era deserto e solo poche persone,
mendicanti e mocciosi sporchi e scalzi che li guardavano con
sospetto, incrociarono il loro cammino. Li osservavano, li studiavano
e poi, come bestioline selvatiche, scappavano via per la loro strada.
Di certo fra quelle povere case erano nascoste persone che li
guardavano di nascosto da dietro tende e infissi, ma a Ross non
importava poi molto. Sapeva come trattare con loro in caso di
necessità e proprio fra i più poveri aveva
trovato i suoi migliori
amici e... Strinse a se Demelza, rendendosi conto che quel povero
mondo, molto simile a quello dove lei era nata e cresciuta, gli aveva
anche donato l'amore...
"Signor
Poldark! Quello può andar bene?" - chiese Jeremy, indicando
una
specie di piccola stalla incastonata fra magazzini e casupole, dalla
porta rotta che sbatteva furiosamente per il vento che la scuoteva.
Ross
annuì. "Perfetto! Bravo Jeremy".
Clowance
si bloccò, con gli occhi lucidi. "Lì? No, io non
ci vengo!".
Ross
la guardò, spazientito. Non era decisamente ora per i
capricci e
anche se capiva quanto fosse spaventata, non avrebbe accettato quel
suo comportamento proprio ora che sua madre aveva più che
mai
bisogno di riposo e riparo. "E invece verrai! Non te lo sto
chiedendo, te lo sto ordinando!".
Il
suo tono severo, le fece spalancare gli occhi. "Nessuno mi ha
mai parlato così!".
Ross
per un attimo non seppe che fare, ma decise che anche se lei forse lo
avrebbe disprezzato, avrebbe proseguito nei suoi intenti. "Beh,
doveva capitarti prima o poi... Decidi! O resti quì in
strada sotto
la neve, da sola, oppure vieni con noi!".
Il
suo tono era perentorio e Clowance capì che non aveva molta
scelta e
forse per la prima volta nella sua vita, fu lei quella costretta a
piegarsi agli ordini di qualcuno. "E' brutto, è sporco... Mi
sporcherò tutta".
"Tua
madre sta male! E' più importante non sporcare il tuo
cappotto o
portarla al sicuro e al caldo?".
Clowance
abbassò lo sguardo, nervosa. "Quando andiamo a casa?".
"Appena
sarà possibile...".
Jeremy
si avvicinò alla sorella, prendendola per mano. "Dai, lui ha
ragione! Dobbiamo pensare a mamma come mamma ha sempre pensato a noi.
E' per poco, solo finché la strada tornerà calma.
Poi andremo a
casa".
E
per la seconda volta, Ross fu orgoglioso di lui. Quanta strada aveva
fatto quel bimbo che giocava sulle sue ginocchia col suo cavallino di
legno...
Entrarono
nella stalla, un luogo effettivamente sporco e spoglio, illuminato
solo da una piccola finestrella scheggiata che dava sul vicolo e con
arredo, solo un pò di paglia contro la parete e delle assi
di legno
sconnesse qua a la. Beh, era abbastanza per arginare l'emergenza! Con
delicatezza mise Demelza sulla paglia e poi, dopo esserselo tolto, la
coprì col suo cappotto. Era ancora priva di sensi e pareva
indifesa
e piccola, così...
Con
la coda dell'occhio vide che Jeremy e Clowance tentavano senza
successo di chiudere la porta e Ross andò in loro aiuto. "La
serratura non c'è! Dobbiamo arrangiarci con quello che
abbiamo per
chiuderla".
Jeremy
annuì, guardandosi attorno. "Le assi di legno! Possiamo
sbarrarla con quelle!".
"Bravo!"
- rispose Ross. "Clowance, va dalla mamma e tienile compagnia
mentre noi sistemiamo la porta" – le disse, in ton
più
gentile rispetto a poco prima.
La
bimba ubbidì e Ross, con Jeremy, sbarrò la porta
con le poche assi
a loro disposizione, dopo aver costruito una specie di marchingegno
di fortuna per fissarle ideato dal bambino. Faceva freddo lì
dentro
ma quanto meno sarebbero stati riparati dalla neve e con la porta
sbarrata, sarebbero stati anche al sicuro da ipotetici attacchi.
Potevano stare lì nascosti e appena urla e tumulti si
fossero
calmati, col buio della sera ne avrebbe approfittato per riportare
Demelza e i bambini a casa.
"E'
sicura?" - chiese Jeremy, osservando la fine del loro lavoro.
Decisamente
di buon umore, nonostante tutto, Ross osservò soddisfatto
quel
lavoro, il primo lavoro della sua vita, fatto fianco a fianco di suo
figlio. Ed era stato bello e allo stesso tempo doloroso
perché
pensare a quante cose si era perso in quegli anni era ormai una
tortura. "Direi di sì! A te che te ne pare?".
Il
bimbo sorrise. "Boh, meglio di prima lo è sicuramente! Mi
piace
costruire le cose".
"E
sei pure bravo!" - osservò Ross, orgoglioso per la terza
volta
di lui. Aveva davvero un buon occhio per la meccanica e sicuramente
avrebbe fatto grandi cose da grande.
Jeremy
arrossì. "Grazie!".
Ross
rispose al suo sorriso. "Pensavo ti piacesse unicamente stare a
sentire tuo zio parlare di politica per diventare come lui".
Jeremy
alzò le spalle. "Mi piace, sì! Anche giocare a
scacchi con
lui... Ma non so se voglio proprio diventare come lui... A me piace
costruire le cose, invetare e fare a mano, col legno".
Ross
parve stupito da quella risposta. Quindi i Boscawen non gli avevano
fatto proprio del tutto il lavaggio del cervello. "Non vuoi
essere un politico?".
"Non
lo so".
Ross
gli sfiorò la spalla. "Beh, hai tempo per pensarci. Anche
se,
temo, nella tua famiglia sia il destino di tutti fare politica".
Jeremy
scosse la testa. "Non di tutti! Papà era un poeta".
Ross
deglutì e volse lo sguardo altrove perché Jeremy,
dolorosamente,
aveva con poche inconsapevoli parole palesato la realtà
delle cose,
il senso di perdita e la sua appartenenza a un altra famiglia.
Chiacchierare con lui così, per la prima volta, per un
attimo gli
aveva fatto dimenticare che per Jeremy lui era solo il Signor Poldark
mentre suo padre era un altro... E ancora una volta il senso di colpa
e il dolore per quanto aveva perso per i suoi errori divennero reali
davanti a lui. Ma non volle che Jeremy lo percepisse e quindi, con
una leggera spinta alla sua spalla, lo fece riavvicinare a sua madre.
Entrambi
tornarono da Demelza che, pallida, sembrava immersa in un sonno
profondo. Tremava vistosamente e Ross sapeva che aveva bisogno di ben
altri ambienti per stare meglio ma quello era il meglio che potesse
offrirle in quel momento. Per un attimo gli tornarono in mente i
giorni della malattia sua e di Julia ma Ross scacciò quel
pensiero.
Era una malattia totalmente diversa e Demelza sarebbe stata bene in
pochi giorni, appena tornata alle cure della sua casa. Avrebbe voluto
fare tante cose per lei e per farla stare meglio, stendersi accanto a
lei e stringerla a se per scaldarla ma si rese conto che coi bambini
presenti, non avrebbe potuto fare nulla.
"La
mamma ha freddo" – sussurrò Clowance, seduta
accanto a lei.
"Il mio scaldamani può aiutarla?".
Ross
annuì. "Sì, certo!". Glielo prese e poi vi
avvolse le
mani ghiacciate di Demelza, sperando che trovasse conforto. Poi
sorrise a Clowance. Era viziata e a volte indisponente ma in fondo
anche lei era una brava bambina e voleva bene a sua madre. "Mi
spiace per prima, non volevo sgridarti. E per quanto riguarda il tuo
cappotto, anche se si sporca, che problema c'è?".
Clowance
parve punta sul vivo. "Io non mi sporco mai! I gemelli si
sporcano, non io!".
Jeremy
sbuffò, forse abituato ai modi di fare della sorella, ma
Ross decise
di non farsi sopraffare da lei. "E allora? Anche se ti sporchi,
avrai chi ti lava e lava i tuoi vestiti! Non andrai a letto sporca,
farai un bagno profumato e caldo e sarai come nuova prima di mettere
la testa sul cuscino. No?".
Lei
spalancò gli occhi ma non perché inorridita ma
perché forse
nessuno le aveva mai posto la questione in quei termini così
semplicistici. Era lodata per la sua grazia e la sua leggiadria ma
era una bambina ed era così triste che si ponesse tanti
limiti e
costrizioni per apparire perfetta. Doveva giocare, vivere con
leggerezza la sua età, sporcarsi e fare baccano. Avrebbe
avuto tutta
la vita per essere una lady ma ora non era il momento. Non ancora...
"Forse avete ragione, signor Poldark!" - ammise, con una
certa fatica.
Ross
sorrise. "Grazie!". Non dovevano essere parole che Clowance
diceva troppo spesso. Non che ora lo apprezzasse più di
prima e
probabilmente continuava a considerarlo un selvaggio provinciale, ma
gli sembrava di aver fatto un piccolo passetto avanti con lei.
"Mamma
quando si sveglia?" - chiese Jeremy.
Ross
osservò Demelza e poi le sfiorò la guancia,
scuotendole
delicatamente il capo. Aveva perso conoscenza da un pò e
voleva che
aprisse gli occhi per verificare che tutto, a parte la febbre,
andasse bene. "Demelza..." - sussurrò, dimenticandosi per
un attimo l'etichetta e il ruolo di quella donna che era stata sua
moglie.
Ma
Clowance, decisamente meno smemorata di lui, lo guardò con
aria di
disprezzo e rimprovero. "Mia madre è una Lady e se voi siete
un
gentiluomo, dovete rivolgervi a lei come tale! Non potete chiamarla
per nome, solo mio padre poteva!".
Ross
deglutì e anche le parole di Clowance ebbero su di lui
l'effetto di
uno schiaffo.
'Solo
mio padre, poteva'...
Santo
cielo, LUI era suo padre e lo avrebbe volentieri urlato forte! Era
suo padre ed era stato il marito di Demelza e ora non poteva nemmeno
chiamarla per nome senza venir ripreso per questo! Era orribile tutto
ciò e anche se era la giusta punizione che meritava appieno
per
quanto aveva fatto, cominciava a pensare di non avere la forza
necessaria per sopportare tutto questo e il senso di
estraneità che
faceva capolino fra lui e i suoi figli con una cadenza disarmante.
"Non volevo mancare di rispetto a tua madre, Clowance" –
disse, stringendo i pugni per la frustrazione – "Ma
quì siamo
solo noi, siamo sfuggiti a un pericolo e forse per oggi potremmo
dimenticarci etichetta e buone maniere".
Jeremy
annuì, anche se pure lui pareva un pò sorpreso
per quella libertà
che si era preso con sua madre. "Clowance, il Signor Poldark ha
ragione! Forse per ora va bene così".
Ross
prese la palla al balzo. "Pure voi potete chiamarmi per nome".
"No!"
- sbottò Clowance. "Io sono e resto educata! Anche
quì".
E
lui si accorse di quanto alto fosse il muro da scalare per
raggiungere sua figlia. L'aveva lasciata prima che nascesse e aveva
ritrovato una bambina nobile, elegante, educata, impeccabile nelle
maniere e nei modi di fare e così fredda e distante da
ricordargli,
nella sua austera perfezione, Elizabeth. Non voleva che Clowance
diventasse così, non voleva davvero che buttasse via la sua
vita
inseguendo l'utopia della ricchezza che soffoca la nobiltà
d'animo e
la bellezza dei sentimenti. Ma si rendeva pure conto che non poteva
essere lui ad insegnargli queste cose.
Demelza,
fra loro, mugugnò, dimostrando di essere sveglia. "Clowance,
va
bene così...".
"Mamma!!!".
I
bimbi le si gettarono addosso e lei con fatica li abbracciò,
cercando di tranquillizzarli. Li strinse a se ma poi lasciò
che
Ross, con modi gentili, li allontanasse per farla respirare. "Sto
bene, è solo un pò di febbre. Dove siamo?" -
chiese,
guardandosi in giro con fare smarrito.
"In
una stalla abbandonata. L'abbiamo sprangata io e il signor Poldark e
ora staremo quì nascosti finché i disordini non
si saranno risolti"
– rispose Jeremy.
Ross
annuì e la guardò preoccupato e al suo sguardo,
lei rispose con
un'espressione di riconoscenza silenziosa ed eloquente.
"Grazie...".
"Di
nulla, dovere".
Clowance
si gettò fra le braccia di Demelza, coricandosi accanto a
lei
infreddolita e bisognosa di rassicurazione mentre Jeremy si mise
dall'altro lato, fra la madre e Ross, seduto con la schiena contro la
parete.
"Credo...
Credo che dovremo uscire di quì solo quando
inizierà a fare buio"
– propose Ross, rendendosi conto che la luce del giorno li
avrebbe
messi troppo in vista.
Demelza
parve agitarsi. "Ross, non posso! Quando sapranno degli scontri,
non vedendomi tornare saranno tutti preoccupatissimi a casa e io devo
tornare dai gemelli! Hanno la febbre e non sanno dove sono! Devo...
Devo...".
Ross
tentò di calmarla, costringendola a ricoricarsi dopo che si
era
messa a sedere. "Demelza, aspetteranno! Tu per ora riposa e non
pensare a nulla, farò tutto io! I gemelli hanno chi si
prende cura
di loro e tu con questa febbre, devi stare tranquilla e al riparo,
soprattutto dalla neve".
Jeremy
parve turbato quanto la madre. "Ma signor Poldark, se mamma non
è a casa per quando farà buio, Demian
piangerà! Lui piange sempre
se la mamma non è con lui quando è ora di andare
a dormire e ora ha
pure la febbre!".
Ross
si stupì. Che significava? Demian dormiva ancora con
Demelza? Da
quando lei concedeva un tale vizio a un figlio? Non conosceva le
abitudini di casa Boscawen ma di certo considerava errato dare a un
bambino che aveva già quattro anni tali concessioni che di
certo non
lo rendevano grande ed indipendente. E poi, Jeremy... Era
così
maturo e anche se Ross si sentiva orgoglioso di lui per come si
preoccupava e prendeva cura di sua madre e dei suoi fratelli, di
contro provava pena e dispiacere per la mole di
responsabilità che
suo figlio sentiva gravare sulle sue giovani spalle a causa sua e
dell'assenza di una figura paterna. D'istinto gli accarezzò
i
capelli, come a volerlo proteggere da quelle preoccupazioni che non
dovevano appartenergli, non alla sua età. "Tutti abbiamo
pianto
da bambini e tutti siamo diventati grandi! Succederà anche a
Demian".
"Non
credo!" - intervenne Clowance – "Demian sarà
mammone per
sempre! Quando piange... Quando lui e Daisy piangono, tremano i vetri
della casa! Strillano proprio! Quando sono nati, abbiamo smesso di
dormire tutti quanti! Daisy piangeva tutto il tempo e io lo avevo
detto a mamma e papà di buttarli via i gemelli, ma loro non
mi hanno
dato retta e così ora ce li dobbiamo tenere per sempre".
Quelle
parole fecero sorridere Ross. Perché c'era tanto di
infantile e
molto poco di signorile, in quelle frasi dette da Clowance dove
c'erano tutti i suoi sette anni di bambina, senza il condizionamento
delle regole che si era imposta. Una normale bimba gelosa dei
fratelli di cui parlava come parlano... beh, le bambine.
Cercò di
immaginare, tramite le parole dei suoi figli, come doveva essere
stata la loro vita famigliare in quegli anni che pian piano,
attraverso i loro racconti, venivano alla luce, e attraverso i loro
racconti ne veniva fuori una famiglia unita e serena, che Hugh e
Demelza avevano costruito assieme con passione e amore. Faceva male
ma il punto importante era un altro: aveva fatto bene a loro e lui
doveva accettarlo ed esserne felice.
"Io
devo andare a casa" – borbottò Demelza, senza
forze,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Ma
Ross si dimostrò irremovibile. Era stata già fin
troppo incosciente
in quella giornata e ora era il caso che si affidasse agli altri. "E'
pericoloso, per tutti voi! Staremo quì, qualche ora di
ritardo non
farà la differenza".
Clowance
si rannicchiò contro di lei. "Sono stanca... Se dobbiamo
stare
quì, posso dormire un pò, mamma?".
"Sì,
puoi!" - rispose Ross, subito, chiudendo ogni discussione.
Demelza
lo guardò storto ma non osò replicare, forse
rendendosi conto essa
stessa di non poter fare molto se non affidarsi a lui.
E
così calò un silenzio profondo mentre fuori urla
e disordini la
facevano da padroni, facendo arrivare a tutti loro l'eco della
battaglia. Anche Jeremy, dopo infiniti minuti in cui aveva cercato di
combattere con il sonno, si era addormentato e Ross rimase in
silenzio ad osservare il nulla, perso in mille indistinti pensieri.
Sentiva il placido respiro dei bambini che dormivano e questo gli
bastava a tranquillizzarlo e anche Demelza sembrava abbastanza
combattiva, nonostante la febbre.
Quando
credeva che si fosse riaddormentata anche lei, la sua voce sommessa
raggiunse le sue orecchie. "Ross...".
"Sei
sveglia?" - disse piano, per paura di destare i bimbi.
"Sì...
Volevo ringraziarti per averci salvato. Se non ci fossi stato tu...".
La
interruppe, non c'era bisogno di ringraziamenti. "Beh, ringrazio
anche te per non essere svenuta in piazza ma aver aspettato a farlo!
Avrei avuto problemi enormi a portarti fuori di lì".
"Ce
l'avresti fatta lo stesso, ne ero sicura".
Quelle
parole lo fecero sussultare e lo stupirono per il loro intrinseco
senso di fiducia che Demelza sembrava accordargli. "Davvero?".
"Davvero.
Sapevo che ci avresti portato fuori di lì, tutti quanti".
Ross
si sentì improvvisamente col cuore leggero. "Grazie... Era
da
molto che non mi dicevi qualcosa di carino". Si stese accanto a
loro, sulla paglia, guardandola in viso. "E' vero, non avrei mai
permesso che vi succedesse qualcosa di male. Ma che tu lo credessi...
mi fa piacere".
"L'ho
sempre saputo... Me ne sono accorta in piazza! L'ho sempre saputo che
in mezzo a qualsiasi pericolo, tu ci avresti salvato! Il pericolo in
fondo è sempre stato il tuo elemento naturale".
Il
tono di Demelza era leggero. Non voleva sbilanciarsi, non si era
lanciata in un accorato discorso sul suo amore per la famiglia ma
nascosta, fra le sue parole relative alla sua antica passione per le
risse che da sempre lo contraddistingueva, Ross poteva leggere una
profonda ed immutata fiducia. Ed era un onore per lui, un onore che
forse non meritava dopo quanto successo. "Ci hai pensato?".
"A
cosa ci siamo detti a Natale?".
Ross
scosse la testa, rendendosi conto che non poteva pretendere risposte
alle sue parole di quella sera. "No, intendevo... Prima! Ci hai
pensato che eravamo insieme, solo noi quattro, dopo tanto? Anzi, che
non eravamo MAI stati insieme solo noi...".
Demelza
abbassò lo sguardo. "Sì, ci ho pensato".
Rimase
stupito dal fatto che non lo negasse. "E?".
Demelza
guardò attorno a loro, osservando i miseri dettagli di
quella stalla
dimenticata da Dio, cadente e in rovina. "E questo posto, se
chiudo gli occhi, posso immaginare... Potrebbe essere Nampara, senza
lussi, senza fronzoli... La casa dove avremmo dovuto stare e dove
avremmo cresciuto insieme i nostri figli. Se non fosse successo
nulla, forse ora saremmo lì, a letto, a riposare coi nostri
bambini
e a chiacchierare. Poi riapro gli occhi e capisco di essere a Londra,
che non sono più tua moglie e che a casa ho i due gemelli
che sono
nati dal mio secondo matrimonio con un altro uomo. E che sono Lady
Boscawen e non Demelza Poldark di Nampara. E niente, immaginare
è
una cosa davvero stupida e non dovrei farlo".
Non
sapeva cosa dirle, non sapeva se quel piccolo sfogo fosse dovuto alla
spossatezza della febbre o ad altro, ma sentirla parlare
così, con
quel tono aperto e allo stesso tempo confidenziale, lo rendeva
felice. Parlare con lei era sempre stato tanto benefico per la sua
anima tormentata e aveva sempre trovato estremamente affascinante il
suo modo di guardare alla vita. "Invece immaginare è bello!
Ti
fa vedere tutte le strade che si potevano e si potrebbero percorrere.
Non ti piacerebbe tornare indietro? Essere ciò che eravamo
ma in un
modo nuovo e diverso, partendo da zero?".
Lo
sguardo di Demelza si perse nel vuoto a quella domanda che forse le
faceva paura. Rimase in silenzio, non rispose e Ross non ebbe il
coraggio di porle quella domanda una seconda volta. Avrebbe pagato
tutto l'oro del mondo per sapere cosa stesse pensando ma non aveva
alcun diritto di chiederglielo.
Calò
uno strano silenzio fra loro che fu rotto proprio da Demelza. "I
gemelli... Non erano così terribili come diceva prima
Clowance.
Daisy soffriva di coliche e Demian amava dormire solo in braccio...
Ma non erano terribili, erano adorabili".
E
a quelle parole, Ross trovò il coraggio di parlarle di cosa
aveva
visto e cosa lo aveva stranito nel suo rapporto coi suoi figli
più
piccoli. "A proposito dei gemelli... Demian dorme con te? E
Daisy no?".
"Vorrei
dormissero con me tutti e due... Ma Daisy non mi vuole! E'
così
stranamente diversa da Demian... Lui ha bisogno di me di notte,
sempre! Lei non ne ha mai avuto!".
Ross
scosse la testa. "Pensi che dovrebbero comportarsi allo stesso
modo?".
"Beh,
sono gemelli".
"Sono
due persone con due teste, due cuori e due caratteri diversi. Non
devono comportarsi allo stesso modo solo perché son nati lo
stesso
giorno! Li chiamate spesso 'i gemelli' ma dovresti sforzarti di
chiamarli per nome e dare ad ognuno ciò di cui hanno
bisogno!
Rispetto per la fierezza e l'indipendenza di Daisy e autonomia a
Demian! A quattro anni un bambino dovrebbe dormire da solo e non fai
il suo bene a non renderlo indipendente! Se lui piange ogni volta che
non sei a casa la sera, gli fai del male! E non la risolvi murandoti
fra quattro mura con lui ma facendogli vivere serenamente la serata
con gli altri membri della vostra famiglia!".
Lei
lo guardò storto, forse non troppo felice per quella strana
predica.
"Da quando sei tanto bravo a fare il padre?".
Ross
sospirò. "E' più facile notare gli errori negli
altri che i
propri! Salta all'occhio, sai? Daisy ti adora ma si irrigidisce
perché sei sempre portata ad avvicinarsi più a
Demian che a lei.
Non vuole smancerie, vuole essere amata a suo modo senza sentirsi
soffocata ma tu pretendi da lei che sia come Demian! E' come se,
morendo Hugh, tu abbia affidato a tuo figlio il compito di
sostituirlo ed è sbagliato! Daisy, ma anche Jeremy e
Clowance che
sembra gelosa, se ne accorgono di questa cosa! Scusa se te lo faccio
notare, scusa se mi intrometto in affari non miei ma sei sempre stata
una buona madre e forse correggere qualche piccolo passo falso non
lederà questo tuo ruolo ma ti aiuterà a costruire
un bel rapporto
coi tuoi figli. Tu mi hai insegnato molto con Valentine e sentivo di
doverti restituire il favore! So che non è facile essere un
genitore
solo, ormai lo so bene pure io e negarlo non ti renderà
eroica".
Demelza
si rannicchiò sotto il suo cappotto, in silenzio. Non
sbottò, non
si dimostrò offesa e questo faceva parte di lei e del suo
carattere
dolce e intelligente che sapeva anche accettare le critiche se le
riteneva giuste.
Rimase
zitta, forse pensando a cosa lui aveva detto e facendosi un esame di
coscienza... Si guardarono negli occhi e Ross allungò una
mano ad
accarezzarle la guancia calda. "Scotti, di nuovo...".
"Ho
la febbre" – gli ricordò lei. "Lo avevi
dimenticato?".
Ross
sorrise per il tono canzonatorio usato in quella domanda. "No...
Da piccolo mia madre diceva che tutto passa con un bacio".
Demelza
lo guardò con aria di sfida. "Non provarci..." - disse,
divertita.
"No,
non lo farò. Non oggi almeno...".
"Che
vuoi dire?".
Ross
fece per rispondere ma Jeremy mugugnò nel sonno, facendoli
allontanare di colpo. E ci pensò... Già, che
voleva dire? Stava
semplicemente scherzando con lei o aveva reso palese un suo desiderio
nascosto? Voleva dannatamente baciarla, fare l'amore con lei e, come
aveva detto Daisy, sposarla. Di nuovo, anche mille volte se la vita
gliene avesse dato l'occasione!
Ma
i bimbi si svegliarono e quel discorso rimase come congelato fra
loro, per l'ennesima volta.
E
fu costretto ancora una volta a zittirsi.
Attesero
in silenzio che il buio calmasse gli animi, stretti gli uni agli
altri per scaldarsi. E quando la neve e il tramonto fecero piombare
la città nelle tenebre e tutto divenne silenzioso, uscirono
nelle
strade deserte e ricoperte da una fitta nevicata.
Ross
tenne stretta Demelza nel suo cappotto, incurante del freddo che lo
faceva balbettare. E i bimbi, spauriti ma forse anche eccitati da
quella strana giornata, camminarono davanti a loro senza fare storie
per stanchezza e freddo.
Demelza
camminò a lungo, riuscendo a resistere fino a quando non
furono
fuori da quel quartiere malmesso, arrivando sulle rive del Tamigi che
costeggiavano i quartieri più abbienti. Poi le gambe le
cedettero e
Ross fu costretto a riprenderla in braccio.
La
strinse a se godendo del calore del suo corpo, desiderando portarla
nella sua casa per essere lui a prendersene cura, assieme ai loro
bambini, come avrebbe dovuto essere da sempre. Ma non poteva e allora
affondò il viso fra i suoi capelli rossi per ispirarne il
profumo,
godette della sua vicinanza e del suo respiro sul suo collo e
impresse in lui il suono delle voci dei loro due bambini.
Quando
giunsero davanti alla grande casa dei Boscawen, Prudie, il
maggiordomo e una schiera di servitori spaventati e preoccupati gli
andò incontro, di corsa. Gli strapparono quasi dalle mani
Demelza,
presero i bambini per accertarsi che stessero bene e poi sparirono,
con la sua famiglia, senza quasi dargli il tempo di salutarli.
A
fatica Falmouth lo raggiunse all'ingresso, dopo essere stato
informato dell'accaduto e del loro ritorno. Ma Ross sentì a
malapena
i suoi ringraziamenti e le mille domande del Lord su quella
disastrosa giornata. Ma non sentiva nulla, Ross... Il suo sguardo era
perso e vuoto e non si spostava dalla grande scalinata dove la
servitù era sparita portandosi via la sua famiglia. In quel
momento
si era sentito un marito inerme che è costretto ad assistere
al
rapimento dei suoi cari senza poter fare niente.
Così
si sentiva, defraudato... Doveva essere lui a prendersi cura della
sua famiglia! Lui, lui e ancora lui!
E
invece doveva stare in silenzio ad osservare che fossero gli altri a
svolgere quel compito al suo posto.
Quando
uscì di casa, il freddo lo investì di nuovo e si
rese conto che il
suo cappotto era rimasto addosso a Demelza. Beh, non importava, il
freddo avrebbe forse congelato le sue emozioni.
Si
incamminò sul viale davanti a casa Boscawen, quello che
portava al
parco dove giocavano i suoi figli ma improvvisamente una vocina lo
chiamò da una delle finestre.
"Signor
Poldark!".
Ross
alzò gli occhi e vide Jeremy che, aperta una finestra, lo
guardava
da una delle stanze al primo piano. "Jeremy...".
Il
bimbo alzò una mano in segno di saluto. "Buona serata! E
grazie
di tutto!".
Ross
gli sorrise, rispondendo al saluto. E anche se si sentiva solo come
un cane, quel saluto di Jeremy bastò a scaldargli il cuore.
Quanto
avrebbe voluto essere stato lui a metterlo a letto in quei sette
anni, quel suo meraviglioso bambino...
E
con questo pensiero, in una Londra coperta dalla neve, da solo si
incamminò verso casa.
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Capitolo 49 *** Capitolo quarantanove ***
Sprofondata
fra i cuscini, Demelza aveva passato tre giorni a letto con la febbre
altissima e con Dwight costretto a fare avanti e indietro
più volte,
chiamato da un preoccupatissimo Lord Falmouth e una apprensiva Lady
Alexandra. Entrambi erano ancora convalescenti, ma la preoccupazione
per le condizioni di Demelza aveva preso il sopravvento dopo lo
spavento per quanto successo al discorso di Pitt.
Al
quarto giorno la febbre si era un pò abbassata anche se
l'aveva
lasciata stanca e spossata. I gemellini stavano per fortuna meglio e
l'unico strascico preoccupante che l'influenza aveva lasciato su di
loro era una fastidiosa tosse e il poco appetito. Per il resto
però
erano tornati attivi e vivaci, giocavano e correvano per tutta casa
facendo baccano e Demelza aveva potuto così riposare da sola
a letto
mentre sbolliva la febbre.
Prudie
le portava da mangiare a letto e Lady Alexandra passava molte ore da
lei, per vedere come stava. Era bello e in un certo senso, Demelza si
sentiva per la prima volta una figlia, in quei giorni. Una figlia
accudita, rimproverata – perché Falmouth l'aveva
ripresa piuttosto
accoratamente per il rischio corso nonostante i suoi consigli
–
amata...
Sapeva
di essere stata incosciente, sapeva di aver sottovalutato tanti
rischi e si malediceva per il pericolo che aveva inconsapevolmente
fatto correre ai suoi bambini. Per fortuna c'era stato Ross... Con un
nodo alla gola, mentre Alix le parlava di alcuni abiti che voleva
acquistare, si voltò verso la poltrona dove i domestici
avevano
appoggiato il cappotto con cui lui l'aveva coperta e che le era
rimasto addosso quando erano tornati a casa. Si era sentita calda in
quel cappotto, protetta... Aveva sentito l'odore di Ross, quell'odore
della sua pelle a lei tanto famigliare che risvegliava nella sua
mente mille ricordi, molti dei quali assolutamente piacevoli. L'uomo
che era stato suo marito e il padre dei suoi primi tre figli l'aveva
salvata, aveva salvato i bambini e aveva impedito che succedesse loro
qualcosa di irreparabile. E poi l'aveva riportata a casa e lei
ricordava solo che, mentre stava fra le sue braccia, aveva sperato
che il tragitto durasse per sempre. Non aveva mai avuto coraggio e
spavalderia per sperare una cosa del genere ma la febbre alta,
evidentemente, aveva rotto ogni indugio in lei. Ma la strada del
ritorno non era durata per sempre e così, quando lui l'aveva
lasciata fra le braccia del maggiordomo, aveva solo sentito freddo e
si era ricordata che la sua casa non era quella di Ross e che lui
sarebbe andato altrove e lei sarebbe rimasta lì, dove doveva
essere.
"Demelza,
mi stai ascoltando?".
La
voce di Alix la fece sussultare e lentamente tornò a volgere
alla
suocera la sua attenzione. Si rannicchiò fra le coperte con
un
fastidioso mal di testa che cominciava a diventare forte e poi
sospirò. "Sì... Sì, certo. L'abito
azzurro andrà benissimo
per il tè dai Basset".
Alix
sospirò, prendendole la mano. "Stai male? Sei pallida, ti
sta
salendo di nuovo la febbre? Vuoi che chiami di nuovo il dottor
Enys?".
Santo
cielo, no! Il povero Dwight si stava meritando un posto in Paradiso
in quei giorni, col numero di volte che i Boscawen l'avevano chiamato
al suo capezzale. "Non è il caso e Dwight non può
venire quì
tre volte al giorno. Ha altri pazienti oltre me, è periodo
di
influenza e io devo solo riposare, come ci ha raccomandato ad ogni
sua visita. Sto meglio, sto guarendo e sono solo un pò
fiacca".
"Sicura?".
"Sicura".
Demelza le sorrise, intenerita dal suo stato tanto apprensivo.
"Dovreste essere a letto pure voi, Alix. Non state ancora bene e
io sono più che accudita dalla mia servitù".
Ma
sua suocera non sembrava tranquilla. "Io entro sempre in crisi
quando qualcuno sta male. Anche i piccoli malanni dei bambini mi
terrorizzano... Dopo la morte di Hugh anche un graffietto mi sembra
un pericolo mortale".
Demelza
abbassò lo sguardo, pensando a cosa dirle e trovando tanto
di se
stessa nelle sue parole. Avrebbe voluto raccontarle di Julia e dirle
che la capiva, avrebbe voluto dirle mille cose che forse potevano
avvicinarle di più e abbattere i muri che ancora rimanevano
fra loro
per i tanti segreti mai svelati, avrebbe voluto fare tante cose per
lei ma non era capace di farne nessuna in quel momento. "Hugh
non lo vorrebbe... Lui desidererebbe solo che fossimo felici e che ci
godessimo il bello della vita, senza pensare a tutte le sue
incognite".
Alix,
forse schiacciata anche dal peso degli anni oltre che dalla morte del
figlio, sospirò. "Hai ragione, lui vorrebbe
così... Ma io ho
perso un figlio e in te ho ritrovato una figlia. E se ti ammali, io
ho paura e dovrai accettarlo, temo".
Fece
un sorrisetto nervoso e Demelza le strinse le mani. "Grazie...
Essere figlia di qualcuno che mi ami, è sempre stato il mio
unico
sogno. E vorrei solo che entrambe vivessimo il rapporto madre-figlia
con serenità perché sapete, credo che ce lo
meritiamo entrambe!".
Sì, se lo meritavano tutte e due perché entrambe
avevano sofferto e
vissuto l'inferno in terra ed entrambe, ognuna a modo suo, erano due
sopravvissute.
"Essere
figlia significa anche saper ascoltare i consigli, sai Demelza?"
- la rimbeccò Alix, con aria furba di chi prende la palla al
balzo,
ma allo stesso tempo commossa.
Demelza
deglutì. Ecco, arrivava la nuova paternale. "Mi dispiace di
essere stata così testarda e sconsiderata. Non mi sarei mai
perdonata, se fosse successo qualcosa di male ai bambini".
Alix
annuì. "Devi stare attenta, non puoi girare come vuoi in
certe
zone. C'è gente strana, violenta, crudele. E vede noi come
la causa
di tutti i loro mali".
Quella
frase, detta senza cattiveria, irrigidì però
Demelza perché
rappresentava appieno il grande divario che mai si sarebbe appianato,
fra lei e i Boscawen. Per loro i poveri erano i cattivi, i violenti,
gli altri... Per lei erano persone esasperate e disperate che non
sapevano come dar da mangiare ai propri figli. "Non è
così,
non lo penso".
"Cosa?".
"La
gente della periferia non è cattiva, è disperata!
Alix, quando uno
lavora duramente per pochi spiccioli, spaccandosi la schiena, e la
sera non ha denaro per comprare cibo per i suoi figli, diventa
esasperato. E l'esasperazione porta a cercare un colpevole e noi
siamo i colpevoli, in un certo senso, avendo molto più di
quello che
ci serve. E quel di più lo togliamo agli altri...".
Alix
spalancò gli occhi, sorpresa. "Difendi quelle persone?
Volevano
linciarvi, Demelza! E' stato un miracolo che tu e i bambini, assieme
ai politici presenti, ne siate usciti senza danni. Pitt era molto
scosso, da quel che mi hanno raccontato. E tutto per delle persone
che lui voleva aiutare e che evidentemente non se lo meritavano
quell'aiuto".
Inspirò
profondamente, dicendo qualcosa che in quella casa non aveva mai
detto. "Io so cos'è la fame, Alix! So cosa vuol dire e come
ti
fa sentire, la sensazione di andare a letto con lo stomaco vuoto che
ti si contorce senza soluzione. E per fame, non intendo il languorino
che ci prende prima di cena o prima di fare colazione, la vera fame
è
altra e vi auguro di non provarla mai".
Alix
impallidì e la osservò piuttosto accigliata, come
facendosi mille
domande. Ma non le fece e dopo un attimo di smarrimento, le ristrinse
la mano. "Demelza, mi spiace per ciò che hai passato e mi
impegnerò affinché non ti capiti più.
Sei mia figlia ora ed è mio
dovere di madre prendermi cura di te... Il resto non conta, non
è
mai contato e non voglio che ti senta in obbligo di raccontarmi
qualcosa che Hugh non avrebbe voluto. Mi fidavo di lui come mi fido
di te. Forse non potrò mai capire gli altri, quelli che
vivono
diversamente da me, forse la loro rabbia sarà sempre per me
incomprensibile ma rispetto ad alcuni anni fa, proprio grazie a te,
so molte più cose del mondo che c'è fuori a
questa grande casa".
Demelza
le sorrise dolcemente, restituendole la stretta sulla mano. "Grazie".
Sapeva che non poteva chiedere di più ad Alix
perché come era
normale che lei capisse cosa fosse la fame a causa delle sue origini,
era altrettanto normale che sua suocera non la capisse per lo stesso
motivo.
E
in quel momento, tutta trafelata, entrò Prudie con della
camomilla
calda.
Alix
si alzò dal letto per lasciarla tranquilla. "Torno nella mia
stanza. Bevi la camomilla e poi riposa. Io farò lo stesso".
Prudie,
con una smorfia, appoggiò il vassoio sul comodino.
"Riposare?
Col baccano che fanno i bambini, è un'impresa epica".
Demelza
si accigliò. "Hanno pranzato, Prudie?".
"Miss
Clowance e Master Jeremy, sì. Le bestioline hanno strillato
e basta,
hanno giocato col cibo e non hanno ingurgitato niente. Nemmeno la
torta al cioccolato!".
Demelza
sospirò. L'inappetenza dei gemelli era sempre stata una dura
battaglia da combattere e il fatto che nemmeno i dolci li
attirassero, significava che non avevano davvero fame e non si
trattava di capricci. "Stasera cenerò con loro. Forse non
sono
abituati a mangiare da soli e a causa dell'influenza, è da
giorni
che pranzano e cenano senza nessuno della famiglia. Magari la mia
presenza potrà aiutare, devono mangiare!".
Alexandra
e Prudie scossero la testa. "No, tu stai a letto!" - ordinò
sua suocera. "Demelza, non sei ancora guarita e i bambini non
possono averla vinta su tutto! Ai miei tempi, venivamo educati dagli
istitutori e i genitori venivano di rado a vederci, per verificare la
nostra crescita. I nostri piccoli sono amati e accuditi e devono
imparare a fare anche senza di noi, se ce n'è
necessità! Starai a
letto e non accetto repliche! Ricordi il nostro discorso di prima?
Una figlia deve ubbidire!".
Demelza
abbassò lo sguardo, cullata forse da quella presa di
posizione tanto
forte e tutelante di sua suocera e allo stesso tempo perplessa
perché
mai nessuno si era imposto a lei in quel modo, per il suo bene. In
effetti era bello sentire di avere una madre ma a questa cosa
dell'ubbidienza, non aveva mai pensato... In quel momento si
sentì
di capire cosa provassero i suoi figli quando, contro la loro
volontà, gli imponeva qualcosa. "Va bene, PER STASERA resto
quì".
"Ottimo!"
- disse Lady Alexandra. E poi dopo averla salutata, fiaccamente
tornò
nei suoi appartamenti.
Prudie
guardò Demelza di sbieco. "Che cos'è questa cosa?
Madre? Di
chi?".
"Discorso
lungo...".
La
serva le porse la tazza di camomilla e poi si sedette sul letto
accanto a lei. "Stai meglio, ragazza?".
"Non
sono più moribonda... E nonostante quello che dice mia
suocera, non
posso stare a letto troppo a lungo se i bambini fanno disperare col
cibo".
Prudie
sospirò. "Le bestioline fanno disperare su qualsiasi cosa!
Non
fartene un cruccio e riposa come ha detto la tua Miss-Madre".
Demelza
abbassò lo sguardo, ripensando alle parole di Alix.
"Però lei
ha ragione, sono stata così avventata e per la mia testa
dura, ho
fatto correre un grave pericolo ai miei figli. E' difficile
ammetterlo ed accettarlo, è difficile capire di non essere
più
parte del mondo in cui sono nata".
"Tu
ne fai ancora parte, hai il cuore nobile e gentile. Anche se indossi
abiti e gioielli, tu sei ancora la ragazza di Nampara" –
cercò
di consolarla Prudie. "Era mio compito impedirti di cambiare,
ricordi? E non lo sei".
Demelza
le sorrise, grata. Anche Prudie, come Alix, era una madre per lei.
"Se non fosse stato per Ross, non so come sarebbe finita".
Prudie
fece un sorrisetto sarcastico. "Il Lord della casa lo considera
un eroe. E tu?".
Lei
alzò le spalle. "Io so che ero tranquilla perché
c'era lui e
anche se fra noi è successo quello che è
successo, ho sentito da
subito di potermi fidare".
"E'
venuto a trovarti?" - chiese Prudie.
E
a quella domanda, Demelza si irrigidì. "No, ovviamente...
Credo
sia mio dovere scrivergli una lettera di ringraziamento".
"Da
quando sei tanto formale, ragazza?".
"Cosa
dovrei fare?".
"Cosa
vuoi fare?".
Demelza
si sentì messa a nudo da quel batti-ribatti con Prudie che,
meglio
di tutti, conosceva la sua anima e con poche frasi sapeva sempre dove
colpirla. Ma nonostante questo, era difficile lasciar andare
sentimenti e parole su Ross, difficile capire ed accettare
ciò che
provava davvero e non riusciva ad ammettere nemmeno a se stessa.
Già,
cosa voleva? Cosa avrebbe fatto Demelza Carne in quella situazione? E
Lady Boscawen? Forse essere Lady Boscawen era la strada più
sicura
per lei, quella che dietro ad etichette e regole della buona
società,
era la più tutelante... "Se n'è andato al freddo
lasciandomi
il suo cappotto. Dovrei farglielo recapitare, questo voglio fare! E
scrivere una lettera per ringraziarlo! E' giusto così".
Prudie,
poco avvezza però a girar attorno alle questioni, la
bloccò subito.
"Sì, Lady Boscawen questo dovrebbe fare! Un bel biglietto
chiuso con la cera marchiata dallo stemma di famiglia, in cui
ringrazia dei servizi resi. Ma tu, ragazza, cosa vuoi?".
"Cosa
dovrei volere?" - si spazientì lei, messa con le spalle al
muro.
"Non
lo so... Che venisse quì per accertarsi delle tue
condizioni? L'ha
fatto?".
Demelza
strinse i pugni sotto le coperte, frustrata. No, non lo aveva fatto
e forse era dannatamente difficile ammettere a se stessa che magari
le avrebbe fatto piacere. "Sarebbe davvero sconveniente se Ross
venisse quì a trovarmi. O se cercasse informazioni su di me!
Questa
è la camera da letto di una signora".
"Di
sua moglie..." - la corresse Prudie.
"Non
lo sono più. E gliel'ho ricordato una volta, dicendogli che
lo avrei
fatto arrestare se avesse provato a venire quì senza invito".
Prudie
ridacchiò a quelle parole. "E pensi che il signor Ross si
farebbe fermare da una piccola minacciuccia del genere? Avanti
ragazza, lo conosci meglio di me".
Demelza
alzò le spalle fingendo noncuranza per impedire alla
tristezza di
prendere il sopravvento. "Evidentemente... ha imparato
qual'è
il suo posto nel mondo e cosa può o non può fare".
"Si,
certo..." - borbottò Prudie alzando gli occhi al cielo. "Lo
vorresti quì?" - chiese poi, di nuovo.
Ma
Demelza non rispose. Non voleva mentire e non voleva ammettere cosa
il suo cuore desiderasse di più. "Vorrei dormire, ora..."
- disse solo.
Prudie
annuì, accarezzandole la spalla. "Io pure ho bisogno di
riposo.
Posso prendere qualche ora di permesso per fare una passeggiata
LONTANO dai gemelli, questo pomeriggio?".
Demelza
le sorrise. "Sono così terribili?".
"Persino
il collegio svizzero scapperebbe da loro...".
E
a quel punto cedette. "Prenditi pure il pomeriggio di riposo,
Prudie. Ci penserà Mary ai bambini".
La
serva non se lo fece ripetere due volte. Uscì di corsa e
Demelza
rimase da sola coi suoi pensieri. Si alzò dal letto e si
avvicinò
alla poltrona dove era appoggiato il cappotto di Ross che prese in
mano e strinse fra le braccia. Vi affondò il viso,
inspirò il suo
odore e per un attimo sperò che arrivasse. Anche se
l'etichetta lo
vietava, sperava che lui venisse, che tornasse per vedere se lei
stava bene e se i bambini si erano ripresi. Che sfidasse le regole
come una volta e se ne fregasse delle conseguenze, per lei... Avrebbe
finto di arrabbiarsi se lo avesse fatto, ovviamente! Ma forse non
sarebbe stata abbastanza convincente da fregarlo... In fin dei conti
però non era venuto in quei giorni e forse era meglio
così, per
entambi.
In
quel momento la porta si aprì di nuovo e Clowance, stavolta,
entrò
nella stanza. Da quando c'erano stati gli scontri, spesso aveva fatto
capolino da lei per cercare coccole e sicuramente era ancora scossa.
Appoggiò il cappotto e allargò le braccia per
accoglierla.
La
bimba si strinse a lei. "Mamma, che fai?".
"Stavo...
Stavo piegando il cappotto del Signor Poldark. E' rimasto
quì e non
voglio che si spiegazzi tutto".
Clowance
annuì e insieme alla madre, tornarono a sedersi sul letto.
"E'
stato gentile a salvarci" – disse la bambina. "Gentile,
anche se un pò selvaggio. Non conosce molto le buone
maniere, sai?".
Demelza
le accarezzò i capelli. "Tesoro, per fortuna lui
è così o non
sarebbe riuscito a portarci in salvo. Con le buone maniere, in mezzo
a una sommossa, si va poco lontano, te lo assicuro".
"Sì,
ma da i pugni! Mamma, a Jeremy piace ma non si fa!" - la
rimbrottò la piccola.
"Certe
volte si fa!" - rispose Demelza, strizzandole l'occhio e
attirandola fra le sue braccia fra le coperte. "Vuoi stare
quì
con me?".
"Sì...
Ma se arriva Demian si arrabbierà! Non vuole che prenda il
suo
posto!".
Demelza
la strinse a se. "Non è il posto di Demian, questo letto
è il
posto di tutti! Suo, tuo e di chiunque vorrà stare un
pò con me".
"Demian
non la pensa così".
"Lo
capirà" – rispose Demelza, ripensando alle parole
di Ross sui
bambini e rendendosi conto che su molti aspetti, aveva ragione.
L'occhio imparziale di un estraneo spesso sapeva vedere meglio di chi
in mezzo alle situazioni ci viveva ogni giorno.
"Mamma"
– la chiamò Clowance – "Non voglio
più andare in quel
posto dove c'era Pitt! Ho paura dei poveri".
"Non
ti porterò più in quel posto, tranquilla! Ma non
devi avere paura
delle persone. Poveri o ricchi, non fa differenza. E' l'esasperazione
che rende la gente arrabbiata e quelle persone avevano fame e freddo
e non siamo stati capaci di aiutarle... Non erano cattivi, Clowance,
te lo giuro!".
La
piccola tremò. "Sì ma non voglio più
tornarci lo stesso".
Demelza
la capiva, era normale che reagisse così dopo quanto
successo. "Sai
che potremmo fare?".
"Cosa?".
"Potresti
venire con me e la nonna al centro dei poveri, quando portiamo cibo e
vestiti. E' un luogo sicuro, vicino al parco dove giochi e potrai
vedere coi tuoi occhi che esistono persone bellissime ovunque. Il
bello lo puoi trovare spesso in chi ha meno e se saprai tendere la
mano per aiutare, chi non ha nulla ti vorrà bene e ti
sarà grato
per sempre, col cuore. La gratitudine e l'amicizia sincera spesso
arrivano proprio da chi ha meno, ricordatelo".
Clowance
non parve molto convinta. "Venire al centro dei poveri? Ma
mamma, non so se voglio".
Demelza
non si fece scoraggiare perché era soprattutto Clowance
quella che
doveva capire e far suo tutto il mondo e non solo la sua piccola oasi
di ricchezza che si era costruita attorno da quando erano diventati
parte del casato dei Boscawen. "Puoi aiutarmi, sai? A cucire i
vestiti, a trovare le persone a cui stanno meglio... Hai
così tanto
gusto e potrai insegnare alle bambine che vengono al centro, come
abbinare i vestiti".
"Davvero?"
- chiese Clowance, improvvisamente interessata.
Demelza
sorrise, soddisfatta. Forse darle un compito che le piaceva e farla
sentire importante in quel progetto, poteva aiutarla a vivere quella
nuova esperienza senza ansie, facendole imparare qualcosa e allo
stesso tempo aprirle nuovi orizzonti. Forse aveva trovato la strada
giusta... "Vuoi essere la nuova socia mia e della nonna?".
Clowance
sorrise, rannicchiandosi fra le sue braccia. "Sì, voglio! Se
è
per aiutarvi coi vestiti, voglio! I poveri si vestono così
male,
hanno bisogno di chi insegni loro come abbinare i colori!".
Beh,
era un inizio, no? E con questo pensiero, Demelza sprofondò
soddisfatta fra le coperte, sentendosi più leggera.
...
Ross
e Valentine stavano inseguendo per tutta casa Tannen che, desideroso
di giocare, aveva rubato i loro vestiti appena lavati e piegati da
Jane Gimlet, quando qualcuno bussò alla porta della loro
casa.
John
andò ad aprire e poco dopo dopo, in mezzo a quel baccano,
comparve a
sorpresa la grossa sagoma di Prudie. "Avete ospiti, signore"
– mormorò il signor Gimlet, gentilmente.
Ross,
steso per terra per recuperare il cane che si era rannicchiato sotto un
mobile, si alzò di scatto mentre Valentine rideva.
"Prudie?".
Il suo sguardo divenne preoccupato perché di certo la sua
visita lì
non prometteva niente di buono. "Che ci fai quì? E' successo
qualcosa? Come mi hai trovato?".
"Ho
chiesto il vostro indirizzo al dottor Enys e poi sono venuta a fare
visita".
Valentine
la salutò, allegramente. "La domestica di Lady Boscawen?
Come
sta la vostra signora?".
"Bene,
in via di guarigione. Sono venuta a parlare con il tuo papà"
–
rispose Prudie, sbrigativamente, stufa di avere attorno bambini
ovunque andasse.
Ross
si accigliò, facendo segno ai Gimlet di portare via cane e
bambino.
E quando furono soli, la invitò a sedersi sul divano. "E'
successo qualcosa?".
Prudie
osservò il corridoio dove era sparito Valentine coi
domestici.
"Carino, edcato e simpatico. Non un pestifero come le
bestioline! Voi avete fortune che non meritate mentre la povera
Prudie ha sfortune che non merita affatto".
Ma
Ross era poco in vena di chiacchiere. "Perché sei
quì? Che è
successo? Demelza e i bambini stanno ancora male?".
Prudie,
come al suo solito, andò subito al sodo. "La signora ha
ancora
la febbre... Perché il signor-zuccone non è
venuto a trovarla?
Abbiamo il vostro cappotto, come scusa per venire era ottima!".
Ross
abbassò lo sguardo, impacciato. Avrebbe tanto voluto andare
da lei e
dai suoi figli per vedere come stavano ma sapeva anche che forse
questo gesto avrebbe potuto mettere in difficoltà Demelza
coi
Boscawen. Come avrebbero interpretato quella confidenza? In nulla di
buono, per lei... E allora era rimasto a casa, cullato dall'idea che
erano tutti accuditi al meglio e che fare il loro bene significava
stare lontano. "Prudie, sai che non posso... E lei non
vorrebbe".
Prudie
parve spazientirsi. "Oh, la signora dice una cosa e ne vuole
cento altre! E voi, monello della Cornovaglia? Da quando siete
diventato senza spina dorsale da star qua a rimuginare invece di fare
ciò che volete? Il Ross Poldark che conoscevo io, se voleva
fare
qualcosa, la faceva! Non stava chiuso in casa ad inseguire un cane
dispettoso".
"Il
Ross Poldark che conoscevi tu ha fatto del male a molte persone e ora
pensa, prima di agire!".
Prudie
lo fissò, scettica! "Certo, certo... Come se fosse vero!
Alzate
il sedere e andate da lei! Avete pensato abbasatanza e lo avete fatto
MALE! Quindi agite, anche se fate disastri, ne fate comunque meno di
quando state fermo a pensare!".
Ross
la guardò storto ma allo stesso tempo divertito. Quanto gli
erano
mancati i modi sbrigativi e poco ortodossi di Prudie? "Ma lei si
arrabbierebbe...".
"Forse.
Ma ha la febbre e non è in forze per mordere" –
rispose,
sarcastica.
Ross
sembrava ancora titubante però. "Lord Falmouth non ne
sarà
contento".
Prudie
si alzò in piedi, spazientita. "Avanti, non lo
saprà! E'
ancora a letto con la gotta e ci sono entrate nascoste al palazzo, da
dove intrufolarsi senza essere visti. Farà buio fra un
pò e la
brava Prudie che ha tutte le chiavi, potrà farvi entrare
senza che
vi notino".
"Ma...".
"Ma,
niente! Volevate il mio aiuto! Ve lo sto dando, Giuda! Usare cuore e
coraggio e farsi guidare dalle chiavi magiche di Prudie che aprono
tutte le porte, è un ottimo aiuto! Alzate il sedere da quel
divano e
andate dove DOVRESTE ESSERE! Dalla donna che volete e accanto ai
vostri figli. Lei forse si arrabbierà di facciata, ma ne
sarà
contenta".
Ross
scosse la testa, mascherando un sorriso. "Mi caccerò nei
guai".
"Forse.
E' mai stato un problema?".
E
a quel punto Ross decise che essere un codardo e un filosofo non
faceva per lui. E di ascoltare i consigli sinceri di Prudie come
avrebbe dovuto fare già anni prima quando gli aveva detto
senza
mezzi termini che stava sbagliando. "No, hai ragione, non lo
è
stato mai! Andiamo!" - ordinò, col cipiglio deciso di una
volta, alzandosi in piedi di scatto.
E
dopo aver avvertito i Gimlet che sarebbe uscito, Ross seguì
Prudie.
La sua serva aveva ragione, il Ross di Nampara sarebbe corso dalla
sua donna e avrebbe buttato giù a calci le porte per
raggiungerla. E
lui voleva essere quel Ross, forse con un pò di
maturità in più.
Ma basta star fermo, era ora di agire e combattere per avere accanto
di nuovo la donna che amava. E se per averla doveva scardinare le
porte del suo cuore e la grande dimora dei Boscawen, lo avrebbe
fatto! Con ogni mezzo!
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Capitolo 50 *** Capitolo cinquanta ***
Per
quanto Prudie stesse prendendo decisamente il sopravvento, Ross alla
fine si era imposto e aveva deciso di evitare di entrare come un
ladro, di nascosto, nella grande residenza dei Boscawen usando le
entrate segrete del giardino. Certo, era sera, Londra era avvolta dal
gelo e dalla nebbia e non c'era in giro anima viva ma se fosse
entrato in casa di nascosto e fosse stato trovato in camera di Lady
Boscawen da qualche domestica, il tutto si sarebbe tramutato in un
grandissimo scandalo difficile da gestire soprattutto per Demelza.
Meglio entrare dalla porta principale con Prudie, raccontare con la
sua complicità una qualche scusa a quella visita serale se
fosse
stato visto e essere oggetto di pettegolezzi per qualche giorno, al
più, piuttosto che dar vita a un evento scandalistico che
avrebbe
potuto mettere nei guai Demelza e far scoprire al mondo il loro
legame e le sue origini che Falmouth ancora non conosceva.
Quando
entrarono, il grande orologio a pendolo del salone principale batteva
le sette. La casa era avvolta dalla penombra e solo i camini accesi
per scaldare gli ambienti, gettavano ombre sui locali deserti.
Infreddolito, a Ross sembrò di rinascere appena sentito quel
tepore
e quel senso di pace.
Senso
di pace che fu però interrotto perché, appena
imboccato il
corridoio, lui e Prudie furono investiti da schiamazzi e pianti di
bambini. Le stanze da ricevimento e i grandi saloni del piano terra
erano chiusi e non vi era luce eccetto che nella camera da pranzo
dove avevano cenato la sera di Natale.
Prudie
sbuffò. "Santo cielo, siamo arrivati all'ora sbagliata!
Ritardavamo un attimo e questo strazio se lo sarebbe dovuta sorbire
solo Mary, stasera...".
"Che
succede?".
Prudie
alzò gli occhi al cielo, ciabattando nervosamente verso la
sala da
pranzo. "Le bestioline sono demoniache! E ora che sono state
malate, sono pure peggio! Non mangiano, piangono e fanno mille
capricci solo per il gusto di far ammattire me e tutti quelli che
hanno a che fare con loro all'ora di mangiare!".
Ross
parve divertito dalla cosa, soprattutto perché i gemellini
forse
erano gli unici esseri viventi al mondo capaci di far lavorare Prudie
come si deve. Incuriosito, si avvicinò alla stanza da pranzo
e vi
trovò tutti e quattro i bambini seduti a tavola, Jeremy e
Clowance
da un lato, Demian a capotavola e Daisy all'altro lato. E la povera
Mary che, indaffarata, cercava inutilmente con la forza di far aprire
la bocca a Demian che di tutta risposta si era coperto le labbra con
le manine.
La
stanza era invasa da un invitante profumo di brodo, un servitore
andava e veniva dalla cucina portando diverse pietanze e sulla tavola
c'erano pane, salumi, dell'arrosto e un grosso piatto con una torta.
Appena
Jeremy e Clowance lo videro, parvero sorpresi. "Signor
Poldark?".
Prudie
intervenne subito per cercare di spiegare la situazione a loro e agli
increduli domestici. "L'ho incontrato per strada mentre tornavo
a casa da sola, nella nebbia. Si è offerto di accompagnarmi
e ne
approfitto per restituirgli il suo cappotto che è rimasto
addosso a
vostra madre quando vi ha riportati a casa dal discorso di Pitt".
"Mamma
dorme, ha la febbre" – disse subito Clowance.
Ross
annuì. "Beh, tanto che sono quì, mi farebbe
piacere farle un
saluto".
La
bimba spalancò gli occhi. "In camera? Non si può,
non si fa,
non è giusto".
E
Ross per poco non scoppiò a ridere perché
nonostante i tanti muri
fra loro e l'indiscussa aristocraticità di Clowance, lei in
quel
momento gli ricordava incredibilmente Jud. "Solo un breve
saluto, dal corridoio, mentre Prudie mi prende il cappotto. Poi
andrò
via subito".
Jeremy,
un pò pensieroso, annuì. Non era molto convinto
della cosa, la
trovava sicuramente strana ma educatamente decise di tacere e di
lasciare la questione in mano agli adulti. "Mamma voleva
scrivervi una lettera di ringraziamenti. Ora potrà
così
ringraziarvi di persona".
Prudie
sospirò sollevata, la situazione si stava rivelando meno
difficoltosa del previsto, ma ci pensò Daisy ad animare il
momento,
spingendo via Mary che tentava di forzarla a mandar giù un
cucchiaio
di brodo. "Noooo".
Ross
le si avvicinò, la sua piccola socia in affari loschi
sembrava
davvero contrariata e imbronciata quella sera. "Che succede?".
"Non
ho fame e questa qua vuole che mangio e se mangio mi viene mal di
pancia e se mi viene mal di pancia mi viene la febbre e quindi Mary
è
cattiva!".
Ross
osservò di sbieco la povera Mary che, più che
cattiva, gli pareva
infinitamente stanca ed esaurita. Poi osservò
quell'invitante brodo
che dal profumo doveva essere stato fatto con carne di prima scelta
di cui alcuni pezzi vi galleggiavano dentro assieme a dadini di
patate e carote. "Sembra buono e il brodo non fa venire la
febbre, la cura".
"Questo
ci fa ammalare!" - esclamò Demian, perorando la causa della
gemella.
E
Daisy in tutta risposta, innervosita dalle insistenze di Mary, prese
il piatto fissandola con astio, pronta a lanciarlo. Ma Prudie la
bloccò, dimostrando di conoscere bene le sue mosse e saperle
prevedere. "Provaci e ti sculaccio tutta sera!".
"Ma
uffa! Prudie tu dovevi stare in vacanza tutta sera, lo ha detto la
mamma!".
Dopo
quello sfogo, Daisy le fece la linguaccia e si voltò dandole
le
spalle e Ross decise di intervenire, forse rapito da quell'aria di
casa, di quotidianità e di calore che si respirava in quella
stanza
nonostante – o forse soprattutto – grazie ai
capricci dei
bambini. Quindi strizzò l'occhio a Prudie e poi fece lo
stesso con
Jeremy e Clowance che ridacchiavano. "Non è vero che il
brodo
fa ammalare e non è necessario lanciare piatti addosso alle
persone.
Sapete, è il brodo più invitante che ho visto in
tutta la mia vita.
Quando ero piccolo, avevo una governante orribile che non sapeva
cucinare e il brodo non me lo faceva mica con cose buone come queste,
lo faceva con broccoli e spinaci ed era verde e dall'odore che faceva
contorcere il mio stomaco".
Mentre
Prudie lo guardava con la faccia tipica di quando, da piccolo, voleva
prenderlo a sculacciate, Demian parve colpito da quel triste racconto
della sua infanzia. Gli spinse vicino il suo piatto, in un atto
APPARENTEMENTE molto gentile e disinteressato, ma soprattutto furbo.
"Tieni signor Poldark, puoi bere il mio".
Ross
osservò il bambino-bambolotto che, sotto i suoi lunghi
capelli
biondi, il visino paffuto e i vestitini da ehm... bambolotto,
nascondeva un temperamento da canaglia come la sua degna gemella. "Ti
ringrazio ma ho già cenato. Credo dovresti mangiarlo tu,
come io una
volta mangiavo il mio di brodo".
"Non
ho fame!".
"Nemmeno
io avevo fame, ma lo mangiavo lo stesso. I veri uomini e le vere
donne che poi diventano eroi, devono saper fare tutto, anche mangiare
quando non hanno appetito. E' una cosa... eroica".
Daisy
si accigliò. "Che vuol dire? Cos'è un eroe
eroico?".
Jeremy
ridacchiò perché aveva ben capito che li aveva in
pugno e aveva
catturato la loro attenzione con astuzia, senza che se ne rendessero
conto.
"Un
eroe è una persona forte, ammirata da tutti, che sa fare
sempre
tutto. Ma per esserlo, bisogna saper fare anche quello che non ci
piace".
"Tu
sei un eroe?" - chiese Daisy.
"Certo,
ovvio!".
La
bimba prese un profondo respiro, afferrò il suo cucchiaio e
dopo
averlo riempito con del brodo e un pezzo di patata, lo mando
giù,
facendo poi cadere il cucchiaio nel piatto. "Fatto! Ora sono
anche io un eroe!".
Ross
la guardò con aria di sfida che lei ricambiò.
"Tutto quì
quello che sai fare?".
Prudie
fissò entrambi in un misto fra stupore ed ammirazione.
Nessuno aveva
mai agito così coi gemelli, ottenendo senza urlare o
sbraitare o
sculacciare.
Daisy,
raccogliendo la sfida, mandò giù altre
cucchiaiate di cibo, facendo
fatica a causa del scarso appetito, ma senza lamentarsi. E guardando
la sorella e desideroso di non essere da meno, Demian fece
altrettanto. In pochi minuti i loro piatti furono vuoti e tutti, a
parte lui che si godeva il suo momento di trionfo, li guardarono con
stupore.
"Ora
sono un eroe anche io?" - chiese Demian.
"Certo!
Se mangiassi anche la torta, ora, saresti un super-eroe".
Daisy
si imbronciò, dondolando le gambette a penzoloni dalla
sedia. "No,
basta! Non ho fame".
Ross
osservò quella invitante torta al cioccolato, rendendosi
conto che
lui l'avrebbe mangiata volentieri. Ma se i gemelli non la volevamo,
probabilmente erano davvero inappetenti e soprattutto, poco golosi. O
più semplicemente consapevoli di avere a disposizione cibi
del
genere ogni giorno e quindi di potersi permettere di rifiutarli, se
non erano più che affamati. Pensò ai figli dei
suoi minatori, che
cibi del genere li sognavano di notte e li avrebbero mangiati anche
con lo stomaco in cancrena, se li avessero avuti a disposizione sulla
loro tavola. Ma era ingiusto fare quel genere di paragoni con quei
bambini che aveva davanti, la loro ricchezza non era una loro colpa e
per fortuna i suoi figli avevano avuto ogni giorno della loro vita
cibo e cure a disposizione, tutti per loro. E di questo doveva essere
grato, senza filosofeggiarci su.
Prudie
gli poggiò la mano sulla spalla. "Andiamo dalla signora? Si
sta
facendo tardi".
Ross
annuì e salutò i bambini che, ancora a tavola,
giocavano e
parlottavano fra loro mentre i domestici iniziavano a sparecchiare. E
poi si incamminò nel corridoio con Prudie, verso la grande
scalinata
che portava al piano superiore, dove c'erano le stanze da letto.
"Sono
capricciosi e non hanno mai fame. Specialmente dopo l'influenza. E
poi sono abituati a mangiare con la nonna, lo zio e la signora, ma
sono tutti a letto con la febbre e i bambini, da soli, fanno dannare
come il demonio" – si lamentò Prudie.
Ross
sospirò. "Beh, è anche ora che capiscano che non
sempre tutti
possono essere a loro disposizione... E che si comportino bene anche
quando la situazione a loro non piace. Cenare insieme è
sicuramente
bello ma devono anche saper accettare che non sempre si può".
Prudie
annuì. "Siete stato bravo prima, con le bestioline!
Nonostante
i commenti al mio brodo che vi guariva da ogni malanno!".
"Quel
brodo era orribile, Prudie... Sono un sopravvissuto".
Prudie
lo guardò malissimo, scuotendo il capo. "Comunque, hanno
mangiato e Dio solo sa come ci siate riuscito! Non è facile
fregare
i gemelli e voi sembrate riuscirci senza problemi. Fra canaglie ci si
intende e loro sembrano piacervi".
Ross
sorrise. "Beh, mi piacciono, sono bambini... particolari".
"Sono
i figli del tenente Armitage..." - rispose Prudie, sibillina.
Ross
alzò le spalle. "Beh, non è colpa loro"
– esclamò, con
la sua migliore faccia da canaglia.
Prudie
ridacchiò a quella risposta. Salirono le scale e Ross si
guardò
attorno in quell'ambiente elegante, in quel corridoio percorso da
fini tappeti persiani e pieno di antichi quadri di valore e per un
attimo si sentì spaesato e immeritevole di essere
lì. Hugh aveva
dato tantissimo in termini materiali a Demelza, come poteva lui
reggere il paragone? Non che Demelza ambisse alla ricchezza, sapeva
che per lei erano altre le cose importanti, ma comunque lui dal
paragone con Hugh ne usciva decisamente perdente.
"Siamo
arrivati". Prudie si fermò davanti a una grande porta
bianca,
bussò e la voce di Demelza la invitò ad entrare.
Ross
deglutì, nervoso. Finalmente era da lei e santo cielo,
quanto
l'aveva desiderato! Era lì, così vicino, in
quelle stanze
sicuramente a lui precluse e ora... ora l'avrebbe rivista.
Prudie
gli lanciò uno sguardo eloquente che voleva essere di
affetto,
raccomandazione ed incoraggiamento e poi si congedò, dicendo
che
avrebbe affrontato la lavata di capo della sua padrona la mattina
successiva.
Ross
aprì lentamente la porta ed entrò in quella
elegante stanza che in
quei mesi spesso aveva cercato di immaginare, senza successo. Rimase
a bocca aperta per la sua ampiezza, l'eleganza raffinata ma di buon
gusto dei mobili, le pareti color pastello, i grandi e morbidi
tappeti per terra, la toeletta a lato, la spinetta a un altro angolo,
gli armadi di fine fattura, le grandi finestre ornate da tende di
seta e il letto grande, morbido e sicuramente comodo al centro della
parete che dava sul giardino.
Appena
Demelza lo vide, si mise ritta a sedere, con gli occhi sbarrati per
la sorpresa. “Come hai fatto ad entrare qui?”.
Ross
la osservò in un misto di sollievo e preoccupazione per il
pallore
evidente del suo viso. La sua voce era flebile e debole, il suo viso
stanco e in quel letto grande e lussuoso all'interno di quella camera
tanto grande ed imponente, sembrava ancora più piccola e
indifesa.
Prudie gli aveva detto che stava ancora male ma non immaginava che le
sue condizioni fossero ancora tanto critiche. Non era da Demelza
metterci tanto per guarire... “Chiedilo a Prudie,
è stata lei a
cercarmi e a chiedermi di venire qui a farti visita”.
Lei
scosse la testa, esasperata. “Mi aveva chiesto mezza giornata
di
riposo e ora capisco perché... Dovrò parlarci per
bene, con Prudie!
Non dovevi venire qui, non in questa casa, non in questa stanza e non
di sera senza un invito ufficiale! Non scherzavo quando te l'ho
detto!” - disse, sprofondando stancamente nel cuscino.
“Ma avrei
dovuto comunque scriverti per ringraziarti, hai salvato la vita a me
e ai bambini... Almeno potrò farlo di persona” -
concluse, forse
arrendendosi all'idea che la sua presenza lì era reale e che
non
poteva farci molto.
Ross
sussultò. Sembrava così fredda, distante...
Immaginava che non
l'avrebbe accolto a braccia aperte ma quell'atteggiamento che spesso
Demelza usava quando si incontravano e lei si trovava in
difficoltà
ad avere a che fare con lui, riusciva ancora a spiazzarlo e ferirlo,
nonostante ne capisse le motivazioni. E si chiese se Prudie non si
fosse sbagliata e se davvero Demelza non lo volesse avere fra i piedi
più del necessario. “Non devi ringraziarmi, sei
mia moglie e...”.
“Non
sono tua moglie e non lo sono mai stata nemmeno in passato, visto che
hai deciso di annullare il nostro matrimonio”.
Colpito
da quel tono freddo che Demelza sfoderava sempre quando si trovavano
a parlare del loro matrimonio, Ross deglutì.
“Ciò che dice la
legge e ciò che un uomo ha nel cuore, sono cose molto
differenti.
Eri in pericolo e lo erano i nostri bambini e qualsiasi padre e
marito avrebbe fatto quello che ho fatto io”.
Demelza
scosse la testa. “Ciò che dice la legge
è ciò che conta agli
occhi del mondo, Ross. Per i bambini e la loro posizione, almeno...
Li hai resi orfani, senza padre, figli di nessuno. E sei sparito, non
sei nemmeno venuto a conoscere Clowance, quando è nata. Per
la legge
non sono mai stata tua moglie e i bambini non sono i tuoi figli. Sono
stata la moglie di Hugh Armitage e ora sono la sua vedova. E questa
è
la nostra stanza da letto e tu non dovresti essere
quì”.
Come
poteva controbattere? Non poteva perché lei in effetti aveva
ragione
su tutta la linea e anche se ultimamente i rapporti fra loro erano
migliorati, il passato che li aveva lacerati e divisi esisteva e non
poteva essere cambiato, coi suoi devastanti effetti. “Li
conosco i
miei errori, tutti quanti. E so che non dovrei essere qui ma siccome
mi conosci meglio di chiunque altro, sai anche che spesso sono
testardo, agisco d'impulso e amo cacciarmi nei guai. Sono stato un
agnellino troppo tempo e Prudie mi ha dato la spinta per uscire dal
letargo. Non prendertela con lei, non c'entra. Ero preoccupato per te
e non avevo il coraggio di disturbarti e di venire qui, ma era una
cosa che desideravo comunque fare”.
Demelza
sospirò, apparentemente stanca e meno rabbiosa.
“Sei qui a Londra
per un fine ben preciso e io voglio sperare che tu ti sappia
comportare al meglio per perseguirlo. Venire qui non è stato
un
gesto intelligente e spero non ne consegua nulla, ma forse non
è poi
così grave perché tu a Lord Falmouth piaci e
– accidenti a lui –
troverebbe la tua visita qui interessante, se lo sapesse. Ora che sei
qui comunque, posso ringraziarti di persona senza scriverti un
formale biglietto e assicurarti che sono accudita, amata, che ho chi
si prende cura di me e che presto sarò guarita dalla febbre.
Ricordo
cosa mi hai detto a Natale e ho deciso di credere che per te sia
stato difficile ma più di questo, non posso dirti, non posso
darti.
Posso solo...”. Prese un profondo respiro, come se parlare di
quelle cose per lei fosse infinitamente difficile. “Ross, li
hai
salvati, ci hai salvati, MI hai salvata. Ti sei preso cura dei
bambini e anche se solo per poche ore, ci sei stato. Come un padre
dovrebbe esserci sempre, hai ragione. Accontentati di quel momento
che abbiamo passato insieme come faccio io, accontentati del mio
grazie perché io non posso darti altro e non sentirti in
obbligo
verso di noi perché non ne hai motivo. Vivi e lavora al
meglio per i
motivi che ti hanno spinto qui e fa come se non esistessimo, non
metterti nei guai per me e per noi perché stiamo bene, siamo
a casa
e siamo circondati dalla nostra famiglia”.
“Questa
non è la tua casa. E lo sai anche tu!” - la
bloccò, deciso.
Lei
scosse la testa. “Non lo era ma lo è, adesso.
Piena di ricordi,
piena d'amore, con la famiglia che legittimamente mi ha accolta. E'
il luogo dove i bambini stanno crescendo e stanno diventando uomini e
donne, dove stanno formando la loro personalità e le loro
abitudini
e dove tutti noi abbiamo le nostre certezze. E' la casa dove sono
nati Demian e Daisy, proprio qui, in questa stanza... Io sono a casa
ora, forse la prima vera casa davvero mia da quando sono
nata”.
Ross
deglutì perché faceva male sentirle dire quelle
cose di certo vere
ma a cui non credeva, non del tutto. Stava mentendo, a lui e
soprattutto a se stessa. “E Nampara?”.
Lo
sguardo di Demelza si fece triste. “Nampara è la
casa dei Poldark,
tua e di Valentine. Non la mia, non di Jeremy e non di
Clowance”.
“Tu
sei una Poldark! E lo sono anche i bambini” - rispose, deciso
a
tallonarla per farla cedere. “Quel giorno, quando abbiamo
firmato
quel dannato documento, io non riuscivo a capire davvero cosa stessi
facendo e gli effetti che quell'atto avrebbe avuto su tutti noi. E'
vero, tu hai ragione, quello che dice la legge è quello che
conta
agli occhi della società. Ma per me, MAI, è stato
così. Mai
quell'atto vi ha resi estranei per me. Ai miei occhi siete stati
sempre Poldark e sempre lo sarete. E Nampara era la nostra casa, tua
e mia e lo sarebbe stata per sempre perché se tu non te ne
fossi
andata, io non avrei mai permesso che qualcosa o qualcuno vi portasse
via da lì. Non puoi dire che non fosse casa tua, era la casa
dove
abbiamo riso insieme, dove ci siamo amati, dove abbiamo anche
litigato e dove sono nati i nostri tre figli: Julia, Jeremy e
Clowance. La tua casa... Tua quanto lo è ora questa. E lo
sai!”.
Demelza
abbassò lo sguardo, stringendo nervosamente le coperte.
“Cosa vuoi
da me, Ross? Perché sei qui? Perché mi tormenti
così parlando di
un passato che non esiste più? Sono cambiata, non sono
più quella
persona che viveva a Nampara e io ora vivo qui e faccio parte di
questa famiglia... E non ci rinuncerò, non
rinuncerò a tutto
questo... E non parlo della ricchezza e del denaro, dei gioielli e
dei bei vestiti. Parlo della famiglia, dell'affetto e del sostegno
costante, del fare le cose insieme, dell'armonia, del gestire i
bambini con qualcuno, del ridere dei loro disastri e gioire delle
loro conquiste. Jeremy e Clowance qui hanno trovato un padre che li
ha amati, uno zio che li adora e che per loro a volte rinuncia ai
suoi incontri politici se c'è qualcosa di importante che li
riguarda, di una nonna che vive solo per vederli e di due fratellini
arrivati a far loro compagnia e ad essere compagni e sostegni nella
loro vita futura”.
Ross
si morse il labbro, avvertendo chiaramente un rimprovero non troppo
velato per le sue tante mancanze di marito e padre. “So che
spesso
non c'ero, so che ti lasciavo sola per inseguire mille cose e so che
forse non sono stato capace di dimostrarti appieno quanto ti amavo.
Ma non farei mai del male a te e ai bambini, se fossimo insieme
cercherei di fare del mio meglio per voi e forse non sarò
mai bravo
quanto questi Boscawen ma... pur con tante cose da fare, con tanti
problemi da risolvere, io cercherei di fare il possibile per esserci
e non ripetere i miei errori del passato. Sai, ho sempre un po'
odiato queste nobili ed antiche famiglie londinesi ma a Natale mi
avete insegnato, tu e loro, che vivere l'amore di una famiglia
è
quanto di più bello esista per un uomo. Io non ho mai avuto
nulla
del genere, nulla di lontanamente paragonabile alla magia di quella
sera, che hai saputo creare qui coi bambini. Siete una bella famiglia
ed è doloroso sapere di non farne più
parte”.
Demelza
gli sorrise. “Ti ringrazio. Mi fa piacere che Natale sia
servito a
questo e sono sicura che sei un padre molto migliore di quanto tu non
lo sia stato in passato. E per il resto, starò bene, sta
tranquillo.
Sono circondata da servitori, ho la mia famiglia vicino, i miei
bambini. Sono coccolata e viziata e come puoi vedere, ho tutto quello
che mi serve, guarirò presto. Del resto non ha senso
parlarne, non
ne ho la forza”.
“So
che starai bene e so che stanno bene anche Jeremy e Clowance. Li ho
visti poco fa, quando sono arrivato, mentre cenavano”.
Demelza
spalancò gli occhi. “Loro ti hanno
visto?”.
“Sì.
I gemellini stavano facendo baccano e non volevano mangiare, ma sono
riuscito a farli cenare e a far svuotare loro il piatto di
zuppa!”.
Demelza
sembrò sorpresa. “Cosa? Come hai fatto? Quando non
vogliono
mangiare e dicono NO, non riesce nessuno a fargli cambiare idea.
Nemmeno io, è una battaglia persa con loro”.
Ross
ridacchiò. “Io ci sono riuscito”.
E
inaspettatamente lei rise, apparentemente più rilassata per
la piega
che aveva preso la loro conversazione. “Incredibile... Ti
ringrazio
anche per questo, allora!”.
Ross
si trovò ad arrossire senza capirne il motivo, per quel
ringraziamento. Poi si guardò attorno, notando qualcosa che
a una
prima occhiata gli era sfuggita. “E quelli?” -
chiese, indicando
un disordinato mucchio di giochi ammassati sotto a una delle
finestre. “Credevo che i bambini vivessero con le regole
della
buona educazione di principi e principessine. E che Lady Boscawen ci
tenesse a fargliele rispettare”.
Demelza
guardò i giocattoli, arrossendo a sua volta. “I
bambini sono
liberi di giocare e fare baccano. Qui, nelle loro stanze e nei
corridoi. L'importante è che siano educati e rispettosi di
chi
lavora per noi. Fuori voglio che seguano l'etichetta e si comportino
bene ma in casa non ho regole così diverse da quelle che
avevo a
Nampara. E in questa stanza, con me, dorme Demian, molti di questi
giocattoli sono suoi. Fra poco, dopo che gli avranno fatto il bagno,
arriverà qui per dormire”.
Ross
alzò un sopracciglio, deciso a tormentarla un po' con
sarcasmo.
“Ancora?”.
Lei,
punta sul vivo, lo guardò con aria di sfida. “Ho
la febbre e l'ha
avuta anche lui. Non è decisamente il momento di affrontare
questo
discorso”.
Ross
sospirò. “E quando sarai guarita? Che scusa
troverai?”.
Demelza,
colpita sul viso e decisamente affondata, sorrise, arrendendosi
dolcemente. “Demian dorme con me da quando è nato.
Dal primo
vagito mi si è aggrappato addosso e non sono ancora riuscita
a
staccarlo. Hugh mi disse di farlo fare, di tenerlo vicino
finché lui
ne avesse avuto bisogno e da quando è morto... Demian ha
preso il
suo posto, in un certo senso hai ragione tu. E' il mio piccolo
principe e la mia più grande debolezza...”.
Ross
si accigliò, giudicava sbagliato quell'atteggiamento che non
avrebbe
aiutato Demian a rendersi indipendente e soprattutto provocava crisi
di gelosia nei suoi fratelli, per quel rapporto esclusivo con la
madre. Clowance ne soffriva e probabilmente anche Daisy, anche se lo
dava a vedere in modo più sottile e meno evidente della
sorella. Ma
non disse più nulla sull'argomento perché sapeva
che Demelza ci
avrebbe riflettuto e ne sarebbe venuta a capo da sola e inoltre, non
poteva intromettersi più di tanto nel suo rapporto coi
figli.
“Capisco”.
“Mi
fa piacere” - disse lei con dolcezza e con un sorriso,
finalmente
sincero e caldo, sul viso.
Nonostante
tutto, nonostante avesse il cuore a pezzi, Ross non poté non
sorridere a sua volta. Santo cielo, avrebbe dato tutto ciò
che aveva
per riaverla con se. La sua famiglia, LEI era la sua famiglia.
“Posso
farti una domanda? Una sola e poi me ne andrò”.
“Dimmi”.
“Hai
detto che Hugh Armitage ti amava e io ti credo. Ma tu... tu lo
amavi?”.
A
quella domanda, Demelza spalancò gli occhi e si
irrigidì. “Non
credo che siano affari tuoi e parlarne non
è nei piani per la serata. Scusa, ma parlare CON TE, di LUI,
in
questa stanza, è troppo per me. E non sono affari tuoi! Se
ti chiedi
se l'ho sposato per disperazione e per il suo denaro comunque, sappi
che sei fuori strada. Molti, conoscendo le mie origini, potrebbero
pensarlo ma spero non sia il tuo caso”.
“Non
penserei mai nulla del genere e lo sai benissimo. Non te lo chiedo
per questo. Ma vedi, a volte scambiamo per amore dei sentimenti
simili ma che con l'amore non c'entrano nulla... Nessuno lo sa meglio
di me”.
“Esistono
tanti tipi di amore Ross, tutti ugualmente importanti”.
“Non
hai risposto alla mia domanda, però”.
Demelza
si morse il labbro, indecisa su come rispondere. Avrebbe potuto
chiamare le sue guardie e farlo sbattere fuori casa senza troppe
cerimonie, avrebbe potuto schiaffeggiarlo, avrebbe potuto urlargli di
andarsene. Eppure, stranamente, rispose. “Prudie, una volta,
mi ha
fatto la stessa domanda, sai? Il giorno del mio matrimonio con
Hugh”.
“E
che le hai risposto?”.
E
inaspettatamente, lei rispose. “Tu sei stato come il fuoco,
totalizzante, che ti cattura e rende tutto il resto troppo piccolo e
insignificante. E come il fuoco, tu hai saputo bruciare e far male.
Hugh è stato il tepore piacevole di un camino che riscalda
la tua
stanza in una notte d'inverno. Un calore che non brucia, che non ti
cattura come il fuoco ma che ti fa star bene. Io sono stata felice
con lui, mi sono sentita amata e al sicuro, si è preso cura
di tutti
noi e ci ha voluto bene senza riserve. E' arrivato in un momento
difficilissimo della mia vita e finché siamo stati insieme,
è stato
il principe azzurro perfetto per quel momento così
particolare della
mia esistenza. Io con lui ho riso, mi sono divertita, sono stata la
ragazza spensierata che non ho mai potuto essere, quella che viveva
con leggerezza perché non c'erano problemi incombenti su di
me ad
ogni ora di ogni giorno. Anche la sua malattia, benché ne
fossimo
tutti consapevoli, lui era riuscito a tenerla lontana da noi e dalla
serenità che eravamo riusciti a costruire insieme. E' stato
bello,
una favola e lui farà sempre parte di me perché
in quel momento
della mia vita io avevo bisogno di lui e lui si è impresso
nel mio
cuore e nella mia mente. E' stato mio marito, il padre dei miei
figli, il mio compagno di viaggi ed avventure, di cavalcate e di
presenze forzate a balli a cui non volevamo partecipare, l'uomo che
mi ha donato un tigrotto da accarezzare e con cui passeggiavo al
parco di notte quando i nostri bimbi non volevano dormire. E' stato
tante cose e non era te, non era come il fuoco ma io sono stata
felice con lui. E a volte mi sento in colpa perché credo di
non
essere mai riuscita a restituirgli quanto lui ha dato a me”.
Lo
colpì. Quella risposta lo colpì e in un certo
senso fece sentire
più leggero il suo cuore. Era stata una risposta sincera e a
suo
modo delicata e dolce. Ciò che lei aveva detto su Hugh era
forte,
profondo, una parte importante di lei e sicuramente una dichiarazione
d'amore per qualcuno che era stato importante nella sua vita. Ma la
cosa bella era che lo era stato anche lui. Fuoco che brucia... Un
bellissimo modo, a suo vedere, di descrivere l'essenza del vero amore
fra un uomo e una donna. E il fuoco era lui, non Hugh.
“L'amore è
paragonabile al fuoco, non al tepore di un camino... L'amore
è
qualcosa di totalizzante, che ti brucia e può far male ma
che ti
rende completo. Tutto il resto è amicizia, affetto, BISOGNO
d'amore... Ma non è amore, non quello con la A maiuscola,
almeno”.
Lei
abbassò lo sguardo, stanca e forse desiderosa di
interrompere quella
conversazione che stava diventando complicata da gestire.
“Ross, va
a casa, ti prego”.
Era
debole e non aggressiva come era sempre stata e forse – ma
forse
anche no però doveva provare – gli stava aprendo
uno spiraglio. Si
sedette sul letto accanto a lei, le prese la mano e la strinse nella
sua, accarezzandola e intrecciando le loro dita. E prima che potesse
ribellarsi, le toccò la nuca e la attirò a se. E
le loro labbra si
toccarono e poi si fusero in un caldo bacio ed intenso bacio. Era
fuoco, no? E al fuoco non poteva resistere e non poteva resistere
nemmeno lei che non si ribellò, non lo respinse e gli si
arrese.
Ross non chiese quel bacio, i baci non si chiedono, i baci si danno
quando si sente che è arrivato il momento giusto per loro!
Non erano
mai servite parole fra lui e lei, quando sentivano il bisogno di
toccarsi, di baciarsi, di amarsi... Non erano servite allora e non
servivano nemmeno adesso.
Fu
un bacio lungo, passionale, pieno di quel desiderio che aveva
represso per quasi sette anni... Quando abbandonò le sue
labbra, il
suo sguardo si piantò in quegli occhi color del mare, ancora
bellissimi e trasparenti. “Il fuoco... Hai ragione! Questo
è il
fuoco, lo senti? Lo senti sulle labbra? Tutto il resto non è
la
stessa cosa, non è vero?”.
“Ross...”
- mormorò lei, forse troppo debole per stenderlo con un
pugno e
troppo confusa per trovare motivazioni adatte a negare l'evidenza di
quanto c'era fra loro. Erano sette anni che non si baciavano e
dannazione, era felice di averlo fatto, di averla baciata e di averla
stretta fra le braccia. E avrebbe voluto restare, insistere e magari
farla cedere. Ma non ci sarebbe riuscito, non in quella stanza dove
era successo pure troppo fra loro e non era il luogo adatto. Nampara
lo sarebbe stato. O qualsiasi altro posto! Ma non lì, quello
era
stato il regno di Demelza e Hugh e Ross decise che doveva rispettarlo
per rispetto ad entrambi.
“Non
avresti dovuto, non qui, Ross” - disse lei, con un filo di
voce.
“Lo
so... Ma non sono riuscito a resistere e d'altronde il fuoco non
rispetta, quando invade una stanza, la proprietà altrui. Ma
non
succederà più... Non quì”.
Si alzò dal letto, era arrivato il
momento di andarsene e lasciarla sola coi suoi pensieri e anche se
apparentemente sembrava una fuga, non lo era. Le stava dando tempo,
ne stava dando ad entrambi e per la prima volta da quando la
conosceva, stava agendo per il suo bene mettendosi da parte.
“Ora
se vuoi, puoi pure chiamare le tue guardie, se ti aggrada. E se mi
prendessero a calci nel sedere, me lo sarei anche meritato. Ma non
puoi impedirmi di essere felice. E non puoi impedirlo nemmeno a te
stessa, quando ci avrai pensato su. Sei una Poldark e lo sai. Lo sei
molto più di quanto sarai mai una Boscawen”.
Fece
per andarsene, ma Demelza lo bloccò.
“Ross”.
“Dimmi”.
“Credi
che sia una bella cosa, l'amore? Una cosa che può farti
male, che
brucia, come puoi definirla bella? Come può una persona
desiderare
di correre il rischio di bruciarsi ancora? Dove può trovare
il
coraggio?”.
Si
voltò verso di lei, appoggiando la testa contro la porta
d'ingresso
della stanza. “Io ho già deciso che ne vale la
pena, a me il
rischio piace e tu lo sai bene. Le motivazioni che potrebbero
spingerti a fare altrettanto, le potresti trovare solo tu. Non posso
dartele io, io posso solo farti sentire com'è il fuoco vero.
Ma poi
sta a te e hai ragione, forse sarebbe complicato ma tutto si
può
fare, nella vita. Si sbaglia, ci si rialza e si ricomincia a
camminare e magari da quell'errore, possono nascere tante cose buone.
E' l'equilibrio che conta, non eri tu a dirmelo? E' la somma delle
cose che facciamo che vale davvero, alla fine. E un'azione sbagliata
non è più importante di tante azioni giuste e io
ne voglio fare
tante, di azioni giuste, imparando dai miei errori del passato. Per
te è difficile perdonare e per me è stato
difficile perdonarmi e
forse non ci sono ancora riuscito del tutto e per farlo, ho bisogno
di te. Ci vuole coraggio, ad entrambi! Sta a te e a me decidere se
ne vale la pena e io ho scelto”.
“Io
no, non ho scelto... E forse quel coraggio non ce l'ho” -
rispose
Demelza, in un leggero sussurro che nascondeva tante incertezze.
Ross
le sorrise dolcemente. “Ce l'hai, lo so, nessuno ti conosce
meglio
di me. Devi solo trovarlo”.
Demelza
non rispose ma accennò a ricambiare il sorriso.
“Buona notte,
Ross”.
“Buona
notte!”. D'istinto sentì che le barriere fra loro
si erano
spezzate e si avvicinò di nuovo, dandole un bacio stavolta
sulla
fronte. E poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.
Si
sentiva leggero, felice, stordito come un ragazzino al primo bacio.
Le labbra gli formicolavano ancora al ricordo di quelle di Demelza
premute sulle sue e per un attimo desiderò immaginare di
essere
ancora a Nampara, solo loro, coi bimbi che dormivano nella loro
stanza, un camino acceso e una coppia felice che voleva solo amarsi e
stare insieme.
Si
incamminò nei corridoi rendendosi conto che si era
soffermato troppo
e che era tardi e fu quasi travolto dalla piccola Daisy che, in
mutandine, era sfuggita a Mary che voleva farle il bagno.
La
bloccò, prendendola fra le braccia. “Hei! Dove
scappi, piccola
peste?”.
Lei
cercò di divincolarsi ma poi lo fissò, stupita di
trovarlo ancora
lì. “Signor Poldark!?”.
“Io,
in carne ed ossa! Che succede?”.
Lei
divenne seria seria, come se la questione fosse di vitale importanza.
“Scappo dal sapone che puzza di prato della nonna! Non mi
piace!”.
“Oh,
capisco” - rispose Ross, mettendola a terra.
Lei
si aggrappò ai suoi pantaloni. “Signor Poldark,
davvero hai
salvato la mia mamma?”.
“Così
dicono...”.
Daisy
divenne pensierosa. “Allora se la hai salvata, non sei
più in
debito con me?”.
Si
inginocchiò davanti a lei per essere alla sua altezza,
accarezzandole i lunghi ed arruffati capelli biondi. Era
così
adorabile, quella piccola. Una bambina vivacissima che nascondeva,
dietro ai suoi modi un po' selvaggi, schietti e sfuggenti, una
sensibilità fortissima tutta da interpretare e scoprire.
“Ho
salvato tua madre, non te. Quindi il mio debito nei tuoi confronti
esiste ancora e aspetto che tu mi dica cosa vuoi da me per esaudire
il tuo desiderio”.
Lei
parve illuminarsi da quella risposta. “Vieni a mangiare con
noi
allora! Se vieni, io faccio la brava e mangio tutto”.
Lo
sguardo di Ross si addolcì e avrebbe voluto accontentarla
all'istante, se avesse potuto. Ma forse, non adesso, un giorno...
“Tu
devi cenare con la tua famiglia e io non sono della famiglia”.
Lei
scosse la testa. “Se vuoi sposare mamma, allora anche tu poi
sei
della famiglia”.
“E
se succederà, mangerò con te! Ma ci vuole tempo,
sai aspettare,
mantenendo il nostro segreto?”.
Daisy
annuì, aggrappandosi a lui per farsi prendere in braccio.
“Sì”
- sussurrò, abbracciandolo e dandogli un bacino sulla
guancia. “Io
ti aspetto, è!”.
Era
bello sentirglielo dire, almeno a lei. “Bene! Ma dovrai fare
la
brava anche ora che non ci sono, mi raccomando. Mangerai
tutto”.
Daisy
rise. “E sarò un eroe”.
Ross
le accarezzò nuovamente la testolina ma poi
arrivò tutta trafelata
Mary a riprendersela.
“Signore?”.
Ross
gli porse la bimba, rendendosi conto dello stupore della donna a
trovarlo ancora lì. “Ecco... Stavo
andando...”.
La
domestica lo guardò in cagnesco. “E il
cappotto?”.
Ross
si guardò le mani, impallidì e capì di
essere nei guai. Santo
cielo, lo aveva dimenticato! “Ecco... La signora ha insistito
per
tenerlo e ridarmelo dopo averlo fatto lavare”.
“Capisco...”.
Mary continuò a guardarlo sospettosa ma poi, rendendosi
conto che
Daisy stava prendendo freddo, lo salutò e riportò
la bimba nel
bagno. E lui si capitolò giù dalle scale,
rendendosi conto che si
stava cacciando nei guai ad attardarsi tanto in quella casa.
Scese
al piano di sotto, ormai quasi buio e deserto, quello dei saloni dei
ricevimenti e dei pranzi, delle biblioteche e dei salotti da
conversazione. E nei corridoi, che scivolava nell'oscurità
come un
ladro, vide Jeremy.
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Capitolo 51 *** Capitolo cinquantuno ***
"Signor
Poldark? Siete ancora quì?".
Jeremy,
con un paio di libri in mano, lo osservò piuttosto perplesso
nella
semi-oscurità del corridoio. La servitù era
tornata in cucina, le
luci della sala da pranzo erano spente e tutto era avvolto dalla
penombra e dal silenzio, eccetto che per una stanza in fondo al
corridoio da cui proveniva della luce.
"Stavo
andando via" – tentò di giusfiticarsi Ross,
rendendosi conto
che si era soffermato molto e che parlare e... baciare... Demelza,
gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo. "E tu, che stai
facendo quì, tutto solo, al buio?" - gli chiese, per sviarlo
da
tutte le domande che sicuramente si stava facendo in quel momento.
Non era normale che lui fosse lì a quell'ora e anche se
Jeremy era
un bambino, lo sapeva pure lui che non avrebbe dovuto trovarsi
più
in quella casa da un bel pò!.
Jeremy
guardò i libri che aveva in mano. "Oh, sto andando in
biblioteca a sistemare questi. Li ho letti oggi pomeriggio ai
gemellini e loro li hanno lasciati in giro. Li ho visti sul divano e
li rimetto a posto".
Ross
gli sorrise, era davvero un bambino buono, giudizioso e maturo per la
sua età. "Che libri sono?".
"Libri
di fiabe. E' mio compito leggerglieli!".
Ross
si accigliò. "Davvero? Come mai?".
Jeremy
abbassò leggermente il capo, stringendo i libri fra le
braccia. "E'
la mia eredità. Papà leggeva per me da piccolo e
quando è morto,
mi ha chiesto di fare altrettanto con Clowance, Demian e Daisy. Al
suo posto... E io lo faccio, ogni sera dopo cena e ogni volta che me
lo chiedono".
Ross
deglutì, trovandosi ancora una volta davanti quel baratro di
sette
anni in cui un altro uomo aveva preso il suo posto non solo nel cuore
di Demelza ma anche in quello dei suoi figli. Un papà, per
loro, con
cui erano cresciuti, che gli aveva dato dei ricordi e una
eredità da
portare avanti... Il loro modello di riferimento, un uomo tanto
diverso da lui e probabilmente infinitamente migliore di quanto lui
sarebbe mai stato. Un uomo che aveva lasciato un'impronta positiva
nella vita di Demelza e soprattutto nella formazione di Jeremy. Un
uomo che aveva fatto quello che lui non era stato capace di portare a
termine: essere un padre che insegna ad un figlio a diventare una
brava persona, un adulto di cui andare fieri! Era bello quello che
faceva Jeremy per i suoi fratellini, era bello che Hugh lo avesse
insignito di un tale compito, un compito che un poeta come lui doveva
aver amato molto, ma si chiese se non fosse troppo. Jeremy era un
bambino e doveva rimanere tale, non prendere il posto di un uomo che
era morto! Certo, Hugh doveva avergli conferito quello che per lui
era un onore, di certo amava i libri e affidarli a Jeremy era stato
un atto d'amore e immensa fiducia, ma... Ma forse era semplicemente,
immensamente geloso e si stava facendo tante congetture mentali senza
senso davanti a quel lascito di Hugh che esprimeva amore, un amore
che lui non aveva mai saputo donare ed esprimere a Jeremy. Scosse la
testa, cercando di scacciare quei pensieri foschi che non voleva
avere, non in quel momento col sapore dolce delle labbra di Demelza
ancora impresso sulle sue, di labbra. "Vuoi che ti accompagni?".
"Dove,
in biblioteca?".
"Sì.
Non ho mai visto la biblioteca di questa casa".
Jeremy,
un pò perplesso, non se la sentì di negargli
quella richiesta e gli
indicò la stanza illuminata. "E' laggiù, venite".
Ross
lo seguì, incuriosito da quella stanza che doveva essere
stata il
fulcro del rapporto che aveva unito Jeremy a Hugh. Vi entrò
con lui
e rimase a bocca aperta per l'ampiezza di quel locale, per le
migliaia di libri in esso contenuti, tutti disposti ordinatamente
sugli scaffali e probabilmente divisi per contenuto e autore.
Camminò
sul morbido tappeto, catturato da un ritrato appeso alla parete.
Raffigurava un giovane uomo in divisa da ufficiale, dai capelli
chiari, dallo sguardo penetrante e dall'indiscusso fascino. Lo
guardò
e per un attimo gli parve di scorgere, in lui, i tratti di Demian e
Daisy. E impallidì, sentendosi tremare le gambe... Non lo
aveva mai
visto, non era mai riuscito a dargli un volto e spesso aveva cercato
di immaginarselo e ora... Ora forse aveva davanti... "Lui chi
è?" - chiese, con un filo di voce.
Jeremy
gli andò vicino, dopo aver sistemato i libri. "Mio padre".
Mio
padre... Quel quadro e quelle parole di Jeremy furono violenti come
schiaffi sul suo volto. Era lui il padre, per Jeremy, lui, Hugh
Armitage! Quell'uomo che aveva amato e si era fatto amare da Demelza
e dai suoi bambini, quell'uomo che aveva dato vita alla famiglia che
lui aveva ritrovato anni dopo a Londra e di cui non faceva parte.
Quell'uomo che Jeremy chiamava papà al posto suo, che gli
aveva
insegnato a leggere e scrivere e l'amore per i libri e la cultura.
L'uomo che aveva ridato il sorriso a Demelza, che l'aveva fatta sua e
con cui lei aveva avuto altri figli. Eccolo, incredibilmente giovane,
elegante, raffinato, che sembrava scrutarlo e giudicarlo anche da
lì,
da quel quadro immobile appeso al muro. Quell'uomo, l'uomo di cui,
con dolcezza, gli aveva parlato Demelza poco prima. Ora era reale
davanti a lui e non più una fantasia senza volto.
Improvvisamente
provò una incredibile rabbia, seguita dal forte desiderio
che l'uomo
dipinto su quel quadro prendesse vita per ucciderlo con le sue stesse
mani. Ma fu solo un attimo e quello successivo, gli vennero in mente
i visini di Demian e Daisy. E si rese conto che c'era qualcosa che lo
accomunava a Hugh, suo malgrado: entrambi erano stati condannati a
non veder crescere i propri figli e se per Hugh questa era stata una
realtà imposta dal destino, per quanto lo riguardava, per
lui non
era che la conseguenza dei suoi errori. Hugh non gli aveva portato
via nulla, Hugh aveva semplicemente amato ciò che lui, un
tempo, non
era stato capace di proteggere. E se n'era andato senza
possibilità
di ritorno, senza seconde opportunità... Che invece lui
aveva, anche
se di certo non le meritava. Non quanto quell'uomo dipinto sul
quadro. E la rabbia, pian piano, divenne sgomento e pietà.
Che
diritto aveva di odiare Hugh? Nessuno, l'unico diritto che aveva era
odiare se stesso e provare pena per un uomo che invece non aveva
potuto vedere la meraviglia che erano diventati i suoi due gemellini.
Jeremy
gli tirò la giacca, forse smarrito da quel suo atteggiamento
che ai
suoi occhi doveva apparire incomprensibile. "Vi sentite male?
Siete diventato muto di colpo, signor Poldark!".
"Ehm...
no! Scusa, ma mi stavo solo chiedendo come mai sei ancora
quì, da
solo. E' un pò lugubre questa biblioteca, di sera, con
questa luce
così fioca, in mezzo al silenzio e ai libri". Ok, come scusa
era pessima, ma doveva cercare di sviare il discorso e lo sconcerto
che aveva generato il suo mutismo in Jeremy.
Il
bambino ridacchiò. "Dopo cena e la favola, i miei fratellini
vengono portati su dalle tate a fare il bagno e io resto giù
un pò
a farmi gli affari miei e le cose che mi piacciono, prima di andare a
letto".
Ross
parve incuriosito da quel piccolo mondo che Jeremy si era costruito e
che pian piano stava scoprendo, rendendogli suo figlio un pò
meno
estraneo. "E tu non fai il bagno?".
Jeremy
rise ancora. "Certo, più tardi e da solo! Ho dieci anni, non
ho
bisogno di essere lavato come Daisy e Demian. O Clowance, che dopo il
bagno vuole essere spazzolata cinquanta volte per avere i capelli che
luccicano".
Già,
aveva dieci anni, era grande per il bagnetto con la tata. Santo
cielo, quanto era cresciuto da quel bimbo abbandonato quasi otto anni
prima a Nampara. "E che cosa fai quì, da solo?".
"Sistemo
i libri, leggo... E altre cose".
"Che
libri ti piacciono?".
Jeremy
fece un sorrisetto furbo. Con la mano indicò la parte destra
della
biblioteca dove sugli scaffali c'erano libri dalle copertine colorate
e poi la sinistra dove, all'apparenza, c'erano letture più
seriose.
"La parte destra è stata adibita da papà ai libri
per noi
bambini. L'ha riempita tutta di libri per noi, divisi per
età. Ha
cercato in tutta Londra TUTTI i libri adatti ai bambini e ormai credo
di averli letti quasi tutti in questi anni. La parte di biblioteca a
sinistra invece, ha i libri per i grandi".
Ross
si guardò attorno, colpito da come Hugh avesse predisposto
tutto
affinché ogni cosa fosse a posto dopo la sua morte,
soprattutto la
sua biblioteca. "E tu... tu da che parte stai? Leggi i libri a
destra o i libri che stanno a sinistra?". Il fatto che non gli
avesse risposto ancora, gli faceva pensare che spesso si avvicinasse
a letture non proprio adatte alla sua età.
E
infatti... "Ai gemelli e a Clowance, leggo i libri che stanno
sulla destra. A volte li leggo anche da solo. Ma ogni tanto, di sera,
leggo anche quelli che stanno sulla sinistra".
Ross
alzò un sopracciglio. Era affascinato da lui e da come
parlava e
avrebbe voluto passare ore a chiacchierarci assieme per scoprire suo
figlio e quel suo mondo ancora tanto sconosciuto ai suoi occhi ma che
lo affascinava e lo faceva sentire un pò di più
suo padre. "Tua
madre lo sa?".
"No".
"Che
libro da grandi ti piace di più?". Era una conversazione
piacevole ma in quel momento subentrò in Ross anche una sana
preoccupazione di padre che voleva capire se suo figlio stesse
facendo qualcosa di potenzialmente dannoso per la sua crescita. Non
aveva idea di che libri da adulti Jeremy leggesse e visto che nessuno
sembrava sapere questa cosa, era meglio indagare.
"Il
Decamerone".
"Oh...".
Ross si grattò il mento, pensieroso, cercando di far mente
locale
nei suoi nebulosi ricordi di studente... "E' un libro
divertente, in certe parti. Ma in altre, poco adatto a te".
Jeremy
alzò le spalle. "Certe cose non le capisco! Ho provato a
chiedere a Gustav ma non le capisce nemmeno lui. E allora ho saltato
delle parti. Mi sa che l'autore era un pò matto!".
"Ottimo,
ottimo..." - rispose Ross, ridendo fra se e se e sospirando per
il sollievo. Per fortuna pareva ancora innocente e poco attratto da
certe tematiche, per ora...
Jeremy
lo osservò, pensieroso. "Signor Poldark, e il vostro
cappotto?
Prudie non ve lo ha ridato?".
Ross
impallidì. Accidenti a quel dannato cappotto!!! "Ecco, tua
madre ha insistito per tenerlo e lavarlo. Vuole restituirmelo pulito.
Per questo ci ho messo tanto, ho tentato di convincerla a ridarmelo
anche così ma non c'è stato verso". Chiese
mentalmente scusa a
Demelza per quella bugia, ma in quel momento non gli vennero in mente
scuse migliori. E sperò che, pur all'oscuro di tutto, se
Jeremy
fosse andato sul discorso, gli avrebbe retto il gioco.
Jeremy
però parve credergli. "Ohhh... Beh, mamma è molto
testarda".
Ross
gli sorrise. "Sì, non è facile farle cambiare
idea".
"Lo
so". Ridacchiando per quella considearzione su sua madre, Jeremy
si avvicinò a una sedia, prendendo una mantellina blu che si
mise
sulle spalle.
"Dove
vai?".
Il
bambino spense una delle candele alla parete. "Quì ho finito
e
per stasera non ho voglia di leggere. Esco fuori un pò, a
fare delle
cose".
Ross
entrò in allarme. "Fuori? Ma è buio, fa freddo e
tu non
dovresti...".
"Oh,
non preoccupatevi! Ho il mio posto sicuro, in giardino. Mamma lo sa che
ci vado, non è pericoloso".
Ross
però non sembrava convinto. "Posso accompagnarti?".
Jeremy
sembrò sorpreso e forse Ross non poteva dargli torto. Era
inusuale
che un estraneo si preoccupasse tanto per cose del genere e
soprattutto che passasse tanto tempo in quella casa, di sera, a
parlare con lui con tutta quella famigliarità. Ross si
chiese se
quel comportamento non avrebbe finito per mettere in allarme Jeremy e
fargli sorgere dei dubbi sulla sua vera identità, ma non se
la
sentiva lo stesso di lasciarlo andare fuori da solo. Dopo tutto era
suo padre e niente al mondo poteva impedirgli di preoccuparsi per
lui!
"Va
bene..." - rispose il bambino, titubante e sinceramente sopreso.
Ma rimase ancora zitto senza protestare davanti a questo
atteggiamento, Ross si rese conto di quanto poco somigliasse invece a
Clowance che tutto quello che aveva sulla punta della lingua, quando
era stizzita, lo diceva senza mezzi termini. Lui e Clowance erano
simili di carattere mentre in Jeremy, Ross scorgeva con dolore la
pacatezza e la buona educazione che gli erano stati trasmessi dal
ricordo e dall'esempio di Hugh. Faceva male perché quel
bravo ed
educato bambino era il prodotto di un altro padre, non il suo! Non
aveva mai insegnato nulla di buono a Jeremy, lui! Nemmeno quando
erano stati insieme a Nampara perché allora, troppo preso da
altro,
in fuga da mille fantasmi e alla ricerca di fantasie perdute, non lo
aveva mai di uno sguardo.
Silenziosamente,
lo aiutò a spegnere le candele e poi con lui uscì
dal retro della
casa, da una delle porte che portava al grandissimo giardino che
confinava con il parco di Kensington.
Camminarono
nella nebbia, col ghiaccio che scricchiolava sotto i loro piedi, e si
fermarono davanti a un grande albero sul cui tronco era inchiodata
una piccola scaletta di legno. Ross guardò su e si accorse
che tra i
rami era stata costruita una casetta sull'albero, di legno. "E'
questo il tuo posto segreto e sicuro?" - chiese a Jeremy che,
agilmente, si era già arrampicato su e lo guardava dal
ballatoio.
"Sì,
la mia casa sull'albero!".
“Posso
salire?”.
Jeremy,
dalla casetta, guardò giù. “No. E' una
casetta sull'albero dove
possono entrarci solo i bambini. E il mio papà che l'ha
costruita,
con me, quando ero piccolo. Ma lui è morto e allora non ci
può più
venire nessun adulto”.
Ross
deglutì. Ogni volta che sentiva Jeremy dire la parola
'papà'
parlando di Hugh, gli si strozzava lo stomaco, così come
sentire di
quante cose avevano
fatto insieme.
“Non ci sono mai stato in una casa sull'albero, sai? Da
piccolo
credo di averne voluta una”. Con
quelle parole insistette per salire e non sapeva nemmeno il
perché
volesse farlo. Quella casetta era stata il regno di Hugh e Jeremy,
perché voleva farsi male salendoci?
Jeremy
si appoggiò alla staccionata che fungeva da barriera,
osservandolo.
Poi sospirò. “Ma si dai, salite Signor Poldark.
Tanto qualche
adulto qui ci è venuto”.
“Tua
madre?”.
“No,
le bambinaie quando devono recuperare Demian. Lui si rifugia sempre
qui quando sa che lo devono mettere in castigo. E poi Prudie! Una
volta ha tentato di salire ma è caduta giù.
Però non si è fatta
niente, è caduta sul sedere e ha il sedere grosso”.
Mentre
si arrampicava sulle scalette, nella sua mente comparve l'immagine di
Prudie che faceva altrettanto e per poco non cadde in terra pure lui
dal ridere. Gli piaceva il modo noncurante
e allo stesso tempo diretto e sibillino in cui Jeremy parlava, il suo
essere ironico senza accorgersene e soprattutto il suo spirito di
osservazione. Appena arrivato su, osservò l'enorme parco del
palazzo
che arrivava fino all'ingresso dei giardini di Kensington, rendendosi
conto della maestosità di quel giardino avvolto dalla nebbia.
“Sono stato bravo, agile come un bambino! Visto?”.
Jeremy
ridacchiò. “Demian è più
svelto di voi. Lui non usa nemmeno gli
scalini, si arrampica e basta sulla corteccia”.
Ross,
ora che ci pensava, aveva già notato la
notte di Natale quanto
piacesse, al piccolo, arrampicarsi ovunque.
“Perché lo fa?”.
“Non
lo so, non lo
sa nessuno. Lo
fa e basta”.
Ross
si guardò attorno. La casetta era di per se piccola, solo un
paio di
metri di grandezza per
lato, però la
balconata che la circondava era davvero bella e ben fatta e da essa
si poteva vedere tutto il parco. Il pavimento era disseminato di
giocattoli in legno, cubi per costruzioni per lo più, ma
anche
animaletti intagliati. “Che belli” - disse,
prendendo una forma di coniglio.
Jeremy
arrossì. “Li ho fatti io”.
“Davvero?”
- gli chiese, stupito, ricordandosi
di quanto Jeremy avesse amato quel genere di giochi da piccolo e di
quel cavallino che lui aveva sempre tenuto con se in quegli anni, in
suo ricordo.
Jeremy
annuì, togliendo un coltellino dalla tasca dei suoi
pantaloni. “Non
ditelo a mamma, non vuole che gioco coi coltelli. Ma mi piace
intagliare il legno e lo faccio solo se i gemelli e Clowance non sono
in giro, quando sono da solo ed
è sicuro farlo”.
Era
ammirato, orgoglioso. Lo aveva lasciato che a malapena sapeva parlare
e ora si trovava davanti un piccolo ometto in miniatura che si
prendeva cura di sua madre e dei suoi fratellini. Era maturo, forse
più di quanto lo fosse mai stato lui. E di certo non era
così per
merito suo. “Sei davvero molto bravo”.
“Grazie!”.
“Venite
spesso a giocare qui?”.
“Non
spesso, le tate hanno paura. Pure la mamma... Di solito ci vengo da
solo o con Demian, quando è in fuga da qualcosa. Le mie
sorelle
invece preferiscono giocare in giardino, Clowance
con le bambole e Daisy... beh, lei si fa i fatti suoi!
Non
ci vengono mai. Solo una volta ci è salita Clowance con
Chaterine
per far finta di essere le regine della
casa”.
Ross
rise. “Chaterine, quella che vuole essere la tua
fidanzata?”.
Jeremy
sospirò. “Sì, lei. Quando è
salita quassù, volevo smontare la
scala e lasciarla qui sopra per sempre”.
Ross
sentì una goccia di sudore freddo rigargli il viso.
“Non è una
cosa carina quella che hai detto”.
“Non
è carina nemmeno Chaterine che mi segue tutte le volte che
mi vede
al parco perché vuole darmi un bacio. Non
l'avete vista a Natale? Non avete visto come fa?”.
“Però
tu non dovresti scappare da una donna, non è
virile!”.
“Che
vuol dire virile, signor Poldark?”.
Ora
era in difficoltà e
ci si era messo da solo.
E se Demelza
avesse saputo della natura di quel loro dialogo, forse si sarebbe
arrabbiata...
Che diavolo doveva dirgli? E gli venne in mente la risposta
più
ovvia che, poteva scommetterci, davano la maggior parte dei padri del
mondo. “Chiedilo a tua madre”. E
in silenzio, chiese nuovamente scusa a Demelza anche per questo...
Il
bimbo alzò le spalle, assolutamente
all'oscuro del suo essere in difficoltà.
“Va bene”.
Ross
sospirò, era decisamente meglio cambiare argomento.
“Questa
casetta l'ha costruita tuo padre, quindi?”.
“Sì.
Quando ero piccolo, l'abbiamo inaugurata che mamma aveva nella pancia
i gemelli. L'ho aiutato, sapete? E quando l'abbiamo finita, mi
portava qua e mi leggeva le fiabe. E
qui mi ha insegnato a leggere”.
Ross,
facendo violenza a se stesso, decise che Hugh era stato bravo in
questo. “Era bravo a costruire le cose, vedo”.
A
quell'affermazione, Jeremy rise. “No, lui amava i libri. Per
costruire la casetta, si è letto un sacco di manuali per
imparare
come fare. Si martellava sempre il dito col martello quando metteva i
chiodi e aveva le mani piene di tagli. E
spesso montava le assi al contrario, doveva smontare tutto e poi
rifare da capo... Io ridero, era un po' imbranato!
Però ci è riuscito alla
fine!”.
Ross
si guardò attorno, maledicendosi per non averla costruita
lui, per i
suoi figli, una casetta sull'albero. E per non averli messi a letto
per anni, per non esserseli presi sulle spalle, per non avergli letto
dei libri, per non averci giocato insieme e per non averli aiutati a
rialzarsi quando cadevano. Si sentì irritato verso se stesso
e
nuovamente
verso Hugh che
aveva fatto tutto questo al suo posto e meglio di lui. “Era
un uomo
gentile con te, anche se non era il tuo vero padre” - disse,
quasi
a voler ristabilire il suo ruolo, senza
però pensare alle conseguenze.
A
quelle parole infatti
Jeremy sussultò, adombrandosi. “Chi ve lo ha
detto?”.
“Cosa?”.
“Che
non era il mio vero padre”.
Ross
deglutì, rendendosi conto che si era avventurato in un
sentiero
pericoloso e aveva detto una cosa non gradita al bambino. Una
cosa grossa e da non dire, di cui non aveva valutato
l'entità e le
sue ripercussioni.
“Tua madre. O
forse l'ho sentito dire in giro, non ricordo...”.
Jeremy
si avvicinò di alcuni passi. “Impossibile, mia
madre non
potrebbe mai avervelo detto. E
nessuno oserebbe spettegolare di noi Boscawen in giro!”.
“Eppure
è così” - rispose, sostenendo il suo
sguardo, rendendosi
conto però che Jeremy stava diventando rabbioso e
soprattutto,
sospettoso. E che mentirgli non sarebbe stato per nulla facile.
Jeremy
si morse il labbro, nervoso e con gli occhi lucidi. “Non
è vero
quello che
avete detto!
La mamma mi ha sempre insegnato
che un papà è quello che ti ama e ti cresce, non
quello da cui
nasci. E che Hugh era il mio papà perché
aveva fatto tutto questo!
Non può avervelo detto lei”.
Ross
deglutì. E ora come ne usciva? Santo cielo, aveva fatto un
disastro!
“Credo... credo che intendesse solo dire che non sei nato da
lui”
- tentò di argomentare.
Gli
occhi di Jeremy divennero rabbiosi e si piantarono su di lui con
ferocia. “Purtroppo no, né io né
Clowance. Quello che ci ha fatto
nascere, io lo odio. Non ci ha voluti e ha fatto piangere tanto la
mamma quando ero piccolo. Io
non lo ricordo, ricordo solo una cosa di lui: mi aveva promesso di
insegnarmi una cosa e non è mai venuto per farlo e io ho
imparato da
solo! E da allora non mi piacciono le persone che non mantengono le
promesse, sono dei vigliacchi! Soprattutto se le promesse le fanno a
un bambino che ci crede!”.
Si avvicinò alla scaletta, deciso a scendere. “Io
sono stanco,
vado a letto signor Poldark. E' tardi, dovreste andarvene pure
voi”
- disse risoluto, scendendo velocemente come
a voler fuggire da lui.
Rimase
di sasso davanti a quel fiume di parole... C'era qualcosa di lui, che
Jeremy ricordava.
“Quando
la tua manina sarà grossa la metà della mia,
allora ti insegnerò
ad andare a cavallo”.
Jeremy
non aveva scordato quelle parole, ci aveva creduto e lo doveva aver
aspettato a lungo. Prima di Hugh, nonostante Hugh... E lui non era
mai tornato da lui...
Osservò
suo figlio che scendeva la scaletta, in modo nuovo. Non più
il
gioioso piccolo Boscawen che amava i libri, che aveva tanti amici,
che scherzava e aveva sempre la risposta pronta ma un bimbo che
dentro di se portava molte ferite che era bravo a nascondere ma che
esistevano e facevano ancora male. Ferite che gli aveva inferto lui!
In quel momento aveva davanti Jeremy Poldark, non Jeremy Armitage.
Dopo quasi otto anni era davvero suo figlio quello con cui stava
parlando, un figlio che gli stava chiedendo il conto dei suoi errori
e delle sue azioni!
Ross
scese
velocemente dall'albero e gli
corse dietro, ferito da quelle parole che meritava ma deciso a
riprenderlo. “Jeremy, aspetta! Scusa, non volevo farti
arrabbiare”.
Quando
fu davanti all'uscio di casa, Jeremy finalmente si fermò.
“Non
sono arrabbiato. Ho solo sonno”.
“Non
è vero!” - disse, parandosi davanti a lui.
Il
bambino lo guardò storto. “Forse! Ma non voglio
più parlare, mi è
permesso andarmene, signore? Anzi no, non devo chiedervelo, sono a
casa mia e faccio come mi pare. Giusto? Siete
voi l'estraneo!”.
Ross
sussultò. C'era una strana aria di sfida nel tono di voce di
Jeremy
e non ci era abituato, non lo aveva mai visto sotto quell'aspetto. Si
sentì come se suo figlio lo stesse mettendo alla prova e lo
stesse
studiando attraverso quelle parole provocatorie e non ci era
preparato. “Giusto. Forse è davvero ora che vada
anch'io”.
Jeremy
non rispose, fece alcuni passi per andarsene ma poi parve ripensarci
e si fermò. Si voltò verso di lui e per un lungo
istante lo guardò.
“Voi chi siete davvero?”.
“Beh,
lo sai. Un parlamentare come tuo zio. Lavoro
con lui a Westminster”.
“E
poi?” - insistette Jeremy. “A volte mi sembrate uno
che dice
bugie, ora che ci penso. Al
discorso di Pitt avete chiamato per nome mia madre e non si fa! E
siete venuto qui di sera, tardi, senza invito! E siete stato da mia
madre tantissimo tempo, nella sua stanza! Nemmeno questo si fa! E
Prudie... Come la conoscete?”.
Ross
divenne di ghiaccio. Quelle domande, quel modo di guardarlo... Santo
cielo, se avesse sospettato? Se avesse capito? Certo, Jeremy non ne
poteva avere la certezza ma già il dubbio, di per se,
metteva tutti
in una posizione pericolosissima. Demelza lo avrebbe ucciso, si
sarebbe arrabbiata tantissimo e ne avrebbe avuto ragione. Ma ora non
era quello l'importante ma Jeremy, la sua rabbia e i suoi sentimenti.
Voleva abbracciarlo, calmarlo, cercare di spiegargli l'inspiegabile.
Ma come poteva riuscirci? Non era preparato a questo, non era
un'opzione che Demelza gli aveva dato e parlare avrebbe potuto
peggiorare la situazione. Non era mai stato bravo, lui, a risolvere i
problemi a parole! “Jeremy, ascolta...”.
Lui
indietreggiò, sospettoso. “Gli adulti che iniziamo
una frase così,
si preparano a raccontare un sacco di bugie”. Queste cose le
chiederò alla mamma! Anche se, quando ci siete voi, mi
sembra che le
bugie le racconti anche lei”. Gli
voltò le spalle e si avvicinò all'uscio.
“Mio zio dorme, la mamma
pure e quindi in questo momento sono io il signore di questa casa. Vi
invito ad andarvene, SIGNOR POLDARK! E' tardi e non dovreste essere
quì”.
E
poi se ne andò, sbattendo la porta.
Ross
rimase solo, nel gelo e nella nebbia del giardino. Smarrito, ferito
forse ancor più di quanto non lo fosse stato quando era
stata
Demelza a urlargli il suo dolore. Quello di Jeremy era ancora
più
profondo, forte, annientante. Era il suo bambino, sangue del suo
sangue. E lo aveva tradito. Tradire una donna era stata una cosa
orribile ma tradire il proprio figlio era una cosa imperdonabile...
Lui stesso non avrebbe perdonato suo padre nella medesima situazione!
E
ora che poteva fare? Il dolce bacio di Demelza era scivolato via, con
le belle sensazioni che gli aveva lasciato in corpo e ora era avvolto
di nuovo dal gelo, un gelo che aveva generato lui stesso, con la sua
arroganza e la sua voglia di ristabilire il suo ruolo di padre a
tutti i costi.
Si
guardò attorno, nella nebbia. Demelza gli aveva raccontato
che Hugh
era lì, ad ascoltarla e a proteggerla, nelle notti di
nebbia. E
anche se non credeva a questo genere di cose, si chiese se non fosse
vero e se Hugh, come lui, in quel momento fosse preoccupato per quel
loro bambino di cui entrambi, in modi diversi, erano padri.
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Capitolo 52 *** Capitolo cinquantadue ***
Demelza,
coperta da un pesante scialle, si dondolava avanti e indietro sulla
comoda sedia a dondolo in camera sua, che aveva fatto posizionare
davanti a una delle grandi finestre che davano sul parco, giocando
nervosamente con una lettera che teneva fra le mani e che aveva letto
e riletto più volte nel corso della mattinata.
Da
alcuni giorni non aveva più la febbre ma sua suocera l'aveva
costretta a stare piantonata in camera e ora si sentiva come un
uccellino in gabbia. Amava tutte quelle premure, ma certe volte le
sembravano eccessive. Era guarita e anche se si sentiva un
pò
debole, era ora di riprendere la sua vita!
Guardò
fuori dalla finestra e si accorse che il suo grande giardino era
coperto da un leggero nevischio che aveva preso a cadere dopo l'alba,
che gli dava l'aspetto di un dipinto fiabesco.
Sua
suocera era guarita e da una settimana aveva ripreso a partecipare ai
suoi tè e ai suoi eventi mondani mentre Falmouth, ripresosi
a sua
volta dall'attacco di gotta e dall'influenza, era dovuto partire tre
giorni prima per un viaggio di lavoro in Portogallo che lo avrebbe
tenuto lontano da Londra quasi due mesi.
E
poi c'erano i bambini, che desiderava tornare a sentire vicino.
Quella febbre l'aveva tenuta lontana da loro fin troppo e non
desiderava che di tornare a prendersene cura, soprattutto dopo lo
spavento occorso a Jeremy e Clowance dopo il discorso di Pitt.
La
piccola Clowance, incuriosita dal suo ruolo di stilista per bambine
povere, si era lanciata in lunghe discussioni e ore di lavoro con la
nonna, per cucire nuovi abitini usando la stoffa dei suoi di vestiti,
che non metteva più dopo averli indossati una sola volta, e
sembrava
serena e tranquilla, dopo quanto successo. Inoltre si era offerta di
insegnare alle bimbe del centro di aiuto a fare l'inchino, cose che,
secondo lei, i poveri non sapevano assolutamente fare e questo la
rendeva eccitata e ansiosa di iniziare con lei quell'avventura, una
volta guarita. In quei giorni decise di assecondarla per non farle
perdere l'entusiasmo, di lasciarla fare come se stesse prendendo
parte a un gioco, convinta che comunque prima o poi sarebbe riuscita
a insegnarle davvero il valore di dare un aiuto a chi era in
difficoltà. Oltre ai vestiti e all'inchino, Clowance avrebbe
visto
di persona la faccia cattiva di povertà e miseria e ne
avrebbe
tratto grandi insegnamenti per la vita, ne era certa. Era una bambina
viziata e capricciosa a volte ma era sua figlia, sua e di Ross! E di
certo da loro aveva ereditato la sensibilità per chi era in
difficoltà...
Jeremy
invece era cambiato, era diventato taciturno e a volte aggressivo e
pungente quando parlava con lei, quasi a volerla sfidare. Demelza era
preoccupata e non capiva se quel cambiamento fosse dovuto alla shock
per quanto successo durante i disordini o a qualcos'altro. Aveva
provato a chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma lui si era
chiuso in un profondo ed inusuale mutismo e non le aveva dato alcuna
risposta. Jeremy le toglieva il sonno perché faticava a
riconoscere
il suo dolce bambino gentile e sensibile, in quegli ultimi giorni.
Era come se, dal giorno alla notte, qualcuno lo avesse rapito e gli
avesse dato in cambio un bambino dalle medesime fattezze, ma
sconosciuto. Si era chiesta cosa fosse successo, si era fatta mille
domande ma non era riuscita a dare una spiegazione all'astio che
sembrava percepire in lui verso di lei.
E
poi c'era Ross...
Deglutendo,
guardò la lettera che stringeva fra le mani, che lui le
aveva fatto
recapitare attraverso Prudie due giorni prima e a cui aveva risposto
la sera precedente, sempre avvalendosi del prezioso aiuto della sua
domestica. Ross le aveva scritto che le doveva parlare di una cosa
urgente e seria, che forse si sarebbe arrabbiata con lui e che magari
sapeva già il perché e questo la metteva in ansia
in quanto non
aveva idea di cosa potesse essere. Sapeva solo che lei e Ross si
erano parlati in quella stessa stanza, che si erano baciati e che lei
gli aveva permesso di farlo. E che era irritata non tanto verso di
lui ma quanto verso se stessa per non essere irritata con la sua
coscienza per avergli permesso di farlo! Era complicatissimo, un
rompicapo e lei non ci capiva nulla... Ross l'aveva lasciata, aveva
lasciato i bambini, aveva scelto Elizabeth e lei non doveva e non
poteva permettersi di farlo rientrare nella sua vita! Ma dannazione,
perché mente e cuore, in quel momento, non andavano nelle
medesima
direzione? Perché Demelza Carne sembrava più
forte della ricca e
controllata Lady Boscawen? Perché, nonostante tutto, Ross la
riusciva ancora a confondere e a farle sentire le farfalle nello
stomaco? Come poteva desiderarlo, ancora? Come poteva, dopo essere
stata tanto serena e felice con Hugh? Come poteva non averlo
dimenticato?
Eppure
poteva, eppure stava succedendo ed era la cosa più
irrazionale e
stupida che potesse provare... Avrebbe voluto essere vecchia e
decrepita per non provare più sensazioni del genere e invece
era
ancora molto giovane, sola da tanto e... E probabilmente aveva
ignorato troppo a lungo i desideri di cuore e mente, desideri che
Ross in qualche modo aveva saputo risvegliare e portare alla luce.
Sapeva
solo che se chiudeva gli occhi, sentiva il calore delle labbra di
Ross sulle sue, la sua voce calda accanto al suo orecchio, il tono
pacato delle sue parole e la dolcezza dei suoi gesti. E che lo aveva
desiderato, dannazione! Aveva voluto che venisse in visita, aveva
voluto che fosse lì e forse aveva voluto anche quel bacio! E
si
sentiva in colpa per questo, verso Hugh, verso i suoi figli, verso la
sua famiglia...
Verso
Lady Boscawen...
Ripensò
nuovamente a quel bacio. Lei e Ross durante il loro matrimonio se
n'erano scambiati tanti ma era come se, presente e immutabile, ci
fosse sempre stato il fantasma di Elizabeth. Ora non lo aveva
avvertito, ora non c'erano fantasmi e mentre la baciava, i ricordi
brutti del suo ultimo periodo a Nampara erano spariti per lasciar
spazio a quelli belli, alle risate, alle loro chiacchierate davanti
al camino, alla passione e all'amore che esplodeva in camera da
letto. Per tanti anni aveva finto e si era convinta che i ricordi
belli fossero solo un parto della sua mente, che in Ross non c'era
mai stata vera felicità con lei, ma ora... Le sue parole
nella notte
di Natale, il bacio... Era stato devastante quanto successo anni
prima ma forse, sotto la cenere, un amore vero era esistito.
Si
dondolò nervosamente scacciando quei pensieri e pensando
ancora al
contenuto della lettera. Ross non sembrava voler parlare del bacio e
di loro ma anzi, pareva piuttosto preoccupato e la cosa grave a cui
si riferiva, doveva essere grave per forza se no non gli avrebbe
scritto. E per questo la sera prima gli aveva dato un appuntamento in
un piccolo cottage di sua proprietà fuori Londra, dove
spesso andava
a chiacchierare coi suoi amici dopo la lezione di tiro con l'arco, il
mercoledì pomeriggio. Era un luogo solo suo, uno dei tanti
cottage
inutilizzati dei Boscawen che aveva ricevuto in eredità da
Hugh e
che aveva sistemato pian piano fino a renderlo un suo piccolo nido e
rifugio, che veniva ora usato per svagarsi nell'unico pomeriggio
della settimana che si era ritagliata solo per se, dove con
Margarita, Edward e Daniel, andava a chiacchierare, rilassarsi, fare
merenda e divertirsi insieme. Per vedere Ross, senza occhi
indiscreti, sarebbe andato benissimo! E vista l'ora, si stava pure
facendo tardi e doveva iniziare a prepararsi.
Fu
in quel momento che Jeremy bussò alla sua porta ed
entrò.
"Amore,
sei venuto a trovarmi?".
Il
bambino osservò i suoi abiti sul letto. "Esci?".
"Sì,
ho delle commissioni da fare".
"La
nonna non vuole, vuole che ti riposi ancora".
Demelza
gli sorrise. "Tua nonna mi ha murata viva in casa e sto cercando
di evadere. Ma non ti preoccupare, non sto andando in nessun posto
pericoloso e sarò a casa prima che faccia buio".
Jeremy
annuì, pensieroso, scrutandola attraverso i suoi occhi scuri
e
attenti, cosa che aveva fatto spesso in quegli ultimi giorni, come se
la stesse studiando per qualche strano motivo. "Dove vai?".
"Te
l'ho detto, a fare una commissione".
"Manda
un domestico!".
Demelza
si accigliò. Che cos'era quell'insistenza
affinché non uscisse?
"Devo andarci di persona".
"Cosa
devi fare?".
"Cose
da adulti". Odiava rispondergli così, non lo aveva mai fatto
ma
suo figlio la stava mettendo in difficoltà.
Jeremy
si rabbuiò e poi, fingendo di passeggiare nella stanza, si
avvicinò
alla poltrona dove ancora riposava il cappotto che Ross le aveva
lasciato addosso. "Il signor Poldark era venuto a
riprenderselo...".
Demelza
deglutì. "Sì... Ma, ecco...".
Il
bimbo si voltò verso di lei, serio. "Come mai allora
è rimasto
quì?" - chiese, con tono indagatore.
Si
trovò in difficoltà perché odiava
mentire ma non poteva fare
altro, non poteva dire a Jeremy che lei e Ross, troppo presi dai loro
sentimenti, lo avevano dimenticato. "Ci siamo messi a
chiacchierare e alla fine... ci è scappato di mente. Glielo
farò
recapitare a breve".
Lo
sguardo di Jeremy si indurì, come a volerla rimproverare,
come se
avesse intuito che stesse mentendo.
Demelza
si trovò a disagio e per un attimo non seppe cosa dire o
cosa fare.
Jeremy era strano, indecifrabile in quel momento. Per la prima volta
da quando era nato, non capiva il suo comportamento e aveva paura.
Stava crescendo in fretta, era intelligente e forse... E se avesse
notato qualcosa di Ross che lo aveva messo in allarme? E se avesse
capito o ricordato? Aveva dei sospetti? "Jeremy, va tutto
bene?" - chiese, per l'ennesima volta in quei giorni.
"Sì,
perché?".
"Sei
strano...".
Jeremy
la fissò, serio. "Pure il signor Poldark è
strano. Clowance
dice che è un selvaggio e che non conosce le buone maniere.
In fondo
ha ragione, non è educato andare a casa di una Lady di sera
tardi,
senza invito. E andare a trovarla in camera sua".
Demelza
rimase ammutolita perché Jeremy, dal suo punto di vista,
aveva
ragione. E lei stupidamente non aveva pensato a questo, a come doveva
apparire strano agli occhi dei suoi figli, il comportamento di Ross
nei suoi confronti, la sua confidenza e le libertà che lei,
pur non
volendo all'inizio, gli aveva concesso. Jeremy non ricordava Ross ma
se non stava attenta, presto avrebbe iniziato a farsi delle domande e
a insospettirsi. "Ci ha salvato la vita e quindi direi che
l'etichetta, per una volta, può essere dimenticata".
Jeremy
alzò le spalle. "Se lo dici tu..." - disse, in tono
sibillino. "Ora esci e gli riporti il cappotto?".
"No"
– gli rispose, ponderando bene le parole, con cautela.
Jeremy
si avvicinò alla porta. "Prima di ridarglielo, dovresti
farlo
lavare. Credo gli farebbe piacere".
Jeremy
aveva parlato lentamente, in un modo strano, come studiando l'effetto
che le sue parole avevano su di lei. Demelza deglutì. "Credo
di
sì, è una buona idea".
"Già!
Dovresti averla avuta già tu, mamma!" - sbottò
Jeremy, come se
si fosse improvvisamente arrabbiato per qualcosa. Poi uscì,
chiudendo violentemente la porta dietro di lui.
E
Demelza rimase ammutolita, spersa, smarrita. Cosa stava succedendo al
suo bambino? Cosa aveva sbagliato? Come doveva comportarsi nel caso
che...? Nervosamente si vestì, piena di dubbi e domande.
Pensò a
Ross e a cosa avrebbe fatto se fosse stato lì e si rese
conto che
era sola. Era sempre sola, quando doveva affrontare qualcosa coi suoi
bambini, bella o brutta che fosse. E che era stanca e che avrebbe
voluto qualcuno vicino, qualcuno pronto a supportarla, con cui
confrontarsi, a cui affidarsi. Non era facile, non lo sarebbe mai
stato, essere madre era un mestiere difficile e nella sua posizione
lo era ancora di più.
Decise
che, ancora una volta, doveva agire da sola. Quel pomeriggio, al suo
ritorno, avrebbe affrontato Jeremy e non gli avrebbe lasciato alcuna
via di fuga. Gli avrebbe fatto svuotare il sacco, avrebbe scoperto
cosa lo tormentava e in un modo o nell'altro, come sempre, lo avrebbe
affrontato.
Ma
ora doveva uscire. Si mise un pesante mantello, prese la sua borsa e
poi lasciò la sua stanza. Il cocchiere l'aspettava
già davanti al
cancello.
...
Stretta
nel suo mantello, Demelza osservò dalla carrozza la
città avvolta
dalla neve. Era arrivato ormai febbraio ma l'inverno non sembrava
voler mollare la presa su Londra, rendendo esasperante la vita delle
classi sociali più basse.
Faceva
freddo e sperava ardentemente che l'incontro con Ross durasse poco
per tornare a casa. Da Jeremy ma anche dai gemellini che quel giorno
stavano facendo impazzire Prudie che era incaricata di far bere loro
lo sciroppo per la tosse prescritto da Dwight, che trovavano
orribile. Per fortuna Clowance era tranquilla, almeno lei... O
sarebbe impazzita!
Aveva
scritto a Ross l'indirizzo del cottage scelto per il loro incontro e
quando arrivò, lui era già arrivato a cavallo e
l'aspettava
sull'acciotolato. Scese dalla carrozza, ordinò al cocchiere
di
tornare a riprenderla fra un'ora e poi andò da lui, col
cuore che le
balzava nel petto. Era il suo tormento, l'uomo che l'aveva fatta
soffrire, che aveva cercato di lasciarsi alle spalle e che l'aveva
baciata poche sere prima in un modo tale da lasciarla confusa e
stordita per giorni. Ross sarebbe sempre stato la sua dannata
maledizione, una maledizione che non le si sarebbe mai tolta di
dosso.
Appena
la vide, Ross le si avvicinò. La strada di campagna che
costeggiava
i cottages e che portava nella brughiera era deserta, le altre
abitazioni della via sembravano vuote e disabitate e la fila di
alberi del viale faceva cadere sulle loro teste la troppa neve che
non riuscivano a trattenere sui loro rami. Era un posto incantevole,
coloratissimo dei colori della natura in primavera e sonnecchioso e
tranquillo in inverno. Tanto vicino alla caotica Londra ma che nel
suo piccolo, pareva un mondo lontano e a se stante. Adorava quel
luogo, un posto solo suo pieno di ricordi piacevoli e leggeri con i
suoi migliori amici, un posto perfetto dove vedere di nascosto Ross.
Lui,
appena le fu davanti, le sorrise. "Grazie per avermi dato
l'opportunità di parlarti. E' importante, non ti avrei
disturbata
altrimenti, so che non stai ancora bene".
Demelza
tagliò corto, odiava i convenevoli, temeva che i suoi
sentimenti e
la confusione che aveva in testa la tradissero e aveva poco tempo a
disposizione. "Sto bene, sono guarita ormai. Su, entriamo in
casa, potremo parlare con più tranquillità".
Ross
annuì e poi le si accodò mentre gli faceva strada
per il vialetto
che portava all'ingresso.
Quando
entrarono, lui si guardò attorno. Era un grazioso e piccolo
cottage
di campagna con un giardinetto davanti, un salotto, una piccola
cucina e una camera da letto sul retro. Nulla più...
Arredato con
grazia, senza nulla di costoso o elaborato e con le tendine bianche
alle finestre, quel luogo sembrava dare il benvenuto, col suo fascino
discreto, a ogni visitatore che vi metteva piede. "Questo posto
è tuo?".
Demelza
annuì mentre, inginocchiata, cercava di accendere il piccolo
camino.
"Sì. Ne ho altri di cottage, fuori Londra, piuttosto cadenti
e
in disuso. Ma questo l'ho adorato, mi sono innamorata della sua
facciata bianca e delle persiane azzurre fin dalla prima volta che
Lord Falmouth mi ha portata quì a vederlo e così
l'ho fatto
sistemare e l'ho reso un piccolo mondo solo mio, dove venire quando
voglio rilassarmi, stare sola o con i miei amici".
Lui
alzò un sopracciglio, ironico. "Lady Boscawen è
una donna
piuttosto viziata".
Davanti
a quel tono canzonatorio e rilassato, lei decise di stare al gioco.
"Sì, certe volte Lady Boscawen è una donna
piuttosto viziata".
Ross
la guardò sorpreso, ammirato, forse non aspettandosi che lei
riuscisse ad evadere di tanto in tanto dal suo ruolo ufficiale,
ritagliandosi un mondo che fosse solo suo. "I bambini non
vengono quì? Non ci sono giochi in giro".
"No,
non ci sono mai venuti. Come ti dicevo, questo posto è solo
mio...
Ci vengo più o meno una volta a settimana con i miei amici
del
circolo di tiro con l'arco, dopo la lezione del mercoledì
pomeriggio. Chiacchieriamo, beviamo il tè, giochiamo a carte
o dadi
e ridiamo. E poi torniamo a casa, alle nostre vite. Purtroppo a causa
dell'influenza e del freddo, sono settimane che non ci rimetto piede
e Margarita, che viene spesso quì con me, è
piantonata a casa per
via della gravidanza. Col bel tempo questo posto riprenderà
vita".
Ross
rimase per un attimo in silenzio, affascinato da quella donna tanto
in gamba. Era una Lady, una mamma, un personaggio pubblico, ma anche
una semplice ragazza bisognosa del suo tempo, dei suoi spazi, di una
sua intimità e di un posto che fosse solo suo. "Ti ringrazio
per avermi fatto venire quì. Sicuramente sarai gelosa di
questo
cottage".
"Lo
sono, infatti. Ma non trovavo un altro posto adatto dove
incontrarti".
Ross
si inginocchiò accanto a lei, aiutandola ad accendere il
camino.
"Lascia, faccio io" – si propose, prendendole dalle mani
l'acciarino e un pezzo di legno. "Non è un lavoro da Lady,
questo".
Demelza
sorrise, trovando ancora una volta irresistibile quella
famigliarità
che provava ogni volta che si trovava accanto a lui. Forse era
normale, erano stati una famiglia una volta, ma che riuscisse ancora
a provare certe cose, la lasciava a bocca apera. "Lo faccio
spesso, quì. Accendo il camino come lo accendevo a Nampara,
sistemo,
pulisco. Amo questo posto proprio per questo, quì non sono
Lady
Boscawen, quì sono solo Demelza".
Ross
sorrise. "Lo so, lo vedo".
Demelza
prese un profondo respiro mentre il fuoco si accendeva e regalava un
piacevole tepore all'ambiente. Era tutto troppo piacevole ed era il
caso di portare la conversazione su vie più serie e meno
sentimentali. "Cosa dovevi dirmi di tanto urgente?" -
chiese.
E
Ross si rabbuiò. "Ecco... Devo parlarti di Jeremy".
A
quella frase, una strana inquietudine prese possesso di Demelza.
Jeremy? Cosa doveva dirle, Ross? E ciò che doveva dirle,
c'entrava
per caso con lo strano comportamento tenuto dal bambino negli ultimi
giorni? "Jeremy...?" - chiese, lentamente. "E'
successo qualcosa con lui, Ross?". Il suo tono di voce si
alzò
e pur cercando di mantenere la calma, si percepiva perfettamente, in
esso, una irritazione crescente. Si era in un certo senso fidata di
lui, gli aveva permesso di avvicinarsi a lei e ai bambini e se
Ross... Santo cielo, se era successo qualcosa fra lui e suo figlio,
qualcosa che aveva turbato la serenità di Jeremy, non se lo
sarebbe
mai perdonata! E non avrebbe perdonato Ross!
Lui
prese un profondo respiro e abbassò il capo, come in un moto
di
vergogna. "L'altra sera, quando ho lasciato la tua camera, l'ho
incontrato giù, al piano di sotto. Era da solo e mi sono
fermato a
chiacchierare con lui. E' stato piacevole, mi ha mostrato la vostra
biblioteca e fuori, mi ha fatto salire sulla sua casetta
sull'albero".
Demelza
si accigliò, trovando molto strano che Jeremy avesse portato
Ross in
quei posti di cui era geloso e che considerava suoi più di
qualunque
altra stanza della casa. Molto probabile che Ross si fosse imposto e
che questo lo avesse indispettito, pur non osando controbattere per
educazione. "E?... Ross, Jeremy in questi ultimi giorni è
molto
strano, non è sereno e non capisco cos'abbia! Giuda, dimmi
che non
c'entri, dimmi che non hai fatto o detto qualcosa che...".
Lui
la bloccò. "Non gli ho detto la verità, non farei
mai una cosa
del genere a meno che tu non me ne dia il permesso. Ma credo di
averlo offeso o di aver detto qualcosa che l'ha ferito".
Demelza
sospirò, ringraziando silenziosamente il cielo e le parole
di Ross
che avevano scongiurato ai suoi occhi la peggiore delle ipotesi.
"Cos'hai detto?".
"Beh,
in realtà nulla di così grave, ho solo detto che
Hugh aveva fatto
davvero molto per lui, pur non essendo suo padre. E si è
arrabbiato
molto...".
Demelza
si morse il labbro, cercando di tenere ferme le mani per non
prenderlo a sberle. Come poteva essere tanto insensibile da non
capire, Ross? "Certo che si è arrabbiato! Giuda Ross,
è come
se avessi insultato, ai suoi occhi la memoria di Hugh, come si gli
avessi detto che lui e l'uomo che ritiene suo padre, non si fossero
mai appartenuti! E' come se tu avessi messo in discussione l'amore di
Hugh per lui, un amore che per Jeremy è il fondamento su cui
si basa
la sua vita e su cui fonda le sue certezze!".
Ross
si rabbuiò e il suo sguardo sembrò un misto fra
senso di colpa e
rabbia. Strinse i pugni, la fissò in viso e poi scosse la
testa. "Ma
Hugh non era il suo vero padre! Non volevo offendere Jeremy e non
volevo offendere la memoria del tuo amatissimo marito! Ho solo fatto
una considerazione, ho detto semplicemente qualcosa che Jeremy sapeva
già, benissimo!".
Demelza
sentì l'irrefrenabile voglia di colpirlo in testa con
qualcosa di
molto pesante. Come poteva non capire? Come poteva essere tanto
egoista da non sapersi mettere da parte? Come poteva ripetere,
ancora, i medesimi errori dettati dall'orgoglio che aveva
già
commesso in passato? Conosceva Jeremy e conosceva Ross e capiva bene
cosa spingesse entrambi a comportarsi come stavano facendo.
"Cos'è
un padre, Ross? Cosa pensi abbia detto ai bambini circa questa
figura, in questi anni?".
"Non
ne ho idea...".
"Ho
detto loro che un padre è colui che ci ama, colui per il
quale siamo
il primo pensiero, colui che darebbe tutto, anche la sua vita per i
suoi figli. E quel qualcuno per loro è Hugh
perché è stato Hugh a
fare tutte queste cose. Non tu! Con che diritto hai detto a Jeremy
che Hugh non era il suo vero padre? Con che diritto pensi di esserlo
TU, a tua volta? Perché lo hai fatto?".
Ross
impallidì e i tanti sensi di colpa e fantasmi che lo
inseguivano da
anni, lo raggiunsero di nuovo in quel momento. "Ho solo detto
qualcosa che non credevo così importante... Non volevo
ferire
Jeremy".
Demelza
lo bloccò, adirata. "No Ross, non hai detto una cosa
così,
giusto per dire! Era il tuo orgoglio, la tua voglia di ristabilire il
primato in ruolo che credi tuo, a farti parlare così. Non
hai
pensato a Jeremy, non hai pensato al suo cuore, hai pensato solo a te
stesso. Come sempre, come hai sempre fatto anche allora. Pensavo
fossi cambiato, ma non è così... In fondo, di
cosa mi stupisco? Tu
sei sempre venuto prima di tutto e soprattutto verso Jeremy, non hai
mai avuto mezzo pensiero... Non lo hai mai desiderato, quando
è nato
non lo hai praticamente degnato di uno sguardo e poi lo hai
abbandonato, appena hai potuto. Io ho creduto a quanto mi hai detto a
Natale, ma la sostanza non cambia. Non hai mai voluto essere suo
padre, né suo né di Clowance. Accetta che quel
ruolo se lo sia
preso qualcun altro e sta zitto. E lontano da noi! Non dovevo farti
avvicinare, non dovevo farlo dannazione! Sapevo che sarebbe successo
qualcosa del genere e non dovevo permetterlo!".
Ross
le prese le mani, le strinse nelle sue e il suo sguardo sembro sperso
e disperato. "No... Demelza, ti prego, no! Ho sbagliato, di
nuovo! Ma non voglio che tu pensi di nuovo, ANCORA, che abbia solo
voluto liberarmi di voi. Non è così e non vorrei
mai fare del male,
di proposito, ai miei figli. E' vero, il mio orgoglio mi spinge
spesso ad agire come un idiota, ma... Ma puoi davvero biasimarmi se
vorrei avere accanto le persone che amo? Davvero non credi che stia
facendo del mio meglio per essere invisibile agli occhi dei miei
figli? Davvero pensi che tutto questo non mi distrugga pian piano?
Jeremy e Clowance sono i miei bambini, tu sei la loro madre e non
posso chiamarvi per nome, non posso abbracciarvi, non posso fare
nulla. Devo stare zitto, vedere il ritratto di un uomo che mio figlio
chiama papà, devo vedere coi miei occhi tutto quello che
quell'uomo
ha fatto con e per i miei bambini e io sono geloso. Da morire, odio
Hugh! E allo stesso tempo gli sono grato per quanto ha fatto per
voi... E non so cosa fare, non so cosa dire! So solo che sono stato
preoccupato per Jeremy per tutti questi giorni ed è per
questo che
ti ho scritto. Se davvero non mi importasse di lui, non ci avrei
perso il sonno".
Demelza,
come sfinita da una lunga giornata di lavoro, si appoggiò
contro la
parete. "E ora come la risolviamo?".
Lo
sguardo di Ross si fece grave. "C'è dell'altro, non
è
finita... Credo...".
Lei
spalancò gli occhi, seriamente preoccupata. "Cosa?".
"Jeremy
e anche Clowance, credo abbiano notato qualcosa di strano fra noi.
Durante il discorso di Pitt, nel mio venirti a trovare a casa, nel
nostro modo di parlare. Cerchiamo di starci attenti, ma i bambini si
sono accorti che fingiamo, che mentiamo su qualcosa. E Jeremy me lo
ha detto chiaramente. Mi ha chiesto chi sono davvero e io non so cosa
rispondergli".
Demelza
si mise le mani fra i capelli, frustrata, spaventata e incapace di
trovare una soluzione. Non era certo tutta colpa di Ross se i bambini
avevano captato qualcosa e dentro di lei in fondo sapeva anche che
questo problema si sarebbe presentato prima o poi. E ora avrebbe
dovuto affrontarlo, non solo coi bambini ma anche con tutti coloro
che le gravitavano intorno. "Cosa gli hai detto?".
"Che
vengo spesso perché lavoro con suo zio. Ma non ci ha
creduto... Mi
ha chiesto come faccio a conoscere Prudie, mi ha rimproverato per
averti chiamata per nome durante i disordini al discorso di Pitt e
io... Demelza, non so cosa fare, cosa dire, non so davvero cosa
potermi inventare ora, se lo incontrassi".
Demelza
alzò lo sguardo guardando il soffitto ed oltre ad esso, come
a voler
trovare nel cielo una risposta. "Sono arrabbiata con te ma
fartelo notare e prenderti a schiaffi ora, non risolverebbe nulla...
Abbiamo messo al mondo due figli e ora, dopo tanto, INSIEME, dobbiamo
decidere cosa è meglio per loro".
Ross
spalancò gli occhi, stupito per quello spiraglio inaspettato
ed
immeritato che lei gli stava offrendo, nonostante fosse tanto
arrabbiata con lui. "Parli sul serio?".
Demelza
annuì. "Sì. Sei stato a lungo lontano e il tuo
ruolo lo ha
ricoperto un altro uomo. Dici che ne soffri, dici che ami i bambini e
allora Ross, adesso, tu da padre decidi con ME cosa fare. E una volta
scelto, assieme, ci daremo man forte. Per il bene dei bambini!".
"Da
padre...". Ross le sorrise, accarezzandole la guancia e
pronunciando lentamente quella parola... padre...
con una
dolcezza nel tono di voce che Demelza non gli aveva mai sentito
usare. "Credevo che non avresti più voluto vedermi, dopo
quanto
ho combinato con Jeremy!".
Lei
lo fulminò con lo sguardo. "Io non volevo rivederti mai
più
già dall'inizio. E non pensare che non ti picchierei,
adesso! Giuda,
vorrei farlo più di ogni altra cosa ma a che servirebbe? Nel
bene e
nel male tu non cambierai mai e in fondo, se Jeremy ha dei dubbi su
di noi, non è completamente colpa tua ma anche mia. Dovevo
rimanere
fedele ai miei propositi fin dall'inizio e non farti rientrare nelle
nostre vite. L'ho fatto ed ora è giusto che ne affronti le
conseguenze".
"Cosa
vuoi fare?" - chiese lui, con un filo di voce. "Conosci i
bambini meglio di me e sicuramente...".
"Cosa
voglio fare?". Demelza scosse la testa, pensando allo sguardo
smarrito, rabbioso e triste di Jeremy, alla lontananza fra loro e al
desiderio che suo figlio tornasse ad avere fiducia in lei, fiducia
che forse aveva perso per i troppi segreti nati in quegli ultimi
mesi. "Credo che sia ora di dire la verità, Ross. A Jeremy,
almeno... Farà male, si arrabbierà,
urlerà, piangerà e mi odierà.
Ma poi spero che possa capire, che sia abbastanza grande per farlo.
Non voglio mentirgli, io a Jeremy non ho mentito mai! E lui
è stato
il mio punto fermo, le fondamenta che hanno sorretto la mia vita
impedendomi di crollare. Glielo devo... Jeremy è sempre
stato un
figlio meraviglioso e non si merita le mie bugie".
Ross
deglutì. "La verità? Non era quella che non
volevi
assolutamente che sapesse?".
"Non
è invece ciò che tu vuoi disperatamente che lui
sappia?" -
chiese Demelza, diretta e sibillina.
Ross
impallidì davanti a quella domanda tanto diretta e in fondo
accusatoria. "Voglio ciò che è meglio per lui,
non per me".
Demelza
abbassò lo sguardo. "Il meglio per lui è non
mentirgli, non
più. O perderò la sua fiducia. Non che non corra
questo rischio
anche adesso, ma credo che la verità, in questo caso, sia la
strada
giusta. Non sto dicendo che con questo, lo spingerò a
cercarti e ad
avere un rapporto con te, Jeremy sa la verità sul tuo conto
già da
anni, sa il motivo per cui non sei con noi, l'unica cosa che non sa
è
che quel padre che l'ha abbandonato sei tu. Non vorrà avere
a che
fare con te, questo te lo posso anticipare. E dovrai accettarlo Ross,
non hai altra scelta. Lascerò a lui la decisione ma Jeremy
nel suo
cuore ha già scelto anni fa chi è per lui suo
padre. Non so se
questo sia giusto, non so cosa sia meglio fare ma per ora non voglio
forzarlo a fare niente, non finché io non avrò
fatto chiarezza su
tante cose. Voglio solo che possa fidarsi di me, che possa parlare
con me di tutto e che sappia che ci sarò sempre, che non lo
giudicherò e che rispetterò ogni sua decisione".
Ross
era impallidito davanti a quelle parole, forse rendendosi conto che
ciò che aveva sempre sperato, che i suoi figli sapessero la
verità,
non li avrebbe ricondotti fra le sue braccia ma anzi, al contrario,
li avrebbe allontanati di nuovo. Era atterrito, spaventato e Demelza
non poteva dargli torto. Ma era spaventata anche lei e purtroppo ora
arrivava per entrambi la parte più difficile.
"Cosa
sa Jeremy, di me?" - chiese Ross, con voce spezzata.
Demelza
sospirò, ricordandosi lo sfogo avuto con il figlio durante
la
gravidanza dei gemelli e alla morte di Hugh. Era scossa, era fragile
allora, ma spesso si era chiesta se fosse stato giusto lasciarsi
andare così con suo figlio, senza pensare alle conseguenze.
Soprattutto ora, soprattutto da quando Ross era rientrato nelle loro
vite. "Sa la verità che era davanti ai nostri occhi: che
amavi
un'altra donna, che hai scelto lei e il bambino avuto da lei, che non
eravamo abbastanza per te. Non io, non lui, non Clowance...".
Il
viso di Ross sembrò una maschera trasfigurata dal dolore.
"Tu
hai detto questo? A Jeremy?".
"Forse
non avrei dovuto, Ross. Ma era l'unica verità che allora
conoscessi
e volevo che smettesse di aspettarti. E in fondo, ho mentito? O ho
solo detto la verità più ovvia?".
Gli
occhi di Ross divennero lucidi. "Io ho sbagliato tanto, vi ho
fatto del male ma questo non credo di meritarlo. Non puoi avergli
detto che non eravate abbastanza per me, non ho mai pensato nulla del
genere".
"Eppure,
era così, allora! Esistevano solo Elizabeth e Jeoffrey
Charles, la
tua perfetta Lady e il suo perfetto bambino. Io, Jeremy, Clowance e
il nostro bisogno di te erano ininfluenti ai tuoi occhi. Ero solo la
figlia di un minatore, erano solo bambini come tanti altri, per te. E
dovevamo arrangiarci da soli".
Ross
le strinse il polso, convulsamente. "Demelza, non puoi averlo
pensato davvero? Eri mia moglie, erano i NOSTRI figli! Non eravate
chiunque!".
"E
allora perché ti comportavi come se non esistessimo? Cosa
dovevo
dire a Jeremy, di te? Che lo amavi? Che pensavi sempre a lui? Giuda
Ross, non lo hai mai degnato di uno sguardo!".
Ross
rimase muto e non seppe rispondere, sulle prime. Abbassò lo
sguardo,
strinse i pugni e capì che era arrivato il momento di pagare
i conti
col suo passato. "Ho sbagliato tutto... E ora questo è il
prezzo, giusto? L'odio tuo e di nostro figlio, per sempre... Amo
Jeremy, amo Clowance ma forse hai ragione tu, a questo punto delle
nostre vite questo non conta più per loro. Forse dovrei solo
andarmene, tornare in Cornovaglia e permettervi di tornare alla
vostra vita serena com'era prima della scorsa estate".
"No!".
Ross
sussultò, davanti a quel diniego secco e deciso che di certo
non si
aspettava. "Cosa?".
"Ora
ci sei, Ross! Ci sei e resti! Non scappi, non permetterò che
tu lo
faccia anche questa volta, non permetterò che Jeremy e
Clowance
possano pensare che li hai abbandonati ancora una volta, quando il
gioco diventava troppo difficile. Come ti dicevo prima, DA GENITORE,
tu ora resti e lavori con me per sistemare questo disastro".
"Perché?".
Demelza
fece un sorriso triste. "Perché è quì
che devi stare, perché
se c'è la remota possibilità di salvare qualcosa
e di essere
qualcosa per i nostri figli in futuro, tu devi dimostrare di volerla
e di essere pronto a lottare. Perché la gente di Londra e
della
Cornovaglia ha bisogno di uno come te a Westminster. Non puoi
andartene Ross, è troppo tardi per tornare indietro".
Ross
le prese la mano, accarezzandola piano con la sua che tremava. "Ma
ho complicato la tua vita".
Demelza
alzò le spalle. "La mia vita è sempre stata
complicata, ci
sono abituata. Lascia fare a me, andrò a casa e
parlerò con Jeremy.
E poi, pian piano, deciderò il da farsi con il resto della
famiglia... Ormai devo dire tutto e per fortuna Falmouth
starà via
due mesi e questo mi darà tempo di pensare e riflettere sul
da
farsi. Per gli altri, chiederò a Jeremy di tenere il segreto
per un
pò e spero che ce la faccia".
"Mi
dispiace" – sussurrò Ross.
Demelza
lasciò la sua mano, alzandosi di scatto e tornando ad essere
la
donna pratica che era sempre stata. "Piangere sul latte versato
non serve a nulla. Non ho idea di come sarà il futuro, ma
devo agire
in fretta affinché il presente sia vivibile. Posso contare
su di te?
Posso sperare che ogni cosa che faremo d'ora in poi e che riguarda i
bambini, la faremo insieme, come una squadra?".
"Certo".
Si
avvicinò alla sedia dove aveva appoggiato la sua mantella,
se la
mise addosso e si coprì. "Il mio cocchiere
arriverà a minuti e
voglio essere a casa il prima possibile. Devo andare...".
Ross
annuì e poi, come spinto da una forza impossibile da
vincere, le si
avvicinò e la abbracciò, affondando il viso nel
suo collo. Demelza
pensò che volesse piangere ma se anche così era,
lui fu bravo a
trattenersi. D'istinto, nonostante quello che si erano detti, rispose
all'abbraccio perché capiva bene quanto soffrisse, quanto
fosse
tutto difficile per lui e quanto il futuro potesse apparirgli nero e
senza speranza. Anche lei, sette anni prima, si era sentita nel
medesimo modo. "Hai un figlio, Ross, non sei solo. Vivi per lui
e lui solo, Jeremy e Clowance non sono più tuoi e il solo
legame di
sangue non può bastare. Non so dirti cosa
succederà in futuro, non
so se le cose potranno migliorare e forse il tuo bene è
accettare di
averli persi e di impegnarti ad esserci se mai, un giorno, avessero
voglia di avere a che fare con te. Non è detto che
succederà ma se
succederà, tu dovrai far vedere loro che li hai aspettati,
che li
hai sempre amati e che sei stato al tuo posto per il loro bene, senza
aspettarti nulla in cambio".
Ross
non rispose e Demelza potè percepire il suo dolore e il suo
turbamento. La resa era difficile da sempre per uno come Ross e
accettare che Hugh sarebbe stato sempre nel cuore di Jeremy e
Clowance come il loro unico padre, doveva essere la cosa più
lacerante della sua vita. Ma lo avrebbe fatto perché
nonostante i
suoi difetti e il suo orgoglio che ancora lo portava ad agire
avventatamente, era cambiato e cresciuto e lo sapeva bene anche lei,
ormai.
"Ross,
devo andare. Posso contare su di te, allora?".
"Certo".
Demelza
si separò da lui e gli indicò l'uscita che
presero entrambi,
tornando fuori, al freddo e sotto la neve che aveva preso a cadere
più copiosa.
Ross
la guardò per un lungo istante, smarrito e a pezzi. E a
Demelza
sembrò invecchiato improvvisamente di dieci anni...
"Buona
fortuna. A casa, intendo...".
Demelza
sospirò. "La parte più difficile forse stavolta
spetta a te,
non a me".
"Vuoi
che sia presente con Jeremy, quando gli parlerai? Vuoi che venga a
casa con te?".
Demelza
scosse la testa. "No, sarebbe un disastro. Devi stare lontano da
casa mia quanto più puoi, ora. Approfitta del fatto che
Falmouth è
via e cerca di evitare incontri con noi. Il tempo forse
guarirà ogni
ferita e la rabbia di Jeremy".
"Va
bene" – rispose Ross, chinando il capo in segno di resa ed
affidandosi a ogni sua decisione.
La
sua carrozza arrivò dopo pochi minuti e appena lui la vide,
salì
sul cavallo e se ne andò al galoppo prima che qualcuno
potesse
collegare a lui la presenza di Demelza in quel posto.
Demelza,
in silenzio, lo guardò andare via. E nonostante il suo cuore
fosse a
pezzi e la sofferenza che Ross le aveva procurato negli anni l'avesse
logorata e spezzata a lungo, si trovò a dispiacersi per lui
e a
essere preoccupata. "Cerca di essere forte Ross... Cadere e
farsi male è doloroso, rialzarsi è difficile ma
se ci sono riuscita
io con Hugh, allora puoi farlo anche tu, inventandoti una vita
nuova".
E
con quel pensiero, salì sulla carrozza e tornò a
casa sua.
...
Quando
arrivò, trovò la dimora dei Boscawen
insolitamente silenziosa per
essere pomeriggio.
Un
leggero chiacchiericcio delle cuoche proveniva dalla cucina, qualche
domestica sistemava il salone ma i bambini parevano silenziosi e
nascosti chissà dove.
Accigliata,
decise di andare in camera per cambiarsi, prima di cercare Jeremy per
parlargli. Voleva riprendere fiato prima di affrontare quella prova
tanto difficile e dagli esiti tanto incerti e quindi si diresse verso
la sua camera per mettersi quanto meno addosso abiti più
comodi.
Quando
entrò, il camino era già stato acceso e la stanza
era avvolta da un
dolce tepore. E non era vuota...
Si
avvicinò al cavallino a dondolo di Demian e al suo piccolo
principe
che, steso in terra di fianco al gioco, armeggiava con qualcosa. "Che
cosa stai facendo?".
Preso
alla sprovvista, Demian saltò su come un grillo. "Mamma!"
- esclamò, nascondendo qualcosa dietro la schiena.
"Che
cos'hai in mano?" - chiese lei, sospettosa.
Il
bimbo sospirò, mostrandole riluttante dei pastelli a cera.
"Questi... Volevo colorare il cavallino, è tutto color
legno,
non c'ha neanche gli occhietti e la bocca. Posso?".
Demelza
osservò quei pastelli, riconoscendoli al volo. "Quelli te li
ha
confiscati lo zio mesi fa, dopo che hai pasticciato il ritratto di
Edgarda! Dove li hai trovati?".
Demian
rimase zitto, dondolando il piedino per terra.
"DEMIAN!".
E
il bimbo cedette. "Io e Daisy siamo scappati perché non
volevamo lo sciroppo della tosse. Prudie è proprio cattiva,
più
cattiva del gusto dello sciroppo! Anche Dwight è cattivo ad
avercelo
dato".
"DEMIAN,
DOVE HAI TROVATO I PASTELLI?". Demelza sbottò, non aveva
tempo
da perdere.
"Nello
studio dello zio. Io e Daisy siamo corsi lì e ci siamo
nascosti nel
suo baule per scappare da Prudie. E i pastelli stavano lì,
sotto a
un sacco di fogli di carta".
Demelza
sospirò, i gemelli erano peggio di due cani da caccia, di
due
seguci. Avevano una casa immensa e trovare quei pastelli era come
trovare un ago in un pagliaio. E ci erano riusciti! "Dimmi che
non hai scarabocchiato nulla nello studio dello zio!" - chiese,
con terrore.
"No,
nulla. Ma posso colorare il mio cavallino?".
Demelza
sospirò, inginocchiandosi davanti a lui ed accarezzandogli i
capelli. Forse non era una cattiva idea lasciarglielo fare, lo
avrebbe tenuto tranquillo mentre lei parlava con Jeremy e in fondo se
lui stava lì, non avrebbe fatto guai da altre parti. "Va
bene,
ma solo il cavallino. Dov'è ora Daisy?".
"Nascosta!".
"Da
Prudie?".
"Sì".
Demelza
scosse la testa. "Avete preso lo sciroppo?".
"No".
Santo
cielo, perché era tutto così difficile?! Dopo
Jeremy, avrebbe
dovuto risolvere anche quel problema. "Clowance dov'è?".
"In
camera sua a giocare con le bambole".
"E...
Jeremy?".
"In
biblioteca. Sta tutto zitto, non vuole parlare neanche un
pò. E'
arrabbiato con me, mamma?".
Lo
strinse a se a quella domanda, colpita come accadeva spesso dalla
sensibilità del suo bimbo più piccolo. "No, non
con te,
tranquillo. Vado io da Jeremy a farlo parlare un pò, mentre
tu
colori il cavallino. Tu però mi fai un favore, quando hai
finito?".
"Cosa?".
"Cerchi
Daisy e la porti quì con te?".
Demian
si imbronciò. "Vuoi darci lo sciroppo? Anche tu?".
"Sì,
ma conosco un modo per bere lo sciroppo senza sentirne il sapore!"
- rispose Demelza, strizzandogli l'occhio ed alzandosi in piedi.
Sarebbe stata una grossa sfida anche quella coi gemelli... Ma ora
c'era Jeremy a cui pensare, prima di tutto. E Ross e il loro passato
da affrontare.
Sarebbe
stata in mezzo a due fuochi, a una tempesta. E doveva essere forte
perché il momento che tanto temeva fin da quando aveva
lasciato
Nampara, era arrivato.
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Capitolo 53 *** Capitolo cinquantatre ***
Si
sentiva il cuore in gola per la paura, mentre camminava lungo i
corridoi di quella che aveva imparato a considerare la sua casa, il
suo rifugio, la sua nuova vita che l’avrebbe difesa dalla
vita
vecchia che aveva dolorosamente lasciato. E invece quel fortino
apparentemente inespugnabile era caduto miseramente, senza nemmeno
troppa fatica, con la semplice e discreta presenza di Ross.
In
quei mesi si era comportato egregiamente ma il loro rapporto
pregresso e la confidenza che si avvertiva quando erano insieme, non
sarebbero potuti passare troppo a lungo inosservati. Falmouth se
n’era accorto e, ancor peggio, se n’erano accorti i
bambini. Non
che non fosse arrabbiata con Ross e la sua voglia di primeggiare agli
occhi di Jeremy nel confronto con Hugh, ma Demelza sapeva che quel
momento sarebbe comunque arrivato prima o poi.
Pensò
ai suoi bambini da piccoli, a Jeremy continuamente trascurato da
Ross, a Clowance che non aveva mai conosciuto suo padre e alla
partenza dalla Cornovaglia, in un giorno di neve, con sua figlia
neonata fra le braccia, l’altro figlio che parlava a malapena
e un
destino incerto tutto da scrivere.
Ora
non era più la donna spezzata di quel giorno ma una persona
potente,
che avrebbe potuto tranquillamente schiacciare Ross e rovinargli la
vita, se solo avesse voluto. Ma la vendetta non faceva parte di lei e
soprattutto, non ci sarebbe mai riuscita. Era il padre di due dei
suoi figli, l’uomo che aveva amato totalmente e senza riserve
per
anni e anche se l’aveva fatta soffrire come nessuno mai, non
poteva
negare a se stessa che quando l’aveva vicino, quando le
parlava,
quando la sfiorava, un brivido le percorreva la schiena.
Il
passato era tornato, ora… In quella casa, nella grande ed
inespugnabile reggia dei Boscawen. L’aveva raggiunta e ora
sapeva
che non avrebbe mai potuto sfuggirgli per sempre. Né lei,
né i suoi
figli. Tutto sarebbe cambiato perché dopo i bambini, avrebbe
dovuto
dare tante spiegazioni anche alle altre persone che erano entrate a
far parte del suo mondo e chissà se avrebbero continuato a
guardarla
con gli stessi occhi, saputa la verità… Stava
mentendo alla sua
famiglia da mesi, su Ross, e non aveva idea di come questo sarebbe
stato giudicato. Ma per fortuna Falmouth sarebbe stato via due mesi
dandole modo di pensare e Lady Alexandra avrebbe potuto rimanere
all’oscuro ancora un po’, con la
complicità dei bambini.
Quando
arrivò in biblioteca alla ricerca di Jeremy, ci
trovò pure Clowance
che, probabilmente stanca di stare a giocare da sola in camera, aveva
raggiunto il fratello e ora, seduta in terra accanto a lui,
leggiucchiava un libro di fiabe.
Demelza
entrò, considerando se fosse un bene parlare a tutti e due
in
contemporanea o se fosse meglio farlo separatamente ma visto che non
poteva cacciare via Clowance con nessuna scusa plausibile, decise di
affrontare subito entrambi, con tatto, sincerità, amore. E
insieme,
i bambini si sarebbero fatti forza l’un
l’altro…
Jeremy
alzò gli occhi dal suo libro. “Sei già
a casa?”.
Chiudendo
la porta dietro di se, Demelza annuì.
“Sì, te lo avevo detto no,
che sarei tornata prima che facesse buio? Non ci credevi?”.
Jeremy
alzò le spalle con noncuranza e Demelza si rese conto che
no, forse
non le aveva creduto. Guardò quel suo bambino tanto dolce e
maturo,
chiedendosi cosa fare, cosa dire e soprattutto cosa passasse nella
sua testolina e le risposte che si era dato circa Ross. E
sperò di
saper raggiungere il suo cuore, che si fidasse di lei come aveva
sempre fatto e la perdonasse per avergli taciuto in quei mesi una
cosa tanto importante. Sperò che capisse che mentire, in
quel caso,
non era un voler prendere in giro ma un desiderio di madre di
proteggere il proprio cucciolo.
Si
avvicinò, sedendosi per terra davanti a loro.
“Daisy è qui
nascosta da qualche parte?” – chiese. In quel
colloquio che
stavano per avere, non dovevano esserci distrazioni o altro, voleva
fossero soli. E non era il caso che la piccolina, che non poteva
capire, sentisse…
Clowance
rise a quella domanda. “E’ in fuga da Prudie e non
sarebbe tanto
stupida da nascondersi qui, sa che la troverebbero subito”.
“E
dov’è?”.
Clowance
rise ancora. “Chi lo sa? Lei e Demian hanno i loro
nascondigli
segreti e non li dicono a nessuno”.
Demelza
sospirò. “Quindi se Demian mi ha detto che dopo la
va a cercare,
dite che la troverà”.
Jeremy
scosse la testa. “Demian non deve cercarla, lui sa
già dove
trovarla”.
“Lui
questo non me l’ha detto”.
Suo
figlio la guardò storto. “Non te lo direbbe mai.
Demian ti adora
ma non tradirebbe Daisy e i loro segreti per nessuno, neanche per te!
Loro, le loro cose, le tengono nascoste a tutti quanti. Non ti
dirà
mai dove si è nascosta ma andrà a dirle che la
cerchi e te la farà
trovare”.
Demelza
abbassò lo sguardo, rendendosi conto che erano tante le cose
che,
fra tutto il resto, le sfuggivano del mondo dei suoi bambini. Non si
era accorta dei turbamenti di Jeremy, non si era accorta, se non in
parte, del sodalizio un po’ magico fra i gemelli e delle
dinamiche
che intercorrevano fra i suoi figli e si sentì in colpa.
Come poteva
non aver notato cose che Ross, invece, aveva avuto subito evidenti
davanti agli occhi? “Beh… quanto meno quando la
riacciufferò,
potrò darle lo sciroppo”.
Clowance
le si rannicchiò sulle gambe, poggiandosi a lei.
“Sei venuta a
leggerci una storia?”.
Deglutì.
“No, in realtà volevo parlarvi di una cosa
importante”.
“Cosa?”
– chiese la bimba, curiosa, mentre Jeremy le piantava addosso
due
occhi penetranti ed indagatori.
Demelza
prese un profondo respiro, stava per fare una delle cose più
difficili della sua vita. “Del signor Poldark”.
A
quelle parole Jeremy si alzò di scatto, divenne cupo e parve
desideroso di chiudere lì la conversazione. Ma Demelza lo
acciuffò
per la manica della camicia, costringendolo a stare al suo posto.
“Scappare davanti alle cose che non vogliamo sentire, non
risolverà
i nostri problemi, Jeremy”.
“Non
sto scappando, non voglio solo stare a sentire mentre parli di quello
lì!” – rispose il ragazzino, a tono.
Clowance
guardò interrogativamente entrambi, non capendo un accidenti
di
quello che stava succedendo.
“Sei
andata da lui, oggi?” – chiese Jeremy.
“Sì,
doveva parlarmi”.
“Di
cosa?” – insistette il bambino.
Demelza
gli sfiorò i capelli, cercando di tranquillizzarlo.
“Di te. Mi ha
raccontato che l’altra sera, voi due…
Ecco… Avete avuto un
incontro che non si è concluso bene”.
Jeremy
la guardò, serio. “Non lo voglio rivedere!
Chiunque lui sia, è un
bugiardo! E fa diventare bugiarda anche te”.
“Jeremy…”
– tentò di calmarlo per il suo bene e anche per
quello della
sorella che, vedendolo così agitato, si stava spaventando.
“Siediti
e lasciami parlare, per favore. Ti sei sempre fidato di me e vorrei
lo facessi anche ora… Ascoltami, fa che ti spieghi e poi
potrai
decidere se essere arrabbiato o se fidarti ancora di me”.
Jeremy
la guardò, torvo, ma poi si risedette, a testa bassa.
“Cosa devi
dirmi? Che conosci il signor Poldark da tanto? Credo di averlo capito
da solo, da come fa con te! Questo mi dovevi dire? Chi è?
Arriva
dalla Cornovaglia, come noi! E ti chiama per nome e viene qui di sera
senza invito, dice cose di papà come se fosse suo diritto
farlo e sa
cose di noi che non dovrebbe sapere. Chi è?”
– chiese, secco,
iroso, provocatorio.
Clowance
la guardò interrogativamente, in attesa anche lei di una
risposta. E
Demelza sospirò, prese coraggio e strinse le loro mani.
“Chi credi
che sia, Jeremy?”.
“Non
lo voglio sapere, chi è!” –
ribatté lui.
“Non
voler sapere la verità, fa di te un ragazzino non molto
coraggioso.
Le cose le possiamo affrontare, insieme, come sempre, senza paura,
appoggiandoci l’uno all’altro come abbiamo fatto
finora”.
Clowance,
stanca, sbottò. “Chi è questo signor
Poldark?”.
Jeremy
la fissò, serio. “Secondo me è nostro
padre… Quello che ci ha
fatto nascere… Vero, mamma?”.
Non
era una domanda, era un’accusa! Jeremy disse quelle parole
guardandola negli occhi, rabbioso, spaventato e forse anche per
provocare una sua reazione. “Lo
è…” – gli rispose, in un
sibilo.
Clowance
spalancò gli occhi, Jeremy divenne di ghiaccio
perché quella che
per lui in quel momento era stata solo una fantasia e
un’ipotesi,
si era trasformata definitivamente in realtà. Una
realtà che doveva
fargli moltissima paura.
“Mamma…”
– sussurrò Clowance tremando…
Demelza
la strinse a se. “Shhh, non c’è da aver
paura”.
Jeremy,
scuro in volto, osservò la sorella.
“Sì, non c’è da aver
paura! E’ solo uno che ha fatto piangere la mamma
perché non la
voleva, che l’ha lasciata sola, che ci ha abbandonati
perché non
voleva essere nostro padre ma il padre di un altro bambino, che
quando siamo andati via ha fatto una festa e si è
dimenticato subito
di noi! Giusto mamma, Clowance non deve avere paura di queste cose?
Oppure deve averne, visto con chi abbiamo a che fare? Io ne ho, ad
esempio... Le persone cattive mi fanno paura e lui certamente lo
è!”.
Demelza
impallidì davanti a quelle parole e a quel sarcasmo
rabbioso,
rendendosi conto forse per la prima volta dell’odio che
Jeremy si
portava dentro, nascosto, celato, forse inconsapevole alla sua parte
razionale, ma che c’era. E che forse era stato aumentato
dalle sue
parole di diversi anni prima quando, in un momento di crisi, si era
lasciata andare a uno sfogo con lui che avrebbe dovuto evitare.
Jeremy era sempre stato un bambino tranquillo, dolce, gentile e
sereno e pensava che aver incontrato Hugh avesse cancellato in lui i
segni dell’abbandono di Ross. Ma non era così, ora
se ne rendeva
pienamente conto. “Posso spiegarti alcune cose, Jeremy? A
tutti e
due?”.
“Del
signor Poldark? No, non voglio sapere niente, non lo voglio rivedere
e basta! E neanche quel suo bambino stupido che non sa neanche
correre bene! Sì, Valentine! Se sapevo chi era, col cavolo
che lo
volevo allo zoo e alla nostra festa di Natale!”.
“JEREMY!”.
Lo richiamò all’ordine, non ammetteva che si
comportasse così,
anche se era sconvolto. Capiva cosa provasse per Valentine, ma Jeremy
doveva comprendere che lui non aveva colpe. “Valentine non
c’entra
con questa storia e tu lo sai! Non posso dire, non posso importi di
essere suo amico ma non voglio che, se lo incontri, tu lo tratti
male. E’ solo un bambino, più piccolo di te per
giunta. E non sa
nulla di questa faccenda esattamente come tu e Clowance fino a poco
fa”.
“E
quindi?” – chiese Jeremy, rabbioso. “Cosa
dovrei fare?”.
“Solo
ascoltarmi” – rispose, in tono stanco –
“Sentire la nostra
storia e poi scegliere insieme come comportarci”.
Il
bambino si appoggiò con la schiena alla libreria.
“Perché è qui?
Ci cercava? Lo hai chiamato tu? Cosa vuole?”.
"Jeremy...".
"E
cosa vuoi, tu?" - insistette Jeremy, alzando la voce.
Lo
sguardo di Demelza si indurì. Ci stava la rabbia di Jeremy,
ci stava
che si sfogasse e tirasse fuori tutto ciò che aveva dentro
ma non
voleva che oltrepassasse il limite. Per lui, per se stessa e per
Clowance. La rabbia è un sentimento che corrode e per Jeremy
sarebbe
stata solo deleteria. "Voglio che tu non tratti male Valentine,
per prima cosa...".
Trattenendo
a fatica la rabbia, il bambino tornò a sedersi. "No, non lo
farò... Anche perché, sai una cosa? Mi spiace per
lui, non ha la
mamma come me e quando SUO padre si stancherà come si
è stancato di
noi e troverà qualcuno che gli piace di più, lo
lascerà solo e
Valentine morirà di fame e di freddo! Senza neanche una
mamma che si
preoccuperà per lui. Con un papà come quello, se
fossi in Valentine
mi preoccuperei molto...".
Demelza
rimase spiazzata da quelle parole sicuramente piene di fiducia verso
di lei nonostante la rabbia, un inno d'amore per quanto avevano
vissuto insieme e un riconoscimento per il suo ruolo di madre, ma
allo stesso tempo incredibilmente e amaramente dure verso Ross.
Jeremy lo vedeva e immaginava come un mostro e... come poteva
spiegargli che no, Ross non avrebbe mai fatto del male a suo figlio
quando invece, anni prima, ne aveva fatto a loro? Come poteva
spiegare a due bambini l'inspiegabile, qualcosa che nemmeno lei
ancora aveva compreso fino in fondo? "Tuo padre...".
"Il
signor Poldark!!! NON mio padre!!!" - la interruppe Jeremy. "E
lo chiamo 'signore' solo perché voi grandi volete che sia
educato".
Demelza
prese un profondo respiro, colpita da quella rabbia che Jeremy aveva
sempre celato benissimo e che ora usciva con violenza. Beh, forse
aveva ragione lui, non poteva definirlo 'padre', non in quel momento
almeno. "Il signor Poldark... non metterebbe mai suo figlio in
pericolo... Così come non aveva voluto far del male a voi. E
di
questo, se ti fidi di me, devi esserne certo. E' una persona che ha
fatto molti errori, lo sa e ne è consapevole. Ma non
è cattivo, non
lui".
"Conosco
i papà di tutti i miei amici e anche se non sono forse
perfetti e
magari sbagliano qualcosa, NESSUNO di loro ha mai abbandonato i suoi
bambini. I papà dei miei amici hanno tutti voluto essere i
loro
papà, non hanno buttato via i loro bambini".
Clowance,
stranamente silenziosa, non apriva bocca e guardava per terra,
giocando con la manina con la moquette. Ma Jeremy non aveva davvero
voglia di tacere e proseguì. "Perché è
quì? Vuole qualcosa
da noi? Da te? E tu vuoi dargliela?".
"Lasciami
spiegare..." - sussurrò Demelza con voce rotta, sentendosi
impotente davanti alle reazioni di Jeremy e alle sue recriminazioni,
tutte giustissime ma forse anche in parte ingiuste verso Ross.
Strinse a se una silenziosa Clowance e iniziò a raccontare,
cercando
le parole adatte per far capire a due bambini ancora piccoli il senso
di quella loro difficilissima storia. "Ross Poldark... è un
uomo pieno di ombre, Jeremy. Sa essere coraggioso ed indomito e fare
cose grandi e allo stesso tempo sa commettere errori altrettanto
grandi. Forse è così che succede, alle persone
fuori dal comune,
sono capaci di fare tanto sia nel bene che nel male. Eravamo sposati,
noi, e voi siete nati da quel matrimonio. Ci voleva bene, ci amava,
ma nella sua testa era rimasta la sua prima ragazza, il primo amore.
E i primi amori – lo capirete quando sarete grandi
– sono quelli
più perfetti, magici, idilliaci. Appartengono alla sfera dei
sogni
dove tutto è bello e non ci sono problemi come nella vita
reale.
Vostro padre stava attraversando un momento difficile dove tutto
andava male e ha cercato quel suo sogno di quando era giovane, forse
illudendosi di trovare la perfetta felicità che sembrava
aver perso.
Non era consapevole di farci del male ma hai ragione, ce ne ha fatto
e lo sa anche lui. E quando lo ha capito era troppo tardi, non poteva
tornare indietro e per tutto questo tempo ha pensato a noi, al male
che ci aveva fatto e a dove potessimo essere. E' venuto a Londra per
questioni di politica, non per cercarci e chiederci qualcosa, e per
caso ci siamo incontrati. E ha scoperto dove avevamo vissuto e
com'era stata la nostra vita in questi anni. Non volevo mentirvi e
non volevo che lui si avvicinasse a voi, volevo che sparisse ma
è
stato mio marito e vostro padre e ho capito che sarebbe stato
impossibile che succedesse, che se ne andasse dopo che ci eravamo
rincontrati. Non vi ho detto chi era e ho chiesto a lui di fare
altrettanto per non turbarvi e per farvi stare sereni e senza
pensieri, non per prendervi in giro. Vi amo, non vi ho mai nascosto
nulla e se ho omesso in passato qualcosa è perché
una madre ama i
suoi figli e sa valutare cosa sia meglio e cosa no per loro. Vostro
padre ci ha cercati ma io non gli avevo detto dove saremmo andati
quando sono partita e così a un certo punto ha dovuto
arrendersi. Il
mondo è infinito quando si cerca qualcuno che si
è perso...".
"Ma
tu hai detto...".
Demelza
capì a cosa si stava riferendo Jeremy. "Quando quella sera
ti
ho detto quelle parole su Ross Poldark e tu eri piccolo e io
aspettavo i gemelli, ero sconvolta, arrabbiata e ferita. E in quello
stato si dicono cose che non si dovrebbero dire, dettate dalla
rabbia. Non ti ho mentito, ho espresso quello che era il mio punto di
vista e tu mi hai creduto. Ma sai, ho imparato una cosa, Jeremy".
"Cosa?".
"Che
per farti davvero un'idea su qualcosa, devi sentire entrambe le
parti. L'ho imparato anche io, parlando in questi mesi con Ross
Poldark... col signor Poldark, quando ho potuto farlo. E ho capito
che a volte, da soli, ci facciamo idee e immaginiamo cose che magari
nella realtà non sono davvero così. Tuo padre ci
ha abbandonati e
per anni ho maledetto ciò che aveva fatto e l'avevo
giudicato il
peggiore degli uomini, mentre ora... Ora sono ancora arrabbiata con
lui per tante cose ma ho capito che non è il peggiore ma
solo un
uomo, nel bene ma anche nel male. Che fa del suo meglio ma che
può
anche sbagliare clamorosamente... Questo non significa che
dimenticherò cosa ha fatto, né che
tornerò a frequentarlo, né
altro. Ma ho imparato, grazie a lui, a capire quanto noi esseri umani
sappiamo essere fragili. E che la cosa importante è
l'equilibrio
finale, capire i nostri errori, ammetterli e fare ammenda per non
commetterli di nuovo. Ed è questo e il saperlo fare, che fa
la
differenza in un uomo".
Jeremy
abbassò il capo. "Non ha capito niente, LUI!".
"Perché
ne sei tanto convinto?".
Jeremy
scosse la testa mentre i suoi occhi diventavano lucidi. "Chi
abbandona i suoi figli, è cattivo e basta! Non cambia, un
cattivo
nasce cattivo e muore cattivo! E non voglio vederlo mai
più!".
Demelza
lo strinse a se come a volerlo proteggere dai suoi sentimenti, dalla
paura e dal senso di smarrimento che probabilmente stava provando e
che doveva essere molto simile al suo, quando aveva rivisto Ross la
prima volta. Clowance forse non poteva capire ma lei e Jeremy invece
sì, entrambi avevano vissuto coscientemente sulla loro pelle
quell'abbandono e entrambi ne portavano le cicatrici. "Non devi
avere paura, ci sono io. Come sempre...".
"E
tu cosa vuoi fare?" - chiese Jeremy, in lacrime.
Demelza
gli sorrise dolcemente. "Non lo so, non lo so ancora. Tutte le
mie decisioni hanno finito per stravolgersi e ora vivo alla giornata.
Non so cosa sia giusto o sbagliato, cosa debba o non debba fare ma so
che dovevo dirvi la verità".
Jeremy
guardò Clowance in viso e poi ancora lei, asciugandosi le
lacrime
con la mano. "Io non lo voglio vedere! Ti prego, non farmelo
incontrare, non lo voglio! Lui ha scelto, quando ero piccolo, che non
mi voleva e preferiva qualcos'altro. Ora scelgo io, anche io voglio
qualcos'altro. Tutto, ma non LUI!".
Lei
rimase spiazzata per un attimo perché non sapeva cosa fare e
cosa
fosse più opportuno. Non era giusto imporre Ross ai bambini
dopo
quelle scelte scellerate e quegli anni di lontananza che li avevano
resi i figli di un altro e allo stesso tempo le sembrava anche, in
qualche modo, ingiusto ciò che Jeremy aveva detto di Ross.
Non
sapeva davvero che pesci pigliare e brancolando nel buio, scelse la
soluzione più ovvia, quella che al momento avrebbe
tranquillizzato
Jeremy in attesa che lei, da madre, capisse cosa fosse meglio per
tutti. "Nessuno ti obbliga a frequentarlo, Jeremy. Se non vuoi,
sei libero di non vederlo. Anche tu, Clowance".
La
bambina, silenziosa e pallida, che fino a quel momento non aveva
aperto bocca, annuì. "Non lo voglio vedere! Non è
mai
esistito, quindi per me non esiste neanche adesso".
Stranita
da quella reazione apparentemente fredda e distaccata, Demelza le
accarezzò i lunghi capelli biondi. Clowance era come Ross,
un
vulcano in ebollizione che spesso rimuginava a lungo senza rendere
gli altri partecipi delle loro emozioni e dei loro pensieri. "Non
hai domande da farmi?".
"No!"
- rispose lei, che di domande su Ross, dopo tutto, non ne aveva mai
fatte.
"Sicura?".
"Sicura".
La
strinse a se, come Jeremy. Sapeva che anche lei, nonostante
quell'atteggiamento, si sentiva smarrita. "Va bene, se non hai
voglia di parlare, lo rispetterò. Ma sai vero, che quando
vorrai,
potrai venire da me in qualsiasi momento?".
"Sì,
lo so!".
Jeremy
si soffiò il naso, finendo di asciugarsi le lacrime
cristallizzate
sul suo viso. "Io voglio fare come Clowance, mamma. Non voglio
vedere il signor Poldark e non voglio parlare con lui. Ho un padre,
si chiama Hugh Armitage e mi ha voluto bene senza mai pensare di
abbandonarmi. Tu una volta mi hai detto che chiamare un uomo
'papà'
è un onore e io questo onore lo do solo a chi mi ha amato,
non a chi
non mi ha voluto".
"Non
ci ha voluto!" - disse improvvisamente Clowance, facendo
sussultare entrambi. "Io piaccio a tutti e lui doveva essere
quello a cui piacevo di più! Invece nemmeno è
venuto a conoscermi
quando sono nata, quindi lui non lo voglio! Che se ne torni nella sua
Cornovaglia, in campagna! Noi siamo Boscawen, non Poldark! Mandalo
via!".
Demelza,
atterrita, li strinse a se. Quanta rabbia mai espressa c'era in loro,
quanta delusione, quanto dolore che forse avrebbe covato a lungo
sotto le ceneri per esplodere in chissà quali modi quando
fossero
stati adulti, se non fosse arrivato Ross a riaprire quelle ferite
adesso, quando magari era ancora possibile curarle. Non sapeva come,
ci avrebbe sbattuto la testa al muro per capirlo ma doveva trovare un
modo per dare a tutti un senso di pace. "Il vostro cognome è
Armitage e Hugh vi ha adottati, quindi siete i suoi figli. Ma non
siete nati da lui e lo sapete e il signor Poldark farà
sempre parte
della vostra vita, che lo vogliate o no. Se non desiderate vederlo,
nessuno vi obbligherà a farlo ma non posso mandarlo via da
Londra.
E' quì per fare qualcosa di importante e lui è
uno dei pochi che
può riuscirci. Credetemi, io lo conosco meglio di voi".
"Cosa?"
- chiese Jeremy. "Cosa deve fare di importante?".
"E'
un uomo dai tanti valori ed ideali, Jeremy. Anche se ti risulta
difficile crederlo... Non è a Londra, a Westminster, per
diventare
ricco e importante ma per aiutare chi ha meno di noi e rendere
migliori le vite dei più bisognosi".
Jeremy
sospirò. "Aiutare i poveri facendo leggi per loro?".
"Sì,
ha sempre lottato per queste cose" – rispose Demelza,
sperando
di suscitare in Jeremy almeno un minimo di ammirazione verso Ross.
Ma
il bambino la gelò. "Allora è uno a cui piace
fare l'eroe, a
cui piace sentirsi dire che è bravo. Aiuta i poveri e i
bambini
degli altri e poi abbandona la sua famiglia e i suoi, di bambini".
Demelza
scosse la testa. "Non è così, Jeremy. Per quanto
male mi abbia
fatto, lui non è così. Non ha mai cercato
né gloria né fama e
tutto quello che ha sempre fatto, lo ha fatto con
generosità, solo
per desiderio di aiutare gli altri".
Il
ragazzino alzò le spalle. "Se lo dici tu...".
"Se
lo dico io, se riesco a dirlo io, tu devi credermi".
Jeremy
alzò lo sguardo, guardandola negli occhi. "Vuoi vederlo?
Resti
la moglie di Hugh, di mio padre!".
Era
una domanda difficile quella, nemmeno lei sapeva bene cosa provasse
per Ross. Era consapevole però di provare molto
più di quanto
avrebbe voluto e che quando era con lui, cadevano ogni sua barriera e
ogni sua difesa... "Non lo so. Deciderò, come te. Ma quello
che
decido io per me, non toccherà quello che hai deciso tu per
te. Lo
prometto. E prometto che nel mio cuore, MAI mancherò di
rispetto a
Hugh, a vostro padre".
A
quelle parole, Jeremy parve rasserenarsi un pò. Si sporse in
avanti
e la abbracciò, forte. "Cosa dobbiamo fare, allora?".
Gli
accarezzò la schiena e con l'altra mano strinse a se
Clowance.
"Quando me ne sono andata dalla Cornovaglia, tu eri piccolino e
Clowance era una neonata e me la tenevo in braccio, avvolta da una
coperta di lana. E mentre su quella carrozza vi guardavo, ho capito
che noi tre saremmo sempre stati una squadra unita e che avremmo
combattuto ogni battaglia insieme. Solo una cosa vi chiedo, ora, e
spero me la concediate".
"Cosa?".
"Che
taciate la vera identità di Ross Podark con tutti, anche con
la
nonna e lo zio. Voglio essere io a parlar loro di lui, è una
cosa da
grandi e vorrei che voi facciate finta di niente. Se vostro zio
sapesse qualcosa, potrebbe trovare il modo di farlo cacciare dal
Parlamento e tante persone che contavano sul signor Poldark, non
avrebbero più nessuno a difenderle. E' importante e so che,
anche se
siete bambini e vi chiedo molto, saprete mantenere questo segreto.
Per il bene di tutti!".
Jeremy,
da sempre maturo, annuì. E stranamente annuì
subito, senza fare
storie, anche Clowance, notoriamente più pettegola. "Va
bene,
mamma".
Li
baciò sulla fronte. "Sapete che per ogni cosa, io ci
sarò,
vero? Verrete da me, ogni volta che ne avrete bisogno, che avrete
paura o domande da farmi?".
Jeremy
le sorrise. "Sì, come sempre".
Demelza
si alzò da terra, sistemandosi la gonna. "Dovremo mantenere
il
segreto anche coi gemelli, non devono sapere nulla. Son troppo
piccoli e non capirebbero...".
Jeremy,
a dispetto di tutta la situazione, ridacchiò. "Come facciamo
a
dirglielo? Si nascondono come ladri!".
A
quelle parole, Demelza sussultò. Lo sciroppo, dannazione!
C'era
anche quella faccenda da risolvere...
Guardò
i suoi due bambini, li riabbracciò forte e li strinse a se
per dar
loro coraggio. Per quanto avessero cercato di apparire forti e
decisi, non erano che due bimbi ancora piccoli, schiacciati da una
vicenda più grande di loro. Sarebbero crollati, ci sarebbero
stati
pianti e recriminazioni e un giorno, sicuramente, un faccia a faccia
con Ross. Ma per ora andava bene così, essere stata sincera
e aver
fatto capire loro che li amava e che rispettava i loro sentimenti.
"Temo...".
"Di
dover andare dai gemelli?" - chiese Clowance.
Demelza
annuì. "Venite con me?".
Jeremy
si risedette per terra. "Preferirei restare quì".
"Anche
io, per un pò" – aggiunse la sorellina.
Li
baciò sulla fronte, comprendendo che forse volevano stare un
pò da
soli. Anche Jeremy e Clowance in fondo, come i gemelli, avevano un
loro fortissimo ed esclusivo rapporto che non volevano condividere
con gli altri. "Come volete. Io sono in camera, se avrete
bisogno...".
Loro
annuirono, apparentemente più calmi. E Demelza
andò, prima in
cucina a recuperare lo sciroppo e poi di sopra, col cuore che le
martellava in gola. Se la situazione fra lei e loro sembrava essersi
rasserenata, la posizione dei bambini verso Ross rimaneva durissima e
avrebbe dovuto trovare qualche soluzione quanto prima. Era vero, Ross
aveva sbagliato... Ma era pur vero che era il padre di Jeremy e
Clowance e loro avevano bisogno di lui. L'indifferenza avrebbe potuto
significare che non provavano nulla per lui ma la rabbia no, la
rabbia era qualcosa di vero e tangibile che esprimeva sentimenti che,
da negativi, forse potevano diventare positivi. Vero, Hugh era il
loro padre, nel loro cuore sarebbe sempre stato così. Ma era
morto e
nella loro vita, Jeremy e Clowance avrebbero avuto bisogno di
un'altra guida e in cuor suo sapeva che Ross poteva esserlo, che era
disposto ad aspettarli, a sentirsi addosso il loro odio e a stare
all'angolo fino al giorno in cui, forse, loro sarebbero stati pronti
per andare da lui. Jeremy da piccolo aveva aspettato a lungo Ross a
una finestra e ora Ross era disposto a fare altrettanto... E quel
pensiero li rese agli occhi di Demelza molto più simili di
quanto
loro si fossero mai accorti, un padre e un figlio... Ed era una
realtà incontrovertibile.
Entrò
in camera e anche se non li vide, avvertì chiaramente la
presenza
dei due figli più piccoli che dovevano essersi nascosti da
qualche
parte. Iniziava un'altra battaglia, probabilmente non meno dura...
"Uscite allo scoperto!" - ordinò.
La
vocina di Daisy la raggiunse da chissà dove. "Sei Prudie?".
Sbuffò.
"Ti sembro Prudie!".
"No,
ma magari sei lei che ha imparato a cambiar voce".
"NON-SONO-PRUDIE!"
- sbottò.
"Sei
sola?" - chiese Demian.
"Sì...".
E
a quel punto i due bimbi sbucarono come ladri, da sotto il letto,
facendo capolino dalla coperta che cadeva ai lati dello stesso.
Demelza
si mise le mani sui fianchi. "Fuori da lì!".
Daisy
guardò in cagnesco la bottiglietta che aveva fra le mani.
"Non
lo voglio!".
Con
infinita pazienza Demelza si avvicinò loro, sedendosi sul
letto.
"Conosco un trucco per bere lo sciroppo senza sentirne il
sapore".
"Davvero?"
- chiese Demian.
"Giuro!
Sono una mamma e le mamme sanno tutto, non lo sai?" - gli
chiese, pensando amaramente che avrebbe voluto davvero sapere tutto
ma non era possibile.
Daisy,
scettica, la guardò storto. "Quale modo?".
Sorrise
loro. "Tappatevi il nasino, aprite la bocca e mandate giù lo
sciroppo. Una volta che lo avrete nel pancino, lasciate la presa sul
naso e vedrete che non sentirete alcun sapore".
Daisy
dondolò il piedino, ancora scettica. "Io ti credo! Ma se
è una
bugia, io lo sciroppo non lo prendo più! Gli dico a Prudie e
Dwight
di tapparselo loro il naso e di berselo tutto!".
Sospirando,
Demelza riempì i due cucchiai che aveva portato con se.
"Avanti,
nasini tappati!".
Demian
fiducioso e Daisy un pò meno, ubbidirono, dimostrando che
come
Jeremy e Clowance, sapevano affidarsi a lei e alle sue parole. E con
un gesto veloce, prima che cambiassero idea, Demelza mise loro in
bocca i cucchiai, facendo scivolare nelle loro bocche la medicina.
I
bimbi deglutirono, lasciarono la presa sul naso e poi la guardarono
ad occhi spalancati. "E' vero!" - esclamarono, contenti e
increduli.
Lei
rise. "Visto? Avete fatto correre Prudie tutto il pomeriggio per
niente!".
Daisy
le fece la linguaccia. "Così diventa magra! E' diventata
più
grassa di Babbo Natale quando ci ha portato i doni a Natale!".
Demelza
rise e la strinse a se, assieme a Demian. Il suo principe e la sua
orsetta che la facevano dannare ma anche ridere di cuore... E poi
Jeremy e Clowance, le loro lacrime, la loro rabbia e la fiducia che,
nonostante tutto, le avevano accordato ancora. Era a casa e non
importava dove fosse. Essere coi suoi figli e sentirli vicini era
casa, in qualsiasi parte del mondo. E per il momento questo le
bastava... Anche se questo pensiero, paradossalmente, le faceva
sentire più vicino Ross. Lei aveva i bambini, lui no ed era
consapevole che forse mai avrebbe potuto abbracciarli come faceva
lei. E a quel pensiero le vennero una profonda tristezza e una
infinita pena che le fecero sentire i sentimenti di Ross più
vicini
e vivi. Un pò suoi. Perché sapeva che quanto
detto da Jeremy
sull'animo di Ross, non corrispondeva a verità.
...
In
biblioteca era calato il silenzio e Jeremy e Clowance, vicini, si
erano seduti con la schiena appoggiata alla libreria per bambini.
La
piccola Clowance, con la testolina sulla spalla del fratello,
stropicciò le pagine di un libro che aveva fra le mani.
"Cosa
pensi?".
"Di
cosa?".
"Di
quello che ha detto mamma".
Jeremy
sospirò. "L'ho detto cosa penso, prima. Sei tu che sei
rimasta
zitta".
Clowance
si tirò su, fronteggiandolo. "Io non lo voglio! L'ho detto,
non
esiste! Non pensiamoci più, Jeremy! Siamo Boscawen, Hugh
è nostro
padre, un giorno tu sarai Lord e io una Lady. Il signor Poldark
è un
selvaggio, un piccolo nobile di campagna che non c'entra nulla con
noi. E' inglese ed è più selvaggio degli scozzesi
in gonnella che
un giorno saranno conquistati da Demian e Daisy! Io sto bene senza di
lui, son sempre stata bene senza di lui. Non lo voglio, non voglio
nemmeno parlarne!".
Jeremy
la occhieggiò. "Infatti non devi parlarne, hai sentito che
ha
detto mamma? Saprai stare zitta e tenere il segreto?".
Clowance
lo guardò, decisa. "Certo! Figurati se lo dico in giro che
quel... quel selvaggio che da i pugni... è mio padre! Mi
vergognerei
tantissimo. E tu, saprai non dirlo?".
"Certo..."
- rispose Jeremy, anche se dubitava che le sue motivazioni fossero le
stesse di Clowance. "Hai paura?".
"No,
non esiste, LUI non esiste!" - insistette la bambina.
"Come
vuoi...".
Jeremy
tornò silenzioso e Clowance non disse nulla per alcuni
istanti. Poi
però gli sfiorò con la mano il braccio,
chiamandolo. "Jeremy?".
"Sì?".
"Anche
se non esiste e non ho paura, posso abbracciarti un pò?".
Jeremy
annuì, voltandosi verso di lei. E come aveva sempre fatto da
quando
era nata, da bravo fratello maggiore che deve sopperire all'assenza
di un padre la strinse a se, in silenzio, rendendosi conto che
Clowance non voleva parlare ma solo sentirlo vicino, proprio come lui
aveva desiderato sentire vicina sua madre poco prima e in quegli
ultimi confusi giorni.
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Capitolo 54 *** Capitolo cinquantaquattro ***
Demelza
gli aveva scritto alcune lettere, dopo il giorno del loro incontro
segreto al suo cottage. Era stato in ansia a lungo circa l'esito del
suo colloquio coi loro bambini da cui dipendeva forse tutta la sua
vita e il suo futuro con la famiglia che amava e lei, anche se
teoricamente non era tenuta a farlo, l'aveva informato di quanto
avvenuto.
Era
stata dolce, attenta e gentile verso tutti, Demelza, lui compreso.
Anche se probabilmente non se lo meritava ed aveva finito, un'altra
volta, per metterla nei guai e in una posizione difficile. Quando
avrebbe imparato ad amarla e basta e a renderla felice ad ogni ora
del giorno? Quando avrebbe imparato ad essere un pò
più simile a
quel Hugh Armitage che aveva conquistato il suo cuore e quello dei
loro bambini? Non che volesse snaturare se stesso ma aveva capito, in
quei mesi, che da quell'uomo che un pò odiava, doveva anche
imparare, lasciando da parte la gelosia.
La
lettera di Demelza gli aveva spezzato il cuore. Non che si aspettasse
che Jeremy e Clowance corressero da lui a braccia aperte, chiamandolo
papà in lacrime per la commozione, ma... Ma forse ci aveva
segretamente sperato un pò. O semplicemente, avrebbe sperato
in una
reazione meno dura. Demelza gli aveva scritto, con tatto, ma
chiarezza, di un netto rifiuto in entrambi i bambini verso di lui e
in una grande rabbia espressa soprattutto da Jeremy che probabilmente
mai aveva dimenticato davvero e del tutto quel padre sparito per
farsi gli affari suoi, lasciandolo a crescere da solo con sua madre e
sua sorella. Era stato un padre orribile con Jeremy e non poteva
nascondere a se stesso di aver avuto paura di amarlo, quando era
nato. Quella paura lo aveva portato lontano da lui, l'aveva portato
ad ignorarlo e a prenderne le distanze. Da suo figlio, da un bimbo
che allungava sempre le manine per farsi prendere in braccio da lui
ogni volta che era in casa, un figlio che una volta, in lui, vedeva
il suo grande eroe. Santo cielo, cosa aveva fatto? Come aveva potuto?
Se quella sera fosse rimasto a casa a farlo giocare, a godere delle
sue parole stentate e dei suoi sorrisi, nulla sarebbe successo... Se
avesse stretto fra le braccia Demelza ed accarezzato il suo pancione
dove cresceva Clowance invece che correre a letto da Elizabeth, nulla
sarebbe successo...
E
ora, che pretendeva? Che i suoi figli lo amassero e lo considerassero
un padre? Come avrebbero potuto farlo quando, di fatto, lui un padre
per loro non lo era mai stato, né materialmente,
né spiritualmente
o affettivamente?
Faceva
male sapere dell'odio di Jeremy e dell'apparente freddezza ed
indifferenza di Clowance ma non era forse quello che si meritava? Non
era forse quello che averebbe fatto anche lui a suo padre, se si
fosse comportato allo stesso modo, lasciandolo solo, senza un nome e
senza una guida?
Demelza
gli aveva raccontato che per ora era meglio che stesse lontano e lo
avrebbe fatto per rispettare i patti presi con lei e per il bene dei
bambini, ma poi? Come evitarli? Ed era giusto evitarli e, di fatto,
abbandonarli di nuovo? O doveva iniziare a lottare per loro e per il
loro amore, dimostrandogli che c'era e che li amava? Ma come? Cosa
fare col cuore a pezzi e le gambe spezzate dal dolore che lui stesso
aveva fatto provare ai suoi figli e che loro gli stavano restituendo
in pari modo? E una volta che Falmouth avesse saputo la
verità, cosa
sarebbe successo? Cosa avrebbe fatto Demelza, come sarebbe
sopravvissuta a quel terremoto che avrebbe colpito lei e tutto il
casato dei Boscawen? Demelza era stata chiara nella sua lettera,
avrebbe parlato con Falmouth al suo ritorno dal Portogallo e questo
avrebbe gettato nuove luci e nuove ombre sul suo ruolo di Lady
Boscawen e sulla posizione dei suoi figli in quel casato. Il suo
ritorno aveva distrutto la pace e la serenità che lei si era
riconquistata a fatica e anche questo lo faceva sentire in colpa. E
lui, dopo tutto questo? Sarebbe ancora stato accolto in quella casa?
O cacciato, come il peggiore dei criminali?
Dalla
prima lettera di Demelza erano passate alcune settimane di completo
silenzio, prima che lei gli scrivesse ancora. In quel lasso di tempo
lui aveva cercato di evitare casa Boscawen ed incontri fortuiti con
lei ma friggeva a non sapere più nulla. E finalmente la sua
pazienza, quella mattina, era stata premiata con un'altra lettera in
cui lei lo rassicurava sul fatto che i bambini stavano bene,
sembravano sereni e anche se non facevano domande su di lui,
sembravano aver ritrovato fiducia in lei e spesso, quando erano
pensierosi, le andavano vicino alla ricerca di un abbraccio. Questo
lo rincuorava, era importante che avessero almeno un punto di
riferimento in quel periodo difficile anche se Demelza gli aveva
scritto che probabilmente, pur non parlandone ancora nemmeno con lei,
i bimbi stavano pensando molto a quello che si erano detti e che
dovevano pazientare affinché si sentissero pronti ad
affrontare
l'argomento.
E
lui avrebbe aspettato, finché fosse stato necessario...
Finì
di vestirsi, sistemandosi il colletto della camicia. I lavori in
Parlamento erano stati fermi dieci giorni e riprendevano quel
pomeriggio per delle questioni che richiedevano la sua presenza per
delle firme.
Ross
fece per mettersi il tricorno quando Valentine, seguito da Tannen,
corse da lui. "Papà, guarda!" - esclamò il bimbo,
con un
foglio in mano.
Ross
lo prese. "VALLENTINE... Hai scritto il tuo nome, bravo!" -
esclamò, scompigliandogli i ricciolini neri. "Ma
perché hai
scritto Valentine con due L?" - chiese, incuriosito
dall'approccio di suo figlio coi primi rudimenti di studio.
Il
piccolo alzò le spalle. "Meglio in più che in
meno! Lo dice
Jane Gimlet quando cucina o quando andiamo a fare la spesa!".
Ross
scoppiò a ridere, rendendosi conto che parlare con Valentine
era
divertente e che avere quel figlio accanto era per lui un premio che,
in un certo senso, a lungo non aveva voluto ritirare ma che ora stava
assumendo contorni definiti che ne rendevano palese il grande valore
che aveva per lui. Lo aveva trascurato a lungo senza rendersi conto
di quanto entrambi avessero bisogno l'uno dell'altro e che quel
bambino, come Jeremy e Clowance, aveva il diritto a pretendere amore.
Lo prese in braccio, osservando il foglio che teneva nella mano
libera. "Bella scrittura, elegante, bravo! Ma Jane Gimlet,
quando dice quello che mi hai raccontato, si riferisce al cibo! Non
puoi aggiungere lettere al tuo nome, ne cambieresti il significato".
"Ma
non ho neanche una lettera doppia nel mio nome! Tu ce l'hai! Pure
Tannen ce l'ha! E io?".
Ross,
ridendo, lo rimise a terra. "Noi abbiamo nomi corti e banali,
per questo ci servono lettere doppie! Tu hai un nome lungo ed
importante, non ne hai bisogno".
"Ohhh".
Valentine spalancò la bocca, sorpreso e impressionato da
quelle
parole. "Importante? Io?".
Ross
annuì, mettendosi il tricorno in testa. "Sei mio figlio,
certo
che sei una persona importante! E ora, a più tardi! Sono
quasi in
ritardo".
"Vai
a lavorare?".
"Purtroppo
sì! Tu fa il bravo e se ti riesce, porta fuori il cane a
correre un
pò".
Valentine
sbuffò, questa cosa del correre non gli era ancora entrata
nel
sangue. "Va bene..." - borbottò.
"E'
compito tuo, lo ricordi? E ricordi che ha detto Dwight?".
Il
piccolo alzò gli occhi al cielo. "Devo correre... Anche
Tannen
deve correre, Jane dice che sta diventando grasso!".
"Già"
– constatò Ross osservando il cucciolo. E dopo
aver dato a
Valentine un'altra carezza sui capelli, uscì di casa diretto
a
Westminster. In fondo, pur non avendone voglia, quel luogo lo avrebbe
distratto dai suoi pensieri. Ne aveva tanti, di pensieri... La
nostalgia e la voglia di Demelza, Jeremy e Clowance che probabilmente
lo avrebbero odiato per sempre e sì, anche il futuro di
Valentine.
Come avrebbe voluto che tutti insieme, tutti loro, fossero una
famiglia felice. Ma come poteva desiderare una cosa così?
Come
poteva chiedere tanto a Demelza e al destino, dopo tutto il male che
aveva fatto? Come poteva riuscire in quell'impresa così
difficile e
a tratti impossibile? Come poteva anche solo pensare di meritarselo?
...
Era
stato piacevole rincontrare Pitt, Basset e gli altri parlamentari che
erano stati presenti durante i moti che lo avevano visto coinvolto
due mesi prima assieme a Demelza, nei sobborghi poveri di Parigi. Non
li aveva più rivisti da allora e ritrovarsi in un luogo
sicuro, da
sopravvissuti, era stata di fatto una piacevole rimpatriata.
Il
pomeriggio in Parlamento era scivolato via veloce e l'esprienza
pericolosa vissuta insieme aveva finito col far sentire ancora
più
vicini e coesi quegli uomini guidati dagli stessi princìpi
ma a
volte separati da caratteri inconciliabili che li portavano a
discutere per ore senza trovare punti di caduta.
Uscendo
all'aperto, alla fine della seduta, Ross si sentì l'animo
più
leggero dopo quelle settimane passate in casa a rimuginare sulle
lettere di Demelza. Quel pomeriggio aveva potuto quanto meno fare
qualcosa di utile per la popolazione inglese, erano state siglate
leggi atte ad abbassare il prezzo di grano e segale e aveva adempiuto
all'incarico che si era assunto quando era stato eletto ed aveva
lasciato la Cornovaglia.
Peccato
che la sua pace fosse destinata a durare poco...
Era
appena uscito in strada, diretto verso casa, quando una voce
sgradevole lo raggiunse alle spalle.
"Signor
Poldark... E' molto che non ci si vede! Dalla sera del ballo
d'autunno, mi pare...".
Ross
alzò gli occhi al cielo e poi si girò lentamente.
"Adderly..."
- mugugnò, fra i denti, rendendosi conto ad ogni loro
incontro, di
quanto lo trovasse sgradevole. Sperava di evitarlo quel giorno, come
aveva fatto per tutto il pomeriggio all'interno della sala. Ma
evidentemente non era così fortunato...
Col
sorriso più falso del mondo, Monk gli si
avvicinò. "Dicono
grandi cose di voi, da gennaio... Pare siate entrato nelle grazie del
Ministro Pitt e che vi siate eretto a eroe delle dolci e ricche
donzelle londinesi".
Ross
sbuffò. Adderly era un serpente viscido, non parlava per il
semplice
piacere di fare conversazione e ogni volta che lo aveva incontrato,
aveva avuto il netto presentimento che cercasse di provocarlo. "Ne
dicono tante di cose, in giro... E voi, alla vostra età e
con la
vostra esperienza, dovreste sapere che la maggior parte non
corrisponde al vero" - rispose.
Monk
incassò senza reazioni. "La gente mormora e nel mentre, gli
eroi si nascondono. Non vi vedo nei salotti che contano, da mesi. Vi
sentite superiore a noi?".
"No,
semplicemente non amo passare le mie serate in quei salotti. Vi sono
mancato?".
Monk
sorrise freddamente. "A volte c'è gente tanto noiosa a
quelle
feste. Voi, dicono, ai tempi eravate un vero attaccabrighe e un
agitatore di folle".
Ross,
spazientito, si calò il tricorno sulla testa. "Un tempo ero
giovane, stupido e facile all'ira. Ora sono vecchio, sono padre e non
ho tempo per questo genere di sciocchezze. Frequentate meno quei
salotti, Adderly! E concentratevi su quanto succede nelle strade e
fra la gente di Londra... Quella che non frequenta Vauxhall,
intendo... Vi annoiereste meno e dareste un più alto valore
alla
vostra vita".
La
mascella di Adderly si contrasse davanti a quella provocazione
evidente ma ben celata dal tono mellifluo usato da Ross. "Amo
annoiarmi... E stare accanto a chi vale la pena avere come amico. O
possedere... In fondo non siamo tanto diversi".
Ross
si oscurò. "In che senso?".
Monk
gli si avvicinò, arrivando muso a muso con lui. "Ricordate
cosa
vi dissi la sera del ballo d'autunno, su Lady Boscawen? Che non era
cosa per voi e di starle alla larga... Invece scopro che siete stato
suo ospite a Natale e che...".
Ross
lo bloccò. Iniziava ad innervosirsi... "Ciò che
faccio, non vi
riguarda! E nemmeno chi Lady Boscawen vuole alla sua cena di Natale,
credo".
"Oh,
si che mi riguarda" – sussurrò Adderly andandogli
ancora più
vicino. "Mi riguarda eccome! Cosa credete, Ross Poldark? Come
potete anche solo sperare di entrare nelle sue grazie? Cosa sperate
di ottenere? Potere, denaro e una donna calda e passionale nel vostro
letto? Lady Boscawen non è un oggetto per voi, non valete
tanto e
qualsiasi idea vi siate fatto salvando lei e i suoi due mocciosi
dagli scontri, toglietevela dalla testa! Uno come voi, al massimo,
può pulire lo sterco dei suoi cavalli dalle sue stalle! La
puledrina
dai capelli rossi vale tanto oro quanto pesa e l'ho puntata fin da
quando quell'idiota di Armitage la portava in giro come un trofeo
dopo averla sposata... La puntavo pure quando son nati quei due
dannati gemelli che l'hanno allontanata dai circoli sociali, a
lungo... Ma ho aspettato e ora, solo perché vi siete eretto
per puro
caso a eroe suo e dei due piccoli bastardi che Armitage ha adottato,
non provate nemmeno a sperare di avere l'esclusiva su di lei che
resta comunque inarrivabile per un povero idiota di provincia come
voi".
Ross
non ci vide più e per i suoi gusti lo aveva fatto parlare
pure
troppo. Era invecchiato, maturato, più ponderato, certo...
Ma
NESSUNO poteva permettersi di parlare in quel modo di Demelza. E
tanto meno dei suoi figli...
I
due piccoli bastardi...
Non
era tanto Adderly e l'affermazione in se, per quanto grave fosse. Ma
quella parola orribile, detta su Jeremy e Clowance, lo
annientò. Lui
li aveva resi tali agli occhi del mondo e chissà quante
altre
persone pensavano la stessa cosa, pur non osando dirlo. "State
zitto..." - sbiascicò, fra i denti.
"Altrimenti?"
- rispose Adderly, quasi poggiando la fronte contro la sua.
"Chiedete
scusa!" - ribatté Ross, la cui voce sembrava il sibilo
rabbioso
di un serpente. "Rimangiatevi quando detto di Lady Boscawen e
dei suoi figli, oppure...".
Monk
sorrise freddamente, come se arrivare a quel punto fosse il suo piano
fin dall'inizio. "Altrimenti? Altrimenti, cosa? Giocherete
nuovamente a fare l'eroe per difendere l'onore della nostra Lady dai
capelli rossi? Io non mi rimangio nulla! Sarà mia, non
vostra! E
quando me la porterò a letto, la farò urlare di
piacere, cosa che
voi non avete nemmeno idea di cosa significhi! Io avrò
ciò che
voglio e che mi spetta per diritto di nascita e a conti fatti, anche
la cara Lady sarà soddisfatta... Dietro a quei modi gentili
e
affettuosi, sono sicuro si nasconde una che a letto sa far impazzire
un uomo meglio delle donnine a pagamento di Vauxhall". Si
leccò
le labbra, in un gesto volgare. "Aspetto da anni di averla,
GRATIS, nel mio letto. O nel suo, dopo aver mandato i suoi mocciosi
dove dovrebbero essere, in un buon collegio".
Fu
troppo. Non doveva osare parlare così di nessuna donna,
tanto meno
della SUA Demelza. E nemmeno dei bambini, di nessuno dei QUATTRO
bimbi di Dmelza! E in mezzo a tutti, in mezzo ai parlamentari che
uscivano da Westminster, Ross per un attimo tornò ventenne,
quel
ventenne che non pensava minimamente alle conseguenze delle sua
azioni. Non aveva mai desiderato tanto uccidere qualcuno come in quel
momento e anche se sapeva che le provocazioni di Adderly erano state
preparate a tavolino per portarlo a quel punto e spingerlo a reagire,
non gliene importò nulla di non dargli soddisfazione... La
sua mano
si strinse in un pugno e prima ancora che Adderly potesse
accorgersene, gli piantò un violento colpo in faccia che gli
fece
sanguinare il naso e lo fece cadere a terra.
Alcuni
parlamentari si fermarono a occhi sgranati ma poi, vedendo
l'identità
dei due litiganti, decisero che era meglio allontanarsi in fretta e
senza dire nulla.
Adderly,
colto di sorpresa, lo guardò con odio profondo, asciugandosi
il
sangue con la manica della camicia. "Come avete osato?".
"Vi
avevo avvertito..." - ribatté Ross.
Monk
si alzò, sputando sangue a terra. "Volete farmi vedere
quanto
siete uomo?".
"Non
ho bisogno di dimostrarvi nulla, se non insegnarvi cos'è
l'educazione e cosa significa essere gentiluomo".
Monk
gli si riavvicinò. "Ve la insegno io, l'educazione! Fra
quindici giorni, alle sei del mattino, ad Hyde Park. Solo io, voi e
due pistole".
Ross
spalancò gli occhi, questa non se la aspettava proprio. Ma
perfetto,
se era quello che Monk voleva, se era una pallottola piantata in
quella sua testa da idiota che desiderava, chi era lui per non
esaudire questo suo desiderio? "Sarà un vero piacere... Per
me,
per l'onore di Lady Boscawen e per i miei occhi che non vedono l'ora
di vedervi a terra, esanime". Odiava i duelli, erano proibiti
dalla legge ed era una legge che lui riteneva giusta perché
non
concepiva che un uomo togliesse la vita ad un altro, ma Adderly...
Adderly aveva mancato di rispetto a Demelza e ai suoi bambini e
questo per lui era un affronto impossibile da perdonare. C'era
Valentine, se qualcosa fosse andato male, lui sarebbe rimasto solo ma
in fondo, che perdita sarebbe stata, per suo figlio? Lui, che non era
mai stato capace di essere un buon padre... Jane e John Gimlet
sarebbero stati una grave perdita per il bambino, loro che ne erano
stati di fatto i suoi genitori fin da quando era nato e che se ne
erano presi cura sempre, con amore. Non lui! Valentine lo avrebbe
forse odiato ma gli avrebbe lasciato un futuro roseo, una miniera
attiva e delle proprietà. E due servi che gli avrebbero
fatto da
genitori meglio di avrebbe mai potuto fare lui! E Demelza... La sua
amata Demelza si era ricostruita una bellissima vita, non voleva
giustamente che lui ne facesse parte e i loro figli... Gli si
contorse lo stomaco pensando a Jeremy e Clowance... I loro figli lo
odiavano, com'era giusto che fosse. E allora, perché non
accettare
quel duello? Cosa aveva da perdere? Se avesse vinto, avrebbe
vendicato l'onore di Demelza e dei bambini. Se avesse perso, chi
avrebbe pianto per lui? "Fra due settimane, ad Hyde Park..."
- disse di nuovo, come a voler rimarcare ad Adderly che accettava il
duello.
Monk
annuì, sorridendo freddamente, da gatto sornione e
tentatore. "Sarà
un piacere aggiungervi alla mia lista".
"Quale
lista?".
"La
lista di quelli che son stati tanto stupidi da accettare un duello
con me, credendosi migliori. Ne troverete una lunga fila al cimitero,
se vorrete farci due chiacchiere" – rispose Monk, prima di
voltargli le spalle e andarsene.
...
Camminò
a lungo per le strade del centro di Londra, osservando cose e persone
come se le stesse vedendo per l'ultima volta.
Passata
la rabbia a caldo, in Ross cresceva il peso della coscienza e della
ragione. Aveva accettato un duello pericoloso con una persona ancor
più pericolosa e anche se lo stava facendo per quanto di
grave Monk
aveva detto su Demelza e i suoi bambini, accettare quel duello
significava di fatto andar contro a tutti i princìpi che lo
avevano
guidato fino a quel momento.
E
poi c'era Valentine... Certo, a caldo aveva banalmente pensato che
avrebbero potuto crescerlo i Gimlett, ma ora... Ora l'idea di non
veder crescere suo figlio, quel figlio che aveva tanto a lungo
trascurato e con cui iniziava a costruire finalmente un rapporto, lo
annientava. Se fosse morto, di fatto sarebbe stato come abbandonare
anche lui. Come aveva già fatto con Jeremy e Clowance... E
anche
Valentine, forse, avrebbe finito con l'odiarlo, crescendo, per quella
scelta scellerata e dettata dall'orgoglio che ancora una volta
metteva i suoi figli in secondo piano rispetto alle sue azioni. Aveva
accettato un duello che poteva rendere suo figlio di sette anni,
orfano. Per sempre... Lo spaventava quell'ipotesi, tanto, ma non
abbastanza da farlo tornare indietro. In fondo Valentine non sarebbe
rimasto solo, tentò di convincersi nuovamente...
Ormai
non poteva rifiutare, nessun uomo scappa davanti a un duello che ha
accettato. Non poteva, non poteva davvero... E non perché
gli
importasse di passare per codardo ma perché non c'erano
appigli e
speranze per il futuro, vedeva il baratro davanti a se e non aveva
nulla per cui lottare, nulla che lo facesse rinunciare...
Perso
in quei pensieri, arrivò senza accorgersene ai giardini di
Kensington, finalmente pieni di vita e di bambini giocosi, dopo i
freddi mesi invernali che lo avevano reso deserto e silenzioso.
Erano
ovunque, che giocavano e si inseguivano. Attorno a lui era un
tripudio di risate infantili e Ross, forse bisognoso di tutto questo,
entrò, passeggiando nei vialetti. Avrebbe allungato la
strada verso
casa ma gli avrebbe fatto bene, forse. Quella passeggiata avrebbe
acquietato il suo animo e forse schiarito le idee. Si era cacciato in
un grosso guaio e man mano che proseguiva, se ne rendeva sempre
più
conto.
Forse
doveva scrivere ad Adderly che era stato un idiota, abbozzare delle
scuse. Forse, semplicemente, non doveva presentarsi al duello,
Adderly non lo avrebbe certo denunciato visto che i duelli erano
vietati.
Forse,
forse...
E
in mezzo a quei mille forse, si bloccò. Senza accorgersi, si
era
pericolosamente avvicinato alla dimora dei Boscawen e davanti a lui,
diretti verso casa, sullo stesso vialetto e che provenivano dalla
direzione opposta, vide i quattro piccoli Armitage.
E
niente, il destino era davvero beffardo e lui era stato incauto ad
entrare in quel parco!
Jeremy,
Clowance e i gemellini, coi visini arrossati per i giochi e le corse,
stavano tornando a casa e quando lo videro si bloccarono, rimanendo
gelati. Jeremy e Clowance quanto meno perché invece i due
gemellini
gli corsero incontro salutandolo festosamente, come sempre. Erano
sporchi d'erba dalla testa ai piedi, spettinati e incredibilmente
soddisfatti dal pomeriggio all'aperto.
"Ciao
signor Poldark!" - lo salutarono.
Ross
annuì, ma la sua attenzione era tutta sui due più
grandi. Lo
guardavano e stavolta con la consapevolezza di chi lui fosse. Non il
signor Poldark che lavorava in Parlamento con il loro zio ma il loro
padre, quel padre che li aveva abbandonati quando erano piccolissimi,
quel padre che aveva fatto piangere la loro mamma.
I
loro occhi erano gelidi e pieni di rancore, le loro mascelle
contratte e stavolta per lui non ci furono né saluti,
né inchini.
Protettivamente
Jeremy strinse la manina di Clowance e poi, a passo spedito, si
avvicinò per riprendersi i gemelli. "Andiamo a casa!" -
ordinò loro, senza degnarlo di uno sguardo.
"Ma
Jeremy!" - ribattè Demian – "Non saluti? E' il
signor
Poldark!".
Jeremy
lo guardò in viso, con odio, mentre Clowance si nascondeva
come
impaurita dietro di lui. "No, non saluto! Non mi va e non è
il
caso!".
Ross
deglutì. "Beh, posso almeno salutarvi io?" - chiese, con
voce rotta.
"NO!"
- ribattè il bambino, secco.
Guardò
Clowance, pallida e di ghiaccio, nascosta dietro al fratello. "E
lei? Posso salutarla?".
"NO!"
- ribadì Jeremy. "A lei penso io, come da quando
è nata. E non
vuole salutarvi. Vero, Clowance?".
La
bimba annuì. "Vero..." - disse, in un soffio.
E
Ross si trovò a pensare che in quel momento gli mancavano
persino i
suoi formali inchini e che Jeremy aveva ragione, lo aveva sostituito
con Clowance da sempre, costringendolo a prendere il posto di un
padre che aveva preferito altro. Era tutto finito, anche quel piccolo
rapporto formale che si era creato fra loro in quei mesi non esisteva
più. Li aveva persi, per sempre... I suoi bambini che mai,
come in
quel momento, avrebbe voluto solo abbracciare e che forse non avrebbe
rivisto più, con quel duello che incombeva su di lui.
"Capisco...".
Daisy
invece non capiva, non capiva affatto. Guardò i fratelli
come se
fossero impazziti, picchiò il piedino a terra e li
sgridò, come se
la sorella maggiore fosse lei. "Ma siete matti?".
"Sì,
matti proprio!" - aggiunse Demian che probabilmente, come la sua
gemella, doveva considerare incomprensibile quel comportamento.
Jeremy
assunse uno sguardo severo. "Andiamo a casa! Subito!".
Daisy
scosse la testa. "NNNNOOOO! Dovete salutare, il signor Poldark
è
nostro amico e ha salvato la mamma!".
E
a quel punto Jeremy disse qualcosa che lo gelò, qualcosa che
in
poche parole spiegava bene cosa pensasse di lui. "Mamma una
volta mi ha detto che una cattiva azione non cancella tutte le buone
azioni che uno ha fatto. Ma vale anche il contrario... Una azione
buona, non ne cancella mille cattive. I cattivi, nascono cattivi e
muoiono cattivi! E io non saluto persone così! Andiamo a
casa,
Daisy".
Lei
lo guardò con aria di sfida, mettendosi le manine sui
fianchi. “NO!
Tu non fai mai quello che dico io e allora io non faccio quello che
dici tu e faccio solo quello che voglio io!”.
Jeremy
sostenne il suo sguardo e poi, senza degnare Ross di uno sguardo,
prese per mano Clowance. “Beh, allora torni a casa da
sola!”.
“Tanto
so la strada!” - ribatté la piccola picchiando il
piedino a terra
mentre Ross si chiedeva, insistentemente, se dovesse o meno
intervenire in quel battibecco causato dalla sua presenza.
Jeremy
voltò loro le spalle, con Clowance. “Tu Demian,
che fai?”.
Il
gemellino guardò i fratelli maggiori e poi Daisy, facendo
scorrere
il suo faccino smarrito fra le due fazioni. Si vedeva che non stava
capendo nulla di quanto aveva davanti agli occhi e che fosse confuso
dal comportamento dei fratelli maggiori, ma poi alla fine scelse la
cosa più naturale, la cosa che più Ross si
sarebbe aspettato da
lui. Scelse Daisy, come sempre...
Si
avvicinò alla sorellina e a quel punto, piccato, Jeremy
andò via
con Clowance a passi spediti verso l'ingresso che dai giardini
portava al loro parco privato.
Ross
li guardò andare via con il cuore spezzato, rendendosi conto
che
quegli sguardi freddi, quell'odio, quel non voler nemmeno concedere
lui una parola, se li meritava, tutti... Anche lui non aveva
dispensato carezze, parole ed amore a loro, tanti anni prima, e ora i
suoi figli gli stavano restituendo lo stesso trattamento facendogli
sentire sulla pelle quanto male faceva sentirsi rifiutati. Perdere
Demelza era stato lancinante ma l'odio dei suoi due bambini era
qualcosa di atroce, corrosivo... Erano parte di lui, una parte di cui
aveva bisogno per vivere e lo stesso era lui per loro... E si erano
persi, a vicenda, perché non era stato capace di superare il
dolore
per la perdita di un'altra figlia, perché si era rifugiato
in
fantasie da ragazzino che lo avevano portato a fare cose orribili e
aveva condannato alla solitudine la famiglia che lo amava. E
così
facendo, invece di una figlia, ne aveva persi tre di bambini...
Daisy
gli tirò il mantello. “Perché fanno
così? Non si fa, non si sta
zitti! Clowance oggi non è stata mica tanto una lady, glielo
devo
dire”.
Ross
si inginocchiò davanti a loro. “Dovreste seguire i
vostri fratelli
e tornare a casa”.
“Ma
perché erano arrabbiati?” - chiese Demian.
Ross
sospirò. “Beh, è una storia lunga, un
po' difficile e che forse
non dovreste chiedere a me”.
Daisy
sospirò, divenne pensierosa ma poi sorrise. “So
farla anche io la
lady, lo sai signor Poldark? Io ti saluto, al posto di Clowance, da
brava!”.
Ross
le accarezzò i lunghi capelli biondi, pensando che non
l'avrebbe
voluta una lady o diversa da com'era per nulla al mondo. “Lo
so che
sei brava, sei adorabile”.
Daisy
proseguì, forse cercando di darsi un tono per sostituire la
sorella.
“Vuoi vedere come faccio l'inchino? Son capace, lo
sai?”.
“Oh
non ne dubito”.
Daisy
fece la faccia seria da una che si impegna a fondo e poi, pur
rischiando di inciampare sui suoi piedini, si esibì in un
inchino
che di certo non era aggraziato e perfetto come quello della sorella
ma che trasmetteva calore e il naturale e piacevole, a vedersi,
impaccio di movimento dei bambini.
Ross
le sorrise, era una medicina alla tristezza quella bambina. Non
capiva davvero come Prudie non ne apprezzasse la compagnia.
“Sei
stata davvero una perfetta lady” - le sussurrò
all'orecchio,
facendola inaspettatamente arrossire, cosa che mai avrebbe creduto
possibile da lei.
La
piccola scosse la testa. “Clowance la fa meglio, lei
è la Lady. Io
sono la bestiolina di Prudie! Anche Demian. E le bestioline non sanno
fare bene l'inchino”.
Ross
alzò gli occhi al cielo. Non aveva mai apprezzato i
nomignoli che
aveva sentito affibbiare a quei due bambini. “Non siete due
bestioline! E non saper fare bene l'inchino non è poi
così
importante, nemmeno io ho mai imparato a farlo bene, non amo
inchinarmi. Davanti a nessuno!”.
“Mamma
non mi chiama bestiolina, però, dice che sono la sua
orsetta!” -
insistette Daisy.
“E
tu, tu come vorresti essere chiamata? Qual'è il nome che ti
piace di
più?”.
Daisy
sorrise e i suoi lunghi capelli biondi si mossero al vento.
“Come
mi chiami tu, signor Poldark”.
Rimase
stupito da quella risposta. “Io ti chiamo semplicemente col
tuo
nome, Daisy”.
“E
a me piace così” - sussurrò lei, di
rimando, giocando col lembo
del suo mantello che teneva fra le mani.
Demian,
un po' in disparte, gli afferrò a sua volta il mantello.
“Quando
vieni a trovarci? Come a Natale e allo zoo! Devi ancora farmi vedere,
signor Poldark, che non sei vecchio e ti sai arrampicare sugli
alberi!”.
Ross
accarezzò le testoline di entrambi, provando una infinita
nostalgia
per i momenti trascorsi non solo con Demelza, Jeremy e Clowance ma
anche con loro. Momenti che, forse, non sarebbero più
tornati perché
i suoi figli non ne volevano sapere niente di lui e probabilmente non
sarebbe uscito vivo dal duello con Adderly. “E' vero e spero
di
mostrartelo presto, Demian, anche se sicuramente tu sarai
più bravo
e veloce di me. Ma per un... bel po'... non potrò venire a
casa
vostra”. Poi osservò Daisy, stranamente seria e
assorta. “So che
sono ancora in debito con te e tuo fratello e ti giuro che, visto il
ritardo, ti rimborserò i favori che ti devo, con gli
interessi”.
“Cosa
vuol dire?” - chiese la bimba.
“Che
quando uno paga in ritardo i suoi debiti, restituisce di più
di
quello che ha preso”.
Demian
ci pensò su, poi prese due sassolini da terra, uno
più grosso e uno
più piccolo. “Quindi se il sassolino piccolo
è il favore che ti
abbiamo fatto, visto che ci farai un favore in ritardo, il favore
sarà come il sasso più grosso?”.
Ross
annuì, sorpreso e colpito dall'intelligenza del piccolo
bambolotto.
Erano differenti in tante cose ma a modo loro, pur agendo
diversamente, identici per acume. “Sì, bravo!
Pensate bene però a
cosa volete da me”.
Daisy
gli strinse la mano con le sue, con lo sguardo stranamente serio.
“Io
ho già scelto”.
“E
cosa hai scelto?”.
“Te
lo dico quando vieni e resti un po' con noi”.
“Farò
del mio meglio, allora” - rispose Ross, che avvertiva le
parole
della piccola come una carezza, una medicina al suo cuore ferito dal
risentimento di Jeremy e Clowance. Chissà se li avrebbe
rivisti quei
bambini, tutti e quattro?
Daisy
guardò verso casa, poi prese Demian per mano.
“Signor Poldark, io
vado che se no Prudie mi da le botte sul culetto! Tu non
preoccuparti!”.
“Di
cosa?”.
La
piccola sorrise. “Di Jeremy e Clowance! Quando gli passa,
torneranno tuoi amici come prima! Ogni tanto si arrabbiano anche con
noi, ma poi si disarrabbiano! Non restano arrabbiati tutta la
vita”.
Ross
rispose al suo sorriso, desiderando perdersi dentro quel ottimismo
infantile. Santo cielo, come avrebbe voluto che fosse
così... “Su,
filate a casa prima di cacciarvi nei guai”.
I
bimbi ubbidirono e corsero via ma dopo pochi passi si voltarono,
salutandolo con la manina.
E
Ross rimase ad osservarli mentre correvano sul vialetto, attento a
tenerli d'occhio finché non avessero varcato il cancello del
loro
giardino. E una volta accertato che erano a casa sani e salvi,
mestamente, anche lui tornò alla sua, di casa.
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Capitolo 55 *** Capitolo cinquantacinque ***
Quando
Demelza aveva visto rientrare Jeremy e Clowance senza i gemelli e
saputo che avevano litigato dopo un incontro casuale con Ross, prima
di qualsiasi cosa si era precipitata in giardino a recuperare i suoi
due bambini più piccoli. Col cuore in gola, arrabbiata con
gli altri
due figli per averli lasciati soli ma consapevole che i rimproveri
sarebbero potuti arrivare solo dopo aver ritrovato sani e salvi i
gemellini, Demelza era corsa fuori, terrorizzata all'idea che fosse
successo qualcosa.
La
sua ansia però durò poco perché ancor
prima di arrivare ai
giardini di Kensington, ritrovò i gemellini che, serafici,
avevano
già oltrepassato il cancello e si dirigevano verso casa mano
nella
mano. Sembravano i bimbi più tranquilli del mondo, accidenti
a loro!
E accidenti anche a Ross che di certo non aveva colpa per
quell'incontro fortuito, ma... Ma perché lei doveva essere
sempre
tanto sfortunata da dover essere costretta ogni dannato giorno della
sua vita a combattere per qualcosa?
Corse
loro incontro e di primo acchito li abbracciò, baciandoli e
sgridandoli allo stesso tempo. Stavano bene, erano vivi e senza un
graffio e l'unica ad essere spaventata sembrava lei... Quindi era
tutto nella norma!
Li
prese per mano e li riportò in casa, in camera sua, dove li
stavano
aspettando Jeremy e Clowance. Chiuse la porta dietro di se, fece
sedere sul suo letto tutti e quattro e poi, con le mani sui fianchi,
decise che era il momento di ristabilire regole e gerarchie. "E
allora?".
Daisy
dondolò le gambette. "E allora io oggi sono stata
bravissima!
Jeremy e Clowance no, tocca a loro beccare le botte sul culetto da
Prudie! Io ho salutato e ho fatto la brava, sai mamma che ho fatto
anche l'inchino al posto di Clowance?".
Demelza
sospirò, aveva una dannata faccia di tolla. "Daisy, tu non
devi
rimanere da sola al parco, senza i tuoi fratelli. Né tu,
né Demian.
Siete ancora troppo piccoli".
Demian
prese la parola. "Ma non eravamo da soli, c'era il signor
Poldark! Sai mamma che noi lo abbiamo salutato e Jeremy e Clowance,
no?".
"Jeremy
e Clowance sono diventati matti!" - aggiunse Daisy, beccandosi
un cuscino in testa, lanciato da Jeremy.
Demelza,
con un gesto stizzito, lo raccolse, rimproverando con lo sguardo il
figlio più grande. "I cuscini non si lanciano e tutti, oggi,
avete disubbidito! Jeremy, Clowance, se siete soli, MAI dovete
perdervi di vista quando siete al parco! Demian e Daisy, voi dovete
sempre seguire i vostri fratelli ed ubbidire quando vi dicono
qualcosa".
I
gemelli si imbronciarono, come i due più grandi. Jeremy
scosse la
testa, arrabbiato. "Io gliel'ho detto di venire via e di non
parlare con quello lì, ma non hanno voluto ascoltare. Dopo
due volte
che gliel'ho ripetuto, sono andato via con Clowance. Nemmeno Clowance
voleva restare. Vero?".
"Vero!"
- disse la bambina, fino a quel momento chiusa in un ostinato
mutismo.
Daisy
intervenne. "Ma noi dobbiamo salutare i grandi! Ce lo hai detto
tu e io ho salutato. Anche Demian! Jeremy e Clowance, no!".
Demelza
guardò con aria severa i figli grandi. "Io pretendo da voi
educazione, sempre e con qualsiasi adulto! Vi ho garantito che non
avreste frequentato il signor Poldark ma MAI vi ho detto che potevate
essere maleducati con lui nel caso lo aveste incontrato. Vive
quì
vicino a noi, succederà ancora che lo vediate e non voglio
si ripeta
mai più una cosa del genere. Se lo vedrete, lo saluterete e
poi
riprenderete la vostra strada" – ordinò, pensando
a cosa
avesse potuto provare Ross davanti a quell'atteggiamento.
"Io
non lo saluto, quello!" - sbottò Jeremy.
Daisy
lo guardò, arrabbiata. "Perché? Lui ha salvato
mamma! E anche
te! Ed è mio amico".
"Tu
non sai niente!" - le urlò Jeremy.
E
a quel punto la piccola prese un altro cuscino sul letto, lanciandolo
a sua volta. "Neanche tu!".
"BASTA!!!"
- urlò Demelza, facendo sussultare tutti e quattro. "Voglio
che
siate educati! E che non litighiate fra voi!".
Demian
abbassò il faccino. "Sì, ma... Ma
perché Jeremy fa così? E
anche Clowance? Io mica ho capito".
Demelza
strinse i pugni per la tensione. Come poteva spiegarglielo? Era
giusto farlo? Avrebbero capito? Sarebbero riusciti a mantenere il
segreto per un pò? Osservò i gemellini e
ricordò quanto detto
qualche settimana prima a Jeremy e Clowance: loro erano una squadra,
tutti e cinque. Ed era giusto che a modo loro, anche Demian e Daisy
sapessero quanto stava succedendo ai loro fratelli e il
perché del
loro strano modo di fare che, probabilmente, doveva confonderli
molto.
Jeremy
e Clowance la guardarono, seri. "Diglielo tu, mamma! Digli
perché".
Non
era un invito gentile e in quella richiesta c'era il rabbioso
desiderio che lei districasse ogni nodo di quella difficile
situazione.
Demelza,
sospirando, si avvicinò, sedendosi sul letto fra loro.
"Sapete
mantenere un segreto? Saprete tenere solo per noi cinque quello che
vi dirò, senza dirlo a nessuno?".
Daisy
fece un sorriso furbetto, come se per lei quello non fosse che un
gioco da ragazzi. "Certo! Sono bravissima coi segreti, io! Anche
Demian!"
Demelza
le sorrise, decidendo che fidarsi era l'unica strada che aveva
davanti. "Non è facile da spiegare, bambini...".
"Spiegare
cosa? Perché Clowance oggi non ha più voluto
essere una lady?"
- chiese Daisy.
Clowance
la fulminò con lo sguardo. "IO-SONO-UNA-LADY! Oggi
è
diverso...".
Accarezzò
la testolina di entrambe, per riportare la pace. "Voi lo sapete
vero, che Jeremy e Clowance hanno anche un altro papà, oltre
a
papà-Hugh, vero? Il papà che li ha fatti nascere".
Era
un discorso che, in maniera semplicistica, era stato già
affrontato
in passato anche se i gemelli, vista l'età, non ci avevano
fatto
troppo caso e mai avevano chiesto, finendo presto nel dimenticatoio
come era giusto che fosse.
Daisy
annuì. "Sì! Il mio papà ha fatto
nascere me e Demian e ha
fatto il papà di tutti! Jeremy e Clowance avevano un altro
papà,
prima. Poi è arrivato il mio papà, tutto nuovo e
di tutti".
Demelza
le sorrise. "Jeremy e Clowance non AVEVANO un altro papà che
poi è scomparso. Esiste ancora e rimane comunque il
papà che li ha
fatti nascere, anche se poi non è rimasto con loro".
Demian
si grattò la fronte, confuso. "Ma non ho capito
perché non
hanno salutato il signor Poldark".
Jeremy
guardò il fratellino con freddezza e rabbia, una rabbia
trattenuta a
stento. "Il signor Poldark è il papà che ci ha
fatto nascere,
quello che non ci ha voluti e ci ha lascati da soli con la mamma! Per
questo non lo saluto, per questo non voglio vederlo! E' la persona
più cattiva del mondo!".
Daisy
spalancò gli occhi, lo guardò come fosse
impazzito e poi guardò
Demelza in cerca di risposte. "Davvero...?".
"Davvero"
– le rispose – "Anche se le cose sono un
pò più complicate
di come dice Jeremy. Il signor Poldark e io abbiamo avuto due
bambini, i vostri fratelli. Anzi...". Si bloccò, pensando a
Julia e chiedendosi se dovesse raccontare di lei e di cosa la sua
morte avesse portato nei loro cuori e nelle loro anime, ma non sapeva
se fosse giusto.
Daisy
guardò Jeremy. "Ma lui è gentile, non
è cattivo! E ti ha
salvato!".
"Tu
non capisci niente!" - le ribadì Jeremy.
"Non
è vero!" - urlò Daisy, pronta a lanciare
l'ennesimo cuscino,
bloccata al volo da Demelza. "Io capisco TUTTO! Tu hai due
papà,
io uno... Il mio nemmeno c'è, ma mica mi arrabbio come te! E
il mio
papà mica torna a trovarmi".
Jeremy
sostenne il suo sguardo. "Tu non hai il papà
perché è morto,
non perché ti ha abbandonata. Per questo non viene da te, i
morti
non possono venire! Vedi che sei stupida?".
"JEREMY!".
Stavolta Demelza intervenne con forza. Mai avrebbe accettato che i
suoi figli si comportassero così fra loro. "Chiedi scusa a
tua
sorella!".
"Non
è colpa mia se è stupida!" - rispose il bambino.
E
a quel punto, anche se non l'aveva mai fatto, Demelza gli diede uno
scappellotto sul coppino. Sapeva che stava vivendo un momento
difficile ma non voleva che la rabbia offuscasse il buon cuore di
Jeremy. "E' piccola ed è tua sorella. E ti adora... So che
sei
arrabbiato, ma lei non c'entra".
Jeremy
abbassò lo sguardo, si strofinò gli occhi lucidi
e poi allungò la
mano, a stringere quella di Daisy. "Scusa...".
Era
sincero, Demelza sapeva che lo era e che era già pentito per
il modo
in cui aveva trattato Daisy. Jeremy era così, irruento ma
dal cuore
d'oro. In fondo in lui c'era molto di Ross, in quel momento.
La
piccolina, un pò scossa da quella reazione rabbiosa,
deglutì. "Va
bene... Ma a me il signor Poldark piace... E se è tornato,
è una
cosa bella. Tu hai due papà e uno è venuto da te.
Io ne ho uno solo
e non può venire da me... Perché sei arrabbiato
tu e non sono
arrabbiata io?".
Jeremy
sussultò e anche Demelza fece altrettanto perché
nella sua
semplicità e forse senza nemmeno saperlo, Daisy stava
ricordando
loro che a volte ci si incaponiva talmente tanto nella vita, da non
saper riconoscere ed apprezzare le cose belle e le seconde
opportunità che la proprio la vita stessa ci riservava.
Aveva
ragione... Invece che rimuginare sul passato, perché non
prendere il
bello che quell'inaspettato presente stava regalando loro? Il ritorno
di Ross nelle loro vite era davvero solo deleterio? O una seconda
occasione per tutti loro? D'istinto, Demelza abbracciò la
sua
piccola orsetta saggia, che forse dall'alto dei suoi quattro anni
vissuti senza pregiudizi e preconcetti, aveva saputo imparare a
guardare più lontano di tutti loro. Certo, non era semplice,
soprattutto per Jeremy e Clowance. Ma non sarebbe stato forse meglio
costruire qualcosa tutti insieme, anziché distruggerlo
rinfacciandosi un passato che non potevano cambiare?
Jeremy
rimase zitto, smarrito, forse senza sapere nemmeno lui cosa
rispondere. Anche Clowance, ancora silenziosa, rimase a rimuginare in
silenzio... Fu solo Demian a trovare il coraggio di parlare. "Dice
che si sa arrampicare sugli alberi! Lo dice davvero, è! Mica
è una
bugia!".
Daisy
scosse la testa. "No, il signor Poldark non dice bugie".
Demelza
le sorrise, chiedendosi come e quando Daisy si fosse 'innamorata' di
lui. Avevano avuto, da subito, un rapporto speciale e ai suoi occhi
incomprensibile che non voleva che perdessero perché era
vero, Daisy
non aveva mai avuto un padre e in un certo senso, in Ross, aveva
trovato un punto di riferimento che difendeva a spada tratta, come
aveva sempre fatto con le persone a cui voleva bene. E decise che era
il momento di dire la verità e di parlare di Julia. Forse
così
avrebbero capito cosa era successo e quale grande dolore avesse
spinto Ross a perdersi e a perdere tutti loro. Non che lo
giustificasse, non che non provasse rabbia per quanto lei aveva
subìto coi bambini, non che volesse spingerli a frequentarlo
se non
si sentivano pronto per farlo, ma... Ma Ross era umano, non era un
mostro! E voleva che lo capissero pure loro, nei suoi punti di forza
ma soprattutto nelle sue fragilità. "Non era da lui, non
sarebbe mai stato da lui lasciare i suoi figli. Per tanto tempo l'ho
creduto anche io, era più facile così,
più semplice, perché
quella certezza mi impediva di guardarmi indietro con nostalgia. Ma
nella vita succedono cose che annebbiano la nostra anima e il nostro
cuore e ci spingono a scappare dove ci sembra di poter stare meglio,
perché abbiamo paura del nostro presente. Questo ci
è successo
tanti anni fa, a me e a lui".
"Di
cosa avevi paura, mamma?" - chiese Demian.
Li
guardò, tutti e quattro, ringraziando Dio per averglieli
dati e non
averglieli tolti. Li aveva lì, tutti vicini e per quanto
avesse
sofferto, loro erano lì a ripagarla di tutto mentre a Ross
non
sarebbe forse mai stata data quell'opportunità e nonostante
l'enormità dei suoi errori, era forse una punizione davvero
difficile da espiare, per tutta la vita. "Voi non lo sapete, ma
avete avuto un'altra sorella, una volta. Più grande di tutti
voi,
che sarebbe stata una sorella maggiore meravigliosa proprio come lo
è
sempre stato Jeremy. Si chiamava Julia e se fosse quì con
noi, ora
avrebbe tredici anni e sarebbe una bellissima signorina". Si
bloccò per un attimo mentre la voce le si spezzava al
ricordo di sua
figlia, la sua amatissima prima figlia morta quando ancora non era
riuscita ad assaporare la bellezza del mondo. Non aveva mai parlato
di lei, il dolore di non poterla andare a trovare l'aveva
accompagnata tutti quegli anni e non era passato giorno che non
pensasse silenziosamente a lei e a ciò che sarebbe
diventata. Era
difficile parlarne, durissima. Lo era stato con Ross e lo era ancora
adesso, coi suoi quattro figli che la guardavano a bocca aperta.
Daisy
deglutì, guardando i suoi fratelli e poi lei. "E adesso
dov'è?".
"E'
morta, quando era molto piccola, prima della nascita di Jeremy.
Nessuno di voi l'ha conosciuta e lei è stata la mia prima
figlia, la
prima che ho avuto dal signor Poldark".
Demian
le sfiorò la mano. "Morta? Morta come il papà?
Che sta sotto
un sasso al cimitero?".
Gli
occhi di Demelza divennero lucidi. "Sì".
"Non
mi piace!" - sbottò il bambino mentre Clowance, sempre
silenziosa, si rannicchiava fra le braccia di Jeremy.
Demelza
sorrise tristemente. "Nemmeno a me. E quando a una coppia
succede una cosa così, a volte capita che la sofferenza
allontani e
si abbia paura di amare per non rischiare di soffrire ancora. Jeremy,
Clowance, vostro padre non ha mai desiderato farvi del male e volervi
bene credo sia sempre stato il suo più grande desiderio,
allora come
adesso. Ma ha avuto paura, è scappato dall'amore
perché con Julia
ha imparato che se si ama, a volte si soffre...". Era difficile
da spiegare, loro erano troppo piccoli e lei ancora troppo confusa
circa quel passato che l'aveva allontanata da Ross e quel presente in
cui non aveva ancora capito cosa volesse e come comportarsi. Era
quasi impossibile spiegare a dei bambini l'enormità della
morte di
un altro bambino e cosa può portare all'animo e al cuore di
chi la
vive.
Jeremy
non disse nulla, forse colpito e perso in mille pensieri dettati da
quella verità a lui fin'ora sconosciuta, ma Clowance ruppe
il suo
mutismo, invece. "Ha avuto paura di noi? O non gli siamo
piaciuti e questa Julia gli piaceva di più?".
"Nessuna
di queste due cose. Ha solo avuto paura del destino e lo so, ha
sbagliato, ma sbagliare è umano e lui ha fatto errori enormi
e
difficilmente perdonabili ma accanto ad essi, ha saputo fare da solo
cose grandiose e coraggiose, per chi amava... Per questo ho tanta
fiducia in lui e nel suo ruolo in Parlamento, è una persona
che più
di tutte sa fare grandi cose. Una persona va giudicata in toto, anche
se è difficile farlo. Non voglio che lo perdoniate se
sentite che
non volete farlo, vorrei però che non pensaste che lui sia
un
mostro, ma...".
"Ma...?"
- chiese Jeremy.
"E'
una persona, Jeremy" – rispose Demelza. "Una bella
persona che ha fatto una cosa orribile".
Il
ragazzino sospirò. "E tu? Tu eri la mamma di Julia ma non
hai
avuto paura! Lui sì, lui è scappato ma tu sei
rimasta con noi. Lui
è scappato e i papà non dovrebbero scappare mai e
se scappa è un
codardo!".
Demelza
annuì. "Lui non è un codardo ma hai ragione, un
papà non
dovrebbe scappare ma capita. Più spesso di quanto tu creda,
Jeremy.
E capita anche, nonostante si sia grandi, di avere paura e di non
saperla fronteggiare subito, questa paura. Per una mamma è
diverso,
credo. O almeno lo è stato per me perché rispetto
a lui, io in un
certo senso ho vissuto quella morte da lontano. Lui ha visto Julia
morire, io no. Ero malata, come vostra sorella e... e lui da solo,
l'ha accudita fino alla fine... Ha perso lei, l'ha visto coi suoi
occhi ed ha sofferto. E poi ha perso voi e ha sofferto di nuovo".
Daisy
le si accoccolò fra le braccia, prendendo a succhiarsi il
pollice
come quando era più piccola e si svegliava per un brutto
sogno.
Demelza la conosceva, per quanto sicuramente non potesse capire
appieno quanto le aveva detto, sapeva che per carattere lei lottava e
soffriva quando qualcuno a cui era affezionato era in
difficoltà e
di certo ora, dopo quel racconto, quel suo misterioso attaccamento a
Ross sarebbe aumentato, invece che diminuire per quanto successo con
Jeremy e Clowance.
Guardò
i suoi figli, tutti e quattro, accarezzando i capelli lunghi e
biondissimi della sua orsetta. "Non voglio che litighiate, siete
ognuno il tesoro degli altri, un pezzo unico e insostituibile di una
bella squadra che si farà compagnia per sempre. Avere dei
fratelli e
delle sorelle ed essere uniti, è il più grande
tesoro che la vita
da e non va sprecato recriminando o bisticciando. Sono sempre stata
orgogliosa di voi quattro, di avervi messo al mondo e dei bravi
bambini che siete diventati. Capitano i momenti brutti ma mai devono
intaccare l'amore e l'unione che c'è tra voi. E' importante,
lo
diceva il vostro papà...".
"Il
signor Poldark?" - chiese Clowance, rabbuiandosi.
Demelza
scosse la testa, rimarcando che niente e nessuno avrebbe comunque
potuto prendere il posto che era stato occupato da Hugh. "No,
non lui". Accarezzò la testolina di Jeremy che, capendo a
chi
alludesse, sorrise. "Papà Hugh...".
Jeremy
le si avvicinò, abbracciandola per darle coraggio. Se
c'erano state
divisioni fra loro, probabilmente il conoscere quanto il passato
fosse stato carico di sofferenze per lei e di come le aveva
affrontate, gliele aveva fatte superare e con quell'abbraccio voleva
darle coraggio, forza e farle sentire che come sempre, lui era con
lei. Come Daisy, come Demian, come Clowance, anche se non era molto
loquace. "Su, ora... Promettetemi che sarete sempre uniti ed
educati. Con tutti! Compreso il signor Poldark".
Jeremy
e i gemellini annuirono, anche se Jeremy pareva ancora un pò
titubante e sicuramente aveva bisogno di riflettere e decidere se,
come Ross, fosse meglio scappare oppure affrontare lui e le sue paure
per riscrivere un futuro nuovo e forse meno rancoroso. Clowance
invece rimase un pò in disparte, come sempre. "Tu non vuoi
dirmi niente?" - le chiese.
"No,
adesso no" – disse la bambina. Era così difficile
capire cosa
le passasse per la testa...
Ma
non voleva forzarla, Clowance aveva bisogno dei suoi tempi e anche
lei, come Jeremy, in tanti tratti di carattere era una Poldark fatta
e finita, testarda ed orgogliosa. "Va bene, quando vorrai, io
sarò quì... E ora su, ora che avete fatto la
pace, filate a fare il
bagno e a prepararvi per la cena con la nonna. E...".
I
quattro si guardarono, annuendo. "Tranquilla mamma, è il
nostro
segreto".
Demelza
sorrise. Erano tornati una squadra forte e coesa, tutti loro.
...
La
cena era stata stranamente piacevole anche se più silenziosa
del
solito. I gemelli non avevano fatto capricci per mangiare ed erano
stati composti, Jeremy e Clowance erano stati tranquilli e pensierosi
e nonna Alexandra si era illusa che per magia, tutti fossero
diventati di colpo perfetti Lord e perfette ladies.
Se
solo avesse saputo, pensò Demelza mentre in camera, si
slacciava il
corsetto del vestito e Demian saltava sul letto, incontenibile come
sempre quando si trattava di andare a letto.
Ora
sembrava sereno e quanto detto poco prima, sembrava essere stato
accettato e acquisito con la sua consueta vivacità e
semplicità.
Jeremy
si era ritirato in camera sua dopo averla abbracciata più
forte del
solito, Daisy era corsa a letto senza fare storie e Clowance,
pensierosa e silenziosa, aveva fatto altrettanto.
Tutto
era silenzioso, a parte Demian che faceva lo sciocchino e pareva
voler giocare dopo tutta la serietà vissuta in quel
pomeriggio,
forse desideroso di riacquistare la sua normalità.
Improvvisamente
la porta di camera sua si aprì e Clowance entrò,
facendo capolino.
Indossava già la camicia da notte e il suo faccino pareva
smarrito e
confuso. Demelza le sorrise, allargando le braccia per accoglierla.
Era sempre stata silenziosa e sulle sue ma magari, ora... "Tesoro,
vieni. Hai voglia di parlarmi?".
La
bambina osservò Demian che
giocava a fare capriole sul letto, incurante di quei discorsi. E
poi sbottò.
“Io non voglio che sia mio padre!”.
Demelza
si accigliò, tentando di capire cosa le passasse nella testa,
le sue paure, i suoi pensieri e i suoi sentimenti su quella
situazione difficilissima che stava vivendo e a cui non era
preparata.
Clowance era testarda, orgogliosa e decisa nelle sue idee e in questo
era la figlia che più le ricordava Ross anche se,
all'apparenza,
sembrava la più diversa da lui. “Lo dici
perché lo dice Jeremy?
Lui ha dei buoni motivi, forse, per rifiutarlo... In
un certo senso lui si è sentito tradito.
Tu non lo conosci e
oggi ti ho spiegato cosa è successo. Non vuoi pensarci
nemmeno un
po'?”.
“Non
lo dico perché lo dice Jeremy,
lo dico perché non lo voglio e basta!”.
“Va
bene e lo accetto, ne hai il diritto” - cercò
di rassicurarla anche se quella reazione tanto perentoria e chiusa,
le faceva ancora più paura di quella avuta inizialmente da
Jeremy.
Era sempre stata chiusa su Ross, Clowance, e fino a quel momento
Demelza non aveva ancora capito cosa pensasse e come si sentisse. E
ora...
Clowance
parve stupita da quella sua reazione. “Non può
esserlo...” -
disse, tentennando.
“Cosa?”.
“Mio
padre” - tentennò.
“Ma
lo è, di fatto!”.
Clowance
divenne rossa in viso, accaldandosi per il nervosismo. “Ma
mamma,
io non ho il suo cognome, il mio cognome è Armitage e sono
una lady!
Anche tu sei una lady, lo è anche Daisy e Jeremy e Demian
saranno
lord, da grandi!”.
Demelza
osservò sua figlia e una strana ansia le prese lo stomaco.
Che stava
cercando di dire? “Clowance, tu porti il cognome Armitage
perché
Hugh ti ha adottata. E se lo consideri tuo padre, per me va bene,
Hugh è stato un padre per te. Ma questo che c'entra col
resto?”.
Clowance
si fece seria. “Non è alla nostra altezza,
mamma”.
“Cosa?”.
“Arriva
da un posto sperduto ed è un nobile di provincia. Lo zio
dice che è
una persona intelligente e piena di idee ma che è inferiore,
come
classe sociale a noi. Non può essere mio padre, non lo
voglio, io
sono una lady e appartengo ai Boscawen! Non voglio essere la figlia
di uno che lavora nelle miniere!”.
E'
inferiore... Quelle parole pronunciate dalla sua bambina, le fecero
vedere nero. Mai, MAI, da quando era mamma, si
era sentita fallibile in quel ruolo.
Era questo, che lei pensava davvero? Era questo che muoveva le azioni
della sua bambina? Era diventata quel genere di persona che si crede
superiore agli altri per il semplice fatto di possedere un titolo
nobiliare? Era diventata come le persone che lei e Ross avevano
combattuto? Poteva
accettare la rabbia dell'abbandono, la scelta di non vedere un padre
che per lei era sconosciuto e l'orgoglio che le impediva di dare
seconde opportunità ma quello che Clowance aveva appena
detto, NO!
Senza
accorgersene, alzò la mano e le diede un forte schiaffo in
viso. Si
sentiva in colpa, fallita... Se Clowance la pensava così,
lei aveva
fallito come madre. Provò vergogna per se stessa e per lei,
in quel
momento, chiedendosi se avesse fatto bene a far crescere i suoi
bambini in quell'ambiente a lei tanto estraneo.
Demian
sussultò spaventato, smettendo di giocare. Anche lui aveva
capito
che quello schiaffo aveva un sapore diverso dalle sculacciate che
Prudie dava sul sedere a lui e a Daisy, che era qualcosa di grave.
Clowance
spalancò gli occhi e trattenne il fiato. Era senza parole,
nessuno
aveva mai osato picchiarla e non riusciva nemmeno a reagire. La
guardò con gli occhi lucidi, spaesati...
“Mamma”.
“Vai
in camera tua!” - le disse, freddamente.
“Mamma...”.
Demelza
la osservò mentre già iniziava a sentire i sensi
di colpa per
averla colpita. Era
sconvolta e forse, presa dalla rabbia, non aveva saputo aspettare di
capire cosa ci fosse dietro alle parole di sua figlia... Ma ormai il
dado era tratto e se quel giorno era stata sincera su Julia, c'era
dell'altro da raccontare che Clowance ancora non conosceva.
“Sai dove sono nata?” - le chiese, freddamente.
“No...”.
“In
un posto chiamato Illugan, in Cornovaglia. Da bambina ero povera, non
avevo cibo, avevo un padre sempre ubriaco che mi picchiava ogni
giorno, non sapevo leggere e a malapena avevo un vestito o due,
ovviamente sempre sporchi e stracciati. Ero la più povera
dei
poveri, non sapevo nemmeno cosa fossero le lady. Mio padre, TUO
nonno, quando non era ubriaco lavorava nelle miniere. Spaccava pietre
e poi, coi soldi che guadagnava, andava a bere birra. Non c'era mai
nulla per me e i miei fratelli, solo botte e miseria. Nessuno
ha mai teso una mano per aiutarmi, eccetto una persona: Ross
Poldark... Tuo
padre mi ha salvata, mi ha preso a lavorare con lui e mi ha resa
ciò
che sono ora. Fra di noi non è finita bene, accetto che tu
non
voglia averlo come padre perché ci ha abbandonati ma NON
accetterò
mai che i miei figli si sentano superiori a un'altra persona. Tuo
padre, Ross Poldark, è sempre stato un uomo forte e
combattivo, ha
lottato per il bene dei suoi amici e lo ha fatto non volendo nulla in
cambio da chi aveva meno di lui. E' stato povero con me, abbiamo
venduto tutto quello che avevamo per saldare dei debiti e non ce ne
siamo mai vergognati. Se tu ti vergogni di questo, allora devi
vergognarti anche di me... Non sono una lady, non lo sono nemmeno ora
che Hugh mi ha sposata e ne sono la vedova. Vivo qui con voi e per
voi ma vorrei essere altrove. Questo non è il mio mondo e mi
spiace
se per questo ti vergognerai di me. Hai una madre che è
stata povera
ed è fiera del suo passato e di non aver fatto male mai a
nessuno.
Se questo ti disturba allora, oltre al signor Poldark, dovresti
disprezzare pure me e cercarti un'altra mamma più alla tua
altezza... Io non lo sono”.
Clowance,
senza fiatare, era rimasta immobile ed
impietrita.
“Mamma...”.
“Mamma”
- ripeté Demian, spaventato.
Demelza
si voltò verso di lui. “Mettiti la camicia da
notte! SUBITO!”.
Poi, guardando Clowance, scosse la testa. “E tu tornatene in
camera
tua, non voglio vederti per un pò”. Era stata
dura, ma voleva che
lei capisse. Doveva farle male ma di certo lei stava peggio di sua
figlia, in quel momento...
La
bimba, con le guance rigate di lacrime, abbassò lo sguardo
e,
mestamente, lasciò la stanza.
E
Demelza, esausta come se avesse spaccato pietre tutto il giorno, si
sedette sul letto mettendosi le mani nei capelli. Sembrava che ogni
cosa nella sua vita le sfuggisse senza controllo dalle
mani e non
sapeva più cosa fare. Forse era impossibile trovare una
soluzione a
tutta quella confusione, forse doveva solo tirare avanti facendo del
suo meglio in quella vita che aveva travolto lei e i suoi figli,
donandogli alcune certezze ma togliendogliene molte altre.
“Mamma”.
Si
voltò verso Demian ed era ancora vestito. “Non
è la serata adatta
per disubbidire, o ti prepari per andare a letto o ti do una
sculacciata come fa Prudie”.
Il
bimbo sbuffò ma, saggiamente, decise che era meglio non
sfidare la
sorte. Si portò la mano alla vita sciogliendo il fiocco che
teneva
legato il nastro azzurro che gli sorreggeva i pantaloncini e poi,
goffamente, tentò di slacciarsi i bottoni della camicina
bianca che
indossava.
Demelza
sorrise nonostante
tutto,
chiedendosi quando avrebbe imparato a vestirsi e svestirsi da solo
senza fatica. “Vieni quì” -
sussurrò, aiutandolo. Poi però si
bloccò, distratta dall'ombra delle piante del giardino che,
dalla
finestra, disegnavano figure strane sulle pareti della stanza.
Gli
alberi di quel giardino erano bellissimi, maestosi e quella sera,
forse grazie alla triste conversazione con Clowance e
ai racconti del suo passato,
le erano tornate in mente immagini di se stessa bambina, scalza,
senza freni, che correva nella brughiera e si arrampicava su ogni
pianta che trovava nei paraggi. Proprio come faceva Demian.
Provò
uno strano senso di nostalgia, nonostante la sua infanzia fosse stata
durissima... “Aspetta Demian, rivestiti!”.
Il
bimbo la guardò storto. “Ma hai
detto...”.
“Beh,
ho cambiato idea! Ho bisogno di uscire e fare qualcosa di piacevole.
Qualcosa che piacerà anche a te”. E senza che il
bambino potesse
replicare, gli legò il nastro in vita, gli mise le
scarpine e gli
sistemò nuovamente la camicia. E poi con lui, di soppiatto,
uscì
nel corridoio ormai buio e silenzioso.
Si
sentiva stranamente leggera in quel momento, come una bambina. Per un
attimo decise di accantonare tutto, i sentimenti per Ross, Clowance,
la rabbia, il dolore, la solitudine... Per dieci minuti decise che
voleva tornare a non avere alcun pensiero e fare qualcosa solo per se
stessa.
Uscirono
nel giardino e poi si guardò intorno, prima di rivolgersi a
Demian
che teneva per mano. “Tesoro, qual'è l'albero
più alto?”.
“Timmy”.
“Timmy?”.
Santo cielo, non sapeva che suo figlio avesse dato un nome alle
piante del giardino!
Il
bimbo annuì. “Sì, l'ho chiamato
così”. Gli sfuggì di mano e
si mise a correre e gli toccò seguirlo.
Demian
la condusse davanti al salice dietro alla fontana le cui fronde erano
visibili anche da lontano, dai giardini di Kensington. Era una pianta
secolare, meravigliosa, in effetti la più bella del giardino
e
spesso in estate, mentre osservava i bambini giocare nella fontana,
si era seduta sotto la sua ombra con un libro in mano. Sorrise.
“Demian, lo sai che da piccola anche io amavo arrampicarmi
sugli
alberi come te?”.
Demian
spalancò gli occhi. “Davvero?”.
“Sì.
Vorrei rifarlo ora, vieni con me?”.
“Ti
piaceva andare in alto? Come me?”.
Demelza
sospirò, alzando gli occhi al cielo.
“Più che altro, scappavo da
tuo nonno...”.
Demian
fece un sorrisetto furbo e la guardò con rinnovato
interesse. “Se
lo sa Prudie, ti da anche a te una sculacciata sul culetto,
mamma!”.
Rise.
“Rischieremo”.
Il
piccolo annuì e in un attimo, con l'agilità di
uno scoiattolo,
sgattaiolò sul tronco, salendo in alto agilmente e senza
alcuna
difficoltà.
Demelza
inspirò, prese coraggio e con un po' più di
fatica gli andò
dietro. Era fuori esercizio, il giorno dopo le avrebbe fatto
terribilmente male la schiena ma quel gesto che sapeva di antico, pur
faticoso, sembrava ciò che ci voleva per darle pace.
Arrivarono
sul ramo più alto e Demelza, soddisfatta, si
appoggiò al tronco
mentre Demian, agile come un gatto, gli saltò in braccio
rannicchiandosi fra le sue braccia.
Si
guardò attorno, non si era mai accorta di quanto fosse
grande il suo
giardino e di quanto possente e immenso fosse il grande palazzo dove
vivevano. Era tutto perfettamente in ordine, pulito, bello,
aristocratico e nobile, ogni cosa era al suo posto e sembrava voler
urlare al mondo la potenza della famiglia che vi abitava. E forse era
questo che l'avrebbe fatta sempre
sentire fuori
posto, quel vivere in un mondo non suo ed essere vista dagli altri
come ciò che non era e mai sarebbe stata.
Ma
lì in alto, su quel ramo, assieme a Demian, era solo
Demelza, la
Demelza bambina senza niente da mangiare e libera come l'aria.
“Lo
sai, hai ragione a volerti sempre arrampicare sugli alberi.
Quassù è
bellissimo”.
Demian
dondolò le gambette nel vuoto e le sorrise.
“Sì”. Le indicò la
luna che quella sera era piena e splendente. In cielo non c'era una
nuvola... “E' più vicina...” - disse il
bimbo.
“Sì
tesoro, da quassù è più vicina. E' per
questo che ti piace
arrampicarti? Per essere vicino alla luna?”.
Demian
la guardò con serietà, cosa inusuale per lui. I
suoi lunghi e lisci
capelli biondi, ormai arrivati alle spalle, ondularono nel vento
leggero della sera. “Io voglio andarci”.
“Dove?”.
“Sulla
luna!” - rispose lui, sempre serio.
Demelza
sorrise, baciandolo sulla fronte. “Ma tesoro, è
impossibile. Non
si può, nessuno riuscirebbe a farlo”.
Lui
scosse la testa. “No, non è vero! Non
è che non si può, è che bisogna
imparare come si fa!”.
“Che
vuoi dire?”. Demelza ci pensò su e poi
spalancò gli occhi,
colpita da quelle parole infantili che però nascondevano una
grande
verità, dette col candore e l'innocenza dei quattro
anni di Demian. “Intendi che riteniamo impossibile
ciò che non
sappiamo ancora fare?”.
“Sì”
- disse lui, alzando le spalle.
Lo
strinse a se, ragionandoci su. Aveva ragione, era un genio! In fondo
la gente riteneva impossibili cose o obiettivi che ancora non aveva
imparato a raggiungere. Non era impossibile andare sulla luna,
semplicemente non c'era ancora nessuno che aveva capito come
arrivarci!
Non era impossibile conciliare il ritorno di Ross nelle loro vite...
doveva solo trovare un modo, anche lì... “Demian,
se sarai tu a
trovare il modo di andare sulla luna, mi porterai con te a
vederla?”.
“Certo”
- rispose lui, come se fosse la cosa più facile del mondo.
“Però
mamma, voglio fare anche un'altra cosa da grande”.
“Cosa?”.
“Quello
che faceva il tuo papà, che hai detto prima a
Clowance”.
Demelza
si accigliò. “Mio padre era un minatore. Spaccava
le pietre in
miniera”.
“Col
piccone?”.
“Sì”.
Demian
rise, con la sua faccia da monello. “Bello! Anche io voglio
farlo”.
Gli
accarezzò i capelli, scompigliandoglieli. “Tesoro
mio, non dirlo a
tuo zio e alla nonna! Non credo che ne sarebbero troppo
contenti”.
Il
bambino rise di
nuovo e lei lo
strinse a se, forte.
Era una peste ma era anche un sognatore, come Hugh... Per
lui nulla era impossibile, avrebbe potuto raggiungere la luna o
trovare gli elfi nel giardino, un giorno. “Sai,
tu mi ricordi tanto tuo padre...” - sussurrò sotto
voce, senza che
lui la sentisse.
“Mamma?
Scendiamo?” - chiese Demian, incurante dei suoi pensieri e
stanco
di quella prolungata immobilità.
Annuì,
era tardissimo ed era ora di tornare alla realtà, alla
sua vita, ai suoi problemi con Ross, a Clowance.
Scesero
dall'albero, riprese suo figlio per mano e come due ladri rientrarono
in casa senza svegliare nessuno, come
due monelli che ritornano dopo una marachella.
Rientrarono
nella stanza e stavolta Demian si fece togliere i vestiti e
indossò
la camicina da notte senza fare storie anche se, una volta pronto per
dormire, decise che era meglio fare le capriole sul letto, di
nuovo.
“Demian,
è tardi, basta!”.
“No
dai, giochiamo ancora, mamma!”.
Sospirò,
mettendosi le mani sui fianchi per sembrare più perentoria.
“Allora,
se vuoi giocare, inizierai a dormire in camera tua nel tuo letto da
adesso”.
“Domani!”
- rispose lui, come al solito.
E
in quel momento la porta si aprì, facendo
sobbalzare entrambi.
Demelza si voltò e si trovò di
nuovo davanti
Clowance, con la camicia da notte, gli occhi arrossati e un
orsacchiotto stretto al petto. La vide per ciò che era,
piccola,
triste e indifesa e provò l'immensa voglia di abbracciarla
nonostante tutto. Ma prima di farlo, voleva sentire che cosa avesse
da dire. Era inusuale che Clowance venisse in camera sua di sera e
visto quanto successo, voleva accertarsi che avesse compreso cosa le
aveva detto. Sarebbe
comunque andata a controllarla appena messo a letto Demian ma il
fatto che fosse lì, che fosse tornata nonostante la sgridata
di
prima e il suo orgoglio che avrebbe potuto spingerla e rintanarsi in
camera sua, era già un successo.
“Hai bisogno di qualcosa?”.
La
bimba abbassò lo sguardo. “Posso dormire anche io
con te?”.
“No!”
- rispose per lei Demian, dal letto, prima che Demelza lo fulminasse
con lo sguardo e lo azzittisse.
Demelza
le si avvicinò, inginocchiandosi davanti a lei e
accarezzandole la
guancia dove l'aveva colpita. “Come mai?”.
Clowance
iniziò a singhiozzare e poi si rifugiò fra le sue
braccia,
rannicchiandosi contro il suo petto. “Mamma, non mi interessa
se
eri povera e se vuoi ancora esserlo. Ma ti prego, continua a essere
la mia mamma, non mi lasciare con una mamma nuova perché non
mi vuoi
più. Già non
sono piaciuta a papà, se poi non piaccio più
nemmeno a te, io che
faccio da sola? Se
vuoi andiamo a vivere a... a... in quel posto dove sei nata... ma
tienimi con te...”.
Le
si strinse il cuore e la abbracciò con forza, accarezzandole
i
lunghi boccoli biondi che le ricadevano sulla schiena. Il fatto che
pensasse che volesse abbandonarla le spezzava il cuore ma la
rincuorava sentirla dire che averla vicina era più
importante di
tutte le altre cose. “Davvero non ti interessa che io non sia
una
lady brava come te?”.
“No,
non mi interessa... Però mi vuoi ancora bene?”.
“Certo!
Sciocchina, come puoi pensare che non potrei amarti? Clowance,
tu potrai farmi arrabbiare, farmi infuriare ma mai smetterei di
amarti. E sono certa che nemmeno tuo padre potrebbe... So che per te
è difficile capire cosa ti ho raccontato oggi, comprendere
come un
animo umano può essere portato a sbagliare ma metterei la
mano sul
fuoco sull'amore di Ross per te. Ho poche certezze nella vita e
questa è una di queste. Ti ama e ti salverebbe mille altre
volte
come ha fatto a gennaio, darebbe la vita per te se fosse necessario.
Tu sei sempre piaciuta a tutti, NESSUNO escluso... E non averti avuta
vicina, per lui, è stata già una punizione
più che sufficiente”
- le sussurrò,
col viso affondato nei suoi capelli.
“Mamma,
io non so se il signor Poldark mi sta simpatico, a Jeremy non piace e
lui, anche se
ha avuto paura, doveva restare con me, credo.
Posso pensarci?”.
Demelza
sospirò, annuendo. “Clowance, tu non sei obbligata
a vederlo se
non vuoi. Porti il cognome di Hugh e se ti va bene così, va
bene
anche a me”. Non era certa che Jeremy e Clowance avessero
l'età
adatta per decidere e stava ancora meditando se scegliere lei per
loro, magari imponendosi, ma quella non era la sera adatta per
affrontare quel discorso. “Potrai essere una lady se questo
ti farà
felice, tu potrai fare quello che vuoi della tua vita. L'unica cosa
che voglio è che usi ciò che hai per aiutare chi
ha bisogno, che tu
ti senta parte del mondo e della gente che lo abita e non una persona
superiore. La gente è tutta uguale, i titoli nobiliari sono
solo...
parole... La gente davvero nobile è quella che ha un buon
cuore, che
è gentile e buona. Non quella che ha tanto denaro che usa
solo per
se. Conoscerai tante persone nella vita, alcune diverse da te e
magari sarà fra loro che troverai chi ti ama davvero. Segui
il cuore
Clowance, sarà quello che ti guiderà sempre nel
modo giusto”.
“Va
bene”. Clowance finalmente sorrise, asciugandosi le lacrime
con la
mano. “Posso dormire con te lo
stesso?” -
chiese ancora, incerta.
Demelza
la prese in braccio, osservando di sbieco Demian che le guardava col
muso lungo. “Tesoro, è un letto grande, per una
sera ci dormiremo
in tre”.
“Va
bene” - rispose il piccolo di famiglia - “Ma non
dormiamo subito!
Voglio giocare!”.
Demelza
rise, sollevò in aria Clowance e scherzosamente la
lanciò sul
letto. Era ora
di tornare a vivere con un po' di leggerezza...
La
bambina scoppiò a ridere prima che Demian decidesse che
voleva fare
la lotta con lei coi cuscini. Demelza li fece fare, voleva che
Clowance fosse principalmente una bambina e giocasse e basta, senza
pensare ad altro. Soprattutto con Demian con cui andava poco
d'accordo a
volte e che risvegliava spesso in lei una forte gelosia...
Si
mise a letto e, dopo aver preso anche lei un cuscino, si unì
ai
giochi dei suoi due bambini.
Smisero
solo quando la mezzanotte era passata da un pezzo e lei si
trovò
molto più serena di poche ore prima, con Demian rannicchiato
sul suo
fianco sinistro, Clowance su quello destro e un orsacchiotto gigante
sulla sua testa.
Guardò
fuori dalla finestra e si soffermò ad ammirare quella
bellissima
luna piena che illuminava Londra. Chiedendosi se prima o poi qualcuno
sarebbe arrivato davvero a toccarla con mano...
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Capitolo 56 *** Capitolo cinquantasei ***
Credeva
che Clowance si sarebbe chiusa a riccio a pensare a quanto aveva
scoperto su di lei, invece l'aveva stupita. Dalla sera della sgridata
e dello schiaffo, sua figlia si era attaccata ancora più a
lei, la
cercava in continuazione ed era come se, conoscendo quel suo passato
a lei sconosciuto, fosse aumentato l'apprezzamento e l'attaccamento
che nutriva da sempre, anche se mascherato dalle tante buone maniere
che si era imposta e che le avevano insegnato negli anni. Ora
sembrava più... libera... Di esprimersi, di mostrare i suoi
sentimenti, di parlare e chiedere... Era come se aver saputo quali
erano le sue origini, avesse spezzato quella specie di legame
classista che la rendeva unicamente una Boscawen ma non una
discendente di una fiera famiglia della Cornovaglia. Ora la sua
natura più intima e vera, quella di una bambina di certo
elegante e
raffinata ma anche curiosa e vivace, stesse venendo allo scoperto
nella sua interezza. Non le facevano paura le sue origini, come aveva
inizialmente temuto Demelza, ma anzi, ne era incuriosita. Doveva
sembrarle tanto strano che la sua elegante ed elegantissima mamma non
fosse stata fin dalla nascita una lady ma anzi, una appartenente a
quel mondo dei poveri che lei aveva sempre snobbato e allontanato
come la peste. Ora sapeva che quel mondo, in un certo senso, era
anche il suo anche se per fortuna poteva guardarlo da lontano.
Di
certo, a sette anni, Clowance non conosceva la dura vita di campagna
e dei minatori. Non poteva immaginare cosa fosse la fame, per fortuna
non l'aveva mai vissuta, non aveva mai provato cosa significasse
avere un solo e logoro vestito e l'idea che aveva dei bisognosi era
ancora molto confusa e legata a ciò che sentiva dire da suo
zio e da
sua nonna, ma a Demelza sembrava vagamente diversa, da quella sera.
Era come se, dopo un lungo periodo in cui la sua bambina gli era
stata un pò lontana ed estranea, fosse tornata ad essere sua
simile,
il suo specchio, la piccola che aveva partorito a Nampara e portato
via avvolta in una copertina logora in una nevosa giornata invernale
di sette anni prima. Clowance, la Clowance sua e di Ross e non la
principessina di Hugh, aveva fatto timidamente capolino nella sua
vita proprio come aveva fatto Ross pian piano e quel passato da cui
era fuggita, era di nuovo tornato ad essere il suo presente.
Non
aveva ancora idea di cosa sarebbe successo e a cosa avrebbe portato
tutto ciò nella sua vita perché sì, i
bambini sembravano essere
più tranquilli ora ma lei non lo era affatto. Troppe
battaglie i cui
echi non voleva sentire, si combattevano nel suo cuore. E
ciò che
provava – e forse desiderava – era troppo
complicato da ammettere
e dire ed era più facile fingere di ignorare quella voce
della sua
coscienza che le urlava che presto avrebbe dovuto prendere una
decisione su Ross, su di loro e sui bambini.
Ma
per ora si godeva quel poco di pace che si era riconquistata: Jeremy
aveva ripreso a studiare con impegno e anche se non voleva sentir
parlare di Ross, il suo animo si era fatto meno rabbioso e
sicuramente rimuginava e pensava al da farsi... Come Clowance, anche
lui aveva bisogno di tempo per tirar fuori i suoi sentimenti e
domandare, chiedere e cercare di capire. Clowance, quando erano sole,
le faceva delle domande sulla sua infanzia, le chiedeva con cosa
giocasse, si stupiva che non avesse bambole e che esistessero
papà
cattivi che picchiano le loro bambine e non regalano abiti nuovi. E
la accompagnava spesso e più volentieri al centro dei poveri
dove
portava aiuto ormai da anni, osservando silenziosamente le bimbe che
vi transitavano, forse chiedendosi se fossero come sua madre da
piccola. Era un mondo nuovo per Clowance, da sempre lontano e
improvvisamente vicino. Nemmeno lei parlava di Ross e forse in questo
si appoggiava alle scelte di Jeremy ed andava bene così, era
giusto
che fosse così e per Demelza era una consolazione scorgere
in questo
il risultato di un legame fra fratelli da sempre fortissimo. In due
si sarebbero fatti forza e coraggio e avrebbero affrontato insieme la
situazione. Chi invece chiedeva di Ross erano i gemelli. Erano
incredibilmente bravi a mantenere il segreto e nulla era sfuggito
dalle loro bocche quando c'erano nei paraggi Alexandra o altre
persone della servitù, ma quando erano soli erano
inarrestabili nel
voler sapere. Di Ross, della Cornovaglia, di cosa faceva da piccola,
di Julia... E Daisy soprattutto, sembrava preoccupata e chiedeva se
Ross sarebbe tornato a trovarli qualche altra volta. Non sapeva cosa
risponderle, le diceva che lo avrebbero di certo incontrato in giro e
che poteva salutarlo e parlarci come sempre ma che per il momento era
meglio non fargli inviti e questo sembrava tranquillizzare un
pò la
piccola. Ma solo un pò... Daisy, la piccola orsa, sembrava
davvero
aver trovato in lui un affetto e un punto di riferimento e Demelza si
chiedeva come diavolo fosse successo, consapevole che forse mai
avrebbe avuto una risposta e che le cause di quella alchimia fra sua
figlia e Ross, come tante cose che succedono nella vita, le sarebbero
rimaste sconosciute.
Quella
mattina era uscita presto per portare dei nuovi abiti al centro dei
poveri e ci era andata da sola. Clowance aveva lezione con
l'istitutore, Lady Alexandra era stata invitata da una amica per la
colazione e quindi, dopo aver mangiato coi bambini, ne aveva
approfittato per fare due passi all'aria aperta, resa frizzante dalla
primavera.
Lasciato
il centro, si diresse verso Hyde Park per una camminata nel verde,
quando dalla direzione opposta, dopo una notte di bagordi e di
eccessi come di sua consuetudine, vide arrivare Monk Adderly,
probabilmente diretto a casa sua per dormire.
Aveva
una vita strana, lui, strana e sgradevole ai suoi occhi. Viveva
quando tutti dormivano e dormiva quando tutti vivevano, pensava solo
a se stesso e alla sua soddisfazione personale e aveva un
atteggiamento che metteva la metteva a disagio. Con lo sguardo
sembrava spogliarla, i suoi occhi le trasmettevano lussuria ed aveva
ben capito, nel corso degli anni, che genere di persona pericolosa e
potente lui fosse. Nemmeno a Hugh piaceva, Falmouth le ricordava che
dovevano guardarsi le spalle se lui era nei paraggi e che, se
costretti dalle circostanze, dovevano parlargli con gentilezza ma
senza dare eccessiva confidenza. E lei così aveva fatto,
sempre.
Quindi sorrise, di circostanza. "Buongiorno".
Adderly
la squadrò con gli occhi, rispose sornione al sorriso ed
abbozzò un
inchino. "Mia Lady, siete mattiniera oggi".
"Con
quattro figli piccoli, è difficile non esserlo" –
rispose
lei, neutra.
Adderly
sospirò. "I mocciosi sono una così grande
scocciatura... Belli
è, per carità, avete quattro splendidi eredi ma
credo sareste più
lieta e comoda se fossero affidati a un buon istitutore. Portano via
tempo ed energie e una donna giovane e bella come voi dovrebbe solo
godersi la vita e i divertimenti che essa offre".
Demelza
alzò un sopracciglio, sarcastica, immaginando bene a quali
divertimenti lui alludesse. "Voi sembrate esperto nei vostri
divertimenti... Io lo sono nei miei, adoro la compagnia dei miei
figli".
Lui
annuì. "Lo so... Pare che la adoriate talmente tanto da
esserveli portati dietro in una situazione pericolosa, a gennaio.
Povertà e sobborghi londinesi non fanno per voi e nemmeno
per i
vostri piccoli Lord e Lady".
Demelza
deglutì, ricordando con orrore quanto successo al discorso
di Pitt e
decisa a riprendere il suo cammino per terminare quella sgradevole
conversazione. Parlare di quel giorno con Monk non era decisamente
nei suoi programmi."Beh, ho imparato la lezione, ve lo
assicuro... Vi ringrazio per i vostri consigli, ma credo di dover
andare a casa".
Adderly
però non sembrava disposto a lasciarla andare. "Aspettate!".
"Sì?".
Lui
le si avvicinò, viso a viso. "E' solo un consiglio, il
mio...
Andare incontro a pericoli, vi mette a contatto con pericoli
maggiori".
"Cioè?".
"Cioè,
darete a perfetti arrivisti venuti dalla campagna, la
possibilità di
ergersi a paladini di donne e giustizia, obbligandovi poi a
ricambiare favori che certa gente, per i servizi resi, esigerebbe...
Non diamo a chi non lo merita, la possibilità di mettersi in
mostra
e chiedere. Lasciamo che certa gente nata nell'ombra, ci muoia
nell'ombra".
Demelza
deglutì, rendendosi conto che stava parlando di Ross, anche
se non
aveva pronunciato il suo nome. Fra i due non correva buon sangue,
glielo aveva raccontato Lord Falmouth e se n'era accorta al ballo
d'autunno quando era intervenuta per sedare le scintille fra i due.
Conosceva Ross... E purtroppo conosceva anche Adderly... "Se
parlate del Signor Poldark, è stato gentile, coraggioso e
impeccabile, nel dare un aiuto a me e ai miei figli. E non ha chiesto
nulla in cambio. Gli devo la vita e non me ne dimenticherò".
Monk
scosse la testa. "Ross Poldark è un dannato, iroso ed
arrogante
provinciale, uno che arriva dal nulla e ha la presunzione di venire
quì ad insegnarci come deve girare il mondo. Non sa stare al
suo
posto, non conosce le regole, non ha morale...".
A
Demelza venne quasi da ridergli in faccia. Morale? Adderly parlava di
morale? Santo cielo, non aveva mai sentito nulla di più
ironico in
vita sua! "Il signor Poldark, da quello che mi risulta, discende
da una nobile e facoltosa famiglia della Cornovaglia".
"Caduta
in disgrazia!" - la bloccò lui.
"Ma
pur sempre nobile..." - rispose lei – "E se parlate a me
di regole e di come gira da sempre il mondo, dovreste sapere anche
voi che il passato sulle casate nobiliari, conta molto anche se il
presente è poco florido".
Adderly
parve punto sul vivo da quel suo rispondergli a tono e assunse
un'espressione di sfida e di malcelato disappunto. "Un arrogante
resta arrogante, soprattutto quando si trova a contatto con mondi e
persone non di sua competenza. E ho intenzione di rimetterlo al suo
posto, domattina..." - concluse, lisciandosi i guanti di pelle
che aveva sulle mani.
"Cosa?".
Demelza parve colta da panico...
Adderly
si stiracchiò, con la placidità di uno che sta
parlando del mercato
del bestiame. "Abbiamo avuto un piccolo diverbio su... su alcune
cose o persone... E lo risolveremo a modo nostro, come la dovrebbero
risolvere sempre gli uomini d'onore".
La
invase l'orrore, non c'era bisogno di altre spiegazioni
perché aveva
già capito a cosa lui alludesse. Un duello... Erano proibiti
dalla
legge ma tutti sapevano quanto spesso, di nascosto, le contese
fossero sanate con quel mezzo, tutti sapevano che boschi e parchi al
mattino presto, lontano da occhi indiscreti, erano luogo di scontri
fra contendenti, tutti sapevano quanto Adderly li amasse e quanto
fossero letali. Ma la cosa che la lasciava a bocca aperta era Ross...
Ross non era uno da duelli, non era uno che decideva di togliere la
vita a qualcun altro, non era come Monk. Come poteva aver accettato
una cosa simile? Cos'era successo? Come poteva essere tanto idiota e
incosciente? Aveva un figlio... dei figli... E una vita davanti, una
miniera che dipendeva da lui, un futuro tutto nuovo da costruire e
forse, in fondo alla lista, aveva anche lei da tenere in conto. "E
lui ha accettato?" - chiese, con voce metallica.
"Un
uomo accetta sempre, mia Lady. Quanto meno non è un codardo".
Demelza
lo guardò con odio mentre dentro di se il terrore la
corrodeva. "I
duelli sono proibiti dalla legge. Ripensateci".
Adderly
ridacchiò. "Avanti, sapete bene come gira il mondo e sono
sicuro che questa piacevole conversazione fra noi, resterà
appunto,
fra noi... E' un modo veloce e poco oneroso di sistemare le dispute
senza disturbare i giudici, ricordatevelo Lady Boscawen".
Si
morse il labbro, atterrita. "Poco oneroso? Una vita persa è
qualcosa di POCO oneroso, per voi?".
Adderly
alzò le spalle. "Dipende da quale vita viene persa. Alcune
vite
perse valgono tragedie, altre sono una liberazione per il mondo.
Tutto relativo, mia cara Lady Boscawen".
"Ripensateci!"
- chiese, implorò, quasi ordinò dall'alto della
sua classe sociale,
superiore a quella di Adderly. Avrebbe avuto mille modi nelle sua
mani per fermare quella follia, avrebbe potuto denunciare alle
autorità competenti i due duellanti e salvarli, avrebbe
potuto fare
mille cose e le avrebbe fatte se si fosse trattato solo di mettere
nei guai Monk. Ma c'era anche Ross in quella storia e di conseguenza,
avrebbe compromesso la serenità dei suoi figli e di
Valentine se
avesse denunciato il duello e quindi non poteva far nulla. Aveva le
mani legate... A meno che... "Devo andare, ora!" - disse,
improvvisamente ansiosa di allontanarsi da lì.
Adderly
annuì. "Sarò nelle vostre preghiere, stanotte?".
"Perché
dovreste?".
"Perché
bisogna sempre essere misericordiosi e sensibili nei confronti di un
uomo che domani potrebbe essere morto".
Lo
guardò negli occhi, lanciando scintille. "Potreste essere
felicemente vivo, domani, a quest'ora, se rinunciaste a questa
follia! Vivetevi la serata e la nottata come vostro solito,
divertitevi, tornate a casa all'alba e non pensate ai duelli... Come
dicevate prima, questa vita offre talmente tanti divertimenti, che
sarebbe uno spreco gettarla via per una questione d'onore".
Adderly
serrò la mascella. "Domani sarò vivo, Lady
Boscawen, state
serena. Forse è qualcun altro che dovrete ricordare nelle
vostre
preghiere misericordiose. E la cosa, purtroppo, sembra non
dispiacervi affatto. Imparate da che parte stare, nella vostra
posizione non potete permettervi sbagli".
Demelza
non rispose, di essere gentile ed accomodante non aveva proprio
voglia, così come non aveva voglia di dargli la
soddisfazione di
rispondergli ancora. "Buona giornata, Adderly" – disse,
freddamente.
"A
voi, mia Lady".
Demelza
non aggiunse altro. Si voltò e a grandi falcate
uscì dal parco. Era
terrorizzata ed arrabbiata e purtroppo esisteva un solo modo per
fermare quella follia senza far intervenire terzi e creare uno
scandalo. E così, velocemente, si avviò verso
Westminster. Le
sedute del mattino iniziavano alle dieci, conosceva bene quegli orari
che erano la consuetudine di Falmouth. E lì avrebbe trovato
Ross. Se
non era riuscita a convincere Monk, almeno poteva tentare con lui.
Ross non era uno da duelli e anche se orgoglioso e testardo, forse
l'avrebbe ascoltata e si sarebbe fatto guidare da lei e dal suo buon
senso. Non poteva farlo, dannazione! C'erano Valentine, Jeremy e
Clowance in gioco, non era solo una questione di orgoglio ferito da
sanare o di leggi da rispettare! Ross doveva capirlo e sapeva che il
suo cuore lo avrebbe recepito, se lei gli avesse posto la questione
nei giusti termini. E se non lo avesse capito... forse lo avrebbe
preso a schiaffi!
...
Quando
vide Ross, la maggior parte dei parlamentari era già entrata
in
Parlamento e lui sembrava piuttosto frettoloso e decisamente in
ritardo.
Lo
aspettò a pochi metri dall'ingresso di Westminste,
appoggiata a una
pianta, lo vide attraversare la strada senza quasi guardare se
arrivassero carrozze e quando lui si accorse della sua presenza, si
bloccò spalancando gli occhi. "Demelza?".
Lei
annuì, salutandolo seria e con un impercettibile cenno del
capo.
Sembrava stupito di vederla, non si incontravano da parecchie
settimane, da quando gli aveva dato appuntamento al suo cottage per
parlare dei bambini e ora doveva essere un pò confuso dal
fatto che
lei si trovasse lì. "Sei in ritardo" – gli disse,
gelida.
Ross
la guardò con circospezione, forse indeciso su cosa dire e
come
dirlo. "Ecco... Stamattina Valentine e i Gimlet son partiti per
passare alcuni giorni fuori città, in campagna. E ho
ritardato per
salutarli e aiutare a caricare in carrozza i bagagli".
Demelza
annuì. Ottimo, quel cretino aveva organizzato tutto
affinché fosse
solo e senza intoppi per partecipare al duello. Lo avrebbe strozzato
in quel momento! "E tu? Come mai non vai con loro?".
Ross
guardò il Parlamento. "Devo lavorare".
"Mancare
a una seduta non manderà in malora il sistema".
"Ma
volevo esserci... Oggi".
Demelza
gli si avvicinò di alcuni passi, lo prese per il braccio e
senza
dire nulla, come una furia, lo costrinse a seguirla e lo
trascinò in
un vicolo appartato per parlargli senza essere osservati da occhi
indiscreti. "Oggi? Oggi o domattina, DEVI essere quì?".
Ross
per un attimo la fissò un pò smarrito ma poi si
oscurò, come
capendo a cosa alludesse. "Come lo sai?" - chiese, senza
girarci troppo attorno.
"La
colpa è tua, ti scegli degli sfidanti con la lingua troppo
lunga,
che amano pavoneggiarsi in giro con la presunzione di non venir
puniti dalla legge, anche se la infrangono".
Ross
serrò la mascella, nervoso. "Non sono affari tuoi, stanne
fuori!".
Era
troppo, se Ross voleva essere picchiato, picchiato FORTE, quello era
un buon modo per ottenere quel trattamento. "Ross, non fare
stupidaggini! Un duello? Con Adderly? E' dannatamente proibito dalla
legge e lo sai! E da quando ami cose del genere? Sei sempre stato
contrario ai duelli, da quando hai cambiato idea?".
Ross
voltò impercettibilmente il viso. "Sono ancora contrario ma
certe cose... Certe cose non possono essere perdonate!".
"Quali
cose? Cos'avrà mai fatto Adderly di tanto grave? E' odioso,
un
pallone gonfiato arrogante, un viscido, un verme... Te lo avevo
già
detto, ti avevo avvertito di stargli lontano e di non raccogliere le
sue provocazioni, ma tu non ascolti! Non ascolti mai quando qualcuno
ti da un consiglio! Dannazione Ross, quando cambierai?".
Ross
sussultò a quelle parole e poi abbassò il capo,
sintomo che erano
andate a segno. "Forse mai, sono nato arrogante e morirò
arrogante... Sono così e in fondo una volta mi amavi anche
per
questo".
Demelza
sospirò. Santo cielo, non voleva dire nulla più
del dovuto, non
voleva lasciarsi andare ai sentimenti, non voleva esporsi e non era
pronta per farlo, voleva solo che rinunciasse a quella follia! "Ross,
sai che apprezzo molti lati del tuo carattere anche ora... Anche
quando sei dannatamente arrogante, se ce n'è motivo".
"C'è
motivo, per questo!".
"Quale?
Cosa ti ha fatto Adderly?".
Ross
volse il capo. "Ha detto cose... difficilmente perdonabili...".
"Su
di te? Su Valentine?".
"No".
Lo
guardò, cercò di capire cosa ci fosse sotto, cosa
lo avesse fatto
arrabbiare tanto ma non trovò nessuna risposta. Politica?
No, Ross
non avrebbe accettato un duello per divergenza di idee... Affari
comuni? No, non ne avevano... E quindi? Ci pensò su e quel
silenzio,
unito alle allusioni di poco prima di Adderly su quanto successo al
discorso di Pitt, le fecero gelare il sangue. E se la causa del
contendere fosse stata lei? Sapeva bene quali fossero le mire di Monk
su di lei e sapeva anche che al ballo d'autunno era stata causa di
controversia fra i due, ma era convinta che quel testone avesse
imparato a non farsi provocare di nuovo, sul medesimo argomento.
"Ross... Se è per me, per qualcosa che Adderly ha detto di
me,
per quanto sgradevole possa essere, tu non devi farlo".
Lui
spalancò gli occhi, sorpreso da quelle parole. "Ti ho detto
che
questa faccenda non ti riguarda! Torna a casa!".
Colpito
e affondato! Se Ross reagiva così, se era così
evasivo, era perché
lei aveva fatto centro. "Ross, NON ti perdonerò MAI se
partecipi a un duello per me! E ti odierò per sempre se
morirai per
questo".
Ross
impallidì, davanti alla rabbia e alla serietà di
quelle parole. "Tu
non hai idea di che persona lui sia...".
Lei
scosse la testa, esasperata. Perché la sottovalutava?
Perché non
voleva capire che lei conosceva quel mondo e chi lo popolava, meglio
di lui? "Io non lo conosco? Adderly? Giuda Ross, persino Hugh
non poteva sopportarlo, lui che era la persona più pacifica
del
mondo e vedeva il bello in tutto e tutti! So chi è Adderly,
so cosa
dice di me e a cosa mira e conosco anche piuttosto bene i poco
lusinghieri termini che usa di solito quando parla di una donna. E'
volgare, non ha morale, non ha rispetto per nessuno eccetto che per
se stesso... Conosco Monk, so come tenerlo a bada e so quanto sia
pericoloso! Ha molte persone sulla coscienza, è letale nei
duelli e
tutti lo sanno! Ciò che dice su di me cade nel vuoto, Ross.
Io sono
lontana da lui e dal suo mondo, se ci ho a che fare so come
difendermi e non ho bisogno che tu mi protegga! Me la so cavare
benissimo da sola".
Ross
picchiò nervosamente un sassolino col piede, facendolo
rimbalzare
contro il muro di una casa. "Lo so che sai cavartela ma resta il
fatto che certe cose, io non posso tollerarle!".
"DEVI
tollerarle! Ross, hai pensato alle conseguenze di un duello? Se ti va
male, che ne sarà di Valentine?".
Lui
sospirò. "Ci sono i Gimlet. Sono stati per lui genitori
migliori di quanto potrò mai essere io. Starà
bene. Gli lascio una
casa, una miniera attiva, denaro e una posizione sociale a Londra.
Avrà un futuro spianato davanti, molto meno tortuoso di
quello che
ho avuto io".
Avvertì
la nota di incertezza e preoccupazione per il figlio nella sua voce,
ma anche la determinazione a proseguire in quel folle intento.
Demelza lo prese per le braccia, lo scosse, tentò di farlo
ragionare. "Ross, sei tu suo padre! Non ha più una madre,
sarebbe solo al mondo con dei servi! Ha bisogno di te e ti
odierà se
morirai a causa di uno stupido duello, appena sarà
abbastanza grande
per capire! Giuda, vuoi essere padre, vuoi esserlo per Jeremy e
Clowance ma come posso crederti? Come posso farlo se per tuo figlio,
il tuo UNICO figlio legittimo, non sei disposto a lasciar da parte
il tuo orgoglio?".
Gli
occhi di Ross divennero lucidi ed era evidente che quelle parole lo
stavano ferendo nel suo intimo più profondo. "Jeremy e
Clowance
non ne vogliono sapere di me. E Valentine starà molto meglio
coi
Gimlet rispetto a com'è stato fin'ora assieme a me".
"CHE
DIAVOLO DICI?". Giuda, lo avrebbe picchiato davvero! Non poteva
pensarlo, non poteva permettergli di pensare una cosa del genere! Non
Ross! Ross era testardo, irascibile, sconsiderato a volte! Ma mai si
era sentito inutile per le persone che amava e sempre aveva lottato
per il bene degli altri. Era un narcisista a volte ed era pure
irritante se ci si metteva! Ed ora quel lato del suo carattere che
forse aveva mitigato con gli anni, assieme a tante sue certezze che
erano cadute, sarebbe stato dannatamente utile per farlo desistere e
fargli riacquistare fiducia in se stesso e nel futuro! Non poteva
permettere che quel momento buio lo spingesse a gettare via la sua
vita tanto stupidamente. "Ross, Valentine ti adora! L'ho visto a
Natale, com'è contento quando gli dai retta. E Jeremy e
Clowance
hanno bisogno di tempo, forse molto, ma ora sanno che ci sei e che
quando saranno pronti per te, SE saranno pronti, potranno trovarti e
ritrovare in te un padre. Se li ami, devi dimostrar loro che saprai
aspettarli anche per sempre, senza fuggire e senza aspettarti nulla
in cambio. Hai sconvolto le nostre vite tornando, hai fatto in modo
che i miei gemellini si affezionassero a te e ora vuoi di nuovo
mettere davanti a tutto TE STESSO? Non puoi rinunciare, per loro, per
Valentine...". Non disse il suo nome, non voleva esporsi ma
sperava che Ross capisse che si stava riferendo anche a se stessa.
Non voleva che gli succedesse qualcosa di grave, anche se era
arrabbiata da morire in quel momento, con lui! Non voleva e non era
capace di dirglielo... E i bambini erano già di per se una
motivazione più che sufficiente per rinunciare a quella
follia.
Lui
parve infinitamente stanco davanti a quelle parole che lo avevano
investito come un fiume in piena. Si distaccò
dall'atteggiamento
fiero di poco prima e con un sospiro, si appoggiò al muro
con la
schiena. "Sai come funziona, no? Se uno ti lancia un duello e tu
sei un uomo, lo accetti. Come hai detto prima, conosci bene questo
folle ambiente dove viviamo".
"Hai
paura di essere ritenuto un codardo? E' questo che temi?".
"Sai
che non è questo che mi importa...".
Lo
riprese per le spalle. "E allora, rinuncia!".
"Non
posso...".
Scosse
la testa, esasperata. "Ross, ti supplico...".
Le
sorrise, dolcemente, accarezzandole i capelli. "Torna a casa,
dai bambini. Gioca con loro, ridi con loro e non pensare a questa
faccenda. Hai la tua vita, la vivrai serenamente e se un giorno i
bambini ti chiedessero di me, digli che ho fatto molti sbagli ma che
li ho amati. Li ho amati come nessun altro potrà mai fare. E
se...".
"Se?".
"Se
non dovessimo rivederci... Chiedi scusa per me a Daisy per non essere
stato di parola".
Lo
guardò senza capire, atterrita da quello che sembrava un
addio. "Di
che parli?".
"Daisy
lo sa...".
Le
sue mani si strinsero attorno ai polsi di quell'uomo che dannazione,
era e sarebbe sempre stato il suo tormento! "Ross, c'è
qualcosa
che possa farti cambiare idea?".
Lui
non seppe rispondere. "Quel qualcosa non posso osare chiederlo".
Poi si chinò, dandole un leggero bacio sulla fronte. "Devo
andare, ora! E anche tu! Non pensare a me e a domani, pensa solo ai
tuoi figli e al vostro futuro".
Poi
si staccò da lei, le lanciò un ultimo sguardo
gentile e poi tornò
sulla strada principale, diretto a Westminster. Lasciandola atterrita
e spaventata in quel vicolo, alla disperata ricerca di una soluzione
che non era certa di poter trovare.
Non
poteva essere un addio quello, non poteva! Ma come poteva impedirlo?
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Capitolo 57 *** Capitolo cinquantasette ***
Camminò
a lungo per Londra persa nei suoi pensieri e senza la cognizione del
tempo. Si sentiva sospesa, impaurita, terrorizzata e col cuore in
gola e tutto attorno era come offuscato, opacizzato ed evanescente.
Aveva solo un pensiero in testa, quel dannatissimo duello che, nel
giro di poche ore, avrebbe potuto privare Ross della vita e Valentine
di un padre. E anche Jeremy e Clowance... E lei... Era difficile
ammetterlo anche solo a se stessa ma tutti loro avrebbero perso
qualcosa di importante e una fetta del proprio futuro, in quel
dannatissimo duello. Tutti, anche lei... Anche se non sapeva cosa
volesse, anche se non era ancora capace di ammettere i suoi
sentimenti e quanto il dolore passato l'avesse lacerata, si sentiva
persa davanti all'idea di non rivedere mai più Ross.
Non
aveva voluto rincontrarlo e riaverlo nella sua vita ma il destino
aveva di nuovo unito le loro due strade e quindi ora che senso aveva
perdersi di nuovo in modo tanto stupido? Certo, sapeva come vivere
senza di lui, lo aveva fatto per anni ed era anche stata capace di
essere serena e felice ma dentro di se, sempre, aveva cullato la
certezza che lui c'era, esisteva e viveva, anche se lontano da tutti
loro. E anche se non aveva mai voluto ammetterlo, quel pensiero era
stato una consolazione per lei. Ma ora era diverso, sarebbe scomparso
dalla sua vita per non tornare più... Dalla morte non si
torna,
nessuno può farlo e l'idea che lui fosse tanto folle da
accettare un
duello per orgoglio, tanto testardo da perseguire quell'idea e tanto
giù di morale da non ritenere così grave un esito
negativo, la
annientava e la rendeva furiosa.
Non
voleva che lui morisse! Non voleva un mondo senza Ross da qualche
parte! Ma come poteva fare? Cosa poteva dire? Qual'era la strada
giusta per fermare quella follia?
Camminò
ancora e poi ancora, non sentì nemmeno le campane del
mezzogiorno e
quando si rese conto che era ormai pomeriggio, stanca ed affamata,
decise che era inutile vagare come come una folle stupida per le vie
di Londra e si incamminò verso casa alla ricerca di una pace
che
forse avrebbe potuto suggerirle una soluzione. Inoltre era uscita da
molte ore e tutti sarebbero stati preoccupati...
E
invece...
Quando
arrivò, nessuno si era praticamente accorto della sua
assenza e in
casa era in corso una specie di dramma generale dove Prudie sbuffava
fumo dalle orecchie, Alexandra pure, Jeremy ridacchiava, Clowance
piangeva e i gemellini fingevano indifferenza seduti sul divano.
Appena
entrò nel salotto, Clowance le corse incontro in lacrime,
abbracciandola disperata. "Mammaaaaaa".
Preoccupata
e per un attimo distolta dalla faccenda-Ross, Demelza si
inginocchiò
a guardare sua figlia in viso. "Tesoro, cosa c'è?".
"Mi
distruggeranno la vita!" - sbottò la piccola in modo
teatrale,
come sempre.
"Chi?".
"I
gemelli!".
Demelza
guardò i due bimbi più piccoli che dondolavano le
gambette dal
divano, poi Jeremy che fingeva di guardare dalla finestra e infine
Prudie sulla soglia, con le mani sui fianchi e Alexandra seduta al
tavolo, pallida e nervosa, che picchiettava sulle sue gambe
accavallate il ventaglio che teneva fra le mani. "Che è
successo?".
Sua
suocera lanciò un'occhiataccia ai piccoli e poi a lei.
"Oggi,
dopo la lezione col maestro, i bambini sono andati al parco a giocare
con Demian e Daisy che erano già la assieme a Prudie.
C'erano i loro
amichetti e i gemellini hanno fatto un sacco di disastri e dispetti!
E di nuovo, una mamma è venuta quì a casa a
lamentarsi dei nostri
due piccoli selvaggi! Sono mortificata e sono morta di vergogna! Non
mi è mai capitato di sentirmi tanto in imbarazzo in vita
mia!".
Demelza
fulminò con lo sguardo i gemellini, arrabbiata. Santo cielo,
solo
una settimana prima era arrivata a lamentarsi con lei la mamma della
piccola contessina Anastasja Stelmann, dicendo che sua figlia aveva
imparato delle parolacce da Daisy. E ora che era successo di nuovo?
"Daisy? Demian?".
I
due monelli si guardarono negli occhi e con uno sguardo d'intesa
decisero che era Daisy che doveva parlare. "Io e Demian abbiamo
solo aiutato Jeremy! Siam stati bravissimi, non monelli!".
A
quelle parole Prudie ringhiò, sua suocera si alzò
dalla sedia e
ciabattando nervosamente, raggiunse la porta. "Io ho la testa
che mi scoppia, vado a letto e ci resto fino a domattina. Mi
farò
servire la cena in camera, non aspettatemi!". E detto questo,
uscì dalla stanza borbottando qualcosa di incomprensibile
fra se e
se.
Demelza
sospirò, chiedendosi perché la sua vita dovesse
essere tanto
complicata. Alexandra era una donna mite e fine e capiva appieno
quanto dovesse sentirsi frustrata per la vivacità dei
gemellini e
per tutti i disastri che combinavano, a cui dovevano comunque mettere
un freno. "Cosa vuoi dire? Che significa che avete aiutato
Jeremy?" - chiese di nuovo, a Daisy, evitando per il momento di
soffermarsi su quanto avessero ferito l'orgoglio della nonna.
E
Jeremy, che fino a quel momento sembrava divertito più che
preoccupato per le lacrime di Clowance e la rabbia di Alexandra,
ridacchiò. "C'era Lady Catherine! Ed era scatenata, voleva
baciarmi davvero oggi! Mi seguiva ovunque e allora...".
Daisy
lo interruppe. "E allora io e Demian abbiamo fatto delle palle
di fango e gliele abbiamo tirate! L'abbiamo colpita benissimo,
sempre, su tutto il vestito! Sai mamma che c'ho più mira di
te
quando fai tiro con l'arco e colpisci i piccioni invece che il
bersaglio? Non ho sbagliato neanche un lancio. Neanche Demian!
Così
poi Catherine ha lasciato in pace Jeremy! Siamo stati bravi, mamma?".
Clowance
pianse più forte fra le sue braccia. "Non avrò
più nessuna
amica per colpa loro!".
Se
la figlia piangeva, il maschio se la rideva e Demelza era vicinissima
ad esplodere. "JE-RE-MY!!!".
"Cosa?"
- chiese il bimbo, sussultando.
Punto
primo, da chiarire. "Hai dieci anni e mezzo e non hai bisogno
che i gemelli ti difendano! Se non vuoi la compagnia di Catherine,
glielo devi dire chiaramente! Con gentilezza ma fermezza! E avresti
dovuto impedire ai bimbi di lanciare palle di fango!".
"Ma
mamma! Mica gliel'ho chiesto io! Però sono stati utili..." -
concluse Jeremy, ironicamente e sempre più divertito.
"Allora
è colpa di Jeremy?" - chiese Demian, con la sua migliore
faccia
di tolla.
E
Demelza si voltò verso di lui e la sua gemella. Punto
secondo da
chiarire, ce n'era OVVIAMENTE anche per loro. "Bambini, voi
dovete imparare a fare i bravi e a non lanciare NIENTE! Niente
minestre, niente palle di fango, niente soprammobili! NIENTE! E siete
in castigo, niente parco per due settimane, starete in casa ed
aiuterete i domestici a sistemare la casa e le vostre stanze!".
"Ma
non ho fatto niente!" - rispose Daisy, a tono.
"Lanciare
palle di fango non è NIENTE! Devi essere gentile e buona con
le
altre persone".
Daisy
la guardò con aria di sfida. "Ma mamma, io sono buona e
gentile! Sono buona e gentile con quelli che devono restare e lancio
le palle di fango a chi deve andare via!".
Demian
balzò in piedi, come colto da una improvvisa ispirazione.
"Sì,
vero! Noi difendiamo quelli che hanno bisogno! Jeremy aveva bisogno e
noi facciamo così ad aiutarlo. Voleva baciarlo, mamma! Che
schifo!".
Lo
fissò, indecisa se ridere o essere arrabbiata. "Tu mi dai un
sacco di baci di sera. E non ti fa schifo e non ne fa a me. Mi fa
piacere" – gli fece osservare.
Il
piccolo annuì. "Certo! Ma io sono bello!" -
obiettò, con
la sua proverbiale ed incredibile faccia tosta.
"Demian...".
Demelza guardò suo figlio, quel bambino consapevole di
essere
bellissimo e che poteva essere il più dolce del mondo e il
più
pestifero dell'universo. "Tiri palle di fango? Questa è la
tua
soluzione ai problemi?" - chiese, domandandosi anche se poco
prima, parlando di chi deve restare e chi deve andare, Daisy si
stesse riferendo anche a Ross. Giuda, doveva fermare quel dannato
duello e tutto le era contro!
All'oscuro
dei suoi pensieri, Demian annuì. "Sì! E se arriva
uno cattivo,
cattivo...".
"Cosa
fai?".
Lui
si mise la manine sui fianchi. "Lo sfido a duello!" -
esclamò, imitando poi col braccio il movimento di affondo
che si fa
con la spada.
E
no, era troppo! Cos'era, una congiura? E dopo quelle parole, Demelza
tornò alla causa di tutte le sue preoccupazioni, Ross, a cui
Demian
aveva aggiunto il carico da novanta! Probabilmente si erano tutti
messi d'accordo per farla impazzire, non c'era altra spiegazione! O
usciva di lì o dava fuori di matto, stavolta ci era
vicinissima! Si
alzò di scatto, accarezzò i capelli di Clowance
per consolarla,
lanciò un'occhiataccia a Jeremy e ai gemelli e poi
uscì,
oltrepassando Prudie e sbattendo la porta. "Mi metto un pò a
letto pure io! Credo di avere mal di testa a questo punto. Prudie,
pensaci tu...".
La
serva la guardò preoccupata ma non disse nulla, limitandosi
ad
annuire. Però la conosceva e dal suo sguardo era evidente
che aveva
capito che qualcosa di ben più grave stava attentando alla
stabilità
dei nervi della sua padrona. Annuì, chiuse la porta e
allontanandosi, Demelza la sentì fare una ramanzina
colossale ai
suoi figli, condita da parecchie parolacce corniche. Fantastico,
c'erano parole nuove che Daisy poteva insegnare ai bambini al parco e
tutto questo si sarebbe tradotto in ulteriori guai. Sarebbero stati
banditi da Kensington prima o poi, se lo sentiva.
E
con quel pensiero poco felice raggiunse la sua stanza sprofondando
nel letto e maledicendo l'orgoglio di Ross, i duelli, Adderly e chi
l'aveva messo al mondo, Chaterine che poteva innamorarsi di qualcun
altro e le palle di fango.
...
Nella
camera regnava il silenzio, rotto solo dal pendolo dell'orologio che
batteva incessante lo scorrere dei secondi. Toc, toc... Il tempo
correva veloce e l'alba sarebbe arrivata fin troppo presto senza che
lei trovasse una soluzione a quell'imminente disastro.
Si
sentiva stanca, infinitamente. La sua mente era vuota o forse era
troppo piena di pensieri per essere coerente. Cosa doveva fare? Come
doveva muoversi? E perché si sentiva così sfinita?
Quasi
senza accorgersene e inconsapevole del motivo, una lacrima le
scivolò
giù dalla guancia. E dopo quella lacrima, ne giunsero tante
altre e
lei si trovò nel letto a singhiozzare e a bagnare il suo
cuscino,
abbracciata a Garrick che le leccava il viso proprio come faceva
quando era bambina e frignava per le cinghiate ricevute da suo padre.
Santo
cielo, era disperata! Ma per cosa? Per i gemellini, che forse davvero
avevano bisogno di un tutore svizzero? Per il fatto che presto
avrebbe dovuto chiedere scusa per qualcosa a tutte le mamme dei
bambini che frequentavano il parco dietro casa? O forse era per Ross
e quel dannato duello? Giuda, perché doveva sentire tutto
quel peso
sulle sue spalle, sempre da sola? Perché Ross non capiva che
non era
una cosa che riguardava solo lui? Perché non capiva che la
sua
presenza, nonostante tutto, sarebbe stata importante per Jeremy e
Clowance? Perché? Perché?
La
porta si aprì e qualcuno entrò e quando si
accorse di non essere
sola, balzò sul letto asciugandosi il viso. E con sorpresa
si trovò
davanti Prudie, giunta stranamente col passo felpato di un gatto.
"Cosa ci fai quì?".
La
serva la guardò con preoccupazione, poi si sedette accanto a
lei sul
letto. "Ero preoccupata, ragazza. Cosa c'è? Quando tu
piangi,
io mi preoccupo".
Lei
voltò lo sguardo. "I bambini... Mi faranno impazzire".
"Non
piangi per i bambini. Non raccontare frottole alla vecchia Prudie che
ti conosce da quando eri tu stessa una mocciosa selvaggia e piena di
pidocchi in testa!".
Demelza
singhiozzò. "Io non avevo i pidocchi!".
"Come
no...". Prudie la guardò storto. "Che succede? Davvero,
intendo".
Demelza
sospirò, chiedendosi perché tergiversasse tanto.
Prudie era forse
l'unica che potesse capirla e con cui potesse parlare con
sincerità
di quello che stava succedendo. Lei era stata da sempre la
più
fedele confidente circa quel dannatissimo idiota di suo marito, che
entrambe conoscevano come le proprie tasche. "Si tratta di
Ross".
La
serva sbuffò rumorosamente, aprendo le braccia in segno di
stizza.
"Che ha combinato di nuovo?".
Deglutì.
"Domattina, all'alba, avrà un duello all'ultimo sangue con
Adderly. Fra poche ore potrebbe essere morto".
Prudie
la guardò con orrore. "Giuda! Ma è davvero tanto
cretino?".
"Probabilmente...
Anche se credo che le motivazioni che lo spingono a farlo, siano un
tantino più complesse. Ma il risultato non cambia, sta per
andare a
farsi ammazzare".
Prudie
le prese le mani, stringendole convulsamente. Era spaventata ed era
evidente quanto fosse sconvolta anche lei, che Ross lo aveva visto
crescere. "Devi fermarlo!".
"Credi
che non ci abbia provato?".
"Ritenta!".
Demelza
scosse la testa, esasperata. "Gli ho detto qualsiasi cosa utile
a farlo desistere. Che ha un figlio che lascerebbe solo, che
è
proibito dalla legge, che Adderly è famoso per i duelli
vinti, che
non ne vale la pena e che Jeremy e Clowance si sentiranno abbandonati
di nuovo da lui, se muore. Ma vuole farlo lo stesso e io credo che
nulla possa fargli cambiare idea" – disse con foga e voce
rotta.
Prudie
impallidì, poi inaspettatamente le sorrise, accarezzandole
la
guancia. "Ragazza, deve esserci un modo e solo tu puoi averlo
fra le mani. Se gli hai detto quelle cose, hai detto il giusto!
Dovrebbe rinunciare anche solo per amore di quella povera creatura
che è nata da quella notte maledetta. Ma non basta, non a
lui... Lui
vuole una speranza. Forse se ne avesse una, amerebbe di più
la vita
e meno il suo dannatissimo orgoglio".
Demelza
abbassò lo sguardo. "Speranza? Di cosa parli?".
"Lo
sai bene...".
"Io
non posso dargli nessuna speranza, Prudie... Non so nemmeno cosa
voglio per me stessa, non so gestire nulla, non so cosa desidero e
non so nemmeno insegnare ai miei figli a non lanciare palle di fango
al parco! Che speranza potrei dargli?".
Prudie
sospirò, accarezzandole la mano. "La stessa speranza che
vuoi
anche tu".
"Come
puoi sapere cosa voglio, se non lo so nemmeno io?".
Prudie
si alzò dal letto, accarezzandole frettolosamente i capelli.
"Non
si diventa vecchi senza imparare niente! Segui di più il tuo
cuore e
di meno la tua mente. Cosa vuole il tuo cuore?".
"Non
lo so... Non voglio nemmeno saperlo, forse. Resto e rimarrò
sempre e
comunque la moglie di Hugh e qualsiasi cosa possa desiderare, la devo
accantonare".
Prudie
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. "Hugh è morto
da quattro
anni! E dubito che desiderasse che tu vivessi da suora per tutta la
vita in suo ricordo".
Demelza
la guardò, mordendosi il labbro. "Prudie, nella mia
posizione,
quello che mi suggerisci di fare non è realizzabile.
C'è la
famiglia Boscawen, ci sono i bambini e c'è il passato mio e
di Ross
che mi ha quasi uccisa, coi miei figli. Come puoi desiderare che
io... che Ross... Dannazione era colei che più voleva il
matrimonio
fra me e Hugh!".
Prudie
scosse la testa. "Lo volevo, sì! Allora era la cosa giusta
da
fare per tutti! Ma ragazza, se il duello è domani,
è tempo che tu
superi le tue paure e accetti che le cose sono cambiate, che voi
siete cambiati e che la vita deve andare avanti. Decidi cosa vuoi,
decidilo in fretta e agisci! Oppure aspetta e preparati ad affrontare
le consueguenze del duello, quali esse siano! Decidi se vuoi tentare
tutto per lui o se hai troppo paura di esporti... Tu puoi salvare
Ross, solo tu! E sempre e solo tu, col tuo silenzio, puoi spingerlo
ad armare la sua mano".
"Prudie...".
La
donna sbuffò, decisa a non dire altro. "Torno dai mocciosi!
Li
ho messi a lucidare l'argenteria della sala degli arazzi! Ne avranno
per mesi".
"Prudie...".
La
serva non rispose, lasciandola sola coi suoi pensieri ancora
più
confusi di poco prima. Uscì dalla stanza, chiuse la porta e
Demelza
sprofondò fra i cuscini, tornando ad abbracciare Garrick
come quando
era una bambina. Prudie aveva ragione, per tanto aveva rimosso e
occultato cosa sentiva. Cosa voleva... Ma ora non c'era tempo e
davvero, forse, avrebbe dovuto trovare il coraggio per dire a Ross le
parole che non era riuscita a dire poco prima, a Westminster. Era
vero, gli aveva dato tanti buoni motivi per vivere. Ma non quello che
lui voleva sentirsi dire!
...
Non
chiuse occhio quella notte, mentre ancora e poi ancora l'orologio
batteva i suoi tocchi inesorabilmente. Come avrebbe potuto dormire,
dopo tutto? Come poteva quando ogni cosa avrebbe potuto cambiare e
finire, per l'ennesima volta?
Fuori
un forte vento primaverile scuoteva le piante del giardino e a letto
non trovava pace. La sera prima aveva detto a Demian, per castigo,
che avrebbe dovuto dormire dall'altro lato del materasso senza
toccarla ma lui, dopo aver fatto finta di farlo, pian piano nel sonno
– e probabilmente anche da sveglio, ma non aveva voluto
indagare –
era rotolato fino a lei. E ora dormiva rannicchiato contro il suo
ventre come un koala e lei non aveva animo di allontanarlo.
Lo
guardò nella penombra, soffermandosi sui suoi capelli biondi
come il
grano sparsi sul cuscino. E ricordò Hugh, altrettanto bello
ed
affascinante, quando dormiva accanto a lei cingendole la vita con le
braccia, disegnando coi suoi capelli biondi disegni sul cuscino
proprio come ora faceva Demian.
La
figura di Demian e quella di Hugh si fondevano davanti ai suoi occhi,
in quel momento. E quei capelli sparsi sul cuscino erano tanto simili
a quelli di Hugh da sembrarle un tutt'uno nel buio della notte. Si
somigliavano... Demian da grande le avrebbe ricordato incredibilmente
Hugh e a lei sarebbe battuto forte il cuore ad ogni sguardo su di
lui.
Da
quando era morto, lei era sempre stata la fedele moglie di Hugh. Mai
aveva pensato ad altri uomini, mai si era fatta tentare dai numerosi
corteggiatori più o meno innamorati di lei o del suo
patrimonio, che
avevano bussato alla sua porta... Ma ora...? Ora era diverso, ora era
ad un bivio e forse Prudie aveva ragione, doveva scegliere. Hugh era
morto e mai gli aveva chiesto di vivere il resto della sua vita
votata al suo ricordo, anzi, le aveva domandato come ultimo
desiderio, di essere felice coi bambini. E se continuava a rimanare
lì a rimuginare, l'alba sarebbe inesorabilmente arrivata,
col suo
carico di tragedia! E lei sarebbe stata tutt'altro che felice,
decisamente!
Doveva
scegliere, doveva decidere se era disposta a fare qualsiasi cosa per
fermare Ross da quella follia o se rimanere ferma ad aspettare, per
poi accettare il verdetto deciso dal duello e dal destino. Non era
una sciocca, conosceva Ross e sapeva bene cosa lui volesse! E forse
non sarebbero bastate mille sagge parole a fermarlo... Forse ci
sarebbe voluto dell'altro e doveva trovare il coraggio di darglielo.
Non era pronta a fare promesse, a riaprirgli il suo cuore, non poteva
dargli TUTTO quello che lui desiderava, non ancora almeno. Era una
resa ai suoi sentimenti solo a metà... C'erano troppe cose
da
sistemare, capire, accettare e discutere, ancora. Ma qualcosa doveva
dargli e se quel qualcosa era una speranza che spingesse entrambi a
credere nel futuro, doveva tentare. Ci voleva coraggio, era un nuovo
salto nel vuoto quello, ma doveva farlo!
Si
rese conto che in quel momento, si sentiva proprio come la Demelza di
tanti anni prima, quella che con indosso l'abito azzurro della madre
di Ross, era andata a sedurlo nella sua stanza per non perderlo per
sempre. Ora era nella medesima situazione e si sentiva allo stesso
modo! Ora era come quella sera lontana a Nampara, con la differenza
che era la vita di Ross ad essere in pericolo, non la sua! E come
allora, decise che doveva e voleva essere coraggiosa e che quanto
c'era in ballo era importante e valeva la pena lottare per salvarlo.
Accarezzò
piano il cuscino dove un tempo dormiva Hugh, baciò la fede
che
teneva al dito e poi per un attimo si nascose sotto le coperte,
stringendosi a Demian. Aveva bisogno di un attimo di coraggio e di un
momento per perdonare se stessa e la moglie di Hugh che era stata...
Doveva abbandonare quel ruolo, quella notte! Ed essere solo Demelza
Poldark, quella Demelza Poldark capace di parlare col cuore, capire e
farsi ascoltare da quel testardo di Ross. Prudie aveva ragione, solo
lei poteva farlo. "Perdonami Hugh... Perdonami se dovrò...
dovrò fare... quello che probabilmente sarà
inevitabile. Perdonami
per questo e per il fatto che, dannazione, credo anche di
desiderarlo...".
E
poi si alzò dal letto, decisa.
Silenziosamente
si mise un semplice abito verde, si coprì col cappotto di
Ross che
ancora non aveva restituito e poi, dopo aver avvolto Demian in una
coperta e averlo preso in braccio, si diresse da Prudie col bambino.
Bussò
e quando la serva, mezza assonnata, comparve sull'uscio, senza dire
troppo gli mise Demian fra le braccia. "Devo uscire, tienilo con
te".
Prudie
non chiese spiegazioni, annuì e basta prendendo il piccolo.
"Hai
deciso, allora...".
"Sì,
ho deciso. Non credo di tornare per colazione, non so nemmeno quanto
starò fuori. Dì a tutti che avevo un impegno
urgente e che sono
dovuta uscire presto, inventati una scusa e non spiegare troppo".
Prudie
annuì. "Spero che ritarderai quanto serve. Se torni tardi,
significa che è andata bene".
Demelza
non era ancora così ottimista, non lo era affatto. Ross non
avrebbe
rinunciato per lei a un duello ma sperava che per amor proprio,
potesse capire che avrebbe potuto continuare a vivere per se stesso,
per lui e poi si, anche per i bambini. E per lei... Era pronta a
mettere anche se stessa in quella lista di buoni motivi per andare
avanti. Doveva solo dirglielo...
E
con un bacio alla testolina di Demian, si congedò da loro e
dalla
casa.
Uscì,
nel freddo primaverile del primo mattino, col maggiordomo di casa che
la guardava accigliato senza osare chiedere dove andasse. Non diede
spiegazioni, non ne doveva a nessuno se non a se stessa.
E
a passo spedito si diresse verso la casa di Ross col cuore in gola e
la paura di non fare in tempo.
...
Bussò,
con forza, facendo rimbombare il tocco delle sue nocche sul legno
della porta. Aveva il terrore che fosse già uscito e di
essere
arrivata troppo tardi e grande su il sospiro di sollievo che fece
quando Ross, già vestito, venne ad aprire la porta,
rimanendo poi
impalato a guardarla, sorpreso. “Che
ci fai qui? E'
l'alba, è successo
qualcosa ai bambini?”.
Lo
sguardo sconcertato
e il tono di voce sospettoso di Ross la irritarono. Beh, forse
era normale e probabilmente era l'ultima persona al mondo che pensava
di trovare davanti a casa sua alle cinque del mattino
e presentarsi a casa sua a
sorpresa, spezzando la tensione di un duello imminente,
poteva effettivamente essere irritante, ma andare da lui era stata la
scelta più irrazionale e allo stesso tempo sensata che
avesse mai
preso. “Se fosse successo qualcosa ai bambini, non verrei a
dirlo a
te. Se
stessero male, lo direi a Dwight”.
“E
allora che ci fai qui?”.
Demelza
lo fissò, era già vestito e pronto per andare a
quel dannato
duello. “Dov'è Valentine? E'
ancora in campagna?”.
“Certo.
Ci starà un paio di giorni coi Gimlet.
Giusto il tempo di sbrigare questa scocciatura con Adderly”.
L'irritazione
la travolse e con un gesto secco lo spinse all'indietro, rimandandolo
oltre
la
porta. Stava
facendo il duro e lo sprezzante, stava cercando di apparire gelido
perché lei non lo mettesse all'angolo ma Demelza sapeva che
aveva
paura e che era pieno di dubbi e aveva poco tempo per approfittarne.
“Dobbiamo parlare, Ross”.
“No,
non dobbiamo, non
su questo! Non
lo abbiamo già fatto ieri?”.
Santo
cielo, era esasperata, perché doveva essere sempre tutto
così
difficile con lui? Ross era rabbioso, astioso, sfuggente. Talvolta
aggressivo ma in certi frangenti dolce e malinconico, ferito. E
tenero, come quando l'aveva baciata a casa sua, dopo averle salvato
la vita... Se
in quel momento si fosse comportato dolcemente come quella sera,
sarebbe stato tutto molto più semplice ma Ross non era un
uomo
semplice e forse lui aveva ragione, se n'era innamorata anche per
questo. “Non
voglio che tu ti batta con Monk. Non
per orgoglio e non per me!”.
Lui
la guardò di sfuggita, avvicinandosi alla porta e
chiudendola con un
tonfo. “Sta serena, non mi batto per te! Mi batto per ME, lo
odio!
Così va
meglio?”.
No,
non andava meglio e stava mentendo! Non sapeva cosa lo avesse fatto
infuriare tanto, non sapeva cosa Monk potesse aver detto di tanto
grave, ma qualunque cosa fosse, non avrebbe MAI giustificato un
duello. “Monk
Adderly ha già ucciso parecchie persone a duello,
Ross!”.
Lui,
freddamente, la guardò negli occhi. “Non
sono cose che ti riguardano! O forse ti interessa di Adderly? Non so
che dirti a parte una cosa: fatti gli affari tuoi!”.
Demelza
sentì gli occhi inumidirsi. Come poteva essere
tanto glaciale da ferirla?
Come poteva non capire? Cosa voleva sentirsi dire, per costringerlo a
fermarsi? “Ross, a me di Adderly non importa nulla e
lo sai ma forse vuoi sentirtelo dire!
Sono qui per TE! Non voglio che tu combatta con lui”.
“Perché?”.
“Perché
no! Perché è stupido, perché hai un
figlio e se ti succedesse
qualcosa, lo lasceresti solo. Per
i mille buoni motivi che ti ho elencato ieri!”.
Lui
sorrise, senza traccia di gioia sul viso ma
forse sollevato dal sentirle dire che era lì per lui.
“Sai bene,
in quanto Lady di Londra, come funzionano i duelli e
conosci benissimo pure tu le regole del gioco! Sei o non sei Lady
Boscawen? Le
dovresti sapere queste cose, sai
che non si può tornare indietro...
E comunque sta tranquilla, non ho alcuna intenzione di lasciare
orfano Valentine”.
Demelza
strinse i pugni, nervosa. Certo, sapeva che non ci si poteva tirare
indietro da un duello, sapeva che una cosa del genere poteva
compromettere per sempre la reputazione di qualcuno eppure giudicava
Ross superiore a questo genere di cose e sapeva che lui, se lo avesse
voluto, si sarebbe potuto tirare indietro senza alcun rimorso.
“Ross,
ti prego...”.
“Perché
sei qui, Demelza? Che ti importa di cosa faccio?”.
Già,
bella domanda! Di che gli importava? Eppure era lì, non
sapeva
perché ma non aveva chiuso occhio e l'istinto l'aveva spinta
a
correre da lui. Istinto...
O le parole di Prudie... O la consapevolezza che non poteva
più
nascondere a se stessa i suoi sentimenti...
“Non rovinarti la vita per Monk... Non ne vale la pena,
Ross”.
“Perché
sei qui?” - chiese lui, di nuovo.
Lei
si morse il labbro, mentre le sue braccia tremavano. “Non lo
so...
Sono qui e basta, non riesco a risponderti adesso. Voglio solo che tu
non vada da Monk. Per
te stesso, per Valentine, per i bambini. Anche per i gemelli,
sì!
Dannazione Ross, hai fatto in modo che i miei gemellini si
affezionassero a te e ora non puoi sparire così, in modo
tanto
stupido, dalle loro vite. Pensa a Daisy... Ho sempre avuto tanti
problemi con lei ma tu mi hai aiutata a capirla meglio. L'ho sempre
considerata la più pestifera e tremenda fra i miei figli e
invece tu
mi hai aiutato a capire che è sempre stata la più
generosa e la più
altruista verso chi ama. Ha bisogno d'amore come gli altri, a modo
suo, ma se n'è sempre stata in disparte per lasciarmi ai
suoi
fratelli che avevano più bisogno di me. Non ha mai chiesto
nulla per
se stessa, si è sempre arrangiata da sola. Tu sei l'unico,
il primo,
che lei ha avuto. E ha voluto solo per se... Mi chiede sempre quando
verrai, soprattutto ora che sa la verità su chi sei... Ti
aspetta lo
stesso, ti ha scelto e anche se non so il perché, a me va
bene”.
Ross
le sorrise dolcemente. “Hai quattro bambini fantastici e
Daisy è
uno splendido, piccolo esemplare indipendente e libero di essere
umano. I tuoi gemellini diventeranno delle belle persone da grandi,
proprio come Jeremy e Clowance. Non hai bisogno di me per crescerli,
sai farlo benissimo e lo hai sempre dimostrato nonostante me e i miei
errori”.
Demelza
deglutì. “Jeremy e Clowance penserebbero che li
stai abbandonando
di nuovo, in questo momento...”.
Le
sfiorò la vita, la attirò a se. “Jeremy
e Clowance non vogliono saperne di me e in fondo hanno ragione. E
poi, sai che
cosa direbbero di me, se non mi presentassi al duello?”.
“Sì.
E so anche che non te ne importerebbe niente”.
Lui
sorrise, finalmente una luce nei suoi occhi. “Certo, forse
non me
ne importerebbe. Se ne avessi un buon motivo, non mi interesserebbe
niente...”.
“Un
buon motivo?” - sussurrò lei, viso a viso con lui.
“Valentine
non lo è?”.
“Chi
lo sa cosa è meglio per Valentine?”. Ross
si chinò su di lei, poggiando la fronte contro la sua.
“Dammi tu
un buon motivo, Demelza. Dammelo e io non
andrò...”.
Lo
guardò negli occhi, ora non erano più rabbiosi e
freddi ma tristi e
smarriti. Come lo erano stati i suoi, a lungo. Conosceva quegli
occhi, conosceva ogni angolo dell'anima di Ross e anche se non erano
più sposati, sapeva leggere nel suo sguardo come una volta,
come
quando era la signora Poldark. Si rese conto che lo desiderava, si
rese conto che il volerlo e cedergli era l'unico modo per tenerlo
lì,
al sicuro. Si rese conto che quel desiderio che fino a poco prima
avrebbe rifiutato con tutte le sue forze, ora gli appariva come
qualcosa di dolce e invitante. E
la sua unica speranza. La LORO unica speranza... “Sei
in casa da solo, quindi?” - sussurrò, contro le
sue labbra, mentre
Ross la fissava confuso.
“Sì,
te l'ho
detto”.
E
Demelza decise
e cedette.
Lasciò
scivolare il cappotto di Ross a terra, lo
baciò e sapeva che non si sarebbe fermata a quel bacio,
questa
volta. Lo baciò con disperazione, passione, desiderio. Lo
baciò per
tenerlo stretto a se e non lasciarselo sfuggire ancora dalle mani. Lo
baciò sapendo che era irrazionale, stupido e pericoloso e
che
avrebbe sconvolto la sua vita. Eppure stavolta decise di farlo, di
essere folle come era stata un tempo Demelza Poldark. Quella follia
che Demelza Armitage aveva forse dimenticato... Quella follia che la
faceva sentire viva e che sarebbe servita a fermarlo dal gesto
che si apprestava a compiere. “Io
potrei essere un motivo sufficiente?”.
Ross
rispose con passione a quella
domanda,
baciandola con
furore. Le sue
mani bloccarono la sua vita, la spinse contro di se e la tenne
stretta e poi, con tenerezza, gli accarezzò i capelli, il
collo, i
fianchi. Probabilmente non si aspettava un epilogo simile ma appena
si sfiorarono, si accese come fuoco, come un incendio che
fece dimenticare tutto il resto.
Raggiunsero
la camera da letto quasi senza accorgersene, con l'urgenza di
togliersi i vestiti e di amarsi come non facevano da sette lunghi
anni. “Ross” - disse lei, contro le sue labbra,
mentre le mani di
lui la spogliavano dei vestiti - “Questo è un buon
motivo?” -
chiese ancora.
Lui
le sorrise. “Questo lo è. E ho
deciso che
vale più di mille duelli”.
“Non
ho molto tempo prima che i bambini si sveglino e si accorgano che non
ci sono. Ho
avvertito che forse non tornerò per colazione, ma...”.
Lui
la spinse sul materasso, stendendosi sopra di lei. “Credo che
per
questa mattina, dovranno fare a meno di te. Ci penserà
Prudie a dar
loro la colazione. O una delle tue mille tate...”.
Santo
cielo, che stava facendo? Demelza Armitage doveva alzarsi da quel
letto e andarsene ma Demelza Poldark non sarebbe mai riuscita a
farlo, Demelza Poldark non era abbastanza forte per respingere Ross.
Aveva voluto cancellare Demelza Poldark dalla faccia della terra ma
in quel letto, fra le sue braccia, realizzò di non esserci
mai
riuscita. Era sempre esistita, nascosta dentro di lei... Decise di
essere egoista per una volta e di seguire solo il suo cuore. I suoi
bambini sarebbero stati bene, non erano soli e abbandonati a se
stessi. E lei voleva fare l'amore con lui non solo per via del duello
ma perché sapeva come riusciva a farla sentire Ross e sapeva
anche
che tutto questo gli mancava. Non lo aveva mai voluto ammettere a se
stessa ma il corpo di Ross, solo il suo, era quello che la completava
perfettamente e veramente. Chiuse gli occhi, con gesti che conosceva
a memoria gli slacciò la camicia mentre lui le toglieva gli
ultimi
indumenti. Per
un attimo si chiese come sarebbe stato e consapevolmente, immaginava
che non ci sarebbe stato spazio per la tenerezza dopo tutto quel
tempo di nulla. E non la voleva la tenerezza, non in quel momento.
Voleva qualcosa di inebriante, ubriacante, forte, veloce. Qualcosa in
grado di azzittire tutte le sue paure, tutto il resto, tutto il male
fatto e subito e quel passato che doveva prima o poi essere
archiviato.
E
con quei
pensieri, si
abbandonò all'amore con lui. Al
piacere unito al dolore di due corpi che per troppo erano rimasti
senza carezze, alla passione, al desiderio. Per anni era stata solo
una mamma e in quel momento, con Ross, tornava ad essere donna.
Al
resto ci avrebbe pensato dopo...
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Capitolo 58 *** Capitolo cinquantotto ***
"E'
tutta colpa tua...".
A
quelle parole, pronunciate da Demelza mentre il campanile rintoccava
le undici del mattino, si voltò verso di lei. Era la prima
volta che
apriva bocca da...? Da quando era arrivata oltre sei ore prima ed
erano finiti in quel letto a fare l'amore più volte. Non si
erano
parlati, non ne avevano sentito il bisogno ed era stata la passione e
il disperato bisogno di essere uno dell'altra a guidare ogni loro
azione. I loro corpi si erano capiti, fusi e ritrovati come se quei
sette anni di lonatanza non fossero mai esistiti, le loro carezze e
il modo in cui sapevano darsi piacere non era mai scemato dalle loro
menti e la completa unione fra corpo ed anima era stata appunto...
completa. Come solo fra loro poteva e sapeva essere. Ed ora, dopo una
passione talmente intensa da risultare disarmante e un piacere
intenso che avrebbero voluto durasse per sempre, se ne stavano stesi
a guardare il soffitto mentre da fuori giungevano i rumori della
Londra laboriosa che proseguiva con la sua vita frenetica. "Che
vuoi dire?".
"Che
se non fosse per te e la tua innata capacità di metterti nei
guai,
io ora sarei a casa a fare l'uncinetto con mia suocera o nel salone
degli arazzi a controllare che i gemelli lucidino, per castigo, tutto
il lucidabile".
Ross
la osservò guardingo, chiedendosi se fosse arrabbiata oppure
no. E
alla fine optò per la seconda scelta perché il
tono di Demelza non
era né rabbioso né astioso ma anzi, vagamente
sarcastico e
pungente. "Castigo?".
"Loro
sono sempre in castigo, per un motivo o per l'altro...".
Ross
sorrise, immaginando Daisy con in mano straccio e lucido, che
lavorava sotto stretta sorveglianza di Prudie... "Sottovalutate
i gemelli... Non vanno puniti, vanno sostenuti nella loro geniale e
innata indipendenza".
Demelza
lo guardò storto, mentre il lenzuolo le scivolava dal petto,
scoprendole un seno. "Resta il fatto che è colpa tua".
"Non
eri obbligata a venire quì, io non te l'ho certo chiesto".
"Ma
non mi hai mandata via!" - ribatté lei.
Ross
scosse la testa, in un certo senso incredibilmente divertito. "Non
sono così scemo!".
Forse
stanca, forse rendendosi conto che ora non poteva più
tornare
indietro e che con la risoluzione del problema-Adderly se ne aprivano
altri mille di problemi, Demelza sprofondò nel cuscino. "Non
dovrei essere quì. Non avrei mai dovuto essere
quì e tu lo sai!".
Ross
la guardò e poi le accarezzò una guancia. "Chi
può dire cosa
sia giusto o cosa sia sbagliato? O dove dovremmo essere adesso? Ci
sono... C'erano infinite possibilità, come dicevi poco fa!
Tu a
quest'ora potevi essere a casa a fare l'uncinetto o a schiavizzare
quei due angelici gemellini e io potevo essere morto in un parco. Ti
sarebbe piaciuto di più?".
Demelza
sbuffò, ora un pò più seria di quanto
non fosse poco prima. "Certo
che no... Ma questa era l'ultima cosa che volevo".
Ross
la bloccò. "Non è vero! La volevi, se sei
quì LA VOLEVI! Non
hai mai fatto nulla per forza, ti conosco bene".
Demelza
abbassò lo sguardo, arrossendo impercettibilmente. "Non
sempre
l'istinto va seguito".
"Era
istinto? L'istinto ti ha portata quì?".
Lei
sospirò, rannicchiandosi sotto le lenzuola. "Chi lo sa
cos'era... I sentimenti, in fondo, non fanno parte dell'istinto?
Nascono e maturano senza che noi facciamo nulla...".
Ross
sospirò, stiracchiandosi nel letto. "Non ce la faccio a
parlar
di filosofia di prima mattina, dopo aver fatto l'amore per tre volte
nelle ultime ore, dopo anni di nulla".
Demelza
si accigliò. "Anni di nulla? Davvero?".
Ross
la guardò negli occhi, profondamente. "Non ci credi?".
Lei
sospirò, sorridendo impercettibilmente. "Forse... Potrei
crederti...".
Calò
il silenzio a quelle parole e per un attimo uno strano senso di pace
invase entrambi, soprattutto Ross. Fu Demelza, nuovamente, a
spezzarlo. "Saresti andato davvero a quel duello, se non fossi
arrivata?".
"Sì,
ci sarei andato".
"Ed
è bastato solo che venissi quì, per farti
cambiare idea? Era a
questo che puntavi, a quanto successo fra noi?".
A
quella domanda, si voltò verso di lei, attirandola a se e
abbracciandola. Affondò il viso fra i suoi capelli e rimase
così
per alcuni istanti, senza che Demelza protestasse, come desideroso di
farle capire cosa provasse solo con quel semplice gesto una volta
tanto usuale fra loro. "Non puntavo a nulla... Nemmeno
immaginavo che saresti venuta. Non mi aspetto nulla di buono dalla
vita da molto, ma tu...".
"Io?".
"Tu
sei arrivata ed è come se improvvisamente... vedendo te...
avessi
rivisto il bello di vivere e respirare. Una speranza che tutto non
fosse finito nemmeno per una canaglia come me".
Demelza
lo guardò teneramente a quelle parole, forse desiderosa di
dargli di
più ma impossibilitata, quanto meno al momento. "Ross, io
non
posso darti speranze. Non posso darti più di questo,
più di quanto
successo stamattina... Non ora! Per me non è semplice come
per te,
ci sono tante cose che devo... dovrei... sistemare... E ho una
famiglia a cui rendere conto, a cui ho mentito su di te da sempre e
che ora, quando spiegherò la verità, potrebbe
reagire in qualsiasi
modo. E avevo un marito che mi avrebbe regalato il mondo e che mi ha
dato due figli".
Ross,
fingendo di ignorare la parte del discorso su Hugh, spalancò
gli
occhi. "Dirai la verità su di me?".
"Non
lo so, non ora... Ma poi, quando capirò COME... Non posso
chiedere
ai bambini di tenere questo segreto con il loro zio e con la nonna
troppo a lungo, non è giusto. Ho dovuto raccontare la
verità anche
ai gemelli e santo cielo, han solo quattro anni! Quanto riusciranno a
non dire nulla? Devo spiegare, spiegarmi... E togliere ai bambini il
peso di questo segreto".
Ross
annuì, sapeva che per lei tutto era molto più
complicato che per
lui e si rendeva conto che aver coinvolto i bimbi era un qualcosa di
troppo grande per loro e che andavano protetti. C'erano tante cose in
gioco. C'erano i Boscawen, la posizione di Demelza all'interno della
famiglia, il rifiuto di Jeremy e Clowance ad avere a che fare con lui
e i gemellini, figli di un altro uomo ed eredi di una grande
dinastia, che di certo Falmouth non avrebbe affidato a chiunque. E
poi c'era il loro passato, ancora tanto duro, ancora tanto presente
fra loro e di cui tanto c'era da parlare, discutere e chiarire. Ma se
per quest'ultima cosa, nessuno a parte loro poteva metterci becco,
per la prima parte del problema, voleva essere accanto a lei.
"Parleremo insieme con Falmouth, quando deciderai che è il
momento".
"Non
so se è una buona idea".
"Perché?".
"Perché
è orgoglioso, si sentirebbe messo davanti a un dato di fatto
e a una
sorta di congiura. Lo conosco, sa essere più testardo ed
orgoglioso
di te. Preferirei farlo da sola, quando deciderò...
decideremo...
che è giusto farlo".
Ross
annuì, non troppo entusiasta ma oggettivamente costretto a
sottostare a quella richiesta. "D'accordo" – disse,
fiaccamente.
"Davvero?".
"Mi
lasci scelta?".
Demelza
scosse la testa. "No, come non me ne hai lasciata tu stanotte".
Ross
sospirò, guardando il soffitto mentre le accarezzava i
capelli. "E
ora?" - chiese, domandando la cosa che più lo terrorizzava.
E
ora? Ora sarebbe tutto finito e quella notte sarebbe stata solo una
parentesi? O era l'inizio di una nuova speranza? Un nuovo inizio per
loro?
Demelza
prese un profondo respiro. "E ora non lo so... Come ti ho detto
quasi un anno fa, viviamo giorno per giorno".
Ross
la strinse a se. "Non è questo che voglio sapere! Voglio che
tu
mi dica ciò che dovremo essere io e te da oggi! Far finta di
essere
estranei, tornare a parlarci con frasi di circostanza, lontani e
insieme solo quando il caso lo decide? Tornerà tutto come
prima? Non
posso sopportarlo ancora, non dopo questa notte. Tu sei quì,
sei
rimasta, ci siamo amati e niente potrà essere come era ieri.
Non per
me".
Lei
si morse il labbro, spersa come lui, desiderosa di condividere i suoi
stessi desideri e intimorita dalle conseguenze che avrebbero potuto
venire. Aveva paura ma Ross sapeva anche che Demelza non era una
persona che davanti alle paure scappa ma anzi, resta e combatte per
affrontarle. "No, non può essere come prima" –
sussurrò,
col viso contro il suo petto.
Il
cuore di Ross accelerò. "Davvero?".
"Davvero.
Non potrei tornare indietro nemmeno se lo volessi... Venire
quì,
stare con te, ritrovarci a letto e... questo... Lo avrei dovuto
evitare! Ma come hai detto tu...". Sollevò il viso a
guardarlo,
determinata e seria... "Come hai detto tu se sono quì,
è
perché dentro di me volevo venire".
"Per
il duello?" - chiese Ross, quasi intimorito dalla risposta.
"Volevo
venire e basta" – rispose lei a chiusura del discorso,
lasciando sottointeso che il duello in fondo non era stata la causa
ma la spinta finale a un desiderio nascosto che non voleva vedere la
luce.
Ross
deglutì. "E quindi?".
Demelza
prese un profondo respiro. "E quindi non posso dirti che ciò
che avevamo tornerà perché è
impossibile. Siamo diversi, entrambi,
siamo cambiati e cresciuti e abbiamo vite separate e per certi versi
inconciliabili. Non posso dirti che tutto questo porterà a
qualcosa
di buono o che passeggeremo in giro per Londra mano nella mano... Io
resto Lady Boscawen e tu sei Ross Poldark, nuova leva del Parlamento.
Io non so cosa tu ti aspetti ma io, ORA, posso darti solo
ciò che ti
ho dato stamattina. Passione, attimi solo per noi strappati alle
nostre vite, di nascosto dal mondo. Non si può tornare
indietro a
ieri e si deve guardare avanti metro per metro, senza commettere
l'errore di guardare troppo in la. Poi si vedrà...".
Ross
spalancò gli occhi, stupito da quelle parole così
inaspettate che
mai si sarebbe aspettato da lei e indeciso se essere felice oppure
no. Credeva che la faccenda sarebbe finita così oppure che
sarebbe
stato un nuovo romantico inizio perché la Demelza di un
tempo queste
due opzioni gli avrebbe dato. Non vie di mezzo, non storie segrete
fra amanti che non sanno come andare avanti. Per un attimo, facendo
l'amore con lei, si era illuso di aver fra le braccia Demelza Poldark
e in un certo senso era così. Ma ora in lei viveva anche
Lady
Boscawen, più attenta, accorta, che conosceva meglio di lui
le
regole della vita mondana di Londra e sapeva muovercisi bene. Demelza
era attenta, guardinga, non poteva permettersi errori e capiva
perché
si comportasse così. Aveva una famiglia a cui rendere conto
e non
sapeva ancora come e quindi, per ora, tutto quello che poteva
offrirgli era qualche attimo di amore rubato e clandestino... Non era
una proposta orribile e anzi, aveva un lato romantico ed eccitante ma
Ross, in cuor suo, aveva il grande timore che tutto si sarebbe dovuto
fermare a quello, per sempre. E che andare avanti per costruire
qualcosa di più grande, sarebbe stato impossibile. Non che
lo
meritasse e il fatto che Demelza fosse lì era già
un grande regalo
per lui, ma la speranza, quella speranza che lo aveva fatto desistere
dal duello, aveva ragione di esistere? "Cosa hai in mente?"
- chiese, con voce rotta.
Con
un gesto gentile, come capendo le sue paure e i suoi pensieri, lei
gli accarezzò i capelli. "Il mio cottage, lo ricordi?".
"Sì".
"Ti
farò avere le chiavi... La mattina del lunedì il
Parlamento apre
dopo le undici, giusto? Farò colazione coi bambini, li
lascerò alle
cure di tate e maestri e ti raggiungerò lì per le
nove. Avremo due
ore per noi, ogni settimana, nascosti al mondo, tranquilli e senza
rischio di turbare nessuno".
Ross
spalancò gli occhi. Ok, aveva capito bene, allora...
"Davvero è
quello che vuoi? Ti accontenteresti di questo?".
"Non
mi sto accontentando, Ross. Sto cercando una soluzione giusta per noi
due e per tutti... Io non capisco me stessa, non so come uscirne e
non so cosa fare con tante persone. Questo, ora, è il
più grosso
favore che potrei fare a me stessa. E anche a te se vorrai...".
La
baciò sulla fronte, con tenerezza. "Certo che lo voglio...
Ma
tu, sei sicura?".
"Non
me lo chiedere Ross, non me lo chiedere..." - sussurrò lei,
scuotendo il capo, quasi incredula essa stessa di avergli fatto
quella proposta. "Non farmi pensare a cosa stiamo per fare, a
chi sono, a cosa rischio... Non voglio pensare a niente per un
pò.
Il resto verrà da se".
Lui
rimase in silenzio, rendendosi conto che per il bene di Demelza, non
doveva costringerla a parlare oltre. Era difficile per lei ammettere
di aver bisogno di lui, farlo rientrare nella sua vita, pensare al
suo ruolo, ai bambini e al ricordo di Hugh. Era un passo complesso
per Demelza, quello. Stava dando una possibilità all'uomo
che le
aveva fatto del male e lasciando andare al mondo dei ricordi un
marito che l'aveva adorata come una dea... Doveva essere una grande
lotta, per la sua coscienza. E Ross decise, fra se, che mai l'avrebbe
fatta pentire di quel passo e che tutto ciò che ne sarebbe
venuto,
l'avrebbero affrontato insieme per quanto difficile potesse essere.
Era ora di dimostrarle che era cambiato e che per lui, lei era la
vita. Che non si sarebbe pentita di avergli dato una seconda chances
e che era pronto a lottare con lei, come avrebbe voluto lei...
"Sì,
il resto verrà da se Demelza. Verrà, quando ci
sentiremo pronti ad
affrontarlo e a parlarne".
Lei
sorrise, con la testa appoggiata al cuscino. "In fondo quindi, a
conti fatti, rinunciare al duello non sarà stata una cattiva
idea
per te".
"A
conti fatti, no! Certo, Adderly penserà che sono un codardo
ma in
fondo, che mi importa di cosa pensa di me?".
Demelza
sbuffò. "Nulla! E comunque, il duello resterà una
faccenda
segreta fra voi che di certo non potrà raccontare in giro
né
denunciare, essendo i duelli illegali. Ma per il resto...".
L'espressione
di Demelza divenne improvvisamente cupa e decisa e Ross
entrò in
allarme. Conosceva quello sguardo, aveva in mente qualcosa e se quel
qualcosa riguardava Adderly, lui l'avrebbe fermata. "Demelza,
che hai in mente?".
Lei
finse indifferenza. "Nulla di nulla...".
"Demelza!".
La
donna alzò le spalle. "Niente. Stavo solo pensando a cosa
Adderly trova tanto attraente in me".
Ross
spalancò gli occhi. "Potrei spiegartelo ma diventerei
volgare e
non voglio esserlo".
Demelza
parve divertita a quelle parole. "Non parlavo di questioni
intime! Intendevo che ama il potere rappresentato da mio nome... A
quello punta, essendo di famiglia nobile ma meno nobile dei Boscawen.
Forse presto gli farò notare questa cosa e che se voglio
qualcosa da
lui, anche un semplice silenzio, lui deve stare zitto".
"Demelza,
stagli lontana!".
Lei
sembrò non ascoltarlo nemmeno. "Stasera porterò i
bambini ai
giardini di Vauxhall per farli giocare! Credo che potrei incrociarlo
assieme alle sue amiche...".
"DE-ME-LZA!".
Lei
lo fronteggiò. "Non credo che tu possa impedirmelo".
Ross
rispose al suo sguardo di sfida, prendendola per la vita e
bloccandola col suo corpo sul materasso. La baciò sulle
labbra e poi
sul collo, con passione, cercando di distrarla dalla sua malsana
idea. "Tu mi hai convinto così..." - sussurrò,
col fiato
corto. "E ha funzionato".
Colta
sul vivo, Demelza gli morse la punta di un dito. "La questione
è
diversa! Io parlo di conversazione, tu volevi un duello con armi
vere".
"Indipendentemente
dal motivo, ciò che ha bloccato me dal battermi, potrebbe
bloccare
te dal parlare con quell'essere!".
Lei,
rossa in viso, cercò di allontanarlo ma senza eccessiva
convinzione.
E alla fine si abbandonò ai suoi baci, rispondendo col
medesimo
ardore di lui. "Non servirà... Ma per questa mattina va bene
lo
stesso".
"E
stasera?" - chiese lui, sfiorandole il seno.
"Stasera
tu sarai a casa e io ai giardini. Portare fuori a giocare i miei
bimbi non è un delitto..." - disse, ansimando, mentre lui le
accarezzava i seni e i fianchi. Poi però qualcosa di
famigliare
poggiato sul comodino la distrasse momentaneamente. Allungò
il
braccio, prese un piccolo foglio decorato che vi era riposto sopra e
lo lesse. "Ross?".
"Cosa?".
"Hanno
invitato anche te e Valentine al party in giardino dai Duchi
Thompson, fra due settimane?".
Ross
alzò il viso. "Sì, perché? Valentine
è talmente eccitato
dall'idea di andare a una festa dove ci saranno molti bambini".
Demelza
sospirò, improvvisamente preoccupata. "Sono stata invitata
pure
io, coi bambini. E' un party esclusivo per famiglie e i Thompson
hanno un grande parco dove organizzano tanti giochi per i
più
piccoli mentre noi ceniamo in giardino... Sarà la prima
volta che
rivedrai i bambini, tutti e quattro, dopo la mia chiacchierata con
loro... Cosa succederà?".
Ross
impallidì. "Santo cielo... Come reagiranno con me, lo posso
immaginare. Ma Valentine?".
Demelza
deglutì. "Devi spiegarglielo, come ho fatto io coi miei
quattro
figli".
"Capirà?"
- chiese, in panico, sapendo quanto poco fosse capace in questo
genere di cose.
"Sì,
se troverai le parole giuste".
Ross
le sorrise dolcemente, baciandola sulla guancia. I timori non erano
certo passati ma lei era tanto brava a rasserenare il suo animo. "E'
difficile, vero? Essere solo noi e tralasciare il resto... Non
potremo farcela, non troppo a lungo". Lo ammise, era la
verità
ed era inutile nasconderselo. E quel semplice party pareva urlarlo
loro in faccia!
Lei
annuì, poi lo riattirò a se, desiderosa di
zittire i suoi pensieri.
"Quì, adesso, possiamo non pensarci. Per il resto, si
vedrà".
E tornò a baciarlo, desiderosa di essere ancora sua prima di
essere
costretta a rivestirsi per tornare a casa. Era una malattia Ross, che
ti entra nel sangue e non ti abbandona più. Pensava di
essere
guarita ma era bastato un tocco, un bacio e ci era ricascata. E ora
solo un cottage disperso nella periferia londinese, avrebbe potuto
salvarla...
Lo
baciò con più passione mentre Ross scivolava
sopra di lei, in
lei... E fecero l'amore di nuovo...
...
Era
stato un giorno strano per Demelza, quello. Per anni era stata la
vedova di Hugh Armitage, Lady Boscawen, madre degli eredi del casato.
Mamma, per tanto tempo solo questa figura aveva risucchiato ogni sua
energia e aveva scordato di essere anche altro: una donna... O quanto
meno, aveva creduto di poter soffocare quel lato di se in nome di
qualcosa di superiore. Il bene della famiglia, il ricordo di Hugh, la
serenità dei suoi figli...
Eppure
era bastato un attimo quella mattina, per far cadere quella sua
certezza. Non era importante il motivo che l'aveva spinta da Ross,
dentro di se la sua natura aveva a lungo desiderato farlo e se non
fosse stato per Monk, qualcos'altro l'avrebbe condotta nel suo letto.
Avevano sofferto per anni a lungo, credevano di essersi persi per
sempre eppure aveva fatto più volte l'amore con lui con la
stessa
naturalezza di un tempo, come se quei sette anni non fossero passati,
senza reticenze, tentennamenti o altro ma anzi, con passione. Aveva
sentito il fuoco sulla sua pelle, in ogni centimetro che Ross aveva
baciato, aveva sentito il fuoco dentro di se quando si erano fusi ed
ora che era tornata ad essere Lady Boscawen e la sera non sarebbe
stato come a Nampara, insieme, si sentiva vuota. Non aveva idea di
come sarebbe andata a finire, stava davvero giocando col fuoco con
lui, non sapeva nemmeno se voleva dargli un'altra occasione ma...
sapeva di volerlo. Dannazione, perché era tanto debole?
Era
tornata a casa per il pranzo e a parte Demian che come sempre l'aveva
rimproverata per essere andata via senza di lui, gli altri non
avevano fatto caso alla sua assenza, abituati al fatto che al mattino
spesso tanti impegni la costringevano ad uscire anche presto.
Prudie
l'aveva sbirciata di nascosto lanciandole occhiate eloquenti ma lei
non le aveva detto nulla, non voleva condividere quanto successo con
nessuno per il momento.
Di
pomeriggio si era rifugiata in camera sua a pensare e ripensare, con
l'odore della pelle di Ross sul suo corpo e la sera, dopo aver cenato
presto, aveva preso i bambini per portarli a Vauxhall. Jeremy si era
dimostrato felicissimo per quell'uscita e anche gli altri avevano
trovato divertente andare in quel parco che a lei non piaceva
particolarmente ma che sapeva offrire svago anche ai più
piccoli,
soprattutto in una serena e tiepida serata primaverile.
Appena
arrivati, i bambini erano corsi via a vedere i cigni nel laghetto
antistante mentre lei, pensierosa, aveva cercato con lo sguardo Monk.
Sapeva
che Ross non gradiva quanto stava per fare ma in fondo lui in questo
non c'entrava. Era stata lei a impedire il duello e a lei toccava
gestirne le conseguenze. A Ross non interessava cosa pensasse Monk di
lui ma Demelza voleva evitare ogni tipo di ripercussione fra loro.
Finalmente
lo vide, come sempre attorniato di donne compiacenti e scollate,
apparentemente divertito. In realtà non sapeva come avesse
preso il
mancato arrivo di Ross al duello, se fosse arrabbiato o divertito da
un atto che doveva essergli apparso estremamente codardo, ma era il
caso di chidere subito la questione.
Gli
si avvicinò, gli sorrise affabilmente e Monk la
squadrò, sorpreso
di trovarsela lì davanti. "Lady Boscawen... Che onore
vedervi
quì!".
Demelza
sostenne il suo sguardo. "Ho portato i bambini a giocare un
pò
all'aperto".
"Oh,
niente vita dissoluta e mondana, quindi?".
"No,
non fa per me".
Adderly
spostò una sedia, per farla accomodare. Poi fece cenno alle
due
donne con lui di allontanarsi e di lasciarlo solo. "Cosa vi
porta da me, mia Lady? Cosa vi tiene lontana dai vostri adorabili
bimbetti?".
Demelza
sorrise amabilmente, trovando in fondo stimolante quella
conversazione sul filo del rasoio con quell'uomo odioso. "Il
piacere di una buona chiacchierata...".
"L'abbiamo
fatta ieri, mi pare, no?".
"Ed
è stata talmente stimolante".
Lo
sguardo di Adderly si indurì, forse irritato da quel
giochetto che
lei stava mettendo in atto con lui e che aveva ben percepito, dietro
ai suoi modi educati. Si guardò attorno e poi, con un gesto
veloce
le prese il polso, bloccandolo contro il tavolo. "Lady Boscawen,
pochi convenevoli! Siete quì per un motivo preciso, per lo
stesso
motivo che ci ha portati a discutere ieri! Niente giochetti e giri di
parole, non fanno per me! Andiamo al sodo... Dimenticate quel
codardo, non perdeteci tempo... Un uomo che non si presenta a un
duello è un...".
"Una
persona saggia! E timorosa della legge" – lo
bloccò lei,
cercando di liberarsi dalla sua stretta. "E lasciatemi il
polso!".
Adderly
finse di non sentirla. "Un codardo, un uomo senza spina dorsale!
Uno zimbello a confronto di tanti uomini... Chi non sa morire con
onore, merita una vita miserabile".
Demelza
sostenne il suo sguardo, adirata per come lui parlava e per cosa lui
diceva. "Farsi uccidere per una questione d'onore è stupido,
non è da uomini! Vivere col coraggio di aver saputo dire di
no, è
ESSERE uomini".
Monk
si morse il labbro. "Siete una donna, non potete capire...".
"Dicono
che le donne siano più sagge ed accorte".
"Le
donne sono solo donne... A una cosa servite, solo a una!
Ricordatevelo, mia Lady".
Demelza,
nauseata, con uno strattone si liberò da lui. Si
alzò in piedi,
desiderosa di andarsene via, lontana da quel dannato verme
maschilista, per tornare dai suoi bambini. "Chi sono io, signor
Adderly?".
Lui
parve divertito dalla domanda. "Lady Boscawen".
"Esatto,
Lady Boscawen... Di casato nobile, superiore al vostro e persona a
cui voi non dovreste nemmeno rivolgere la parola, senza il mio
permesso. E tanto meno potete afferrare il mio polso contro la mia
volontà... Se io ad esempio ora chiamassi una guardia, a chi
crederebbe? Chi difenderebbe per questa impudenza?".
Monk
impallidì. "Non osereste...".
"Oh,
si che oserei..." - rispose, in tono di sfida – "Oserei
come avete osato voi. Volete mettermi alla prova?".
Monk
si alzò, fronteggiandola. "Cosa volete, mia Lady?" -
chiese, con una punta di malcelato disprezzo nella voce.
Lei
sorrise freddamente, aveva raggiunto il suo scopo. "Il vostro
silenzio".
"Su
cosa?".
"Su
quanto avrebbe dovuto succedere stanotte e non è successo".
Monk
fece per replicare ma l'arrivo di Clowance e Demian, corsi a cercare
la mamma, lo bloccò. E Demelza proseguì nel suo
attacco,
accarezzando le testoline bionde dei suoi due bambini. "Come
dicevo... Silenzio su ciò che saggiamente non è
stato, su quanto
avrebbe dovuto essere e discrezione. Facciamo finta che nulla sia mai
accaduto, che voi e qualcun altro non abbiate discusso e viviamo
tutti in pace, facendoci ognuno gli affari propri".
Monk
guardò i bambini, poi lei. "E io cosa ottengo?".
"Silenzio.
Il mio... Che vale molto più del vostro" – rispose
Demelza,
cercando di apparire sicura davanti a quel Lord che una volta, da
sguattera, avrebbe temuto.
"Perché
ci tenete tanto?" - chiese Monk, mentre i bambini ascoltavano
senza capire.
Demelza
scosse la testa. "Non sono tenuta a darvi spiegazioni".
Monk
annuì, capendo che non poteva fare nulla. Si
inchinò leggermente,
guardò di sbieco e poi salutò frettolosamente,
decidendo che era
più saggio raggiungere le sue due donnine allegre.
E
Demelza sorrise, l'orgoglio di Ross era salvo.
Clowance
la guardò incuriosita. "Mamma, ma di che parlavate? Che
stavi
facendo con questo signore?".
Demelza
prese per mano lei e Demian, avviandosi soddisfatta verso il
laghetto. "Cosa stavo facendo? La Lady, suppongo...".
Clowance
rise. "Ti riesce bene".
"Lo
so...".
Raggiunsero
il laghetto dove tanti bambini giocavano con la sabbia, a rincorrersi
o stavano a guardare incantati i cigni.
Demelza
si sedette sulla riva, con Demian da una parte e Clowance dall'altra,
sentendosi stranamente in pace col mondo e con se stessa. Serena...
Jeremy
e Daisy giocavano nell'acqua, ridendo e inseguendosi. Avevano tolto
le scarpe, le avevano lasciate sull'erba e ridevano, con Jeremy che
cercava di scappare e Daisy che, testardamente, lo inseguiva tentando
di prenderlo per mano come spesso amava fare con lui.
Ecco,
questo era il suo mondo, ciò che lei voleva... Guardare i
suoi
bambini ridere e giocare insieme, vederli crescere e dargli una
solida famiglia alle spalle. E nel mentre, crescere con loro, vivendo
a sua volta una vita piena di madre ma anche di donna. Non sapeva
come, non sapeva ancora che strada seguire ma in quel momento si rese
conto che non rimpiangeva nessuna delle cose che le erano successe in
quella giornata.
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Capitolo 59 *** Capitolo cinquantanove ***
La
mano di Valentine, stretta nella sua mentre passeggiavano sulla riva
del Tamigi, gli dava un senso di pace. In realtà era come se
vivesse
su una nuvoletta privilegiata da dieci giorni, da quando il mancato
duello con Adderly aveva cambiato la sua vita e cancellato le
previsioni fosche del suo futuro e da allora era come se ogni cosa
riuscisse a dargli piacere. Forse era diventato un dannato ottimista
sognatore, pensò ironicamente! Tutto era cambiato da allora
e gli
rodeva un pò ammettere a se stesso che forse, beffardamente,
avrebbe
dovuto ringraziare proprio quell'idiota di Monk per tutto questo. Oh,
lo avrebbe fatto e lo avrebbe fatto tramazzare a terra se questo non
fosse stato un atto infantile e soprattutto, poco rispettoso di
Demelza... Ma aveva scelto di essere uomo, quel giorno, e questo
proponimento aveva intenzione di portarlo avanti per sempre.
E
se quella mattina il dono era stato amare ripetutamente Demelza, il
lunedì dopo era stato pura passione, due ore di assoluta
armonia,
desiderio e amore fisico e spirituale. Aveva atteso quel giorno come
un bambino che aspetta di scartare i doni di Natale la mattina del 25
dicembre, con la stessa impazienza e trepidazione. Due ore alla
settimana erano poche ma conferivano a quegli incontri donati e
concessogli da Demelza, eccitanti, speciali ed emozionanti.
Si
erano ritrovati nel cottage al mattino, all'ora prestabilita, e
appena avevano chiuso la porta dietro di loro non si erano detti
parola ma si erano limitati a baciarsi furiosamente mentre le loro
mani lottavano con gli abiti dell'altro e i loro corpi si eccitavano
al pensiero di quanto sarebbe accaduto di lì a breve. Era
l'attesa,
il desiderio, il sogno a rendere tutto più speciale ed
eccitante.
L'aspettarsi, il volersi, il sognarsi... Erano solo loro, amanti
clandestini nascosti al mondo, che si ritagliavano il loro spazio
solo per se stessi all'interno di vite lontane, diverse, piene e
costellate di responsabilità. Solo loro, l'essere uomo e
donna che
per tanto si erano preclusi, la passione, il desiderio bruciante, il
fare l'amore instancabilmente dal primo all'ultimo minuto che si
erano concessi.
Quel
lunedì erano bastati pochi minuti per spogliarsi mentre si
baciavano
furiosamente e disseminavano il pavimento dei loro indumenti, per
raggiungere il letto. E da lì in poi, nient'altro era
più esistito.
Solo loro, unione di corpi e anima, il piacere, i sospiri e il resto
del mondo che per due ore perdeva consistenza e andava avanti per i
fatti suoi.
Non
si erano parlati, se non per poche fugaci parole strappate alla
passione. Non era ancora il momento per discorsi seri, anche
dolorosi, profondi e difficili. Inconsciamente, senza mettersi
nemmeno d'accordo, avevano scelto di ricominciare da lì, dal
lato
del loro rapporto che mai aveva avuto problemi: la passione e
l'attrazione reciproca che da sempre era esistita fra loro. E forse
da quel punto, quando il desiderio del corpo avrebbe lasciato spazio
anche a quelli della mente, avrebbero potuto iniziare un altro
percorso insieme, forse meno piacevole ma necessario e che avrebbe
portato i suoi frutti.
Ma
per ora, in quel momento, avevano scelto di ritrovarsi così,
come
novelli amanti quasi estranei ma che conoscevano ogni centimetro del
corpo dell'altro. Questo erano... Prima di sentirsi pronti per essere
altro.
Anche
se in quel momento mentre Ross passeggiava lungo il fiume alla luce
del tramonto con Valentine, sognando il lunedì successivo ma
anche
proiettato al giorno prima di quel nuovo incontro con Demelza, alla
domenica dove tutti si sarebbero ritrovati alla festa nel parco dei
Duchi Thompson, era arrivato al pettine uno dei nodi più
difficili
da sciogliere e che non poteva più aspettare di essere
affrontato:
dire la verità a Valentine.
Ci
aveva rimuginato su a lungo, su cosa dire e come dirlo. Demelza
sicuramente coi suoi quattro bimbi era stata più brava di
lui con le
parole per spiegare quella situazione difficile e forse avrebbe
potuto chiederle aiuto, ma si rendeva conto che doveva farcela da
solo. Valentine era suo figlio, in teoria era colui che lo conosceva
meglio di tutti e se voleva essere un buon padre per tutti i suoi
bambini, da lui doveva cominciare prima di pensare a Jeremy e
Clowance. "Sai perché ti ho portato fuori stasera?".
Valentine,
che gli saltellava di fianco tenendo il guinzaglio di Tannen che
trotterellava accanto a lui, si imbronciò. "Noooo!".
"No
cosa?".
"Mi
vuoi portare ancora al parco a correre?".
A
Ross venne da ridere. Se le gambe di suo figlio erano migliorate, lo
stesso non poteva dirsi della sua pigrizia. "Non sarebbe una
cattiva idea ma no, non siamo usciti per questo".
Valentine
tirò un sospiro di sollievo. "Ohh... Meno male! E allora
perché?".
Ross
guardò il cielo terso e rosato che li sovrastava. C'era un
clima
piacevole e un via vai calmo di persone che andavano verso casa dopo
una giornata di lavoro sicuramente dura e faticosa per i
più.
"Dovevo parlarti di una cosa importante e volevo essere da solo
con te".
"Una
cosa importante? Quale, papà?".
Ross
si fermò, lo prese in braccio e con lui scavalcò
una staccionata
che divideva la strada dal fiume, invitandolo poi a sedersi
nell'erba. "Della festa di domani dai Thompson".
Valentine
si imbronciò, di nuovo. "Hai cambiato idea e non posso
venire?".
Ross
gli diede un buffetto sulla testa. "No, che ti salta in mente?
E' un'altra la cosa che ti devo dire, una cosa del passato che mi
riguarda, che non sai ma che per domani dovrai conoscere per forza".
Valentine
parve eccitato dalla cosa. "Oh, un segreto? Un segreto
segretissimo?".
Ross
prese un profondo respiro. Ci voleva coraggio e soprattutto
capacità
di parlare. E di quest'ultima non era molto provvisto... Con le
parole non era mai stato molto bravo e soprattutto non aveva mai
affrontato un dicorso davvero complesso con Valentine. "Ecco...
Devo dirti che tu... tu...". Deglutì, grattandosi la nuca in
cerca delle paroline magiche adatte a spiegare a un bambino di appena
sette anni una situazione complicatissima che nemmeno lui che era
adulto, era stato capace ancora di districare del tutto. Si sentiva
vagamente idiota in quel momento. "Tu... Valentine...".
"Sì,
papà?".
"Ecco,
non sei figlio unico! E' giusto che tu lo sappia" –
esclamò,
con aria solenne.
Valentine
lo guardò come se fosse impazzito, chiedendosi probabilmente
se lo
stesse prendendo in giro. Poi scoppiò a ridere. "Ma
papà, lo
so!".
Ross
spalancò gli occhi. "Come, lo sai?".
"C'è
Jeoffrey Charles! E' mio fratello, ti sei dimenticato?" - chiese
il piccolo, col candore dell'infanzia.
E
Ross si sentì idiota sul serio. Come aveva fatto a non
pensarci?
Certo, c'era Jeoffrey Charles anche se di fatto era come se non ci
fosse perché i rapporti fra loro erano molto radi e tesi e
le poche
volte che era tornato a casa in Cornovaglia, aveva preferito
alloggiare da zia Agatha a Trenwith finché era stata in vita
e poi a
casa di Verity. Erano stati radi i contatti fra Valentine e Jeoffrey
Charles e sapeva anche che suo figlio soffriva di questa assenza e
dell'astio del fratello maggiore verso di lui, astio che non riusciva
ovviamente a capire... Mai gli aveva spiegato cosa ci fosse sotto,
perché Jeoffrey Charles fosse tanto arrabbiato e
perché non
tornasse mai per stare con loro a Nampara. Inizialmente
perché
Valentine era troppo piccolo per capire e successivamente
perché non
voleva aprire capitoli troppo dolorosi e magari inutili, che
avrebbero potuto turbare il suo figlio. Si sentiva ancora in colpa
per quanto successo anni prima con Jeoffrey Charles, per le liti fra
lui ed Elizabeth alle quali aveva assistito spaventato e in lacrime e
per il dolore che aveva provato alla morte di sua madre quando aveva
partorito. Aveva addebitato a lui ogni colpa per quanto succeso e
Ross in cuor suo sapeva anche che aveva ragione. Da allora MAI i
rapporti fra loro si erano ricuciti e ora Jeoffrey Charles era un
giovanotto a cui lui pagava gli studi e l'addestramento nell'esercito
e a parte questo, non esisteva altro tipo di rapporto. Con Valentine,
nelle poche volte che si erano visti, era stato gentile e cordiale
come lo si è coi bambini piccoli, ma per il resto, era forse
stupito
che in quel momento suo figlio avesse pensato a quel fratello lontano
e quasi sconosciuto di cui raramente si discuteva. "Non parlavo
di Jeoffrey Charles ma in realtà hai ragione, non sei figlio
unico e
lui è tuo fratello" – sussurrò
accarezzandogli i capelli,
sentendosi in colpa verso Francis e la promessa mancata di prendersi
cura della sua famiglia.
"E
allora di chi parlavi?" - chiese Valentine, curioso.
Ecco,
ora arrivava la parte difficile. Come spiegare a un bambino,
l'inspiegabile? "Ti ricordi di Lady Boscawen?".
Valentine
annuì, sorridendo. "Certo! E anche della sua festa di Natale
magica!".
Lo
sguardo di Ross si addolcì, era magica davvero Demelza e di
certo
nella sua situazione sarebbe stata meno impacciata di lui. Aveva
fatto molto per Valentine da quando si erano incontrati a Londra e
forse non l'aveva mai davvero ringraziata abbastanza per questo. Non
era tenuta ad essere gentile con suo figlio e di certo non era stato
facile averli a casa loro la notte di Natale. "Ecco, io la
conoscevo da molto prima di incontrarla a Londra. Prima di sposare
tua madre ed avere te, ero sposato con lei". Poche, semplici
parole. Non c'era modo di girarci attorno, non c'era strada migliore
per dire la verità a Valentine. Diretto, veloce, senza giri
di
parole inutili per entrambi.
Il
piccolo spalancò gli occhi. "Cosa?".
Cercò
di spiegargli, per quanto riuscisse. "Lei era mia moglie e io
l'amavo moltissimo. Ma ho commesso tanti errori e l'ho persa... E lei
è venuta quì con i nostri due bambini per
iniziare una nuova vita
mentre io, a Nampara, aspettavo che tua madre desse la vita a te.
Lady Boscawen, Demelza, ha sofferto molto a causa mia
perché...".
Valentine
lo bloccò, improvvisamente serio. "Mamma, la MIA mamma, la
conosceva, Lady Boscawen?".
Ross
si stupì di quella domanda che forse non aveva attinenza con
quel
discorso o forse sì... Forse i bambini non avevano bisogno
di
spiegazioni troppo ampie per capire il complicato mondo degli adulti
e Valentine aveva intuito ciò che lui non riusciva ad
esprimere
chiaramente a voce. "Sì, la conosceva. Sapeva che io l'amavo
e
il guaio era che lei amava me. Quando un uomo è sposato, non
può
amare ed essere amato da due donne, succede un macello quando ci si
trova in una situazione così. Ho fatto molti errori
Valentine, con
entrambe. Con tua madre di certo e soprattutto, con Lady Boscawen e i
nostri bambini. Perché io pur amando Demelza, ammiravo anche
tua
madre e ho tradito il mio matrimonio, facendo del male a chi non lo
meritava... E ho perso tutto ciò che amavo...".
Valentine
per un attimo rimase in silenzio, poi prese un sassolino da terra e
lo lanciò nel Tamigi. "E io?".
"E
tu sei nato da tutta quella complicatissima confusione. Dopo aver
annullato il matrimonio con Lady Boscawen e aver sposato tua madre".
"Allora
eri triste, quando sono nato?" - chiese Valentine, con una
naturalezza disarmante.
Ross
si sentì in colpa per quella domanda perché era
vero, a suo figlio
non aveva donato la gioia e il diritto di un padre emozionato di
tenere fra le braccia il suo bambino appena venuto al mondo. "Era
un giorno difficile, tua madre era morta e io ero a pezzi. Ma ti ho
preso in braccio e ti ho avvolto in una coperta, appena ti ho
visto... E ti ho portato con me, a Nampara, come figlio e come mio
tesoro più grande".
Valentine
abbassò il capo e poi si rannicchiò fra le sue
braccia, pensieroso.
"E lady Boscawen? Lei è andata via per colpa mia allora?".
"No,
per colpa mia. Non tua..." - cercò di tranquillizzarlo.
Valentine
lo guardò, timoroso. "Non è arrabbiata con me?".
"No,
certo che no... Lei è magica, come hai detto tu. E non
potrebbe mai
essere arrabbiata con un bambino innocente. Hai visto no, com'era
contenta quando ti ha invitato a casa sua per Natale?".
"Sì,
lo era. Ma per davvero?".
Ross
annuì. "Certo! Non vi abbiamo detto la verità per
non
preoccuparvi, ma non è mai stata arrabbiata con te. Lo era
con me,
ma ora va molto meglio".
Valentine
sospirò sollevato, poi si ritirò su, sedendosi
composto. "Ma
prima, di che parlavi? Io ho altri fratelli allora?".
Spalancò
gli occhi, guardandolo mentre le mani gli tremavano, facendo il
ragionamento più logico alla conclusione di quel lungo
discorso. "I
bambini di Lady Boscawen? Sono miei fratelli? Ho QUATTRO fratelli?".
Santo
cielo, non si era mai accorto di quanto fosse intelligente! Di quanto
i bambini, TUTTI i bambini, fossero perspicaci... Gliel'aveva
insegnato Jeremy quella sera nella casetta sull'albero, glielo aveva
ribadito in più occasioni la piccola Daisy e Valentine
gliene stava
dando la conferma ulteriore. "Jeremy e Clowance, lo sono... Sono
figli miei e di Demelza. I gemellini, sono i figli nati dal
matrimonio di Lady Boscawen col suo secondo marito, Hugh Armitage.
Loro sanno la verità su me e te e ora ne sei a conoscenza
pure tu".
Valentine,
che pensava turbato da questa scoperta, spalancò la bocca e
poi
rise. "Ho dei fratelli della mia età? E posso giocare con
loro?". Era eccitato, non più spaventato adesso.
Lo
sguardo di Ross si incupì, non era tutto così
facile per Jeremy e
Clowance e suo figlio per ora aveva ben poco di cui gioire. Non era
semplice per loro, non era come per Valentine... Erano stati
abbandonati e di avere un altro fratello non erano certo entusiasti.
"Sì, li vedrai domani alla festa dove andremo".
"Dai
Duchi Thompson? Ci saranno pure loro?".
Ross
annuì, accarezzandogli nuovamente i capelli. "Sì,
loro e Lady
Boscawen... Però Valentine ecco, loro a differenza di te,
ora che
sanno la verità... Ecco, potrebbero non essere molto
amichevoli con
te come lo sono stati a Natale e allo zoo, quando ancora non
sapevano".
"Perché?
Se sono miei fratelli, dovrebbero essere miei amici!".
Ross
si rese conto che era difficile da capire, che era la parte
più
complicata di tutte questa, per Valentine. "Vedi, Jeremy e
Clowance sono arrabbiati con me perché per rimanere con te e
tua
madre, ho abbandonato loro... Sono scomparso dalle loro vite e li ho
lasciati a lungo da soli e hanno trovato un altro padre nel
frattempo, che li ha amati e protetti al mio posto" – ammise,
con tanta amarezza nel cuore e una punta di rabbia verso se stesso e
le sue mille mancanze come padre.
"Ohhh".
Valentine si imbronciò, forse rendendosi conto, quanto meno
a
spanne, dell'entità di quanto stava sentendo. "E saranno
arrabbiati per sempre?".
"Spero
di no... Ma magari domani non vorranno giocare con te e tu non dovrai
rimanerci male".
"Posso
almeno chiederglielo?".
Ross
annuì. "Puoi, certo! Puoi chiedere loro di giocare come a
Natale ma quello che ti ho appena detto, è un segreto fra
noi e
basta. Non devi dirlo a nessuno, lo sappiamo solo tu, io, Lady
Boscawen, Jeremy, Clowance e i gemellini. Per ora nessuno deve
saperlo all'infuori di noi e spero che tu, come loro, saprai
mantenere il silenzio. In questo dobbiamo essere una squadra unita".
Valentine
parve emozionarsi dall'idea di un segreto comune fra loro, come
succede spesso in una famiglia unita. "Solo noi? Noi? Noi? Noi e
basta? Neanche a Jane e John Gimlet devo dirlo?".
"Neanche
a loro. Saprai farlo?" - chiese Ross.
"Sì,
ma poi? Poi un giorno vorranno essere miei fratelli?".
Non
si sentì di spezzare quella speranza di Valentine che, si
rendeva
conto, era anche la sua. "Ci sto lavorando... Con Lady Boscawen!
Ma abbiamo bisogno di tempo per sistemare le tante cose brutte
successe fra noi una volta".
Valentine
ridacchiò. "Speriamo che ce la fai! Lady Boscawen
è bella!".
"Lo
so, lo so..." - sussurrò, rendendosi conto che era andata
meglio del previsto.
...
Demelza
chiamò i quattro figli in camera sua, prima che andassero a
letto.
Il giorno dopo ci sarebbe stato il party all'aperto dai Thompson ed
era ora che mettesse le cose in chiaro con i piccoli. Sapeva che Ross
avrebbe fatto altrettanto con Valentine ed era anche angosciata dal
risultato di quella conversazione che, avendola vissuta coi suoi
bambini alcuni mesi prima, sapeva essere difficilissima. Ma non era
il momento di pensarci troppo, non ora che non poteva farci nulla.
Guardò
i suoi figli, accanto a lei sul letto. Clowance e Daisy avevano
già
indosso la camicia da notte mentre Jeremy era ancora vestito e
probabilmente aveva in mente di uscire a giocare un pò nella
casetta
sull'albero prima di andare a dormire. Demian invece, già a
suo agio
sotto le coperte, aspettava impaziente che lei parlasse. "Devo
dirvi di domani!".
Jeremy
sospirò. "Tranquilla mamma, giuro che impedirò ai
gemelli di
lanciare il fango a Catherine".
Demelza
gli lanciò un'occhiataccia. "Non era ciò di cui
volevo parlare
ma mi fa piacere sentirtelo dire! Ma meglio ricordarvi che, niente
fango, niente arrampicate, niente litigi, niente spintoni, niente
parolacce! Capito?" - chiese, guardando in cagnesco tutti e
quattro.
"Capito!"
- risposero i bimbi, in coro.
"E
allora, cosa dovevi dirci?" - chiese Clowance.
Demelza
prese un profondo respiro, arrivavano le note dolenti, ora. Da molto
non parlavano di Ross e non aveva idea di come avrebbero potuto
reagire i bimbi adesso. "Domani ci saranno anche il signor
Poldark e Valentine, al party. E vorrei che voi vi comportaste bene".
Daisy
si illuminò in viso e poi, eccitata, prese a saltare sul
letto.
"Davvero? Evviva, evviva! Ci viene davvero?".
"Certo
amore" - le rispose, divertita da quella reazione. Era così
inusuale che la piccola orsa dimostrasse attaccamento per qualcuno e
con Ross era pura magia, quando erano vicini. Cominciava ad essere un
pò gelosa...
Meno
entusiasti, Jeremy e Clowance si guardarono in viso. "Davvero?"
- chiesero, in tono meno gioioso della sorellina.
"Davvero?"
- chiese pure Demian, indeciso se parteggiare per la gemella o per i
fratelli più grandi.
Garrick,
accanto a loro, si stiracchiò mentre Demelza prendeva un
profondo
respiro. "Davvero! E vorrei ricordaste il nostro patto. E cosa
mi avevate promesso".
"Cosa?"
- chiese Jeremy, duramente.
Demelza
lo guardò fissa e seria negli occhi, non aveva voglia di
apparire
morbida in quel momento. "Di essere educati e gentili con tutti.
Dovete salutare se lo incontrate e vorrei che trattaste Valentine in
modo amichevole, come avete fatto a Natale".
"Ci
saranno tanti bambini, perché Valentine deve giocare per
forza con
noi?" - sbottò Jeremy, in modo diretto e provocatorio.
Demelza
sostenne il suo sguardo. "Non ho detto che dovrà giocare per
forza con voi, ma se ve lo chiederà, vorrei non lo mandaste
via. E
vorrei che non gli facciate dispetti. Puoi giurarmi che sarai un
bravo bambino come sempre?".
Jeremy
sbuffò, giocando con la coperta con le mani. "Lo prometto.
Saluterò e sarò amichevole. Tu però ti
ricordi cosa hai detto a
noi?".
"Di
che parli?".
Anche
Jeremy divenne serio mentre Clowance si stringeva a lui, pronta a
sostenerlo in qualunque sua scelta. "Che non eravamo obbligati
ad avere rapporti col signor Poldark. Che oltre al saluto, non siamo
obbligati a dirgli niente se non vogliamo".
Demelza
impallidì. Era accaduto tanto da allora, da quando aveva
dato ai
suoi figli quella rassicurazione... Era ancora indecisa su quale
fosse la cosa migliore da fare e non voleva che quanto stava
succedendo fra lei e Ross offuscasse in maniera egoista le scelte
fatte per il bene dei bambini, ma... Ma la situazione andava
sbloccata prima o poi, per il bene di tutti. "Lo ricordo e non
voglio obbligarvi a nulla. Voglio solo che siate educati e buoni... E
che ci pensiate un pò... A Ross Poldark, intendo".
"A
cosa dovremmo pensare?" - chiese Jeremy.
Demelza
sorrise dolcemente, accarezzando le testoline dei due bimbi
più
grandi. "Al fatto che forse dovreste dargli... DARVI una
possibilità. Un padre è un bene prezioso, anche
se ha fatto tanti
errori. Ora lui è quì e non volete parlargli ma
magari un giorno
non potrà più esserci e voi vi potreste pentire
di non averlo
voluto ascoltare nemmeno una volta".
"Non
credo..." - esclamò Clowance, a testa bassa.
"Ma
ci penserai?" - insistette Demelza.
"Un
pò, se vuoi" – rispose la bimba, lasciandole uno
strano senso
di amaro in bocca.
Demian
a quel punto si sollevò dal suo comodo cuscino,
guardò Daisy e poi
lei e poi i fratelli più grandi e infine disse
ciò che nessuno
aveva ancora osato affermare a voce alta. "Ma se... Se tu mamma
sei la mamma di Jeremy e Clowance e il signor Poldark è il
loro papà
ma è anche il papà di Valentine... Allora
Valentine è nostro
fratello?".
Jeremy
impallidì, Clowance entrò in panico e Daisy la
fissò un pò
sconcertata. E Demelza annuì, anche se quel pensiero fin'ora
taciuto
ma che ben conosceva, sapeva ancora farle male. "Sì, lo
è. Di
Jeremy e Clowance". Lo disse, rendendosi conto di quanto quella
realtà le apparisse strana e allo stesso tempo ormai
famigliare,
come se si fosse pian piano sedimentata in lei silenziosamente, in
quei mesi.
"E
noi? Io e Demian?" - chiese Daisy. "Anche io voglio essere
di qualcuno!".
Jeremy
la guardò storto, alzandosi dal materasso e mettendosi in
piedi. "Tu
sei di qualcuno! Sei del padre migliore! E sei fortunata a non dover
vivere tutto questo!".
"Jeremy...".
Demelza avrebbe voluto alzarsi ed abbracciarlo perché sapeva
leggere
il dolore di Jeremy nascosto dietro alla durezza di quelle parole, ma
conosceva suo figlio e sapeva che in quel momento voleva rimanere
solo. "Non è così e lo sai bene che di fortuna, i
gemellini ne
hanno avuta anche meno di te. Appartenere a qualcuno è una
grande
cosa e vorrei che anche tu, come Daisy, lo capissi".
Jeremy
sospirò, le si avvicinò e le diede un bacio
frettoloso sulla
guancia, desideroso di uscire dalla stanza per rimanere solo. "Ci
penserò, mamma. Forse un giorno come Clowance, ci
penserò. Adesso
non voglio".
Demelza
si chiese se fosse sincero o se lo stesse dicendo solo per farla
contenta, ma in quel momento non se la sentì di insistere.
Jeremy e
Clowance erano ancora molto turbati dalla presenza di Ross e quando
si parlava di lui si chiudevano a riccio. Avevano promesso di essere
educati e gentili e questo per ora bastava, per il resto ci voleva
tempo e gliene avrebbe dato quanto necessario. "Va bene...".
"Posso
andare?" - chiese Jeremy.
"Certo".
"E
io?".
Demelza
sorrise anche a Clowance. "Certo! Hai scelto il vestitino per
domani?".
La
piccola, a quel tema che tanto amava, sorrise un pò
più serena.
"Ovviamente! Con la nonna!".
"Sarai
bellissima...".
Anche
Jeremy parve tornare scherzoso a quelle parole. "Bellissima e
smorfiosa...".
"Forza,
filate via!". Demelza li spinse scherzosamente lontani dal letto
per cercare di rasserenare il clima, sollevata dal fatto che
nonostante tutto sapessero anche combattere le situazioni difficili
che stavano vivendo, con un sorriso. Poi, una volta rimasta sola coi
gemelli, osservò incuriosita Daisy. "Tu? Resti con noi? Ci
dai
l'onore della tua presenza stanotte?".
La
piccolina la prese per mano, costringendola ad alzarsi. "Mamma,
mi insegni a ballare?".
"Cosa?".
"Sì,
a ballare" – insistette Daisy, saltellando.
Demelza
le si inginocchiò davanti mentre Demian, sul letto, rideva.
"Vuoi
ballare con un bimbo che ti piace, domani?".
Daisy
la guardò, serissima. "Non è un bimbo,
è grande. Mi voglio
mettere un vestito bellissimo come quello di Clowance. Giuro che non
mi sporco e faccio la brava".
Demelza
le strizzò l'occhio, stando al gioco. Era per Ross che
voleva essere
bella? Voleva ballare con lui? Quel modo di fare di Daisy la
intenerì, chi lo avrebbe mai detto che fra i suoi figli,
sarebbe
stata la prima a prendersi una cotta per qualcuno? O forse era
altro...? E se Daisy avesse scelto come desiderio, di appartenere a
Ross, come Jeremy e Clowance? Se volesse piacergli come dovevano
piacergli i suoi figli? Forse era normale che lo desiderasse, che
sognasse qualcuno che la proteggesse e la facesse sentire figlia e
basta, come sembrava riuscire a fare Ross. Era strano, ironico e
forse avrebbe dovuto spiegarle che a Ross lei piaceva già,
che era
pazzo di lei e che era la sua vera rivale. Già, quella
piccola
biondissima bambina era la rivale più temibile che avesse
mai avuto.
E non ne era gelosa! "Vuoi il vestitino rosa? Quello col nastro
dello stesso colore da mettere fra i capelli?".
"Sì".
"O
quello bianco, da principessa?".
Daisy
ci pensò su, poi rise senza darle una risposta, lasciando la
scelta
definitiva al giorno successivo. E Demelza le prese le manine,
invitandola a mettere i piedini sui suoi. "Coraggio, impariamo a
ballare come una vera lady" – esclamò, mentre sul
letto
Demian continuava a ridere.
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Capitolo 60 *** Capitolo sessanta ***
"Non
mi toccare che mi sporchi il vestitino!".
Mentre
entravano nel grande parco dei Duchi Thompson, a Demelza venne da
ridere nel sentire Daisy dire quelle parole a Demian che cercava di
attirare la sua attenzione prendendola per il braccio. Santo cielo,
che stava succedendo alla sua stupendamente selvaggia orsetta? Si
stava trasformando in una Lady come Clowance? O quel cambiamento che
avrebbe fatto la gioia di Falmouth ed Alix sarebbe durato un battito
di ciglia?
Era
una giornata dal sole limpido, faceva abbastanza caldo per essere ad
aprile e il grande parco che circondava la villa dei Thompson era
pieno di alberi rigogliosi e in fiore, di vialetti ben curati, panche
di legno ridipinte di bianco lo ornavano come se si fosse trattato di
un quadro e i tavoli del rinfresco riccamente adornati di ogni
prelibatezza, messi all'esterno sotto i portici del palazzo, erano il
giusto completamento all'ambiente.
Demelza
amava quella famiglia facoltosa ma gentile, dai modi affabili che
credeva che per concludere buoni affari in società e in
politica,
fosse necessario condividere spazi amicali il più spesso
possibile,
coinvolgendo anche i bambini che consideravano il futuro di Londra e
della nazione. Era bello partecipare a una festa elegante ma
informale come lo era stata la sua di Natale, in un clima amichevole
da poter condividere anche coi suoi figli per una volta.
Jeremy
e Demian indossavano un completo alla marinara bianco e azzurro
mentre le sue due principesse avevano optato per dei vestitini rosa
che le rendevano adorabili coi loro lunghi capelli biondi che ne
valorizzavano la figura. Clowance stava sbocciando ed era ogni giorno
che passava sempre più bella ed elegante mentre Daisy era...
Daisy... Una bambina meravigliosa dai lineamenti di una fatina e
dalla vivacità di uno scoiattolino.
Appena
arrivati e ricevuti con un caloroso saluto dai proprietari di casa,
Demelza prese a passeggiare per il giardino dove vide Caroline e il
suo pancione, Dwight con la piccola Sophie che tentava di camminare e
sfuggire alla sua presa e Margarita con suo marito, anche lei
decisamente incinta e intenta a svuotare il ricco buffet di dolci
allestito per l'occasione.
Si
fermò a salutarli ma poi, vinta dall'insistenza dei bambini
che
volevano addentrarsi nel parco per raggiungere i loro amici, li
salutò con la promessa di unirsi a loro più tardi
per il pranzo.
Per i più piccoli erano stati allestiti dei tavolini
imbanditi nel
piccolo bosco della tenuta e delle tate avrebbero pensato al loro
pranzo. Il tempo di portarli laggiù e poi sarebbe tornata
nel mondo
degli adulti.
"Mamma,
quì ci sono piante bellissimissime! Bisogna dargli un nome e
salirci
sopra per fare amicizia!".
Demelza
guardò Demian di sbieco, seria. "Demian, che ti ho detto
ieri
sera e anche stamattina?".
"Niente
palle di fango, tanta educazione e niente salire sugli alberi. Ma
neanche su uno piccolino?".
"Neanche
su uno piccolino!" - disse, sistemandosi la gonna che, col la
leggera arietta che si era alzata, si era stropicciata. Aveva
indossato un abito dal color verde acqua elegante ma semplice, con
ornamento un nastro blu in vita e nient'altro. Era un pranzo
informale, no? E lei voleva essere un pò meno lady e un
pò più
comoda. Ricordò il ballo d'autunno dove, forse per far
ingelosire
Ross ed attirare la sua attenzione, si era vestita in modo talmente
elegante e seducente da non riuscire quasi a riconoscersi allo
specchio e si rese conto che ora non ne sentiva più la
necessità.
Erano cambiate molte cose da allora e Ross aveva dimostrato in
più
modi quanto lei gli piacesse e quanto fosse attratto e anche se
avevano ancora una montagna di cose irrisolte da affrontare, si
sentiva serena e un pò più innamorata anche di se
stessa.
Clowance
interruppe i suoi pensieri, tirandole la manica. "Mamma, ma
perché Daisy fa così?".
Demelza
osservò la piccola orsetta che, impettita, camminava davanti
a loro
sulla ghiaia, attenta a non toccare l'erba e a non macchiarsi il
vestitino. Le venne da sorridere alla scena di poche ore prima,
quando l'aveva scoperta ad incipriarsi il visino e tentare di
truccarsi coi suoi trucchi, pasticciandosi la faccia come un
pagliaccio. Aveva dovuto faticare per convincerla a lavarsi la
faccia... Era tenera, aveva dei modi di fare così
scoordinati
ancora, ma sembrava decisa ad essere davvero una piccola Lady per
quel giorno. Le si strinse il cuore al pensiero che lo facesse per
Ross, all'idea dell'affetto che nutriva per lui forse ricambiato ma
che ancora e forse mai, avrebbe potuto davvero sbocciare. Daisy era
forte, indipendente e fiera ma con Ross, tramite Ross, aveva capito
che in realtà sua figlia era alla ricerca di qualcosa, di
qualcuno
che potesse sopperire all'assenza di Hugh. E Daisy lo aveva trovato
quel qualcuno, da sola e senza bisogno d'aiuto... Era stata forte ed
indipendente anche in quello e lei non sapeva se esserne contenta o
preoccupata...
"Mamma?"
- insistette Clowance.
Demelza
sospirò, decidendo di omettere a sua figlia che la causa di
quel
cambiamento era stata Ross. "Non volevi ammaestrarla? Oggi ha
deciso che vuole essere bella come te, missione compiuta!".
"Ohhh".
Clowance guardò la sorellina, annuì soddisfatta e
poi, con un gesto
elegante e studiato, si sistemò una ciocca di capelli.
"Bene...
Ma durerà per sempre?".
"Ne
dubito...".
Jeremy
sbuffò. "Speriamo di no! Ci manca solo di avere DUE Clowance
in
casa! Vado a vivere dallo zio se succede. O a casa di Gustav. O anche
il collegio svizzero sarebbe meno terribile...".
Clowance
si imbronciò e Demelza rise. Jeremy, quando voleva, sapeva
essere
sarcastico e pungente e non riusciva a capire da chi avesse preso
questo lato del suo carattere...
Improvvisamente
però, a Jeremy passò la voglia di ridere e
divenne serio e teso
come la corda di un violino. E a Demelza non ci volle molto per
capire perché. Dall'altro lato del viale, con Valentine per
mano,
vide sopraggiungere Ross che probabilmente, come lei, aveva
accompagnato il figlio a cercare altri bimbi con cui giocare prima di
tornare ai tavoli del banchetto.
Demelza
deglutì, sapeva che sarebbe successo e aveva preparato i
bambini.
Ora toccava a loro dimostrare ciò che valevano e cosa
volevano
essere.
Clowance
prese Jeremy per mano, Demelza annuì in un cenno di saluto,
Demian
alzò la manina e Daisy, dopo aver fatto un enorme sorriso,
gli corse
incontro. "Ciao Signor Poldark!!!".
Ross
li salutò con un cenno del capo, in maniera informale ma non
troppo
confidenziale, come avevano concordato, mentre Daisy si aggrappava
felice alle sue gambe. Demelza finse indifferenza e galante
coridalità. Sapeva che i bambini avrebbero captato anche il
più
piccolo segnale di intesa fra loro e per adesso non voleva
assolutamente che percepissero che fra lei e Ross ci fosse in atto
qualcosa. Non era ancora il momento, era troppo presto.
Valentine,
appena la vide, fece come Daisy e le corse incontro. Aveva in mano
tre mazzolini di margherite e appena fu loro davanti, li porse loro.
"Per voi, Lady Boscawen! E per Clowance e Daisy!" - disse,
mollando poco aggraziatamente i fiori nelle loro mani.
A
Demelza venne da sorridere, per il galateo c'era sempre tempo. Ma lo
trovò dolcissimo e impacciato e mentre lo guardava, si rese
conto
che la figura di Elizabeth che tanto male le aveva fatto in passato,
non esisteva più. Non il lui, quanto meno. Era solo
Valentine, un
bambino di sette anni incredibilmente gentile e affamato d'affetto ed
attenzioni. "Grazie, sei davvero un galantuomo. Raramente mi
regalano fiori e io li amo tantissimo".
Valentine
arrossì, dondolandosi con le manine dietro la schiena.
"Prego.
Ho chiesto io a papà di andare al parco a coglierli, prima
di venire
quì. Lui mica ci aveva pensato!".
Demelza
occhieggiò Ross... Santo cielo, ci avrebbe scommesso che non
avrebbe
pensato a qualcosa del genere! Era Ross che aveva davanti e per
quanto fosse cambiato, la galanteria non era e mai sarebbe stata
nelle sue corde. "Immagino..." - disse, con una punta di
sarcasmo.
Clowance
occhieggiò i fiori fra le sue mani e anche Daisy fece lo
stesso. La
gemellina ringraziò, tutta divertita per quel regalo che
probabilmente riteneva inutile e alla fine anche Clowance fece
altrettanto, seguendo quelle che erano le buone maniere che aveva
imparato negli anni.
Ross
guardò i bambini, soprattutto Jeremy e Clowance. Demelza
avvertiva
il suo imbarazzo e la voglia, unita alla paura, di avvicinarli. "Come
state?" - chiese infine, un pò impacciato.
"Bene"
– rispose Jeremy, secco. "Mamma vuole che siamo educati e che
vi salutiamo, signor Poldark. Quindi, buona giornata, divertitevi al
party e fate buone conversazioni". Il suo tono era formale ed
educato ma Demelza scorse molta freddezza unita a imbarazzo, in lui.
Clowance
fece altrettanto, salutandolo con un 'buongiorno' ed esibendosi in un
perfetto inchino.
Demelza
sospirò. Certo, erano stati educati ed impeccabili ma
talmente
freddi che poteva leggere il dolore scolpito negli occhi scuri di
Ross. E si sentiva impotente, non poteva farci niente! E alla fine,
decise che era meglio per tutti dare un taglio drastico a quella
spiacente e pesante situazione che avrebbe potuto solo degenerare e
ferire tutti loro, bambini compresi. "Su, andate a giocare!
Credo che più in fondo ci siano i vostri amici. Mi pare di
aver
scorto Gustav e deve esserci anche Chaterine assieme ad Emily
Basset".
Valentine
si illuminò in viso. "Emily?".
Ross
annuì. "Sì, ci sono anche i Basset oggi".
Valentine
parve incerto, guardò Ross e poi i bambini. "Posso giocare
con
voi?".
Clowance
lo guardò storto. "Con noi femmine? Vuoi giocare a fare la
mamma?".
"Mh,
no... Magari posso giocare coi maschi" – azzardò
Valentine,
osservando Jeremy in cerca di sostegno.
Jeremy
abbassò il capo, scalciando un sassolino. "Non credo!".
Demelza
lo fissò severamente, non aveva capito nulla del discorso
della sera
prima? "JE-RE-MY!".
Ma
il bambino ne uscì da signore. "Lo dico per lui... Correremo
molto, molto e velocemente. E lui so che fa fatica. Magari si stanca
e poi ha male alle gambe. Lo dico per il suo bene".
Demelza
sostenne il suo sguardo. Se Jeremy cercava di farla fessa fingendo
interesse per le sorti di Valentine, doveva aver chiaro che con lei
non attaccava. "Jeremy...".
Ma
Valentine fu a sua volta più furbo. "Sono diventato bravo a
correre, Jeremy. Velocissimo... Ho un cane e a furia di portarlo al
parco tutti i giorni, sono diventato un campione".
"Certo..."
- mormorò Jeremy, scettico.
"Posso
allora, giocare con voi?".
E
Jeremy cedette, vinto anche dalle occhiatacce di sua madre. "Va
bene, se vuoi... Ma se non riesci a starci dietro, che fai?".
Valentine
sorrise, fregandolo nuovamente. "Vado a giocare con le femmine!
A me giocare con Emily Basset piace".
Clowance
sbuffò davanti a quell'evenienza, Jeremy fu preso in
contropiede e
non seppe cosa rispondere e alla fine annuì. "Vieni"
–
ordinò, senza troppo entusiasmo. Poi, dopo un altro formale
saluto a
Ross, corse via seguito da Valentine e Clowance, impazienti di
scappare da lì.
Rimasero
i gemellini. "E voi?" - chiese Demelza.
Daisy,
che si era aggrappata alla mano di Ross, lo guardò sognante.
"Tu
non giochi?".
Ross
le sorrise. "No, credo di essere un pò troppo grande".
"Vecchio..."
- lo correse Demian. "Vuoi esplorare? Ai signori vecchi piace
esplorare... Lo zio esplora i giornali al mattino, dice che deve
scoprire gli affari migliori".
Ross
accarezzò la sua testolina bionda, mascherando un sorriso
nonostante
tutto. "Magari più tardi. Vado a vedere cosa c'è
nel buffet
prima. Noi vecchi, abbiamo spesso fame".
Demelza
capì che dietro a quelle parole e a quel desiderio di
allontanarsi,
c'era una profonda delusione per il comportamento di Jeremy e
Clowance e decise di intervenire ancora. "Su, andate ad
esplorare il parco voi due. Poi, quando vorrà, il signor
Poldark
verrà a fare una passeggiata con voi".
"Davvero?"
- chiese Daisy.
Ross
annuì. "Davvero! Io prometto e mantengo sempre! Lo sai, no?
Non
direi mai una bugia a una bella principessina come te".
Anche
Daisy, come Valentine poco prima, arrossì. "Vero! Ti aspetto
allora". E poi, dopo avergli dato un ultimo sguardo, corse via
col gemellino, lasciando Demelza e Ross finalmente soli.
Demelza
gli toccò il braccio. "Mi dispiace... Ma da loro non potevo
ottenere di più".
Ross
abbassò lo sguardo, con occhi lucidi che Demelza non gli
aveva mai
visto. "Una volta quando Jeremy mi guardava, gli si illuminava
il viso. E io lo davo per scontato e non capivo quanto importante
fosse il suo affetto".
"E'
ferito, Ross. E ha bisogno di tempo, è ancora un bambino. Ma
per lo
meno ti ha salutato e ha dato un'opportunità a Valentine,
anche se
non era entusiasta di farlo".
Ross
la fissò tristemente. "Buone maniere, si sono sforzati di
essere educati come è stato insegnato loro. Anche
Clowance...
Davvero non può fare a meno di farlo?".
"Cosa?".
"L'inchino.
Non lo sopporto! Sono suo padre, non un Lord o un...".
Demelza
deglutì. Doveva essere terribile per Ross, ma si sentiva
impotente.
Non poteva aiutarlo e non poteva imporlo ai bambini. Lui non c'era
mai stato per loro, in una notte maledetta aveva tradito la famiglia
che erano stati e ora ci sarebbe voluto tempo, fatica, dolore e
impegno... O forse non si sarebbe risolta mai la frattura fra loro,
tanto profonda e ancora così sanguinante e l'unica cosa che
potevano
fare era aspettare con pazienza e provare e riprovare,
finché non
avessero trovato un punto di contatto. "Lo so che sei suo padre
ma per lei non lo sei mai stato. E' difficile e Clowance si nasconde
dietro le formalità e le buone maniere per difendersi da te
e dalla
verità".
Ross
annuì. Non aveva la forza di replicare, era consapevole che
lei
avesse ragione e sapeva anche che non poteva chiedere nulla di
più
ai bambini. Alzò la mano ad accarezzarle il viso, in cerca
di calore
in lei. "Demelza...".
Ma
la donna si ritrasse, guardandosi attorno guardinga. "Ross! NO!
Non quì, se qualcuno ci vedesse sarebbe una catastrofe".
Lui
non si fece scoraggiare, afferrandola per la vita e spingendola
dietro un grosso tronco. "Ho bisogno di te. Solo un attimo...".
Rossa
in viso e bloccata fra lui e il tronco, Demelza deglutì.
Santo
cielo, come era difficile far combaciare la ragione che urlava di
andarsene, con cuore e corpo che le gridavano di restare e fargli
fare tutto ciò che lui voleva. "Ross... Cosa stai...
stiamo...
facendo?".
Ross
scosse la testa. "Non lo so, forse solo cercando di vivere e di
ritrovare la NOSTRA strada".
Sorrise
a quelle parole, in fondo lui non aveva ragione? Si erano smarriti,
lo erano ancora e insieme, attraverso mille oscuri labirinti, stavano
cercando di tornare a casa. Ovunque fosse... Si sporse verso di lui e
in un attimo sue labbra furono premute su quelle di Ross in un
passionale e lungo bacio. Non poteva farne a meno. Non poteva fare
altro... Poi si allontanò. "Non siamo nel nostro cottage...
Potresti accontentarti di questo, oggi?".
Ross
sorrise, accarezzandole la guancia e scostandole una ciocca di
capelli ribelli che le era sfuggita sulla fronte. "Credo che
potrei accontentarmi, per oggi".
Demelza
rise, maliziosamente. Ma non raccolse la provocazione... "Vieni
con me? Possiamo pranzare con Dwight e Caroline e a nessuno
sembrerebbe strano. Ci sono anche i miei due amici Margarita ed
Edward... Li hai conosciuti a Natale e anche se so che sei allergico
ai nobili, ti assicuro che sono persone meravigliose".
Ross
sospirò, guardando distrattamente il cielo azzurro al di la
delle
fronde dei grossi alberi del parco. "Lo so... Quella tua amica,
Margarita, mi piace. E' così...".
"Carina?".
"Anche...
Ma soprattutto... Un pò... goffa... Ma sembra davvero una
brava
persona. Una ragazza deliziosa".
Demelza
si trovò d'accordo con lui. Margarita era un pò
goffa in effetti.
Ma era deliziosa... Era questo che aveva pensato la prima volta che,
anni prima, aveva incontrato quella ragazzina sognatrice e un
pò
imbranata a casa di Caroline, che si divertiva a vederla cambiare il
pannolino a Clowance. "Allora, vieni?".
"Più
tardi. Ho una promessa da mantenere" – rispose Ross.
A
quelle parole, a Demelza venne da ridere. "I gemelli? Staranno
giocando da qualche parte, non devi sentirti in obbligo con loro".
Ma
Ross non era d'accordo. "Una promessa è una promessa e loro
si
fidano di me. Andrò ad esplorare il parco e poi
più tardi vi
raggiungo. In fondo non credo di avere fame...".
Demelza
abbassò il capo. Non aveva fame e sapeva bene chi gli aveva
fatto
passare l'appetito. "Andrà meglio. Un giorno, non so quando,
andrà meglio".
"Lo
pensi davvero?".
"Sì
Ross. Io e te FAREMO in modo che vada meglio. Loro ne hanno
bisongo...".
Era
una strana intesa, quella. Una speranza... E Ross voleva credere a
quella speranza e alle parole di Demelza. Avrebbe dato la vita per un
solo istante coi suoi figli fra le braccia... "Lo faremo... Lo
farò".
Demelza
gli diede un altro veloce bacio sulla guancia e poi lo
lasciò
andare. "Ti aspetto al buffet, allora...".
"Certo".
La
donna si allontanò piena di pensieri e con la speranza che i
gemellini, come spesso avevano saputo fare con lei, riuscissero a
strappare a Ross un vero sorriso.
...
Camminò
fra gli alberi di quel parco immenso. Santo cielo, quei Duchi avevano
un giardino che sembrava più grande dell'intera Londra!
In
lontananza sentiva le risate dei bambini che giocavano e si
rincorrevano e sopra di lui, sulla sua testa, una miriade di uccelli
cantavano uno strano inno a quella rigogliosa primavera.
Improvvisamente,
da dietro il tronco di una grossa quercia, sbucò la
testolina bionda
di Daisy che lo guardava sorniona. E dopo alcuni istanti
sbucò anche
Demian.
"Eccovi!".
I
gemellini gli corsero incontro, travolgendolo col loro entusiasmo.
Ross cadde a terra e in un attimo i due bimbi gli salirono sul petto.
"Sei arrivato allora!" - gridarono, entusiasti e felici che
avesse mantenuto la sua parola.
Ross
se li tolse di dosso ridendo, mettendosi a sedere nell'erba con loro
due davanti. "Ho deciso che non sono vecchio e che quindi non ho
bisogno del buffet come gli anziani. Ma mi piace esplorare".
Daisy
gli saltò sulle gambe, sedendosi in braccio a lui, Demian si
mise da
parte ed entrambi lo guardarono divertiti. E Ross ricambiò
lo
sguardo, notando che Daisy aveva ancora ben pulito il suo vestitino
ma che ai piedi non indossava più le sue scarpette di
vernice. "Come
mai sei scalza?" - le chiese, ricordandosi di aver già visto
una scena simile quasi un anno prima, alla gara di trotto dove per la
prima volta aveva avuto il coraggio di mostrarsi faccia a faccia a
Demelza.
La
bimba dondolò i piedini nudi. "Li ho regalati a una bambina
povera!".
Anche
questo l'aveva già visto e doveva un pò variare
il suo campionario
di bugie, Daisy! Ma in fondo la capiva, anche lui da bambino aveva
amato correre scalzo nell'erba e sulla spiaggia, in Cornovaglia, e
lei non era diversa. Gli venne da ridere ma si impose di essere
serio. "Quì non ci sono bambini poveri!" - le fece notare.
"Sì
che ci sono, infatti per questo non ho le scarpe!".
"Si
nascondono" – aggiunse Demian, in soccorso della sorella. Poi
il piccolo gli tirò la manica della camicia. "Signor
Poldark?".
"Sì?".
"Devi
ancora farmi vedere quanto sei bravo a salire sugli alberi".
Mh,
era vero! E quel piccolo soldo di cacio aveva un'ottima memoria! "Ma
oggi, a questa festa, non si può".
Demian
parve deluso. "Oh... Mamma lo ha proibito pure a te?".
Ross
annuì. Demelza, inaspettatamente, gli stava venendo ancora
in aiuto.
"ESATTO! E noi sappiamo bene che è meglio non disubbidire
alla
tua mamma!".
"Sì,
vero" – rispose il piccolo, serio. "Se disubbidisci anche
tu, ti mette con noi a lucidare l'argenteria dello zio e della
nonna!".
Ross
fece violenza a se stesso per non ridere. Erano fantastici!
Anche
Daisy gli tirò la camicia, per attirare la sua attenzione.
"Signor
Poldark, mamma ci ha detto che sei il papà di Jeremy e
Clowance.
Forte! Ma allora, sei anche un pò il nostro
papà?".
Ross
sussultò a quella domanda che non si aspettava ma che in un
certo
senso gli faceva piacere. Non sapeva perché ma era
così! Gli faceva
piacere o gli sarebbe piaciuto e adorava il modo speranzoso in cui
Daisy lo guardava, aspettando la sua risposta che però non
poteva
farla contenta, non ancora, non del tutto. "Mh, è difficile
da
spiegare. Tu e Demian avete un papà, giusto?".
Demian
annuì. "Sì, che vive nella nebbia. Si nasconde
lì, lo ha
detto la mamma. E glielo ha detto lui prima di andare in cielo e
dormire sotto un sasso".
Rimase
colpito da quelle parole che accendevano in lui una strana
curiosità
verso la figura di Hugh Armitage che ancora non aveva ben chiara in
testa. Forse un giorno avrebbe trovato il coraggio di chiedere di lui
a Demelza ma ora, attraverso quei due bimbi, gli sembrava di
conoscerlo un pò di più. "Beh, che bella cosa
avere un papà
magico! Tu lo vedi nella nebbia?".
Demian
lo fissò con ovvietà. "Sì, certo! Vedo
papà e poi anche gli
gnomi e i folletti del nostro giardino. C'abbiamo anche un gigante ma
si nasconde bene, lo riesco a trovare solo io".
Ross
rimase incantato. Demian aveva una grandissima fantasia, vedeva cose
che nessuno vedeva e anche se magari erano frutto unicamente di una
mente fervida, ricca e senza limiti, era davvero affascinante quello
che diceva e come vedeva il mondo, con quel velo d'incanto che lui
non aveva mai avuto. Demelza una volta gli aveva detto che Demian
assomigliava molto a Hugh nel carattere e ora che parlava con quel
bambino, si rendeva conto che questo non lo disturbava. Il mondo
aveva bisogno anche di persone così, che sapessero vederlo
con
incanto, trovando il bello in ogni cosa che le circondava. In fondo
nessuno diceva che per vivere appieno si dovesse fare come faceva
lui, che vedeva più spesso scuro che chiaro e che era sempre
in
guerra con tutti. "Credo Demian, che tu sia davvero un
grandissimo e fortunatissimo bambino, se riesci a vedere tutte queste
cose magiche" – sussurrò, accarezzandogli la
testolina. Poi
si rivolse a Daisy. "E tu? Tu lo vedi il tuo papà, nella
nebbia?".
Ma
lei, a differenza di Demian, scosse il capo. "No, mai! E poi, io
non lo voglio un papà che vive nella nebbia... Io ne voglio
uno che
vedo sempre, che mi prende in braccio e che mi parla. Non riesco a
trovare il mio papà in giardino come Demian".
Se
Demian era più simile a Hugh e probabilmente a Demelza,
Daisy invece
era più simile a lui. Disincantata, pratica, combattiva e
decisamente attaccata alla realtà. Erano molto somiglianti e
Ross si
era già accorto di questa affinità fra loro ma
più la conosceva,
più anche Daisy lo affascinava coi suoi modi vivaci e
pratici.
"Anche la mia mamma e il mio papà sono morti, sai? E nemmeno
io
li ho mai visti nella nebbia, come te Daisy. Ma so che ci sono e che
mi guardano. E che a volte son contenti di me, a volte meno... Ma mi
vogliono bene, ovunque siano".
La
piccola sorrise. "Sì, vero! Lo so che papà
c'è e mi vuole
bene ma ne voglio due anche io di papà. Come Jeremy e
Clowance.
Signor Poldark, sai che devi fare?".
"Cosa?".
"Fargli
capire!" - disse la bimba. "Io il mio papà gliel'ho
prestato e loro devono prestarmi te un pochino! Così siamo
pari e
tutti siamo con due papà che è meglio di uno solo
che si nasconde
nella nebbia. Giusto?".
Ross
non seppe che rispondere ma annuì, non trovando voce o
pensiero
coerente davanti a quelle parole che nascondevano un desiderio
profondo e una grande voglia di appartenenza a qualcuno, di quella
picccola ed indipendente bimba. E si sentiva onorato che avesse
scelto lui...
La
bimba fece un faccino furbo da chi la sa lunga, davanti al suo viso
sperso. "Tu gli chiedi scusa e loro non sono più arrabbiati
con
te. Così diventi ancora il loro papà e anche il
nostro. E vieni a
mangiare e dormire da noi, ti arrampichi sull'albero con Demian e
giochi con me!".
Entusiasta,
Demian balzò in piedi. "Sì, mamma sarebbe
contenta! Lei è
contenta quando ti vede! Mangi da noi e poi ti faccio preparare la
camera degli ospiti più bella e fai la nanna a casa nostra
che
diventa anche tua!".
Ross
lo occhieggiò, divertito. Camera degli ospiti? Il piccoletto
non
aveva ancora ben compreso il genere di legame che unisce una mamma e
un papà... E nemmeno che nella camera degli ospiti avrebbe
dovuto
finirci lui, perché il lettone di mamma non era territorio
per
bambini ma per papà... Ma al momento non gli andava di
spezzare quel
momento incantato e di farselo nemico.
Da
lontano, la musica della piccola orchestra che suonava al
ricevimento, li raggiunse bloccando la loro conversazione. Daisy
balzò in piedi e allungò la manina verso di lui.
"Balli con
me, signor Poldark?".
Ross
si tirò su, pulendosi i pantaloni dall'erba, con le mani.
"Certo,
mia piccola Lady" – rispose, con aria solenne.
La
piccola, emozionata, gli prese le mani e per qualche istante, seria
seria, cercò di esibirsi in perfetti passi di danza mentre
lui
faceva del suo meglio per agevolarle la cosa e seguirla. Era
impacciata ma pareva decisa a riuscire nel suo intento. "Ti
piace ballare?" - chiese, mentre Demian li guardava ridendo.
Daisy
sbuffò. "Mhhh... E' un pò noioso". E dopo
un'altra
manciata di secondi smise di essere seria, prenendo a saltare
tenendolo per le mani e ridendo felice.
E
anche Ross rise, contagiato dalla sua allegria. Eccola la sua piccola
pestifera amica! La preferiva così, vivace e saltellante,
selvaggia
e incurante delle buone maniere, che perfetta piccola Lady in
miniatura. Quel ruolo lo ricopriva egregiamente Clowance ma Daisy era
altro! Erano diversissime ma estremamente meravigliose nella loro
unicità, entrambe, ai suoi occhi.
La
fece giocare e saltare e poi, come promesso a Demian, con loro
esplorò il parco, incantato dai ragionamenti sconclusionati
del
piccolo che ad ogni albero gli raccontava di come voleva chiamarlo,
degli elfi che vi vivevano dentro e di come lui li vedesse. Forse un
giorno sarebbe diventato un mago, pensò Ross. O comunque
qualcosa di
molto lontano dai desideri di Lord Falmouth.
I
gemellini furono la sua medicina, quel giorno, al dispiacere di
vedere Jeremy e Clowance tanto lontani. Per un attimo
dimenticò
anche il banchetto, catturato dal vociare allegro dei due bimbi. In
fondo non tutto andava tanto male, no? In fondo la chiave era
guardare al mondo come faceva Demian e vedere il bicchiere mezzo
pieno piuttosto che mezzo vuoto. Valentine sembrava sparito e sperso
nei suoi giochi, segno che si stava divertendo, Demelza lo aveva
coraggiosamente baciato nel parco e lui aveva trovato una compagnia
meravigliosa che aveva alleviato le sue pene. Perché essere
triste
se qualcosa di bello era successo?
Dopo
la camminata, si risedette coi bimbi sotto una grossa pianta,
all'ombra. Daisy gli saltò ancora in braccio, Demian gli si
sedette
accanto continuando a parlare, parlare e ancora parlare di elfi senza
mai stancarsi e lui lo lasciò fare, perdendo il senso del
tempo,
cullato dal suono vivace della sua vocina e dal calore del corpicino
della piccola orsetta che, stranamente, aveva finito con
l'addormentarsi fra le sue braccia.
Fu
solo quando Demelza lo raggiunse preoccupata, dopo averlo cercato a
lungo del parco, che si accorse che era tardi. Se la trovò
davanti
all'improvviso, tanto che sobbalzò. "Oh... E' ora di
pranzo?".
Demelza
lo guardò prima con severità ma poi, notati i due
bimbi accanto a
lui, si addolcì. "Pranzo? Han già servito il
dolce e tu hai
snobbato tutti gli adulti presenti a questa festa. Politicamente, non
è una mossa furba".
Ross
sorrise. "Ho trovato una bella compagnia e mi sembrava brutto
lasciarla".
Guardando
Daisy che dormiva, Demelza si inginocchiò davanti a loro.
"Si è
addormentata? Sta bene?".
"Benissimo.
Sta solo dormendo".
Demelza
non sembrava convinta. Toccò la fronte della piccola per
vedere se
avesse la febbre ma poi, constatato quanto fosse fresca,
sospirò.
"Non è da lei dormire così. E arrivare al
pomeriggio col
vestitino pulito. Prudie sarà commossa quando torneremo a
casa".
Demian
intervenne, saltandole al collo. "Siamo stati bravi oggi. Niente
alberi e niente palle di fango".
Ross
indicò i piedini nudi di Daisy. "Non so però dove
siano finite
le sue scarpe".
Demelza
sbuffò, ma poi parve rasserenarsi subito. Rise... "Siamo
alle
solite! Lei è una piccola monella della Cornovaglia per
metà, dopo
tutto! E ama correre scalza" – sussurrò, prendendo
la piccola
in braccio e baciandole la testolina. "Grazie per esserti preso
cura di loro. Volevano tanto vederti, sai?".
"Davvero?".
"Davvero
e qualunque cosa tu gli abbia fatto per farti amare, io ti ringrazio
e ancora ti ringrazio! Sono felici quando tu sei nei paraggi".
"Sono
io che devo dire grazie a te" – rispose Ross, come se si
sentisse in dovere di essere lui a dover ringraziare lei per quei due
bimbi. "Come hai fatto?" - chiese, guardandoli.
"A
far cosa?" - domandò Demelza.
Ross
occhieggiò i piccoli, prendendo Demian per mano. "A mettere
al
mondo due capolavori simili... QUATTRO capolavori simili! Santo
cielo, sono diversi, due di loro mi odiano ma tutti quanti sono...
unici!".
Demelza
arrossì, colpita da quelle parole dette col cuore ed estrema
sincerità. "Li ho amati, da sempre. Solo questo... Non ho
fatto
che questo".
Ross
le cinse le spalle e lei, incurante che qualcuno potesse vederli, lo
lasciò fare. "Ti è riuscito bene, fare SOLO
questo".
Demelza
gli fece uno splendido sorriso. "Lo faremo insieme, un giorno.
Ne sono sicura...".
E
anche quelle parole gli diedero nuova speranza perché mai
prima di
quel momento, Demelza si era lasciata andare a pensieri davvero
positivi sul loro futuro. In quel momento Jeremy, Clowance e
Valentine giocavano lontani, i primi due non ne volevano sapere di
lui ma Ross sentì comunque di aver accanto la sua famiglia.
Tutta,
allargata, strana, inconsueta. Ma sentiva tutti loro, suoi...
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Capitolo 61 *** Capitolo sessantuno ***
Non
era lunedì ma mercoledì. E Lady Alexandra si era
straordinariamente
offerta di portare i gemelli a una festa di compleanno mentre Jeremy
e Clowance studiavano col precettore prima del pomeriggio, che
avrebbero trascorso nei giardini di Kensington a giocare. E il
Parlamento era chiuso per dei lavori interni di ristrutturazione dopo
una perdita del soffitto che aveva allagato il salone principale.
Non
era lunedì ma entrambi liberi e per tutto il giorno, Demelza
e Ross
si erano rifugiati nel cottage, senza limiti di tempo in cui
concedersi l'uno all'altra.
Avevano
fatto l'amore, ancora, anche se qualcosa era cambiato rispetto ai
loro primi incontri. La fame di contatto e l'urgenza di possedersi si
erano trasformati in qualcosa di più dolce, romantico,
gentile... La
passione era la stessa ma i loro gesti e le loro carezze erano
più
tenere e meno disperate e frettolose. C'era anche spazio per momenti
di dolcezza e coccole, per riscoprirsi, per essere qualcos'altro che
soli amanti...
Demelza
dormicchiava a pancia in giù, col lenzuolo che le copriva a
malapena
le gambe e le natiche. Si era addormentata dopo aver fatto l'amore
con lui e ora nel dormiveglia, la brezza che proveniva dalla finestra
aperta sul giardino le accarezzava la schiena nuda, facendola sentire
in pace col mondo.
Ross
le sfiorò il collo, prima di coprire la linea della sua
colonna
vertebrale con una serie di piccoli baci che la fecero rabbrividire e
svegliare del tutto. "Ross!".
Lui
fece un sorriso furbo. "Scusa, non volevo svegliarti" –
disse, mentre le cingeva la vita con le braccia e prendeva a baciarla
sul collo.
Lei
rise, cercando di spingerlo via. "Sì che volevi svegliarmi!
Dannazione, ci sei anche riuscito!". Si mise di lato, poggiando
il viso contro la mano. "Visto che sono sveglia e non ho idea di
quanto abbia dormito, mi dici che ore sono?".
"Credo
sia passato da poco il mezzogiorno".
Demelza
si stiracchiò, a quelle parole, sprofondando nel cuscino.
"Ho
ancora tempo. Abbiamo tempo...".
"Tutto
il giorno!".
Lei
sospirò, guardandolo. "No, non tutto. Ho promesso ai bambini
di
andare a prenderli al parco alle sei. E prima di andare a Kensington,
devo andare dal restauratore a recuperare un piccolo quadro di Lord
Falmouth finito nelle manine artistiche di Demian... Fra dieci giorni
tornerà dal Portogallo e saranno guai se si accorge che mio
figlio
ha disegnato di nuovo sopra ad una delle sue opere d'arte. Ho
sborsato una fortuna per far sistemare il dipinto per tempo e oggi
vado a ritirarlo".
Ross
si addolcì. "Lo avevo già visto, Demian, che
'abbelliva' i
dipinti di Falmouth".
Demelza
sospirò. "Non me ne parlare! Non la smetterà mai
di combinare
guai!".
"Però
lui e Daisy sono bambini molto particolari e unici nel loro genere.
Alla festa sono stati un'ottima compagnia... Non sembrano nemmeno
figli di...".
Demelza
si accigliò, guardandolo con una strana curiosità
per ciò che
aveva quasi detto. Ross aveva usato un tono leggero ma la
conversazione, iniziata in modo allegro, poteva incamminarsi su
sentieri sconnessi se non stava attenta. "Non sembrano figli di
Hugh? Volevi dire questo? In realtà Demian lo sembra eccome,
ha il
suo stesso amore per l'arte! E Falmouth si danna per questo, come si
dannava con Hugh quando alla politica, preferiva le poesie". Con
un sospiro decise di tagliar corto, però, anche se la voglia
di
controbattere la spinse ad andare oltre quanto avrebbe voluto. "Pure
Valentine è talmente galante e carino da non sembrare
figlio...".
Ross
la bloccò. "Mio?".
E
a quella domanda, Demelza per un secondo tremò. No, non si
stava
riferendo a lui ma qualcosa in lei la stava spingendo, senza quasi
che se ne accorgesse, a pronunciare il nome di una persona che non
voleva ricordare e che per anni l'aveva fatta sentire una
nullità e
assolutamente inadeguata. Faceva male, ancora. Avrebbe sempre fatto
male, anche se lei era morta! Che senso aveva ora, parlarne? "Lascia
perdere..." - sussurrò, adombrandosi.
Ross
la fissò preoccupato, captando benissimo il cambio del suo
tono di
voce e comprendendone il motivo. "Elizabeth? Stai parlando di
lei?".
"Non
sto parlando di niente" – rispose Demelza, secca, comprendosi
col lenzuolo.
"Demelza...".
"No
Ross, NO! Fa finta che non abbia detto niente".
Ross
stavolta però non era d'accordo. Erano tornati a parlare e a
scherzare ma fra loro c'era e sempre ci sarebbe stata una lastra
sottile a dividerli, creatasi col la frattura del loro matrimonio, il
tradimento e lo scioglimento di ogni loro legame. Mai avevano
affrontato quell'argomento ed era ora di farlo. Ora erano pronti e
anche se avvertiva le reticenze di Demelza e la sua paura, sapeva
anche che dovevano affrontare insieme quel passato da cui lei
fuggiva, abbracciati e stretti, pronti a urlarsi in faccia il loro
dolore e poi il loro amore. Tante cose non erano state dette e
ciò
che fin'ora era stato taciuto, era la causa vera e propria
dell'impossibilità ad iniziare una vita vera anche fuori da
quel
cottage. "Demelza guardami!".
Lei
tremò ancora, spaventata. E forse arresa al fatto di non
poter
scappare. Perché, PERCHE' aveva nominato Valentine? "Ross,
davvero... Lascia perdere".
"No!".
Lo
guardò, smarrita e arresa. Se Ross si metteva in testa
qualcosa,
sapeva essere più testardo di lei. Non avrebbe arretrato,
stavolta
non poteva sfuggirgli e in cuor suo sapeva anche che lui aveva
ragione, ma... Ma come aprire il suo cuore all'inferno, a
quell'inferno da cui era scappata sette anni prima, in una vita che
non sembrava nemmeno più sua? "Cosa vuoi, Ross? Cosa vuoi
che
ti dica?".
"Parla!
Guardami negli occhi e parlami! Di qualsiasi cosa tu voglia! Di
Nampara, del nostro matrimonio, dei bambini, di Elizabeth. Di noi e
di ciò che eravamo. Io l'ho fatto, io ti ho parlato di cosa
ho
provato allora ma tu no, non hai mai voluto! Fallo, FALLO Demelza!
Picchiami se vuoi, urla, dimmi come ti sei sentita allora e come ti
senti adesso quando ci pensi. Sei quì, una parte di te mi
ama in
questo cottage. Ma è come se mancasse una tua parte, la
parte che ti
tiene lontana e ti impedisce di fare altri passi verso di me. Verso
noi...".
Demelza
deglutì. "Lady Boscawen non ha necessità di dire
ciò che è
stato quando era un'altra!" - rispose, nascondendosi dietro al
suo nuovo nome, in un ultimo tentativo di fuga da lui.
Ross
la guardò, penetrò il suo sguardo con i suoi
occhi scuri. Le prese
i polsi, li strinse e poi lasciò che le sue mani le
accarezzassero i
palmi. "Parla, Demelza. Lady Boscawen ora non c'entra, non ha
nulla da dire. Ma Demelza Poldark sì, giusto?".
Demelza
sentì gli occhi pungerle. Anche a Demelza Poldark era
successo
spesso mentre a Lady Boscawen non capitava quasi mai... Si arrese,
avvicinandosi a lui e picchiando i pugni sopra il suo petto. Fu come
se una valanga di emozioni a lungo represse la seppellisse... Le
lacrime presero a scenderle come una cascata, proprio come era
successo quando era nata Clowance e le aveva trattenute a lungo, per
poi esplodere in un pianto a dirotto davanti a Prudie e ai bimbi, per
fortuna troppo piccoli allora, per accorgersi di quanto stava
succedendo. "Solo una cosa, Ross".
"Cosa?".
Picchiò
ancora il pugno contro il suo petto. "Perché?
Perché quel
giorno mi hai spinta a farlo? Me lo sono sempre chiesta, più
di ogni
altra cosa".
Ross
la osservò senza capire. Erano successe cose orribile
allora, a cosa
si stava riferendo in particolare? "Parli di quella notte?".
Demelza
scosse la testa, esasperata, continuando a versare quelle lacrime
tanto a lungo trattenute. Erano così salate, mentre le
scorrevano
sulle guance... Santo cielo, faceva così male!
Perché Ross voleva
parlarne? E perché, nonostante tutto, sentiva che era giusto
così?
"Non parlo di quella notte... Sapevo che sarebbe successo, prima
o poi".
Ross
impallidì. "Era così evidente...? Io non ho mai
voluto,
consciamente, che succedesse qualcosa del genere".
Lei
sorrise, nonostante tutto. "Una parte di te, quella che era
ancora legata ad Elizabeth e mai era riuscita ad averla, la ESIGEVA
ancora! Non il Ross che mi aveva sposato, il Ross padre di Julia e
Jeremy. Ma il Ross che era partito per la guerra con la speranza di
sposarsi al suo ritorno, la voleva ancora! Esisteva ancora quel Ross
che amava Elizabeth quando ancora io non ero che una bambina".
"Mi
dispiace" – sussurrò lui, in un soffio. "Non
volevo
farti del male... Volevo essere un buon marito anche se sapevo di non
poter essere perfetto. Non ho mai pensato che cercando di ritrovare
ciò che sembravo esigere, facevo del male a te. Era come se
esistessero due Ross, quello che ti aveva sposato e quello che come
dici tu, aveva ancora vent'anni e sognava una vita idilliaca accanto
a una donna che vedeva come illusoriamente perfetta. Non ho capito,
finché non te ne sei andata, che il mondo non aveva posto
per due
Ross Poldark. E di certo non c'era posto nel nostro matrimonio".
"Me
lo hai già detto, le so queste cose..." - rispose lei. "Non
parlavo di quella notte..." - ripeté, ancora.
"E
di cosa parlavi?".
Le
lacrime presero ancora a scorrerle con forza, dopo che per un attimo
si erano attenuate. Era un ricordo che sempre l'aveva corrosa di
nascosto in quegli anni, era la cosa più difficile che aveva
affrontato allora. "Dal notaio, quel giorno... Perché non ti
sei fermato?". Picchiò ancora contro il suo petto,
singhiozzando. "Perché NON MI HAI FERMATA? Perché
avevi fretta
che firmassi? Perché non vedevi l'ora di correre da lei?
Perché...
Perché hai poggiato la mano sulla mia, illudendomi che
volessi
portarmi via da quell'incubo?". Ecco, quello era il ricordo
più
bruciante per lei! La freddezza di quello studio, di quella firma,
delle parole che si erano rivolti fra loro. La fine di tutto, di ogni
sua ragione di vita, del suo domani. Ed era avvenuto con un semplice
autografo su un foglio di carta, veloce e senza appello.
Ross
la strinse a se, tentando di calmarla.
Demelza
lo fece fare e lui pian piano le accarezzò i capelli.
"Demelza,
non è così. Non avevo fretta, non ho sfiorato la
tua mano per
spingerti a firmare. Avevo bisogno di sentirti, di toccare la tua
pelle... Di coraggio! Ero spaventato quanto te e forse per la prima
volta stavo accorgendomi che non c'era via di ritorno!".
Lei
sollevò lo sguardo, i suoi occhi rossi e disperati come
allora. "Lo
avrei fatto, sai?".
"Cosa?".
"Quel
giorno... Ti avrei seguito, ovunque. Se tu mi avessi chiesto di
andarcene lontano, ovunque, solo noi e i nostri bambini... Io lo
avrei fatto, avrei scelto di darti ancora fiducia e sarei scappata
con te lontano da quell'incubo. Non mi importava del dove... E lo
avremmo superato, saremmo stati capaci insieme, di ripartire da zero.
Solo noi e i nostri bambini. Ogni angolo remoto del mondo sarebbe
andato bene... Lo avrei fatto, Ross! Ma tu non me l'hai chiesto".
Ross
strinse con forza il lenzuolo fra le mani, annientato, schiacciato
dal peso di quelle parole e dal dolore dei ricordi. Poi la
abbracciò
ancora più forte, provando esso stesso il desiderio di
piangere, pur
sapendo di non averne il diritto. "Anche io lo avrei fatto. Se
solo quel giorno avessi avuto il coraggio di essere ancora una volta
egoista e fare ciò che volevo per me, io lo avrei fatto. Ma
ero
così...".
"Cosa?".
Lui
scosse la testa, schiacciato dai sensi di colpa. "Avevo
distrutto la vita di Elizabeth, Valentine sarebbe nato e l'avrebbe
trascinata nell'inferno e io non potevo andarmene e far finta di
niente, vivendo felice e contento accanto alla donna che avevo capito
di amare. Non potevo più permettermi di essere felice!
L'unica
possibilità che avevo era fare ammenda, facendo quello che
meno
avrei desiderato: privarmi di te e prendermi le mie
responsabilità...
E facendo questo, ti ho condannata e assieme a te, ho condannato i
nostri figli. E ora sono quì e non me lo merito. E mi merito
l'odio
di Clowance e Jeremy. Non c'erano strade accettabili da percorrere,
per me. Ma per quanto ti riguarda, anche se all'inizio ero arrabbiato
e confuso nel vedere che ti eri ricostruita una vita, sono felice che
tu abbia trovato poi una tua strada per tornare a vivere e che
assieme a te, l'abbiano fatto anche i nostri bambini. Anche se
lontano da me, come meritavo che succedesse... Amati da un altro,
come voi meritavate che fosse. Per anni ho pensato a voi, a te e
Jeremy. E a Clowance, non riuscendo a darle un volto e un nome
perché
da vigliacco, non ero venuto a conoscerla. Ma una cosa mi consolava
perché voi avevate voi stessi e il vostro amore, che vi
donavate
l'un l'altro. Sapevo che tu avresti fatto in modo che tutto andasse
bene. E io sapevo che per me, tutto era giusto così. Vivere
per
sempre senza sapere nulla di te e dei miei figli ed essere condannato
per sempre a non avere alcun ricordo della nascita di Clowance, dei
suoi primi passi, delle sue prime parole, del piacere di passeggiare
tenendola per mano... In fondo è giusto così,
forse è una
consolazione sapere che questa è la mia punizione, che mi
accompagnerà per sempre: essermi perso sei anni di vita di
mia
figlia, dei miei figli. Tu li hai avuti, io non li
recupererò mai".
Demelza
non disse nulla, lo abbracciò, affondò il viso
nel suo petto e poi
pianse ancora, a lungo. Fra le sue braccia, spinta dal dolore che
aveva dovuto tirar fuori e dalla consapevolezza che lo amava e che
non poteva fare a meno di lui, avvertì anche il suo di
dolore,
profondo e lacerante. Era vero, lui era rimasto solo, lei no... Aveva
fatto tanto male allora, dal notaio. E per tanto aveva creduto che
Ross quel giorno non vedesse l'ora di correre, finalmente libero, fra
le braccia di Elizabeth. Ma ora sapere che non era stato
così,
rendersi conto che gli credeva e che il dolore che aveva provato lei
era stato anche il suo, rendeva quanto meno dolce-amaro quel ricordo.
Ross aveva ragione, a quel tempo non aveva molte altre strade da
percorrere rispetto a quella presa e in fondo lei lo aveva capito ben
prima di lasciare Nampara.
Nampara...
La
sua Nampara... "Ross...?".
La
baciò dolcemente, sulla nuca. "Dimmi".
"I
miei fiori... Esistono ancora, in giardino?".
Ross
sorrise. "Certo. E' uno dei compiti più importanti della
signora Gimlet occuparsene. E ora che siamo quì, questo
compito l'ho
lasciato alla morte di Zachy, dietro lauto compenso".
Demelza
alzò lo sguardo, esibendo finalmente un timido sorriso.
"Davvero?".
"Davvero.
Ho sempre sperato che tu tornassi e sapevo che se lo avessi fatto,
quella sarebbe stata la prima cosa che saresti andata a vedere".
"Davvero
avevi la speranza che sarei tornata?".
Ross
si rabbuiò. "No, non l'avevo. Ma fingere che esisteva quella
possibilità, mi ha aiutato ad andare avanti in questi anni.
Quando
te ne sei andata coi bambini, avevo perso tutto ciò che per
me
significava vivere. E da stupido, l'ho compreso solo dopo aver
rovinato tutto".
Demelza
lo baciò, sulle labbra. Dolcemente, a lungo, nonostante e
oltre il
dolore affrontato e quanto si erano detti. Era strano ma averne
parlato, aver urlato il suo dolore di quel giorno che mai aveva
raccontato a qualcuno, la faceva sentire incredibilmente leggera. "In
fondo noi siamo la dimostrazione che nulla è mai davvero
perduto,
finché si vive. Hai ragione, siamo quì e forse
non lo meriti. Ma
siamo quì ed io l'ho voluto".
Ross
annuì, accarezzandole piano il viso. "Se tornassi indietro,
farei tutto diversamente. Ma non si può e in fondo, da
quanto
successo, quanto meno tu puoi trovare motivi di gioia".
Lei
parve confusa da quelle parole. "A che ti riferisci?".
"Ai
gemellini. Non esisterebbero se io... se noi...".
Demelza
spalancò gli occhi, rendendosi conto che Ross aveva ragione
e che
non ci aveva mai pensato. Trovò dolce che lui lo avesse
detto... "E'
vero. Ma può essere per te, motivo di consolazione come per
me?".
Ross
prese un profondo respiro. "Quanto è successo, ha donato a
me
Valentine e a te i gemelli. Potresti vivere in un mondo senza di
loro?".
Demelza
sorrise, mentre le lacrime si cristallizzavano sul suo viso. "Credo
di no. No! Non potrei, non ora che sono la loro mamma!".
Ross
assunse un'espressione seria, come se quella conversazione non fosse
finita e mancasse ancora un tassello da mettere al giusto posto.
"Posso chiederti di parlarmi di un'altra cosa. Credo di essere
pronto ad affrontarla, ora".
"A
cosa ti riferisci?".
"Parlami
di Hugh!" - rispose, tutto d'un fiato.
Non
lo aveva mai chiesto e Demelza spalancò gli occhi e per un
attimo
tremò. Parlare del notaio era stato difficile ma questo
poteva
esserlo ancora di più, per un tipo orgoglioso e dal
carattere forte
come Ross. Ma era giusto, forse. Se dovevano parlare di quanto
successo, Hugh era un tassello fondamentale. "Non mi hai mai
chiesto di lui. Non così direttamente, almeno".
"Tu
Demelza hai vissuto a lungo coi tuoi fantasmi e Hugh è il
mio. E se
oggi sei stata tanto coraggiosa da parlarmi di noi e di cosa hai
provato quel giorno dal notaio, devo e voglio essere altrettanto
forte. Così, forse, il passato sarebbe superato e farebbe
meno male.
Sono orgoglioso, lo sai, ma...". Ross
strinse convulsamente un lembo di lenzuolo nella mano. Era difficile
per lui ma era qualcosa che doveva affrontare e la pace di quel
momento e di quel giorno rubato alle loro vite, gli sembrava aver
dato il coraggio per chiedere. “Ora voglio mettere da parte
il mio
orgoglio per cercare di capire chi è questo fantasma che si
agita
nella mia testa. Jeremy, da come ne parla... Quando parlava con me,
ovviamente... Questo Hugh sembrava tanto perfetto... Come posso
competere?”.
Demelza
sospirò, colpita dal fatto che avesse parlato di orgoglio.
Orgoglio
ferito, sicuramente gelosia, dolore anche. Ma Ross fino a quel
momento aveva saputo star rispettosamente al suo posto e se ora
voleva delle risposte, era giusto dargliele e raccontare. Forse
sarebbe stato difficile, tante volte era sfuggita a quel momento ma
non poteva farlo in eterno. Sentì un groppo alla gola ma si
impose
di non farsene sopraffare e di essere finalmente forte per aprire del
tutto quei
dolorosi capitoli sul loro passato. “Non devi competere, tu
sei tu
e lui era lui. Troppo diversi per fare paragoni”. Si
fermò un
attimo a pensare a come fare, a come cercare le parole adatte per
raccontargli di lui. Ross era orgoglioso, lo aveva appena detto, uno
spirito caldo e sapeva che, anche se lui non aveva diritto di
replica, quella conversazione poteva tradursi in qualcosa di molto
sgradevole per entrambi. “Era un poeta, vedeva il bello in
ogni
cosa. Un sognatore, un idealista... Troppo giovane, troppo ricco,
troppo abituato ad ogni comodità per capire le brutture
della vita
ma questo non lo rendeva indifferente ma solo molto ingenuo e
sognatore. Una brava persona. Era dolce, mi amava sopra ogni cosa e
amava i bambini. Ha insegnato a Jeremy la bellezza della lettura e
Clowance era la sua principessa da viziare. Coi gemelli, quando sono
nati, era impacciato, come in molte cose pratiche che si trovava ad
affrontare per la prima volta. Loro erano piccoli, lui non aveva mai
avuto a che fare coi neonati e spesso era divertente osservarlo
mentre cercava di occuparsene... Li amava, li amava tutti i bambini.
Era... E'... il mio elfo della nebbia”.
“Elfo
della nebbia? Ci credi pure tu come Demian? E' una fiaba”.
“Hugh
mi ha insegnato a credere nelle fiabe e di questo lo
ringrazierò
sempre. Serve anche questo, nella vita. La nebbia aveva un grande
significato per noi... E' grazie ad essa che ci siamo conosciuti. E
ad essa ci lega una promessa...” - sussurrò,
ricordando quanto le
aveva detto prima di morire, di cercarlo nella nebbia ogni volta che
ne avesse avuto bisogno.
Ross
impallidì e Demelza
capì che doveva
fargli molto male sentirla parlare di Hugh in quel modo. Ma
non poteva evitarglielo, esattamente come lei non era potuta sfuggire
a quel dolore dell'annullamento del matrimonio e a quanto ne era
conseguito. Faceva tutto parte della medesima storia, cause ed
effetti che si rincorrevano da anni. Demelza
era stata sua moglie e
un mondo nascosto a tutti e conosciuto solo a loro, li univa anche
adesso. E ora
Ross capiva
che un altro mondo, stavolta a lui celato, l'aveva unita a Hugh. E
mai lui ne avrebbe fatto parte. “Tu lo amavi?”.
La
voce di Ross tremò, nel fare quella domanda. Demelza
deglutì e
tremò, come quando fu Hugh a porle lo stesso quesito.
“E' così
difficile da spiegare a parole, Ross. Pure lui mi ha fatto questa
domanda, dopo la nascita dei gemelli. E all'epoca non ero riuscita a
rispondergli e spiegargli appieno i miei sentimenti. Era tutto
così
difficile allora, in me e attorno a me. Mi ha toccato il cuore come
nessuno mai, ci è riuscito perché avevo bisogno
di sentirmi amata.
Ha saputo conquistarmi e onestamente non ho ancora capito come abbia
fatto perché
non ero assolutamente alla ricerca di qualcosa del genere.
Semplicemente ci sono caduta e una mattina ho capito che non volevo
perderlo, che avevo bisogno di lui e che ormai faceva parte della mia
vita di allora. Sapevo che non era come con te ma ho ceduto, lui pian
piano mi ha fatta cedere sempre più con dolcezza, pazienza,
calore.
Mi ha dato un tipo di attenzioni di cui avevo disperatamente bisogno
e che non avevo mai ricevuto da nessuno, mi ha sorretta quando non
riuscivo a fare altro che piangere, mi ha sedotta quasi senza che io
me ne accorgessi... Gli ho voluto bene, avrei dato tutto per salvarlo
dalla sua malattia ma...”.
“Ma?”.
“Ma
io non ho mai saputo restituirgli l'amore che lui dava a me. Non
interamente, non come meritava... Il mio cuore, nonostante tutto,
apparteneva ancora a te. Sono stata felice con Hugh, lui mi ha dato
amore, una casa, una famiglia, dei figli e tante risate e
serenità
ma... Ma non mi sentivo completa e sapevo che quello non doveva
essere il mio posto. E' difficile da spiegare ed era difficile da
gestire. Lui lo sapeva, lo sapeva e non se ne è mai
lamentato! Siamo
stati felici, era il mio principe azzurro perfetto per quel tratto
della mia vita, ma sapevo anche che alla lunga, finita la magia,
finito il sogno, finita la favola... iniziata la vita vera,
né io né
lui ci saremmo sentiti a nostro agio davanti alla prospettiva di
vivere un'intera esistenza che non era nelle nostre corde. E' stato
qualcosa di magico con Hugh, magico forse perché limitato
nel tempo
e destinato ad essere breve, che ha raggiunto il culmine in una sera
invernale nei giardini dove ora giocano i miei bambini. Su una
panchina, tutti insieme, per la prima volta ho sentito che eravamo
una famiglia vera. Che non era quella che avevamo noi a Nampara dove
forse mai, io te e i bambini abbiamo trovato tempo solo per noi. E
qui in questa città, qualcosa che avrei voluto a Nampara e
che a
Londra non avevo cercato,
era diventata la mia ragione di vita. Ero
una sopravvissuta che sentiva di avercela fatta.
Lì in quel
parco, con le
nostre mani tutte una sopra l'altra, la mia, la sua, quelle dei
bambini e quelle minuscole dei gemellini che quella sera non volevano
dormire, forse per la prima volta ho sentito che dovevo considerare
quella, la mia nuova casa”.
Ross
abbassò lo sguardo, con gli occhi arrossati. “Fa
male sentirti
dire queste cose. Ma suppongo di doverne essere felice per te e di
doverle accettare come inevitabili, dopo quanto ho fatto”.
Demelza
gli strinse la mano. “Avresti preferito una bugia? Che ti
dicessi
che lo avevo sposato per bisogno o perché costretta dalla
gravidanza? Io volevo bene a Hugh, Ross... Come avevo detto a lui,
esistono tanti modi di amare e ognuno in fondo sa essere
meraviglioso. Ma non eri tu, Hugh non sarebbe mai stato come te ed
entrambi lo sapevamo. Ma ciò che avevamo, ci bastava per
essere
comunque felici”.
“Credo
di capire cosa intendi”. Ross alzò la mano e le
accarezzò la
guancia, fronteggiandola. “Sapere di essere sempre stato
altro ai
tuoi occhi, di essere il tuo rimpianto, in fondo è una
consolazione. E nemmeno questo merito.
E' difficile
comprendere che
lo hai amato, che
ha saputo
farsi amare da te. Era perfetto a
paragone con me
che
sono una persona pessima”.
Demelza
sorrise. “Abbastanza pessima, sì” -
disse, in tono leggero. “Ma
l'ho sempre saputo” - concluse, dolcemente.
“Era
un poeta, giusto? Ti scriveva poesie?”.
Demelza
annuì. “Sì, lo faceva”.
“Me
le faresti leggere?”.
“Qualcuna,
non tutte”.
Ross
si accigliò. “Perché?”.
Lei
arrossì, impercettibilmente. “Perché
alcune sono piuttosto intime
e private”.
A
quelle parole anche Ross arrossì, sentendosi in imbarazzo.
Eccolo
quel mondo e quella parte di Demelza che sarebbe sempre stata solo di
Hugh. E doveva rispettarlo e saperne stare fuori. Come Hugh
probabilmente aveva accettato la sua presenza nel cuore di Demelza,
nonostante tutto. “Scusa... Anche se, ora, forse dovrei
sentirmi
geloso”.
Demelza
sorrise, ancora. “Potresti scrivermi delle poesie pure tu! E
non le
farei leggere a nessuno” - disse, prendendo un cuscino e
tirandoglielo in faccia. Sentì
di non aver più voglia di piangere, ora.
Ross
scoppiò a ridere, lanciando il cuscino di lato.
“Vuoi davvero che
lo faccia?”.
Anche
Demelza rise, di gusto. “No, non credo di volerlo”.
“Per
fortuna... Mi ci vedresti a scrivere poesie?”.
“No,
assolutamente! Al
pensiero, sento che mi terrorizzerebbero i risultati”.
Ross
la guardò e improvvisamente tornò serio,
spezzando quel momento
leggero. Si avvicinò, poggiò la fronte contro la
sua e la sua
espressione tornò ad essere ferita. “E ora che si
fa? Vederti qui
è molto più di quello che avrei sperato ma... non
mi basta. Non
più”.
Lei
si morse il labbro, provava le medesime cose. Essere amanti
clandestini aveva dato loro un brivido e una leggerezza che non gli
apparteneva da tanto, ma poi...? Poi erano soli e ad ognuno mancava
una parte dell'altro. “Non posso darti di più e lo
sai. Ci sono i
bambini, Jeremy non ne vuole sapere di te e io devo mettere loro al
primo posto”.
“C'è
una via d'uscita? Si può tornare indietro?”.
Demelza
lo baciò. “Non si può tornare indietro
ma forse si può andare
avanti. Dobbiamo solo capire come...”. Non era un no, era una
speranza quella che gli stava dando, un riaprirgli la porta come
aveva già fatto altre volte in quei mesi. Ma non sapeva come
fare e
sperava che, insieme, avrebbero trovato una soluzione. Si rese conto
che una soluzione la voleva, anche lei. La voleva sempre
più...
“Lo
faremo, come mi hai promesso al rinfresco dei Thompson.”
- disse lui, baciandola sulle labbra. “Insieme, come
sempre”.
“Come
sempre...” - mormorò lei, contro le sue labbra.
“Ross?”.
“Sì?”.
“Abbiamo
sempre saputo guardare avanti, noi due, quando c'erano problemi. Non
abbiamo mai avuto paura di farlo, insieme...”.
Ross
la baciò sulle labbra. “E' vero...”.
Ecco,
ora poteva spiegare appieno la differenza fra lui e Hugh, ora aveva
le parole giuste sulla punta della lingua. Parole che non sminuivano
nessuno dei due, rispettandone le variegate peculiarità
caratteriali. “Ed è questo che differisce, fra te
e Hugh. Proprio
quello che hai appena detto! Lui mi sarebbe stato accanto mentre
combattevo IO
le mie
battaglie, tu le hai sempre combattute con me invece...”.
Ross
spalancò gli occhi, rendendosi conto che in quella frase
c'era
tutto. Di lei, di lui, di loro e della loro storia... La
baciò, con
passione, catturato dalla sua presenza e dalle sue labbra.
“Demelza...”.
Lei
sorrise. “Non voglio più parlare, ora. Ho ancora
tempo prima di
tornare a casa e desidero solo... fare l'amore con te. Poi
andrò dal
restauratore, al parco a riprendere i bambini, sarò lady
Armitage e
penserò... a come uscire da tutto questo, con te”.
Ross
la baciò, impedendole di parlare. Si stese su di lei e
mentre la
brezza dell'aria quasi estiva accarezzava i loro corpi entrando dalla
finestra aperta, fecero di nuovo l'amore.
…
Il
sole stava calando quando arrivò ai giardini di Kensington,
pieni di
tate affaccendate e bambini schiamazzanti. Si sentiva stranamente
leggera e allo stesso tempo stanca, quel pomeriggio. Ma mentre
camminava, si rendeva conto anche che quelli erano forse i primi veri
passi verso una nuova vita. Ora sapeva cosa voleva, lo sapeva
davvero! Anche se trovare il modo per ottenerlo, sarebbe stato
complicato.
Col
quadretto restaurato in mano che era appena andata a recuperare dal
restauratore, si avvicinò al laghetto dove stavano giocando
Clowance
e Jeremy, intenti a lanciare dei chicchi di grano ai cigni.
“Mamma!”.
I
bimbi le corsero incontro appena la videro e lei sorrise loro,
accogliendoli fra le sue braccia. “Allora, come è
andato il
pomeriggio?”.
Jeremy
sospirò, come preoccupato da qualcosa. “E'
successa una cosa
strana! Catherine ha detto che ora vuol fidanzarsi con Lukas Smith.
Non mi ama più, ha detto”.
Demelza
alzò un sopracciglio, divertita. “Dovresti esserne
contento, no?”.
Jeremy
però, stranamente, sembrava contrariato.
“Sì! Però non si fa
così! Prima dice che ama me e poi solo perché io
non la guardo,
cambia idea! E' poco serio, no?”.
Lei
rise, abbracciandolo e scompigliandogli i capelli. Era decisamente
orgoglioso e contorto, come Ross, nei sentimenti.
“Sarà stata
stanca di sentirsi rifiutata! E tu non puoi pretendere che la gente
ti segua in eterno come un cagnolino. E che questo ti sia da
lezione”.
Clowance
sfiorò il quadretto che teneva fra le mani. “E' il
quadro
pasticciato da Demian?”.
“Sì,
tornato come nuovo! Non dite nulla allo zio, quando torna”.
Clowance
e Jeremy risero guardandosi negli occhi, divertiti da tutti quei
segreti fra loro. “Posso vederlo?” - chiese la
bambina.
Demelza
annuì, levando il piccolo involucro di stoffa che lo
proteggeva. Era
un quadretto piccolo, rappresentante delle scogliere sul mare.
“Eccolo”.
“Il
mare?!” - chiese Jeremy.
Gli
sorrise. “Sì. Questo posto somiglia molto a dove
siamo nati noi,
sapete?”.
Clowance
osservò il quadro, assorta. “E' così
grande, il mare? Più grande
di questo laghetto nel parco?”.
“Infinitamente
più grande, non se ne vede la fine”.
Jeremy
e Clowance si guardarono negli occhi e per la prima volta, Demelza
scorse in loro un po' di curiosità per le loro origini. Li
prese per
mano e li invitò a sedersi con lei, nell'erba. Era il
momento,
forse, di parlare con loro, anche se di certo doveva prendere
l'argomento molto alla larga per non farli chiudere in se stessi.
Doveva approfittare di quel momento nel modo giusto, pensò.
“Se
fossimo rimasti a vivere lì, vi avrei portati al mare ogni
giorno.
Avremmo camminato nell'acqua e sareste stati felici di correre sulla
sabbia, avreste visto i mille colori dei pesci che popolano il mare e
avreste imparato a riconoscerne le diverse specie”.
“Ti
piaceva il mare, mamma?” - chiese Jeremy.
“Certo.
E amavo anche pescare! Ero brava, sai? Tanto brava che quando stavi
per nascere tu, ero in barca con la canna da pesca in mano”.
Jeremy
e Clowance spalancarono gli occhi. “Tu mamma, pescavi? Col
pancione?”.
Demelza
annuì, ricordando quel giorno in cui aveva disubbidito a
Ross, si
era messa nei guai e lui l'aveva salvata, portandola a casa per
partorire mentre per strada litigavano furiosamente. “Certo
che lo
facevo! E sapevo andare in barca più che bene! Ma quel
giorno ho
esagerato e ho messo in pericolo me e te, mio povero piccolo
Jeremy... Tuo padre, ci ha salvati... E' corso in acqua, in mezzo
alle onde molto alte, mi ha tirata a forza fuori dalla barca e mi ha
portata a casa, dove Dwight ti ha fatto nascere”.
Al
sentire parlare di Ross, Jeremy abbassò lo sguardo ma non si
ritrasse come le volte precedenti. La curiosità parve
vincerlo. “Lui
è venuto a salvarci? Davvero?”.
Lo
accarezzò sul viso. Quel giorno aveva ricordato fatti
orribili ma
ora i suoi figli le stavano facendo rivivere anche momenti bellissimi
e purtroppo lontani, che a lungo aveva rimosso da mente e cuore.
“Davvero... Eravamo bagnati come pulcini, entrambi. E lui era
arrabbiato per il fatto che fossi uscita... Mi disse che avremmo
continuato a litigare dopo la tua nascita”.
Jeremy
si accigliò. “E lo avete fatto?”.
“No.
Quando sei nato siamo stati ore ad osservarti, innamorati di te. E ci
siamo dimenticati che dovevamo litigare”.
A
quel racconto Clowance si alzò, prendendo un sassolino che
poi
lanciò nel laghetto. “Allora solo io non ho avuto
il papà vicino,
quando son nata. Era pure inverno e nemmeno è venuto a
vedere se
avevo freddo e doveva accendere il camino”.
Jeremy
abbassò lo sguardo, forse sentendosi in colpa per non
poterla
aiutare e consolare. Era confuso in quel momento, si vedeva che il
racconto della sua nascita lo aveva colpito e comprendeva anche lui
che per Clowance doveva essere difficile sapere di non avere avuto il
medesimo trattamento. E Demelza sentì di dover agire,
ricordandosi
proprio delle parole di Ross di poche ore prima. Si avvicinò
alla
sua bimba, la abbracciò e poi la baciò sulla
fronte. “Ti avrebbe
amata, si sarebbe innamorato di te all'istante. Non ha potuto esserci
ma sai che vuol dire, per lui?”.
“Cosa?”
“Che
ti ha lasciata con chi sapeva che ti avrebbe voluto bene. E che per
sempre si è privato di ogni tuo ricordo di quando eri
piccola.
Soffrirà per tutta la sua vita per questo, te lo assicuro.
Io lo
conosco e so che non aver potuto amarti e starti vicino sarà
una
condanna eterna per lui, che lo farà star male
sempre”.
Clowance
non rispose subito, ma lasciò che la abbracciasse.
“Era meglio se
decideva di soffrire meno e veniva. No?” -
sussurrò.
“Certo.
Ma non si può tornare indietro e lui è un uomo
con tanti pregi ma
che sbaglia, come tutti. Ma lo ha capito, sai? E questa è
una gran
cosa, molti non sanno capire i propri errori. Sa che ha sbagliato
molto e che noi abbiamo pagato per lui... Ma so che ti avrebbe
regalato il mondo se avesse potuto, Clowance. Lo so per
certo”.
La
piccola non rispose più. Si rannicchiò fra le sue
braccia, coprì
con la stoffa il quadro che raffigurava il mare e poi chiese di
tornare a casa.
E
Demelza in cuor suo sperò di aver scalfito, almeno in parte,
qualche
crepa nel suo animo.
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Capitolo 62 *** Capitolo sessantadue ***
“Ho
una sorpresa!”.
A
capo tavola Lord Falmouth si alzò in piedi, pieno di
orgoglio per
qualcosa che aveva fatto o deciso, catturando l’attenzione di
Demelza, Alexandra e dei bambini. Era tornato da poche ore dal suo
lungo viaggio in Portogallo, giusto in tempo per fare un bagno
ristoratore e prepararsi per il grande pranzo che era stato fatto
preparare in suo onore, con tutte le sue portate preferite.
Demelza
aveva vissuto il ritorno dell’uomo in maniera contrastante.
Aveva
voglia di riaverlo a casa e di lasciare a lui, esperto e carismatico,
la guida della famiglia, ma allo stesso tempo in quei mesi tante cose
erano cambiate ed era ora, dopo anni, di dire la verità.
Sarebbe
stato un terremoto all’interno del clan dei Boscawen ma non
poteva
più rimandare. Aveva promesso a Ross di compiere quel passo,
lo
aveva implorato di lasciarglielo fare da sola e ora non poteva
più
tirarsi indietro, anche e soprattutto per il bene dei bambini che non
potevano continuare a vivere tenendo nascosti quei tanti segreti che
dovevano appartenere solo al mondo degli adulti. Demelza non aveva
idea di cosa questo avrebbe generato, aveva paura, timore delle
conseguenze e di perdere la famiglia unita che erano diventati e che
tanto amava, ma non aveva scelta. Non voleva avere scelta, era giusto
che il segreto che l’aveva unita solo a Hugh e che per tanto
era
stato celato, venisse allo scoperto.
Guardò
l’uomo, incuriosita e decisa a parlargli dopo pranzo, assieme
ad
Alexandra, una volta rimasti soli. “Sorpresa?”.
Falmouth
con un gesto gentile della mano, la invitò a mettersi
composta,
facendo poi altrettanto sulla sua sedia. “Certo, una
sorpresa! Per
tutti e che renderà te felice e i bambini
eccitati!”.
“Cosa,
zio?” – domandò Jeremy, improvvisamente
molto interessato.
L’uomo
sorrise, tronfio di strano orgoglio. “Come sapete, il mio
viaggio
in Portogallo si è prolungato di quasi un mese, rispetto
alle
aspettative. Ma ho concluso ottimi affari e ho acquistato dei
meravigliosi purosangue che arricchiranno le nostre stalle e la
nostra competitività nelle corse. Ma soprattutto, ho
conosciuto
altri lord inglesi in Portogallo per affari, che hanno
attività
economiche in espansione all’estero, soprattutto nella nostra
amata
Scozia” – disse, osservando i gemellini che lo
guardavano un po’
annoiati.
Demelza
osservò i bimbi con preoccupazione, poi Falmouth. Che aveva
in
mente? “Quindi?”.
Falmouth
annuì, sempre più orgoglioso. “Quindi,
la Scozia è un nostro
protettorato ancora pressoché selvaggio, da colonizzare e
ammodernare”.
“Dobbiamo
conquistarla!” – esclamò Demian,
divertito.
Falmouth
lo indicò col dito, pieno di orgoglio. “Esatto,
bravo bambino!”.
Demelza
e Alexandra si guardarono in viso, incapaci di capire dove volesse
arrivare. “In fondo, la Scozia è già
nostra da decenni” –
azzardò Demelza, con cautela, timorosa di dire qualche
sciocchezza.
Falmouth
sbuffò. “Nostra sulla carta, ma ancora di fatto
ancora impregnata
di quel selvaggio e vecchio modo di vivere dei suoi abitanti in
gonnella. Va inglesizzata e civilizzata, ovviamente. E’
nostro
dovere farlo, un dovere materiale e morale!”.
Demelza
lo guardò, scettica. Che a Falmouth importasse dei doveri
morali
verso gli scozzesi, ci credeva poco… Se si muoveva in tal
senso ed
era tanto interessato alla Scozia, qualche interesse più
‘materiale’
ci doveva essere. “Quale sarebbe la sorpresa? E cosa
c’entra coi
nostri doveri morali verso gli scozzesi?” –
tagliò corto.
Lui
annuì come aspettandosi già quella domanda,
sistemandosi poi il
tovagliolo sulle gambe. “Terre selvagge, territori ancora
vergini
dove espandere i nostri commerci e i nostri affari, nuove esperienze
e nuove proprietà. In Portogallo ho conosciuto Lord Wetmore,
appassionato di stalloni purosangue come me. Vive qui a Londra,
Demelza ne hai sentito parlare?”.
“No”.
“No,
ovviamente. E’ anziano, non fa parte di Westminster, ma ha
molta
influenza a corte. Beh, ecco…”.
Daisy
sbuffò, Demian appoggiò la testa al tavolo,
Clowance prese a
giocare con una ciocca di capelli e Jeremy sbadigliò,
riuscendo a
mettere la mano davanti alla bocca all’ultimo, prima di
guadagnarsi
un’occhiataccia dallo zio e Demelza capì che
stavano morendo di
noia. E non gli dava torto! “La Scozia e Lord Wetmore che
c’entrano
con noi?”.
“Nulla…
per ora! Ma Wetmore fu lungimirante qualche decennio fa, stabilendo
una sua seconda dimora in Scozia. Ha avviato fiorenti traffici
commerciali con le terre a nord e credo sarebbe opportuno che anche i
Boscawen facciano altrettanto. Per il bene della Scozia ovviamente,
del commercio, del re e della nostra nazione,
l’Inghilterra…”.
“E
nostro…” – concluse Daisy sibillina,
mettendosi davanti alla
bocca le manine per non ridere.
Anche
a Demelza venne da ridere. Santo cielo, orsetta conosceva benissimo
suo zio e questa storia della conquista della Scozia, che sentiva da
quando era nata, doveva averla portata ad ovvie conclusioni.
“Per
il bene della Scozia e di riflesso, dei Boscawen” –
sussurrò
sotto voce, decisamente divertita ma anche preoccupata. Che voleva
fare, Falmouth?
L’uomo
occhieggiò la nipotina, accigliato e decisamente incerto se
arrabbiarsi per la sua faccia tosta o complimentarsi per la sua
franchezza. Tossicchiò. “Il bene comune
è un fine da perseguire
sempre! E qui arriva la sorpresa per voi!”.
Anche
Alexandra intervenne. “Quale?”.
Falmouth
sorrise, si alzò, prese un profondo respiro e poi fece il
suo
trionfale annuncio. “Sarebbe bello, oltre che redditizio,
passare
un periodo in Scozia per una vacanza. Voi ne approfitterete per
svagarvi in un luogo che amate e che per questa famiglia è
stato
fondamentale” – disse, guardando profondamente
Demelza che
arrossì e i gemelli – “E io…
Io ne approfitterò per
acquistare un castello come seconda dimora per noi, dove mandare
emissari che portino avanti i miei affari in quelle terre e dove
andare a svagarci un po’ quando ne abbiamo voglia! Hanno
castelli
fantastici da quelle parti, possederne uno aumenterà il
prestigio
del nostro casato e ci renderà potenti in quelle
terre”.
Clowance
e Jeremy si guardarono, eccitati. “Un castello?! Come i re?
In
Scozia, come quando ci eravamo andati con papà ed eravamo
piccoli?”.
Falmouth
annuì. “Esattamente! Sostituiremo gli antichi
principi di Scozia e
daremo lustro a quella terra selvaggia come novelli principi
d’Inghilterra!”.
Clowance
divenne rossa dall’emozione. “Io… come
una principessa…” –
sussurrò.
Alexandra
sbiancò, per nulla contagiata dall’entusiasmo del
fratello.
“Dovrei venire pure io? Dai selvaggi in gonnella?”.
Demelza
scosse la testa, guardandola. Per lei, troppo Lady e troppo legata a
Londra, quella era una prova di coraggio impossibile da superare e la
Scozia, nella sua immaginazione, doveva apparire come un luogo pieno
di insidie e primitivo, anche se in realtà lei aveva
scoperto
tramite Hugh che non era così. Prati infiniti, boschi
magici,
atmosfere incantate e ovunque, il rimando a secoli addietro dove
castelli, cavalieri e dame la facevano da padroni in un mondo duro ma
pieno di fascino. La Scozia era stata la prima vacanza della sua
vita, la scoperta di paesaggi nuovi rispetto all’Inghilterra,
il
romanticismo condiviso con Hugh, la gioia dei suoi bambini che
giocavano a fare i cavalieri e la principessa coi costumini a tema
fatti fare per loro proprio da Hugh e soprattutto la nascita di due
nuove vite che avevano preso la forma dei suoi vivacissimi
gemellini…
Era una terra magica ed era stata per lei l’inizio di una
nuova
vita e della costruzione di una nuova famiglia con Hugh. Strinse i
pugni sotto il tavolo, incerta se essere emozionata per il fatto di
tornare a far visita a luoghi che in lei avevano lasciato bellissimi
ricordi e nostalgia o preoccupata per quello che avrebbe potuto
pensare Ross. “Quando dovremmo partire?”.
Falmouth
sorrise amabilmente. “Ad inizio giugno, fra un mese e mezzo.
Alix,
sarai dei nostri? Sarà un viaggio che occuperà
forse metà estate,
ti piacerà!”.
La
dama lo guardò, con occhi spalancati. “In Scozia?
Santo cielo, per
quanto abbia amato Hugh ed ami i bambini, non ho mai capito
l’amore
che ha sempre risvegliato quella terra inospitale agli appartenenti
di questa famiglia! No, non credo di riuscirci… Tornerei
malata da
un posto del genere!”.
Clowance
si imbronciò. “Dai, nonna!” –
la implorò.
La
donna le accarezzò i capelli. “Tesoro, io sono da
tè in giardino,
da uncinetto, da ricevimenti pomeridiani. Non potrei sopravvivere a
luoghi tanto selvaggi, a castelli tetri e a uomini primitivi che
girano in gonna”.
Alix
parve in difficoltà davanti a quella che era la sua nipote
prediletta, a cui mai diceva di no e che coinvolgeva in molte delle
sue attività quotidiane. Ma Demelza sapeva che la Scozia per
lei
sarebbe stata troppo e che nonostante l'amore per Clowance, ne
sarebbe uscita distrutta. Era una donna esile, logorata da una vita
piena di lutti difficili e non più giovane e se non se la
sentiva di
partire, tutti dovevano rispettare questo suo desiderio. E quindi si
alzò, andando vicino a sua figlia. "Clowance, sai che non
è
bello insistere, no? Se la nonna non se la sente e vuole aspettarci
quì tranquilla, noi dobbiamo rispettare il suo desiderio".
"Ma...".
Demelza
assunse un'espressione più ferma, con lei e coi fratelli.
"Basta
storie, al viaggio manca tempo e ancora non so se riusciremo a
partire tutti. E...".
E
a quel punto Falmouth la bloccò. "Certo che partiremo tutti!
Che storie sono? I bambini adoreranno tornare a vedere quelle terre
inesplorate" – disse, come se avesse in programma di portarli
in capo al mondo – "E i gemelli vedranno i luoghi che hanno
dato loro la vita e che un giorno conquisteranno".
Demelza
sbuffò al sentire nuovamente quella storia. "I gemelli non
conquisteranno la Scozia, è già nostra".
Falmouth
raccolse il suo sguardo di sfida. "Metteranno il marchio sul
nostro dominio laggiù!".
"Non
ora, però...". Si sentì frustrata e
capì che davvero, anche
per quello, doveva parlare al più presto a Falmouth di Ross.
"Ne
parleremo più tardi da soli. C'è qualcosa che
dovrei dire e
preferirei farlo quanto prima. Qualcosa di importante".
Il
tono grave che aveva usato fece preoccupare Falmouth. "Tutto
bene?".
"Sì,
ma devo parlarvi dopo pranzo, quando i bimbi usciranno a giocare e
potremo farlo tranquillamente".
Jeremy
sussultò e poi la guardò preoccupato, forse
capendo di cosa volesse
parlare. Anche Clowance tremò lievemente mentre i gemelli,
incuranti
di tutto, giocavano col cibo che avevano nel piatto, decisi a non
mangiare nulla come al solito.
"Di
cosa devi parlarci, cara?" - chiese Alix.
E
Demelza si sentì in colpa. Sarebbe stato un dolore per lei
sapere di
Ross e la verità sul suo passato e in cuor suo
sperò che capisse e
che continuasse ad amarla come prima senza avvertire il peso del
tradimento alla memoria di Hugh. Osservò i bimbi, davvero
provati da
quella conversazione, e decise che era ora che per loro il pranzo
finisse dato che non sembravano nemmeno avere più appetito.
"Su,
direi che potete alzarvi" – disse. E a quelle parole i
quattro, come se non avessero aspettato altro, balzarono in piedi
pronti a fuggire in giardino a giocare. "Ma prima...".
"Prima?"
- chiese Demian.
Demelza
osservò i doni che Falmouth aveva portato ai bambini dal
Portogallo:
una nuova sella per Jeremy, una bellissima bambola di porcellana per
Clowance, dei soldatini di piombo dipinti a mano per Demian e un
orsacchiotto bianco per Daisy. Tutti giochi e regali di ottima
fattura, sicuramente costosissimi e per i quali i bambini non avevano
ancora ringraziato come si conveniva. "Dovete dire grazie allo
zio per i regali!".
Falmouth
annuì, trovandosi d'accordo. "Vi piacciono?".
Jeremy
sorrise, guardando con avidità ma anche un pizzico di
preoccupazione
per l'imminente colloquio fra grandi, quella sella. "Sì,
tanto!
Grazie zio!".
"Grazie
zio!" - esclamò Clowance, correndo a baciarlo sulla guancia.
"Mi piace tanto, soprattutto il vestito rosso e i nastri fra i
capelli. E' la bambola più bella di tutte quelle che ho!".
Falmouth
sorrise e si voltò verso i gemelli, rimasti in silenzio. "E
voi? Non gradite i vostri doni?".
Demelza
occhieggiò i piccoli e Daisy sospirò, scendendo
dalla sedia ed
avvicinandosi all'orsetto che era stato lasciato sul sofà.
"Sì.
Ma io lo volevo vero, una volta, l'orso. Ora non lo voglio
più vero
che se no vi mangia tutti e questo è finto e non
è la stessa
cosa!".
"DAISY!"
- la richiamò Demelza.
La
piccola sbuffò, rimettendo il giocattolo sul
sofà. "Grazie
zio..." - disse fiaccamente. "Ma la prossima volta mi porti
uno scoiattolo? Adesso mi piacciono quelli!".
Falmouth
divenne paonazzo per la faccia tosta della piccola, sicuramente
sincera ma decisamente poco diplomatica. Poi si rivolse a Demian,
decidendo di soprassedere. "E tu? Adori i soldatini? Servono per
insegnarti come conquistare la Scozia! Sono tutti dipinti a mano, li
ho fatti fare apposta per te".
Demian,
ancor meno entusiasta di Daisy, sospirò. "No! Io volevo i
pastelli!".
Demelza
lo raggiunse e lo afferrò prima che lo facesse Falmouth.
Santo
cielo, era una buona cosa che non mentisse ma non era bello quel
comportamento. Molti bambini avrebbero pagato per avere quei giochi
che lui non sapeva apprezzare perché forse ne aveva fin
troppi e
arrivati a lui senza fatica e questo le dava la spiacevole sensazione
che i suoi figli fossero viziati. E la cosa non le piaceva affatto!
Capiva che i soldatini non erano nell'indole di Demian e che Falmouth
insisteva per renderlo un qualcosa che lui non sarebbe mai stato, ma
il punto era un altro. Si doveva esser sempre grati a chi aveva un
pensiero gentile per noi e Demian e Daisy dovevano impararlo anche se
l'arte della diplomazia era un concetto ancora difficile per bambini
di soli quattro anni. "Chiedi scusa allo zio e ringrazialo!".
Il
piccolo la guardò senza capire dove avesse sbagliato. "Scusa
zio... Ma a me piacciono i pastelli, la prossima volta mi compri
quelli? A me non piacciono i soldatini!".
Demelza
guardò Falmouth sempre più rosso in viso e
capì che era il caso di
spedire al più presto fuori i bambini. I pastelli erano
stati
banditi da Falmouth nel palazzo e Demian li usava di nascosto quando
lui non c'era, prendendoli dal cassetto dove lei li aveva custoditi
per farglieli usare di tanto in tanto, anche se poi finiva per
combinare guai. Falmouth, se avesse potuto, li avrebbe fatti bandire
dall'intera Inghilterra! "Demian, ringrazia!".
"Grazie..."
- disse infine il piccolo, mogiamente.
Jeremy
e Clowance, in silenzio, osservarono la scena vagamente preoccupati.
Daisy invece, spazientita, decise di dire la sua. "Giuda zio! Se
gli piacciono i pastelli, deve avere i pastelli! Mica ci ha mai
giocato Demian, coi soldatini! Lui vuole andare sulla luna, mica fare
la guerra! E poi mamma dice che i pastelli piacevano anche al
papà!
Sono uguali" – concluse trionfalmente, facendo singhiozzare
Alix e rendendo Falmouth ancora più nervoso.
"Appunto..."
- disse l'uomo infatti, che mai aveva apprezzato lo scarso impegno
politico e il grande amore per l'arte di Hugh.
Demelza
si avvicinò a Jeremy, chiedendogli di portare fuori i
fratelli. Era
decisamente ora di far prendere loro un pò d'aria o Falmouth
li
avrebbe spediti a suon di sculacciate a conquistare ogni angolo
conquistabile del mondo.
Il
ragazzino ubbidì e poi, dopo aver preso i gemellini per mano
e
essersi accodato a Clowance, uscì fuori con la sua piccola
truppa al
seguito.
Falmouth,
torvo in viso, li guardò uscire. "La Svizzera! La ricordi,
Demelza?".
Lei
alzò gli occhi al cielo. "Hanno solo quattro anni...
Impareranno ad essere riconoscenti".
"Svizzera!
TUTORE-SVIZZERO!" - ripeté l'uomo.
"No!".
Falmouth
sospirò, mettendosi a sedere con viso stanco. "Demelza, a
quei
bambini serve una guida. Qualcuno di carismatico in cui riconoscersi
e da cui imparare. Una figura forte! Te ne rendi conto anche tu,
vero? Ne abbiamo già parlato mesi fa mi pare e man mano che
i
bambini crescono, ne sono sempre più convinto... Sei una
madre
meravigliosa ma il ruolo che loro richiedono non spetta né a
te né
a me".
Alix,
captando dove volesse andare a parare, fece per protestare. Ma
Falmouth, con un'occhiataccia, la zittì. "E' per il suo bene
e
quello dei bambini, Alexandra! Hugh è morto da anni e anche
lui
vorrebbe così".
La
fissò in viso, aspettandosi l'ennesimo rifiuto da parte sua.
Ma
Demelza stavolta lo stupì. "La cosa che dovevo dirvi
riguarda
proprio questo, in un certo senso..." - esclamò, ricordando
quando lui le aveva proposto uno sviluppo romantico della sua
relazione con Ross e lei aveva rifiutato con sdegno e turbamento.
Quante cose erano cambiate, da allora...
Lo
sguardo di Falmouth si fece improvvisamente vigile. "Davvero? Ci
sono novità? HAI novità?".
"Demelza!?"
- esclamò Alexandra, stupita.
E
lei annuì, mettendosi a sedere. Le mani le tremavano, il
cuore le
pulsava in gola e lo stomaco pareva contorcersi dall'ansia. Ma era
giusto, era il momento e forse avrebbe dovuto farlo molto prima.
"Ecco, c'è qualcosa che non vi ho detto e che non avrei
dovuto
tenervi nascosto... Ma non pensavo ci fosse bisogno di parlarne,
pensavo di poter tenere lontano ciò che è poi
successo".
Alix
le posò gentilmente la mano sul braccio, percependo il suo
turbamento. "Demelza, che è successo?".
"Di
che si tratta?" - chiese Falmouth.
Prese
un profondo respiro, cercò in lei tutto il coraggio che
aveva a
disposizione e poi parlò. "Si tratta di Ross Poldark".
"Poldark!".
Falmouth assunse un'espressione maliziosa e le sue labbra si
schiusero in un sorriso furbo. "Oh... Quel fuoco che avevo
notato a Natale, vuoi dirmi che non me l'ero immaginato?".
"E'
un pò più complicato di così, temo".
Falmouth
si alzò dalla sedia e le si avvicinò, poggiandole
le mani sulle
spalle. "Demelza, dimmi che è quello che penso e spero!
Dimmelo
perché quel dannato uomo cornish più testardo di
un caprone, mi ha
colpito da subito e lo vorrei vedere non solo fra le mie fila in
Parlamento ma anche come presenza costante quì! Dimmelo!
Fammi
felice e non dirmi che è complicato! Voi donne rendete
complicate le
cose facili, cose che per noi uomini sono così semplici e
lineari da
risutare quasi banali!".
Demelza
abbassò lo sguardo, torturando con le mani la stoffa della
sua
gonna. Santo cielo, come avrebbe desiderato ragionare come un uomo...
"Vi farebbe felice sapere che io Ross Poldark lo conoscevo da
molto prima di voi? Vi farebbe felice se vi dicessi che a lungo ho
tenuto questo segreto? Vi farebbe felice sapere che quando venni a
Londra, era da lui che cercavo di scappare, per rifarmi una vita? Vi
farebbe felice sapere che Ross Poldark fu il più grande
fantasma con
cui abbia combattuto Hugh?".
Falmouth
impallidì, tanto che Demelza temette di vederlo svenire. Non
aveva
detto nulla dopo tutto, nulla di eclatante. Ma quelle semplici
parole, per una vecchia volpe come lui, erano più che
eloquenti.
"Demelza... Cosa stai cercando di dirci?" - chiese,
cercando con lo sguardo la complicità di Alexandra.
Gli
occhi le divennero lucidi, era la Demelza Poldark di Nampara che ora
loro avrebbero conosciuto, la Demelza Poldark che pensava di non
voler più essere. "Fu mio marito, prima che decidesse di
annullare il nostro matrimonio. Ed è il padre di Jeremy e
Clowance...".
A
quella rivelazione, Falmouth dovette cercare convulsamente una sedia
per sedercisi sopra prima di svenire. "Cosa?".
"Fu
mio marito, l'uomo con cui volevo passare la vita! Ci sposammo e non
andò bene, il matrimonio potè essere annullato
per un cavillo
legale e lui si risposò col suo primo amore, lasciando sola
me coi
bambini. E tante cose ci hanno tenuti lontani, entrambi ne abbiamo
sofferto e questa storia sembra terribile e lo è ma non
è come
sembra in superficie. E lui è tornato e volevo solo tenerlo
lontano
ma poi non ci sono riuscita... Ross fa parte di me e io di lui e le
cose che ci hanno divisi, sono state quelle che ci hanno fatto capire
chi siamo, cosa vogliamo e qual'è il nostro posto. E'
ciò che ci ha
fatto crescere, assieme ai nostri errori che per anni hanno lacerato
entrambi... I bambini sanno la sua identità e lo detestano,
i
gemelli invece lo adorano e io ho dovuto gestire tutto questo in
silenzio per mesi, da sola. Solo Hugh sapeva la verità, la
accettò
con sofferenza e mi amò lo stesso, proteggendomi col
silenzio da ciò
che la gente avrebbe detto e pensato di me. E io sono quì e
sono
questa che vedete, la donna che conoscete, con la mia storia che
invece ai vostri occhi è tutta nuova... Lady Boscawen non
è altro
che una povera ragazza figlia di minatori della Cornovaglia, scappata
di casa a quattordici anni, accolta da un giovane nobile che l'ha
fatta crescere e le ha insegnato a vivere. E l'ho amato quel giovane,
anche se tante cose allora ci tenevano divisi... E ho amato Hugh,
arrivato a salvarmi dal baratro, che mi ha ridato una nuova vita e
una famiglia. E non avrei voluto mentire, non avrei voluto...".
Parlò come un fiume in piena mentre le lacrime le rigavano
il viso,
singhiozzando come una bimba.
Falmouth
la guardò, grave. "Questo che mi dici, va contro ogni mia
più
fervida immaginazione... Sta calma ragazza, sta calma e raccontami! E
dopo deciderò se farlo sbattere in prigione o apprezzarlo
come
sembri apprezzarlo nuovamente tu".
"Ma...
Io... E i bambini... Ora che ne sarà di ciò che
siamo stati?".
Alix,
scossa, la accarezzò sulla nuca. "Tesoro, tu sei tu e i
bambini
sono i bambini che abbiamo sempre amato! Niente cambierà
tutto
questo... Ross Poldark è un altro discorso, ora ci dirai
tutto e poi
giudicheremo!".
"Non
avrei dovuto mentire...".
Falmouth
sospirò, fissandola severamente. "Ma lo hai fatto come del
resto lo ha fatto il signor Poldark e piangere sul latte versato non
serve a nulla! Sai come la penso, no? Raccontami tutto... Non per
giudicare te che conosco ma per decidere cosa lui sia davvero!
Racconta a noi cosa hai raccontato a Hugh, rendici partecipi di
questo mistero e poi insieme, come una famiglia, decideremo!".
E
Demelza raccontò... Della Cornovaglia e delle sue origini,
di suo
padre e sua madre e dei suoi tanti fratelli, della ragazza selvaggia
che era e di come Ross fosse entrato nella sua vita. Del ruolo di
Elizabeth, del disastro che era successo al suo matrimonio e di come
se ne fosse andata dalla Cornovaglia dopo l'annullamento delle nozze
con Ross. E poi di Londra, dei loro primi incontri, di come si
fossero scoperti diversi, dei sentimenti di Jeremy e Clowance e
dell'attaccamento a Ross dei gemelli. E infine, pur non citando
Adderly e senza entrare troppo nei particolari, di come lei e Ross
fossero tornati una coppia, anche se nascosta e clandestina...
Raccontò.
E per la prima volta da quando si erano incontrati anni prima, fu
come se Falmouth e Alix la conoscessero davvero. E con lei, Ross.
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Capitolo 63 *** Capitolo sessantatre ***
Era
talmente stanca dopo quel lungo racconto condito da infinite lacrime,
che le sembrava di non esserlo mai stata tanto nemmeno dopo aver
partorito i suoi figli. Era sfinita e preoccupata perché pur
sapendo
quando i Boscawen amassero e apprezzassero lei e i bambini, non aveva
idea di quali conseguenze sarebbero occorse ora che sapevano la sua
provenienza, perché era venuta a Londra e quali legami
passati
l'avessero unita a Ross. Lui era il padre di Clowance e Jeremy e
questo non avrebbe potuto essere ignorato. Era stato suo marito e
l'aveva abbandonata dopo un periodo infernale coi bambini e nemmeno
questo avrebbe potuto essere ignorato! I gemellini adoravano Ross e
di nuovo, questo non poteva essere ignorato. E lei era tornata a
frequentarlo, il primo uomo dopo la morte di Hugh e ovviamente,
nemmeno questo poteva essere ignorato.
Cosa
pensavano ora Falmouth e Alix delle tante bugie degli ultimi mesi,
dei silenzi e di quella nuova Demelza che forse conoscevano davvero
in toto per la prima volta? Hugh non aveva voluto che loro
indagassero sul suo passato e che la conoscessero per ciò
che era
senza pregiudizi, ma perché aveva tanto insistito su questo
punto?
Per proteggerla da eventuali ritorsioni della famiglia contro una
donna sola e ripudiata che portava in grembo i suoi eredi o
perché
davvero, semplicemente, la vedessero come la vedeva lui?
Era
il momento della verità adesso ed era sola. Non aveva voluto
che
Ross fosse presente a quell'incontro e Hugh non era con lei per
proteggerla da anni, ormai... Alzo lo sguardo, asciugandosi il viso
col fazzoletto. Fuori i bambini giocavano in giardino coi cani,
facendo un baccano assurdo che arrivava alle loro orecchie dalle
finestre aperte, si sentiva Prudie che strillava contro di loro e
tata-Mary che li richiamava, senza ovviamente avere risposta. "E
ora sapete tutto" – sussurrò, rendendosi contro
che la pace e
la serenità vissute in quella casa, forse erano perse per
sempre.
Falmouth
la fissò con quei suoi occhietti grigi ed indagatori che
spesso
sapevano mettere a nudo l'anima dei suoi interlocutori. La sua
espressione era indecifrabile come quella di una statua di pietra ed
era impossibile per Demelza capire se fosse sorpreso, arrabbiato o
solo shoccato. "Dimmi una cosa, mia cara".
"Cosa?".
Dopo
aver lanciato uno sguardo ad una pallida Alix, Falmouth prese un
profondo respiro. "Da bambina ti capitava di vedere persone...
Persone come quelle di cui fai parte ora?".
A
quella domanda, Demelza abbozzò un sorriso. Era evidente che
Falmouth non avesse idea di cosa fosse Illugan e di quali persone lo
frequentassero. "Dove sono nata e cresciuta io, non venivano
certo Lords o principi. Solo minatori e al massimo, proprietari di
miniera. Per vedere qualche signorotto locale, bisognava allontanarsi
e arrivare a Truro o alle grandi fiere di paese come quella di
Redruth, dove ho conosciuto Ross".
Falmouth
annuì. "E quando andavi ad esempio a Redruth e vedevi un
nobile, che pensavi? Lo invidiavi?".
Non
capeva perché Falmouth le facesse quelle domande ma era
giusto
rispondere a tutto ciò che chiedeva. Doveva essere difficile
per lui
quanto lo era per lei, quel momento. "No. Eccetto una volta...
Avevo forse otto anni, mia madre era appena morta e avevo
accompagnato mio padre a comprare del carbone per la stufa. Faceva
freddo, c'era un vento gelido che spezzava le gambe e io indossavo un
abito di lana logora, ero scalza e terribilmente affamata. Mio padre
entrò in un negozio e io, mentre lo aspettavo fuori, vidi
arrivare
una bellissima carrozza che si fermò davanti a uno spaccio
di pizzi
e stoffe. Scese un nobile e poi dopo di lui, sua moglie e sua
figlia. Erano tutti bellissimi, eleganti, con abiti caldi e raffinati
e la bambina, che aveva la mia età, teneva per mano sua
madre che le
sistemava i lunghi capelli biondi sotto il cappuccio del mantello,
per proteggerla dal vento. Ecco, in quel momento ho invidiato quella
bambina. Avrei voluto essere lei, avere il suo mantello caldo e una
madre che mi prendeva per mano e mi sistemava i capelli. In quel
momento ho giurato a me stessa che da grande, se fossi diventata
madre a mia volta, mai avrei permesso che i miei figli sentissero
quel desiderio e quell'invidia per quella bambina, che stavo provando
io. Promisi a me stessa che ci sarei stata e che mai si sarebbero
sentiti soli ad affrontare fame, freddo o tutto quello che la vita
può riservare. Ed è con questo principio che li
sto cresciendo
ora".
Colpito
da quel racconto assolutamente sincero e sviscerato con una punta di
emozione, Falmouth le strinse le mani nelle sue. "Cara, tu non
hai e non avrai mai più questi problemi. E nemmeno i
bambini, questo
è fuori discussione".
Anche
Alix poggiò le sue mani fredde sulle sue. "Sei
quì e se avrai
bisogno che ti sistemi i capelli, lo farò io come tu lo fai
coi
bambini. E avrai sempre tutto il resto che hai invidiato quel giorno
a quella bambina, così come Jeremy, Clowance e i gemellini".
Falmouth
annuì. "Era altro che ti stavo chiedendo, Demelza. Un altro
tipo di invidia che spesso i poveri sentono verso di noi. Credono che
siamo liberi di fare tutto, che tutto ci sia concesso e che non
abbiamo regole da seguire. Lo credevi pure tu?".
Ci
pensò. Era vero, ciò che lui diceva corrispondeva
alla visione di
molte delle persone che aveva conosciuto nei suoi primi anni di vita
e probabilmente lo aveva pensato anche lei da bambina, ma poi vivendo
con Ross aveva capito che in realtà non era così
che funzionava.
Certo, i nobili e le persone abbienti avevano libertà di
scelta e
più possibilità degli altri ma avevano anche loro
delle regole,
spesso decisamente rigide, a cui sottostare. E infinite
responsabilità che ai meno abbienti non toccavano. "Una
volta
lo credevo. Ora non più... E' molto difficile nascere e
vivere dove
sono nata io ma se volevo uscire di casa e correre nei campi scalza,
potevo farlo. Ora no, non io e non i bambini... Nessuno al mondo
può
fare davvero tutto ciò che vuole, nemmeno un re".
Alix
guardò verso la finesta. "Tutti eccetto i gemelli... Loro
fanno
TUTTO ciò che vogliono e corrono pure scalzi per il giardino
e per
Londra".
Falmouth
finse di ignorarla, tossicchiando. "Il punto a cui volevo
portati Demelza, è proprio questo. Tu ora sei Lady Boscawen
e non
sei più Demelza Carne di Illugan. E nemmeno la moglie di
Ross
Poldark. Ora sei da esempio per tanti e le tue azioni diventano anche
le nostre azioni... Ora diventa tutto più difficile e se una
volta
eravate solo tu e Ross Poldark a decidere per voi e per le vostre
vite, ora non è ovviamente più così".
Ecco,
ora arrivava la parte difficile, se lo sentiva. "Lo so...".
"E
non si tratta solo dei bambini e di te. Ma anche di noi..." -
proseguì Falmouth.
"Lo
so... Non volevo mentirvi, non volevo fare qualcosa di nascosto e per
tanto ho cercato di tenere Ross lontano. Ma non ci sono riuscita e
ora... ora sento...".
Il
tono di Demelza, disperato e preoccupato, nonché spaventato,
fece
sorridere Falmouth. "Demelza, Hugh ti amava e so che tu amavi
lui. Fu un matrimonio riuscito il vostro e anche se io all'inizio
avevo molte riserve su di te, sono felice che Hugh mi abbia chiesto
di non far ricerche sul tuo conto. E di aver rispettato quel
giuramento. Lui voleva che ti conoscessi senza pregiudizi per
ciò
che sei e oggi so che tu sei preziosa per noi, che ci hai resi una
vera famiglia e che non solo sei la madre dei nostri eredi ma anche
il collante che ci tiene uniti dopo la perdita di Hugh. Sei una donna
giovane e libera adesso e spesso io stesso ti ho rimproverata per il
tuo ostinarti a vivere il lutto a oltranza... A Londra la tua
condizione è fra le più invidiabili: giovane,
ricca, libera e
indipendente. Qualunque cosa tu faccia, purché nel rispetto
del
pudore e della decenza, non darà mai adito a scandali. Io
stesso ti
chiesi di pensare a Ross in altri termini perché avevo visto
che
c'era qualcosa di forte fra voi... Allora non sapevo la
verità e ora
capisco il tuo astio iniziale verso i lui ma adesso il punto
è un
altro: tu lo frequenti, Jeremy e Clowance conoscono la
verità e i
gemelli lo adorano. Ma io ed Alix, come possiamo fidarci di lui senza
pregiudizi? Lui che ha lasciato te e i suoi figli inseguendo il sogno
effimero del primo amore, può essere degno della nostra
fiducia e
dell'affetto dei bambini? Questo è il problema, adesso. Quei
pregiudizi che grazie alla richiesta di Hugh non abbiamo avuto su di
te non conoscendo la tua storia, permettendoci di conoscerti per
ciò
che sei davvero, come potranno adesso non influenzare il nostro
giudizio?".
Era
il fulcro del discorso in effetti e Demelza lo sapeva bene
perché
per tanti anni era vissuta basando le sue convinzioni su pregiudizi,
fatti e parole mai spiegati che magari, se esplicati a tempo debito,
avrebbero potuto influenzare il suo modo di agire e pensare. Falmouth
ed Alix avevano ragione, ora come potevano fidarsi di Ross? Come
potevano se nemmeno lei, a lungo e forse non ancora del tutto, ci era
riuscita? Come potevano pensare di affidare eventualmente il casato e
la serenità dei loro piccoli eredi a un uomo che
già una volta
aveva tradito ed abbandonato la sua famiglia? Lei stessa si faceva
queste domande e ancora non era nemmeno convinta di cosa volesse
davvero, soprattutto considerando quanto Jeremy e Clowance ancora
rifiutassero l'idea di avere rapporti con Ross. Era difficile, sapeva
che lo sarebbe stato ed ora ognuno doveva fare le proprie scelte. "Io
non posso dirvi cosa fare, cosa pensare e cosa consigliarmi. E
nemmeno posso obbligarvi a pensar bene di lui. Forse dovremmo
imparare da Hugh in questo e lasciare da parte i pregiudizi per dar
spazio a una persona di farsi conoscere. Io so chi è Ross,
conosco i
suoi pregi e i suoi difetti, il suo carattere a volte pessimo, la
passione con cui porta avanti le sue lotte, ogni sua caduta e ogni
alto valore che lui porta avanti. E' un uomo complesso, spesso
chiuso, terribilmente orgoglioso ma... infinitamente buono. Questa
è
la più grande certezza che ho su di lui e ce l'ho nonostante
quanto
successo. Ed è il motivo per cui non ho detto niente di lui
quando
l'ho incontrato. Volevo rimanesse a Londra a fare il lavoro che si
era prefissato in Parlamento e che gli sarebbe stato impossibile
portare a termine, se si fosse scoperto il suo passato. So che
può
far bene per tanti e so che se è quì non
è certo per suo interesse
personale".
Falmouth
sospirò. "Ha un modo di far politica particolare ma
affascinante. Non posso dire di approvare tutte le sue idee ma mi
piace la passione con cui le porta avanti. Su questo hai ragione,
è
un uomo molto capace e per questo da subito mi è piaciuto
perché
come fu per Basset, vedevo finalmente in lui un antagonista, qualcuno
in grado di tenermi testa e di insegnarmi qualcosa. E di imparare
qualcosa, da me, se fossi riuscito a farmi ascoltare!". Si
bloccò, guardandola intensamente. "Demelza, una unione fra
te e
lui a me avrebbe fatto comodo, politicamente! Avere Poldark nel seno
della mia famiglia lo poteva rendere più duttile al mio tipo
di
politica e trovavo comunque stuzzicante il confronto anche acceso con
lui, fra le mura della mia stessa casa. Ma ora è diverso,
ora c'è
altro in ballo! Lo vedi, giusto?".
Demelza
arrossì. "Sì, lo vedo...".
Alix,
imbarazzata, fissò il pavimento. Falmouth invece, molto
più
pratico, digrignò i denti. "Eravate sposati un tempo e
ovviamente non devi chiedermi il permesso di fare come e cosa
preferisci. Mi affido al tuo giudizio e al rispetto del tuo ruolo.
Ogni cosa può essere fatta a Londra, da una donna come te,
purché
non sia completamente alla luce del sole ma rimanga... in penombra...
Come hai fatto fin'ora, mi pare. Non voglio sapere i retroscena, cosa
ti hanno portata di nuovo a lui ma voglio solo giudizio! Ti parlo
come si parla a una figlia e anche se sei adulta e sei stata la
moglie di Poldark, ora è un altro il ruolo che ricopri e ci
rappresenti. Non dimenticarlo!".
Demelza
si sentì un brivido che le percorreva la schiena. "Lo so...
So
che sono una donna adulta, una Boscawen e una madre. Mai farei
qualcosa che metta in imbarazzo voi! E tanto meno i bambini".
Alix
rilasciò il fiato che aveva trattenuto a lungo. Per lei
forse quella
situazione rasentava lo scandalo e magari non la capiva appieno, come
era giusto che fosse per una donna sempre ligia alle regole. "I
bambini, appunto... Hai detto che i gemellini adorano il signor
Poldark e di questo ce ne siamo accorti a Natale, ma Jeremy e
Clowance?".
Strinse
i pugni, sentendosi impotente davanti a quella domanda. "Jeremy
e Clowance non ne vogliono sapere di lui. Ho detto loro che
rispetterò ogni scelta che intenderanno fare ma al momento
non so se
sia giusto o sbagliato. Sono piccoli per decidere una cosa simile e
se non superano l'odio per lui e non gli danno una
possibilità,
perdereanno un altro padre, il LORO padre, ancora una volta. E non
voglio che un giorno debbano pentirsene".
Falmouth,
pensieroso, picchiettò le dita sulla sedia. "No!".
"No,
cosa?" - domandarono in contemporanea Alix e Demelza.
L'uomo
si alzò in piedi, passeggiando per la stanza. "No, non sta a
loro decidere, non hanno l'età per capire cosa è
giusto e cosa è
sbagliato fare a lungo termine. I bambini hanno facoltà di
scegliere
la merenda, l'abito da mettere e il dolcetto da mangiare dopo pranzo
ma non quella di decidere se estromettere o no un padre ritrovato
dalla loro vita! Siamo noi a dover scegliere per loro e per il loro
bene e sta sempre a noi far accettare loro le nostre decisioni".
Demelza
impallidì. Che voleva dire? "Jeremy e Clowance sono...
dannatamente orgogliosi! Come tutti i Poldark! E si sentono traditi
da lui, non possiamo imporre loro Ross o otterremo l'effetto di farli
scappare".
Falmouth
non sembrò d'accordo. "Sono piccoli e orgogliosi, certo! Ma
bambini! Tu li conosci meglio di chiunque altro e sono sicuro che in
cuor tuo sai cosa sarebbe meglio per loro".
Non
capiva... Falmouth aveva scelto di appoggiare Ross nonostante tutto?
O aveva in mente altro? "Non sono sicura di saperlo".
"Nemmeno
io!" - rispose Falmouth, stupendola. "Ma ho intenzione di
scoprirlo!".
"Come?".
L'uomo
si avvicinò alla finestra, guardando in giardino dal
davanzale su
cui aveva poggiato le mani. "Ross Poldark è un uomo che ha
sbagliato molto e sono certo che conosce i suoi errori e che ne ha
sofferto. Di certo è dura ridargli fiducia, chi ha sbagliato
una
volta può sbagliare ancora eppure tu, nonostante abbia tanto
sofferto, alla fine gli hai ceduto. E non sei una donna stupida,
tutt'altro! E nemmeno leggera! Sai Demelza, io conosco un sacco di
pessimi uomini, della peggior specie. Si annidano ovunque, in
Parlamento come nelle strade di periferia e non c'è
distinzione di
classe in questo, l'essere umano è spesso la creatura
vivente più
spregevole che Dio abbia creato. Ma nonostante quello che mi hai
detto, non riesco a mettere Ross Poldark in questa categoria! Di
solito il mio istinto non sbaglia ma questa volta voglio vederci
chiaro ed indagare... Ci sono di mezzo quattro bambini, cinque col
figlio di Ross... E i gemelli soprattutto, hanno bisogno di una
figura di riferimento come lui perché l'alternativa non
è il tutore
svizzero ma il collegio in Svizzera vero e proprio, se vanno avanti
così! Loro adorano Ross Poldark e paiono, forse per la prima
volta
nella loro esistenza, sentirne il carisma. Lo rispettano e lui ha
saputo entrare in contato con loro nel modo giusto... Lo ammiro e lo
rispetto, nessuno ci riesce con quelle due pesti! E Jeremy e Clowance
sono arrabbiati, terrorizzati... Giusto, chiunque lo sarebbe al loro
posto! Sono cresciuti ricordando la figura paterna di Hugh e di
Poldark non conoscono né il mondo né il
carattere. Sanno solo che è
un padre sconosciuto che li ha lasciati soli. Ciò che forse
non
sanno è che magari, se è vero ciò che
dici, lui ne abbia sofferto
e che come ogni padre, ogni giorno si sia dannato l'animo al loro
pensiero. O almeno credo... Ed è quello che voglio
scoprire!".
Demelza
spalancò gli occhi. "Cosa?".
"Se
davvero è meritevole di fiducia! O se merita solo un calcio
nel
didietro con cui spedirlo a casa sua in Cornovaglia, col veto di non
farsi più rivedere quì. Condizione che otterrei
con ogni mezzo, se
lo ritenessi necessario! Non sto dicendoti, Demelza, che approvo che
sia rientrato nella tua vita! E nemmeno che per questo hai o non hai
la mia benedizione! Da donna adulta puoi incontrarlo e viverti dei
momenti con lui ma se ci sarà un DOPO più
profondo, vorrei
sceglierlo con te".
Demelza
lo guardò, confusa. Che voleva dire? Cosa aveva in mente?
"Come
potremmo sceglierlo insieme?". Santo cielo era assurdo
perché
di fatto quella era una questione personale e intima e stava
diventando un affare di famiglia in cui non sapeva muoversi. Eppure
lei sapeva che era così che doveva essere e che i Boscawen
si
stavano muovendo unicamente per il suo bene ma in questo caso tutto
ciò le appariva soffocante. Quanto le mancava Nampara in
quel
momento, quella casa dove erano solo lei e Ross a fare le loro
scelte, giuste o sbagliate che fossero, senza l'intromissione di
nessuno...
Falmouth
annuì, capendo le sue riluttanze ma ignorandole. "Voglio
vederlo e parlargli a quattr'occhi, da uomo ad uomo! Capire le sue
intenzioni, la sua serietà, cosa prova per te e i bambini e
come
giudica la presenza dei gemelli. Fanno parte della tua famiglia, sono
tuoi figli quanto i primi due e se lui vuole te, deve volere anche
loro esattamente come ai tempi fece Hugh con Jeremy e Clowance!".
Demelza
deglutì. Era vero, nessuno ne aveva mai parlato apertamente
e lei
aveva rifiutato di pensarci ma Ross non aveva obblighi verso i
gemelli. Se avesse voluto riavere nella sua vita solo lei e i loro
figli, cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasta a casa Boscawen
ovviamente, MAI avrebbe lasciato un suo figlio per preferirgli un
uomo e a quel punto forse Ross si sarebbe sentito in dovere di
prendere tutti i bambini con se. Ma lei non voleva questo, non voleva
una scelta dettata dal dovere. Ne voleva solo una dettata dal cuore e
dei bambini, di tutti e quattro... cinque... non ne avevano mai
parlato. C'erano i gemelli e c'era Valentine e il discorso fatto su
Ross, valeva anche per lei. Voleva davvero essere la madre di
Valentine? Era il bambino la cui nascita aveva distrutto la sua vita,
il figlio di Elizabeth! Era pronta? Ne sarebbe stata capace? Nemmeno
a queste domande aveva mai saputo darsi risposte..
"Demelza!".
Falmouth
la riportò alla realtà e lei sussultò.
"Sì?".
"Voglio
che tu vada da lui e lo inviti quì. Digli che voglio
parlargli e che
non accetto rifiuti... Poi vedremo...".
Andò
in panico a quella proposta. "Come? Ma lui... Giuda, è
complicato parlare con Ross, voi non lo conoscete ma lui si chiude
molto nelle discussioni che riguardano la sua sfera personale.
Diventa un pò... arrogante, a volte".
Falmouth
le lanciò, sempre coi suoi occhietti furbi, un altro sguardo
allusivo. "Ci sarai anche tu, ovviamente! Vi voglio tutti e due
quì, insieme! Voglio vedervi agire insieme, vedere come lui
ti
ascolta e si rapporta a te e sapere dalla sua voce perché ha
fatto
ciò che ha fatto. E poi deciderò se è
o meno sincero e se merita
una seconda possibilità".
Tirò
un sospiro di sollievo. Beh, con lei presente forse il tutto non si
sarebbe trasformato in una tragedia greca. "Quando?".
Falmouth
sorrise sibillino. "Sai dove abita, no? Su, oggi è domenica
e a
quest'ora sarà a casa! Tu sarai felice di andare da lui e
lui di
vedere te... Va da lui e portagli il mio invito. E digli che ho
fretta e che non amo aspettare, soprattutto negli affari importanti".
Le
sue parole non erano una richiesta ma un ordine. E quando Falmouth
faceva così, era difficile disubbidire. "Ora?".
"Ora...
Hai da fare?".
Giuda,
stava succedendo troppo in fretta! Tremò lievemente ma poi
il
sorriso gentile di Alix che la incitava a fare come lui chiedeva, la
tranquillizzò. Nessuno la stava giudicando, stavano tutti
semplicemente tentando di aiutarla. Si alzò dalla sedia,
prese un
profondo respiro e guardò quelle due persone non
più giovani che
avevano accolto in casa una ragazza-madre sconosciuta, l'avevano
sorretta e l'avevano stretta in seno alla loro famiglia senza
giudicarla mai e proteggendola dai giudizi degli altri. Grazie a
Hugh, certo... Ma anche e soprattutto grazie al loro buon cuore e
alla loro intelligenza. "Siete delusi da me, ora che sapete la
verità?".
Alix
le strinse la mano. "Mai... Siamo simili noi e tu sei e sarai
sempre la figlia femmina che non ho avuto".
Demelza
sentì gli occhi inumidirsi. Simili, certo. E in quel
momento, ora
che sapeva la verità, Demelza capì che Alix si
stava riferendo
anche a Julia. Erano entrambe madri che avevano perso un figlio...
"Stupito,
non deluso! Ma in fondo immaginavo tu non avessi avuto una vita
facile" – rispose Falmouth. "Ed ora, basta segreti".
"Basta
segreti...".
L'uomo
annuì, ridendo sotto i baffi. "Sicura non ce ne siano altri?
SICURE?".
Le
donne si guardarono negli occhi senza capire. "Sicure...
Perché?".
Falmouth
sospirò, osservando un quadro appeso nella stanza. "Ho
notato
che il mio delizioso quadretto sulle scogliere di Dover che tengo nel
mio studio ha... acquisito... colore... L'ho lasciato sbiadito e lo
ritrovo brillante e fresco come se fosse stato appena fatto! Sembra
quasi che un restauratore ci abbia messo su le mani".
Demelza
sudò freddo. Accidenti a Demian e alla sua mania di
colorare! Se
n'era accorto Falmouth-la volpe, che c'era qualcosa che non andava!
"Oh... Forse l'aria di primavera lo ha rinvigorito. I colori,
intendo...".
Alix,
in disparte, faceva finta di essere interessata ai colori della
parete e faceva di tutto per non ridere. Falmouth invece sembrava
maledettamente serio. "L'aria, sì! La primavera e le
correnti... Correnti gemellari immagino... Hanno effetti miracolosi
sui quadri da sempre... Giusto?".
"Giusto!".
L'uomo
si poggiò alla parete, sorridendo. "Va a chiamare Ross
Poldark.
Ti conviene andare subito, mia cara... Nel frattempo
sguinzaglierò
la servitù nella casa, per scovare ogni pastello sfuggito al
mio
precedente rastrellamento".
"Certo".
E con una contingente fretta, Demelza uscì dalla stanza dopo
aver
lanciato uno sguardo di intesa ad Alix.
Ma
Falmouth la richiamò. "Demelza?".
"Sì?".
"Per
ora, non dire nulla ai bambini! Quando Poldark sarà andato
via,
allora parlerai con loro di cosa è successo oggi fra noi e
con lui.
E di come ci muoveremo".
Demelza
deglutì. Aveva ragione, era davvero ora di giocare a carte
scoperte,
almeno in casa. "Sì, suppongo sia giusto".
"E
ora vai!" - ordinò Falmouth, che mai era stato capace di
portare troppa pazienza negli affari.
E
Demelza, col peso e l'emozione insieme dell'ennesimo imminente
scossone alla sua vita, che però stavolta si era scelta,
andò.
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Capitolo 64 *** Capitolo sessantaquattro ***
Quando
aveva visto arrivare Demelza a casa sua, era stato felice. Ma era
duranto un solo istante, il tempo di baciarla sull'uscio, per
accorgersi della sua espressione preoccupata. E così, dopo
aver
salutato i Gimlet e il piccolo Valentine che le era corso incontro
per salutarla, Ross era uscito con lei per capire cosa fosse
successo, preoccupato per i bambini o per qualsiasi cosa la stesse
turbando in quel momento.
Non
era stato felice di sapere che Falmouth lo voleva, SUBITO, a casa
sua! Sapeva che Demelza voleva parlargli e dirgli la verità
e
avrebbe voluto che lo facessero insieme anche se poi la donna aveva
insistito per farlo da sola e ora l'idea che l'uomo esigesse la sua
presenza, lo irritava. Gli sembrava di essere un ragazzino ripreso
per aver fatto una marachella e quel genere di atteggiamenti tanto
autoritari da sempre lo avevano mandato fuori di testa. Non che non
lo capisse, sapeva quanto Falmouth amasse Demelza e i bambini e
quanto probabilmente si stava preoccupando per loro ora, era la
situazione in se che lo esasperava. Una volta esistevano solo lui,
Demelza e una casa e tutto veniva deciso fra loro, senza terzi che ci
mettevano il becco. Adesso invece aveva perso quell'appannaggio
esclusivo e dover accettare che altri fossero entrati nella sua vita
e in quella di Demelza, gli risultava intollerabile. Per carattere e
orgoglio, era difficile da accettare per lui! Eppure doveva cedere,
sapeva di doverlo fare perché aveva perso l'onore di essere
il
marito di Demelza e la sua unica famiglia, assieme al diritto di fare
da padre ai suoi figli senza l'appannaggio e l'intromissione di
terzi. Aveva gettato via tutto e ora si sentiva svuotato del suo
ruolo...
Demelza
aveva notato il suo cambiamento d'espressione e per tutto il tragitto
fino a casa Boscawen, che suo malgrado Ross aveva scelto di compiere,
aveva camminato accanto a lui in silenzio, proponendo solo di entrare
dall'ingresso secondario che portava direttamente agli appartamenti
di Falmouth, evitando la parte di giardino dove giocavano i bambini.
Solo quando furono entrati nel corridoio, deserto, aveva trovato il
coraggio di rivolgergli la parola. "Sei arrabbiato?".
E
a quel punto capì che non poteva commettere gli stessi
errori del
passato, facendo ricadere su di lei le sue frustrazioni.
Allungò una
mano e le accarezzò dolcemente una guancia, abbozzando un
sorriso.
"No, non con te almeno. E nemmeno con Falmouth, forse... L'unico
con cui sono arrabbiato, è stesso".
Demelza
spalancò gli occhi. "Ross...".
La
zittì, sfiorandole delicatamente le labbra con l'indice
della mano
destra. "Avevo una famiglia e non ho saputo prendermene cura e
ora se ci sono altri... devo accettarlo".
Demelza
scosse la testa. "Non ho idea di cosa dirà Falmouth ma ti
prego, per l'affetto che provo per lui, cerca di non litigarci. E' lo
zio dei bambini e per me è come un padre... Si è
preso cura di noi
e...".
Ross
la bloccò, baciandola questa volta. "Rispetto i vostri
sentimenti per lui e i suoi per voi. Gli sono grato per quanto ha
fatto per voi in questi anni e non voglio litigare, ma...".
"Ma?".
"Ma
voglio fargli capire che apprezzo il suo interessamento e
accetterò
ogni suo giudizio e consiglio. Ma siamo io e te Demelza, siamo adulti
e siamo genitori e in questo, ogni scelta, ogni decisione, spetta
solo a noi. Rispetto il ruolo di Falmouth all'interno di questo
casato ma nelle cose nostre, le più intime e profonde, non
voglio
che ci metta becco. E questo, con educazione, glielo farò
capire.
Non sono un bambino da rimproverare e guidare, Demelza. Sono un uomo
e tu una donna, non una ragazzina. Ci servono forse consigli ma non
guide. La vita ha già insegnato molto ad entrambi e sappiamo
cavarcela anche da soli, come abbiamo sempre fatto fin'ora".
Demelza
fece per rispondergli ma il maggiordomo che le diceva che Falmouth li
attendeva nel suo studio, la interruppe. E assieme a Ross, in
silenzio, andò da lui.
Ross
le sfiorò la mano per darle coraggio, cercando di farle
capire che
era dalla sua parte e che non voleva né deluderla,
né crearle guai.
Falmouth era un uomo potente e soprattutto il capo del casato di cui
ora faceva parte Demelza. Avrebbe potuto distruggerlo se avesse
voluto o impedirgli per sempre di rivedere Demelza e i bambini e
c'era troppo in ballo per rischiare di irritarlo. Doveva essere
accorto e gentile, sforzarsi quanto più possibile per
andarci
d'accordo e ottenere di nuovo la sua fiducia che sicuramente era
stata in parte persa ora che conosceva la verità. E
soprattutto, da
padre, per il bene dei suoi bambini che adoravano questo zio
acquisito che li aveva cresciuti, doveva sforzarsi di non creare
fratture che prima di tutti, avrebbero ferito loro. Essere padre, ora
lo sapeva, significava pure questo...
Quando
entrarono nello studio, Ross vi trovò Falmouth nella
medesima
posizione, alla sua scrivania, in cui l'aveva visto la prima volta
che era entrato in quella casa. Demelza lo affiancò, gli
sfiorò la
mano e il maggiordomo chiuse la porta dietro di loro, lasciandoli
soli.
"Ebbene,
Poldark..." - sussurrò Falmouth, appoggiando il viso sulle
sue
mani intrecciate sotto il mento. "Non ero tanto certo che
sareste venuto, nonostante vi abbia mandato Demelza a chiamarvi".
Ross
rispose a tono. "Nemmeno io ero certo di venire".
"Codardìa?".
Ross
sostenne il suo sguardo, era una guerra di nervi quella e per quanto
trovasse stuzzicante combatterla, non voleva che Demelza ne
soffrisse. "Questione di utilità. Non ne vedevo il motivo ma
poi, ripensandoci, ho capito che ve lo dovevo, a voi e a Demelza.
Avete fatto molto, per lei e i bambini e ora che sapete la
verità,
posso quanto meno ringraziarvi. Avrei voluto essere presente quando
Demelza vi ha raccontato del nostro passato, per non lasciarla sola,
ma lei ha insistito per parlarvi senza di me. E quindi, ora che
sapete, grazie per ciò che avete fatto per lei e i miei
figli. In
pochi sarebbero stati generosi quanto lo siete stati voi".
Falmouth
annuì. "Non voglio ringraziamenti, Ross! Voglio
sincerità e le
circostanze, fin'ora, ci hanno impedito di farci fregio di tutto
questo".
Gli
occhi di Falmouth erano sottili ed indagatori, come se volessero
metterlo a nudo. Forse anche Demelza era stata guardata e studiata a
quel modo quando Hugh l'aveva portata in quella casa per la prima
volta e Ross in quel momento si chiese cosa avesse provato lei
allora, se avesse avvertito il suo stesso disagio. Falmouth aveva
questo potere, sapeva mettere soggezione alle persone, soprattutto a
quelle consapevoli della sua furbizia. "Sono quì per parlare
con voi e per rispondere ad ogni vostra domanda su di me e su quanto
la situazione attuale influisca su di voi".
Falmouth
lo bloccò. "Cosa pensate di voi stesso, Ross? Vi ritenete
una
brava persona?".
Quella
domanda lo spiazzò e anche Demelza, accanto a lui,
spalancò gli
occhi. Ross prese un profondo respiro, quella domanda era lecita e
meritava forse una risposta, per quanto dolorosa fosse. "Una
volta credevo di esserlo. Ora non ne sono più tanto
convinto...
Probabilmente, non lo sono".
Demelza
parve stupida da quelle sue parole e forse era normale che lei lo
fosse, lei che lo aveva conosciuto e visto sempre sicuro di se stesso
e delle sue azioni. "Ross...".
Falmouth,
imperturbabile, rimase fermo e immobile alla scrivania. "Ci
vuole coraggio ad ammetterlo. Conosco infiniti e potenziali inquilini
delle nostre reali prigioni, che hanno commesso i crimini
più
abominevoli, che non lo ammetterebbero nemmeno sotto tortura".
Ross
alzò le spalle. "La domanda l'avete fatta a me, non a
loro...".
Falmouth
mascherò un sorriso a quella risposta un pò
irriverente e poi
sospirò, invitando entrambi a sedersi davanti a lui alla
scrivania.
"Signor Poldark, non posso fingere che quanto ho scoperto oggi
non mi abbia turbato. Sapevo che Demelza aveva avuto un altro uomo
prima di Hugh e anche se all'epoca promisi di non indagare sul suo
passato, spesso mi sono chiesto da dove lei provenisse. Ora lo so e
ovviamente questo, per me che conosco Demelza da anni, non cambia la
mia opinione su di lei ma anzi, avvalora il mio desiderio di
protezione. Per me e mia sorella, Demelza è come una
figlia...
Purtroppo questo non si può dire per voi. Mi siete sempre
piaciuto
signor Poldark e ovviamente, sapere quanto male avete fatto a Demelza
e del vostro abbandono a danno dei vostri figli, mi ha colpito,
rimettendo in discussione tutto quello che fin'ora ho pensato sulla
vostra persona. Quale uomo farebbe ciò che avete fatto voi?".
Demelza
tremò a quelle sottili e neppur troppo velate accuse e Ross
abbassò
lo sguardo, vinto da una miriade di sensi di colpa. Sempre sarebbero
tornati a tormentarlo, ogni volta che avesse ripensato a quel periodo
orribile in cui aveva distrutto la sua famiglia. "Come avevo
detto prima, un pessimo uomo lo farebbe. Lo sono stato e a lungo la
mia punizione è stata non sapere più niente della
mia famiglia e
dei miei bambini. Non so perché Dio mi abbia dato la grazia
di avere
una seconda possibilità e nemmeno perché me
l'abbia data Demelza.
So solo di essere un uomo profondamente diverso da ciò che
sono
stato, un pò più amareggiato, un pò
meno sicuro e sicuramente
spezzato nel cuore e nell'animo".
Falmouth
annuì, come soddisfatto da quella risposta. "E tu, Demelza?
Non
dici nulla?".
Lei
cercò la mano di Ross, sotto la scrivania. "Conosco Ross...
Come vi ho detto prima, conosco ogni suo pregio e ogni suo difetto.
Forse meglio di quanto li conosca lui stesso...".
"Lo
giudichi una cattiva persona?" - chiese Falmouth.
Lei
tentennò un attimo, come in cerca delle parole giuste,
più che per
confusione. "No, anche se a lungo ho voluto crederlo perché
era
l'unico modo che avevo per sopravvivere a quanto mi era succeso...
Ora so che è un uomo che ha sbagliato, come tutti. E' un
uomo che mi
ha sposata senza amarmi e in questo abbiamo sbagliato in due. E' un
uomo complicato, che ha sempre cercato di fare del suo meglio per
aiutare gli altri, anche a discapito di se stesso. Forse è
stato
proprio questo il suo errore, la grande disponibilità verso
chiunque, anche verso coloro che hanno saputo approfittare di un suo
momento di debolezza. Un nostro momento di debolezza...".
In
maniera pacata ma piuttosto sibillina e diretta, Ross colse il
riferimento ad Elizabeth. Demelza aveva ragione, lui non aveva capito
o non aveva voluto vedere quanto lei, il suo perfetto e puro amore
adolescenziale, lo stesse irretendo, quando lo stesse confondendo e
quanto lo stesse allontanando dalla sua famiglia. Con calcolo! Non
che fosse tutta colpa di Elizabeth, quanto successo era stata
soprattutto colpa sua, ma quell'accenno di Demelza, che come sempre
aveva saputo capire la situazione meglio di lui, lo colpì.
Prese
coraggio, era difficile parlare di certe cose con Falmouth presente e
si sentiva estremamente a disagio, ancor più di quanto lo
fosse poco
prima. "Potremmo arrivare al sodo? Non amo girare troppo attorno
alle questioni, Lord Falmouth. E di fatto non amo nemmeno parlare con
terzi di faccende personali".
"E
allora perché siete venuto? Era di una faccenda personale,
che
dovevamo parlare" – commentò laconico il lord.
"Perché
pensate vi abbia fatto chiamare?".
Ross
guardò Demelza e poi lui, guardingo. "Spero non lo abbiate
fatto per imporre il vostro volere. Io e Demelza siamo adulti e delle
nostre questioni personali sappiamo questionare da soli. Forse
sbagliando, forse facendo il giusto, questo non lo so! Ma sono affari
nostri, ciò che c'è fra noi! Sono venuto
perché vi siete preso
cura della mia famiglia e di questo vi ringrazio, sono venuto
perché
vi ritengo un uomo saggio e maturo da cui trarre insegnamento e forse
ottenere buoni consigli. Ma per il resto...".
Falmouth,
prendendo in contropiede entrambi, annuì. Si alzò
dalla sedia e
poi, avvicinatosi alla finestra, osservò il giardino. "Sono
d'accordo, certe faccende personali sono solo di vostro appannaggio!
In realtà vi ho chiamato solo per vedere quanto infallibile
voi vi
crediate nella vita. In politica avete idee precise che è
difficile
togliervi di testa ma nella vostra sfera personale, la vita vi ha
insegnato che nulla va mai dato per scontato e questo mi piace. Non
conosco ciò che voi due eravate una volta e forse i motivi
che vi
hanno spinto a sposarvi con tanta fretta, sono stati le basi per il
disastro successivo. Ci voleva tempo e voi non ve lo siete preso. Per
il resto, tanti mariti tradiscono e tante mogli lo accettano in
silenzio. Demelza no, non è quel genere di donna e a me
piace per
questo e per la grande dignità che dimostra sempre e che ha
dimostrato anche in passato, lasciando la vostra terra natìa
per
ricominciare a vivere in un luogo a lei sconosciuto". Si
voltò
verso di lui, guardandolo intensamente. "Io credo che siate un
uomo che ha sbagliato molto ma che non siate cattivo. Non lo penso io
e soprattutto non lo pensa Demelza e io mi fido del suo raziocinio e
della sua saggezza. Se lei vi ha dato una seconda
opportunità,
sicuramente con fatica e lottando contro se stessa, io non posso a
mia volta negare a voi un tentativo di ripartire da zero. Vedete
Ross, tutti gli uomini sbagliano ma ben in pochi sanno imparare dai
propri errori. Voi sembrate esserci riuscito e ora unite in voi
l'umiltà di ammettere la vostra infallibilità con
quella strana
forza ed orgoglio che vi spingono a difendere l'inimità
ritrovata
con Demelza. Apprezzo anche il tatto usato coi bambini, immagino che
per voi non debba essere facile farvi da parte e vivere sulla pelle
il loro rancore. Ma sono bambini, capiranno, cresceranno e gli
passerà...".
Demelza
spalancò gli occhi e anche Ross, piacevolmente sorpreso,
fece
altrettanto. Non stava ponendo paletti, non imponeva scelte ma,
semplicemente, voleva capire che persona lui fosse davvero. E forse
non avrebbe mai compreso quale parte del loro dialogo a Falmouth
fosse piaciuta tanto ma quel che importava era che, a modo suo, era
dalla loro parte. Era un padre che gli stava di fatto affidando una
figlia e anche se non c'erano legami di sangue fra loro, l'affetto
che nutriva per Demelza era sincero. "Non so cosa dire".
Falmouth
si risedette alla scrivania. "Potete dire solo che volete
prendervi cura al meglio di Demelza. E dei bambini. Di TUTTI i
bambini... Vi ricordo che Demelza è una Boscawen ora e che i
suoi
figli sono miei eredi. Voglio che promettiate di trovare un punto di
congiunzione fra i vostri pensieri e i miei, a metà strada.
I vostri
valori e i nostri spesso non coincidono e questo è un
aspetto che
prevederà infinite discussioni e punti di caduta per
entrambi.
Imparate e fate in modo che non si debba litigare più del
dovuto e
del lecito! Il futuro e la prosperità di questa casata e dei
bambini
dipendono da me e forse un giorno dipenderanno anche da voi!
Ricordatevelo! Demelza ha saputo far sue le nostre tradizioni e mi
auspico che vi impegniate a fare lo stesso, se sarà
necessario. Io,
dal mio punto di vista, cercherà di fare mia qualcuna delle
vostre
idee...".
Ross
si accigliò. "Parlate come se io facessi parte di questa
famiglia..." - notò, mentre Demelza sotto il tavolo gli
schiacciava il piede per la sua impudenza.
Falmouth,
molto serio, lo fulminò con lo sguardo. "Ross, io stesso mi
sono sempre auspicato che Demelza si rifacesse una vita dopo Hugh.
Quando l'ho conosciuta lei non mi piaceva ma per amore di Hugh l'ho
accettata ed è stata la scelta migliore mai fatta in vita
mia. Ha
dato nuova vita a questo casato antico e potente che senza di lei non
avrebbe avuto futuro e ha regalato a me e a mia sorella la gioia di
quattro nipotini da amare e in cui trovare un obiettivo per andare
avanti. Ma i Boscawen sono anche altro, sono una famiglia onorevole e
per quanto io per ora apprezzi la vostra... discrezione... il
vostro... voler tener segreto il rapporto che vi lega, non
potrà
essere così a lungo. Non voglio scandali e non voglio
matrimoni
riparatori come successe con Hugh! Intesi? Facciamo le cose come
devono essere fatte, dopo aver sistemato la triste situazione che vi
divide dai bambini che già ci sono...".
Demelza
avvampò a quelle parole che non erano un consiglio ma un
ordine e
pure Ross arrossì... Dannazione, in effetti il rischio c'era
e come
sempre, lui e Demelza non ci avevano pensato. "Ecco...".
Falmouth
proseguì, imperterrito. "I bambini hanno bisogno di un padre
e
ritengo che siano troppo piccoli per scegliere da soli. Rispetto la
loro rabbia ma ritengo che si debba andare oltre, Ross... Per il bene
di tutti, anche di vostro figlio e dei gemelli che spero, saranno
presi in considerazione con lo stesso amore che nutriamo tutti per
Jeremy e Clowance. Solo Dio sa quanto i miei nipotini più
piccoli
abbiano bisogno di una guida e voi sembrate fare al caso nostro, per
come vi si accodano con fiducia".
"Ma...".
Demelza intervenne, forse preoccupata per i bambini. "Ritengo
che Clowance e Jeremy per ora non debbano essere forzati. Preferirei
fare le cose con calma, come ho già discusso a suo tempo con
Ross".
Ross
annuì, era d'accordo anche se quella situazione di stasi era
dolorosa e logorante per lui. "Voglio il bene dei bambini, di
tutti. Adoro i gemelli Lord Falmouth, sono stupendi e sono figli di
Demelza. Tutto ciò che è di Demelza è
importante per me e i vostri
nipotini, Boscawen fino all'osso direi, sono uno spasso. Amo passare
del tempo con loro e sono stati proprio Demian e Daisy, nei miei
momenti più difficili, a darmi speranza e fiducia che non
tutto
fosse perso".
Falmouth
fece un sorrisetto furbo a quelle parole, alzandosi poi in piedi in
tono trionfale. "E lo passerete del tempo con loro! Andremo in
Scozia a fine mese prossimo, lo sapete?".
Demelza
lo guardò storto. "Non abbiamo ancora deciso...".
"Sì
che lo abbiamo fatto!" - rispose a tono Falmouth. "Devo
comprare un castello e civilizzare gli uomini in gonnella. E i
gemelli hanno un legame speciale con quella terra, sono nati per
sottometterla ed è giusto che inizino a conoscerla. Una
bella gita
che durerà diverse settimane! Un viaggio di affari con altri
lords,
che sicuramente gradirete fare assieme a noi per stare con Demelza e
i bambini e che di certo entusiasmerà vostro figlio".
Ross
deglutì. COSA??? "Scozia?". Guardò Demelza,
confuso e
sperso. Che stava dicendo, Falmouth?
Il
lord non gli diede nemmeno tempo per pensare. "Non ve lo sto
chiedendo, Ross Poldark, vi sto dicendo che partirete con noi! Sarete
felice di stare con Demelza, no? Potrò osservarvi meglio e
soprattutto avrete tanti momenti coi bambini, in modo che possano
conoscervi. Iniziate a dire ai vostri servi di pensare alle valigie".
Ross
guardò Demelza, immaginando che non poteva rifiutare. Certo,
era una
idea di viaggio assurda ma Falmouth aveva ragione. Avrebbe potuto
stare con Demelza e coi bambini e soprattutto, avrebbe potuto
conoscere meglio i Boscawen e il loro mondo. Era vero, i Boscawen
erano quanto di più lontano potesse esistere da lui e le
idee che
lui e Falmouth portavano avanti erano quanto di più
incongruente
esistesse al mondo, ma... Era lo zio dei suoi figli e per Demelza, lo
aveva detto lei stessa, era come un padre. Doveva sforzarsi di
conoscere meglio Falmouth, iniziare a ingoiare qualche rospo ma
soprattutto lottare attivamente per riprendersi la sua famiglia. E
Valentine avrebbe adorato quell'avventura. "Che posso dire?".
Falmouth
gli indicò la porta. "Che vi impegnerete a scegliere con me
un
buon castello. Per i bambini, ovviamente... E' per il loro futuro. E
che la vostra priorità ORA è il bene di Demelza e
di OGNI bambino
che chiama entrambi o mamma o papà".
Ross
sorrise suo malgrado. Le preoccupazioni di Falmouth erano giuste e
fondate e di fatto gli stava dando un'occasione per stare con le
persone che amava e che per lui rappresentavano un futuro. Le stava
dando a LUI, un uomo che era stato capace di distruggere la famiglia
che amava e per fare questo, ci voleva coraggio. E Falmouth ne aveva.
"Vogliamo le stesse cose, Lord Falmouth".
L'uomo
lo occhieggiò. "Vorrei sentirvi dire le stesse parole quando
tratteremo di politica, Poldark... Ma per ora, pensiamo alla Scozia".
"Certo..."
- borbottò Demelza, arresa ormai all'idea di quel viaggio ma
in un
certo senso rasserenata dalla piega dell'incontro.
Falmouth
sorrise, soddisfatto come un bambino. "Su, andate. Abbiamo
finito e io ho raggiunto tutti i miei scopi. Ora devo uscire per un
appuntamento con Lord Keller e sto già facendo tardi".
Ross
guardò Demelza, stupito. Era già finito tutto?
Davvero Falmouth non
voleva altro? Oppure, da gatto sornione, avrebbe approfittato della
Scozia per studiarlo ancora?
"E'
tutto?" - chiese Demelza. "Davvero finisce così?".
"Ovvio!"
- la redarguì Falmouth. "Come diceva prima Poldark, non
siete
due ragazzini che necessitano di regole o costrizioni. Ho sentito
ciò
che dovevo e ho capito quel che dovevo capire... Per me va bene
così!
Il resto spetta a voi".
Demelza
si alzò dalla sedia, spaesata. "Allora... Buon pomeriggio,
zio".
"Buon
pomeriggio, Lord Falomouth" – aggiunse Ross, ancora incredulo
per la piega che avevano preso gli eventi ma in fondo piacevolmente
colpito dal modo di fare intelligente, deciso ma anche rispettoso di
quel lord.
Falmouth
sorrise loro, soffermandosi con lo sguardo sul loro tenersi a
braccetto. "Adorabili..." - disse, fra i denti, prima di
andarsene. "Buon pomeriggio".
Appena
uscito, senza troppi preamboli come era nella sua natura, Demelza si
avvicinò a Ross e forse vinta dall'emozione lo
abbracciò,
affondando il viso nel suo collo. "Ross...".
La
strinse a se, inspirando il profumo dei suoi capelli. "E' andata
bene... Credo...".
"Sì.
Posso dire di essere orgogliosa di entrambi. Anche se...".
"Anche
se?".
Demelza
alzò lo sguardo a fronteggiarlo. "Lo credi davvero? Di te
stesso, intendo... Credi davvero di non essere una brava persona?".
Il
suo tono di voce tentennante e preoccupato, lo intenerì. "Le
brave persone non fanno errori tanto grossi e tu hai un buon metro di
giudizio, ora, per giudicare. Hugh era perfetto, io non lo sono
stato".
Demelza
sospirò. "Hugh non era perfetto, come non lo è
nessun essere
umano. La verità è che coloro che sbagliano di
più, sono anche
quelli che più non amano stare con le mani in mano. E quando
si fa
tanto, si rischia di sbagliare tanto. Hugh era un brav'uomo, un
sognatore. Non ha mai fatto del male a nessuno ma è anche
vero che
lui viveva unicamente nel suo piccolo mondo e mai ha avuto interesse
a vedere cosa c'era all'infuori della sua ristretta cerchia di
interessi e conoscenze. Così è facile non
sbagliare. Molti dicono
che Demian gli somigli molto per carattere e in tante sfaccettature
è
vero. Ma Demian è diverso in molti altri aspetti. Spesso lo
sgrido
quando si arrampica sugli alberi ma dentro di me sono contenta che
lui voglia vedere cosa c'è oltre al suo piccolo mondo, che
voglia
vedere più in la, che sia fuori dal suo giardino o magari
sulla
luna".
Ross
le accarezzò la guancia, prima di baciarla sulle labbra. Era
forse
questo che più gli era mancato in quegli anni di lontananza,
quel
tono pacato di voce, quelle parole sempre dette al momento giusto che
Demelza sapeva pronunciare acquietando la sua anima inquieta.
Elizabeth non era mai stata capace di nulla di simile e ci aveva
messo troppo a capirlo... "Eppure ho comunqe sbagliato troppo".
Lei
alzò le spalle. "Eppure, non dicevamo che era l'equilibrio
finale che contava? Una azione sbagliata non cancella tante azioni
giuste e tu ed io non possiamo rimanere legati al passato. Dobbiamo
accettarlo e andare avanti".
Ross
le sorrise. "In Scozia? Non sapevo che avessi in programma un
viaggio...".
Lei
alzò gli occhi al cielo. "Nemmeno io! Ma quando Falmouth
decide
e si mette di traverso, devi solo ubbidire. La Scozia è una
terra
meravigliosa".
"La
terra che hai conosciuto con Hugh" – le fece notare, con una
fitta di dolore alla tempia.
Demelza
annuì. "Forse non è la terra mia e di Hugh ma la
terra delle
svolte. Successe allora e nessuno dice che non potrà
succedere
qualcosa di simile di nuovo".
"Sei
tornata incinta di due gemelli, allora... Vuoi ripetere
l'esperienza?".
Demelza
rise. "Giuda, no, NON PARLAVO DI QUESTO! Stiamoci attenti!".
Ross
rispose con una risata e poi la ribaciò sulle labbra,
stringendola a
se. "Devo andare, ora! Valentine voleva uscire a fare una
passeggiata oggi pomeriggio e non mi va di farlo aspettare troppo".
Demelza
annuì, prendendolo per mano. "Prima di andare, credo che
dovresti passare dalla biblioteca a salutare Jeremy e Clowance".
"Non
credo che ne sarebbero contenti".
"Credo
invece Ross, che se sapessero che sei stato quì e non sei
passato a
salutarli, ci rimarrebbero male. Non lo ammetterebbero mai, ovvio! Ma
so che è così".
Ross
ci pensò su alcuni istanti e decise di affidarsi a lei come
sempre,
in quell'aspetto del loro rapporto. Era ora di essere più
intraprendenti e meno titubanti verso i bambini e Falmouth aveva
ragione, dovevano riaccettarlo nella loro vita. "Va bene".
Si
lasciò condurre da Demelza nei lunghi corridoi del palazzo,
eleganti
e silenziosi in quelle prime ore del pomeriggio. Solo qualche
cameriera li incrociò nel loro vagare e a parte il
cinguettio degli
uccellini che giungeva dal giardino, nessun altro rumore giunse al
suo orecchio. Nemmeno il baccano che spesso facevano i due gemelli.
"Dove sono tutti?" - chiese, mentre scendevano le scale che
portavano ai saloni al piano terra e alla biblioteca.
"Jeremy
e Clowance a quest'ora stanno in biblioteca a fare i compiti. I
gemelli sono in camera".
"Fanno
il riposino? Alla loro età?" - chiese Ross, stupito.
Demelza
rise ancora. "Prudie li mette a letto e so che loro fingono di
dormire per togliersela di torno. Poi si alzano e giocano in silenzio
fra loro".
Ross
sorrise, erano talmente uniti quei due soldi di cacio! Santo cielo,
era affascinante quel mondo unico ed esclusivo che i gemelli avevano
costruito e che ancora, a differenza di Jeremy e Clowance, non faceva
sentir loro il bisogno di amicizie esterne alla famiglia.
Giunsero
alla biblioteca, con Ross perso in quei pensieri. E quando vi
entrarono, ripensò alla prima volta che ci era stato, la
sera in cui
inavvertitamente aveva ferito Jeremy, spezzando il tenue legame
costruito con lui. La prima cosa che vide appena entrato, fu il
ritratto di Hugh. Ma stavolta, si accorse, faceva meno male vederlo,
di allora... Aveva imparato ad accettare che lui c'era stato e che in
fondo aveva lasciato un'impronta positiva nella vita delle persone
che amava e questo doveva farselo andar bene. E in un certo senso,
prenderne il testimone.
Jeremy
e Clowance erano lì, seduti per terra sugli eleganti tappeti
che
abbellivano il locale, lui con un libro in mano e lei con delle
bambole attorno a se. Appena li videro, entrambi spalancarono gli
occhi. "Mamma... Signor Poldark!".
Ross
li salutò con un cenno del capo a cui i bambini non
risposero e fu
Demelza a spezzare il silenzio creatosi. "E' venuto quì su
invito dello zio. Doveva parlargli del nostro segreto. E ora, prima
di andare a casa, è passato per salutarvi".
Jeremy
impallidì. "Segreto? QUEL segreto? E lo zio?".
"Lo
zio sta bene, va tutto bene e loro hanno parlato serenamente di come
risolvere le cose" – rispose Demelza.
Jeremy
sospirò, abbassando lo sguardo. "Se lo zio dice che va bene,
allora va bene".
Ross
si abbassò, inginocchiandosi davanti a lui, e in uno slancio
di
coraggio, provò a parlargli e a cercare in lui tracce di
quel bimbo
che un tempo lo chiamava papà e allargava le braccia per
farsi
prendere. Un onore che forse all'epoca non era mai riuscito ad
apprezzare in pieno. "Cosa leggi?".
"Un
libro di tedesco" – rispose il bimbo, occhieggiandolo di
nascosto dal tomo che teneva in mano.
"Oh,
tedesco. Posso vederlo? Sai, è una lingua che non conosco".
A
quella domanda Jeremy chiuse il libro, stringendoselo al petto. "No!
E' mio! Ed era del mio papà, voi non potete toccarlo!".
"JEREMY!"
- lo richiamò Demelza. "Che modi sono?".
Lui
abbassò il capo, mortificato. "Scusate... Ma i libri,
soprattutto questi, sono personali. Non voglio che li tocchi nessuno"
– concluse, con un filo di voce.
Ross
sussultò. Non era rabbioso, Jeremy sembrava smarrito
più che
arrabbiato come le volte precedenti, come se in lui fosse in atto una
guerra fra l'aprirsi e magari riscoprirsi e il desiderio di tenerlo
il più lontano possibile. "Hai ragione, scusa. I libri sono
cose personali, come la pipa...".
A
quella battuta, Jeremy lo guardò incuriosito. "La pipa?".
Ross
annuì. "Sì. Io non farei mai fumare a nessuno la
mia pipa,
come tu non fai leggere a nessuno i tuoi libri".
Incredibilmente,
Jeremy annuì. "Sì, è uguale"
– rispose, con fare
piuttosto incuriosito da quel discorso.
Clowance
invece, rimasta in disparte, si avvicinò a Demelza,
abbracciandola.
"Mamma?".
"Cosa?".
"Adesso
che la nonna e lo zio sanno chi siamo, ci vogliono bene ancora? Non
ci mandano via?".
Demelza
le sorrise dolcemente, abbracciandola e rassicurandola dell'amore
indistruttibile che entrambi provavano per lei e Ross si
trovò
malinconicamente a pensare che era normale che Clowance non lo
guardasse e che invece fosse preoccupata di perdere le persone che
l'avevano aiutata a crescere con amore e che per lei erano la vera
famiglia. Si avvicinò ad entrambe, cercando un modo di
approcciarsi,
seppur con cautela, a quella piccola principessa che mai aveva potuto
amare e conoscere. Ma la reazione di Clowance fu di chiusura e la
vide tremare, quando fece per sfiorarle la spalla. "Non volevo
spaventarti. Scusa".
Clowance
non rispose, rannicchiandosi ancor più fra le braccia di sua
madre,
col suo libro e la sua bambola stretti a se. "Mamma...".
Demelza
le accarezzò i lunghi capelli biondi. "Tesoro, non puoi fare
così per sempre. Anche perché lo zio vuole che il
signor Poldark
venga con noi per la vacanza in Scozia e non potrai nasconderti da
lui per sempre".
"Cosa?"
- esclamò Jeremy.
"E'
così e sai che quando lo zio decide, non non possiamo
disubbidire"
– rispose Demelza, chiudendo il discorso.
"Nemmeno
il signor Poldark può disubbidire?" - domandò
Clowance,
titubante.
Rsos
sospirò. Quanto meno gli stava rivolgendo la parola...
"Nemmeno
io. E, anche se so che non ti piaccio, vorrei che almeno non avessi
paura di me. Non faccio del male ai bambini".
La
piccola lo guardò con quei suoi occhi azzurri come il mare e
poi,
con una sincerità disarmante, riuscì a parlargli
a quattr'occhi,
gelandolo sul posto. "No, vuoi non fate male ai bambini. Li
abbandonate e basta. O almeno, così avete fatto SOLO con me!
Più
che con Jeremy".
Quelle
poche parole gli spezzarono il cuore perché era vero e
sentirselo
dire da Clowance era il dolore massimo che avesse mai provato.
Nonostante tutte le rassicurazioni di Demelza, questo era quello che
non si era mai perdonato! Aver abbandonato senza nemmeno conoscerla,
sua figlia... E Clowance lo sapeva e nel suo sguardo leggeva dolore
ma anche smarrimento per ciò che sarebbe stato da
lì in futuro.
"Non volevo farlo..." - disse, con voce spezzata.
La
piccola, come diventata di colpo coraggiosa, guardò Jeremy.
"Lui
lo avete salvato in acqua. Per me non avete fatto niente e io non
voglio vedervi". Poi scoppiò a piangere, nascondendo il
visino
nel grembo di Demelza. E Jeremy, preoccupato ma decisamente incerto
sul da farsi, cercò con lo sguardo sua madre in cerca di
aiuto.
Demelza
prese un profondo respiro. "Clowance, a volte le persone
sbagliano. Persino quelle migliori. Ma se sanno chiedere scusa col
cuore, non dovremmo dar loro un'altra possibilità?".
Jeremy
sembrò prendere in considerazione quelle parole ma Clowance
continuò
a piangere disperata e smarrita e Ross capì che era il
momento di
andarsene. Il suo cuore gli urlava di prendere in braccio sua figlia
per consolarla e farle sentire quanto la amava ma la ragione gli
suggeriva che una buona resa era una scelta saggia in quel momento.
"Credo che i bambini abbiano bisogno di pace e io sono in
ritardo" – disse, sfiorando la mano di Demelza, gesto che
Jeremy intercettò subito ma che non commentò.
"Ti
accompagno alla porta?".
Ross
guardò la piccola Clowance. "La strada la conosco, sta con
lei".
"Va
bene".
Fece
per andarsene ma Clowance, miracolosamente, lo richiamò. "Lo
fareste?".
"Cosa?".
"Per
me! Nuotare nel mare per salvarmi come avete fatto con Jeremy quando
è nato?".
Ross
spalancò gli occhi, capendo che Demelza doveva aver
raccontato loro
qualche anedotto del passato. Ricordò con nostalgia il
giorno della
nascita di Jeremy, il suo orgoglio nel tenerlo in braccio e poi
guardò quella sua piccola e bellissima bambina, a cui
avrebbe donato
il mondo se solo fosse servito per farla sorridere di nuovo. "Certo.
Nel mare, in alta montagna, mi tufferei ovunque per te e spero che un
giorno tu possa credermi".
Clowance
lo guardò di sfuggita e poi, singhiozzando, tornò
a rifugiarsi
nelle braccia di sua madre senza dire altro.
Demelza
gli sorrise in segno di gratitudine e Ross, dopo aver dato un ultimo
saluto a Jeremy che educatamente rispose, uscì dalla
biblioteca e
poi, dai corridoi e dai saloni, si ritrovò in giardino.
Percorse
il vialetto coi ciotoli bianchi che scricchiolavano sotto i suoi
stivali, col cuore a pezzi per le lacrime e le parole dette da
Clowance e una piccola speranza data dal modo di fare meno rabbioso
di Jeremy, quando due vocine lo chiamarono e Ross, voltandosi, vide i
gemellini correre a piedi nudi verso di lui. "E voi che
combinate? Non dovreste essere a fare il riposino?".
Daisy,
vestita con un abitino rosso che la rendeva adorabile, lo
guardò
storto. "Ti ho visto dalla finestra Signor Poldark! Sei venuto
quì e stavi andando via senza salutarmi, non si fa!".
"Ohhh".
Si inginocchiò davanti a loro, due piccoli soldi di cacio
che
pesavano niente ma che avevano il potere di rivoluzionare il mondo di
tutti quelli che incontravano con la forte dirompenza dei Boscawen.
"Hai ragione, scusa. Dovevo parlare con vostro zio e la mamma e,
pensando che dormiste, stavo andando via senza disturbarvi".
Demian
scosse la testa. "Facciamo finta di dormire che Prudie è
contenta ma siamo grandi per il riposino".
"Lo
immagino...".
Daisy
lo fissò, preoccupata. "Perché dovevi parlare con
lo zio?
Dovevi dirgli i segreti nostri, tuoi e di mamma?".
Ross
sorrise davanti all'arguzia di quella piccola peste bionda. La
guardò
e poi la strinse a se, rendendosi conto che Daisy riusciva a dargli
il calore e la dolcezza che gli erano state negate con Julia e
Clowance. Ciò che aveva perso con loro, in un certo senso lo
stava
recuperando con lei mentre il tempo cercava di indicargli la strada
per raggiungere anche gli altri suoi due figli. "Sì. Ora non
ci
sono più segreti".
"Ohhhh".
Daisy parve delusa. "Peccato, a me piaceva avere segreti! Era
bello".
Ross
la accarezzò la testolina. "Beh, ce ne potremmo trovare di
nuovi, no?".
Demian
rise, da furbetto. "Sìììì!
Ad esempio, se adesso mi fai
vedere che sai salire sugli alberi, io non lo dico a nessuno. Nemmeno
a mamma! E questo è un segreto".
Ross
sospirò, non si sarebbe mai dimenticato di quella promessa
che gli
aveva fatto. Si alzò, arrotolandosi le maniche della camicia
sulle
braccia, decidendo che era arrivato il momento di mantenere la parola
data. "Quale albero vuoi?" - chiese, in tono di sfida.
Il
piccolo corse vicino a una vecchia quercia. "Sigismond! E' mio
amico, sai?" - disse, indicandogli la pianta.
Ross
ricordò che Demian amava dare un nome a ogni pianta che
incontrasse
lungo il suo cammino e anche se era una cosa estranea al suo modo di
fare, decise che il suo saper usare la fantasia riconoscendo un amico
in ogni cosa, era bellissimo. "E Sigismond sia! Ma ricordate,
è
un...".
"SEGRETO!!!"
- dissero i bambini, in coro.
E
stupendoli, agile come uno scoiattolino, si arrampicò.
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Capitolo 65 *** Capitolo sessantacinque ***
"Resta
quì ancora...".
La
voce calda di Ross, con le sue labbra premute sul suo collo, la fece
rabbrividire di piacere. Nuda nel letto, in un piovoso
lunedì
mattina, si girò verso di lui e lo baciò. Il
cottage era avvolto
nel silenzio e solo il rumore della pioggia, che donava pace ai
sensi, raggiungeva le loro orecchie. "Non posso... Devo tornare
a casa presto oggi".
Ross
la baciò sul collo. "Abbiamo la benedizione di Lord
Falmouth,
no? Possiamo anche concederci di più dell'essere amanti
clandestini".
Demelza
rise. "Certo, abbiamo la benedizione, CON RISERVA, di Falmouth.
Ma ti ricordo che TU, oggi, dovresti presenziare in Parlamento, che
Falmouth ti terrà d'occhio e che saltare la seduta non ti
renderà
molto amabile ai suoi occhi".
Ross
sbuffò. "Rischierò! Si parla di aumento di tasse
e credo che
farò come quando a scuola si faceva qualcosa che a me non
piaceva:
me ne starò lontano".
"Ross,
non sei più un bambino!" - lo rimbeccò lei, come
spesso faceva
una volta quando erano marito e moglie a Nampara.
Ross
si stiracchiò, stringendola ed attirandola a se. "A
proposito
di bambini... L'altro giorno, in quella biblioteca, vedere Jeremy e
Clowance così turbati... Potrò mai avere il
diritto di sperare che
non sarà così per sempre?".
Demelza
lo accarezzò, sentendo sulla pelle la paura e l'angoscia di
Ross.
"In realtà non è andata così male.
Soprattutto Jeremy...
Ecco, io credo che nella sua testa desideri fare tante domande ma che
ancora, per orgoglio, taccia. Clowance è ancora piccola e tu
stai
sconvolgendo il suo mondo e ha paura di te, del futuro, di quello che
sarà e di perdere ciò che è stato. Dai
loro tempo, Ross... Lascia
che ti conoscano e che capiscano, lascia che arrivi da solo il
momento, per loro, di lasciar cadere quel dannato orgoglio da Poldark
che vi fa diventare tutti quanti testardi come muli".
Ross
spalancò gli occhi. "Orgoglio Poldark?".
Demelza
gli strizzò l'occhio. "Una sorta di maledizione di famiglia,
a
modo vostro ognuno di voi è orgoglioso. I gemelli non sono
così,
sono furbi ad accaparrarsi ogni cosa buona che la vita gli dona, sono
astuti come ogni Boscawen. A loro non importa dell'orgoglio, a loro
interessa solo avere ciò che desiderano".
Ross
la baciò sulla tempia. "Grazie... Sei sempre stata brava a
consolarmi e tutto questo mi è mancato come l'aria per anni,
tanti
anni... Per tanto tempo nessuno è mai riuscito a farmi
vedere le
cose in modo meno nero di quanto mi apparissero, solo tu ci riesci.
Resta quì ancora un pò, non scappare, non adesso.
Vederti ogni
tanto non mi basta più e al diavolo la legge, per me sei e
sei
sempre stata mia moglie e voglio averti vicino!".
Demelza,
colpita da quelle parole, gli accarezzò la guancia con
commozione.
Davvero la considerava ancora una moglie, nonostante tutto? Davvero
era questo, per lui? "Il viaggio in Scozia ci aiuterà in
questo, potremo stare insieme davvero e non solo come amanti ma come
coppia. E come genitori, coi bambini con noi. Non avranno scampo
lì,
nessuno di loro".
"Non
hai paura?".
Demelza
sorrise. "Conosco la Scozia e non mi fa paura. E' una terra
magica dove nascono magie... La amo, amo i suoi castelli, amo i suoi
boschi, amo i suoi immensi prati, amo le sue case di pietra, amo il
loro strano modo di parlare, amo persino quegli uomini vestiti in
gonnella che Lord Falmouth odia come la peste. Amo una terra che nel
mio caso, SEMPRE, rappresenta un nuovo inizio. Me lo sento che
andrà
bene e non ho paura. Valentine come ha preso la notizia del
viaggio?".
Lui
rise. "Santo cielo, ha iniziato a saltare per tutta casa e a
fare baccano. Una volta era tanto silenzioso e tranquillo, ora
è un
terremoto e quando ci si mette pure il cane, poi passiamo ore a
sistemare i loro disastri". Si interruppe improvvisamente,
guardandola poi preoccupato. "Tu sei sicura che Valentine per te
non sia un problema?".
Gli
strinse la mano, per confortarlo. Da molto aveva deciso e capito che
Valentine era e sempre sarebbe stato per lei solo un bambino senza
madre e incredibilmente solo. Ed inoltre era il fratello dei suoi
figli e questo dava anche a lei delle responsabilità verso
di lui.
"No, non è mai stato un problema per me, Valentine. E tu, i
gemelli saranno un problema?".
Ross
alzò gli occhi al cielo, trattenendosi a stento dal ridere.
"Quei
due sanno risolvermeli i problemi! Santo cielo, se tutti i gemelli
sono così, credo di volerne un paio ancora".
Lei
lo guardò storto. "SCORDATELO!".
"Come
hai fatto a farli?".
Demelza
rise, voltandogli la schiena. "Credo che a questa domanda non
risponderò MAI!".
"E
allora, dovrai restare per pagare pegno" – disse lui,
ricatturandola fra le sue braccia e baciandola sul collo e sulla
schiena.
Demelza
tentò di resistere ma un gemito le sfuggì dalle
labbra. "Ross...".
"Shhh,
non dire niente".
Lei,
facendo violenza a se stessa, riuscì a sgusciare fuori dal
suo
abbraccio. "Ross, davvero! Devo andare".
"Perché?".
Controvoglia,
lei si mise a sedere nel letto coprendosi il petto con le lenzuola.
Nonostante la pioggia c'era dannatamente troppa luce! "Oggi
pomeriggio voglio passarlo coi bambini. Stasera non sarò
presente
per cena e devo prepararli e far loro un lungo discorso, soprattutto
ai gemelli! Quando cenano con Falmouth e Alexandra senza di me, di
solito succedono disastri e ogni volta rischio di trovarmi per casa
tutori svizzeri".
Ross
si accigliò. "Perché non sarai a cena a casa,
stasera?".
Lei
sorrise, maliziosa. "Devo uscire, ho un impegno".
Scherzosamente,
Ross le prese i polsi. "Donna, dove vai da sola la sera?!"
- chiese, vagamente stupito.
Demelza
si sistemò i capelli con un gesto lento e sensuale. "Vado a
una
festa...".
"Cosa?".
Lei
alzò le spalle. Capiva quanto a Ross dovesse apparire strano
e
difficile da accettare, capiva che l'indipendenza che lei aveva
raggiunto lo spaventava ma era giusto che vedesse la donna che era
diventata, che capisse che aveva impegni ed amicizie e che era
diversa dalla Demelza che aveva conosciuto anni prima. "Niente
di che, un piccolo rinfresco al circolo dove faccio tiro con l'arco,
con Margarita ed Edward e altri nostri amici. Lei a breve
partorirà
ed è una delle ultime occasioni che avremo di stare assieme
di sera,
per un pò. Ogni anno, in primavera, il circolo organizza un
piccolo
rinfresco all'aperto e ho sempre amato andarci".
Lui
rimase per un attimo in silenzio, poi prese un profondo respiro ed
infine le accarezzò la guancia. "La Demelza di un tempo mi
manca ma so che esiste ancora, la Demelza di adesso mi lascia senza
fiato ed entrambe, sommate, rendete la mia vita degna di essere
vissuta di nuovo".
Stupita,
forse pronta a una reazione meno comprensiva, sentì il cuore
accelerarle in petto. E provò il desiderio di abbracciarlo
per
l'uomo che era e che era riuscito a diventare. Ross continuava ad
incolparsi per gli errori del passato e non capiva quanto invece
fosse andato avanti, quanto fosse degno di rispetto e quanto fascino
sapeva esercitare su di lei. Non lo capiva lui che non riusciva a
perdonarsi e non lo capivano i bambini che non riuscivano a
perdonarlo. Era tutto lì, davvero lì il loro
problema: l'orgoglio.
Era questo, più che quel loro passato tanto doloroso e
difficile,
che rendeva tutto complicato. Lo baciò, lentamente,
appoggiando la
fronte contro la sua. "Vieni con me, stasera".
"Cosa?"
- chiese lui, spalancando gli occhi.
"Ti
sto chiedendo un appuntamento, signor Poldark! E' così che
si fa,
no?" - ribatté lei, maliziosamente.
Lui
rispose al sorriso. "Me lo stai chiedendo sul serio!?".
"Sì!
Anche se so che ti annoierai da morire e che ti sentirai un pesce
fuor d'acqua, te lo sto chiedendo sul serio! Vieni con me, ora puoi,
ora possiamo! Così conoscerai il mio mondo e capirai che
questo modo
di vivere a Londra, in fondo, non è poi così
spaventoso".
Ross
deglutì. "Davvero...?".
"Davvero,
dico sul serio. Vieni, mi farebbe piacere".
Le
sorrise, baciandola teneramente sulla fronte. "Verrò".
Demelza
lo baciò di nuovo e poi, mollemente, si alzò dal
letto. Appena in
piedi però, una strana nausea la colse d'improvviso ma fu
solo un
attimo. "Giuda!" - esclamò, toccandosi lo stomaco. Era la
seconda volta che le capitava, quel giorno.
Ross
parve entrare in panico. "Cosa c'è?".
Lei
sospirò. "I bambini devono avermi passato qualche dannato
malanno. E' da stamattina che lo stomaco mi fa brutti scherzi".
A
quelle parole Ross si alzò, prendendola fra le sue braccia.
"Stai
male?".
"Solo
un malessere. Farò un riposino oggi pomeriggio e stasera
sarò come
nuova".
"Sicura?".
"Sicura!
Verrai davvero con me?".
Ross
le sorrise, dolcemente. "Se davvero lo vuoi, sarò felice di
accompagnarti. Ci saranno anche i bambini?".
"Giuda,
no! I gemelli smonterebbero il circolo e Jeremy e Clowance...".
Arrossì, fermandosi un attimo incerta, arrossendo... "Ecco,
loro... Non amano troppo quel posto".
"Perché?".
Imbarazzata,
Demelza proseguì. "Quando erano piccoli, durante una delle
prime lezioni, li portai con me. E per errore, con una freccia,
uccisi un piccione... Hanno pianto tantissimo e da quel giorno non
son più voluti venire".
A
quel racconto, Ross scoppiò a ridere a crepapelle e di gusto
come
raramente succedeva "Avrei voluto esserci!". Lo disse con
leggerezza ma poi il sorriso gli morì sulle labbra. "Come in
tante altre occasioni...".
Demelza
lo strinse a se, con forza, cercando di fargli coraggio. "Ci
sarai adesso e per quanto riguarda il tiro con l'arco, non ti sei
perso nulla! Non sono per niente brava, raramente miro il bersaglio e
invece molto più spesso... colpisco altro. E per favore,
basta, non
parlare più del passato e pensiamo a stasera!".
Ross
annuì, baciandola sulla fronte. "Sì, stasera. E
cerca di
riposare e di star bene".
E
massaggiandosi lo stomaco, lei sorrise. "Sta tranquillo, non
è
nulla di grave. Passa a prendermi verso le otto, ti
aspetterò al
cancello principale".
Ridacchiando,
Ross le passò i vestiti che erano stati appoggiati sulla
sedia.
"Sarò puntuale... all'appuntamento con mia moglie".
Demelza
non rispose ma quelle parole, poche e semplici, sembrarono scaldarle
il cuore.
...
Appena
arrivata a casa e dopo aver salutato i bambini ancora impegnati col
precettore e i gemelli che scorazzavano come animali in gabbia in
casa a causa della pioggia, facendo impazzire Prudie e Mary, Demelza
andò in camera sua per riposare. Si sentiva stranamente
stanca e
spossata e nonostante la mattina di passione con Ross, le sembrava
bizzarro sentirsi così.
Quando
entrò nella stanza, trovò le finestre aperte.
Charlotte, la sua
domestica personale, sapeva quanto lei amasse sentire il profumo del
giardino bagnato dalla pioggia e quindi spesso, sperando di farle
cosa gradita, lasciava aperte le imposte quando il tempo era brutto
ma non freddo, in modo da riempire la camera di quell'aroma di bosco
che lei tanto adorava.
Ma
appena Demelza entrò, quel profumo che tanto amava le fece
tornare
di colpo la nausea e fece appena in tempo a raggiungere la toeletta
per vomitare.
Si
accasciò per terra cercando di riprendere fiato e per un
attimo si
chiese che diavolo le prendesse ma prima che potesse formulare un
pensiero coerente, stette male di nuovo. E poi, improvvisamente,
sembrò rinascere e il malessere sparì.
Si
alzò, si appoggiò alla parete e dopo aver preso
un profondo
respiro, si massaggiò lo stomaco. Che diavolo le prendeva?
Forse i
bambini le avevano passato qualche virus ma nessuno si era ammalato
in quelle ultime settimane, nemmeno Daisy che era l'untrice ufficiale
di famiglia, che beccava sempre di tutto e poi infettava gli altri.
Aveva allora, forse, preso freddo? Non le sembrava, nonostante la
pioggia il clima era caldo e primaverile... Aveva mangiato qualcosa
di strano? No, affatto, Falmouth era sempre molto attento ai cibi che
venivano serviti in tavola. E poi, perché star
così male per un
semplice odore che di natura lei adorava? Solo un'altra volta le era
successo...
"Julia...".
Improvvisamente,
al pensiero della sua prima figlia, sembrò mancarle il
fiato. Quando
era incinta di Julia, stava male per gli odori! Spesso, ad inizio
gravidanza... E le era capitato anche con Jeremy e coi gemelli,
talvolta.
Si
appoggiò alla parete, come investita da una valanga che
portava con
se mille pensieri incoerenti ma che finivano tutti nella medesima
direzione.
Il
fiato le mancò e per un attimo, la camera sembrò
ruotarle attorno.
"Giuda, non può essere..." - mormorò, toccandosi
d'istinto il ventre. Quando realizzò, sentì una
grande paura e allo
stesso momento, una grande agitazione. Certo che poteva essere,
dannazione! E lei e Ross non erano mai stati né troppo
previdenti né
troppo attenti e dopo mesi di passione, che potesse succedere avrebbe
dovuto metterlo in conto anche se, stranamente spinta da una
leggerezza che non le apparteneva da tanto, non ci aveva pensato.
Santo cielo, non ne aveva la certezza ma alla quinta gravidanza, i
sintomi erano inequivocabili! E quella notizia avrebbe sconvolto il
suo mondo e tutte le persone che amava, tutto sarebbe cambiato! E
Falmouth si sarebbe arrabbiato da morire!
Si
toccò il ventre, massaggiandolo delicatamente. "Ross,
piccoletto, che abbiamo combinato noi tre?" - chiese parlando al
vento, dolcemente. C'era un piccolo bimbo dentro di lei, il bimbo suo
e di Ross, un bimbo nato da un amore che era resuscitato dalle ceneri
e che mai avrebbe creduto di rivivere di nuovo. Un piccolo dolce
miracolo, piccolissimo ma che avrebbe scatenato un terremoto di
dimensioni epocali. In lei, in Ross, nei bambini, nei Boscawen, fra i
loro amici. Nessuno era pronto a questo eppure, se il bimbo c'era,
aveva bisogno di amore e pace, lui quanto lei.
Lo
avrebbe protetto...
E
in virtù di questo, decise...
Che
aveva bisogno di tempo per metabolizzare, che aveva bisogno di tempo
per preparare gli altri a questo terremoto, che dopo la gravidanza di
Clowance, passata in un momento infernale, lei voleva e meritava pace
e dei momenti solo per se stessa e per fare amicizia con questo bimbo
e con le emozioni contrastanti di paura e gioia che suscitava in lei.
Voleva un piccolo segreto da cullarsi per un pò da sola,
senza
condividerlo con nessuno. Nemmeno con Ross perché se lo
avesse
saputo, avrebbe scalpitato e preteso di accelerare i tempi per stare
con lei e non se la sentiva di sconvolgere troppo i bambini anche se
pure lei desiderava stare con lui con tutta se stessa. Ross avrebbe
capito... Aveva solo bisogno di tempo, per lei e per il piccolo.
Tutti avevano bisogno di tempo e a tutti ne avrebbe dato. Forse era
un pensiero un pò egoistico ma sentiva di aver bisogno di
tenere
tutto questo, per un pò, solo per se stessa. Un piccolo
segreto!
Prese
un profondo respiro, sistemò quanto aveva sporcato poco
prima quando
era stata male e poi mollemente, raggiunse il letto, coricandocisi
sopra. Non avrebbe mai pensato di ridiventare madre ma la vita, nel
suo caso, non le aveva lasciato libertà di scelta. O forse
sì,
gliel'aveva lasciata e lei aveva scelto di amare, rischiare e viversi
le conseguenze. No, non era stato il destino a scegliere, era stata
lei. Lei con Ross... E stavolta sarebbe stato tutto diverso,
pensò,
pregando silenziosamente che il piccolo in arrivo non avrebbe vissuto
quello che avevano passato i suoi fratelli. Voleva per lui o lei solo
amore. E una famiglia unita, grande, allargata, attorno. E quel
piccolino, forse più di ogni grande discorso o decisione
presa dai
grandi di famiglia, avrebbe unito tutti loro.
Ross
stavolta sarebbe stato commosso, felice, lui che rimpiangeva ogni
giorno i figli avuti da lei e persi, avrebbe avuto una nuova
occasione per dimostrare, soprattutto a se stesso, di essere un uomo
da ammirare.
Sì,
decise che poteva essere contenta e che tutto poteva essere superato.
E con quel pensiero, si addormentò.
...
Aveva
indossato un vestito color malva sbracciato, decidendo di coprirsi le
spalle con una leggera mantella bianca e di seta che le aveva donato
qualche anno prima Alexandra.
Nel
pomeriggio aveva riposato e al suo risveglio, il sole era tornato
splendente su Londra. Aveva giocato coi bambini, fatto merenda con
loro, aveva fatto ai gemelli una ramanzina colossale su cosa fare e
non fare durante la cena con lo zio e la nonna e dopo mille promesse
che avrebbero fatto i bravi, si era preparata per uscire con Ross.
Jeremy
l'aveva raggiunta in camera e gli aveva chiesto se sarebbe stata alla
festa col signor Poldark e lei non se l'era sentita di mentire e gli
aveva detto di sì. Sapeva che suo figlio aveva capito che si
incontravano e sapeva anche di non voler più tradire la
fiducia che
riponeva in lei. Presto la vita di tutti sarebbe cambiata e doveva
iniziare a porne le basi, soprattutto con lui.
Alla
sua risposta affermativa, Jeremy era rimasto per un attimo silenzioso
e poi l'aveva sorpresa con una domanda che non si sarebbe mai
aspettata. "Ma perché lo vedi?".
E
sinceramente, lei aveva risposto. "Perché mi rende felice
farlo".
Lui
non si era arrabbiato, l'aveva guardata intensamente, le aveva
sfiorato la mano e poi, inaspettatamente, aveva abbozzato un sorriso
incerto. "Posso stare a casa, vero? Non dobbiamo venire con te e
lui?".
"Certo,
voi stasera sarete quì e io non tornerò tardi".
"E
in Scozia?".
Lo
aveva abbracciato, forte. "In Scozia ci andremo tutti insieme,
lo sai bene. E so che in fondo, un pò sei curioso di cosa ne
verrà
fuori".
Jeremy
non le aveva risposto. Aveva preso la mantella bianca, gliel'aveva
appoggiata sulle spalle e poi, dopo un frettoloso saluto era scappato
via, lasciandole la sensazione che qualcosa si fosse aperto in lui,
che in fondo a Ross ci stava pensando e che la rabbia aveva lasciato
posto a tante domande di cui voleva risposte e a una
curiosità che
forse un giorno avrebbe avuto voglia di sanare assieme a suo padre.
Ross
l'aveva aspettata davanti al cancello e questo l'aveva fatta ridere.
Sembrava davvero un primo appuntamento di due fidanzatini sedicenni e
anche se nella sua testa frullavano mille pensieri, decise che voleva
dimenticarli per qualche istante e vivere quell'esperienza che ad
entrambi era mancata quando si erano conosciuti. Farsi corteggiare...
Santo cielo, come aveva bisogno di vivere tutto questo, con Ross!
"Ci
saranno anche Caroline e Dwight?" - chiese lui, arrivando al
cancello del circolo di tiro con l'arco dopo una breve passeggiata
lungo il Tamigi.
"No,
Caroline non ha mai frequentato questo posto e poi Sophie è
ancora
piccola per essere lasciata da sola con le tate, la sera. E poi
è
incinta, sta facendo diventare matto Dwight nell'acquisto del
corredino per il bambino".
Ross
rise. "Santo cielo, quì a Londra la gente si perde dietro a
mille cose inutili. Che ci vuole a comprare qualche abito da
neonato?".
Demelza,
di nascosto, si massaggiò il ventre. "Beh, se può
farti
agitare ancora di più, sappi che quando aspettavo i gemelli,
casa
Boscawen era una specie di cantiere in costruzione. Un mondo fatto e
disegnato per i bambini... Era tutta una corsa a fare il corredino
più bello, a trovare la culla migliore, avevo persino una
carrozzina
che Daisy adorava quando la portavo a passeggio".
Ross
spalancò gli occhi. "Carrozzina? Parli di quello strano
trabicolo che usano le donne di quì per portare in giro i
neonati?
Un lettino con rotelle?".
Demelza
alzò le spalle. "In realtà è comodo,
sai?".
Ross
non sembrò molto convinto della cosa. "E' una delle
invenzioni
più assurde che abbia mai visto. I neonati amano stare in
braccio".
Sorrise,
certe cose di Londra a una persona pratica come Ross dovevano
apparire davvero bizzarre e la divertiva il modo stupito e un
pò
sperso in cui lui si approcciava ad esse, con lo stesso sguardo di
meraviglia che aveva Demiam quando scopriva qualcosa di nuovo che non
conosceva.
Margarita
ed Edward li raggiunsero appena varcati i cancelli. Il pancione di
lei era evidente ormai, anche se mancavano ancora tre mesi alla
nascita del bambino e l'abitino di mussola bianca che indossava, lo
rendeva ancora più visibile. "Demelza e...". La ragazza si
bloccò, guardando Ross stupita. "Signor Poldark...?".
Guardò lui, guardò lei e poi di nuovo lui e poi
sorrise divertita.
"Ohhh".
Edward
li raggiunse, salutando e stringendo la mano a Ross. "E' un
piacere rivedervi, ci siamo incontrati a Natale se non mi sbaglio,
alla festa di Lady Boscawen".
"Esattamente.
E' un piacere anche per me, rivedervi" – rispose Ross.
Margarita
prese per mano Demelza. "Hai un accompagnatore e non mi hai
detto niente?".
"Ho
un accompagnatore e non ti ho detto niente..." - le rispose,
civettuola, accarezzandole il pancione. "Come va?" -
domandò, immaginando che pure lei, a breve, sarebbe stata
nelle
medesime condizioni.
Margarita
sospirò. "Mi sento grassa come un elefante e felice come una
gazzella libera di volare in cielo. E affamata come un bisonte...
Santo cielo, mia madre dice che a furia di compare cibo per me,
Edward andrà in rovina e sarà tutta colpa mia!".
Demelza
e Ross si scambiarono uno sguardo divertito. "Sempre carina e
gentile tua madre, è?".
Margarita
ci pensò su, mentre tutti e quattro si avvicinavano a dei
tavolini
imbanditi con vino e cibo, sistemati sotto a un porticato circondato
da piante. Il parco era immenso e verdeggiante, i vialetti sterrati
erano stati puliti da foglie e rami secchi caduti a causa della
pioggia e tante persone che frequentavano il centro per allenarsi,
passeggiavano con famigliari ed amici.
"Mia
madre, gentile? No, non gentile! Mi è utile, Demelza!" -
esclamò Margarita. "Grazie a lei, capisco come devo essere
madre! Mi sta insegnando".
Edward
e Demelza, che conoscevano bene Lady Constanze, spalancarono gli
occhi mentre Ross, un pò in disparte, osservava la
conversazione con
aria divertita.
"Margarita,
sei impazzita?!" - chiese Demelza. "Ciò che è tua
madre,
è ciò che NON devi essere tu coi tuoi figli!".
Margarita
annuì, con ovvietà. "Appunto! Io guardo lei,
ascolto lei,
imparo da lei e capisco che tutto quel che dice e fa è
ciò che io
non dovrò dire e fare!".
Demelza
rise, Edward tirò un sospiro di sollievo e Margarita
guardò Ross
che forse non ci stava capendo un accidenti. "Sapete signor
Poldark, mia madre è una specie di megera. Siete fortunato a
non
conoscerla, saprebbe far sentire inadatto anche un uomo dal carattere
forte e deciso come voi".
Ross
le sorrise timidamente. "Il mondo è pieno di genitori
così.
Avevo uno zio che era quel tipo di padre che somiglia a vostra madre
e purtroppo è stato la rovina del figlio. Ma voi mi sembrate
una
persona in gamba e forte, nonché una piacevole compagnia".
Margarita
scosse la testa, prendendo la mano di Edward. "Oh, non in gamba,
io non so fare niente! Dico davvero! A volte vorrei rendermi utile ma
sono goffa e alla fine ho deciso che il mio posto è a casa,
a curare
il mio giardino, a preparare cioccolata calda di sera per me ed
Edward e a preparare l'occorrente per il mio bambino".
Ross
rimase sconcertato da quella incredibile sincerità e assenza
di
malizia. "Ognuno ha il suo posto nel mondo e se voi avete
trovato il vostro e vivete serena, allora va bene. Siete una brava
persona, due brave persone e non fate del male a nessuno. Questo
è
l'importante".
Edward
si intromise nel discorso. "Io in realtà provo anche a fare
politica ma per ora, con scarsi risultati. Mio padre dice che la mia
fortuna è essere nato in una famiglia ricca, altrimenti
sarei morto
di fame".
Ross
sospirò. "Gli scarsi risultati in politica, sono male
comune.
Non che io combini molto...".
Demelza,
rimasta in silenzio, osservò Ross. Sembrava tanto rilassato
e
tranquillo in quella conversazione e conoscendolo, le era
così
chiaro vedere quanto apprezzasse la compagnia discreta dei suoi due
amici aristocratici ma tanto lontani dall'idea negativa che Ross
aveva sempre avuto della nobiltà.
Chiacchierarono
per un pò e poi Margarita, di nuovo affamata,
andò con Edward al
buffet e Demelza ne approfittò per chiedere a Ross di fare
due
passi.
Lui
la prese sotto braccio e lei lo portò nel parco per fargli
vedere
dove ci si esercitava con l'arco. "Non è poi così
spaventoso,
no?".
"No"
– rispose lui, tranquillo. "Mi piacciono quei due, sono...".
"Gentili?".
"Semplici...
Brave persone che non vogliono apparire più di
ciò che sono. E
questo è uno dei maggiori pregi che possa avere un essere
umano".
Demelza
sorrise. "Sai, Margarita è stata la prima amica che ho
trovato
a Londra dopo Caroline. L'ho adorata subito e da allora faccio tante
cose insieme a lei".
"Sua
madre è così terribile?".
Avvicinandosi
a una delle postazioni di tiro, Demelza prese in mano un arco e una
freccia. "Oh, potrebbe ricordarti la signora Teague".
"Che
Dio ce ne liberi!". Poi le si avvicinò, osservando l'arco
che
Demelza teneva in mano. Lo sfiorò con le dita, catturato
dalla
lucentezza del legno. "Non ne ho mai usato uno. E' complicato?".
"Forse
sì, forse no. Dipende se uno ci è portato. Io e
Margarita abbiamo
sbagliato passatempo, noi siamo disastrose".
Ross
le sfiorò la vita e la attirò a se, facendole
appoggiare la schiena
contro il suo petto. Le mise l'arco in mano e poi prese una freccia,
aiutandola a tendere l'arco. "Non ho mai tirato con l'arco ma
sai, a volte una cosa difficile appare più facile se la si
guarda da
prospettive diverse".
"Che
vuoi dire?".
Ross
osservò attentamente la lunga freccia che teneva fra le
mani. "Credo
che la freccia, sia da considerare un prolungamento della mano. La
punta delle tue dita. Tendi il braccio, non fare troppa attenzione al
bersaglio ma guarda la tua mano e immagina che la freccia ne sia una
parte, l'ultima. Poi, solo alla fine guarda il bersaglio e fa finta
di volerlo toccare col dito. E poi scocca".
Demelza
si voltò verso di lui a bocca aperta. "Non è
così facile, c'è
il vento da tenere in considerazione, la distanza, la forza per
tendere l'arco... Mille variabili".
"Prova!"
- insistette lui.
"Prova
con me, allora". Demelza tese l'arco, con la mano di Ross a
coprire la sua per aiutarla a dare forza, osservò la punta
della
freccia e decise di non pensare al vento e alle mille altre cose che
le avevano detto di tenere in considerazione. E poi, col calore della
mano libera che Ross aveva posato sul suo fianco, immaginando quanto
il loro bambino fosse vicino ad essa, scoccò la freccia.
Non
fecero centro ma colpirono quanto meno il bersaglio. E Demelza rise.
"Nessun piccione morto!".
Anche
Ross rise. "E' già di per se una vittoria! Potrei pure
diventare bravo in questo sport, se mi ci mettessi d'impegno!".
Lo
abbracciò, forte, affondando il viso nel suo petto. Si
sentiva
incredibilmente serena in quel momento, come non le capitava da
tanto. Posò la mano ancora una volta sul suo ventre piatto,
cercando
di dare calore al suo bimbo e fargli sentire che accanto a lui o lei,
c'erano la sua mamma e il suo papà. Insieme!
Ross
non capì, non poteva capire come si sentisse in quel momento
ma la
abbracciò, vivendo con lei l'attimo. "Se qualcuno ci
vedesse?".
Lei
sorrise. "Credo che non me ne importerebbe. Solo una cosa conta,
ora. Io, te, la nostra storia. Ciò che siamo adesso,
quì, è il
risultato di essa, errori compresi. E non dovremmo demonizzare
più,
né io né te, quegli errori ma essere fieri di
aver imparato da
essi. E ringraziarli perché ci hanno dato tutto
ciò che abbiamo
ora".
Ross
le accarezzò i capelli, piano. "Manca ancora qualcosa,
però...
I bambini...".
Lei
gli prese la mano, stringendola nelle sue. "I bambini...
arriveranno..." - sussurrò. Si, decisamente sarebbero
arrivati.
Più di quelli che Ross immaginava. Una leggera e fresca
brezza si
alzò in quel momento, scompigliandole i capelli e facendola
rabbrividire. "Si sta facendo tardi, torniamo a casa?".
Lui
annuì. "Sì, direi che è ora. E poi
oggi non sei stata nemmeno
troppo bene e sta diventando freddo".
"Ora
sto bene, sono solo preoccupata per i bambini. Hanno promesso di fare
i bravi ma mi fido poco dei gemelli".
Ross,
da gentiluomo, la prese sottobraccio. "Su, allora andiamo a
salutare i tuoi amici e torniamo a casa". Poi si voltò,
guardando il parco accigliato. "Sai una cosa?".
"Cosa?".
"Sarà
pure uno sport da ricchi, ma il tiro con l'arco mi piace".
"Vuoi
fare uno sport da ricchi?".
Ross
ci pensò su, ridendo. "Naaaa, forse sto straparlando e ho
bevuto troppo vino! Ti porto a casa prima di dire altre sciocchezze
che comprometterebbero il mio essere sempre il bastian contrario
della situazione".
"Hai
paura di diventare... amabile?".
Lui
annuì, serio ma anche divertito. "Che prospettiva orribile,
no?".
Rise,
di gusto, stringendosi a lui. "Terribilmente orribile".
Ross
la baciò sulla tempia, dolcemente. "Su, allora andiamo a
casa,
mia lady".
...
Quando
rientrò a casa, prima di lasciare Ross gli diede sul portone
un
lungo bacio, incurante che il maggiordomo venuto ad aprire, vedesse.
Poi, come nel finale di ogni appuntamento che si rispetti,
salutò
promettendo di rivedersi presto, entrò in casa e raggiunse
la sua
camera.
C'era
silenzio, i bimbi già dormivano e quando arrivò
alla sua stanza,
trovò ad accoglierla un piacevole tepore dato dalle candele
accese
alle pareti e Demian, steso sul letto che giocava con dei pupazzetti.
"Mamma!" - esclamò il piccolo, saltando per terra e
correndole incontro con indosso la sua camiciola da notte bianca.
Demelza
allargò le braccia, stringendolo a se. "Amore... Ma sei
ancora
sveglio?".
"Sì,
ti aspettavo!".
Lo
portò fino al letto, facendolo sedere e poi facendo
altrettanto.
"Hai fatto il bravo?".
"Sì".
"Davvero?".
"Davvero!
Non ho neanche pianto" – rispose lui, mettendosi a pancia in
giù sul letto.
Demelza
gli accarezzò la testolina. "Oh, allora sei quasi pronto per
dormire da solo, sei un ometto ormai!".
Demian,
a quella proposta non troppo gradita, si voltò verso di lei
piccato.
"Oh, se dici così, la prossima volta piango!".
Di
tutta risposta, gli diede una pacca sul sederino, facendolo ridere e
agitare le gambette. "Tua sorella ha lanciato qualcosa in testa
allo zio?".
"Quale
sorella?" - chiese il piccolo, prendendola in giro.
"Quella
che lancia le cose!".
"Oh
no. Siamo stati bravi fino all'ora del bagnetto! Poi però
Daisy non
ce l'ha fatta più ed è scappata dalla vasca da
bagno tutta nuda e
col sapone perché Prudie e Mary volevano usare quello che
puzza di
prato della nonna e a lei non piace. Lei è scappata veloce
ma poi
l'hanno ripresa e rimessa in acqua e allora Daisy le ha bagnate tutte
e Prudie adesso c'ha il raffreddore! Ma per il resto, siam stati
proprio bravissimi".
Demelza
sospirò, che faccia tosta! "Demian!".
"Hai
detto che dovevamo fare i bravi con lo zio e la nonna, non con Prudie
e Mary..." - si giustificò il piccolo.
"Demian!!!".
Incurante
delle sue occhiatacce, il piccolo le saltò sulle ginocchia.
"Mamma,
ho un amico nuovo. Anzi, un'amica!".
Cosa?
Demelza osservò il suo piccolo principe! Come osava fare
impazzire
le tate e trovare un'amica che non fosse lei? "Chi sarebbe?".
"Hannah!
Il signor Thomas che ci mette le piante in giardino, l'ha piantata
stamattina e io l'ho chiamata Hannah e adesso siamo amici".
Sospirò,
stranamente rinfrancata. Beh, stava parlando di una pianta, non di
una persona... Il suo unico amore, per ora, rimaneva lei...
"Hannah... Come sai che è una femmina".
"Perché
fa i fiori rosa e allora è una femmina".
Ok,
come spiegazione poteva funzionare. Gli stropicciò i capelli
con una
carezza e poi gli sorrise. Era incantata da lui, lo sarebbe stata
sempre. "Me lo fai un favore, piccolo principe?".
"Certo".
"Resta
sempre così, anche quando sarai grande! Continua ad essere
amico di
ogni cosa e sarai un grande uomo".
Demian
annuì, come se per lui fosse cosa ovvia. "Certo!". Poi
però la osservò meglio, pensieroso,
scandagliandola in viso come
spesso sapeva fare, trovando in lei l'accesso ai suoi pensieri
più
profondi. "Sei arrabbiata?".
"No,
assolutamente. Sono molto fiera di te, sei un bambino davvero
magico".
Demian
sorrise, soddisfatto. "Lo so!".
"Davvero?".
"Sì
certo. Magico e adesso che ci sono io, quando son nato sei diventata
magica anche tu".
Rise
a quella spiegazione. "Di solito sono i figli che somigliano ai
genitori".
Lui
non parve d'accordo. "Ma nooo! Tu somigli a me, siamo magici. Tu
sei la mia mamma e sei magica da quando sono arrivato io. E anche un
pò arrabbiata anche se dici di no. Oppure sei preoccupata".
Sussultò.
Santo cielo, a Demian non sarebbe mai sfuggito nulla su di lei. Si
accarezzò il ventre, facendosi mille domande su quel
bambino, su
come sarebbe stato accolto, sul terremoto che avrebbe generato in
tutti e decise che aspettare un pò sarebbe stata la cosa
giusta.
Voleva pace e finché poteva, ne avrebbe goduto. Appena la
cosa fosse
stata di dominio pubblico, non sarebbe più stato un suo
segreto, un
qualcosa solo per se stessa. E lei aveva bisogno di quella pace e
sì,
di sentirsi magica come diceva Demian. "Non sono preoccupata, ma
come dici tu mi sento magica".
Lui
si illuminò in viso. "Davvero?".
"Davvero!".
"E'
la prima volta?".
"Che
mi sento magica?".
"Sì".
Demelza
scosse la testa. "No, non la prima. La quinta...".
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Capitolo 66 *** Capitolo sessantasei ***
La
partenza per la Scozia era avvenuta in una fresca alba di fine maggio
da una Londra ancora deserta e sonnecchiosa.
Erano
in tutto tre carrozze: in una viaggiavano Ross, Lord Falmouth e
Dwight, unitosi all'ultimo su insistenza di Caroline che voleva un
purosangue scozzese come dono per la gravidanza e – come
aveva
confidato a Demelza – un pò di pace dalle ansie
del marito troppo
apprensivo per il bimbo in arrivo. Riluttante, Dwight aveva deciso di
partire. Mancavano ancora tre mesi al parto e con la promessa di
tornare appena concluso l'acquisto del cavallo, si era messo in
viaggio con loro. Nella seconda carrozza, la più grossa,
viaggiavano
Demelza e i bambini. Valentine aveva insistito per stare con loro e
lei non se l'era sentita di dirgli di no. In fondo per il bambino,
l'alternativa sarebbe stata viaggiare in una carrozza con tre uomini
adulti che avrebbero parlato di affari e politica tutto il tempo ed
era più giusto che lui stese con Jeremy e Clowance per
conoscerli
meglio. E con tutti loro, Fox e Queen, i cani di Jeremy e Clowance, i
quali avevano insistito per portarli con se. Garrick, troppo anziano
per un viaggio del genere, era stato lasciato a casa e affidato alle
cure di Lady Alexandra che non era voluta partire mentre Tannen,
ancora cucciolo, era stato lasciato coi Gimlet. Nella terza carrozza
viaggiavano Prudie, Mary e due servitori addetti ai bagagli e ai
bisogni di Falmouth.
E
così, salutati tutti, erano partiti per quel lungo viaggio.
Demelza
stava bene e nonostante il suo segreto e i timori per la gravidanza,
era partita tranquilla. A parte i primi iniziali malesseri, poi non
aveva avuto altri malori e anzi, le sembrava di non essere mai stata
meglio tanto che nessuno, nemmeno Ross, aveva avuto dei sospetti per
quel segreto che, complice la sua perfetta forma fisica, sarebbe
potuto rimanere tale ancora un pò. Anche se la voglia di
dirlo,
soprattutto a Ross, pian piano stava prendendo il sopravvento...
Ma
era presto, i bimbi erano ancora distanti dal padre e lei avrebbe
usato quel viaggio, forse capitato al momento giusto, per avvicinarli
a lui e smussare quanto meno gli angoli dei loro caratteri e dei loro
rancori. E poi forse, avrebbe detto la verità a loro e al
mondo...
Durante
il viaggio, con Valentine era andata bene. Il bimbo era educato e
tranquillo e nonostante la naturale riluttanza iniziale, alla fine
Jeremy e Clowance avevano trovato in lui un compagno di giochi e
chiacchiere e alla fine erano riusciti a fare quello che ai bambini
riesce meglio, dimenticare i problemi ed essere semplicemente amici.
Demian invece era rimasto al finestrino tutto il tempo, incantato
dalla miriade di paesaggi sconosciuti che sfilavano davanti ai suoi
occhi. Era curioso, aveva un animo sensibile ed attento e riusciva a
vedere cose che agli occhi dei più sfuggivano. Faceva mille
domande
su quali alberi avessero visto, sugli uccelli che sfrecciavano sulle
loro teste, sulle persone che incontravano, sui mulini della campagna
e non si stancava mai di chiedere, come se la sua mente fosse
affamata di immagini e nozioni nuove. Daisy invece era stata meno
brava e mansueta. Tenerla ferma per quel lungo viaggio, chiusa in una
carrozza, per lei era troppo. Demelza sapeva che avrebbe creato
problemi e fatto capricci e già prima di uscire da Londra
con la
carrozza, la piccola aveva chiesto quanto mancasse alla loro
destinazione finale. Aveva tentato di coinvolgerla in alcuni giochi e
lo stesso avevano fatto Jeremy, Clowance e Valentine ma la piccola,
irrequieta, era diventata capricciosa e intrattabile. Aveva fatto
capricci per il cibo, per la carrozza, perché voleva dormire
e non
riusciva, perché i cani non giocavano con lei e per ogni
cosa...
Durante le soste, Prudie e Mary avevano tentato di farla sfogare ma
lei sgusciava via alla loro presa, stizzita e stanca. Demelza era
consapevole che a quattro anni quel comportamento fosse probabilmente
normale in un viaggio tanto lungo. Falmouth invece ne era meno
consapevole e dalle sue occhiate alla piccola, era evidente che nella
sua mente fosse tornato in auge il tutore svizzero.
Solo
Ross, da cui i bambini più grandi cercavano di tenere le
distanze,
riusciva a farla calmare. E durante le soste, lei gli saltava in
braccio, gli cingeva il collo e piagnucolava un pò
finché lui
riusciva a farle tornare il buon umore.
"Voglio
venire in carrozza con te, signor Poldark!".
A
quella proposta, a Dwight e Falmouth si erano rizzati i capelli in
piedi, Demelza era entrata in allarme, Prudie si era fatta il segno
della croce e Ross... Ross aveva acconsentito senza battere ciglio.
Falmouth
l'aveva guardato come fosse impazzito ma poi aveva dovuto cedere
davanti alle teste dure di Ross e Daisy e alla fine, dopo aver
giurato alla bimba che al primo capriccio l'avrebbe rispedita nella
carrozza di sua madre, il viaggio era ripreso.
E
da quel momento, con gran stupore di tutti, Daisy aveva fatto la
brava. Seduta sulle ginocchia di Ross, aveva guardato fuori dal
finestrino, fatto domande come il suo gemello, ascoltato i discorsi
dei grandi e dormito quando era troppo stanca per stare sveglia.
Demelza
era stupita e forse un pò invidiosa, avrebbe voluto essere
lei a
viaggiare con Ross anche se Falmouth aveva detto che la cosa sarebbe
stata sconveniente per il casato e soprattutto per i bambini e che
per ragioni di decoro, le carrozze per il viaggio dovevano essere
separate. Ma era anche fiera, sia della bravura di Ross con un osso
duro come Daisy, sia della sua orsetta che con con lui aveva trovato
pace ed era riuscita a fare la brava.
Al
nono giorno di viaggio, dopo infinite soste durante il tragitto,
giunsero nella verdeggiane e selvaggia Scozia. C'era ancora della
strada da fare ma erano ormai a buon punto.
Era
come Demelza la ricordava: magica, verde, piena di infiniti prati e
misteriosi castelli, punteggiata di villaggi che parevano usciti da
un libro di fiabe e a quella vista, con un pizzico di malinconia,
ricordò le leggende che Hugh le aveva narrato su quei luoghi
quando
con lui ci era venuta la prima volta. Sapeva che Ross forse ne
avrebbe sofferto ma era impossibile non pensare all'animo romantico e
poetico di Hugh per quella terra per lo più ancora da
scoprire ed
esplorare, quella terra che lui aveva guardato con la stessa
meraviglia che ora rivedeva negli occhi curiosi del piccolo Demian.
Era
impossibile non pensare al passato ed era altrettanto impossibile non
pensare al futuro e a ciò che la aspettava con Ross. Demelza
approfittava delle soste per i pranzi per stare un pò con
lui,
chiacchierare, domandare come andasse con Falmouth e Daisy,
condividere insieme dei brevi istanti di coccole. Era strano essere
con Ross in terra di Scozia, era strano pensare che lì c'era
stata
con Hugh e Ross dal canto suo doveva sentirsi a disagio a quei
pensieri, anche se cercava di non darlo a vedere e di non farglielo
pesare. E così, di nascosto dal mondo, quando tutti
mangiavano e non
badavano a loro, si rintanavano per alcuni istanti in qualche posto
un pò isolato per ritrovarsi e guardarsi negli occhi in quel
loro
modo unico e silenzioso in cui sapevano dirsi senza parole che tutto
andava e sarebbe andato bene. Demelza avrebbe voluto che anche i
bambini si avvicinassero un pò più a Ross e
avrebbe cercato il modo
affinché questo avvenisse anche perché ora, anche
se gli stavano
alla larga, percepiva soprattutto in Jeremy timore e paura
più che
rabbia verso di lui. E anche Clowance, anche se distante da suo
padre, ogni tanto lo osservava di nascosto, pur senza rivolgergli la
parola. Ross ne soffriva e lei lo vedeva, anche se lui non diceva
nulla. E in cuor suo Demelza desiderava per lui, per loro, per il
piccolo in arrivo, che tutto si sistemasse al meglio. Ross aveva
bisogno dei suoi figli e i bambini avevano bisogno di lui. E su
questo, Falmouth aveva ragione. Sarebbe stato bello, anche se temeva
di sperarlo, se un giorno tutti loro insieme, fossero stati una vera
e grande famiglia. Lo sperava e sognava per tutti coloro che amava,
grandi, piccoli e non ancora nati. Accarezzava il suo pancino ancora
invisibile, immaginava la gioia che avrebbe provato Ross e il visino
di quella bimba che aspettava. Sì, se lo sentiva nel sangue,
sarebbe
stata una femminuccia e in lei Ross avrebbe trovato tutto
ciò che
aveva perso con le sue due prime bimbe che non aveva potuto amare.
Anche per questo era contenta che Daisy gli fosse tanto attaccata:
per lei, che mai aveva avuto braccia paterne a stringerla e a farla
sentire sicura e per lui, a cui la piccola donava sensazioni e
momenti che Ross non aveva potuto vivere a causa del destino avverso
con Julia e dei suoi errori con Clowance.
...
Avevano
fatto una sosta per il pranzo e per far prendere fiato ai cavalli in
una piccola locanda scozzese in mezzo a una foresta. Intorno solo
natura rigogliosa, una strada sterrata, piante altissime, muschio, il
canto degli uccelli e un cielo grigio e carico di umidità
che
prometteva pioggia.
I
bimbi avevano mangiato in piedi, giocando e sgranchendosi le gambe
dopo tutte le ore passate in carrozza mentre gli adulti si erano
seduti a chiacchierare del più e del meno.
I
gemelli si erano messi a giocare vicino al tavolo, come sempre non
troppo entusiasti di mangiare, Falmouth aveva tentato di intavolare
un discorso politico sulla superiorità degli inglesi con
l'oste
scozzese e per poco non provocava uno strappo politico a cui Ross,
con l'aiuto di Dwight, aveva posto rimedio all'ultimo, prima che la
situazione degenerasse.
Demelza
si era intrattenuta al tavolo a fianco con Prudie e gli altri
servitori che erano partiti con loro e anche se, a malincuore, aveva
dovuto mangiare separata da Ross, spesso i due si erano lanciati
sguardi allusivi e di intesa.
Dopo
un pò Jeremy aveva ottenuto il permesso di andare a far
correre Fox
nel bosco lì vicino e Valentine si era accodato a lui mentre
Clowance, non troppo desiderosa di stare coi maschi, aveva chiesto il
permesso di fare due passi in direzione opposta con Queen, fino a un
piccolo laghetto ad alcune decine di metri di distanza dalla locanda.
Demelza,
dopo mille raccomandazioni ma rinfrancata dalla presenza della lupa
albina, l'aveva fatta andare e poi, dopo aver inseguito i gemelli e
averli costretti a mangiare della carne, si era allontanata a sua
volta per sgranchirsi le gambe.
Prima
di andare però, aveva lanciato uno sguardo d'intesa a Ross e
lui
l'aveva captato al volo. E mentre Dwight cercava di spiegare a
Falmouth che in terra di Scozia non era carino insultare le usanze
locali, ne approfittò per inseguirla nel bosco.
Appena
la raggiunse, mentre passeggiava tranquilla fra gli alberi, le cinse
da dietro la vita, baciandola sul collo. "Catturata!".
Lei
si voltò, ridendo, decisamente poco sorpresa dalla sua
apparizione.
"Giuda, ce ne hai messo di tempo ad arrivare! L'altra notte sei
stato più veloce e spericolato".
Ross
ripensò a due giorni prima quando, approfittando del fatto
che tutti
stavano dormendo nella loro stanza nella locanda che li aveva
ospitati, era sgusciato in piena notte di nascosto nella camera dove
dormiva Demelza. Era stato silenzioso come un gatto e lei aveva riso
quando l'aveva visto arrivare, facendogli notare che se Demian, che
dormiva nel lettone con lei, si fosse svegliato, sarebbero stati
guai.
Impudentemente
l'aveva baciata di soppiatto sulle labbra e sul collo, aveva
rimarcato il fatto che Demian doveva imparare a dormire PRESTO da
solo e poi era ritornato nella sua stanza da Valentine, soddisfatto
della sua sortita. Avrebbe desiderato di più ma col
gemellino nel
letto, sarebbe stato difficile...
"La
notte mi rende ardito! Anche il tuo cottage a Londra mi rende tale ma
ora, strada facendo, in locande piccole e con Falmouth e mille
bambini attorno che ci guardano, è tutto più
complicato".
Lei
gli accarezzò la guancia. "Falmouth ha intenzione,
finché non
troveremo un castello che gli piaccia, di affittare una grande villa
di campagna per il periodo che ci fermeremo quì.
Lì sarà più
facile vedersi".
Ross
prese un profondo respiro, guardandosi attorno. La natura era
rigogliosa e selvaggia e per quanto diversa dall'Inghilterra, in un
certo senso ne era affascinato. "E' un bel posto e dopo tutto,
spero non venga colonizzato dal tuo zio acquisito".
Demelza
lo imitò, guardandosi attorno ed appoggiandosi con la
schiena al
tronco di un albero. "E' vero! Ho amato la Scozia fin dal primo
sguardo che ho posato su di essa...".
"Quando
ci sei venuta con Hugh?" - chiese, interrompendola, con una nota
di gelosia nel tono di voce.
Demelza
se ne accorse. "L'ho amata per la terra che è, non
perché
c'ero venuta con Hugh!".
"Pensi
a lui, ora?".
"Quì?".
"Sì,
quì".
Demelza
si oscurò. Ross non voleva essere geloso ma in un certo
senso era
normale che il pensiero di quanto avessero condiviso lei e il poeta
in quelle terre, lo turbasse. "Sì, penso a lui.
Quì, adesso!
Anche se in questo bosco non ci siamo stati e allora, abbiamo seguito
un tragitto diverso. Penso a lui con dispiacere perché era
una
persona giovane e avrebbe amato fare questo viaggio. Penso a lui
quando guardo Demian che scruta con curiosità tutto
ciò che di
nuovo scopre, con lo stesso stupore che aveva lui".
Ross
abbassò lo sguardo, a disagio sia per la sua gelosia che non
voleva
provare, che per la franchezza di Demelza. Non voleva che lei
mentisse ma in un certo senso faceva male anche la verità.
"E
tu... Per quanto ti riguarda, per quanto concerne TE, lo pensi?".
Demelza
lo guardò storto. "Non nel senso in cui credi tu! Lo penso,
come ognuno di noi pensa a chi ha incrociato la sua vita con la
nostra e se n'è andato, lasciando un segno in noi. Ma ora,
io, sono
felice. Di essere quì, con te! Ed è un nuovo
viaggio questo, che
abbiamo intrapreso insieme ben prima di partire per la Scozia. Io, te
e se saremo uniti, i bambini...".
La
strinse a se, attirò il suo viso contro il suo petto e
affondò le
labbra fra quei capelli rosso fuoco che lo stregavano. Non doveva
essere geloso, non di lei! MAI! Demelza non lo meritava e lui non ne
aveva il diritto. "Scusa... E' che a volte, essere quì e
magari
sognare di essere da qualche altra parte solo io, te e i bambini, mi
fa diventare pessimo".
Demelza
fece un sorriso dolce e rassicurante, incrociando lo sguardo col suo.
"Dove vorresti essere?".
"Si
può sognare?" - chiese lui.
"Certo
che sì".
Ci
pensò su un attimo. "In una di quelle isole tropicali e
calde
che ho incrociato tanti anni fa mentre tornavo dalla Virginia. Palme,
sole, spiagge, mare e nessuno che ti disturbi. Vorrei essere
lì, in
una capanna fatta di bambù, tutto il giorno a letto con te e
i
bambini liberi che giocano, fuori, senza freni o limiti".
Demelza
rise, di gusto. "Sembra un bel sogno, eccetto per una cosa: io e
te tutto il giorno a letto sarebbe bello ma in questa ipotetica isola
deserta, chi ci procurerebbe il cibo per sopravvivere?".
Ross
sospirò, diventando per un attimo malinconico, rendendosi
conto che
per quel momento, quello era davvero solo un sogno. "Con tutti i
bambini che ci gravitano attorno, potremmo far lavorare loro e non
fare nulla tutto il giorno noi". Certo, sarebbe stato bello se
Clowance e Jeremy lo avessero voluto con loro e amato...
Demelza,
per consolarlo, gli diede una pacca amichevole sul braccio, poi si
rannicchiò contro di lui. "Quali bambini?" - chiese.
E
Ross capì che anche lei aveva paura, cje voleva certezze e
rassicurazioni e che una frase detta proprio da Lord Falmouth quando
avevano parlato con lui a Londra, faceva al caso suo. La
baciò sulla
nuca, poi raggiunse il suo orecchio con le labbra. "Tutti quelli
che ci chiamano o mamma o papà... Che ne dici?".
Gli
occhi di Demelza brillarono e il suo viso assunse un'espressione
nuova, di speranza. "Dico che è una bellissima idea. Quelli
che
ci chiamano a quel modo, sono tanti".
"Succederà?"
- le domandò, sentendo che era il suo turno di avere
rassicurazioni.
"Io
sono sicura di sì".
Un
urlò di Falmouth che proveniva dalla locanda ed era
indirizzato a
uno dei gemelli che ne aveva appena combinata una delle sue, fece
sussultare Demelza, spezzando il loro momento romantico ed intimo.
"Giuda, che sarà successo?".
"Vuoi
che vada io?" - si propose Ross.
Demelza
gli diede una pacca sulla schiena. "No! Fai già troppo e sai
far filare dritta Daisy persino meglio di me. Ora devo riprendere il
comando sui miei bambini".
"Gelosa?".
Demelza,
incamminandosi sul sentiero, si voltò verso di lui. "Ovvio!
Demian mi adora ma Daisy sta tutto il tempo a parlar fitto con te e
fa persino la brava in carrozza, dopo che per giorni ci ha fatto
ammattire tutti! Di che parlate?".
Ross
guardò il bosco, pensando alle tante sconclusionate parole
scambiate
con la piccola. "Vuole sapere se quì ci vivono degli orsi.
Credo non abbia abbandonato del tutto l'idea... E mi chiede spesso
come sia il mare ed è affascinata dai racconti sui pirati".
"Non
parlarle di pirati! O vorrà diventarlo!" - lo
rimproverò
Demelza. "Hugh diceva che quella sarebbe stata la sua strada e
lo asseriva quando lei non era che una neonata".
Ross
rise. "E temo avesse ragione...".
Demelza
lo fulminò con lo sguardo. "Vado dai bambini, tu prosegui
pure
la tua passeggiata e lascia che recuperi il polso della situazione
coi miei gemellini".
Divertito,
Ross annuì. E dopo averla baciata sulle labbra e lasciata
andare,
proseguì nella sua passeggiata. Aveva voglia di sgranchire
le gambe,
da morire.
Camminò
nel bosco per alcuni minuti, finché da lontano, in mezzo
alle piante
di una radura, vide Jeremy che giocava con Valentine e il piccolo
Fox.
Il
cagnolino, dal pelo rosso come quello di una volpe, correva felice da
un bimbo all'altro, riportando i pezzetti di legno che i due gli
lanciavano. I bambini ridevano, sembravano andare d'accordo e aver
superato le divisioni fra loro nate per colpa sua. Due amici... due
fratellini che giocavano... Si vergognò di se stesso per la
situazione che aveva generato e si sentì orgoglioso di come
i suoi
figli avevano saputo risolverla. Erano migliori di lui, entrambi...
Avrebbe voluto raggiungerli e giocare con loro come ogni padre
avrebbe fatto, avrebbe voluto prenderli per mano e riportarli dalla
loro madre ma capì che in quel momento sarebbe stato di
troppo e
avrebbe creato solo tensioni.
E
si accontentò di vedere il ragazzino che il suo Jeremy era
diventato, tanto lontano da quel piccolo bimbo che giocava col suo
cavallino di legno a Nampara e Valentine, ormai in piena salute e
vivace.
E
così, dopo averli osservati di nascosto per un pò
ed essersi
impresso nella mente il loro giocare e ridere, proseguì fino
al
laghetto.
Clowance
era lì da sola e anche se non aveva voglia di parlare con
lui e lo
temeva, da padre sentiva di dover dare un occhio anche a lei. Per
anni non era stato che un'ombra oscura nella vita di sua figlia e non
voleva più esserlo. Era la sua bimba, la bimba venuta dopo
Julia.
L'avrebbe adorata se tutti fossero rimasti a Nampara, sarebbe stata
la sua cocca, ce l'avrebbe avuta sempre in braccio e ora... Ora non
poteva che guardarla da lontano, mentre cresceva come un'estranea ai
suoi occhi.
Giunse
al laghetto, camminò fra l'erba alta e infine la vide.
Con
Queen giocava sulla riva del lago e anche se l'acqua era fredda, si
era tolta le scarpe e camminava sul bagnasciuga, seguita dalla sua
fedele lupa.
Rimase
per un attimo senza fiato ad osservarle. Erano identiche! Entrambe
maestose, bellissime, regali e fiere nel loro incedere, sembravano
davvero due regine. Queen era una lupa albina stupenda, che incuteva
rispetto e timore solo dallo sguardo. E Clowance era il suo alter-ego
per bellezza e regalità e guardandole insieme, a Ross parve
di
percepire la mano del destino nell'incontro fra quelle due anime
tanto simili, sfuggenti e destinate a vivere in simbiosi. I capelli
biondi e pieni di boccoli di sua figlia ondeggiavano nel vento come
il lungo pelo di Queen, il suo vestitino bianco la rendeva simile a
una bambolina e i suoi occhi così incredibilmente azzurri,
erano
visibili anche a quella distanza. Lui e Demelza avevano dato vita a
un capolavoro e da stupido, non era stato in grado di proteggere quel
dono che la vita e la donna che amava gli avevano fatto.
Sorrise
vedendo Clowance a piedi nudi, non era da lei e di certo l'aveva
fatto perché sapeva di essere sola e non vista. In quel
momento,
anche se elegante e aggraziata, era una bambina che voleva giocare e
sperimentare e non era diversa da Daisy che in quel luogo, avrebbe
fatto le medesime cose.
Osservò
Clowance che si chinava a raccogliere uno strano fiore rosso, la vide
farlo annusare a Queen che paziente la lasciava fare e poi la
osservò
metterselo fra i capelli, ridendo mentre ammirava il suo riflesso
nell'acqua.
Improvvisamente
però, mentre camminavano, Queen si bloccò,
mettendosi a guaire dal
dolore e rannicchiandosi per terra.
L'incato
si interruppe e Clowance si fermò, terrorizzata,
inginocchiandosi di
fianco all'animale per vedere cosa avesse.
Ross
entrò in allarme e capì che doveva andare da loro
per vedere cosa
fosse successo. Queen piangeva dal dolore leccandosi una zampa, gli
altri erano troppo lontani per sentire e la piccola Clowance piangeva
spaventata.
"Che
succede?" - disse, comparendo dal nulla fra i rovi, davanti alla
bambina e alla lupa.
Alla
sua vista, Clowance spalancò gli occhi guardandosi attorno
come in
cerca di aiuto o qualcuno dietro al quale nascondersi, come faceva
sempre quando lo vedeva nei paraggi. "Che... Che ci fate
quì?".
Ross,
cercando di ignorare il dolore che la paura di sua figlia suscitava
in lui, si inginocchiò davanti a Queen. "Passeggiavo, come
te.
Che cos'ha Queen?".
La
piccola lo osservò mentre toccava le zampe del cane in cerca
della
soluzione a quel malessere. "Non la toccate! E' una lupa e si
lascia avvicinare solo da me".
"Beh,
credo che stavolta Queen dovrà scendere a patti con me".
Clowance
si tirò in piedi, quasi volesse scappare. "Vado a chiamare
lo
zio".
Ross
alzò lo sguardo su di lei e in quel momento decise che
doveva
prendere in mano la situazione e fare il padre. "Scapperesti
lasciando quì Queen da sola, con me? Una vera amica non lo
farebbe,
Queen non ti lascerebbe sola. E con tutto rispetto, tuo zio non
saprebbe aiutarla".
Clowance
deglutì. "Ma... Ma io voglio cercare aiuto".
"IO
sono un aiuto, adesso!" - ribadì Ross. "Fidati, ho a che
fare con gli animali da quando sono piccolo e di solito, quando un
animale piange improvvisamente come Queen mentre cammina..." -
Toccò la zampa posteriore sinistra della lupa, rendendosi
conto al
tacco che vi era conficcata una lunga spina – "Ecco, non
è
nulla di grave!" - disse, togliendola dalla zampa dell'animale e
mostrandogliela.
Queen
lo lasciò fare, capendo che voleva solo aiutarla e Clowance
osservò
la sua mano aperta. "Cos'è?".
"Una
spina, tutto quì".
La
piccola si inginocchiò davanti all'animale, prendendole il
muso fra
le mani per accarezzarlo. "E' grave?".
"No,
è praticamente già guarita".
Di
tutta risposta l'animale si tirò su, azzardando alcuni
passi. E dopo
aver constatato di non avere più dolore prese a
scodinzolare,
strofinandosi contro la sua gamba e leccando il visino di Clowance.
La
bambina parve sorpresa da quella dimostrazione d'affetto verso
entrambi. "Non vi ha morso!".
"Sapeva
che volevo aiutarla, gli animali sono intelligenti".
Clowance
abbassò lo sguardo, a disagio. "Ma non siete comunque il suo
padrone, non pensateci nemmeno!".
"Lo
so, la sua padrona sei tu! Anche se volevi scappare" –
concluse, cercando di provocarla per vederne la reazione.
Colta
sul vivo, Clowance divenne rossa in viso. "Non volevo scappare!"
- sbottò, smascherando il suo orgoglio.
"Certo,
certo...". Ross le sorrise, in lei c'era davvero così tanto
dei
Poldark e su questo Demelza aveva ragione. Avrebbe voluto chinarsi a
prenderla in braccio quella sua bambina testarda e perduta ma sapeva
che era presto e che lei non l'avrebbe presa bene. E allora, le tese
la mano. "Vuoi tornare alla locanda con me?".
Clowance
osservò la sua mano, incerta, dando l'impressione che forse,
forse... Ma poi indietreggiò di alcuni passi. "So camminare
senza essere tenuta per mano, non sono piccola come i gemelli".
Ross
annuì, capendo che voleva comunque mantenere le distanze.
"E'
vero, scusa".
"Ma
posso... Posso comunque farmi accompagnare da voi fino alla locanda,
una Lady con la sua lupa non possono camminare troppo da sole in un
bosco, senza un accompagnatore, signor Poldark".
Ross
rimase per un attimo senza parole. Faceva male quel modo formale in
cui lei si rivolgeva a lui, faceva male non sentirla dire la parola
'papà', faceva male sapere di non aver vissuto tante cose di
lei. Ma
Clowance gli stava dando una possibilità, con grazia ed
intelligenza, mantenendo al contempo il suo ruolo da lady che la
faceva sentire tanto sicura. Era fiero di lei, come lo era stato poco
prima di Jeremy e Valentine. "Hai ragione. Quello è il tuo
ruolo e il mio è accompagnare le piccole Lady a casa, al
sicuro".
"Sì"
– rispose la piccola, prima di incamminarsi con lui e Queen
nel
sentiero che portava alla locanda.
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Capitolo 67 *** Capitolo sessantasette ***
Erano
giunti a destinazione nel tardo pomeriggio, dopo giorni di incessante
viaggio attraverso boschi, paesaggi selvaggi, piccoli villaggi spersi
in mezzo al nulla e sotto a un cielo plumbeo che ben poco aveva a
che fare con la tarda primavera.
Falmouth
aveva affittato un antico maniero a ridosso di una foresta
rigogliosa. Era un caseggiato austero, antico, completamente
costruito in pietra e delimitato da un fossato che si poteva passare
unicamente con un ponte levatoio. Il maniero aveva forma quadrata,
con un cortile interno costellato di portici e ballatoi al piano
superiore e un pozzo al centro di esso.
Sembrava
di essere tornati in pieno medioevo, pensò Ross mentre con
Falmouth,
i gemelli e Valentine percorreva il ballatoio del primo piano
sbirciando dai tornelli il paesaggio circostante e il cortile dove
dei servitori scozzesi assunti all'ultimo e decisamente poco felici
di lavorare per degli inglesi, facevano avanti e indietro per rendere
gradevole il loro soggiorno. Demelza, Jeremy, Clowance e Dwight erano
coi servitori giunti da Londra a predisporre le stanze dove avrebbero
dormito e il salone da pranzo dove avrebbero mangiato mentre
Falmouth, orgoglioso della sua trovata e desideroso di espandere da
subito la sua influenza in quelle terre, non faceva che parlare delle
sue prossime mosse.
Col
bastone da passeggio, indicò ai gemelli il rigoglioso
paesaggio che
li circondava. "Lo vedete, lo vedi Demian? Un giorno tutto
questo sarà tuo!".
Il
piccolo si mise in punta di piedi per arrivare al parapetto e
sbirciare fuori. "Tutti questi alberi?" - chiese,
diventando rosso sulle gote per l'emozione. Ogni albero per lui era
un amico da esplorare e quella prospettiva datagli dallo zio doveva
sembrargli una specie di enorme regalo di Natale.
Ma
Falmouth spense subito i suoi sogni. "Non gli alberi, la
Scozia!".
"Ohhh"
– mormorò Demian. "Ma io non voglio la Scozia! Io
voglio
andare sulla luna!".
Ross
credeva che Falmouth avrebbe dato fuori di matto per tutta quella
disarmante sincerità ma il lord lo stupì,
annuendo pensieroso. "La
luna è fuori dalla nostra portata, per ora. Ma tu sei un
Boscawen e
fai bene a non porti limiti, il nostro casato conquista da sempre
tutto quello che vuole. Ma per ora, accontentati della Scozia e di
civilizzare con le tue sorelle e tuo fratello questi selvaggi che la
popolano".
Daisy
sbuffò, Demian lo osservò senza capire di che
diavolo stesse
blaterando e Valentine, probabilmente divertito da quel bizzarro modo
di fare, si mise la manina sulla bocca per non scoppiare a ridere.
Falmouth
finse di ignorarli, prendendo a camminare. "Vado a vedere lo
stato della mia stanza. Gli standard di pulizia di questi selvaggi
sono molto inferiori ai nostri e il personale va istruito. A dopo,
signor Poldark!".
Ross
lo guardò andarsene e infine sospirò sollevato,
dando un buffetto
sulla testolina a Valentine. "Non si ride in faccia alla gente
adulta!".
"Ma
ho messo la mano davanti alla bocca!".
"Lo
so, ma non si fa lo stesso".
"Ma
parla in modo strano, dice cose strane quel signore!" - si
giustificò il bambino.
I
gemelli si guardarono in faccia, ridacchiando, evidentemente per
nulla offesi da quelle parole sul loro zio. Ross li prese in braccio,
mettendoli a sedere sul davanzale affinché vedessero di
sotto e
Valentine si arrampicò per fare altrettanto.
Nel
cortile i servitori correvano avanti e indietro e l'aria era pregna
dell'odore della pioggia. Il tempo era pessimo e in quel momento Ross
provò nostalgia per la ventosa e serena estate della
Cornovaglia,
passata in spiaggia a camminare fra le onde del mare.
La
vocina di Demian, stupita, lo riportò alla realtà
facendolo
sobbalzare. "Guardate! Un signore maschio con la gonna!".
Daisy
rise, Valentine si sporse per vedere meglio e Ross si
affacciò. Un
omone grande e grosso dalla lunga e folta barba rossa, la stazza
imponente e un'espressione sul viso decisamente poco amichevole,
entrò in cortile con indosso il tipico abbigliamento
scozzese che
Falmouth tanto odiava. Ross rimase per un attimo spiazzato. Allora
gli uomini in gonna non erano una leggenda! E per quanto fosse aperto
di idee, quello strano abbigliamento lo metteva decisamente in
difficoltà e in imbarazzo. Come poteva un uomo, mettersi una
gonna?!
Santo cielo, Falmouth aveva ragione, era indecente e per nulla
virile!
"Se
lo vede lo zio, lo fa frustare!" - mormorò Daisy.
Ross
la guardò incuriosito. "Davvero?".
La
piccola alzò le spalle. "Sì. Lo zio dice che
abbiamo vinto la
guerra e che loro non possono più vestirsi come femminucce e
che chi
lo fa, viene frustato".
Valentine
guardò suo padre preoccupato e Ross gli accarezzò
la testa per
tranquillizzarlo. Poi sorrise ai gemelli, pensando al figurino di
Falmouth rapportato al mastodontico uomo in gonna in cortile. "Oh,
nessuno frusterà nessuno. Vostro zio è
intelligente e sa benissimo
che se facesse qualcosa a quell'uomo, passerebbe la serata con Dwight
a farsi ricucire le ferite".
Demian
annuì. "Sì, poi magari non è nemmeno
colpa di quel signore!
Magari la sua mamma si è dimenticata di dirgli che
è un maschietto
e lui non lo sa".
Ross
rise, di gusto. Santo cielo, gli sproloqui dei bambini erano una cura
contro la tristezza. "Chissà... Ma tu non dirglielo,
è giusto
sia sua madre a spiegargli come essere uomo e virile".
I
tre bimbi lo guardarono accigliati. "Virile? Che vuol dire?".
Ross
sudò freddo. Aveva usato quel termine già con
Jeremy e si era
cacciato in un vicolo cieco e ora ci era ricascato. Come glielo
spiegava? "Ecco... Virile vuol dire essere quel tipo d'uomo
forte e vigoroso che piace tanto alle donne".
Daisy
guardò lo scozzese in cortile. "Quello mi sembra
già forte,
anche con la gonna".
"E
io quando divento virile?" - domandò Demian.
Ross
prese la palla al balzo. "Quando sarai tanto forte e coraggioso
da dormire da solo, nella tua stanza, senza la mamma".
Valentine
rise ancora a quelle parole, imitato da Daisy. Demian invece si
imbronciò. "Allora non voglio essere virile! E non voglio
neanche la Scozia! Io voglio solo la mia mamma".
Ross
sospirò. Sarebbe stata una lotta difficilissima quella e fra
Demian
che dormiva con Demelza e Falmouth che spiava ogni suo passo, sarebbe
stato complicatissimo ritagliarsi dei momenti di intimità
con la
donna che amava.
Quasi
si fosse materializzata dai suoi pensieri, la voce di Demelza lo
raggiunse sul ballatoio. Ross e i bambini si voltarono, vedendola
arrivare con Prudie, Jeremy, Clowance e i cani.
Queen
si avvicinò a lui con cautela, seguita da un trotterellante
Fox,
annusandogli la mano e leccandogliela e gli altri fecero altrettanto.
Demelza
tirò già dal parapetto i gemelli e poi,
incuriosita, guardò a sua
volta in cortile. "Bambini, la vostra stanza è pronta, che
ne
dite di andare con Prudie a vedere se va bene come ve l'abbiamo
sistemata?".
Valentine
le corse vicino, prendendola per il vestito. "Posso davvero
dormire con Jeremy?".
Il
ragazzino, rimasto silenzioso accanto a Prudie, annuì. Ross
sapeva
che Valentine aveva insistito per dormire con lui e sapeva anche che
Jeremy era troppo ben educato per rifiutare. Ma in cuor suo vedeva i
suoi figli maschi interagire e giocare insieme con piacere e quindi
la speranza era che avesse accettato anche e soprattutto
perché ne
aveva piacere.
Demelza
sorrise. "Certo, voi dormirete insieme, come Clowance e Daisy
dormiranno insieme nella stanza accanto. C'è anche un altro
lettino
in camera dei maschi, nel caso Demian volesse unirsi a voi...".
A
quelle parole, il piccolo picchiò i piedi per terra. Era la
seconda
volta nel giro di pochi minuti che qualcuno sollevava con lui quella
discussione e la cosa pareva contrariarlo parecchio. "Nooooo!!!
- piagnucolò, arrampicandosi in braccio a Demelza. "Non
voglio
essere un missile forte, voglio stare con te!".
Demelza
si accigliò. "Missile?".
"Sì,
ha detto prima quella parola il signor Poldark".
Ross
ci mise un attimo a capire cosa stesse dicendo, ma poi una luce si
accese nella sua testa. "Oh, virile, non missile!".
Demelza,
guardandolo storto, mise in terra il bambino. "Ne parleremo
dopo! E ora su, con Prudie tutti quanti a vedere le vostre stanze".
Jeremy
prese in braccio Fox, annuì e salutò educatamente
con un cenno del
capo, i gemelli corsero via con Valentine e Clowance attirò
a se
Queen, riprendendone il controllo. Squadrò Ross dalla testa
ai
piedi, seria, forse ripensando al salvataggio alla sua lupa di alcuni
giorni prima e poi si rivolse alla madre. "Che guardavano Demian
e Daisy dal parapetto?".
Ross
prese la parola. "Cosa c'è in cortile e la fuori. Demian ama
gli alberi".
Clowance,
che spesso si era dimostrata piuttosto brusca col fratellino,
alzò
le spalle. "Gli alberi sono tutti uguali, non so cosa ci trovi
di bello" – borbottò, rivolta alla madre e
indirettamente a
lui.
Ross
accettò la provocazione, era evidente che lei stesse facendo
la
saccente per vedere la sua reazione. "Ti sbagli e dovresti
saperlo. A seconda nel luogo, del clima e della piovosità,
si
trovano piante differenti. Non te lo ha insegnato il tuo maestro?".
Clowance
alzò le spalle, senza rispondere.
Ross
proseguì e Demelza lo fece fare. "Dovresti ascoltare le
lezioni
che ti fa il tuo maestro, impareresti molte cose anche sugli alberi".
Clowance
alzò lo sguardo su di lui, piccata. "Io ascolto! Non tutto!
Solo le cose che sono importanti da ricordare. Il resto no, non si
può sapere tutto e non è nemmeno necessario. Uno
deve scegliere!".
E detto questo, impettita, chiamò Queen, salutò
di nuovo e poi
sparì dietro ai fratelli sul ballatoio, lasciando soli
finalmente
lui e Demelza.
Ross
la osservò andare via elegante e fiera, seguita fedelmente
da Queen.
"Non posso dire di non condividere la sua filosofia di vita.
Vorrei solo che la esprimesse in toni meno duri, quando parla con
me...".
"Ti
ha parlato, questo in fondo è già un successo"
– gli fece
notare Demelza – "E lei odia studiare, non è come
Jeremy. E
quando gli si parla di studi, diventa aggressiva con chiunque".
Ross
sorrise, osservando ancora verso il cortile. "In fondo mi
somiglia così tanto ed è incredibile come il
sangue che scorre in
lei, anche se è cresciuta lontana da me, sia marchiato a
fuoco dal
temperamento dei Poldark". Poi si accorse che l'omone in gonna
era ricomparso di sotto, portando dei grossi ceppi di legna sulle
spalle. "Oh, sai che mi fa sentire strano vedere un uomo in
gonna! In fondo Lord Falmouth non ha torto quando dice che non
è
normale".
Demelza
lo occhieggiò, mascherando un sorriso. "Passi troppo tempo
con
lui, Ross! Attento o finirai per difendere gli interessi del re
invece che quelli dei poveri".
Ross
indicò con la mano lo scozzese. "Ma dai Demelza, la gonna
è
femminile! Come può un omone del genere...? E poi Daisy dice
che è
vietato indossarla, è vero?". Era strano, si sentiva
smarrito
come un bambino a cui bisognava spiegare tutto, in quella terra
sconosciuta.
Demelza
sospirò. "Ross, quell'uomo non ha un animo femminile, te lo
assicuro! Quel genere di abbigliamento, se proprio vuoi saperlo, era
tipico dei fieri guerrieri scozzesi. Ed è vero, dopo la
sconfitta
della Scozia nella battaglia di Culloden, gli abiti tradizionali son
stati vietati dal governo inglese ma evidentemente la gente del
posto, sapendo che quì ci sono degli inglesi, tenta di
provocare
sapendo che siamo in minoranza. E' la loro cultura Ross, la loro
storia. E mi sembra tanto crudele vietare a questa gente di vivere
come hanno sempre fatto da generazioni".
Era
d'accordo con lei, su questo di certo. Mai avrebbe vietato a qualcuno
di essere ciò che sentiva e se questo includeva una strana
gonna
indossata da un uomo, doveva farselo piacere anche se gli appariva
bizzarro pensare a guerrieri in gonna anziché in divisa.
"Sai
molte cose!".
"Me
le raccontò Hugh, lui amava la Scozia".
Ross
deglutì, abbassando lo sguardo. Faceva sempre dannatamente
male.
"E... Ed è vero che se Falmouth lo vede con indosso quella
roba, farà frustare quell'uomo?" - chiese, decidendo di
cambiare argomento.
Demelza
fece un sorrisetto sarcastico. "Non se è furbo. Quello
scozzese
è grosso tre volte lui e tu e Dwight non fate parte del
contendere.
Starà zitto, borbotterà e ideerà come
conquistare tutto e tutti
dall'alto del più grande castello della zona".
Il
tono leggero della voce di Demelza gli ridiede buon umore e in un
impeto di coraggio, tentò di baciarla. Ma la vocina dei
gemellini
che li chiamavano, lo bloccò a pochi centimetri dalle labbra
di lei.
I
due bimbi corsero verso di loro, seguiti da Valentine. "Venite,
ci sono le fate di dietro, nel bosco! Le abbiamo viste dalle nostre
stanze".
Ross
e Demelza si guardarono increduli. "Fate?".
Demian,
tutto eccitato, prese Demelza per mano. "Sì vieni, mille
lucine
nel bosco che volano! Sono fate, sono elfi!".
Demelza
e Ross, interdetti, seguirono i bambini. Scesero le anguste scale di
pietra esterne, sorpassarono nel cortile l'uomo in gonna e altri
membri della servitù, percorsero il ponte levatoio e si
ritrovarono
a ridosso del bosco dove Jeremy e Clowance, coi loro cani, li stavano
aspettando già.
Ross
si guardò attorno, cercando di capire a cosa si riferissero
i
bambini. Stava imbrunendo e alla fine comprese la natura di quella
magia. Nel bosco, fitto e come addormentato sotto strati di
umidità
e rugiada, volavano sciami di lucciole. Tante, tantissime, che
danzavano nell'aria inseguendosi in voli sinuosi e lenti, senza
prendersi mai. E anche se raramente qualcosa lo lasciava a bocca
aperta, quello spettacolo riuscì in un certo senso a fargli
credere
alle medesime cose in cui credeva Demian. La magia esisteva davvero e
bastava cercarla nelle piccole cose per trovarla... Era meraviglioso,
un connubio fra natura, flora e fauna, erba, piante ed esseri viventi
che in quelle terre vivevano e si fondevano alla perfezione gli uni
con gli altri.
D'istinto
prese per mano Demelza, a bocca aperta quanto lui. E con lei si
diresse a piccoli passi verso quello spettacolo della natura, nella
passeggiata più romantica che avessero mai fatto insieme.
Jeremy
e Clowance, coi cani, ignorarono la sua presenza e corsero in avanti
cercando di afferrare quelle lucine evanescenti. Valentine,
incantato, si muoveva fra gli arbusti a bocca aperta, quasi senza
respirare per l'emozione, imitato da Demian che era forse nel suo
ambiente naturale, quello di elfi e fate. Quella visione avrebbe
popolato i suoi sogni a lungo, ne era certo. E infine Daisy, sciolse
la stretta della sua mano su quella di Demelza. La piccola si mise
fra loro, prese entrambi per mano e iniziò a saltellare
eccitata.
"Voglio volare, mi fate volare come le lucine?".
Demelza,
ridendo, guardò lei e poi lui, lanciandogli un segno di
assenso. E
insieme la sollevarono, tenendola ognuno per una manina e facendola
dondolare. Daisy rise, mentre le lucciole volavano attorno a loro,
chiedendo di farla volare ancora e ancora. E Ross si chiese dove
Falmouth la vedesse tanto terribile. Era una bambina gioiosa, in
fondo desiderosa di attenzioni e di essere presa e accudita. Voleva
amore e considerazione, come tutti... E la chiedeva a modo suo.
Vedendoli
giocare con Daisy, anche Demian e Valentine corsero da loro,
pretendendo lo stesso trattamento. E li accontentarono anche se Ross
avrebbe voluto che anche Jeremy e Clowance facessero lo stesso.
Era
tutto bello, forse uno di quei momenti magici che capitano di rado
nella vita e che poi ti ricordi per sempre, ma mancavano loro e
questo lo riportava a quella realtà molto meno magica in cui
lui
aveva lasciato la donna che amava coi loro figli, senza
possibilità
di appello...
Guardò
i bambini che, incerti, li fissavano di soppiatto da lontano. Ora non
sembravano rabbiosi ma confusi, come era stato lui a lungo prima di
compiere l'errore più grande della sua vita. Erano
spaventati e
forse desiderosi di una mano tesa che desse loro coraggio, che gli
spiegasse che magari ciò che era rinato fra loro non era
tanto
spaventoso e che qualcosa di bello poteva ancora accadere. E prese
coraggio, avvicinandosi a loro, lasciando Demelza con Valentine e i
gemellini. "Volete venire a giocare anche voi con noi?".
Jeremy,
sempre educato, scosse la testa. "No... Sono grande e pesante,
non riuscireste a sollevarmi".
"Una
lady non gioca così" – aggiunse Clowance, incerta
e forse
desiderosa di comportarsi per una volta come Daisy ma incapace di
ammetterlo.
Ross
annuì. "Possiamo trovare altri giochi da fare insieme,
giochi
adatti a bambini più grandi e Lady raffinate".
I
bimbi si guardarono negli occhi, mettendosi vicini. Poi si
concentrarono sui cani, sperando di spezzare e mettere fine a quel
momento di imbarazzo. Cercavano una via di fuga ed era evidente agli
occhi di Ross.
"I
cani devono correre prima di cena o ci faranno diventare matti"
– sussurrò Jeremy. "Magari giocheremo un'altra
volta".
Scapparono
via senza dargli tempo di rispondere e Demelza lo raggiunse, coi
gemellini. "Ci hai provato e loro erano incerti. Hanno paura,
Ross..." - sussurrò, poggiando la mano sul suo braccio.
"Paura
di che? Del signor Poldark?" - chiese Daisy. "Giuda, son
proprio due stupidi!".
"DAISYYY!
- la sgridò Demelza. "Non si dice!".
"Non
lo dico, ma tanto lo sono" – rispose a tono la piccola,
arrampicandosi in braccio a Ross per farsi proteggere da lui.
Ross
accarezzò la testolina della piccola, rimettendola a terra.
"Mamma
ha ragione, però. Su, andate coi vostri fratelli a far
giocare i
cani! Noi vi aspetteremo quì".
I
gemellini e Valentine annuirono e di corsa, in mezzo alle lucciole
che continuavano a danzare attorno a loro, sparirono.
E
Ross si voltò, prendendo Demelza per la vita ed attirandola
a se.
Poggiò la fronte su quella di lei, inspirò il
profumo dei suoi
capelli e poi la baciò in cerca di conforto e calore. "E' un
delitto desiderare la propria famiglia, come sembrano suggerirmi
Jeremy e Clowance?".
"No..."
- rispose lei, dolcemente.
Ross
guardò nella direzione in cui erano fuggiti i bimbi.
"Smetteranno
mai di aver paura di me?".
"Sconfiggi
il loro orgoglio Ross, e saranno tuoi" – sussurrò
Demelza,
contro le sue labbra. "Gli orgogliosi spesso hanno paura! E' il
loro vero nemico, la paura!".
"Paura,
è?". E anche se i bambini erano vicini ed in effetti aveva
paura di mille cose che non era disposto ad ammettere, si
chinò su
di lei, baciandola con passione. Era tutto il pomeriggio che
desiderava farlo. La baciò a lungo, attorniato da una
miriade di
lucciole e con nelle orecchie le risate dei bambini in lontananza.
Erano un embrione di famiglia, ancora... Eppure Ross in quel momento,
anche in terra straniera, si sentiva a casa. Demelza aveva questo
potere, lì e ovunque si trovasse con lei. "Se un giorno
loro... mi accetteranno..." - chiese, fra un bacio e l'altro
–
"Avremo un altro problema da affrontare".
"Quale?".
"L'esserino
biondo che ha preso il mio posto nel tuo letto. Quello coi capelli
lunghi che andrebbero tagliati, che ama arrampicarsi ovunque e che fa
amicizia con gli alberi. Abbiamo un problema" – ammise,
cercando di acquistare un tono di voce leggero come quello di lei.
Demelza
si schernì, dandogli una scherzosa pacca sul petto. "Lui non
taglierà i capelli, scordatelo!".
"Sembra
un bambolotto!".
"LUI-NON-TAGLIERA'-I-CAPELLI!!!
Per il resto sì, abbiamo un problema... Lui, io
perché mi mancherà
e tu, che potresti dormire sul divano a lungo".
C'era
buon umore e voglia di leggerezza nelle parole di Demelza. E Ross non
se la sentì di pensare ai problemi e al posto nel letto che
non
aveva. Ancora... La ribaciò, anche se i bambini erano
vicinissimi.
Non gliene importava nulla, la amava e starle lontano non era
qualcosa che poteva ormai più tollerare.
...
Era
ormai sera tardi, la prima cena scozzese era conclusa e Clowance non
riusciva a dormire in quella stanza grande, grossa e austera, con
quelle pareti in pietra che le davano una sensazione di freddo come
se fossero state di ghiaccio.
Daisy
si era addormentata subito, contenta e stanca come sempre. Ma lei no,
lei non ci riusciva. A cena era stata silenziosa ed educata, aveva
ripensato alle lucciole e al pomeriggio trascorso con i suoi
fratelli, la mamma e il signor Poldark ma anche un'altra immagine era
ormai fissa nei suoi pensieri. Ritornando verso casa e verso gli
adulti dopo aver giocato con Queen, aveva scorto da lontano la sua
mamma, la sua bellissima e dolce mamma che baciava il signor Poldark.
Sulle labbra, come facevano le persone innamorate.
Ed
aveva avuto paura...
Ed
aveva provato rabbia...
E
si era sentita tradita...
E
non aveva detto niente, tremando silenziosamente dentro di se,
cercando da sola risposte che non sapeva darsi. Sapeva che la sua
mamma usciva e vedeva il signor Poldark e sapeva anche che erano
stati marito e moglie e avevano avuto dei figli. Ma ora rivederla
così, dopo che in ogni suo ricordo era stata sola e Hugh era
una
figura ormai sbiadita nella sua mente, la faceva sentire sola e
spaventata.
Uscì
nel ballatoio, in camicia da notte, seguita da Queen. Voleva andare
dalla mamma a farsi consolare ma dopo quanto visto poche ore prima,
non se la sentiva più. Nessuno poteva consolarla, ormai, era
sola! E
tutti dormivano, ognuno sognando qualcosa, chi le fate, chi i
castelli, chi i cavalli da portare a Londra. E lei, lei cosa voleva?
Ricordò il signor Poldark che la salvava dalla sommossa
durante il
discorso di Pitt e che curava la zampa di Queen e sì, era
stato
gentile. Ma era anche il papà che l'aveva abbandonata e
questo non
era stato gentile, per niente. E quindi, lei cosa doveva fare? E se
la sua mamma se ne fosse andata, di lei che ne sarebbe stato?
Dal
fondo del ballatoio, vide correrle incontro il piccolo Fox e dietro
di lui, Jeremy. Anche suo fratello era in camicia da notte e anche
lui non riusciva a dormire, evidentemente. E in fondo non ne era
stupita, erano orfani che avevano ritrovato un papà creduto
a lungo
un fantasma inconsistente e ora non sapevano che fare e come
comportarsi.
Il
ragazzino le corse vicino, preoccupato. "Clowance, che c'è?
Che
ci fai in giro a quest'ora in camicia da notte?".
"Quello
che fai tu! Non riesco a dormire".
"Stai
male?".
Clowance
accarezzò Queen. "No... Sì... Sto pensando troppo
e se penso,
non riesco a dormire".
"A
cosa pensi?".
Clowance
ci rimuginò su alcuni istanti, chiedendosi se fosse giusto
parlarne.
Come l'avrebbe presa Jeremy? Avrebbe tenuto il segreto o avrebbe dato
di matto, svegliando tutti? Poi pensò che no, Jeremy non
dava mai di
matto come il loro zio e allora poteva dirglielo perché la
cosa era
importante anche per lui. "Oggi nel bosco delle lucciole, sono
tornata da mamma prima di voi. E lei e il signor Poldark si stavano
baciando. Li ho visti da lontano, mi sono nascosta dietro un albero e
loro non sanno che li ho visti. Ma li ho visti!!!".
Jeremy
impallidì. "Baciando? Cioè... Un bacio vero?".
"Sì,
verissimo! Come quelli che a Natale Margarita dava ad Edward e
Caroline a Dwight".
Jeremy
abbassò lo sguardo, pensieroso, stringendo i pugni per il
nervoso.
"E papà? Mamma ha dimenticato papà-Hugh?".
"Non
lo so. E noi, Jeremy? Ha dimenticato noi?".
A
quella domanda però, lui negò deciso. "No, quello
mai! Mamma
non ci dimenticherebbe mai".
"Sì
ma, se vuol stare col signor Poldark, lei ci porta via!" -
mugugnò Clowance, mentre le lacrime le scendevano sulle
guance. "Ci
porta via e dobbiamo andare con un papà che non ci ha
voluto. E la
nonna? E lo zio? Io non voglio perdere la nonna e lo zio, la mia
casa, la mia stanza, il parco e i miei amici! Mamma vuole stare con
lui e ci porta in campagna e noi rimaniamo senza nessuno di quelli a
cui vogliamo bene! Anche senza maestro".
Jeremy,
benché turbato, rise. "Tu non vuoi bene al nostro maestro".
Lei,
piccata, alzò le spalle. "Ma lo conosco e magari mi manca se
andiamo via. Bisogna essere previdenti se si lasciano le persone".
Queen,
preoccupata, le leccò la mano. E anche Fox le si
accoccolò sui
piedi, cercando di calmarla facendo piroette e smorfie.
Jeremy
sospirò. "Che si fa?".
"Col
signor Poldark?".
"Sì,
è comunque nostro padre di sangue" –
ribadì Jeremy. "E
se mamma lo vuole, anche se noi non lo vogliamo...".
"Ce
lo dobbiamo tenere!" - concluse la piccola. Poi ricominciò a
piangere. "Voglio andare via dalla Scozia, scappare lontano.
Voglio tornare a casa dalla nonna e da Catherine! E andare al parco a
giocare, portare le bambole a prendere aria in giardino col mio
carrettino rosso! Torniamo a casa Jeremy, solo noi due! Andiamo via
dalla Scozia, non voglio stare quì dove mamma ha dimenticato
papà e
bacia il signor Poldark e magari ci porta via per sempre con lui".
Jeremy
impallidì. "Non possiamo scappare! Siamo lontani, come
torniamo
a Londra?".
"Aspettiamo,
senza dire niente, il momento giusto! E andiamo via, dalla nonna, a
piedi... Vieni con me?".
Jeremy
annuì. Non aveva mai perdonato quel padre che gli aveva
promesso di
insegnargli ad andare a cavallo ed era sparito, lasciando soli lui,
la sua mamma e sua sorella appena nata. Non gli aveva mai perdonato
che fosse stato un maestro ad insegnargli come si galoppa... Non gli
aveva ancora perdonato che avesse permesso a un altro padre di essere
chiamato papà. Una volta la mamma gli aveva detto che era un
onore
chiamare qualcuno papà e lui quell'onore non lo aveva
voluto. "Sì,
il momento giusto! Solo io, te, Queen e Fox. E andiamo a casa".
Clowance
gli prese la mano, come a suggellare quel patto segreto fra loro.
"Sì, a casa. Solo noi...". E mentre lo diceva, si chiese
se quel giorno suo padre sarebbe venuto a cercarla...
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Capitolo 68 *** Capitolo sessantotto ***
Clowance
aveva deciso di scappare dalla Scozia e di tornare a casa e Jeremy ne
aveva compreso i motivi e li aveva fatti suoi, accettando di compiere
quell'impresa insieme a lei.
In
realtà, essendo più grande, aveva anche mille
paure in più di sua
sorella: erano lontani da Londra, sarebbero stati due bambini spersi
in terra straniera, senza soldi e cibo e avrebbero gettato la loro
mamma nella disperazione più nera. Ma di contro, non doveva
essere
un addio quello ma un far capire proprio alla mamma che non erano
disposti a rinunciare alla famiglia che amavano solo perché
un padre
che un tempo non li aveva voluti, era tornato per reclamare qualcosa
che riteneva di sua proprietà.
Jeremy
sapeva che sua madre vedeva il signor Ross Poldark e sapeva anche che
i rapporti fra uomini e donne adulti erano particolari, complicati e
intimi, anche se di fatto non ne capiva ancora tutte le
sfaccettature. Non sapeva se essere o meno arrabbiato con lei per il
fatto di aver riallacciato i rapporti con quell'uomo che tanto
l'aveva fatta piangere, Jeremy rispettava da sempre le scelte di sua
madre e sapeva anche che era una donna adulta ed intelligente che
sceglieva sempre per il meglio. E che ciò che la univa a
Poldark
erano faccende 'da grandi', non certo cose da raccontare a un bambino
quale lui ancora era.
E
poi c'era il signor Poldark... Suo padre, quello di sangue quanto
meno. Jeremy ricordava poco di lui del periodo in cui vivevano
insieme in Cornovaglia, forse perché non c'era mai e se
c'era, non
passava troppo tempo con lui e la sua mamma. Solo una cosa ricordava
e a quel ricordo ci si era aggrappato per tanti anni, finché
non
aveva capito che era stata solo una crudele bugia.
"Quando
la tua manina sarà grossa la metà della mia, ti
insegnerò ad
andare a cavallo".
Ci aveva
creduto allora, ci
aveva continuato a credere anche quando la sua mamma gli aveva detto
che suo padre non sarebbe tornato e li aveva abbandonati, ci aveva
creduto di nascosto anche quando aveva iniziato a chiamare Hugh
'papà'. Un uomo che fa una promessa a un bambino che
è suo figlio,
potrebbe mentire? No, per tanto aveva ritenuto impossibile che fosse
una bugia.
Poi
però la sua mano era
cresciuta davvero e lui non era arrivato, quindi aveva capito e aveva
deciso. Ed era stato un maestro ad insegnargli ad andare a cavallo,
al galoppo, a saltare gli ostacoli e a rialzarsi dopo ogni caduta. Da
quel momento Jeremy aveva smesso di credere che i padri amano sempre
i propri figli e non dicono bugie e aveva deciso di non aspettarlo
più.
Aveva
odiato a lungo suo padre
e lo aveva fatto anche quando lo aveva rincontrato a Londra. Ora non
sapeva cosa provasse, i racconti di sua madre sulla sua nascita e
sulla vita in Cornovaglia lo avevano incuriosito ma non abbastanza da
spingerlo ad indagare e a parlare con quell'uomo che all'inizio aveva
rifiutato con ogni fibra del suo essere ma che poi aveva dovuto
accettare come presenza costante nei rapporti che intercorrevano fra
lui e i Boscawen. Non sapeva cosa provasse ora, guardava di sottecchi
Ross Poldark e gli sembrava una brava persona. E le brave persone non
lasciano i loro figli... E la sua mamma sembrava serena e felice e
lui voleva che lei lo fosse ma desiderava esserlo altrettanto, quindi
cosa pensare? Forse tanti dubbi sarebbero potuti scomparire se avesse
avuto meno paura e orgoglio per parlare con lui, ma non ce la faceva.
E scappare era più facile. In un certo senso, almeno...
Doveva
trovare denaro ed
organizzarsi e ovviamente Clowance non aveva pensato a queste cose,
né a tutte le difficoltà che avrebbero
affrontato. Soprattutto lei,
abituata a vivere da principessa, come avrebbe affrontato notti nei
boschi e giornate polverose sulla strada?
C'era una
cosa che doveva
fare, prima di tutto: trovare denaro!
E siccome
era un bambino buono
che aiutava e faceva tanti lavoretti, perché non farsi dare
delle
mance? Era una buona idea e tanti suoi amici a Londra, chiedevano
monetine per dei lavoretti!
Scese le
scale di soppiatto,
quando mancavano una manciata di minuti all'ora di cena. Suo zio era
stato fuori tutto il pomeriggio a visionare castelli da acquistare,
assieme a Ross Poldark e a Dwight e Jeremy aveva deciso di aspettarli
all'ingresso per salutare ed eventualmente aiutare lo zio a togliersi
gli stivali.
Sua madre,
coi suoi fratelli,
era già al piano di sotto, a predisporre per la cena con
Prudie e le
cuoche scozzesi.
Quando
arrivò all'atrio
lanciò un'occhiata di intesa a Clowance, a cui aveva
confidato i
suoi piani, che faceva avanti e indietro dalla sala da pranzo
all'ingresso e poi, da bravo bambino, si appoggiò a lato
della porta
in attesa.
Non dovette
rimanere lì
molto, in pochi minuti il portone si spalancò e i tre uomini
fecero
il loro ingresso, bagnati come pulcini a causa dell'ennesimo
acquazzone.
Jeremy
corse loro incontro
mentre nel salone da pranzo i gemelli facevano baccano inseguiti da
Prudie e Clowance che cercavano di calmarli. "Buonasera!" -
disse, cercando di essere formale, a Dwight e Ross. "Ciao zio!"
- aggiunse poi in modo più caloroso. "Hai trovato un
castello?".
L'uomo
sbuffò, alzando gli
occhi al cielo. "Sono tutti in rovina! Cadono a pezzi Jeremy,
questi selvaggi non hanno effettuato la giusta e dovuta manutenzione.
Ma ovviamente che ci si può aspettare da gente che veste con
le
gonne e suona le cornamusa tutto il giorno?".
Jeremy non
rispose, in realtà
a lui piaceva il suono della cornamusa che da quando erano arrivati
lì, qualche sconosciuto suonava in campagna di sera, facendo
giungere la melodia fino alla finestra della sua stanza. Ma questo
era meglio non dirlo allo zio. "Cercherai ancora, quindi?".
"Certo,
piccolo!
Troveremo il nostro maniero e ne diverremo i padroni!" - rispose
Falmouth, accarezzandogli i capelli.
L'uomo mise
a terra un borsone
pieno di pergamene e mappe, chiamando un servo per farselo portare in
camera. Ma Jeremy intervenne. "Se vuoi, te lo porto io!".
Dwight e
Ross, in disparte, si
guardarono accigliati, così come Demelza, appena giunta a
salutarli.
Falmouth
sorrise. "Bravo
bambino! Così si fa o si dovrebbe fare! Rendersi utili, ecco
cosa
dobbiamo insegnare agli scozzesi!".
Jeremy si
mise le mani dietro
la schiena, ciondolando soddisfatto. "Devo portarti in camera
altro?".
"Sì,
se vuoi. La mia
giacca è fradicia, ti darebbe fastidio portarla di sopra?" -
propose, levandosi l'indumento ormai fradicio.
Jeremy
scosse la testa. Forse
era maleducato chiedere solo allo zio se avesse bisogno, ma Dwight se
non c'era Caroline era meno ricco di quando era a Londra, col signor
Poldark non parlava molto e suo zio lo adorava ed era generoso. "Se
ti porto su due cose invece che una... mi dai due scellini?".
Falmouth
spalancò gli occhi e
Demelza intervenne subito. "JEREMY!" - lo richiamò
nervosamente, cercando con lo sguardo Ross che, a quella domanda del
bambino, era rimasto spiazzato ed interdetto.
Jeremy non
si fece
scoraggiare. "La mancia, mamma! Tutti ne hanno una, quando
lavorano!".
Falmouth
per un attimo si
chiuse in un mutismo perplesso ma poi, sorprendendo lo stesso Jeremy
che credeva si stesse arrabbiando, si aprì a un caldo
sorriso. Gli
picchiò le mani sulle spalle ridendo rumorosamente e poi si
tolse
dalle tasche delle monete. "Vedete! E' un Boscawen, ragiona come
io voglio che ragioni! QUESTE sono le basi degli affari e della
finanza, dell'economia e della politica! Tu fai un lavoro per
qualcuno e quel qualcuno deve ricompensarti! Era ora che Jeremy
capisse che le cose vanno così, al mondo!".
"Non sono
d'accordo e ora
Jeremy chiederà scusa!" - lo bloccò Demelza,
guardando poi suo
figlio con aria severa.
Ma Jeremy
la ignorò. "Grazie
zio...".
"JEREMY"
– lo
richiamò Demelza.
Ma il
bambino non si fece
intimidire. "Mamma, sono le basi per il mio futuro. Mio e dei
miei figli..." - concluse, con una fenomenale faccia tosta nel
rimanere serio.
"Giusto,
giusto e
saggio!". Falmouth gli diede un'altra pacca sulla spalla,
mettendogli poi in mano una montagna di monetine. "Altro che due
scellini, per quello che hai fatto e capito oggi, ne meriti di
più!
Prendili tutti e tienili da parte! E avrai a breve un tesoretto".
"Ohhh".
Jeremy
guardò la sua mano piena di monete, tanti scellini che gli
sarebbero
tornati utili nella fuga. Sorrise soddisfatto, ignorando le
occhiatacce di sua madre e lo strano sguardo severo e di disappunto
che Ross aveva piantato su di lui. Che voleva ora, quell'uomo? Se
voleva vedere sua madre e lei glielo permetteva, andava bene! Ma lui
non gli aveva certo dato il permesso di essere suo padre e
giudicarlo! Se la sua mamma aveva potuto scegliere, poteva farlo
anche lui! Ed era strano stare a pensarci perché in fondo
avrebbe
dovuto importargli poco nulla di quel che Ross Poldark pensava mentre
invece, in quel momento, si rese conto che gli stava piacendo
provocarlo e vederne le reazioni. Chissà perché,
poi?
Facendo
finta di nulla, il
piccolo prese la giacca dello zio e la sacca con le pergamene,
correndo poi di sopra per riporle in camera. Gliel'avrebbe anche
piegata e messa vicino al camino, la giacca, in modo che al mattino
avrebbe potuto rimetterla bella asciutta e calda. Sì, era
stato
pagato bene e avrebbe lavorato bene.
Mentre
andava di sopra
incrociò lo sguardo di Daisy che, facendo capolino dalla
sala da
pranzo, lo guardava pensierosa. Ignorò anche lei che sapeva
essere
furba quanto lo zio anche se era ancora piccola, nessuno doveva
capire il perché di quella richiesta di mance a parte
Clowance.
E mentre
saliva, al suo
orecchio, giunsero le lamentele di sua madre e... forse di Ross
Poldark... indirizzate allo zio che aveva ceduto alla richiesta di
mancia. Beh, il fine valeva i mezzi. Non che si sentisse un bravo
bambino e di solito gli faceva piacere aiutare gratis chi amava, ma
ora aveva bisogno di soldi e quindi doveva imparare a sviluppare un
buon senso degli affari. Lo faceva per il bene di Clowance e per
farla stare bene durante la loro fuga e sua madre ne sarebbe stata
contenta, se avesse saputo la verità. E anche lo zio
sembrava
contento! E se erano tutti contenti, tutto era giusto e stava andando
bene!
E con quel
pensiero, tornò a
sentirsi un bravo bambino!
...
Dopo cena,
sua madre l'aveva
preso da parte e gli aveva fatto una sonora ramanzina, ricordandogli
che aiutare chi ci ama va fatto con cuore e non per lucro. Tutte cose
che Jeremy sapeva, ma se in quel momento aveva bisogno di soldi e
Clowance non si spicciava a trovare un modo per guadagnarli pure lei,
che ci poteva fare?
Aveva
annuito senza
controbattere, quando sua madre ci si metteva era difficile tenerle
testa, e allo stesso tempo aveva capito che doveva trovare altri modi
per guadagnare denaro. Oppure agire da furbo, in combutta con lo zio,
e prendere le mance di nascosto.
Mentre
sistemava i suoi abiti
e si metteva la camicia da notte per andare a dormire, la porta della
sua stanza si aprì e Daisy vi sgattaiolò dentro
di soppiatto, con
in braccio il suo orsacchiotto bianco. "Che fai?" - chiese
la piccola, chiudendo l'uscio dentro di se.
Jeremy non
parve sorpreso di
vederla. Sua sorella aveva visto come si era guadagnato dei soldi e
di certo la cosa doveva averle riempito la testolina di domande.
Daisy non era come Demian, era un'osservatrice, credeva poco alle
fiabe e ancor meno alle balle delle persone. Certe volte sembrava lei
la sorella maggiore di tutti e difficilmente le si poteva tener
nascosto qualcosa. "Vado a letto, cosa che dovresti fare anche
tu!".
"Mamma ti
ha sgridato
prima, per aver chiesto i soldini allo zio!" - rispose lei,
senza dar cenno di volergli dare retta.
Jeremy si
sedette sul letto,
indicando il suo salvadanaio. "Sì, ma intanto son
più ricco di
stamattina".
"A che ti
servono i
soldi?" - domandò la bimba, osservando il salvadanaio.
"Da
spendere!".
"Ma mica li
devi
guadagnare, se ti serve qualcosa basta chiedere e mamma o lo zio o
la nonna, te lo comprano".
Jeremy
sospirò. Che doveva
inventarsi, ora? Daisy aveva capito che stava nascondendo qualcosa e
allo stesso tempo lui sapeva anche che forse rivelargliela, sarebbe
stata la strada migliore per tenerla buona. In fondo, a differenza di
Demian, lei era da sempre stata bravissima a mantenere i segreti.
"Non posso chiedere alla mamma ciò di cui ho bisogno. E' un
segreto".
Daisy
sorrise con la sua
migliore aria da monella. "Me lo dici? Io son brava a tenere i
segreti! Ne conosco tanti, di tante persone!".
"Se te lo
dico, non lo
dici a nessuno?".
"Nessuno,
nessuno!".
Jeremy la
invitò a sedersi
sul letto accanto a lui. Forse Clowance l'avrebbe ucciso se avesse
saputo, ma con Daisy bisognava giocare d'astuzia e magari avrebbe
anche potuto tornargli utile che lei sapesse. "Io e Clowance ce
ne andiamo, torniamo a casa dalla nonna a Londra".
Daisy
spalancò gli occhi. "Ma
è lontano!? Tornate con Dwight e i cavalli che compra?".
"No,
torniamo da soli,
scappiamo dalla Scozia di nascosto e torniamo a casa".
Daisy
impallidì. "Scappate?
Perché?".
Jeremy
dondolò le gambette
nel vuoto. "Perché abbiamo paura che ora che mamma vuol
stare
col signor Poldark, ci porti via lontano dalla nonna e dallo zio e
dalla nostra casa per tornare in campagna. Se scappiamo e torniamo a
Londra, capirà che noi non vogliamo perdere i nostri amici e
la
nostra famiglia".
Daisy
tremò. "Ma... Ma
mamma mica vuole portarci via dalla nonna e dallo zio. E neanche il
signor Poldark. Basta che glielo chiedi, invece di scappare".
"No, non
è così
semplice! Lei vuole stare con quell'uomo, lo bacia pure, li ha visti
Clowance".
Daisy rise.
"Bello!".
"Bello un
corno!" -
borbottò, indispettito che sua sorella non si scandalizzasse
della
cosa. "Lui non lo voglio".
"Ma lui
è il tuo papà"
– rispose Daisy, con una sincerità dolorosa e
disarmante che
Jeremy non voleva sentire.
"Mi ha
lasciato, me, la
mamma e Clowance! E tu non puoi capire".
"Perché?".
Jeremy
alzò gli occhi al
cielo. Era così complicato spiegare le cose a una di quattro
anni!
"A te nessun papà ti ha mai lasciata".
E Daisy
rispose ancora con
parole che sapevano metterlo in difficoltà. "E allora chi
è
quello che andiamo a trovare di domenica al cimitero, che sta sotto
il sasso grande?".
Era
esasperante, per Jeremy,
non riuscire a trovare le parole giuste per farle smettere di dire
cose che non voleva sentire. "Lui è morto, non ti ha
lasciata".
"E' lo
stesso! Poteva
guarire e non morire ed essere mio papà! Si che mi ha
lasciata".
Jeremy per
un attimo rimase in
silenzio, incerto su cosa dirle. Daisy aveva a volte dei modi di
ragionare strani ed era difficile starle dietro e anche se spesso
sembrava illogica, alla fine si rivelava la più saggia di
tutti.
"Non è che poteva scegliere... Ross Poldark sì! E
non ha
scelto noi!".
"Ohhh".
Daisy ci
pensò un pò su, grattandosi il mento. "Ma se tu
non lo vuoi
come papà, posso prendermelo io se mamma vuole? E se lui
vuole? A me
piace!".
Jeremy la
guardò storto, non
sapendo bene che dire. Voleva Ross Poldark lontano? O non voleva
condividerlo con nessuno? Non ne aveva davvero idea, era tutto
coì
confuso quando pensava a lui. "Se... Se ti va! Ma perché ci
tieni tanto?".
Daisy si
imbronciò, forse
esasperata quanto lui per il fatto di non riuscirsi a spiegare. "Tu
hai avuto due papà! DUE! Io non ho mai chiamato
'papà' nessuno!
Voglio vedere com'è! E poi mi piace quando mi parla e mi
prende in
braccio, piacerebbe anche a te".
Jeremy le
diede una piccola
spinta scherzosa, facendola cadere sul materasso di schiena, assieme
al suo orsacchiotto. "A te non è mai piaciuto essere presa
in
braccio. Solo da me te lo facevi fare! Poi è arrivato lui e
mi hai
abbandonato".
Daisy si
tirò su, offesa.
"No, non è vero! Mi piaci ancora tu! Ma lui mi fa volare
più
in alto e mi tiene più forte".
"Solo
perché è più
alto di me!" - le fece notare Jeremy. "Davvero ti piaccio
ancora?". Da sempre si era sentito onorato di essere il
preferito di Daisy che non voleva mai nessuno ma che quando faceva i
capricci cercava lui, facendolo sentire importante. E da quando Ross
Poldark era entrato nelle loro vite, aveva preso un pò
dell'affetto
della sua sorellina che in lui aveva trovato un nuovo eroe.
Daisy
annuì. "Certo che
mi piaci! Tu e Clowance, anche se non volete, siete di Ross Poldark!
Demian è di mamma, ma io? Io non sono di nessuno a parte te.
E
Prudie".
Il cuore di
Jeremy prese a
battere più forte. Davvero era lui il suo punto di
riferimento? Lei,
che era la principessina della casa e l'erede più grande di
Falmouth
per diritto di sangue, lei che sarebbe stata l'amore più
grande di
Hugh se fosse stato vivo, preferiva lui? Si sentiva onorato e
lusingato e spinto da questi sentimenti, la abbracciò.
"Grazie!
Ma anche tu sei di mamma, come noi".
"No, Demian
è di
mamma!".
Si
sentì di dover essere
maturo e spiegarle, non voleva che pensasse qualcosa del genere
perché pur con tutti i dubbi del mondo, Jeremy sapeva che le
cose
non stavano come pensava lei. "Demian sta sempre attaccato a
mamma, per questo lei ce l'ha sempre vicino. Stalle attaccata pure tu
e sarà lo stesso che con lui".
Lei scosse
la testa. "Io
non voglio stare attaccata alle persone, mi da fastidio!".
La
guardò storto. "E
allora non ti lamentare, mamma semplicemente rispetta ciò
che vuoi".
Daisy non
sembrava ancora
convinta. "Ma se scappo io e se scappa Demian, mamma piange
più
per Demian secondo me!".
"No,
piangerebbe uguale
per tutti e due! E quando vi riprende, vi fa il sedere viola uguale a
tutti e due!". Fu conciso e fermo, nel dire quelle parole. Se
per caso Daisy stava pensando di scappare con lui, era meglio che si
togliesse di testa SUBITO quel pensiero.
Daisy rise
davanti a quella
velata minaccia. "E allora anche tu e Clowance le prendete, se
scappate".
"Sì,
ma noi siamo
obbligati".
La piccola
sospirò. "Ma
poi se vai via, io resto sola! Ci rivediamo a Londra?".
La
abbracciò di nuovo, per
tranquillizzarla e per farle capire che sarebbe stato per sempre il
suo fratello maggiore e il suo punto di riferimento. "Certo, te
lo prometto".
Rinfrancata,
Daisy saltò giù
dal letto, avvicinandosi alla scrivania e prendendo in mano il
salvadanaio. "Son pochi soldini, Clowance costa cara da portare
in giro!".
"Non sono
pochi!".
Daisy
insistette. "Sì
che sono pochi, con questi non arrivi nemmeno alla fine del bosco,
con Clowance!".
Le si
parò davanti, con le
mani sui fianchi. "Non sai nemmeno contare, ancora! Come fai a
sapere che sono pochi?".
Daisy
alzò le spalle. "Lo
zio dice che i Boscawen sanno riconoscere il valore dei soldi,
sempre!".
"Ma resta
il fatto che
non sai contare!" - la rimbeccò lui.
"Ma resta
il fatto che
sono una Boscawen!" - ribattè lei. "E tu sei povero! Ma io
posso aiutarti! Quando faccio la brava e mangio tutto, Mary mi da
sempre di nascosto un soldino di premio!".
Jeremy si
illuminò in viso.
"E vuoi darli a me?".
"Sì,
certo, basta che
poi ci rivediamo!".
Era
commosso da tanta
generosità, adorava Daisy. "Davvero? Grazie!".
Daisy fece
un sorriso furbo.
"Grazie a te! Lo zio mi ha spiegato che se dai soldi a qualcuno,
poi te ne devono restituire di più di quelli che gli hai
dato! Io ti
presto i soldi e poi divento ricca!".
Jeremy
deglutì davanti a
cotanta faccia tosta ma santo cielo, aveva bisogno dell'aiuto di
tutti! E lei era una Boscawen fatta e finita, che ancora non sapeva
leggere e scrivere ma già conosceva le basi dell'economia
che a lui
aveva spiegato il maestro. "D'accordo, ti ridarò gli
interessi.
Ma tu non dire niente a mamma e a nessuno! E' un segreto!".
Daisy
annuì. "Sì, ma...
Quando vai?".
"Quando si
presenta
l'occasione giusta!".
"Sicuro?
Magari nessuno
ti vuol portare via e il signor Poldark ti vuole tanto bene".
Jeremy
sospirò, ancora
incerto se sperarlo o averne paura. "Avrà te! Mica vuoi
chiamarlo papà?".
Daisy
alzò le spalle. "Sì,
ma lui vuole essere chiamato così da te! Vuole te e
Clowance, vuole
voi più di me".
Jeremy,
come successo poco
prima, si sentì di consolarla. Era brutto non sentirsi di
nessuno e
a lungo lui aveva provato, seppur in circostanze diverse, i
sentimenti che ora viveva Daisy. E non voleva che la sua sorellina si
sentisse così! Hugh sarebbe stato orgoglioso di lui, ne era
certo,
era stato proprio lui ad insegnargli che l'amore vero esiste in tante
forme ed era stato sempre lui ad affidargli il difficile compito di
fratello maggiore e protettore dei più piccoli della casa.
"Quando
mamma e papà-Hugh si sono sposati, lui ha voluto bene a me e
Clowance come poi ne ha voluto a te e Demian quando siete nati.
Quando un adulto vuol bene a un bambino, gli vuol bene e basta. E tu
al signor Poldark piaci! Non vuole te più di me!".
Daisy lo
abbracciò, forte,
anche se forse non era convinta del tutto dalle sue parole.
"Grazie... E sta attento quando vai in giro con Clowance per
tornare a casa da nonna!".
Jeremy
annuì. "E tu,
ricordati di mantenere il segreto!".
"Sì,
lo farò!" -
rispose lei, cercando conforto nell'abbraccio al suo orsacchiotto.
"Però...".
"Però?".
"Posso
venire con voi?"
- azzardò.
Jeremy
sbuffò, se lo
aspettava... "Non ne hai motivo, lo hai detto proprio tu che ora
potresti avere un padre!".
Incerta,
Daisy strinse a se
l'orsetto. "Sì ma voglio anche stare con te! Dai, portami!
Sono
brava, ho già quattro anni quasi e mezzo, cammino veloce e
mangio
anche poco".
Jeremy le
accarezzò la
testolina. "Non puoi! Solo chi ne ha motivo può scappare e
tu
non ne hai! Chi è come te, a casa, ci torna in carrozza,
mica a
piedi per boschi e paludi".
Daisy
sbuffò rumorosamente,
per nulla spaventata dall'eventualità di un viaggio
complicato e
pieno di insidie. "Sembra bello".
Jeremy le
sorrise, sapendo
quanto in lei fosse radicato uno strano spirito d'avventura e
scoperta. "Sembra bello? Con Clowance?".
Daisy
ridacchiò. "No,
con Clowance no!" - dovette ammettere.
"E allora,
resta con
mamma!".
"Va bene".
...
Era calata
la notte e dal
ballatoio del maniero, con indosso uno scialle di lana verde, Demelza
osservava il selvaggio paesaggio che li circondava, cullata dal soave
suono di una cornamusa che qualche pastore stava suonando nei boschi
lì accanto. Si accarezzò il ventre, forse non
più così piatto
anche se ancora nessuno se n'era accorto, chiedendosi per quanto
avrebbe potuto mantenere quel segreto. Era ormai, a occhio e croce,
al terzo mese di gravidanza e nel giro di poco anche un cieco si
sarebbe accorto che era incinta.
Ma quella
sera aveva ben altri
pensieri per la testa e tutti rivolti ai figli che già erano
nati.
Era indispettita con Jeremy e col suo strano comportamento e non
capiva perché suo figlio fosse diventato improvvisamente
tanto
interessato ai soldi. Non era da Jeremy chiedere denaro in cambio di
un gesto gentile o una mano tesa a chi aveva bisogno e se conosceva
suo figlio come credeva, sicuramente c'era qualcosa sotto ma non
aveva idea di cosa fosse! Se lui voleva mantenere un segreto, era
pressocché impossibile cavargli una mezza parola di bocca e
nemmeno
tutte le sgridate del mondo gli avrebbero fatto cambiare idea.
Guardò
il cielo e le stelle, chiedendosi se e dove avesse sbagliato e se
quella vita che stavano conducendo, fosse effettivamente quella
più
giusta per lei e i bambini. Troppo aveva lasciato correre, in
passato, tante volte aveva taciuto quando Falmouth aveva inculcato
nella testa dei bambini idee sul suo stile di vita ideale che lei
invece non approvava e ora questa educazione forse iniziava a
chiedere il conto.
Di
soppiatto sentì dei passi
farsi vicino e voltandosi, si trovò Ross alle spalle.
"Prenderai
freddo, se te
ne stai fuori a quest'ora, con indosso solo quello scialle" –
le sussurrò, baciandola sulla nuca e stringedola a se.
"Il freddo
e il silenzio
mi aiutano a pensare!".
"A cosa
devi pensare?".
"A cosa
passa nella testa
di Jeremy! Lo hai visto anche tu, oggi".
Ross si
oscurò. "Sì e
non mi piace. Ma non posso dire niente, non posso fare paternali e
sono contento che tu gli abbia fatto una ramanzina dopo cena.
Funzionerà?".
Demelza
scosse la testa,
scettica. "Con Falmouth dalla sua parte?".
Ross le
accarezzò il viso,
cercando di darle conforto. "Eppure Jeremy non mi sembra un
bambino avido ma al contrario, un ragazzino gentile e sensibile".
"Lo
è, infatti. Oh Ross,
ho così paura che stia architettando qualcosa".
Lui la
strinse a se ancora più
forte. "Cosa potrebbe architettare con qualche scellino? Su, sta
tranquilla! Forse desidera qualche giocattolo o farti una sorpresa e
sta racimolando i soldi per portare a termine ciò che si
è
prefissato".
Si
sentì sciocca ad essere
tanto apprensiva e forse non lo sarebbe stata se i suoi figli fossero
cresciuti dove avrebbero dovuto. "Lo spero. Anche se a volte,
spesso, vorrei essere meno ricca, più libera e povera e
crescere i
bambini dove sono nati, nella loro terra".
Ross la
baciò, sulle labbra
stavolta. "Nampara?".
Demelza
deglutì. Nampara...
Da quanto tempo non sentiva pronunciare quel nome? Quella casa che
era diventata la sua casa, a cui erano legati i ricordi più
belli
della sua vita ma anche i più terribili, degli ultimi mesi
che vi
aveva trascorso. "Ricordo il giorno che ho chiuso quella porta
dietro di me, con Clowance in braccio e Jeremy per mano. Nevicava,
faceva freddo e Prudie aveva con se una piccola borsa con le poche
cose che avevamo. E' stata dura dire addio a Nampara e per tanto l'ho
sognata. Anche quando ho partorito i gemelli, la desideravo".
Con un
gesto gentile, Ross le
accarezzò le guance. "Non era un addio, faremo in modo che
non
lo sia! Tu non hai idea di come vorrei tornarci, manco da oltre un
anno dalla Cornovaglia e prima o poi dovrò tornarci per
andare a
dare un occhio alla mia miniera e salutare coloro che lavorano per me
e la mandano avanti al mio posto. Vieni con me".
"A
Nampara?".
"Sì,
tu, io e i
bambini".
Demelza
sorrise tristemente.
Faceva quasi paura sentir dire a Ross quelle parole e credere che
fosse possibile tutto quello che lui diceva. "Falmouth non ne
sarebbe contento e nemmeno i bambini".
Ross le
prese le mani nelle
sue, la attirò a se e la baciò a lungo sulle
labbra, accarezzandole
i capelli rossi che le ricadevano sulla schiena. "Falmouth non
comanda le nostre vite. Siamo io e te! E i bambini! Solo loro
dobbiamo portare dalla nostra parte, gli altri non c'entrano e lo sai
anche tu. Sei la loro madre e la tua autorità vale
più di quella di
chiunque altro, anche per quel che riguarda i gemellini".
"Sì,
tutto questo è
vero, ma ti assicuro che in questo caso, anche gli altri c'entrano!
Ora faccio parte dei Boscawen e ci sono delle regole! E andare a
convivere, anche solo per una breve vacanza, in Cornovaglia, non fa
parte delle libertà che mi vengono concesse".
Ross si
fece serio e la sua
voce tremò mentre con un gesto gentile, si portava alle
labbra la
sua mano destra. "Non parlavo di convivere! Parlavo della Chiesa
di Sawle e di tornare a casa da marito e moglie! Sposarti fu la
scelta migliore della mia vita, annullare quel matrimonio la
peggiore! E se posso rimediare, non mi lascerò scappare
l'opportunità che la vita mi ha dato".
A Demelza
mancò il fiato e
dovette appoggiarsi al parapetto del ballatoio per non cadere.
Stava... Stava chiedendoglielo davvero? Stava chiedendole di
sposarlo? Come quel giorno, seppur per motivi diversi, su quel
sentiero di campagna? "Ross...".
E lui si
inginocchiò, come
non aveva fatto allora, tanti anni prima, dove ogni cosa era avvenuta
con praticità ma senza romanticismo. "Sposami".
Le gambe le
cedettero, si
inginocchiò davanti a lui e lo abbracciò. Felice!
E non solo per
quello che gli aveva chiesto, forse lo avrebbe comunque fatto una
volta scoperta la gravidanza. Ma il punto era proprio quello, Ross
non sapeva della bimba che aspettava!!! La cornamusa sembrò
portare
più nitidamente il suo suono alle loro orecchie, come
volesse
accompagnare con la sua musica quel momento speciale fra loro e lei
decise che era il momento giusto per dare una risposta e riprendersi
in mano la sua VERA vita. "Sì! Sì che ti sposo,
Ross
Poldark!".
Lui la
strinse a se, commosso,
felice, affondando il viso nel suo collo e riempendola di baci
gentili. "Ti amo..." - sussurrò al suo orecchio. "E
forse non te l'ho nemmeno detto troppo spesso".
Demelza lo
fronteggiò,
appoggiando la fronte contro la sua. "Anche io ti amo! Sempre,
da sempre... E nulla, mai nulla per quanto buono, gentile e romantico
era nel mio destino, a parte te". Non era un addio ai sentimenti
provati per Hugh, non era un rinnegarlo perché insieme erano
stati
felici e avevano saputo costruire un matrimonio sereno, arricchito
dall'arrivo di bambini senza i quali non avrebbe più saputo
vivere,
ma un ammettere che niente e nessuno avrebbe potuto essere ai suoi
occhi quel che era Ross. Ross era nel suo destino e per quanto la
vita e gli errori passati li avessero divisi, erano destinati a
ritrovarsi. Ora era felice, come non succedeva da tanto! Hugh avrebbe
sempre e per sempre avuto un posto speciale nel suo cuore, un posto
solo suo. Ma era il momento di andare avanti e riprendersi in mano la
sua vita, quella a cui era destinata da sempre!
Ross la
ribaciò con passione
e infine, senza fiato, la aiutò a rialzarsi, sistemandole
poi lo
scialle sulle spalle. "Copriti, non vorrai ammalarti nella sera
più importante della nostra vita!".
Demelza
rise, stringendosi a
lui e lasciandolo cingerle le spalle per riaccompagnarla in camera.
Era così bello vivere quel lato romantico e pieno di premure
che nel
loro rapporto era sempre un pò mancato.
Rientrarono
nel silenzio
generale, tutti ormai erano a dormire e doveva essere tardissimo.
Salirono al piano superiore e quando lei fu davanti alla sua camera,
dalla stanza delle bimbe sgattaiolò fuori Daisy. "Mamma!".
Lei e Ross
la guardarono,
sorpresi che fosse ancora sveglia. Demian lo era di certo, non si
addormentava senza di lei, ma l'orsetta?
Demelza le
si avvicinò,
preoccupata. "Tesoro, stai male?".
"No, volevo
chiedere una
cosa?".
"Cosa?".
"Se Demian
sparisce, tu
piangi?".
Demelza
guardò Ross in cerca
di spiegazioni a quella strana domanda e poi ancora Daisy. "Certo"
– rispose, incerta.
"E se
sparisco io?
Piangi?".
"Certo
tesoro".
"Come
piangi per
Demian?".
Demelza
sospirò, forse
capendo quale fosse il problema. Non si era mai accorta che Daisy
fosse gelosa... "Certo! Ma non succederà! Mamma col cavolo
che
permette a qualcosa o qualcuno di farvi sparire! Nessuno deve toccare
NESSUNO dei miei bambini!".
Ross
intervenne,
inginocchiandosi accanto a loro. "E io l'aiuterò in questo,
te
lo giuro!".
Daisy lo
occhieggiò.
"Speriamo! Perché magari serve il tuo aiuto, signor
Poldark!".
Ross le
sorrise,
scompigliandole i capelli. "Mi sa che la gente che lavora
quì,
vi racconta troppe leggende sugli elfi scozzesi delle campagne e ti
sei un pò spaventata. Per questo eri preoccupata?".
Daisy ci
pensò su. "Mhhh...
Sì, per questo!".
Demelza
sorrise, era tenero
che Ross pensasse che Daisy si lasciasse spaventare da qualche
favoletta, ma lei aveva capito bene quale fosse il vero problema.
Demian era molto legato a lei e di fatto, anche se cercava di
dividersi equamente fra tutti i suoi figli, lui assorbiva gran parte
delle sue energie e del suo tempo. Afferrò velocemente la
bimba
prima che scappasse, la strinse a se e la prese in braccio. Lei
tentò
di divincolarsi come sempre ma non la lasciò andare, voleva
che
Daisy sentisse la forza del suo abbraccio e quanto la amasse e
rispettasse la sua indipendenza. "Catturata! Da me e nessun
altro!" - esclamò, ridendo.
Daisy
tentò una debole difesa
ma poi si abbandonò a quella stretta e la
abbracciò, cingendole le
spalle con le sue braccia esili.
Ross
sorrise, accarezzando i
capelli di entrambe. "Vuoi dormire anche tu con la mamma?".
"Noooo!
Mica sono
Demian!" - rispose lei, piccata.
Ross le
strizzò l'occhio.
"Pure Demian fra un pò dovrà imparare a dormire
da solo come
te. Non credi sia ora?".
Daisy
sospirò. "Sì, io
sì! Lui e mamma, no!".
Demelza le
fece il solletico
sul pancino, rimettendola a terra. Grande verità e grosso
problema e
in effetti era ora di risolverlo. Per tanti motivi... "Su,
prenderai freddo, fila a dormire!".
Soddisfatta,
Daisy le ubbidì.
Le diede un bacio sulla guancia e poi, inaspettatamente, lo diede
anche a Ross. E poi di corsa, sparì in camera sua.
Demelza
sospirò. "Dobbiamo
andarcene dalla Scozia, rende i miei figli strani! Prima Jeremy e ora
Daisy...".
Ross le
prese la mano,
baciandola. "Abbiamo una meta da raggiungere in caso di fuga,
no?".
E lei
sorrise, un sorriso
caldo e gentile. "Sì, l'abbiamo decisa poco fa!".
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Capitolo 69 *** Capitolo sessantanove ***
"Io
questo NON lo mangio!". Daisy picchiò la forchetta sul
tavolo,
incrociò le braccia, dondolò le gambine dalla
sedia e si imbronciò,
decisa a portare a termine quel suo proponimento.
Falmouth
sospirò, Ross osservò in silenzio la scena, i
bambini restarono
concentrati a guardare come andava a finire e Demelza sudò
freddo,
osservando ciò che aveva nel piatto. In effetti quello
strano
polpettone dall'indubbia farcitura, non attirava nessuno di loro. E i
gemelli, con cui bisognava faticare anche per il dolce, di certo non
ne avrebbero messo in bocca nemmeno un pezzetto. La cucina scozzese
era stata decisamente bocciata dal clan Boscawen e a giudicare dalle
facce di Ross e Dwight, anche dai Poldark e dagli Enys!
L'addetta
alle cucine, una donna scozzese sulla sessantina dai capelli biondi
ormai tendendi al bianco, la pelle chiara e cosparsa di lentiggini e
il viso pieno di chi apprezza il cibo locale, guardò storto
la
bambina. "Haggis... Una delle prelibatezze della regione! Ci
sono bambini che ruberebbero, per poterlo mangiare".
"Regalalo
a loro!" - ribattè Daisy, spostando di lato il piatto.
Falmouth,
che di solito interveniva quando si verificavano quei capricci,
stavolta rimase silenzioso. Quel piatto non attirava nemmeno lui...
"Haggis... E di cosa sarebbe fatto questo... cibo...?".
La
cuoca annuì, orgogliosa della sua opera. "E' lo stomaco di
pecora ripieno di frattaglie, appunto, della pecora: interiora,
cuore, polmoni, fegato, cipolla, farina d'avena e spezie!".
Clowance,
a quella spiegazione, impallidì ed imitò la
sorella, spostando il
piatto. "Nemmeno io lo voglio!".
E
ancora, nessuno osò darle torto.
Falmouth
tossicchiò mentre anche Demelza e Ross, dopo essersi
guardati negli
occhi, decidevano che per quella sera era meglio digiunare. In fondo
Demelza non si sentiva così affamata, aveva un pochino di
nausea e
difficilmente questo 'Haggis' gliel'avrebbe fatta passare.
Demian
si alzò dal tavolo, avvicinandosi a Dwight. "Vero che se
mangio
questa cosa, poi mi viene mal di pancia? Vero che se mi danno il
pasticcio di patate è meglio?".
Dwight
sudò freddo, facendo correre lo sguardo fra il bambino,
Falmouth e
infine Demelza, in cerca d'aiuto. "Ecco...".
Prudie,
seduta in disparte accanto ai bambini, annuì. "Stavolta sono
d'accordo con le bestioline!" - borbottò, mentre la cuoca
scozzese se ne usciva dalla stanza indispettita.
L'unico
fino a quel momento rimasto in silenzio, si fece sentire. Valentine
tagliò un pezzo di Haggis, se lo portò alla
bocca, lo masticò
mentre Ross lo guardava disgustato e poi sorrise. "E' buono! Dai
papà, provalo!".
"NO!"
- ribattè Ross secco e stizzito quanto Daisy poco prima,
provocando
una risata di Demelza.
E
Jeremy colse la palla al balzo, passandogli il suo piatto. "Sei
esile Valentine, ti regalo anche il mio!".
Demelza
lo fulminò con lo sguardo, non aveva ancora dimenticato lo
scherzetto delle mance e non apprezzava nemmeno quando Jeremy faceva
il furbo, anche se era per una giusta causa. "Jeremy".
"Non
lo voglio, mamma!" - ribattè il bambino.
Falmouth
si alzò in piedi, picchiando le mani sul tavolo per attirare
l'attenzione. "Su, un pò di dieta non farà male a
nessuno e
purtroppo dovremo adattarci! Difficilmente questa gente sarà
in
grado di fare piatti per popolazioni civilizzate e non è
nemmeno
giusto chiederglielo! Non ne sono in grado!".
"E
il pasticcio di patate?" - chiese Demian.
"Lo
mangerai a Londra!" - rispose Falmouth. "Ma ora, ho cose
più serie di cui discutere! Ho organizzato una battuta di
caccia per
domani, con tanto di pranzo al sacco! Panini imbottiti, da Prudie e
Mary per fortuna nostra! Sarà una bella giornata di svago
per
tutti".
Demelza
guardò fuori dalla finestra, pensierosa. Il tempo era
orribile e
difficilmente sembrava votato al miglioramento. "Sta piovendo e
pioverà, dice la gente del posto!".
"Dove
dovremmo andare per questa battuta di caccia?" - chiese Dwight.
"Sui
monti Cullin! Luogo isolato, impervio, pieno di grotte e anfratti e
perfetto per stanare cervi, volpi e caggiagione di qualità"
–
rispose Falmouth – "E...".
Demelza
sbuffò. C'era altro sotto, lo sospettava fortemente. "E?".
Falmouth
sorrise, sornione. "E in quella zona c'è un castello che
potrebbe fare al caso nostro! Sorge su una piccola isola collegata
alla terra ferma da un ponte, è grande e maestoso, antico
quanto
basta ma in buono stato. Incute timore in chi lo guarda ed esprime la
potenza di chi lo possiede! Il castello di Eilean Donan, costruito
nel tredicesimo secolo da Alessandro II di Scozia per fronteggiare le
invasioni vichinghe, è perfetto per insediare i Boscawen in
queste
terre!".
"Forte!
Chi sono i vichinghi?" - chiese Valentine.
"Gente
più selvaggia persino degli scozzesi, ragazzo!" -
ribattè
Falmouth.
"Ohhh!
Papà, tu li conosci?".
Ross
sospirò, non sapendo se ridere o piangere per la piega che
aveva
assunto la cena. In realtà era strano, non erano cose a cui
era
abituato e che forse aveva sempre un pò evitato anche quando
il suo
casato era grande e si riuniva a Trenwith, ma quella strana
convivialità e condivisione di momenti 'di famiglia',
iniziava a
piacergli. Ed immaginava anche di capire perché piacesse a
Demelza,
nonostante le idee astruse ed antiquate di Falmouth: lei non aveva
mai avuto nulla da piccola, non pranzi insieme, non chiacchiere
davanti al camino, non momenti di condivisione. E nemmeno lui in
fondo, sempre alla ricerca di soluzioni ai problemi del mondo, le
aveva mai dato nulla del genere se non in rare occasioni. Ora ne era
coinvolto, ne sarebbe sempre stato coinvolto e... poteva dire di non
disprezzare la cosa. Valentine poteva mangiare circondato da
chiacchiere invece che dal silenzio, c'erano tanti bambini che
donavano allegria alla tavola e l'atmosfera era calda e piacevole
anche per gli adulti. "No, non conosco i vichinghi ma ne ho
sentito parlare. Guerrieri valorosi e imbattibili. E con una
società
di certo non antiquata ma anzi, guidata da idee moderne e eque, da
quanto dicono".
"Idee
selvagge ed incivili!" - lo rimbeccò Falmouth.
Demelza
gli diede un calcetto sulla gamba sotto il tavolo, consigliandogli di
non contraddire Falmouth oltre. Certi argomenti erano out a tavola e
Ross doveva cercare di sopravvivere a certe cose. Lei conosceva
Falmouth, percepiva a fiuto quando stava per inalberarsi ed
addentrarsi in un'infinita disquisizione sulla politica e sulla
superiorità degli inglesi e aveva, col tempo, imparato ad
evitare
con astuzia situazioni del genere. Ed era meglio che imparasse anche
Ross, per il suo bene!
Lui
si voltò verso di lei, sorridendole impercettibilmente e
strizzandole l'occhio. Aveva recepito il messaggio!
Jeremy
si tirò su, osservando il suo piatto ancora pieno. "Visto
che
non si mangia, io e Clowance possiamo andare in camera nostra?".
Demelza
sospirò. "Dovreste aspettare che ci alziamo tutti...".
Il
ragazzino si imbronciò. "Ti preeeego! Se mi fai andare,
faccio
fare i compiti a Clowance!".
La
sorella, lo guardò con malcelata voglia di picchiarlo. "E'?".
"Devi
fare i compiti, sei una somara!" - la rimbeccò il bambino
con
fare da saputello.
Falmouth
sospirò e Demelza, con un sonoro sospiro stanco,
annuì. "Andate!
Non voglio sentirvi litigare! E i compiti fateli sul serio,
ENTRAMBI!".
Jeremy
sorrise, soddisfatto. E poi sparì di corsa dalla sala da
pranzo,
seguito dalla sorella, prima che gli adulti cambiassero idea.
Demian,
imbronciato, si avvicinò a Valentine. "Giochi con me?".
"Sì.
Papà, posso?".
Ross
annuì. "D'accordo, ma rimanete al chiuso, fuori diluvia".
Falmouth,
a sua volta, si alzò. "E diluvierà anche domani!
Ma la pioggia
non fermerà il nostro spirito d'avventura, la caccia e
l'acquisto di
un castello". E con quelle parole uscì, seguito a ruota da
Demian e Valentine.
Dwight
sospirò. "Temo che domani sera dovrò curare il
raffreddore di
tutti".
Demelza,
alzatasi, si avvicinò a Daisy che, stranamente, si era
ammutolita ed
imbronciata dopo che i fratelli se n'erano andati. "Speriamo di
no" – sussurrò, preoccupata per la sua gravidanza
e per
qualsiasi ipotetico malanno.
Dwight
si alzò dalla sedia. "In fondo non possiamo obiettare, no?
Se
Falmouth ordina, noi si esegue! E' come la legge militare in
guerra!".
"Direi
di sì" – rispose Ross. "Hai voglia di bere del
buon
Scotch Whisky, Dwight? Gli scozzesi non sanno cucinare ma a livello
liquori, sono notevoli".
"Perché
no?".
Ross
si rivolse a Demelza. "Ti unisci a noi?".
Lei
sospirò. Dannazione, faceva freddo e ne avrebbe anche avuto
voglia,
ma la gravidanza gli sconsigliava di farlo. "La prossima volta!
Ora io e Daisy ci facciamo un giro per il maniero. Ti va, piccola?".
"Non
lo so!".
Ross
le si avvicinò, accarezzandole la testolina. "Sei
arrabbiata?
Stanca? O molto affamata?".
Lei
rimase in silenzio, poggiando la testolina sul tavolo, come se fosse
percossa da mille pensieri. "Non ho niente".
"Daisy..."
- la supplicò Demelza. "Non stai bene? Tesoro, dimmi cosa
c'è!".
Lei
si voltò piuttosto contrariata, spingendola via. "Non ho
niente! E non voglio fare un giro!" - urlò, stranamente
rabbiosa.
Demelza
e Ross si guardarono e anche Dwight si accigliò. Daisy era
spesso
capricciosa ed irritabile ma mai eccessiva e instabile nelle
reazioni. C'era qualcosa che non andava o la preoccupava.
"Daisy..."
- la implorò Demelza, cercando di prenderla per mano.
Ma
la piccola le sfuggì dalla presa, con gli occhi lucidi.
"Voglio
andare da Jeremy e Clowance! Da nessun'altra parte!".
"Va
bene, va da Jeremy e Clowance" – le rispose Demelza. Jeremy
era sempre stato bravissimo a calmarla e a trovare un modo per
comunicare con lei. Se Daisy aveva qualcosa e non voleva parlarne con
lei, sicuramente sarebbe stata capace di parlarne con lui. Si sentiva
un pò un fallimento come madre, quando Daisy faceva
così,
rendendosi conto che non riusciva mai ad infrangere del tutto quel
muro che la bimba a volte ergeva fra loro.
Dwight
tentò un ulteriore approccio. "Non vuoi venire con me e
Ross?".
"NO!".
Ross
tentò a sua volta di avvicinarla, capendo quanto fosse
stranamente
turbata. "Con me? Non vuoi farmi compagnia?".
Ma
stavolta, anche lui si vide rifiutato. "No! Voglio andare da
Jeremy e Clowance".
E
risoluta, lasciò mestaemente la sala da pranzo.
Ross
si avvicinò a Demelza, abbracciandola da dietro e cingendole
la
vita. "E' solo di cattivo umore, le passerà!".
Ma
Demelza non si sentiva tranquilla. "Non riesco mai ed essere io
quella che sa farla stare meglio. O ci riesci tu o ci riesce Prudie o
ci riesce Jeremy. Io non vado mai bene".
"Non
essere sciocca, Demelza" – intervenne Dwight. "E' piccola
e se la prende con chi la ama di più e la
perdonerà sempre. Siamo
in un paese straniero, in ambienti che non conosce, è
costretta a
seguire ogni giorno le idee bislacche di Falmouth, non dorme nella
sua casa e nel suo letto e questo influisce molto sull'umore di una
bambina tanto piccola. E' stanca".
Demelza
sospirò, cercando di far sue le parole consolatorie di
Dwight. "Non
saremmo mai dovuti venire quì e ho un cattivo presentimento".
Ross
la baciò sulla nuca, dolcemente. "Non ci pensare".
Ma
non pensarci, per lei era impossibile.
...
Appena
giunti in camera, Jeremy chiuse la porta e attirò a se
Clowance
prendendola per mano. "Domani, domani è il giorno giusto per
il
nostro piano!".
Clowance,
che fino a quel momento era stata la promotrice ufficiale
dell'impresa, spalancò i suoi occhi azzurri, con un'ombra di
terrore
sul viso. "Domani? Pioverà!".
"Viviamo
in un posto dove piove spesso, la pioggia sarà nostra
compagna di
gran parte di viaggio. E della nostra vita".
Ma
Clowance non pareva comunque troppo tranquilla. "Perché
domani?".
Jeremy
alzò gli occhi al cielo, non era molto acuta nelle faccende
pratiche. "Saremo in pochi, in un luogo isolato, lo zio e gli
altri uomini saranno a caccia e con la scusa di giocare, potremo
allontanarci senza essere visti. Prepariamo gli zaini, dichiamo a
mamma che ci portiamo abiti di cambio per la pioggia, qualcosa da
mangiare nascosto fra i vestiti e poi via, verso Londra. O domani, o
mai più!".
Clowance
sospirò. "Solo qualche abito di cambio? E il mio baule?".
Jeremy
scosse la testa, sarebbe stata una compagna di viaggio pessima,
lamentosa e poco utile. "Stai scappando, non stai facendo una
vacanza. Niente baule, niente nastri per i capelli, niente bambole!
Dormiremo nei prati, nei boschi, mangeremo ciò che capita e
avremo
dei passaggi solo se qualcuno sarà tanto gentile da darceli
col suo
carretto, ci laveremo nei ruscelli e non potrai cambiarti i vestiti
ogni giorno. Sarai un pò sporca, per un pò".
Gli
occhi di Clowance divennero lucidi. "Sono una lady..." -
sussurrò, spaventata.
"Stai
cambiando idea? Resti quì e lasci che mamma e il signor
Poldark...".
Ma
lei lo bloccò, nuovamente risoluta. "NO! Hai ragione, nelle
avventure ci si sporca, ci si deve sporcare! Domani, domani!!!".
In
quel momento la porta si aprì ed entrambi saltarono per aria
come
punti da uno spillo e con la paura che qualcuno, origliando, li
avesse scoperti. Chi diavolo...?
Jeremy
sbirciò dall'uscio che pian piano si apriva e
tirò un sospiro di
sollievo quando vide di chi si trattava. "Daisy!".
La
gemellina entrò di soppiatto e poi chiuse la porta dietro di
se.
Sembrava cupa e nervosa e il suo visino di solito giocoso, pareva
sparito. "Domani, Jeremy?" - chiese subito, senza giri di
parole.
"Domani"
– ribattè lui senza voglia di negare, stupendosi
ancora di quanto
fosse acuta nel capire le cose. Se Clowance fosse stata acuta anche
solo la metà, quel viaggio forse sarebbe stato meno duro.
Clowance,
dal canto suo, si imbronciò. "Lei che ne sa? Gliel'hai
detto?
Sei matto?! Lo dirà alla mamma!".
Jeremy
scosse la testa. "No, non lo dirà, lei sa mantenere i
segreti,
non è come Demian".
Daisy
prese un lungo respiro. "Sì, li mantengo! Però
questo segreto
non mi piace, mi fa venire paura". Si toccò lo stomaco,
singhiozzò e poi guardò implorante suo fratello.
"Ecco, quando
ho paura e sono preoccupata, mi fa male quì".
Jeremy
le diede un buffetto sulla guancia. "Ti fa male lì
perché hai
fame! Non abbiamo mangiato niente!".
"No,
mi fa male perché ho paura" – insistette la bimba.
"Jeremy,
non andare via, resta con me!".
"Devo
andare via, dobbiamo!" - rispose il ragazzino, dando un'occhiata
a Clowance in richiesta d'aiuto.
"Già,
dobbiamo andare!" - aggiunse Clowance – "E' per fare
andare meglio le cose dopo! E' per il bene di tutti".
"No,
non è vero!" - ribattè Daisy, picchiando in terra
il piedino.
"Scappate, fate spaventare tutti, mi fate venire mal di pancia,
fate piangere la mamma e il signor Poldark e se invece chiedete e
dite di cosa avete paura, sì che tutti starebbero bene.
Anche il mio
pancino!".
Jeremy
sbuffò. Gli spiaceva ferire Daisy e capiva che tanto piccola
com'era, doveva essere spaventata. Chissà come doveva
apparirgli
spaventosa quella loro fuga nell'ignoto...? Aveva paura anche lui
dopo tutto, ma che doveva fare? Forse non sarebbero riusciti nemmeno
ad andare troppo lontano, forse li avrebbero ritrovati subito e
quindi non c'era di che preoccuparsi. Forse lo sperava anche
perché
con quei pochi soldi che avevano, con Clowance che avrebbe frignato
tutto il tempo, con la pioggia e tutto il resto, difficilmente
avrebbero portato a termine il piano. Ma dovevano quanto meno
provarci e far capire alla loro madre e sì, anche a quel
padre
ricomparso dal nulla, cosa provavano. Non riuscivano a dirlo a parole
e a volte le azioni spiegavano meglio di mille discorsi.
Accarezzò
la testolina di Daisy, la prese per mano e la condusse alla sua
scrivania, mostrandole una piantina della Scozia che aveva trovato
nella biblioteca del maniero. "Vedi, siamo organizzati! Abbiamo
anche una mappa per non perderci!".
Ma
Daisy non sembrava ugualmente convinta. "Non mi piace lo
stesso!".
Clowance
si avvicinò loro, prendendo in mano la situazione. "Ma devi
stare zitta comunque, è un segreto, Jeremy te lo ha detto e
tu devi
mantenere la parola data. Anche se ti fa male la pancia!".
Daisy
abbassò lo sguardo, spaventata. E senza trovare parole per
ribattere, cosa stranissima per lei, mestamente lasciò la
stanza...
Jeremy
diede una botta in testa a Clowance, appena furono soli. "Non la
dovevi trattare così, ora piangerà e forse la
mamma...".
"No,
non piange! Daisy non piange mai!".
Jeremy
osservò nella direzione in cui era sparita la sorellina. Era
preoccupato pure per lei, ora. E forse quel segreto era troppo per
una di soli quattro anni. "Ha paura, è piccola".
"E
allora dovevi pensarci prima!" - rispose Clowance, risoluta.
"Ma
non ti spiace per lei?" - insistette Jeremy.
La
bimba abbassò lo sguardo. "Sì, certo! Ma se
scappiamo, è pure
per lei! E' nostra sorella e magari mamma, per stare col signor
Poldark, la lascia a Londra con Demian e noi non li rivediamo
più".
Jeremy
sussultò. Non ci aveva mai pensato ma in effetti era vero,
Daisy e
Demian erano figli di Hugh e non del signor Poldark. Perché
avrebbe
dovuto volerli con lui? E la determinazione, a quel pensiero,
tornò
in lui. Hugh aveva accolto con amore lui e Clowance, anni prima, ma
nessuno poteva garantire che il signor Poldark avrebbe fatto lo
stesso coi gemelli e di certo non era obbligato. "Hai ragione,
non dobbiamo ripensarci, dobbiamo andare".
"Sì,
dobbiamo andare!" - rispose Clowance, chiudendo il discorso.
...
Demelza
si era stesa, turbata da mille pensieri e preoccupazioni. I bambini
erano strani, era incinta e ancora nessuno lo sapeva e Daisy sembrava
così irritabile e turbata...
Eppure
quei giorni erano, per l'assurdo, fra i più belli della sua
vita! La
proposta di matrimonio di Ross così dolce e romantica,
l'essersi
ritrovati, aver superato un passato difficilissimo, l'amore senza
ombre e un futuro finalmente roseo davanti, avrebbero dovuto solo
scaldarle il cuore. Ma c'erano tante variabili che gravitavano
attorno a loro e i bambini ne erano parte fondamentale. Sarebbero
stati una grande famiglia allargata, forse... Avrebbero davvero, lei
e Ross, gestito tutto? Avrebbero davvero potuto dare e ricevere amore
da tutti quei bambini?
Coricata
sul letto, col rumore della pioggia battente che scuoteva le
finestre, si rannicchiò sotto la coperta per scaldarsi.
Aveva uno
strano gelo dentro le ossa e di certo la battuta di caccia con quel
tempo infame non avrebbe aiutato a scaldarla.
Demian,
dopo aver giocato con Valentine, era tornato alla chetichella in
camera alla sua ricerca e si era messo seduto sul letto accanto a lei
a disegnare e chiacchierare coi suoi pastelli a cera, riuscendo a
strapparle più di un sorriso coi suoi discorsi
sconclusionati e la
sua fantasia.
C'era
sempre bisogno di Demian e della sua visione incantata delle cose, in
momenti del genere...
D'un
tratto la porta di aprì e Daisy sgattaiolò in
camera,
sorprendendola. Mai veniva da lei di pomeriggio e raramente succedeva
di sera quando di solito Daisy e Clowance la aspettavano in camera
loro per la buonanotte.
Demelza
osservò la sua piccola, nervosa orsetta. La piccola sembrava
meno
arrabbiata di poco prima e il suo faccino pareva più che
altro
stanco e turbato, come se sulle sue spalle portasse chissà
quale
peso.
Preoccupata
si alzò dal letto, andando da lei. “Daisy,
tesoro...”.
Lei
dondolò il piedino a terra. “Posso stare con te un
pochino?”.
“NOOOO!”
- urlò Demian dal letto. “Devi andare nella tua
stanza, questa è
mia e della mamma!”.
Demelza
sospirò, con Demian era sempre la stessa storia e forse era
davvero
arrivato il momento di fargli capire che pure lui aveva una stanza
sua e non era quella dove abitualmente dormiva. “Certo che
puoi”.
Daisy
sollevò il visino, guardandola con quei suoi occhi azzurri e
trasparenti. “Posso stare in braccio?” - chiese,
sorprendendola.
In
altri momenti quella richiesta tanto rara e preziosa, l'avrebbe
riempita di gioia. Ma ora
Daisy sembrava
talmente smarrita e prostrata, che non riuscì a non
preoccuparsi. Si
inginocchiò e la prese in braccio, stringendola a se.
“Certo
amore, certo che puoi stare in braccio!” - le
sussurrò, facendole
poggiare la testolina sulla sua spalla. “Cosa c'è
Daisy?”.
“Niente”.
“Non
è vero, c'è qualcosa che ti preoccupa e si vede.
E non puoi
nasconderlo alla mamma, le mamme queste cose le vedono
subito”.
Demian
saltò giù dal letto per pretendere a sua volta
attenzioni ma
Demelza questa volta tenne duro. Lui aveva già gran parte
del suo
tempo e della sua attenzione e se una volta Daisy chiedeva
apertamente altrettanto, sarebbe stata solo sua. Demian era sereno,
Daisy no! E in quel momento era lei che aveva bisogno. “Su,
continua a disegnare, tesoro! Fa un disegno bellissimo per me e tua
sorella”.
“Ma...”.
“Demian!!!”.
E
davanti al suo richiamo risoluto, il piccolo annuì.
“Va bene”.
Demelza
tornò a guardare Daisy, dondolandola fra le braccia. La
piccola si
era messa il pollice in bocca, come faceva quando qualcosa non andava
ed era nervosa, quindi qualcosa che la turbava c'era! Non aveva idea
di cosa fosse, probabilmente aveva ragione Dwight e la bimba aveva
semplicemente bisogno di tornare a casa, ma era comunque meglio
indagare. “Mi dici che cosa c'è?”.
“Mi
fa male il pancino”.
Demelza,
sorridendole, glielo massaggiò. “Va
meglio?”.
“Un
pochino...”.
Passeggiando
con la piccola per la stanza, con la pioggia che picchiava sui vetri,
Demelza ricordò i suoi primi mesi di vita quando le coliche
la
facevano da padrone e lei piangeva disperata, tenendo tutti svegli.
C'era Hugh allora, c'erano le passeggiate notturne nel parco e
sembravano passati secoli per quante cose erano cambiate in soli
quattro anni. “Sai che quando sei nata, avevi spesso mal di
pancia?
E io ti prendevo in braccio così, ti coccolavo, ti
massaggiavo il
pancino e passeggiavo con te nei corridoi o nel parco finché
non ti
addormentavi. Tu, papà, io e i tuoi fratelli. Tutti svegli!
E grazie
a te abbiamo passato delle serate tutti insieme al parco”.
Daisy
sollevò la testolina, sospirando, non molto in vena di
racconti e
ricordi romantici . “Era un mal di pancia diverso, mi
sa”.
“Vuoi
che chiami Dwight?”.
“No,
non sono malata, c'ho un po' paura, per questo mi fa male la
pancia”.
Demelza,
preoccupata sul serio ora, la sfiorò il mento.
“Paura? Di cosa?”.
Ma
Daisy volse il capo. “Non posso dirtelo!”.
“E'
successo qualcosa di brutto?” - insistette Demelza, entrando
in
allarme.
“No,
voglio tornare a casa però!”.
Quella
frase riuscì in parte a tranquillizzarla. Allora era davvero
solo
questo il problema?! E aveva ragione Dwight? Non avrebbe dovuto
portare i bambini in quel luogo tanto sconosciuto e lontano e anche
se a Clowance e Jeremy, quando ci erano venuti con Hugh, era
piaciuto, i gemelli erano diversi e quel cambiamento li rendeva
suscettibili e agitati. “Ma sai, se aspetti un po', magari
qui ti
piace e ne esce una bella vacanza”.
“No,
voglio andare a casa! Quando andiamo?”.
Demelza
sospirò, scoraggiata. Ma anche piuttosto risoluta, visto
quanto quel
viaggio sembrava influire negativamente sui suoi bambini.
“Magari
cerco di convincere lo zio che per noi è meglio tornare
prima con
Dwight e i suoi cavalli, che ne dici? Questo ti farebbe stare
più
tranquilla e senza male al pancino?”.
Daisy
annuì. “Sì, a casa veloce
veloce!”.
La
baciò sulla fronte, dolcemente, cullandola.
“Veloce veloce, sì.
Ora va meglio?” - chiese, togliendole il dito di bocca, vizio
che a
Demelza non era mai piaciuto troppo.
Daisy
si accoccolò addosso a lei, anche questo stranissimo per il
suo
carattere. “Mamma...?”.
“Dimmi”.
“Scusa
per prima, se ho fatto la cattiva”.
La
strinse forte, era tremenda se voleva ma sapeva anche farsi perdonare
in modo magistrale. Daisy non era una ruffiana come Demian o Clowance
e nel bene e nel male era sincera, sempre. Soprattutto se chiedeva
scusa, erano scuse sincere! “Non importa, è
passato e sei qui. E
se sei qui con me e vuoi stare con me, allora sono contenta”.
“Sei
contenta adesso?”.
“Certo”.
“Voglio
che sei contenta anche domani, però!” -
ribatté la bimba, seria.
Demelza
rise, non capendo il senso di quella frase detta con una strana
gravità, come se Daisy temesse che non sarebbe stato
così. La
ribaciò sulla fronte, visto che era in vena di coccole, poi
la
dondolò più vigorosamente per farla ridere.
“Sarò contenta anche
domani, giuro!”.
Daisy
sospirò e in quel momento Demian corse da loro, stanco di
essere
lasciato in disparte. “Mamma, basta, ora tocca a me stare in
braccio!”.
Demelza
sospirò, il piccolo principe cercava di tornare ad essere il
suo
unico re ed era stato fin troppo tranquillo per i suoi standard.
Santo cielo, tutti e due in braccio non ce la faceva, ora che era
incinta. “Demian...” - lo implorò,
decisa a non mollare Daisy.
“Mammaaaaa”
- piagnucolò il bimbo.
E
in quel momento una figura entrò nella stanza, di soppiatto,
prendendo il bambino in braccio e mettendoselo sulle spalle.
Demelza,
colta di sorpresa, fulminò il nuovo arrivato con lo sguardo.
“Giuda
Ross! Mi stava venendo un infarto!” - borbottò,
anche se era
contenta di vederlo lì.
Lui,
con la sua faccia da malandrino, rise. “Ma ti ho salvata e
sono
arrivato al momento giusto” - ribatté, osservando
Daisy
accoccolata fra le sue braccia. Accarezzò i capelli della
bimba e
poi si rivolse a Demian. “Per oggi, dovrai accontentarti di
me!
Lascia la mamma anche agli altri!”.
Credeva
che Demian avrebbe piagnucolato e invece, resosi conto di quanto
fosse in alto, rise. “Se mi tiri un po' più su,
alla luna ci
arrivo davvero!”.
“Ci
alleneremo per questo!” - rispose Ross, divertito.
“E tu?” -
chiese, osservando Daisy. “Va meglio?”.
Daisy
guardò sua madre e anche se sembrava ancora turbata da
chissà quali
pensieri, annuì. “Sì, un
pochino”.
Demelza
la strinse a se, cercando di darle calore e conforto. Le mancava la
sua orsetta vivace e furba, con la risposta sempre pronta! E anche se
potersela coccolare la rendeva felice, lo era meno se pensava al
fatto che qualcosa in lei non andasse e stesse soffrendo.
“Vuoi
fare una passeggiata? Solo io e te?”.
“Sì!”.
“E
dopo cena, vuoi dormire con me?” - azzardò.
E
Daisy la sorprese ancora. “Sì, voglio dormire con
te” - mormorò,
affondando il viso nel suo collo.
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Capitolo 70 *** Capitolo settanta ***
Il
tempo era pessimo, sembrava tardo autunno più che primavera
inoltrata e diluviava. E Ross non smetteva di lanciare occhiatacce a
Lord Falmouth che li aveva condotti in quel luogo lontano da Dio e
dalla civiltà per una battuta di caccia.
Demelza,
in compagnia dei bambini e di Prudie che non aveva smesso un attimo
di borbottare, si era rifugiata in una piccola tenda fatta costruire
da Falmouth per lei e i piccoli, da alcuni servitori scozzesi che si
era portato dietro, ma questo non bastava per dare agio a una
giornata che si preannunciava pessima. I bambini erano nervosi,
Prudie borbottava come un pentolone di fagioli, il cielo era scuro e
minaccioso e la pioggia era sempre più battente.
Dwight
aveva provato ad argomentare che per la gotta del vecchio lord uscire
con quel tempo sarebbe stato malsano, ma lui non aveva voluto sentire
ragioni e alla fine tutti avevano dovuto arrendersi.
Jeremy
e Clowance avevano protestato vivamente per la decisione di lasciare
al maniero Fox e Queen ma Falmouth era stato irremovibile: aveva
portato con se dei cani da caccia prestati da un signorotto locale
con cui aveva stretto qualche accordo commerciale e quindi, per
evitare zuffe fra gli animali, i migliori amici e protettori dei suoi
nipoti acquisiti erano dovuti rimanere a casa. Demian voleva
esplorare le colline circostanti e vedere da vicino le piante che le
ricoprivano ma pioveva troppo e Demelza aveva dovuto dirgli un secco
no e quindi si era imbronciato pure lui. Daisy invece, dopo una notte
irrequieta come gli aveva raccontato Demelza, si era svegliata di
cattivo umore e capricciosa e aveva piagnucolato per tutto il
tragitto senza dire il perché.
Ross
sbuffò, stringendosi nel mantello. Santo cielo, nemmeno la
amava la
caccia...
Eppure,
a parte il tempo, quel luogo attorno a loro era maestoso e misterioso
insieme. L'antico ed imponente castello, al centro di un lago e
raggiungibile solo attraverso un ponte di pietra, dominava la valle
circostante. La zona era pressocché disabitata eccetto per
qualche
fattoria sparuta in mezzo alle campagne e i monti, non molto alti ma
rigogliosi e pieni di flora, fauna e grotte misteriose, davano al
paesaggio una nota ancora più magica. Se il tempo fosse
stato
clemente, i bimbi avrebbero potuto farci una piccola escursione ma
così sarebbe stato inutile e pericoloso...
"Con
questo tempo, nessun animale sano di mente girerebbe da queste parti
per farsi ammazzare da noi" – disse in tono sarcastico Ross,
guardando Falmouth in cagnesco.
Falmouth
però non sembrava dello stesso avviso. Si sistemò
i guanti,
controllò il fucile e poi gli fece cenno di seguirlo assieme
a
Dwight che era fin troppo gentile ed educato per supportarlo in
quella lotta senza speranza per tornare subito a casa. "Signor
Poldark, non siamo scozzesi!".
"E
quindi?".
Falmouth
allargò le braccia. "Siamo inglesi, santo cielo! E gli
inglesi
sono imbattibili a caccia, sia col bel tempo, sia con gelo o pioggia
o neve. E gli animali lo sanno!".
Dwight
sbuffò, trovando una momentanea scusa per andare verso la
tenda.
"Vado a vedere perché Daisy piange. Magari si sta prendendo
un
malanno" – disse, mentre i singhiozzi della bambina
giungevano
alle loro orecchie.
Ross
scosse la testa, preoccupato. Se c'era una bimba decisa, tenace e mai
piagnucolosa per niente, quella era Daisy. Eppure da alcuni giorni
sembrava cambiata totalmente e pareva smarrita, spaventata e
inconsolabile. Demelza iniziava ad essere seriamente angosciata anche
perché la piccola non apriva bocca e non diceva cosa la
turbasse e
Ross iniziava a temere che le fosse successo qualcosa di brutto, che
qualcuno in quel luogo dimenticato del mondo l'avesse spaventata o le
avesse fatto del male, o chissà che...
Falmouth,
decisamente meno catastrofico, sbuffò. "La mia capricciosa
nipotina, è ancora più capricciosa, oggi".
Ross
lo guardò di sbieco. Falmouth era un brav'uomo, adorava i
suoi
nipoti ma era poco empatico sul mondo dei bambini e sui modi in cui
chiedevano aiuto. "Ma lei non è capricciosa" –
fece
notare.
Falmouth
rimase di sasso per quella malcelata schiettezza, poi si
grattò il
mento pensieroso. "No, vero. Quelli che piangono per niente di
solito sono Clowance e Demian. Daisy affronta le frustrazioni con
metodi... spicci... Lancia le cose, soprattutto addosso a me! E dice
parolacce e risponde a tono! Non che la cosa mi dispiaccia,
è una
Boscawen e così deve essere, farsi rispettare è
fondamentale!
Eppure, come vedete, oggi non fa che piangere e questo me la rende
capricciosa e molesta!".
Ross
sospirò. "Non pensate che magari qualcosa la turba? O che
non
stia bene? E' un viaggio impegnativo per una bambina tanto piccola,
questo".
"Lo
hanno fatto anche Clowance e Jeremy a suo tempo, con Hugh e Demelza.
E Clowance non aveva che due anni".
Ross
tentò di ignorare la vocina della sua coscienza che gli
ricordava
quanto quella terra scozzese avesse dato a Demelza e Hugh in termini
d'amore e famiglia e tentò di rimanere concentrato sulla
questione
in quel momento più importante: Daisy. "Non tutti i bambini
sono uguali e lei sembra vivere tutto questo molto male".
"Le
passerà" – rispose Falmouth. "Avete il cuore
tenero,
Poldark. Cosa che a volte in un uomo non apprezzo ma che in questo
caso mi fa tirare un sospiro di sollievo. Tenete ai gemelli e ai
vostri figli e vi ho osservato, accanto a Demelza. Siete attento e
premuroso, rispettoso e gentile. E lei pare contenta".
Ross
distolse lo sguardo. A mentire non era molto bravo ma c'erano cose
che Falmouth che credeva di sapere tutto, ancora non sapeva e che
voleva dire solo insieme a Demelza, al momento giusto. C'era amore,
c'era stata una proposta di matrimonio, c'era un progetto di grande
famiglia da costruire desiderato da entrambi, che coinvolgeva anche i
piccoli gemelli nipoti dell'uomo. Tutto sarebbe cambiato col tempo e
ognuno doveva esserci adeguatamente preparato. Guardò
Demelza che
sotto a una pesante mantella, fuori dalla tenda, cercava di
intrattenere Daisy con Dwight e rimase incantato nell'osservare il
suo viso dolce, i capelli rossi che sfuggivano dal cappuccio e la sua
figura elegante e sinuosa. Era bellissima e c'era sempre troppa gente
attorno a loro per dimostrarle quanto la amasse non solo a parole ma
anche coi fatti. Santo cielo, come gli mancava quel cottage di
Londra...
"E'
bella, vero?".
La
voce di Falmouth alle sue spalle lo fece sussultare e tornare alla
realtà. Arrossì impercettibilmente e poi
annuì. "Sì, lo è".
Falmouth
si avvicinò al suo orecchio, parlando con tono fermo e
graffiante.
"E la sua bellezza, ai vostri occhi, non dovrà mai essere
paragonabile alla bellezza di nessun'altra. Capito, Poldark?".
Preso
alla sprovvista, Ross si voltò verso di lui. Falmouth aveva
abbandonato il suo sguardo sornione ed ora lo fissava con occhi
penetranti e decisi. Il messaggio era chiaro e gli stava dicendo,
ORDINANDO, di amare solo lei ed avere cura solo di lei. Per la
vita... Comprendeva le sue preoccupazioni, aveva fatto soffrire
così
tanto Demelza in passato... E la loro vita insieme si era persa ed
era andata distrutta per fatti e decisioni errate prese da lui e lui
solamente. Era passato tanto tempo da allora e la vita e le
conseguenze di quelle scelte gli avevano aperto gli occhi su tante
cose e il dolore gli aveva insegnato ciò che per lui era
davvero
importante: Demelza, i bambini... E nient'altro... Non voleva
nient'altro! C'era stato un tempo in cui aveva tutto e non ne aveva
capito il valore, c'era stato un tempo in cui quel suo 'tutto' era
andato perso ed ora che lo aveva ritrovato, non se lo sarebbe
più
lasciato sfuggire dalle mani. Falmouth era preoccupato e lo capiva e
comprendeva ma ora ciò che lui e Demelza erano tornati ad
essere
dopo tante lacrime, tanto dolore e tanti momenti di confronto
difficile, erano solo affari loro. "Certo che ho capito... E non
dovete temere".
Falmouth
rimase fisso su di lui. "Lo voglio ben sperare, c'è di mezzo
la
vita di chi amo di più e se distruggerete quella ragazza e i
suoi
bambini, lei è abbastanza forte da distruggere voi. E se
sarà
troppo buona per volerlo fare, lo farò io. E io sono meno
buono".
Ross
contraccambiò lo sguardo. "Se farò qualcosa di
male, voi
avrete ogni diritto di farne a me".
Falmouth
annuì, occhieggiandolo. "Mi fido di voi dall'inizio, si
è
rifidata Demelza e per me va bene così. E soprattutto, so
che i
bambini hanno bisogno di una guida e un padre. Vi spio Poldark,
studio come vi rapportate a loro e mi piace come...".
"Cosa?".
"Come
i gemelli pendano dalle vostre labbra. Loro, che da quando son nati
son spiriti liberi. Mi aspetto che li rimettiate in riga".
Ross
scosse la testa. Due cose non gli erano piaciute di quel discorso e
di certo non se le sarebbe tenute per se. "Io e Demelza siamo
adulti e non abbiamo bisogno di essere 'tenuti d'occhio'. Siamo stati
sposati, siamo stati amanti, abbiamo avuto dei figli e tirato con
fatica avanti una famiglia e una miniera in mezzo a mille
difficoltà.
Sappiamo cavarcela anche da soli senza nessuno che vegli su di noi
più del necessario. Seconda cosa, io non
rimetterò in riga proprio
nessuno! I vostri nipoti sono degli splendidi, indipendenti e liberi
esemplari di essere umano e io non sono nessuno per tenerli a freno e
cambiare ciò che madre natura ha creato così
perfetto. Nessuno dei
miei figli dovrà mai essere ciò che gli altri si
aspettano da lui,
ognuno di loro sarà solo ciò che vorrà
essere. E su questo, io e
Demelza concordiamo in pieno". Non voleva essere scortese ma
chiaro! Sarebbero stati una famiglia un giorno, avrebbe sempre
rispettato il ruolo di Falmouth ma non voleva interferenze non
necessarie nella sua famiglia. Era lo zio dei bambini ed un parente
di sangue dei gemellini, ma sapeva anche che Demelza – e Hugh
del
resto - non avevano mai voluto sue ingerenze eccessive nella gestione
dei bambini e Ross desiderava che fosse ancora così. Avrebbe
sputato sangue e dato la vita per i bambini, li avrebbe amati tutti e
se ne sarebbe preso cura e Falmouth doveva fidarsi di lui come diceva
di fare, a parole.
Falmouth
sogghignò, sornione. "Sicuro?! Lascerete SEMPRE che i
bambini
si esprimano come vogliono? Uno di loro occupa il posto che, CREDO,
vorreste voi nel letto di Demelza. Lo lascerete fare anche in questo
caso?".
Ross
raccolse la sfida, ridendo a denti stretti. "Ovviamente aiutare
i bambini a crescere e farsi indipendenti, sarà anche un mio
compito. Compreso l'imparare a dormire da solo che non è non
rispettare Demian ma dargli una piccola spinta a diventare grande".
Colpito
e affondato, non poteva replicare! Falmouth per un attimo
soppesò i
suoi pensieri, poi parlò. "Devo dire che nemmeno a me piace
che
quel bambino stia così attaccato a sua madre! Dannazione,
non è una
femminuccia, ma Demelza non mi ha mai dato corda con Demian! Ma ora
la ringrazio, sapete?".
"Perché?".
Falmouth
assunse la sua classica espressione da cacciatore con la volpe nel
sacco. "Perché con voi in zona, il bambino nel lettone vi
terrà
lontano da atti impuri che possano portare a piccole, graziose,
urlanti conseguenze. Conseguenze adorabili, per carità. Ma a
tempo
debito!".
Ross
rimase di sasso, come al solito alle conseguenze, quelle piccole ed
urlanti, non ci aveva pensato... Ma in quel momento capì che
anche
quello era affar suo e di Demelza e che non gli importava di nessuna
conseguenza! Non ne aveva paura ma anzi, come in ogni cosa da mesi a
quella parte, si sentiva elettrizzato al solo pensiero. Anche se in
effetti, anche se la camera di Demelza era molto affollata in quel
periodo e di intimità grazie a Demian ce n'era poca, a
Londra il
cottage era sempre deserto e Falmouth questo non lo aveva previsto...
"Credete che non sappiamo trovarci spazi per noi? Ci
sottovalutate tanto?" - chiese, in tono di sfida.
Falmouth
non si scompose. "So come gira il mondo, Poldark! Ma se si deve
rischiare, preferisco che si rischi poco, piuttosto che ogni notte.
Questione di percentuali, Ross...". Si bloccò, guardandolo
pensieroso, mentre la pioggia diventava ancora più battente.
"A
proposito...".
"Sì?".
"Ricordate
quella piccola faccenda sull'esproprio delle mie terre nel Sussex?
Voterete perché ne rientri in possesso per espandere la mia
proprietà? Per il bene della famiglia a cui magari presto
apparterrete pure voi, ovviamente...".
Ross
sospirò, calciando con la punta dello stivale un sassolino.
Falmouth
poteva parlare di politica ed interessi personali ovunque, anche
sotto la pioggia battente del nord della Scozia, davanti al castello
che voleva acquistare. "Non avete bisogno di terre nel Sussex e
da che so, Pitt e i suoi vogliono costruirci un orfanotrofio, da
quelle parti".
Falmouth
si imbronciò e in quel momento a Ross parve similissimo a
Daisy
quando picchiava il piedino per ottenere qualcosa. "Devo
costruirci una nuova stalla e un nuovo allevamento, Poldark! Per
purosangue da vendere!".
"Avete
terre vostre pure in Cornovaglia, da quel che so. Sono disabitate,
usate quelle!".
"Il
Sussex lo preferisco!".
Ross
guardò al cielo, plumbeo e tetro. Non amava i giochetti di
Westminster ma aveva imparato ad esserne un abile giocatore lui
stesso. Come diceva Demelza, non poteva abbattere consuetudini che
reggevano da secoli il sistema ma aveva imparato ad utilizzarle per
raggiungere i suoi scopi in maniera furba, anche se più
tortuosa e
meno nobile. "Darò il mio voto a voi per le terre nel
Sussex,
se...".
"Se?".
Ross
sorrise, lo aveva in pugno. "Se utilizzerete quelle terre in
Cornovaglia per l'orfanotrofio. Grosso il doppio di quello che vuole
costruire Pitt, con all'interno una scuola e una piccola infermeria.
La Cornovaglia e i suoi abitanti hanno bisogno di qualcuno che si
prenda cura dei suoi piccoli sfortunati bambini, che spesso crescono
con nulla e si ammalano senza possibilità di cura".
Falmouth
scoppiò a ridere. "Da quando avete fatto vostro, il voto di
scambio? Credevo odiaste questi mezzucci!".
"Infatti
li odio! Ma ho imparato ad usarli a mio favore".
Falmouth
lo guardò ammirato, come un maestro guarda il suo allievo
prediletto
che sta imparando la lezione. Non era una proposta così
malvagia,
dopo tutto... Voleva le terre nel Sussex e in fondo dei suoi
possedimenti in Cornovaglia gli importava poco e la manodopera
laggiù
era a basso costo. "E sia... Farò l'orfanotrofio, a nome dei
bambini. Sarà una bella donazione per la terra d'origine di
due di
loro". Gli porse la mano. "Affare fatto?".
Ross
gliela strinse. "Affare fatto".
Pieno
di soddisfazione, Falmouth imbracciò il fucile. "Andiamo?".
Sospirando
e per niente felice di andare a caccia sotto al diluvio ma orgoglioso
del risultato raggiunto, Ross andò verso Dwight e Demelza.
"Vado
a dire che andiamo e a richiamare il nostro amico dottore
all'ordine!". Santo cielo, se soffriva lui e Dwight era ancora
suo amico, dovevano condividere quell'inutile ed umida tortura
insieme.
Si
avvicinò trovando Daisy in braccio a Demelza, con gli occhi
rossi e
il visino rigato di lacrime. Sembrava inconsolabile e Demelza
piuttosto esausta e sconfortata. Accarezzò la piccola che
nemmeno
Dwight era riuscito a calmare e capì che davvero c'era
qualcosa che
non andava. Ed era palese che lo avesse capito anche Demelza, i cui
occhi erano colmi di preoccupazione. Non era malata, Dwight li aveva
rassicurati entrambi circa quell'eventualità, ma di certo
Daisy non
era serena.
La
prese in braccio mentre anche Falmouth si avvicinava. "Che
c'è?
Ce lo vuoi dire?" - le chiese dolcemente.
Daisy
alzò il visino, guardandolo silenziosamente. Non disse nulla
ma
Ross, nel suo sguardo, intravide una infinita quantità di
ombre e
ansie. Come se nel silenzio, lei cercasse di dirgli qualcosa, di
farglielo capire... Come se quell'azzurro intenso dei suoi occhi
diventato improvvisamente cupo, stesse cercando di gridargli qualcosa
che lei non poteva dire a voce. "Daisy...".
"Non
andare via!" - lo implorò la piccola, aggrappandosi a lui.
"Non
andare, resta qua e curaci".
Ross
sorrise, accarezzandole la piccola schiena. "Starò via poco,
piove e vedrai che non ti accorgerai nemmeno della mia assenza. E poi
ci sono la mamma, Prudie e i tuoi fratelli, non sei sola.".
"No,
resta quì"- pianse lei.
Ross,
dopo aver lanciato un'occhiata di intesa a Demelza e Dwight ed
ignorando Falmouth, si allontanò di alcuni passi con la
piccola,
nascondendola sotto il suo mantello per ripararla dalla pioggia.
Avevano da sempre un rapporto speciale loro due e forse, da soli,
Daisy si sarebbe aperta con lui, dicendogli cosa la turbava tanto. E
quando furono abbastanza lontani, avvicinò le labbra al suo
orecchio, cercò di essere quanto più accomodante
possibile e sperò
di ottenere la sua fiducia, come era sempre stato da quando si erano
conosciuti. "Hei, Daisy...".
La
piccola, rannicchiata contro il suo petto, non rispose.
E
Ross proseguì. "Torno presto, te lo giuro. E quando vengo,
che
ne dici di costruirci insieme un altro segreto?".
A
quella proposta, a quel gioco solo loro che a Daisy piaceva tanto, la
piccola alzò il visino di scatto, smettendo di piangere.
"Segreto?".
"Sì,
un segreto solo nostro. Solo mio e tuo, come sempre".
E
finalmente, vide un timido sorriso sulle sue labbra. "Quale?".
"Quando
torno, mi dici perché sei tanto triste e piangi
così. Solo a me, un
segreto nuovo nuovo come gli altri. Se me lo dirai, io magari
potrò
aiutarti a tornare ad essere contenta".
Daisy
trattenne il fiato, come emozionata per quella proposta, ma allo
stesso tempo frenata da chissà che. Non rispose con il
solito
entusiasmo ma anzi, abbassò il visino e poi lo
guardò nel profondo
degli occhi, appoggiando la fronte sulla sua. "Vieni presto..."
- disse solo, come in una muta supplica.
"Vengo
presto" – sussurrò Ross, sperando gli parlasse e
con una
strana ed incomprensibile ansia che prendeva possesso di lui, come se
qualcosa gli gridasse che un pericolo era imminente e che i capricci
di Daisy... Non erano capricci.
Durò
un attimo. La voce di Falmouth lo richiamò all'ordine e
dovette
tornare e consegnare la bambina a Demelza. Diede un bacio ad
entrambe, accarezzò loro i capelli e salutò gli
altri bambini i cui
visini avevano fatto capolino dalla tenda. Valentine agitò
la
manina, Jeremy e Clowance finsero di non sentirlo e lo ignorarono.
Ross non disse nulla, c'erano giorni in cui con loro sembrava andare
meglio, certi altri in cui sembrava di essere tornati ai primi
difficilissimi giorni a Londra. E quel giorno era uno di quelli.
Anche loro, come Daisy, sembravano strani e diversi, più
distanti e
nervosi del solito...
Un
giorno sarebbe passata, come diceva Demelza presto sarebbe forse
tornato un pò di sole sul rapporto coi suoi figli...
Presto...
Eppure
quella strana sensazione negativa risvegliata in lui dalle lacrime di
Daisy, non presagiva nulla di buono.
...
Gli
uomini erano spariti per la caccia da un paio d'ore e la pioggia
battente si era trasformata in una fastidiosa pioggerellina fine.
Nella
tenda fatta costruire per le donne e i bambini di quella spedizione
di cui tutti – a parte Falmouth – avrebbero fatto
tutti
volentieri a meno, Demelza e Prudie avevano fatto del loro meglio per
intrattenere i bambini in quello spazio angusto.
Alla
fine Daisy era crollata addormentata in braccio a sua madre, dopo
infiniti pianti. E anche Valentine si era addormentato, cullato dal
rumore della pioggia e con la testa appoggiata alle gambe di Prudie
che ogni tanto, mentre lo guardava, borbottava quanto gli ricordasse
il Ross bambino.
Demian
si era steso accanto a Demelza, disegnando su un vecchio e sgualcito
foglio con dei pastelli che erano stati portati da sua madre per
tenerlo buono e solo Jeremy e Clowance, svegli ed allerta, sembravano
completamente vigili in quella mattinata diventata improvvisamente
sonnecchiosa e silenziosa.
Jeremy
lanciò un'occhiata a sua sorella. Se c'era un buon momento
per
mettere in atto il loro piano, era quello! La pioggia era debole, gli
uomini non sarebbero rientrati prima di alcune ore, sua madre e
Prudie stavano dormicchiando coi bambini più piccoli e
Demian...
beh, lui se c'era in giro la mamma non si allontanava da lei!
Clowance
fissò il fratello, aspettando che fosse lui a trovare una
scusa per
uscire. Era spaventata, tremava lievemente ed era palese in lei il
desiderio di affidarsi al fratello maggiore, il suo punto di
riferimento da sempre in mancanza del padre.
E
Jeremy annì impercettibilmente, senza farsi vedere. "Mamma?".
Assopita,
Demelza, sobbalzò. "Dimmi!".
Sospirando,
Jeremy si alzò in piedi mettendosi la sua sacca in spalla.
"Posso
uscire a fare due passi con Clowance? Ci stiamo annoiando".
Demelza,
stancamente, guardò verso l'uscita dalla tenda. "Sta
piovendo,
tesoro".
"Ma
molto meno di prima! Ti prego mamma, stiamo morendo dalla noia! Che
ci siamo venuti a fare fin quì? Per star fermi sotto una
tenda!?".
Demelza
sospirò, accarezzando i capelli biondi di Daisy che dormiva,
esausta. "Dove volete andare?".
"A
fare due passi, a cercare... funghi!" - rispose il bambino,
dicendo la prima cosa che gli veniva in mente.
Demelza
sorrise, guardando Clowance. Che sua figlia cercasse funghi, le
sembrava davvero bizzarro. Non era stagione e i suoi due figli di
certo non erano esperti. "Crescono in autunno, tesoro!" -
gli fece notare.
Jeremy
sospirò. "Con tutta questa pioggia, è peggio che
autunno!".
La
madre gli sorrise, annuendo e comprendendo il loro bisogno di
prendere un pò d'aria. "Hai ragione, dev'essere davvero
noioso
stare quì! Giuro che impedirò a vostro zio di
portare a termine
altre idee del genere, in futuro! E comunque va bene, andate pure a
fare un giro! Ma state attenti!".
Jeremy
guardò sua madre, chiedendosi quando l'avrebbe rivista.
Erano sempre
stati insieme loro, nonostante tutto, sempre vicini nelle
difficoltà,
l'aveva sempre riparato nel suo abbraccio ed ora stava per arrecarle
un grande dolore che lei di certo non meritava. E forse non era
nemmeno giusto scappare, non era giusto non affrontare le sue paure.
Ma si rendeva conto che non era ancora un uomo maturo per saperlo
fare, che era solo un bambino spaventato che aveva sempre cercato di
essere più grande della sua età e che ora che era
arrivato qualcuno
che desiderava essere 'l'uomo di famiglia', aveva paura del futuro,
un futuro diverso da quello che era sempre stato il suo passato.
Avrebbe ancora dovuto proteggere sua madre? Pensare a lei se era
triste? Avrebbe potuto fidarsi di Ross Poldark? Avrebbe potuto, col
tempo, dare ad altri l'affetto che aveva sempre nutrito per Hugh? Ed
era un bene, era giusto nei confronti di quello che era sempre stato
il suo unico e vero padre nel suo cuore? Hugh lo aveva amato tanto,
gli aveva dato fiducia e una casa, lo aveva stretto a se quando
invece suo padre lo aveva abbandonato senza stare a pensarci su, e
ora...? Ora non era un tradimento dimenticarlo e tornare dal padre
che lo aveva messo al mondo? Andare avanti quando Hugh era rimasto
indietro, non era sbagliato? Cosa avrebbe voluto Hugh per lui, per
Clowance, per i gemelli e per la loro mamma?
Jeremy
a tutte queste domande, non sapeva rispondere...
Sapeva
solo una cosa: voleva bene alla sua mamma e avrebbe passato la vita
intera a farsi perdonare per quello che stava per fare.
Le
si avvicinò e, attento a non svegliare Daisy che conosceva
tutti i
suoi piani e poteva fregarlo, la baciò ed
abbracciò. "Grazie
mamma".
Anche
Clowance corse da lei, abbracciandola. "Grazie mamma".
C'era
molto in quel grazie, anche se lei non poteva saperlo...
Stranita
da quel ringraziamento tanto sentito ma in fondo inutile per una
concessione tanto piccola, Demelza ricambiò il loro
abbraccio. "Non
allontanatevi troppo! E se trovate funghi, non metteteveli in
bocca!".
Jeremy
e Clowance annuirono e poi, di corsa, uscirono dalla tenda senza
voltarsi mai. Se lo avessero fatto, non sarebbero riusciti ad
andarsene.
Jeremy
prese per mano Clowance e corsero costeggiando il lago, con indosso
le loro mantelline. "Dobbiamo sbrigarci ed andare verso sud,
verso la direzione da cui siamo arrivati stamattina" – disse
alla sorellina.
Clowance,
già col fiato corto, annuì. "Londra è
lontana?".
"Lontanissima!
Sarà un lungo viaggio... forse" – rispose Jeremy,
impaurito e
speranzoso che forse qualcuno li avrebbe trovati, fugando ogni suo
dubbio e dandogli le risposte a tutte le domande che non riusciva a
fare.
Clowance
si coprì i capelli alla meglio col cappuccio. "Ci
verrà il
raffreddore! Che strada dobbiamo fare?".
Jeremy
non rispose subito ma appena furono abbastanza lontani, si
guardò
attorno. Le colline erano alte e rigogliose e la vegetazione fitta.
Non c'era in giro anima viva e l'unico rumore era quello della
pioggia e dei loro passi nella fanghiglia. Faceva un pò
paura tutta
quella desolazione e quel silenzio, pensò. Sebbene
più difficoltoso
che seguire il sentiero, sarebbe stato più sicuro passare
per le
montagne per non farsi scoprire e nascondere le proprie tracce.
"Credo... che dovremo faticare un pò" – disse alla
sorellina, indicando la strada in salita.
Clowance
sospirò. "Fa un pò paura...".
Annuì,
lei aveva ragione e i loro sentimenti erano assolutamente simili in
quel momento. E in cuor suo, anche sei mai sarebbe riuscito ad
ammetterlo, sperò di essere salvato e trovato. Da sua madre
e da suo
padre... Già, ma da quale padre? Quello che aveva perso e
che
rimpiangeva o quello che era tornato e che ancora non gli aveva
dimostrato appieno quanto valesse e quanto tenesse a lui?
Non
seppe darsi una risposta e stretta ancora più forte la mano
della
sorella, corse verso i monti. Chiedendo silenziosamente scusa alla
sua mamma e a Daisy che, involontariamente, aveva reso partecipe di
un segreto forse troppo grande per una bimba della sua età.
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Capitolo 71 *** Capitolo settantuno ***
Quanto
meno la teoria enunciata da Falmouth con tanta enfasi, era stata
smentita: no, nemmeno per un inglese gli animali uscivano con pioggia
e freddo, felici e contenti di farsi uccidere in una battuta di
caccia!
Dopo
quattro ore, bagnati come pulcini e con le pive nel sacco, Ross,
Dwight e Falmouth tornarono alla tenda dove Demelza, Prudie e i
bambini li aspettavano. Bottino: ZERO!!!
Appena
arrivarono in prossimità della loro meta però,
con la pioggia che
tornava ad essere battente, Ross si accorse subito che qualcosa non
andava. Prudie si aggirava attorno alla tenda con aria preoccupata, i
gemelli e Valentine avevano un'espressione terrea e Demelza pareva
disperata.
Appena
lo vide, la donna gli corse incontro. "Ross, Ross!" - urlò,
rifugiandosi nel suo abbraccio. "I bambini sono scomparsi!".
Falmouth
spalancò gli occhi, Dwight si guardò attorno
senza capire e Ross la
prese per le spalle, cercando di farla calmare e capirci di
più.
"Cosa?". Si guardò attorno, Valentine e i gemellini erano
lì e quindi... "Jeremy? E Clowance? Che è
successo?" -
chiese, con urgenza.
Anche
Falmouth entrò in allarme. "Demelza?".
La
donna cercò di riprendere fiato. I suoi capelli erano
bagnati e
spettinati, gli occhi avevano cerchi scuri sotto ad essi e sembrava
terrorizzata. "Sono usciti qualche ora fa, quando la pioggia era
calata. Erano stanchi di stare chiusi in tenda e hanno chiesto il
permesso di fare un giro qua attorno per cercare funghi. Non mi
sembrava pericoloso ed erano annoiati, così gli ho
raccomandato di
non allontanarsi e gli ho dato il permesso. Ma non si sono
più visti
da allora! Sembrano spariti nel nulla e magari sono caduti nel lago,
magari si sono feriti da qualche parte, magari qualcuno...".
Stava
andando in panico e Ross odiava vederla così, soprattutto in
un
momento dove le crisi isteriche non sarebbero state di alcun aiuto.
Cercò di rimanere lucido e di non farsi prendere dal
terrore, la
scosse, tentò di calmarla e di ottenere la sua attenzione e
poi
parlò. "In che direzione sono andati?".
"Non
lo so".
Falmouth,
rosso in viso, intervenne. "Come hai potuto farli uscire? Non
conoscono questi luoghi e...".
Dwight
lo bloccò, incolpare Demelza non era davvero il caso. "I
bambini non avrebbero dovuto venire quì, non è
luogo adatto a loro!
E mi pare che siano abbastanza grandi e già abituati ad
uscire da
soli a Londra!".
Grato
per quanto detto, Ross lo guardò con stima. Dwight aveva
fatto molto
per la sua famiglia e a lungo aveva vegliato su tutti loro mentre lui
era lontano ed era felice che continuasse a farlo. Era un vero amico
e averlo ritrovato era per lui motivo di gioia e conforto.
"Già!
Demelza, sta tranquilla, li ritroveremo" – le
sussurrò,
accarezzandole il viso. Se c'era una madre amorevole ed attenta,
quella era Demelza! E nessuno doveva osare dirle alcunché su
come si
prendeva cura dei suoi figli. "Litigare fra noi non serve!
Cerchiamo i bambini, piuttosto! Non possono essersi allontanati
molto".
Falmouth,
spaventato, tentò ancora di argomentare. "I bambini escono
da
soli a Londra, al parco dietro casa! Ma quì...".
Con
gli occhi rossi, a quelle parole Demelza si rifugiò
nell'abbraccio
di Ross. "Perdonami...".
La
strinse a se, baciandola sulla nuca. Voleva che capisse che MAI le
avrebbe dato la colpa di quello, non ne aveva il diritto e ai suoi
occhi Demelza era la più meritevole fra le madri.
"Tranquilla,
andrà tutto bene".
I
bambini si avvicinarono per sentire cosa stessero dicendo, ma
Falmouth ordinò loro di tornare nella tenda, con Prudie.
"Dentro,
non è il momento di bighellonare!".
Ross
osservò i bimbi. I maschietti erano preoccupati e Daisy
piangeva
sommessamente, ancora. Sembrava la più spaventata di tutti
mentre di
solito, di carattere, avrebbe battuto il piedino a terra, dato degli
stupidi ai fratelli e si sarebbe lanciata a cercarli. E se...?
La
bimba lo fissò, si avvicinò a lui e si
rannicchiò nel suo petto.
"Il nostro segreto nuovo?" - mormorò.
Ross
sospirò, accarezzandole i capelli biondi ormai zuppi di
pioggia.
"Non è il momento, ora" – le disse dolcemente.
Spazientito
e terribilmente in ansia, Falmouth tentò di prendere la
bambina.
"Daisy, ai giochi ci pensiamo dopo! Lo hai capito o no che i
tuoi fratelli sono spariti?".
Demelza
tentò di andare in soccorso della figlia, sconvolta quanto
lei e che
di certo non necessitava di sgridate. "Daisy, vieni quì!".
Ma
Ross la bloccò. Osservò gli occhioni della bimba
e capì che quel
loro nuovo segreto doveva essere svelato subito e che forse sarebbe
stato la chiave per capire e risolvere la situazione. Daisy non
piangeva mai e se in quel periodo lo faceva spesso, un motivo ci
doveva essere! E quel cambiamento iniziato in concomitanza al
cambiamento di Jeremy e alla sua richiesta di mance lo faceva
decisamente propendere per ascoltare ciò che la piccola
aveva da
dire. "Lo dirai solo a me, Daisy?".
"Sì".
Demelza
annuì, forse capendo che Daisy andava davvero ascoltata. E
silenziosamente gli fece cenno di allontanarsi da solo con la
bambina. La ammirò in quel momento perché si
stava facendo da parte
per il bene dei suoi figli, senza gelosia per quella fiducia che
Daisy preferiva dare a lui piuttosto che a lei. In fondo senza
tentennamenti e gelosie, stavano già agendo come una squadra
come
una volta. "Andiamo" – disse alla piccola, allontanandosi
di alcuni passi.
Con
Daisy in braccio, si avvicinò al lago. "Daisy, io credo che
questo segreto che devi dirmi, sia il più importante di
sempre".
Lei
tacque, incerta.
E
Ross proseguì. "Ti fidi di me?" - le chiese, dolcemente.
Lei
annuì, scossa, spaventata, smarrita. Poi si
appoggiò a lui,
cingendogli il collo con le piccole braccia. "Se andiamo a casa
in fretta, loro...".
"Loro?
Jeremy e Clowance?" - la imbeccò. "Sai dove sono?".
"Vogliono
andare a casa" – sussurrò lei, contro il suo collo.
Per
un attimo Ross tirò un sospiro di sollievo. Se erano andati
a casa
perché annoiati, il tutto si sarebbe risolto con una grande
ramanzina. "Quì, al nostro maniero?".
Daisy
alzò il visino, seria e piuttosto arrabbiata. "No, non
quì!"
- sbottò, arrabbiata che non capisse al volo.
E
Ross entrò in panico. Se per casa, lei non intendeva il
maniero...
"L... Londra?".
Daisy
rimase zitta ma Ross a quel punto capì che doveva ottenere
da lei
qualsiasi informazione. "Daisy!" - le disse, in tono più
brusco di quello che avrebbe voluto, facendo chiudere la bimba in se.
Si
pentì subito. Era spaventato e preoccupato ma non poteva
farlo
pesare a lei che di certo si trovava in condizioni simili e da
più
tempo. "Daisy, scusa... Non voglio sgridarti o spaventarti ma
vedi... Piove, fa freddo e se non corro a cercare i tuoi fratelli,
finiranno col cacciarsi nei guai. Dove sono andati? Lo sai?".
Lei
giocò con la sua camicia, pensierosa, quasi in lotta con se
stessa.
"Se te lo dico, divento cattiva? Non sono più una brava coi
segreti?".
Ross
le accarezzò le testa, Daisy aveva bisogno di sentirsi brava
ed
importante e forse era normale cercare di emergere in una famiglia
tanto grande e competitiva e con così tanti bambini. "Daisy,
certi segreti non possono rimanere tali, se diventano pericolosi.
Certi segreti, se rivelati al momento giusto, ci fanno diventare solo
molto coraggiosi ed eroici".
Lei
sorrise, impercettibilmente. "Coraggiosa? Come i pirati delle
tue spiagge?".
"Anche
di più!".
"E
se Jeremy e Clowance si arrabbiano?".
"Non
lo faranno!" - tentò di tranquillizzarla – "Non lo
faranno perché ti vogliono bene e sanno che fai
ciò che fai, per
loro".
Daisy
a quel punto prese un profondo respiro, richiamò a se tutto
il suo
coraggio e alla fine parlò. "Vogliono andare da nonna, a
Londra. Jeremy ha messo via tanti soldini e io l'ho scoperto e mi ha
detto di tenere il suo segreto! Non mi piace come segreto
però, non
è un segreto bello come i nostri. Mi ha fatto venire mal di
pancia e
i sogni brutti".
L'ansia
lo assalì. Era chiaro, i suoi figli avevano elaborato un
piano per
scappare e non ne sapeva ancora il motivo anche se immaginava di
esserne una parte in causa, ma in quel momento tentò solo di
tranquillizzare la piccola Daisy. Tanta, troppa ansia avevano portato
le sue piccole spalle per lunghe giornate interminabili ed ora
comprendeva i suoi silenzi, i suoi pianti, il suo cambiamento. Era
una bimba troppo piccola per un dolore tanto grande come quello di
perdere i suoi fratelli maggiori che, senza padre, erano il suo punto
di riferimento da sempre e per quanto in gamba, era normale che fosse
entrata in crisi. Sospirò, convincendosi che in fondo non
potevano
essere andati troppo lontano e che se si metteva d'impegno, li
avrebbe raggiunti in breve tempo. "Sai perché sono andati
via?
Sono scappati?".
"Sì,
loro hanno paura di te!".
La
voce disarmante di Daisy e quella frase ancor più disarmante
e
dolorosa, lo ferirono. Anche se in fondo dentro di se, se lo
aspettava... "Di me?".
Daisy
annuì. "Dicono che li vuoi portare via dalla nonna e dagli
zii.
E da me e Demian e dalla nostra casa... E che farai piangere ancora
la mamma. Davvero li vuoi portare via? Io gli ho detto che
sbagliavano ma son voluti scappare lo stesso!".
Era
doloroso sentire quanto lo temessero Jeremy e Clowance, quanto
avessero paura di soffrire ancora a causa sua e quanto volessero
proteggere la loro mamma. Faceva male constatare quanto male
pensassero di lui, che lo vedessero come un mostro che voleva
distruggere il loro mondo e portarli via dai loro affetti e
capì...
Che la chiave per diventare migliore e tranquillizzarli, era
accettare la loro vita e il loro passato con Hugh. Non sostituirsi ma
continuare il percorso che loro avevano fatto con lui, quel percorso
iniziato a Londra tanti anni prima che aveva creato una nuova
famiglia e nuove vite. Era lui che doveva entrare in punta di piedi,
ora lo sapeva. Ross fece per rispondere a Daisy per tranquillizzarla,
ma si bloccò. Demelza, a piccoli passi, si era avvicinata
loro ed
ora li guardava con espressione terrorizzata. "Ross..." -
mormorò, con voce spezzata. Il suo viso era una maschera di
dolore e
senso di colpa e in quel momento doveva sentirsi piccola e spersa
quanto Daisy. E lui. Santo cielo, erano stati di nuovo felici loro
due e avevano pensato che col tempo, lo sarebbero stati anche i
bambini. Ma non erano stati capaci di affrontare le loro paure e ora
ne avrebbero pagato le conseguenze.
Daisy
si voltò, osservandola. "Mamma...".
Ross
la portò da lei. "Io non porterò mai nessuno via.
E nessuno
lascerà nessuno" – sussurrò, dando la
piccola a Demelza.
Daisy
sorrise, aggrappandosi a sua madre. "Io lo so, ma loro non mi
volevano credere".
Ross
le sorrise, nonostante il suo cuore fosse in tumulto e il senso di
colpa per il male fatto ai suoi figli e il loro volerlo adesso
lontano, tornava a colpirlo violentemente. Santo cielo, come aveva
potuto arrivare a quel punto? Sentì nella tasca il peso
improvvisamente insopportabile di quel cavallino che si portava
dietro da quasi otto anni, simbolo di tante promesse infrante e di
tanto tempo sprecato e pensò a quel suo bimbo che un tempo
lo
adorava e che ora rimpiangeva un altro padre, a quella sua bimba
bella ed aristocratica che adorava una lupa albina e capì
che doveva
lottare, ora! Che li rivoleva perché li amava e che non
c'era più
tempo da perdere. Ne aveva perso troppo, di tempo! Quando Jeremy era
nato, lui aveva avuto paura di amarlo e nonostante questo, suo
figlio lo aveva adorato e gli era sempre corso incontro ogni sera, al
suo ritorno a Nampara. Ma non sempre lo aveva accolto fra le sue
braccia, c'era altro nella sua mente allora e amare un figlio per poi
perderlo come Julia, aveva in un certo senso reso Jeremy invisibile
ai suoi occhi. E Clowance? Era mai stata nei suoi pensieri quando
Demelza era incinta? La risposta a quella domanda era molto dolorosa
perché a quei tempi la sua mente era votata unicamente ad
Elizabeth
e a quella vita utopistica ed imperfetta che non aveva potuto avere
con lei. Aveva dovuto perderli i suoi figli, per capire quanto avesse
bisogno di loro, di amarli e di essere riamato, aveva dovuto perdere
TUTTO per capire la sua idiozia e ritrovare se stesso. Li amava e
fin'ora non era stato davvero capace di dimostrargli quanto.
"Andrà
tutto bene, sta tranquilla". Sfiorò il volto di Demelza, la
baciò sulle labbra incurante che tutti lo vedessero. La
amava e
dimostrarlo al mondo era l'unica cosa che voleva! Amava tutti loro, i
suoi figli, i gemellini, quella strana e grande famiglia allargata.
Non avrebbe mai potuto far a meno di nessuno di loro! "Sta
tranquilla amore mio, non sono andati lontano!".
Daisy
lo fissò, come riponendo ogni speranza in lui. "Sono andati
sulla montagna... Jeremy aveva un disegno con la strada da fare. E mi
piace come chiami la mamma! Amore mio, è bello!".
Ross
le sorrise, era la sua alleata più preziosa. Santo cielo,
senza
saperlo Daisy gli stava indicando la strada... Si chinò,
baciandola
sulla testolina ed abbracciando entrambe. "Sono in debito con
te, Daisy. Lo sarò per tutta la vita per quello che mi hai
detto
oggi! Pensa a come posso sdebitarmi".
Lei
lo fissò seria. "Sta con me tutta la vita, allora!" -
disse, con una semplicità disarmante.
Ross
annuì. Non avrebbe MAI infranto quella promessa, non ne
avrebbe mai
infranta più nessuna. "Va bene, lo farò".
Falmouth,
Dwight, Valentine e Demian si avvicinarono. "E allora?" -
chiese il lord.
Ross
si avvicinò a Valentine, spaventato e silenzioso accanto a
Dwight
che lo teneva per mano. "Credo siano qua attorno, su queste
montagne. Stanno cercando di tornare a Londra, ci sono un pò
di cose
che li preoccupano e li hanno fatti scappare e sta a me sistemare le
cose".
"Scappare?
Ma come hanno potuto???" - sbottò Falmouth.
"ROSS!".
La
voce di Demelza, terrorizzata, gli fece ignorare l'esclamazione di
Falmouth e gli fece comprendere che doveva metterla al sicuro e agire
quanto prima. La pioggia si era fatta battente, tutti erano bagnati
come pulcini e cercarli insieme, con tre bambini piccoli, avrebbe
solo rallentato il tutto. "Sta tranquilla, al massimo si
buscheranno un brutto raffreddore e avranno un pessimo ricordo di
questa giornata. Vado a cercarli, voi tornate al maniero all'asciutto
e aspettatemi lì. Andrà tutto bene".
Guardò poi Dwight,
l'amico di cui si fidava più di tutti, come un fratello.
"Portali
a casa, Dwight. Io vi raggiungerò appena possibile. Prendo
un
cavallo di quelli della carrozza e appena li recupero, sarò
da voi".
Dwight
annuì, capendo che non poteva controbattere. "Ok".
Demelza
fece per protestare ma la voce di Valentine soffocò la sua.
"Papà,
non andare! Ho paura, non conosco questo posto e non voglio stare da
solo! E se ti perdi e non torni?" - chiese, spaventato.
Ross
gli sorrise, accarezzandogli la testolina. Nemmeno con lui era stato
un buon padre e a lungo aveva ignorato il suo silenzioso grido di
ricerca di amore ed attenzioni. Era un bambino delicato, fragile,
sensibile e solitario e solo con l'arrivo a Londra era rifiorito,
insieme a lui. Amava Valentine e anche se il processo per arrivare a
questo era stato lungo e tortuoso per tanti motivi, anche se per
molto aveva ingiustamente raffrontato la sua nascita ai peggiori
disastri della vita di molti, voleva che capisse che per lui era
importante e fondamentale. Non glielo aveva mai detto... Si tolse il
tricorno mettendoglielo in testa e il cappello, troppo grande per il
bambino, gli scivolò sugli occhi facendolo ridere.
"Papà!".
Ross
glielo sistemò meglio. "E' il cappello del comando! Per
bambini
speciali a cui chiedere di fare cose speciali". Osservò i
gemellini, Daisy in braccio a Demelza e Demian rannicchiato alla
gamba di suo zio e decise che anche quella triste situazione poteva
diventare per tutti un piccolo mattoncino per le fondamenta della
famiglia che sarebbe stata dove ognuno si sarebbe ritagliato un suo
ruolo e nessuno sarebbe stato più escluso. "Valentine,
Jeremy e
Clowance ora non sono quì e sai, loro son sempre stati bravi
fratelli maggiori e si sono sempre presi cura dei gemellini e della
loro mamma. Posso chiedere a te di fare altrettanto, mentre sono via?
E' una cosa speciale e posso solo chiederla a qualcuno di speciale di
cui mi fido".
Valentine
tremò dall'emozione, spalancando i suoi grandi occhi neri.
Non aveva
mai avuto responsabilità in vita sua e sapeva quanto suo
padre
tenesse a Demelza e ai piccoli Boscawen. E se li aveva affidati a
lui... Arrossì, deglutendo. "Sì, certo"
– disse, con
voce spezzata, mettendosi serio e sull'attenti come se fosse un
soldatino.
"Bravo
bambino, sono fiero di te". Ross gli sorrise, tornando a
guardare poi Demelza. Le accarezzò il viso, le sorrise e poi
la
strinse a se con Daisy. "Tranquilla, torno presto! Con loro!".
Lei
nascose il viso contro il suo petto. "E' colpa mia?".
La
strinse ancora più forte. "No, tutto questo non è
MAI stato
colpa tua. Ma mia! E devo riparare agli errori fatti".
Falmouth
annuì. "Esatto! Siete padre e volete o no guadagnarvi questo
diritto agli occhi del mondo?".
Ross
alzò le spalle. "Non agli occhi del mondo, mi basta esserlo
agli occhi dei miei figli!".
"E
allora andate! Vi aspetteremo al maniero" – rispose Falmouth,
prendendo Demelza sotto braccio.
Dwight
gli diede una pacca sulla spalla. "Li porto al sicuro e poi
vengo a darti una mano! Quattro occhi sono meglio di due!".
"D'accordo!"
- rispose Ross, prima di andare a prendere uno dei cavalli.
"Buona
fortuna, signore" – sussurrò Prudie, rimasta in
disparte con
espressione terrea. "Riportateli a casa... Riportateci a casa...
Tutti!".
Casa...
C'era molto più di una semplice parola, in
quell'espressione. Molto
più di quello che Prudie, lui o Demelza potessero dire ad
alta voce,
molto più di quello che Lord Falmouth potesse capire, c'era
il
futuro di tutti loro in gioco, in quelle semplici quattro lettere.
Casa... Sì, li avrebbe riportati tutti a casa.
Baciò
nuovamente Demelza, le accarezzò i capelli e poi
partì, lasciando
che loro tornassero al maniero, al sicuro.
...
Il
cuore di Demelza era spezzato, in tumulto e pieno di terrore e
preoccupazioni. Santo cielo, come aveva potuto non accorgersi del
piano di Jeremy e Clowance? Come aveva potuto essere tanto egoista da
pensare solo alla sua felicità a discapito dei suoi bambini?
Come
aveva potuto??? Se n'era accorta Daisy di quanto stava succedendo e
non lei! Dannazione, dannazione!!! Si sentiva orribile come quando,
tanti anni prima, aveva scoperto di non essere stata accanto a Julia
nei suoi ultimi istanti di vita.
Ripensò
a sua madre, alla sua breve vita piena di dolore e miseria, che
sempre aveva avuto un pensiero per tutti i suoi figli. A lei mai era
sfuggito qualcosa! Ed era povera, senza istruzione, sempre senza
soldi e cibo, con un marito orribile, eppure... Eppure si era presa
cura di lei e dei suoi fratelli con amore! E invece la grande ed
ammirata Lady Boscawen, coi suoi gioielli, il suo denaro, i suoi bei
vestiti e i suoi tanti servitori? Come aveva potuto non comprendere
il disagio di due dei suoi figli, quelli che aveva giurato di
proteggere da tutto e tutti in un giorno nevoso di tanti anni prima,
quando col cuore a pezzi aveva lasciato la Cornovaglia?
Appena
furono in casa all'asciutto, nell'atrio, decise che non poteva
restare con le mani in mano mentre Ross faceva tutto. Lui era stato
dolce, l'aveva rassicurata e non giudicata, si era preso tutta la
responsabilità per quanto successo ma non era giusto!
Entrambi
avevano sbagliato e lei sarebbe impazzita a star lì, ferma e
in
attesa, mentre i suoi figli correvano rischi e pericoli in terra
straniera, sotto la pioggia battente e col cuore a pezzi e pieno di
paure.
Si
inginocchiò davanti ai gemelli e Valentine, accarezzando i
capelli
di tutti e tre. "Valentine, farai ciò che ti ha chiesto il
papà?".
Lui
annuì. "Sì, farò il fratello maggiore
al posto di Jeremy e
Clowance! Sarò bravo, curerò bene tutti!".
"Bene,
e allora mi fido di te! Sarò tranquilla nel sapere i gemelli
nelle
tue mani, mentre sarò via".
Demian
le si aggrappò alla gonna e Falmouth e Dwight entrarono in
allarme.
"Mamma, dove vai anche tu?".
"Demelza!!!"
- tuonò Falmouth, per nulla d'accordo sul fatto che lei
uscisse.
Lei
guardò Dwight che la conosceva da anni e sapeva benissimo
che non se
ne sarebbe stata buona buona come un uccellino in gabbia, senza far
niente. Dwight la conosceva! Non Lady Boscawen ma la fiera figlia di
un minatore che era stata e che ancora era! "Vengo con te,
facciamo sellare due cavalli!".
"No!"
- ordinò Falmouth. "Piove e una signora...".
"Sono
una madre soprattutto, non una signora! E i miei figli sono la fuori,
chissà dove, bisognosi di me!" - rispose, a tono. Spesso lei
e
Falmouth si erano scontrati su questioni riguardanti i bambini e a
volte l'aveva avuta vinta lui, a volte lei. Ma stavolta non avrebbe
ceduto! Era vero, era pericoloso ed era anche incinta. Amava la
piccolina che aspettava tanto quanto ogni suo figlio, la gravidanza
non dava problemi e tutto si sarebbe risolto entro sera. Non avrebbe
lasciato da soli i bambini, così come non avrebbe lasciato
solo Ross
in quella ricerca disperata.
Dwight
annuì. "Lord Falmouth, farle cambiare idea è
impossibile. E'
una madre, soprattutto questo! Lasciatela fare, mi prenderò
io cura
di lei".
Prudie
sospirò. "Se la signora si mette in testa qualcosa e
c'è in
gioco la vita dei suoi figli, sfiderebbe il diavolo in persona!
Giuda, lasciatela andare!".
Demelza
sorrise ad entrambi, Dwight e Prudie la conoscevano davvero come le
loro tasche e ogni loro parola e gesto verso di lei la riportava alla
Cornovaglia, a ciò che era stata e che ancora era. "Grazie".
Guardò i gemellini, li strinse a se e li baciò.
"Fate i bravi,
sia con Prudie che con lo zio e Valentine. Io tornerò
presto. E
tu..." - sussurrò, rivolta a Daisy – "Basta
piangere!
Ora ci pensano i grandi a risolvere tutto! Puoi tornare ad essere
un'orsetta dispettosa!".
Daisy,
nonostante la preoccupazione, sorrise. "Sì... Amore
mio"
– rispose scherzosa, imitando la voce di Ross.
Anche
Demelza rise, nonostante tutto. Santo cielo, per fortuna sembrava
stare meglio ed avere abbastanza fiducia in tutti loro per tornare ad
essere birichina ed irriverente.
Si
avvicinò a Dwight e improvvisamente, le venne in mente
qualcosa...
qualcuno... che avrebbero potuto aiutarla.
Perché aveva
permesso a Jeremy e Clowance di adottare Fox e Queen? Perché
grazie
a Garrick conosceva l'amore e la fedeltà di un cane, ovvio!
Perché
voleva che avessero due amici fidati che mai li avrebbero traditi!
Perché voleva che li proteggessero! E chi meglio di un cane,
sa
fiutare la traccia del suo padrone disperso? "Dwight!".
"Sì!".
"Fox
e Queen! Portiamoli con noi!".
Dwight
spalancò gli occhi, incredulo di non averci pensato prima!
"Giusto!
I cani sono l'arma migliore che una persona ha a disposizione, quando
si è in cerca di qualcuno!".
Demelza
si rivolse a Prudie. "Portali quì!".
La
serva annuì, correndo via con insolita solerzia. E quando
tornò col
piccolo Fox e la fiera Queen, Demelza li abbracciò,
accarezzando il
loro morbido pelo. "I vostri padroni si sono persi, ci aiutate a
ritrovarli?".
Fox
saltellò, Queen le poggiò il viso contro la
guancia, con la sua
classica espressione grave e seria. E Demelza capì che come
Garrick
si era preso sempre cura di lei, anche loro avrebbero fatto
altrettanto per Jeremy e Clowance. Erano i suoi migliori alleati!
"Andiamo!" - disse infine, risoluta.
E
con i cani e Dwight, uscì sfidando la pioggia, il freddo e
il clima
ostile della Cornovaglia.
Tutti
sarebbero tornati a casa, TUTTI!
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Capitolo 72 *** Capitolo settantadue ***
Jeremy
non ricordava di essere mai stato tanto bagnato in vita sua.
La
pioggia era scrosciante, l’umidità gli stava
penetrando nelle ossa
e il terreno dei sentieri di montagna, reso denso e scivoloso dal
fango, lo faceva incespicare e cadere ogni due passi. E la compagnia
di Clowance che si lamentava per il freddo, per i capelli bagnati e
il vestito non più fresco e lindo, non aiutava il suo umore.
Era
difficile scappare, era stato difficile deciderlo e sembrava ora
impossibile portare a termine quel piano. La strada era impervia e
sconosciuta, il terreno fangoso e insidioso e il pensiero di cosa
stesse provando sua madre in quel momento gli toglievano il fiato.
Jeremy
sapeva che sua madre, che sorrideva sempre, in realtà nella
vita
aveva affrontato tante prove difficili e dolorose e di certo MAI
avrebbe voluto essere lui ad infliggerle un nuovo dispiacere, ma che
doveva fare? Aveva sempre cercato di essere buono, ubbidiente e
responsabile soprattutto per lei ma ora si rendeva conto di non
essere che un bambino spaventato che, come ogni bimbo in
difficoltà,
scappa e si sente smarrito.
Jeremy
aveva osservato a lungo in quei giorni Ross Poldark, cercando nella
sua mente immagini che lo riportassero alla sua prima infanzia in
Cornovaglia. Ma di lui, eccetto qualche sfuocato ricordo, non aveva
nulla. Se pensava a un padre gli veniva in mente Hugh che gli
insegnava a leggere e a fare lavoretti da dare in dono alla mamma, a
Hugh che con lui aveva costruito la casetta sull’albero, a
Hugh che
portava tutti di notte ai giardini di Kensington per far dormire i
gemelli, a Hugh che inventava storie di fate e folletti per lui e
Clowance…
Non
aveva ricordi di Ross Poldark eccetto uno, molto sfuocato, di una
promessa mai mantenuta. Se avessero mai fatto cose insieme, se avesse
giocato con lui, se gli fosse stato vicino in Cornovaglia, Jeremy non
sapeva nulla.
Era
difficile capire chi lui fosse eppure sua madre, nonostante tutto,
sembrava felice di riaverlo vicino. Gli aveva dato un’altra
occasione e anche se Jeremy sapeva che sua madre aveva un cuore
grande e sapeva perdonare, era anche consapevole di quanto fosse
acuta ed intelligente. E una persona intelligente fa sempre passi
pensati e precisi, non fa errori di valutazione. Quindi se sua madre
si fidava, perché lui e Clowance non riuscivano a fare
altrettanto?
Semplice, perché non lo conoscevano e lui non si era fatto
conoscere
e quel poco che aveva fatto, spesso a Jeremy non era piaciuto. Non
voleva, non sopportava che Ross Poldark si mettesse in competizione
col ricordo di Hugh e con ciò che era stato, mai avrebbe
permesso a
qualcuno di offuscarne l’immagine! In lui e in chi Hugh aveva
amato! E Ross Poldark questo, sembrava voler fare!
Sembrava
diverso da Hugh ed era
difficile per lui
capire come sua madre avesse potuto amare due uomini tanto differenti
fra loro! Ross
Poldark era forte, a volte
invadente, dai modi decisi e poco incline alle buone maniere e alle
mezze misure. Era un uomo… di comando… Un leader,
avrebbe detto
suo zio! Era una buona cosa essere leader? Nemmeno questo, Jeremy
sapeva. Lui ricordava Hugh e in lui aveva trovato un
modello
da seguire e a cui ispirarsi, anche se sua madre ultimamente, gli
aveva più volte detto che aveva la testa dura dei Poldark e
non
l'animo poetico e giudizioso degli Armitage. Ma non voleva essere
testone, voleva essere davvero un bravo e tranquillo bambino. A lui
piaceva costruire le cose dal nulla come la casetta sull'albero,
piaceva leggere e raccontare storie ai suoi fratelli e cercava di
essere il modello di uomo educato, elegante e che mai esce dalle
righe che era stato Hugh. Così voleva essere, da grande! Non
come
Ross Poldark, lui aveva fatto cose orribili a lui, a sua sorella e
soprattutto alla sua mamma. Non voleva diventare un uomo che tradisce
sua moglie, che abbandona i suoi figli e poi si fa per anni i fatti
suoi. Sua madre diceva che Ross Poldark soffriva per i suoi errori
passati, che li aveva ammessi tutti e aveva fatto ammenda, che li
amava e che avrebbe dato la vita per loro ma Jeremy non gli credeva.
Dare la vita per un bambino che nemmeno porta il tuo cognome? Sarebbe
stata la più folle delle decisioni!
Con
questa marea di pensieri che gli annebbiavano l'animo,
accelerò il
passo, cadendo nuovamente nel fango. "Al diavolo! Che si porti
via questa dannata pioggia!".
Clowance,
col fiato corto, le gote rosse dalla sforzo e il vestito chiazzato di
terra, gli corse vicino, cadendo pure lei. "Jeremy! Non si cade
e se lo fai, non si impreca! Anche io sono caduta senza imprecare!".
Jeremy
alzò gli occhi al cielo. Santo cielo, non era proprio il
caso di
fare la Lady in quel posto dimenticato da Dio in Scozia, in montagna
e sotto una pioggia incessante. Però in effetti aveva
ragione, aveva
imprecato! Hugh non lo avrebbe fatto, forse Ross Poldark sì!
Uffa,
non voleva somigliare a lui, c'era già Daisy che diceva
parolacce
che la rendevano poco Boscawen! "Scusa, ma sono stanco di
cadere! Alla fine uno le parolacce le dice!".
"Non
un Lord!" - rispose Clowance, allungando la manina per aiutarlo
a rialzarsi.
Il
bambino si tirò su, cercando di pulirsi i pantaloni con le
mani,
anche se con scarsi risultati. "Cado e mi sporco, mi alzo e la
pioggia mi lava e poi ricado e mi risporco. E sarà
così fino a
Londra".
Terrorizzata
da quelle previsioni catastrofiche, Clowance si guardò
attorno,
sconsolata. "Manca molto?".
"A
cosa?".
"Londra".
Jeremy
le diede una leggera spinta scherzosa. Il fatto che fosse una somara
negli studi le rendeva impossibile capire le distanze. "Mancano
dieci passi meno di prima, quando me l'hai chiesto di nuovo!".
Clowance
si imbronciò, prendendolo per mano in cerca di coraggio e
supporto.
"Forse scappare così non è stata proprio un'idea
perfetta.
Forse dovevamo parlare con mamma, dirle di cosa avevamo paura...".
Era
d'accordo – in parte – anche se... "E il signor
Poldark?
Dove ce lo metti?".
"E'
un orco cattivo, secondo te? Ha salvato Queen" –
tentò di
argomentare la bambina.
"Non
era moribonda, Clowance! Queen aveva solo una spina nella zampa e
anche a Fox è successo molte volte".
"Ma
Queen è una lupa di razza e i cani di razza sono delicati!
Non come
il tuo stupido cane NON di razza! Non lo sai, somaro?".
Jeremy
si imbronciò, guai a chi gli toccava il suo Fox che gli
mancava da
morire e avrebbe voluto con se. Ma poi capì che non era il
momento
di litigare. "Non so se lui è un orco. Il signor Poldark,
intendo... Una volta lo è stato, il più cattivo
di tutti. Mamma
dice che lo sa...".
"E
ora?" - chiese Clowance.
Jeremy
alzò le spalle. "Ora piace a tutti! A mamma, allo zio, ai
gemelli e anche a Prudie! A noi no, però! Bisogna capire chi
ha
ragione e chi sbaglia".
Clowance
ci pensò su mentre a tentoni, procedevano nella boscaglia
più
fitta. "E' quì il problema! Ma tu ce lo vedi a farci da
padre?".
Jeremy
scosse la testa, mentre un groppone gli si formava in gola. "No...
Io solo un padre vorrei, Hugh! Non uno che vuole cancellarlo! Sembra
che tutti vogliano cancellarlo! Anche la mamma! E i gemelli!!! Loro
sono i peggio di tutti, era il loro padre vero e ora se Daisy piange
perché è preoccupata, gli sta bene! E' una
traditrice!".
Clowance
calciò un sassolino, nervosamente. "No, dai! I gemelli non
sono
traditori, non Daisy! Demian forse, che per stare attaccato a mamma
venderebbe tutti i suoi giochi e pure noi, ma non Daisy! Loro non lo
hanno conosciuto il loro papà vero. E...".
Clowance
si bloccò e Jeremy la guardò incuriosito. "E?".
La
piccola sospirò. "E nemmeno noi... Forse non è
che uno che è
papà, non deve sbagliare per forza! Magari anche le mamme e
i papà
a volte sbagliano".
Jeremy
si alterò! Accidenti a lei, era stata un'idea sua la fuga e
ora già
ci stava ripensando, quando tornare sarebbe comunque stato difficile.
"Lo dici solo perché ti sei accorta che si fa fatica a
scappare".
Lei,
punta sul vivo, picchiò il piede in terra. "No, lo dico
perché
ci ho pensato!".
Jeremy
scostò il viso da lei, guardando per terra come se il fango
fosse
stato improvvisamente molto interessante da osservare. Forse Clowance
non sbagliava, non del tutto, forse se lasciava da parte dolore e
rancore poteva vedere un uomo che aveva sbagliato e che stava
cercando di porre rimedio ai suoi errori e di avere vicino le persone
che amava... Forse... Scosse la testa, non voleva pensarci.
"Andiamo!" - disse, risoluto, prendendola per mano.
"A
Londra?".
"Per
ora, mi basta uscire da questo bosco e superare queste montagne!"
- rispose lui, nervoso e spaventato. Come avrebbero potuto farcela?
Ora che stava vivendo quell'avventura, Jeremy si rese conto
dell'enormità di quanto avevano deciso lui e Clowance. C'era
una
terra straniera ed insopitale da attraversare, pioggia, fame e mille
altri pericoli sulla strada che portava alla bella residenza dei
Boscawen a Londra. Tanto, troppo per due bambini soli...
Pensò
a quanto detto da Clowance e in silenzio, in cuor suo, sperò
che
avesse ragione e che non esistesse nessun orco ma solo un uomo che
aveva sbagliato e ora voleva fare ammenda con la famiglia che aveva
lasciato. Ci sperò, sperò di essere lui a
sbagliare, quella volta.
E non sentì di tradire la memoria di Hugh nel fare questo,
Hugh
sarebbe sempre rimasto nel suo cuore. Ma la voglia di essere salvato
e di 'appartenere' a qualcuno, fu più forte di tutto il
resto. E
meno speditamente, forse nella speranza di essere trovato,
proseguì
nel suo cammino. Anche se c'era ancora una questione da risolvere,
ora che ci pensava... "Clowance?".
"Sì?".
"Fox
non è uno stupido cane NON di razza!".
"Ma
non è di razza" – gli fece notare lei, col fiato
corto.
"Sì,
vero! Ma questo non importa, non è stupido ed è
fedele quanto
Queen! E se fosse quì ci sarebbe più d'aiuto di
una lupa".
Clowance
lo fissò, con aria di sfida. "Una lupa ci procurerebbe cibo,
cacciandolo... Fox giocherebbe tutto il tempo e correrebbe come uno
smidollato avanti e indietro con un bastone in bocca, nella speranza
che tu lo prenda e glielo lanci. E questo non ci riempirebbe la
pancia" - osservò con fare furbo.
Jeremy
rise, non la faceva tanto pratica e temeraria. Era un lato di lei che
non conosceva e che di certo non poteva aver sviluppato a Londra, fra
lustrini, case delle bambole e fiocchi. E se sua madre avesse
ragione? Se in loro fosse presente un lato che ancora non
conoscevano, che derivava dalle loro origini Poldark? Decise di
metterla alla prova... "Urleresti e piangeresti in modo isterico
se vedessi Queen attaccare ed uccidere qualche coniglio. Quando i
lupi attaccano, scorre molto sangue... E a te fa impressione".
Clowance
alzò le spalle, dimostrandosi ancora una volta molto pratica
e molto
poco Boscawen. "Non se ho fame! Se ho fame, nessun cibo e nessun
modo in cui mi viene portato, mi fa impressione".
A
bocca aperta Jeremy la osservò, trovando finalmente
divertente
quella loro fuga, durante quello scambio di opinioni e botta e
risposta che mai potevano avere a tu per tu a Londra, con tanta gente
e amici attorno a loro. "E i tuoi vestiti sporchi?".
Clowance
si guardò, sconsolata. "Questi sì, questi
sì che mi fanno
impressione" – concluse, definendo perentoriamente quali
fossero le sue priorità, nonostante tutto. "E comunque
Jeremy,
no... Fox non è stupido. Ma un pò ordinario...".
"A
me piacciono le cose ordinarie, sono le più semplici da
amare".
Clowance
sospirò, non trovando modo di ribattere.
E
silenziosamente proseguirono il loro difficile cammino fatto di
momenti difficili in cui pensieri complessi prendevano possesso di
loro e momenti più semplici, dove essere solo bambini che
litigavano
per chi avesse il cane migliore.
...
Forse
tanta pioggia così l’aveva presa solo a
vent’anni, quand’era
soldato in Virginia. Anche allora correva sotto la pioggia per
qualcosa di fondamentale, spesso per salvarsi la vita. E ora, ora non
correva come un forsennato, percorrendo quei sentieri impervi e
fangosi, per qualcosa di forse più importante? Non la sua
vita,
stava correndo per la vita dei suoi figli. E questo gli dava
l’energia di scalare ogni montagna del mondo, se fosse stato
necessario.
Ross
lo sapeva benissimo di non essere mai stato un buon padre per Jeremy
e Clowance. Dopo la morte di Julia aveva rifiutato non solo la
paternità ma anche gli intrinsechi valori di un matrimonio,
quei
valori in cui credeva ciecamente ma che, con la morte di un figlio,
ti fanno capire che oltre alle gioie, amare significa a volte anche
soffrire. Era sfuggito da quella sofferenza, cercando il mondo
perfetto dei vent’anni, degli amori idealizzati e senza
crepe,
illusori come ogni chimera. E così facendo aveva perso non
solo il
rispetto verso se stesso ma anche la donna che davvero amava e che
con lui, come promesso il giorno del loro sì, aveva sempre
condiviso
gioie e dolori. Aveva perso Jeremy e forse non l’aveva mai
avuto
perché di fatto, onestamente, non poteva dire di essersene
mai preso
cura. Hugh Armitage l’aveva fatto, non lui. MAI! Mai, nemmeno
quando Jeremy era nato e viveva a Nampara. Poteva dirsi, raccontarsi
di aver avuto paura ma questo si era tradotto nel peggiore dei
peccati per un genitore, aver abbandonato a se stesso un figlio che
quando la sera tornava a casa sempre gli correva incontro, ma lui non
era mai stato capace di prenderlo davvero e stringerlo a se. Correva
da Elizabeth, ogni sua fibra e risorsa erano per lei e Jeoffrey
Charles perché così era più facile,
bello, ideale e perfetto. Non
si rendeva conto del male che faceva a Demelza e a Jeremy,
egoisticamente aveva sempre pensato a se stesso in quel momento fosco
della sua vita. A se stesso, a Trenwith, alla miniera, ai minatori, a
qualsiasi cosa che non fosse famiglia perché la famiglia lo
aveva
lacerato, ferito, sconfitto e gli aveva lasciato una grossa scia di
dolore nel cuore e lui quel dolore lo voleva lontano, voleva
sfuggirgli e lo aveva fatto, con ogni mezzo a sua disposizione. E si
era perso tutto, non solo la sofferenza e la brutalità che
poteva
avere il destino sull’esistenza delle persone a lui legate,
ma
anche e soprattutto il bello e la vera essenza del vivere con chi ci
ama e amiamo davvero.
Demelza
era fuggita, con Jeremy e con una piccola bimba che nemmeno aveva
avuto il coraggio di andare a conoscere perché troppo aveva
sbagliato per tornare indietro e vedere Clowance e ritrovare in lei
tracce di Julia, l’avrebbero reso incapace di proseguire nel
cammino di espiazione delle sue colpe che si era imposto.
E
così aveva ritrovato sei anni, per puro caso dopo che a
lungo li
aveva creduti persi per sempre, una Demelza diversa, una grande Lady
di una grande città, a capo di uno dei casati più
nobili e potenti
di Londra, Jeremy ormai quasi ragazzino che non lo ricordava
più e
che aveva scelto un altro come padre e poi Clowance, piccola fiera,
testarda principessa che aveva ottenuto persino il rispetto e
l’obbedienza di una selvaggia e sfuggente lupa albina.
La
sua famiglia e allo stesso tempo, a lungo, tre estranei…
E
ora doveva riconquistarli. Non solo Demelza, che in fondo lo aveva
sempre conosciuto con i suoi pregi e le sue ombre, ma i suoi figli.
Loro no, non lo conoscevano e forse mai avrebbero voluto farlo ma
doveva tentarci. E essere capace di accettare la sconfitta nel caso,
ma solo dopo una battaglia all’ultimo sangue per loro.
Perché per
quanto avesse avuto paura li aveva sempre amati fin
dall’inizio e
nonostante il buio della sua mente e i suoi errori, loro erano stati
la luce che aveva illuminato la sua vita e voleva che lo sapessero.
Si
arrampicò sui sentieri sterrati, stretti e scivolosi, invasi
da una
vegetazione sempre più fitta e minacciosa. Aveva preso
l’unico
sentiero che portava alla montagna, il più vicino quanto
meno, e
aveva camminato a grandi falcate seguendo il consiglio di Daisy che
gli aveva indicato quella via da seguire.
Il
fiato gli si fece più corto a causa del freddo e dello
sforzo. No,
non aveva decisamente più la stessa resistenza dei suoi
vent’anni…
Ma aveva dalla sua che i due fuggitivi erano ancora piccoli, con le
gambe corte e probabilmente lenti. O almeno, lo sperava!
Un
improvviso tuono lo fece sobbalzare e alcune lepri, nascoste fra la
vegetazione, gli saltellarono veloci davanti agli occhi in cerca di
riparo. Ecco dove si era rifugiata la preziosa cacciagione di
Falmouth…
Sorrise,
quasi rasserenato dal vedere quegli esseri veloci, liberi ed
indipendenti che saltellavano via, lontani da fucili e pericoli. Ma
poi tornò serio. I suoi figli, doveva recuperarli!
Allungò
il passo e arrivò a un piccolo altipiano fra alberi e
grotte, dove
il dislivello era quasi nullo. Le piante erano alte e rigogliose e
impedivano alla poca luce di arrivare a terra, rendendo tutto ancora
più cupo e freddo. Ma quanto meno riparavano dalla pioggia e
in
parte rendevano il terreno meno scivoloso.
Ross
si guardò attorno, attento a fiutare ogni minimo movimento e
alla
fine, a terra, vide quattro piccole impronte infantili che
proseguivano nella direzione che lui stava percorrendo. Erano loro,
era sulla strada giusta! Nessuno poteva essere passato di lì
se non
Clowance e Jeremy! E le impronte parevano fresche, segno che i due
bambini erano transitati di lì da poco.
Si
sentì stranamente orgoglioso di loro, nonostante la pioggia
e le
scarpette di vernice di Clowance, ne avevano percorsa di strada. Pure
lui da piccolo, forse a sette anni, era scappato, ma era arrivato
solo alla spiaggia e suo padre lo aveva riacciuffato subito,
facendogli diventare il sedere viola a suon di sculacciate.
Ma
se erano tanto veloci da essere arrivati fin lì, lui doveva
sbrigarsi. La giornata era talmente cupa che presto sarebbe diventato
buio e non voleva assolutamente pensare all'ipotesi che i suoi figli
trascorressero da soli la notte in quel luogo. Per quanto svegli,
sarebbe stata una sfida troppo grossa per loro e Demelza sarebbe
morta di preoccupazione. Aveva promesso di riportarli a casa subito e
lo avrebbe fatto!
Accelerò
il passo e percorse a grandi falcate il falsopiano, arrivando poi nei
pressi di un nuovo fitto bosco. La vegetazione era più
selvaggia e
il sentiero lasciò il posto e un piccolo acciotolato
sconnesso che
si inerpicava su per la montagna.
Ross
prese a salire, di nuovo, mentre il freddo gli penetrava nelle ossa.
Santo cielo, che luogo orribile che era la Scozia! L'unica cosa buona
nata in quel posto erano i gemelli, per il resto era un luogo che
avrebbe volentieri cancellato da ogni mappa!
Stringendo
i denti salì ancora, costretto talvolta a sorreggersi agli
spuntoni
di roccia per non cadere giù. Se il sentiero era stato fonte
di guai
con il fango, quì rischiava di cadere a causa delle rocce
bagnate
che non davano ai suoi piedi un appoggio fermo.
Improvvisamente
un urlo ruppe lo strano stato di quiete dell'aria. Ross si
guardò
attorno preoccupato, mentre il sangue gli gelava nelle vene. Era la
voce di Clowance, poteva giurarci! E se aveva urlato, voleva dire che
era vicina ed in pericolo!
Salì
ancora più rapidamente, chiamandola a gran voce. "CLOWANCE,
JEREMY! Sto arrivando, non muovetevi!". Certo, era sciocco, se
lo avessero sentito avvicinarsi sarebbero scappati ma doveva almeno
provarci.
Spinto
dalla disperazione salì rapidamente verso la direzione da
cui aveva
sentito provenire l'urlo e finalmente li vide.
Infreddoliti,
bagnati e sporchi, camminavano con passo poco convinto fra gli
alberi, aiutandosi a far presa con le mani dove la salita era
più
ripida.
Tirò
un sospiro di sollievo, sembrava stessero bene... "Jeremy,
Clowance!" - li richiamò, rendendosi conto solo in quel
momento
di quanto fosse difficile essere genitore e fare la cosa giusta.
I
bimbi si voltarono, spalancando gli occhi. Della sua presenza, si
erano resi conto solo in quell'istante.
Ross
si bloccò per non spaventarli. Clowance aveva un ginocchio
sbucciato, poteva vederlo bene e anche se non sembrava nulla di
grave, doveva essere per quello che aveva urlato. "Bambini,
state fermi, ora vengo a prendervi".
Jeremy
guardò Clowance poi lui, con sguardo duro. "No, state
lontano!
Non vi vogliamo quì, noi stiamo andando via per i fatti
nostri!".
Ross
si morse il labbro. Fino a quel momento era stato arrendevole e si
era attenuto ai consigli dati da Demelza ma adesso basta fare la
pecora silenziosa, ora doveva fare il padre e un padre prende in mano
la situazione nel modo che ritiene più giusto, anche andando
contro
ai suoi figli se è per il loro bene. "Jeremy, sta piovendo,
siete in un luogo isolato e sconosciuto, siete senza cibo e soldi e
presto sarà buio".
"Non
sono affari vostri!" - tuonò il ragazzino, senza muoversi di
una virgola. "Chi vi ha detto che eravamo quì? Daisy la
spia?".
Ross
non si fece scoraggiare e decise che difendere Daisy era la cosa
primaria in quel momento, per il bene della piccola e anche
perché i
suoi fratelli capissero quanto lei li amasse. "Daisy non è
una
spia, Daisy vi vuole bene ed è più assennata di
voi due!".
"Noi
siamo assennati!" - borbottò Clowance, massaggiandosi il
ginocchio.
Jeremy
annuì. "Esatto! Abbiamo soldi e cibo, non siamo due bambini
scemi!".
Ross
si avvicinò di alcuni passi. "Lo so che non siete scemi e
proprio per questo Jeremy, sei grande abbastanza da capirlo da solo!
Con poche monete non arriverai a Londra e non basterà un
tozzo di
pane a tenervi in piedi. Vostra madre è preoccupata, su
torniamo a
casa!".
Clowance
divenne rossa in viso, come se la rabbia stesse esplodendo in lei
tutta in una volta. "Noi stiamo tornando a casa! La NOSTRA! A
Londra! La casa che ci volete far perdere!".
Ross
sospirò, allargando le braccia. La pioggia si era fatta
ancora più
battente ma era come se non la avvertisse, tanto era concentrato sui
suoi figli. "Perdere! Io non voglio farvi perdere proprio niente
e se veniste quì e ne parlassimo, ci chiariremmo meglio!".
"No!"
- rispose Jeremy, voltandosi e correndo via.
Ross
entrò in panico ma la sua reazione fu veloce. Con un
balzò corse
verso di loro e anche se Jeremy fu abbastanza veloce da sfuggirgli,
Clowance non lo fu altrettanto, con le sue scarpette di vernice e il
ginocchio sbucciato. La raggiunse, la afferrò per la vita e
la prese
in braccio, bloccandola.
"Lasciami!"
- gridò la bambina, divincolandosi.
Jeremy
si bloccò, voltandosi. Sembrava spaventato ora, e
decisamente meno
capace di controbattere e prendere decisioni. "Clowance!" -
sussurrò. "Lasciatela signor Poldark!".
"Solo
se vieni quì" – rispose. Non avrebbe lasciato
Clowance, era
la sua arma per riavvicinare Jeremy e in braccio a lui sarebbe stata
più al sicuro che in qualsiasi altro posto.
Arresosi
all'evidenza di essere il meno forte fra i due, Jeremy si
avvicinò
di alcuni passi, appoggiandosi al tronco di un grosso albero. "Voi
non potete dirci cosa fare e non fare. Se vogliamo andare a Londra,
ci andiamo".
Lo
sguardo di Ross si indurì. Era testardo Jeremy e se per
questo
faceva degli errori, lui doveva aiutarlo a capirli, anche senza mezze
misure. "Io posso dirvi cosa fare e non fare, che ti piaccia o
no sono tuo padre!".
"Il
mio cognome è Armitage, non Poldark" – rispose in
bambino, a
tono, mentre Clowance silenziosa assisteva al battibecco fra i due.
Quella
frase ferì Ross, lo ferì mortalmente. Ma non
poteva farsi
sconfiggere. "Jeremy, a me di quello che dicono la legge e i
documenti, importa meno di zero. Sei mio figlio e mai ho pensato a te
in termini diversi. Ho fatto degli errori enormi ma questo non ha mai
intaccato l'amore per voi e l'orgoglio di essere vostro padre".
Jeremy
tremò lievemente a quelle parole, ma poi si ricompose
subito. "Non
vi credo. Hugh è stato mio padre, voi mi avete abbandonato!
Senza
nome, senza casa, da solo con mamma, Clowance e Prudie! Se mi
amavate, restavate con me!".
Ross
sospirò, stringendo ancora più a se Clowance.
Jeremy aveva ragione
e giustificarsi sarebbe stato inutile e controproducente
perché non
era quello che suo figlio si aspettava di sentirgli dire. Forse
doveva solo essere sincero, chiedere scusa, cospargersi il capo di
cenere e soprattutto dire la cosa più importante, che lo
amava, che
lo aveva sempre amato e lo avrebbe fatto per sempre, anche se nel suo
cuore avrebbe dovuto convivere col ricordo di un altro padre. "E'
vero, Hugh è stato tuo padre e io lo rispetto e lo ringrazio
per
questo. Nessuno ti toglierà mai i ricordi con lui e quello
che ti ha
insegnato... E' altrettanto vero che ho fatto un errore orribile e
anche se i motivi che mi hanno portato a commetterlo erano umani e
forse evitabili o forse no, io ho sbagliato. Ho sbagliato e ho
cercato di porre rimedio ai miei errori e ai miei rimorsi commettendo
altri errori. Non mi rendevo conto di quello che facevo, non mi
rendevo conto delle conseguenze. Tua madre sì, lei ci arriva
sempre
per prima alle cose, sicuramente prima di me. E tu lo sai bene,
giusto?".
"Giusto"
– rispose Jeremy. "Ma ora è troppo tardi. Voi
siete un
Poldark e io un Boscawen. E mi piace esserlo! Io non voglio essere
come voi, io da grande voglio essere come Hugh! O simile... Mi
piacciono le cose che piacevano a lui, mi piace come faceva e
parlava, mi piace ricordare come trattava la mamma".
"Papà
Hugh amava la mamma, non la lasciava mai" –
mormorò Clowance.
Faceva
male sentire quelle cose e di certo le meritava, faceva male non
essere un modello di riferimento per suo figlio ma in fondo niente e
nessuno poteva garantirgli che Jeremy, anche se fosse cresciuto con
lui, avrebbe potuto provare interesse per le cose che interessavano a
lui. Avevano temperamenti diversi e questo Ross lo aveva comunque
capito fin da quando Jeremy era molto piccolo e quindi non doveva
prenderlo come un affronto personale ma rispettare la sua
personalità
che forse un temperamento pacato come quello di Hugh aveva aiutato a
sviluppare. "Nemmeno a me piacevano le cose che piacevano a mio
padre... Tuo nonno Joshua era molto diverso da me, non c'è
alcun
male in questo. E puoi diventare l'uomo che vuoi, non sarò
certo io
ad impedirtelo ma vorrei aiutarti ad esserlo".
"Davvero?" - chiese
Jeremy, in tono di sfida.
"Davvero,
te lo prometto".
Il
bambino fece uno strano sorrisetto, freddo e sarcastico. "Voi
siete bravo a promettere, ma poi non mantenete la vostra parola".
"A
cosa ti riferisci?" - chiese Ross, un pò confuso.
Jeremy
strinse i pugni, rabbioso, mentre la voce gli tremava. Sembrava
davvero sofferente ora, più che arrabbiato. "Vi ho
aspettato, a
lungo! Che arrivaste e mi insegnaste a cavalcare! Io non ricordo
niente, solo una cosa...". Allungò la mano, mostrandogliela.
"Ricordate?".
Ross
impallidì. "Di cosa parli?".
Jeremy
si voltò, dandogli le spalle. "Quando la mia mano diventava
grande la metà della vostra, mi dovevate insegnare a
cavalcare. Mi
ha insegnato un maestro, solo i maestri mi hanno insegnato qualcosa,
non voi! Voi non mi avete insegnato niente!".
Lo
urlò, rabbioso, poi scappò via fra la
vegetazione. Fu talmente
veloce che Ross fu preso alla sprovvista e ci mise un attimo a
reagire.
Clowance
ne approfittò per mordergli il braccio e liberarsi della sua
presa,
cadde a terra ma si rialzò subito, agile come una gatta. O
una
lupa... "Tutti mi amano, un papà doveva amarmi per forza!"
- urlò, ferita quanto Jeremy, prima di correre via.
Scappò
in mezzo agli arbusti, in quel dedalo di vegetazione fitta, rocce e
scarpate. Pioveva forte, era pericoloso, loro non conoscevano la
strada, erano turbati e potevano farsi male.
Gli
corse dietro, chiamandoli a gran voce. Ma la loro stazza minuta li
aiutava a divincolarsi da quell'intricata foresta piena di rovi e
pericoli mentre lui incespicava sui suoi passi. "Fermatevi!"
- urlò loro.
I
bambini però correvano, forse senza nemmeno sapere dove. Il
sentiero
principale era sempre più lontano, il terreno sempre
più zuppo
d'acqua e sdruciolevole e rimanere in piedi era ormai un'impresa
quasi impossibile.
Improvvisamente
un rumore sordo sopra le loro teste fece fermare tutti e tre. Alcune
pietre iniziarono a rotolare dalla montagna, sempre più
grandi e
sempre più numerose.
A
Ross si gelò il sangue. Tutta quella pioggia stava creando
uno
smottamento e loro ci erano proprio sotto. E finire sotto una valanga
in quel posto isolato e dimenticato poteva equivalere alla morte.
Corse
veloce, verso i bambini che si erano fermati spaventati. E appena li
ebbe raggiunti, li afferrò forte e loro si lasciarono
prendere.
"Dobbiamo andarcene da quì!" - urlò loro.
"Cosa
succede?" - domandò Clowance, terrorizzata.
Ross
li strinse a se. "Siamo un pò nei guai, questo succede!".
Si guardò attorno con urgenza per cercare riparo mentre la
pioggia
di pietre si faceva sempre più minacciosa e alla fine
intravide una
piccola grotta a una decina di metri da loro, nascosta fra i rovi.
Mise i bambini a terra, gli diede una spinta e la indicò
loro.
"Correte! Veloci più che potete!" - ordinò,
disperato.
I
bambini ubbidirono e Ross fu subito dietro di loro, a proteggergli le
spalle.
Corsero
ma a un certo punto i suoi stivali lo tradirono e scivolò.
Jeremy
si bloccò e fece per tornare indietro ad aiutarlo e
nonostante
questo gesto istintivo ed inaspettato lo rendesse felice, suo figlio
non doveva farlo. "No, va avanti, va alla grotta con tua
sorella!" - urlò disperato, cercando di alzarsi. Ma ricadde
a
terra, con la caviglia dolorante.
Jeremy
rimase fermo, terrorizzato e immobile, fra lui e la grotta. Clowance
lo chiamò, tentò di raggiungere il fratello ma
Ross urlò di nuovo!
"VIA, VIAAAA! Andate in quella dannata grotta!!!".
Jeremy
decise di non ascoltarlo, mentre le schegge e le pietre cadevano
ormai come in una cascata su di loro. Si chinò, lo prese per
il
polso e tentò di farlo rialzare ma il dolore alla caviglia
era
troppo e non c'era più tempo. Non importava, la cosa
fondamentale
era la salvezza dei bambini, non la sua! Avrebbe voluto abbracciare
Jeremy ma l'unico atto d'amore verso di lui in quel momento non
poteva che essere una spinta. Lo spinse indietro con tutta la forza
che aveva, lontano, facendolo indietreggiare. "VATTENE!" -
ordinò fra i denti, mentre Clowance piangeva. "Va da lei in
quella grotta!". Poi non vide più nulla...
Un
pioggia di grossi detriti lo colpì senza pietà
annebbiandogli la
vista e i sensi. E tutto divenne nero e polveroso, inconsistente e
lontano...
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Capitolo 73 *** Capitolo settantatre ***
Jeremy
non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. La
montagna era
franata con un frastuono spaventoso ed assordante e rocce, massi,
detriti e rami erano venuti giù con una furia inarrestabile,
travolgendo senza pietà qualunque cosa trovassero sul loro
percorso.
Alla
fine aveva ubbidito nonostante il suo istinto lo avesse fermato
mentre fuggiva, quando si era accorto dell'infortunio e della caduta
di Ross Poldark. Sua madre gli aveva sempre insegnato che si devono
aiutare le persone che vediamo in difficoltà e Jeremy voleva
farlo,
per sua madre certo, ma anche perché dentro di se sapeva di
voler
essere inseguito e non voleva che questo finisse, non prima del
necessario quanto meno... Era stato più forte di lui, non
era
riuscito a voltargli le spalle, non era riuscito ad ignorarlo, non
era riuscito a far finta che non esistesse, come diceva a parole...
Con
Clowance, di corsa, avevano raggiunto la piccola grotta che in
realtà
non era che una minuscola rientranza, riparandosi dalla pioggia di
detriti appena in tempo. Clowance, piangendo, lo aveva abbracciato
terrorizzata e in lacrime e insieme a lei, riparandola dalla polvere
con le sue braccia, aveva atteso che tutto finisse.
Dopo
fu silenzio, un silenzio che a Jeremy fece più paura della
valanga
stessa. Era come se ogni cosa, ogni forma di vita fosse stata sepolta
e ora la natura stesse osservando rispettosamente dei minuti di
silenzio in onore di ciò che era stato ed era andato perduto.
Jeremy
deglutì, LUI era la fuori, in difficoltà, forse
ferito, forse
seppellito sotto detriti pesantissimi da spostare, forse... forse
ancora peggio ma aveva troppa paura a pensarci. "Clowance...".
La
piccola si asciugò le lacrime col braccio, non staccandosi
da lui.
"Non dire niente".
"Va
bene... Ma non possiamo stare quì, non c'è tempo".
"Lo
so...".
Jeremy
fissò l'orizzonte, ancora polveroso. Tutto attorno era un
disastro,
pietre, sassi e rocce avevano travolto ogni arbusto e ogni pianta e
il paesaggio pareva decisamente diverso rispetto a quello che era
stato fino a poco prima. Erano sporchi, spaventati, bagnati e nei
guai. Non erano feriti ma colui che era venuto a salvarli lo era, era
in pericolo e loro non erano che due bambini che non sapevano cosa
fare. "Se ci fosse Fox...".
"Se
ci fosse Queen..." - sussurrò Clowance. "Lei saprebbe cosa
fare. Anche Garrick...".
Jeremy
strinse i pugni. I cani in quel momento sarebbero stati utilissimi,
lo sapeva pure lui. Ma non c'erano e dovevano arrangiarsi da soli. E
dovevano farlo in fretta. Si alzò di scatto, voltandosi
verso la
sorella. "Dobbiamo cercarlo! E portarlo quì, al riparo".
Clowance
scosse la testa. "Lo so... Ma ho paura".
"La
valanga è finita!".
La
piccola scosse la testa. "Non ho paura della valanga, ho paura
di cercarlo, trovarlo e vedere che non lo abbiamo trovato affatto,
che non lo troveremo mai più! E mamma? Se è
così, mamma che dirà?
E' colpa nostra, Jeremy?".
Quella
domanda lo colpì, era un'ipotesi orribile che avrebbe
portato a un
eterno ed insopportabile senso di colpa. Era stata colpa loro, della
loro stupida fuga e del loro ostinato chiudersi in se stessi?
Pensò
a lui, a Ross Poldark, a quello che si erano appena detti, al fatto
che con quel tempo infame era venuto a cercarli quando avrebbero
potuto mandare dei servi scozzesi dello zio, decisamente più
esperti
della zona. Invece era venuto lui, subito. E lo aveva spinto via per
salvarlo... Sua madre amava Ross Poldark, aveva avuto tre figli da
lui e anche se aveva sofferto a causa sua, lo giudicava talmente un
grande uomo da averlo riaccolto nella sua vita, dandogli di nuovo
fiducia. Quella fiducia che lui non riusciva ancora a dargli ma che
ora, ora che lui era in pericolo e ora che gli aveva gridato contro
la sua rabbia, non sembrava più così complicata
da accordare. Se
solo...
Pensò
alla promessa di cavalcare insieme e a quel padre che mai l'aveva
mantenuta e aveva preso la porta per non tornare più. Il
primo
abbandono...
Pensò
a Hugh, al giorno in cui era morto. Il secondo abbandono...
Pensò
alla valanga. E al fatto che essere abbandonato ancora, per la TERZA
volta, sarebbe stato troppo! Questa volta non ci stava!!!
Prese
con decisione la mano della sorella, non era il momento né
di
frignare, né di avere paura. "Se stiamo quì a
parlare,
sicuramente sarà così!".
Clowance,
sporca, stanca, sconvolta, tremò. "Jeremy!".
Lui
le sorrise, cercando di apparire rassicurante. "Ci sono io, come
sempre! Ma ho bisogno del tuo aiuto! Dobbiamo scavare, come farebbero
Fox e Queen!".
Clowance
deglutì, poi però annuì. In fondo
sapeva essere combattiva anche
lei e Jeremy sapeva che per carattere, se c'era qualcosa che andava
fatto, lei non si tirava indietro.
Si
alzarono in contemporanea, usendo dal loro nascondiglio di fortuna.
Pioveva ancora molto forte e acqua e polvere insieme, rendevano la
visibilità molto scarsa e facevano lacrimare i loro occhi.
Jeremy
si guardò attorno, alla ricerca di Ross Poldark. Era a pochi
metri
dalla grotta ma ora il terreno e il punto in cui prima c'era il
sentiero erano ricoperti da rocce e detriti e orientarsi era
difficile.
Contò
i passi, lo aveva fatto anche mentre scappava fino alla grotta ed
erano nove. Era l'unico modo per cercare di capire dove lui fosse ed
era un trucco che gli aveva insegnato lo zio quando, portandolo a una
battuta di caccia, gli aveva suggerito di contare sempre i passi
fatti fra il sentiero e una ipotetica preda magari lontana, per non
perdersi durante il ritorno. Non aveva mai amato la caccia ma quel
suggerimento in quel momento gli stava tornando decisamente utile.
"Clowance, vieni!" - le ordinò, prendendola per mano e
correndo. E contando...
Uno,
due, cinque, nove... "Scava, quì!" - disse, cominciando a
spostare il cumulo di massi più o meno grossi che coprivano
la
superficie sotto la quale, sperava, lo avrebbero ritrovato. Sempre
che non fosse caduto giù con le rocce, nel dirupo
scosceso... Ma a
quell'ipotesi, Jeremy non voleva nemmeno pensare. Era lì,
DOVEVA
essere lì!
Perplessa
dalla sua sicurezza, Clowance iniziò a muovere
disperatamente le
rocce, lavorando e piangendo. Era spaventatissima, ogni tanto
implorava l'arrivo di sua madre ma coraggiosamente, continuò
a
lavorare.
Finché
videro una manica spuntare dai detriti, consunta e logora.
Tirarono
un sospiro di sollievo, era lì! Lui era lì, non
era precipitato!
Jeremy
prese a rimuovere le rocce ancora più forte, con la spinta
che gli
dava la disperazione. Nemmeno avvertiva più il freddo e la
pioggia,
lavorava come un pazzo con le mani che si riempivano di graffi e le
braccia che prendevano a far male. Lavorò perché
sua madre avrebbe
voluto così, perché come poco prima non voleva
che gli succedesse
qualcosa di male e perché... Perché sapeva che
Ross Poldark avrebbe
fatto altrettanto per lui. Era strano ma ne era certo. E forse quella
certezza era sempre stata insita in lui ma solo il fato, il destino e
la disperazione l'avevano portata a galla.
"Signor
Poldark, signor Poldark!!!" - urlò, liberandogli il viso.
Aveva
dei graffi e sembrava senza conoscienza ma non pareva troppo
malridotto. Ai suoi richiami non rispondeva, un rivolo di sangue gli
scendeva dalla fronte completamene annerita dalla polvere ma a parte
questo, sembrava avere la pelle dura, anche se era senza conoscenza.
Lo
prese per le spalle, lo scosse e a quel punto sentì un
lamento.
Clowance
lo guardò. "E' vivo!?".
Col
fiato corto, Jeremy annuì sollevato. Forse era ferito, forse
pure
gravemente, ma era vivo. "Sì, direi, ma dobbiamo portarlo al
sicuro. Trasciniamolo fino alla grotta!".
Clowance
non rispose ma con grinta e con le ultime forze che le restavano,
rimosse le ultime pietre che bloccavano il corpo.
E
quando fu completamente libero, prima di spostarlo, Jeremy lo
analizzò come forse avrebbe fatto Dwight. Glielo aveva visto
fare
molto spesso coi gemelli quando erano malati e forse poteva capirci
qualcosa. Doveva farlo visto che Ross Poldark era senza conoscenza e
non poteva dire dove e se avesse male! Gli sfiorò la spalla
che poco
prima gli aveva strappato un gemito e si accorse che la sentiva
strana, come fuori posto. Lui sussultò ancora e Jeremy a
quel punto
capì che qualunque cosa lui avesse, doveva immobilizzarla.
Chiese a
Clowance il nastro che le teneva legato il vestito in vita,
fasciò
la spalla e poi sfiorò il suo 'paziente' sul petto, sulle
braccia e
sulle gambe. La caviglia sinistra doveva essere slogata, doveva avere
ematomi ovunque ma quando appoggiò l'orecchio contro il suo
petto,
si accorse che respirava senza affanno e che quindi era solo svenuto.
"Signor Poldark!" - lo chiamò, forte. Poi ripeté
quel
nome ancora e ancora, sempre più forte, imitato da Clowance.
"Signor
Poldark, signor Poldark!!!" - gridò, riuscendo a sovrastare
persino il rumore della pioggia. E mentre lo chiamava,
ripensò di
nuovo a tutti gli abbandoni della sua vita e a quell'uomo che il
destino gli aveva rimesso vicino dando a lui una seconda
possibilità
ma anche... Era una seconda possibilità solo di Ross Poldark
o lo
era per tutti? Jeremy prese a singhiozzare, in fondo era difficile
distinguere le lacrime dalla pioggia che gli bagnava il viso e
Clowance magari non se ne sarebbe accorta e non si sarebbe spaventata
nel vederlo meno coraggioso del solito. Lei aveva bisogno di saperlo
forte e saldo e lo era sempre stato anche se adesso avrebbe voluto
non esserlo, avrebbe voluto che lui aprisse gli occhi e lo
proteggesse. Ecco, lo aveva detto, voleva essere protetto e non
più
il protettore dei suoi fratelli. Voleva avere paura e voleva avere
qualcuno che da quella paura lo difendesse, voleva cadere ed essere
aiutato a rialzarsi, voleva piangere e magari anche fare capricci e
avere qualcuno che lo riprendesse e lo sgridasse...
"Papà..."
- sussurrò, piano, prendendolo per la camicia e scuotendolo.
"Papà...".
"Lo
hai chiamato papà!?" - sussurrò Clowance con gli
occhi
spalancati dalla sorpresa.
Jeremy
si morse il labbro, maledicendosi per quel momento di debolezza che
non poteva permettersi. Gli girò la testa, era da
così tanto tempo
che non chiamava qualcuno a quel modo e mai avrebbe pensato di
poterlo rifare. "Gli direi anche che è il re,
purché si
svegli!" - rispose lui sforzandosi di essere sarcastico, ma con
gli occhi ancora lucidi.
Clowance,
perplessa, spaventata e consapevole che tutto stava cambiando in
tutti anche se era difficile ammetterlo e faceva paura, rimase in
silenzio. Comprese bene che non era stato un errore, che quella
parola, 'papà', proveniva dalla parte più remota
della mente del
fratello e non fece domande. "Portiamolo alla grotta! Quì
non
si sveglia, ha bisogno di meno pioggia e di stare in un posto
più
tranquillo. Dwight direbbe così" – propose.
Jeremy
si trovò d'accordo, in quelle ultime ore Clowance era
diventata
molto saggia e sembrava fatta di ferro, una che non si piega e che sa
tenere il polso della situazione anche nei momenti difficili. Anche
lei aveva pianto, anche lei aveva paura ma a differenza sua non si
era lasciata andare a momenti di prostrazione come lui poco prima. O
se lo aveva fatto, era stata più brava di lui a mascherarlo.
In
fondo era così che lo zio e nonna Alix le avevano insegnato:
"Piangi
in silenzio e dentro di te ma non farlo vedere fuori, non far vedere
mai quando sei spezzata. Bisogna fare così...". Questo
avevano
insegnato a sua sorella e a tutti loro e anche se la loro mamma non
era mai stata d'accordo, la nipote migliore di nonna Alix, quella che
più di tutti la ascoltava, era sempre stata Clowance e ora
se ne
vedevano i risultati.
"Tiriamolo
su" – disse solo. Stringendo i denti sollevò Ross
Poldark
dalle spalle mentre Clowance faceva lo stesso dalle caviglie. E a
fatica, rischiando di scivolare giù nel dirupo, lentamente,
raggiunsero la grotta.
Non
avevano idea di come ci fossero riusciti, il terreno era scivoloso,
la pioggia forte, lui un uomo adulto e loro due bambini. Eppure forse
la disperazione fa fare cose che mai avremmo creduto possibili. Come
in quel caso...
Una
volta al riparo, Jeremy tolse il cappotto di Ross, mettendolo fra le
rocce interne della grotta ad asciugare. Poi con Clowance si
avvicinò
a lui, inginocchiandoglisi di fianco. "O noi siamo molto forti o
voi siete molto fortunato. Ma ora che siamo quì, aprite gli
occhi...". Avrebbe voluto chiamarlo ancora papà ma la sua
lingua in quel momento si rifiutò di ubbidire. Forse lo
avrebbe
fatto dopo o magari in un giorno futuro. Assieme a Clowance... Forse
lo desiderava anche, avere due papà come diceva Daisy. Uno
in cielo
e uno in terra, tornato da un passato difficile e pronto a
riscattarsi se lui gliene avesse dato l'opportunità come
aveva fatto
la sua mamma. Magari lo desiderava anche sua sorella, magari anche
Clowance voleva 'appartenere' a qualcuno, soprattutto se a quel
qualcuno assomigli nel fisico o nel carattere. Era difficile
ammetterlo a voce alta, Jeremy aveva ancora paura. Ma i padri non
servono proprio a questo, a farti passare la paura?
E
in cuor suo Jeremy pregò che non fosse troppo tardi.
"Non
era meglio una volta?" - chiese improvvisamente Clowance,
spezzando quel forzato silenzio.
"Di
che parli?".
"Di
quando eravamo piccoli e la mamma ci leggeva la fiaba di Sveva la
zebra. Tutto era più facile quando eravamo piccoli, bastava
una
fiaba per mandar via i pensieri brutti".
Jeremy
sorrise tristemente, pensando a quel periodo lontano dove in effetti
per lui tutto sembrava una fiaba. Ma ora che era più grande
capiva
che quella fiaba l'aveva creata per loro Hugh con sua madre e che per
lei niente era semplice in quel periodo. Ma nonostante questo lei
aveva sempre sorriso con lui e Clowance, anche se forse non avrebbe
avuto voglia che di piangere. E ora chissà com'era
preoccupata per
loro ma anche per Ross... Lo scosse ancora, disperato. "Svegliatevi!"
- lo implorò, continuando a scuoterlo.
Anche
Clowance provò a scuoterlo e alla fine, esasperata, decise
di usare
le maniere forti. E con la mano destra diede un forte colpo sulla
spalla di Ross che suo fratello aveva fasciato. A mali estremi,
estremi rimedi...
Jeremy
spalancò gli occhi. "Clowance!".
Lei
fece la faccia da dura ma non fece in tempo a rispondere.
Ross
nel sonno si lamentò, digrignò i denti e poi, a
fatica, aprì gli
occhi.
I
metodi poco ortodossi di Clowance avevano funzionato...
...
La
luce, nonostante fosse fioca, gli ferì gli occhi.
Non
aveva nemmeno un osso che non gli facesse male e la spalla e una
caviglia, soprattutto, sembravano lacerargli la carne dal dolore. La
sua gola era secca come se avesse inghiottito chili di polvere,
sentiva freddo e per un attimo non seppe dove fosse.
Ma
la sua mente tornò subito lucida, assieme ai ricordi di
quella
giornata terribile coi suoi figli che scappavano da lui e gli
urlavano il loro dolore e poi per finire la frana, che avrebbe potuto
cancellare tutti loro.
E
a quel pensiero, aprì gli occhi. Era vivo, dunque? E i
bambini?
Santo cielo, i suoi bambini dov'erano?
"Signor
Poldark...".
Mai
era stato tanto felice di sentire la voce di qualcuno come in quel
momento! La vocina di Jeremy lo fece voltare e finalmente lo vide,
davanti a lui, inginocchiato al suo fianco, con Clowance. Erano
bagnati, impolverati e sporchi ma sembravano stare bene. Grazie al
cielo, GRAZIE AL CIELO!
Ovunque
fossero, solo questo importava! "State bene?" - chiese
tossendo, con un filo di voce.
"Sì,
noi sì" – rispose Clowance titubante.
"A
differenza vostra..." - aggiunse Jeremy.
Ross
chiuse gli occhi, stringendo i pugni. Non c'era bisogno che qualcuno
gli dicesse che era malridotto, quei dolori che aveva ovunque erano
inequivocabili. "Dove siamo?".
"Nella
grotta dove ci siamo rifugiati. La valanga è finita e vi
abbiamo
portato fin quì! Eravate sotto un pò di rocce,
è stato faticoso
tirarvi fuori da la sotto".
Fu
Clowance a dargli quella spiegazione, rimarcandogli sia la fatica,
sia la difficoltà nell'aiutarlo. Era una bambina molto
diretta, che
non faceva giri di parole e non aveva mezze misure. Era una
mini-Poldark fatta e finita!
Tentò
di voltarsi verso di lei ma la spalla gli lanciò una fitta
terribile
che lo lasciò senza fiato. Quasi urlò, prima di
ricadere senza
forze sulla dura roccia.
Jeremy
sospirò. "State fermo, avete la spalla slogata! L'ho
fasciata
ma finché non va a posto, dovrete tenerla immobile".
Ross
lo guardò, accigliato. Aveva conoscenze mediche? "Come lo
sai?".
Jeremy
distolse lo sguardo, come se dare quella spiegazione gli costasse
molta fatica. "Quando avevo sei anni e prendevo lezioni di
equitazione insieme a Gustav col maestro... per imparare ad andare a
cavallo... una volta Gustav è caduto dal pony. Dopo
piangeva, aveva
la spalla tutta strana come la vostra ed è corso Dwight a
curarlo.
Disse che era slogata, gli mosse e tirò il braccio in modo
strano e
Gustav guarì subito".
Ross
alzò gli occhi al cielo. Ci mancava solo questa! "E tu hai
visto ciò che ha fatto Dwight? Sapresti rifarlo?". Aveva
bisogno di star bene e uscire da quell'inferno e con la spalla
fasciata non poteva andare lontano.
Jeremy
alzò gli occhi al cielo. "No! Sono un bambino, mica un
dottore!".
In
effetti non aveva torto e lui si sentiva scemo ad averglielo chiesto.
Guardò i suoi figli che gli avevano urlato fino a poco prima
il loro
risentimento e si accorse che erano lì, che erano rimasti e
che lo
avevano salvato. Non erano scappati, non lo avevano lasciato solo
senza voltarsi indietro ma anzi, avevano lottato per metterlo in
salvo. Nonostante tutto, nonostante lui a suo tempo non fosse stato
tanto gentile nei loro confronti... Lui non era tornato indietro, non
era tornato a Nampara dove la sua famiglia lo aspettava. Loro
sì,
loro erano tornati da lui... Questo lo di sensi di colpa ma anche di
una forte speranza e desiderio di parlar loro, ora con più
calma.
Aveva sbagliato tanto in passato e ora non chiedeva che di vivere una
vita votata all'espiazione di quegli errori e all'amore di chi per
lui contava più di tutto.
Ma
Jeremy non gli diede modo di fare grandi discorsi. "Dove vi fa
male?".
"Ovunque,
ma credo siano solo lividi".
Jeremy
guardò fuori dalla grotta. "Sì, credo anche io. A
parte la
spalla e la caviglia. Ci siete caduto sopra, prima".
Ross,
a quelle parole, gli toccò il braccio, costringendolo a
voltarsi
verso di lui. "Non avresti dovuto tornare indietro, dovevi
scappare e basta".
Jeremy
impallidì. "Ma eravate caduto... Non si lascia solo chi
cade".
Ross
gli sorrise. "Sei saggio".
"Lo
è mamma, ce lo ha insegnato lei" – si intromise
Clowance,
stringendosi fra le braccia per il freddo.
Ross
annuì. "Vostra madre vi ha insegnato un sacco di cose. Lei
è
sempre stata molto saggia".
"Anche
Hugh ci ha insegnato un sacco di cose" – rispose Jeremy, con
tono più duro di poco prima.
Ross
si sentì sotto esame di nuovo, come sempre succedeva quando
Hugh
veniva nominato. Ma stavolta non sentì la competizione con
quel
fantasma che da sempre aleggiava su di lui da un anno a quella parte
ma al contrario, avvertì uno strano spirito di squadra con
quell'uomo che non aveva conosciuto ma che era stato parte
fondamentale della crescita dei suoi figli. "Lo so e gliene sono
grato" – rispose, con un filo di voce.
Jeremy
prese un profondo respiro. "Lui mi ha insegnato a leggere e
scrivere. E a fare tanti regalini alla mamma con le mie mani,
perché
sapeva che gli avrebbero fatto piacere".
Clowance
annuì. "E la sorpresa di Natale, come la recita e la canzone
'Oh Tannenbaum' che abbiamo preparato quest'anno. Lui ci ha dato
questa abitudine, di fare qualche sorpresa di nascosto a mamma da
darle la notte di Natale. Da piccoli facevamo disegni, bigliettini o
imparavamo filastrocche. Ma quest'anno abbiamo voluto fare qualche
regalo speciale e più complicato. Un regalo più
da grandi".
Nonostante
un improvviso mal di testa unito a spossatezza, Ross ripensò
alla
magia della notte di Natale, ai bambini che cantavano quella
difficile canzone tedesca con armonia nel vero spirito di quella
ricorrenza festosa e come allora, si sentì orgoglioso. E
grato che
Hugh avesse insegnato ai bambini a fare qualcosa che avrebbe reso
felice Demelza. "Io non sarei mai riuscito ad insegnarvi niente
del genere. Non ho quel tipo di cultura e conoscenza. O idee".
Clowance
alzò le spalle. "Ognuno è quello che
è. Anche questo ce lo ha
insegnato la mamma".
Ross
annuì. "E' vero, ma avrei voluto essere qualcosa di meglio.
Per
vostra madre e per voi" – disse, con un filo di voce. Santo
cielo, i colpi presi iniziavano a fare effetto sul suo fisico
provato. Aveva freddo e forse le ferite gli stavano facendo venire la
febbre. Improvvisamente si sentì incredibilmente stanco...
"Signor
Poldark..." - lo chiamò Jeremy.
"Dopo...
Dopo che avrò dormito un pò... Penseremo a come
uscire da questo
disastro. Mi avete salvato, grazie... Ma ora, credo di voler
dormire".
A
quelle parole, Jeremy fu preso dal panico. "Noooo! No, non
dovete dormire! State sveglio, state sveglio per favore".
Clowance
fu presa dal panico quanto il fratello. "Se dormite, poi non vi
svegliate più! I feriti non devono dormire MAI, ce lo ha
detto
Dwight! Dovete stare sveglissimo!".
Avrebbe
voluto assecondarli ma era davvero difficile. Solo cinque minuti,
solo cinque minuti di sonno sarebbero stati sufficienti... "Vi
prego...".
Jeremy,
disperato, lo scosse. "No, no!!! Sapete cosa ho pensato, quando
vi ho visto cadere e sono tornato indietro?".
"A
cosa?".
"A
voi! A quanto mi avete lasciato da solo ed ero piccolo! A Hugh, a
quando è morto e mi ha lasciato pure lui! E ora...". Le
manine
di Jeremy tremarono, mentre gli afferrava il colletto della camicia
per stringerlo. "E ora...".
Ross
si accorse che suo figlio aveva gli occhi lucidi e capì che
doveva
aiutarlo, che non poteva dormire e che quello era forse il momento
più importante della vita di tutti. Al diavolo stanchezza,
febbre e
ferite! "Jeremy".
Il
bambino singhiozzò. "Ed ora... Ora se dormite e non vi
svegliate, mi abbandonerete di nuovo! E questa volta non vi
perdonerei MAI! Capito? Mai è mai, vuol dire per sempre!".
Clowance
tremò ancora, stavolta per la tensione, stringendosi al
fratello. E
Ross, raccogliendo le forze esigue, capì che era il suo
momento, che
doveva essere il loro padre e rassicurarli. Proteggerli. Per la prima
volta entrambi gli avevano aperto uno spiraglio e doveva afferrare le
loro manine per non lascarli andare più. Gli stavano
chiedendo
aiuto, gli stavano chiedendo di restare, di non lasciarli, di
rimanere lì con gli occhi aperti a parlare con loro. Li
strinse a se
e anche se gli faceva male dappertutto, capì che non gli
importava
niente. Soprattutto perché i bambini, in lacrime, glielo
fecero
fare.
Jeremy
sprofondò il viso nel suo collo, piangendo. "Non dormite...
Non
dormire papà... Sta sveglio, ti aiuto io a farlo, ti
racconto tutte
le barzellette che so. O le poesie... Quello che vuoi ma sta
sveglio!".
"Per
favore..." - aggiunse Clowance, unendosi alla richiesta del
fratello. "Per favore, papà...".
Ross
spalancò gli occhi. Erano i deliri della febbre? O loro lo
avevano
davvero chiamato...? Ricordò Julia, lei non aveva fatto in
tempo ad
imparare a parlare. E Jeremy, che quando aveva iniziato a chiamarlo
papà, non l'aveva quasi notato. E Clowance, che aveva
conosciuto
quando sarebbe stata capace di recitare la Divina Commedia se
qualcuno glielo avesse chiesto. Infine Valentine, che quando l'aveva
chiamato papà per la prima volta, aveva la mente troppo
avvelenata
per goderne appieno... Ma ora quella parola assumeva una dolcezza che
mai aveva conosciuto... "Cosa avete detto?".
Clowance
deglutì. "Le barzellette! Non le voglio, quelle che
raccontano
lui e Gustav sono bruttissime!".
Ross
rise, stringendola a se. Aveva uno strano e sarcarstico senso
dell'umorismo. "No, non intendevo quello! Come mi avete
chiamato?".
Jeremy
si strinse ancora più a luic capendo a cosa alludesse.
"Papà...
Non è così che dovremmo chiamarvi?".
Ross
li strinse a se. "Certo, certo...". Forse in quel momento
fu come se loro fossero nati la seconda volta e lui finalmente fosse
nel posto giusto. Fu come rinascere, per loro e per lui. C'erano
tante cose ancora a dividerli ma forse loro desideravano avere
qualcuno da chiamare papà e lui desiderava che tutti i suoi
figli lo
chiamassero in quel modo.
Col
viso nascosto contro il suo petto, Jeremy strinse le mani a pugno.
"Ma io avrò sempre anche un altro papà... E uno
zio e una
nonna. E due fratelli gemelli...".
"Anche
io" – mise in chiaro, Clowance.
Ross
li strinse a se, capendo le loro paure. Era normale, erano stati
amati ed avevano trovato una famiglia nei Boscawen e mai li avrebbe
privati di tutto questo. Lo aveva desiderato all'inizio, quando li
aveva ritrovati aveva prevalso il suo egoismo e la voglia di riavere
indietro, come se nulla fosse, ciò che si era lasciato
sfuggire
dalle mani stupidamente. Ma poi aveva capito, aveva compreso che la
sua famiglia aveva vissuto in quegli anni di separazione, i suoi
figli erano cambiati e Demelza con loro si era costruita una nuova
vita che lui doveva rispettare non solo perché non aveva
altra
scelta ma perché li amava e voleva solo il loro bene. Hugh,
chiunque
lui fosse stato, era ancora amato e pensato e doveva rispettarlo. I
gemelli erano nati e facevano parte di quella grande famiglia
allargata, come Valentine del resto. Falmouth e Alexandra erano zio e
nonna a tutti gli effetti dei bambini. Tante cose erano cambiate ma
in fondo l'amore fra lui e Demelza mai era mutato davvero nonostante
le tante tempeste vissute e quindi tutto ciò che si era
aggiunto fra
loro negli anni non doveva essere visto come un ostacolo ma come un
semplice arricchimento. Anche per lui che in fondo mai aveva avuto
attorno il calore di una famiglia vera e tanto grande. E gli piaceva,
doveva ammetterlo... "Voi siete scappati perché pensavate
che
io volessi portarvi via da tutto ciò che amate?" - chiese.
Era
inutile girarci attorno.
I
bambini non risposero.
Ross
proseguì, capendo le loro paure ed accarezzandogli i
capelli.
"Credete davvero che vostra madre mi avrebbe permesso di farlo?
Di portarvi via dallo zio e dai vostri fratelli? Dalla nonna e dalla
vostra casa? Credete davvero che avrebbe potuto voler bene a un uomo
che le chiedeva ciò?".
Jeremy
e Clowance sussultarono a quelle parole e a quella realtà
forse
sempre davanti ai loro occhi ma che per rabbia e timore non avevano
voluto vedere. "Ma nessuno ce l'ha mai detto...".
Ross
sospirò. La maledizione dei Poldark era proprio questa, il
silenzio
dettato dall'orgoglio. "Già. Ora ve lo sto dicendo io, vi
basta?".
"Credo
di sì" – ammise Jeremy, forse più
fiducioso del buon cuore
di sua madre che nel suo, ma a Ross in quel momento andava bene anche
così.
Ross
li guardò negli occhi, serio e risoluto. Era stato zitto
tanto,
troppo a lungo. Ed era ora di essere franco e sincero e ripartire da
zero da lì. "Io ho fatto molti errori, errori orribili che
mi
hanno fatto perdere tutto. Ma non ho mai pensato di non volervi, mai
ho desiderato essere da qualche altra parte se non con voi e vostra
madre. Ho avuto un periodo duro e confuso, mi sono smarrito come a
volte succede nella vita ad ognuno di noi e ho fatto sbagli di cui
non mi rendevo conto. Ma non è una scusa e il torto rimane.
Ma credo
mi siano anche serviti per imparare molto da me stesso. Io non sono
come Hugh, non amo i libri e nemmeno le poesie. Amo la vita all'aria
aperta, amo veder star bene le persone che lavorano per me e chi ho
vicino, amo le mie miniere e la Cornovaglia".
Clowance
lo boccò. "Ci porterete lì?".
Ross
sospirò. "E' il posto da dove veniamo e io e la mamma
vorremmo
portarvi a vederlo questa estate. Ma poi torneremo a Londra,
lì c'è
anche la vostra altra casa, lì ho un lavoro e credo che
passarci
l'inverno e i mesi freddi sia la condizione ideale mentre in estate
potremmo andare in Cornovaglia, al mare, a riposare. Come fanno
molti...".
Quella
proposta sembrò piacere ai due bambini. "In fondo non fa
tanta
paura, raccontata così" – sussurrò
Jeremy.
"E
di cos'altro hai paura?" - chiese Ross. Perché sapeva che
c'era
dell'altro ed ora non si doveva più sfuggire ai fantasmi che
intercorrevano fra loro!
Il
bimbo abbassò il capo. "Di fidarmi ancora e poi, ancora,
rimanere solo. Di altre promesse a cui credere e poi...".
Ross
lo bloccò. "Fruga nella mia tasca sinistra" –
ordinò.
"Perché?".
"Fallo!".
Jeremy
fece quanto gli veniva chiesto e con titubanza, tirò fuori
dalla
tasca dei pantaloni di suo padre un cavallino di legno. QUEL
cavallino di legno.
Stranito
lo osservò, senza riconoscerlo inizialmente. Ma poi
spalancò gli
occhi, guardandolo con le labbra tremanti. "Questo era mio. Lo
ricordo... Ci giocavo sempre da piccolo".
Ross
gli accarezzò i capelli. "L'ho conservato con me tutti
questi
anni ed è diventato il mio portafortuna, in attesa di
potertelo
restituire. Non ti ho mai dimenticato e non ho mai dimenticato la
promessa che ti feci allora e se si potesse tornare indietro, sarei
felice di mantenerla. Non ti ho insegnato a cavalcare, ma posso
insegnarti tante altre cose, se me ne darai l'opportunità".
"Anche
a me?" - chiese Clowance.
Ross
le sorrise, era una bambolina bellissima ed era orgoglioso di esserne
il padre. "Anche a te".
Jeremy
accarezzò il cavallino e Ross pensò che se lo
sarebbe messo in
tasca. Ma poi, inaspettatamente, glielo rimise nella sua di tasca, da
dove lo aveva preso poco prima. "Se è un portafortuna, devi
tenerlo tu. Ora è tuo e visto come sei ridotto, ne hai
più bisogno
di me! E poi non gioco più coi cavallini di legno, ma
forse...".
"Cosa?"
- chiese Ross.
Jeremy
sorrise, finalmente più disteso e rilassato. "Forse
è vero che
puoi insegnarci altre cose che io e Clowance non sappiamo ancora
fare. Un pò ce le ha insegnate Hugh, un pò lo
farai tu ".
Ross
rispose al sorriso. "Cosa vorresti che ti insegnassi?".
Il
ragazzino alzò le spalle, pensieroso. "Potresti insegnarmi a
fumare la pipa! Quello, ancora, non lo so fare".
Ross
rise. Era decisamente furbo. "Tua madre mi ha perdonato molte
cose ma questa, questa non me la perdonerebbe mai. Ma troveremo
qualcos'altro".
Anche
Jeremy rise, con l'espressione di uno colto con le mani nel vasetto
di marmellata. "Una cosa me l'hai già insegnata: vedere
com'è
Clowance quando è costretta a lavorare ed è tutta
sporca".
Ross
si voltò verso la bambina, silenziosa più del
fratello. La piccola
fece la linguaccia e poi, piccata, si rannicchiò contro suo
padre.
"Tanto dopo posso fare il bagno, no?".
Ross
rimase colpito da quella risposta. Lui le aveva insegnato questa
cosa, il non temere lo sporco che tanto poi esiste il sapone. Era
successo durante le sommosse al discorso di Pitt e non immaginava che
Clowance se lo ricordasse ancora. "Esatto... Non lo hai
dimenticato".
Lei
annuì, seria. "Come ti ho detto, io dimentico le cose non
importanti e ricordo solo quelle da ricordare. Dovresti spiegarlo al
mio maestro che non lo capisce...".
Chiara,
limpida, cristallina e furba come Jeremy. Era e sempre sarebbe stata
una principessa ma in lei ardeva la vera essenza ribelle dei Poldark.
"E' una buona filosofia di vita, lo dirò sicuramente al tuo
maestro".
"Se
andiamo in Cornovaglia, mi metterai a pulire la cacca dei maiali?"
- chiese lei, preoccupata. "Mamma dice che hai una fattoria".
Ross
sorrise. "No... A meno che tu non voglia farlo".
"Non
credo di volerlo fare" – rispose lei, seria.
"D'accordo".
Ross strinse a se i bambini, coprendoli poi con il suo cappotto.
"Dormite un pò, ora. Poi penseremo a un piano per uscire da
questo guaio".
Jeremy
sorrise. "Come una squadra?".
"Saremo
una squadra!".
Il
bambino, pur eccitato dalla cosa, si guardò attorno
sconsolato. "Ma
uscire da questo guaio... come si fa?".
Ross
gli strizzò l'occhio, facendogli segno di aspettare. E
Jeremy
ubbidì.
Pian
piano Clowance si addormentò al caldo del cappotto di suo
padre
mentre lui le accarezzava i capelli e quando dormì
profondamente,
Ross riprese la parola. "Jeremy, io non posso camminare e
tornare indietro con tua sorella, sarebbe troppo complicato per te.
Ti rallenterebbe il passo e devi essere veloce con questa pioggia.
Non posso venire ma so che sei grande ed in gamba per fare quello che
ti chiedo".
Jeremy
impallidì. "Cosa, papà?".
"Domattina
devi uscire dalla grotta e tornare indietro. Vai sempre dritto e
trova il sentiero per tornare al lago e al castello da cui siete
scappati. E lì cerca aiuto. So che ti chiedo tanto e non
vorrei
mandarti da solo, ma non posso, non posso davvero fare altro e lo
vedi pure tu".
Spaventato,
Jeremy tremò. Ma oltre alla paura, in lui crebbe l'orgoglio
per la
fiducia che suo padre stava riponendo in lui, la fiducia per un
bambino grande ed in gamba a cui chiedere una cosa difficile. "Tu
non dormirai, nel frattempo?".
"No,
te lo giuro. Starò sveglio e baderò a Clowance".
Era in ansia
e preoccupato, era terribile dovergli chiedere qualcosa di tanto
pericoloso ma non aveva scelta, se voleva riportare vivi da Demelza i
due bambini.
"Le
vuoi sentire le mie barzellette?".
Ross
lo strinse a se. "Sai cosa preferirei?".
"Cosa?".
"Che
invece delle barzellette, mi raccontassi cosa hai fatto in tutti
questi anni".
"Con
o senza Hugh?".
Ross
sorrise. "Quello che vuoi, quello che ti va. Voglio sentire
tutto".
E
tranquillizzato, Jeremy iniziò a raccontare, riempiendo di
parole
quella lunga notte che avrebbe fatto da preludio a un giorno tutto
nuovo, luminoso e pieno di speranze.
Il
passato, col suo carico di dolori e gioie, poteva essere solo
raccontato. Il futuro poteva invece essere totalmente scritto da
loro, insieme.
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Capitolo 74 *** Capitolo settantaquattro ***
La
pioggia si era fatta più leggera e stava diventando buio.
La
spalla gli faceva un male cane ma il calore dei corpicini dei suoi
figli, abbracciati a lui, donava calore alle sue membra intirizzite.
Alla
fine si era addormentato anche Jeremy, ma solo dopo avergli fatto
promettere che non avrebbe dormito. Suo figlio aveva parlato a lungo
per tenerlo sveglio, raccontandogli un sacco di cose del suo passato:
gli aveva detto di quando aveva perso il primo dente e ne era
orgoglioso perché era successo prima che a Gustav, di quando
lo
aveva perso Clowance ed era rimasta a piangere chiusa in camera una
settimana dicendo che avrebbe finito per assomigliare alla vecchia e
sdentata Miss Marple che chiedeva sempre l'elemosina al parco, di
quando Lady Catherine aveva deciso che si sarebbero sposati da
grandi, di quando erano nati i gemelli e Clowance aveva suggerito di
buttarli via, di quando faceva le feste di compleanno e coi suoi
amici giocava ai corsari e ai pirati nella casa sull'albero, di
quando aveva imparato a cavalcare e di quando aveva dovuto vestirsi
da paggetto scemo per il matrimonio di Margarita.
Aveva
parlato molto, raccontando molti anedotti di quando era più
piccolo.
Solo su Hugh aveva glissato... E Ross non capiva se lo avesse fatto
per una cortesia nei suoi confronti o perché parlarne lo
faceva
ancora soffrire. Beh, nel primo caso, pian piano, gli avrebbe fatto
comprendere che poteva parlarne, con lui e con chiunque, che non
c'erano problemi e che se anche la cosa poteva risultargli difficile
da sentire, aveva imparato ad accettarlo e a portare rispetto alla
sua memoria.
Si
sentiva orgoglioso di Jeremy. Aveva un modo divertente di parlare,
spigliato, allegro, condito da una strana e sottile ironia sponanea
che di certo suo figlio non aveva ereditato da lui ed era palese
quanto fosse seguito ed istruito nei suoi studi. Il suo linguaggio
era ricco, conosceva perfettamente, oltre all'inglese, sia la lingua
francese che quella tedesca che studiava da quando aveva cinque anni
perché Hugh la adorava e lo aveva contagiato con questa
passione.
Era un bambino molto diverso da quello che ricordava a Nampara o
forse no, non era diverso ma lui non si era mai soffermato troppo ad
osservarlo.
Lo
aveva chiamato papà un paio di volte durante quel racconto,
in
maniera timida ed impacciata come se fosse spaventato dal pronunciare
quella parola che doveva davvero apparirgli difficilissima. Per tutta
la sua vita – o quasi – la parola papà
era sempre stata
indirizzata nei pensieri a Hugh e anche se Jeremy sapeva che il suo
vero padre era un altro, mai avrebbe creduto di poter chiamare
quell'altro, papà. Capiva che avesse paura, che forse si
sentisse
pure in colpa verso Hugh e che dovesse apparirgli folle avere un
rapporto con lui... Lo capiva e rispettava i suoi sentimenti e mai si
sarebbe imposto per cancellare ciò che era stato e faceva
parte di
Jeremy e sperava che lui, col tempo, lo capisse. Che poteva fidarsi,
che poteva essere ciò che era sempre stato anche con lui. E
che lo
capisse appieno anche Clowance, fiera e testarda come ogni buon
Poldark che si rispetti.
Col
braccio sano tento di sistemare meglio il suo cappotto addosso ai due
bambini che gli dormivano uno da un lato e una dall'altro. Era un
bene che Jeremy si fosse addormentato, doveva arrivare riposato al
mattino successivo e anche se era preoccupato e si sentiva in colpa
per la missione che gli aveva affidato, era anche consapevole di non
avere altra scelta. Avrebbe potuto mandare Clowance con lui ma lo
avrebbe rallentato e Jeremy era abbastanza grande e sveglio da
riuscire a portare a termine da solo quell'incarico. Sua figlia era
ancora troppo piccola, era stanca ed affamata e non avrebbe fatto
altro che creare a Jeremy più problemi di quanti ne avrebbe
potuti
incontrare da solo.
Ross
baciò la testolina dei due bambini, concentrandosi sul
rumore della
pioggia che, in circostanze normali, lo avrebbe rilassato fino a
condurlo al sonno. Ma ora no, ora aveva promesso! E il male alla
spalla era talmente intenso da riuscire a tenerlo sveglio ad
oltranza, insieme al pensiero di Valentine e di Demelza e di quanto
lei stesse passando in quel momento.
"Sta
tranquilla, amore mio... Abbiamo messo al mondo un bambino in gamba e
lui riporterà tutti noi da te".
...
Era
stanca, bagnata, preoccupata e disperata ma per fortuna la sua
piccolina che cresceva dentro di lei faceva la brava, donandole una
gravidanza da sogno senza quasi sintomi. E di star bene aveva
estremamente bisogno in quel momento, soprattutto da quando avevano
lasciato a valle i cavalli ed avevano proseguito a piedi sui viottoli
scoscesi e sdruciolevoli.
Doveva
ritrovare Jeremy e Clowance! E Ross! Santo cielo, come aveva potuto
non accorgersi del dolore dei suoi figli e della loro decisione di
scappare? Da quando era diventata tanto egoista da pensare solo a se
stessa e alla sua felicità invece che ai suoi bambini? Amava
Ross,
lo amava alla follia e la vita aveva donato loro un altro figlio e
una nuova possibilità ma forse... forse non avrebbero
dovuto...
Una
madre non deve forse sacrificarsi per i suoi figli? Lo aveva sempre
fatto, certo! Eccetto per una volta, una volta in cui aveva agito
solo per se stessa ed era stata punita per questo! Niente succedeva
mai per caso e il destino le stava dando una dura lezione proprio ora
che non era possibile tornare indietro. Oppure il destino beffardo e
astuto, stava indicandole qualcos'altro? Non lo sapeva, non avrebbe
potuto saperlo finché non avesse ritrovato i suoi bambini.
Voleva
riabbracciarli, sgridarli, baciarli, gridargli che li amava e parlare
con loro. Solo questo, nient'altro.
Dwight
la fissò preoccupato mentre a tentoni, procedevano fra la
boscaglia
sempre più fitta ed insidiosa. "Demelza, vuoi fermarti? Mi
sembri affaticata e pallida. Provata...".
Scosse
la testa. Al diavolo, nemmeno il demonio in persona avrebbe potuto
fermarla e di certo non lo avrebbero fatto un pò di
stanchezza, di
pioggia e il buio incombente. "Se Sophie fosse scappata di casa
e tu fossi alla sua ricerca, saresti provato e pallido allo stesso
modo".
Dwight
la prese per il braccio. "Forse Ross li ha già ritrovati e
li
sta portando a casa sani e salvi. Ma anche in caso contrario,
fermarci qualche minuto non cambierà lo stato delle cose".
Demelza
alzò lo sguardo ad osservare il sentiero davanti a se,
imbevuto di
pioggia e pieno di fango. "Se Ross li avesse trovati, lo avremmo
già incontrato sulla strada del ritorno. Questo è
il sentiero che
ci ha indicato Daisy ed è da quì che lui
è passato. Non ci siamo
incrociati e quindi o non li ha trovati oppure qualcosa gli impedisce
di tornare indietro".
Dwight,
scuotendo la testa, accelerò il passo. Era evidente anche a
lui che
farle cambiare idea in quel momento, sarebbe stato impossibile. "Se
ti ammali, Ross se la prenderà con me!" -
borbottò.
"E
io ti difenderò" – gli rispose, a tono. "Mi
ascolta
molto di più di una volta".
Dwight,
a quelle parole, la fissò sorpreso e allo stesso tempo
incuriosito.
Nessuno meglio di lui sapeva quanto lei avesse sofferto, nessuno
aveva raccolto le sue lacrime quanto lui, Caroline e Prudie, nessuno
era rimasto scottato e aveva sentito il tradimento di un amico quanto
lo aveva sentito lui. "Ross è cambiato... In questi anni mi
sono spesso chiesto che cosa facesse, come vivesse, come guardasse a
quanto era accaduto e se fossi stato troppo implacabile nel
giudicarlo... Quando ho commesso a mia volta degli errori, mai lui mi
ha voltato le spalle e mai mi ha giudicato. E così, spesso,
mi sono
anche domandato se lo avrei potuto perdonare, nel caso le nostre
strade si fossero incrociate di nuovo".
Demelza
si bloccò, nell'udire quello sfogo. Sapeva a cosa Dwight
alludesse,
sapeva quanto la storia di Keren pesasse ancora sulla sua coscienza e
che non se lo sarebbe mai perdonato e non voleva che lui riaprisse
quel capitolo della sua vita che lo faceva ancora soffrire. "E...?".
"E,
cosa?".
"Lo
hai poi perdonato?".
Dwight
sospirò. "Lo hai fatto tu, l'ho fatto io. Perché
entrambi
sappiamo che è testardo, orgoglioso, indomito e non ama
ascoltare i
consigli, finendo nei guai. Ma è altrettanto vero che
nessuno come
Ross sa pagare le conseguenze di quegli errori portandone il peso da
solo sulle proprie spalle, e poi... E' un brav'uomo. Che ha sbagliato
e forse sbaglierà ancora. Ma mai con l'intenzione di nuocere
davvero
a qualcuno. Alla fine i suoi errori fanno male più che agli
altri,
soprattutto a lui stesso. E non si piange addosso e in questo lo
ammiro, proprio come te. Hai sofferto e ti ha fatto del male ma se
gli hai dato un'altra possibilità, è
perché riconosci in lui il
grande uomo che è. Coi suoi difetti... Hugh e la sua
dolcezza
appartengono a un tempo in cui avevi ferite da curare ed eri una
creatura fragile, ma tu non sei fragile ed ora è tempo che
tu segua
la tua natura, con l'uomo che ne sa godere appieno".
Demelza
fece un sorriso amaro. "Ma la scelta di amare l'uomo che il
destino ha scelto per me, mi sta costando cara. E i miei figli ne
stanno facendo le spese...".
Dwight
le appoggiò amichevolmente la mano sulla spalla, prima di
prenderle
la mano per aiutarla a proseguire. "Demelza, sei sempre stata
una madre attenta e meravigliosa, non hai mai smesso di esserlo
nemmeno quando il mondo ti è crollato addosso. Ma tu non sei
crollata, non lo hai fatto per i tuoi bambini e non hai nulla di cui
rimproverarti. Sai, con Sophie ma anche con Sarah seppur per poco
tempo, ho imparato che essere genitori significa essere pieni di
buoni propositi e nonostante questo, alla fine si sbaglia sempre
qualcosa. Ma tu non hai sbagliato e Jeremy e Clowance sono due
piccoli e testardi Poldark che prima di risolvere un problema, amano
generarne uno più grande. Sono come Ross, decisamente... E
tu non sei egoista, non hai lottato solo per ritrovare l'amore per te
stessa
ma anche un padre per Jeremy e Clowance. E sai bene quanto ne abbiano
bisogno anche i gemelli, così come Valentine, che ha pagato
colpe
non sue, ha bisogno di una madre".
Le
parole di Dwight le scaldarono il cuore e furono un balsamo per le
sue pene e per i suoi sensi di colpa. Era sempre stato un amico
prezioso, per lei e per Ross. E ne aveva sofferto sapendoli lontani
per anni, a causa di qualcosa che riguardava anche lei.
Improvvisamente,
mentre procedevano, sia Queen che Fox si fermarono. Fino a quel
momento avevano proceduto al loro fianco senza rallentare il passo o
allontanarsi ma ora le loro orecchie erano ritte, l'olfatto attivo e
lo sguardo serio e scrutatore.
Demelza
si avvicinò al cane e alla lupa dei suoi figli, li
accarezzò sulle
testoline e poi li guardò supplichevole. "Avete sentito
qualcosa? Siete la nostra unica speranza di trovarli tutti, vi prego
aiutateci...".
Attorno
a loro pioveva ancora a dirotto e le ombre della sera si facevano
sempre più lunghe, catturando ogni cosa.
Dwight
si guardò attorno, guardingo, cercando di scorgere il
più piccolo
movimento fra la vegetazione. Una parte della vallata era franata, il
fango era ovunque, così come la distruzione che la valanga
si era
portata con se. Era teso e preoccupato. Se Ross o i bambini si
fossero trovati lì al momento del crollo? Non voleva nemmeno
pensarci e non poteva nemmeno ventilare ad alta voce un'ipotesi del
genere. "Demelza, dobbiamo allontanarci in fretta da quì. E'
pericoloso".
Ma
Demelza scosse la testa. "No, i cani stanno fiutando qualcosa!".
Il
giovane medico si avvicinò a Queen, incerto se essere felice
che
avessero fiutato una traccia o spaventato per il fatto che questo
fosse successo in un posto dove era appena avvenuta una valanga.
Guardò i due cani, il meglio che potessero avere a
disposizione in
una situazione del genere. Entrambi gli animali avevano un olfatto
molto sviluppato ma le sue speranze maggiori erano riposte tutte
nella fiera e regale lupa di Clowance. Era un animale estremamente
vigile, attento ed intelligente ed aveva un rapporto di simbiosi con
la sua piccola padrona. Se Clowance e Jeremy – e magari anche
Ross
– erano nelle vicinanze, lei l'avrebbe capito di sicuro.
"Queen!".
La
lupa lo osservò con quei suoi occhi sfuggenti ed indagatori
che
sembravano a volte di ghiaccio e a volte dalle tonalità
vagamente
rosse come il fuoco, poi poggiò il muso contro la gamba di
Demelza
che conosceva di più. Ed infine, con un balzo, si
allontanò di
alcuni metri, prendendo ad ululare.
Il
suono di quell'ululato forte e potente si sparse per tutta la valle,
coprendo con la sua eco il rumore della pioggia. Dopo pochi istanti
anche Fox fece altrettanto, mettendosi ad ululare in modo meno
solenne e più buffo. Ma il messaggio era ugualmente chiaro,
dovevano
seguirli!
I
due animali presero a correre fra i detriti di rocce ed alberi, fra
il fango, saltando agevolmente ogni ostacolo che incontravano sul
loro cammino.
E
Demelza capì. "Li hanno fiutati, sanno dove sono e ci stanno
guidando da loro! Dwight, forse questo incubo finirà"
–
esclamò, in un misto fra speranza e paura. Che c'era appena
stata
una valanga, lo vedeva anche lei. Ma non voleva pensare al peggio,
non poteva permetterselo.
E
nemmeno Dwight. La prese per mano e insieme corsero nella scia che
avevano lasciato dietro di loro Fox e Queen.
"Ross,
Jeremy, Clowance!!!" - urlarono entrambi mentre correvano fra
mille pericoli con a destra una montagna che poteva di nuovo franare
e a sinistra un pericoloso strapiombo che non avrebbe lasciato loro
scampo, se fossero caduti.
Ma
la forza del coraggio e della disperazione furono più forti
della
paura e dei pensieri foschi. Chiamarono, urlarono e non persero mai
di vista i due cani. Loro li avrebbero condotti dai loro padroncini.
...
Nonostante
l'eco della pioggia che nella grotta sembrava amplificato, Ross
avvertì chiaramente l'ululato di un cane. O di un lupo...
Potevano
essere lupi selvatici ma dubitava che vagassero per la montagna con
quel tempo e con quella pioggia, soprattutto dopo una valanga. E
Dwight aveva promesso di venire ad aiutarlo nelle richerche appena
tutti fossero stati al sicuro al maniero.
Poteva
essere Dwight e Dwight era intelligente abbastanza da capire che il
cane di Jeremy e la lupa di Clowance potevano aiutarlo nelle
ricerche. Non gli aveva chiesto di raggiungerlo coi cani, non ci
aveva pensato sul momento ma Dwight che era più pragmatico e
razionale di lui, di certo poteva averlo fatto.
Guardò
Jeremy che ancora dormiva e anche se era pericoloso, sentì
che
doveva svegliarlo. "Jeremy".
Il
piccolo aprì gli occhi, strofinandoseli con le mani. Lo
guardò per
un attimo tramortito, deglutì e poi azzardò un
timido 'papà', come
ricordandosi poco per volta che ora poteva chiamarlo così.
"E'
già mattina? Devo andare a cercare aiuto?".
Ross
gli sorrise. "No, non è mattina, non è ancora
nemmeno venuta
la sera. Ma senti..." - gli disse, indicandogli l'orecchio.
Jeremy
si mise a sedere, concentrato ed attento.
E
dopo pochi istanti, un nuovo ululato giunse fino a loro.
Il
ragazzino spalancò gli occhi e poi si voltò a
guardarlo, sorpreso
ed incredulo. "Questo è Fox, lo riconosco, so come abbaia! E
c'è pure Queen".
Ross
annuì. "Sei sicuro che siano loro?". Non poteva
permettersi di mandarlo fuori da solo se c'era il rischio che ad
ululare fossero lupi selvatici, invece che i cani dei bambini.
Lui
si imbronciò a quella domanda. "E' il mio cane, CERTO che
sono
sicuro! Sta venendo, sta venendo a salvarmi!" - esclamò ad
alta
voce, eccitato, finendo per svegliare Clowance.
La
piccola si guardò attorno assonnata, ma poi divenne subito
vigile.
"Queen!".
Ross
annuì, se i bambini erano entrambi sicuri, poteva stare
tranquillo.
"Dev'essere Dwight, sarebbe venuto a cercarci. Correte fuori,
chiamatelo e fatevi raggiungere dai vostri cani. Siamo salvi!".
Si sentiva sollevato, come se un grosso peso fosse stato levato dal
suo stomaco. Jeremy non avrebbe dovuto andare da solo da nessuna
parte all'indomani, Dwight stava arrivando e tutto sarebbe finito per
il meglio.
I
due bambini corsero fuori, con Jeremy che teneva Clowance per mano
per evitare che scivolasse sul fango. Chiamarono forte il nome dei
loro cani e quello di Dwight e finalmente in lontananza, sporchi ma
veloci come lepri, videro Fox e Queen che correvano verso di loro.
Jeremy
scoppiò a ridere, grato di rivedere il suo piccolo e
bistrattato Fox
che correva con la lingua all'infuori per lo sforzo, ma veloce quanto
e più di una lepre. Gli andò incontro e il
cagnolino, più piccolo
ed agile dell'altera ed elegante Queen, gli saltò addosso
leccandolo
sulla faccia.
Anche
Queen, di solito linda e pulita nel suo pelo candido ma ora sporca di
fango quanto la sua padrona, arrivò e, meno irruenta di Fox,
si
limitò ad appoggiare il muso alla spalla di Clowance e a
leccarla
sulla guancia. "Queen, lo sapevo che venivi a salvarmi!" -
esclamò, contenta e dimentica della paura provata fino a
poco prima.
"Ma
è arrivato prima Fox" – la rimbeccò con
fierezza Jeremy, col
suo cagnolino in braccio.
La
bimba lo guardò storto. "Gli manca l'eleganza e la bellezza
e
compensa con la velocità" – rispose, a tono.
Jeremy
fece per ribattere ma capì che non era il momento. Delle
voci li
chiamavano e una sì, era di Dwight. Ma l'altra...
Spalancò gli
occhi. "Mamma... Clowance, c'è la mamma!" -
esclamò il
bambino, tremando per l'emozione.
La
piccola, prima vinta dalla sopresa e poi agitata, emozionata e
contenta, prese a correre nella direzione da cui provenivano i
richiami. "Mamma, mammaaaaa!" - urlò, dimentica per una
volta delle buone maniere e del fatto che le signorine ben educate
non devono mai alzare la voce.
Jeremy
la seguì e finalmente li videro, in mezzo ad arbusti e
massi, che
arrivavano verso di loro. Gli corsero incontro e Demelza fu talmente
veloce da saltare ogni ostacolo che le si parava davanti con la
stessa agilità dimostrata da Fox, per la fretta di
raggiungerli. E
appena li ebbe vicini, li strinse in un abbraccio talmente forte che
avrebbe potuto stritolarli.
Calde
lacrime scesero dai suoi occhi. Giuda, non aveva mai avuto tanta
paura in vita sua e ora ritrovare i suoi figli sani, salvi, sporchi
ma apparentemente indenni, era il più bel dono che la vita
gli
avesse riservato. Aveva perso Julia e mai avrebbe voluto rivivere un
dolore del genere e anche se era arrabbiata con loro e li avrebbe
sgridati e magari messi in castigo, per ora voleva solo stringerli a
se per far sentire loro che li amava, che non dovevano temere nulla
del futuro e che insieme avrebbero superato ogni problema, come
sempre. "State bene..." - mormorò loro baciandoli sulle
guance, mentre anche Dwight li raggiungeva.
Jeremy
annuì. "Sì... Sei arrabbiata?".
"Da
morire, ma ci penseremo dopo".
Clowance
abbassò lo sguardo, rannicchiandosi contro di lei. "Scusa
mamma...".
"Scusa
mamma" – ripetè Jeremy.
Demelza
sorrise loro. "Vi scuso... E vi chiedo scusa per non aver
capito... Abbiamo tante cose di cui parlare ma per ora, siamo pari?".
"Siamo
pari" – rispose Jeremy. "Niente castigo, quindi?".
Santo
cielo, che faccia tosta! Lo avrebbe riempito di baci e sculacciate
nello stesso istante, quel piccolo furbo monello. "Ci penseremo
poi... Non ora" – rispose, stanca ma sollevata nel vedere che
lo spirito dei suoi figli non era stato piegato da quella difficile
avventura.
Dwight,
sorridendo, accarezzò i bambini sulla testa. "State bene?
Ora è
questo l'importante".
Clowance
sospirò. "Noi sì. Ma...".
La
bimba guardò il fratello e Jeremy si sentì
investito da quella
responsabilità. Dovevano condurre Dwight e la mamma alla
grotta e
non dal signor Poldark, come lo avevano sempre chiamato fino a quel
momento, ma dal loro papà. "Noi sì, ma
papà ha qualche
problema".
Demelza
spalancò gli occhi. Papà? Jeremy aveva detto
'papà'? "Cosa
hai detto?".
Jeremy
si voltò verso la grotta e, forse non cogliendo la sorpresa
e lo
sgomento della madre per ciò che aveva appena sentito, la
indicò ai
due adulti con la mano. "C'è stata una frana,
papà ci ha
spinto via e ci ha salvati. Ma a lui qualche pietra addosso
è caduta
e ha male alla spalla e alla caviglia. Credo abbia la stessa cosa che
ha avuto Gustav quando è caduto da cavallo".
L'ansia
per Ross prese ad attanagliare Demelza, ma in mezzo a tutta
quell'apprensione, una cosa la rincuorava. Ecco un'altro degli strani
giochi del destino che l'aveva costretta a vivere una grande paura,
necessaria però a far riavvicinare Clowance e Jeremy al loro
vero
padre. Se tutto aveva un prezzo, ognuno di loro aveva saldato il
proprio debito con la vita e il fato. E anche se Ross era ferito,
aveva la forza necessaria e la pelle abbastanza dura per uscirne in
fretta.
Dwight,
senza dire nulla, si mise a grandi falcate a dirigersi verso la
grotta. "Tranquilli, ora sistemeremo tutto. Anche Ross... E'
stata una fortuna che lui fosse nei paraggi quando c'è stata
la
valanga e ancora più fortunati siete stati a trovare un
rifugio".
Demelza
prese i bambini per mano e coi cani, seguì Dwight.
Appena
arrivarono alla grotta, trovarono Ross vigile, sveglio e malconcio,
coperto col suo cappotto.
Demelza
gli si inginocchiò di fianco e, dimentica di tutti i segreti
che
avevano accompagnato la sua relazione con Ross negli ultimi mesi e
finalmente libera di dimostrare al mondo cosa provava per lui, lo
abbracciò convulsamente come aveva fatto coi suoi figli poco
prima.
"Ross, amore mio...".
"Demelza?".
Lui la guardò sorridendo, sorpreso (ma non troppo) che lei
fosse lì.
"Non ti avevo detto di rimanere al caldo e al sicuro al maniero?
Che ci fai quì?".
Lei
sorrise. "Sai che finisco sempre col fare di testa mia" –
sussurrò, baciandolo a fior di labbra. "Così come
sapevi
benissimo che non me ne sarei stata con le mani in mano mentre i miei
figli erano dispersi fra questi dannati monti scozzesi".
Ross
le accarezzò la guancia, rendendosi conto che se la vecchia
Demelza
di Nampara non amava ascoltare, di certo non poteva pretendere che lo
facesse la potente ed indipendente Lady Boscawen. Era bellissima, la
guardò e la trovò irresistibile anche bagnata e
sporca ed anche se
era arrabbiato per il fatto che avesse corso dei rischi per arrivare
fin lì, non poteva non ammettere a se stesso di essere
immensamente
felice di averla vicino. Poi guardò i loro figli e Demelza
li
strinse a se, assieme a lui. E per la prima volta dopo tanti anni di
dolore e separazione, si abbracciarono, solo loro quattro, come non
erano mai riusciti a fare. Erano davvero una famiglia, adesso e se
qualche capitolo col passato era rimasto in sospeso, ora era
definitivamente chiuso.
Dwight
li lasciò fare rimanendo in disparte, ma poi
tossicchiò. "Ross...".
"Dimmi".
Il
medico guardò i due bambini. "Questa scena commuovente e
strappalacrime fa tanto bene al cuore, ma tu sei ferito e io avrei da
lavorare. I tuoi figli mi han detto che hai bisogno della revisione
di un medico. Fammi dare un'occhiata alla tua spalla".
Jeremy
intervenne. "Gliel'ho fasciata al collo come fai tu, per
tenergliela ferma" – disse, con una nota di orgoglio nel tono
di voce.
Dwight
gli sorrise e Demelza lo strinse a se, orgogliosa. "Sei stato
bravo, davvero bravo Jeremy" – disse il medico. "E tu
Ross dovresti essere davvero fiero di lui".
Ross
guardò il bambino, trovandosi perfettamente d'accordo col
suo amico.
"Lo sono Dwight, lo sono...".
Dwight
gli si avvicinò, tolse la fascia e allentò la
camicia, tastandogli
la spalla. "E' lussata, slogata. La cosa positiva è che
basta
una semplice e veloce manovra per sistemarla".
Ross
sospirò. "Se c'è una cosa positiva, di solito poi
ce n'è una
negativa".
Dwight
ridacchiò. "Sì, ovviamente! La cosa negativa
è che questa
manovra farà un pò male ma tu non sei un bambino
e sono certo che
non farai storie".
Ross
alzò gli occhi al cielo. "Fa quel che devi!". Via il
dente, via il dolore, dopo tutto...
Dwight
gli si avvicinò, lo immobilizzò fra se e la
parete per evitare che
si muovesse e poi gli tirò il braccio, ruotandolo in esterno
per far
rientrare l'osso in sede.
Ross
strinse i denti, si sentì sudare freddo e provò
la voglia poco
virile e maschia di urlare. Ma non lo fece, non davanti a Demelza!
MAI davanti a lei o ai bambini.
Ma
quando Dwight ebbe finito, si sentì improvvisamente
rinascere. La
spalla smise immediatamente di fargli male e le forze tornarono
all'istante. "Ma...?".
"Non
è un miracolo, si tratta di anatomia delle ossa". E dopo
aver
detto questo, Dwight spense subito i suoi ardori, rifasciandolo. "La
devi comunque tenere a riposo per un paio di settimane, non sei
guarito e non lo sarai, se non starai fermo. Ma ora il punto
è se
riesci a camminare".
Ross
annuì. "Mi fa male la caviglia, credo di aver preso una
botta
ma è una cosa sopportabile".
Dwight
tastò la caviglia, notò che era gonfia ma non
rotta e dopo una
forte bendatura per sostenerla, lo aiutò a rialzarsi.
"Dovrai
stringere i denti, potrai sostenerti a me ma credo che dovresti
riuscire a camminare senza troppi problemi. Quanto meno fino ai
cavalli, a valle".
Ross
annuì e Demelza tirò un sospiro di sollievo,
abbracciata ai bambini
e ai cani. "E allora su, sta diventando buio! Sbrighiamoci e
torniamo a casa!". Con la fasciatura la caviglia sembrava
reggere il suo peso e anche se dolorante, riusciva a camminare. E la
spalla, senza i dolori lancinanti avvertiti fino a poco prima,
lasciava spazio alla sua determinazione e alla sua energia. Doveva
tornare a casa, doveva farlo e riportare sani e salvi al sicuro i
suoi cari.
...
Stanchi
di aspettare e di vedere lo zio fare avanti e indietro nel corridoio
borbottando, i gemelli sgattaiolarono fino alla grande porta
d'ingresso che dava sul ponte levatoio. La mamma, il signor Poldark,
Dwight e i loro fratelli erano la fuori e qualcuno doveva andare ad
aiutarli.
Nel
trambusto generale, il grande ed imponente servitore dai capelli
rossi che tutti guardavano storto perché portava la gonna,
dalla
corporatura massiccia e dalla forza mostruosa, passò davanti
a loro
squadrandoli con lo sguardo e ringhiando qualcosa in una lingua che i
bimbi non riuscirono a comprendere.
Ma
Daisy non si fece scoraggiare. L'aveva visto portare sulle spalle un
manzo intero appena macellato, aveva la forza di un signore di nome
Maciste di cui Jeremy gli leggeva le gesta e poteva fare tanto per
loro. Anche se aveva la gonna e allo zio questa cosa non piaceva,
quell'uomo era tutto fuorché una femminuccia. "Signore!".
Lo
scozzese la guardò come un gigante guarda una formica.
"Sì?".
"Devi
andare a cercare la mia mamma, i miei fratelli, il signor Poldark e
Dwight".
"E
chi lo ordina?" - ringhiò l'uomo, dai modi decisamente poco
gentili e poco avvezzi ai bambini.
Demian
si mise la manine sui fianchi, per nulla spaventato. "Noi!".
"E
voi chi sareste, nani? Io eseguo solo gli ordini del padrone".
Daisy
alzò il musetto verso di lui, per nulla intimorita. "Lo zio
è
il padrone, io sono sua nipote e quindi sono padrona anche io. E mio
fratello pure!".
L'uomo
scoppiò a ridere per la faccia tosta di quei due moscerini
londinesi. "Padroni minuscoli, ordini minuscoli".
Daisy
gli fece la linguaccia, ma poi capì che forse un approccio
più
gentile poteva tornarle utile. "Per favore, anche se sono una
padrona minuscola, vai a cercare la mia mamma?". Chi meglio di
lui che conosceva quei posti?
L'uomo,
alla parola 'per favore' a cui evidentemente non era abituato,
cambiò
atteggiamento. "Padrona minuscola, modi gentili e anche un 'per
favore'. Il mondo e gli invasori inglesi sono improvvisamente
impazziti! E la montagna con la pioggia mi piace di certo di
più di
un padrone che porta i pantaloni".
Daisy
sorrise. "Andrai?".
"Andrò!".
Demian
lo osservò incuriosito. "Con la gonna?".
E
lo scozzese ringhiò di nuovo. "Con la gonna, sì".
E poi
uscì, chiudendosi pesantemente alle spalle il massiccio
portone di
legno.
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Capitolo 75 *** Capitolo settantacinque ***
Era
stato difficoltoso scendere dalla montagna con una spalla fasciata e
una caviglia dolorante, per di più sotto una pioggia non
più
scrosciante ma comunque continua, che rendeva scivoloso il terreno.
Ross
aveva stretto i denti, rassicurato Demelza e i bambini sulle sue
condizioni e con l'aiuto di Dwight era riuscito ad arrivare ai
cavalli. I due cani, uno a fianco dell'altro e senza mai cercare di
andare sorpassarsi a vicenda per detenere sull'altro una sorta di
predominanza, li avevano scortati per i sentieri meno insidiosi e
infine, una volta saliti in sella, si erano accodati dietro di loro
nella strada verso casa.
Ross
era salito sul cavallo con Dwight che aveva abbastanza forza per
sostenerlo mentre i bambini e Demelza avevano preso l'altro.
Col
cuore leggero, anche se stanchi ed infreddoliti, si erano messi in
cammino, contenti che l'avventura si fosse conclusa al meglio e
sereni perché sapevano che da lì in poi sarebbe
iniziata per tutti
una nuova vita.
A
metà strada, con loro grande sorpresa, avevano incrociato il
gigantesco servitore scozzese alto come una montagna, dai capelli
rossi e sempre vestito con abiti tradizionali, che veniva loro
incontro. Mugugnando sotto voce come al solito, Raghnall –
questo
il suo nome – aveva detto di essere stato mandato in loro
aiuto
dai 'padroni' e benché nessuno avesse capito a chi si
riferisse
oltre a Falmouth, era stato di grande aiuto per sostenere Ross dalle
stalle all'ingresso principale, una volta giunti a destinazione. Ed
era stato un sollievo averlo in aiuto, perché era davvero
sfinito.
All'ingresso
Falmouth corse loro incontro, con un'espressione in bilico fra il
sollievo e la rabbia. Guardò i due piccoli fuggiaschi
bagnati e
sfiniti, osservò i tre salvatori e i cani e poi ancora i
bambini,
prese un lungo respiro e poi sbottò. "Voi siete nei guai,
avete
idea di cosa ci avete fatto passare oggi?".
Il
suo tono era severo ed era chiaro che avesse avuto paura per loro e
fosse preoccupato, così com'era altrettanto chiaro che i
bambini
comunque dovessero essere sgridati per quanto avevano fatto, non per
una rivalsa ma perché capissero quanta preoccupazione
avevano
generato in tutti. Ma non in quel momento e soprattutto, non era
compito di Falmouth farlo.
Ross
lo guardò in modo fermo e cercò di parlare in
modo quanto più
gentile possibile per spiegare che ora c'erano due genitori, che
Demelza non era più sola e che ci avrebbero pensato loro a
questo
genere di cose. "I bambini sanno di aver sbagliato e abbiamo
parlato a lungo di quanto hanno fatto e dei rischi che hanno corso.
Sono dispiaciuti, ora sono stanchi e bagnati e io e Demelza, appena
ci saremo ripresi da questa avventura, penseremo a cosa fare per
evitare che succedano ancora cose del genere in futuro".
Falmouth
fece per replicare, ma Jeremy lo interruppe mettendosi
coraggiosamente davanti a lui. "Scusa zio, so che sei arrabbiato
e so che non dovevamo farlo. Ma avevamo paura di tante cose che non
riuscivamo a spiegare e se vuoi sgridarci, hai ragione. Ma dopo, ora
papà ha bisogno di Dwight perché è
ferito".
Falmouth
spalancò gli occhi. "Papà...?". Guardò
Ross e Demelza,
poi i bambini e poi di nuovo Ross con espressione incredula, infine
emise un nuovo sospiro. "A quanto pare non tutte le marachelle e
i mali portano a cattive conseguenze. Ne parleremo dopo,
sì...".
Ross
sorrise con fierezza a Jeremy, sostenendosi a Dwight. "Grazie".
"Grazie"
– aggiunse anche Demelza.
Falmouth,
scuotendo la testa, osservò Ross. "Che vi siete fatto?".
"Niente
di grave, ho solo la spalla e una caviglia ammaccate ma con un
pò di
riposo, sarò come nuovo".
"Riposo
che deve partire da subito" – aggiunse Dwight. "Lo
accompagno in camera. Demelza, puoi aiutarmi a sistemarlo per
metterlo a letto?".
La
donna annuì, attirando a se i due bambini. "Certo".
Falmouth
guardò Jeremy e Clowance di nuovo, prima di accomiatarsi.
"Oggi
per voi inizia una vita nuova, lo sapete? E non dovete averne paura,
lo avete capito?".
"Sì"
– risposero i bimbi.
"Bravi...".
L'uomo
fece per accarezzare le loro testoline, ma Clowance si ritrasse.
"Zio, no! Sono sporca, se mi tocchi ti sporchi anche tu!".
Falmouth
scoppiò a ridere di gusto davanti a quella preoccupazione
tanto
tipica di Clowance e in tutta risposta, la attirò a se con
un
abbraccio. "Mi laverò! Tua nonna mi ha riempito la borsa di
quel suo sapone maledetto che odia anche Daisy e visto quanto siamo
tutti bisognosi di un bagno, stasera almeno finiremo la scorta e
potremo tornare a lavarci con qualcosa di DAVVERO profumato!".
E
ridendo, se ne andò.
Anche
se Ross e Demelza sapevano bene che con lui la faccenda non era
ancora chiusa e che sarebbe tornato sul discorso, rivendicando ancora
un ruolo sull'educazione dei bambini che aveva seguito con amore e
cura in tutti quegli anni. Ed entrambi non intendevano negargliela,
ma ognuno doveva imparare a ritagliarsi nuovi spazi e nuovi ruoli, da
lì in poi.
"Sù,
saliamo di sopra" – disse Dwight.
"Saliamo".
Ma
furono interrotti di nuovo.
Dalla
scala che stavano per prendere, scesero Prudie coi gemelli e
Valentine.
Appena
li videro, i bambini corsero giù eccitati, i gemelli verso i
due
fratelli fuggiaschi e Valentine verso suo padre.
"Papà,
sei tornato! SIETE TORNATI! Ma cos'hai?" - chiese Valentine,
notando che era ferito.
Demelza
si inginocchiò, posandogli dolcemente la mano sulla spalla.
"Niente
di grave, ha solo qualche bernoccolo qua e la e deve riposare. Tuo
padre ha la pelle dura".
Daisy
e Demian, festanti, trotterellarono attorno alla madre e ai fratelli.
"Altro che Londra! Nemmeno fuori dalla Scozia siete riusciti ad
andare!" - esclamò Daisy.
E
Demian rincarò la dose, aggrappandosi alle gambe di Demelza.
"Certo!
Senza mamma dove volevano andare?".
Ross
sorrise guardandoli. Ripensò al silenzio angosciante che lui
e
Valentine avevano respirato a Nampara per anni e a come quei due
bambini avrebbero spezzato con allegria quell'aria opprimente che li
stava pian piano distruggendo. Era una grande responsabilità
amarli
e aiutarli a crescere ma si sentiva pronto a farlo assieme a Demelza.
E sperò in cuor suo che loro lo accettassero come avevano
fatto
Jeremy e Clowance. E che Valentine facesse altrettanto con Demelza,
affidandosi a lei da figlio.
Daisy
gli si avvicinò, quasi con fare timido. "Ci sei riuscito".
Ross
le sorrise. "Te lo avevo promesso. Ora potrai farti passare il
mal di pancia".
"Sì.
Ma tu sei tutto rotto, adesso".
"Dwight
mi ha aggiustato, te lo garantisco".
Daisy
non sembrava molto convinta dalle sue rassicurazioni, però.
Si mise
le manine dietro la schiena, si dondolò sulle gambette e
prese ad
osservarlo in maniera seria e attenta. "Sicuro?".
"Sicuro".
"Ti
fa male il piede?" - chiese la bimba.
"Sì,
ma Dwight, la mamma e un gigante scozzese grandissimo, mi hanno
aiutato a tornare a casa".
A
quelle parole, Daisy rise. "Il nostro amico!".
Demelza
spalancò gli occhi. "Chi?".
"Raghnall!"
- si insinuò Demian.
Daisy
annuì, fiera di se stessa. "Raghnall, sì. Lo
abbiamo mandato a
cercavi, io e Demian. Siamo amici adesso, ma siamo anche i suoi
padroni, gli abbiamo chiesto 'Per favore' e lui è venuto a
cercarvi".
Ross
rise di nuovo, di gusto, seguito da Jeremy e Clowance. Se Falmouth
fosse stato ancora nei paraggi, gli sarebbe venuto un colpo a
sentirli parlare. Ecco chi erano 'I PADRONI' che avevano ordinato al
servitore scozzese in gonnella di venire in loro soccorso! Non
Falmouth, non Prudie, non un adulto ma quelle due mezze tacche dei
gemelli! "Siete stati grandiosi, grazie".
"Prego"
– rispose Daisy, con ancor più fierezza.
"Già,
grazie" – aggiunse anche Dwight, ridendo sotto i baffi. "Ma
ora tutti noi abbiamo bisogno di salire, lavarci e riposare.
Soprattutto Ross".
Demelza
si complimentò ed abbracciò i suoi gemellini e
Valentine che li
aveva curati durante la sua assenza, prima di affidarli nuovamente a
Prudie. "Pensaci tu, finché non ci saremo sistemati".
"Sìssignora"
– rispose la serva, osservando Ross e sospirando. "Si
è fatto
male, ora il suo carattere sarà ancora peggio... Che posto
infame,
questa Scozia" – borbottò, allontanandosi coi tre
bambini.
Ross
rise. Santo cielo, la sua vecchia vita che tanto amava stava tornando
pienamente in suo possesso. Prudie compresa! Era felice!
Si
lasciò accompagnare di sopra, salutò Jeremy e
Clowance prima di
lasciarli perché andassero a lavarsi e poi si
affidò a Demelza e
Dwight.
Si
lavò, si mise una camicia pulita e appena toccò
il materasso e
sentì sulla pelle il tepore del camino acceso, cullato dal
rumore
della pioggia si addormentò come un bambino nella culla. Era
felice,
era padre, i suoi figli erano sani e salvi e tutto sarebbe andato
bene per lui e Demelza. Si era ripreso la sua vita con dei
meravigliosi, piccoli e svegli interessi, i gemellini. Non poteva
chiedere di più. Cosa poteva esserci di più?
...
Si
era addormentato di sasso e solo un profumo di sapone e di pulito, un
profumo che sapeva di casa e di famiglia, lo riportò nel
mondo dei
vivi dopo un sonno forse breve, ma decisamente ristoratore.
Ross
aprì gli occhi e anche se si sentiva fasciato come un salame
e
questo lo avrebbe reso scalpitante ed intrattabile, vedere Demelza,
in vestaglia accanto a lui, bastò a ridargli il buon umore.
"Amore
mio..." - sussurrò, stiracchiandosi.
"Bentornato
fra noi, hai dormito per ben ore. Ti sei addormentato prima che
Dwight finisse di farti la fasciatura".
Ross
sospirò, guardandosi la spalla bloccata. "La odio...".
"Ma
la cosa è ininfluente e la terrai per il tempo che serve"
–
rispose lei, con lo stesso tono che usava coi gemelli quando non
volevano prendere lo sciroppo della tosse, aggiungendoci
però poi un
dolce bacio sulle labbra.
“E
i bambini?”
- chiese Ross.
Demelza
si sedette accanto a lui, controllando che
la fasciatura al braccio che gli aveva appena fatto Dwight, fosse
ancora a posto.
“Stanno
facendo il bagno e preparandosi per andare a dormire, sono tutti
sfiniti dopo la giornata di oggi. E, buona notizia, finalmente
Demian si è deciso – specificando che è
solo per questa notte –
a dormire con
Jeremy e
Valentine. Gli
ho spiegato che tu hai bisogno che ti stia vicino nel caso ti venga
la febbre e lui ha capito, anche se ho dovuto giurargli che
potrà
venire qui, se sente la mia mancanza”.
Ross
sorrise impercettibilmente. “E Clowance? Sta
bene anche lei?”.
“Certo.
Ha chiesto di avere
la sua camicia da notte preferita di seta rosa e
sta facendo il bagno con
il mio sapone alla violetta”.
Ross
sorrise di nuovo. “Lei è una vera lady, anche
quando fa
il bagno. E
Daisy e
Valentine?”.
Demelza
sospirò. “Lei
non ha più mal di pancia e ha detto che da stanotte
tornerà a
dormire da sola, che le do di nuovo fastidio nel letto e quindi direi
che è guarita. Valentine, una volta rassicurato che tu stavi
bene e
non avevi nulla di grave, si è tranquillizzato”.
Ross
stavolta rise, di gusto, notevolmente
più tranquillo rispetto a poche ore prima.
“Quindi
Daisy non farà nemmeno per me uno strappo alla regola per
dormire
nel lettone?”.
Demelza
lo guardò storto. “Ringrazia il cielo che sia
così! Dorme come
uno scoiattolino, non sta ferma un attimo e ti prende a calci ogni
due secondi mentre si gira e rigira. E' vivace anche nel sonno,
lei”.
Ross
le prese la mano, baciandola. “Mi ricorda te quando ci siamo
conosciuti. Bellissima e selvaggia”.
Demelza
rise, rendendosi conto che lui aveva perfettamente ragione e che in
fondo non le importava troppo che
la sua gemellina fosse tutto all'infuori che una signorina a modo.
“Voglio che sia come vuole, come la rende felice. E se Daisy
sarà
felice di cavalcare come un uomo, di guidare una banda di monelli e
di rispondere a tono come un maschiaccio, beh, che lo faccia. Quanto
meno saprà sempre farsi rispettare. A me basta solo che sia
una
bambina buona d'animo”.
“Tutti
i bambini presenti in questa casa sono buoni d'animo, ognuno a modo
suo, ognuno col suo carattere”.
“Anche
Daisy, così pestifera? E Clowance, così
vanitosa?”.
Ross
le accarezzò il viso. “Sono
assolutamente perfette, non cambierei nulla in loro”.
Demelza
deglutì. Era stata così spaventata e preoccupata
per Ross, che non
era ancora riuscita a dirglielo, a dirgli quel piccolo segreto che
custodiva gelosamente da quasi
due mesi e che
inizialmente l'aveva spaventata tanto. Ma ora lui era qui, al sicuro.
E anche i bambini... E Jeremy e Clowance lo avevano chiamato
papà...
Adesso era il momento e anche se aveva paura anche solo di sperare di
essere felice, sentiva che doveva dirglielo. Ora
lo avrebbero affrontato insieme, ora avrebbero gridato al mondo e
alle sue stupide regole, insieme, che si amavano e aspettavano un
figlio che sarebbe nato in una famiglia piena di amore, poco
convenzionale ma dove nessuno sarebbe mai più stato lasciato
indietro. Erano stati capaci di costruire un miracolo insieme, lei e
Ross, e quella piccolina sarebbe stata solo la ciliegina sulla torta
per quel percorso tortuoso
e duro che
avevano percorso a lungo e con dolore e fatica. “E
il carattere dell'altra bambina?”. Non
trovò altro modo per dirglielo se non quello.
Ross
si accigliò. “Quale altra bambina?”.
Lei
lo guardò in viso, perdendosi in quegli occhi scuri, sperando
che la piccolina gli somigliasse.
“Quella che aspetto” - disse,
in un soffio.
Ross
spalancò gli occhi, impallidì,
rimase
attonito e silenzioso per un attimo e lei ebbe paura che svenisse,
che si arrabbiasse per non averglielo detto prima, che... che...
Ross
deglutì. “De...
Demelza?
Stai dicendo che...?”.
Lei
annuì,
torcendosi le mani. “Ne sei stupito? Dopo tutti i pomeriggi
passati
al cottage insieme...”.
E
Ross scoppiò a ridere, di nuovo, come se fosse ubriaco, reagendo
in un modo che mai Demelza si sarebbe aspettata.
Le sfiorò il
viso con la mano
e la baciò. A lungo, avidamente,
prima di
posare la sua
mano dolcemente sul suo ventre. “Avremo un bambino? Una
bambina?”.
“Sì.
Sei felice?”.
E
glielo chiedeva pure? Santo cielo, come poteva un uomo non essere
felice per un miracolo? Perché essere insieme lo era, essere
amato
dai suoi figli lo era, diventare di nuovo padre dopo quanto successo
lo era! E non lo meritava ma al diavolo, quella gioia l'avrebbe
goduta appieno. “Certo”
- le rispose, dolcemente. La baciò di nuovo, felice come un
bambino
a cui avevano appena regalato un giocattolo nuovo. “Come fai
a
sapere che è una femmina? Quando
nascerà? Da quanto lo sai? E' da una vita che io e te...”.
Demelza
alzò le spalle, preparandosi
a rispondere a quella sfilza di domande.
“A parte per i gemelli, ho sempre avvertito quale sarebbe
stato il
sesso del bambino che
aspettavo. Per
Julia e Clowance, sapevo che erano femmine. Per Jeremy sapevo che era
un maschio. Non so come facessi, istinto, credo... Con Demian e Daisy
era strano, un giorno immaginavo un maschio e un giorno una femmina e
poi, quando sono nati, ho capito perché il mio istinto
sembrava
avermi abbandonata”. Si toccò il ventre ancora
piatto. “Ma
lei... lei è una lei... Lo so come so che mi chiamo
Demelza”.
Ross
la abbracciò, la abbracciò talmente forte da
lasciarla senza fiato.
Aveva gli occhi lucidi e Demelza sapeva cosa provava perché
erano le
stesse emozioni che muovevano ogni suo respiro in quel momento.
Sollievo, gioia, dolcezza, amore. Ma anche consapevolezza dei propri
errori, di ciò che era stato e dell'impegno che avrebbero
dovuto
metterci in quello che sarebbe venuto.
“I
bambini lo sanno?” - chiese lui, col viso affondato fra i
suoi
capelli.
“No,
non lo sa nessuno a parte te. Ho
pensato che tu avessi la
precedenza”.
Ross
la guardò in viso, studiando il suo volto. Le
baciò la punta del
naso, le accarezzò la guancia e poi divenne serio, guardandola
storto. “E
tu, oggi, sei venuta in montagna, in mezzo a una tempesta, correndo
mille rischi, sapendo di aspettare un bambino? La
MIA bambina?”.
Demelza
ridacchiò, cercando di rispondere a tono perché
sapeva bene quanto
Ross potesse diventare apprensivo. “Non
sarei riuscita ad aspettare a
casa nemmeno
se mi avessero legato a una sedia. Eri disperso, con Jeremy e
Clowance e NIENTE mi avrebbe tenuta lontana da voi”.
Lo
sguardo di Ross si addolcì. “Jeremy e Clowance
erano con me e non
avrei mai permesso che gli succedesse qualcosa di male”.
Lei
sorrise, lo sapeva ma... “Ross, sono la loro madre. E stavo
bene,
sto bene! Sapevo di poter affrontare quella camminata sotto la
pioggia... Sapevo che era pericoloso ma DOVEVO trovarvi o sarei
impazzita. E per fortuna l'ho fatto e io e Dwight vi abbiamo trovato.
Ora ti sei ripreso ma avevi la febbre prima,
a causa della ferita al braccio. E
io, Dwight e i cani abbiamo fatto squadra, portandoti a casa quanto
prima”.
Lui
la baciò sulle labbra, dolcemente. “Ti ringrazio
per essere corsa
da me ma non farlo mai più. Aspetti la nostra bambina,
voglio che tu
stia tranquilla e al sicuro”.
“E
tu farai altrettanto?” - chiese lei, sibillina. “Pure
tenendo quella fascia al braccio?”.
Colpito,
affondato e con le spalle al muro. “Te
lo prometto. Se...”.
“Se?”.
Lui
fece un sorriso irriverente. “Se resterai così,
coi capelli
sciolti come
li hai ora, simili a
quelli che avevi quando ci hai raggiunto in quella grotta. Con
quel vestito
sporco di fango, spiegazzato, bagnato e le guance rosse per la corsa,
ho rivisto
la Demelza di Nampara, quella che io preferisco”.
Lei
scoppiò a ridere. “Vorresti vedermi bagnata e
sporca per i
prossimi mesi?”.
Ross
le strizzò l'occhio. “Mi basterà
vederti coi capelli sciolti e
ricci. E con abiti più... normali...”.
“Clowance
mi odierà per questo. Lord Falmouth mi odierà.
Pure mia suocera mi
odierà, Ross...” - sbottò, divertita
Lui
insistette. “Lo farai?”.
“Lo
farò”.
In
quel momento qualcuno bussò alla porta e la voce di Prudie
inondò
la stanza. “I bambini vogliono vedervi per la buona
notte!” -
urlò, dal corridoio.
Accompagnati
da Prudie, i bambini entrarono in camera. Lavati, pettinati e con
indosso già la camicia da notte, erano tutti lindi e
perfetti e
pronti per andare a dormire. Ma prima avevano voluto tutti andare a
fargli visita e Ross, a fatica, si mise seduto sul letto con Demelza
accanto, mentre Prudie usciva per lasciarli soli.
Demian
saltò in braccio a Demelza mentre gli altri si avvicinarono
al letto
con meno irruenza.
“Ti
fa ancora male la spalla?” – gli domandò
Jeremy.
Ross
sospirò, osservando quella dannata fasciatura che lo aveva
già
stancato. "No, non la spalla. E’ tenere addosso tutte queste
bende che mi da fastidio. Suppongo che Dwight, quando parlava di
tenerle per tre settimane, scherzasse…”.
“Ne
dubito…” – mormorò Demelza,
vaga, guardando distrattamente
verso il soffitto trattenendo un sorriso. La trovò
bellissima in
quel momento, affascinante e seducente come non mai con quei capelli
lunghi e lucenti come il fuoco, le labbra rosse e le forme del corpo
addolcite da quella gravidanza di cui non si era accorto prima ma
che, se l’avesse potuta osservare meglio e più
intimamente, si
sarebbe accorto senza che lei lo dicesse. Santo cielo, era incinta e
non aveva ancora realizzato appieno quel grandissimo miracolo che lo
rendeva ebbro di gioia. Una bimba, una nuova bimba che avrebbe chiuso
ogni debito col passato, che avrebbe atteso e abbracciato per primo,
prima di tutti. Come non aveva fatto con gli altri, come si era
precluso anni prima. Mai più avrebbe negato un abbraccio a
un suo
figlio.
Tornando
alla realtà, Ross fece per replicare ma poi la sua
attenzione fu
catturata dalla figura di Clowance, dai suoi capelli lunghissimi e
biondi che le ricadevano sulla schiena e dal suo visino perfetto e
bellissimo. Ora era di nuovo pulita, in ordine e anche se in camicia
da notte, emetteva nobiltà da ogni poro della sua pelle.
“Hai
visto, bastava fare un bagno!”.
La
bimba sorrise, con fare complice. “Sì,
papà”.
Daisy
e Valentine osservarono la bambina, stupiti.
“Papà?” – mormorò
Valentine, indeciso se esserne contento o meno.
Jeremy
e Clowance guardarono la madre un po’ incerti sul da farsi e
in
cerca di aiuto e Demelza fu più veloce di Ross a spiegare
come si
erano evoluti i rapporti fra di loro. “Valentine, tu lo sai
vero
che il tuo papà è anche il loro
papà?”.
Il
bambino annuì. “Sì, ma loro prima non
lo volevano! Ora lo
vogliono?”.
Jeremy
guardò Ross, poi sorrise. “Sì, credo
che ora lo vogliamo”.
Demelza
trattenne il fiato, credendo che questo mandasse in crisi Valentine.
Ma il bambino la stupì, mettendosi a ridere a crepapelle.
“Ho dei
fratelli, quindi?”.
Demelza
gli accarezzò i ricciolini neri e in questo Ross scorse in
lei la
grandezza d’animo, la ricchezza interiore e la sua grande
maturità.
La vedeva felice di vedere Valentine felice e non c’era altro
sentimento in lei. Non doveva essere facile per Demelza, non lo era
stato in passato e di certo aveva lottato contro se stessa per
raggiungere quell’equilibrio. Ma ci era riuscita, rendendo
possibile l’impossibile. “Mettiamola
così, bambini. Ci siamo
noi, una mamma e un papà. E ci siete voi che anche se in
maniera un
po’ diversa dalle altre famiglie, siete fratelli o con
l’uno o
con l’altra. Insieme si può essere una grande ed
unica famiglia,
di certo diversa dal resto del mondo ma per questo più
ricca. Vuoi
accoglierci Valentine? Anche se siamo numerosi e rumorosi?”.
Rosso
dall’emozione e con la voce ridotta a un sibilo, il piccolo
annuì.
“Una famiglia grande con un papà e anche una
mamma? Anche per
me?”.
“Certo”.
Valentine
la abbracciò, tremando. Era sempre stato solo e forse si era
rassegnato ad esserlo e di certo questo per lui era un grande
cambiamento ma soprattutto, una grande emozione. Pian piano avrebbe
preso confidenza con lei, si sarebbe aperto e con gli altri bambini
avrebbe dimenticato la solitudine e appreso cosa si prova a non
essere più da soli. “Mamma-Demelza”
– sussurrò, quasi
incredulo.
Lei
gli sorrise. “Sì, se vuoi”.
E
a quel punto, Demian intervenne. “Sì, va bene! Ma
tu dove vai a
dormire?” – chiese, a Valentine.
Lui
alzò le spalle. “Nel mio letto”.
“Tuo-tuo?
SOLO tuo?” – insistette Demian con sguardo
indagatore.
Valentine
guardò Demelza in cerca di aiuto, non capendo dove si
trovasse il
problema. “Certo, solo suo” – disse la
donna, mentre Ross si
trovò a pensare a come risolvere quella faccenda per il bene
suo, di
Demelza, di Demian e della bimba in arrivo.
Poi
Ross guardò i figli maggiori, appena ritrovati e che ora
dovevano
condividerlo con altri bambini. “Per voi va bene?”.
Jeremy
e Clowance si guardarono, poi annuirono. “Sì, ma
ho un problema,
adesso!” – disse il ragazzino, osservando Daisy.
“Devo
restituire i soldi a lei, con gli interessi. E se adesso siamo una
grande famiglia con una mamma e un
papà…”.
Daisy,
silenziosa e attenta alla discussione fino a quel momento, lo
guardò
assorta. “Devi darmi i soldini e i soldini in più.
Gli interessi…
Ci sono pure quelli per avermi fatto venire il mal di
pancia”.
Jeremy
ci pensò su, poi il suo viso si illuminò di
un’espressione furba.
“Se tu non mi fai pagare gli interessi, io ti do il permesso
di
chiamare il mio papà ‘papà’.
Ci stai?”.
E
a quel punto, Demelza intervenne. “JEREMY!”.
“Ma
mamma!” – obiettò il ragazzino
– “Mi fa diventare povero per
tutta la vita, DEVO difendermi”.
Ross
lo guardò, mascherando un sorriso. La maledizione dei
Poldark,
sempre senza soldi. E il potere dei Boscawen, che ci guadagnavano
sempre… Sarebbe stato divertente far convivere quei due
mondi.
Ma
Demelza sembrava meno divertita di lui. Si mise fra i due bambini,
dividendoli. “Tu Jeremy, restituirai i soldi a Daisy SENZA
interessi. Tu Daisy non chiederai nulla in più a tuo
fratello”.
La
gemellina però, più che alla madre, sembrava
interessata al
fratello. “Davvero?”.
“Cosa?”
– chiese Jeremy.
“Davvero
mi dai il permesso?”.
Jeremy
annuì. “Sì…”.
E
a quel punto la bimba si voltò verso Ross.
“Posso?”.
Ross
allungò la mano sana, prendendola per il polso ed
attirandola a se.
“Hai fatto la domanda sbagliata. Quella giusta è
se lo vuoi”.
Lei
prese un profondo respiro, poi si appoggiò coi gomiti al
letto. “Non
so se sono capace, non ho mai chiamato papà nessuno.
Papà-Ross…
Così? Va bene?”.
Ross
le scompigliò i capelli, era forte ed indomabile ma allo
stesso
tempo piccola, sensibile e fragile. “Togli il nome, solo
‘papà’
andrà benissimo”.
E
Daisy sorrise, finalmente in modo disteso. “Va bene. Se posso
farlo, allora non voglio nemmeno i soldi”.
Jeremy
prese la palla al balzo. “L’avete sentita tutti? Lo
ha detto!”.
Ross
rise, chiedendosi quante scene di famiglia così si era perso
in
tutti quegli anni, ma deciso a non farsi sopraffare dal dolore ma di
concentrarsi sul futuro. Il passato era passato, irrecuperabile. Ma
per il resto, c’era sempre speranza. Guardò
Demelza, più brava di
lui a sbrigliare le faccende dei bambini e lei, sospirando,
guardò
Jeremy e poi Daisy.
“Da
dove arriva tutta questa bontà, orsetta?”.
Lei,
con la sua faccia da monella, alzò le spalle con noncuranza.
“Tanto
lo zio ha detto che da grande, di soldini me ne da tanti. E me li
darà ancora anche Mary, quando mangio tutto. O li
troverò per terra
nel parco”.
Demelza,
sospirando vistosamente e ricredendosi sull’improvviso moto
di
altruismo della figlia, scosse la testa. “Jeremy ti
ridarà
comunque le tue monete e tu potrai chiamare Ross papà. Avere
un papà
sarà una cosa bellissima, avrai un’altra persona
grande che ti
starà vicino, ti amerà e ti proteggerà
da tutto”.
Daisy,
a quelle parole, guardò Demian. E il piccolo, come in un
muto
dialogo fra loro, si accodò a lei. “Daisy dice che
va bene, quindi
va bene! Papà-Ross” – concluse,
trionfalmente.
E
Daisy guardò Ross, sorridendo come spesso faceva quando
stringeva
con lui un patto segreto fatto di soli sguardi.
Clowance
si sedette sul letto, lasciando che Ross le cingesse la vita.
“Ma
così in tanti, che siamo nati in modi diversi,
così diversi, come
si fa?”.
Demelza
guardò Ross, gli sorrise, poi cinse a se, in un abbraccio, i
bambini, perché stessero stretti fra lei e il padre.
“In fondo non
è difficile farla funzionare. Se si sceglie di far vincere
l’amore,
niente è impossibile”.
“E
noi abbiamo scelto?” – chiese Valentine.
“Sì,
noi abbiamo scelto. E ci sarà dato un aiuto che ci
renderà tutti
uniti ed inseparabili”. Demelza guardò Ross,
annuì e lui capì
che era arrivato il momento.
“Bambini,
io e la mamma dobbiamo dirvi una cosa”.
“Cosa?”.
Prese
la mano di Demelza, la strinse e la portò alle labbra per
baciarla.
“Presto arriverà qualcuno che unirà
tutti in modo che possa
essere per sempre”.
“Un
prete che vi sposa ancora?” – chiese Jeremy.
“La Cornovaglia?”.
Demelza
e Ross si guardarono negli occhi e lei prese la parola. "La
Cornovaglia... Vorremmo tornarci per qualche tempo con tutti voi, per
vedere da dove veniamo e scoprire le vostre origini, per andare a
trovare vostra sorella Julia e farvi scoprire il mare. Vi
piacerà e
lo zio e la nonna – ci parlerò io –
spero si uniranno a noi
dimenticando l'idea del castello in Scozia. Tutti insieme, come la
famiglia che siamo sempre stati! Londra sarà ancora la
nostra casa,
ora ne avremo una in più. Ma io e papà non
stavamo parlando di
questo, la Cornovaglia ci unirà ma c'è qualcosa
che lo farà ancor
meglio".
"Cosa?"
- chiesero i bimbi, in coro.
"Una
sorellina che arriverà ad inizio anno e che per ora sta qua
nella
mia pancia" – disse, senza girarci troppo attorno.
Ross
e Demelza guardarono i piccoli, spaventati da una loro reazione
magari negativa. Per un attimo i bambini rimasero attoniti ma poi
scoppiarono a ridere e tutti si lanciarono verso di lei a toccarle il
ventre, investendola di mille domande. C'erano Clowance e Daisy
contente di ristabilire la parità col numero di maschi,
momentaneamente in vantaggio per l'arrivo di Valentine, i maschietti
più grandi che già temevano l'invasione di
bambole e infine...
Con
le mani sui fianchi, Demian si parò davanti a loro. "E dove
dorme?" - chiese, serio e imbronciato.
Ross
lo prese, attirandolo a se. "Nella sua culla, ovviamente".
"Sua,
solo SUA?" - chiese il piccolo, con le stesse modalità con
cui
aveva chiesto di Valentine poco prima.
Demelza
lo baciò sulla fronte. "Solo sua... Ognuno avrà
un suo letto"
– disse, vaga ma andando a segno della questione.
"Allora
se LEI dorme nella SUA culla, va bene" – borbottò
il piccolo,
a cui era andata a genio solo una parte del discorso.
Ross
e Demelza si guardarono negli occhi, felici che tutto fosse andato
tanto bene e che la notizia fosse stata appresa con gioia.
Fu
Jeremy a spezzare il loro entusiasmo. "Ma lo zio, lo sa?".
"No..."
- risposero, tornando alla realtà.
Il
ragazzino allora sorrise, malizioso. "E allora siete nei guai!".
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Capitolo 76 *** Capitolo settantasei ***
"Cosa?".
No,
Lord Falmouth non l'aveva presa decisamente bene...
Demelza,
dopo una notte insonne in cui aveva vegliato su Ross controllando che
non gli venisse la febbre, aveva lasciato la stanza appena sentiti
dei movimenti al piano di sotto. Falmouth era mattiniero, era sempre
il primo ad alzarsi e quello era il momento giusto per dirgli della
gravidanza, senza nessuno attorno. Ci voleva tatto, ci voleva
diplomazia e ci voleva soprattutto tutta la tranquillità del
mondo
per parlarne, prima che lo scoprisse dai bambini che di certo non
sarebbero stati capaci di tenere per se quel segreto che tanto li
aveva eccitati la sera prima.
Ross,
finalmente addormentato dopo una notte tormentata dal dolore a causa
delle botte subite nella valanga, preferiva lasciarlo fuori da
quell'incontro, al momento. Per quanto Falmouth lo apprezzasse,
ancora non erano capaci di misurare a vicenda parole e gesti e
Demelza sapeva che una situazione del genere, che nel vecchio lord
avrebbe generato sconcerto e tensione, doveva essere affrontata con
furbizia ma soprattutto affetto e sincerità, quella
sincerità che
da sempre li univa e che aveva reso possibile che si apprezzassero a
vicenda e imparassero a volersi bene come una vera famiglia dovrebbe
fare. E non era così scontato che ci riuscissero. Lei, umile
ragazza
madre dal passato misterioso e lui, austero e potente Lord di
Londra... Era un miracolo, era stata una bella storia di famiglia e
Demelza voleva che continuasse. Per i bambini, per lui, per Lady
Alexandra ma anche per lei e per Ross che da troppo tempo e forse da
sempre non avevano avuto attorno una famiglia vera e propria che
vegliasse su di loro con discrezione, affetto e sì, anche
con la
saggezza di persone più grandi di loro.
La
donna prese un profondo respiro, ci volevano dolcezza, diplomazia e
fermezza. "Sono incinta".
Falmouth,
vicino al camino del salone principale al piano terra, strinse i
pugni poggiati sulla spalliera del sofa. "Da quanto lo sai?".
"Da
qualche mese".
"E
me lo dici solo ora? Tu e Ross Poldark mi avete preso in giro per
tutto questo tempo?".
Era
arrabbiato, deluso e Demelza poteva scorgere tutto il suo sconcerto
dal tono di voce. Aveva tradito, anche se mai avrebbe voluto farlo,
la sua fiducia e questo la feriva terribilmente, facendola sentire in
colpa anche se dentro di se sapeva di non doversi sentire
così e che
la bambina in arrivo era una faccenda privata solo sua e di Ross. Ma
non riusciva a ragionare razionalmente, non ci riusciva il suo cuore
che voleva un bene dell'anima a quel lord a volte scorbutico ma dal
cuore gentile e buono. "Ross non lo sapeva, non l'ha saputo che
ieri sera, assieme ai bambini, quando siamo tornati quì. Non
volevo
tenerlo nascosto, volevo solo del tempo per metabolizzare questa...
cosa... Volevo pace, per me e per la bimba che dovrà
nascere. E
sapevo che non ne avrei avuta se lo avessi detto. Se dovete
prendervela con qualcuno, prendetevela con me. Non con Ross".
Falmouth
picchiò la mano sul muro con un pugno. "Me la prendo con
entrambi! Cosa vi avevo raccomandato? Di stare attenti, di agire
nell'ombra ma con le giuste precauzioni, con... riservatezza...".
Demelza
prese un profondo respiro, rendendosi conto che quella discussione
sembrava quella fra un padre e una figlia adolescente che aveva
appena combinato un grosso guaio. "Io e Ross eravamo sposati,
non potevamo agire come amanti clandestini, non ne siamo capaci, non
ci saremmo mai riusciti. Ci siamo amati, lo abbiamo fatto senza
pensare al domani e alle conseguenze, come succedeva quando eravamo
marito e moglie in Cornovaglia".
Falmouth
scosse la testa, cercando di riguadagnare la giusta
tranquillità per
portare avanti quella discussione. "Non è più
come allora, non
sei Demelza Poldark, piccola nobile di campagna della Cornovaglia.
Non sei la ex cameriera sposata col rampollo di una antica e
prestigiosa famiglia in rovina, sei Lady Boscawen, ora. Rappresenti
un casato nobiliare importantissimo, sei colei a cui tutti guardano
con riverenza e che ha lavorato anni per mantenere il prestigio della
nostra famiglia, sei una delle donne più potenti ed ammirate
di
Londra e sei la madre dei miei piccoli eredi. E nessuno ti ha mai
detto di non avere un amante, nessuno ti ha mai impedito, come fanno
molte donne non solo vedove ma con tanto di marito vivente e figli,
di trovare dei diversivi al matrimonio. Ma dovevi evitare conseguenze
come questa. Demelza, ti rendi conto di cosa significa? Dello
scandalo, del chiacchiericcio della gente? Successe la stessa cosa
con Hugh e io fui tollerante, allora. Si trattava di mio nipote, era
malato e in te aveva trovato un motivo per vivere e tu in cambio ci
stavi donando degli eredi che credevamo impossibile avere. Ma ora ci
sono i bambini, hai pensato al tuo ruolo nei loro confronti? Hai
pensato a cosa perderanno e a che decisioni difficili dovrai
arrivare, ora che c'è questo intoppo?".
Il
percorso che stava prendendo il discorso, non le piaceva per niente.
E capì che doveva mettere in chiaro alcune cose e
soprattutto, come
detto la sera prima, che i bambini erano affare esclusivo suo e di
Ross. Ma questo valeva per Jeremy e Clowance, forse. Ma i gemelli?
Per un attimo tremò, ma poi pensò che mai
Falmouth avrebbe potuto
fare qualcosa per allontanarla da loro, tanto più che lui
stesso
aveva sponsorizzato per primo un matrimonio fra lei e Ross. "Io
forse sono una mente semplice, forse non riesco a vedere tutti i
problemi che vedete voi, io so solo che aspetto una bambina e
l'avrò
dall'uomo che amo. Con accanto l'uomo che amo. E che è tutto
quello
che ho sempre sognato. Forse è arrivata troppo presto, forse
avrei
dovuto avere prima al dito quell'anello che anche voi volevate
vedermi indossare, forse sono stata irresponsabile. Ma sono felice,
Ross è felice e i bambini lo sono altrettanto. E a me questo
basta... Cosa pensa il resto del mondo, è affare del mondo,
non mio.
So solo che la mia bambina avrà tanti fratelli che la
adoreranno e
lei in cambiò ci renderà tutti uniti. Saremo la
sua famiglia e
questo renderà NOI una famiglia. Il resto non ha importanza.
Conosco
i miei doveri, so chi sono e mai mi sono sottratta e mai lo
farò. E
ogni mia azione sarà volta al bene della mia famiglia e dei
miei
figli, compresi i gemelli. E' per loro che vi preoccupate?".
Falmouth,
con un sospiro, le si avvicinò. Le mise una mano sulla
spalla, la
osservò e poi, con gli occhi lucidi, iniziò a
parlare lentamente,
imponendosi di rimanere calmo. "Sono lo zio di quattro bambini,
non solo dei gemelli. E mi preoccupo per il buon nome della famiglia
che loro rappresenteranno. Tutti e quattro! Fu Hugh a volerlo ma da
allora è passato molto tempo e non è quel pezzo
di carta in cui lui
legittimava Clowance e Jeremy come suoi figli, a renderli importanti
per me. Voglio loro molto bene e ora tu e Poldark formerete una
famiglia di cui i piccoli faranno parte e saranno felici, ma noi? Il
passato che abbiamo condiviso? Il futuro della mia famiglia? Che
è
anche la loro, per scelta di Hugh che tu hai accettato...".
Anche
gli occhi di Demelza divennero lucidi, capendo in quelle parole quali
fossero le vere paure di Falmouth. Non lo scandalo, quelli passano e
la gente se ne dimentica, non il buon nome della famiglia ma perdere
i bambini... E lei voleva che lui sapesse che non sarebbe stato
così,
mai avrebbe permesso che fosse così. "Ricordate cosa vi
dissi
allora, quando imponeste a me e Hugh di sposarci a causa della
gravidanza di Daisy e Demian?".
"Ci
siamo detti molte cose, quel giorno, Demelza".
Lei
sorrise. "Vi chiesi solo una cosa, solo una condizione: una
famiglia per i miei bambini, uno zio e una nonna che pranzassero e
cenassero con loro, che li guardassero giocare, che li portassero
mano nella mano a passeggio. Non titoli, non denaro, nulla di nulla.
Solo una famiglia e amore. E voi ci avete dato tutto questo e io sono
stata felice. SONO felice e la mia famiglia non è e non
sarà mai
più solo quella formata con Ross. Voi, Alexandra e tutte le
persone
che lavorano e vivono con noi fanno parte del mio mondo, VOI siete
una parte importante della mia famiglia e non ci voglio rinunciare.
Non lo vogliono i bambini e di certo non me lo chiederebbe Ross".
Falmouth
spalancò gli occhi. "Che vuoi dire? Che vuoi fare?".
Demelza
sorrise. "Quello che mi avete sempre chiesto di fare da quando
avete conosciuto Ross e non sapevate chi fosse. Renderlo parte della
nostra famiglia, averlo sotto mano per parlare con voi di politica
durante il pranzo o la cena, lavorare insieme e trovare con lui
soluzioni ai tanti problemi di questo nostro bellissimo ma
problematico paese. Siete diversi, testardi e con idee agli antipodi
eppure so che insieme potreste fare cose grandiose. Dopo averne
discusso e litigato per ore, si intende... Ma anche questa è
famiglia e io voglio che i bambini vi vedano insieme, voglio che
abbiano il loro zio e la loro nonna, voglio tutto ciò che
hanno
sempre avuto, con qualcosa in più per tutti, un nuovo padre
e una
sorellina. Voglio tutto questo per loro ma anche per Valentine e per
la bambina che verrà. In fondo noi abbiamo sempre saputo
dimostrare
al mondo che l'amore e i legami di sangue non sempre sono
complementari. Si ama e basta, si è una famiglia e basta con
chi
amiamo e con chi ci fa star bene. Non smetterò di essere
Lady
Boscawen, non lo farò mai perché fa parte di me
esserlo, fa parte
della mia vita e della mia famiglia ed è un atto d'amore e
rispetto
che devo a Hugh, oltre che a voi e Alexandra".
Falmouth
spalancò gli occhi. "Vorresti che facessi da zio anche al
bambino che aspetti e al tuo figlioccio acquisito?".
"Sì,
sperando che sia un desiderio condiviso".
Falmouth
sospirò, forse desideroso di vedere la faccenda in modo
semplice
come riusciva a fare lei e di certo lieto di immaginarsi circondato
di bambini, dopo che aveva rischiato di finire la sua vita
completamente solo. "Sono un uomo non più giovane, vedo le
cose a modo mio Demelza, ma so che sei una brava madre e so anche che
i miei nipoti, in mano tua e al signor Poldark, saranno cresciuti al
meglio e avranno tutto ciò di cui hanno bisogno. Ma far
combaciare
tutto, organizzare tutto in modo nuovo, unire il tuo legittimo
desiderio di far ritorno alla tua terra al tuo ruolo a Londra e alla
famiglia che hai creato con noi... Come fare?".
Demelza
gli poggiò gentilmente una mano sul braccio, guardandosi
attorno. Le
alte mura di quel piccolo maniero, le finestre alte e austere in
stile medievale, la pioggia e la paura che avevano appena vissuto,
avevano reso la Scozia un posto che voleva lasciare al più
presto,
tenendo per se solo i ricordi che l'avevano unita a quei luoghi
assieme a Hugh. Ma la Scozia non faceva parte della sua storia con
Ross, lei e Ross erano e sarebbero sempre appartenuti alla terra di
Cornovaglia, ventosa, implacabile, selvaggia e che aveva dato i
natali a re Artù. Ognuno aveva la sua storia e ognuno aveva
un filo
invisibile legato ad un dito, che lo avrebbe sempre collegato al suo
luogo di appartenenza. "In fondo, non ci serve un castello in
Scozia...".
Falmouth
la bloccò. "E' necessario, questa gente deve avere una
gui...".
Demelza
lo bloccò con altrettanta fermezza. "Questa gente sa stare
al
mondo benissimo, da secoli, senza che noi veniamo quì con la
presunzione di volerglielo insegnare. La nostra casa è
l'Inghilterra
e se invece che un castello in Scozia, comprassimo un grosso maniero
in Cornovaglia...".
Falmouth
si accigliò. "Arriva al punto...".
Gli
sorrise. "Ross è un parlamentare, io sono Lady Boscawen e il
nostro posto, nei mesi invernali, è Londra. Ma in estate
è in
Cornovaglia che vogliamo stare coi bambini, io e Ross. E vorremmo che
voi vi uniste a noi. Un grande maniero, Nampara, due case vicine
dove i bambini potranno spaziare liberamente giocando e sfogandosi
all'aperto. In fondo, mi pare, avete promesso a Ross di costruire
delle opere laggiù, per aiutare l'infanzia difficile dei
figli dei
minatori. Non volete seguire di persona la vita delle opere che
finanziate a vostro nome? A nome dei bambini?".
Falmouth
sospirò, sconfitto. "E la Scozia?".
"Lasciamola
agli scozzesi, sapranno averne cura meglio di noi" – gli
sussurrò, sfiorandogli le mani.
Falmouth
la osservò, il suo sguardo era clinico e attento. "Quando
hai
detto che nascerà il bambino?".
"La
bambina" – ribatté lei.
Lui
la guardò storto. "Come lo sai?".
"Lo
so e basta. E dovrebbe nascere ad inizio gennaio o forse a fine
anno...".
E
a quel punto Falmouth riprese in mano la situazione, da capo famiglia
e uomo pratico qual'era. "Va bene, torneremo a Londra dove
preparerete i bagagli per la Cornovaglia. Ma vista la situazione
meglio evitare scandali, quindi prolungherete un pò la
vostra
permanenza laggiù per questa volta. Il tempo necessario per
sposarvi
e per mettere al mondo la bambina, lontani dal gossip di Londra.
Dopo, col nuovo anno, tornerete come famiglia ufficiale nella nostra
residenza e la gente la prenderà come un dato di fatto,
facendosi
qualche domanda a cui noi non risponderemo. A proposito... Tu e Ross
avete pensato anche a questo? All'alloggio? Vi voglio ancora vicini,
ma se voleste trasferirvi in una casa vostra, lo capirei..." -
concluse, in tono triste.
Demelza
sorrise, pronta a tranquillizzarlo. Sì, avevano deciso anche
questo
lei e Ross e la soluzione trovata da Falmouth di lunghi mesi in
Cornovaglia, la rendeva felice e propensa a trovare una buona
riuscita a tutti i problemi che avrebbero potuto incontrare.
"Rimarremo a vivere con voi ma non nell'ala del palazzo che
occupo ora. Sarebbe difficile per me, per Ross e per voi, vederci
vivere dove un tempo vivevo con Hugh. Posso sistemare il cottage che
abbiamo in giardino? Quello dietro al roseto?".
Falmouth
spalancò gli occhi. "E' piccolo!".
"E'
grande quanto basta. Ci sono tre stanze, una per noi, una per le
bimbe e una per i maschietti. Un piccolo salotto e una natura
rigogliosa attorno. Ci passeremo solo la notte e anche senza
servitù,
sappiamo gestire da soli i bambini nell'ora di metterli a letto. Per
il resto nulla cambierà, attraverseremo il giardino e faremo
colazione, pranzeremo e ceneremo insieme. E i bambini potranno venire
avanti e indietro a loro piacimento, come sempre".
Falmouth
le accarezzò la guancia. "E questo ti renderebbe felice?".
"Sì.
E la casa in Cornovaglia?".
Falmouth
le strizzò l'occhio. "Ci sono castelli meravigliosi pure
lì!
Si può fare e l'aria di mare migliorerà la mia
gotta e l'umore di
Alix. E in effetti, anche il mio prestigio e i miei affari...".
Pratico,
deciso, come sempre. Demelza fece per ribattere quando la porta si
aprì e come un uragano, di corsa, entrarono i gemellini. E a
Falmouth per poco non venne un colpo.
Ma
non solo a lui, anche Demelza dovette appoggiarsi alla sedia per non
cadere a terra, vinta dalla sorpresa di ciò che aveva
davanti. I
suoi splendidi, inglesissimi e biondissimi bambini indossavano
entrambi abiti tradizionali scozzesi rossi e verdi, trovati
chissà
dove e dati loro chissà da chi e parevano trovarcisi
decisamente a
loro agio, tanto che Demian saltellava eccitato per la stanza
mostrando la gonnellina che indossava.
"CHE
COS'E' QUESTO???" - urlò Falmouth, pallido come un cencio.
Anche
Demelza, sotto shock, si avvicinò ai bambini per ottenere
spiegazioni. "Bambini, chi vi ha dato questi vestiti?".
Demian,
felice e divertito, roteò su se stesso facendo impallidire
ancora di
più suo zio. "Il nostro amico Raghnall, ha detto che
è un
regalo e di mettere questi vestitini che lo zio sarebbe stato
contento. Sei contento, zio?".
Ovviamente,
no! Falmouth, col terrore negli occhi come se avesse appena visto un
mostro, guardò Demelza in cerca di aiuto. "La tua gravidanza
è
l'ultimo dei problemi... Quel dannato vichingo me la
pagherà, mi ha
contaminato i bambini... Dov'è?".
"Chi?"
- chiese Daisy.
"Il
selvaggio vichingo che vi ha dato quegli obrobri!!!".
Demelza
cercò di farlo calmare, ma Falmouth era in preda a una crisi
isterica. "Dov'è?" - chiese ai bambini. "Lo scozzese,
dov'è?".
"In
cortile, sta lavorando" – rispose Demian.
Falmouth
prese il bambino in braccio, si avvicinò alla finestra, la
spalancò
e sollevò il nipotino perché fosse visto da
quelli di fuori. "Cos'è
questo? Che significa, Raghnall?" - urlò all'uomo che, in
abiti
tradizionali come sempre e al centro del cortile, stava portando
sulle spalle un grosso bue da sezionare e tagliare per la cena.
Appena
lo vide, lo scozzese dai capelli rossi scoppiò a ridere in
tono
sguaiato, appena ebbe visto coi suoi occhi l'effetto della sua
trovata, dimostrandosi un politico sanguigno e pronto ad ogni mossa
sleale come e più di Falmouth. "Caro lord, che significa?!"
- chiese, col suo vocione impastato da una buona bevuta di vino.
"Semplice, volevate conquistare la Scozia e invece la Scozia ha
conquistato l'Inghilterra!".
Falmouth,
da bianco, divenne rosso come il fuoco e Demelza corse in corridoio a
chiamare Prudie prima che la situazione esplodesse. Poi prese i
bambini, tenendoli stretti a se. Vedere lo zio così alterato
e
isterico non li aveva spaventati ma anzi, i due piccoli pestiferi se
la ridevano impunemente davanti a lui.
Prudie
arrivò, guardò Falmouth rosso come un peperone e
poi divenne rossa
pure lei, appena visti i bambini. "Giuda, il demonio li ha
posseduti!".
Falmouth
indicò col dito i bambini. "Non il demonio, la Scozia!
Portali
via, leva loro di dosso quella roba e poi BRUCIALA, poi lavali a
fondo, dalla testa ai piedi".
Daisy
picchiò il piedino per terra, per niente contenta. "No, non
voglio fare il bagno!".
Ma
lo sguardo furente di Falmouth per un attimo la zittì e
Demelza ne
approfittò per prendere i bambini e portarli fuori, seguita
da
Prudie.
Arrivarono
alla porta ma Daisy protestò ancora e alle rimostranze di
Falmouth,
Prudie la fulminò con lo sguardo. "Roba scozzese,
è infetta!
Il bagno durerà ore, finché non sarai tornata
inglese dalla testa
ai piedi, bestiolina!".
Falmouth
la guardò, annuendo. "Brava, la vedi nel modo giusto!".
Poi si voltò verso Demelza, occhieggiando la serva. "Ottima
scelta, ottima bambinaia. Te l'ho mai detto, Demelza quanto apprezzi
questa scelta?".
A
quella domanda, lei alzò gli occhi al cielo. Giuda, a
Falmouth la
selvaggia Prudie non era mai piaciuta... Rozza, senza titoli o
raccomandazioni che diceva le parolacce e spettinata. Lo
guardò, la
guardò e per un attimo si trovò divertita a
pensare a quella strana
ed inaspettata alchimia e a cosa avrebbe potuto portare se il destino
avesse avuto un'ampia fantasia. Poi però decise di non fare
la
stupida e di approfittare del fatto che Falmouth si fosse calmato,
per andare via coi bambini. "Li porto a fare il bagno" –
sussurrò, strizzando l'occhio all'uomo. "E per la
gravidanza...?".
Prudie
spalancò gli occhi. "Giuda, quale gravidanza?" - chiese,
guardando con terrore lei e poi i gemelli.
Demelza
sorrise, era ora che lo sapesse anche lei. "La mia...".
Prudie
la guardò, imprecò qualcosa fra i denti,
alzò gli occhi al cielo e
poi prese i bambini per mano. "Il signor Ross... Ti pareva che
non colpiva pure stavolta...".
Falmouth
si avvicinò loro. "La gravidanza? E' l'ultimo dei problemi,
i
bambini in versione Hilander sono la nostra catastrofe! Abbiamo
concordato, no, per il bambino in arrivo? Non avremo problemi. Tu
partirai subito, andrai a Londra a prendere le tue cose e poi coi
bambini parti spedita assieme a Ross in Cornovaglia. IMMEDIATAMENTE!
Portiamo via subito i gemelli da questo covo di selvaggi vichinghi
scozzesi, prima che li rovinino per sempre".
"A
me mi piace questo vestito, però" – si
lamentò Demian,
guardando la gonnellina rossa che indossava.
Daisy
invece, come incupita dalle parole dello zio, mise il muso e
iniziò
a piangere. Così, all'improvviso, disperata. "Non
vogliooooo".
"Cosa?
Cose c'è, amore?" - chiese Demelza, inginocchiandosi davanti
a
lei per calmarla.
"E...
E... Noi in Cornovaglia? E io non voglio, senza...".
Singhiozzava
e nessuno capiva cosa avesse. Ma poi Falmouth parve percorso da un
lampo di genio. "Piangi per me? Hai paura che non mi vedrai
più?
No, no! Compreremo una grande casa vicino alla vostra e saremo
insieme, sta tranquilla".
Ma
Daisy lo gelò. "Non piango per te".
"Per
la nonna?" - chiese Demelza.
"No...".
"E
per chi? Non sei contenta di partire tutti insieme, con papà
Ross?".
La
piccola si voltò verso Prudie, singhiozzando.
"Sì. Ma solo
noi? Se Prudie non viene, io non voglio!".
Demelza
sussultò e anche Prudie fece altrettanto, stupita da quelle
parole.
E, miracolosamente, parve commuoversi. "Ohhhh, la bestiolina ha
un cuore e mi vuole bene".
Demelza,
perplessa, la prese in braccio. "Certo che Prudie viene con noi,
che ti salta in mente? Non la lasciamo di certo a Londra".
"Davvero?".
Prudie
diede un buffetto alla piccola. "Davvero! Solo io sono capace a
sopportarti, bestiolina!".
Daisy
le sorrise e, rinfrancata, si divincolò dalla stretta della
madre e
scese a terra, scappando nel corridoio con Demian di nuovo vivace e
contenta.
Falmouth,
deluso che non avesse pianto per lui, invece sospirò.
"Bagno!
SUBITO!".
Demelza
annuì, più serena per tante cose e meno serena
per altre. Prese
Prudie sotto braccio, seguendo i gemelli nel corridoio. "Certe
volte, Daisy è più tua che mia. Per me non
avrebbe mai pianto
così..." - disse, forse con un velo di tristezza per quella
figlia a volte sfuggente.
Prudie
diede un buffetto pure a lei. "Certo, per te non lo farebbe,
ragazza. E sai perchè?".
"Non
credo di volerlo sapere".
"E
invece dovresti! Non si piange per chi sappiamo che non ci
abbandonerà mai. Sei la sua certezza, sa che non la
lasceresti per
niente al mondo. Su di me, ha qualche dubbio".
Demelza
la abbracciò perché come al solito quella donna
cornish senza
istruzione sapeva dirle con saggezza le parole giuste al momento
giusto. "Grazie Prudie. Per quello che fai per me e per il bene
che vuoi ai miei bambini".
Prudie
guardò storto il suo ventre. "E fra poco ne avremo uno in
più... Dimmi che è SOLO uno!".
"E'
uno solo, tranquilla..." - le rispose, abbracciandola. "Niente
bestioline demoniache!".
Prudie
guardò i bambini che si allontanavano. "Bestioline Poldark,
che
è forse peggio! Vado a recuperare i due mini-scozzesi e li
faccio
tornare inglesi. A dopo".
"A
dopo, Prudie..." - mormorò, guardandola allontanarsi
inveendo
contro i bambini che erano scappati. Poi, accarezzandosi il ventre,
tornò al piano di sopra, da Ross, a controllare che stesse
bene.
Lo
trovò sveglio, seduto sul letto ed intento ad armeggiare con
la
fasciatura alla spalla. Entrò in camera sbattendo la porta e
poi lo
guardò accigliata e con le mani sui fianchi. "Che diavolo
stai
facendo, Ross Poldark?".
Lui,
come un bambino colto con le mani nel vasetto di marmellata,
borbottò. "Dwight sicuramente scherzava, quando parlava di
tre
settimane".
Era
proprio Ross, già scalpitante ed impaziente di tornare alla
vita
attiva. Avvicinandosi al letto, lo occhieggiò divertita,
imponendosi
però di essere ferma. "Ne dubito" – disse,
spingendolo
sul materasso.
"Demelza!"
- la implorò.
"Ross,
NO! O la spalla non guarirà".
Sbuffando
sconfitto, la osservò. "Dove sei stata?".
"Da
Falmouth. Gli ho detto tutto...".
Ross
si fece serio. "Avresti dovuto dirmelo, sarei venuto con te".
Gli
sorrise. Era l'ultima cosa che faceva qualcosa senza di lui ma ora,
per il bene di tutti, era giusto che fosse sola. "Non lo conosci
ancora abbastanza bene e la faccenda era seria e grossa. Avremmo
peggiorato la situazione in due e in fondo, quello che conta
è il
risultato!".
"E
il risultato è soddisfacente?" - le chiese, preoccupato.
"Lo
è" – rispose, sorridendogli. "E sappi che
è l'ultima
volta che ti risparmio un incontro con lui, da oggi ogni cosa la
diremo insieme!". E poi gli raccontò di cosa avevano
parlato,
di come si era sentito inizialmente tradito e degli accordi che
avevano raggiunto. E che sarebbero stati davvero, tutti insieme, una
grande famiglia, a Londra nel loro piccolo cottage come in
Cornovaglia, a Nampara. E niente castello scozzese, Falmouth si
sarebbe accontentato di quello di re Artù, probabilmente!
"Sei
stata brava" – le sussurrò, accarezzandole il
viso. Era
bellissima, riusciva a sistemare ogni cosa, era forte, fiera ed
indipendente e quella mattina sembrava addirittura radiosa. "E
siamo soli da chissà quanto tempo, senza bambini attorno,
senza lord
attorno, senza scozzesi attorno! E voglio fare l'amore con te".
Demelza
tremò sentendo la sua voce calda, spalancando gli occhi.
Santo
cielo, lo desiderava da morire anche lei, era tanto che non si
sfioravano e in effetti era ancora mattina presto e avrebbero avuto
ancora un'ora buona di solitudine e tranquillità. Ma... "Sei
ferito".
"Solo
alla spalla e leggermente alla caviglia" – rispose lui,
facendole intendere che tutto il resto era a posto.
Demelza
rise, sfiorandosi il ventre. Presto si sarebbe sentita grassa e
brutta ma per ora, si trovava ancora piuttosto desiderabile... E
decise che in fondo si poteva fare...
Silenziosamente,
si alzò dal letto. Andò alla porta, la chiuse a
chiave e poi,
lentamente tornò da lui, togliendosi uno ad uno gli
indumenti in
gesti lenti. Voleva sedurlo e anche se forse si sarebbero messi a
ridere entrambi, voleva davvero essere una donna desiderabile per una
mattina.
Ogni
nube era svanita sul suo destino e non dovevano forse goderne
appieno, di quella pace ritrovata?
Quando
arrivò al letto, lo sguardo di Ross era solo per lei.
Assorto,
profondo, pieno di desiderio e tenerezza. Le sfiorò il
fianco, la
attirò a se e la baciò sulle labbra,
profondamente e con passione.
Poi le prese la mano, guidandola a togliersi gli ultimi indumenti che
aveva addosso. E, ormai nuda, Demelza lo aiutò a fare
altrettanto.
Infine si stese sopra di lui, sfiorandogli il petto e il collo con
movimenti lenti che lo facevano impazzire. "Non muoverti... Per
una volta, lascia fare a me..." - sussurrò al suo orecchio.
Ross
annuì, non poteva che chiedere questo, le avrebbe obbedito
come un
cagnolino in quel momento. "D'accordo" – disse, docile,
prima di ricatturarle le labbra.
E
Demelza, stendendosi sopra di lui e facendo aderire i loro corpi,
rispose al bacio. E poi fecero l'amore...
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Capitolo 77 *** Capitolo settantasette ***
Alexandra
aveva pianto quando, tornati a Londra dopo un lungo viaggio dalla
Scozia, le avevano comunicato tutte le novità venute a galla
in
quella terra lontana popolata da selvaggi in gonnella con cui
Falmouth non voleva più avere nulla a che fare.
La
donna aveva pianto per la paura di perdere i bambini, aveva pianto
vedendo la gioia di Demelza per la sua maternità e per il
legame con
Ross, aveva pianto pensando a Hugh e al fatto che sarebbe stato un
altro padre a crescere i suoi figli, aveva pianto perché era
triste
e allo stesso tempo felice perché sapeva che era giusto
così, che
era la cosa migliore per tutti...
Demelza,
con dolcezza, l'aveva consolata e tranquillizzata. Mai si sarebbero
perse di vista, mai avrebbero smesso di essere una famiglia, mai
l'avrebbe allontanata dai bambini e soprattutto, mai avrebbe permesso
che qualcosa spezzasse il legame fra di loro. La voleva come nonna
dei suoi figli, compresa la piccola in arrivo, la voleva nelle calde
estati in Cornovaglia e in inverno a Londra, tutti insieme come
sempre. E voleva che la aiutasse a cucire il suo abito da sposa, cosa
che aveva commosso molto Alexandra che, pur col dolore nel cuore per
il ricordo di Hugh che se n'era andato troppo presto, aveva la
consapevolezza che suo figlio le aveva lasciato un futuro pieno,
senza solitudine e con una famiglia inaspettata, allargata e nuova
con cui rinascere a nuova vita.
E
così, mentre Falmouth e Alexandra programmavano il viaggio
in
Cornovaglia e l'acquisto di un qualche castello in quelle terre, Ross
e Demelza avevano fatto i bagagli e, con estrema emozione, si erano
preparati per quel ritorno tanto inaspettato e foriero di sentimenti
fortissimi, in quella che entrambi avevano sempre considerato la loro
vera casa.
Avevano
preso le loro cose, i cani, organizzato due grandi carrozze e poi
lei, Ross, i bambini, Prudie e i Gimlett si erano messi in viaggio.
In
una carrozza viaggiavano lei, Ross, Demian, Clowance e Jeremy mentre
nell'altra Prudie, i Gimlett, Daisy, Valentine e i cani. Valentine
aveva insistito per fare il viaggio coi servitori che da sempre si
prendevano cura di lui e con cui si sentiva più a suo agio
mentre
Daisy non aveva voluto mollare Prudie perché, come aveva
spiegato
seria seria a Ross dopo i racconti che gli aveva fatto della
Cornovaglia, in una fattoria si deve lavorare tanto e a Prudie non
piace. E lei voleva vegliare e controllare che non tentasse la fuga.
Il
viaggio da Londra verso la Cornovaglia era stato piuttosto tranquillo
e Ross e i bambini durante il tragitto avevano potuto cominciare
davvero a vivere insieme la giornata, dal mattino alla sera, come una
vera famiglia.
Jeremy
e Clowance erano ancora piuttosto timidi negli approcci con Ross,
quasi timorosi di crederci, di aprirsi, di essere felici del suo
ritorno. Ma silenziosamente lo cercavano con lo sguardo, arrossendo
gli porgevano delle domande e soprattutto Clowance tentava a volte di
avere dei contatti con lui. Per lei quel mondo era tutto nuovo e
diversissimo da quello a cui era abituata eppure, nonostante i timori
di Demelza, non ne aveva paura ma anzi, ne era soprattutto
incuriosita. Con la nonna aveva comprato abiti adatti alla
Cornovaglia e con un guardaroba meno pretenzioso di quelli del
passato ma tutto nuovo e con abitini più comodi per muoversi
e
giocare liberamente, sembrava euforica. Anche Valentine era felice e
basta, come se avere attorno tante persone fosse tutto ciò
di cui
aveva bisogno e che aveva sempre desiderato. Per quanto riguardava i
gemelli, Demian aveva iniziato a capire che sarebbe arrivata una
sorellina, che sarebbero stati in tanti, che aveva guadagnato un
papà
ma che avrebbe dovuto imparare a dividere la mamma con più
persone e
che questo, anche se adesso gli appariva impossibile, col tempo gli
sarebbe anche piaciuto. Col tempo ovviamente... E poi Daisy, tornata
vivace, felice, inarrestabile come sempre. Demelza la osservava
chiacchierare con Ross e si rendeva conto che parevano anime affini e
gemelle e che la sua piccola orsa non era mai stata tanto loquace con
nessuno, fino all'incontro con lui. Lei parlava, faceva mille domande
ed era meno monella e dispettosa del solito, si emozionava nel
sentire parlare del mare e Ross le rispondeva con pacatezza, senza
dare segni di stanchezza, in un modo che sapeva conquistarla. Le
lacrime e la tristezza scozzesi erano un ricordo per la bimba e
questo faceva star bene Demelza.
Di
contro, lei era invece un miscuglio di sentimenti contrastanti. Era
stranamente impaurita dal ritorno a Nampara e allo stesso tempo non
vedeva l'ora di spalancare nuovamente quella porta, la porta della
sua casa... Ma aveva il sordo terrore di tornare al passato, ai
ricordi più dolorosi della sua esistenza e di non riuscire a
superarli, frapponendo un muro fra lei e Ross che avrebbe potuto
minare nuovamente il suo rapporto. Lui non ne parlava, sembrava
serafico e imperscrutabile come sempre ed era difficile comprendere
se si sentisse agitato quanto lei, se avesse dei timori, se si
facesse delle domande... E non riusciva a fargli domande su questo,
come se si sentisse sciocca ed infantile in mezzo a tutti quei timori
quando invece avrebbe dovuto essere semplicemente felice.
Mentre
la carrozza procedeva sonnecchiosa, Demelza si massaggiò il
ventre.
Nelle ultime settimane era letteralmente esploso dopo mesi in cui era
stato pressocché invisibile, come se la bimba che aspettava
avesse
voluto venirle in aiuto rimanendo celata al mondo finché ce
ne fosse
stata necessità. Ma ora che tutti sapevano, era come se la
piccolina
volesse farsi conoscere, gridare a tutti che c'era e adesso,
guardandola, nessuno avrebbe potuto non notare che era incinta.
Demelza
sorrise a quei pensieri, appoggiandosi con la testa sulla spalla di
Ross. Demian dormiva al suo fianco, steso sul sedile, Jeremy faceva
altrettanto sul sedile opposto e Clowance, seduta fra i due genitori,
imitava l'attività dei fratelli in tutto e per tutto. Prima
di
addormentarsi aveva cercato timidamente la mano di Ross con la sua e
lui l'aveva stretta, delicatamente, baciandole le dita. E lei non
aveva lasciato quella stretta e, come tranquillizzata dalla sua
presenza, si era addormentata così, con la testolina
appoggiata al
petto del padre.
Ross
sorrise. "Con Valentine e Daisy, dubito che l'altra carrozza
possa essere altrettanto silenziosa. Forse saranno i Gimlett a
tentare la fuga, non ci sono abituati".
Demelza
non rispose ma, cercando pace per il suo animo, si appoggiò
ancora
più intensamente contro di lui. Era pomeriggio tardi e
l'ombra della
sera stava coprendo tutto il panorama circostante. Di tanto in tanto
guardava fuori dal finestrino e man mano che procedevano riconosceva
luoghi e panorami noti, distese sconfinate di prati e torrenti,
casupole abbandonate in mezzo alla brughiera e sentieri sterrati che
facevano sobbalzare la carrozza, a cui non era più abituata
dopo
tanti anni a Londra. La piccola nel suo ventre si mosse, uno dei
primi calcetti che riusciva ad avvertire e che erano diventati una
piacevole compagnia negli ultimi giorni. "Credo sia agitata
anche lei" – esclamò, per stemperare la tensione.
Ross
le poggiò la mano sul ventre e lei si gustò
quella sensazione di
calore che tanto le era mancata quando era incinta di Clowance.
Guardò la bambina addormentata fra loro, le baciò
la fronte e
dentro di se pensò a quanto, quasi otti anni prima, avesse
desiderato quel genere di gesti da parte di Ross.
Lui,
accorgendosi del suo turbamento, la strinse a se. Era palese cosa
stesse provando Demelza e spesso, pur avvertendolo, era rimasto
silenzioso per paura di dire qualcosa di inappropriato o sbagliato
dopo tutto il dolore che le aveva procurato e le sue mille mancanze.
"Stavolta sarà diverso..." - disse solo.
Demelza
lo baciò gentilmente sulla guancia. "Lo so...".
La
mano di Ross si mosse sul suo ventre con delicatezza, cercando di
dare conforto a madre e figlia. "Come hai deciso di chiamarla?".
Lei
rise. "Dammi tu qualche idea!".
"I
patti non erano che avresti scelto tu i nomi delle femmine e io
quelli dei maschi?".
Demelza
si voltò verso di lui, divertita dal fatto che se ne
ricordasse.
"Quindi, restano validi quei patti presi tanti anni fa?".
"Assolutamente".
E
in virtù di ciò, ricordando quanto pattuito fra
loro qunado era
incinta di Julia, la donna prese un profondo respiro e decise. "E
così sia... Lei si chiamerà Isabella-Rose
Poldark" –
esclamò, improvvisamente entusiasta, trovando dolce ed
appropriato
il suono di quel nome e di quel cognome che da giorni le frullavano
nella testa, che avrebbero dato un'identità alla sua bambina.
Ross
chiuse gli occhi, assaporando quel suono. "Isabella-Rose... Mi
piace... MI PIACE!" - disse forte, baciandola d'impeto sulle
labbra e finendo per svegliare i bambini.
"Ross!"
- lo rimproverò Demelza.
Strofinandosi
gli occhi Jeremy, Clowance e Demian li guardarono stralunati. "Che
succede?".
Ross
rise, di gusto, guardando i bambini e poi fuori dal finestrino.
"Vostra sorella ha un nome".
Clowance
spalancò gli occhi. "Quale?".
"Isabella-Rose"
– rispose Demelza.
Demian,
non così eccitato come gli altri, si alzò dal
sedile e si avvicinò
a Ross. "Anche se ha un nome, è sempre vero quello che mi
hai
detto ieri sera?" - domandò, mortalmente serio.
Demelza,
incuriosita, guardò Ross. "Che gli hai detto?".
Ross
alzò le spalle, scompigliando con la mano i lunghi capelli
biondi –
che avrebbe voluto un pò più corti –
del figlio appena acquisito.
"Che la sua posizione di figlio più piccolo sarebbe rimasta
tale".
"Ma
lui non sarà più il più piccolo!" -
obiettarono Demelza e
Jeremy.
"E
invece sì!" - insistette Demian, picchiando il piedino.
"Papà
Ross, diglielo tu!".
E
Ross, strizzando l'occhio a Demelza, si affrettò a spiegare.
"Beh,
Isabella-Rose è una femminuccia, leverà a Daisy
il titolo di
'bambina più piccola'. Ma per quanto riguarda i
maschietti...".
Demian
rise, lanciandosi contro di lui in un abbraccio. Daisy sarebbe stata
felice di non essere più la più piccola, Demian
sarebbe stato
contento di continuare ad esserlo, con tutti i privilegi annessi.
Demelza
rise, grata a Ross per aver escogitato quello stratagemma in grado di
rasserenare Demian e davvero colpita per la capacità che
aveva di
comprendere i gemelli.
Ross
le strinse la mano e poi, dopo aver dato ancora un occhio fuori dal
finestrino, batté un colpo sul tettuccio, incitando il
cocchiere a
fermarsi. "Siamo vicini, che ne dite di proseguire a piedi?
Recuperiamo Daisy e Valentine sull'altra carrozza e ce ne andiamo a
casa passeggiando sulla spiaggia".
"C'è
il mare, papà?" - domandò Jeremy eccitato,
correndo al
finestrino e sedendosi sulle sue ginocchia.
Ross
indicò la brughiera con la mano. "Lo raggiungeremo dopo una
passeggiata di dieci minuti su quel sentiero".
Clowance,
che pareva incerta, fissò Demelza. "E i bagagli? E i nostri
vestiti?".
Ross
la tranquillizzò. "Faremo proseguire le carrozze fino a
casa,
con Prudie e i Gimlett. Ci penseranno loro a scaricare i bagagli e a
portarli al sicuro a Nampara".
"E
allora va bene" – disse la piccola.
Demelza
annuì, prese Demian per mano e aspettò che Ross
aprisse il
portellino. E poi scesero, raggiungendo la carrozza con Daisy,
Valentine e i loro servi, ferma dietro alla loro.
Daisy
si affacciò con Valentine al finestrino. "Che succede?".
Ross
la prese, facendola passare attraverso la piccola finestrella e
mettendola a terra. "Si va a piedi, coraggio. Avete o no voglia
di vedere il mare?".
Dopo
tanta prolungata immobilità dovuta al viaggio, Daisy prese a
saltellare eccitata, Valentine scese agilmente giù dalla
carrozza e
i cani fecero altrettanto. Erano davvero un grande branco, ora che
Demelza ci pensava, formato da una miriade di bambini chiassosi e
cani fedeli. Non doveva avere paura di tornare, non era sola come
quando era partita e probabilmente non sarebbe stata sola mai
più.
Prudie
e i Gimlett, provati da tante ore in compagnia di Daisy e di
Valentine, che con l'influenza della gemellina era diventato tremendo
anche lui, furono ben felici di proseguire da soli e di godere di
qualche attimo di pace.
E
guardandoli andare via, Demelza si trovò a chiedersi se non
avessero
tentato davvero la fuga. Ma fu un pensiero fugace perché
appena le
carrozze furono sparite alla sua vista, si guardò attorno
con un
brivido che le percorse la schiena e le fece venire la pelle d'oca
sulle braccia.
Era
a casa, quei prati, quel cielo, quel rumore in lontananza del mare
erano i tratti distintivi della sua terra, quella terra selvaggia che
l'aveva vista nascere e crescere, diventare moglie e madre e poi
scappare col cuore a pezzi e la certezza che tutto fosse finito.
Stava
tornando, da donna rinata e nuova, con un futuro roseo davanti tutto
da costruire. Inspirò il profumo di prato e salsedine, tutte
cose
che le erano mancate e che le pareva di non ricordare ma che ora, ora
che le inebriavano tutti i sensi, si accorgeva aver sempre fatto
parte di lei in un angolo segreto del suo cuore che conteneva tutti i
suoi ricordi più preziosi. Era la sua terra, la terra dove
sarebbero
cresciuti i suoi figli, dove sarebbe diventata di nuovo madre, la
terra che ora, da Lady Boscawen, poteva contribuire a rendere un
pò
migliore.
Ross
la prese sotto braccio mentre bambini e cani, eccitati, correvano
verso il mare. "Tutto bene?".
Lo
guardò, mentre il vento le scompigliava furiosamente i
lunghi
capelli rossi. Anche questo le era mancato... "Tutto bene".
Sì, era tutto meraviglioso. Il sole, il mare, il rumore del
vento,
la brughiera deserta dove si sentivano solo le voci allegre dei loro
bambini, il futuro che poteva ancora immaginare in quelle terre. Si
avvicinò a Ross, gli accarezzò le labbra e lo
baciò. Voleva
sentirlo, sentirlo contro di lei, sentirlo suo, sentire ancora e
ancora in se la consapevolezza che finalmente erano di nuovo insieme.
Ross
ricambiò il bacio e poi la abbracciò. "Forse
dovremmo
sbrigarci oppure dovremo scandagliare la spiaggia per capire dove
sono andati a finire i bambini".
"Oh
Ross, ci avresti mai creduto fino a un anno fa?".
Lui
si guardò attorno e il suo sguardo si fece malinconico. "Me
ne
sono andato da questi posti senza alcuna speranza per il futuro, dopo
anni di vuoto e di nulla... No, non ci avrei mai potuto credere,
eppure il destino pare avere più fantasia di noi".
"Direi
di sì".
Si
presero per mano e, in silenzio, attraverso i prati si diressero
verso le scogliere e da lì alla spiaggia. Quando vi
arrivarono
scoppiarono a ridere, i bambini parevano impazziti. Demian, Jeremy e
Valentine assieme ai cani correvano a riva, bagnandosi e schizzandosi
fra le onde del bagnasciuga, Clowance tentava con grazia di
avvicinarsi loro, preferendo però cercare le conchiglie
sulla riva
con Queen mentre Daisy, stranamente in disparte, osservava rapita lo
spettacolo che aveva davanti agli occhi.
Indossava
un leggero vestitino rosa, i suoi lunghi capelli biondi sembravano
ancora più biondi alla luce del sole calante della
Cornovaglia e
l'azzurro trasparente dei suoi occhi si rispecchiava e fondeva con
l'azzurro del mare. Sembravano un tutt'uno e Demelza, stranita, le si
avvicinò con Ross. "Orsetta! Credevo ti saresti scatenata
più
di tutti" – le sussurrò.
Daisy,
seria, guardò Ross. "E' grande davvero! E sembra tanto
forte".
Lui
le si inginocchiò di fianco, osservando quel mare di cui
aveva tanto
sentito la nostalgia. "E' vero, è immenso, il mare arriva
fino
ai confini del mondo. Ed è forte e selvaggio, oltre che
bellissimo".
Daisy
spalancò gli occhi. "Fino ai confini del mondo? E' tanto fin
laggiù! Demian diceva che non poteva essere più
grande del laghetto
del parco a Londra".
Demelza
rise e Ross le strizzò l'occhio. "Demian si sbagliava. Come
vedi, il mare è qualcosa di grande e selvaggio, come queste
terre.
Bisogna rispettarlo, amarlo e imparare a conoscerlo. E anche averne
un pò paura, bisogna sempre avere paura e rispetto delle
cose grandi
e forti. E il mare ti ricambierà con la sua amicizia".
Daisy
annuì. "E grande, sì... E io lo voglio vedere
tutto".
Ross
le accarezzò la testolina. "E così
sarà, ne sono certo".
Sì, lo avrebbe fatto e Daisy, che più di tutti
stava guardando il
mare con il rispetto e l'ammirazione che si devono a un re, lo
avrebbe domato e l'avrebbe navigato in lungo e in largo. Come una
piratessa, quale sarebbe stata... Si appartenevano, lei e il mare.
Anche se era nata a Londra e suo padre non aveva legami con la
Cornovaglia".
Ma
Daisy, con la sua vocina, lo riportò a quella nuova
realtà a cui
tutti dovevano ancora abituarsi del tutto. "Papà Ross?".
Già, era anche lui il suo papà, adesso...
"Dimmi".
"Posso
andare anche io a giocare? Se salto nelle onde, non gli faccio male
al mare?".
Demelza
le sorrise, stringendola a se e baciandola sulla guancia. "No,
nessun male! Su, corri dai tuoi fratelli!".
E
come se non avesse aspettato che questo, Daisy corse via.
Ross
sorrise guardandola correre via per unirsi ai giochi coi suoi
fratelli. C'era un senso di pace in quelle risate infantili e in quei
cani che correvano dietro ai bambini, godendosi appieno l'aria di
mare, il fragore delle onde contro le gambe e il profumo di quella
che sarebbe stata anche la loro casa. Di tutti loro.
Sembravano
felici, tutti, compresa la bambina che più sembrava essere
stata
rapita da Londra alla sua vera natura.
“Sai
Demelza, è incredibile”.
“Cosa?”.
Ross
osservò Clowance che, tranquillamente, raccoglieva
conchiglie sulla
spiaggia. I gemelli correvano scatenati avanti e indietro fra le
onde, Jeremy e Valentine giocavano con Garrick e sua figlia...
Credeva
che lo avrebbe odiato per averla portata in un posto tanto selvaggio
e tanto diverso dai suoi gusti e invece... E invece pareva
essere riuscita a trovare
una sua dimensione anche in Cornovaglia, più bambina,
più semplice
eppure con uno stile elegante e raffinato ma che sapeva adattarsi
benissimo anche a quella vita di provincia grazie
agli abitini comprati con la nonna a Londra, che univano il suo amore
per l'eleganza con la vita più pratica della campagna, senza
che
nessuna di queste due caratteristiche snaturasse l'altra.
Indossava un abitino azzurro a quadri e fra i capelli aveva un fiocco
del medesimo colore che le teneva a bada i lunghi capelli biondi
mossi dal vento e anche gli stivaletti che aveva ai piedi, di pelle,
sembravano perfettamente coordinati a quell'abbigliamento.
“Nostra
figlia... Sa essere elegante anche con vestiti semplici”.
Demelza
sorrise mentre il vento della spiaggia le scompigliava nuovamente
i capelli.
“Lei è nata per essere elegante in qualunque posto
e con indosso
qualsiasi tipo di vestito. Ce l'ha nel sangue e gli abiti che indossa
sono solo un
tocco in più, saperebbe essere elegante anche vestita
un sacco di
juta. Sa abbinare i colori, sistemarsi i capelli e trovare il giusto
modo per essere raffinata in ogni occasione in cui si trova.
Imparerai a
conoscerla, sotto ogni aspetto. E ti sorprenderà
perché ha una
grazia che né io né te possediamo ma anche il
sangue indomito e
testardo dei Poldark. Non si piega, mai. E' nata per essere una
leader, esattamente come suo padre. E per essere una principessa come
vogliono i Boscawen. A
Londra, quando partecipavo ai balli, spesso decidevo con Clowance
come vestirmi. E lei non sbagliava mai sui consigli circa il mio
abbigliamento”.
Ross
osservò sua figlia pieno di orgoglio. “Se
non somiglia a noi, a
chi somiglia?”.
“A
Caroline”.
Lui
scoppiò a ridere. “Buono a sapersi. E gli altri?
Se lei è nata
per essere elegante, qual'è e
quale sarà il
ruolo degli altri bambini?”.
“Jeremy
è nato per essere il mio uomo ideale”.
“Credevo
di essere io”.
Demelza
lo guardò storto. “Credo
tu non possa competere con lui...”
- rispose, in tono leggero.
“E
i gemelli?”.
Lei
alzò le spalle. “Loro sono nati per farmi
impazzire e
rivoluzionarmi la vita!
Ma sono contenta, sai?”.
“Di
cosa?”.
“Daisy
non dice parolacce da tre giorni, è
tornata ad essere contenta e la mia adorabile monella.
E Demian ha
dormito coi fratelli un paio di notti in Scozia e forse... forse...
lo farà anche in Cornovaglia, lasciandoci la nostra
stanza”.
Ross
la fissò
con sguardo sornione. “Su quest'ultimo punto, dubito tu sia
troppo
contenta”.
“Infatti
non lo sono. Non molto almeno...”.
“Ma
hai me, adesso”.
“Però
lui è il mio principe”.
Ross
la stinse a se. “E continuerà ad esserlo anche se
crescerà e
imparerà a diventare più indipendente.
Farà bene a lui, farà bene
a te e... pure a me. Può rimanere il tuo principe anche se
dorme
nella stanza accanto”.
Demelza
si voltò verso di lui e i suoi capelli rossi, al vento,
divennero
selvaggi come la Cornovaglia. Sorrise. “Vita
nuova, è”.
Ross
ci pensò su. “Sì e no. Questa
è sempre stata casa nostra, dopo
tutto”.
“Già”.
Un sorriso dolce comparve sul viso di Demelza, mentre la sera
catturava la spiaggia e il buio prendeva il posto della luce.
“Sta
facendosi tardi e presto non si vedrà più niente.
Andiamo a casa?”.
Ross
deglutì, rabbrividendo. Casa... Ora era palese che tornarci,
insieme, faceva paura anche a lui. “Sì, direi che
è ora”.
Chiamarono
i bambini e percorsero tutti insieme la spiaggia. Demelza
ripensò a
quante volte, tanti anni prima, avesse percorso quel tragitto dopo
aver cercato legna da ardere nel camino o al ritorno da una battuta
di pesca. Era così incredibile essere tornata lì
e forse
quell'ansia, quel terrore sarebbero svaniti appena rimesso piede a
Nampara.
Nampara...
Quel
nome la spinse a cercare la mano di Ross e a stringerla nella sua. I
bambini facevano mille domande su dove avrebbero dormito, su cosa
avrebbero fatto i Gimlett e Prudie, su dove avrebbero sistemato i
cani, su cosa avrebbero fatto al mattino con gli animali della stalla
e quando sarebbero arrivati lo zio e la nonna. Erano irrequieti, per
loro tutto era un'avventura e Demelza sorrideva perché era
bello
vederli eccitati e per nulla impauriti.
Anche
Jeremy sembrava contento e più di una volta, durante il
tragitto,
azzeccò il giusto sentiero per arrivare a Nampara, senza che
nessuno
gli dicesse niente.
“A
quanto pare non hai dimenticato proprio tutto!” -
esclamò infine
Ross, notandolo.
Jeremy
si bloccò, quasi rendendosi conto in quel momento che quei
luoghi,
quei sentieri, quei percorsi avevano sempre fatto parte di lui,
nascosti in un angolo della sua mente. “Forse...” -
ammise, quasi
stupito da se stesso. Poi si avvicinò, titubante, con le
mani dietro
la schiena. “Papà...?”.
“Dimmi”.
“Gustav
potrà venirmi a trovare?”
Ross
gli accarezzò la testa, immaginando gli innumerevoli guai in
cui si
sarebbero cacciati quei due. “Certamente”.
“E
Catherine?” - si insinuò Clowance.
Jeremy,
per nulla felice di avere la sua spasimante attaccata al suo collo
pure in Cornovaglia, la guardò storto mentre i gemellini
ridevano,
imitati da Valentine che, ovviamente, chiese lo stesso trattamento
per la sua adorata Emily Basset.
“Potranno
venire tutti i vostri amici!” - tagliò corto
Demelza.
I
gemelli si guardarono, pensierosi. “Ma noi non abbiamo amici,
eccetto gli alberi del nostro giardino”.
“Ne
troverete qui, anche in carne ed ossa” - li
rassicurò Ross,
immaginandoli già a capo di tutti i monelli della
Cornovaglia.
Demian
sorrise e Daisy si voltò ad osservare il mare, immaginandosi
come
compagna di giochi dei pirati e così, chiacchierando,
arrivarono...
Nampara
si stagliava lì, davanti a loro, ormai quasi avvolta
dall'oscurità.
Zachy se n'era preso cura a dovere e i Gimlett e Prudie avevano
già
portato dentro le valigie e acceso il camino e le candele che, col
loro chiarore, illuminavano i vetri delle finestre dando una
sensazione di calore a chi arrivava.
Ross
poggiò la mano sulla spalla di Clowance, forse quella che
più
poteva essere rimasta delusa da quella vista. “E' una bella
casa,
accogliente. Anche se non è elegante come quella di Londra,
sono
sicuro che ti piacerà”.
“Dormirò
solo con Daisy, vero?” - chiese la piccola. “Non
coi maschi?”.
Ross
le sorrise, se quello era il suo unico pensiero, le cose stavano
andando fin troppo bene. “Ci sono tre stanze al piano di
sopra, una
per me e la mamma, una per le bambine e un'altra per i bambini. E
Prudie e i Gimlett avranno i loro spazi al piano di sotto”.
Clowance
tirò un sospiro di sollievo, poi lo abbracciò.
“E allora mi
piace”.
Valentine,
eccitato di essere tornato a casa e galvanizzato dall'idea di fare da
Cicerone ai fratelli e di essere lui, per una volta, quello che ne
sapeva di più, corse verso la porta. “Venite, vi
faccio vedere
tutto quanto! La cucina, la sala, le camere, il camino e anche la
stalla!”.
“Bello!”.
I
bambini, eccitati, corsero dietro di lui, lasciando momentaneamente
soli i genitori.
Demelza
si appoggiò alla staccionata, come bloccata, con le gambe
che le
tremavano.
Guardò
quella porta e ricordò il giorno in cui Ross l'aveva
oltrepassata
lasciandola sola. Guardò ancora quella porta e
ricordò quando lei
fece altrettanto, in un giorno nevoso, col cuore a pezzi e due
bambini da crescere. Pensò alla sua vita da allora,
all'amicizia con
Margarita, a Dwight e Caroline, all'amore per Hugh, alla nascita dei
gemelli e alla famiglia che aveva trovato nei Boscawen.
Pensò a lei,
a come tutti a Londra la guardavano come modello, come la Lady che
ogni donna voleva essere... E pensò che lei una Lady non ci
si era
mai sentita e che era Nampara la sua casa ed esserne la padrona e la
moglie di Ross era l'unica cosa che aveva sempre desiderato. E allo
stesso tempo pensò che la donna che era stata non c'era
più e che
forse non era un male perché si sentiva cresciuta,
arricchita
dall'esperienza e dalla vita e ormai sicura dell'amore di Ross, un
amore ritrovato fortuitamente, cresciuto, adulto, che aveva
affrontato la più terribile delle tempeste uscendone
più forte di
prima. Era ancora incredula, ora che ci pensava...
“Ross...”.
Lui
la guardò, la strinse a se sentendo la stessa tempesta nel
suo
cuore, la abbracciò e la baciò.
“Andrà tutto bene”.
“Saremo
davvero una famiglia? Non hai ripensamenti? Non sarà troppo
per te,
prenderci tutti?”. Demelza aveva paura... A caldo, col cuore,
Ross
aveva scelto. Ma ora, a Nampara, si rendeva conto di quale grande
sfida sarebbe stata quella.
Ross
le accarezzò il viso, prendendoglielo fra le mani.
“Parli dei
gemelli?”.
“Sì”.
“Li
adoro e lo sai”.
“Lo
so, ma esserne padre è diverso”.
Ross,
a quelle parole, guardò verso la porta dietro cui erano
scomparsi i
bambini. “Mettiamola così: Hugh ha cresciuto con
amore i miei due
bambini e io sento di dovergli restituire il favore. Non per senso
del dovere, non solo per quello, almeno... Jeremy e Clowance hanno
dato a lui un motivo per vivere e diventare migliore e hanno
arricchito il suo cuore. E i gemelli hanno fatto lo stesso con me e
non so se sia un potere insito nei bambini, ma io li amo come lui ha
amato i miei figli. E non c'è gelosia in questo, non
più. Solo
gratitudine... E amo te e quindi non posso fare a meno di farlo con
tutto ciò che ti riguarda”.
Calde
lacrime, di gioia e sollievo, presero a scendere dal viso di Demelza.
La voce di Ross era profonda, gentile, inebriante... E terribilmente
sincera. “Sei reale, Ross?”.
Lui
rise. “Certo, sono qui davanti a te”.
Gli
strinse la camicia, forte, come se avesse avuto paura che lui se ne
andasse di nuovo. “Non scomparirai?”.
Ross
la strinse a se. “Mai più Demelza, mai
più...”.
“Giuralo!”.
La
baciò, sulle labbra, lentamente. “Lo giuro... E se
un giorno
qualcuno mi chiedesse cos'è l'amore, allora gli
racconterò di te.
Non esiste spiegazione migliore e non esiste uomo così folle
da
poterne fare a meno”.
Non
aveva mai conosciuto Ross in versione così romantica e anche
se non
era un poeta, sapeva dire cose infinitamente belle quando si
presentavano il momento giusto, l'occasione giusta, la giusta
atmosfera. Non ogni giorno, di tanto in tanto... E quando succedeva,
inaspettatamente, tutto diventava speciale. E a quelle parole, si
sentì finalmente forte. “E allora sono
pronta”.
“Per
cosa?”.
“Per
entrare nella nostra casa”.
“Anche
io”.
E
prendendola per mano, fianco a fianco, insieme varcarono la porta di
Nampara.
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Capitolo 78 *** Capitolo settantotto ***
Erano
tornati solo da pochi giorni a Nampara ma già, come per
magia e come
se tutto questo avesse sempre fatto parte di tutti, ognuno aveva
ripreso antichi ritmi, antiche abitudini e antiche usanze.
Ross
aveva preso ad alzarsi presto al mattino, lasciando che Demelza
continuasse a dormire tranquilla ancora un pò. Era ormai a
metà
gravidanza e tutto ciò che desiderava era che lei stesse a
riposo,
il più possibile serena. Certo, era difficile farla stare
ferma di
giorno quando, a causa della sua vitalità e dei bambini, si
dimostrava agile come una gazzella. Ma Ross le ricordava spesso,
assieme ai Gimlett che non erano abituati a tanta vitalità,
che era
incinta e che scavalcare le staccionate o correre nell'aia erano cose
sconsigliate. Tutto questo mentre Prudie, alle loro spalle,
borbottava cose incomprensibili facendo il bucato. E poi c'erano i
preparativi al matrimonio, l'ansia, mille cose da organizzare che i
Boscawen, attesi a breve dopo che avevano comprato un antico palazzo
di campagna, sicuramente avrebbero rimarcato. Certo, andava bene un
matrimonio semplice ma non TROPPO semplice... Lord Falmouth era stato
chiaro, una cerimonia in famiglia e con solo gli amici stretti ma con
la giusta dose di buon gusto ed eleganza...
Stiracchiandosi,
Ross si avviò verso la staccionata seguito dai gemellini
che, a
differenza dei tre fratelli più grandi, erano decisamente
molto più
mattinieri e desiderosi di scoprire quel mondo che a loro pareva
infinito e tutto da esplorare. Demian stava abituandosi ad
addormentarsi nella stessa stanza di Jeremy e Valentine e anche se la
sera piagnucolava sempre un pò e pretendeva la presenza di
Demelza
fino a che non si fosse addormentato, poi rimaneva nel suo letto fino
al mattino e sgattaiolava da loro solo all'alba. Gli avevano
insegnato che doveva bussare prima di entrare in una stanza da letto,
che era una cosa educata da fare quando si entrava in camera di altre
persone e Ross, con Demelza, aveva promesso di fare altrettanto con
lui e coi fratelli, quando fosse venuto in camera loro. Demian si era
sentito importante, come gli altri bambini a cui aveva riconosciuto
il diritto alla privacy, e aveva imparato subito quella piccola
regola. Certo, non avere più il contatto diretto con la sua
mamma
tutta la notte era difficile per lui tanto per Demelza, ma Ross
sapeva che presto ognuno si sarebbe abituato a quella realtà
più
giusta ed adeguata per tutti. E poi Nampara era piccola e a Demian
era stato spiegato che gli sarebbero occorsi solo pochi passi per
raggiungere la mamma e che quindi non c'era nulla di cui avere paura.
Passeggiando
coi bambini, giunse fino alla spiaggia. Quella era diventata la sua
nuova attività mattutina, passeggiare godendosi il mare e le
belle
giornate. La miniera lo vedeva nuovamente coinvolto nelle ore
centrali della giornata ma la mattina presto e il pomeriggio tardi
erano dedicati solo a quella sua famiglia tanto amata e che gli era
stata strappata troppo a lungo.
Era
felice... Era come rinascere e avere nuovamente accanto Demelza,
poterci parlare, ridere, scherzare, poterla amare e addormentarsi con
lei erano come la realizzazione di sogni ritenuti impossibili fino a
poco prima.
"Stamattina
che si fa?" - chiese Daisy, togliendosi le scarpine e
lanciandole nella sabbia, come suo solito.
Ross
le indicò il mare. "Si fa come sempre, ci si impegna per
tenerlo pulito".
I
bimbi si voltarono e per un attimo rimasero in silenzio ad osservare
quella grande distesa blu baciata dal sole nascente.
I gemelli
sembravano
affascinati dal mare. Demian ancora non si capacitava che fosse
più
grande del laghetto del parco di Kensington e Daisy voleva sempre
sgattaiolare in spiaggia alla ricerca di pirati.
Da quando Ross
aveva spiegato a Demian che con un bastone, sulla battigia, si poteva
disegnare senza sporcar nulla tracciando segni sulla sabbia, ogni
mattino il piccolo voleva accompagnarlo nella sua perlustrazione.
Ross amava tenere pulita la sua spiaggia e spesso all'alba, dopo una
nuotata, si era fermato a raccogliere detriti e sporcizia che la mare
notturna aveva portato a riva. Lo trovava rilassante...
Ma
Daisy no, invece! "Lo dobbiamo sgridare!".
"Chi?".
Con
la mano nella sua, la bimba alzò le spalle. "Il mare! Sporca
sempre tutto!!!" - sbottò, prendendo un pezzo di legno
marcio
che galleggiava a riva.
Ross rise mentre Demian, a poca distanza,
disegnava elfi e folletti sulla sabbia. "E sì,
dovremmo...".
"Mare, fai il bravoooooo!!!" - urlò
Daisy, alle onde.
Ross osservò il pezzo di legno raccolto. Doveva
appartenere a qualche imbarcazione affondata e forse poteva servire a
rendere un pò più interessante la loro missione.
"Questo è un
legno speciale, apparteneva a una barca. E sai chi la guidava, prima
di affondare?".
Daisy ci pensò su, poi divenne rossa
dall'emozione. "I pirati?!".
"Credo proprio di
sì!".
Daisy saltellò. "Sono vicini?".
"Sì.
O lo erano..".
"E ci stanno spiando di nascosto?".
Ross
sorrise, accarezzandole la testolina. "Può darsi".
Daisy,
eccitata, si guardò attorno. "Demiannnn, ci sono i pirati!".
Il
bimbo la guardò incuriosito, poi con noncuranza
tornò a tracciare
linee nella sabbia. "Basta che non mi rovinano il disegno".
Ross
rise del pragmatismo del bambino, che in quel tratto di carattere
somigliava incredibilmente a suo zio. Ma poi lo osservò
disegnare e
si rese conto della passione e della concentrazione che ci metteva e
in questo, anche se non lo aveva conosciuto di persona, ci vedeva
Hugh. Anche Demelza vedeva la stessa cosa in lui e Ross ogni volta
che lei lo diceva, si trovava a provare una fitta al cuore. Ma non
gelosia per ciò che era stato e per i ricordi che Hugh aveva
lasciato in chi aveva incrociato il suo cammino, ma a causa del
destino avverso a quell'uomo che di certo non meritava di non veder
crescere i suoi figli ma al contrario, meritava di essere lì
al suo
posto a vedere Demian che, come lui, amava l'arte e il disegn. E
questo lo avrebbe reso orgoglioso, Ross lo poteva immaginare
perché
essendo a sua volta padre, si sentiva fiero ogni volta che i suoi
figli raggiungevano un nuovo traguardo davanti ai suoi occhi. Nel
pensare a Hugh rivedeva il se stesso che per lungo tempo si era
precluso ogni cosa dei suoi figli, perdendosi tante piccole
conquiste di cui altri avevano goduto. Ora, guardando Demian che
disegnava o Daisy che era una piccola adorabile piratessa in erba,
provava le medesime cose pensando a Hugh e al fatto che sarebbe stato
giusto che ci fosse lui lì, in quel momento...
La
piccola Daisy, che gli tirava la stoffa dei pantaloni, lo
destò dai
suoi pensieri. "Papà Ross, mi fai provare?".
"A
far cosa?".
"La
pirata!".
Ross
sospirò, prendendola in braccio. Sapeva a cosa stava
alludendo ed
era da quando gli aveva raccontato della sua piccola barca ancorata
in un grotta, che Daisy glielo chiedeva. E quel giorno il mare era
abbastanza calmo per accontentarla... "Vuoi fare un giro sulla
barca, nel mare?".
"Sììììì!"
- urlò lei, entusiasta.
Ross
le strizzò l'occhio. "Ma magari mamma si arrabbia, che ne
dici?".
Daisy
allargò le braccia con ovvietà, alzando poi le
spalle. "Basta
non dirglielo! Facciamo un segreto nuovo?".
Ross
sospirò, rendendosi conto che mai sarebbe riuscito a dire di
no alle
piccole donne della sua famiglia: Clowance, Daisy e presto anche
Isabella-Rose l'avrebbero avuto in loro perenne potere. "E fa
bene, aggiungiamo un altro segreto alla nostra lunga lista".
Si
voltò verso Demian per chiamarlo quando, dal fondo della
baia, vide
scendere dal sentiero i suoi tre figli più dormiglioni che,
come
ogni mattina, lo raggiungevano con comodo dopo aver fatto colazione.
"Papà!"
- urlarono Valentine, Jeremy e Clowance correndo verso di lui.
Ross
guardò Daisy e decise che sì, poteva
accontentarla e quello era il
momento giusto per farlo. Tutti i suoi bambini erano lì e
forse per
la prima volta poteva fare qualcosa da solo con loro, da padre, senza
l'aiuto di Demelza a filtrare i rapporti. "Siete arrivati appena
in tempo!" - esclamò ai bambini, appena li ebbe davanti.
"Per
cosa?" - chiese Jeremy.
Daisy
si mise fra loro. "Per fare i pirati!".
...
Mezz'ora
dopo, dopo aver raggiunto la grotta ed essersi fatto aiutare da
Jeremy e Valentine a spingere la barca fino al mare, navigavano sotto
costa.
Con
vigorose remate, Ross mostrò ai bambini la visuale della
terraferma
vista dal mare, raccontando loro tutte le leggende che conosceva su
quei luoghi, dai pirati a Re Artù.
Mentre
Jeremy e Valentine furono da subito attenti e curiosi, gli altri
reagirono ognuno in modo diverso a quella nuova avventura: un
pò
impaurita, Clowance gli si rannicchiò sulle gambe mentre
Demian, a
prua, chiacchierava coi pesci che vedeva sfilare, chiamandoli coi
nomi che gli venivano in mente al momento.
E
Daisy...
La
piccola piratessa, eccitata e felice come se si fosse trovata nel suo
elemento naturale, non stava ferma un attimo. Saltellava qua e la
facendo dondolare l'imbarcazione e qualche volta Ross fu costretto ad
afferrarla per il vestitino perché non cadesse in acqua. E
alla
fine, per tenerla buona, la nominò Capitana Piratessa della
nave,
mettendole in testa il suo tricorno che, ogni due per tre, le cadeva
davanti agli occhi perché troppo grande. E lei, ridendo,
dava ordini
come solitamente faceva suo zio coi suoi sottoposti, esigendo che
tutti le ubbidissero e che lui andasse di qua e di la.
Ross
la assecondò, facendo l'occhiolino a Clowance che, dopo la
paura
iniziale, sembrava ormai solo divertita, mentre i maschietti la
prendevano in giro facendole mille domande sul mare a cui Daisy
ovviamente non sapeva rispondere. E allora la bimba si arrabbiava,
picchiava il piedino e inventava una risposta, il più delle
volte
astrusa, dandosi il tono del lupo di mare navigato.
Fu
rilassante portare i bambini in barca, una specie di ritorno al
passato di quando era bambino o sposino e, con Demelza, a volte
faceva lo stesso tragitto di sera, alla luce delle stelle,
guardandola di sottecchi e stupendosi di essersene innamorato. Anche
per i bambini fu bello e trovarsi con loro insieme, in armonia,
raccontando le storie di quella terra che col tempo sarebbe diventata
un pò anche loro, li fece sentire più vicini.
Dopo
due ore di remate però, complice il dolore alla spalla
appena
guarita, propose loro di tornare a riva per una nuova avventura: la
miniera!
Demelza
lo avrebbe ucciso se avesse saputo che li aveva portati fin
laggiù
ma anche quello sarebbe stato un loro piccolo segreto, un segreto che
poteva avvicinarli ancora di più. Anche le miniere, come il
mare,
facevano parte di quel mondo che i bambini stavano scoprendo, Jeremy
e i gemelli gli facevano spesso molte domande su cunicoli e rame e
aveva comunque il sospetto che se non avesse mostrato loro di che si
trattava, prima o poi Daisy e Demian avrebbero tentato di scoprirlo
da soli, cacciandosi nei guai o mettendosi in pericolo... O scoprendo
da soli nuovi e ricchi filoni... Da quei due poteva aspettarsi di
tutto e quindi, per la sicurezza dei bambini, se miniera doveva
essere, che l'esplorazione avvenisse con lui a vigilare.
Era
domenica, la Wheal Grace era deserta e quindi, dopo essersi fatto
promettere cieca ubbidienza e di fare i bravi, li portò nel
suo
studio e da lì aprì la botola che portava al
primo livello.
Clowance
non sembrava molto convinta ma alla fine, spinta dagli
incoraggiamenti di Jeremy, decise di far parte del gruppo.
Per
primo scese Ross, con Daisy e Demian aggrappati al suo collo. Poi
scese Clowance, seguita da Valentine e infine Jeremy, che in
superficie aveva vigilato sui fratellini e aveva scelto di essere
l'ultimo a scendere.
Appena
di sotto Ross accese una candela e, tenendosi tutti per mano,
avanzarono lentamente nei corridoi.
"Fa
freddo qua sotto" – mormorò Clowance.
"Molto
freddo" – aggiunse Daisy. "Avranno freddo anche i pirati!
Ci vengono quì?".
"Sì,
a volte" – borbottò Ross – "E anche se
hanno freddo,
mi rubano il rame!".
"Perché
gli serve!" - ribatté la bimba, già desiderosa di
difendere la
categoria piratesca a cui voleva appartenere.
"Papà,
è vero che nelle miniere ci lavorano anche i bambini
piccoli?"
- chiese Jeremy, guardandosi attorno un pò spaventato ma
anche
estremamente incuriosito.
Ross
scosse la testa davanti a quella piaga che, in Parlamento, stava
cercando di estirpare con ogni sua forza. "Non nella mia! Da me,
fino ai quattordici anni, non si scende in miniera a lavorare! Ma in
altre miniere purtroppo sì, ci lavorano bambini anche molto
piccoli. E si ammalano e molti muoiono... E io, sperando nell'aiuto
di vostro zio e in quello di chi la pensa come noi, cerchiamo di
evitare con nuove leggi che questo possa ancora accadere".
Clowance
gli strinse la mano. "Lo chiederò allo zio, gli
dirò di fare
subito le leggi e di aiutarti, allora! Lui lo ascoltano in tanti, lo
sai? Quì è buio e sporco, non ci dovrebbero stare
i bambini.
Nemmeno quel tonto di Gustav! Se venisse quì, finirebbe in
un buco,
cadrebbe di sotto e nessuno lo vedrebbe mai più. Che non
sarebbe una
brutta cosa, ma magari sua mamma potrebbe piangere per sempre...".
Mascherando
un sorriso di compatimento per il povero cuore innamorato e per nulla
corrisposto di Gustav, Ross le accarezzò la testolina,
orgoglioso di
lei. In fondo, benché principessina nei modi, aveva un cuore
grande
e generoso come ogni Poldark che si rispetti. "Beh, speriamo che
lo zio ti ascolti".
"Papà
Ross?" - chiamò Demian. "Cos'è la striscia rossa
nella
pietra? Un disegno? Chi lo ha fatto?" - chiese.
Ross
scoppiò a ridere, il piccolo segugio era già
all'opera. "E'
una piccola vena di rame, quella. E' ciò che cerchiamo e che
da
lavoro ai miei uomini. E una paga".
Il
piccolo osservò meglio, percorrendo il segno con il dito.
"Ohhh,
dillo ai tuoi uomini! Questo l'ho trovato io".
"D'accordo!".
Valentine
gli si avvicinò, cingendogli la vita. "Papà!".
"Cosa
c'è?".
"Grazie
per avermi portato quì! Non c'ero mai venuto".
Ross
si sentì in colpa di nuovo verso di lui, per come per tanto
lo
avesse volutamente tenuto fuori dalla sua vita di tutti i giorni.
"Faremo ancora tante cose insieme, Valentine! Magari all'aria
aperta, che è un luogo più adatto a voi..." -
disse fra i
denti, correndo a riprendere Daisy che si era messa a giocare
codecisamente ora di risalire, il tempo di ubbidienza dei gemelli era
limitato e quasi scaduto. "Coraggio, ora! Risaliamo e andiamo
dalla mamma! E' quasi ora di pranzo!".
"Sìììì!"
- urlarono tutti, affamati.
E
riprendendosi tutti per mano, risalirono dalla scaletta.
...
Stava
cucendo a mano una copertina di lana per Isabella-Rose, quando
bussarono alla porta.
Jane
Gimlett andò ad aprire e con somma sorpresa di Demelza, si
trovò
davanti Lord Falmouth ed Alexandra che, a dire il vero, non sarebbero
dovuti arrivare prima di dieci giorni.
Evidentemente
avevano accelerato i tempi, pensò…
Dopo
varie ricerche e arrendendosi al fatto che i tempi erano cambiati e
che non esistevano più castelli abbastanza sfarzosi per i
Boscawen,
Falmouth aveva comprato una elegante villa a poche miglia da Nampara,
Tregothnan, dove passare i mesi estivi coi bambini, in attesa del
ritorno autunnale a Londra.
Demelza
osservò i due arrivati, sorridendo ed alzandosi dal divano.
Li
abbracciò felice di vederli, spiegò loro che i
bambini e Ross erano
fuori dal mattino presto e poi li invitò a sedersi per un
tè.
Quella situazione così nuova a Nampara ma di fatto tanto
famigliare,
si rese conto che la faceva stare bene e che era bello averli
finalmente lì con loro. Le erano mancati, ai bambini erano
mancati e
facevano parte della famiglia.
“E’
cresciuta la tua piccolina, vedo!” –
osservò Alix notando il suo
ventre ormai decisamente non più piatto.
“Già,
cresce e non sta ferma un secondo!”. La gravidanza iniziava a
pesare, la piccola diventava grande ed ora era ben visibile e a
giudicare da quanto scalciava, sarebbe stata più vivace
persino dei
gemellini.
“Ti
trovo benissimo, mia cara” – le sussurrò
Alix, mettendole
accanto un pacco.
Demelza,
accarezzandosi il ventre, osservò incuriosita.
“Cos’è?”.
La
suocera le sorrise. “Il tessuto per il tuo abito da sposa. So
che
mi hai detto di fare con comodo ma mio fratello dice che di cose da
fare con comodo non ce ne sono in questa faccenda e quindi abbiamo
anticipato la partenza ed eccoci qui… Io e te in una
settimana
possiamo cucire un abito meraviglioso, tu ti sposerai e mio fratello
smetterà di vivere nell’ansia dello
scandalo”.
Santo
cielo, una settimana! Il cuore le accelerò al pensiero che
dopo
quegli anni di incubo e tanto dolore, presto sarebbe tornata ad
essere ciò che era nel suo destino, la signora Poldark.
“Anche se
in fondo è una formalità, fa un po’
paura…” – ammise.
Falmouth
tossicchiò, guardandola storto. “Una gravidanza
senza un anello al
dito non è una formalità. Nemmeno Lady Boscawen
può permettersi un
tale stato di cose…”.
Alix
e Demelza risero davanti alle occhiatacce dell’uomo.
“Agli
ordini! Appena Ross torna, lo mando a Sawle per le
pubblicazioni!”.
Falmouth
si guardò in giro mentre Prudie, trotterellando con passo
pesante,
portava il tè. “A proposito, Poldark
dov’è?”.
“Non
lo so esattamente ma credo sia impegnato a far scoprire ai bambini le
meraviglie della Cornovaglia”.
“Come
stanno i piccoli?” – chiese Alix.
Demelza
sorrise, i bambini erano un fiore e sembravano rinati in spirito e
forze da quando si trovavano lì. “Bene! Sono
vivaci, un po’
zingari, chiassosi e spesso affamati. Persino Daisy non fa capricci e
a tavola mangia tutto!”.
Alix
si illuminò in viso. “Daisy? La nostra
Daisy?”. Sembrava
incredula… “E non si è nemmeno ammalata
con tutto questo
vento?”.
Demelza
scosse la testa. “No, sana come un pesciolino e combattiva
come un
pirata”.
La
donna tirò un sospiro di sollievo, Falmouth annuì
orgoglioso e poi,
guardandosi attorno, studiò la casa. “E’
semplice e piccola,
molto diversa da quella a cui sei abituata a Londra”.
“Anche
la casa di Londra era molto diversa da quella a cui ero abituata qui.
Nampara va benissimo per noi e ci stiamo bene, è grande
abbastanza
per tutti e i bambini sono contenti” – rispose
Demelza, di
rimando, rendendosi conto di quanti cambiamenti fossero occorsi negli
ultimi anni nella sua vita.
Falmouth
la fissò intensamente, a quelle parole. "E tu, tu sei
felice?".
Lei
annuì, dandogli la più sincera delle risposte.
"Sì, lo sono".
E
in quel momento la porta si spalancò e i cinque piccoli,
come
cicloni, fecero irruzione nel salottino.
Appena
videro i nuovi arrivati, i quattro piccoli Boscawen corsero verso di
loro. "Nonna, zio!!!".
Fecero
per travolgerli con un abbraccio ma Prudie, a braccia conserte, si
mise fra i bambini e il lord. "Siete sporchi come topolini, non
toccate niente e nessuno. Soprattutto il lord!".
I
bambini guardarono Demelza accigliati e lei, abbastanza divertita,
osservò Ross. "Dove li hai portati? Son pieni di polvere".
"E'
il mare, mamma!" - intervenne Daisy, la conta-frottole di
più
fruttuosa esperienza. "Sposta la sabbia e ci viene addosso e noi
ci sporchiamo!".
Demelza
captò l'occhiolino di Ross alla piccola orsa mentre Alix
rise e,
incurante della polvere dispettosa, abbracciò la nipotina
più
piccola. "Ciao principessa, mi sei mancata!".
Ma
Daisy si imbronciò. "Non principessa! Sono una pirata, lo
sai
nonna? Conquisterò tutti i mari del mondo, anche quello
della Scozia
se vuoi, zio".
Falmouth
rise sotto i baffi, Alix sospirò e gli altri bambini, con
più
cautela, si avvicinarono a salutare.
"Quanto
starete?" - chiese Jeremy alla nonna.
"Io
fino a quando la vostra mamma non avrà partorito. Lo zio
cercherà
di fermarsi fino a ottobre, se il Parlamento glielo permette. E poi
tornerà quì a Natale e festeggieremo insieme come
lo scorso anno. E
quando la vostra sorellina sarà nata, torneremo a Londra
tutti
insieme per un pò, fino alla bella stagione".
Jeremy
sorrise, contento di quel programma.
Clowance
invece la abbracciò, eccitata che la sua migliore compagna
di
shopping, la nonna, l'avesse raggiunta. Poi la sua attenzione si
focalizzò sul pacco di stoffa che aveva portato.
"Cos'è?".
Demelza
prese il pacco, nascondendolo alla vista di Ross. "La stoffa con
cui faremo il mio vestito da sposa, Clowance?".
La
bambina divenne rossa dall'emozione. "E io farò la
damigella!
Vero, mamma? Vero, papà? Vero, zio? Vero, nonna? Io sono
bravissima,
ho fatto tante volte la damigella e sono la migliore damigella di
tutta l'Inghilterra. E anche della Scozia, ci scommetterei!" -
disse, con cipiglio sicuro, rivolta allo zio che a quelle parole si
gonfiò di orgoglio.
"Ovviamente,
Clowance, non c'è nemmeno da metterlo in dubbio!". Falmouth
accarezzò i capelli così insolitamente spettinati
della bambina e
poi, mettendosi il cappello in testa, prese sotto braccio Alix.
"Questa è solo una breve visita ma ora, credo sia tempo di
andare per noi, devo badare ad ogni mossa dei miei servi che non
sanno nemmeno come fare un trasloco senza la supervisione di qualcuno
con del cervello! Mi fanno impazzire! Ma bambini, quando tutto
sarà
a posto, potrete venire a dormire da noi quando vorrete,
così
lasciate un pò in pace i vostri genitori".
Valentine,
intimidito, si avvicinò. "Posso venire pure io?".
"Certo
che puoi!".
"Grazie!"
- esclamò il bambino.
Falmouth
annuì, lo aveva sempre trovato estremamente gradevole ed
educato, il
piccolo Valentine... L'unica sua pecca era la strana passione che
nutriva per la graziosa figlia di Lord Basset, il suo rivale. "E
ora su, devo davvero andare. E voi fate i bravi, a giorni ci
sarà un
matrimonio".
Ross
guardò Demelza. "A giorni?".
Lei
gli sorrise, baciandolo sulla guancia. "Il tempo necessario, mio
caro, a cucirmi il vestito".
Ross
sudò freddo, poi prese a ridere come se fosse ubriaco. "Ma
tu
sei velocissima a cucire vestiti!".
"Appunto...
Dovresti andare dal Reverendo Odgers quanto prima per le
pubblicazioni" – lo occhieggiò Demelza, facendogli
capire con
lo sguardo che subito era meglio che domani.
Falmouth
ed Alexandra sorrisero e, dopo aver salutato, si congedarono.
Rimasti
soli coi bambini, Demelza e Ross furono investiti da mille domande
sul matrimonio e su cosa sarebbe successo nei giorni successivi.
Solo
Jeremy rimase in disparte, con sguardo torvo.
Ross
se ne accorse e, timoroso che il figlio non fosse ancora pronto, gli
si avvicinò. "Jeremy, va tutto bene?".
Il
ragazzino guardò lui e poi, con sguardo mortalmente serio,
la madre.
"Giura!".
"Cosa?"
- chiese Demelza.
"Che
non mi costringerai a vestirmi da paggetto scemo come hai fatto per
il matrimonio di Margarita ed Edward! IO-NON-LO-FACCIO-PIU'!!!".
Demelza
scoppiò a ridere e anche Ross, capita la natura del
problema, fece
altrettanto. "Lo giuriamo, nessuno sarà costretto a fare
niente
che non gli va, in quel giorno. Sarà la nostra festa, di
tutti noi,
non solo mia e della mamma. Vi vogliamo solo vicini e se Clowance
vuole fare la damigella e tu non vuoi fare il paggetto,
andrà
benissimo! Io ho sempre odiato, da piccolo, fare il paggetto. E per
fortuna nessuno mi ha mai costretto a farlo..." - disse, tirando
una frecciatina a Demelza che raccolse la sfida.
"Poteva
essere educativo, amore mio...".
Ross
le si avvicinò divertito, dandole un veloce bacio sulle
labbra.
"Temo, AMORE MIO, che non lo sapremo mai, ormai l'età per
fare
il paggetto l'ho superata da un pezzo".
Jeremy
scoppiò a ridere davanti a quel battibecco e anche gli altri
fecero
altrettanto.
Valentine
si avvicinò al padre e a Demelza e, timidamente, chiese di
essere
ascoltato. "Papà, io il paggetto non l'ho mai fatto, posso
farlo anche se a te non piace?".
Fu
Demelza a rispondere, al posto di Ross, desiderosa che Valentine
capisse che poteva essere ciò che desiderava, nella loro
famiglia. E
che sarebbe sempre e comunque stato amato, anche se nutriva gusti o
passioni differenti dagli altri. "Certo tesoro, sarà un
onore
averti come paggetto. E voi?" - chiese, ai gemelli.
Demian
alzò le spalle, con noncuranza. "Se mi fai dormire un
pochino
ancora con te mamma, ti faccio il paggetto tutti i giorni di tutta la
mia vita" – tentò di argomentare.
Ma
Ross lo stoppò subito mentre Prudie, alle sue spalle, se la
rideva
della grossa. "Ne faremo a meno, Demian. Ma ti ringraziamo per
la tua offerta".
Demian
si imbronciò, rannicchiandosi contro le gambe di Demelza, e
Ross si
rivolse a Daisy. "E tu? Vuoi fare la damigella?".
Lei
ci pensò su. "Posso fare la damigella vestita da pirata?".
"No,
non credo che lo zio apprezzerebbe..." - rispose Demelza.
E
Daisy scosse la testa. "E allora no, non lo faccio".
"Neanche
per me?" - chiese Ross, illudendosi di essere il suo preferito.
Daisy
fece un sorriso furbo. "Se mi dai altri dieci segreti belli e
solo nostri, allora sì!".
Demelza
occhieggiò Ross in cagnesco. "Questa cosa dei segreti, prima
o
poi dovrete spiegarmela".
Ma
Ross tenne duro. "Un segreto è un segreto e mai andrebbe
svelato! E' una questione d'onore!".
Prudie
si avvicinò, prendendo i gemelli per mano mentre Jane Gimlet
faceva
lo stesso con Clowance e Valentine. "Sono d'accordo e per la tua
salute, ragazza, sta fuori dai segreti di questi due. E voi,
bestioline, ora vi porto a fare un bagno. Non pranzerete
così
sporchi!".
Ross
fissò Prudie a occhi spalancati. Prudie che parlava di
pulizia, che
INNEGGIAVA alla pulizia...?! Santo cielo, il mondo si era capovolto
per davvero! Ma si astenne dal commentare, che portasse via i bambini
per un pò poteva anche fargli comodo perché
c'erano delle cose di
cui voleva parlare con Demelza.
Borbottando,
i piccoli seguirono le due domestiche e Ross ne approfittò
per
avvicinarsi alla sua futura moglie. "Pochi giorni? Ho capito
bene?" - le chiese emozionato, cingendole la vita.
"Pochi
giorni per cambiare idea e scappare, Ross Poldark...".
Ridendo,
la baciò sulle labbra. "Potrei rifletterci mentre vado, dopo
pranzo, dal Reverendo Odgers".
Ridendo,
Demelza gli restituì il bacio. "Sì, potresti"
–
mormorò, contro le sue labbra.
Lo
sguardo di Ross si addolcì, mentre la abbracciava
più forte. "Sei
felice?".
"Sei
la seconda persona che me lo chiede, oggi. Sì, sono
felice... Tu?".
Ross
la baciò sulla fronte, appoggiandoci poi la sua, di fronte.
"Sì,
felice. E rinato... Guardo questa casa e penso al male che ti ho
fatto e al silenzio che l'ha devastata per anni... E ora sono brutti
ricordi e sì... Rinascere per me, è il verbo
giusto. Sono felice,
amo questa nostra nuova vita e non vedo l'ora di conoscere
Isabella-Rose perché ne sia ancora più piena. E
per la prima volta
non ho paura di cosa riserverà il futuro a tutti noi, per la
prima
volta so che insieme siamo abbastanza forti da poter affrontare
tutto. Tu, io, i bambini, Isabella-Rose...".
Con
un gesto gentile, Demelza gli prese la mano, poggiandola sul suo
ventre. "La senti?" - disse, mentre la piccola scalciava
con vigore. "Oggi è scatenata".
Gli
occhi di Ross si fecero lucidi. "E' davvero lei?" - chiese,
sentendo sotto i palmi della mano i calcetti della piccolina.
La
donna rise. "Certo! E mi stupisco che ti commuova sentirla! Non
è il nostro primo figlio".
"In
un certo senso sì, in un certo senso lo è
davvero" –
sussurrò Ross, contro le sue labbra.
Demelza
chiuse gli occhi, abbandonandosi a quell'abbraccio di cui aveva
bisogno. Nonostante cercasse di mantenersi forte e salda, era in
preda a mille emozioni come e più di Ross. Quel giorno
terribile di
quasi otto anni prima, da quel notaio, sarebbe diventato solo uno
sbiadito ricordo senza più nessuna importanza. Faceva paura
ed era
allo stesso tempo inebriante pensare che a breve, passeggiando,
sarebbe stata per tutti, di nuovo, la signora Poldark.
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Capitolo 79 *** Capitolo settantanove ***
Il
colletto della camicia sembrava volerlo strozzare, le sue mani erano
sudate ed umidicce e in quella dannata cappella faceva un caldo
atroce. Oppure non c'era niente di tutto questo ma solo una grande,
immensa emozione che lo faceva diventare scalpitante e ansioso...
Stava
per sposarsi... O meglio, stava per risposare colei che non aveva mai
smesso di considerare sua moglie, l'unica, quella che il destino e il
suo cuore avevano scelto per lui e che stupidamente si era fatto
scappare a lungo, corrodendo il cuore di entrambi con errori orribili
e scelte sbagliate prese per rimediare all'irreparabile.
Era
tutto passato, tutto superato e quel dolore sarebbe diventato
esperienza e insegnamento per i loro figli...
Ross
la stava aspettando e presto lei sarebbe arrivata dalla navata,
bellissima e con quel suo sorriso dolce e quei capelli rosso fuoco
che lo facevano impazzire, dicendo quel sì.
Era
tutto così diverso dal loro primo, semplice e sorprendente
matrimonio, dove sia gli sposi che i due unici testimoni, Jud e
Prudie, si guardavano in viso quasi increduli che stesse succedendo,
in un'atmosfera irreale e tesa dove nessuno osava sorridere ed essere
felice. Anche ora era incredulo ma non per il fatto di sposarla ma
per avere avuto una seconda opportunità che di certo non
meritava e
che era stata donata unicamente da un destino benevolo...
Ed
era tutto diverso da allora e dalla canonica, piccola e angusta,
poteva sentire il chiacchiericcio nella navata. C'erano tutti le
persone a loro più care, pochi ospiti, tutti amatissimi,
tutti
importanti e tutti parte della loro famiglia. C'erano Prudie e i
Gimlett, Zachy Martin, Dwight e Caroline con le loro bimbe, la
piccola Sophie e la neonata Melliora, Lord Falmouth e Lady Alexandra,
Lord Basset con sua moglie e la piccola Emily, Margarita ed Edward
con la loro piccolina appena nata, di cui non avevano voluto ancora
comunicare ufficialmente il nome, e infine le famiglie di Gustav e
Catherine, i migliori amichetti di Jeremy e Clowance che i bimbi
avevano invitato in Cornovaglia per l'evento. Non tante persone e
nessuna festa sfarzosa ma una cerimonia e dei festeggiamenti in
famiglia, nel salone della nuova casa che Falmouth aveva acquistato
in Cornovaglia.
"Papà,
se vai avanti così ti strapperai il collo della camicia!" -
gli
fece notare Jeremy, vedendo quanto stava tormentando la stoffa dei
suoi abiti.
Valentine
rise e Demian fece altrettanto.
I
tre bambini erano con lui, insieme ad aspettare la sposa, mentre le
bimbe avrebbero accompagnato Demelza. I piccoli sembravano raggianti
e anche se Demian ancora non aveva compreso appieno cosa stesse
succedendo, pareva curioso e finalmente propenso a dormire coi
fratelli. Erano notti che non faceva storie ed era anche capitato che
al mattino avesse dormito fino a tardi, senza fare capolino nella
camera matrimoniale. E questo rendeva Ross contento, MOLTO contento.
"Siete felici?".
"Sì!"
- rispose Valentine. "Ma tu? Che hai, ti manca il respiro?".
Ross
ridacchiò, imbarazzato. "Sì ma non penso di
essere malato.
Passerà dopo che tutto questo sarà finito!".
Santo cielo, era
emozione pura quella che provava, come se si stesse sposando per la
prima volta. O forse, per la prima volta ne capiva appieno il vero
significato. Di quel sì, dell'amore, del vivere alla luce
del sole
urlando al vento che Demelza si chiamava Demelza Poldark ed era sua
moglie! SUA-MOGLIE!!! Santo cielo, come aveva potuto permettere che
non lo fosse più?
Jeremy,
inconsapevole dei suoi sentimenti e decisamente rasserenato di poter
essere di nuovo solo un ragazzino e non più l'ometto di
casa, gli
sorrise. "Sì, sono contento! Che ho potuto mettermi vestiti
normali e non abiti da paggetto!".
Ross
lo ochieggiò, fiero del suo abbigliamento da ragazzo e non
più da
bimbetto di città. "E io sono felice che i tuoi abiti
normali
non siano abiti alla marinaretta ma VERI vestiti da maschio!".
"A
me piacevano i vestiti alla marinara!" - obiettò il figlio.
Ross
fece un sorrisetto malefico, ripensando al patto che avevano
stuipulato pochi giorni prima all'insaputa di Demelza: lui non si
sarebbe vestito mai più da paggetto se in cambio evitava
quei
dannati abitini alla marinara da bambolotto di città che
purtroppo
invece la facevano ancora da padrone con Demian. Con Jeremy l'aveva
spuntata e magari prima o poi avrebbe trovato anche il modo per
convincere Demian a cambiare abbigliamento e a tagliarsi un
pò i
suoi lunghi capelli biondi che Demelza amava tanto ma che lo facevano
sembrare una femminuccia.
Valentine
gli si parò davanti serio serio e terribilmente orgoglioso
dei
vestiti da paggetto che invece aveva molto desiderato e che Lady
Alexandra era stata contenta di scegliere per lui. "A me piace
fare il paggetto!" - ribadì. "Anche Emily ha detto che
sono bello! Anzi, affascinante!".
Ross
alzò gli occhi al cielo, non sapendo bene come gestire la
cotta di
suo figlio unita al desiderio di fare il paggetto, passione che non
avrebbero mai condiviso. "Se tu sei contento... Io sono
contento" – disse, con grande fatica. No, Valentine non aveva
preso da lui...
Jeremy
ridacchiò e Ross gli fece l'occhiolino. Non era il momento
di stare
a sindacare su certe cose, dopo tutto...
Poi
si avvicinò a Demian, accarezzandogli i lunghi capelli
biondi. In un
certo senso, quello era un vero passaggio di testimone
perché in
fondo non poteva non ammettere a se stesso che era stato quel piccolo
e minuto bimbo a prendersi cura di Demelza in quegli anni. Ne aveva
condiviso il letto, gli stati d'animo, le risate e i momenti tristi e
ora lui stava prendendo il suo posto e sperava di cuore di essere
bravo quanto Demian a capire e a sorreggere Demelza. "Sei pronto
ad affidarmi la mamma? La curerò bene, te lo giuro!".
Il
piccolo alzò le spalle. "Lei dice che tu vai bene! Ma io ti
guardo, è!".
Ross
annuì, serio. "Fai bene! Tu guardami sempre e quando ti
sembra
che sbaglio, dimmelo!".
"Certo!
E se ti insegno bene, magari diventi bravo quasi come me" –
rispose il piccolo, sicuro e fiero del suo insuperabile operato di
custode della mamma.
Ross
lo abbracciò, d'istinto. Era un bravo bambino Demian, un
bambolotto
per davvero per aspetto e modi di fare, come lo aveva soprannominato
fin dal primo momento in cui l'aveva visto. Il perfetto connubio fra
la dolcezza di Demelza e l'animo artistico e gentile di Hugh. E
questo non lo feriva più ma anzi, lo rendeva scalpitante di
vederlo
crescere ed aiutarlo a farlo, di vedere come quel bambino tanto
diverso da lui avrebbe influito sulla sua vita. Demian aveva un cuore
d'oro e un animo puro e dubitava che crescendo sarebbe cambiato.
Sarebbe sempre stato il piccolo principe di sua madre e niente
avrebbe mai spezzato quel legame speciale che lui e Demelza avevano
costruito insieme negli anni. Demian aveva ragione, doveva imparare
molto da lui e forse un giorno sarebbe stato altrettanto bravo. O
quasi...
Jeremy,
col suo completo grigio e i pantaloni finalmente lunghi, prese Demian
per mano. "Noi andiamo fuori, mamma sta per arrivare e il
paggetto è Valentine! Lui resta con te e ti da gli anelli. E
Clowance segue mamma! E io prendo al volto Daisy prima che faccia
macello!".
"Ottima
idea!" - rispose Ross, orgoglioso della meticolosa
organizzazione di suo figlio.
"Papà!".
"Dimmi,
Jeremy!".
"Rilassati
o sverrai quando arriva la mamma..." - borbottò Jeremy con
faccia impertinente.
Ross
arrossì, dandogli un buffetto sulla testa, felice di
riuscire a
scherzare con lui, di riuscire a farlo e di come Jeremy pian piano
gli stesse mostrando il suo lato più sbarazzino e scherzoso.
"Ti
conviene filar via con tuo fratello o mi farai innervosire davvero,
piccolo saputello!".
"Certo,
papà!".
I
due bambini, ridendo, uscirono per unirsi agli altri invitati e Ross,
emozionato, rimase solo con Valentine. Il cuore gli batteva forte in
gola ed era felice.
Valentine
se ne accorse. "Sei davvero strano quando sei contento,
papà".
Ross
non rispose, non ce n'era bisogno. Ma lo strinse a se, forte,
orgoglioso anche di lui per come era riuscito a crescere, nonostante
tutto... Nonostante l'assenza di una madre, un padre spesso orrendo,
l'abito da paggetto e la precoce passione per le bambine, era un
bravo bambino e lo amava. Come era riuscito ad amarlo Demelza, come
lui stesso era riuscito ad amare i gemelli. E visto che l'amore
c'era, ora mancava un sì, solo un sì per essere
di nuovo una
famiglia. Una nuova famiglia.
E
prendendo Valentine per mano, uscì nella navata per
aspettare la sua
sposa.
...
Quando
arrivò a pochi passi dalla Chiesetta di Sawle, dopo essere
scesa
dalla carrozza, per un attimo le tremarono le gambe. Non le era mai
successo quando, a diciassette anni, aveva sposato Ross e non era che
una ragazzina inesperta e impreparata a ciò che la aspettava
mentre
ora, donna adulta, madre e Lady, aveva paura e tremava come una
foglia.
Era
emozione, emozione pura, certo. E consapevolezza della grandezza del
passo che lei e Ross stavano per fare. Sarebbe stato tutto lineare,
perfetto, inattaccabile questa volta. Sarebbe stato per sempre!
Quel
sì avrebbe cancellato il giorno orribile dal notaio, il
dolore e gli
anni di separazione, avrebbe dato inizio a una vita nuova e il male
che si erano fatti a vicenda lei e Ross non sarebbe diventato altro
che una durissima lezione di vita da cui attingere per migliorarsi.
Aveva
voluto essere sola durante il tragitto da Nampara alla Chiesa, sola
con le sue due bambine. Anzi, tre, le ricordò Isabella-Rose
con un
calcio ben assestato...
Le
prese per mano, Clowance alla sua destra e la piccola Daisy alla sua
sinistra. La più grande, vestita con un abitino bianco da
damigella,
stretto in vita da un nastrino blu, con la sua aria austera e i suoi
lunghi capelli bondi legati in una coda di cavallo, era decisamente
più affascinante di quanto sarebbe mai riuscita ad essere
lei. E
Daisy... La sua piccola orsetta, che sembrava divertita e le
saltellava a fianco raggiungendo l'ingresso, sembrava una bambolina
in miniatura con le sue due treccine, gli occhi azzurri che in
Cornovaglia erano diventati ancora più chiari quasi
volessero
imitare il colore del mare e il suo vestitino rosa...
Era
talmente orgogliosa delle sue due principessine... E grata che
esistessero e che fossero al suo fianco...
Demelza
prese un profondo respiro, guardandosi e chiedendosi se Ross
l'avrebbe trovata bella anche col pancione. Non voleva un abito
eccessivamente elegante ma Alix l'aveva costretta a scegliere fra
modelli raffinati e alla fine, complice la sua gravidanza e una
pancetta ormai evidente, aveva optato per uno di quegli abiti in
stile impero tanto di moda a Londra, a vita alta, bordato sui fianchi
da un nastro incastonato di perle e con delle spalline quasi
trasparenti che le ricadevano sulle braccia morbidamente. "Sono
bella?" - chiese a Clowance, l'esperta in materia.
La
piccola sorrise. "Sì. Sempre!".
Demelza
le strinse la mano, felice che Clowance fosse serena e di come aveva
voluto prepararsi con lei per il matrimonio. Nessun muso lungo ma
gioia, eccitazione, voglia di essere elegante ma soprattutto, di
ritrovare davvero e per sempre il suo papà. E questa per lei
era una
vera vittoria, l'unica che contasse.
Guardò
le sue figlie, soprattutto Clowance. Per tutta la sua vita, davanti
alla legge, non era mai stata la figlia di Ross. Mai, anche se nelle
loro vene correva lo stesso sangue, anche se era una Poldark, non
aveva mai potuto fregiarsi del suo vero cognome. Un cognome che a
Jeremy era stato strappato, uno strappo che solo Hugh in parte era
riuscito a ricucire. Ma il legame di sangue con Ross aveva sempre
chiamato all'appello tutti loro e il destino aveva riunito
ciò che
mai avrebbe dovuto essere sciolto. Ora tutto sarebbe tornato a girare
per il verso giusto.
E
con quei pensieri, prese un profondo respiro ed entrò in
Chiesa...
Appena
Ross la vide, i suoi occhi si illuminarono e rimase semplicemente
lì,
a bocca aperta, mentre Clowance l'aiutava a sorreggere il velo e
Daisy, eccitata, correva verso l'altare, bloccata all'ultimo da
Falmouth e Jeremy che la prese al volo in braccio, costringendola a
sedersi su una panca.
C'erano
tutti, i suoi più cari amici erano lì attorno a
loro ma Demelza in
quel momento riusciva solo a vedere Ross. E Ross solo lei...
I
loro sguardi si incatenarono, si fusero e alla fine la paura e il
tremore cessarono. E Demelza decise solo di essere felice. E sposa...
A
passi lenti avanzò verso di lui e quando furono vicini, col
sole che
entrava dalle finestre ed inondava di calore la piccola Chiesa, Ross
le prese la mano. La strinse, le loro dita si intrecciarono e il
Reverendo Odgers, ancora incredulo di doverli sposare di nuovo,
iniziò la sua orazione.
Demelza
sentiva la voce dell'uomo ovattata, lontana. Tutto era lontano e solo
gli occhi di Ross che non avevano mai abbandonato il suo volto, la
tenevano ancorata alla realtà.
"Sei
bellissima...".
Glielo
aveva sussurrato appena l'aveva raggiunto e lei non aveva desiderato
sentire altro da lui. Essere bellissima ai suoi occhi, avere il suo
amore, era tutto quello che lei aveva sempre desiderato.
Pensò
allo smarrimento provato durante il matrimonio di Hugh, una persona
che aveva adorato e che sempre avrebbe portato nel cuore, ma l'amore,
quello vero, quello per sempre, era ciò che stava provando
in quel
momento. Era totalizzante, paralizzante, inebriante... E non poteva
essere sostituito con niente e nessuno. E dentro di se Demelza aveva
la consapevolezza che Hugh l'aveva compreso, che lo aveva sempre
saputo ed accettato, che lo aveva capito ancor prima di lei che non
avrebbe mai avuto davvero del tutto il suo cuore, ma nonostante il
dolore che forse aveva provato, in punto di morte l'aveva spinta a
darsi un'altra possibilità in terra di Cornovaglia, sapendo
che lì
avrebbe ritrovato la sua strada. E ora, ovunque lui fosse, era felice
per lei e per i loro bambini e poteva riposare in pace.
Disse
sì, con convinzione e senza rimpianti. Disse sì
per sempre...
E
Ross fece altrettanto, mettendole al dito l'anello che Valentine
teneva sul cuscino...
E
furono marito e moglie, di nuovo, mentre dietro di loro qualcuno
singhiozzava dall'emozione, qualcuno come Daisy ridacchiava, qualcuno
come Falmouth rimproverava i gemelli che non stavano fermi, qualche
neonato piagnucolava ma tutti, tutti, erano felici per lei.
Dissero
sì e si baciarono, un bacio lungo e passionale come solo
loro
sapevano darsi. E anche se magari potevano trattenersi ed essere
più
discreti, non volevano esserlo. I coniugi Poldark non avevano mai
badato alle etichette, MAI! Erano unici, lo erano sempre stati! E
avrebbero continuato ad esserlo! Ross la strinse a se, forte, non
lasciandola, come volesse lui stesso assicurarsi che fosse vero, come
volesse farle comprendere che non l'avrebbe più lasciata
andare.
E
dopo il bacio furono travolti dai loro bambini, che li abbracciarono.
Finalmente erano la famiglia Poldark!
Clowance
e Jeremy sembravano commossi, Valentine incredulo, Daisy aveva lo
sguardo furbo e soddisfatto di chi aveva lavorato a lungo nell'ombra
perché questo accadesse e Demian, il suo piccolo principe,
le saltò
al collo, stringendosi a lei. Lo abbracciò, capiva quanto
dovesse
sentirsi frastornato. E Ross cinse entrambi con le braccia. "Tienimi
d'occhio, d'accordo?!" - sussurrò al piccolo.
Demelza
non capì ma Demian sì e serio serio,
repicò. "Per adesso sei
stato bravo ma non baciare così tanto la mamma. Un pochino
meno e
lei è contenta lo stesso".
Ross
rise e Demelza non osò contraddirlo. Risero entrambi e
giurarono di
baciarsi con moderazione... O almeno, di farlo davanti a lui.
E
poi vennero gli altri, amici, conoscenti, parenti nuovi o
già
acquisiti ma tutti, tutti, la loro grande famiglia. Una famiglia
diversa dai canoni, allargata, piena di persone diverse che si erano
arricchite a vicenda delle esperienze altrui, una famiglia che Ross e
Demelza avevano scelto di tenersi stretta per loro ma soprattutto per
il bene dei loro bambini che in essa avrebbero trovato amore,
sostegno, forza e unione. Non potevano, non volevano chiedere di
più.
Non c'era altro da chiedere.
...
Lord
Falmouth aveva organizzato un ricco rinfresco pieno di ogni
prelibatezza, nel salone della sua nuova abitazione. Lussuoso
abbastanza per rendere onore al casato dei Boscawen ma non
eccessivamente pomposo per rispettare le volontà degli sposi.
I
bambini correvano come matti qua e la giocando e ridendo, seguiti
dalla piccola Sophie Enys che, con passi malfermi, cercava di star
loro dietro e di essere coinvolta nei giochi dei 'grandi', le altre
due neonate dormicchiavano fra le braccia delle madri, Catherine
aveva capito che il suo fidanzatino londinese non era affascinante
quanto Jeremy ed era tornata a tormentarlo e il povero Gustav ci
aveva riprovato con Clowance, ricevendo un sonoro due di picche,
tanto che Ross si era trovato a provare compassione per lui e aveva
chiesto a Demelza quanto ci avrebbe messo a riguadagnare
dignità e a
rinunciarci.
Lei
lo aveva guardato civettuola, seduta sul divano con accanto Margarita
e sua figlia. "Non deve rinunciarci, in amore non si dovrebbe
mai farlo finché c'è speranza. Come abbiamo fatto
noi?".
Era
vero, in fondo né lui né Demelza ci avevano mai
rinunciato davvero,
quindi perché doveva farlo Gustav?
Chiamato
per un brindisi da Falmouth, Dwight e dagli altri uomini presenti,
Ross si allontanò per andare al tavolo dei liquori mentre
Demelza,
incuriosita dalla piccolina di Margarita, si chinò a
sfiorarle la
guancia paffuta. Era una adorabile, grassottella bimba bionda dalle
guance piene e rosee. "E allora!? Riuscirà ad avere un nome
prima di sposarsi?".
Margarita,
che negli anni aveva mantenuto la sua naturalezza e
semplicità ma
era riuscita a crescere e diventare forte ed indipendente, rise. "Ah,
ma lei un nome ce l'ha! Un nome splendido, che ho avuto in mente fin
dal primo giorno in cui ho scoperto di essere incinta! Non potevo
scegliere nome migliore e ho aspettato questo giorno per dirlo,
perché voglio sia una dei tuoi regali di nozze".
Curiosa,
Demelza la fissò senza capire mentre anche Caroline si
avvicinò,
con Melliora fra le braccia. "Uno dei miei regali di nozze?".
Margarita
fece un sorriso dolce. "Se c'è qualcuno a cui vorrei lei
somigliasse da grande, quella sei tu Demelza. E lei si chiama
così,
Demelza. Io ed Edward siamo stati d'accordo da subito su questa
scelta. Se noi esistiamo, è perché tu e Hugh ci
avete aiutati ad
essere 'NOI'. E Hugh ti amava e io ti adoro ed entrambi, lui di la e
io quì, sappiamo di doverti molto. Dare a mia figlia il tuo
nome, è
il meno che potrei fare".
Spalancò
gli occhi, commossa, incredula e felice. Santo cielo, nessuno aveva
mai pensato di dare il suo nome a una bambina ed era così
bello,
eccitante e incredibilmente elettrizzante pensare di essere stata da
modello per qualcuno... "Come me? Ma... non ho un nome nobile e
sicuramente Demelza non fa parte dei nomi dei tuoi avi e tua
madre...".
Margarita,
con un gesto veloce, mise la piccola Demelza in braccio alla Demelza
grande. "Ha un nome suo, solo suo nella famiglia. E mia madre
è
sua nonna, indipendentemente da come lei si chiama. Ci è
rimasta
male ma ho giocato d'astuzia, ho imparato a farlo negli anni,
ricordandole che il nome scelto appartiene a Lady Boscawen e che tu
sei superiore a noi, nella società. Forse non è
ancora contenta del
tutto ma ha visto la cosa come un voler aumentare il prestigio di mia
figlia e con questo pensiero, ci si è consolata".
"Hai
giocato sporco!?" - le fece notare divertita, Demelza. "Ma
ti ringrazio, è un onore per me".
"Lo
è anche per lei..." - rispose Margarita, sfiorando la mano
della piccola.
Misero
Demelza e Melliora sul divano e le neonate si sfiorarono le manine,
mentre le tre donne ridevano, osservandole con gli occhi lucidi. Il
futuro era davvero lì, davanti a loro.
"Manca
solo Isabella-Rose" – fece notare Caroline. "Magari
farà
parte della compagnia a Natale, come fecero i gemelli nascendo due
settimane prima per partecipare all'evento e ricevere i regali".
Demelza
si accarezzò il ventre. "Dovrebbe nascere ad inizio gennaio,
dubito succederà prima. Non aspetto due gemelli stavolta".
Margarita
e Caroline si guardarono in viso, ridendo. "Vedremo, vedremo, i
bambini adorano i regali...".
Demelza
fece per ribattere ma Ross, arrivato alle sue spalle, la cinse per la
vita, attirandola a se. "Posso requisire mia moglie?".
Mia
moglie... Quelle parole le fecero venire un brivido di gioia... "Dove
vuoi portarmi, Ross?".
Lui
guardò fuori dalla finestra. Si stava facendo buio ed era
ora che,
da bravi sposini, si dirigessero a casa per avere un pò di
pace e
tranquillità solo per loro. "Lord Falmouth e Lady Alexandra
si
sono offerti di tenerci i bambini per questa notte e direi di
approfittarne intanto che Demian ritiene divertente la cosa, prima
che cambi idea".
Caroline
strizzò l'occhio ad entrambi. "Scappa Demelza, il piccolo
principe cambia idea subito su certe cose".
Lei
sorrise, arrossendo, immaginando e desiderando la SUA notte di nozze,
sola, con Ross, con tutto il mondo fuori dalla loro casa per qualche
ora. "Vado ragazze, grazie di tutto!" - sussurrò,
abbracciandole commossa.
Margarita
rise. "Sbrigati e sparisci! Io e Caroline per ora siamo tipo due
mucche che producono latte a tutte le ore del giorno ma tu, per
qualche mese, potrai ancora sentirti donna".
"Esatto"
– borbottò Caroline, sbuffando e fingendo cinismo
verso le sue due
biondissime e stressantissime bambine.
Demelza
salutò tutti loro e poi gli altri ospiti,
abbracciò i suoi bambini
con la promessa di andare a riprenderli il giorno dopo per pranzo,
lasciò i servi da Falmouth per aiutarli nella gestione dei
piccoli e
poi, dopo aver abbracciato Alix forte, come una figlia abbraccia una
madre, si avviò a braccetto con Ross verso la porta.
I
bambini li rincorsero, sull'uscio.
"Buona
notte mamma, buona notte papà" – esclamarono, per
la prima
volta tutti uguali, tutti parte di una vera e legale famiglia.
"Buona
notte e domani vieni subito!" - ordinò Demian alla madre.
"Io
ti aspetto!".
"Certo
amore" – gli disse, baciandolo sulla fronte.
Clowance
ridacchiò, guardando Jeremy con aria maliziosa. "Si
sbaciucchieranno tutta sera?" - chiese nell'orecchio del
fratello, a voce abbastanza alta perché tutti la sentissero
e i due
interessati arrossissero.
Jeremy
non rispose e fischiettò con indifferenza, Valentine lo
guardò
senza capire ma non osando chiedere e Daisy, che aveva altri
pensieri, si avvicinò seria. "Papà Ross, adesso
che sei mio
papà davvero tutto quanto, dai capelli ai piedi, dobbiamo
fare un
segreto nuovo ogni giorno! Domani che si fa di nascosto da mamma?".
Demelza
guardò Ross divertita, fingendo di stare al gioco. Si mise
le mani
sui fianchi e, con sguardo fintamente severo, lo guardò.
"Già,
che si fa domani di nascosto dalla mamma?".
Ross
la baciò brevemente sulle labbra. "Se è di
nascosto, tu non
devi saperlo, mi pare logico!".
Daisy
parve soddisfatta e dopo averlo abbracciato, lo lasciò
andare con la
sua mamma.
I
bimbi li salutarono e poi Prudie e Jane corsero a riprenderli per
portarli dentro casa. La festa per loro continuava nella dimora dei
Boscawen, per gli sposini a Nampara...
...
Era
romantica Nampara, silenziosa e intima.
Da
quanti anni non si trovavano lì, da soli? Completamente soli?
Durante
il tragitto di ritorno non avevano parlato molto, forse ancora
frastornati da quanto successo o forse desiderosi di trovare in quel
silenzio la pace e la serenità data da quel sì e
dall'assenza delle
parole sostituite dalla stretta delle loro mani, che li stava
dolcemente cullando ad ogni passo.
Erano
tornati a piedi, col vento che faceva svolazzare il suo abito da
sposa. Avevano incontrato alcuni minatori strada facendo, che li
avevano salutati con un cenno della mano e sguardi incuriositi e poi,
come in un tacito accordo, avevano percorso l'ultimo tratto di strada
scendendo nella loro spiaggia.
Si
erano tolti le scarpe e, a piedi scalzi, avevano camminato sulla
riva, con l'acqua che sfiorava loro le caviglie e i gabbiani che
svolazzavano in alto nel cielo, sulle loro teste.
Arrivati
sulla soglia, senza dirle nulla, Ross l'aveva presa in braccio e lei
aveva riso per quel gesto romantico da romanzo a cui non era
abituata, spezzando quel lungo silenzio.
Avevano
riso insieme come per tanto, troppo tempo, non avevano saputo
più
fare e poi si erano guardati negli occhi e si erano baciati, a lungo,
talmente a lungo che a Demian non sarebbe piaciuto affatto, se li
avesse visti...
"Bentornata
a casa, signora Poldark..." - le aveva sussurrato Ross, labbra
contro labbra.
E
lei sentì di nuovo quel brivido lungo la schiena, di
emozione e
d'attesa per ciò che sarebbe stato di lì a pochi
minuti. Loro,
Nampara, la loro stanza e tempo, tempo da concedersi unicamente per
vivere l'amore.
Ross
l'aveva portata in camera e con estrema dolcezza, come se fosse stata
di cristallo, l'aveva appoggiata sul letto, guardandola con desiderio
e amore. "Sei bellissima, davvero".
Lei
si rigirò nel letto, annusando il profumo di sapone di
lavanda delle
lenzuola. "Una sposa con un abito bianco che forse non merita,
incinta e col pancione... Devi davvero amarmi molto, per vedermi
bellissima... O sai mentire bene".
Ross
si sedette accanto a lei, scompigliandole schersosamente i capelli.
"Se fossi bravo a mentire, avrei Westminster ai miei piedi.
Invece ho la cattiva abitudine di dire sempre ciò che penso".
Demelza
sorrise, maliziosa, torcendosi una ciocca di capelli fra le dita.
"Già, testardo, risoluto e che non sa accettare
compromessi...
E io amo tutto questo e non lo cambierei mai. MAI ti cambierei,
Ross".
"E
io non cambierei nulla di te, mai ho desiderato farlo!".
Ross
si chinò su di lei e i loro visi, a pochi centimetri, si
sfiorarono.
"Demelza...".
"Cosa?".
"Dimmi
che è tutto vero! Che non stiamo sognando... Ho bisogno di
sentirtelo dire".
Lei
sorrise dolcemente, facendo scivolare l'indice della mano sulla sua
cicatrice, piano, in una delicata carezza. "E' tutto vero, siamo
davvero quì. E siamo Ross e Demelza Poldark. Ancora, per
sempre... E
nella vita non ho mai desiderato altro e non esserlo, anche se mi
sono successe tante cose meravigliose a cui non rinuncerei mai,
è
stato come vivere a metà".
Lui
annuì. Vivere a metà era il termine esatto,
ciò che aveva provato
lui stesso sulla sua pelle. Anzi, non aveva vissuto affatto e ora
voleva tornare a farlo. Si chinò su di lei, la
baciò con passione e
le sue mani fecero scivolare dalle sue spalle il vestito.
Voleva
vivere, amare, amarla.
E
avrebbe iniziato subito a farlo.
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Capitolo 80 *** Capitolo ottanta ***
Nevicava,
faceva un freddo tremendo ed era un'Anti-Vigilia di Natale dal cielo
cupo e grigio. Ma dentro a Nampara, quella mattina, regnavano
allegria e calore, condite dal baccano di cinque bimbi, tre cani e
tre servi in preda a mille preparativi per passare fuori la giornata
e la notte. Sarebbero stati a casa di Falmouth per tutto il giorno,
avrebbero dormito da lui e fatto ritorno a Nampara solo il
pomeriggio della Vigilia, con la nonna, lo zio e gli Enys, per
festeggiare insieme la notte di Natale. I bambini avevano in mente un
regalo segreto che, come sempre, dovevano preparare di nascosto dalla
mamma e quest'anno anche dal papà e Nampara era troppo
piccola per
fare qualsiasi cosa che dovesse passare inosservata.
Ross
e Demelza li avevano lasciati fare, divertiti ed incuriositi di cosa
avrebbero organizzato quest'anno, includendo anche Valentine. L'anno
prima avevano imparato in tedesco la canzone 'Oh Tannenbaum', cantata
e suonata durante la festa di Natale a Londra, e ora? Cosa avevano in
mente le cinque piccole pesti di Nampara, che erano state
più
criptiche di una spia? Nemmeno Demian che di solito si faceva
scappare qualche indizio, aveva aperto bocca... Stava diventando
grande, lui e Daisy avevano festeggiato alcuni giorni prima, il 20
dicembre, il loro quinto compleanno e il suo piccolo principe aveva
imparato a mantenere i segreti. E qualcos'altro di segreto si era
tenuto gelosamente per lui, una sorpresa per la mamma e per la nonna
da dar loro a Natale, preparata in gran segreto con Ross a cui aveva
chiesto aiuto. Ed anche Ross aveva tenuto la bocca cucita...
Demelza
era felice, i bambini si erano affezionati a Ross e ogni ombra
sembrava sparita. Ora erano semplicemente una famiglia anche se nel
loro caso e nella loro storia, di semplice c'era stato ben poco e
forse proprio per questo tutto quello che vivevano, lo percepivano
come un tesoro inestimabile da trattare con cura. Si rideva spesso a
Nampara, mancavano quasi sempre momenti di silenzio, i pranzi e le
cene erano caotiche e rumorosi ma era tutto così
meraviglioso che
non avrebbero potuto chiedere di più. Aveva i suoi bambini,
una in
arrivo, il suo amore accanto, la sua vera casa a proteggerla e dei
servi affezionati e fedeli che facevano parte, assieme ai loro tre
cani, di quella grande famiglia allargata dove tutti, compresi
Falmouth e Alix, avevano il loro posto d'onore.
Stesa
nel letto e avvolta in una calda coperta, riscaldata anche dal camino
che Ross aveva acceso, Demelza controllò i cinque bimbi che,
belli
imbacuccati, avevano fatto capolino nella stanza. Erano ben coperti,
con sciarpe e cappellini al posto giusto, svegli, frizzanti e pronti
a partire. Cercò di alzarsi per baciarli sulla fronte ma il
pancione
ormai enorme la impacciò nei movimenti e Ross la
riattirò sotto le
coperte, incitando i bambini ad andare da lei.
I
bimbi la salutarono con un abbraccio e un bacio, fecero altrettanto
con Ross e poi corsero giù, con la promessa di fare i bravi
e di
essere di ritorno il giorno dopo senza che Falmouth avesse
recriminazioni da fare sul loro comportamento. E loro due, in cambio,
avrebbero fatto trovare loro in tavola i cibi che preferivano e che
avrebbero preparato durante quella giornata in cui finalmente
avrebbero avuto la casa per loro.
Rimasti
soli coi domestici, Jane si preoccupò di mettere altra legna
nel
camino. "Siete sicuri di non avere bisogno di noi? Voi,
signora... Nelle vostre condizioni dovete riposare e Prudie
potrà
farcela da sola, con John, a badare ai piccoli".
Ross
intervenne. Adorava i bambini ed amava averli attorno ma l'idea una
giornata da solo con Demelza, in una Nampara solo loro, lo
elettrizzava. Lui e sua moglie avevano programmato ogni cosa e per
una giornata, sarebbero stati capaci di cavarsela da soli. "Sta
tranquilla e andate. Noi ce la caveremo, a Demelza ci penso io e
saranno Falmouth ed Alix ad avere bisogno di voi".
"E
per il cibo da preparare per la cena di domani sera?" - chiese
Prudie, non così felice di andare a sgobbare dietro ai
bambini da
Falmouth.
Demelza
le sorrise. "Faremo noi, tranquilla... Ho tutto sotto
controllo!".
La
serva sbuffò vistosamente e quando fece per replicare, Daisy
tornò
a fare capolino nella stanza. "SBRIGATEVIIIII!!! C'è
giù la
carrozza per andare dallo zio! E io non ho tempo da perdere!".
Prudie
la fulminò con lo sguardo. "Bestiolina, non si urla e non si
fa
la tiranna così, di prima mattina!".
"E
allora sbrigati!" - ordinò la piccola despota, col suo
cappottino azzurro e le manine sui fianchi.
Jane
rise, prendendola per mano. "E allora a domani, signori".
"A
domani..." - ribadì Prudie, uscendo sulle scale dove John,
coi
bagagli in mano, le stava aspettando.
Appena
sentita la porta d'ingresso chiudersi di sotto, Ross si
gettò sui
cuscini, attirando a se Demelza. "Amore mio, ci credi? Siamo
soli!" - le disse, baciandola sul collo.
"Ne
sei contento?".
"Ogni
tanto...".
Lei
lo guardò con aria di sfida. "Soli e con un sacco di lavoro
da
fare! Non pensare di poltrire a letto tutto il giorno".
Ross
si voltò di lato, con la sua migliore aria da mascalzone in
viso.
"Non avevo in mente di poltrire..." - sussurrò, in tono
suadente.
E
lei rise ancora di più. "Scordatelo! Mi sento più
grassa di
Prudie e per niente attraente. Ripassa fra due o tre mesi con certe
idee...".
Incurante
di quanto detto, lui la prese per i fianchi e la attirò a
se. Il
pancione era grande, la piccola sarebbe nata di lì a poche
settimane, in quei primi mesi di matrimonio erano stati felici come
non credevano fosse possibile esserlo ed era tutto leggero,
divertente, bello. Pieno d'amore... E desiderio per lei, lei che le
era stata negata per anni e di cui non si sarebbe mai saziato. La
vedeva splendida, con o senza pancione, soprattutto in quel momento
in camicia da notte, con quei lunghi capelli rossi sciolti che le
ricadevano sulle spalle. "Nemmeno se spegnessi le candele?".
Lei
lo guardò storto, tirandogli scherzosamente un cuscino in
faccia.
"Dovevi chiedermelo lo scorso Natale, mi sentivo decisamente
più
affascinante...".
"Lo
scorso Natale mi avresti fatto sbattere fuori da casa tua, se lo
avessi proposto anche solo per scherzare..." - le rispose, a
tono, ricordando la notte della Vigilia di un anno prima dove lui e
Valentine, pieni di meraviglia e un pò tramortiti, erano
stati
invitati quasi inaspettatamente alla facoltosa festa natalizia dei
Boscawen. Quante cose erano successe da allora...
Quasi
leggendogli nella mente, Demelza si rannicchiò fra le sue
braccia,
ripensando alla stessa cosa. "Un anno fa avevo organizzato un
grande banchetto, adornato ogni angolo della casa e avevo indosso un
bellissimo abito da sera rosso e una collana di diamanti. Ed ero una
delle Lady più facoltose di Londra...".
Lui
la baciò sulla tempia. "Lo sei e lo sarai ancora... Ti manca
tutto questo?". Lo chiese in tono leggero ma con una punta di
apprensione. Demelza aveva condotto una vita da regina a Londra e non
era così scontato che potesse ancora apprezzare la semplice
vita di
Nampara.
Lei
sorrise, dolcemente. "Un anno fa non avevo te, ero sola, i miei
bambini non avevano un padre e...". Si accarezzò
delicatamente
il pancione, con gli occhi lucidi. "Non avevo lei, non AVEVAMO
lei... Che mi prende continuamente a calci e voglio che lo faccia
anche se mi fa male, certe volte. Non ho perso nulla e non mi manca
nulla, sono solo un pò più ricca di allora
perché ho tutto quello
che un anno fa mi mancava, in aggiunta a tutto il resto. Ho ancora la
mia dimora londinese e quel vestito rosso nell'armadio, dopo tutto...
E quest'anno, semplicemente, ho cambiato posto dove festeggiare il
Natale".
Una
risposta così, era proprio da Demelza, la Demelza che sapeva
essere
felice con poco e che trovava del bello in ogni cosa. La
baciò a
lungo dopo quelle parole, grato che non fosse cambiata, grato per
averla ritrovata, grato perché era rimasta la sua Demelza.
"Una
vera lady non dovrebbe indossare per due volte lo stesso abito..."
- le fece notare, scherzoso, labbra contro labbra, riferendosi
all'abito rosso.
"Lo
adatterò e sembrerà nuovo..." - gli rispose,
sbarazzina.
Aveva
un sorriso disarmante in quel momento, dolce e gentile. E lui non
seppe resisterle. La attirò a se, baciandola con passione e
con
delicatezza, la aiutò a distendersi sul materasso e si stese
accanto
a lei, attento a non farle del male e a non schiacciare la piccolina
in arrivo. E lei, dopo un momento di esitazione, fece scorrere le
braccia attorno alle sue spalle, attirandolo a se. E Ross seppe di
aver vinto, ancora...
Lui
la trovò bella come sempre e la fece sentire bella. E anche
se le
candele erano accese, non ebbe più importanza. E fecero
l'amore...
...
L'aver
poltrito tutta la mattina a letto, facendosi effusioni, non aveva
aiutato molto nella preparazione della cena per la sera successiva.
E
così, mentre Ross, in maniche di camicia, accendeva il forno
per
cuocere pane e focacce per i bambini, Demelza impastava e modellava
torte dolci e salate, pagnotte e ogni altra cosa i bimbi avessero
desiderato.
Valentine
e Clowance amavano il cioccolato, Jeremy adorava le focacce salate
con le olive, Demian voleva la torta di limone e Daisy, mai troppo
interessata al cibo, aveva chiesto un dolce al ruhm come amavano i
pirati ma le era stato detto di no e quindi aveva optato, con scarso
entusiasmo, per dei biscotti al burro. E poi c'erano i regali veri e
propri che loro, la nonna e lo zio e i vari amici di famiglia,
avevano fatto recapitare a casa in quei giorni, che ormai avevano
invaso la cantina e che sarebbero stati tirati fuori solo la
mezzanotte succesiva.
"Il
fuoco è acceso, che ne dici di infornare le prime torte?" -
chiese Ross, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. Non era mai
stato troppo festaiolo ma l'idea di una nuova tradizione natalizia da
festeggiare come famiglia Poldark, esattamente come l'avevano
istituita Demelza e Hugh a Londra, lo eccitava, non perché
volesse
copiare il poeta ma perché aveva capito che le tradizioni
sarebbero
state fonte di bei ricordi per tutti e avrebbero arricchito la storia
della loro famiglia. Era sempre stato un vagabondo e in fondo mai
avrebbe smesso di esserlo ma la sua meta e il suo angolo di pace, per
sempre, sarebbero stati Nampara, Demelza e i bambini. E lì e
con
loro avrebbe costruito la sua famiglia, partendo proprio dalla
preparazione delle piccole cose che li avrebbero uniti di
più. Come
il pranzo di Natale da imbastire insieme a Demelza, fianco a fianco.
"Prima i dolci o prima il pane?".
Demelza
fece per rispondere quando, all'improvviso, emise un gemito. Si
appoggiò al tavolo con entrambe le mani,
sbiascicò fra i denti un
'Giuda' e poi, impallidendo, si massaggiò il ventre.
Ross,
in un attimo, fu al suo fianco. Succedeva spesso da alcuni giorni a
quella parte e Dwight aveva spiegato loro che era normale in
prossimità del parto e di andare a chiamarlo solo in caso di
fitte
ravvicinate. E lo aveva rassicurato e consigliato di affidarsi a
Demelza che di certo se ne intendeva più di lui su come
nascevano i
bambini. Ma questo non lo aveva comunque reso più
tranquillo, nulla
lo rendeva tale quando Demelza era incinta e il fatto che Dwight
avesse scelto, come loro, di vivere a fasi alterne fra Londra e
Cornovaglia e che fosse in zona, non era comunque di aiuto se vedeva
sua moglie star male. "Amore mio..." - sussurrò,
sostenendola e accarezzandole la schiena. Di solito questo la
aiutava...
Demelza
ispirò profondamente. "Giuda... Tua figlia è
scatenata, un
demonio".
"E'
passata? Stai meglio?" - le chiese, apprensivo.
"Non
molto, ma ora non ho tempo per pensarci. Abbiamo un sacco di lavoro
da fare per la cena di domani...".
Ross
la vide stringere i denti, cercare di calmare il respiro e la sua
ansia aumentò. "Al diavolo la cena. Se stai male, ti porto a
letto e corro a chiamare Dwight".
Demelza
scosse la testa, esasperata. "Ross, mancano dieci giorni al
parto. Se non di più... E' una fitta, come le altre che ho
avuto i
giorni scorsi. E non ho tempo di partorire, ADESSO!".
Ross
guardò il pancione, scettico e allo stesso tempo pieno di
sensi di
colpa. E se il fatto di aver insistito per fare l'amore poche ore
prima, le avesse fatto male? "Credi che ad Isabella-Rose importi
di cos'hai da fare, se ha intenzione di nascere?".
"Isabella-Rose
deve capire subito chi comanda! E non è lei! Quindi,
qualsiasi cosa
abbia in mente, che la rimandi a gennaio" - rispose lei,
nervosa.
Ross
le strinse la mano, cercando di calmarla e calmarsi. Era ancora
sofferente e i dolori quindi non erano cessati come succedeva di
solito. "E' colpa mia?".
Lei
prese un profondo respiro. "Tua, di Londra e del cottage
frequentato quasi nove mesi fa" – rispose, sarcastica.
Ross
alzò gli occhi al cielo, indeciso se ridere o disperarsi.
"Intendo... Per prima... Forse non avremmo dovuto...".
Era
impacciato e lei se ne accorse. Cercò di riguadagnare la
calma e di
apparire accomodante per non turbarlo e, stringendogli la mano,
tentò
di calmarlo. "Ross... Se non avessi voluto, ti assicuro che non
te lo avrei permesso... Come hai detto prima, non sei tu a scegliere.
E nemmeno io... E' tutto nelle mani di questa piccola peste".
La
baciò brevemente sulle labbra, nervosamente, dopo quelle
parole.
"Stai meglio?".
Facendo
un grande sforzo, lei cercò di sorridere. "No... Non credo".
Con fare esasperato lanciò della pasta sul tavolo, cercando
un modo
per far terminare i dolori. "Giuda, anche i gemelli erano nati
due settimane prima, ma per i gemelli è normale... Non
voglio, non
adesso!".
Si
agitò e un'altra fitta, più forte della
precedente, la fece piegare
in due. Le gambe le cedettero e finì a terra, tenendosi il
ventre.
"Giuda, Ross...".
Lui
guardò il camino, il tavolo pieno di impasti e sua moglie. E
decise
che della cena di Natale non gli importava nulla! La prese in
braccio, incurante delle sue proteste, la portò di sopra in
camera
con la stessa foga con cui, undici anni prima, l'aveva portata fuori
dall'acqua mentre era in travaglio per Jeremy e poi la
adagiò sul
letto. "Demelza, cena o no, credo che la nostra piccola abbia
fretta di nascere".
"No,
non ora!" - tentò di argomentare lei, con un filo di voce.
"I
bambini saranno così delusi se non troveranno le cose che ci
hanno
chiesto".
Le
sorrise, la baciò sulla fronte e le accarezzò il
viso. "Amore
io, i bambini avranno la loro sorellina e non riesco ad immaginare
alcun regalo migliore di questo. Una festa di Natale migliore di
questa...".
Un'altra
fitta le mozzò il fiato, talmente ravvicinata a quella
precedente
che Demelza dovette stringere le lenzuola con le mani per non urlare.
E si arrese al fatto che la piccola aveva deciso e che nulla le
avrebbe fatto cambiare idea. "Ross..." - gemette.
"Corro
a chiamare Dwight e torno subito da te".
Demelza
spalancò gli occhi a quella proposta, terrorizzata. Si
alzò di
scatto, gli strinse la camicia e si rannicchiò contro di lui
singhiozzando. "No... No, non voglio".
"Demelza,
abbiamo bisogno di Dwight!" - le rispose lui, allarmato e
terrorizzato.
La
donna scosse la testa. "No, non ne abbiamo bisogno... Basti tu,
basto io, basta la nostra bambina, dei panni puliti e dell'acqua
calda".
Lo
sguardo di Ross si riempì di puro terrore. "Amore... Amore
io,
non stai dicendo sul serio, vero?".
Lei
non rispose ma il suo sguardo diceva tutto. No, non stava
scherzando... "Demelza...".
Gli
occhi di sua moglie si velarono di lacrime, se per il dolore o per la
paura, lui non seppe dirlo. "Ross... Ero sola quando è nata
Clowance... Ero in una casa che non sentivo mia quando son nati i
gemellini ma adesso sono a Nampara, tu sei quì, io sono
quì e c'è
la nostra bambina che vuole nascere. Non ho bisogno d'altro, non ci
serve altro... Voglio noi, solo noi. Dopo quello che abbiamo passato,
non ci meritiamo che questo sia un momento solo nostro, da non
dividere con nessuno?".
Quelle
parole fecero riemergere in lui tanti sensi di colpa ma capì
subito
che quello non era l'intento di Demelza, Demelza voleva altro, voleva
donargli e donare a se stessa un ricordo prezioso che fosse solo
loro. Lei aveva ragione e anche se la logica e le sue mille ansie lo
spingevano a correre a chiamare Dwight, si rese conto che era vero,
ne avevano passate tante e chiunque sarebbe stato di troppo in quel
loro piccolo miracolo. Era terrorizzato, non sapeva come fare ma
Demelza aveva ragione, gli stava semplicemente dicendo che quello era
il loro momento, solo il loro e che come sempre, come la grande
squadra che erano tornati ad essere, lo avrebbero superato insieme.
"Dimmi cosa devo fare e fai in modo che tutto vada bene e non me
ne debba pentire".
Lei
gli strinse le mani, dolcemente, mentre una fitta di dolore le
attraversava il viso. "Sta quì, tieni acceso il fuoco,
prepara
dell'acqua calda, prendi delle coperte, dei panni puliti e aspetta".
"Non
posso prometterti che non sverrò" – le
sussurrò in tono
leggero, baciandola sulla nuca ed aiutandola a togliersi gli abiti da
cucina per indossare una più comoda camicia da notte.
Cercando
una posizione per stare comoda, Demelza si rannicchiò contro
il suo
petto cercando di ritrovare una respirazione normale. Le contrazioni,
come per i gemelli, erano partite subito ravvicinate e sembrava
abbastanza certa di partorire in fretta. "Che diranno i
bambini?".
"Credo...
Spero lo considerino un bel regalo di Natale".
Demelza
sorrise, nonostante tutto. "Quando nacquero i gemelli, Clowance
aveva proposto di abbandonarli da qualche parte".
Ross
tentò di immaginare la sua piccola Clowance a tre anni,
biondissima
e sicuramente bellissima, mentre proponeva qualcosa del genere. "Ti
avviso che anche Demian potrebbe suggerirci una soluzione simile".
"Sicuramente
lo farà" – dovette ammettere Demelza che ben
conosceva il suo
piccolo e geloso principe, prima che una contrazione più
forte la
lasciasse senza fiato.
Si
aggrappò alla camicia di Ross, la strinse con forza e
gemette dal
dolore, non riuscendo a trattenere una lacrima per il dolore.
"Giuda...".
"Demelza...".
"Non
dire niente... Adesso non dire nulla, ti prego" – lo
implorò,
a fatica.
E
Ross capì che era finito il tempo per chiacchierare e che
doveva, da
quel momento in poi, essere il suo silenzioso angelo custode che
doveva capire di cosa avesse bisogno senza che lei lo dicesse,
assecondarla e tranquillizzarla con la sua presenza ferma e costante.
Era spaventato ma non poteva permettersi di esserlo. Nessun uomo si
era mai trovato in una situazione del genere ma di fatto, anche se
Demelza non gli avesse chiesto nulla, non avrebbe comunque avuto
troppe alternative. Fuori c'era una vera e propria bufera di neve, ci
avrebbe messo troppo per andare a chiamare Dwight e Demelza sembrava
essere preda di un travaglio veloce. Destino o desiderio che fosse,
doveva essere lui a far nascere la bimba.
Le
successive due ore furono convulse, mentre fuori la neve continuava a
scendere incessante e non giungeva alcun rumore se non quello del
vento impetuoso che sbatteva contro le finestre. Demelza visse un
travaglio veloce, convulso, doloroso ma sopportò tutto senza
lamentarsi eccessivamente e Ross si rese conto che si stava sforzando
di apparire forte per non spaventarlo. La aiutò a
passeggiare per la
stanza, sorreggendola, quando lei sentiva di doverlo fare, la
sorresse quando i dolori erano talmente forti da mozzarle il fiato,
le strinse la mano quando le contrazioni le mozzavano il respiro e le
riempivano di lacrime gli occhi e aspettò che tutto finisse.
Era
terribile per lui vederla così. Sapeva bene che partorire
era
doloroso ma assistervi di persona, veder soffrire la donna amata
sentendosi impotente, era per lui qualcosa di orribile. Ma Demelza
spesso gli aveva ricordato che ne valeva la pena, che era solo
questione di poche ore e che amava essere madre e quindi doveva
concentrarsi solo sul dopo, quel dopo che lo avrebbe reso pazzo di
gioia come nessun altro al mondo. Aveva sempre ammirato la forza e il
coraggio di Demelza ma mai come in quel momento. Aveva passato
quell'inferno altre volte, spesso portandone il peso da sola mentre
lui combatteva coi suoi demoni invece di starle accanto e ora le era
grato. Per quanto spaventoso, ora Demelza gli aveva dato l'occasione
di pagare i debiti col suo passato e di esserci. Non avrebbe avuto
più nulla da rimproverarsi, non per Isabella-Rose almeno...
A
differenza di Jeremy e Clowance, lui era lì stavolta.
La
piccola nacque alle sei del pomeriggio in punto, dopo un travaglio di
quattro ore. Non seppe nemmeno lui come fosse riuscito a non svenire,
seppe solo che l'istinto lo spinse a sorreggere Demelza mentre
spingeva e poi a prendere la bambina fra le braccia, nell'esatto
istante in cui venne al mondo. Demelza non gli suggerì
nulla, gli
venne tutto naturale come se fosse qualcosa che avesse già
fatto. O
forse, semplicemente, era puro istinto paterno, quell'istinto che ti
spinge a muoverti sempre nella direzione giusta per il bene dei tuoi
figli.
Isabella-Rose
nacque strillando forte, ribadendo al mondo che ora c'era anche lei.
Una piccola, vera Poldark...
Ross
la avvolse subito nella copertina bianca che aveva preparato e poi,
con mani tremanti, la poggiò sul petto di Demelza che dopo
lo
sforzo, era sprofondata fra i cuscini. "Ce l'hai fatta, amore
mio...".
Lei
aprì gli occhi, con una mano strinse il fagottino sul suo
petto e
con l'altra la sua mano, attirandolo a se in un abbraccio. "Ce
l'abbiamo fatta, amore mio...".
Isabella-Rose,
fra loro, strillò forte ed entrambi abbassarono lo sguardo,
concedendosi finalmente di guardarla, conoscerla, scoprirla... Era
una meravigliosa, paffuta morettina come suo padre, che aveva
ereditato gli occhi azzurro-verdi della madre. Uno splendore, sana,
vispa e con uno sguardo biricchino e vivace.
"E'
bellissima... Amore mio, è splendida... Ha i tuoi occhi" -
sussurrò Ross con voce rotta, baciando entrambe.
La
donna accarezzò il mento della bimba. "E i tuoi capelli e, a
giudicare da come strilla, il carattere indomito dei Poldark e dei
Carne".
Ross
annuì. "Già, è la nostra miglior
sintesi, la nostra migliore
rappresentazione" – disse, fiero e già innamorato
di sua
figlia.
Piangendo,
Demelza strinse a se la piccolina, cullandola perché si
calmasse.
"Ross... Lei è davvero il nostro miracolo... Dicevano che lo
erano i gemelli perché difficilmente Hugh poteva avere figli
ma non
era vero. Isabella-Rose, lei... lei è nata nonostante
tutto...
Nonostante l'inferno che abbiamo superato, il dolore, la
lontananza... E' davvero un miracolo, il nostro miracolo, il segno
che se c'è amore, tutto è possibile".
Già...
Non c'era niente in più da dire, niente in più da
recriminare.
Demelza aveva ragione, Isabella-Rose era il simbolo dell'amore,
quello vero che sa vincere su tutto e tutti. Ross guardò la
sua
piccolina, in un misto di amore e orgoglio. Era splendida, perfetta e
lui l'aveva vista nascere! E non era stato spaventoso, era stato
meraviglioso... "Grazie..." - sussurrò solo, a Demelza.
Lei
si rannicchiò contro il suo petto mentre la neonata cercava
il suo
seno, come se sapesse già benissimo cosa dovesse fare.
"Grazie
a te... Sei stato coraggioso".
Ross
rise, guardando il soffitto. "Ora forse sverrò, ora posso
farlo
se mi dirai che stai bene".
"Sto
bene, ma vorresti perderti la sua prima poppata? Svieni più
tardi,
se ce la fai a resistere..." - gli rispose, ridendo.
Ross
annuì, aveva ancora ragione. Si chinò sulla
testolina della
piccola, baciandola dolcemente. "E' vero, scusa Isabella-Rose.
Non credo di voler perdere più niente della vita dei miei
figli".
Demelza
gli sorrise e gli apparve bella come non mai, anche col viso segnato
dalla stanchezza, i lunghi capelli rossi che le scendevano sul viso
disordinati e l'aria stanca. Era splendida, splendida come non gli
sembrava di averla mai vista. "Ti amo, amore mio" – le
disse, ancora.
"Ti
amo anch'io".
Calò
il silenzio, rotto solo dai vagiti della piccola Isabella-Rose che
reclamava il suo latte. Nevicava, faceva freddo ma il camino, il
respiro dolce di una bambina che si era affacciata alla vita e la
promessa di un futuro radioso, resero quell'anti-Vigilia
indimenticabile e calorosa per tutti loro.
E
Isabella-Rose, da grande, avrebbe avuto una bella storia da sentir
raccontare davanti al focolare, mentre preparava la sorpresa di
Natale coi suoi tanti fratelli e sorelle.
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Capitolo 81 *** Capitolo ottantuno ***
Quella
sera e quella notte fra anti-Vigilia e Vigilia di Natale erano state
strane, cariche di emozioni, piene di dolcezza e un misto di
sensazioni e sentimenti fortissimi, racchiusi nello scrigno di
Nampara che aveva custodito una mamma, un papà e una bimba
appena
nata, arrivata per dimostrare al mondo che i miracoli esistono.
Ross
non aveva chiuso occhio e lui e Demelza erano rimasti a lungo
abbracciati a letto in silenzio, scaldati dal camino, con la piccola
Isabella-Rose fra loro. Aveva ammirato commosso sua figlia, l'aveva
accarezzata, baciata, aveva imparato a conoscerla e si era impresso
nella mente ogni aspetto di lei, neonata. Tante cose si era perso con
gli altri bambini ed ora ne era pentito perché osservare la
propria
figlia appena nata, era qualcosa di grandioso da condividere con la
donna amata e che ti ha reso padre.
Demelza
era stanca ma la sua espressione era felice e serena. Col capo
appoggiato contro il suo petto avevano chiacchierato, si erano
coccolati, si erano presi quel tempo solo per loro che si erano
negati troppo a lungo quando erano nati gli altri figli e quando si
erano separati e il fatto che la piccola avesse scelto quel preciso
momento in cui erano soli a casa per venire al mondo, era stato
vissuto come un dono e una benedizione da entrambi. Passata la paura,
passato il dolore, passata la tensione, avevano assaporato quei primi
preziosi momenti senza disturbi, senza chiasso, circondati solo da
pace. E solo Dio sapeva quanto ne avessero bisogno e quanto negli
anni il ricordo di quel momento sarebbe stato dolce e carico di
commozione.
Isabella-Rose
aveva dimostrato da subito un caratterino fiero, degno delle sue
sorelle maggiori ma soprattutto, degno di una Poldark. Reclamava
attenzioni, reclamava coccole e strillava se non si sentiva al centro
dell'attenzione. Avevano riso nel guardarla, avevano scherzato sul
fatto che coi gemelli avrebbero fondato una gang di briganti e
immaginato mille e mille cose sul suo futuro. La piccola si era
addormentata solo dopo mezzanotte, alla fine dell'ennesima poppata,
fra le braccia di Demelza ormai esausta. E a quel punto Ross aveva
insistito perché dormisse anche lei.
Si
erano coricati insieme, l'aveva tenuta stretta a se con la piccola e
dopo infiniti minuti in cui le aveva accarezzato capelli e spalle,
aveva ceduto al sonno anche lei, come la bambina.
Ross
invece era rimasto sveglio fino all'alba, attento che non finisse la
legna nel camino, con l'orecchio teso al rumore del vento e della
neve che sbattevano contro le finestre e gli occhi che non si
staccavano mai da Demelza e dalla loro bambina. Non riusciva a
smettere di guardarle, entrambe bellissime, preziose per lui e
infinitamente amate. Era felice, totalmente. E per natura lui non lo
era mai davvero del tutto e perciò era ancora più
sensazionale
quello stato di cose. E si sentiva orgoglioso, della piccola e di
tutta la sua famiglia: di Demelza, non avrebbe mai potuto vivere
amore più grande o scegliere una moglie e una mamma migliore
di lei,
per i suoi figli. Di Jeremy e dell'ometto in gamba e sorridente che
era diventato, di Clowance che riusciva ad essere elegante ed eterea
anche in mezzo alla campagna e si era abituata subito alla sua nuova
vita, di Valentine che era diventato sorridente e forte nonostante
tutto, di Daisy, piccola piratessa coraggiosa in erba, dal cuore
grande e generoso e di Demian, diversissimo da lui, un'anima delicata
e gentile destinata ad essere un artista un giorno ma che per adesso
era riuscito nell'impresa di imparare, più o meno, a dormire
da
solo. E anche della piccola Isabella-Rose che con determinazione
aveva scalpitato per nascere prima di Natale, in modo da poter
festeggiare con tutti loro.
Non
vedeva l'ora che i bambini vedessero la loro sorellina, di divertirsi
nel guardare le loro reazioni e di tornare tutti sotto lo stesso
tetto. Era grato di quel giorno e quella notte solo con Demelza e di
tutto ciò che aveva portato ma con le prime luci del giorno
sentì
che mancava un grande pezzo di famiglia per rendere completa la sua
gioia.
Di
soppiatto si alzò dal letto, raggiunse il camino per
aggiungervi
legna e poi prese delle coperte che poggiò sul letto, nel
caso
Demelza avesse sentito freddo svegliandosi.
La
piccola, disturbata dai suoi movimenti, si svegliò e dopo
alcuni
istanti Demelza fece lo stesso. "E' già mattina?" -
chiese, stiracchiandosi.
Ross
le si sedette accanto, porgendole dei biscotti e una tazza di
tè che
aveva appena preparato per lei. "Sì, ma vorrei che stessi a
letto per oggi. Finché puoi, almeno".
Lei
si rannicchiò sotto la coperta, stringendo a se la neonata.
"Ci
sono un sacco di cose da preparare per stasera. Non abbiamo combinato
nulla...".
Ross
ridacchiò, guardando Isabella-Rose. "Non sono d'accordo... E
tu
hai bisogno di riposo e io di sapere che sei a letto tranquilla".
"E
la cena di stasera?" - chiese lei.
Chinandosi
a baciarla sulle labbra, le scompigliò scherzosamente i
capelli. "Ci
arrangeremo, anche con poco. Per ora vado a prendere i bambini e
avverto che hai partorito, al massimo Lady Alexandra farà
preparare
del cibo ai suoi cuochi e lo farà portare quì. La
cosa importante
in fondo è stare insieme, non importa la cena".
Demelza
sorrise, prendendogli la mano e baciandogliela. "Vai subito? Ho
voglia di vedere tutti i miei bambini".
"Subito!
Saranno stupiti di vedermi arrivare a quest'ora, ma appena sapranno
cos'è successo, scalpiteranno per correre a casa".
Demelza
guardò fuori dalla finestra, accigliata. "Copriti bene e
COPRILI bene, fa freddo".
Ross
rise, diede un bacio a lei e uno alla bimba e poi, col tricorno in
testa, si diresse verso la porta. "Agli ordini! E tu non
muoverti dal letto! Strada facendo passo da Dwight e gli chiedo di
venire a darti un occhio, comunque".
"Non
è necessario, sto bene e lo vedremo stasera".
"E'
necessario!" - ribadì Ross. E senza darle tempo di
rispondere,
sparì di corsa dietro alla porta.
...
Dopo
aver allattato Isabella-Rose, Demelza si era addormentata
profondamente, cullata dal silenzio tranquillo della casa. Anche la
piccola pareva assonnata e anche se c'erano tante cose da fare, per
una volta Demelza decise di coccolarsi, di essere ragionevole e di
rimanere a letto come le aveva chiesto Ross. Si addormentò
domandandosi come i bambini avessero appreso la notizia della nascita
della sorellina ed immaginò Ross alle prese con le loro
mille
domande e la loro eccitazione.
Si
addormentò col sorriso sulle labbra e non seppe nemmeno lei
quanto
dormì. Ma quando un trambusto e un grande chiasso che
proveniva dal
piano di sotto invase la casa, si svegliò di soprassalto. Il
momento
di pace era finito a quanto sembrava, anche se Isabella-Rose non ne
pareva affatto turbata e continuava a dormire dalla grossa.
La
porta si spalancò di corsa e cinque bambini, imbaccuccati
come
eschimesi e con i cappellini di lana ancora pieni di fiocchi di neve,
irruppero eccitati. "Mammaaaaaa!".
Ross,
trafelato, li raggiunse col fiatone. "Vi avevo detto di fare con
calma e in silenzio! Sembrate la calata degli Unni!".
Valentine
lo fissò accigliato. "Chi?".
"Lascia
perdere, tesoro...". Ross gli accarezzò i capelli e poi
osservò
sua moglie, sorridendogli. "Scusa, ho cercato di tenerli
tranquilli ma ho fallito miseramente. Stavano facendo colazione
quando mi hanno visto arrivare e siccome non ero atteso se non nel
pomeriggio, hanno subito capito perché fossi lì.
Da quel momento è
stato il caos totale! Mi han fatto mille domande, mille richieste,
saltavano e correvano ovunque. Lord Falmouth è diventato
bianco come
un cencio, Lady Alexandra si è messa a piangere e Prudie e i
Gimlett
si sono allarmati e hanno chiesto di tornare subito a casa. Sono di
sotto, stanno sistemando le cose dei bambini e predisponendo per
preparare qualcosa per stasera visto che sei comunque decisa a far la
festa di Natale, quì. Ho detto loro che non c'è
nulla di pronto e
fra Lady Alexandra che ha allertato il suo cuoco e i nostri servi,
forse stasera non rimarremo a stomaco vuoto".
Ross
aveva parlato senza prendere fiato, quasi a volersi giustificare per
quella rumorosa invasione. La divertiva vederlo tanto affannato,
vederlo preso dai bambini e perso in pensieri meno foschi di quelli
che per anni gli avevano annebbiato l'anima. Era adorabile, era
l'uomo di cui si era innamorata, forte e passionale ma finalmente
anche sorridente e sereno. E poteva definirsi serena pure lei, visto
che Prudie e i Gimlett avrebbero salvato il salvabile per la cena
assieme ad Alexandra. "Venite quì!" - sussurrò ai
bambini, allargando le braccia.
I
cinque piccoli, ora più guardinghi e calmi, le si
avvicinarono a
piccoli passi.
Il
primo ad abbracciarla fu Jeremy, il suo ometto che si preoccupava
sempre per lei. "Mamma... Stai bene, vero?".
Lo
strinse a se, baciandolo sulla fronte e mostrandogli la sorellina che
aveva aperto gli occhi e ora sbirciava dalla copertina dentro cui era
avvolta. "Io sì. E anche lei, visto?" - disse in tono
leggero, per tranquillizzarlo.
Jeremy
fece un sorriso biricchino. "Un'altra femmina! Sono morto!".
Anche
Valentine sbirciò, incuriosito da questa esperienza che per
lui era
totalmente nuova. "Ooooh, papà! Ha i capelli neri come i
miei!
E i tuoi!". Ne sembrava felice, come se questo lo facesse
sentire più partecipe della famiglia. Doveva essere bello
per lui
avere finalmente una sorella con cui condividere la sua appartenenza
a quella casa e ai Poldark.
Demelza
gli sorrise, ormai la somiglianza fra Valentine e Ross non faceva
più
male ma anzi, sommata ai tratti di Isabella-Rose, rendeva tutti loro
una famiglia unita. "Sì, hai ragione! Ti piace?".
Valentine
ci pensò su. "Boh, non avevo mai visto una bambina
così
piccola. E' strana, così minuscola e così rossa
in faccia".
Come
offesa da quei commenti poco lusinghieri, Isabella-Rose fece un
versetto stizzito, facendo ridere tutti. "Stessi capelli dei
Poldark, stesso carattere intransigente..." - rise Ross,
osservando ancora una volta il caratterino fiero della sua figlia
più
piccola.
Clowance
guardò suo padre, piena di ammirazione. "Davvero hai aiutato
tu
la mamma a farla nascere, papà?".
Ross
ridacchiò, imbarazzato. "Non ho avuto scelta, te lo
assicuro".
Clowance
e Jeremy risero. "Lo zio ha detto che non ha mai sentito nulla
del genere, che il mondo sta andando a rotoli e che non devono mai
essere gli uomini a far nascere i bambini! La nonna è quasi
svenuta
quando papà glielo ha detto, lo sai mamma?".
Demelza
rise, immaginandosi la scena. "Santo cielo, avranno gli incubi
per anni. Per sempre, forse".
"Gli
passerà" – rispose Ross, sedendosi accanto a lei e
prendendo
Isabella-Rose fra le braccia perché i fratelli potessero
vederla
meglio. "Volevo andare anche a chiamare Dwight per farti fare
una visita ma poi ho pensato che non aveva le chiavi per entrare e ti
saresti dovuta alzare dal letto per andare ad aprirgli la porta. E ti
preferivo al caldo e addormentata. Andrò ora, dopo aver
sistemato i
bambini".
"Non
ce n'è bisogno, Ross".
Lui
sbuffò. "Ne abbiamo già parlato...".
Daisy
si avvicinò alla neonata, studiandola attentamente. "Ohhh,
grazie!".
"Chi
ringrazi?" - le chiese Jeremy.
La
gemellina alzò le spalle. "Tutti! Mamma e papà
perché mi han
fatto la sorellina e Isabella-Rose che è nata e adesso non
sono più
la più piccola. E visto che sono grande e ho anche cinque
anni da
qualche giorno, posso avere la mia torta al ruhm come i pirati,
stasera?".
"NOOOOO!!!"
- risposero Demelza e Ross all'unisono, davanti a quell'ennesima
richiesta.
"Ma
uffa!" - sbottò la piccola, picchiando il piedino per terra.
"Io devo far pratica!".
Clowance
e Valentine ridacchiarono, ancora. "Mamma" – disse la
bambina più grande – "Pure per questo la nonna
stava per
svenire! Quando Daisy le ha detto di voler diventare una piratessa,
per poco non è caduta dalla sedia. Miss Rose, la sua
domestica
personale, ha dovuto portarle i sali".
"La
nonna è un pò esagerata" –
borbottò Daisy, avvicinandosi
alla sorellina appena nata. La guardò, mettendosi in punta
di piedi,
le toccò la guancia con un dito e poi sospirò.
"Io sono più
bella!" - sentenziò.
Non
lo chiese, lo affermò con assoluta sicurezza e Ross sorrise.
"Certo,
ovviamente!".
"E
io?" - chiese Clowance.
Ross
la abbracciò, Clowance era uno splendore, una piccola dea
che
avrebbe fatto innamorare, nel giro di pochi anni, qualsiasi uomo
avesse incrociato il suo cammino. "Anche tu, anche tu
ovviamente".
Demian,
rimasto imbronciato e in disparte a fianco del letto, guardò
sua
madre con gli occhi lucidi. Demelza se ne accorse e capì
subito cosa
ci fosse che non andava. La piccola usurpatrice di mamma e attenzioni
era finalmente arrivata e lui era tutt'altro che felice di dividere
tutto questo con lei. "Piccolo principe, vieni quì"
–
gli disse, dolcemente.
"No...".
"Dai...".
"NNNOOO!!!".
Ross
si avvicinò al bimbo mentre Clowance sghignazzava. "Su, vai!
La
mamma aveva davvero voglia di vederti".
"Anche
se c'è quella lì?" – chiese
imbronciato, indicando con la
manina la piccola Isabella-Rose fra le braccia del padre.
Ross
sospirò. "Come vedi la tengo io, non la mamma. Potrai
tenerla
in braccio anche tu, è tua sorella e non è venuta
a rubarti niente
e nessuno. Soprattutto la mamma!".
Demian
sospirò e poi, dopo un'occhiata in cagnesco alla sorellina,
si
avvicinò alla madre. "Sono ancora il tuo principe?".
Demelza
allungò le braccia, stringendolo a se e mettendoselo sul
letto,
seduto sulle sue gambe. "Amore, sempre..." - sussurrò,
baciandolo sulla guancia. "Hai già dei fratelli e delle
sorelle, Isabella-Rose è una in più, tutto
quì. Sei abituato ad
essere in tanti".
Jeremy
intervenne. "Esatto! Pensa a me e a quante volte mi è
capitato
di trovarmi un fratellino nuovo! O una sorellina... Vedi che mamma mi
vuole ancora bene anche se siete arrivati voi?".
Tranquillizzato
– almeno in parte dalle rassicurazioni del fratello
– Demian
tornò a guardare la piccola Isabella-Rose. "Ma lei deve
rimanere a vivere quì con noi?".
Clowance
rise. "Certo!".
"Per
quanto tempo?".
"Finché
non si sposa!".
Demian
apprese la notizia con sgomento, intrecciando le braccia. "E'
Natale, sai mamma? Come Gesù Bambino... Lei è
nata come Gesù
Bambino e allora, come lui, deve dormire nella stalla. Se la mettiamo
lì, sarà contenta di far la nanna come lui, con
il nostro asinello
e le nostre mucche. Magari le diamo anche le caprette e gli agnellini
per tenerla calda!".
E
Clowance rise, di nuovo, imitata da tutti gli altri. "Non ci
sperare! Ci ho provato pure io, quando siete nati tu e Daisy, ma non
ha funzionato, abbiamo dovuto tenervi".
"Hei!"
- borbottò la piccola piratessa, dando una pacca sul braccio
alla
sorella.
Jeremy
soggignò. "Strillavi sempre, Daisy!".
"Non
è vero!".
"Sì
che è vero!".
"Papààààà".
In cerca di sostegno, la piccola gemellina si gettò fra le
braccia
di Ross che fu costretto a prenderla al volo col braccio che aveva
libero. A fatica diede Isabella-Rose a Demelza perché la
mostrasse
bene a Demian e poi si mise Daisy sulle spalle per farla giocare ed
impedirle di picchiare Clowance.
Demian
spiò la piccola e poi gli fece la linguaccia. E
Isabella-Rose di
tutta risposta, allungò la manina a tirargli i capelli.
"Haiaaaaa!"
- piagnucolò – "Vedi mamma, deve stare nella
stalla, tira i
capelli!".
Ross
prese la palla al balzo. "Vedi che li devi tagliare, i
capelli!".
"Ross...".
Demelza gli lanciò un'occhiataccia per quell'ennesimo
tentativo,
mentre allontanava la neonata dai capelli del suo biondo principino.
Poi sorrise, guardando i suoi piccoli capolavori, la cosa migliore
che avesse mai creato nella sua vita. Era orgogliosa, di loro, di
tutti loro. Erano una grande famiglia, quei bambini si portavano
dietro, chi più chi meno, storie diverse e a tratti
difficili,
eppure sorridevano, erano contenti e si sentivano tutti fratelli. E
lei sentiva il cuore scoppiarle di gioia. "Bimbi, che ne dite
ora di andare a dare una mano ai Gimlett e a Prudie per la cena di
stasera? Purtroppo non c'è pronto nulla e temo che tante
cose che
desideravate, non ci saranno".
Jeremy
annuì, prima di avvicinarsi e abbracciarla. "Fa niente
mamma, a
me basta che stai bene e che stia bene anche la sorellina".
Anche
Clowance e Valentine annuirono, d'accordo, mentre Demian si
rannicchiava fra le sue braccia, facendole capire che voleva stare
con lei.
Daisy,
sulle spalle di Ross, annuì. "E' giusto così, io
non posso
avere la torta col ruhm e loro non possono avere i loro dolci! Grazie
ancora, Isabella-Rose!".
Ross
rise per l'ennesima dimostrazione del suo modo di fare sfacciato,
rimettendola a terra. "Su, avete sentito la mamma? Andate di
sotto ad aiutare!".
Clowance
gli si aggrappò a un braccio, tirandolo. "Dai, vieni anche
tu!".
"Io?".
"Sì!
Dai papà, è il primo Natale che fai da mio
papà vero, mi aiuti a
fare i dolci? E le focaccine?".
Ross
la guardò e capì che non poteva dirle di no. Che
mai ci sarebbe
riuscito, era una lotta impari e senza speranza. Clowance era sua e
lo incantava solo con uno sguardo... E lei ormai lo aveva capito.
"Hai bisogno di qualcosa?" - chiese a Demelza, tentennando.
No,
non lo avrebbe trattenuto da quell'impegno con sua figlia nemmeno se
avesse avuto bisogno della luna. "No, va con loro! Io, Demian e
Isabella-Rose staremo quì a riposare insieme".
"Va
bene. Tu non vieni, piccolo scansafatiche?" - chiese a Demian
prima di uscire con gli altri bimbi.
"No,
voglio rifare la nanna! Con la mamma, NEL SUO LETTO! Anche se
c'è
anche quella lì..." - borbottò, riferendosi a
Isabella-Rose.
Demelza
sorrise, stringendolo a se. E Ross e gli altri scesero di sotto, dopo
aver baciato la sorellina appena nata e litigato su chi dovesse
prenderla in braccio per primo. Vinse Jeremy, il più grande
e di
seguito gli altri. Un giorno forse anche Demian avrebbe voluto farlo,
sperò Demelza...
Rimase
sola, con il figlio e la figlia più piccoli. Cantando loro
una
canzone che Isabella-Rose parve apprezzare e coccolando Demian che
era quello che più di tutti necessitava di attenzioni e
amore...
E
dopo pochi istanti, come successe per i gemelli, Prudie fece capolino
nella stanza. "Ci risiamo, è!" - borbottò,
osservando la
neonata. "Ne è arrivata un'altra. Una bestiolina Poldark,
stavolta... Tutta suo padre! E come i gemelli, questa qua non mi
frega mica!".
Demelza
rise, seguita a ruota da Demian che non poteva trovarsi più
che
d'accordo con lei.
"E
la adorerai, come adori le altre bestioline" – la
punzecchiò
Demelza.
"Vedremo,
vedremo... Tu goditi questa mocciosa finché puoi,
finché mantiene
questo aspetto angelico, finché non si
trasformerà in un
uragano..." - ribadì Prudie, pensierosa, accarezzandole con
fare materno i lunghi capelli rossi. "Sono felice, sai? Ci
voleva proprio questa lezione, per il signor Ross?"
"Quale
lezione?".
"Costringerlo
a un faccia a faccia diretto con le conseguenze delle sue azioni.
Farlo assistere al parto è stata un'idea grandiosa e una
perfetta
vendetta!".
Demelza
rise. "Mica è stato per scelta!".
Prudie
le strizzò l'occhio. "L'importante è il
risultato! E tu,
bestiolina bionda? Batti la fiacca?" - chiese poi, rivolta a
Demian. "Mollala tua madre e il suo letto e scendi a dare una
mano con gli altri".
Demian
le fece una pernacchia e Prudie rispose facendogli la sua migliore
faccia brutta. "Bestiolina, ti ritrovi il culetto rosso entro
sera, se prosegui così". Sospirò, riavvicinandosi
alla porta
mentre sbiascicava che Demelza era troppo buona e il piccoletto
troppo furbo. "Salirà anche l'angelo del focolare, a vedere
la
piccola, ti avverto ragazza. Lei si farà fregare dalla
creaturina,
scoppierà a piangere dall'emozione...".
L'angelo
del focolare... Demelza ridacchiò, pensando che
quel nomignolo
Prudie lo aveva affibiato alla perfetta signora Gimlett, sempre
gentile, discreta e sensibile. "Prudie...".
"Ohhhhh,
lei è ingenua, si farà fregare dalla visione di
quel fagottino! Non
è come Prudie che fiuta i guai a distanza. Ti
inonderà la stanza di
lacrime, ti avverto ragazza!".
Demelza
e Demian risero. E Prudie, ciabattando grossolanamente, scese la
scale per andare a lavorare. C'era la cena della Vigilia di Natale da
preparare e mancavano solo poche ore...
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Capitolo 82 *** Capitolo ottantadue ***
I
Gimlett e Prudie, con l'aiuto dei bambini e di Ross, erano riusciti a
portare a termine un autentico miracolo e in poche ore avevano
preparato un buffet abbastanza ricco per essere rappresentativo del
Natale. Focaccine, una torta salata ripiena di patate e carne,
salsicce, biscotti di pastafrolla, delle buone bottiglie di porto e
del budino al cioccolato. Forse non il banchetto sontuoso che si
erano prefissati prima che Isabella-Rose scompigliasse i loro piani e
di certo nulla che potesse essere paragonato al ricco banchetto
londinese di un anno prima, ma i festoni alle finestre e l'albero
addobbato in salotto, accanto al camino acceso, facevano comunque
Natale. Un Natale speciale, intimo, composto da persone che
arrivavano da strade e passati diversi e che per caso e con tanta
cocciutaggine, erano riusciti a diventare una grande famiglia.
Demelza
aveva riposato quanto più possibile tutto il giorno, in
camera, nel
letto assieme alla sua bimba più piccola, svegliata ogni
tanto dai
rumori che provenivano dal piano di sotto, dalle risate dei bimbi,
dalle loro liti, dai loro canti e dalle sgridate di Prudie che
cercava di mantenere l'ordine. Avrebbe voluto scendere anche lei a
dare una mano come sempre, ma sapeva anche che aveva davvero bisogno
di riposo e che se voleva essere presentabile e abbastanza in forze
per la cena, doveva stare a letto quanto più possibile. In
fondo i
Gimlett, Prudie e Ross potevano farcela e la cena sarebbe stata solo
per pochi intimi: loro, i loro fidati servi, Falmouth, Alix, Dwight,
Caroline e le loro bambine e Zachy. Poche persone, tanti bambini e il
piacere di stare insieme in quel loro primo Natale.
Fuori
continuava a nevicare, anche se più dolcemente, e i cani ne
avevano
approfittato per correre e giocare all'aperto tutto il pomeriggio.
Tutti eccetto Garrick, ormai anziano e decisamente più
affezionato
al suo cuscino, al caldo e alla sua presenza. Da quando era nata
Isabella-Rose non l'aveva mai lasciata un attimo, rimandendo a
sonnecchiare nel suo cesto a fianco del letto. Anche Demian era
rimasto per un pò ma poi, sentite le urla e le risate dei
fratelli,
aveva optato per raggiungerli e giocare con loro. Demelza lo aveva
lasciato fare, guardandolo mentre usciva dalla porta con un moto
d'orgoglio unito a tristezza: stava crescendo e pian piano avrebbe
preso la sua strada, preso le distanze e sarebbe diventato grande e
autonomo. E forse non l'avrebbe più cercata così
spesso e di certo
non l'avrebbe più ritenuta così indispensabile.
Era normale che
accadesse, era giusto così ma faceva male lo stesso, anche
se per
lei la cosa più importante era che non perdesse quel suo
candore e
quella sua fantasia che gli facevano scorgere ovunque magie e mondi
fatati e che da grande rimanesse quel buono, dolce e gentile bambino
che era adesso.
La
piccola, fra le coperte, si mosse e prese a succhiarsi la manina
stretta a pugno. E Demelza si fermò ad osservarla, pensando
a quanto
fosse bello essere madre, pensando che non aveva mai voluto altro che
questo, essere mamma, a Nampara, mamma dei figli di Ross. Non voleva
vestiti di velluto, potere o gioielli, voleva solo l'amore del suo
uomo e i suoi figli vicini. Non rimpiangeva nulla di quanto vissuto,
di cosa aveva fatto e di chi aveva amato, era tutto parte di un
grande percorso che doveva portarla fin lì, in quella
Vigilia di
Natale, nel suo letto, con accanto la figlia più miracolosa
che
potesse esistere. E per questo doveva ringraziare Ross per averci
creduto, se stessa per avergli permesso di farlo ed insistere, i suoi
bambini che erano stati la sua forza, i Boscawen che le avevano dato
una famiglia e Hugh, che col suo amore l'aveva accompagnata e
sorretta nel periodo più buio della sua vita. Gli aveva
lasciato
denaro, ricchezza, una casa e una famiglia ma soprattutto i ricordi
belli e puliti di un giovane che viveva l'amore in modo pulito e
romantico, disisteressato e autentico e che era espresso in tutte
quelle poesie che lei gelosamente avrebbe conservato per sempre. E
due bambini... Già, la sua vita non sarebbe stata
così ricca senza
i suoi gemellini e ora, anche senza Valentine... La loro famiglia era
perfetta così, grande, omogenea, felice e confusionaria.
Sarebbero
tornati i giorni londinesi con la loro eleganza, sarebbe tornata ad
essere l'altera ed irraggiungibile Lady Boscawen ma anche se vestita
di pizzi e ornata di gioielli, dentro di se non avrebbe fatto altro
che aspettare il momento del ritorno a casa, a rotolarsi su un
tappeto coi suoi figli...
Allungò
la mano, sfiorò quella della piccola e Isabella-Rose le
strinse le
dita con la sua manina minuscola ma paffuta. Si chinò, la
baciò e
poi chiuse gli occhi, in cerca di riposo e sicura di fare solo bei
sogni.
...
I
bambini stavano facendo un baccano assurdo, correndo qua e la con
delle coperte e spostando sedie. C'era fracasso, un fracasso allegro
di chi aspetta il Natale con la sua magia e i suoi doni.
I
piccoli, nei giorni precedenti, avevano adornato Nampara con
coccarde, addobbando un abete nel salone principale, appendendo
fiocchi rossi alle finestre e riempiendo ogni stanza di candele rosse
e dorate. Sembrava una casa magica proprio come quella di Londra di
un anno prima e soprattutto Valentine, che in quel luogo non aveva
respirato che silenzi e solitudine, sembrava il più
euforico. Era un
bambino, finalmente poteva comportarsi come un bambino e ridere come
un bambino e questo riempiva Ross di gioia perché attraverso
il suo
buon umore, si sentiva in pace con se stesso. Era nato nel peggiore
dei modi per un perverso gioco del destino che aveva voluto punire
lui ed Elizabeth, ma questo non era importante, lui c'era e
finalmente, grazie a Demelza, Ross era riuscito a perdonare se stesso
per le sue tante mancanze verso la donna che amava, i suoi figli e
lui. E questo lo faceva sentire in pace anche verso Elizabeth
perché
essere padre di Valentine e avergli dato una famiglia felice era
tutto quello che poteva davvero fare per alleviare
l'oscurità di
quella notte che lo aveva generato. Questo era il modo giusto di
saldare il debito con lei, non un matrimonio imposto, non mille folli
recriminazioni... Ma essere uomo, prendersi le proprie
responsabilità
e saper amare di nuovo, anche quando era stato difficile farlo, nel
caso di Valentine. Morendo, lei gli aveva chiesto di amare quel
bambino e lo stava facendo, senza riserve. Ora lui si sentiva in
pace, con se stesso, con Elizabeth e con la sua coscienza...
Qualcuno
bussò alla porta e John Gimlett andò ad aprire. E
dopo pochi
istanti, Jeremy corse a chiamarlo. "Papà, sono arrivati!".
Ross
gli poggiò la mano sulla spalla e con lui andò a
dare il benvenuto
agli ospiti. Erano le sei del pomeriggio ed erano arrivati tutti
perfettamente puntuali per iniziare coi festeggiamenti che avrebbero
portato alla mezzanotte di Natale.
Alexandra
e Falmouth, accompagnati da due servi che portavano un'oca ripiena e
altre pietanze cucinate in casa durante la giornata, entrarono,
seguiti dagli Enys con le loro bambine e da Zachy.
Il
faccino di Daisy spuntò dalla porta del salotto. "Zio,
nonna! E
i regali dove sono? Avete portato solo l'oca?".
"I
regali li porta Gesù Bambino" – le rispose Alix,
andando
verso di lei per salutarla.
La
bimba scosse la testa. "No, non solo! Quelli vengono portati ai
bimbi bravi ma siccome non sono sicura di essere stata bravissima, a
quel punto i nonni e gli zii devono fare fare i sostituti. Funziona
così!".
Ross
sospirò, andando a salvare la situazione prima che Falmouth
esplodesse e Caroline si strozzasse dalle risate. "Niente ragali
fino a mezzanotte! E lo sai, CHE FUNZIONA COSI'!".
Daisy
sbuffò e corse via, seguita da Demian e gli altri bimbi,
più grandi
e composti, salutarono i nuovi arrivati.
"Lei
come sta?" - chiese Caroline parlando di Demelza, con la piccola
Melliora fra le braccia.
"Sta
riposando, non posso garantire che riuscirà a stare con noi
tutta la
sera e finché sta a letto, preferirei non andare a
svegliarla".
Prudie
prese le mantelle e poi con Jane, aiutata da Clowance, finì
di
imbandire la tavola mentre i gemelli e Valentine giocavano e
correvano ovunque, facendo baccano e facendo sospirare Falmouth.
"E
allora, Poldark? A quando il rientro a Londra? Posso sperare di
vedervi fra i banchi di Westminster per le sessioni di primavera? Ho
grandi progetti, per me e per voi. E siccome siamo ormai sulla stessa
barca, dopo il matrimonio, do per scontato il vostro voto alle mie
proposte...".
Ross,
con accanto Dwight che sorseggiava un bicchiere di vino,
alzò gli
occhi al cielo, pensando che si era cacciato davvero in un grosso
guaio e che i pranzi e le cene a Londra, coi Boscawen, sarebbero
stati accompagnati da lunghe disquisizioni e discussioni. "Vedremo,
vedremo... Comunque partiremo appena la piccola sarà in
grado di
viaggiare, come promesso".
"Ottimo,
ottimo..." - rispose Falmouth.
Seduta
sul divano con accanto Caroline, Alix batté le mani. "Io e
Demelza dobbiamo ristrutturare il vostro cottage., quello in giardino
che avete scelto come vostro nido. Abbiamo sviluppato idee grandiose
in questi mesi, quì!".
Falmouth
poggiò famigliarmente una mano sul braccio di Ross.
"Volevate
una casetta intima? Ne uscirà una piccola reggia, se ci
mette le
mani mia sorella".
"Correrò
il rischio" – rispose Ross, prendendo al volo Valentine prima
che inciampasse e finisse la sua corsa forsennata con la testa nella
credenza. "Attento!" - lo rimbeccò.
"Grazie
papà!" - rispose il piccolo tutto trafelato, prima di
correre
di nuovo via a velocità folle, inseguito da Tannen e dagli
altri
cani che a loro volta erano inseguiti dalla piccola Sophie Enys che,
con i suoi gridolini e sui suoi primi passi malfermi, dimostrava di
divertirsi molto.
Falmouth
lo guardò storto. "E' sempre così? Lo ricordavo
calmo e questo
lo rendeva molto gradito ai miei occhi...".
"E'
in gran forma, come non è mai stato in passato! E' Natale,
Valentine
e gli altri bambini sono felici e hanno appena avuto una sorellina!
Hanno mille ottime ragioni per essere eccitati!".
Falmouth
sorrise. "Com'è la mia nuova nipote acquisita?".
Ross,
gonfio d'orgoglio, sorseggiò un altro bicchiere di vino.
"Bella,
fiera, con lo sguardo intelligente e vispo e decisamente testarda.
Strilla, se non si fa ciò che vuole lei, strilla come una
che vuole
mettere il mondo ai suoi piedi".
"Ottima
cosa, ci vuole tempra nella vita" – rispose Falmouth mentre
Dwight e Zachy ridevano sotto i baffi.
Zachy
alzò il calice per un brindisi. "Questa terra ha visto
nascere,
lottare e prosperare generazioni di Poldark testardi. A
Isabella-Rose, che abbia una vita lunga e felice".
"Il
primo brindisi della propria vita la notte di Natale, è
qualcosa di
speciale. Grazie Zachy".
Si
voltarono tutti e Demelza, lentamente, scese le scale con la piccola
fra le braccia. Aveva fatto una treccia per tenere a bada i capelli e
indossava un semplice abito rosso, uno scialle bianco sulle spalle e
nella sua semplicità, era bellissima e radiosa.
"Amore
mio!". Preoccupato, Ross corse ad aiutarla. "Ti sei alzata,
alla fine? Sei sicura di farcela?".
Demelza
annuì, sorrise e guardò i suoi ospiti,
stringendosi a Ross con la
piccolina fra le braccia. "E' Natale e non avrei mai mancato a
questa festa per nessun motivo. E nemmeno lei" – disse,
osservando la neonata.
"Mammaaaaa!!!".
I
bambini le corsero vicino, contenti di vederla. E lo stessero fecero
Caroline e Alix.
"Tesoro,
stai bene?" - le chiese la suocera, abbracciandola e fermandosi
a rimirare la piccola. "Mi sono così spaventata stamattina,
quando Ross è arrivato a prendere i bambini e ci ha
raccontato cosa
era accaduto. Ma ora vedo che stai bene e che lei è
splendida".
Demelza
accarezzò il braccio di quella donna che considerava come
una madre
ormai. "Certo, ho solo avuto una figlia, non sono malata come
sembra pensare Ross. Io sto bene e anche la piccola".
Dwight
le si avvicinò, baciandola sulla guancia. "Ma ti consiglio
comunque riposo".
"Agli
ordini, starò buona sul divano a parlare di latte e
pannolini con
Caroline e Alix, siamo tutte e tre piuttosto esperte in materia".
Ross
le sorrise e poi la accompagnò al divano, aiutandola a
sedersi. Era
felice che fosse lì, che fosse accanto a lui e la sua
spalla, come
sempre. Ma non riusciva a non smettere di sentirsi ansioso per la sua
salute. "Stasera ti farai servire e non muoverai un dito, capito
donna?" - ordinò, scherzosamente.
"Capito!"
- rispose lei, ridendo, mentre i bimbi la circondavano e Demian
faceva la linguaccia alla piccola intrusa.
"Demian!"
- lo sgridò la nonna.
"Anche
questa quì tira fuori la lingua! E mi tira i capelli e non
sa
nemmeno fare la pipì da sola, mamma deve metterle il
pannolino! Deve
andare a dormire nella stalla, tutti quelli che nascono a Natale
devono dormire lì".
Demelza
e Alix si guardarono in viso, ridacchiando. "Abbiamo un bambino
geloso...".
"Non
sono geloso, sono più bello e bravo di lei e quindi non
posso essere
geloso".
Ross,
mentre tutti attorno chiacchieravano e brindavano, accarezzò
i
lunghi capelli biondi del piccolo. "Forse un pò è
geloso ma è
anche molto generoso e volenteroso. Ora che la mamma e la nonna sono
quì, che ne dici di dar loro il regalo che hai preparato?".
"Mi
hai fatto un regalo, Demian?" - chiese Demelza, con occhi
lucenti di orgoglio.
"Sì,
mi ha aiutato il papà".
Ross
si avvicinò alla credenza, prendendo due piccole buste
colorate che
porse a Demelza e a Lady Alexandra. "Ci abbiamo lavorato un
pò,
ma ci teneva a fare questi bigliettini per voi. Dice che era
un'abitudine anche del suo primo padre, Hugh".
Demelza
lo guardò a bocca aperta, come Alix del resto. Non c'era
traccia in
Ross né di imbarazzo né di gelosia ma la
volontà di tener vivo in
Demian il ricordo del padre, di non soffocarlo e di convivere con la
sua figura tanto importante per molte persone presenti a quella
festa. Era giusto che Demian e gli altri non lo dimenticassero e Ross
ormai lo aveva capito ed accettato.
Alix
prese Demian sulle gambe, aprendo il bigliettino, mentre Ross, dopo
una stretta e un bacio alla mano di Demelza, si allontanò
per
tornare a parlare con gli altri uomini e lasciarle sole con i loro
ricordi e il loro bambino.
"Tesoro...".
Gli occhi di Alix divennero lucidi mentre abbracciava il nipotino.
Nel bigliettino c'era un disegno, una specie di ritratto che Demian
aveva fatto di lei e nell'angolo del foglio c'era scritto 'Buon
Natale, nonna'. Una scrittura infantile, forse stentata ma con una
nota di eleganza che nessun altro dei bambini, nemmeno Jeremy che era
il più grande, possedeva. La mano di un futuro artista, la
mano di
qualcuno che è nato per tenere in mano una penna...
Anche
Demelza aprì la sua busta, trovando un suo ritratto e la
stessa
scritta 'Buon Natale, mamma'. Stesso tratto elegante e pulito, stesso
disegno con tratti infantili ma già ben definiti, una cura
per i
dettagli inusuale per un bambino tanto piccolo e nell'angolo sotto,
anche un abbozzo di firma. E quel disegno, quel tipo di tratto,
quella scelta di colori e lo stile delle lettere... Demelza aveva
già
visto qualcosa di simile, lo riconosceva e, anche se il tratto era
ancora infantile, in camera aveva qualcosa di molto simile a quello
che Demian sarebbe stato di lì a qualche anno. "Amore, lo
hai
fatto tu? Da solo?".
"Il
disegno sì! Però gli auguri, no, mi ha aiutato il
papà! Mi ha
insegnato come scriverli".
Incuriosito,
mentre girovagava in giro durante i suoi giochi, Jeremy si
avvicinò
per sbirciare. "Forte! Come papà-Hugh aveva fatto con me
quando
avevo cinque anni! Ti ricordi, mamma? Anche lui mi aveva aiutato a
scrivere un bigliettino per te!".
"Sì,
lo ricordo..." - sussurrò Demelza in un soffio, emozionata,
mentre Alix si asciugava le lacrime e Jeremy correva via, chiamato da
Valentine e Clowance.
"Ti
piace mamma? E a te, nonna?" - chiese Demian, incerto nel vedere
le sue lacrime.
"Certo,
amore" – le sussurrò Alix, stringendolo a se.
"E
allora perché piangi?".
"Perché
i grandi a volte piangono se sono felici".
"I
grandi sono strani!" - ribatté il bimbo.
Demelza,
col braccio che Isabella-Rose aveva lasciato libero, lo prese fra le
braccia, stringendolo a se. "E' un regalo bellissimo, piccolo
principe. E la nonna si è commossa perché il tuo
modo di scrivere e
disegnare ci ricorda tanto il tuo papà Hugh. Sei il suo
erede e lui
vive in te e in quello che fai, soprattutto quando scrivi e disegni.
E' a questa festa, insieme a noi, tramite te".
Demian
divenne rosso dall'emozione. "Ohhh, allora sono importante".
"Certo,
amore...".
"Più
di lei?" - rispose il piccolo, indicando la sorellina neonata.
Demelza
lo baciò, ridendo sotto i baffi. "Sicuramente sai fare molte
più cose, avrai tanto da insegnarle".
Contento
della risposta e dell'effetto del suo regalo, Demian corse via a
giocare con gli altri bambini.
Rimaste
sole, Demelza strinse la mano di Alix che ancora non smetteva di
asciugarsi gli occhi col fazzoletto. "Avrei voluto che lui li
conoscesse meglio, avrebbe adorato l'indipendenza di Daisy e il
talento di Demian. Avrei voluto che potesse sentire le loro voci che
lo chiamavano 'papà', avrei voluto tanto e tanto altro per
lui...".
Alix
annuì. "Anche io. Ma come hai detto prima, lui vive.
Attraverso
i suoi figli e te, che li hai messi al mondo. Se non ci fossi stata,
Hugh sarebbe semplicemente morto. Ma adesso esiste, esisterà
sempre
e lo ritroveremo nei disegni di Demian e nel sorriso biricchino di
Daisy. Fa male sentirli chiamare 'papà' un altro uomo ma
vederli
felici, vedere che qualcuno li ama e li protegge e ne è
padre a
tutti gli effetti, è quanto di meglio potessi sperare per
loro. E
per te, che quest'uomo lo hai sempre rimpianto e mai dimenticato.
Avete sofferto molto ma avete ricostruito una famiglia meravigliosa e
io sono felice di poterne fare parte. So che il tuo cuore è
quì e
so che tornare a Londra ti peserà, ma spero che continuerai
a
considerare Londra casa tua come lo è stata per anni".
Demelza
le sorrise, dolcemente. "Londra è la mia casa, al pari di
Nampara. Il mio cuore è quì e lì.
Isabella-Rose è nata in
Cornovaglia ma io e Ross abbiamo deciso di farla battezzare a Londra.
Un pò quì, un pò la, è un
compromesso e siamo felici di aver
scelto così".
"Oh
mia cara...".
In
pace con se stessa, Demelza guardò di nuovo il suo ritratto,
orgogliosa di suo figlio e colpita nel vedere, forse per la prima
volta, quanto stesse crescendo in fretta e diventando autonomo,
capace e in grado di fare i primi passi in quelle che erano le sue
passioni, da solo. Strinse la mano ad Alix e poi si alzò,
andando
verso Ross. Si avvicinò, lo abbracciò e lui le
mise un braccio
attorno alle spalle.
"Ti
è piaciuto il regalo?".
"Sì.
E Demian mi ha detto che che lo hai aiutato a scrivere, lui non lo sa
ancora fare... E scrive quasi meglio di te, sai?".
Ross
e Falmouth risero. "Non che ci voglia molto, ma il bimbo ha
comunque talento".
Con
la coda dell'occhio, Ross notò Daisy che passava, tenendo
per mano
la piccola Sophie. "Abbiamo provato anche a coinvolgere Daisy,
ma lei a differenza del fratello non ama proprio né stare
seduta, né
tenere dei pennarelli in mano.
Falmouth
chiamò la nipotina. "Tu batti la fiacca? Non fai i regali
alla
mamma?".
Daisy,
seria seria, si bloccò e picchiò il piedino per
terra. "Io
voglio fare la pirata, non scrivere bigliettini!".
Falmouth
la fissò, pensieroso, poi un sorriso furbo comparve sul suo
viso.
"Lo sai che io ho molte navi che viaggiano per il mondo per
portare a termine i miei affari e vendere la mia merce?".
"No,
non lo so" – rispose la bambina, mentre Demelza e Ross lo
guardavano senza capire dove volesse andare a parare.
Falmouth
proseguì. "Ora quelle navi le guidano dei miei uomini di
fiducia. Ma per quanto di fiducia, non sono come un nipote... Da
grande potresti comandarle tu e andare in giro per il mondo per fare
affari per la tua famiglia, ti va?".
"No!"
- rispose Daisy. "Io voglio fare il pirata!".
Falmouth
non indietreggiò, dimostrando che aveva in mente un piano
già ben
elaborato. "I pirati vogliono fare soldi, denaro, trovare oro!
Anche io, non c'è molta differenza".
Daisy
lo guardò e poi spalancò la bocca, stupita.
"Zio... Ma allora
sei un pirata anche tu?".
"E
della peggior specie..." - borbottò Ross rivolto a Dwight,
sotto voce.
Falmouth
tossicchiò, allargandosi il colletto della manica. "In un
certo
senso...".
"E
se guido le tue navi, posso mettere il fazzoletto nero in testa, col
teschio?".
"Se
lo vorrai... Vedi, prima parlavi di regali di Natale, no? Lo zio ti
sta regalando un'intera flotta, basta che dici di sì!".
Daisy
ci pensò su e poi, seria seria, gli si avvicinò e
con fare
trionfale allungò il braccio, stringendo formalmente la mano
allo
zio come aveva visto spesso fare gli adulti dopo aver siglato un
accordo importante. "Va bene, affare fatto!". Era Natale e
a cinque anni si era appena costruita una carriera. E decisamente
contenta corse via, tornando ai suoi giochi con all'attivo un regalo
di Natale che valeva diversi milioni di ghinee...
Ross
e Demelza guardarono Falmouth, anche loro a bocca aperta. "Abbiamo
capito bene?".
"Ovvio!".
"Eravate
serio?" - chiese Ross, sicuro delle capacità di Daisy ma
convinto che Falmouth avrebbe un giorno affidato tutto al maschietto,
Demian.
Come
intuendo le sue perplessità, Falmouth si affrettò
a precisare.
"Demian è come suo padre, un sognatore, un sensibile, un
artista. Gente buona, per carità. Ma perfettamente inutile
quando si
tratta di affari. Daisy è un segugio, non conosce vergogna e
ha la
mia stessa faccia tosta. Se devo affidare a qualcuno i miei affari,
chi meglio di lei potrebbe portarli a compimento? Potrebbe vendere
ghiaccio al Polo Nord, se ce la mandassi, con quella faccia tosta e
quel visino angelico. Sono un Boscawen e so fiutare da lontano gli
affari, lei è una Boscawen ed è nata per questo e
vuole navigare
per mare. Facciamola contenta!".
Demelza
prese un profondo respiro, consolandosi col pensiero che sarebbero
dovuti passare molti anni prima che Daisy fosse abbastanza grande per
partire per mare e che forse, nel frattempo, avrebbe potuto cambiare
idea... Forse...
Ross,
le cinse le spalle, accarezzando la manina di Isabella-Rose che si
era svegliata. "Su, non parliamo di affari, stasera. E' Natale e
si deve festeggiare".
"E'
Natale e si deve festeggiare..." - rispose Demelza, con un
sorriso. E festeggiarono...
...
Era
passata ormai la mezzanotte e gli ospiti se n'erano andati da un bel
pezzo. La casa era avvolta dal silenzio e dalla pace.
La
festa era stata allegra, condita da grandi chiacchiere e mangiate, da
risate e da piani per il futuro, i bambini avevano inscenato nel
salotto una specie di presepe vivente coinvolgendo anche
Isabella-Rose, sequestata da Clowance e messa fra lei e Jeremy ad
interpretare Gesù Bambino. Daisy e Demian erano stati scelti
per
fare l'asinello e il bue e Valentine e Sophie Enys avevano
interpretato i pastorelli e la scena era stata divertente e aveva
fatto scaturire un sacco di risate fra i presenti, soprattutto quando
i gemelli avevano tentato di imitare i versi degli animali che
interpretavano.
Poi,
dopo che gli ospiti se n'erano andati e tutto era stato sistemato dai
Gimlett e da Prudie, Demelza e Ross si erano messi in salotto,
illuminati solo dalla luce del camino, con tutti i bambini e i loro
cani vicino. I piccoli avevano insistito per una fiaba di Natale da
inventare e raccontarsi davanti al fuoco, come una nuova tradizione
da ripetere poi ogni anno e alla fine erano finiti a chiedere ai
genitori come si fossero conosciuti e Ross e Demelza avevano
raccontato la loro storia, partendo da quella famosa fiera di Redruth
di tanti anni prima...
Era
stato bello, tutto condito da risate e domande anche buffe e alla
fine erano rimasti davanti al camino senza andare a letto, avvolti
dalle coperte, a dormicchiare su divani e tappeti.
Riscaldati
da una calda coperta di lana bianca, Ross e Demelza osservavano dal
divano i loro bambini addormentati, Clowance sul divanetto
antistante, Demian, Valentine e Jeremy sul tappeto e Daisy che ancora
non dormiva e girovagava per casa con legata in testa una fascia
nera, da piratessa, che le avevano regalato quella sera Dwight e
Caroline. Mai nessuna bimba era stata così felice per un
fazzoletto
come dono di Natale, pensarono ironicamente...
"Sono
felice..." - sussurrò Demelza, rannicchiandosi contro il
petto
di Ross con la piccola Isabella-Rose perfettamente addormentata.
"Pure
io".
Lei
alzò il viso, a guardarlo negli occhi, come desiderosa di
spiegarsi
meglio. "Voglio dire... Sono felice di questo, di essere
quì,
con te e coi bambini, davanti al fuoco. Non ho mai voluto altro, solo
questo. Tutto questo! E ho TUTTO! E certe volte ci penso, in questi
giorni...".
Ross
si accigliò. "A cosa?".
"Che
nessuno ha mai davvero TUTTO quello che desidera. Io sì! E
mi chiedo
cosa abbia mai fatto di speciale per meritarlo".
Lo
sguardo di Ross si riempì di dolcezza e tenerezza, era
proprio da
lei sottovalutarsi e non capire il suo grande valore e quanto fosse
speciale. "Io credo che al mondo non esista nessuna persona che
meriti TUTTO quanto lo meriti tu. Fai molto di speciale, lo fai ogni
giorno, lo hai fatto sempre anche mentre passavi l'inferno. Non hai
mai vacillato per il bene di chi amavi e sì, tu meriti
TUTTO. E se
il tuo tutto siamo noi, io sono felice!".
Gli
occhi di Demelza si velarono di lacrime, era commossa da quelle
parole e dal modo dolce in cui lui le aveva pronunciate. "Oh
Ross...".
Lui
le accarezzò il viso, baciandola sulle labbra. "Io sono meno
perfetto, merito di non avere TUTTO e forse non merito nemmeno
niente. Ma ho tutto, da te e tramite te, INSIEME a te e mi sento
dannatamente e immeritatamente fortunato per questo" –
concluse, baciandola sulle labbra. "Tu sei la donna migliore del
mondo, paragonabile a nessun altra ai miei occhi. E io sono l'uomo
decisamente più fortunato del mondo e ne sono consapevole".
"Davvero
non cambieresti nulla?" - chiese Demelza. "Di ciò che
è
stato e siamo?". C'era una sorta di ritrosìa in quella
domanda.
Capendo
quanto lei alludesse al passato e a quanto entrambi avevano vissuto
con altri, Ross si sentì di tranquillizzarla. "Nulla, ogni
cosa
amore mio, ci ha portati quì, al nostro TUTTO. A questo
divano, a
questo camino, a questa bambina appena nata e a tutti quelli che
abbiamo attorno, alla cena di stasera e agli ospiti che abbiamo avuto
alla nostra tavola. Non cambierei nulla... Non voglio nulla di
diverso. E tu?".
Demelza
sorrise, baciandolo ancora sulle labbra. "Nemmeno io. Ho tutto,
siamo TUTTO. E non abbiamo altro da chiedere, non ho altro da
chiedere... Io sono quì, tu sei quì e ci sono i
bambini.
Respiriamo, viviamo, amiamo e non ci serve altro. Non c'è
altro da
chiedere, nessun passato da recriminare e un futuro da costruire. Ma
domani... Oggi, adesso, siamo quì e siamo insieme. Solo
questo
conta...".
Ross
annuì, completamente d'accordo, catturato dalla sua voce e
dal suo
volto tanto vicino. "Sì, solo questo conta" –
disse,
perso nei suoi occhi.
"Questo
e i pirati!" - sussurrò la vocina di Daisy, che faceva
capolino
dalle scale col suo fazzoletto nero in testa, simbolo di un futuro
che avrebbero costruito tutti insieme, mattone dopo mattone.
Ross
e Demelza sorrisero e poi, allargando le braccia, l'accolsero con
loro sul divano, in un caldo abbraccio.
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Capitolo 83 *** Epilogo ***
E
siamo arrivati all'epilogo di questa lunghissima storia, un epilogo
che però lascia la porta aperta a un seguito, che
scriverò nel
futuro perché... non tutto è ancora sistemato...
Ma per ora ho in
mente una nuova fanfiction, nuova di zecca, sui Romelza. E quindi per
ora, dopo più di 80 capitoli, questa trama
riposerà per un pò in
attesa che la mia mente elabori ben bene le avventure future di
questa grande famiglia allargata creata dai Romelza.
Grazie
a tutti quelli che mi hanno seguita e incitata con le loro bellissime
recensioni, a chi ha seguito in silenzio, alla mia pagina facebook su
Poldark e davvero, a tutti quelli che hanno fatto parte di questa
grande avventura fin dall'inizio, quando scrivevo le bozze delle
prime scene sparpagliate che mi venivano in mente. Grazie, di cuore,
vivere questa avventura con voi è stato fantastico!
Ross
era partito per Londra a metà febbraio, costretto dai lavori
del
Parlamento a cui si era sottratto fin troppo a lungo.
Aveva
lasciato Nampara a malincuore, benché Demelza fosse in forma
e
Isabella-Rose sana e forte, era stato difficile lo stesso partire,
nonostante le rassicurazioni di sua moglie e la consapevolezza che la
lontananza sarebbe stata breve. Demelza aveva promesso che, appena il
tempo fosse stato clemente e meno freddo, lo avrebbe raggiunto subito
e di certo non si sarebbe trattenuta in Cornovaglia oltre l'inizio di
marzo. Lei lo aveva promesso e lui sapeva che avrebbe mantenuto la
parola data, anche se lasciare per così tanti giorni la sua
figlia
più piccola lo riempiva di sensi di colpa perché
non voleva
ripetere gli errori fatti in passato con gli altri suoi figli e anche
se la ragione gli suggeriva che quello sarebbe stato un caso unico,
si sentiva uno schifo lo stesso.
Ross
però per fortuna era partito in buona compagnia: Jeremy e
Clowance
avevano insistito per tornare con lui nella capitale, desiderosi di
stare con il loro padre che non avevano visto per lunghi anni e anche
bisognosi di ritrovare quella che consideravano la loro 'altra' casa,
coi suoi ricordi, coi loro giochi, con le loro abitudini. E
soprattutto vicina a tutti coloro che erano i loro amici del cuore,
di cui ovviamente sentivano la mancanza. Jeremy non vedeva l'ora di
rivedere Gustav e Clowance di riabbracciare Catherine. Demelza aveva
accettato che partissero e anzi, era fiera e sollevata dal fatto che
volessero stare con il loro padre dopo gli inizi tutt'altro che
facili fra loro e anche Ross era stato felice della cosa. Anche
Valentine era voluto partire, un pò perché ancora
non così in
confidenza con Demelza da rimanere da solo con lei a lungo, un
pò
perché desideroso di giocare coi fratelli più
grandi e i loro amici
e anche questo era stato accordato. E infine aveva deciso di far
parte del gruppetto anche Daisy, che da subito aveva avuto una forte
affinità con Ross e non aveva voluto lasciare andar via il
suo nuovo
papà e maestro dell'arte della pirateria. Si sarebbero
allenati a
conquistare i sette mari nel parchetto dietro casa a Londra,
probabilmente...
Demelza
era rimasta a Nampara con Isabella-Rose e Demian che non aveva voluto
lasciarla e anzi, aveva capito che avrebbe avuto la mamma quasi tutta
per se visto che quattro dei suoi cinque fratelli sarebbero stati
lontani e la piccola intrusa appena nata poteva essere relegata nella
cesta e nella culla durante i suoi lunghi sonni... E con loro Prudie,
che non era partita e le era rimasta accanto ad occuparsi dei due
piccoli mentre i Gimlett, a Londra, avrebbero aiutato Ross con gli
altri. Le due donne rimasero da sole coi bambini per quasi tre
settimane, settimane in cui Demelza aveva tentato di riassaporare la
sua vecchia vita di una volta ed era voluta tornare a vedere la
miniera, aveva spiegato a Demian come funzionasse la faccenda del
rame e aveva passato le notti nel lettone, con la figlia appena nata
e l'altro figlio, a cui aveva riconcesso quell'onore in cambio della
promessa che una volta raggiunti gli altri a Londra, sarebbe tornato
a dormire in camera coi fratelli, nel suo letto.
Demian
aveva promesso solennemente, con il tono serio di un piccolo ed
impeccabile Boscawen e sebbene Demelza fosse titubante e abbastanza
sicura che si sarebbe pentita di quella piccola concessione una volta
giunti a Londra, lo aveva accontentato. E aveva accontentato se
stessa perché indubbiamente, senza Ross, avere ancora il suo
piccolo
principe nel letto era per lei un autentico piacere e non poteva
negarlo...
E
così era stato, fino al cinque marzo. Poi era partita alla
volta di
Londra coi suoi bagagli, i suoi figli più piccoli, Prudie e
Garrick,
in un caldo giorno di sole di inizio primavera. Lasciare la
Cornovaglia era difficile, era un pezzo del suo cuore ma ora si
rendeva conto, mentre la carrozza viaggiava e sobbalzava sul
selciato, di essere anche felice di tornare e che sì, Ross e
Falmouth avevano ragione, era diventata una creatura complessa, da un
lato semplice figlia di un minatore della Cornovaglia ma dall'altro
la miglior Lady che i Boscawen potessero trovare. Sarebbe tornata a
vestire abiti eleganti e a lavorare per il bene della famiglia e per
quello di tutti coloro che poteva aiutare sfruttando la sua
posizione. Era troppo che mancava e troppe persone a Londra
agognavano la sua venuta e l'aiuto che negli anni non aveva mai
negato a nessuno di quella capitale tanto bella quanto povera e
disperata per i più che la abitavano. E poi... Suo marito e
i
bambini la aspettavano e soprattutto, c'era un evento a cui era
attesa: il Battesimo di Isabella-Rose!
...
Il
Battesimo si svolse nella grande Cattedrale di Westminster e le
neonate battezzate furono tre: Isabella-Rose, Melliora e Demelza.
Erano
stati i genitori 'ad aspettarsi' per festeggiare insieme quella
giornata e anche se la madre di Margarita si era lamentata tutto il
tempo del fatto che quella degenere di figlia, ancora un pò
che
aspettava, avrebbe battezzato la sua nipotina il giorno del suo
matrimonio, la giornata si era rivelata piacevole e serena per
genitori e bimbi, tutti riuniti nel grande giardino dei Boscawen a
festeggiare insieme con brindisi e abbuffate. Complice la giornata
serena e piuttosto calda, i bambini avevano giocato tutto il giorno
in giardino e nel parco e Ross, guardandosi attorno, si accorse che
in quel posto si sentiva a suo agio e che sì, si sentiva a
casa e
circondato dalla sua famiglia.
Era
stato felice di riabbracciare Demelza quando era giunta a Londra e
ancor più, con Clowance, di mostrarle come avevano iniziato
a
sistemare il loro cottage nel giardino che a breve sarebbe diventato
il loro nido. In quelle settimane senza sua moglie, Falmouth gli
aveva fatto preparare una stanza accanto a quelle dei bambini e mai
aveva varcato la soglia di quella che era stata la camera di Demelza
e Hugh per una questione di rispetto e perché si sentiva di
dover
rispettare quel lato della vita di Demelza che apparteneva solo a
lei.
Con
la coda dell'occhio guardò i suoi figli assieme ai loro
amici che,
tutti intenti in chissà quale discussione, se ne stavano
impalati
davanti alle culle delle bimbe.
Incuriosito
dai loro discorsi, si avvicinò, lasciando il tavolo del
banchetto e
Falmouth, intento a fare proclami politici ai suoi ospiti.
Gustav,
tutto assorto, osservava Isabella-Rose che se la dormiva della grossa
nella culla dopo che, per tutta la cerimonia, non aveva fatto altro
che strillare stizzita per quel trambusto che si muoveva attorno a
lei. "Mh, sai Jeremy, ho capito che con Clowance non ho
speranze! Posso provare a fidanzarmi con Isabella-Rose, non trovi?".
Ross
per poco, a quelle parole non si strozzò col vino che stava
ingurgitando mentre invece Jeremy, più serafico, lo
guardò storto.
"E' una femmina Poldark, come Clowance... Rassegnati!".
Gustav
sbuffò sconsolato e Catherine, di fianco a loro con
Clowance, non
sembrava meno triste di lui. "E io? Che dovrei dire, io? Jeremy
non mi vuole e se non mi sposa, non posso diventare la nuova sorella
di Clowance! È una disgrazia, ma magari potrei sposare
Demian! In
fondo è bello... e pure un pò tanto ricco!".
Jeremy
e Clowance si guardarono in faccia e poi scoppiarono a ridere.
"Scordatelo, Demian è di mamma, sposerebbe solo lei!".
La
piccola si imbronciò. "Che disgrazia essere già
destinata a
soli otto anni a rimanere zitella a vita!".
Jeremy
ci pensò su e con la sua mirabile faccia tosta che tirava
fuori nei
momenti che più gli convenivano, si lanciò in un
gesto generoso
verso il suo nuovo fratello minore, silenzioso accanto a loro fino a
quel momento. "C'è Valentine! Potresti sposare lui!".
Ma
anche Valentine parve titubante. "No, io voglio sposare Emily
Basset! Non posso sposare due femmine, non credo che si possa fare!
Devo chiedere a papà, se dice che posso va bene, meglio due
mogli
che nessuna, ma mi sa che la legge dice che ne puoi avere solo una!".
Davanti
all'espressione sempre più disperata di Catherine e cercando
di non
scoppiare a ridere davanti a quelle grandi problematiche di vita che
i piccoli stavano affrontando, Ross si allontanò nel parco,
sedendosi su una panca di pietra mentre attorno a lui la festa
proseguiva nel suo allegro baccano. Ripensò alla sua vita, a
quanto
affrontato e vissuto, alle tante strade che si stavano aprendo
davanti a lui e ai suoi figli, ai suoi tanti figli che stavano
crescendo e che doveva aiutare a prendere la propria strada. Figli
diversissimi, di indole e carattere, ma di cui andava fiero.
Ripensò
ai primi giorni a Londra da solo coi bambini e a quanto vissuto con
Clowance che, una sera, gli aveva confessato di essere gelosa che
tutti lo avessero avuto vicino al loro Battesimo a parte lei e
allora, di nascosto, in un segreto solo loro, erano andati dal
Vicario a farsi fare una benedizione speciale solo per lei e lui.
Entrambi ne avevano bisogno e Clowance aveva ragione, era sempre
stato presente a tutti i Battesimi eccetto che al suo... E forse
questo non riparava interamente lo strappo ma di certo entrambi
avrebbero ricordato con emozione quella piccola benedizione solo per
loro, quel piccolo segreto, quel momento di intimità che si
erano
ritagliati e avevano voluto con tutte le loro forze.
"Sfuggi
ai doveri? O alla nobiltà?" - chiese improvvisamente una
voce
alle sue spalle.
Ross
si voltò e si trovò alle spalle Demelza, vestita
con uno splendido
ed elegante abito verde, con in braccio la piccola Isabella-Rose che
si era appena svegliata.
La
prese per mano, facendola sedere accanto a lui. "A entrambe le
cose...".
Demelza
rise. "Amore mio, in fondo nei mesi scorsi hai scoperto che non
è poi così male, no? Ti ricordi quando, da
'fidanzati', siamo
andati al circolo di tiro con l'arco con Margarita ed Edward? Allora
avevi scoperto che questi nobili amici non sono così
mostruosi...".
Ross,
mascherando un sorriso mentre prendeva Isabella-Rose fra le braccia,
fece spallucce. "Amore mio, se lo ammettessi pubblicamente
troppo spesso, perderei la mia aurea e la mia fama da orso".
"Quindi
fingerai di lamentarti e ti sforzerai sempre di trovare un motivo per
farlo?".
"Oh,
non credere che farò fatica a trovarne, mia cara! Questo
è un mondo
di squali e di truffaldini interessati solo al loro tornaconto".
Demelza
lanciò un occhio al parco dove in solitaria, Daisy giocava
fra gli
alberi. "La tua cara, piccola prediletta Daisy vuole diventare
una piratessa! In nome dei Boscawen! Eppure non ti lamenti ma anzi,
la stai aiutando in questa folle idea di Falmouth che la
farà
diventare ciò che tu ora combatti. E abbiamo la casa piena
di corde
legate nei modi più strani...".
Ross
ridacchiò, ripensando all'altra cosa fatta mentre Demelza
era ancora
in Cornovaglia. "Un bravo pirata deve sapere fare i nodi e
quando Daisy l'ha scoperto, mi ha costretto a comprare tutte le corde
e le funi di un negozietto sul Tamigi. Quell'uomo, vista la cifra
spesa, ci ha steso una specie di tappeto rosso quando ce ne siamo
andati. E' bello rendere felici le persone ed è bello
rendere felice
Daisy. Sarà una navigante fantastica, i pirati stessi le
stenderanno
un tappeto al suo passaggio, dopo che lei li avrà derubati
di tutti
i loro tesori. E no, lei NON sarà mai come coloro che io
combatto!".
Demelza
lo guardò accigliata. "Navigante? Sarà una
tiranna!".
Ross
la guardò negli occhi, divertito. "Una tiranna con un
meraviglioso faccino d'angelo e un carisma inarrivabile. Il mondo
dovrebbe essere pieno di tiranni così".
Demelza
fece per rispondergli quando fu interrotta dalla vocina ecciatata di
Valentine che li chiamava.
"Papà,
guarda chi c'è!".
Entrambi
si voltarono e Ross, appena vide il nuovo arrivato,
impallidì.
Demelza invece ci mise un attimo a mettere a fuoco la figura del
giovane ragazzo appena giunto, uno sconosciuto sulle prime, ma poi...
"Ross, quel ragazzo... E' Jeoffrey Charles?".
Alzandosi
lentamente dalla panca, Ross annuì stupito. Di tutti quelli
che si
aspettava di vedere, di certo non credeva che lui... che lui...
"Sì,
è Geoffrey Charles". Era stupito, strabiliato di vederlo.
Dalla
morte di Elizabeth il ragazzo aveva rifiutato ogni contatto con lui
che non fosse strettamente necessario ed aveva voluto rimanere a
Trenwith con zia Agatha, finché era stata viva, e poi aveva
chiesto
ed ottenuto di andare in un collegio militare. E da allora erano
state poche le volte in cui era tornato a casa. Valentine lo adorava,
lo aveva sempre guardato con l'ammirazione che si da alle cose viste
poco, da lontano e che paiono perfette e inarrivabili. Un pò
come
lui, un tempo, aveva guardato ad Elizabeth... Dolorosi ricordi si
affacciarono alla sua mente ma decise di scacciarli, non oggi, non
nel giorno del Battesimo di sua figlia! "Jeoffrey Charles..."
- disse al ragazzo, ormai diciottenne e più alto di lui,
nella sua
uniforme militare rossa.
Demelza
andò incontro al ragazzo con lui, incredula. Ross non le
aveva
raccontato molto né di quanto accaduto con Elizabeth dopo la
sua
partenza, né del perché i rapporti con il nipote
si fossero
deteriorati così tanto. Guardando quel ragazzo si rese conto
del
tempo che era passato: lo ricordava bambino, dolce e timido, ed ora
aveva davanti praticamente un giovane ed affascinante uomo biondo che
tanto ricordava suo padre Francis nelle movenze e nell'aspetto. Aveva
sempre voluto bene a quel bambino, nonostante tutto ciò che
aveva
passato grazie ad Elizabeth ai suoi occhi suo figlio era sempre stato
altro e mai aveva avuto pensieri negativi su di lui. Non sapeva
perché fosse lì ma non lo avrebbe fatto sentire
fuori posto o in
imbarazzo. "Jeoffrey Charles... E' una sorpresa vederti quì".
Nel
frattempo il giovane, circondato dai bambini incuriositi e stretto a
Valentine che gli si era aggrappato alla gamba tutto contento ed
eccitato, fece un breve inchino, togliendosi il cappello. "Zia
Demelza... E' molto che non ci vediamo ed essendo in città e
saputo
che eri quì con... con la tua famiglia...".
Si
bloccò, impacciato, e Demelza gli andò in aiuto.
"Hai fatto
bene a passare e spero che il nostro maggiordomo non ti abbia fatto
problemi ad entrare".
"Gli
ho detto che ero un parente di Valentine" – rispose lui,
omettendo Ross dal discorso.
Demelza
se ne accorse, così come si accorse dell'atmosfera che stava
diventando decisamente frizzante. "Vuoi sederti a tavola con
noi? Dobbiamo tagliare la torta per festeggiare le bambine e potremo
approfittarne per chiacchierare un pò".
"N...
No, grazie! Volevo solo passare a dare un saluto a mio fratello,
visto che ho scoperto che eravate a Londra e casualmente mi trovavo a
passare di quì" – disse, accarezzando i ricciolini
di
Valentine.
"Vorrei
che restassi".
La
voce e la richiesta di Ross, rimasto in silenzio fino a quel momento,
fece sussultare tutti. Il suo tono era neutro e pareva abbastanza
freddo sulle prime, ma Demelza scorse in lui solo tensione e rimorsi
che non riusciva ad affrontare. Come Jeoffrey Charles del resto.
"Anche io" – aggiunse quindi, in tono più gentile
del
marito.
Demian
e Daisy, arrivata incuriosita a ricongiungersi con gli altri, lo
guardarono come se stessero fissando un alieno. "Fratello? Di
Valentine? Un altro fratello, mamma?".
Demelza
sudò freddo e Ross pure. "E' difficile da spiegare, bambini".
Jeoffrey
Charles sorrise ai gemelli. "No, è semplice. Sono fratello
di
Valentine".
Jeremy
intervenne. "Ma Valentine è nostro fratello, ora! E tu? Non
lo
sei anche tu, allora?".
Jeoffrey
Charles sorrise. "Jeremy, ti ricordavo piccolissimo, sei
cresciuto molto! Mi fa piacere rivederti e per rispondere alla tua
domanda, credo che tu debba considerarmi un cugino".
"Oh..."
- rispose il ragazzino, confuso.
Daisy
si avvicinò a Jeoffrey Charles. "Sei un soldato?".
"Sì".
"Giri
tutto il mondo?".
"Giro
abbastanza".
"Hai
visto gli orsi?".
"No,
non mi pare di aver avuto l'onore".
"E
i pirati? Sei amico dei pirati?".
Jeoffrey
Charles la guardò storto. "No, ma nel caso sono pronto a
combatterli".
Daisy
si imbronciò. "Nooo, i pirati sono i migliori! Non devi
combatterli".
"I
pirati sono briganti!" - insistette lui.
"I
pirati sono ricchi! Tu sei ricco?".
"No".
"Vedi,
è perché non sei loro amico".
"Tu
hai le idee poco chiare sulla vita, piccoletta" – rispose
lui,
a tono.
Daisy
picchiò il piedino e poi, con le mani sui fianchi, si
preparò alla
sua predica. "Sei un soldato, sei grande, c'hai il muso lungo,
sei povero, non hai visto mai nemmeno un orso e non capisci niente di
pirati! Che vita inutile che hai!".
"DAISY!!!"
- la sgridò Demelza.
Jeremy
e Clowance ridacchiarono e Ross si oscurò. "E' una bambina
molto diretta e senza filtri, dice sempre ciò che pensa".
Jeoffrey
Charles gli rispose con un sorriso freddo e sprezzante. "Ciò
che serviva a te! Spero sia diretta allo stesso modo con chi lo
merita, zio...".
"Jeoffrey
Charles..." - intervenne Demelza, vedendo Ross gelato su due
piedi e capendo che era meglio cambiare discorso. "Siamo una
famiglia, vorremmo – e so che lo vuole anche Ross –
che ne
facessi parte. Il passato non si cambia ma il futuro lo si
può
costruire insieme. E la nostra casa è la tua casa".
Jeoffrey
Charles le sorrise in modo più gentile, le si
avvicinò e le baciò
la mano, dopo averla presa nelle sue. "Zia Demelza, ho dei
bellissimi ricordi di te e mi fa piacere rivederti e vedere che stai
bene. Sono passato solo per salutare Valentine e vedere se tutto
quello che si racconta in giro era vero. Tutto quì. Ti
ringrazio
dell'invito ma devo andare, non me la sento né di parlare di
passato, né di affrontare il futuro. Buon proseguimento a
tutti voi,
che la vita sorrida sempre a queste bambine battezzate oggi".
"No,
resta un pò" – insistette Valentine.
Jeoffrey
Charles gli si inginocchiò davanti. "Fa il bravo,
fratellino.
Verrò ancora a trovarti, te lo giuro".
"Va
bene".
Ross
si avvicinò ai due, serio. "Lo farai davvero?".
"Per
Valentine, certo. E' tutto ciò che resta di mia madre".
Ross
deglutì. "Va bene, anche se è solo ed unicamente
per vedere
Valentine, vorrei che tornassi di tanto in tanto".
"Tornerò.
Ed appena avrò un lavoro e uno stipendio zio, ti
restituirò i soldi
che hai speso per i miei studi in accademia".
Ross
si oscurò. "Non è necessario".
"Lo
è, per la mia coscienza lo è. Odio avere debiti
nei tuoi
confronti". E così dicendo, con una carezza sui ricciolini
scuri di Valentine, Jeoffrey Charles se ne andò senza dare
tempo a
Ross di ribattere. E nessuno poté fare nulla per fermarlo.
Ross
si inginocchiò accanto a Valentine che ci era rimasto un
pò male.
"E' venuto a trovarti, devi essere contento di questo. E c'è
la
torta che vi aspetta, fra poco la taglieremo e festeggeremo tutte
queste femminucce che fra qualche anno vi faranno impazzire"
–
gli sussurrò, stringendolo a se.
Valentine
annuì, poco convinto, ma Jeremy da bravo fratello maggiore
capì che
come aveva fatto spesso in passato per i fratelli minori, doveva
intervenire anche se non ci stava capendo molto. "Dobbiamo
andare a consolare Catherine per la sua zitellaggine perenne. Ora sa
che è per sempre. Starà ancora piangendo in
qualche angolo del
giardino, lei si che ha un grosso problema, non tu".
A
quelle parole, Valentine tornò a sorridere come era giusto
che
fosse. "Magari posso consolarla. Magari le dico che sposo Emily
e tengo lei come fidanzata di scorta".
"Giuda"
– sbottò Demelza.
Clowance
sbuffò davanti a quei maschi che non capivano nulla e poi i
bimbi
corsero via, alla ricerca dei loro amichetti, il turbamento alle loro
spalle. I bambini sapevano riprendersi presto dalle sorprese e dai
turbamenti...
Rimasti
soli, Demelza si avvicinò a Ross, prendendolo a braccetto.
Percepiva
a pelle il suo scoramento e il suo dolore e anche se si era
ripromessa di rispettare e non chiedere nulla circa quel periodo
della sua vita con Elizabeth, forse era il caso che si aprissero a
vicenda il cuore, per quanto doloroso potesse essere. "Ross,
è
passato a salutare. E' un passo avanti, no?".
Lui
abbassò il capo. "Avevo promesso a Francis di prendermi cura
di
lui, nel caso...".
"E
lo hai fatto, pur in mezzo a mille difficoltà".
Lo
sguardo di Ross si riempì di amarezza e sentì il
bisogno di
riprendere in braccio Isabella-Rose per trovare in lei la cura al
gelo che lo aveva invaso. "No, non del tutto. Ha vissuto
l'inferno a causa mia e con lui, sua madre. Non sono molto fiero di
me stesso, quando ripenso a quel periodo".
Demelza
deglutì. "Fu così terribile? Fra voi, intendo?".
Lo
sguardo di Ross si perse nel parco circostante e alla festa che
continuava serenamente a svolgersi attorno a loro. "Sì, lo
fu... E Jeoffrey Charles ha assistito a liti violentissime, ha udito
parole che non dovevano essere dette e per fortuna c'era Agatha
allora, a proteggerlo in parte da tutto questo, da due adulti che non
riuscivano a far altro che ferirsi a vicenda e rinfacciarsi lo
sfacelo a cui eravano arrivati. Io poi me ne sono andato ma Elizabeth
è rimasta e lui l'ha vista sola ed incinta, a raccogliere i
cocci di
quello che io avevo distrutto". Sospirò. "E l'ha vista
morire, mentre metteva al mondo mio figlio. Mi odia, mi reputa
responsabile e io non so dire se davvero, lui non abbia ragione".
Demelza
chiuse gli occhi, cercando le parole giuste da dire. "Ross...
Non sei responsabile per la sua morte. Succede, a tante donne
purtroppo e sarebbe successo anche se il vostro fosse stato il
più
felice dei matrimoni. Dwight può confermartelo e darti dati
più
certi".
"Ma
ho rovinato la sua vita, assieme alla tua! Questo potrebbe avere
inciso..." - ribatté lui.
"No,
Ross succede e basta! Una donna lo mette in conto...". Con un
gesto gentile, Demelza lo fece sedere sulla panca. "Ross, lui
è
passato e come ho detto prima, abbiamo tutto il futuro per sistemare
le cose. Geoffrey Charles è...".
"E'?".
Lei
sorrise dolcemente, baciandolo sulla guancia. "E' un dannato,
testardo Poldark. Fisicamente simile a Francis ma di carattere,
orgoglioso come te! Testardo quanto te!".
Lui
si accigliò. "Che vuoi dire?".
"Che
è giovane, che è l'orgoglio che lo guida e che si
muove come ti
muovesti tu tanti anni fa!".
Incerto
su cosa intendesse, Ross la guardò con grande interesse. Lei
era
sempre stata capace di leggere dentro di lui e soprattutto a capirlo
e a consigliargli la strada giusta da seguire. Era più
giovane di
dieci anni ma infinitamente più saggia di quanto lui avrebbe
mai
potuto essere. "A cosa ti riferisci?".
Lei
annuì. "A quando sei tornato dalla guerra ed Elizabeth era
fidanzata con Francis. Non erano sposati e cosa ti impedì,
allora,
di abbassare la testa per lottare e riprendertela? L'orgoglio, solo
il tuo orgoglio ferito! E Geoffrey Charles è tale e quale a
te, al
Ross di allora. Crescerà e con infinita pazienza
capirà,
comprenderà e forse perdonerà. E' venuto
quì perché sa che siamo
la sua famiglia, l'unica che gli sia rimasta. Col muso lungo, come ha
detto Daisy, ma ha varcato le soglie di questa casa per venire da noi
e ti assicuro che la prima volta fa un pò paura questo
grande
palazzo, lo so bene... Non dobbiamo forzarlo, dobbiamo solo esserci e
fare in modo che lui lo capisca. Quando vorrà rivarcare
quella porta
o quella di Nampara, lo dovremo fare sentire il benvenuto.
Perché lo
è! E pian piano capirà che i grandi sbagliano,
che lo hai fatto tu
ma che lo ha fatto anche sua madre. Ed io. E lui... E quando
vorrà
ascoltarti, capirà e allora forse soffrirà per
sua madre ma
comprenderà che quell'inferno non lo hai costruito solo tu
ma lo
avete fatto insieme".
Ross
avvicinò il viso a quello di lei, quella donna da cui
dipendeva la
sua intera esistenza e senza la quale sarebbe stato morto. "Lo
sai che ti amo?".
"Lo
so...".
"E
lo sai chi mi ha migliorato, chi ha permesso che quel giovane e
testardo Ross diventasse l'uomo che hai davanti? Quello che ha dato
un calcio all'orgoglio e ha lottato come un matto per riaverti?".
"Chi?".
"Tu,
amore mio, solo tu". La baciò, sulle labbra, perdendosi nel
loro dolce sapore. "Mi hai perdonato, sei riuscita a farlo
nonostante fosse quasi impossibile farlo e forse davvero ci
vorrà
pazienza, forse davvero non è tutto perso con Geoffrey
Charles".
"Nulla
è mai perso Ross, se ci si da una seconda
possibilità. Noi ne siamo
un esempio, no?".
"Direi
di sì, amore mio".
"Mamma,
papà! C'è da tagliare la torta!!!".
La
voce squillante di Jeremy che li richiamava all'ordine, quel 'mamma e
papà' che alle orecchie di Ross rappresentava la sua
più grande
conquista, gli fecero tornare il sorriso e la voglia di combattere
per il suo futuro. Suo e quello della sua grandissima famiglia.
"Amore mio, andiamo?".
Lei
gli prese la mano che lui le porgeva mentre Isabella-Rose, fra le
braccia di Ross, emetteva dei simpatici vagiti. "Sì,
andiamo, è
davvero ora adesso...".
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