Russia sequel - Piombare nella realtà

di Sanae77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 01 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 02 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 03 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 04 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 05 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 06 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 07 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 08 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 09 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 01 ***


Bentornati!
Pronti per scoprire che cosa combineranno stavolta i nostri eroi?
E le mogli che fine avranno fatto o faranno?
I figli crescono e i problemi aumentano.
Vediamo come se la caveranno in questi otto lunghi anni.
Otto anni che li separano dal coming out ufficiale.

Come al solito un grazie speciale alle mie due betuzze Guiky e Mel.
Anche per sopportare e supportare i vari scleri in chat e non solo...
Vi adoro! 
Sanae77

PS= questa storia non può essere iniziata se prima non è stata letta Russia 2018 tra sogno e realtà






Maggio 2020


Era uscita di prima mattina per comprare il giornale.
Di comune accordo avevano informato i bambini che si sarebbero separati e che avrebbero abitato in case distinte, questo era successo due mesi prima della dichiarazione ufficiale.
Dopotutto era già un anno e mezzo che vivevano da separati in casa ed era corretto che almeno questo tassello trovasse la giusta collocazione. Non era pensabile continuare a ingannare così i bambini. I gemelli più volte avevano chiesto perché spesso non riuscivano a fare le cose tutti e quattro insieme. Quindi, subissati dalle domande, una sera avevano ceduto e, scambiandosi uno sguardo di approvazione, avevano imbastito il discorso concordato da tempo.
Daibu aveva smesso di mangiare, le posate gli erano cadute dalle mani e avevano prodotto uno strano suono sul piatto di porcellana.
Sanae aveva avuto la sensazione che si fosse lacerato qualcosa tra loro, genitori e figli. Il rumore fastidioso delle posate cadute al bambino aveva reso perfettamente l’idea, il senso di rottura era stato ovunque.
Lo sguardo smarrito di Hayate che aveva osservato il gemello alzarsi e correre via con lacrime silenziose che gli avevano rigato il volto, Sanae non l’avrebbe mai più scordato. Di riflesso Hayate si era alzato di scatto, facendo cadere la sedia, e aveva seguito il fratello in cameretta; dove il suono secco della porta che si chiudeva aveva rimbombato per tutta la casa, separandoli dal mondo esterno.
Tsubasa l’aveva guardata preoccupato, lei invece si era alzata e, asciugandosi le mani con un gesto nervoso al canovaccio sul lavello, aveva iniziato a riporre i piatti nella lavastoviglie.
Aveva osservato il capitano passarsi una mano tremante sulla nuca e lo aveva visto alzarsi per raggiungere i bambini. Sanae lo aveva stoppato subito dicendo: “lascia loro il tempo di digerire la notizia.”
“Non sarà peggio così?”

E quella frase l’aveva fatta incazzare.
Sì, incazzare.
Forse come non si era mai incazzata fino a quel momento.

“Non sarà peggio cosa, eh? Spiegami: cosa ti aspettavi? Che ti saltassero in braccio sprizzanti gioia? – Il canovaccio era stato lanciato con stizza dentro l’acquaio e l’indice inquisitore era andato su e giù di fronte al naso del fantasista – sottovaluti sempre ogni situazione, Tsubasa, certe volte non sembra neppure che tu ti renda conto delle conseguenze. Come quando sei partito per il Brasile o quando mi hai trascinata in un paese straniero lontano da tutti. Certo, non rimpiango nulla del passato, ti ho amato tanto, ma il tuo sottovalutare le situazioni spesso mi lascia senza parole. Hanno undici anni, cosa ti aspettavi? La solidarietà maschile e una pacca sulla spalla? Svegliati, Ozora!”

Era uscita dalla cucina per andare nella veranda. Aveva smaltito la rabbia e la frustrazione ninnandosi sulla sedia a dondolo dove per tanti mesi aveva allattato i suoi figli.
Involontariamente una lacrima era scesa sulla guancia sinistra ed era caduta sulla maglietta celeste, lasciando il segno. I passi dell’ex marito che si avvicinava l’avevano portata frettolosamente ad asciugarsi, con il dorso della mano, le altre lacrime che di lì a poco, era stata certa, sarebbero uscite.
Tsubasa le aveva posato la mano sulla spalla, stringendola in segno di scuse. Scuse che non erano tardate ad arrivare: “Perdonami per quello che ti sto facendo passare, davvero non era mia intenzione, Sanae… Scusami se spesso sottovaluto le cose. Scusami per averti rovinato la vita.”

Lei aveva sollevato la mano e l’aveva adagiata sopra quella dell’ex compagno, ricambiando la stretta. Voleva fargli capire che accettava le sue scuse e allo stesso tempo che era pronta ad andare avanti.
“Azumi si vede con un uomo…” aveva esordito improvvisamente dopo qualche istante di silenzio. Non aveva chiaro neppure lei il motivo di quella piccola confessione.

Rivalsa?
Speranza di una qualche recondita gelosia latente?
Sondare il terreno in vista del futuro?
Ma davvero, poi, lei era pronta per andare oltre?


Mentalmente aveva immaginato la sua testa che negava in segno di disapprovazione. Stimava Azumi per essere riuscita a voltare pagina e ritrovare un briciolo di felicità e qualcuno che l’amasse. Lei no. Lei per il momento non ci riusciva. La sua storia con il capitano era talmente preistorica che non riusciva a scindersi da lui. Non riusciva a trovare un fottuto momento, un ricordo dove lui non fosse presente. Le serviva ancora del tempo, non aveva idea di quanto ma quello passato evidentemente non era sufficiente. Forse, se avessero smesso di convivere, sarebbe stato più facile. E sull’ultimo pensiero il capitano aveva risposto: “lo so. Taro lo ha visto insieme ad Azumi alla scuola di Desirée.”
“E come l’ha presa? Insomma, essendo il procuratore di Misaki non credo che ne abbia gioito, no?” era stata troppo curiosa di capire come aveva reagito il numero undici. Azumi le aveva detto che non aveva battuto ciglio, anzi le aveva sorriso compiaciuto. Nonostante il nuovo lui fosse persona ben nota all’altra metà della Golden.
“Era contento. Contento per Azumi. Sarei contento anch’io, Sanae, se un domani tu trovassi qualcuno che ti renda felice.” La mano era tornata a stringere la spalla per poi allentare la pressione improvvisamente, sfuggire da sotto le sue dita e indietreggiare dalla sedia a dondolo. Il pavimento di legno aveva scricchiolato sotto il peso del capitano che si allontanava e chiudeva la porta di casa alle sue spalle.

L’aveva lasciata così senza aggiungere altro. Lei aveva continuato a ninnarsi sulla sedia per il resto del tempo non riuscendo a pensare a nulla. Era così che i figli l’avevano trovata un’ora dopo. Figli che l’avevano travolta, abbracciandola e piangendo ogni lacrima possibile.
E le sue braccia, come al solito, si erano aperte per accogliere l’infelicità dei bambini e farla sua.
Di una cosa era stata certa: Tsubasa in questo non si sarebbe mai tirato indietro. Per i bambini ci sarebbe sempre stato. Non sarebbe stato certo eletto marito dell’anno, ma padre sì.
 
 
 
Sanae fissò il giornale sul tavolo della cucina prima di decidersi ad afferrarlo e sfogliare la ruvida carta fino alla pagina indicata in copertina. Vedere il titolo fu una pugnalata diretta allo stomaco, per quanto fosse preparata e in accordo con il capitano. Messo nero su bianco faceva tutto un altro effetto. Senza pensare che in serata si sarebbero recati dal loro avvocato per sottoscrivere le prime carte della separazione consensuale. Di comune accordo avrebbero firmato di fronte al giudice. Fissò la mano tremare senza alcun controllo. Quindi la posò sul tavolo con il palmo aperto, un alone si formò tutto intorno da tanto che era fredda e sudata al tempo stesso.
Scosse la testa per non pensare ad altro e tentò di concentrarsi sull’articolo.
 

Terremoto in casa Ozora
 
Apprendiamo, con grande dispiacere, che anche il fantasista nipponico ha scelto di seguire le orme della sua metà in campo separandosi dalla moglie.

Oggi, in una conferenza ufficiale, il capitano della nazionale Giapponese ne dà l’annuncio.
Due anni fa era toccato al compagno in campo, Misaki Taro.

Continua…
 
Il telefono di casa prese a squillare con insistenza. Sanae osservò l’apparecchio sollevando un sopracciglio, lo usavano solo per via della wi-fi, quindi le sembrò strano che trillasse quello invece del cellulare. Oltretutto erano in pochissimi ad avere quel numero riservatissimo; altrimenti sarebbero stati investiti dalle telefonate dei fans di Tsubasa.
Alzandosi lo raggiunse e rispose: “Pronto?”
“Sanae, ciao sto cercando Tsubasa, ma al cellulare non risponde.”
“Ciao, Genzo. Ha portato i gemelli all’allenamento, molto probabilmente negli spogliatoi non c’è linea.”
“Sanae…”
“Dimmi.”
“Ho letto il giornale, che diavolo state combinando?”
Sanae si accomodò con il cordless sul divano, prendendo un lungo respiro.
“Ci stiamo separando, Genzo.”
“Questo l’avevo capito, mi chiedevo il perché.”
“Senti, forse è meglio che ne parli con Tsubasa. Ci sentiamo, Genzo, scusami.”
E aveva attaccato. Proprio non ce la faceva a spiegare quello che stava accadendo.
Genzo fissò sbalordito il cellulare che segnava la fine della comunicazione.
Doveva essere proprio una situazione difficile per Sanae se si era comportata così.
 
 
Fissò il palazzo pensieroso. Avevano lasciato i gemelli dalla madre di Pinto e con Sanae avevano raggiunto lo stabile dove il giudice li attendeva per la firma.
In silenzio assoluto avevano attraversato il grande atrio e preso il primo ascensore. Le décolleté eleganti e sobrie della sua, a breve, ex-moglie segnavano passi cadenzati e sicuri sul pavimento di marmo. Un rumore ritmico che lo accompagnò fino alle porte dell’ascensore per poi cessare una volta che vi furono di fronte. Sembrava quasi una rassicurante nenia, una ninnananna capace di scacciare ogni incubo. Perché quella firma, su quella carta, avrebbe davvero rappresentato la fine di tutto. E a lui comunque sembrava impossibile che la sua storia con Sanae potesse davvero finire.

L’aveva sempre amata, no?

Entrarono in ascensore dopo che Tsubasa con un gesto d’invito le aveva fatto strada. Una volta dentro e premuto il pulsante, l’ascensore iniziò a muoversi lentamente verso il trentesimo piano.
Sane era nervosa. Lo aveva capito quando era scesa da casa e, una volta salita in auto, era stata incapace di allacciarsi la cintura da tanto che le mani tremavano. Afferrandola saldamente l’aveva aiutata. Il viso tirato e triste si era sollevato leggermente e le labbra si erano mosse bisbigliando un ‘grazie’. Il capitano aveva accennato un mezzo sorriso e aveva messo in moto l’auto.
E lo era ancora, nervosa. Le dita non facevano altro che contorcere la borsa che teneva saldamente tra le mani incrociate sulle gambe.
Continuava a fissarla.
Sanae, sguardo a terra, aveva un’espressione indecifrabile; la frangetta e i capelli a lato del viso scendevano delicatamente quasi a nasconderla del tutto.
Tsubasa continuava a fissarla, nella speranza di un dubbio, uno qualsiasi, che avesse potuto interrompere quel processo oramai avviato.

L’aveva sempre amata, no?

La domanda tornò ancora a vagare nella mente senza risposta. Tentò di ripescare i sentimenti provati fin da giovane, ma quando alzò lo sguardo e lo specchio gli restituì la propria immagine un ricordo s’impossessò delle sue memorie: lui e Taro in ascensore la sera prima della finale.
Il cuore accelerò il ritmo quando gli occhi ciechi del presente tornarono a due anni fa. Lo portarono all’ascensore prima e alla porta della loro camera dopo. L’espressione di Taro che, con lo sguardo al cielo, tentava di giustificarsi per le vacanze estive e lui che con un bacio gli sigillava le labbra in un susseguirsi di eventi che li aveva visti protagonisti della loro prima volta. Tutto gli esplose nella testa come un fuoco d’artificio.
Il respiro si fece più veloce nel rivivere il ricordo.
“Non temere, tra poco sarà tutto finito.” La voce piatta di Sanae lo riportò a terra istantaneamente. Come se al razzo pronto al decollo avessero tolto il carburante per partire.
“Come scusa?” chiese, fissandola di nuovo.
E quando Sanae lo guardò, sorridendogli, si sentì una perfetta merda per non essere riuscito neppure per un secondo a pensare a loro e agli anni trascorsi insieme.

No, Sanae non si meritava questo!
Sì, quella era la strada giusta!

Firmare quelle carte era diventato suo dovere per liberarla da un fardello grande come un castello e da un marito ingrato nei suoi confronti.
Tsubasa allungò la mano e le sfiorò la guancia. Sanae restò immobile per quel tocco inaspettato. Il pollice del capitano le sfiorò lo zigomo con un gesto di affetto.
“Perdonami, non ti merito.”
Il suono dell’ascensore interruppe ogni contatto, spezzando l’incanto e facendoli piombare nella realtà.
E se lei, in un primo momento, aveva quasi creduto a un qualsiasi ripensamento quelle parole misero fine a ogni speranza nascosta anche nel più profondo.
 
Le carte sul tavolo erano già pronte da tempo. I coniugi Ozora arrivarono di fronte al giudice e, dopo essersi salutati, si accomodarono al tavolo. L’avvocato prese a leggere i documenti che oramai conoscevano a memoria.
Il tempo sembrava non scorrere mai, non vedeva l’ora di uscire da lì.
Passandosi nervosamente una mano sui capelli continuò a fissare Sanae.
Lo sguardo della donna era saldo oltre la vetrata del grande studio al trentesimo piano. Le ciglia si muovevano lente a intervalli regolari, adagiandosi per brevi attimi sugli zigomi. La lettura obbligatoria dell’avvocato non riuscì minimamente a distrarlo da quel momento.
Momento che stava vivendo a rallentatore. Un leggero luccichio attirò la sua attenzione quando brillò sulla guancia di Sanae. Una lacrima cadde, infrangendosi sul tavolo di cristallo del famoso studio legale.
Era tutto così strano, rallentato, i rumori lontani e ovattati. Vide la donna allungare le braccia, afferrare i fogli e portarli di fronte a sé. La mano impugnò la penna rigirandola svariate volte tra le dita. Prima di apporre la firma si voltò un’ultima volta verso suo marito.

Che stesse cercando un ultimo gesto di ripensamento?

Ma quando vide l’uomo, con il quale aveva condiviso la sua vita fino ad allora, abbassare lo sguardo, la mano smise di tremare e sicura appose la firma che avrebbe per sempre cambiato la loro vita.
Le pareva impossibile che tutto potesse ridursi a un pezzo di carta. Come se i sentimenti, i figli, le difficoltà, potessero cancellarsi in un solo istante.
 
Si riscosse quando vide l’avvocato allungare i documenti verso di lui. Tsubasa scorse che Sanae aveva già firmato e che ora toccava a lui mettere fine a quella condizione. Avevano sbagliato forse a trascinare così a lungo la situazione, forse avrebbero dovuto fare come i coniugi Misaki che avevano immediatamente tagliato tutti i ponti.
Infatti Azumi era riuscita a conoscere qualcuno e andare avanti, mentre Sanae era rimasta prigioniera nel limbo della finta convivenza pacifica, per via dei figli.

Sì, era durata anche troppo!

Firmò, con la stessa sicurezza di quando entrava in campo con la certezza di segnare il goal della vittoria.
Una volta finito, un improvviso sollievo lo investì dalla testa ai piedi. Si sentiva meno ‘sporco’ e più onesto nei confronti della sua ex moglie.
Scosse la testa pensando a quanto la mente spesse volte potesse essere tanto meravigliosa quanto sadica.
Trasformare moglie in ex moglie era stato un guizzo improvviso, una sinapsi che inaspettatamente si era risvegliata piazzando lì quel suffisso finora inutilizzato.
Ma che da lì in avanti avrebbe avuto un significato importante.
Il viaggio di ritorno, in rigoroso silenzio, era svuotato della vecchia tensione accumulata all’andata.
Non c’era più nervosismo nell’aria.
Quando Tsubasa si fermò per farla scendere, Sanae si voltò e sorridendo tristemente chiese: “Pensi di fermarti per cena?”
“Ti ringrazio, ma più tardi passo a prendere i bambini per portarli all’allenamento, ora devo sistemare altre faccende.”
“Credo… credo che qualche volta comunque dovremmo continuare a fare qualcosa tutti e quattro insieme, no?”
“Sanae… - lei sollevò la testa fissandolo – lo fai per i bambini o per te stessa?”
Lei sbuffò voltandosi dall’altro lato. Avrebbe dovuto porla anche a sé stessa quella domanda francamente. Mossa dalla solita onestà che l’aveva sempre contraddistinta ammise un: “Non lo so.”
L’uomo le sorrise comprensivo, ma comunque deciso a non concedere possibili illusioni.
“Facciamo così, se i bambini lo chiederanno noi li accontenteremo, ok?”
“Ok!”
 
Il telefono di Tsubasa prese a squillare, lo sollevò dal portaoggetti dell’auto e ne osservò il display.
Il nome di Genzo lampeggiava a intermittenza.
“È Wakabayashi!” esclamò sorpreso.
“Ah, già, aveva chiamato a casa. Scusa, ho scordato di dirtelo.”
“Figurati, non fa nulla. Ci sentiamo più tardi. Ciao.”
 
Quando fu sicuro che avesse chiuso la porta, premette la cornetta verde e la voce del portiere lo investì come una furia.
“Ozora, che cazzo state combinando tu e Anego?”
“Buongiorno anche a te, Genzo!”
“Che diavolo vi siete messi in testa, eh?”
“Senti… – tergiversò, non poteva certo spiegargli tutto per telefono – Quando hai i prossimi giorni liberi?”
“In che senso?”
“Nel senso che ci vediamo, ci scoliamo una birra e facciamo due chiacchiere, che ne dici?”
“Dico che sia proprio il caso. Perfetto, dopodomani sono da te.”
“Bene, portiere, ti aspetto!”
Tsubasa chiuse la chiamata smorzando un sorriso. A Genzo non potevano più nascondere il tutto, di questo era certo.
In serata avrebbe avvisato Misaki. Era proprio curioso di vedere la sua reazione. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 02 ***


Maggio 2020
 
Seduto in aereo continuava a fissare il display del cellulare che riportava quello strano indirizzo.
Che Ozora avesse cambiato casa?
Continuava a osservarlo incredulo come se fosse la prima prova tangibile che l’articolo sul giornale fosse la verità e non una bufala come spesso accadeva. I giornali dopotutto erano sempre alla ricerca di scoop e non si facevano scrupoli nel pubblicare false notizie o mezze verità.

Anche se sui suoi compagni di squadra era sempre uscito ben poco. Per quello, quando aveva visto la notizia di Misaki prima e Ozora dopo, aveva capito che non erano bufale.
Si era molto dispiaciuto per Taro, ne avevano parlato tanto al telefono e comprendendo che il compagno non provava più amore per la moglie, aveva capito la sua posizione rispettandola.
Alla domanda se ci fosse stata un’altra donna, aveva negato, aggiungendo però che un domani gli avrebbe spiegato tutto di persona.

Mentre quello che non si era aspettato, e che era stato un fulmine a ciel sereno, era l’annuncio di Tsubasa.
Incredibile che lui e Anego arrivassero alla separazione dopo tanti anni, dopo che il capitano non aveva aspettato altro che la maggiore età per sposarla e portarsela via. Ognuno di loro era consapevole della coppia e della loro profonda unione fin dalla tenera infanzia; per quello era rimasto turbato dalla notizia.

Sbuffò piegando il giornale e riponendolo nello zaino. Voltandosi verso il finestrino capì che di lì a poco sarebbero atterrati.
Mentre compariva l’insegna luminosa delle cinture allacciate si ricordò dell’ultimo dell’anno festeggiato pochi mesi prima a Nankatsu. Si erano ritrovati tutti alla sua villa e in quell’occasione aveva pensato che i coniugi Ozora fossero meno affiatati del solito.
Sanae era sempre impegnata tra la cucina e le ragazze. Non li aveva visti una sola volta vicini o intenti a scambiarsi un semplice gesto di affetto.
Non che in pubblico avessero mai fatto scintille, timidi com’erano: era ovvio che in tutti quegli anni non li avesse mai visti in effusioni palesi; ma da lì a non scambiarsi neppure gli auguri ce ne passava.

Aveva dato la colpa al fatto che Misaki, per la prima volta, fosse senza Azumi e per non mettere in difficoltà il compagno, magari Tsubasa aveva pensato bene di non infierire mostrandosi con la moglie.
Toccandosi il mento ripensò a quella serata. Per quanto le immagini si susseguissero nella sua testa non ricordava una singola volta dove la Golden Combi non fosse stata insieme. Inseparabili, come in campo.
Erano anche usciti con i gemelli per fare due tiri nonostante il completo elegante, e stranamente Sanae non aveva avuto nulla da protestare.

Di quella sera ricordava il brindisi che Tsubasa aveva scambiato prima con Taro e solo dopo con Sanae.
Genzo per l’occasione aveva inarcato un sopracciglio perplesso, ma essendo vicino alla Golden Combi e sentendo il brindisi non aveva avuto dubbi… visto che i due fissati brindavano in onore del calcio.
Solo dopo Sanae aveva raggiunto il marito con i gemelli e avevano brindato all’anno nuovo tutti insieme, avevano scambiato gesti d’affetto con i bambini, ma non tra di loro.
Sì, gli era sembrato strano.
Poi il capitano era nuovamente tornato verso Taro, avevano parlottato un attimo e quando si era voltato i due erano spariti.
Non ci aveva fatto caso fino al quel momento. Magari Taro aveva avuto bisogno di un confronto vista la situazione con Azumi, aveva pensato lì per lì.
 

Il rollare dei motori lo riportò alla realtà, poco prima che le ruote toccassero il suolo spagnolo.
Uscito dal gate intravide subito Tsubasa ad attenderlo e, recuperato il trolley, lo raggiunse con passi veloci; non vedeva l’ora di chiarire tutta questa faccenda.
Aveva intuito che ci fosse dietro altro, ma non si capacitava di cosa.
“Benarrivato!” esclamò il capitano abbracciandolo e regalandogli un paio di pacche sulla spalla.
“Ozora, che combini…” scherzò Wakabayashi scompigliandogli i capelli con fare affettuoso.
Il capitano si guardò intorno pensieroso prima di esclamare: “Non qua, arrivati a casa ti spiego tutto.”
“Sta bene.” Annuì seguendolo verso l’auto.
 

Tra le mura di casa Taro girellava nervoso. Quando il giorno precedente Tsubasa gli aveva mandato quel messaggio, lui si era quasi strozzato con la borraccia dalla quale stava bevendo in partita. Il mister aveva concesso loro cinque minuti di riposo e lui ne aveva approfittato per bere e per guardare il cellulare. Forse sarebbe stato meglio controllarlo dopo.
Tanto era rimasto scioccato e strozzato, che i compagni erano venuti in soccorso con laute pacche dietro le spalle.
Aveva bofonchiato dei grazie in serie e aveva benedetto il mezzo soffocamento, per il color porpora di cui il viso si era ricoperto. E il colore non era dovuto solo a quello. Fare coming out con qualcuno lo metteva in imbarazzo. Tanto. Solo quando aveva raggiunto gli spogliatoi ed era riuscito a rispondere al capitano si era tranquillizzato. A Wakabayashi potevano dirlo senza alcun problema, avrebbe capito, dopo un primo attimo di smarrimento era sicuro che li avrebbe perculati a vita.
Sorrise arrivando alla vetrata; appoggiandovi la fronte, lo sbuffo fuoriuscito dalle labbra appannò il vetro offuscandone la vista.
Si sentiva esattamente in quella maniera, un osservatore ignaro su un futuro annebbiato e incerto.
Nonostante fossero nel 2020, l’omofobia e le discriminazioni erano all’ordine del giorno, e la preoccupazione non era tanto per loro o per la carriera.
Gli amici avrebbero capito e accettato, forse anche il mister, dopotutto non avevano mai parlato di certi argomenti. In ritiro era contemplato solo parlare di calcio. La prima volta che avevano fatto un’eccezione era stata quando Tsubasa aveva avuto problemi di sonno ai mondiali del 2018. Solo in quel caso il mister aveva indagato marginalmente sulle incertezze esterne alla squadra.
L’incognita maggiore gravava proprio sui loro figli e il possibile bullismo che avrebbero potuto subire; questa era l’unica cosa che davvero li preoccupava.
 
 
Parcheggiò l’auto nel sotterraneo e poi presero l’ascensore privato. Quando Genzo vide il capitano inserire la chiave per accedere al pulsante riservato all’attico sollevò un sopracciglio, perplesso.
“Ci trattiamo bene, Ozora, eh?” esordì, osservandolo incuriosito. Il capitano sembrava nervoso, come forse non lo aveva mai visto neppure in campo.
“Diciamo che ho bisogno della mia privacy” chiarì, passandosi una mano tra i capelli.
Il portiere avvertì la tensione dell’amico crescere man mano che i piani si avvicinavano all’attico. Tsubasa non faceva altro che picchiettare un piede a terra e spostare il peso da una gamba all’altra, alternandole.
Quando la porta si aprì, il Capitano lo invitò con un braccio ad accomodarsi nell’appartamento. Lui aveva già visto la sagoma di Taro, in controluce, alla vetrata della sala, che istintivamente si era voltato avvertendo il rumore dell’ascensore.
Genzo lì per lì non ci fece caso, immaginando che Tsubasa fosse da solo, ma si riscosse quando Taro lo accolse calorosamente.
“Ciao, portiere!” Esclamò l’amico, andandogli incontro.
Mentre le porte si richiudevano alle spalle di Ozora, Genzo restò immobile sull’ingresso incapace di muovere un altro passo.
No. Misaki proprio non ce lo faceva.
Dopo alcuni secondi, si riscosse allungando la mano per prendere quella che il compagno gli stava offrendo. Afferrandola saldamente ricambiò il saluto per poi tentare di soddisfare la sua curiosità: “Beh, tu che ci fai qua? E una riunione clandestina di scapoli?”
Taro inclinò la testa sorridendo apertamente; era inutile trascinarla per le lunghe, non avevano ben stabilito come dovesse avvenire la confessione, quindi decise d’improvvisare: “Ci abito, qua.” Con la pacatezza e naturalezza che lo avevano sempre contraddistinto nel dare le notizie riuscì a spiazzare il portiere facendolo ammutolire.
Lo sguardo perso di Wakabayashi non sfuggì a Ozora che, afferrando il trolley dell’amico, decise di fargli strada nella stanza degli ospiti.
“Vieni, ti faccio vedere la tua camera.” Il capitano lo superò indicando la via.
Imboccato il corridoio della zona notte, Genzo iniziò a guardarsi intorno; superata la camera matrimoniale e il bagno arrivarono in una cameretta con un letto a castello e un letto a una piazza e mezzo.
“Sistemati dove meglio credi” lo informò Taro dopo avergli consegnato una pila di asciugamani.
“E la tua roba dov’è?” chiese ancora perplesso il portiere.
“Nella camera matrimoniale, insieme a Tsubasa.” Rispose tranquillo, capiva perfettamente che l’amico non riusciva a collegare tutti i puntini.
“Dormite insieme?”
Fu il capitano a prendere in mano la situazione, non si poteva continuare in eterno quel discorso senza alcun senso. Quindi afferrò il portiere per le spalle e lo fissò attentamente, una mano però si staccò dalla spalla e percorse tutta la testa, nel classico gesto che fin da piccolo lo aveva contraddistinto per la sua timidezza.
“Ascolta, Genzo, Taro abita qua con me e… dormiamo insieme, ok?”
Lasciò andare anche l’altra spalla e fece un passo indietro, affiancando la sua metà in campo e non solo. E lo sguardo di Wakabayashi che rimbalzava da un volto all’altro non se lo sarebbero mai più dimenticato per nulla al mondo.
No.
Era troppo bello vederlo smarrito e confuso per una volta nella vita. Lui, ragazzo tutto d’un pezzo prima e uomo affermato dopo, un’espressione così era da registrare negli annali; peccato che non ci avessero pensato, confusi com’erano dal coming out.
Ed era avvenuto, nel modo più semplice possibile e anche con una punta di ironia.
Genzo fece qualche passo indietro prima di sedersi sul letto. Aveva bisogno di un sostegno solido. Molto solido.
“Quindi è questa – disse indicando con le dita a turno la coppia – la motivazione dei vostri divorzi? State insieme?” si alzò di scatto e iniziò a girovagare per la stanza in uno sproloquio comprensibile.
“Cioè, non siete coppia solo sul campo, ma anche nella vita privata e anche… a letto?” lo sguardo smarrito del portiere non aveva prezzo.
“Già” ammise Taro, appoggiando un gomito sulla spalla del compagno. Tsubasa, con le braccia conserte, si stava guastando lo spettacolo.
“Non posso crederci che anche voi siate una coppia. Dopo Mamoru e Yuzo, non credevo che nella squadra potessero essercene altri…”
Il capitano si agitò sul posto, facendo un passo avanti e lasciando Taro senza sostegno, tanto che rischiò di cadere.
“Come: Mamoru e Yuzo?” indagò Ozora con occhi sgranati.
“Cazzo, ho parlato troppo!” esclamò il portiere, maledicendosi mentalmente e portando una mano alla bocca; aveva promesso alla coppia che non ne avrebbe mai fatto parola con nessuno. Restare in silenzio dopo una scoperta del genere, però, era praticamente impossibile. Gli era venuta proprio dal profondo quella risposta e senza volerlo.

Taro si sporse da sopra la spalla del capitano sulla quale aveva trovato nuovamente sostegno dopo che il compagno si era mosso con troppa fretta. E quel sostegno gli aveva evitato non solo di cadere ma anche di assimilare la notizia.
Genzo li guardò stranito. Che cosa doveva fare? Oramai si era sputtanato e tentare di negare sarebbe stato totalmente inutile.
Taro, poi, aveva un’espressione così stupita che lo fece sorridere. E bastò soltanto quell’accenno di piegamento delle labbra per far esplodere il terzetto in una risata liberatoria.
Risata che si protrasse a tavola di fronte a un’ottima birra e del cibo preparato da Misaki.
“Quindi, spiegatemi bene: tutto è partito dalla tua mancanza di sonno?” chiese, indicando il capitano con la mano.
“Sì, quegli incubi mi hanno aperto ad altri ragionamenti e punti di vista che non avevo mai preso in considerazione.”
“È incredibile quanto l’inconscio possa lavorare anche se non ce ne rendiamo conto…” affermò il portiere, ascoltando interessato tutto il racconto di cui gli amici lo stavano portando a conoscenza.
“E alla fine, quando Tsubasa ha confessato il motivo dei suoi incubi… ecco, lì mi sono incazzato come una bestia…” ammise Taro guardando storto il compagno. Ogni volta che ci ripensava provava un misto di emozioni. Rabbia, stupore e amore allo stesso tempo. E il vuoto nello stomaco, seguito dalle successive farfalle, si ripresentava tutte le volte che il ricordo tornava vivo nella sua mente. Come lo sguardo deciso con cui Ozora gli aveva confessato di essere lui la fonte dei suoi incubi. Quello sguardo era marchiato a fuoco nei suoi ricordi.
“Incazzato? E come mai?” indagò Genzo, spostando lo sguardo dall’uno all’altro e afferrando un altro pezzo di cibo.
“Perché Taro è sempre stato innamorato di me fin dall’adolescenza e non me lo ha mai detto.” Puntualizzò il capitano incrociando le braccia al petto.
Era evidente che quella ‘scaramuccia’ ancora non gli era andata giù.
Il boccone al portiere stavolta andò di traverso, com’era prevedibile. Taro sollevò un sopracciglio sfidando il compagno, mentre assestava due pacche sonore dietro le scapole di Genzo affinché non morisse lì.
“Hai intenzione di litigare, capitano?” domandò con tono sarcastico dopo aver scongiurato il soffocamento del portiere numero uno al mondo. In tanti gliene sarebbero stati grati.
Wakabayashi si alzò in piedi e tese i palmi delle mani in avanti a mo’ di difesa.
“Ehi, ehi piccioncini, non ho intenzione di entrare nelle vostre beghe eh, sono già abbastanza sconvolto così, grazie.”
“Giusto, – replicò Tsubasa sciogliendo le braccia e assumendo una posizione più rilassata – quindi adesso illuminaci su Izawa e Morisaki.”
“Oh, sì, vogliamo sapere tutto. Visto che nessuno si era accorto di nulla. Da quanto va avanti la loro storia?”

Il portiere si lasciò cadere sulla sedia, arreso. Per la seconda volta si era messo nei pasticci da solo. Guardò i due amici sorridendo. Il sorriso però si tramutò da socievole a subdolo.
Mica pensavano di metterlo all’angolo così, vero?
“Mh, ma prima una domanda.”
“Chiedi pure” rispose Ozora nell’ingenuità più totale che lo aveva sempre contraddistinto.
“Quindi posso dedurre dalle vostre prestazioni in campo che il sesso pre-partita non faccia che bene vero?” il tono candido risaltò in contrasto con lo sguardo infimo con cui gli si era rivolto.
E Tsubasa aveva scelto un pessimo momento per bere la sua birra, visto che l’intero contenuto investì in pieno Misaki bagnandolo come un pulcino.
Wakabayashi esplose in una risata senza ritegno osservando la scena ilare che si stava consumando di fronte ai suoi occhi. Tsubasa così rosso in volto non lo aveva mai visto. Neppure Taro così furente gli era mai capitato. Solitamente Misaki era la calma fatta persona e scoprire questo suo piccolo lato nascosto lo inorgoglì: solo lui era capace di questo. Tirare fuori il peggio dalle persone era la sua specialità, ricordò con orgoglio le volte che aveva fatto incazzare Anego prima e Kojiro dopo.
Ma Taro non era Tsubasa.
No, decisamente non lo era.
E dopo un attimo di smarrimento decise di ricambiare con la stessa moneta il portierone, e se Ozora fosse arrossito ancora di più poco gli importava, adorava vederlo in imbarazzo: era così eccitante.
“Temo che avrò bisogno di una doccia, mi accompagni…” il tono suadente e sensuale adottato ebbe l’effetto sperato.
Tsubasa assunse una colorazione porpora, mentre Genzo si alzò di scatto quasi gridando: “Io queste cose non le voglio né sentire, né sapere.”
“Paura, eh!” esclamò il numero undici prima di scomparire ridendo.
Quel coming out si era svolto nel migliore dei modi, ma dopotutto su Genzo, i due amanti, non avevano avuto alcun dubbio.
Era un loro amico e sempre lo sarebbe rimasto, qualsiasi scelta avessero fatto nella loro vita.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 03 ***


Maggio 2020

 
Non sapeva se aveva fatto bene a passare anche da Sanae ma in quelle poche ore di tempo che aveva prima di tornare ad Amburgo decise di farle una visita.
Titubante per il comportamento telefonico della donna, di pochi giorni prima, si convinse comunque a premere il pulsante del campanello, sicuro che in casa fosse sola, visto che i gemelli erano andati all’allenamento con Tsubasa.
Taro invece era rientrato a Parigi per impegni con la squadra.
Pochi istanti dopo aver suonato, una voce femminile chiese in spagnolo chi fosse.
“Il tuo portiere preferito!” esclamò allegro Wakabayashi, cercando di stemperare la vecchia tensione avvertita al telefono.
“Genzo! Ma che sorpresa, entra.”
Il suono metallico del cancello che si apriva non tardò ad arrivare, e dopo averlo superato intravide la figura di Anego in attesa sulla porta.
Aveva percorso talmente tante volte quel vialetto che ebbe una strana sensazione nel constatare che, una volta varcata la soglia, non avrebbe trovato il capitano ad accoglierlo come suo solito.
Appena arrivato sull’entrata Sanae l’accolse con un leggero inchino, ma quello era un giorno speciale e Genzo, contravvenendo a ogni regola del loro paese, l’abbracciò stretta.
E quell’abbraccio improvviso e caloroso, Sanae proprio non se l’era aspettato. Era da tanto tempo che un adulto non l’abbracciava così. Certo, aveva l’affetto dei suoi figli, ma sentiva la mancanza di una spalla forte su cui piangere.
Piangere quelle lacrime a dirotto che ancora non aveva versato, piangere il fallimento di un matrimonio, piangere un amore perduto per sempre.
E finalmente adesso poteva farlo; colta alla sprovvista, i suoi nervi cedettero nell’istante stesso in cui Genzo l’abbracciò, scaldandole il cuore ferito.
Lasciandosi cullare indietreggiò leggermente affinché l’uomo potesse chiudere la porta. E lo fece con il piede, provocando un leggero tonfo sordo. Restarono così sull’ingresso fintanto che le lacrime non cessarono.
E ne erano scese molte, tanto da bagnare la maglia che il portiere indossava.
“Scusa” mormorò la donna ancora incapace di discostarsi dal petto di Genzo.
“Ehi, va tutto bene, Sanae. Tutto bene.” Il tono rassicurante parve calmarla per un istante mentre una mano, troppo grande per la sua piccola testa, la stava lisciando lentamente, in un gesto ritmico, cadenzato e rassicurante.
L’altra mano, dietro le scapole, la teneva ferma con decisione mostrando la presenza importante e solidale che il portiere voleva trasmetterle.
E ci stava arrivando, visto che dopo tanto tempo era finalmente riuscita a piangere come non era avvenuto prima.
“Il capitano mi ha spiegato tutto” la rassicurò Wakabayashi.
“Tutto fino a che punto?” chiese, alzando la testa verso il suo interlocutore dopo aver passato le dita su entrambi gli occhi per togliere le ultime lacrime residue.
“C’era anche Taro a casa con Tsubasa.”
Sanae annuì, tornando a nascondere il visto nella maglia bagnata.
Una volta che avvertì il placarsi dei sussulti, Genzo la discostò da sé afferrandole le spalle e dandole un’affettuosa scrollata.
“Ti preparo un tè” propose il portiere, dirigendosi verso la cucina.
Sanae lo seguì prima con lo sguardo e solo dopo con il corpo.
“Dovrebbe essere la padrona di casa a offrire qualcosa al suo ospite, non trovi?”
Wakabayashi si voltò, appoggiando la grande mano allo stipite della porta.
“Hai sempre detto di fare come se fossi a casa mia, giusto?”
“Giusto” rispose annuendo e accorciando la distanza tra loro.
 
Poco dopo erano entrambi seduti al tavolo della cucina con una tazza di tè fumante, tra le mani, in attesa di essere bevuto.
“Quindi, Sanae, se hai bisogno di qualsiasi cosa sai che ci sono, vero?”
La donna sollevò lo sguardo dal tavolo e incontrò gli occhi preoccupati del portiere che la scrutavano.
“Lo so, e ti ringrazio per questo.”
“E non provare mai più a riagganciare il telefono, intesi?” la mano del portiere aveva lasciato la tazza e aveva iniziato a muoversi con fare inquisitore, attraverso l’indice, di fronte al naso della donna.
“Prometto che non accadrà più, ma adesso che sai le cose capisci perché non potevo parlartene al telefono?”
Genzo tornò a circondare la calda porcellana con entrambe le mani.
“Certo che capisco; e, dimmi, come hai preso questa storia? Intendo l’omosessualità.”
“L’Omosessualità in sé stessa non mi ha mai creato dei problemi, è trovarsi coinvolta all’improvviso che mi ha scioccata. Forse non è neppure il termine più adatto, ma non so davvero come definire questo nuovo lato di Tsubasa che ho costantemente ignorato. Di Taro francamente l’ho sempre sospettato, ma quando si presentò con Azumi mi ero data della stupida per aver scambiato certi sguardi adolescenziali per gratitudine e innegabile intesa. Spesso lo avevo scoperto con occhi sognanti a veder giocare il capitano da giovani. Ricordo di aver pensato varie volte, ridendoci su, di avere un rivale. Ma a quei tempi Ozora aveva occhi solo per il pallone, poi il nostro destino sembrava già segnato e quando mi chiese di sposarlo, ho pensato solo al nostro futuro e ho accantonato il discorso Misaki.” La tazza tra le mani di Anego non trovava pace e continuava a girare lentamente, sospinta dalle sue dita nervose.
“Io non mi sono mai reso conto di niente, anche perché sono partito presto per Amburgo perdendomi pezzi di vita di tutti voi.”
“Neppure ai ritiri avevi notato nulla?”
“Assolutamente, Sanae; tutto era come sempre, soltanto ai mondiali del 2018 il capitano era in crisi, ma mai avrei pensato a una cosa del genere.” Con un gesto fluido afferrò il cappellino e, togliendolo, lo appoggiò sulla sedia a lui vicina.
“Pochi mesi prima dei mondiali sono iniziati gli incubi, mi ha sempre detto che non ricordava nulla dei sogni ma io capivo che mi stava mentendo, solo che non ho voluto essere opprimente perché davvero avevo visto che questi incubi lo mandavano in confusione totale, e con il mondiale alle porte ho cercato di non calcare la mano. È da lì che ho capito che aveva iniziato a raccontarmi bugie… quando poi è tornato dal mondiale, Genzo, era un altro! Stentavo a riconoscerlo, sempre con il cellulare in mano e sempre in continua comunicazione con Taro. Ho creduto, in un primo momento, che fosse l’adrenalina accumulata delle partite, ma dopo quindici giorni ho iniziato a sospettare che ci fosse dell’altro. Senza considerare la bramosia nel voler partire per la Grecia. Che scema che sono stata, io che credevo che avesse bisogno di vacanze e invece non vedeva l’ora di rivedere il suo amante.” Scosse la testa, facendo dondolare il caschetto scuro dei capelli.
“Come te l’ha detto?”
La donna tornò a guardarlo e sbuffò un sorriso, evidentemente la Golden non aveva raccontato certi dettagli.
“Non me lo ha detto, l’ho capito da questa.” E, afferrato il cellulare, gli mostrò la foto incriminata. Nonostante il tempo trascorso, non l’aveva cancellata.
Il portiere la guardò sollevando un sopracciglio. “Sei stata arguta, Sanae.”
“Non te lo so spiegare ma a me uno sguardo così non lo aveva mai regalato; è da lì che si è accesa la lampadina e, dopo essermi confrontata con Azumi, abbiamo deciso di tendergli un tranello.”
“Un tranello?” la bocca e gli occhi spalancati di Wakabayashi formarono un ovale perfetto di stupore.
“Non te lo hanno raccontato che li abbiamo beccati che amoreggiavano in cucina?”
Genzo sgranò ancora di più gli occhi e, portando le mani in avanti, iniziò ad agitarle convulsamente.
“No vabbè, stavolta voglio sapere tutto nei minimi dettagli; sai che ho necessità di materiale fresco per poterli perculare alla prossima convocazione, vero?”
E finalmente Genzo la vide sorridere e poi ridere di gusto, dopo essersi nascosta la bocca con la mano mentre con l’altra si reggeva la pancia. Passato il momento di ilarità Sanae afferrò le grandi mani del portiere e con fare serio e risoluto rispose: “Sarò onorata di fornirti tutti i dettagli del caso, mi merito una piccola rivincita, dopotutto.”
“Ti giuro solennemente che sarà anche un po’ una vendetta, considerami il tuo sicario.”
Genzo scherzava, e lei lo adorò per questo.
Per aver reso il racconto sulla scoperta del tradimento così facile e a tratti divertente, facendola esplodere in risate improbabili, mentre ripercorreva con la mente quei momenti così difficili e concitati. Per aver applaudito al ceffone che Azumi aveva rifilato al numero undici e per essersi preoccupato, invece, anche a distanza di anni, di quando la moglie di Taro aveva avuto quel mancamento in spiaggia. Le sembrava impossibile che, dopo tutto questo tempo, il portiere presuntuoso e spocchioso conosciuto da bambino, avesse perso tutta la boria per diventare poi un uomo affidabile e un amico eccellente. Alla fine del racconto, Genzo si passò le mani nei capelli rilasciando uno sbuffo di aria profondo, sembrava stanco.
“Wow, una cosa è certa: è sempre meglio non mettersi contro voi donne…”

Anego annuì soddisfatta, ma allo stesso tempo stufa di parlare solo dei suoi problemi; quindi, constatato che l’argomento di suo interesse fosse esaurito, decise di indagare sulla vita del portiere.
“Ma… veniamo a te, piuttosto. Com’è che tu e Kumi siete arrivati a spedire gli inviti di nozze? Sai che non ti ci facevo sposato? Credevo aveste fatto gli eterni conviventi.”
Non arrossì, non tentennò. Genzo era un uomo sicuro di sé e delle proprie scelte, se aveva fatto un passo del genere stava a significare che non sarebbe tornato indietro.
“Sanae, ho trent’anni, una carriera avviata, una vita equilibrata; mi sono divertito finora, adesso è arrivato il momento di creare qualcosa, e credo che Kumi sia la persona più adatta. Oramai stiamo insieme da tanti anni e io sono stufo di questa situazione precaria, per questo abbiamo deciso di convivere, dopo un periodo di rodaggio devo dire che le cose vanno alla grande, quindi… e matrimonio sia!”
A Sanae brillavano gli occhi, vedere il portiere così sicuro e al contempo con gli occhi pieni di gioia le scaldò il cuore.
Lasciò la tazza e afferrò le grandi mani, stringendole con affetto.
“Insomma eravate due ragazzini... Finalmente avete trovato la vostra dimensione. Sono così felice per voi, vi auguro ogni bene.”
“Sai quanto Kumi fosse restia al matrimonio no?”
“Si ricordo bene i suoi discorsi in proposito.” Ripensò a quando da giovani ne avevano parlato e sorrise.
"Io invece ti aspetto al matrimonio e… sai che non accetto un NO come risposta, vero?”
“Non sarà facile perché sarà la prima festa ufficiale in cui non starò con il capitano, ma ti prometto di venire, contaci.”
“Azumi mi ha già detto che non ha intenzione di partecipare…”
“Comprensibile, Genzo. Azumi ha sofferto tanto, e nonostante il tempo trascorso e ancora tanto arrabbiata. Anche se…”
“Anche se…” ripeté il portiere, avvicinandosi curioso. Le frasi in sospeso rivelavano sempre dettagli molto interessanti una volta concluse.
“Sai che sta uscendo con il procuratore di Taro?”
“Wow, questa sì che è un’ottima notizia, sono contento per lei, ma spettegoliamo un po’: Taro come l’ha presa?”
La donna mosse le spalle verso l’alto in un gesto di arrendevolezza.
“Incredibilmente bene. È felice per lei, e Tsubasa quando gliel’ho detto, ovviamente già lo sapeva, ma anche lui mi ha fatto capire che sarebbe contento se mi rifacessi una vita.”
Genzo annuì consapevole di quanto l’amica gli stava dicendo, si capiva lontano un miglio che Sanae non era pronta per una cosa del genere: lei, del capitano, era ancora innamorata.
“E tu che ne pensi?”
“Penso che prima dovrò scordare Ozora e non sarà facile, sono talmente tanti anni che occupa il mio cuore…”
Genzo contraccambiò la stretta delle mani con fare rassicurante.
“Ehi, - disse richiamandone l’attenzione delle iridi nocciola – sei giovane, la vita va avanti; certo è un momento tanto difficile, ma non negarti di poter essere ancora felice, Anego, te lo meriti.”
 
 
Arrivato il momento di andare via il portiere e la ex manager si salutarono sulla porta, abbracciandosi, con la promessa che presto si sarebbero visti: il matrimonio a fine estate, prima dell’inizio del campionato, era molto vicino.
Sanae si alzò sulle punte e adagiò le labbra sulla guancia rasata di fresco del portiere. Ignara del fatto che, nascosto oltre la recinzione, dietro una siepe, un giornalista stava svolgendo egregiamente il suo lavoro di gossip.
 
Quelle foto gli avrebbero fruttato un bello scoop oltre che molti soldini.
Il paparazzo sapeva benissimo dei problemi della famiglia Ozora e dell’imminente matrimonio di Wakabayashi.
Continuò a scattare foto mentre le labbra si arcuavano in un ghigno di soddisfazione. Quando vide il portiere salire sul taxi, lasciò il nascondiglio e, appagato, corse in redazione. Era quasi l’ora di pranzo e per il giorno dopo aveva tutto il tempo di far uscire un mega articolo che avrebbe fatto vendere migliaia di copie, magari il direttore gli avrebbe concesso le ferie tanto agognate dopo questa scoperta.
 
 
Osservò soddisfatto il lavoro appena impaginato, aveva giocato sporco, ma nel mondo del gossip tutto era permesso. E poi… poi c’erano quelle strane voci che da un paio di mesi circolavano sulla Golden Combi. Sicuramente era strano che sia Misaki che Ozora avessero divorziato a breve distanza di tempo, e che fossero sempre insieme a ogni evento; la cosa lo stava insospettendo sempre di più.

Possibile che due ragazzi al top della carriera, ricchi, belli e atletici, non fossero stati ancora beccati in compagnia di qualche ragazza dal culo sodo?

Sorrise, toccandosi il mento con fare meditabondo.
Quell’articolo avrebbe prodotto un bel po’ di problemi ai campioni. Erano anni che seguiva Misaki, poi Wakabayashi e adesso Ozora. Più volte aveva provato a intervistare le mogli dei giocatori, ma queste parevano trincerate dietro il mutismo più assoluto. Una chiusura totale da parte anche della più malleabile Azumi, che glielo leggeva negli occhi: di cose ne aveva da dire e anche tante, ma non si era mai e poi mai sbilanciata.
Aprì l’email e selezionò un nuovo messaggio per il suo direttore.

Oggetto: Scandalo nella nazionale nipponica; la signora Ozora trova consolazione tra le braccia di Wakabayashi a pochi mesi dalle sue nozze.

Rilesse soddisfatto il futuro titolo per il suo articolo e premette invio. Osservò l’ora sul PC in basso a destra e sorrise fiero.
Sì, la mattina dopo il mondo del calcio si sarebbe svegliato con una bella novità. Forse, finalmente, il tanto pacato Ozora avrebbe fatto un passo falso e lui sarebbe riuscito a scoprire qualcosa. Perché ne era certo che la Golden Combi stava nascondendo qualcosa e lui era intenzionato a scoperchiare questo vaso. Dopotutto non era la prima volta che infastidiva i due, ricordava benissimo come Misaki lo avesse afferrato per il colletto quella volta che li aveva accusati di essersi messi d’accordo sul risultato. Di come, il capitano nipponico, aveva difeso il suo compagno di nazionale.

Già, si difendevano sempre quei due. Inseparabili!

Aveva indagato a fondo nella loro vita. Si conoscevano fin da bambini avevano vissuto in simbiosi per anni, dal campo da calcio alla vita privata, poi dopo quelle vacanze in Grecia, Misaki aveva divorziato e ovviamente le vacanze delle due famiglie erano scomparse.
Osservò la parete alle sue spalle piena di notizie e articoli di giornali corredati da foto sue e non. Sembrava un cartellone di una scena del crimine, con fili rossi a congiungere foto, articoli ed eventi. Dietro tutto quell’intreccio c’era qualcosa che gli sfuggiva. Era un giornalista prettamente scandalistico e il suo intuito gli suggeriva che, seguendo i giapponesi, avrebbe trovato ciò che cercava, anche se per il momento non riusciva a inquadrare che cosa.
Percorse uno dei fili di lana rosso collegato tra una foto e un articolo. Osservò sorridendo la coppia intenta a sollevare la coppa del mondo; incupì il volto, intensificando lo sguardo.

Scoprirò il vostro segreto!

Disse alla foto muta attaccata sul riquadro di sughero.

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Capitolo 4
*** Capitolo 04 ***


Maggio 2020
 

Le tremavano le mani e ancora non riusciva a credere a quello che il traduttore, malamente, le stava suggerendo. La traduzione dal Tedesco al Giapponese era pessima, ma le foto nelle quali Genzo e Sanae si abbracciavano erano nitide come acqua di ruscello.
Poi il telefono aveva iniziato a squillare all’impazzata, Kumi si era voltata e aveva visto il nome di Genzo lampeggiare sul display. Aveva afferrato l’oggetto infernale e lo aveva gettato nell’angolo del letto tra i cuscini. Era stato quasi un sollievo sentirlo soltanto vibrare, ma era passato pochissimo da che cessasse del tutto e il telefono di casa prendesse a suonare.
Ed era passato un altro secondo da che sua madre la chiamasse urlandole che al telefono c’era Genzo.

Aveva le antenne, quel maledetto traditore!

Per non parlare di Sanae, possibile che fosse riuscita a portarle via anche il portiere oltre al capitano? Vero che con Tsubasa si era presa una cotta madornale non ricambiata; lo sapeva fin dall’inizio che con la prima manager non aveva speranza, ma con Genzo…
Le si riempirono gli occhi di lacrime ancor prima che con voce strozzata riuscisse a rispondere alla madre che non poteva parlarci.
Il cellulare ricominciò a squillare dopo pochi attimi.
Lo osservava come ipnotizzata; come aveva potuto farle questo a soli tre mesi dal matrimonio?
Poi fu una pioggia di suoni intermittenti: le stava mandando messaggi a raffica, le notifiche stavano arrivando a valanga.
Indispettita si buttò sul letto, afferrò il cellulare e lo mise silenziato. Nel primo riquadro iniziarono a scorrere i nomi di chi la stava cercando, e non era solo Genzo… Aggrottò le sopracciglia e con il pollice scorse un paio di messaggi, uno era di Tsubasa.

Tsubasa?

Aprì quello per pura curiosità, visto che il capitano non l’aveva mai cercata in tutti quegli anni, anche se il numero lo aveva dalla chat della nazionale, e se lo aveva fatto forse davvero era qualcosa di urgente.

Kumiko, immagino tu abbia letto il giornale, ti prego chiamami.

Recitavano così le parole del capitano.
Sotto comparve un messaggio di Genzo seguito da uno di Sanae. Sbuffò su entrambi ed esclamò: “Neanche fosse scoppiata al guerra!”

Kumi, rispondimi ti prego, deduco che tu abbia visto le foto. Ti prego, parliamone.

Kumiko, ieri Genzo è passato a trovarmi, avevo appena firmato il divorzio con Tsubasa e quell’abbraccio era solo un gesto d’affetto, sai come sono i giornali…

Quindi che si erano visti era vero, sapeva che il capitano aveva invitato Genzo nella casa nuova, ma lui non le aveva detto che sarebbe passato anche da Sanae.
Sollevò gli occhi al cielo e fece partire la chiamata.
“Kumiko, grazie per avermi chiamato.”
“Capitano…” rispose lei in segno di rispetto, com’era da anni a quella parte.
“Ascoltami, ho sentito sia Sanae, sia Genzo: ieri lui era venuto a casa mia a trovarmi…”
“Sì, questo lo sapevo ma…”
Ozora non la fece finire, l’urgenza di spiegare il più possibile la si sentiva dal tono di voce concitato.
“Quando è andato a prendere l’aereo era ancora presto e siccome aveva sentito Sanae giù di morale ha deciso di passare a trovarla. Sai, abbiamo firmato da poco il nostro divorzio…”
“Lo so e mi dispiace.”
“Ti assicuro che la sua era solo una visita di cortesia. Sanae in questo periodo è molto fragile, ti prego credimi. Genzo non ti tradirebbe mai.”
“…”
“Kumiko, ci sei?”
“Sì.”
“Ascolta, quel giornalista non ce l’ha con te, sono certo che lo ha fatto per punire me. Sono mesi che sta dietro a me e a Taro per un’esclusiva, si era messo in testa strane cose già in passato: aveva ipotizzato che c’incontrassimo per accordarci sui risultati delle partite. Ti assicuro che è un giornalista spietato, un arrivista; ti prego, non credergli, non dargliela vinta… non avevo mai visto il nostro portiere così felice, non farti rovinare la vita da queste menzogne. Ti prego!”
“È lo stesso giornalista che ha parlato di Azumi e del procuratore di Taro?”
“Sì, è lui.”
“Beh, non mi sembra che racconti così tante bugie dopotutto: Azumi esce davvero con quell’uomo, no?”
“Sì, ci esce e stanno anche insieme, ma lui lo ha scritto con cattiveria credendo di colpire Taro. Quando si è reso conto che lui lo sapeva non ne ha più parlato. Ti sei resa conto che non sono più apparsi articoli su Azumi?!”
“Sì, lo avevo visto.”
“Sai perché? Perché quando il giornalista fece vedere lo scoop a Misaki lui gli rispose che era felice per la sua ex moglie. Così non ha più trovato pane per i suoi denti e Taro ha lasciato terreno bruciato intorno al giornalista… Ecco, adesso tocca a me. Quindi, ti prego, facciamo squadra e non facciamoci distruggere la vita che già è abbastanza difficile.”
“Ti ringrazio per la telefonata, ma non sono uno della tua squadra, Tsubasa, e non prendo certo ordini da te.”

Ed era così che aveva concluso la telefonata ed era rimasta a fissare il cellulare che pareva essersi zittito per qualche secondo per poi riprendere con le notifiche sempre più incessanti.
Non aveva resistito e lo aveva chiamato. Genzo non mollava.

“Dimmi!”
“Kumi, sto cercando il primo volo per venire là, ho preso un permesso speciale, ho spiegato quanto accaduto al mister e non so per quale miracolo mi ha capito.”
La ragazza si lasciò cadere sul letto, sbigottita; scosse più volte la testa per capire se avesse davvero udito quelle parole.

Genzo metteva lei prima del calcio.
Non.
Ci.
Poteva.
Credere.

E sul quel pensiero le venne quasi da ridere e rispose con una battuta: “Sarà stato Ozora che ha messo una buona parola per te.”
“Che diavolo c’entra il capitano?” chiese buttando il cappellino sul lato passeggero dell’auto ferma a bordo strada.
“Ho parlato con lui poco fa e mi ha spiegato tutto…”
“Come mai Ozora è sempre un passo avanti? Cavolo!”
“Altrimenti non sarebbe stato il capitano, no?”
“Kumi, davvero, con Sanae non è accaduto nulla, ero solo passato a trovarla perché al telefono l’avevo sentita giù.”
“Ti credo portiere, non è necessario che tu prenda un aereo per venire fin qua. Tu pensa a finire il campionato e io penso al matrimonio, ci vediamo tra poco, ok?”
Wakabayashi si lasciò andare sul sedile dell’auto, la tensione accumulata gli aveva fatto irrigidire tutti i muscoli del collo; mosse la testa a destra e a sinistra, provocando degli sgradevoli rumori mentre con la mano libera si massaggiava la parte indolenzita.
“Che ti amo te l’ho mai detto?”
“Mhmh, più volte ma…”
“Ma?” domandò incuriosito.
“Sentirselo dire dopo quelle foto ha tutto un altro sapore.”
“Kumi, ti avviso che nei prossimi giorni riceveremo molte visite da parte dei giornalisti. Cerchiamo di non dar loro materiale su cui lavorare, ok?”
“Questa raccomandazione falla a te stesso, e di’ a Ozora che non si preoccupasse: farò ‘squadra’…” sorrise sull’ultima parola producendo uno sbuffo rumoroso nella cornetta.
“Farai squadra? Che diavolo vuol dire?”
“Ah, non preoccuparti, è una cosa tra me e il capitano, e siccome so già che lo sentirai a breve, tu digli che anch’io farò squadra, gli ho risposto un po’ alterata alla fine della telefonata, quindi vorrei rassicurarlo.”
“Ok, riferirò, ti amo!”
“Anch’io, a presto.”

Appena riattaccato il telefono, Genzo avviò un'altra chiamata verso il suo amico e, dopo averlo ringraziato e aver scoperto che cosa stesse a significare fare squadra, si mise in viaggio per il campo di allenamento. Doveva riferire al mister che i due giorni che aveva richiesto per fortuna non erano più necessari. Quando arrivò a destinazione un cumulo di reporter e microfoni impazziti erano appostati nel parcheggio della sede dell’Amburgo.
Afferrò il cappellino e se lo calò quasi sull’intero volto. Scese e prese il borsone dal sedile posteriore. Una volta caricato in spalla si avviò verso il cancello tentando di farsi strada a suon di No Comment!
La stessa scena si era ripetuta di fronte all’uscita di casa di Kumi in Giappone il giorno dopo.


E si era ripetuta in Spagna, contemporaneamente in due luoghi: al Camp Nou e di fronte alla scuola dei gemelli dove Sanae era andata a prenderli.
Per lei era stato difficilissimo sottrarre i figli a quegli assalti, le veniva da piangere, oramai erano anni che costantemente finivano sui giornali.
Finora era stato solo un riflesso dovuto alla popolarità di Tsubasa, ma adesso era lei la protagonista della situazione.
Vide i suoi figli fermi sul portone con la dirigente ad accompagnarli. Hayate la cercava smarrito, mentre Daibu era imbronciato e voltato di lato in modo che si vedesse solo metà del viso. Pochi istanti dopo incrociò lo sguardo della responsabile che l’invitò a raggiungerla. Facendosi spazio tra la folla dei genitori, raggiunse la scalinata e prese a salirla sempre più preoccupata.
La donna invitò Sanae ad accomodarsi nel suo studio, seguita dai bambini. Una volta seduti, e inquadrato Daibu, vide quello che era stato celato dall’altro lato del viso: vicino all’occhio il bambino aveva un vistoso ematoma violaceo.
“Signora Ozora – iniziò la direttrice – io so che state attraversando un periodo difficile e che i bambini stanno subendo la situazione degli adulti, ma oggi si è creato un incidente, se così vogliamo chiamarlo, per il quale non posso far finta di niente. Vorrei tranquillizzarla subito che Daibu è stato visitato dal nostro medico e che per fortuna non ha riportato danni all’occhio, ma la invito a prendere provvedimenti visto che a iniziare la rissa è stato proprio suo figlio.”
Sanae guardò incredula il bambino alla sua sinistra, non poteva credere alle parole della direttrice, ma fu Hayate che improvvisamente e alzandosi dalla sedia, di scatto, iniziò a parlare in difesa del fratello: “Non è giusto! Carlos ha dato della puttana a nostra madre!”
“Hayate! Che parole sono queste?” lo rimproverò la donna.
“Ma mamma, non l’ho detta io, è stato Carlos; Daibu ti ha solo difesa, perché noi lo sappiamo che zio Genzo era soltanto passato a trovarti e che tu eri triste per la firma dei documenti con papà. Noi – proseguì guardando anche il fratello che aveva gli occhi lucidi – lo sappiamo che tu sei tanto triste e non vogliamo vederti così e… e…”
“Carlos è uno stronzo!” concluse Daibu, gettandosi tra le braccia della madre seguito pochi istanti dopo dal fratello.

La direttrice rimase immobile e inerme di fronte a quella scena tanto commovente e le tremò il labbro inferiore, quando Sanae abbracciò i propri figli e qualche lacrima le solcò il viso, infrangendosi nei capelli ebano dei bambini. Molto probabilmente simili a quelli del padre per quanto potesse ricordare. Ricordava anche la felicità che aveva provato nell’accogliere i figli di un così importante giocatore, ma aveva scordato quanta notorietà si portassero dietro quegli esserini fragili che erano cresciuti nella sua scuola. Li ricordava bene quando erano arrivati da lei allegri e spensierati e come ora, invece, si fossero incupiti e oscurati. Quando Carlos aveva esternato le sue idee sulla signora Ozora, Daibu non c’aveva visto, stando al racconto della maestra, e si era fiondato addosso al compagno prendendolo a pugni. Pugni che erano volati senza tanti complimenti anche da Carlos e che aveva regalato quello zigomo violacelo al piccolo Ozora.

Quando la maestra, sconvolta e trafelata, le aveva raccontato che cosa fosse successo, la direttrice si era precipitata in infermeria per constatare la salute dei suoi alunni. I genitori di Carlos erano stati avvisati ed era stato suggerito loro di controllare lo zaino del figlio prima di mandarlo a scuola con riviste di discutibile dubbio.
Il gossip a scuola non era gradito.
Quando la maestra aveva raccontato che Carlos aveva iniziato a correre con la foto della signora Ozora per tutta la classe indicandola come una poco di buono, lei aveva deciso di non punire Daibu con una sospensione, ma solo di avvisare la famiglia. Dopotutto aveva tentato di calarsi nei panni di quel bambino, al quale avevano offeso la madre pesantemente, senza considerare che per mesi i genitori erano stati su tutti i giornali più famosi in attesa di questo imminente divorzio. Oramai lo davano per certo, le voci erano incalzanti e i bambini a scuola non avevano mai smentito ma neppure confermato, per quello la direttrice aveva immaginato che a breve la notizia sarebbe divenuta di dominio pubblico.
Certo era che non si aspettava una situazione del genere: il giorno prima era uscita la notizia del divorzio e il giorno dopo lo scandalo della madre. No, non poteva mettersi in mezzo anche lei con una qualsiasi punizione.
“Sono mortificata.” Si scusò Sanae, alzando la testa.
“Non si preoccupi, comprendo il momento delicato che la sua famiglia sta attraversando, se vuole – disse, porgendole un bigliettino – questo è il numero di telefono della psicologa della scuola. Magari ha un buon consiglio su come affrontare il tutto; che ne dice?”
Sanae allungò la mano e afferrò il piccolo pezzo di carta annuendo e tirando su con il naso e, dopo averlo rigirato tra le dita, lo mise nella borsa. I gesti rallentati dai figli addosso fecero sorridere la direttrice. La quale parlò riferendosi proprio a uno di loro: “Daibu, spero che un fatto del genere non si ripeta mai più, ok?”
Il bambino si asciugò le lacrime e fissò la donna: “Se offenderanno di nuovo la mia mamma…”
“Se offenderanno di nuovo la tua mamma, ti garantisco che interverrò in prima persona, ma promettimi che non ti farai mai più giustizia da solo.”
Il bambino annuì prima di tuffarsi nuovamente nell’incavo del collo della madre nel quale parve scomparire. Si vergognava sentendosi orgoglioso allo stesso tempo. Troppi sentimenti tutti insieme erano difficili da gestire, per questo quando Carlos aveva offeso la madre in quel modo lui aveva perso la testa.

“Venga, può uscire dal retro, così i giornalisti che si sono accampati fuori avranno un’amara sorpresa… anzi, se vuole dica pure al signor Ozora che domattina i bambini li può consegnare dall’entrata secondaria, sperando che prima o poi vi diano un po’ di tregua.”
“Grazie” mormorò Sanae alzandosi dopo essersi liberata dei figli.
Prese per mano i bambini e sotto la guida di quella direttrice dagli occhialini calati sul naso riuscì a trovare l’uscita sgombra da scocciatori.
Una volta raggiunta l’auto si chiuse all’interno mentre, guardando nello specchietto retrovisore, notava che qualche giornalista stava indicando la sua direzione. Velocemente uscì dal parcheggio e imboccò la strada di casa. Tramite l’auto avviò una chiamata all’ex marito.
“Tsubasa, dobbiamo parlare” disse appena senti la sua voce dall’altro capo del telefono.
“Ti sento agitata, Sanae, tutto bene? Non ti preoccupare per le foto con Genzo, so perfettamente che sono i giornalisti…”
“Dobbiamo parlare dei bambini, è successo un disastro a scuola; adesso sono in auto con loro, ci vediamo a casa.”
Il capitano percepì subito la gravità della cosa: “Ho capito, ci vediamo lì.”
 
 
I gemelli restavano in rigoroso silenzio nei sedili posteriori. Come al solito fu Hayate a parlare, Daibu era sempre stato di poche parole.
“Mamma, però una cosa devo chiedertela: Azumi esce con un nuovo uomo, non è che anche tu?”
“No, Hayate, non temere, tra me e Genzo non c’è niente eccetto una bellissima amicizia. Questo non esclude che un domani io non possa conoscere qualcun altro e innamorarmi di nuovo, come ho amato papà.”
“Perché non lo ami più papà adesso?” indagò Daibu uscito dal suo mutismo.
“Non si può smettere di amare una persona dall’oggi al domani, e credo che papà resterà sempre in un angolino del mio cuore, ma è anche giusto che tutti noi siamo di nuovo felici.” Puntualizzò la donna per cercare di ammettere delle possibilità per il futuro.
Hayate non sapeva bene dove andare a parare, infatti si girò verso il finestrino e guardò fuori non vedendo niente, aveva bisogno di riflettere. Una cosa gli era chiara, però: gli adulti si stavano rifacendo tutti una vita e sua madre non era esente da questo.
Daibu diceva che era impossibile, ma lui ne aveva visti tanti di loro amici che si erano ritrovati fagocitati da queste fantomatiche famiglie allargate, e se proprio doveva dirla tutta… se fosse stato lo zio Genzo ne sarebbe stato entusiasta, perché almeno lo conosceva e non era un estraneo.
Avevano discusso a fondo sul perché i loro genitori avessero divorziato, erano state tante le nottate in cui avevano sviscerato ipotesi di ogni genere, poi, con il passare dei mesi, erano giunti alla conclusione che in Grecia dovesse essere successo qualcosa. Ignoravano che cosa, ma una cosa era certa, da lì erano iniziati i cambiamenti.
Raramente erano tutti e quattro insieme e spesso papà andava via per qualche giorno, prima non era mai accaduto per quanto lui ricordasse; eccetto i ritiri con la nazionale ovviamente, ma quella era un'altra questione.
Poi era arrivata la prima doccia fredda: Taro e Azumi avevano avviato le pratiche del divorzio, tante volte avevano origliato qualche parola al telefono tra lei e la mamma. Parlavano così piano che non riuscivano a capire niente, ma gli occhi arrossati e le guance rigate dalle lacrime ai gemelli non erano passate inosservate.
 
Arrivati a casa avevano trovato il capitano ad attenderli sulla porta; una volta entrati, la mamma aveva raccontato tutto al padre e dopo i loro genitori avevano tentato di arginare il problema rimproverando Daibu.
Hayate era davvero stufo di quella situazione, quindi aveva preso il fratello per la mano e, trascinandoselo addosso, lo aveva indirizzato verso l’uscita. L’obiettivo come al solito era la loro cameretta, il loro rifugio, la loro serenità, ma un sassolino dalla scarpa aveva comunque dovuto toglierselo e, anche se non avrebbe voluto essere così aspro, quelle parole gli erano uscite d’istinto:
“È inutile che rimproveriate Daibu per la rissa, dopotutto non siamo noi ad aver divorziato!”
I due ex coniugi si guardarono smarriti e incapaci di replicare. Il macigno come genitori consapevoli e responsabili era troppo grande da portare, perché Hayate aveva ragione: la colpa era solo loro.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 05 ***


Agosto 2020
 
 
Taro guardò di sottecchi il compagno che, per l’ennesima volta, si passava l’intera mano sul volto. Sullo sfondo notò dall’oblò dell’aereo che avevano iniziato la discesa verso Narita.
“Ehi, tutto bene?” chiese preoccupato.
Quella era la prima uscita ufficiale dove Tsubasa non era in compagnia di Sanae. Lei era arrivata in anticipo, visto che i bambini avevano finito prima di lui gli impegni calcistici e scolastici, quindi erano tornati in Giappone per stare un po’ con i nonni prima dell’evento mondano del secolo, il matrimonio del portierone.

Oltretutto Tsubasa ancora non aveva affrontato i suoi genitori. Mentre Taro era riuscito a parlare con suo padre, che per lo shock non lo aveva chiamato per una settimana per poi scusarsi di non essersi fatto sentire. Il capitano aveva deciso che la questione non era affrontabile per telefono. Spesso aveva fatto in modo che alle video chiamate fosse presente anche Taro, visto che vivevano praticamente insieme aveva deciso di abituare i suoi almeno alla presenza del compagno con varie scuse.

La madre solo una volta se n’era uscita con una battuta del tipo: “ho visto più volte Taro in queste videochiamate che Sanae.

Tutti avevano riso di quella battuta, ma nessuna replica era stata fatta a tale evidenza. Sperava Tsubasa, in cuor suo, che la madre si fosse quantomeno immaginata qualcosa; e ora che mancavano poche ore a doverla vedere era intrattabile.
“No, non va tutto bene per più motivi: primo – disse sollevando il pollice per indicare il numero – sarà la prima festa senza Sanae al mio fianco e con fotografi ovunque; ergo dovrò prestare la massima attenzione a NON guardarti, ché tanto sono un pessimo attore. Secondo – anche l’indice passò di fronte al volto di Misaki come era avvenuto poco prima per il pollice – mia madre. Terzo – disse mostrando ancora un dito – ma non ultimo: Daichi. Sì, sono davvero preoccupato Taro.”
Dopo esser scivolato sul sedile, e scomparso in esso, rilasciò andare tutta l’aria accumulata durante il tragitto. La tensione era alle stelle.
“Tua madre puoi affrontarla un’altra volta, Tsubasa, se non te la senti.” Tentò di rassicurarlo il compagno stringendogli un gomito.
“No! Passerà del tempo prima che torniamo in Giappone, e questa è un’ottima occasione, visto che ci sei anche tu. Non che tu abbia bisogno di presentazioni, sa perfettamente chi sei, ci conosciamo da una vita… ma, credo sia giusto e doveroso che i miei genitori vengano informati dal sottoscritto. Senza considerare che dovrò informare quel pazzo di mio fratello. Secondo te ci possiamo fidare di un quindicenne?”
“Sappiamo poco di tuo fratello, Tsubasa, siamo stati tanto fuori casa, praticamente è cresciuto come figlio unico, quindi forse è meglio se prima senti tua madre… dopo che si sarà ripresa dalla notizia.”
“Già, credo che abbiamo fatto bene ad anticipare di un paio di giorni il nostro arrivo. Oltretutto Sanae dorme dai suoi con i gemelli e noi abbiamo tutto il tempo di parlare con i miei genitori. Mi dispiace solo che dormiremo separati, già ci vediamo così poco che almeno questi giorni speravo…”
“Avremo occasione di stare ugualmente insieme, un paio di notti non cambiano nulla non temere.”
Il capitano sorrise stancamente e voltandosi verso il finestrino mormorò: “Due anni che stiamo nascondendo questa relazione, Taro, non è facile, avevo ampiamente sottovalutato la cosa.”
“Già, al ritiro in Russia facevi sembrare tutto così facile…”
Il capitano si voltò di scatto ricordando quanto quella mattina avesse semplificato i fatti accaduti. In quel momento aveva creduto che mantenere una relazione clandestina fosse la soluzione migliore per tutti. Per non ferire nessuno e continuare come se nulla fosse. Poi c’era stata la lontananza, le difficoltà, l’amore prepotente da cui era stato travolto e la scoperta delle loro mogli. Scoperta che, a distanza di tempo, aveva benedetto. In due mesi di clandestinità c’era uscito pazzo, non osava immaginare due anni, lo avrebbero ricoverato, ne era certo. Senza considerare che lo spauracchio degli incubi era sempre latente. Il sonno aveva ridotto notevolmente le sue prestazioni in campo; e lui, questo pessimo rendimento, non se lo poteva permettere.
“Al ritiro in Russia non avevo capito un cavolo. Quindi come vedi non sono né realistico, né affidabile.”

Taro sorrise; di uno di quei sorrisi che gli scaldava il cuore. Era comprensivo, caldo e sexy allo stesso tempo. E se non fossero stati su un aereo, dove non erano assolutamente da soli, lo avrebbe baciato lì: seduta stante. Ma loro queste effusioni non se le potevano permettere, non per il momento.
Il segnale delle cinture iniziò a lampeggiare interrompendo quello scambio fitto di opinioni e problemi passati e futuri. Entrambi allacciarono le cinghie e, come da consuetudine, Taro afferrò il braccio di Ozora per stritolarlo.

“Bene, e anche a questo giro giochiamo a spappola il braccio al tuo compagno.” Una smorfia di dolore si palesò sul bel volto.
“Scusa” bisbigliò il giocatore guardando fisso di fronte a sé.
“Te lo dico, Misaki, questa cosa va superata, vorrei mantenere intatto il mio braccio per i prossimi anni avvenire.”
“Sh, silenzio! Ché mi deconcentri.”
Il capitano arcuò le labbra e si voltò verso il finestrino mentre lasciava che il braccio restasse ostaggio del povero Taro. Era buffo, quella era l’unica fobia che il numero undici in tanti anni non era riuscito a superare. Alla fine si rese conto di amare anche quella.
 
 
 
Quando aprì la porta non credeva ai suoi occhi, finalmente dopo tanti mesi poteva riabbracciare suo figlio maggiore. I gemelli con la sua ex nuora erano passati da lei il giorno prima, aveva tentato di parlare con Sanae, ma come le aveva detto spesso per telefono preferiva che fosse l’ex marito a darle delle spiegazioni.
E finalmente il momento era arrivato, l’unico problema era Misaki che a fianco del figlio le stava regalando un sorriso affettuoso. Aveva sempre adorato l’altra metà della Golden Combi. Taro era proprio un bravo ragazzo che per anni aveva giocato con Tsubasa e che spesso e volentieri aveva accolto a casa loro quando il padre era in giro per lavoro. Immaginò che i due, condividendo il calcio, la gioventù e il lavoro, si stessero consolando a vicenda per il divorzio affrontato prima dal numero undici e dopo da Tsubasa. Li strinse a sé in un abbraccio poco convenzionale e poi li invitò ad accomodarsi.
“Accomodatevi pure in sala, vi preparo del te.”
“Grazie, signora Ozora.” Rispose Misaki dopo aver tolto le scarpe e imboccato la via indicatagli.
Non perse lo sguardo complice che si scambiarono i due. Sembrava quasi un tacito accordo il loro e ne ebbe conferma quando suo figlio gli disse: “Ti do una mano, mamma.”
Un sotterfugio per restare soli in cucina e poter parlare liberamente. Lo aveva capito immediatamente.
La donna afferrò il bollitore e lo riempì di acqua. Una volta colmo lo mise sulla fiamma per farla scaldare.
“Daichi?” Chiese il campione, guardandosi intorno.
“Indovina?” rispose la madre con un pizzico di ovvietà nella voce.
“Scommetto che è agli allenamenti.”
“Esatto! Degno di suo fratello; ma non temere, arriverà presto così potrai vederlo. Non te lo dirà mai ma stanotte non ha dormito dall’emozione di rivederti.”
“Ecco, mamma, visto che abbiamo poco tempo ti devo parlare del mio divorzio.”

La donna si sedette al tavolo della cucina come tante altre volte aveva fatto nel corso della vita per poter ascoltare i suoi figli.

“Ti ascolto, Tsubasa. Ho provato a parlare con Sanae, ma non ha voluto dirmi niente, preferiva che affrontassi direttamente con te questa cosa.”
“Sì, eravamo d’accordo che ognuno avrebbe parlato con i propri genitori, perché la situazione è delicata e ci sono i bambini di mezzo.”
La donna annuì posando le braccia sul tavolo e incrociando le dita delle mani, non riusciva a tenerle ferme ma non voleva farsi vedere nervosa da lui.
Tsubasa si sedette di fronte alla madre e le afferrò le mani agitate. Non sapeva che parole usare, non sapeva come affrontare quella questione tanto difficile, non sapeva assolutamente come lei l’avrebbe digerita.
Prendendo un gran respiro ripensò alle parole dell’amato: “È tua madre, Tsubasa, quella che ti ha permesso di andare in Brasile con Roberto in tenera età… se non è lei di ampie vedute non so davvero chi potrebbe esserlo.”
“È così difficile, mamma: non so davvero da dove iniziare.”
La donna inclinò leggermente la testa guardandolo con amore e occhi colmi di comprensione e desiderosi di chiarimento.
“Non so cosa può esserci di tanto complicato per una mamma che ha accettato di far uscire il figlio di casa e cambiare continente all’età di quindici anni…”
“La stessa cosa che ha ipotizzato Taro…” e gli era venuta così quella risposta; dal cuore, senza pensare minimamente che la strada per introdurre l’argomento fosse spianata e il rendersene conto nel medesimo istante lo fece arrossire come a quattordici anni.
La donna lo guardò sorpresa, ma pronta ad approfondire, se lo sentiva che era la strada giusta. Tsubasa arrossiva spesso da giovane e che lo avesse fatto in quell’istante le diede conferma della direzione.
“Vedo che Taro ti sta molto vicino ultimamente.”
“Sì, come sempre, ma c’è altro mamma…”
“Ti vedi con qualcun’altra, Tsubasa?”
“In realtà già conviviamo.” Una cosa alla volta si era detto. Ma tutto stava andando a casaccio, tutti i discorsi mentali che si era preparto non erano serviti a nulla. E che conviveva con Misaki doveva essere l’ultimo dei suoi discorsi e invece… era diventato quasi il primo. Che disastro!
“Cosa?” Chiese la madre, schizzando in piedi. Le mani intrecciate tuttora a quelle del figlio.
“Ti prego siediti, non è ancora la parte più difficile.”

La donna si liberò dalla stretta del figlio e iniziò a percorrere la cucina avanti e indietro.

“Tsubasa, non ti riconosco! Hai due figli, ti sei appena separato e già convivi con un'altra persona.”
Il tono arrendevole della madre lo colpì in pieno. Il campione seguì, con lo sguardo, la madre girovagare per la cucina, poi si fece coraggio e iniziò a parlare: “Mamma, ho passato dei momenti difficili che hanno influito anche sulle mie prestazioni in campo, non riuscivo più a dormire, non riuscivo più a vivere. E Sanae non meritava di essere trattata male… di non essere amata come dovevo.”
“Capisco, ma non credi che sia presto per una convivenza?” Era tornata alla sedia e una volta seduta aveva nuovamente fissato il figlio negli occhi.
“Nessuno sa che conviviamo, eccetto Sanae, Genzo e Azumi. Mamma non ce la faccio a vivere lontano da lui, entrambi abbiamo allenamenti continui e possiamo vederci pochissimo, comprare un appartamento e stare insieme per i pochi attimi liberi era l’unica soluzione.”
La madre sgranò gli occhi incredula. “Aspetta, aspetta – replicò agitando le mani – stai parlando di un ragazzo? Vuoi dirmi che stai con un uomo, Tsubasa?”
“Sì, mamma.”
E in quel momento tutto le fu chiaro. Le video telefonate in cui compariva sempre Taro, i continui spostamenti fatti insieme e il rossore precedente che si era fatto spazio sulle guance grazie al solo nome. Tutte le domande trovarono risposta in un solo nome: Taro Misaki.
“È Taro, vero?”
Il capitano la guardò negli occhi e con un gesto di assenso della testa gli diede conferma dei suoi pensieri.
“Ora capisco perché Sanae non me ne voleva parlare. Come avete intenzione di fare con i bambini? Con il lavoro?”
“Taro puoi venire di qua, per favore?”
Misaki non tardò ad arrivare in cucina richiamato dal compagno. La scena che trovò di fronte era estremamente tenera. Natsuko che fissava il figlio sbalordita e con bocca spalancata si voltò lentamente verso di lui, incredula.
Forse era la prima volta che vedeva una faccia tanto sorpresa in vita sua. Non era né arrabbiata, né sconvolta, ma sorpresa all’inverosimile.
E fu così che, una volta seduti al tavolo, i due campioni raccontarono alla donna i loro progetti. Ozora era estremamente sollevato nel vedere la madre in totale ascolto. Misaki era un buon osservatore e non si era sbagliato su di lei: stava accettando il tutto senza troppi problemi. Certo, le domande non erano mancate; anche imbarazzanti, ma ne avevano sorriso insieme e deciso come affrontare il resto dei parenti. Sua madre gli aveva assicurato che Dachi avrebbe accettato la notizia senza alcun problema, per due motivi: il primo che stravedeva per Taro; il secondo era che nel 2020 l’omosessualità non era più uno scandalo per lui. Nella sua classe c’erano un paio di coppie e ne aveva sempre parlato con entusiasmo.
 
 
 
“Mamma, sono tornatooooo!” era così che Daichi era fiondato in casa come un uragano, le scarpe lanciate sulla soglia e borsone a terra. Il tonfo sordo era un suono inconfondibile per la stella del Barcellona.
Natsuko sorrise guardando Tsubasa, lui questi atteggiamenti scomposti non li aveva mai avuti. Avevano lo stesso talento calcistico, anche nel disordine: talentuosi al massimo! Ma sul carattere aveva fatto due figli agli antipodi; per quanto Tsubasa fosse riservato e timido, Daichi era sfrontato ed estroverso.
“Siamo in cucina, vieni” lo invitò la madre.
“Siamo? Vuoi dire che è arrivato mio fratello?” ed è correndo che aveva superato la soglia della porta e si era fiondato tra le braccia di Tsubasa.
“Quanto diavolo sei cresciuto, Daichi?” domandò il campione dopo averlo afferrato per le spalle e scosso con affetto. Misaki al loro fianco gli scompigliò i capelli come era solito fare.
“Taro…” lo chiamò Dachi strizzando un occhio in direzione dell’amico di suo fratello, divenuto ‘zio’ da quando era stato capace di parlare.
Misaki contraccambiò l’occhiolino e l’attesa con una proposta: “Daichi, che ne dici di due tiri?”
“Dico che hai sempre delle ottime idee” e neppure aveva finito di pronunciare la frase che già era sparito e tornato dal corridoio con il pallone in mano.
 
Insieme quindi scesero in giardino per massacrare quel povero muro, che i due Ozora avevano messo a dura prova con il trascorrere degli anni.
“Mamma, hai già parlato con Daichi della mia proposta?”
Tsubasa alla finestra guardava le evoluzioni di suo fratello, era migliorato e Taro faceva fatica a stargli dietro.
La madre lo raggiuse, mettendosi a guardare dalla finestra anche lei.
“No, ho preferito che fossi tu a dargli la bella notizia.”
“E tu?”
“Cosa vuoi che ti dica, Tsubasa? Meglio con te in Spagna che in Brasile.” La donna sollevò le spalle in un gesto arrendevole.
“Se supera il provino per il Barcellona, avrà vitto e alloggio, comunque la mia casa è sempre aperta…”
“E con Taro?”
“Taro adora mio fratello non c’è nessun problema.”
“Bene, allora direi che è giunta l’ora di dare la bella notizia a quel folle…”
“È ancora così agitato?”
La madre gli batté una mano sulla spalla. “Confido nel fatto che avere un allenatore, un campus e un fratello più presente possano mettere un po’ di tranquillità in quell’argento vivo che ha addosso.”
“Sono certo che dopo gli allenamenti del Barcellona, avrà poca voglia di divertirsi.”
“Credo anch’io” aggiunse la madre sorridendo mentre a lenti passi varcava la soglia per il giardino. Daichi non sapeva ancora del suo futuro nelle giovanili del Barcellona e lei non voleva assolutamente perdersi la faccia felice che di lì a poco ci sarebbe stata.
 
Ed era stata incontenibile la gioia del ragazzo che, con un balzo, si era librato nell’aria e calciando il pallone in rovesciata aveva ammaccato il povero muro spolverandolo. Dopo aveva iniziato a correre per tutto il giardino, cantando l’inno spagnolo, tra lo sguardo sconvolto del numero undici e la grattata di testa perplessa del campione nipponico.
“Tu sei sicuro che l’allenatore delle giovanili prende uno così vero?” aveva domandato al compagno uno scettico Taro.
“Io ricordo che gli allenamenti erano estenuanti; quindi sono certo che tutta questa energia verrà convogliata nella giusta direzione.” Ammise soddisfatto e spalancando le braccia per accogliere il fratello che, di gran carriera, gli era letteralmente saltato addosso. Fu solo grazie a Misaki che, con una prontezza di riflessi invidiabile, gli aveva appoggiato una mano dietro le spalle quando lo aveva visto sbilanciarsi all’indietro affinché non cadesse. Se non fosse stato per lui una testata sul legno dell’engawa sarebbe stata assicurata.
 
Ora erano tutti e tre seduti sul bordo della veranda con le gambe penzoloni che fissavano il tramonto. Daichi si era calmato e dopo la notizia sconcertante ricevuta era rimasto a fissare l’orizzonte con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani a sorreggere il volto… a sinistra suo fratello e a destra quello che aveva scoperto essere il suo compagno.
E doveva ammetterlo il colpo era stato duro, non tanto per l’omosessualità o per suo fratello. Il colpo era stato duro perché a lui quelle voci erano già arrivate da qualche mese, e se in un primo tempo aveva negato a oltranza, dopo il divorzio con Sanae aveva taciuto. Perché sapeva benissimo che in mezzo c’erano i suoi nipoti e che la situazione sarebbe stata delicatissima da gestire: era giovane e irruento, ma non stupido.
“Io lo sospettavo da qualche mese.” Fu così che Daichi, dopo aver sollevato il mento e rivolto il viso verso il sole dorato, aveva commentato la notizia ricevuta da suo fratello.
I due campioni si guardarono smarriti per un attimo, fu Taro a porre la domanda: “Perché lo sospettavi?”
“Un giornalista mi ha contattato tramite Messenger, e ha iniziato a farmi un sacco di domande su voi due e la vostra vita qua a Nankatsu. Su come vi siete conosciuti, di come siete diventati compagni di squadra. All’inizio ho risposto tranquillamente, poi sono iniziate le domande su Tsubasa e Sanae, e quando queste sono divenute troppo insistenti ho chiuso la conversazione e bloccato l’utente.”
“Hai fatto benissimo, mi fai vedere chi è questo giornalista?” chiese il capitano guardando preoccupato il fratello.
“Certo – disse estraendo il cellulare - ecco è lui.”
Entrambi si sporsero per osservare la foto del profilo dell’account incriminato.
“Lo sapevo, cazzo! È sempre lui!” esclamò Misaki impattando un pugno di una mano dentro il palmo dell’altra.
“Lo conoscete?” chiese il ragazzino spostando lo sguardo tra i due.
“Sì, è quello che ci segue ovunque e non fa altro che fare insinuazioni…”
“Beh, fratello a questo punto non sono solo insinuazioni giusto?”
“Daichi, lo sappiamo, e se non fosse per i nostri figli ti assicuro che la nostra relazione sarebbe già venuta allo scoperto. Ma dobbiamo aspettare che siano un pochino più grandi.”
Il giovane Ozora annuì consapevolmente poi riprese a parlare: “Allora state attenti perché da quello che ho capito sarà presente al matrimonio di Genzo.”
“Sì, lo sapevamo.” Puntualizzò Misaki.
“Ci sarò anch’io, con Sanae siamo d’accordo che sto un po’ con i miei nipotini, non li vedo mai.”
Taro allungò una mano e gli scompigliò i capelli per incoraggiarlo: “Il prossimo mese li vedrai anche troppo, e sono certo che sarai contento di rientrare in dormitorio con i tuoi compagni. I tuoi nipoti sono delle piccole anguille pestifere.”
“Cos’è, cognatino Taro, metti le mani avanti? Oh, vedi che sbagliavo a chiamarti ZIO?”
“Che idiota!” lo apostrofò Tsubasa allungando una mano e spingendolo malamente per una spalla.
“Cognatino adorato…” lo perculò Daichi mentre, alzandosi di scatto, si sottraeva alla mano di Taro che stava per raggiungerlo. E quella mano ne era certo che non prometteva nulla di buono. Adorava giocare con l’amico di suo fratello, lo aveva sempre adorato e ora che aveva scoperto questa tresca tra i due… beh, lo adorava ancora di più.

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Capitolo 6
*** Capitolo 06 ***


Agosto 2020
 
Sopportare Daichi per tutta la mattina era stata un’impresa, galvanizzato dalle troppe notizie ricevute era incontenibile; anche solo sistemare il nodo della cravatta era stato un lavoro.
“Mi raccomando, ricordati che alla festa ci sarà quel giornalista e dovrai stare attento.”
“Fratello, rilassati, non sono uno sprovveduto, e poi ci saranno Daibu e Hayate; sai che m’interessa dei giornalisti? Genzo ha promesso di aprire il campo da calcio, voglio vedere i due campioncini se sono più bravi del sottoscritto.”
Il capitano sorrise soddisfatto e, sollevando un sopracciglio, esclamò con un pizzico di orgoglio e bonaria strafottenza: “Dovrete farne di strada per superarmi e per creare una nuova Golden Combi!”
“Vedo che stamattina siamo in vena di modestia, eh!” controbatté Taro di fronte allo specchio mentre sistemava gli ultimi dettagli.
“Sapete che vi dico, grandi stelle, che vi sfido con i gemelli sul campo di Genzo!” propose Daichi, lanciando uno sguardo a entrambi.
“Siamo a un matrimonio, non scordarlo.” Lo riprese Tsubasa.
“Sono certo che in serata il matrimonio degenererà, di sicuro Ryo, la Silver Combi e Mamoru non si risparmieranno.”
“Effettivamente…” ammise Misaki mentre si apprestava a uscire dalla stanza.
“Taro, non mettertici anche tu, per favore, non dargli corda.”
Il numero undici si soffermò in prossimità del compagno e lo afferrò per una spalla. “Da quando rifiutiamo una sfida del genere, scusa? Fammi capire.”
Ozora roteò gli occhi scocciato finché non fu costretto a cedere, sbuffando un sonoro: “EVVABBENE!” era consapevole che in serata la situazione sarebbe inevitabilmente esplosa.
“Yes! Dai, muovete il culo, pelandroni, ché altrimenti facciamo tardi.” Strillò Daichi, sottraendosi alle attenzioni del fratello.
“Che faccia di bronzo! Ha quindici anni, ancora non si sa fare il nodo della cravatta, e sarebbe colpa nostra se facciamo tardi? Andiamo bene!”
Pronunciò Tsubasa mentre chiudeva la porta di casa per recarsi al matrimonio del loro amico.

 
Appena scesa la scalinata che conduceva al giardino, e al relativo patio dove si sarebbe tenuta la cerimonia, Ozora vide i suoi figli corrergli incontro. Si abbassò per poterli stringere entrambi; dietro di loro arrivò Sanae a salutarli. Dopo aver baciato i gemelli Tsubasa si alzò e salutò la ex moglie con un bacio sulla guancia.
“Come state?” chiese per sincerarsi che tutto fosse a posto.
“Tutto bene, - rispose Sanae mentre vedeva i bambini trascinare il loro zietto verso il campo da calcio – con tua madre com’è andata?” s’informò dopo aver dato uno sguardo ai presenti ed essersi assicurata che non ci fossero persone sconosciute vicine a loro. Sorrise imbarazzata verso Taro che restava vicino all’ex marito.
“Tutto bene, ce l’abbiamo fatta a comunicare la notizia anche a Daichi.”
“Ottimo, e come l’ha presa?”
“Ha detto che il famoso giornalista aveva contattato anche lui e che erano circolate già strane voci sul nostro conto.”
La donna si morse il labbro inferiore: era preoccupata, se la notizia fosse uscita così presto…
“Non ho idea di quanto ancora tutto questo possa andare avanti.” Disse con tono preoccupato e facendo un grande cerchio con le braccia per indicare la grandezza del problema.
“Dobbiamo stare attenti perché oggi sarà qua.”
“Genzo non poteva metterlo alla porta?”
“Ha fatto una specie di accordo quando uscirono le foto di te e lui.” Specificò il capitano.
“Del tipo?”
“Ricordi che pochi giorni dopo uscì una rettifica da parte del giornale con le dovute spiegazioni? – Sanae annuì convinta – Ecco quella rettifica gli è costata l’esclusiva del matrimonio.”
“Che mercenari, mi fanno ribrezzo – constatò la donna, stringendosi le spalle con le mani come se davvero un brivido di disgusto le avesse attraversato la schiena, per poi proseguire - E tua madre che ha detto? Ieri aveva provato a indagare, ma io ho glissato…”
“Sorpresa, ma tranquilla; e i tuoi?”
“Allibiti, è da ieri che parlano a monosillabe.”
“Immagino.”
Finito l’aggiornamento doveroso, gli ex coniugi Ozora rimasero a fissarsi con una punta d’imbarazzo nello sguardo, fu Taro a togliere entrambi da quell’impasse che si era creato.
“Prendiamo posto perché stanno arrivando le damigelle.” Disse, tirandolo per un braccio. Tsubasa sorrise alla moglie congedandosi e raggiunse la squadra; dei figli e del fratello neppure l’ombra, ma con la certezza che appena finita la cerimonia li avrebbe trovati sul retro a rincorrere il pallone.

 
Le previsioni di Daichi non erano state disattese. Sul tardo pomeriggio la festa era degenerata e tutta la nazionale, quasi al completo, si era riversata nel campo da calcio; le giacche erano volate insieme alle cravatte e accatastate a bordo campo o lanciate sull’unica panchina a disposizione.
Yuzo aveva accettato di stare in porta nonostante la riluttanza iniziale, Genzo si stava mordendo le mani per non poter partecipare, aveva anche chiesto a Tsubasa d’inventarsi qualcosa per far sì che potesse giocare, ma tutti lo avevano guardato malissimo e rimproverato visto che era il giorno del suo matrimonio.
Taro, a centro campo, si avvicinò all’altra metà della Golden e, dopo avergli posato una mano sulla spalla, lo invitò a guardare in direzione della porta, dove Mamoru, alticcio al punto giusto, stava tentando di far goal a Yuzo.
Questi, tra i pali, protestava mentre Izawa non riusciva a smettere di ridere, facendo giochetti assurdi con la palla; poi il fattaccio, lo scontro e il groviglio di corpi infilati malamente nella rete.
La Silver Combi, in prossimità dell’aria di rigore, era piegata in due con le mani a tenersi la pancia dal gran ridere. Il capitano, vista la scena, corse in soccorso del povero Yuzo seguito da un allegro Misaki; un po’ troppo allegro per i suoi gusti.
Arrivato vicino alla porta vide Mamoru tentare di sollevarsi e Yuzo inveirgli contro con espressione sofferente. Il capitano pensò che il ginocchio di Izawa puntellato nello stomaco non dovesse essere il massimo della goduria. Affiancato dal suo fedele compagno, afferrarono Mamoru e lo sollevarono di peso.
Fu in quell’istante che a Izawa scappò qualcosa di troppo: “Amore, scusa, non l’ho fatto apposta!”
Taro fissò Tsubasa sbalordito mentre Yuzo, viola in volto, fulminava e inceneriva il giocatore del Marinos con sguardo assassino.
Una volta che Mamoru fu in piedi, la Golden Combi, scambiandosi una fugace occhiata, decise di far finta di niente per non metterli in imbarazzo.
Taro dette una ripulita ai pantaloni di Izawa, mentre Tsubasa allungava una mano a Yuzo per aiutarlo a tirarsi su.
Morisaki incrociò lo sguardo del capitano, ma quando tentò di aprir bocca fu Tsubasa a parlare per primo, facendogli l’occhietto: “Tutto bene? Ti sei fatto male?”
“No, no. Tutto ok, se solo quell’idiota non mi travolgesse quando sono in porta sarebbe tutto più facile. Dovrebbe anche tacere.” Dopo aver pronunciato la frase si sporse verso Izawa e gli mollò uno scappellotto di rimprovero.
I quattro si guardarono complici e annuirono ridacchiando all’unisono pochi attimi dopo tornarono alle loro posizioni. Fu Ozora che, avvicinatosi al numero undici, bisbigliò: “Allora Genzo non mentiva.”
“Non ho mai pensato che mentisse, francamente. Una cosa è certa, però: più il tempo passa e più è difficile controllare certi comportamenti. Hai visto com’è stato naturale per Mamoru rivolgersi a lui in quel modo, no? Credo che non si sia neppure reso conto di quello che ha detto…”
“Papà! Vuoi tirare sì o no?” Gli urlò uno dei bambini alle sue spalle.
“Ehi, vecchietti, qua stiamo ancora aspettando questo famoso goal per la sfida, eh!” Daichi dalla difesa del campo, con cui era schierato insieme ai gemelli, li stava prendendo in giro dall’inizio della partita.
“Vecchietti? Taro, c’ha definito vecchietti?”

Taro sorrise. Di un sorriso che era capace di lasciarlo senza fiato, che spesso gli aveva tolto il sonno la notte e attanagliato il cuore quando i flash della memoria si facevano vividi nei periodi di lontananza.
Ed era bello quando sorrideva così.
Le labbra carnose, distese e rilassate, si accompagnavano al leggero velo di strafottenza che ora gli brillava nelle iridi nocciola.
Le sfide li avevano sempre eccitati. Ed era bastato un semplice cenno della testa perché la progressione abituale partisse e la provocazione fosse automaticamente accettata.
“Ora ve lo facciamo vedere noi chi sono i vecchietti!” aveva puntualizzato Misaki, affiancando come sempre il suo compagno di vita e non solo in campo.
Nessuno si era risparmiato, in quella partita che si era fatta improvvisamente seria e importante, tanto da farli sudare e studiare tattiche per spiazzarsi a vicenda. Ma nonostante tutto l’impegno dei giovanissimi, l’esperienza e il talento dei campioni erano inevitabilmente venuti fuori, lasciando gli avversari indietro di due goal. Non molti per la loro giovane età; Tsubasa ne fu entusiasta.
“Ragazzi è tardi, dobbiamo rientrare.” Era così che Sanae a mezzanotte inoltrata aveva richiamato i figli matidi di sudore. Le proteste non erano mancate ma aiutata dall’ex marito era riuscita nell’impresa; spalleggiata anche da Daichi che si era offerto di rientrare con loro.
Rimasti soli, il resto della squadra si trasferì a bordo piscina, con cocktail improvvisati dagli stessi ospiti: oramai entrati in possesso del banco bar, stavano inventando nuove combinazioni.
Ovviamente Ryo stava creando schifezze indicibili. Taro raggiuse Tsubasa seduto su un lettino della piscina, con una birra tra le mani.
“Non credi di aver bevuto abbastanza?” chiese il campione del Barcellona, sollevando lo sguardo sul numero undici.
“Possiamo per una sera pensare solo a divertirci?” e detto con quel maledetto sorriso sulle labbra era da arresto immediato. Il capitano scosse la testa e afferrò la birra che il compagno gli porse facendo spallucce. Forse, per una volta tanto, potevano davvero rilassarsi. Le birre cozzarono fra di loro in un brindisi improvvisato e maldestro, visto che Misaki colpì la bottiglia di striscio rendendo il tutto improvvisamente comico. Seduti vicini si stavano godendo lo spettacolo sul bordo della vasca. Molti dei loro amici stavano compiendo capriole e pirolette inventando nuovi tuffi spericolati.
Quasi tutti erano finiti per restare in boxer e pochi ancora indossavano le camicie oramai fradice. Impegnati com’erano a bere e ridere non si accorsero della presenza alle loro spalle.
“Oh, ma qua abbiamo la famosa Golden Combi!”
In entrambe le schiene dei due campioni passò un brivido di terrore: riconobbero subito la voce del giornalista.
Si voltarono in contemporanea, scorgendo l’avvoltoio dietro di loro.
“Non sentivamo la sua mancanza.” Puntualizzò Taro con una punta di rancore nella voce. Dopo quello che era riuscito a insinuare, fidarsi di una persona così era impossibile.
L’uomo, dopo aver aggirato il lettino, si sedette in quello di fronte a loro.
“Bene, bene, ditemi un po’: com’è che due bei ragazzi come voi sono soli soletti a questa bella festa?”
Tsubasa si alzò lentamente, riuscendo a mantenere costante il contatto visivo.
“Siamo personaggi del calcio non del gossip, come lei ci vuol far apparire.”
L’uomo si alzò così da poterlo guardare dalla stessa altezza.
“Anche i personaggi sportivi hanno una vita privata.”
“Vita privata che a lei non deve interessare; non deve fare un servizio sugli sposi? Sono là, guardi.” Indicò Taro con l’indice in direzione di Genzo che, con Kumi tra le braccia, si stava buttando in piscina.
“Ho raccolto anche troppe informazioni, credo che per oggi il mio lavoro sia finito.”
“Bene, allora arrivederci.” Rispose Taro, alzandosi e indicando all’uomo l’uscita.
E non seppero né come e né perché, ma la Silver Combi e forse Mamoru, li scaraventarono improvvisamente in acqua senza tanti complimenti, salvandoli così dal giornalista e togliendoli dall’impiccio.
Taro riemerse, sputando un’intera boccata di acqua e tossendo a più riprese. Vicino a lui, il capitano rideva scuotendo la testa e inveendo contro i tre, o forse quattro, traditori. Si stavano schizzando in ogni modo e direzione consentita. Allontanatosi dalla lotta, Taro si era ritrovato a osservare la scena da lontano; doveva riprendere fiato dal quasi annegamento.
Le luci azzurre della piscina facevano risplendere ogni persona che si trovava all’interno. E vedere Tsubasa difendersi, ridere, e scuotere i capelli per togliere l’eccesso di acqua, in quell’atmosfera surreale, lo eccitò all’istante. Era bello, illuminato dall’aurea azzurrognola che lo avvolgeva grazie alle luci subacquee. Erano giorni che non si vedevano e lui aveva una voglia matta di baciarlo. Si fece coraggio, annebbiato dai fumi dell’alcol e stordito dall’odore penetrante del cloro; a lui il cloro aveva sempre dato fastidio. Nuotò in direzione del compagno e, una volta raggiunto, lo afferrò per le spalle per bisbigliargli all’orecchio.
Tsubasa sentì le mani prima tra la curvatura del collo e la spalla, poi lungo i fianchi fino a fermarsi all’altezza della cintura dei pantaloni.
Erano ancora mezzi vestiti. Solo Taro aveva un tocco così delicato, solo lui sapeva come e dove toccare; e quando, per un fugace momento, sentì il petto aderire alle spalle chiuse gli occhi in attesa. L’aria calda vicino al lobo destro non tardò ad arrivare, e se ancora non sapeva la richiesta i soli gesti gliela avevano fatta capire.
“Ho voglia di te.”
Non servì una risposta, quella era nei gesti, nei brividi sull’epidermide, nell’afferrare la mano del compagno sott’acqua e trascinarlo fino al bordo, sollevarsi insieme su questo, raggiungere i festeggiati e congedarsi dopo aver salutato tutti.
Uscire lasciando impronte ovunque e camminando vicini tanto da sfiorarsi, ma non toccarsi.
“Guido io.” Chiarì il capitano dopo aver visto il compagno barcollare sul vialetto e scivolare sulle scarpe bagnate; sicuro, che non fosse solo per colpa del dell’acqua quello slittamento che per poco non lo aveva fatto cadere, se lui non lo avesse agguantato per un braccio.
“Non ti fidi?” chiese il numero undici, appoggiandosi all’auto con le braccia incrociate sul petto.
“Mi fido sempre, ma stasera credo sia meglio se guido io” un passo mosso in avanti e la mano tesa in attesa delle chiavi.
E Taro sorrise, ancora di quel maledetto sorriso assassino al quale non sapeva resistere. Ozora roteò gli occhi al cielo stellato e sbuffò una risatina. Proprio non riusciva a tirare fuori dalla tasca quel mazzo.
“Beh, che hai da ridacchiare? Non è colpa mia se le chiavi sono intrappolate nella tasca dei pantaloni fradici… vuoi venire a darmi una mano per prenderle?”
Il capitano sgranò gli occhi e dopo essersi guardato intorno per sincerarsi che non ci fosse nessuno con un passo chiuse la distanza che li separava e tolse la mano del compagno dalla tasca. “Lascia fare a me o ci stiamo tutta la notte qua.”
E non lo avrebbe mai immaginato Tsubasa quanto quel gesto apparentemente innocente avesse spiazzato il numero undici. Immobile contro l’auto e con le mani del compagno addosso iniziò a respirare con affanno. Doveva solo ricordarsi che erano ancora in pubblico, marchiarselo a fuoco nella testa.
Non mosse le mani che restarono chiuse a pugno lungo le gambe, ma poggiò la fronte nell’incavo del collo del compagno che s’irrigidì all’istante.
“Che diavolo stai facendo, Taro?”
“Sono ubriaco e cerco sostegno. Se poi mi tocchi così devo per forza trovare una scusa.” Sussurrò nella pelle intrisa di cloro.

…CLICK…

“Ma non ti sto toccando” specificò il capitano.
“Beh, quelle non sono le chiavi” scherzò il numero undici dopo avergli dato un leggero bacio sulla pelle della clavicola bagnata e tornando in una posizione più eretta.
“Idiota!” lo apostrofò spingendosi via, le chiavi finalmente nelle sue mani.
Aprì la portiera con la chiave visto che il tuffo in piscina non aveva giovato alla parte elettronica del mazzo.

…CLICK…

Una volta in auto, Tsubasa accese il quadro e mise in moto, Taro si era sporto verso di lui e lo stava toccando.
“Fermiamoci nel primo motel che troviamo, per favore.” Disse, stringendo l’interno coscia all’altezza dell’inguine. Quella camicia bianca bagnata e appiccicata al suo uomo, come una seconda pelle, lo mandava in ebollizione.
“Da quando siamo diventati così impazienti?” domandò Tsubasa regalandogli i tre quarti del viso. Aveva smesso di avviare l’auto e si era completamente concentrato su Taro.
“Da quando la stoffa bagnata ti fa sexy!”
E non lo fece più parlare mentre le labbra furono catturate in una morsa di famelici baci.

…CLICK…

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Capitolo 7
*** Capitolo 07 ***


Dicembre 2020


Gli pesava addosso, ma non avrebbe protestato per nulla al mondo. Gli odori della loro pelle si fondevano alla perfezione dopo il sesso. E se l’amore avesse avuto un profumo, lui era certo che sarebbe stato quello. La bocca del compagno all’altezza del suo sguardo stava recuperando aria a pieni polmoni. Nella luce fioca della lampada alla sinistra del letto, le goccioline di sudore sulla fronte del campione nipponico risplendevano come diamanti. Taro allungò l’indice per fermarne una che tentava di cadere dal ciuffo ribelle.
Il leggero movimento accentuò un’ultima pulsazione dovuta all’amplesso appena consumato, Taro strinse gli occhi e chiuse il labbro inferiore tra i denti per assaporare l’ultimo istante di piacere. Come piccolo premio supplementare, ricevette un bacio sulla palpebra destra.
“Non eri stanco?” chiese tornando ad aprire gli occhi e fissando quelli neri e brillanti di Ozora.
“Sono tre mesi che non ci vediamo: non venirmi a parlare di stanchezza!”
Al Capitano forse il tono gli era uscito un po’ troppo aspro, ma gli ultimi periodi erano davvero stati un supplizio per loro. Gli impegni calcistici prima, e familiari dopo, avevano impedito alla coppia di vedersi anche per poche ore e, tra un impegno e un problema, erano passati tre mesi pesantissimi che erano sfociati in un capodanno alternativo nella loro casa in Spagna. Si erano sentiti per messaggi e poco per telefono, ma una cosa era stata chiara: quelle poche ore, una manciata, sarebbero state tutte riservate a loro due. Delle piazze, feste e ricevimenti non interessava, la priorità era stata data alla coppia e al recupero del tempo perduto. Dopotutto non era colpa di nessuno se i gemelli avevano preso la varicella, in successione, impegnando Tsubasa per così tanti giorni.
“Hai ragione, è stato un periodo davvero intenso.” Taro non riusciva a smettere di toccarlo, e se prima era stato solo l’indice a catturare la goccia ribelle, adesso anche il dito medio si era aggiunto all’impresa. Ma la scusa del sudore oramai non reggeva più e le dita presero ad accarezzare quella fronte tanto amata; finché il palmo pieno non si adagiò sull’intera guancia e il pollice prese a sfiorare le labbra carnose che ancora incameravano aria velocemente.

Labbra gonfie di baci.

“Intenso è riduttivo, sono davvero stremato.” Nel dirlo il capitano si adagiò sul petto del compagno tentando di regolarizzare il respiro. Sul fianco sentiva i polpastrelli di Taro sfiorargli la pelle in delicate scie ardenti. La mano sul viso invece si era spostata sui capelli e stava cercando di domarli senza successo.
“Poco fa non mi sembravi così stanco…” il tono misto tra il sarcastico e l’allusivo lo fece sorridere. L’unione dei corpi provocò a entrambi un'altra stilettata di piacere.
“Wow! Ok, è bene che mi tolgo da qua.” Tsubasa si era così sollevato sulle braccia puntellando le mani sul materasso lungo i fianchi del compagno.
“Aspetta!” gli soffiò il numero undici all’orecchio aggrappandosi alle sue spalle per sollevarsi; le gambe ancora intrecciate ai fianchi ben salde.
Ozora sorrise di quell’improvviso solletico sotto al lobo dell’orecchio che gli fece perdere le forze e cadere sul corpo dell’altro.
“Pesi!” si lamentò Taro schiacciato sotto.
“Sai che soffro il solletico… che ne dici di una doccia?” chiese Tsubasa sollevandosi nuovamente sugli avambracci e fissandolo nelle iridi nocciola.
“Dico che in qualità di capitano hai sempre delle ottime idee.” E di fronte alla nuova e invitante proposta, Misaki sciolse le braccia e le gambe per agevolare i movimenti.
 
 
 
Nonostante il tentativo di togliere la tensione dalle spalle del compagno, Tsubasa restava teso come una corda di violino.
Sotto il getto caldo posò le labbra dietro al collo, vicino l’attaccatura dei capelli, lo baciò; mentre le dita, dopo esser scivolate lungo il fianco, avevano trovato le altre intrecciandosi in un abbraccio.
Passò poco tempo e altre dita si attorcigliarono a quelle di Taro stringendole calorosamente. La testa, arresa, si adagiò sulla spalla del numero undici mentre dalla bocca ne usciva un sonoro sbuffo.
“Rilassati!” il soffio delle sillabe s’infranse sulla pelle del collo facendo increspare l’epidermide. Solo la brezza mattutina del Camp Nou riusciva in tale impresa.
“Penso solo che tra qualche ora devo accompagnarti all’aeroporto: e non voglio!”
“Tsubasa, anch’io non voglio, ma non è colpa mia se il mister ci ha convocati per domani pomeriggio.”
Il capitano si districò dalla presa, voltandosi scocciato: “Vorrei sapere quale allenatore sano di mente può convocare un maledetta riunione il primo dell’anno, diavolo!”
“Me lo sono chiesto anch’io…” rispose Misaki dopo aver afferrato la spugna e, allungata la mano, prese a passarla sui pettorali del compagno.
“Dobbiamo pensare per forza a quello che accadrà tra poche ore? Non possiamo goderci questo momento solo per noi?”
“Scusa, hai ragione, sto rovinando tutto, è che…”
“Che vorresti venire con me, lo so, ma domani sera arrivano i gemelli e non mi sembra il caso di studiare soluzioni miracolose per qualche manciata di minuti: siamo realisti, Tsubasa.” Il rimprovero bonario però contrastava con le amorevoli carezze che gli stava dedicando.
“Però devi ammetterlo che se non fosse per i miei improvvisi colpi di testa ci saremmo visti ancora meno.”
“Oh, non ne dubito, ma dopotutto il folle che è partito da poppante per il Brasile mica sono io!”
E l’incazzatura di Tsubasa si era infranta sull’ironia discreta di Taro, l’indole positiva del carattere aveva fatto il resto; per questo il capitano si sporse verso il compagno regalandogli un bacio a schiocco sotto il getto scrosciante ed esclamando: “Che hai cucinato di buono per quest’ultimo dell’anno?”
Dopo essersi tolto il sapone di dosso, in fretta e furia, era uscito dalla doccia avvolgendosi nel morbido telo di spugna blu sotto lo sguardo divertito del numero undici.
Dal vetro appannato della doccia poteva vederlo mentre si frizionava i capelli ancora più indisciplinati.
Misaki sorrise. “Certo che hai una bella faccia tosta nel chiedermi se ho cucinato qualcosa… sono arrivato da tre ore, ed è due ore che siamo nel letto; come pensi che possa aver pensato al cibo?”
“Ordino all’indiano qua sotto?” chiese ridacchiando, era ben consapevole del fatto che appena messo piede in casa non gli aveva dato respiro.
“Quante volte hai già ordinato all’indiano qua sotto? Confessa?”
Ozora si portò una mano dietro la nuca come da bambino, non aveva perso quella deliziosa abitudine, e quando lo faceva era semplicemente adorabile.
Come la prima volta che glielo aveva visto fare.
Il ricordo gli esplose in testa con tutta la sua prepotenza.
 

Aveva osservato dagli spalti la partita, poi Ryo s’era fatto male; lui aveva preso coraggio e con un balzo era entrato in campo dicendo che avrebbe potuto sostituire l’infortunato. Certo, in un primo momento non gli avevano creduto, aveva dovuto togliere il pallone a due dei ragazzi presenti, ma quando si era imposto e aveva indossato la maglia numero undici il cuore gli era esploso dalla gioia. Aveva visto giocare Ozora, ne era rimasto affascinato e quando dopo un primo tentativo di goal andato a vuoto avevano riprovato insieme, fallendo miseramente, era stato in quel preciso istante che Tsubasa aveva fatto quel gesto che, solo dopo, aveva capito di adorare. Avevano fallito un goal, eppure il capitano non si arrendeva e al contempo sembrava quasi dispiaciuto che la loro progressione non avesse funzionato. Aveva avuto l’impressione che quel piccolo gesto della mano dietro la testa, a scompigliarsi i capelli, fosse quasi un modo per scusarsi con lui.
Lui che era appena arrivato, dopotutto. Incredibile!
 
 
No, non avrebbe mai scordato la prima volta che aveva notato quell’espressione tipica di Ozora.
“Che malfidato, ogni tanto ho ordinato anche dal giapponese!”
Taro aprì il cristallo della porta e gli lanciò la spugna bagnata in pieno volto, ma i riflessi del campione non si fecero attendere e afferrò la spugna senza difficoltà.
“Alla fine dovrò chiedere a Genzo di farmi provare in porta ogni tanto.” Scherzò lasciando che la spugna bagnata cadesse nel lavabo.
“Sparisci! E ordina qualcosa prima che moriamo di fame” gli urlò Taro da dentro la doccia.
“A parte gli scherzi, ho fatto la spesa, se hai voglia di inventare qualcosa bene; altrimenti ordiniamo e ce lo facciamo portare qua. Tanto la strada oramai la conoscono.”
“Ok, tu apparecchia e io vedrò cosa poter inventare.”
 
 
Seduti al bancone della cucina con Barcellona sullo sfondo, che risplendeva di luci natalizie e fuochi artificiali improvvisati, chiacchieravano sottovoce godendosi la quiete e la musica di sottofondo.
(gnash - i hate u, i love u (8D AUDIO) ft. olivia o'brien)
Taro non era stato capace di studiare niente, distratto dall’improvvisa allegria di Tsubasa e la sua voglia di recupero contatto mancato, dovuto alla distanza forzata. Ne aveva bisogno anche lui era innegabile, e quell’atmosfera calda, casalinga e accogliente, gli sarebbe mancata quando, tra poche ore, avrebbe preso nuovamente l’aereo.
Il campanello suonò e il capitano si precipitò all’ascensore regalandogli un sorriso poco prima che le porte si chiudessero. Non aveva fatto salire il ragazzo delle consegne per paura, forse in un eccesso di privacy, visto che molto spesso uscivano titoletti allusivi su loro due. Il giornalista non si era mai arreso e nonostante avessero sempre prestato la massima attenzione, qualche volta quell’avvoltoio li aveva colti in piccolissimi frangenti intimi, ma di poco conto, per fortuna.
Un altro ricordo gli invase la testa.
 
 
Il giornalista li aveva chiamati il giorno dopo il matrimonio di Genzo e aveva mostrato loro le foto scandalose, secondo lui. Erano stati bravissimi in quel frangente; non avevano fatto trasparire la benché minima titubanza. Facce di bronzo degne di Wakabayashi, avevano ipotizzato appena usciti dal suo studio riuscendo anche a scherzarci su. Anche se un brivido lo aveva attraversato al solo pensiero di una foto di loro che si baciavano dentro l’auto.


 
Le foto invece, per fortuna, erano tutte state fatte da lontano. Si erano giustificati per il troppo alcool ingerito e avevano benedetto i vetri oscurati dell’auto, perché in auto si erano baciati, lo ricordavano perfettamente. C’era anche stato un bacio sul collo fuori dall’abitacolo, ma si poteva giustificare nella sbronza del compagno e la ricerca delle chiavi.
Dal quel giorno erano stati attentissimi.
Quando erano presenti a qualche evento mondano cercavano di stare il più lontano possibile e considerarsi a debita distanza. Contatti ridotti al minimo, avevano ridotto anche i semplici cenni della testa o sguardi eloquenti.
Era stata una violenza che si erano fatti.

Il giornalista aveva insistito tantissimo, aveva provato in ogni modo a incastrarli, poi Tsubasa aveva detto quella frase che lo aveva zittito. Una frase allusiva, ma di effetto, e forse l’uomo, Yoshinori Sakai, si era reso conto della situazione.
La ricordava come fosse successo due secondi prima.
“Secondo lei: con dei figli ancora minorenni da tutelare, due personaggi come noi, fosse anche vera questa strampalata ipotesi, potrebbero fare coming out?”
Poi si era alzato e diretto verso la porta, ovviamente lo aveva affiancato ed erano usciti insieme.
Yoshinori Sakai era ammutolito, non aveva proferito più parola.
Perché in quella frase era racchiuso tutto.
La verità.
La negazione
I problemi.

Forse anche lui si era improvvisamente reso conto che il problema dell’omofobia e dei figli era reale, e forse anche lui era padre. Al momento non sapevano assolutamente quale ipotesi potesse valere, ma una cosa era certa, l’avevano scampata; non sapevano per quanto ma erano salvi.
 

Erano passati quattro mesi relativamente tranquilli da quell’ultimo contatto con Yoshinori Sakai.
 
Il rumore dell’ascensore che saliva nuovamente al piano lo fece alzare e andare incontro per aiutarlo.
Appena la porta si aprì un gradevole odore di cibo pronto stuzzicò le papille gustative affamate. Erano le undici di sera e loro ancora a stomaco vuoto.
Ci volle poco per divorare le pietanze innaffiandole con un delizioso prosecco. Il primo botto di capodanno, che aveva illuminato tutta la Sagrata Famiglia fece alzare Taro dalla sedia e correre verso il frigo per prendere la bottiglia di champagne.
“Dieci… nove…” iniziò così Tsubasa il conto alla rovescia, mentre due calici pronti e puliti venivano posizionati per essere riempiti.
“Cinque… quattro…” continuò Misaki innalzando il calice verso il capitano.
Sullo scoccare dello zero il cristallo impattò provocando un leggero rumore, il liquido biondo venne bevuto in un sol sorso e i calici abbandonati sul ripiano.
E poi fu solo un’esplosione di luci e riflessi multicolore nel cielo spagnolo; queste illuminavano l’ultima notte del 2020 e davano il benvenuto al 2021 mentre labbra che non smettevano di lambirsi e cercarsi, assaporavano lo champagne della bocca dell’altro. Le bollicine impertinenti risalivano lungo il condotto respiratorio facendo arricciare il naso al numero undici. Tsubasa sorrise sulle carnose labbra dopo aver sentito il compagno fare quel movimento, lo conosceva bene e sapeva che Taro e lo champagne, o più precisamente le bollicine, non andavano molto d’accordo, era già un miracolo che non fosse sopraggiunto il singhiozzo.
Il capitano si staccò per osservarlo meglio. “Il naso arricciato ti dona” scherzò mentre ridacchiava sul sopraggiungere del singhiozzo, poi raggiunse il tavolo per riempire un bicchiere di acqua.
“Al diavolo – HIP – non berrò mai più – HIP – una dannata goccia che abbia – HIP -bollicine.”
“Tieni.” Disse allungando l’acqua.
“Grazie”
 
 
 
L’ora era giunta in fretta, sempre troppo quando erano insieme, mentre quando erano distanti il tempo pareva non passare mai.
La saletta vip era deserta, ovviamente, soltanto dei pazzi potevano avere un aereo alle due della notte dell’ultimo dell’anno.
Tsubasa restava rigorosamente in piedi di fronte al compagno, l’orologio al polso veniva consultato ogni pochi minuti.
“Perché non ti siedi e rilassi?”
“Preferisco stare in piedi…”
E allora era stato Taro ad alzarsi e porsi di fronte a lui vicinissimo; poi aveva allungato le mani e le aveva infilate nel piumino lasciato aperto, queste si erano adagiate sui fianchi afferrando il maglione, gli occhi fissi gli uni negli altri.
“Potrebbe esserci qualcuno…” puntualizzò Ozora rigidissimo nella sua posizione.
Misaki inclinò la testa e sorrise. E quando metteva in campo quel fottuto sorriso sapeva già di essere fregato.
“Puoi evitare armi di seduzione di massa?” ironizzò il numero dieci, facendo scorrere le dita sulle braccia del compagno fino ad arrivare alle spalle.
Il numero undici roteò gli occhi sollevando le sopracciglia: “Ma chi vuoi che ci sia a quest’ora dell’ultimo dell’anno?”
“Non che siamo così fortunati, o bravi a non farsi sgamare.”
“Hai ragione, ma un abbraccio tra amici non potrà essere frainteso, no?”
E lo aveva attirato a sé per stringerlo. Glielo aveva lasciato fare circondando le spalle per ricambiare il gesto, poi Taro lo aveva baciato sul collo ripetutamente. Piccoli minuscoli baci che gli sfioravano la pelle, forse se ci fossero stati spettatori avrebbero potuto pensare che stesse piangendo e lui lo stesse consolando.
 
“Si avvisano i signori passeggeri che il volo per Parigi è in partenza dal gate 7”
 
Era così che la voce metallica dell’altoparlante li aveva fatti staccare e riscuotere quasi che fossero stati sgamati.
Entrambi avevano i battiti del cuore accelerati e non solo dal momento di intimità, ma anche dalla paura della voce squillante.
“Ho temuto…”
“… che ci avessero sgamato.” Terminò Taro per Tsubasa prima che entrambi scoppiassero in un risolino nervoso.
“Devo andare.” Puntualizzò Taro afferrando il trolley e avviandosi al gate.
Tsubasa restò lì immobile a guardarlo andar via verso il tunnel.
 
E fu nell’istante in cui si fermò e voltò per salutarlo, un’ultima volta, che perse ogni inibizione e corse verso il numero undici. Più volte gli aveva detto che quel sorriso era illegale; quindi, era solo colpa sua se ora lo aveva raggiunto, preso per il giacchetto e attirato a sé per baciarlo.
Baciarlo come se fosse l’ultima volta che lo facevano.
Si staccarono ansanti e sconvolti.
“Che diavolo fai?” Domandò Taro allarmato, guardandosi intorno.
“Fanculo il coming out.” Disse tornando sulle sue labbra.
 
“ULTIMO AVVISO Si avvisano i signori passeggeri che il volo per Parigi è in partenza.”
 
Il respiro affannato come in allenamento li fece sorridere come due adolescenti.
“Hai ragione, Ozora, fanculo il coming out.” Un altro bacio a schiocco e poi Misaki prese a indietreggiare nel tunnel che lo avrebbe condotto all’aereo.
Non si persero di vista finché fu possibile, ignari di un CLICK clandestino poco lontano da loro.
Troppo vicino stavolta.

Forse non tutti stavano festeggiando l’ultimo dell’anno.




Ringrazio Ciotolina per lo splendido disegno.
Quando me li mandi in priva in chat ho sempre gli occhi che brillano... Sappilo.
Orgogliosa di ispirare così tatno il tuo immenso talento grafico.
Grazie
Grazie
Grazie

Sanae77

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Capitolo 8
*** Capitolo 08 ***


GENNAIO 2021
 
 
Erano quattro giorni che osservava quelle fotografie, il dito scorse lungo il filo rosso di lana che conduceva finalmente al fulcro del tutto.
La relazione della Golden Combi. Ancora osservava la foto scattata all’aeroporto, incredulo.
E le parole del capitano Ozora gli rimbombavano nel cervello dal primo dell’anno.

“Secondo lei: con dei figli ancora minorenni da tutelare, due personaggi come noi, fosse anche vera questa strampalata ipotesi, potrebbero fare coming out?”

Era solo per sua moglie che ancora non aveva scritto nulla, ricordava perfettamente il suo arrivo a casa con la gioia nel cuore di aver scoperto finalmente tutto, e quando il suo racconto concitato si era esaurito, sua moglie era andata su tutte le furie e aveva inveito contro di lui.
Questo lo aveva fatto riflettere; tanto, tantissimo. Infatti erano novantasei ore che fissava imbambolato la bacheca di sughero, traslocata dal suo studio a casa, non sapendo che decisione prendere. O forse l’inconscio della scoperta aveva agito ancor prima della ragione, tutelando i due campioni dagli occhi indiscreti dell’ufficio? Non lo sapeva ma istintivamente aveva portato la bacheca a casa.
 
Sua moglie aveva decisamente dato in escandescenza, complice il debole che aveva per i campioni nipponici ovviamente, ma le parole che gli aveva detto avevano risvegliato il suo lato umano e non quello del giornalista.
Avevano risvegliato il ‘padre’ che era in lui, dopotutto c’erano degli innocenti in mezzo; senza mai dimenticare il discorso di Ozora che gli ronzava in testa da novantasei ore maledette e che gli aveva imposto un paio di analgesici.

...Secondo lei: con dei figli ancora minorenni da tutelare…
…con dei figli ancora minorenni da tutelare…
…figli ancora minorenni…

Quelle tre parole gli si erano piantate in testa senza alcuna possibilità che sparissero in breve tempo, senza considerare le grida di sua moglie quando aveva visto le foto; prima le aveva guardate con occhi sognanti e dopo aveva iniziato a inveire contro di lui, dicendo che doveva lasciarli fare, che avevano portato il Giappone a vincere la coppa del mondo, che erano dei bravi ragazzi padri di famiglia e che non doveva rovinare loro: né la carriera, né mettere in difficoltà i bambini. Senza considerare il fatto che una frase lo aveva particolarmente colpito: “che diavolo te ne frega di chi si portano nel letto? Sono bravi a calcio, tanto ti deve bastare.”
Ma lui era specializzato in scoop e scandali, e quando ne fiutava uno non lo mollava per una morale del cazzo. Ci campava, lui, con quegli scoop. Infatti alla moglie aveva risposto stizzito un: “Vorrei ricordarti che ci viviamo con la vita privata delle star.”
“Sono nostri connazionali, Yoshinori, vedi di trovare una soluzione per una volta; prima di combinare un disastro e magari rovinare anche la nazionale Giapponese.”
Ecco!
Questo sì che aveva fatto drizzare le sue antenne. Quei ragazzi erano la Generazione d’Oro, la risorsa del Giappone, erano loro che avevano fatto decollare la nazionale e fatta volare fino alle vette più alte del mondo portando a casa l’ambita coppa.
Tornò sul filo rosso e con il polpastrello, ne toccò la consistenza facendolo scorrere tra pollice e indice. Percorrendolo arrivò alla sequenza di foto più incredibile che avesse mai impresso sulla macchina: Tsubasa che di scatto raggiungeva il numero undici e lo baciava di sorpresa, poi gli sguardi smarriti a controllarsi intorno, poche parole e poi il nuovo bacio, passionale, ardito e proibito al tempo stesso, che li aveva visti protagonisti di una delle più belle immagini che avesse mai immortalato.
 

 
Quella dopo era una foto di loro due che si allontanavano. Ozora di spalle mentre Misaki, con gli occhi nocciola che brillavano di eccitazione, camminava all’indietro finché non era scomparso dall’obiettivo. Aveva immortalato quel luccichio delle iridi che poche volte aveva osservato negli occhi di qualcuno.

“Maledetti ragazzi, che diavolo devo fare con voi?” aveva domandato alle foto che lo fissavano mute.
 
Erano passati solo pochi minuti tra quell’espressione e l’avvio della chiamata al capitano del Giappone. Una cosa era certa, prima di qualsiasi decisione doveva parlare con loro.
“Pronto?”
“Buongiorno, signor Ozora, sono Yoshinori Sakai, vorrei incontrarla nel mio studio per discutere di alcune questioni.”
“Sakai, io davvero non so come dirle che non deve importunare le nostre vite.” Tsubasa aveva fermato l’auto e, a bordo strada, stringeva il volante con la mano libera. Cercava di mantenere un tono neutrale, quando dentro sentiva di dover gridare a quell’uomo di non rompere il cazzo!
“Se possibile, vorrei che ci fosse anche il signor Misaki.”
“Senta, non abbiamo voglia di perder tempo su presunte foto ambigue di idee presenti soltanto nella sua testa.”
“Sono certo che in molti saranno interessati a sapere che cosa ci facevate la notte del 31 dicembre al gate 7 dell’aeroporto di Barcellona; partenza per Parigi se non erro, vero?”
“…”
 

Ed era calato il silenzio. Il deglutire nervoso del suo interlocutore non tardò ad arrivare come la voce rauca e a scatti…
Improvvisamente il capitano non era più sicuro come appena iniziata la conversazione. Sakai ne ebbe quasi compassione per aver colpito e affondato praticamente tutta la flotta con un solo colpo. Ma doveva stare attento, perché se avesse affondato Ozora, era certo che anche tutta la nazionale avrebbe fatto la stessa fine, e loro avevano ancora un mondiale da vincere.
“Mi-mi… dica dove…” era riuscito ad articolare il numero dieci con voce bassissima.
“Avrei piacere che anche Misaki partecipasse a questo incontro, davvero…”
E quel davvero gli era uscito con un tono molto rassicurante, inconsciamente o forse anche realmente, voleva far calmare il campione: non voleva assolutamente rinunciare allo scoop ma era sicuro di poter trovare una soluzione.
“Ci dia il tempo di organizzarci, trovare un luogo e un aereo…”
“Certo, capisco che siate pieni d’impegni, aspetto sue notizie.”
“La ringrazio.”
Tsubasa fissò incredulo il cellulare buttato sul sedile del passeggero. Con le mani sul volante, e le nocche bianche dal troppo stringere per la rabbia, scuoteva la testa ancora incapace di razionalizzare quanto appena accaduto.

Ma quanto cazzo erano sfigati nel beccare il fotografo la notte dell’ultimo dell’anno in aeroporto?

Poggiò la testa sul volante mentre iperventilava una serie di bestemmie mentali; dandosi ovviamente del cretino, per i suoi fantastici slanci, e coming out del cazzo!
Una volta ritrovato un barlume di lucidità afferrò il cellulare e chiamò Taro.
 
 
Ancora non gli sembrava vero di essere di nuovo sull’aereo per Barcellona a pochi giorni dal suo ritorno. Non dovevano vedersi per almeno un mese e se la cosa non fosse stata tanto grave, quel fortuito incontro gli sarebbe anche piaciuto. Invece un’altra volta il fotografo li aveva colti in flagrante, erano proprio degli ingenui. Una soddisfazione comunque voleva togliersela, e chiedere a Sakai come facesse a essere nel posto giusto al momento giusto, sicuramente sarebbe stata la prima domanda che gli avrebbe posto.
Quando il simbolo delle cinture venne acceso capì che erano in fase di atterraggio. Tsubasa gli aveva già mandato dei messaggi per dirgli dove aveva parcheggiato, non avevano tempo da perdere, dall’aeroporto si sarebbero subito incontrati con il fotografo a casa sua.
Gli era parso alquanto strano un incontro tra le mura domestiche e non al giornale dove lavorava l’uomo.
Una volta percorso il tunnel e uscito fuori, vide al parcheggio i lampeggianti dell’auto rivolti verso di lui. Il capitano si era subito preoccupato di farsi riconoscere, quindi trainando il trolley attraversò la strada per raggiungere il compagno.
Una volta aperta la portiera, scivolò dentro silenziosamente; salutò Tsubasa con un ciao a denti stretti e attese che fosse l’amato a iniziare la conversazione. Non volle distrarlo mentre si immetteva nel traffico di Barcellona per raggiungere l’indirizzo indicato.
Raggiunta una parte della città meno trafficata il capitano si decise a parlare: “Quindi cosa ne pensi di tutto questo?”
“Che siamo degli idioti, in primis, e che è davvero strano che ci abbia invitato ad andare a casa sua.”
“E se ci chiedesse dei soldi?” chiese Ozora, cambiando marcia.
Taro calò gli occhiali da sole e lo guardò di traverso, inarcando un sopracciglio; ribatté: “E se gli offrissimo noi dei soldi per tacere?”
Tsubasa si girò come se avesse bestemmiato la peggiore delle infamie mai detta prima.
“Noi non siamo quel tipo di persone, Misaki!”
Il numero undici roteò gli occhi da destra verso sinistra in modo circolare a indicare un senso di noia.
“Quindi secondo te per cosa ci fa andare a casa sua? Per offrirti del tè e pasticcini?”
 
 
Ed erano state davvero le ultime parole famose visto che, appena parcheggiato e suonato al portone, una donna, che dopo avevano capito essere la moglie del fotografo, li aveva letteralmente travolti e portati sospingendoli in sala per offrirgli un piccolo spuntino, a suo dire, visto che il tavolo era imbandito peggio che a Natale.
Erano rimasti spiazzati. Non sapevano davvero che cosa dire o fare, imbarazzati dalle premure della moglie che avevano scoperto essere loro fan incallita. Guardandola doveva avere la loro età, mentre il fotografo sembrava di una decina di anni più vecchio. Fotografo che, a detta della moglie, sarebbe arrivato a breve.
La donna si avvicinò al numero dieci e picchiettando con il gomito sul fianco, in una confidenza inaspettata, fece un cenno con la testa affinché i due si avvicinassero.
Taro e Tsubasa si guardarono perplessi prima di sporgersi verso la signora come se stesse per confessargli il terzo segreto di Fatima.
“Ho visto le foto che ha fatto Yoshinori: siete bellissimi! Era tanto che non vedevo una coppia così innamorata.” Il tono basso e allusivo mandò in tilt entrambi e veder passare Tsubasa dal bianco cadavere al rosso porpora fu tutt’uno. Questo rimase a boccheggiare per buon dieci secondi prima di riuscire a prendere fiato, mentre Misaki con la sua compostezza, che ogni volta lo contraddistingueva, ringraziò la donna con un immenso sorriso. Sì, un sorriso di quelli seduttivi che metteva in atto quando era con le spalle al muro. Un sorriso per il quale Tsubasa lo avrebbe appiccicato alla libreria che avevano di fronte, se non fossero stati in casa di estranei. Un sorriso che all’aeroporto lo aveva fregato e che li aveva messi in quel casino.
 
Sorriso maledetto! Pensò Tsubasa mentre tentava di ricomporsi.
 
La donna annuì soddisfatta, poi aggiunse: “Sono convinta che troverete una soluzione con mio marito, diciamo che ho messo una buona parola per voi, non può certo rovinarvi per i suoi scoop, avete dei bambini da proteggere! Io vi ho capito - continuò in un monologo soltanto suo - con tutta questa omofobia che circola, immagino la vostra preoccupazione, davvero non capisco la gente che cosa abbia in testa… Siete bellissimi!”
Non fecero in tempo ad alzarsi per ringraziare che dalla porta di sala fece il suo ingresso Sakai.
“Benarrivati, spero che mia moglie non abbia esagerato con le parole, lei spesso parla troppo…”
La donna gli passò vicino con noncuranza, poi si fermò una volta che lo ebbe di fianco e posò una mano sul petto picchiando su questo con fare amorevole, poi si voltò verso i due giocatori e strizzando loro l’occhio parlò: “non fatevi impressionare, sembra un orco, ma alla fine è un orsacchiotto il mio Yoshinori."
Taro non riuscì a nascondere un sorriso dietro le dita della mano che si erano mosse troppo lentamente rispetto al sorriso che era nato sulle sue labbra.
Alla fine le donne erano più avanti di chiunque altro in certi contesti.
L’uomo roteò gli occhi e sbuffò dopo che aveva gonfiato le labbra.
“Tutte le volte mi fa perdere ogni credibilità. Prego, accomodatevi nel mio studio così potrò mostrarvi le foto e magari possiamo trovare una soluzione consona per tutti…”
I due campioni si alzarono e seguirono il fotografo, non prima di aver visto la moglie lanciar loro un occhiolino rassicurante.
 
 
E di fronte a quella bacheca di sughero, colma di notizie, rimasero a bocca aperta per una ventina di secondi; mentre l’uomo aveva raggiunto la scrivania e, girandole attorno, si era seduto al suo posto.
Il capitano continuava a fissare le innumerevoli foto e i fili rossi che congiungevano notizie a date e fatti della loro vita.
Si rese conto che erano anni che il fotografo lavorava su di loro in maniera molto scrupolosa e dettagliata, e che loro gli avevano fornito le prove su un piatto d’oro.
“Sembra la bacheca di un poliziotto che indaga su un omicidio.” Gli era uscita così naturale quella frase a Taro che il giornalista era scoppiato in una fragorosa risata.
I due campioni prima si scambiarono un’occhiata perplessa dopo si voltarono verso l’uomo che, con un cenno del braccio, li invitò ad accomodarsi nelle due sedie poste di fronte a lui.
 
Incrociò le mani sul tavolo e, appoggiando i gomiti, si sporse verso i due.
“Bene, come avete visto, questa volta le foto non creano dubbio alcuno, quindi: avete voglia di raccontarmi cosa sta succedendo tra di voi o devo pubblicare soltanto le foto senza una storia?”
Tsubasa si era irrigidito sulla sedia, drizzando la schiena e incapace di formulare una risposta. Finché si trattava di calcio poteva rispondere sulla qualunque, ma preso così in contropiede non sapeva davvero che cosa dire per risolvere la spinosa questione.
“Perché non cerchiamo un accordo?” aveva risposto Misaki che con gambe accavallate, e braccia adagiate su di esse, pareva la tranquillità fatta persona; e certe volte Tsubasa lo invidiava per questa capacità di relazionarsi tranquillamente e non mostrare difficoltà verso il problema.
Lui, al contrario, era una corda di violino e si sentiva in trappola senza alcuna via di fuga.
“Non accetto denaro se è quello che intendete.” Il fotografo aveva risposto con sospetto e amarezza nella voce.
Il capitano si era alzato di scatto e aveva poggiato i palmi delle mani sulla scrivania di vetro, permettendo che un alone si disegnasse intorno a esse. Era furioso il sangue lo aveva sentito risalire dai piedi e raggiungere le estremità facendogli sudare perfino le mani.
“Non siamo quel tipo di persone! Se vuole pubblicare quelle dannate foto, lo faccia! Così quando avrà rovinato due giocatori e le loro famiglie sarà contento!”
Lo aveva quasi gridato, poi Taro lo aveva afferrato per un gomito e trascinato indietro, dove aveva trovato la sedia ed era quindi tornato seduto.
“Ok, cerchiamo di mantenere la calma perché davvero non è mia intenzione rovinare nessuno.”
“Allora non può lasciarci semplicemente in pace?” Aveva chiesto Ozora agitandosi ancora sul posto.
“Signori, ci vivo di queste foto e notizie; io comprendo voi, ma voi cercate di comprendere me.”
“Ho una proposta.” Misaki, portando in avanti il busto, si era sporto verso la scrivania per farsi ascoltare meglio. Sakai aveva annuito pronto all’ascolto mentre Tsubasa si era ricomposto sulla sedia neppure avesse avuto degli spilli.
“Cederemo a lei l’esclusiva della storia a patto che aspetti dopo i mondiali del 2026.”
“COSA!?” aveva urlato Yoshinori con gli occhi fuori dalle orbite.
“Capisco che sembra tanto tempo…”
“Tanto tempo? Sono cinque anni! CINQUE anni, ma vi rendete conto?”
“Certo, per quel giorno i nostri figli avranno: 12 anni Desirée e 16 i gemelli del capitano. Sicuramente saranno in grado di gestire il bullismo che subiranno a scuola.”
Fu Tsubasa a intervenire subito dopo…
“Sa che cosa è successo quando sono comparse le foto della mia ex moglie con Genzo?”
Il giornalista negò con la testa.
“Lei non si rende conto che ogni vostra azione ha una reazione. Siamo stati chiamati a scuola perché uno dei miei figli aveva dato un cazzotto al compagno perché aveva chiamato sua madre ‘puttana’.”
L’uomo strabuzzò gli occhi e portò la mano tremante al volto nel tentativo di fermarla.
“So-sono mortificato, non credevo…”
“Ecco, adesso sa che conseguenze possono avere i suoi articoli, quindi per favore ci aiuti a non far ricadere le nostre scelte sui nostri figli.” Ozora aveva concluso così, una richiesta di aiuto forse l’uomo non se l’era aspettata.
Yoshinori Sakai si alzò in piedi e allungò la mano verso il campione nipponico affinché potessero sigillare il patto.
“Queste le condizioni: voglio sapere tutto della vostra infanzia, di come siete diventati amici e di come invece vi siete poi scoperti innamorati.”
“Ok” risposero all’unisono al Golden Combi mentre Tsubasa stringeva ancora di più la presa.
“Inoltre – la coppia acuì lo sguardo prestando ancora più attenzione - Il mio consiglio è che in questi cinque anni ci siano articoli frequenti per abituare il pubblico a voi come coppia di amici prima; e dopo come coppia di amanti, che ne dite?”
“Dico che siamo pronti a raccontarle tutta la nostra vita affinché abbia materiale per le pubblicazioni. Grazie.”
Una volta aver sugellato il patto e fatto preparare il compromesso dai rispettivi avvocati, la Golden Combi si prestò alle domande incalzanti del giornalista affinché avesse materiale sufficiente su cui lavorare.




Ringrazio sempre infinitamente Ciotolina per i fantastici disegni che m'invia dopo ogni capitolo, sono meravigliosi.
E le mie due betuzze che mi infamano in chat, avevano già pronto un machete, ma non è servito... ahahahah
Grazie a tutti i lettori e recensori che si sono appassionati a questa storia; e che m'incuriosiscono con le loro idee e possibili soluzioni ai vari problemi che sorgono durante i capitoli.
A giovedì.
Sanae77

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Capitolo 9
*** Capitolo 09 ***


GIUGNO 2022
 


Seduto sull’aereo Tsubasa sbuffò mentre ripiegava infastidito il giornale, sapeva di quell’articolo, ma non riusciva a digerirlo, per tanti motivi. Primo fra tutti perché era stato uno degli episodi che gli aveva fatto accettare il suo amore per Taro e il secondo perché Daibu, dopo averlo letto, gli aveva fatto una domanda davvero imbarazzante.

Papà, perché quando Taro si era fatto male alla gamba tu ti sei allenato talmente tanto da ferirti?
Avevate una partita importante, perché non hai pensato prima alla vittoria, ma hai pensato solo a Taro?
Perché hai rischiato di non giocare? Perché Taro ti preoccupava così tanto?


Beh, le domande erano state più di una in realtà. E non aveva saputo rispondere a tutte, aveva vaneggiato un: dovevo essere molto più allenato perché pensavo di non avere la mia metà in campo.
Ma non era risultato credibile neppure a sé stesso. Infatti Hayate, che se n’era stato zitto fino a quel momento, rigirando la tazza tra le mani, aveva alzato lo sguardo e, fissando il padre negli occhi, aveva sputato quelle parole così innocenti che lo avevano incastrato all’angolo.

Papà, quanto bene vuoi a Misaki?

Forse era arrossito?
Evaporato?
Sbiancato?

Non se lo ricordava, però una cosa era certa: il cuore gli era rimbalzato direttamente in gola facendolo strozzare con la sua stessa saliva. I suoi gemelli erano grandicelli oramai, 12 anni, scaltri, svegli e al passo con la tecnologia; molto più di lui. Quindi, nel suo film mentale, aveva già immaginato che i due avessero letto chissà quali commenti su Facebook e che sapessero molto più di quanto immaginasse. Era stato quasi colto dalla voglia di confessare, infatti si era raddrizzato sulla sedia e, dopo essersi schiarito la voce, aveva fissato il ragazzino negli occhi e risposto: Molto!
Aveva visto i due scambiarsi un sorriso d’intesa e, dopo aver sollevato un sopracciglio, gli occhi si erano mossi in un segno di assenso. Aveva sempre invidiato questa sintonia tra i due gemelli, tanto da essere certo che quei due fossero telepatici e non glielo avevano mai detto; era impossibile che potessero intendersi così senza uno scambio verbale.
 
“Non pensarci più…” la voce del numero undici al suo fianco lo riportò alla realtà.
“Se non fosse squillato il telefono… Avevo avuto l’occasione giusta, era tutto perfetto, capisci?”
“Capisco. Davvero credi che avessero intuito?”

Il capitano afferrò il giornale e lo aprì alla pagina incriminata.
Tutto quello che aveva raccontato al giornalista era lì, nero su bianco, ed era stato bravo a far trasparire una miriade di sentimenti e sfumature da quel racconto così breve ma significativo.
E dove avesse ritrovato quella foto mezza sfumata delle telecamere di sicurezza dell’epoca doveva ancora capirlo, ma vedersi dolorante sdraiato in mezzo ai cavalletti, con i quali si era allenato, lo aveva sconvolto. Non si era mai reso conto di quanto si fosse autodistrutto in quell’allenamento per la notizia di Misaki. Vedersi nella foto era stato tragico, ricordava la fatica, la disperazione per non poter giocare con il suo migliore amico, e il dolore. Sì, dolore, tanto dolore a quel fianco che aveva massacrato inconsapevolmente.
O forse inconsciamente voleva soffrire come stava soffrendo la sua metà? Quanti sogni e quanti pensieri aveva fatto su quella notte trascorsa ad allenarsi. E ora veder scritto tutto su carta dava una sensazione di tangibilità all’evento mentre la foto regalava concretezza di sensazioni oramai sepolte.
Yoshinori era stato bravo, aveva collegato tutto. L’incidente, il ricovero, la comunicazione della notizia alla nazionale, la disperazione del suo capitano e il rientro di Misaki per la finale con la relativa vittoria, tra bende e sangue di una ferita che non si era ancora del tutto rimarginata.
Aveva rischiato la carriera per quella partita. Tsubasa allungò la mano e la posò sulla gamba che l’amante si era infortunato, stringendo leggermente nel punto in cui sapeva avere la cicatrice oramai schiarita dal tempo.

“Quando mi hanno detto del tuo incidente, ho pensato d’impazzire; a quei giorni, però, non avevo capito certi sentimenti.”
Il numero undici sorrise, non aveva risposto alla domanda che gli aveva fatto ma aveva visto come si era smarrito tra le righe e le foto dell’articolo; poi, quando aveva allungato la mano per posarla sulla gamba incidentata, aveva subito intuito che Tsubasa era piombato nuovamente indietro nel tempo.
“Pensa come stavo io, disteso in quel letto, quando mi hanno detto che non potevo più giocare…” rispose bisbigliando e avvicinandosi con la testa al capitano. I sedili della prima classe erano grandi e avvolgenti, nessuno spazio tra le sedute, quindi nessuna fessura per la visuale dei viaggiatori dietro a loro.
Ozora appoggiò la fronte alla sua chiudendo gli occhi: “Scusa se a quei giorni non ho capito, scusa se non sono venuto a trovarti ma…”
“Avevi una squadra da far vincere, e ricorda: non avrei mai voluto che tu lasciassi il tuo ruolo per correre da me. Non te lo avrei mai perdonato.”
Tsubasa sollevò gli angoli della bocca in un sorriso riservato. “Poi dite a me che sono fissato con il pallone, ma anche voi non scherzate, eh…”
“Voi chi?” chiese Misaki scostandosi e guardandolo storto. La conversazione stava assumendo tutt’altra sfumatura rispetto all’inizio, e lo capì dal luccichio divertito che notò nelle sue iridi.
“Wakabayashi e tutta la combriccola: chi prende la palla di faccia rimettendoci il naso, chi para spaccandosi mani e polsi. Insomma, riconosciamolo: a fuori di testa in nazionale siamo messi benissimo, per non parlare di qualcuno – disse ammiccando un occhietto divertito – che gioca tra bende e sangue.”
“Senti chi parla! Quello che per un campionato di bambini a momenti ci rimetteva la carriera…” ridacchiò Taro, dandogli una leggera spallata.
Ozora sorrise e poi tornò serio. “Ho davvero perso un’occasione con i miei figli.”
Misaki snudò leggermente i denti, riservandogli un sorriso carico d’affetto prima di rassicurarlo con una frase tanto scontata quanto vera: “Non temere, avrai altre occasioni, oramai i tempi sono maturi.”
Non aveva risposto, il semplice cenno di assenso aveva sostituito le parole prima di voltarsi verso il finestrino dell’aereo che annunciava la loro discesa a terra.
 
 
Avevano varcato la soglia dell’hotel guardandosi attorno stupiti. La federazione non si era risparmiata, solitamente venivano confinati in alloggi modesti alla fine del mondo, mentre stavolta entrambi avevano osservato le cinque stelle sulla parete dell’ingresso per alcuni secondi prima di oltrepassare la porta.
Ancora increduli, scorsero alcuni dei loro compagni seduti sugli sgabelli al bar, fecero loro un cenno con il braccio in segno di saluto e andarono al bancone della reception per registrarsi nella struttura.
Quando la receptionist consegnò loro le chiavi della camera, aggrottarono le sopracciglia vedendo che i numeri non erano i medesimi.
“Cioè vuoi dire che Gamo ci ha divisi dopo oltre 20 anni?” strabuzzò gli occhi il capitano, rigirando la chiave magnetica tra le dita.
Taro invece fissava perplesso la chiave e poi il volto sconvolto del suo amato.
Improvvisamente vennero afferrati per il collo e strattonati affettuosamente, impegnati com’erano non si erano accorti dell’arrivo di Genzo alle loro spalle. Con poca grazia se li tirò dietro fino ai divanetti della hall più appartati. Tra varie proteste della Golden, Wakabayashi se la rideva di gusto prendendoli in giro con varie frasi: “Scommetto che quest’anno non vinceremo, visto che non praticherete sesso prepartita, giusto?” La presa fu mollata all’improvviso e i due persero quasi l’equilibrio. Una volta recuperata stabilità, Tsubasa divenne prima bianco e poi rosso fino alle orecchie.
“Piantala di fare il cretino!” lo ammonì il numero dieci, sistemandosi il completo ufficiale.
“Tanto non volevate fare coming out? Vi avrebbe diviso dopo: quindi, di che ti lamenti? - rispose spingendolo per una spalla – ti ho risparmiato lo spostamento delle valigie, ingrato!”
Misaki ridacchiava al suo fianco senza perdere nulla di quella scena, mentre dal bancone del bar vide arrivare Yuzo e Mamoru. Stavano guardando la scena con troppo interesse per i suoi gusti. Una volta avvicinati, Taro osservò Izawa snudare leggermente i denti in un sorrisetto sarcastico. Stava per dire sicuramente qualcosa, quando Morisaki lo fulminò con lo sguardo. Ebbe subito la netta e certa conferma che già sapessero della loro relazione, glielo leggeva negli occhi, e sapeva anche chi fosse il colpevole: quel traditore di Genzo!
“Oh, ecco qua il mio quartetto d’innamorati” la buttò lì il SGGK come se fosse la cosa più naturale del mondo, superando ogni vergogna e pudore dei quattro presenti.
“Genzo, per favore, lo sai che non m’imbarazzi più” lo ammonì Yuzo con sguardo scocciato, roteando gli occhi.
“Almeno noi abbiamo le nostre dolci metà e non dobbiamo aspettare di tornare a casa. Insomma trenta giorni… ti toccherà tornare alle seghe di gruppo come quando avevamo quindici anni.”
Misaki scoppiò a ridere, Izawa non si era mai fatto prendere per il culo dal portiere: era stato il suo capitano, lo temeva, ma con il tempo, da quando Tsubasa aveva messo la fascia al braccio, si era creato un rapporto alla pari che non era più cambiato; l’amicizia, invece, era cresciuta e rafforzata.
“Glielo hai detto?” indagò Ozora, già troppo imbarazzato per certe battute fuori dai suoi schemi.
Il portiere aveva messo le mani avanti a mo’ di protezione e gesticolando aveva risposto.
“Ehi, sia chiaro, mantengo sempre un segreto, ma quando vi ho visti a casa e mi è scappata la battuta sui Morizawa…”
“Moriche?!” aveva chiesto Yuzo.
“Oh, sì sì, oramai per identificarvi come coppia ho fatto un mix dei cognomi! Carino eh?”
Yuzo agitò una mano come per scacciare una mosca, non aveva intenzione di indagare ulteriormente… Non erano lì per quello, volevano far sentire il loro sostegno alla Golden Combi e Genzo, come al solito, si era messo in mezzo facendo imbarazzare il capitano. Non che fosse difficile mettere in difficoltà il povero Ozora ma dopo tanti anni doveva oramai conoscere Genzo e le sue prese in giro.
“Ecco dicevo, quando a Barcellona ho trovato Taro in casa di Tsubasa mi è scappato detto di voi due – disse indicando i due malcapitati con l’indice – quindi mi è sembrato corretto avvisarli che lo sapevate, poi si sa… da discorso nasce discorso e…”
“E gli hai detto anche di noi…” puntualizzò Taro guardandolo storto.
“Oh, non fatela lunga tanto oggi volevate confessarlo alla squadra, no?” domandò con sguardo indagatore rivolto alla Golden.
“Francamente la nostra idea era di dirlo a fine mondiale…” spiegò il numero dieci.
“Ma tanto Gamo vi ha rotto le uova nel paniere con il discorso delle camere, quindi…”
“Piantala!” lo rimproverò severo Tsubasa.
“Capitano, dovrai farci l’abitudine: a noi sono anni che ci tartassa, ma in fin dei conti è buono e non morde…” Scherzò Izawa strizzando loro un occhio.
“Anni?” Taro aveva allungato il collo e si era avvicinato di un passo, interessatissimo alla questione, loro non si erano mai resi conto di niente. Voleva capire come fossero riusciti per così tanto tempo a depistare tutti. Certo, pochi mesi prima, al matrimonio del portiere, si erano praticamente sputtanati, ma era stato davvero un caso anomalo.
“Vedete, per noi - Morisaki era intervenuto attirando l’interesse di tutti – è stato più facile, non abbiamo famiglie alle spalle, e non abbiamo figli, è bastato non attirare troppo l’attenzione sulla nostra vita privata e siamo arrivati fin qua incolumi, ma…” s’interruppe guardando Mamoru, in un briciolo di titubanza che scomparì quando fu il compagno a proseguire la frase.
“Abbiamo deciso anche noi di fare coming out con la squadra, ma senza darlo in pasto al pubblico al momento, così da rendere la pillola divisa in due, anzi in quattro a questo punto.”
Il numero dieci li guardò con ammirazione, non solo erano i suoi fedeli compagni sul prato verde ma anche nella vita privata, dove poteva sempre contare sulla loro eterna e fedele amicizia.
La generazione d’oro andava ben oltre il campo da calcio, avevano fatto un buon lavoro a livello sportivo, ma soprattutto umano, si sentì fiero di essere il condottiero di quella squadra.
Allo stesso modo ne invidiò la tranquillità con la quale stavano gestendo l’argomento. La questione era affrontata in modo limpido e naturale.

Sì, li invidiò per questo.
La golden si guardò complice prima di tornare a incrociare le loro iridi e ringraziarli.
“Grazie” mormorò il capitano, stringendo una spalla a Yuzo e inclinando la testa in un cenno affermativo.
 
 

 
“Ozora, Misaki, finalmente siete arrivati!” i quattro si girarono in direzione del Mister che dal corridoio li stava raggiungendo.
“Mister…” dissero all’unisono, inchinandosi in segno di saluto e rispetto.
“Devo parlarvi, ragazzi, seguitemi.”
“Possiamo posare i bagagli nelle nostre camere?” chiese Taro stupito da tanta urgenza.
“Ci penseranno gli addetti al bagaglio, venite.”
La Golden Combi si scambiò uno sguardo preoccupato prima di seguire l’uomo.
Una volta raggiunto una sorta di studiolo, il mister li invitò a sedersi con un gesto della mano, mentre lui aggirava la scrivania per accomodarsi in poltrona.
Neppure finì di sistemarsi che subito iniziò a parlare.
“Bene, vengo subito al nocciolo della questione. Non mi piace che siate in continuazione sul giornale con la vostra vita privata e del passato. Che cosa vi è saltato in mente? Da quando vi siete separati dalle vostre compagne non fate altro che guadagnarvi le prime pagine dei maggiori giornali; cos’è, non avete abbastanza soldi e vi siete dedicati allo scoop?” il tono usato dal mister era un mix tra l’incazzato, il deluso e il preoccupato.
Taro si passò una mano su tutto il volto fino a farla scivolare dietro i capelli, mentre Tsubasa, da buon capitano, raddrizzava la schiena e fissava il mister negli occhi.
“Pensavamo di dover aspettare la fine dei mondiali, ma a questo punto credo che una spiegazione sia doverosa: vero, Taro?” chiese a conferma di ciò che stava per fare, voltando leggermente lo sguardo per inquadrare la figura del suo amante.
E quando ne vide il leggero segno di assenso fatto dalla testa tornò a osservare l’interlocutore.
Aveva sempre avuto rispetto per Gamo, ma di una cosa era certo, la sua vita privata restava privata; non erano più dei ragazzini alle prime armi. Quindi schiarì la voce e, fissando le iridi scure dell’uomo, con tono fermo disse:
“Io e Taro stiamo insieme.”
Gamo, in un primo momento, li guardò a turno sbigottito per poi afflosciarsi sulla poltrona blaterando un: “Katagiri aveva indovinato, per questo non ha voluto mettervi in camera insieme quest’anno.”
“Che assurdità…” borbottò Misaki sbuffando.
L’uomo si sporse in avanti, poggiando le braccia sulla scrivania a sostegno del busto. Poi sollevò un sopracciglio incuriosito.
“Misaki, hai qualcosa da ridire sul divieto del sesso prepartita?”
“Assolutamente no, Mister!” rispose scattando quasi sull’attenti. Contraddire il Mister era un BIG NO stampato a caratteri cubitali dentro il cervello, quindi quando venivano interpellati era sempre nel massimo rispetto del ruolo che ricoprivano.
 
“Da quanto va avanti questa storia?” una voce alla loro destra li fece voltare di scatto: Munemasa Katagiri, con gli immancabili occhiali, uscì dal cono d’ombra della parete alla quale si era appoggiato. I ragazzi non si erano accorti della sua presenza.
Ozora non perse la sicurezza che solitamente sfoggiava anche in campo.
“Va avanti dai mondiali del 2018, dopo il ritiro abbiamo dovuto stravolgere le nostre vite, la situazione era diventata ingestibile.”
L’uomo li raggiunse affiancando Gamo e restando in piedi.
“Tsubasa, io so che siete dei ragazzi con la testa sulle spalle, e di cosa fate della vostra vita privata non ci dovrebbe interessare. Ma c’è un però. Non c’interessa nella misura che non influisca sulle prestazioni calcistiche, e vi stiamo osservando da tempo: siete calati, ragazzi, dovete ritrovare la concentrazione di un tempo. Poi con chi ve la spassate a noi non interessa, basta che non avvenga sotto il ritiro, la regola vale per tutti.”
“Quello non è un problema.”
“Cosa non è un problema, Tsubasa? Il sesso prepartita o il mio ordine?” la domanda era volutamente provocatoria. Katagiri aveva intuito il tutto già da tempo, ma voleva tenerli sulle spine; era rammaricato dal fatto che non avessero chiesto appoggio o aiuto alla federazione, anche se aveva immaginato la difficoltà nel comunicare la notizia.
“Entrambe, Signore…”
“Tsubasa… che diavolo dici?” mormorò Taro al suo fianco, ridacchiava; evidentemente non si era reso troppo conto della risposta che aveva dato.
Arrossì all’istante e tentò di rimediare: “Cioè, volevo dire, è stato un periodo difficile, avevamo un giornalista alle calcagna con il quale abbiamo dovuto stipulare un patto; è troppo presto per fare coming out con il pubblico, i nostri figli sono troppo piccoli…”
 
Quando furono fuori dall’ufficio, tirarono un respiro di sollievo. Alla fine erano riusciti a raccontare tutta la vicenda, alternandosi nelle spiegazioni.
I due uomini avevano ascoltato e annuito, invitandoli a mettere al corrente tutta la squadra in modo da avere collaborazione in caso di bisogno, alla fine i due si erano pure congratulati dicendo che: “Era destino, dopotutto di Golden Combi ce n’è una sola. La vostra profonda intesa sul campo da calcio è veramente anomala e non ci stupisce che possa proseguire anche nella vita privata… buona fortuna.”
Ne avevano riso ed erano usciti dalla stanza.
“Quindi a questo ritiro non potremo dormire insieme” sbuffò Tsubasa guardando la punta delle scarpe mentre l’ascensore li stava portando al piano selezionato.
“Ehi, - disse Taro, allungando la mano e posandola sulla guancia del compagno che sollevò il volto per incrociarne gli occhi – quando tutto sarà finito ci prendiamo una bella vacanza in un posto sperduto dove nessuno ci conosce, ok?”
“Dico che hai sempre ottime idee, Misaki”
E allungandosi verso il compagno, adagiò le labbra sulle sue per rubare quel bacio tanto atteso e che, da quando erano partiti, non avevano potuto ancora scambiarsi.
 
 

La mattina dopo, quando furono tutti nello spogliatoio, luogo nel quale avevano condiviso la maggior parte della vita, Tsubasa si schiarì la voce mentre stava allacciando l’ultimo scarpino: “Ragazzi, devo comunicarvi una cosa, anzi dobbiamo…” specificò lanciando un’occhiata all’altra metà della Golden sulla panchina di fronte alla sua.
“Io e Taro conviviamo da quasi quattro anni…” non aveva preparato un discorso ben preciso, aveva smesso di ragionarci su. Tanto ogni volta che si era preparato qualcosa immancabilmente non andava mai come aveva ipotizzato.
Infatti la risposta del compagno di squadra lo lasciò pietrificato.
“Lo fate per dividere le spese? Ma non è troppo scomodo abitando in due nazioni differenti?”

Mamoru era esploso a ridere senza alcun ritegno mentre Yuzo tentava di farlo tornare seduto prima che ne sparasse una delle sue. Ma ogni sforzo era stato vano ed era partito spedito, nonostante il portiere attaccato praticamente al braccio nel tentativo di dissuaderlo.
“Mister, io credo che Ryo debba smettere di prendere le pallonate in faccia: è palese che non gli facciano bene – affermò regalando un’occhiata complice al resto della squadra, muovendo anche il braccio libero in un arco accogliente – visto che non ha capito un cazzo!”
“Izawa, non esagerare.” Lo ammonì il mister non riuscendo a nascondere gli occhi sorridenti, si vedeva che faticava a mantenere una faccia seria.
“È un caso senza speranza!” rispose Mamoru tra i borbottii di Yuzo che finalmente era riuscito nell’intento di farlo mettere seduto.
“Ma che cosa ho detto di male?” si lagnò Ishizaki balzando in piedi.
“Ryo, siediti queste sono cose da grandi…”
“Genzo, non mettertici anche tu, per favore!”
Il portiere alzò le mani in segno di resa e si rilassò contro la parete incrociando le braccia al petto: la faccia di Ryo che raggiungeva la consapevolezza non se la sarebbe persa per nulla al mondo.
“No, Ryo. Siamo proprio una coppia. Viviamo insieme.” Puntualizzò Taro nel tentativo di non risultare troppo fraintendibile.
Ma Ishizaki continuava a guardarsi intorno smarrito.
“No vabbè, ma così è impossibile eh! Ryo, condividono lo stesso letto, non credo di doverti fare un disegnino vero? - sbuffò Wakabayashi infilandosi il cappellino e uscendo dallo spogliatoio - Vi aspetto in campo!” esclamò tirandosi dietro la porta in un tonfo sordo che fece tremare leggermente le pareti in cartongesso.
Il malcapitato sgranò gli occhi tappandosi la bocca spalancata con le mani, Tsubasa rilasciò il fiato che aveva trattenuto fino a quel momento.
Finalmente aveva capito.
Il resto della squadra iniziò a circondarli e riempirli di domande. Si resero conto che tanti, alla fine, avevano perfettamente intuito il tutto anche se non ne avevano avuto alcuna conferma fino a quel momento.
Gamo e Munemasa si guardarono soddisfatti e, dopo aver fatto trascorrere un tempo sufficiente per i doverosi pettegolezzi, richiamarono tutti sull’attenti.
“Bene, ragazzi, se il coming out della Golden Combi è finito, direi che possiamo andare ad allenarci per questo mondiale: che ne dite?” disse calcando il tono delle ultime parole affinché incitassero la squadra.
“Scusi Mister, ma anche io e Yuzo dobbiamo comunicare una cosa alla squadra…” Mamoru non si era lasciato sfuggire l’occasione. Oramai avevano deciso e quella era un’ottima occasione.
“Non vorrai dirmi, Izawa, che anche voi?...” ma non ce la fece a finire la frase.
L’alzata di spalle del numero otto fu eloquente. E mentre Katagiri si sollevava gli occhiali sopra la testa per osservarli meglio, Gamo con un palmo della mano in pieno volto borbottava un: “Non credo di poter reggere un’altra pianificazione delle camere…”
La risata contagiò l’intera squadra che, riunita e motivata, si apprestava ad affrontare un nuovo mondiale.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Giugno 2024
 

Tsubasa aveva caldo.
Per questo, muovendosi il più delicatamente possibile, scese dal letto dirigendosi verso la zona giorno; non prima di aver regalato un’occhiata all’amante steso al suo fianco. Un tremito lo percorse ricordano il suo corpo sopra di lui e le parole sussurrate all’orecchio poco prima.

Mi mancava la tua pelle.
Mi mancava il tuo odore.
Mi mancava il tuo respiro.
Ti amo…


Le frasi, ripetute per tutta la notte, mentre facevano l’amore, erano una dolce nenia notturna che lo aveva accompagnato nei primi momenti del sonno.
Momenti in cui sei ancora sveglio, ma al contempo quasi nelle braccia di Morfeo. In quel limbo del sonno/veglia che non ti fa comprendere fino in fondo se tu stia già sognando o sia la realtà. Quel momento era perfetto per rivivere e rinvigorire certe sensazioni vissute.
 
 
Erano quattro mesi che non si vedevano per colpa della fine del campionato ma quel weekend avevano recuperato alla grande. Guardò la sveglia luminosa sul comodino constatando che erano ben quarantotto ore che erano chiusi in casa, impegnati solo tra le lenzuola.
E ora, in un momento di quiete, aveva caldo e sete.
Tanta sete.
A piedi nudi camminò adagio fintanto che non arrivò alla porta della camera, soltanto una volta superata e raggiunto il corridoio si rilassò assumendo un passo più disteso in direzione della cucina.
Taro nel pomeriggio aveva fatto del buon tè verde e lo aveva messo a raffreddare; l’estate a Barcellona era sempre torrida.
E quella metà di giugno li stava mettendo a dura prova, senza contare che l’impianto di condizionamento era andato a farsi benedire proprio di venerdì.
Ovviamente il tecnico, chiamato con urgenza, gli aveva comunicato che non avrebbe potuto far nulla fino al lunedì successivo.
 
La solita fortuna.
 
Arrivato al lavabo aprì lo sportello e afferrò una tazza, mentre dai fornelli prese il tè oramai freddo. Riempì la fine porcellana fino all’orlo e, cercando di muoversi il più delicatamente possibile, tornò in camera, non voleva perdersi lo spettacolo che già aveva notato la sera precedente per la prima volta.
Sì, perché solo per caso si era reso conto che la poltrona messa in fondo al letto, sul lato sinistro, regalava una splendida visuale di Barcellona e non solo.
Muovendosi come un gatto predatore, tornò in camera e sedette sul comodo giaciglio. Adorava quella casa, la prima volta l’aveva vista di giorno, ma quando c’era tornato di sera se ne era letteralmente innamorato. Le luci ambrate di Barcellona, attraverso le enormi vetrate, illuminavano lo splendido attico con i loro riflessi dorati creando sfumature suggestive e calde.
Ed era grazie a quella poltrona, scelta da Taro, per far sì che fosse meno disordinato con i vestiti, cosa che ovviamente non era accaduta, che aveva scoperto quella meravigliosa prospettiva.



Rilassò la testa, appoggiandola sulla spalletta laterale della seduta, e prese a sorseggiare il tè verde lentamente. Voleva riempirsi di quell’immagine sublime che aveva scoperto da poco.
Alle spalle della testata del letto, la grande vetrata regalava una Barcellona dai colori ocra e addormentata, ma lo spettacolo non era solo all’esterno quanto all’interno, ed era offerto dall’ignaro occupante sul letto.
Taro era sdraiato prono, sul lato sinistro del letto, con la testa sul candido cuscino rivolta verso l’esterno. Le lunghe ciglia, adagiate sugli zigomi, riflettevano, insieme alla pelle sudata, il color ocra dei lampioni, gli stessi riverberi poteva vederli anche sui capelli castani. Il braccio mancino, incastonato sotto al cuscino, nascondeva tutto il lato destro del viso dell’amante regalandogli solo il profilo.

Un magnifico profilo.

Era nudo.
Soltanto un angolo del lenzuolo copriva a mal fatica le natiche scolpite. Tsubasa spostò lo sguardo dagli zigomi fin sulle spalle, dove decine di perle ambrate rilucevano grazie ai lumi della città.
Un altro sorso di tè fu ingoiato a fatica, mentre con lo sguardo accarezzava tutta la schiena e scendeva lungo la spina dorsale fino alla vita per incontrare la curva prima dei glutei, celati dall’angolo di stoffa.
Sbuffò un sorriso increspando il tè nella tazza vicino alle labbra.
Decise all’istante che avrebbe tolto il lenzuolo appena finito di bere.
Adesso voleva godersi la scena in pace, mentre sentiva il sesso sempre più costretto dentro i boxer.
Le pupille superarono le pieghe del tessuto, incontrando la gamba sinistra leggermente ripiegata ad angolo, mentre la destra era distesa, il piede quasi arrivava in fondo al letto. E anche lì, la luce magica di Barcellona, era riuscita ad arrivare incendiando le goccioline di sudore.
 

 
Taro riluceva come un Dio, e lui amava quel Dio. Quel Dio che gli aveva sconvolto e stravolto la vita, che lo aveva portato a fare tante scelte difficili e ingiuste, soprattutto nei confronti dei suoi figli e della sua ex moglie.
Ripensò al breve periodo in cui era accaduto tutto.
I primi sogni che gli avevano fatto scoprire l’insonnia a lui sconosciuta.
Il batticuore al ritiro.
La confessione obbligatoria dopo la scoperta.


Ed era stato un bene che li avessero sorpresi, perché altrimenti tutto quello non sarebbe stato possibile. E lui non avrebbe mai assistito allo spettacolo che adesso aveva di fronte agli occhi. Non avrebbe mai potuto conoscere il vero amore, quello da spezzare il fiato quando non hai vicino la persona giusta, quello che, come in quel preciso istante, gli stava togliendo il sonno.
Stavolta però il sonno perso lo si poteva recuperare senza alcuna angoscia.
Bevve l’ultimo sorso di tè e adagiò lentamente la tazza a terra. Sorrise nella certezza che l’amate l’indomani lo avrebbe ripreso, ma conosceva un buon modo per farsi perdonare, dopotutto. Al solo pensiero, il sesso si mosse tra le gambe.
Facendo una leggera forza sulle braccia, Tsubasa si alzò e con passo felpato raggiunse l’amato. Il pollice e l’indice afferrarono l’angolo del tessuto, sollevandolo delicatamente, e nonostante conoscesse oramai alla perfezione quelle forme ne rimase incantato.
“È intrigante quello che vedi?” nonostante Taro avesse soltanto sussurrato quella frase, il capitano fece un balzo indietro come se avesse appena toccato la brace.
Ma accorciò subito la distanza che aveva messo tra loro involontariamente, scavalcandolo e buttandosi supino sul suo lato del letto. Taro a quel punto voltò il viso per poterlo guardare.
“Quindi eri sveglio?” indagò Ozora voltandosi dal suo lato e fissandolo nelle iridi ambrate, ancora complici i riflessi di Barcellona.
“Già, ero sveglio.”
“Da quanto tempo?”
“Appena ti sei alzato per andare in cucina.”
“Sei un disonesto.” Replicò imbarazzato Tsubasa, nascondendo il volto nell’incavo del braccio sollevato. Taro non poteva vederlo, ma lui, il calore che era arrivato sulle guance, lo sentiva eccome.
“Invece ti sembra onesto fissarmi mentre dormo? Sentiamo.” Chiese sarcasticamente il numero undici.
“Possibile che non riesco mai a fartene una senza che tu mi scopra?” il capitano era uscito dal suo nascondiglio improvvisato e aveva posto quella domanda con tono sgomento.
Taro a quel punto aveva cambiato posizione, girandosi sul fianco. Una mano sotto alla guancia sinistra incastrata contro il cuscino e l’altra adagiata sul petto dell’amato. Con l’indice stava disegnando cerchietti immaginari intorno ai capezzoli.
 

 
“Quando ti allontani io lo sento; è più forte di me, non posso farci niente, come quando siamo in campo e so già perfettamente cosa farai e come ti muoverai.”
Ozora sbuffò una finta noia.
“Sei troppo avanti per me. Cioè, in campo quello che tu descrivi lo vivo pure io, ma tra le mura di casa no.”
“Perché sei sempre concentrato solo sul pallone, tipico tuo.”
“Ma non è vero…” minimizzò il capitano.
“E scommetto che… – lasciò la frase in sospeso mentre si sollevava sul braccio sinistro per poterlo vedere meglio, Tsubasa lo guardò perplesso in attesa che continuasse – hai lasciato la tazza in terra vicino alla poltrona; e ora ne pagherai le conseguenze.”
E fu solo questione di un attimo prima che il numero undici gli fosse sopra con tutto il corpo e prendesse a lambirgli le labbra.
“Adoro queste conseguenze.” Sussurrò il capitano al suo orecchio mentre le mani stringevano finalmente quei glutei perfetti.
 
 
 
Il campanello suonò con la classica sequenza di riconoscimento. Daichi sarebbe venuto a pranzo quel giorno, ogni volta che c’era Taro si presentava per consumare un buon pasto. Da quando era a Barcellona si era ambientato perfettamente, non solo nel dormitorio e con i compagni ma anche nella frenesia della città metropolitana.
“Hola a tutti. Ciao, Bro.” Disse sollevando un braccio in direzione del fratello e buttando il borsone nell’angolo all’ingresso.
“C’è lo stanzino per quello…” lo rimproverò Tsubasa indicando la sacca dell’allenamento appena arrivato in sala. Misaki, ai fornelli, si era girato guardandolo scettico.
“Beh, che hai da guardare? Per una volta che ascolto i tuoi consigli.” Questionò Ozora rivolto al cuoco, poi raggiunse Daichi e lo avvolse in un abbraccio.
“Sai che potrebbe nevicare a Giugno su Barcellona per quello che hai appena detto, vero?” domandò sarcasticamente il numero undici tornando a girare il cibo nel tegame.
Tsubasa si scostò da Daichi e lo guardò in tutta la sua interezza, sollevando scocciato gli occhi al cielo.
“Non farci caso, si lamenta del mio disordine…”
Il ragazzino sorrise grattandosi una tempia. “Anche la mamma dice che sei un disastro. Non che io sia meglio, eh.”
“Insomma, questi allenamenti come vanno? Il Mister ti farà giocare la prossima volta?”
Daichi si spostò verso la tavola prendendo posto, visto che Taro aveva iniziato a versare il cibo nei piatti.
Scostò la sedia mettendosi comodo e attendendo che anche gli altri lo raggiungessero per iniziare insieme il pasto.
“Il Mister ha detto che per la partita amichevole del prossimo week-end mi metterà in prima squadra, quindi fratellone giocheremo insieme, forse.”
Quel forse lo aveva un attimo insospettito, ma proseguì in un altro ragionamento: “Cioè, dovrò aver a che fare con un ragazzino alla veneranda età di trentaquattro anni?”
“Temi di non sapermi star dietro?” scherzò Daichi prima di addentare il primo boccone.
“Spero di non doverti far da balia, in realtà.”
“Certo che avere a fianco un diciannovenne non sarà facile, spesso sottovaluti le situazioni, Tsubasa, e non sarebbe la prima volta.” Lo ammonì bonariamente Misaki guardandolo di traverso. Ripensava a quando aveva banalizzato un possibile rapporto clandestino tra loro due.
“No, ma grazie del sostegno; cos’è, sei geloso che si possa creare una nuova Golden?”
“Al massimo adesso noi possiamo fare la Grandfather Combi.”
Daichi iniziò a ridere come un matto, sputando quasi il boccone.
“Ma da che parte stai?” l’interrogò Ozora, accigliato.
“Non temere, Bro, ha detto il mister che alla prossima amichevole ti farà riposare.”
“Ecco, andiamo bene, adesso pure le decisioni senza di me prendono, e poi ‘sta moda di Bro che vuol dire?”
“Vedi che faccio bene a dire Grandfather Combi? Oramai se vecchio, Tsubasa, neppure questi termini moderni conosci…”
Inarcò ulteriormente le sopracciglia: Misaki, quando c’era suo fratello, sembrava in combutta con lui. Una coalizione avevano fatto quei due.
“E, sentiamo, dall’alto della sua giovinezza immagino che sarà informato.”
Taro abbozzò un sorrisetto sarcastico prima di rispondere, anche se in prima battuta si rivolse al ragazzino: “Forse non lo sai ma è permaloso, e più invecchia, più è peggio.”
“Volete smettere di parlare come se io non ci fossi?”
La nuova promessa del Barcellona continuava a ridere di quel siparietto che si era venuto a creare.
“E va bene: Bro significa Brother, fratello in inglese.” Chiarificò il numero undici.
“Dai, Bro non era difficile. A proposito, visto che io devo giocare, non potrò occuparmi dei gemelli come avevo promesso a Sanae. E visto che lei deve uscire, il prossimo week-end, i gemelli verranno a pranzo qua.”
“Come deve uscire?” indagò il numero dieci.
“Non ti ha detto che ha un appuntamento?”
“Un appuntamento?” ripeté sgranando gli occhi.
“Finalmente, eh?” rispose afferrando un altro pezzo di cibo e portandolo alla bocca.

Non poteva crederci, finalmente Sanae era tornata a vivere, non gli aveva detto nulla, forse se ne vergognava; invece Ozora era davvero felice di quella notizia inaspettata.
Si ripromise che alla prossima telefonata le avrebbe assolutamente fatto sapere che era davvero contento per lei. In tutti quegli anni non avevano mai toccato l’argomento. Sanae si era rivelata un osso tanto duro e non riusciva ad andare avanti nella sua vita intima. Da un certo lato si sentiva sollevato per questo appuntamento, aveva visto come Azumi avesse ritrovato la pace e la felicità; tanto che, da un anno, era diventata nuovamente madre di un bellissimo maschietto.
Taro aveva recuperato il rapporto con lei e per il bene di Desirée spesso uscivano tutti insieme. Anche lui aveva partecipato a questa sorta di famiglia allargata, apprezzandone l’armonia e la complicità che si era venuta a creare. Il compagno di Azumi, in quanto procuratore di Taro, ovviamente sapeva della loro relazione, ma per segreto professionale e per rispetto verso la compagna aveva mantenuto la confidenza e onorato i patti.
L’unica che ancora non si era rifatta una vita era Sanae, e Tsubasa di questo se ne era rammaricato e ne aveva parlato spesso con Taro.
Misaki più volte gli aveva spiegato che il primo amore non si scorda mai, un po’ come era accaduto a lui. Lui che aveva rinunciato al suo capitano, ma che quando aveva scoperto di essere amato aveva perso totalmente il controllo della situazione; tanto da buttare a monte matrimonio e famiglia senza alcun ripensamento.

“Bellissima notizia, e chi è si può sapere?”
“Non lo conosci, non è del nostro ambiente.”
“Dove si sono incontrati?”
“Non ci crederai, ma Sanae ha litigato con lui per un taxi…”
La Golden Combi iniziò a ridere ricordando il carattere peperino della prima manager.
“Sanae avrà tirato fuori l’Anego sepolta, immagino…” ipotizzò Misaki con la felicità nello sguardo.
 
Una volta finito il pranzo tutti insieme seduti sul divano guardarono la replica dell’ultima partita giocata da Taro. Visto che i due coalizzati se la intendevano alla grande, Tsubasa decise di allontanarsi per chiamare Sanae e rassicurarla per il prossimo fine settimana. Avrebbe pensato lui ai loro figli per permetterle di andare a quell’appuntamento in tutta tranquillità.
Afferrò il cellulare e raggiunse la camera da letto per non essere disturbato da quella tifoseria improvvisata.
Dopo tre squilli la sua ex moglie rispose.

“Tsubasa, ciao.”
“Ciao, tutto bene?”
“Sì, tutto ok, tu?”
“Tutto bene, oggi è venuto Daichi a pranzo; sai che il mister lo farà giocare il prossimo week-end nell’amichevole?”
Il secondo di troppo che ci mise a rispondere gli fece capire che la sua mente era volata all’appuntamento.
“Sono contenta per lui, ma…” la donna non terminò la frase attendendo chissà quale risoluzione. Ma l’attesa fu breve, Ozora prese subito la palla al balzo per tranquillizzarla. Voleva farle sentire tutto il suo appoggio.
“Non temere, terrò io i gemelli il prossimo fine settimana; il Mister ha deciso che devo riposarmi, sono vecchio…” scherzò tentando si alleggerire il discorso.
“Che scemo, non sei vecchio, diciamo che a diciannove anni eri più scattante.” Ironizzò la ex manager.
“Ma è una coalizione la vostra? È la stessa cosa che ha detto Taro.”
“Ti conosce bene, che vuoi farci!”
“Sanae…”
“Dimmi.”
“Daichi mi ha detto del tuo appuntamento; sono davvero felice per te.”

Dopo un attimo di silenzio e un sospiro avvertito attraverso l’apparecchio dal numero dieci, Sanae iniziò a parlare: “Per me non è stato facile, e lo sai. Poi quando ho smesso di pensarci, di ragionare sul futuro è accaduto qualcosa di strano…”
“Hai litigato con uno; strano davvero, non lo fai mai!”
“Piantala di prendermi in giro, dovevo solo prendere un taxi e lo avevo chiamato prima io: voleva fregarmi il taxi e non potevo certo permetterlo.”
Sanae non avrebbe mai raccontato i dettagli ma nel ripensare alla scena ricordava perfettamente tutto come un vecchio film a rallentatore.
La mano alzata per chiamare il taxi e quell’uomo in giacca e cravatta vicino a lei che, poco dopo, quando aveva visto arrivare l’auto, aveva alzato a sua volta il braccio per attirare attenzione dell’autista.
L’autista si era fermato al bordo del marciapiede e Sanae in un primo momento aveva creduto che l’uomo volesse aprirle la portiera in un gesto di galanteria, quando invece si era resa conto che voleva fregarle il taxi, aveva sbraitato con tutta la voce che aveva in gola ammonendolo pesantemente.
Neppure ricordava le frasi precise, sapeva solo che il tassista era sceso e l’aveva invitata a calmarsi. Poi aveva proposto a entrambi di salire e di dividere le spese della corsa. L’indesiderato passeggero si era salvato soltanto grazie ai pronti riflessi del tassista.
In auto non si erano detti nulla, la prima a scendere era stata Sanae sbattendo lo sportello scocciata; ignara del fatto che, il giorno dopo, avrebbe trovato un fascio di rose con un bigliettino di scuse.
 
Sono mortificato dal mio pessimo comportamento, avevo un appuntamento di lavoro inderogabile, spero soltanto di potermi sdebitare invitandola a cena
Juan

 Quello recitava il biglietto rosso come le rose e un numero di cellulare scritto sul retro.
 
 
“Hai tutte le ragioni di questo mondo, Sanae. Spero che si sia scusato.”
“Sì, si è scusato ed è proprio grazie a quelle scuse che ci siamo conosciuti.”

L’attimo di silenzio che preannunciava la chiusura della conversazione sapeva anche di un nuovo inizio.  

“Sanae…”
“Sì?”
“Sono davvero contento che tu sia tornata a vivere, ti meriti tutta la felicità che io ti ho negato. Ti voglio bene e te ne vorrò sempre.”
“Anch’io, Tsubasa, anch’io…”

L'amore era finito, ma non l'affetto, mentre la vita andava avanti.







Un grazie speciale a Ciotolina alla quale stavolta ho 'commissionato' queste meraviglie.
Lei è stata fantastica nel realizzare l'immagine che da mesi alberga nella mia mente, rendendola vivida e vera.
Grazie per mettere a nostra disposizione la tua dote artistica dandoci la possibilità di 'vedere' quanto siamo fuse. :-)
E grazie alle mie betucce per sopportare e supportare i miei sproloqui nelle fanfic come nella vita reale.
Vi adoro tutte care pazze del Manicomio Mariuccia.
Sanae77

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Dicembre 2025
 
 
Seduto al tavolo con i loro figli, il capitano era nervoso: avevano deciso di passare la vigilia nella casa in Spagna e nel contempo avevano deciso di rivelare la relazione. I gemelli era quasi sicuro che avessero capito qualcosa; Desirée restava l’unica incognita. Taro aveva sempre detto che la bambina non aveva accennato minimamente a nessun fatto riguardo loro due come coppia.
 
Anche Azumi non si era mai azzardata a domandare qualcosa alla figlia. Desirée, per quanto si fosse dimostrata da piccola una vera viperetta, crescendo era rimasta una bambina solare, vivace, ma estremamente riservata.
 
Innegabile era la profonda intesa che aveva con i gemelli tanto che qualche volta avevano sentito dire ai ragazzi che la consideravano come la loro sorellina.
 
Ozora era certo che, dopo la notizia, i ragazzi sarebbero stati certamente d’aiuto nell’affrontare lo spinoso argomento anche con la figlia di Taro.
 
Misaki si era superato ai fornelli e aveva imbandito la tavola con tutte le pietanze preferite dai loro figli. Era già dalla chiusura delle scuole che alloggiavano tutti nell’attico di Barcellona e, contrariamente a quanto immaginato, la convivenza si era rivelata molto piacevole. Ovviamente la Golden Combi era stata costretta a camere separate per non svelare in un modo così crudo la verità sulla loro relazione.
 
Tsubasa, seduto al tavolo, ascoltava i ragazzi scambiarsi consigli sul calcio; Daichi era venuto in supporto e non solo: il fratello non avrebbe mai permesso che passasse le feste da solo, sarebbe partito dopo Natale per raggiungere i genitori in Giappone, era rimasto appositamente per aiutare il fratello nel coming out con i più piccoli della famiglia.
 
Desirée, impegnata con il cellulare, si era totalmente estraniata da quella conversazione calcistica. Unica femmina in un mondo prettamente dedicato al pallone non agevolava la conversazione a tavola.
 
Il capitano fece un cenno con la testa a Taro per indicare la figlia: preso dal preparare i piatti e servire le deliziose pietanze non aveva visto che la ragazzina si era letteralmente isolata.
 
“Desirée, sai che a tavola il cellulare non mi piace.”
 
Sollevando la testa dall’apparecchio, la ragazzina lo guardò di traverso poi, dopo aver sbuffato un “Va bene”, mise il telefono sulla consolle vicino. Dopo essersi guardata un attimo intorno, però iniziò a protestare: “Papà, però parlate soltanto di calcio e io mi annoio…”
 
“Ragazzi – Tsubasa, rivolto a tutti gli Ozora della tavola, cercò di richiamarne l’attenzione – possiamo parlare di qualcosa che non sia il calcio?”
 
Tutti si voltarono scioccati.
 
“Ehi, Bro, hai la febbre?” rispose Daichi sarcastico allungandosi con una mano per tastargli la fronte.
 
“Daichi, piantala di fare l’idiota; Desirée si sente esclusa.” Dopo avergli afferrato il polso per fermare quel gesto di scherno; lo fulminò con gli occhi per fargli intendere che era giunto il momento di affrontare la spinosa questione.
 
Il ragazzo annuì impercettibilmente e tornò seduto.
 
“A scuola va tutto bene, ragazzi? Hayate, Daibu?”
 
I gemelli si guardarono complici, come sempre, poi Hayate sorrise beffardamente e iniziò a muovere le labbra quando Daibu gli intimò un: “Se dici una parola ti uccido.”
 
“Perché? Che cosa succede?” la domanda indagatrice del padre aveva acceso nuovamente le iridi di Hayate. Tutti sapevano che era il pettegolo della famiglia.
 
“Naaaaa, nulla di eccezionale, Daibu si vede con Celia; normale routine, domani vanno al cinema…”
 
“Tu i cazzi tuoi mai, eh?” rispose Daibu, arrossendo visibilmente.
 
“Adoro farmi i cazzi tuoi, fratellino…” rispose l’altro alzandosi e travolgendolo in un abbraccio. Desirée aveva i lucciconi agli occhi per la scenetta che i gemelli stavano interpretando. Adorava vederli giocare tra loro e spesso era stata vittima dei loro scherzi e baruffe. Poi era arrivata l’adolescenza e quei quattro anni di differenza adesso li sentiva tutti. Loro già parlavano di ragazzine e lei si sentiva ancora una bambina con i suoi undici anni; ma continuava a provare lo stesso affetto di un tempo ed era sicura che, passata quella fase più critica, sarebbero tornati allo splendore del passato.
 
“Che diavolo di ruffiano che sei…” disse Daibu scrollandoselo di dosso.
 
“Bene, sono contento per te, Daibu, e… a proposito di coppie, anche noi dovremmo dirvi qualcosa.”
 
“Se ti riferisci alla mamma, sappi che Juan domani sarà con noi al pranzo di Natale.” Hayate aveva risposto mentre tornava al suo posto per finire la cena.
 
“Sì, domani lo conoscerò: sono proprio contento.” Rimarcò il capitano per far intendere ai gemelli che da parte sua non c’era alcun problema.
 
“Ragazzi, non sappiamo come dirvelo. Capisco che per voi sarà un duro colpo questa notizia, ma sappiamo anche che siete intelligenti e comprensivi… Bene, io e il capitano stiamo insieme dal 2018…” Taro si era alzato e, poggiando le mani sul tavolo, aveva lanciato lì la patata bollente.
 
Hayate si alzò talmente in fretta da far cadere la sedia all’indietro sbraitando verso il fratello.
 
“Daibu, mi devi 50 euro! Te lo avevo detto che stavano insieme!”
 
“Ma stai zitto; siamo pari, ho indovinato il fatto che ce lo avrebbero detto stasera, quindi siamo pari!”  il ragazzino sulla sedia aveva incrociato le braccia al petto, sbuffando scocciato.
 
 
Daichi era rimasto pietrificato dalla reazione dei gemelli, mentre Taro e Tsubasa con le bocche stupefatte lanciavano sguardi confusi ai due ragazzi che, ignari del resto dei partecipanti, stavano continuando il loro piccolo battibecco.
 
“Hayate, Daibu, ma chi vi ha insegnato a scommettere su certe questioni?” Il capitano, preso alla sprovvista, se ne uscì con una sorta di rimprovero dalla credibilità pari allo zero assoluto.
 
“Ma papà mica avrai pensato che non lo sapessimo? Che non avessimo capito? Siamo grandicelli oramai.”
 
“Forse abbiamo sottovalutato la vostra maturità, hai ragione Hayate, scusate.” Taro aveva fatto ai ragazzi un leggero inchino di scuse mentre con la coda dell’occhio continuava a osservare la figlia immobile al suo posto.
 
Desirée non si era mossa e non aveva proferito parola, dopotutto la figlia aveva frequentato la loro casa molto meno dei gemelli, abitando con la madre in Francia.
 
“Papà, non è questione di maturità, cioè: basta osservarvi come vi guardate, vi assicuro che è sufficiente quello e passare poche ore con voi per comprendere la vostra sintonia. Tanti potranno scambiarla per affinità sportiva, visto quello che avete sempre fatto in campo, ma certe premure in casa si notano tantissimo… e va bene così!”
 
Che Daibu potesse confezionare un discorso così lungo non se lo sarebbe mai aspettato, come non si sarebbe mai aspettato, il capitano, quell’abbraccio d’incoraggiamento che venne dopo dal figlio.
 
 
La ragazzina continuava a vivere la scena nel più totale mutismo e con lo sguardo fisso alla tavola.
 
Taro si avvicinò alla figlia, accovacciandosi vicino a lei con un ginocchio a terra, dopo le posò una mano sul braccio e strinse leggermente per far sentire la sua presenza.
 
“Desirée, tutto bene?” mormorò preoccupato.
 
Come al rallentatore, il volto di sua figlia non fu più solo un profilo ma una faccia intera. Inebetita, lo fissava battendo a tratti le lunghe ciglia nerissime.
 
“Tesoro, mi fai preoccupare…” rincarò la dose, spostando l’altro braccio e posandoglielo sulla gamba.
 
La ragazza mosse lo sguardo dagli occhi di suo padre alla mano sul ginocchio.
 
Era come paralizzata; non riusciva a credere che per tanti anni le avessero nascosto una cosa tanto importante. Adesso le era tutto chiarissimo, il deviare dei discorsi quando faceva domande a sua madre, quei silenzi troppo lunghi che non avevano una spiegazione, quelle battutine disgustose dei suoi compagni di classe.
 
Non gli aveva mai dato peso e forse voleva non vedere. Era più facile immaginare che suo padre avesse smesso di amare la mamma e stop.
Tutto facile, nessun pensiero, nessun ragionamento o implicazione. Il divorzio lei neppure se lo ricordava, troppo piccola per rammentare un vissuto famigliare che aveva assaporato per così poco tempo.
 
Lei si era sempre vista come la cocca di papà e la complice della mamma. Tra donne se la intendevano. Ma quando spesse volte aveva chiesto alla madre perché il padre non si fosse risistemato come aveva fatto lei, la donna aveva sempre cambiato discorso velocemente, asserendo che non voleva saperne della vita privata dell’ex marito.
 
Erano stati bravissimi. Osservò ancora la faccia preoccupata del suo idolo.
Taro Misaki, oltre a essere un famoso campione, era anche un padre eccezionale e se aveva deciso di rivelare soltanto adesso quel segreto così grande voleva dire che c’erano dei motivi.
 
Improvvisamente si riscosse e divenne consapevole di volerli conoscere.
 
Tornò quindi a fissarlo nelle iridi e con i lucciconi agli occhi; mosse le labbra tremanti. Odiava piangere, lo odiava con tutte le sue forze, ma ancora si sentiva investita dalle emozioni e non riusciva a gestirle.
 
“Perché non me lo hai detto, papà…” piagnucolò accarezzando una guancia del numero undici con la punta delle dita tremanti.
 
“Eravate troppo piccoli per assimilare e comprendere una notizia del genere, adesso invece siete abbastanza maturi e coscienziosi per condividere questa notizia all’interno della famiglia.”
 
“Dovrò condividerti anche con loro…” lo aveva sussurrato avvicinandosi all’orecchio del padre. Dopo la separazione, l’incubo della figlia era sempre stato quella di venire spodestata dal suo cuore. Nell’immaginario di bambina esisteva solo la mamma, Azumi, e il pensiero che come avesse rimpiazzato la madre potesse rimpiazzare anche lei l’aveva sempre preoccupata. Misaki lo sapeva benissimo, le scene di gelosia le ricordava perfettamente anche ai tempi che stava con la sua ex moglie. Non poteva assolutamente immaginare che, per lei, avrebbe rinunciato anche ad Ozora se fosse stato necessario. L’amore che nutriva verso la sua piccola ‘donnina’ non era assolutamente messo in discussione; doveva solo farglielo capire bene quindi Taro le afferrò il viso e la fissò negli occhi: “Sarai sempre al primo posto, Desirée, come i gemelli saranno sempre al primo posto per Tsubasa; la nostra relazione non pregiudica l’amore che nutriamo nei vostri confronti, stai tranquilla, capito?”
 
La ragazzina annuì impercettibilmente per poi trovarsi circondata dall’abbraccio di suo padre. Si rese conto in quell’istante, nel venire travolta da tutto quel calore e quell’amore, che per lei non sarebbe mai cambiato nulla, ne era certa: nel suo cuore occupava sempre il primo posto. Glielo aveva appena confermato non solo a parole ma con quell’abbraccio carico di amore.
 
“Sai che so mantenere i segreti…”
 
“Lo so, amore mio, ma la nostra scelta era dovuta solo al fatto di proteggervi, non volevamo che foste bullizzati in ambienti al di fuori delle mura domestiche; perché purtroppo è una cosa che non potremmo evitare. Ma ora siete abbastanza grandi da difendervi da soli; ovviamente – disse sollevando la testa e incrociando lo sguardo del suo compagno – saremo sempre al vostro fianco in caso di problemi.”
 
Desirée aveva abbandonato il petto del padre e con il palmo della mano si stava asciugando le poche lacrime versate; stava migliorando, era orgogliosa di sé stessa e della sua reazione.
 
“Ti voglio bene…” disse afferrandolo per il collo e mollando un bacio a schiocco sulla guancia.
 
“Oilà, la vipera si è svegliata dal torpore.” Ironizzò Hayate che ricevette un dito medio come risposta dalla diretta interessata.
 
“Desirée, questi gesti! Cosa ti ho sempre detto?” la rimproverò bonariamente Taro aggrottando le sopracciglia, intanto si stava tirando su da quella posizione scomoda. Si sentiva tutto dolorante e non solo per la posizione assunta ma anche per la tensione accumulata.
 
“Sai che Hayate ogni tanto se lo merita…” rispose imbronciata incrociando le braccia al petto che accennava a mala pena a formarsi. Presto quel corpo di bambina sarebbe sbocciato trasformandosi in una bellissima ragazza.
 
“Dai, si scherza, - disse avvicinandosi e scompigliandole i capelli - se stai buona la prossima volta ti portiamo in discoteca con noi.”
 
Desirée spalancò gli occhi in segno di stupore e approvazione, annuiva velocemente per non farsi scappare l’occasione.
 
“Ehi, ragazzini, datevi una calmata! La mia bambina è ancora troppo piccola per la discoteca, minimo quindici anni; quindi, non fatevi venire strane idee, capito!?”
 
Taro a fianco della figlia aveva portato le mani ai fianchi in una mossa che voleva restituire un’immagine con un minimo di autorità.
 
“Ma papà…” si crucciò la bambina.
 
“È per il tuo bene amore, fidati, è ancora presto.”
 
“Ragazzi, ma vi sembrano proposte da fare in questo momento?” domandò Tsubasa con sguardo severo. Ma quando incrociò le iridi dei suoi figli ammorbidì immediatamente la posizione; avevano utilizzato quello stratagemma per alleggerire la tensione creatasi intorno alla tavola. Erano dei maghi nella distrazione da argomenti difficili… li avevano sempre fregati a lui e Sanae quando dovevano sgridarli. Dei veri maghi.
 
“A beh, capitano, se la metti così allora raccontateci com’è che avete capito di amarvi dopo tanti anni, anche perché siamo davvero curiosi e siamo…”
 
“… tutti orecchie.” Finì Daibu per il fratello mettendosi nuovamente seduto al suo posto con le braccia incrociate sul tavolo. In completa posizione di ascolto.
 
“Forse era meglio la discoteca…” tentennò Ozora grattandosi la testa imbarazzato.
 
 
Taro iniziò a ridere e nel contempo ad avvicinarsi per correre in suo aiuto, come nel campo da gioco, come da una vita che vivevano vicini.
 
“Inizio io, e questa non la sa neppure il capitano. Quindi sarà una novità per tutti…” Misaki afferrò la sua sedia e dopo averla girata si mise a cavalcioni appoggiando le braccia sulla spalliera.
 
Desirée si sistemò in attesa del racconto, aveva sempre adorato suo padre quando le raccontava le fiabe, era un ottimo narratore e non elemosinava mai dettagli supplementari e coccole. Coccole per le quali lei si struggeva. Se alla leggenda della figlia femmina che s’innamora del padre aveva sempre sorriso, in cuor suo sapeva che il suo primo amore era stato davvero suo padre.
 
 
 
“Tsubasa non sa che la prima volta che ci siamo incrociati non è stato al campo da calcio come lui crede…” Misaki sorrise teneramente come se quel segreto avesse potuto portarlo nella tomba, mentre adesso lo condivideva con tutti loro in piena serenità.
 
Il capitano aggrottò le sopracciglia sporgendosi in avanti per farsi ancora più attento.
 
“Quando sono arrivato a Nankatsu con mio padre eravamo per la strada a osservare il monte Fuji, mio padre voleva rappresentarlo; all’improvviso alle mie spalle passarono due persone correndo, mi voltai e restai paralizzato dal dribbling pazzesco del ragazzino. Il giorno dopo, quando mi recai a scuola, il bidello mi comunicò che tutti sono al campo da calcio per la partita che si stava disputando contro la Shutetsu. Così andai verso l’impianto sportivo e all’ingresso incontrai Sanae che mi fece entrare con lei. Mi spiegò della partita e della sfida e fu da lei che per la prima volta sentii dire il nome di Tsubasa Ozora; ma quando salii le scalinate ed entrai nella tribuna, restai imbambolato nello scoprire che il famoso Tsubasa non era altri che il ragazzino dal fantastico dribbling della sera precedente.”
 
“Quindi al campo non era la prima volta che ci siamo incontrati.”
 
“Inconsapevolmente no.”
 
“Sì, ok, ma quand’è che hai capito che non era una semplice amicizia?” Desirée a questo punto sei era davvero incuriosita.
 
“Quando Ryo si è infortunato e sono entrato in campo per sostituirlo, una volta indossata la maglia e visto Ozora che parlava con la palla…”
 
“Papà, ma non posso crederci: parli con il pallone? Ma dai!” Hayate aveva allargato le braccia sgomento.
 
“Ero giovane all’epoca…” si giustificò il capitano continuando a grattarsi la nuca.
 
“Veramente lo ha fatto anche agli ultimi mondiali.” Sghignazzò Taro tentando di non infierire troppo, ma come sempre quando incontrava delle semplici difficoltà, il Capitano, diventava adorabile nel suo classico atteggiamento che lui amava tanto.
 
“Senti chi parla, hai sempre parlato con il pallone anche tu, non puoi negarlo…”
 
“È vero, ci parlavo, ed è una delle cose che mi aveva colpito di te la prima volta che abbiamo giocato insieme; ho pensato: è uguale a me! Ma con gli anni ho smesso, Tsubasa; insomma adesso abbiamo trentacinque anni, non siamo più dei ragazzini.”
 
Il capitano agitò le braccia, cercando un appiglio a cui aggrapparsi.
 
“Vabbè tanto a centrocampo siamo sempre io e te, quindi tu i miei squilibri li conosci alla perfezione…”
 
“Se non altro ha ammesso che sono squilibri.” Scherzò rivolgendosi a quello splendido pubblico improvvisato.
 
I ragazzi scoppiarono a ridere riempiendo l’ambiente di gioia e consapevolezza.
 
La Golden Combi annuì soddisfatta del loro lavoro; perché nonostante le difficoltà incontrate durante tutti quegli anni erano comunque riusciti a passare ai loro ragazzi dei sani principi su cui far crescere le loro radici.
 
Con sguardi lucidi guardarono i loro figli con ammirazione e amore.
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Febbraio 2026
 
 
Il suono della campanella fece sospirare di sollievo i ragazzi. Da pochi mesi era iniziata per loro una nuova avventura con le scuole superiori, mentre si erano intensificati gli impegni calcistici con le giovanili del Barcellona. I gemelli avevano le stesse doti innate del padre, per questo l’allenatore aveva concordato con la scuola il loro piano di studi. Aveva proposto loro anche di entrare nel college della squadra, ma i ragazzi non se l’erano sentita di lasciare sola la madre.
 
Vero che Juan oramai era presente nella loro vita, ma Sanae preferiva che il rapporto restasse comunque al di fuori delle mura domestiche. La brutta esperienza con il capitano aveva portato la donna a non compiere più scelte affrettate. La loro relazione stava proseguendo a gonfie vele e per ora essere fidanzati ‘fuori casa’ era la soluzione perfetta.
 
Hayate sgranchì le gambe allungandole sotto al tavolo, mentre Daibu aveva afferrato lo zaino e tirato fuori la colazione preparata dalla madre.
Poi aveva allungato il cibo anche al fratello dopo essersi seduto direttamente sul banco. Solitamente uscivano nel corridoio e poi in cortile, ma a causa di quella giornata ventosa e il cielo plumbeo, che minacciava di rovesciare giù il mondo da un momento all’altro, avevano deciso di restare al caldo all’interno dell’aula.
Tre compagni alle loro spalle, nella parte finale dell’aula, stavano sghignazzando da diversi minuti. In mano una rivista di gossip spagnolo, Hayate si voltò incuriosito dal rumoreggiare e, nel preciso istante in cui lo fece, i ragazzi ammutolirono.
Quindi il giovane tornò alla sua posizione originale fissando il fratello, che di rimando sollevò una spalla in segno di disinteresse.
Fu in quell’attimo che uno del terzetto li interpellò: “Ehi, ma siete voi i gemelli figli di Tsubasa Ozora?”
Hayate sollevò le orbite al cielo con fare scocciato; tanto essendo di spalle non lo avrebbero visto, mentre Daibu annuiva verso il ragazzo.
“Ecco, - disse mostrando la rivista dove l’immagine della nazionale giapponese ritraeva in primo piano Tsubasa e Taro mentre sollevavano la coppa del mondo vinta nel 2022 in Quatar, a seguire immagini della vita privata dei due campioni sempre insieme – ci domandavamo perché non siano circondati da donne, con tutti i soldi che hanno…” lo stuzzicò il giovane.
“Sono persone semplici, non hanno bisogno di personaggi di dubbio gusto.” Hayate era sempre stato quello più diplomatico e riflessivo e ogni risposta che aveva dato fino a quel momento era stata per lui la verità; mentre adesso, che davvero la verità la sapeva, gli veniva sempre più difficile confezionare una spiegazione soddisfacente.
“Girano strane voci sulla Golden Combi…” specificò il bulletto della classe, ripetente del primo anno per la seconda volta.

Daibu smise di masticare il panino e sollevò lo sguardo facendosi serissimo. Hayate lo intravide con la coda dell’occhio prima di voltarsi per rispondere all’interessato.
“Se ti riferisci alla loro partecipazione al mondiale di quest’anno te la confermo, hanno già ricevuto le convocazioni ufficiali, e vista l’età temo che sarà l’ultimo; ma poi ci andremo noi. Vero, Daibu?” lo spronò il fratello facendogli l’occhietto, sperava in tutti i modi di deviare il discorso. Aveva capito perfettamente dove volevano andare a parare.
“Certo, siamo già stati convocati nelle nazionali giovanili del Giappone, under 18.”
“Due piccoli prodigi quindi, ma avete le stesse ‘tendenze’ di vostro padre?” lo provocò l’altro calcando l’intonazione della voce proprio sulla parola tendenze.
Hayate continuò a far finta di nulla e a rispondere come se la domanda riguardasse altro e non ne avesse capito il vero fine. Daibu invece era sceso dal banco e, con il braccio libero lungo la gamba, aveva formato un pugno strettissimo con le dita. Era sempre stato incline a risolvere le questioni con la fisicità; come anni prima era successo quando aveva difeso sua madre dalle accuse dei giornali.
“Credo di sì, visto che siamo già nelle giovanili sia del Barcellona che del Giappone, dopotutto il sangue non è acqua.”
Il terzetto si fece più vicino e quello che finora era stato il più taciturno sputò a terra la cannuccia della bibita che teneva tra le labbra in un gesto di stizza.
“Quindi girando negli spogliatoi maschili potrai confermare che ci siano anche strane tendenze? Insomma, Ozora, non siamo stupidi è palese che tuo padre lo prenda nel culo da Misaki.”
E fu tutto inutile.
Hayate tentò con il corpo di mettersi sulla traiettoria di Daibu che da dietro spuntava come una furia, gli sfiorò leggermente la spalla nel tentativo di placcaggio, ma con lo sguardo già aveva visto il montante destro infrangersi nello zigomo dell’ultimo malcapitato.
Era stato velocissimo e con una ginocchiata era riuscito a colpire il ripetente all’inguine, prima che Hayate riuscisse a fermarlo e non farlo infierire contro il terzo.
Daibu non era bravo a far pugni. Ma era veloce e imprevedibile. Per questo riusciva sempre a spiazzare le sue vittime cogliendole di sorpresa. Il fratello lo afferrò per le braccia tirandolo indietro, mentre ringhiava parole indicibili verso il terzo ragazzo che era sfuggito alla sua furia solo grazie ad Hayate.
Tutto era stato così veloce, che il ricevente colpito dal pugno era indietreggiato, picchiando violentemente nell’armadietto di legno alle sue spalle; lo spigolo aveva aperto uno squarcio sul retro della nuca lasciando cadere delle gocce di sangue a terra.
Sangue che era andato crescendo velocemente in una piccola pozza, le ragazze presenti avevano iniziato a gridare; per quello erano passati pochi minuti da che l’infermiera aveva fatto il suo ingresso nella classe.
Aveva tamponato subito la ferita con delle garze e fatto sdraiare il ragazzo a terra. Dopo era stato un susseguirsi di eventi; gli insegnanti, seguiti dal dirigente, avevano fatto irruzione e mandato via i curiosi.
Una volta accertato che fosse solo un piccolo taglio, ed escluso l’intervento dell’ambulanza, avevano trascinato i gemelli e gli altri due responsabili nell’ufficio del dirigente per attuare le procedure del caso. La prima era quella di chiamare un genitore.
 
 
 
Sono quasi arrivato al campo quando sento il telefono squillare.
Hayate Cell.
"Hayate, tutto bene?"
Una voce decisamente diversa da quella mio figlio mi risponde.
"Sono la dirigente scolastica della scuola dei suoi figli" - pausa lunga quanto le mosse di Kung-fu Panda a rallentatore.
"Perché mi chiama, i gemelli stanno bene?"
"Sì, stanno bene, e sono qua di fronte a me. Diciamo che ci sono state giornate migliori, avrei bisogno di parlarle. Con una certa urgenza."
Preside. Urgenza. Si mette male, molto male. Quindi corro verso la meta.
 
Varco la soglia dell’ufficio e una signora mi fissa con capelli raccolti a crocchia, maglione grigio fumo su gonna nera, occhiali dalla montatura bianca e diamantata, rughe che uno Sharpei a confronto pare una camicetta stirata.
Hayate è seduto davanti alla scrivania, mentre Daibu è sprofondato nel divanetto appoggiato alla parete e guarda fuori dalla finestra, non si voltano verso di me ma non hanno lo sguardo basso. Tutto dei loro gesti mi fa capire che sono dalla parte della ragione.
Tutto questo dura pochi attimi, interrotti dal mio porgerle la mano sorridendo.
"Salve, sono il papà dei ragazzi, cosa è successo?"
"So perfettamente chi è lei, signor Ozora, per questo preferirei che fossero i ragazzi a raccontarle l’accaduto."
Li guardo e con un gesto li invito a parlare, ma come sempre è Hayate che lo fa…

Non vedeva l'ora.

"Dei nostri compagni in classe ci hanno detto che tu e Taro siete omosessuali usando toni spregevoli" - parte a razzo - "Daibu non c’ha visto e come suo solito è scattato senza riflettere, ha dato un pugno al primo, e al secondo una ginocchiata nelle palle, prima che colpisse il terzo, per fortuna, sono riuscito a fermarlo."
Mi volto stupefatto verso Daibu che continua a guardare fuori dalla finestra.
“Daibu, è vero?” quasi glielo urlo da quanto sono incredulo.
“Hanno detto che ti facevi inculare da Misaki.”
La preside si schiarisce la voce al massimo dell’imbarazzo, la osservo mentre lascia vagare lo sguardo per la stanza, paonazza in volto.
Non ho certo intenzione di nascondermi di fronte ai miei figli.
“Non credo che a qualcuno debba interessare chi mi porto nel letto. Giusto?”
Chiedo rivolto alla donna.
“Sì… cioè, certamente, capisco…” balbetta, tentenna, vacilla, quindi infierisco quel tanto che basta, dopotutto non è colpa sua se certi ragazzi mancano totalmente di educazione e rispetto.
Signora, mi meraviglio che questo rinomato istituto possa supportare ancora questi discorsi omofobi. Se non erro, nel programma della sua scuola erano indicate delle ore per la lotta contro il bullismo! Questo non toglie che Daibu debba avere la sua punizione, ma pretendo che venga rispettato il progetto e magari incrementato con ore integrative. Sono disposto ad accollarmi le spese se l’istituto non ha fondi sufficienti; nel 2026 sentir parlare ancora di questi problemi mi fa venire l’orticaria.”
Sono fiero di esser riuscito a mantenere la calma, di non aver mentito e di esser riuscito a spostare il tutto su un argomento molto delicato. Non avevo mai riflettuto su un’eventualità come questa ma devo ammettere che me la sono cavata alla grande, Hayate mi guarda orgoglioso.
“Cer-certo, signor Ozora, comprendo perfettamente il suo punto di vista e provvederò ad attivare corsi supplementari. Assolutamente non sono necessarie donazioni per questo progetto, e tutti i ragazzi coinvolti nell’accaduto saranno costretti a ore integrative di corso, pena l’esclusione dall’istituto.”
“Bene, la ringrazio, ovviamente spero che saranno coinvolti anche i miei figli.”
“Ma papà…” si lamenta Hayate agitandosi sulla sedia.
“So che non è colpa tua e che tuo fratello ha un carattere fumino, ma spero che questo corso possa farvi avvicinare a quei ragazzi che hanno offeso; e che con il tempo possiate appianare le vostre divergenze. Sarete un esempio per tutta la scuola: quindi, fate il primo passo. E non transigo!”
“Vedo che non è capace soltanto a dirigere una squadra di calcio…” ironizza la preside porgendomi la mano. L’incontro è finito, contraccambio la stretta dicendo: “Anni da capitano qualcosa insegnano e l’armonia nella squadra è tutto.”

Usciamo da quella stanza con un’incazzatura in più e un insegnamento ottenuto.
 
 
 
Il tragitto verso casa si svolse nel più totale silenzio. Solo quando dopo un incrocio noto si resero conto che la strada era quella che conduceva da Sanae, Daibu si agitò sul posto. Tsubasa gli lanciò un’occhiataccia dallo specchietto retrovisore.
“Daibu, non avrai creduto di tacere una notizia così a tua madre vero?”
Il ragazzo non rispose e distolse lo sguardo per osservare il paesaggio fuori dal finestrino. Paesaggio che non stava guardando, immerso com’era nei suoi pensieri. Hayate si voltò verso il fratello per incoraggiarlo a dire qualcosa, ma come da sedici anni a quella parte il mutismo fu solo quello che ottenne. Daibu parlava in rare occasioni e quando lo faceva erano in camera loro da soli, per quello Hayate alla fine si era sempre fatto portavoce per entrambi.
“Papà, non vorrai far preoccupare la mamma…” l’aveva buttata lì in un tentativo improbabile di sfuggire anche alla predica materna.
“Vi rendete conto che domani sarete su tutti i giornali? Vi rendete conto che se quel ragazzo vi denunciasse potrebbe costarci caro? Fortuna che vostra madre ha sempre insistito per stipulare un’assicurazione dopo una delle prime scazzottare di Daibu.”
“Quello è abituato ai pugni, non ci denuncerà, più facile che voglia una rivincita, ma troverà pane per i suoi denti.” Daibu dal sedile posteriore aveva detto quella breve frase con tono sprezzante e rabbia crescente.
“Forse dovevi fare boxe invece di calcio, almeno ti saresti sfogato… mi domando da chi tu abbia preso…”
 
 
Quando varcarono la porta di casa i sospetti da chi avesse preso quel carattere così battagliero si mostrarono in tutta la furia della madre.
Sanae aveva dato di matto sbraitando contro i gemelli. Che poi uno non c’entrasse praticamente nulla al momento le era indifferente. Era talmente delusa e incazzata per quanto accaduto che le si era annebbiata la vista e aveva perso le staffe.
“Ma io non posso credere che ancora una volta tu abbia fatto a pugni!” la donna, di fronte al figlio seduto sul divano, non aveva ancora accennato a diminuire il rimprovero. Rimprovero che si era concentrato totalmente sul colpevole permettendo a Hayate di affiancare il padre e tentare di calmare la madre.
“Sanae, sono giovani, sai che Daibu è molto irascibile.”
“Sarà irascibile, ma niente può giustificare il fatto di alzare le mani. E poi cosa potrà mai aver detto questo teppistello per ricevere un trattamento simile?”
“Cos’ha detto? Cos’ha detto? Te lo dico io cos’ha detto: Che papà si fa inculare da Misaki! Ecco cos’ha detto.” Rispose urlando.
“ALT! STOP! Queste parole non le voglio sentire in casa mia…!” la madre portò avanti i palmi in segno di chiusura.
“Figurati quanta voglia ho io di farmele dire di fronte a tutta la classe!” Daibu si era alzato di scatto e dopo aver risposto a Sanae era uscito di corsa dalla sala per filare in camera sua. Il colpo della porta aveva fatto tremare tutti i muri.
“DAIBU, NON RIVOL-” Tsubasa aveva iniziato a rimproverare il figlio quando la mano della sua ex moglie si era appoggiata sul suo braccio e aveva stretto forte.
“Non è colpa sua, Tsubasa, sapevamo di queste difficoltà, dopo vado da lui e ci parlo.”
“Mamma, ci penso io a Daibu, è solo arrabbiato, non ce l’ha con voi…”
“Lo sappiamo, Hayate…” rispose la donna sollevando la mano per accarezzare quella guancia con un primo accenno di morbida barba. I suoi bambini, oramai molto più alti di lei, stavano diventando dei bellissimi uomini.
Il figlio l’abbracciò stretta e corse dal gemello.
Il capitano afflosciò le spalle in segno di sconforto.
“Abbiamo fatto bene ad aspettare che crescessero, almeno sanno affrontare la questione.” Sanae aveva incrociato le braccia al petto e guardato Tsubasa in cerca di sostegno.
“Sono felice che tu riesca a vedere il lato positivo, io mi sento così in colpa per quello che vi ho fatto passare.”
La donna si avvicinò e, afferrandolo saldamente per le braccia, lo scosse delicatamente. “Non pensarci neppure, c’ho messo del tempo per digerire il tutto e tu lo sai benissimo; ma sono anche consapevole che non si può struggersi per amore. E ho visto come stavi durante quei mesi per colpa degli incubi. Non avresti più vissuto come prima, non avresti più giocato come prima, non saresti stato un buon padre come lo eri prima. Abbiamo distrutto il nostro matrimonio, ma abbiamo salvato tutto il resto. Pensiamo a questo!” Esclamò annuendo fiduciosa.
Ozora l’abbracciò stretta prima di darle un bacio sulla testa. “Sono stato un uomo fortunato ad averti incontrata.”
“Più che incontrata confesso la versione stalker del passato…” ironizzò Sanae, sorridendo dentro alle sue braccia. Era tantissimo tempo che non la stringeva così e si compiacque di non sentirne nessun effetto. Le farfalle nello stomaco erano volate via da un bel pezzo, per sua fortuna e sanità mentale. Juan le aveva sostituite con qualcosa di caldo e irrazionale; adorava il suo nuovo compagno agli antipodi di Ozora.
Tsubasa sorrise staccandosi da lei e si avviò alla porta.
“Se hai bisogno, chiamami, e non punirlo… non è colpa sua…”
“Sei sempre troppo buono, Ozora. Va’, ci penso io.”
L’ultima cosa che vide fu la mano che si muoveva in cenno di saluto prima che la porta ne celasse la vista.
Dopo aver rilasciato tutto il fiato, gettò uno sguardo al corridoio e poi alla porta della cameretta dei suoi figli. Porta verso la quale si diresse immediatamente. Voleva assolutamente parlare con loro e chiarire tutto quel pasticcio.
Mentre in auto Tsubasa aggiornava il compagno tramite WhatsApp


 


La madre era uscita da cinque minuti quando Hayate vide afferrare il cellulare al fratello per rispondere a una chiamata. Sanae c’era andata leggera, pur rimproverando il gemello, aveva spiegato che con la violenza si passava sempre dalla parte del torto. Che era solo grazie al cognome che portavano che la scuola non lo aveva sbattuto fuori. Insomma le solite cose che oramai sentiva ripetere da anni… solo che Daibu era davvero difficile da gestire.
Aggrottò le sopracciglia quando sentì il fratello salutare Desirée, poi la frase successiva come una richiesta di muto aiuto:
“Aspetta che ti metto in vivavoce così sente anche Hayate”
“Ciao, piccoletta. Che ci racconti?”
“Che mi raccontate voi, piuttosto… corrono voci di una rissa scatenata dai gemelli Ozora, è vero?”
“La gente non si fa mai i cazzi suoi, vedo!” replicò scocciato Daibu.
La ragazzina nascose una risata tra la mano e la cornetta del telefono.
“No, in realtà ho sentito papà sconvolto mentre parlava al telefono con mamma. Daibu, che combini?”
Il ragazzo si lasciò cadere sul letto sprofondando tra i cuscini.
“Niente, uno stronzo si era permesso una battuta di troppo sui nostri padri.”
“Devo sempre insegnarti tutto, Daibu, la vendetta va consumata fredda…” la frase in sospeso aveva incuriosito i gemelli.
“Che vuoi dire?” chiese Hayate avvicinandosi al letto del fratello per sentire meglio.
“Credete che le prese in giro non ci siano anche nella mia scuola?”
“Hai dei problemi? Dobbiamo venire lì da te?” Daibu, con il suo solito senso di protezione che aveva sempre nutrito per Desirée, si fece subito avanti.
“Grazie, Daibu, ma ci sono altri metodi oltre i pugni, sai? Metodi molto più trucidi, ma che non hanno ripercussioni su di te.”
Il ragazzo si fece ancora più attento… sapeva quanto tremenda potesse essere la viperetta, quindi era tutto orecchie.
“Illuminami…”
“Mai sentito parlare di Guttalax?”
“Aspetta – esordì Hayate – ma non è un potente lassativo?”
“Esatto, sapeste che epidemia c’è stata nella mia classe… poverini!” Il tono di finto rammarico fece seguire una risata liberatoria che esplose forte e allegra come non succedeva da tempo.
“Sei tremenda – constatò Daibu dopo essersi ripreso dalle risa – una cosa è certa: mai mettersi contro di te…”
“I tuoi genitori che hanno detto?” Chiese Hayate incuriosito.
“Credo che lo sospettino, ma non lo ammetterò mai. In realtà la preside ha chiamato per avvisare dell’epidemia; essendo l’unica che non l’aveva presa si era premurata di avvisare i miei genitori. Mi hanno guardata di traverso per interi giorni, ma non ho ceduto.”
“Sei la meglio!” esclamò Hayate tutto entusiasta.
“Hayate, dai dobbiamo andare…” lo esortò il fratello.
“Dove andate di bello?” li interrogò la ragazzina.
“Che domande: a fare scorta di Guttalax, no?”
“Adoro quando diventate trucidi tanto quanto me… e ricordate: voglio tutti i dettagli.
“Non mancheranno, non temere.” Rispose Hayate dopo aver afferrato il cellulare e seguito i passi del fratello.
La vendetta era pronta per essere servita fredda, freddissima, come la tazza del cesso dove tutti si sarebbero seduti molto presto.
 
 

Taro sedeva affaticato sulla panchina all’interno dello spogliatoio. Mentre cercava d’incamerare aria velocemente si stava slacciando gli scarpini. Napoléon per tutta la partita era stato distratto e Pierre lo aveva ripreso più volte. Tutti sapevano del pessimo carattere dell’attaccante; infatti aveva inveito più volte contro Misaki, accusandolo di passaggi sbagliati. Il numero undici non gli aveva dato peso cercando di non fomentare la sua indole iraconda, ma evidentemente non era bastato, visto che continuava a sbraitare cose assurde per tutta la stanza, girovagando come un’anima in pena e lanciando pezzi di divisa per tutto lo spogliatoio.
Taro sollevò gli occhi per guardarlo visto che si era posizionato di fronte a lui con le braccia incrociate.
Una volta incontrate le sue iridi, Misaki sollevò un sopracciglio verso l’alto senza proferire parola. Come a dire: che vuoi? Tanto non ho voglia di attaccar briga con te. Era tardi e doveva tornare a casa per chiamare Ozora, non voleva certo ritardare per colpa di un deficiente, quello che era accaduto ai gemelli lo voleva sentire con le sue orecchie.
“Stasera in campo hai fatto schifo, Misaki! Tutti i passaggi che mi hai fatto non erano buoni…”
Taro roteò le pupille in segno di noia alzandosi in piedi per fronteggiarlo.
“Se la sera fai tardi e poi il giorno dopo non corri a sufficienza per arrivare sulla palla, io non posso farci niente. Piantala di fare le serate brave, non hai più vent’anni, è già tanto che ti permettono ancora di giocare, Napoléon; avrai il fegato distrutto…”
Il compagno lo aveva spinto con malagrazia a una spalla facendolo retrocedere e di conseguenza sedere sulla panca alle sue spalle. Dopo lo aveva sovrastato con tutto il corpo, appoggiando entrambe i palmi alle mattonelle della parete. Taro si sentiva imprigionato, ma allo stesso tempo con zero voglia di litigare.
“Siamo sicuri che invece tu non te la spassi un po’ troppo tra le lenzuola con Ozora? Cosa credi, che siamo tutti scemi? Che non sappiamo della vostra relazione? Si vocifera che in Spagna abbiate anche un appartamento insieme: è vero?”
Misaki si alzò di scatto afferrando le braccia del compagno per spostarlo. Una volta al suo pari lasciò andare la presa e si avvicinò al volto con fare minaccioso. “Cos’è la tua, invidia? Perché io ho avuto una famiglia, una figlia e adesso un compagno? A te invece non ti considerano né le donne, né tantomeno gli uomini. Se hai una vita di merda non è colpa mia; e ora togliti.”
Con un gesto repentino del braccio gli afferrò un fianco e lo scansò dalla sua traiettoria. Aveva deciso di andare a fare la doccia non sprecando altre parole con quell’idiota.
 

Pierre aveva osservato tutta la scena ed era consapevole della verità, anche se Taro non gliela aveva mai confessata; ma la dimostrazione di come, anche quando pensi di essere bravissimo a nasconderti o a non far capire nulla dei tuoi sentimenti, e invece tu ti stia solo illudendo perché i gesti parlano per te. Ogni volta che aveva avuto l’occasione di vederli aveva constatato una tenerezza infinita nel cercare di non far notare che cosa ci fosse tra loro. Una mano che sfiorava l'altra per un attimo, il movimento della testa che avrebbe voluto poggiarsi sulla spalla, ma si fermava in tempo, la distanza tra due fianchi quasi inesistente, un abbraccio senza stringersi troppo.
Metà dei presenti avevano sempre sguardi d’invidia ricordando quella passione oramai sepolta e invece presente nella coppia.
Quando vide che Napoléon aveva esteso il braccio per afferrare il compagno, Pierre allungò il passo e agguantò quell’arto con forza; poi sibilò tra i denti: “Non provarci neppure o ti faccio sbattere fuori squadra, Napoléon, e sai che lo faccio!”
Lo sguardo di fuoco che il malcapitato incontrò fu sufficiente per desistere da qualsiasi cattiva intenzione, quindi voltandosi afferrò il borsone e lasciò lo spogliatoio coprendosi soltanto con il piumino, abbandonando mezza divisa sparpagliata in giro.
I compagni avevano assistito alla scena in completo silenzio, sapevano che il loro capitano non avrebbe mai permesso alcun tipo di screzio.
Una volta uscito, Pierre tirò un respiro di sollievo.
Regalò un occhiolino bonario al resto della combriccola e si affacciò nelle docce dove Taro si stava lavando. Questi aveva sentito il capitano difendere la sua posizione, ma aveva preferito non intromettersi nel suo discorso. Nello spogliatoio certe gerarchie erano rispettate anche se l’argomento non riguardava propriamente il calcio.
 
“Senti, Misaki…” ridacchiava, dopo tanti anni quella confidenza era dovuta e poteva anche permettersela.
“Dimmi…” rispose l’altro da sotto la doccia.
“Oramai che il coming out è stato fatto, te le posso fare una domanda?”
“Sei il capitano…”
“Ozora è un fuoriclasse anche tra le lenzuola?”
La spugna che ricevette nel muso schizzò acqua da ogni poro mentre un sorridente Misaki si affacciava dalla tenda della doccia sbraitando: “Smettila di fare il cretino!”
Pochi attimi dopo la tensione si sciolse e il resto dei giocatori esplose in una fragorosa risata liberatoria.
Taro lo sapeva, avrebbe potuto contare su Pierre, lui era un suo amico.


 









Mi sveglio presto...
Ho un profilo FB dove metto qualche anticipazione del testo...
Beh, meglio tardi che mai.
aahahahahah

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Luglio 2026
 
 
Non poteva ancora credere di assistere all’ultima partita del suo ex marito con la maglia della nazionale, si voltò verso destra e trovò Juan entusiasta e frastornato allo stesso tempo.
 
Lui non era abituato a tutto il clamore dello stadio. Come non era abituato a sedere nella tribuna d’onore.
Azumi, due poltroncine più avanti, tentava di tenere fermo il figlioletto avuto dal procuratore. Sanae non avrebbe mai immaginato che dopo la vacanza in Grecia il futuro avesse potuto riservare loro tante sorprese e novità.
 
Osservò i gemelli in campo come raccattapalle, mentre Daichi indossava la maglia ufficiale della nazionale. Durante le qualificazioni aveva avuto anche la possibilità di giocare con suo fratello. Aveva visto Tsubasa con i lucciconi agli occhi per quella opportunità. Il suo ex marito era orgogliosissimo dei figli e del suo adorato fratellino, averli tutti intorno nella sua ultima partita con la divisa della loro nazione lo aveva galvanizzato al massimo. Sanae lo aveva osservato prima di entrare in campo: Ozora oggi avrebbe fatto faville, ne era certa. Ancora le sembrava impossibile di aver mantenuto il patto nonostante le ostilità iniziali di Azumi nei confronti di Taro. E invece…
 
Invece erano tutti lì con una nuova vita e con nuove persone al loro fianco. Ancora stentava a crederci se ripensava a tutto quello che era accaduto.
 
“Insomma, faranno coming out alla fine?”
 
Azumi la distrasse dai suoi pensieri proprio nel momento in cui la Golden Combi aveva siglato il secondo goal della finale.
 
Il pubblico esplose in un boato assordante, mentre Juan scendeva fino al limite della balaustra per esultare.
 
Sanae si grattò una tempia perplessa nell’osservare la bramosia del compagno; poi rivolta ad Azumi sorrise, indicandolo: “Non è che s’innamorerà anche lui, vero?”
 
Azumi scoppiò a ridere scuotendo la testa divertita. Mai avrebbe pensato che su questa situazione sarebbe arrivata a riderci un giorno.
 
“Certe volte mi sembra tutto un sogno, mi sembra ancora impossibile che dopo tutti questi anni siamo riusciti a tenere questo segreto.”
 
“Diciamo che il giornalista c’ha dato una bella mano…”
 
“Già, colui che credevamo il nostro peggior nemico è diventato il nostro miglior alleato.” Rispose la moglie del procuratore sollevando le spalle ancora incredula di come si fossero aggiustate certe dinamiche.
 
“Con tutte le esclusive che gli hanno riservato, non credo che ci abbia rimesso.” Sanae le strizzò l’occhio con fare di chi la sapeva lunga.
 
“Finalmente siamo arrivati al dunque. Oggi finirà tutto…”
 
“Tsubasa ha detto che se fanno tre goal non aspetta la premiazione… non ho idea di cosa abbia in mente, ma da uno che a quindici anni è partito per il Brasile mi aspetto di tutto.”
 
“Hai proprio ragione, quello è matto come un cavallo, quando ha un obiettivo non lo smuovi… Taro, per esempio, si era messo l’animo in pace, invece lui…”
 
“Se non fosse stato per gli incubi e per il calo di prestazioni in campo non so se avrebbe mai confessato, ha sempre creduto nella famiglia e nelle tradizioni.”
 
 
Azumi annuì mentre controllava il figlioletto che raggiungeva il padre e Desirée. La ragazzina guardava ammirata il campo: le avevano proposto di entrare con i gemelli, ma oramai era grande per quel tipo di cose. Lei dopotutto era entrata per più di una volta per mano a calciatori famosi; un’emozione unica che avrebbe conservato sempre nel cuore.
 
“Sanae, ricordi quando mi hai detto che avevi avuto il sospetto su Taro già in passato? Che cosa te lo aveva fatto pensare?”
 
La ex prima manager tornò a osservare la distesa verde sotto di lei mentre lo sguardo si faceva vago nel perdersi nei ricordi.
 
“La prima volta che ho visto Taro è stato quando è entrato in campo al posto di Ryo. Già in quell’occasione restai esterrefatta dalla profonda affinità che li legava in campo; non si erano mai visti prima e già giocavano come dei veterani. E lo sguardo di Misaki rivolto a Tsubasa ogni volta che toccava palla non potrò mai scordarlo, sembrava dicesse: siamo stati separati alla nascita. Questo all’inizio, poi sono accaduti dei piccoli episodi che mi hanno fatto riflettere. Una volta, mentre tornavo dagli spogliatoi, vidi Taro di spalle a bordo campo piegato che si stava allacciando uno scarpino. Aveva occhi solo per il capitano. Impossibile distrarlo. Vidi Ozora voltarsi e strizzargli l’occhio, forse per una bella azione fatta, chissà; però Taro, preso alla sprovvista, arrossì immediatamente. Lì per lì pensai che qualcuno della squadra avesse detto qualcosa di spinto che forse non avevo sentito. Ma quando sono arrivata lì vicino a lui, Taro era imbarazzato. Tanto in difficoltà che farfugliò qualcosa e scomparve di corsa all’interno degli spogliatoi. Ricordo che avevo riso di quell’episodio finché non ce ne furono altri che accesero una piccola lampadina nella mia testa.”
 
“E così poi hai tratto le tue conclusioni…”
 
“Sì, ma era irrilevante perché Tsubasa a quei giorni aveva comunque solo testa per il pallone, poi il resto lo conosci. Il nostro sembrava semplicemente un destino già scritto… e invece.”
 
“E invece eccoci comunque qua ad assistere alle loro prodezze ancora una volta…”
 
“Già, il calcio alla fine è sempre stato il fulcro di tutta la nostra vita.”
 
 
Le donne, sorridendo, tornarono a guardare quell’ultima partita con gli occhi colmi di lacrime. Perché, per quanto la vita avesse riservato loro delle difficoltà pesanti, erano tutti riusciti nell’impresa titanica di mantenere dei rapporti civili.
 
Sanae avrebbe sempre voluto bene al suo ex marito e alla sua estrema ingenuità. Era stata la manager della squadra per tanto tempo e lei di Taro e del suo innamoramento per Tsubasa lo aveva sempre saputo. Saputo in cuor suo, ma mai rivelato a nessuno. Di scene nella sua mente dopo quello che era avvenuto in Grecia ne erano susseguite tantissime, ma quella che ricordava con più precisione era stata quella volta che Misaki aveva passato una salvietta al suo ex.
 
Ricordava perfettamente tutto come a rallentatore. Lei che arrivava con la pila di asciugamani che sarebbero serviti per il sudore. Taro che ne afferrava due e tornava in campo per porgerla al compagno. Ricordava esattamente che nell’innocenza dei dodici anni era stata quasi gelosa di quella confidenza che Misaki si permetteva con Ozora. Lo stesso sentimento in forma ridotta che aveva provato quando aveva capito la foto fino in fondo. Il numero dieci non l’aveva mai guardata in quel modo. E anche quella volta…
 
Quando Taro era arrivato vicino al compagno, gli aveva toccato una spalla e lui si era girato con un sorriso che le aveva scaldato il cuore; lei, impegnata a distribuire le salviette, li guardava a tratti e di soppiatto. Tsubasa aveva detto qualcosa e il numero undici ne aveva sorriso, poi aveva allungato la mano e offerto la spugna; allo stesso modo il capitano aveva alzato il braccio e afferrato il panno e lì, in quel preciso istante, li aveva visti. Le dita si erano sfiorate e loro si erano guardati per qualche secondo di troppo. Uno sguardo caloroso, confuso e brillante. Le sembrava addirittura che Misaki avesse mosso le dita in una sorta di carezza, ma aveva sempre dato colpa al riverbero del caldo per quel gesto che forse non c’era stato, o forse sì. Non lo avrebbe mai saputo se quel leggero sfioramento fosse davvero avvenuto o meno, una cosa era certa: il numero undici era arrossito e Tsubasa aveva sollevato le spalle come a dire ‘non fa niente’, portandosi la mano incriminata dietro la nuca nel classico gesto compiuto quando era in imbarazzo. Dopo si era deterso il viso ed era corso via verso il cesto della biancheria sporca, per gettare la spugna, e successivamente in campo.
 
Aveva rimuginato tutto il giorno su quel piccolo gesto e quel rossore. Rossore che era già comparso in altre occasioni e attribuito agli allenamenti. Ma ora… aveva scrollato le spalle con sufficienza chiudendo i pensieri a doppia mandata nella sua mente; anche perché se Taro avesse provato qualcosa per Tsubasa a lei non cambiava nulla. Il capitano era scritto nel libro del suo destino; o almeno lo pensava a quei giorni. Non poteva certo impedire sentimenti altrui verso Tsubasa.
 
Tornò a guardare il campo con occhi nuovi e la consapevolezza che quell’amore fosse nato sull’erba verde, immatura come i due protagonisti, e compreso solo in età più adulta. Lei non avrebbe potuto farci nulla. Ozora in passato era talmente concentrato sul pallone che nulla lo avrebbe smosso da tale obiettivo. Non poteva andare diversamente da come era accaduto. A un certo punto della loro vita l’amore sepolto si era riappropriato degli spazi di cui era stato privato.
Forse sul suo libro del destino c’era anche un capitolo ‘Misaki’ di cui non era stata messa a conoscenza o, per lo meno, non aveva saputo coglierne le sfumature che si erano presentate.
 
 
 
Daichi non credeva ai suoi occhi, la Golden Combi nonostante i trentasei anni era al massimo della forma, forse complice anche il fatto che a breve avrebbero dovuto raccontare al mondo della loro storia, sembravano dopati.
 
Avevano già superato la metà del secondo tempo e conducevano per 2 a 0. Ma il capitano pareva non volersi accontentare. Capì quello che stava per fare quando Misaki non avanzò nella progressione verso la porta. Daichi iniziò a sorridere dalla panchina quando vide il fratello da fuori aria apprestarsi a compiere il suo famoso tiro. La posizione inequivocabile e l’arrestarsi del numero undici gli dette la certezza di cosa avrebbe fatto. La sfida con Genzo di segnare un goal da fuori area oramai era diventata una leggenda.
 
Spostò velocemente lo sguardo su Wakabayashi, che tra i pali a proteggere la porta Giapponese, si stava passando una mano su tutto il volto in segno di sgomento. Anche lui incredulo su come certe leggende non potessero ancora tramontare. Tornò a guardare quasi da centrocampo… non era un semplice tiro ‘fuori dell’area di rigore’; Tsubasa era poco dopo la riga di metà campo. Taro a pochi metri da lui controllava che nessuno potesse disturbarlo. Anche se chiunque sano di mente non avrebbe mai potuto immaginare quello che stava per fare. Un tiro da quella distanza era impensabile per chiunque. Si posizionò nella classica posa e appena il pallone fu nel punto perfetto caricò tutta la forza che aveva in corpo e la scaricò sul pallone. Daichi ne era certo, l’impatto con il cuoio del piede aveva ovalizzato il pallone facendolo schizzare verso la rete a una velocità impressionante. Riuscì a individuare il pallone soltanto un attimo, dopo quando oramai si trovava già in aria di rigore. Il portiere, ovviamente incredulo, si era mosso con quel centesimo di ritardo, che comunque non sarebbe servito a niente. La palla, in tutta la sua potenza, si insaccò alla destra del malcapitato facendo tendere la rete per alcuni secondi prima di cadere a terra. Forse era un bene che il portiere non si fosse trovato sulla sua traiettoria. Questo il giovane calciatore lo pensò pochi istanti prima di vedere un gran movimento a centro campo.
 
Ozora saltava con il pugno sollevato in segno di vittoria, Misaki era arrivato in scivolata ai suoi piedi alzando i pugni al cielo.
Ed era lì che era avvenuto tutto.
Tsubasa si era abbassato sul compagno, gli aveva afferrato il viso tra le mani e baciato a stampo sulle labbra. Taro lo aveva stretto con le braccia dietro al collo e si era lasciato tirare su sorridendo. Una volta in piedi Ozora lo baciò di nuovo, per confermare ai possibili increduli che tutto era vero e tangibile, tanto da poterlo toccare con mano, come lui toccava Taro ora tra le sue braccia senza più segreti. E improvvisamente fu il silenzio dell’intero stadio. Dopo un primo grido di esultanza dovuto al terzo goal era calato un inaspettato mutismo per il bacio che si erano scambiati in mezzo al campo.
 
I compagni erano corsi a festeggiare il goal decisivo e dopo il bacio che si erano scambiati li avevano circondati esultando tutti insieme. A quel punto il pubblico era come esploso, l’applauso che ne era derivato aveva fatto vibrare le tribune, la curva e gli spalti. L’arbitro aveva fatto scorrere quel lasso di tempo guardando l’orologio perché non si eccedesse con i tempi di recupero. Il bacio lo aveva visto anche lui, ma aveva fatto finta di niente continuando a guardare le lancette. Quando ritenne che i festeggiamenti fossero più che sufficienti fischiò affinché i giocatori tornassero a centrocampo per riprendere il gioco. Dalla panchina il mister sollevò le spalle rassegnato; aveva capito che quella finale sarebbe stata anche il coming out ufficiale, ma la Golden non aveva rivelato loro i dettagli del come. Mancavano oramai meno di dieci minuti alla fine e il clima in campo era già di festeggiamento e gloria. La Golden Combi sembrava finalmente appagata dai goal e dal coming out che aveva permesso di alleggerire i loro cuori da un peso che oramai si portavano dietro da anni.
 
Yoshinori Sakai dalla tribuna aveva calato gli occhialini sul naso annuendo soddisfatto, aveva seguito i ragazzi nel corso di tutta la loro carriera e aveva potuto constatare la serietà dei due nel mantenere gli obiettivi e le promesse fatte.
 
Lui aveva già pronto un extra sulla Golden Combi e tutti i retroscena della loro relazione. Aveva dovuto aspettare, ma ora era pronto a tirar fuori tutto e finalmente godersi l’amata pensione. Perché ne era certo che con quel piccolo libro sui due campioni avrebbe ottenuto incassi d’oro.
 
Non era stato facile, aveva vissuto il bullismo attraverso loro, aveva sentito gli altri giornalisti dargli dei gay, aveva sentito offese pesanti e accuse indegne. Aveva conosciuto i retroscena dei vari coming out in squadra, in casa e con i figli. I problemi di Daibu a scuola e di Taro in squadra. Certo era che non aveva inserito proprio ogni episodio per evitare ritorsioni nei loro confronti, ma più volte nel libro aveva citato vicende di bullismo e discriminazione. Per quello, dopo l’accordo, si era reso conto di quanto invece il suo lavoro nel corso degli anni si fosse rivelato importante. Far conoscere i due campioni nella loro vita extra calcistica, e con aneddoti sulla loro infanzia, aveva fatto sì che fossero ancora più amati dal pubblico e questo aveva affievolito quella piccola corrente omofoba che aleggiava loro intorno. Per quello doveva ringraziare anche la sua fantastica moglie che lo aveva messo di fronte a un problema che non aveva minimamente considerato. Alla fine era felice che la sua professione, per una volta, non avesse danneggiato qualcuno. Molto spesso aveva fatto articoli che poi avevano smosso la sua coscienza pesantemente. Questa volta si sentiva fiero di sé stesso.
 
 
 
 
Non poteva credere di averlo fatto davvero, non solo il goal da quasi centro campo.
 
Certo, in porta non c’era Genzo altrimenti col cazzo che sarebbe riuscito!
 
Ma di aver baciato Misaki di fronte a tutti.
 
Dopo il goal non aveva capito più nulla, la felicità per la vittoria del mondiale oramai nelle tasche, l’adrenalina per il tiro riuscito, il goal da una distanza improbabile e Taro in scivolata verso di lui per festeggiare; l’avevano mandato in tilt.
 
L’esultanza del compagno poco sotto di lui, gli aveva fatto vivere una scena bellissima. E doveva assolutamente condividere la sua felicità con l’amore della sua vita. Quindi quando era atterrato, dopo il salto, si era chinato e lo aveva baciato a stampo, il numero undici aveva semplicemente sorriso consapevole della decisione presa da tempo.
 
Quel sorriso maledetto, al quale la ragione non aveva mai resistito, glielo aveva visto anche dopo che si erano alzati, ed era per quello che lo aveva baciato un'altra volta poco prima che arrivassero i compagni a travolgerli in un abbraccio globale. Ozora ne era certo, tanta adrenalina così che scorreva veloce nelle vene non ce l’aveva mai avuta.
 
Avevano ripreso a giocare dopo il fischio dell’arbitro. Dopo un’occhiata con la sua metà avevano tacitamente pattuito che non avrebbero infierito ulteriormente con la squadra avversaria; un 3 a 0 era più che sufficiente, e sarebbe anche stato divertente vedere Genzo all’opera negli ultimi cinque minuti.
 
Cinque minuti che divennero sette per i tempi di recupero, e poi fu solo caos.
 
Il fischio finale e le urla dei loro compagni furono travolgenti, i ringraziamenti sotto la curva, l’acqua che ricevettero da ogni parte… erano bagnati come pulcini, e Taro era bellissimo con la divisa della nazionale che lasciava intravedere la candida pelle sotto, i capelli gocciolanti e scarruffati lo rendevano magnifico ai suoi occhi. Il palco, la premiazione, la musica i coriandoli a non finire che piovevano dal cielo e Misaki al suo fianco. E il cuore che non accennava a rallentare la corsa. Sentiva i suoi battiti fin sotto la pelle dei polpastrelli.
 
Afferrò la coppa tra le mani e la sollevò al cielo; il viso rivolto alla volta celeste in un muto ringraziamento per quello che la vita gli aveva offerto. Le stelle parevano fissarlo soddisfatte e fiere di ciò che erano diventati. Circondato dall’intera squadra portarono la coppa del mondo in trionfo correndo lungo tutto il perimetro del campo. Anche i gemelli e tutta la panchina, compreso suo fratello, stavano compiendo il giro di campo insieme a loro. I suoi genitori invece li immaginava in lacrime nei posti d’onore riservati alle famiglie.
 
E proprio sull’ultimo pensiero si diresse verso la tribuna d’onore e una volta raggiunta a sollevata la coppa cercò gli occhi di Sanae. Non era mai stato amore, se ne era reso conto con il tempo e dopo aver fatto i conti con quello che invece provava per Taro. Ma lei sarebbe comunque rimasta nel suo cuore, l’affetto non sarebbe mai scomparso; inoltre ora che la vedeva nuovamente felice era soddisfatto della scelta compiuta. Sanae non si meritava di vivere vicino a un uomo che non l’amava come lei avrebbe meritato.
 
Mimò un grazie con le labbra poi le lanciò un bacio con la punta delle dita. Vide la donna passarsi il dorso della mano sotto lo zigomo, forse una lacrima era sfuggita dalle lunghe ciglia.
 
Anche Misaki al suo fianco salutò la famiglia inviando loro un bacio con le mani.
 
Quando ogni ringraziamento e festeggiamento finì, fu il momento di affrontare il ritorno verso gli spogliatoi. Il tunnel per arrivarci però, come di consueto, era gremito di giornalisti; in testa videro Yoshinori Sakai che con pollice sollevato, approvava quello che era successo.

I due baci non erano certo passati inosservati.
 
Misaki con l’adrenalina ancora nelle vene, prima di affrontare il tunnel, prese una leggera rincorsa e saltò sulle spalle del compagno; non era certo la prima volta che succedeva a fine di una partita. Sicuramente era quasi una consuetudine.
 
“Ehi, non sei una piuma Misaki!” protestò Tsubasa afferrandogli le gambe e sorreggendole saldamente. Taro per tutta risposta gli lasciò un bacio sul collo, mentre il capitano sorrideva tranquillo. La scena scatenò centinaia di flash immortalando i due da mille angolazioni.
 
“Alla fine ti piace portarmi negli spogliatoi, ammettilo.” Scherzò il numero undici.
 
Ozora ridacchiò divertito mentre scendeva il primo gradino passando in mezzo a una folla di persone, incurante di tutto e sicuro della scelta fatta; per non parlare della sensazione di leggerezza che li aveva colti dal momento che erano usciti allo scoperto.
 
“Oggi sei più leggero del solito…”
 
“Forse perché finalmente ci siamo tolti un peso?” ipotizzò mentre aveva appoggiato il mento sulla spalla per essere all’altezza del viso.
 
“Possibile…”
 
Improvvisamente una decina di microfoni fu di fronte ai loro volti impedendogli di procedere.
 
“Scusate, scusate…” la giornalista più intraprendente degli altri era riuscita a sbarrargli la strada.
 
A quel punto Taro scese dalle spalle del compagno e lo affiancò.
 
“Prego…” la invitò il capitano accompagnando la risposta anche con un gesto della mano.
 
“Avete niente da dichiarare?”
 
La Golden Combi si guardò perplessa.
 
“Forse ci sta chiedendo se abbiamo vinto? Sì, abbiamo vinto 3 a 0.” Ironizzò Misaki mentre Ozora scuoteva la testa sghignazzando. Taro quando ci si metteva era tremendo con i giornalisti.
 
“Ah, non faccia il sarcastico, Misaki.” Ribatté la giornalista.
 
“Ah, ho capito si riferisce alla cannonata del terzo goal segnato dal capitano; sì, lo sappiamo, ha la fissa di segnare da fuori aria; che vuole, è tutta colpa di Wakabayashi…”
 
“Ehi, ehi… chi parla di me senza la mia autorizzazione?”
 
Genzo li aveva sorpresi arrivando alle spalle e afferrandoli con le braccia per attirarli a sé mentre s’intrufolava tra i due.
 
“Genzo, vero che Tsubasa ha la fissa di segnare da fuori area?” chiese voltandosi per avere conferma.
 
“Certo che c’ha la fissa, a quasi quarant’anni ancora non ce l’ha fatta…” Scherzò strattonandoli bonariamente e scompigliando loro i capelli.
 
 “Che infame che sei, ti ho già purgato varie volte Wakabayashi e…”
 
Ma la giornalista incredula agitò di fronte a loro il microfono e le mani…
 
“Scusate. Fermi, fermi, io mi riferisco a quanto accaduto dopo il goal. Insomma è palese che vi siate scambiati un bacio.”
 
“Oddio vi siete scambiati un bacio? E a me non lo date? Guardate che sono geloso, eh.” Il portiere aveva iniziato ad allungare il viso per ricevere anche lui un ipotetico bacio.
 
La Golden iniziò a sghignazzare, poi il capitano lo spinse per una spalla ammonendolo con un affettuoso: “Vai a fare la doccia, scemo.”
 
“Non ci faccia caso ha smesso di crescere all’età di quindici anni…” ironizzò il numero dieci.
 
“Ozora, guarda che ti sento…” aveva risposto Genzo camminando all’indietro e puntando un finto indice minaccioso.
 
“Capitano, vuole rispondere alla mia domanda? Possibile che non abbiate alcuna dichiarazione da fare sul vostro comportamento in campo dopo il goal?” la donna si era stizzita e pareva aver perso la pazienza.
 
“Signora, non credo che sia difficile da capire. L’amore non si può spiegare.”
 
E si erano avviati verso gli spogliatoi facendosi spazio tra la folla che non accennava a diminuire.
 
Taro si fermò appoggiando le spalle alla porta e ne bloccò l’ingresso.
 
“Questa è l’ultima volta che varchiamo la soglia di uno spogliatoio con la maglia della nazionale e come giocatori… magari la prossima volta lo faremo come allenatori o accompagnatori, ma mai più come giocatori…”
 
“Lo so, ma non voglio pensarci adesso. Sono troppo felice per la vittoria e per esserci tolti il peso del segreto.”
 
Fermi l’uno di fronte all’altro avevano incuriosito i giornalisti che si erano accalcati per scattare foto. Non potevano certo sentire quello che si stavano dicendo bisbigliando.
 
“Ma io avrei un piccolo sogno nel cassetto.”
 
Tsubasa lo guardò perplesso portandosi una mano dietro la nuca e grattandosi la sommità dell’attaccatura dei capelli.
 
“Non mi sembra il caso di farsi venire strane idee, hai presente lo stormo di macchine fotografiche che abbiamo intorno?” Chiese il capitano sollevando perplesso le sopracciglia.
 
“Siamo fotogenici…” rispose poco prima di afferrarlo per la maglia e baciarlo davvero.
 
Il capitano appoggiò i palmi alla porta per non cadergli addosso imprigionandolo di fatto contro di questa; poi si perse tra le labbra carnose del compagno mentre i click alle loro spalle scattavano nervosi nella paura di perdere l’attimo.
 
La giornalista spalancò gli occhi incredula. Dopo tanti anni di sospetti trovarsi la verità sbattuta in faccia aveva lasciato tutti di stucco.
 
No, l’amore non aveva necessità di essere spiegato. E loro lo stavano dimostrando con i fatti senza bisogno di alcuna parola.
 
Li invidiò. Lei in quel modo non era mai stata baciata.
 
 
FINE





Che dire.
Siamo giunti alla fine anche di questa storia.
Non so se sono ancora pronta a lasciare del tutto la mia adorata Golden Combi, quindi qualche extra verrà fuori...
Abbiamo l'esplicita richiesta di chattine da parte di Ciotolina, che non posso certo negarle dopo i magnifici disegni che c'ha donato.
Grazie alle mie due adorate betuzze Guiky e Melanto per il prezioso aiuto che mi danno sempre.
Ci vediamo la prossima settimana con uno spin-off sulla golden e poi ho una vecchia storia nel cassetto che ho intenzione di rispolverare, quindi ci vediamo presto.
Grazie a tutti i lettori e lettrici che hanno letto, reccianato o sclerato in privato con me.
Grazie per lo scambio di opinioni sulla storia e per i molteplici punti di vista differenti che mi avete offerto.
A presto.
Sanae77

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