La seconda legge della dinamica

di Piebavarde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dovrete essere dinamici ***
Capitolo 2: *** Con i broccoli non funziona ***
Capitolo 3: *** Testa di canfora ***
Capitolo 4: *** No, la zazzera no. ***
Capitolo 5: *** La donna è mobile. ***



Capitolo 1
*** Dovrete essere dinamici ***


LA SECONDA LEGGE DEL MOTO DI NEWTON.
L'accelerazione acquistata da un corpo è direttamente proporzionale alla forza risultante a esso applicata e inversamente proporzionale alla sua massa.
                              
 
 
Sapete cos’è la forza?
La forza è un vettore.
Un vettore detiene tre caratteristiche.
Esso si distingue per: direzione, verso e modulo o intensità.
La forza è però un vettore particolare, perché possiede una caratteristica in più, rispetto agli altri vettori.
Per quanto concerne la forza, infatti, è altrettanto importante il punto di applicazione di quest’ultima.
Gli altri vettori sono frecce che viaggiano nello spazio, possiamo dire.
La forza, soltanto essa, può vantare una meta particolare, possiede ovvero un punto di applicazione.
La forza decide di non sprecare se stessa per vagare a zonzo.
La forza determina un punto e lo attacca.
Questo punto si chiama semplicemente punto di applicazione della forza.
Quale sia il punto, questo lo decide la forza.
Su quale degli infiniti punti essa debba attaccare, condurre un accerchiamento, una campagna militare; quale punto mitragliare, colpire con una freccia, spintonare, scazzottare, schiaffeggiare, calciare, premere; solo lei lo sa.
Quando la forza attacca un punto, pertanto un sistema, pertanto un corpo, pertanto una massa, essa determina un’accelerazione.
Se il corpo poi è inerte, si potrebbe dedurre che la forza considerata abbia scombussolato il suo stato.
Se il corpo, però, accelera, l’inerzia tende a fermarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo I.
Dinamico deriva dal greco "δύναμις", forza.
“Dovrete essere dinamici”
 
 
 
- Allora -, esordì Gaia, aggrovigliandosi le dita in cerca di un’illuminazione, - La dinamica è una branchia della meccanica.
 
Evidentemente nella testa aveva solo e soltanto una matassa di idee confuse. Molto confuse. Estremamente confuse.
 
Quante volte e in quanti altri contesti Gaia Fallani aveva già ed erroneamente fatto riferimento alla branchia dei pesci?
 
E quante volte e in quanti altri contesti le si era fatto notare l’errore?
 
E quante volte e in quanti altri contesti si intestardiva non riuscendo ad imparare dai propri sbagli?
 
Né una rotella in azione, nella testolina di Gaia, né un neurone che funzionava. Né il fantomatico criceto che girava, girava, girava.
 
Come la testa di Francesca.
 
La ragazza poggiò il capo sul banco, celando lo sguardo scuro. I suoi lunghi capelli bruni le ricoprirono le spalle, formando una specie di tendina tuttotondo. Era stanca; ed era ancora gennaio.
 
E poi Gaia sbagliava, commettendo sempre lo stesso errore.
 
Questo fece nascere nell’animo di Francesca una specie di monotonia-malinconia. Le si accese una spia nel cervello volta ad indicarle il lento succedersi delle giornate, tutte uguali.
 
Tutte noiose e tutte “la dinamica è una branchia della meccanica”.
 
Francesca si sentì stufa di quella situazione, estremamente stufa. Agognava la fine di tutta quell’uniformità delle giornate illudendosi che presto sarebbe finita, seppur fosse ancora gennaio.
 
Per l’esattezza era l’8 di gennaio ed era appena tornata dalle vacanze natalizie.
Sicuramente non le erano bastate. Si domandò stiracchiandosi quanti giorni mancassero alla chiusura della scuola.
 
Troppi, si rispose.
Troppi, come i dubbi di Gaia Fallani circa la lingua italiana.
 
La sua compagna di banco sghignazzò notando quello che si potrebbe definire il suo status perenne, di persona affranta e annoiata al contempo.
Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò: - Dormigliona, perché non ti prepari per la prossima ora?
Francesca aggrottò le sopracciglia, si alzò con placida calma e osservò la sua amica con curiosità.
 
Fece scorrere i suoi occhi improvvisamente preoccupati sulla figura esile di Matilde, convinta che volesse prenderla in giro. Che, come al solito, volesse distrarla dai suoi riposini scolastici punzecchiandola con una delle sue.
 
Poi Francesca puntò l’attenzione sugli occhi verdi e sinceri della sua amica. La sua migliore amica.
 
-L’hai dimenticato, vero?
-Cosa?
-L’assegno della prof Giusti: “Il teatro nel ‘600”.
 
Francesca roteò gli occhi: non aveva mai avuto problemi con l’italiano, non l’aveva mai studiato, non ne aveva mai sentito il bisogno; era come se le cose le sapesse e basta, così, per magia, dopo aver dato un’occhiata veloce al libro.
 
Perché mai avrebbe dovuto iniziare proprio l’8 di gennaio, quando mancavano per l’esattezza 153 giorni alla fine dell’anno scolastico?
 
-Lo sai che non lo farò comunque-, rispose, lasciando sottintendere mediante un leggero sorriso un ringraziamento velato.
 
Matilde fece spallucce e afferrò il libro di letteratura italiana.
 
Così tra un errore della Fallani e l’altro, tra cui intercorrevano i suoi vari “ehm” “hmm” impacciati, l’ora di fisica passò, per lasciar spazio a quella di italiano.
 
Angelica Giusti, spumeggiante professoressa di italiano, era, come solitamente capitava, in netto ritardo.
 
La “secchia” della classe, Gaetano Borbone, fece scattare il suo sguardo attento sulle lancette dell’orologio di pelle che teneva allacciato al polso.
 
-Sono le 9.42-, sibilò esterrefatto.
 
Francesca si voltò gongolante verso il bel secchione, nonché suo migliore amico.
 
-Perché mai ti lamenti, Borbone?- lo canzonò tirandogli qualche pelo di una sottospecie di barba, che Gaetano chiamava fieramente proprio barba, quando si avvicinava più che altro ai peli del mento di una capra; -Tu odi la letteratura italiana, non è così?
 
Lui assottigliò gli occhi allontanando il capo dalle dita di Francesca: -Non scherzare-, disse esterrefatto, -Se per ogni sua ora perderemo questo stesso tempo, entro fine anno non riusciremo a completare l’intero programma!
 
Matilde proruppe in una sonora risata proprio quando le nocche di una mano colpirono lievemente la porta della IV C.
 
Tutti si voltarono verso la soglia.
 
-Studente nuovo? – domandò Ettore Ciaglia verso il nuovo venuto.
 
L’altro sorrise avanzando verso la cattedra e vi si sedette.
 
-Tutti composti. E tu,- intimò ad Ettore,- accomodati pure al tuo posto.
 
L’intera IV C, classe raccomandabile e diligente, osservò quell’uomo – che avrebbero pur potuto chiamare ragazzo- scorrere con gli occhi il registro di classe.
 
-Venti!- esclamò con amarezza, parlando più a se stesso che ai ragazzi -Troppi, estremamente troppi.
 
-Ma quanti anni ha?- sussurrò dubbiosa Matilde all’orecchio di Francesca.
 
Lei fece spallucce e lo osservò studiandolo.
 
Aveva degli incredibili occhi verdi, che saltavano subito all’attenzione, e dei capelli castano chiaro, con dei riflessi biondi, tutti scompigliati, come se avesse appena corso trenta rampe di scale. O come se avesse appena finito di fare del sano e selvaggio sesso.
 
Francesca deglutì.
Non era una similitudine consona.
 
Portava dei jeans che gli calzavano a pennello. Vestiva poi una camicia azzurra ben stirata.
Pensò che quell’uomo fosse sicuramente sposato, o perlomeno convivesse con una donna: solo un individuo di sesso femminile avrebbe saputo stirare una camicia con così tanta diligenza tanto da farla apparire appena comprata.

Ahia, stava cadendo nei luoghi comuni: non era certo un buon segno.
 
Però aveva delle sopracciglia forse un po’ troppo folte.
Non in modo esagerato, ma in modo che avesse anch’egli un difetto, non troppo difettoso da deturparne la bellezza.
 
Francesca deglutì ancora.
Doveva pensare a lui come un insegnante.
Cercò qualche altro difetto.
 
Ecco! Il naso era un po’ troppo grande.
Non era vero.
Cioè, non era abnorme, ma neanche minuscolo.
 
Francesca deglutì una terza volta: doveva sforzarsi.
 
Il professore si alzò sorridendo, per poi sedersi sulla cattedra con le gambe penzolanti.
 
Quell’uomo, seppur con qualche imperfezione, era incredibilmente bello e affascinante, notò stralunata.
E poi aveva la barba.
 
A Francesca piacevano gli uomini con la barba, soprattutto se l’avevo non troppo folta. Come quell’uomo lì.
 
Ma quell’uomo lì era il suo insegnante.
Di letteratura italiana.
 
Fermi tutti.
Ma quello lì era il suo insegnante?
 
Quando lo vide schiudere le labbra, Francesca trattenne il fiato. Sperò fosse un uomo qualsiasi che avrebbe loro propinato un laboratorio qualsiasi. Magari quello di economia, che Francesca attendeva da tanto.
 
Ma un professore, magari quello no.
 
Francesca deglutì un’ultima volta, speranzosa.
 
-Ragazzi, sono il vostro supplente di italiano, mi chiamo Marco Fanti. Forse starò con voi questo e il prossimo anno-, quell’imbecille di Rita Neri squittì senza ritegno alcuno, battendo le mani, -sempre che la preside mi ritenga adatto. Perché l’anno prossimo avrete gli esami, no?- domandò retoricamente; nessuno gli rispose dato che fece intendere ai suoi alunni che conosceva già la risposta. Continuò –La professoressa Giusti aspetta un bambino-, annunciò chiarendo ogni dubbio sul perché sarebbe stato lì anche l’anno successivo, -e ha chiesto di venir sostituita. La vostra e la IV A sono le mie uniche classi: la quinta non mi è stata assegnata per motivi di inesperienza.
 
Fece un gesto con la mano, per far comprendere che lui l’esperienza l’aveva eccome.
 
Francesca lo trovò ridicolo e mentre il resto della parte femminile della classe ridacchiò estasiata, lei poggiò il mento sul palmo della mano.
 
-Chi è il rappresentante di classe?-, domandò lo pseudo professore.
 
Francesca Molinari levò in aria il braccio cercando l’attenzione del prof.
 
Lui le lanciò un’occhiata veloce, per poi riportare gli occhi sul registro che in quel momento teneva tra le mani.
 
-Vieni un attimo qui, ehm…-, la osservò in cerca del suo nome.
 
-Molinari-, rispose lei raggiungendolo.
 
Lui le porse il registro con sguardo affabile: -Ho bisogno del tuo aiuto …-, diede una frettolosa occhiata all’elenco prima di cederlo alla ragazza, e aggiunse,- … Francesca. Prendi qualche foglio e scrivi su di essi il nome dei tuoi compagni di classe. Poi vai dal bidello,  chiedi il nastro adesivo e una forbice. Distribuisci i fogli, così i tuoi compagni possono appendere al banchetto il proprio nome.
 
Francesca gli voltò le spalle alzando scettica un sopracciglio.
 
E quell’uomo avrebbe dovuto insegnarle Ugo Foscolo.
 
Il suo Ugo Foscolo.
 
U-G-O F-O-S-C-O-L-O.
 
E non riusciva a ricordare neanche venti nomi.
 
Si gettò sulla sua sedia per poi domandare gentile a Gaetano dei fogli, il nastro adesivo e la forbice.
Lui aveva sempre tutto.
Fogli.
Nastro adesivo.
Forbice.
Fazzoletti.
Caramelle.
Penne.
Ovatta.
Sì, persino l’ovatta.
Gaetano era un bazar.
 
Le allungò una manciata di fogli spiegazzati e il resto dell’occorrente, così Francesca prese a scrivere un elenco di nomi che lei conosceva a memoria, senza l’aiuto del registro.
 
A differenza di qualcun altro.
 
-La professoressa mi ha informato che siete arrivati al teatro. Ottimo. Avete già fatto Shakespeare con l’insegnante di inglese?
 
Shakespeare non si fa.
 
E non è “inglese”, bensì “letteratura inglese”.
 
Francesca storse il naso.
 
Prese a scrivere i nomi con una grafia molto piccola.
 
Gaetano gli rispose che sì, stavano già affrontando Shakespeare con la professoressa di letteratura inglese.
 
-A me piace Shakespeare!-, esclamò il professore, come se a qualcuno potesse minimamente fregare.
 
-Anche a me, tanto-, gli fece sapere Rita Neri, congiungendo le mani. –A proposito-, aggiunse lei, mentre Francesca intuì dove sarebbe andata a parare, -la professoressa ha deciso di saltare Romeo e Giulietta. Magari potremmo studiarlo con lei.
 
Marco Fanti si portò l’indice sul mento sfregandolo. Aveva una faccia da “perché no?” e osservava la Neri con sguardo furbo.
 
-Potremmo metterlo in scena!
 
Che idee malsane che  aveva questo insegnante.
 
Francesca intervenne, prima che lo facesse Gaetano con la sua stessa lamentela.
Voleva subito far capire al professor Fanti come stavano le cose: la prof Giusti era un’ottima insegnante, che non perdeva tempo in cavolate del genere e loro dovevano assolutamente concludere il programma, perché per il prossimo anno non avrebbero potuto portarsi arretrati.
 
-Professore, non possiamo perdere tempo.
 
Tentò Francesca, ma lui la degnò di poca attenzione perché aveva già spostato lo sguardo su Gaia Fallani che in quel momento aveva sviluppato una chissà quale capacità cognitiva utile a farle venire in mente, in modo repentino, una brillante idea.
 
-Potremmo vederci il pomeriggio! Può chiedere il permesso alla preside.
 
Il professore sorrise raggiante ed indicò Gaia con l’indice destro, -Sei un genio!-, osò affermare.
 
-Fallani, risparmia il tuo genio per le interrogazioni di fisica-, intervenne Francesca incrociando le braccia al petto, acida, come sempre. –Io dovrei studiare il pomeriggio.
 
-Infatti!-, cantilenò Gaetano. –Non tutti spendono il pomeriggio a farsi la manicure.
 
-Sempre meglio di stare gobbi sui libri!-, esclamò con perfidia Gaia, facendo svolazzare con un tocco della mano i suoi boccoli biondi.
 
Che serpe.
Che arpia.
Che strega!
 
-Potremmo rappresentare Macbeth e tu potresti fare una delle tre streghe-, fece finta di proporre Francesca, correndo in aiuto del suo migliore amico, assottigliando gli occhi e osservando la megera con disprezzo.
 
-E tu la seconda!
 
-Ragazzi, basta!- intervenne finalmente il professore, che fino ad allora spostò gli occhi da un lato all’altro della classe per seguire meglio il battibecco, come se fosse stato lo spettatore di una partita di ping-pong.
 
Marco Fanti scese dalla cattedra avanzando fino al fondo dell’aula.
 
Francesca ritornò a scrivere.
Adoperò una calligrafia molto minuscola, da far sanguinare gli occhi.
 
Quella era un’iperbole.
Il suo professore avrebbe saputo riconoscerla?
Ne dubitò.
 
-Possiamo vederci il pomeriggio solo per qualche ora. Due al massimo.
 
-Professore?-, domandò Ettore Ciaglia alzando con timidezza una mano, -Posso chiedervi perché ci tenete tanto a farlo?
 
Francesca odiava tanto quando si dava agli insegnanti del “voi”.
Quasi grugnì indispettita.
Lo trovava poco musicale.
 
A Francesca Molinari non andavano giù parecchie cose.
 
-La professoressa Giusti mi ha detto che aveva già in mente uno spettacolo teatrale per voi; ha detto che ne fa uno ogni anno e che non vi aveva mai coinvolti-, si giustificò lui, poggiandosi al termosifone spento.
 
-Ma perché proprio Romeo e Giulietta?- domandò ancora Ettore.
 
Francesca alzò lo sguardo verso il professore, aspettando una risposta.
 
Lui fece spallucce, -La vostra compagna ci tiene-, rispose indicando Rita.
 
-Propongo di votare-, si intromise Francesca.
 
Il professore le sorrise, complice.
 
Francesca volle deglutire, ma non aveva saliva a disposizione.
Non più.
 
Le si avvicinò con passo spedito, tenendo le mani nelle tasche del jeans, mentre farfugliava: -Rappresentante di classe, eh? Siete sempre molto democratici. Troppo.
 
Quando le fu vicino, si sporse verso di lei, per farle presente un dato oggettivo di rilevante importanza: -Tanto da non saper contare quanti esponenti di sesso femminile ci sono e quanti di sesso maschile.
 
Lei lo osservò, cauta.
 
Poi lui indicò il suo banco e disse: -Ho notato che non ne hai affatto bisogno-, rivolgendosi al registro, che afferrò un secondo più tardi per poi avviarsi verso la cattedra.
 
Francesca incrociò le braccia al petto, astiosa, fin troppo.

Quello era il suo professore.
Insomma, sì, era giovane.
Ma era pur sempre il suo professore.
Gli doveva il giusto e dovuto rispetto.
 
Sospirò, cercando di trattenere il vulcano in procinto di eruttare; poi disse, pacata: -Nutro molta fiducia nella mia classe.
 
Lui si voltò verso di lei, perché fino ad un attimo prima aveva dato le spalle ai suoi alunni per frugare nella sua ventiquattrore, seppur adoperando un tono asciutto, come se stesse insegnando un qualcosa di enormemente scontato a una bambina poco sveglia, esclamò con uno sguardo interdetto: -Non esiste la classe!
 
Francesca accusò il colpo.
Si fece forza per non boccheggiare e serrò le labbra.
Aveva ragione.
 
Lì non c’era una classe.
Lì c’erano venti teste, venti teste pensanti.
Venti teste, che pensavano ognuna per se stessa.
 
-Allora, ragazzi-, declamò il professor Fanti, -quanti di voi vogliono rappresentare “Romeo e Giulietta?”
 
Si levarono in aria dodici mani.
La maggioranza.
 
Probabilmente il professore si voltò a fissarla, ma Francesca fece finta di essere occupata a trascrivere gli ultimi due nomi. Poi si levò in piedi in silenzio ed iniziò a distribuire i foglietti con il nastro adesivo che aveva personalmente tagliuzzato e incollato sui fogli per tutti i suoi compagni, per trovarsi qualcosa da fare, pur di non seguire il professore; il professore che lei aveva screditato. Dinanzi ad un’intera classe.
 
No, la classe non esisteva.
Dinanzi a venti teste. Venti teste pensanti.
Di cui dodici non la pensavano sicuramente come lei.
 
Il professor Fanti si fece prestare un libro di testo e iniziò a sfogliarlo; diede un’occhiata ai voti e chiamò Gaetano alla cattedra, per farsi ripete un po’ il programma affrontato precedentemente.
 
Disse che chiamava proprio lui perché aveva il voto più alto.
 
Non era vero.
 
Gaetano aveva 9.
 
Ma Francesca aveva 10.
 
Le venti teste pensanti ne erano consapevoli, ma preferirono starsene in silenzio.
 
La loro brillante rappresentante aveva fallito. Miseramente fallito.
 
Francesca si accucciò sulla sedia temendo che la sua percentuale di credibilità fosse calata.
Perché il prof non aveva chiamato lei?
Non voleva troppe rogne?
La considerava fastidiosa?
E per questo motivo l’avrebbe punita abbassandole la media?
 
Matilde allungò una mano afferrando il braccio di Francesca per poi accarezzarglielo.
 
La campanella suonò e il professore si levò in piedi. Raccattò le sue poche cose e le infilò nella ventiquattrore.
 
-Ragazzi,- annunciò puntando il dito verso la lavagna, -cosa c’è scritto qui?
 
Tutti portarono lo sguardo verso il secondo principio della dinamica, che Gaia aveva precedentemente scritto in modo errato durante l’interrogazione di fisica, utilizzando le lettere maiuscole anche per la massa e l’accelerazione.
Vi era impressa una formula.
 
F=MA
 
-Effe è uguale ad emme per a-, precisò Ettore con spavalderia.
 
-E che cos’è?- continuò il professore fingendosi ignorante.
 
-Il secondo principio della dinamica-, rispose prontamente Gaetano, prima di aggiungere:-E no, non siamo indietro con il programma. Il professore l’ha saltato lo scorso anno. Forse per mancanza di attenzione, non so.
 
Marco Fanti sghignazzò.
 
-E cosa significa “dinamica”? Dovreste saperlo: frequentate il Liceo Classico.
 
E fu ancora Gaetano a regalare una risposta alla domanda dell’insegnante: -Deriva dal greco e significa “forza”.
 
-Interessante-, commentò fra sé e sé il professore.
 
Francesca intuì che il suo insegnante conosceva già il significato di quella parola.
 
-Mi raccomando: è così che dovrete essere con me, dinamici; non voglio lamentele, non sposto nessun compito né alcuna interrogazione. Lavorerete con forza, per l’appunto, ogni pomeriggio per lo spettacolo teatrale. Domani ci vediamo? Sì? Bene, organizzeremo gli appuntamenti pomeridiani. Buona giornata.
 
Ah, quelle erano le sue raccomandazioni per un buon anno scolastico.
Un buon anno scolastico con lui e il suo insegnamento.
 
Voleva quei ragazzi dinamici?
Sicuramente i commenti a sfondo sessuale di Rita Neri furono dinamici.
Puntuali.
Fuori luogo.
E tremendamente condivisi da ogni membro femminile della classe.
 
Francesca avrebbe solo voluto sbarazzarsi di quell’uomo, per poi occultarne il cadavere.





 

Ave, popolo.
Avevo inizialmente cancellato questa storia per motivi...di percorso, diciamo. 
La ripropongo ora, dopo un paio di mesi.
Spero vi piaccia.
Alla prossima!
 

 
 

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Capitolo 2
*** Con i broccoli non funziona ***


Capitolo II
Captatio benevolentiae
“Con i broccoli non funziona”
 
 
L’ora di educazione fisica era qualcosa di indicibilmente massacrante.
Avrebbero dovuto proibire la pallamano.
 
Quell’andirivieni aveva distrutto Francesca che, mentre si cambiava nello spogliatoio femminile, tentava di prepararsi psicologicamente all’ora di letteratura italiana.
 
Marco Fanti era un uomo. Un semplice uomo.
 
Se Marco Fanti è un uomo.
 
Le venne da parafrasare Levi, ma decise di smetterla.
 
Lui era un insegnante, un bell’insegnante che surriscaldava gli ormoni femminili.
Un insegnante che rendeva ancor più giulive le oche giulive della sua classe.
 
Ma era pur sempre un insegnante.
 
E Francesca lo vedeva solo come un insegnante, o almeno ci provava.
Un insegnante più o meno preparato.
 
Più meno, che più.
 
Eppure lui l’aveva umiliata.
Non l’aveva davvero fatto ma per Francesca sì, quella fu un’umiliazione.
 
Non sarebbe diventata mai Presidentessa della Repubblica.
La politica non era più il suo forte.
 
La classe non esiste.
 
Quante volte durante le assemblee e i consigli di classe aveva proprio detto classe, riferendosi ai suoi compagni?
 
La classe.
 
Una parola, che ebbe il potere di distruggere la sua coscienza e il suo orgoglio.
 
Quando la notte prima telefonò a Matilde ad un’ora poco consona, la sua migliore amica le aveva fatto notare che non era poi un guaio, quello che le era capitato.
 
Insomma, si faceva pippe mentali perché aveva utilizzato un termine come “classe” per indicare coloro che in realtà erano i suoi “comites”.
 
Compagni di viaggio.
 
Iniziò ad avere poca stima di sé e le sue elucubrazioni mentali la rallentarono nei movimenti.
 
Cosicché nello spogliatoio rimasero soltanto lei e Rita Neri che, nonostante una terza abbondante, si ostinava ad imbottire il suo reggiseno con l’ovatta scroccata a Gaetano.
 
Che pena, che le faceva.
 
Uscì un secondo dopo la Neri, appena in tempo per sentire la campanella trillare; appena in tempo per udire un altro tipo di trillo.
 
Quello della voce del professore di letteratura italiana Marco Fanti.
 
-Forza con quelle chiappe, Rita! Non abbiamo tempo da perdere.
 
Il professore stava battendo le mani a tempo di natiche.
Sì, lo stava facendo davvero, accompagnando i battiti con dei goliardici “hop-hop”.
 
Sgusciò dallo spogliatoio, Francesca, con quella che era l’espressione più indignata del pianeta.
 
Che maniaco sessuale!
Che razza di schifoso!
 
Aveva deciso: pomeriggio si sarebbe presentata in caserma.
 
-Oh, Francesca, ci sei anche tu. Buongiorno!
 
Le regalò un sorriso che voleva essere dolce.
 
Le diede la nausea.
 
Volle insultarlo, chiamarlo maniaco.

E poi non poteva presentarsi a scuola con quella maglietta a maniche corte che lo fasciava così bene, evidenziando il suo fisico scolpito.
Non poteva, dannazione, era illegale!
 
E poi, non gli faceva freddo?
Qualcosa l’aveva pur surriscaldato.
Ma cosa?
No, decise che non le interessava saperlo.
 
Intanto si concesse per un secondo di perdersi nei suoi occhi chiari. Quanto cazzo erano belli?
 
Ma doveva mantenere la calma.
Calma.
Calma.
Calma.
 
Rita squittì ridendo, pretendendo l’attenzione dell’insegnante.
 
Lui le cedette e la fissò, quasi famelico.
 
Che broccolo.
CHE B-R-O-C-C-O-L-O!
 
E avrebbe dovuto insegnarle Ugo Foscolo.
Il suo Ugo Foscolo.
 
-Pronta per la tua amata tragedia?- domandò lui soltanto a Rita, come se Francesca fosse invisibile.
 
O magari perché sapeva che non era affatto pronta per quella tragedia.
“Romeo e Giulietta”?
 
No.
 
Avere un insegnante maniaco.
 
Disdicevole, quel broccolo era disdicevole.
 
-Non vedo l’ora- esclamò entusiasta, guardandolo sognante.
 
-Bene, visto che sei così in vena, vai in sala insegnanti e prendi il libro di “Romeo e Giulietta”. Penso di averlo dimenticato sul tavolo.
 
Contenta di soddisfare i bisogni di quello che oramai era diventato il suo sogno erotico, Rita Neri si catapultò in aula insegnanti, lasciando Francesca sola con un maniaco sessuale.
 
-Molinari-, attirò la sua attenzione.
 
Lei lo osservò scettica e interrogativa.
 
Perché ora la chiamava per cognome?
Le avrebbe abbassato la media?
 
Calma.
Bisognava mantenere la calma.
 
-Mi chiami pure Francesca-, gli disse con un sorriso tiratissimo e falsissimo come gli zigomi della Ferilli.
 
Lui ridacchiò, -Abbiamo seppellito l’ascia di guerra?-, le domandò retoricamente mentre stavano raggiungendo la classe a passo lento. –Ne sarei contento, se solo non fossi abbastanza arguto da capire che stai mentendo.
 
Quel broccolo non era poi così tanto broccolo.
 
Francesca si bloccò come punta da uno spillo.
 
Due a zero. Stava perdendo due a zero.
Miseramente.
 
Il professore allungò una mano verso la spalla di lei, per poi adagiarla proprio lì, con tranquillità.
 
Ma maniaco sì, quello lo era eccome.
 
Francesca obbligò se stessa al silenzio.
 
-Non preoccuparti, Molinari, non ti abbasserò la media per dispetto. Il tutto dipenderà dalle tue potenzialità.
 
Perché le apparve una cosa così poco consona da sentirsi dire da un insegnante?
 
 
 
 
 
-Non lo è-, le fece capire con aria annoiata Gaetano mentre pranzavano in un bar.
 
Francesca addentò il panino poco convinta, così il suo amico continuò.
 
-Ti ha soltanto detto che il tuo voto dipenderà dal tuo impegno.
 
Era l’ennesima volta che glielo ribadiva, ma Francesca proprio non riusciva a pensare a Marco Fanti senza allegarvi l’epiteto maniaco sessuale.
 
Glielo disse.
 
-Gaetano, quello lì è un maniaco sessuale!
 
-Perché ogni cosa di te mi fa invece pensare che lo reputi un maniaco sensuale, più che sessuale?
 
Francesca lo osservò accigliata e tra uno sbuffo e l’altro lo riprese svariate volte.
 
Lui la osservò per un po’ facendo vagare i suoi occhi nocciola sulla figura di Francesca, la sua migliore amica.
Adorabile, presuntuosa, nevrastenica, migliore amica.
 
-Tutte lo reputano figo. Potresti farlo anche tu, no? Potresti farti gli occhi da qui fino a giugno, quatta quatta, senza farti abbassare la media per la tua linguaccia lunga e così facendo potresti addirittura smettere di pensare per un po’ Gianluca, no?-, aggiunse Gaetano in un soffio, quasi avesse paura di farle male pronunciando un’innocente e innocua parola. O meglio, un nome.
 
Francesca non seppe cosa rispondere, né che pensare: quel nome annullava ogni sua forza fisica e psichica.
 
Gianluca.
 
Sorrise amara.
 
Gianluca Diamanti, unico grande amore di Francesca.
Suo primo bacio.
Sua prima fellatio.
Suo primo sesso.
 
No, non sesso.
 
Suo primo fare l’amore.
 
Ma anche sua prima delusione.
 
Aveva preferito a lei una brillante carriera scolastica, universitaria, lavorativa.
Studiava Ingegneria civile.
E lei non aveva più risposto alle sue chiamate.
 
Temeva i rapporti a distanza.
Era dagli inizi di settembre che non lo sentiva più nominare, perché aveva obbligato i suoi amici a non tirarlo mai più in ballo per cause abbastanza ovvie.
 
Lei era ancora innamorata di lui ma aveva paura che lui l’avesse tradita.
E temeva saperlo.
E ancor di più temeva che lui avesse smesso di amarla, perché lei, per l’appunto, era ancora totalmente innamorata.
 
Perché Gianluca non era uno così.
Gianluca era perfetto per lei.
Combaciavano perfettamente.
 
Lui era brillante, altezzoso, acculturato, ingegnoso. Ma anche molto dolce e premuroso.
Aveva la sua buona dose di iattanza, così come Francesca.
E lei lo amava.
Ancora.
 
Francesca fece svolazzare la mano, spazzando via l’argomento come prima aveva spazzato via le briciole di pane. Come se fosse una cosa talmente semplice, spazzare Gianluca via dai suoi pensieri. Come se non dovesse ogni volta sopportare un macigno sul cuore.
 
Gianluca.
 
Anche lui era un broccolo.
 
Cercò di convincere mentalmente se stessa che era così, che Gianluca era un broccolo. Con scarsi risultati.
-Dimmi un po’-, esordì Gaetano con l’intento di portare la conversazione su un’altra rotta, -che ruolo speri di ricevere questo pomeriggio?
 
Francesca e Gaetano stavano pranzando in un bar e non a casa loro perché dovevano ritornare a scuola, quello stesso pomeriggio, per iniziare le prove teatrali. Si trattava solo di assegnare le parti, precisò loro quella mattina il professor Fanti, di studiare il copione. Li avrebbe scritturati e loro, dunque, avrebbero dovuto affrontare un provino. Francesca intonò qualche giambo nella sua testa diretto al professore: lei odiava questo tipo di cose.
 
Già detto che non tollerava un bel po’ di cose, no?
 
Avrebbero dovuto prendere un bus, per tornare a casa, che non li avrebbe poi riaccompagnati in tempo a scuola per l’orario prefissato dal prof; per tal motivo optarono par un panino da tre euro in un bar, anche per non recar fastidio ai genitori di un qualche loro compagno di classe che avrebbe dovuto, nel caso, aggiungere ben due posti a tavola.
 
Spesso Gaetano e Francesca si comportavano come un fratello e una sorella, perché loro si sentivano di esserlo effettivamente, un fratello e una sorella. Erano amici sin dalla culla e si erano sempre amati. Di quell’amore fraterno, particolare, che non sfocerebbe mai in desiderio sessuale.
 
Per fortuna, perché Gaetano era fin troppo magro agli occhi di Francesca  che alle volte lo vedeva addirittura scheletrico; lui comunque aveva una fidanzata, che amava. Francesca non era gelosa.
Cioè un po’ sì. Ma solo perché Gaetano era emotivamente fin troppo fragile e lei temeva che potesse soffrire, come era già successo in passato.
 
Lei puntò gli occhi verso quelli di lui, comprese che gli interessava davvero sapere se lei nutriva una qualche speranza nello spettacolo.
 
Francesca fece spallucce.
 
-Nessuno. Anzi, se fossi il regista, non mi lamenterei affatto.
 
-Qualcosa mi dice che non lo sarai-, sentì una voce alle sue spalle.
 
Francesca si voltò: era Matilde, che li raggiunse dopo aver terminato il suo pranzo in famiglia.
 
Entrambi aggrottarono le sopracciglia sorpresi di vederla; -Solitamente sei molto lenta nel mangiare-, constatò Gaetano mentre scostava la sua sedia per farle un po’ di posto.
 
-Pasta, panna e salmone-, annunciò raggiante Matilde.
 
Matilde adorava quel tipo di pasta e la divorava come un maiale.
 
No, non era un insulto: lo faceva davvero con fin troppa foga.
Per il resto delle pietanze, invece, adoperava una lentezza esasperante.
 
-Ieri avevo detto a mia madre che dovevamo vederci a scuola alle 14.30. Così, per non farmi beccare un ritardo …
 
Francesca le sorrise, per poi passare subito al dunque:-Cos’è quest’insinuazione, ora? Perché non potrei diventare regista?
 
-Perché sicuramente sarà il prof a coordinare il lavoro-, rispose, -e anche perché penso provi gusto a stuzzicarti.
 
-Visto?- domandò con tono sornione Francesca a Gaetano, -Cosa ti avevo detto? È un maniaco!
 
-Ma non in quel senso!- esclamò Matilde sorridendo, -Dico solo che ti ha già inquadrata. Ha capito che sei presuntuosa, e per inciso sai che l’ho sempre pensato, e vuole fartela pagare perché non penso gli piacciano gli sbruffoni.
 
-E tu-, tentò di indovinare Francesca assottigliando gli occhi,- sei sicuramente dalla sua parte.
 
-Certamente! Insomma, è figo, intelligente e sembra ti abbia sulle balle! Finalmente un professore non ti sopporta!
 
-Non mi ha “sulle balle”!-, si difese la ragazza con un po’ di incertezza. –E poi perché dovrebbe?
 
-Prova a chiederglielo, no?- sussurrò Gaetano alla sua amica.
 
Francesca intuì che il maniaco sessuale, e non sensuale, aveva appena fatto la sua comparsa nel bar.
 
Broccolo, maniaco sessuale e stalker.
 
Ma Marco Fanti fece finta di non vederli, o effettivamente non li vide per davvero. Diede loro le spalle prendendo posto ad un tavolo abbastanza lontano. Aveva un cellulare in mano e parlottava con veemenza.
 
Eppure i tre ragazzi non riuscirono a captare la minima parola.
 
-E comunque non sono una sbruffona-, ci tenne a puntualizzare Francesca, prima di alzarsi per pagare il conto.
 
 
 
 
 
 
Il professor Fanti schiuse il suo volume personale di “Romeo e Giulietta” davanti a venti paia di occhi incerti. Sfogliò con una palese finta curiosità le pagine ingiallite, puntando di tanto in tanto i suoi occhi sui ragazzi, per studiarli.
 
-Sarebbe questo il suo provino?-, sussurrò Francesca a Gaetano.
 
-Non ti va bene?-, la stuzzicò lui tirandole il lobo di un orecchio.
 
Lei se lo massaggiò schiaffeggiando le dita del suo amico, poi rispose: -Mi va più che bene! Mi pare solo un po’, come dire? Frivolo!
 
-Frivolo!-, le fece il verso Gaetano, che sedeva accanto a lei su un banco, proprio come tutti i suoi compagni di classe.
 
Infatti il prof Fanti aveva fatto spostare i banchi e le sedie ai lati dell’aula –lui non aveva mosso un dito-, in modo da poter vantare uno spazio sufficiente per ricreare una specie di palco.
 
Lui se ne stava seduto alla cattedra, in silenzio, un po’ turbato.
 
-I personaggi sono tantissimi-, si lamentò il professore.
 
- Ricorderà almeno i nomi dei personaggi o dovrò munirmi ancora di penna e calamaio?- domandò Francesca più a se stessa che ad altri, osservando i foglietti appesi ai banchi che lei stessa aveva ritagliato il mattino precedente.
 
-Molinari, ti ho sentita.
 
Il professore la incenerì con un’occhiataccia di ghiaccio. Fu un solo attimo, poi riportò i suoi occhi sul libro sbuffando. Poi sbuffò ancora. E ancora. E ancora.
 
Quel professore era un treno a vapore.
 
-Molinari, prendi la sedia e vieni qui-, le ordinò il docente indicandole uno spazio vuoto dietro la cattedra, accanto a lui.
 
Oh per Bacco!
 
Francesca osservò Gaetano con un’occhiata da “te l’avevo detto”, riferendosi al maniaco sessuale di poco prima, e ricevette dall’amico come risposta una semplice e stupida sghignazzata.
 
Mentre afferrò la sedia la sua unica consolazione fu la seguente: c’era un solo motivo se la voleva lì accanto.
 
Lei sarebbe diventata il regista.
 
-Molinari, sei la mia aiuto-regista-, le fece sapere il professore mentre lei si sistemò nei pressi della sua sedia.
 
Nei pressi. Per l’appunto.
Il professore lo notò.
 
-Ho il colera, Molinari?-, le domandò lui con un tono divertito.
 
L’amore ai tempi del colera.
 
Fu l’unica cosa a cui pensò.
Poi si riprese, piuttosto in fretta, e gli si avvicinò con sguardo risentito: lei voleva essere il regista. Unico, solo e inimitabile regista.
 
Cosa diavolo era un aiuto-regista?
Non davano loro neanche l’Oscar!
 
-Allora, quante Giulietta?-, domandò il professore alzando lo sguardo sulla classe, già aspettandosi una miriade di mani in aria.
 
No, soltanto due: quelle di Rita e Gaia.
Ottimo, sfida tra titani. Titaniche etere, per essere più precisi.
 
Il professore cedette il libro a Francesca farfugliando un:-Io lo conosco a memoria-; lei lo prese con piacere riservandogli un’occhiata da leccaculo.
 
Captatio benevolentiae.
Solo quello, e null’altro.
La sua media doveva rimanere integra, per pure questioni di orgoglio.
 
Più che altro perché la classe pensava che lei fosse la cocca della professoressa Giusti, che soltanto e solo a lei metteva sempre 10. Voleva dimostrare loro che non era vero: anche se il professore era cambiato, la sua bravura era la stessa. Sapeva di meritare quel voto.
Fino a due giorni prima, quando qualcuno le aveva fatto presente che la classe non esiste.
 
E quel qualcuno le stava accanto.
E quel qualcuno stava parlando.
E quel qualcuno aveva una voce così roca e metallica che Francesca voleva esser seppellita all’istante.
 
Lei non poteva cedere come tutte.
Lei era diversa.
 
-Capito Molinari?-, domandò quel qualcuno voltandosi alla sua sinistra.
 
Francesca lo osservò stordita, poi negò con la testa, generando un coro di risate.
 
-Mi scusi, non ero attenta-, si difese lei aggrottando le sopracciglia.
 
Lui sorrise lievemente, si strofinò gli occhi e la osservò placido, infine disse:-Ho capito, Molinari, non ti sto simpatico. Però cerca di seguirmi, almeno quando dico qualcosa di importante. Siamo tutti stanchi, non solo tu.
 
-Mi scusi-, farfugliò lei.
 
-Lo ripeto, per l’ultima volta: cercheremo di coinvolgere anche le due altre sezioni. So che nella sezione A c’è un papabile aspirante Romeo-, concluse il professore sorridendo.
 
Francesca levò in aria un sopracciglio: odiava quel papabile aspirante Romeo. Intuì subito che si trattava di Cristiano Mori, un broccolo con la B maiuscola.
 
Gnocco.
Lo definivano.
Broccolo.
Lo definiva.
Carino.
Era effettivamente.
 
Lei fece spallucce annuendo con poca enfasi.
Probabilmente i loro compagni preferivano fare la parte del frate o di Tebaldo intuendo che quello spettacolo avrebbe loro abbassato la media se avessero dovuto passar pomeriggi interi a imparare a memoria un copione o a ripassarlo in un’aula spoglia e deserta del liceo.
 
E facevano bene.
 
-Ah, comunque-, aggiunse il prof, poi osservò con un’espressione buffa Francesca assottigliando gli occhi al fine di accertarsi che lo stesse seguendo; a lei venne da sorridere, ma non glielo diede a vedere,-parlerò con la preside cercando di far guadagnare qualche credito ai partecipanti. Qualche, eh! Si parla di decimi.
 
Così la mezzora seguente passò con l’avvicendarsi dei provini di tutti i ragazzi, allettati dalla proposta dei crediti, sotto lo sguardo fintamente attento della pseudo giuria, composta dal prof Fanti e dalla rappresentante di classe Molinari.
 
Per ultimo Gaetano si presentò davanti agli occhi divertiti di Francesca.
 
-Fra, smettila di ridere!- mise subito in chiaro le cose lui; perché, in caso contrario, non avrebbe iniziato.
 
-Sei infantile, Tano: non sto ridendo. Ti sto solo fissando-, rispose lei con il più dolce dei sorrisi, intrecciando le braccia intorno al petto in procinto di godersi lo spettacolo.
 
Tano, per tutta risposta, osservò il professore puntandole contro l’indice come a dire “sgridala!”.
 
Non c’era nulla da fare: la timidezza di Gaetano lo rendeva proprio un bambino.
 
Il professore osservò di sottecchi Francesca, cantilenando un –Molinari-, tra lo spazientito e il divertito, poi fece un segno con la mano a Gaetano invitandolo ad iniziare.
 
Gaetano fece svolazzare tra le mani la fotocopia che il prof aveva precedentemente consegnato a tutti, a seconda delle preferenze personali.
Almeno rispettava i gusti.

-Lo speziale di Mantova-, annunciò Gaetano.
 
-No-, si sentì subito sentenziare Marco Fanti, -Ti vedo più come Mercuzio, che ne dici?
 
-Ehm…no?
 
Francesca sghignazzò. Per una volta il professore procedeva nello stesso modo in cui avrebbe fatto lei.
Poi, colta da un dubbio, iniziò a sfogliare le pagine del libro.
Ma lo speziale di Mantova, almeno una battuta, la teneva?
 
Mentre tra le sue dita passavano veloci le pagine ingiallite, si rese conto che quel libro profumava proprio di libro. Di quelli vecchi, impolverati, che esistono da generazioni.
 
Osservò il professore con un occhio di riguardo e prima che lui potesse accorgersene, ritornò alla sua ricerca, lasciando discutere i due sulla parte di Gaetano.
 
-Lo speziale ha troppe poche battute-, continuò il professore.
 
Gaetano dondolò sul posto in evidente imbarazzo. Lui non voleva neanche farlo lo spettacolo, ma fu sicuramente tratto in trappola dal dolce e invitante odore dei decimi di credito.
 
Come se lui ne avesse avuto il benché minimo bisogno!
 
-Mercuzio lo vedo più adatto a te; non è vero Molinari?- domandò il professore attirando l’attenzione di Francesca, che aveva oramai terminato la sua ricerca.
 
-Effettivamente.
 
Disse lei soltanto.
Captatio benevolentiae. Null’altro.
E poi provava gusto a punzecchiare Gaetano.
 
Tano incrociò le braccia spazientito e si fece consegnare uno dei fogli con una delle parti di Mercuzio.
 
Recitò penosamente, eppure Francesca e il professore si osservarono con sguardo complice e soddisfatto.
 
Captatio benevolentiae.
Captatio benevolentiae
, null’altro.
 
-Hai un’ottima pronuncia, bella voce; possente direi-, iniziò lui.
 
-Perfetto il movimento struggente delle braccia-, azzardò lei.
 
-Assolutamente d’accordo: hai un viso espressivo.
 
-Da Oscar, Tano!
 
-Da Oscar, Tano!-, convenne il professore annuendo con decisione.
 
Lui osservò la sua migliore amica assottigliando gli occhi, mentre Ettore Ciaglia si lamentava perché conscio di esser stato più bravo recitando quella stessa parte.
 
-Ci ritiriamo per deliberare-, scherzò l’insegnante alzandosi dalla sedia, invitando Francesca, con un cenno del capo, a seguirlo fuori dall’aula.
 
Maniaco sessuale.
Captatio benevolentiae.
Maniaco sessuale.
Captatio benevolentiae.
Maniaco sensuale.
 
Francesca era un broccolo.
 
Si erano ritirati nell’aula adiacente; lui accese le luci e si sedette su un banco, proprio come un ragazzino. Lei gli si mise di fronte, adagiandosi contro la cattedra.
 
-Il tuo amico è pessimo nella recitazione-, fece subito presente il professore.
 
Lei alzò un sopracciglio.
Un tuo amico?
Era un suo alunno, non un “tuo amico”!
 
-Effettivamente-, convenne lei decidendo di non farsi distrarre. Spostò lo sguardo sul libro di “Romeo e Giulietta” per non guardarlo in quei tremendi occhi chiari.
 
Ma erano blu o verdi?
 
-Però è molto timido. Serve qualcosa per farlo venire fuori e quel qualcosa si chiama Mercuzio!
 
La Molinari spostò rapidamente il suo sguardo compiaciuto incrociando quello di lui; d’accordo, poteva essere giovane quanto voleva, maniaco quanto voleva, eppure lo trovò per un attimo anche capace. Apposito, ecco.
 
Degno.
 
Deglutì.
Doveva riprendere la caccia ai difetti di quell’uomo.
 
Lei annuì ancora e ridisse: -Effettivamente.
 
Il professore si massaggiò la barba, osservandola con attenzione: -Molinari, ho fatto o detto qualcosa che non va?
 
Oddio sì.
Cioè no.
 
Optò per la verità.
 
La mezza verità.
 
La pseudo verità.
 
Diciamo pure la non verità, che si traduce il più delle volte con l’espressione “facciamo ricadere la colpa su qualcun altro”.
 
-Vuole sapere la verità?- domandò per l’appunto lei osservando finalmente il suo professore negli occhi; temette di cedere dinanzi a quel colore, quel verde liquido, ma si riscosse e proseguì: -Non riesco a fare lezione con lei perché in classe, quando lei non c’è, si fanno su di lei dei commenti un po’ troppo… ecco, che le fanno perdere un po’ di credibilità –,intrecciò le dita in evidente imbarazzo e continuò con altrettanto imbarazzo e un’egual dose di incertezza- Perché questi commenti sono davvero troppo…
 
-Arditi?- la incalzò lui, ridacchiando.
 
-Sì, ma non rida. Non c’è nulla da ridere.
 
Eccola lì, Francesca Molinari.
La presuntuosa Molinari che si azzardava a fare la paternale a qualcuno più grande di lei.
Ardita, non c’è che dire.
 
Lo notò anch’egli.
 
-Sei ardita anche tu, Molinari, a parlarmi così-, lei non si scusò perché nel tono dell’insegnante non c’era affatto ammonimento, piuttosto fu un rimprovero canzonatorio; -Però hai ragione. Anche se non so sinceramente cosa fare-, farfugliò lui accarezzandosi la nuca, come un ragazzino, -Per me è pur sempre la prima volta.
 
-Se vuole le concedo lezioni private per capire come si fa.
 
Solo un secondo più tardi, Francesca Molinari, si rese conto della gigantesca sciocchezza che aveva appena farfugliato. Le sue guance si tinsero di un rosso porpora e subito dopo iniziò a chieder venia varie e varie e varie volte di seguito.
 
Il professore la fermò con una mano.
 
-Sei proprio presuntuosa, Molinari-, constatò scoccando la lingua e guardandola dall’alto in basso.
 
Le venne da piangere fiumi e fiumi di lacrime, non perché non sapesse perché cavolo si fosse azzardata ad esser così ardita, piuttosto perché lei era pienamente cosciente di quello che le gironzolava per la testa.
 
Era un’idea chiara e precisa.
 
Lei quel broccolo lo odiava.
E tanto.
 
Perché era intelligente.
Perché era arguto.
Perché riusciva a schiacciarla come un banale insettuccio, senza sforzarsi più di tanto.
Perché era preparato.
Degno.
Esemplare.
E…
 
-Sarebbe meglio continuare con il lavoro-, disse subito lui.
 
Maturo.
 
 
 
Due giorni più tardi il professor Fanti si presentò nella IV C durante la ricreazione.
Prima del suo ingresso Francesca era occupata con le sue pippe mentali.
 
-Mati, non posso odiarlo!-, quasi urlò contro Matilde, perché tanto in classe c’erano soltanto loro due.
 
-Ma va! Valuta i pro e i contro della faccenda: seguirai con più interesse le lezioni di italiano e farai tutti i compiti perché avrai paura del prof! Finalmente studierai la materia, non sei contenta?-, le rispose la migliore amica morsicchiando una mela.
 
-Non capisci? È proprio questo il problema: non riesco a concentrarmi perché ho voglia di mandarlo a fanculo perché lo odio! D’accordo?
 
-E perché dovresti mandarlo a fanculo, scusa?
 
-Ma è ovvio: mi ha smerdata e potrà farlo anche in futuro-, sussurrò Francesca portandosi l’amica così vicina per paura che anche le penne potessero sentirla.
 
Matilde ridacchiò gongolando:-Ma stai zitta, non c’è nulla di male se si teme un professore! Anzi, non complicarti la vita e invece di fartela sotto appena entra, inizia a immaginarlo nudo sulla cattedra, come facciamo tutte noi.
 
Francesca strabuzzò gli occhi indignata: -Ma non si fa! È il nostro professore!
 
-Supplente-, ci tenne a chiarire la sua amica.
 
-Ma è la stessa cosa!
 
Matilde ridacchiò, trovando buffa la sua amica e le sue ennesime paranoie, e il professore fece il suo ingresso in aula.
 
Da quel “discorsetto”, Marco Fanti apparve molto più formale e diplomatico del solito. Evidentemente era in una fase “spugna” della sua carriera ed assorbì finanche lo pseudo consiglio di Francesca.
 
Pseudo perché in realtà non gli aveva consigliato un bel niente, eppure probabilmente lui lesse nel tono di voce di lei una richiesta di cambiamento.
 
Effettivamente era così: finché trattava gli alunni come degli amici di bevuta nessuno l’avrebbe mai trattato da professore; nessuno sarebbe stato dinamico.
 
-Buongiorno, ragazze-, disse entrando per poi poggiare un foglio sulla cattedra; -Ho portato l’elenco delle parti; sono stato anche nelle altre sezioni e tutti hanno accolto i provini con piacere ed entusiasmo. Comunque, Molinari, scusami se non ti ho coinvolta nella selezione.
 
Ecco, non è che si fosse impegnato più di tanto nella sua formalità.
Ma scusa di cosa?
Francesca gli era così grata di stargli lontana!
 
Lei comunque borbottò qualcosa, come a fargli intendere che non doveva preoccuparsi.
 
-Molinari, ci credi in Dio?- le domandò poi lui prima di andarsene.
 
Francesca, spiazzata, non seppe cosa rispondere: -Più o meno-, fu la sua risposta criptica.
 
Lui sghignazzò divertito, -Cosa significa “più o meno”?
 
-Beh, sono agnostica.
 
-Prevedibile.
Ma cosa cappero gli interessava del suo orientamento religioso?
 
-Allora posso prelevarti durante l’ora di religione per scrivere il copione. Buona giornata!
 
Francesca rimase spiazzata. Ma quell’essere sapeva che in quella classe si copiavano le versioni di greco durante l’ora di religione?
 
La sua captatio benevolentiae non era andata a buon fine.
Con i broccoli, si sa, non funziona.

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Capitolo 3
*** Testa di canfora ***


Capitolo III
Le moment de la lune
“Testa di canfora”
 
 
 
Il professor Fanti entrò nell’aula della IV C indossando un maglioncino obbrobrioso con le renne e dei pantaloni di cotone da mercatino delle pulci.
 
Il degrado, in pochissime parole.
 
Francesca strabuzzò gli occhi.
 
E quello cos’era?
 
Dov’era finito l’affascinante professore da copertina di GQ?
 
Quello sembrava il figlio di una badante rumena che si vestiva a luci spente.
 
Tentata, Francesca cercò di puntare il suo sguardo su Rita Neri, curiosa della sua reazione da infarto, ma gli occhi decisi del professore lo osservavano con una tale insistenza che la ragazza non riuscì proprio a non fissarlo.
 
E ora che voleva?
 
Lo sguardo verdognolo del docente racchiudeva in sé un grande punto interrogativo, come se stesse cercando appoggio nella figura della Molinari.
 
-Prof, si sente bene?-, domandò la Neri, attirando l’attenzione di Marco Fanti.
 
Evidentemente la smorfiosetta faceva riferimento al troppo poco buon gusto che aveva indirizzato Marco Fanti quella mattina nella ricerca di un degno look da lavoro.
 
Che non trovò.
 
-Sto benissimo, Rita!-, esclamò entusiasta l’insegnante, afferrando il libro di testo dalla ventiquattrore.
 
Osservando sempre di sottecchi Francesca, il prof Fanti si accomodò sulla cattedra con l’aria più persa del pianeta.
 
Si massaggiò il capo, facendo ondeggiare i capelli chiari e morbidi, provocando contemporaneamente i bollori delle ragazzine presenti in classe; poi sfogliò assente le pagine del libro, come se in realtà non stesse leggendo quel che aveva davanti.
 
Nonostante quel maglione da nonno di Heidi, quel dannato d’un Marco Fanti risultava comunque un gran figo da paura.
 
Matilde aveva segretamente confidato alla sua migliore amica che il professore, con quell’aria corrucciata all’Alain Delon, era l’individuo, a suo parere, più scopabile della penisola. Francesca aveva semplicemente mandato a cagare la sua amica, definendola “di facili costumi”, perché secondo lei uno come il prof Fanti era da denunciare alla questura, altro che Alain Delon!
 
Quella mattina era poi da ergastolo.
Da denuncia immediata!
Perché cappero continuava a fissarla?
Brutto broccolo pervertito!
 
Prima che il professore prendesse parola, proprio quando quest’ultimo posò per l’ennesima volta i suoi occhi sul viso perennemente corrucciato della Molinari, a Francesca arrivò una fitta allo stomaco.
 
No, non perché anche lei venne colpita dal dardo d’ormoni.
 
Aveva altro.
 
Le iniziò a tamburellare la testa; ma poiché si trattava di un fattore abbastanza solito nella sua vita, inizialmente non ci fece molto caso.
 
Poi Francesca comprese cos’era quell’altro quando arrivarono raffiche di fitte allo stomaco.
 
D’improvviso, quasi ravvedutosi da quel che poteva parere malumore, il prof iniziò a spiegare.
 
Moliere.
 
C’era qualcosa di meno infelice di Moliere nel loro programma?
 
No, sicuramente: la spiegazione piacque e interessò a tutti.
 
Tutti tranne la Molinari.
 
Che gran bel paio di due balle, questa rappresentante.
 
Punto primo: Francesca Molinari proprio non sopportava quell’uomo. Non voleva ascoltarlo, né dargli il merito che stesse seguendo la sua spocchiosa lezione.
 
Punto secondo: quelle renne erano psichedeliche e attiravano la sua attenzione più di quanto potessero fare le sue parole.
 
Punto terzo: il professore pareva una pala eolica mentre spiegava, e Francesca si distraeva.
 
Marco Fanti era infatti un gesticolatore nato.
 
Manco fosse nato muto e con gli anni si fosse esercitato a comunicare con il linguaggio del corpo.
 
Francesca l’avrebbe ben visto in una televendita mentre cercava di indurre lo spettatore ad acquistare un set di pentole in acciaio inox. O in un telegiornale per sordomuti.
 
Mentre teneva la lezione su Moliere, accompagnava le sue parole con teatrali gesti delle mani. Le portava da un lato all’altro con frenesia e trasporto.
 
Come se ciò non bastasse, parlava con una velocità tale che Francesca si domandava soltanto dove e come si spegnesse quel minchione di professore.
 
Aveva un pulsantino, situato quasi con certezza dietro la nuca.
 
Bisognava solo addentrarsi con le dita tra i suoi capelli, trovarlo e premerlo.
 
Poi quel cicaleccio avrebbe avuto fine.
 
Ma un pulsantino, in realtà, non esisteva.
 
Ovviamente.
 
E quell’uomo continuava a parlare, parlare, parlare.
 
Francesca lo guardava aggrottando la fronte, con il mento posato su una mano ed un’adorabile e indelebile espressione corrucciata.
 
-Che nervi-, si fece sfuggire in un sussurro.
 
Arricciò il naso indispettita.
 
-Non ho proprio voglia di ascoltarlo!-, grugnì ancora, estremamente addolorata.
 
Matilde, che inizialmente interpretò i lamenti dell’amica come velati rimproveri indirizzati al professore per la sua negligenza, intuì che la sua saccente compagna di banco stava davvero male.
 
Psicologicamente male. Il che era un pericolo per l’intera umanità.
 
Per calmare i suoi malori da ospedale psichiatrico, infatti, i fantastici quattro, Batman, Spiderman e supereroi vari non sarebbero bastati.
 
Matilde portò la sua mano gelida sulla fronte di Francesca, mentre le parole del prof inondavano imperterrite la stanza.
 
Il broccolo non si era accorto di nulla.
 
O forse sì, e pensava si trattasse solo di uno stupido teatrino.
 
Quando la ragazza incontrò la pelle di Francesca, comprese: la saccentona non aveva né febbre, né raffreddore. Peggio: era nel suo “moment de la lune”.
 
Allarme. A tutte le unità: la Molinari aveva il ciclo.
 
Fantastico.
 
-Se non ti senti bene, chiama i tuoi-, sussurrò Matilde, osservando la sua amica negli occhi.
 
-Sto bene-, disse Francesca con tono sicuro, per tranquillizzare più se stessa che la sua amica. –E poi mio padre ha detto che Paolo Fox questa mattina mi ha dato cinque stelle: figurati se mi viene a prendere proprio oggi, che dovrebbe essere la mia giornata super!
 
Matilde sorrise amaramente, ma con gli occhi divertiti.
 
Adorava il padre di Francesca, le era simpaticissimo.
 
Il signor Molinari era un bizzarro maniaco dell’oroscopo ed ogni mattina intratteneva il suo dolce parentado informandolo sulla posizione degli astri.
 
Se Francesca beccava due stelle, poteva anche restare a casa a poltrire. Soprattutto se avesse detto a suo padre che quella mattina l’attendeva un’interrogazione di biologia.
 
-Fila a letto, te la firmo io la giustifica domani.
 
Le avrebbe potuto rispondere, con il tono più serio al mondo.
 
Sì, Matilde adorava proprio quell’uomo.
 
-Prestami tuo padre, ogni tanto-, sussurrò l’amica bionda, accucciandosi al suo fianco, per massaggiarle un braccio.
 
-Magari oggi. Se fosse stato un po’ più normale, non avrei esitato a chiamarlo!-, rispose prontamente Francesca, scacciando Matilde dal suo banco.
 
-Ma davvero non ti verrebbe a prendere?- sussurrò incredula, -e poi perché mi stai allontanando, bastarda? Sto cercando di calmarti!
 
-Certo che verrebbe, scemina. Ma non voglio disturbare nessuno: Nicolò ha una partita di calcio con gli osservatori questa mattina e papà è sicuramente andato a tifare per il suo figliuolo prediletto. Al leone hanno appioppato quattro stelle: è lì con la trombetta da stadio a starnazzare a gran voce qualche coro, sicuro dell’ingaggio di suo figlio, nato il 16 agosto.
 
Matilde ridacchiò, ritentando il contatto con l’amica e accucciandosi sul braccio di lei.
 
-E per la cronaca-, riprese Francesca scostando con forza il corpo di Matilde che ricadeva come un peso morto sul suo,-ti scaccio perché più mi stai appiccicata, più i miei nervi ballano la samba! Sai che ti voglio bene, ma non punzecchiarmi durante il ciclo.
 
-Molinari, smettila: sono dieci minuti buoni che continui a parlare!
 
L’immancabile rimprovero di Marco Fanti arrivò d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, perché per un attimo Francesca aveva addirittura dimenticato di essere lì, in quell’aula, a scuola, e di star male per “le sue cose” e per il ronzio provocato dalla pseudo spiegazione dell’insegnante.
 
Non bofonchiò neanche il consueto “mi scusi” e si limitò ad abbassare lo sguardo.
 
-Volevo solo calmarti un po’, nervosona!-, le confidò Matilde riprendendo il discorso appena il professore si dedicò ancora al suo monologo interminabile.
 
Francesca sorrise optando per il silenzio.
 
Riportò i suoi occhi sul professore e si sforzò di prestargli ascolto.
 
Senza riuscirvi.
 
La sua attenzione venne catturata da un orecchino di semplice fattura, rotondo, che circondava l’orecchio del professor Fanti e che lei notò soltanto quel giorno.
 
Tintinnava, aggrappato all’orecchio del prof, con agitata forza, come se stesse per staccarsi da un momento all’altro.
 
Quell’orecchino doveva patire le pene dell’inferno.
 
Stare appiccicato all’orecchio di un testone come quello di Marco Fanti doveva essere una tortura.
 
Soprattutto se il suddetto Fanti non faceva che muoverla e muoverla quella testa di ca…canfora, quando parlava.
 
E quelle labbra.
 
Quelle labbra non stavano ferme e zitte neanche per un secondo.
 
Andavano su e giù.
 
Su e giù.
 
Un moto costante e irritante.
 
-Molinari, ti sei imbambolata?-. domandò indignato il professore, scatenando il riso di tutti i presenti.
 
Maledetto broccolo!
 
Compativa l’orecchino.
 
Perché il prof era proprio un’odiosa testa di canfora!
 
 
 
 
 
No, proprio no.
 
No, no, no e ancora no.
 
Nonnoissimo!
 
Lei non poteva stare chiusa in un’aula deserta con quella testa di canfora e quelle renne psichedeliche a scrivere un copione per uno spettacolo che neanche le piaceva.
 
E poi era in quel periodo lì.
 
Non le si poteva chiedere una cosa del genere!
 
Un abominio!
Gli avrebbe certamente staccato la testa a morsi, se lui l’avesse provocata.
 
Francesca marciava a passo lento lungo il corridoio della scuola restando alla sinistra del professore e a sua debita distanza.
 
Il prof svoltò a destra repentinamente e si accomodò nell’aula bidelli.
 
L’aula bidelli.
 
Che a chiamarla “aula”, Papa Francesco avrebbe dovuto farti santo.
 
Quello era uno stanzino delle scope. Un bugigattolo. Una tana per topi.
 
-Questa è l’unica libera-, spiegò il professore interpretando il ghigno infastidito dell’alunna.
 
Francesca sospirò pacatamente e avanzò verso il tavolino e prese posto su di una delle due sedie.
 
-Queste sedie stanno per lasciarci, ma dobbiamo accontentarci-, disse sorridendo il prof, accendendo la luce e posizionando tutto l’occorrente sul tavolo.
 
Lei rispose con un finto sorriso di circostanza.
 
Perché non era cristiana fino al midollo, lei? Perché?
 
Perché in quel momento non poteva seguire la lezione di religione?
 
Gesù era un così interessante personaggio. Simpatico al punto giusto. Moltiplicava anche il pane!
 
-Allora…-, il professore fissò l’elenco dei ragazzi, poi il libro, infine Francesca:-Molinari, ti dispiace chiudere la porta?
 
Tanto con quel maglione non era neanche lontanamente desiderabile: non c’era alcuna speranza che Francesca potesse sentirsi a disagio con lui in quella stanza.
 
Si alzò e con lentezza chiuse la porta.
 
-Ti confesso che mi risulta un po’ difficile, perché non mi piace molto come storia.
 
-Come mai?-, domandò lei riaccomodandosi sulla sedia. 
 
Il professore fece spallucce e aprì il libro:-Che ne dici di ridurre la prima parte fino al loro incontro? Penso che alla gente interessi la loro storia d’amore.
 
Francesca annuì, completamente d’accordo.
 
-Posso chiederti una cosa, Molinari?-, domandò lui, levando per un attimo lo sguardo dal libro.
 
Francesca, che fino ad allora non aveva fatto altro che osservare le renne psichedeliche, lo osservò come ridestatasi:-Mi dica.
 
-Quale opera avresti scelto?
 
-Macbeth-, rispose senza pensarci due volte, accompagnando la risposta con un sorriso sulle labbra, fin troppo lusingata dall’interessamento.
 
-Perché?-, il professore strabuzzò gli occhi sorridendo:-Perché avresti voluto rappresentare la tragedia dell’ambizione?
 
Era il suo momento.
Quello che tanto agognava.
Doveva farcela.
Doveva dimostrare al professore di non essere una semplice civetta saccente.
 
No, lei era ben altro.
 
Poteva e sapeva essere critica al punto giusto.
I suoi saggi erano una squisitezza per ogni lettore.
Sapeva destreggiarsi tra citazioni varie, mescolarle nel suo calderone di idee e sfornarne un ottimo pasto per la mente.
 
Lei era Francesca Molinari, rappresentante dei comites della IV C.
E poteva farcela.
Sì, poteva convincere quell’uomo del suo ingegno, della sua maturità e della sua cultura.
 
Lo osservò con occhi da volpe, sorridendogli, ma in realtà sfidando quell’uomo che l’aveva soltanto, fino a quel momento, screditata.
 
-Mi piacciono i personaggi: sono molto umani. Vengo corrosi dalle loro debolezze, dalle loro passioni. È un po’ di questo che parla la tragedia, no? Passioni. Non le compiango, né le biasimo, le passioni: le capisco, poiché anch’esse sono aspetti umani.
 
-Spinoza!-, esclamò orgoglioso il professore, captando la poi non tanto velata citazione;-Molinari, sei una continua sorpresa! Peccato per quella spocchia sovrana-, queste ultime parole, l’insegnante si guardò bene dal sussurrarle tra i denti, poiché non aveva intenzione di offendere la sua alunna.
 
Tuttavia Francesca le udì e ne sorrise, coscia della sua passione e pronta a comprenderla.
Ma più che altro soddisfatta di aver vinto la sfida che aveva propinato a se stessa.
 
-Macbeth, però, non ha usato l’intelletto per placare le sue passioni-, aggiunse il prof Fanti, riferendosi anch’egli al filosofo olandese.
 
-No, non di certo. L’elemento sovrannaturale lo impedisce. Le tre streghe vengono poste in netto contrasto con la forza dell’intelletto. O mi sbaglio?
 
Il professore si passò la lingua sulle labbra e sorrise, mostrando i bei denti bianchi.
 
Renna o non renna, quella testa di canfora restava un gran bel pezzo di manzo.
 
E non poteva guardarla con tutta quell’ammirazione.
 
Non quando Francesca si trovava nel suo moment de la lune e non poteva rispondere completamente delle sue azioni.
 
Una flebo.
Necessitava di una flebo.
 
-Tu tendi a cercare conferma nel tuo interlocutore ogni volta che esprimi il benché minimo parere; ciò mi fa comprendere che non credi poi tanto in te stessa. Sei completamente sicura soltanto quando citi un autore, in questo caso Spinoza.  
 
Francesca guardò altrove.
 
Cos’era? Una seduta dallo psicologo?
 
Be’, a lei non serviva. Avrebbe dovuto mettere via il suo taccuino: dovevano scrivere un copione!
 
E poi dov’era la sua vincita?
Non aveva vinto, lei?

Lui voleva scrivere un volumetto dal titolo La coscienza di Francesca?
Non gli bastava leggere il capolavoro di Svevo? No? Voleva contribuire anche lui a quel genere di romanzo? 

Francesca si sentì ancora più male, poiché sconfitta per la seconda o terza volta: non riusciva neanche più a tenerne il conto. 

Si sentì una stupida, e in pochi istanti tentò di elaborare una scusa abbastanza plausibile alla sua incertezza.
 
-Proprio perché si tratta della mia opinione, non posso essere certa della sua veridicità.
 
Il professore sghignazzò, sospirò e la osservò per un bel pezzo.
Poggiò il suo mento sulla mano grande e forte e studiò quel peperino dagli occhi così belli e così scuri che gli sostava di fronte.
 
Francesca, indignata, spaesata e completamente in imbarazzo cercò di concentrare la sua attenzione sulle riviste di caccia che il bidello teneva lì appositamente per i momenti di noia.
 
-Rita Neri se l’è presa?-, domandò il professore cambiando argomento.
 
Deo gratias!
 
Lei gliene fu grata, tuttavia non riuscì a riottenere la calma che aveva accumulato nel precedente frangente di tempo.
 
Fece mente locale: Rita Neri non aveva ottenuto la parte di Giulietta, che invece spettò a Gaia Fallani.
 
Se la prese?
 
Nah.
 
Scaraventò per terra un banco. Lanciò contro il muro un borsellino. E minacciò di morte la Fallani.
 
No, in sostanza non se la prese per niente.
 
-Un po’. Soltanto un pochino-, mentì Francesca assottigliando gli occhi, tentando ovvero di comprendere se il prof potesse captare la bugia o meno.
 
-A Gaia serve quella parte. Un po’ di dizione le farebbe più che bene: penso abbia problemi con l’italiano.
 
-Problemi è un eufemismo-, si fece scappare Francesca, che subito dopo si tappò la bocca con una mano.
 
Il prof ridacchiò un po’ e poi mosse la testa, contrariato:-Molinari, insomma, sii rispettosa.
 
-Mi scusi.
 
-Se ti avessi incontrata in altri frangenti, saresti stata una mia acerrima nemica-, questa volta fu lui a farsi sfuggire qualcosa.
 
-Mi scusi?-, bofonchiò lei, spaesata.
 
-Niente, Molinari. Dico solo che sei un tipetto abbastanza difficile.
 
Lei? Un tipetto?
 
Lei era una sua alunna, non un cavolo di tipetto!
 
Non rispose alla provocazione e riportò lo sguardo sulle renne psichedeliche, il che era meglio.
 
-Oh, a proposito-, fece lui indicando le renne,-mi sono vestito così oggi per…come dire? Annientare ogni possibile commento a sfondo sessuale sul sottoscritto. È la prima volta che insegno, Molinari, e non vorrei che mi andasse male per un bel faccino.
 
Lei gli sorrise, nonostante il professore avesse peccato di vanità.
 
Dopotutto aveva ragione: quelle oche giulive non potevano, né dovevano intralciargli la carriera.
 
-Per questo ti osservavo questa mattina-, disse il prof Fanti, rivelandole l’arcano,-stavo aspettando la tua approvazione. Sei o non sei stata tu a consigliarmi con quella vocina bisbetica e irritante di cambiare il guardaroba?
 
-Io non le ho parlato di vestiti-, Francesca gli rispose con il tono più offeso che conosceva.
Stava forse superando il limite.
 
-No. Ma si tratta di risultare meno piacente. Fa molto piacere; è ovvio che io non è che disdegni, Molinari, sono pur sempre un uomo abbastanza vanitoso. Fa tanto piacere, ma c'è anche imbarazzo, riservatezza. Senza tralasciare la professionalità.

Francesca lo osservò.
Che i commenti arditi gli provocassero piacere, lei l'aveva ben intuito dai suoi sorrisi melliflui. 
Che fosse vanitoso, l'aveva afferrato dal suo abbigliamento non molto consono ad un insegnante e dalle arie baldanzose che si dava ogni volta che entrava in classe, quando portava una mano tra i capelli; e tale normale movimento aveva poi dato vita ad un singolare ghiribizzo di civettare tra le sue compagne di classe.
 
Però che fosse riservato questo no, proprio no.
Marco Fanti le pareva tutto, davvero tutto. Ma riservato, questo mai. 

E comunque se fosse stato riservato e vanitoso allo stesso tempo, quell'uomo sarebbe stato la reincarnazione dell'incoerenza. 

Era un po' come se le avesse detto che lui era magro ma anche grasso.
O che era alto e basso. 
Etero ed omosessuale.

A lei le parve soltanto scemo e più scemo.
Ergo, una grandissima testa di canfora.
 
Neanche il fatto che si potesse concedere a Gigi D’Alessio di cantare pubblicamente, l’amareggiò così tanto.
 
Cioè, una testa di canfora le insegnava letteratura italiana.
Una delle sue materie preferite!
Come avrebbe potuto sopportare una tale situazione? Si trattava di pura blasfemia! 

Francesca sogghignò, non sapendo cosa fare.
Tra il ridere e il piangere, optò per un risolino nervoso e dal tono basso.
 
Il professore interpretò male il suo gesto, e subito ci tenne ad aggiungere: -Comunque non metterò mai più queste renne: studentesse invaghite o no, andrebbero abolite in centoquaranta paesi del mondo. Robe del genere sono accettabili solo in Cina o Giappone.
 
-Io le trovo simpatiche-, disse lei alzando le spalle e guardandolo di sottecchi.
  
-Cosa?- domandò lui non capendo.
 
-Le renne, dico, non sono così male. Sono abbastanza simpatiche.
 
-Sono tremende: le ho scelte proprio per questo!-, esclamò esterrefatto il professore, alquanto disgustato.
 
Poi, aggiunse in un sussurro:-Che strani gusti, Molinari…
 
 
 
 
 
 
 
La pioggia batteva violenta sui fragili vetri della camera intanto che Francesca portava l’indice su di un verso oraziano. Sfogliò mogia il vocabolario, completamente assente, mentre il termine che cercava si ostinava a non venir fuori. In realtà aveva erroneamente saltato la pagina che stava cercando.
 
Demitto auricola, ut uniquae mentis asellus/cum gravius dorso subiit onus.
 
Quella frase lì, a dir la verità, l’aveva compresa a primo acchito; si ostinava semplicemente a non tradurla, come un asellus, per l’appunto.
 
A lei quell’asinello piaceva davvero tanto; questo semplicemente perché l’animale si era arreso al “gravius onus” e lei vedeva, in quella che poteva sembrare una sconfitta, un sacro atto di umiltà.
 
Stimava l’umiltà, tuttavia non risiedeva nel condominio dei suoi pregi. Purtroppo.
 
-Mi piacerebbe lasciarla così-, sussurrò al Campagnini nella penombra della stanza, dando suono ai suoi più reconditi pensieri.
 
Tradusse un’altra manciata di frasi, ma dopo un po’ si annoiò e abbandonò la satira oraziana alla polvere.
 
Si stese sul letto e accese la TV. Davano uno di quei film in bianco e nero, come piacevano a lei.
 
Appena vide il volto di Luigi Tenco, il mondo si fermò: lei lo adorava.
 
Fu così che Francesca Molinari passò il suo pomeriggio guardando un vecchio film, finché il campanello di casa non trillò.
 
-Fra, scendi: è Caterina!-, urlò sua madre dal pianoterra.
 
O no.
 
Caterina, detta da Matilde “Lady Oscar”, per la sua indomabile chioma biondo cenere, era una sua amica di vecchia data, che Francesca conobbe alle scuole medie. Era stata bocciata in seconda media, e questo dice di lei molte cose, e divenne compagna di banco della Molinari perché vi era una (unica) cosa che le accumunava:l’odio immane per le bimbeminkia della loro classe, che si baciavano sulle labbra e che scattavano foto con l’allora famosissimo “musetto a paperella”.
 
Caterina era la più pervertita delle pervertite. Una di quelle che durante una serata non faceva altro che alludere a doppi sensi che riusciva a trovare anche se si stesse parlando del tempo o della suola delle scarpe.
 
Quella ragazzetta era perennemente in calore.
 
Francesca scese di malavoglia dal letto, scese di malavoglia la rampa di scale e con un sorrisone falsissimo, che si impresse sempre di malavoglia sulle labbra, si affacciò alla porta.
 
-Se non ti schiodo io da quel letto, chi lo fa? Dai muoviti, che ti porto a una festa.
 
La odiò con tutto il suo cuore e con tutto l’arsenale di sangue che aveva tra le gambe.
 
 
 
 
 
Tra le piaghe d’Egitto, vi era quella in cui Mosè trasformò il fiume Nilo in un fiume di sangue.
 
Evidentemente Mosè sbagliò recapito per la piaga, perché al mondo c’era un solo e unico fiume di sangue: quello che apparteneva a Francesca Molinari.
 
Francesca Molinari, in discoteca, con un vestitino striminzito, i tacchi alti e tanta voglia di morire.
 
Eppure a quella scassa maroni di Caterina non riusciva a dir di no: si sarebbe messa a rinfacciarle un sacco di pseudo favori e cose varie.
 
Meglio quel delirio e non l’enumerazione stile elenco della spesa di Caterina.
 
Perché tanto alla fine l’avrebbe seguita comunque per asfissia.
 
E poi nel locale poteva bere. Bere un sacco di cocktail e dimenticarsi di avere al fianco una specie di promettente Cicciolina che le parlava delle sue nuove conquiste.
 
Gli uomini di Caterina erano più o meno sempre gli stessi, dello stesso stampo: agricoltori cozzali che passavano il lunedì a farsi le lampade, il martedì a farsi la ceretta, il mercoledì a depilarsi le palle –sì, le palle-, il giovedì a trincare birra e a far la gara dei rutti, il venerdì ad appostarsi davanti al camion delle braciole o della porchetta e il sabato e la domenica nei locali e poi tra le gambe delle varie Caterina, ossia le uniche che se li filavano.
 
Quand’era con Caterina, Francesca si sentiva catapultata nello show televisivo “Il mio grosso grasso matrimonio gipsy”.
 
Lei, che era tanto da prima alla Scala di Milano.
 
E poi Francesca aveva gusti enormemente diversi.
 
Miliardi di peli in più. Miliardi di neuroni in più. E almeno una laurea in più.
 
Tutto qui.
 
Chiedeva poco, la ragazza.
 
Standard molto bassi; sì, sì.
 
Quella sera Caterina ne aveva abbordato uno senza un canino e con uno spiccato amore per le ruspe.
 
-Allora, Francesca, come hai detto che si chiama il medico del cazzo?-, domandò il cugino scemo del conte Dracula, senza la benché minima finezza.
 
-Urologo-, rispose lei spazientita. Era la terza volta che lo ripeteva.
 
-Urologo!- ripeté lui, per poi ridere fragorosamente con Caterina.
 
Poracci. Si divertivano con poco.
 
Mentre l’uomo senza canino continuava a ridere, Caterina si avvicinò quatta, quatta a Francesca per riferirle nell’orecchio:-Questa sera ci sarà Giulio Bolognesi. Lo voglio far crepare di gelosia, perché me lo voglio troppo fare.
 
Francesca ridacchiò, augurò buona fortuna all’amica e si alzò per andare un attimo in bagno per cambiare…be’, si è capito a fare cosa.
 
Quando ritornò, l’uomo senza canino era sparito per magia. Al suo posto c’era proprio il tanto agognato Giulio Bolognesi, con i suoi capelli cerati e quei piccoli e aguzzi occhi azzurri, e al suo fianco, il suo migliore amico: Cristiano Mori.
 
Francesca voleva scappare, fuggire, venir sotterrata in quel preciso istante; sfortunatamente Caterina la chiamò con lo sguardo e le fece cenno di avvicinarsi in fretta.
 
Inerme, poiché era Caterina ad avere l’auto, Francesca ubbidì come un cagnolino ammaestrato.
 
Mai più.
Mai più con questa sboccatona!
 
-Sera!- salutò Francesca, tentando di inserirsi nel gruppo.
 
Il primo a voltarsi fu Cristiano e Francesca intuì all’istante il perché.
 
Caterina, per svignarsela con Giulio, allettò Cristiano promettendogli una sua bella amica che avrebbe potuto tenergli compagnia, mentre lei se la sarebbe spassata con il Bolognesi nel retro del locale.
 
Grandioso!
 
Tipico, più che altro.
 
Cristiano la studiò neanche avesse avuto i raggi x al posto degli occhi.
 
Caterina subito chiuse bottega e se la filò con Giulio, senza attendere il verdetto di Cristiano.
 
Lady Oscar non possedeva propriamente doti sibilline: poteva mai Cristiano Mori, biondo, palestrato, occhi azzurro ghiaccio, bocca a cuoricino e con tanta voglia di scopare, dare retta a una come Francesca Molinari, mora, perennemente imbronciata, con l’aria da “fatti li cazzi tua” e con tanta voglia, come si è già detto, di morire in quel preciso istante per la merdosa e improponibile piega che stava prendendo la serata?
 
-Ti disturba se ti lascio qui? Vorrei andare a ballare-, mise subito in chiaro le cose Cristiano.
 
Questo significava che Francesca non aveva passato il test. Tanto meglio.
 
-Fai pure-, rispose con sdegno, alzando un sopracciglio.
 
-Sei dispiaciuta?- domandò lui, accarezzandosi i ciuffi biondi che gli ricadevano sulla fronte.
 
Lei lo osservò indispettita. Come diavolo si permetteva di fare un’insinuazione del genere?
 
-Ne sono lieta, invece.
 
-Come sei noiosa: perché dici parole come “lieta?”
 
Il ragazzo rise del vocabolo adoperato da Francesca, mentre lei accavallò le gambe per darsi forza.
 
-Scusami, se non conosco il dizionario da ortofrutta delle tue solite “scopatine”.
 
-Mi stai davvero simpatica-, disse lui facendole l’occhiolino e puntandole divertito un indice contro il petto.
 
-Tanto peggio. Non avevi appena detto che sono noiosa?
 
Francesca roteò il busto e gli diede le spalle. Lei non voleva star simpatica a quel boscaiolo di Cristiano Mori: era un tale presuntuoso che quella sera, con la poca pazienza che si ritrovava, gli avrebbe mollato un ceffone nel giro di quindici minuti.
 
-Sembri uscita da un romanzo di scuola.
 
-Non esistono romanzi di scuola.
 
-E dove si studiano i romanzi?
 
Francesca fremette spazientita. Quello lì era davvero uno stupido pecoraro.
 
-Ci vuole la laurea per farsi dare un bacio da te?-, Cristiano cambiò argomento cercando di adoperare un tono suadente con le sue parole.
 
Francesca, schifata più che mai, tentò di allontanarsi il più possibile da quel ragazzo che avanzava con una lentezza spropositante; eppure lei se lo sentiva sempre più vicino.
 
-Esattamente.
 
-Sei troppo preziosa?-, domandò lui facendo aderire il suo petto alla spalla di lei.
 
Quel tocco fu la tipica goccia che fece traboccare il vaso.
 
Ma non nel senso che dopo quel contatto Francesca divenne spazientita più che mai, anzi.
 
Come se fosse ritornata nel passato, quando quei contatti di pelle erano frequenti, Francesca si girò verso il ragazzo con il fiato sospeso. Lo osservò negli occhi azzurri, afferrò il sentore del dopobarba o forse quello di uno dei profumi più ricercati e usati, e pensò con sdegno per se stessa che quel ragazzo non era poi così tanto male, così tanto troglodita.
 
-Qualche problema?-, rispose lei alla domanda del ragazzo alzando un sopracciglio.
 
Lui si avvicinò sempre più, sempre più affamato.
 
-No, al contrario: mi piace quando tirate fuori le unghia.
 
Lei ridacchiò allontanandolo da sé, poiché si era fatto troppo vicino. Con le mani aperte sul petto di lui, affermò:-E tu sembri uscito da una banale commedia americana. O da un cine-panettone di De Sica. Quale preferisci?
 
Lui rifletté sulla domanda poiché comprese che, con una ragazza come lei, con la sua risposta si sarebbe giocato la serata.
 
-Commedia americana-, rispose sorridendo trionfante.
 
-Te ne vanti?
 
-Cine-panettone di De Sica-, si affrettò a correggere.
 
-Sei un maniaco sessuale?
 
-Insomma!-, esclamò addolorato,-qual è la risposta esatta?
 
-Sono entrambe errate-, sorrise sorniona.
 
Lui ridacchiò scuotendo la testa:-Lo sai che rischia di ammuffire se fai tanto la pudica?
 
Oh. conosceva un termine come “pudica” e lo aveva anche pronunciato correttamente!
 
10 punti in più a Cristiano Mori, che sebbene frequentasse il liceo classico, andava avanti a forza di raccomandazioni.
 
Per tal motivo Francesca fu tanto sorpresa nel sentirgli pronunziare la parola “pudica”.
 
Ma non lo rimase per molto: la sua mente fu, difatti, d’un tratto presa da tutt’altro argomento.
 
Forse Cristiano aveva ragione. Forse avrebbe allontanato tutti i maschi del pianeta se avesse sempre fatto così tanto la schizzinosa.
 
Perché un altro Gianluca, ovvero ciò che cercava lei, non lo avrebbe mai trovato.
 
Bisognava “accontentarsi”. Dare una possibilità anche a uno come Cristiano Mori, un ripetente bocciato per due volte, nonostante le raccomandazioni. Bisognava non essere più sprezzanti.
 
Lei lo osservò per una manciata di minuti, durante la quale rifletté abbastanza sulla questione.
 
Lui, intanto, le si era avvicinato e il naso di lei sfiorava ormai quello temperato di lui.
 
Cosa fare?
Prendere o lasciare.
 
Essere sempre insicura, anche delle proprie idee?
O per una volta rischiare tutto?
 
La bocca di lui sfiorò quella di lei. La mano di Cristiano era già sul fianco di Francesca. 
Il biondo schiuse le labbra, cosicché la sua lingua andò a sfiorare quelle della ragazza ancora serrate. Lei si portò una mano sui capelli bruni, in notevole imbarazzo e completamente nervosa: Cristiano si muoveva con lentezza, dando importanza ad ogni minimo secondo e occupando il tempo come se fosse prezioso; a lei stranamente piaceva come quell'ei fu troglodita si stava comportando, così peccò d'orgoglio e adagiò una mano sul petto scolpito del ragazzo. Lui interpretò il gesto di Francesca come un invito a continuare e sebbene lei non si degnasse di schiudere le labbra, lui continuò a giocare con la lingua sul corpo della Molinari: le sfiorò lentamente il collo, poi i lobi delle orecchie. 
Lei rimase immobile, senza poter pensare. Sentire le mani calde di quel ragazzo sul suo corpo le provocò una strana sensazione allo stomaco, e il suo moment de la lune non ricopriva alcun ruolo in quello scombussolamento. 

Chiuse gli occhi  un attimo per poter riflettere.
Lei non aveva mai baciato uno sconosciuto, né tantomeno uno sconosciuto idolo delle ragazzine che avrebbe potuto fare di lei il suo nuovo giocattolo sessuale.
Francesca era in procinto di baciare un ragazzo dopo mesi.
Quel ragazzo era Cristiano Mori, ma le interessava davvero l'identità del suo baciatore?
Insomma, una bocca vale l'altra e lei era in età ormonale.
Poteva mai dire di no ad un'azione così adrenalinica?

Evidentemente sì.
Perche sgusciò dalla presa del ragazzo, si alzò e corse via verso l'uscita.

Odiava la perifrastica attiva. Tendeva più verso il periodo ipotetico dell’irrealtà.
 
Francesca era un gran testa di canfora.
 
 
 
 
 
 
Appena fuori dal locale, Francesca, finalmente, comprese in che stato e situazione si trovava.
 
Erano le 2.43.
 
E lei era sola, al freddo e al gelo come Gesù bambino la notte di Natale nella mangiatoia.
 
E nel suo “moment de la lune”, si tiene a precisare.
 
Si guardò in giro. Nessuna traccia di Caterina, né del bifolco che aveva abbordato.
 
Nella mano un bicchiere di birra ancora pieno, sul viso un’espressione da maschera aborigena e nel cuore tanta voglia di…morire? No, non più.
 
In quel momento voleva solo vomitare.
 
Avanzò verso i parcheggi marciando come un soldato in cerca della macchina di Caterina o, meglio ancora, della sua proprietaria che avrebbe potuto ricondurla a casa.
 
Il parcheggio era deserto. Completamente.
 
La Molinari era sul punto di piangere in cinese, quando udì una voce.
 
Un faro in mezzo alla tempesta.
 
Più che dei dialoghi, più che delle parole ben definite, percepì in lontananza una melodia.
 
Quella nenia non poteva esser confusa con la musica proveniente dalla discoteca.
 
Questo perché il primo suono sembrava appartenere ad un Nino D’Angelo che cantava durante un’ipotetica castrazione.
 
Cioè lo schifo.
 
Il secondo suono più che una melodia era un “tunz tunz” continuo.
 
Quindi la ragazza non ebbe dubbi.
In quel parcheggio c’era qualcuno.

Francesca sperò e pregò vivamente che quel qualcuno fosse Caterina.
Si avviò così verso lo pseudo Nino D’Angelo.
 
Quando fu abbastanza vicina al luogo del delitto dei suoi timpani, poté distinguere le parole della melodia.
 
-Ioooooooo che non vivooooo più di un’ora senza teeeeee…
 
Ora, lei aveva sentito cantare quella canzone soltanto da due persone.
 
Una era Pino Donaggio; e ciò le sembrò più che ovvio.
 
L’altra era lei sotto la doccia; ma lei in quel momento era in silenzio. E poi la Molinari cantava con un tono più stridulo.
E quella che le parve di udire era una voce baritonale. 
 
Caterina di certo non poteva essere: a stento conosceva canzoni zozze come “Gelato al cioccolato”; figurarsi se aveva memorizzato le parole di una canzone d’amore.
 
Quando l’amore per lei era farlo strano in un granaio.
 
Comunque Francesca aveva due possibilità.
 
Un bivio.
 
Avanzare e sperare di trovare una specie di Madre Teresa di Calcutta che, interrompendo il suo concertino, avrebbe acconsentito ad accompagnarla a casa.
 
O, tornarsene nel locale, riacciuffare Cristiano Mori e obbligarlo a darle uno strappo.
 
-Dal Mori? Che cadesse il cielo, io non ritorno del quel marpione!
 
Rispose ai suoi dubbi ad alta voce, con l’istintività più naturale e, facendosi coraggio, si affiancò all’auto.
 
Osservò l’interno della stessa attraverso il finestrino scuro, aiutandosi con la luce fioca del lampione, e riuscì a scorgere soltanto una chioma che si muoveva a tempo di musica.
 
L’individuo, concentrato, continuava a cantare non accorgendosi della presenza di Francesca, così lei decise di bussare.
 
Quel che poi Francesca vide fu uno spettacolo macabro. Degno di Hitchcock.
 

 

 

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Capitolo 4
*** No, la zazzera no. ***


Capitolo IV
Azioni e reazioni
“No, la zazzera no”
 
 

 
 
 

 Quando l’individuo canterino abbassò il finestrino scuro dell’auto, Francesca desiderò con tutto il cuore d’essere in un altro posto, anche a bordo di una Ferrari guidata da Andrea Bocelli.
 
In autostrada.
 
A 350 km/h.
 
Ma non lì.
 
Non sicuramente lì.
 
La ragazza intravide prima dei ciuffi biondicci, che la luce del lampione schiariva lievemente.
 
Ed esitò.
 
Infatti portò il piede destro indietro, come presagendo.
 
Quando poi, avendo abbassato completamente il finestrino, l’individuo si voltò verso di lei, notò quegli occhi arcigni di un verde folgorante e non ebbe dubbi.
 
Le sopracciglia arcuate dell’uomo erano notevolmente espressive.
 
Annunciavano un gigantesco e spocchiosissimo “Ma che minchia vuoi?”, che l’uomo in questione avrebbe pronunciato, se solo non si fosse ritrovato davanti la sua alunna spreferita: Francesca Molinari.
 
Il professor Fanti la guardava curioso, sorpreso e scazzato al contempo. Sorreggeva sulle gambe un esemplare femmina di “poco di buono” dai capelli ramati e un carico ombretto azzurrognolo sulle palpebre; la tizia in questione non si era ancora accorta di nulla, poiché aveva gli occhi chiusi, e continuava pertanto indisturbata il suo lavoro, lasciando dei baci poco casti sul collo dell’uomo.
 
La sua alunna, invece, abbagliata dal lampione che aveva innanzi, contemplava inebetita gli occhi chiari dell’insegnante.
 
In quel momento ebbe un pensiero poco consono.
 
Un pensiero che, in realtà, non si sarebbe mai sognata di avere.
 
Pensò, infatti, che Marco Fanti fosse l’uomo più bello che lei avesse mai visto.
 
Perlomeno in quel momento.
 
Gli occhi verdi erano lucidi, acquosi e pregni di alcune sfumature rossastre. A renderli ancora più belli erano le folte e brune sopracciglia che, con quello sguardo così chiaro, creavano un delizioso contrasto da mozzare il fiato, anche a chi di fiato non ne aveva già di suo.
 
Tipo ad un tizio con l’asma, ecco.
 
La barba gli fasciava dolcemente le gote scavate, in quel momento immortalate in una posizione ferrea e scultorea; a dir poco perfetta.
 
Le sue labbra erano rossastre, lucide e gonfie,  evidentemente morsicchiate. Ed erano dolorosamente invitanti.
 
Il naso, ch'ella riscoprì essere leggermente alla francese, ovvero un tantino all'insù e finemente scolpito quando lo si osservava frontalmente, sembrava fissarla con alterigia. Sì, proprio quel naso conferiva un'espressione infastidita e accigliata a quell'uomo così tanto bello che in quel momento le parve un dio greco.
 
Lo fissò stupita di quella bellezza che scoprì appieno soltanto in quel frangente di tempo.
 
A stonare, ad imbruttire cioè quell’aitante adone, erano i capelli.
 
Cioè Marco Fanti non aveva i capelli.
 
Aveva una zazzera.
 
Un inguardabile cespuglio di capelli tendenti al biondo.
 
Un nido per allodole.
 
Una spugna per scrostare il grasso dai tegami.
 
Una matassa.
 
Una balla di fieno.
 
La ragazza osservò quel particolare con una smorfia delusa.
 
Improvvisamente la poco di buono, che se ne stava arpionata al professore come un koala al bambù, si accorse della rigidità dell’uomo e alzò gli occhi incuriosita.
 
Fu così che la tizia notò Francesca.
 
E fu finalmente così che Francesca si riprese dalla sua contemplazione e realizzò il tutto.
 
Lei stava fissando il suo professore.
 
Il suo professore che se la faceva con una tizia.
 
Il professore che aveva i capelli scompigliati.
 
Che aveva uno sguardo omicida.
 
Che aveva del rossetto sul collo.
 
Che aveva una donna sulle gambe con la camicetta aperta.
 
E…
 
Francesca strabuzzò gli occhi.
 
Aguzzò la vista e osservò un particolare, contro il proprio volere.
 
Non poteva essere.
 
Ricadde nell’esame attento dell’uomo e mise in standby il cervello per una seconda volta.
 
-Ma che cazzo vuole questa?-, gracchiò la poco di buono.
 
Francesca non riusciva a dir nulla, concentrata ancora su quel particolare.
 
Il professore aveva la patta aperta.
 
La patta aperta.
 
Cioè.
 
Insomma.
 
La patta.
 
Aperta.
 
Il professore.
 
-Ti piace quel che vedi? Be’, questa sera è mio. Quindi smamma!
 
Quando quella specie di Moira Orfei parlò ancora, Francesca si riprese completamente dal proprio stato di incredulità e riuscì a rimettere a lavoro i propri neuroni.
 
Alleluia, era ancora un essere intelligente!
La Molinari non si era ancora trasformata in un macaco!
Deo gratias!
 
Dunque la ragazza elaborò e si guardò bene dal gettare un urlo acuto in stile Wanna Marchi e ignorò persino l’insinuazione della battona arcigna.
 
Doveva essere parecchio scossa per non riuscire a costruire neanche una frase di senso compiuto, pregna di sarcasmo e toni acidi per quella Moira fastidiosa e civettuola.
 
-Mi scusi. Non sapevo fosse lei-, Francesca parlò balbettando al volto quasi assente del professore che la osservava ancora accigliato. –Vado via subito-, specificò infine la ragazza e si voltò per fuggire via.
 
O Dio.
 
Cosa diavolo aveva appena visto?
 
Gettò la birra che aveva tra le mani in un cassonetto e si diresse lentamente, a causa dei tacchi, verso il locale con un’espressione da Picasso mormorando senza fine tanti –Gesù, Gesù, Gesù-, ancora incredula.
 
E mentre lei si allontanava dall’auto, finalmente anche qualcun altro elaborò il tutto e assunse una faccia stile “Urlo” di Munch, portandosi le mani in viso e spalancando la bocca, incredulo.
 
-Marco, chi cazzo era quella? La conosci? E perché ti dava del lei?
 
Marco ignorò le domande di quella donna e le ordinò di sedersi sul sedile passeggero, perché lui doveva scendere: aveva da fare.
 
-Non andrai mica da quella lì!-, esclamò accigliata la pseudo Moira Orfei, quando l’uomo era già sceso dal mezzo con l’intenzione di seguire la Molinari.
 
-Mara, è una cazzo di mia alunna, porca puttana!-, il professore imprecò e chiuse la portiera, di fretta.
 
Moira, che in realtà si chiamava Mara, scese anch’ella e tentò di seguire i passi di Marco. Ma lui si voltò di scatto e la osservò infuriato.
 
Sicuramente comprese soltanto in quel momento quel che era successo: la sua integrità professionale e morale era andata a farsi benedire e canonizzare.
 
-Cosa vuoi?- sbottò lui.
 
-Non se ne fa niente?-, domandò Mara oltraggiata.
 
-Vai a farti fottere, Mara! Ti rendi conto di quel che è successo? E tu mi chiedi se non se ne fa niente!
 
-Ma che stronza…-, sibilò infine l’uomo a denti stretti, dandole le spalle.
 
Dopo una manciata di falcate raggiunse la schiena della Molinari, ignorando gli striduli acuti di protesta di Mara, immobile e umiliata alle sue spalle.
 
Francesca si muoveva con piccoli passettini, rallentata da un dolore allucinante ai piedi e da uno sbigottimento che ancora non la lasciava.
 
Per Marco fu facile raggiungerla in pochi attimi; le afferrò il braccio e la costrinse a voltarsi verso di lui.
 
Lei lo osservò impaurita.
 
L’epiteto “maniaco sessuale” risplendeva come un’insegna dalle luci al neon nella sua testa.
 
Nello stato in cui si trovava, ovvero quasi ubriaca e completamente stordita, Francesca si sentiva terrorizzata da quell’uomo e quando lui le sfiorò la pelle con una presa ben salda, per poco non gli ficcò un tacco dodici negli stinchi.
 
Lui la sentì tremare sotto le sue mani e per un po’ la fissò in quegli occhi scuri, quasi neri nella notte, che si facevano pian piano sempre più tondi e allarmati.
 
-Molinari, sta’ calma-, le sussurrò, accarezzandole dolcemente le braccia, per rassicurarla.
 
Ma calma un ciufolo!
 
Come poteva lei, Francesca Molinari, scontrosa e diffidente per natura, potersi calmare quando aveva appena visto quel che aveva visto.
 
Cioè quello che non le era dato vedere.
 
E poi perché lui l’aveva inseguita?
 
 
Fremette e l’aria gelida di gennaio di certo non l’aiutava; soltanto allora si rese conto di essere senza una giacca, con un vestito poco coprente, in un parcheggio deserto in una gelida notte di inverno.
 
-Ho freddo-, constatò come parlando a se stessa in un flebile sussurro.
 
Il professore si tolse la giacca e gliela adagiò sulle spalle. Lei sentì il giubbotto di pelle accarezzarle il corpo e si strinse nello stesso per cercare un calore che non riusciva in realtà a percepire; subito l’investì l’odore buono dell’insegnante.  
 
-Incosciente di una Molinari, vieni con me-, le prese il polso e tentò di trascinarla con sé, ma Francesca si oppose.
 
-Non ci vengo con lei.
 
Marco suppose che la sua alunna non si fidasse di lui, non dopo quel che aveva visto in macchina.
 
Lei avrebbe potuto interpretare erroneamente i suoi gesti e sospettare quel che in realtà era lontanamente anche solo immaginabile.
 
-Francesca-, il professore la chiamò per nome per quella che le parve la prima volta, ma che in realtà era la seconda; lui tentava così di tranquillizzarla e, deciso nel farlo, adoperò un tono caldo e affabile, -non ho intenzione di farti nulla di male. Devi fidarti di me.
 
Gli occhi verdi dell’insegnante la osservavano carezzandole il volto e, persuasa, lo seguì.
 
Ad una condizione.
 
-Quella Moira Orfei, però, non ce la voglio.
 
Sentì il professore sghignazzare, finalmente sollevato.
 
 
 
 
 
 


Erano in auto.
 
Il professore guidava con lentezza e prudenza, poiché anch’egli aveva ingerito una certa dose di alcol, osservando l’asfalto con sguardo attento.
 
Francesca gli diede le indicazioni per arrivare a casa sua, senza ormai più temere che il suo insegnante le avrebbe un giorno fatto visita in veste di maniaco sessuale o di stalker.
 
La ragazza si era in parte calmata.
 
Non era di certo in macchina con un maniaco.
 
Tuttavia un’altra preoccupazione l’aveva assalita.
 
Lei era però in macchina con un suo insegnante.
 
Cioè, non si fa.
 
È illecito.
 
Immorale.
 
Si voltò verso il professore e si perse per qualche attimo ad osservare il suo profilo. Si domandò cosa ne avrebbe pensato se lo avesse incontrato in qualche altro contesto. Se, per qualche strana ragione e in un altro cosmo, si fosse ritrovata in macchina con quell’uomo.
 
In un altro contesto, si disse con una sorprendente sincerità, gli sarebbe saltata addosso senza pensarci due volte.
 
Ma in un altro contesto lei era solo una ragazza e lui un uomo un po’ più grande di lei. 
 
In quel loro contesto erano, invece, un’alunna e un insegnante. E quelli dovevano essere i loro ruoli, fino alla fine dello spettacolo.
 
Con un sipario ancora non calato, la realtà era quella.
 
-Perché mi stai fissando, Molinari?-, domandò lui d’un tratto, tra l’incuriosito e il divertito.
 
Francesca, colta in flagrante, si morse la lingua per non imprecare.
 
Decise per una bugia, come sempre.
 
-Mi chiedevo perché mi stia accompagnando a casa.
 
Il professore si voltò un attimo a fissarla, con sguardo serio, poi riportò i suoi letali occhi verdi sulla strada:-Volevo fare due chiacchiere con te.
 
Francesca sentì un tonfo al cuore.
Non capì se era paura o altro.
 
-Come dice?-, bofonchiò con gli occhi sgranati, -Di cosa dovremmo mai parlare?
 
-Di te, Molinari-, iniziò l’insegnante con fare perentorio,-che a diciassette anni bevi alcol e te ne stai con questi vestitini striminziti tutta sola in un parcheggio!
 
Francesca lo osservò accigliata.
 
Ma insomma, come si permetteva di farle la paternale?
 
-Punto primo-, replicò stizzita incrociando le braccia,-sono maggiorenne. Ho compiuto gli anni nella prima settimana di gennaio; e no, se lo sta pensando: non sono stata bocciata. Mamma ha semplicemente deciso di non farmi fare la primina. E non ho bevuto alcol. Quella birra l’ho rubata ad un tizio senza neanche accorgermene, fuggendo via dal locale.
 
-Bene!-, esclamò il professore, riportando gli occhi su di lei, interrompendola-La prima questione è stata risolta. Ma mi pare di vedere che indossi ancora un vestito fin troppo corto.
 
-Punto secondo: cosa le interessa? Indosso quel che mi pare.
 
-Molinari, rischi guai conciata così-, l’ammonì cercando di non osservarle la pronunciata scollatura.
 
-Conciata così come, mi scusi? È un normale vestito che arriva al ginocchio. Ho le calze nere invernali anti stupro e un cervello funzionante degno di nota che è in grado di farmi comprendere quando la situazione sta prendendo una piega sbagliata.
 
La Molinari parlava a raffica, senza concedersi un minuto di pausa e il professore intuì.
 
-Molinari, sei una bugiarda.
 
-Come scusi?
 
L’uomo sterzò improvvisamente e con foga e parcheggiò in una piazzola.
 
Francesca sentì un secondo tonfo al cuore.
Neanche questa volta riuscì a comprendere se fosse paura o altro.
 
Marco, spento il motore dell’auto, si voltò verso di lei con calma.
 
Gli occhi verdi sembravano spogliarla persino della pelle, per farsi strada nei meandri della sua mente.
 
Doveva capire.
 
Il professor Fanti le si fece sempre più vicino e Francesca sentiva batterle il cuore all’impazzata. Non riusciva a ritrarsi, a colpirlo, a ficcargli il dito in un occhio per evitare che si avvicinasse ancora.
 
Se ne stava lì, imbambolata, captando un fresco odore forse di menta che proveniva da quel corpo perfetto che le sfiorava oramai la pelle.
 
Lui piegò il capo di lato e sembrò puntare verso le labbra della sua alunna.
 
È immaginabile quel che Francesca stesse pensando in quel momento.
 
Ormai non esisteva più il legale, il lecito, il consono, l’etico, il morale.
 
Non c’erano più le parti da rispettare e l’attesa della fine dello spettacolo era stata mandata a quel paese da un bel pezzo.
 
Desiderava, lei, soltanto afferrargli il volto, far scorrere le dita sulla barba pungente dell’uomo, farselo più vicino e lambire quelle labbra carnose così ben delineate che parevano, al sol fissarle, una delizia per i sensi.
 
Lei sentiva il fiato caldo dell’uomo scorrere sulla sua pelle.
 
Broccolo, broccolo indicibile.
 
Cosa stava facendo?
 
Ma lui cambiò d’un tratto rotta e adagiò il naso sulle labbra ormai schiuse della ragazza inspirando a fondo. Lei divenne rossa in volto e l’unica cosa che riuscì ad elaborare fu un piano malefico per rinchiudere quell’uomo in macchina con l’intenzione di fare cose zozze.
 
Si vergognò di se stessa.
 
Completamente.
 
Un briciolo, un mollichina, ecco, di buon senso, le condusse le mani sul petto di lui, per allontanarlo con fretta e anche un po’ controvoglia.  
 
-Cosa sta facendo?-, squittì accigliata con voce nervosa e accaldata.
 
-Sei ubriaca, Molinari.
 
Gli occhi dell’uomo erano freddi e così i suoi toni.
 
Le sue parole erano una sentenza che non ammetteva repliche.
 
Lei era oramai andata all’altro mondo per quel che era appena successo e di repliche non ne avrebbe neanche sapute elaborare.
 
Il fatto, inoltre, che quel che era successo fosse successo, il fatto ovvero che avesse permesso a quell’uomo che tanto odiava di farsi così vicino e di sfiorarle le labbra con quel tocco così intimo, non poteva che essere la degna e lampante prova della sua colpevolezza.
 
La Molinari era ovviamente ubriaca.
 
O non avrebbe mai permesso ad un individuo come Marco Fanti di fare quel che aveva fatto.
 
Ma neanche un individuo come Marco Fanti si sarebbe permesso di fare quel che aveva fatto, se anch’egli non avesse peccato dello stesso crimine cui accusava la sua alunna.
 
Era evidentemente ubriaco anch’egli, o non si sarebbe mai neanche lontanamente immaginato di fare quel che aveva invece appena fatto.
 
-E con ciò?- riuscì a domandare Francesca con un filo di voce.
 
-Potrebbero approfittarsi di te.
 
La fissava con le sopracciglia corrugate, che s’adagiavano pertanto su quegli occhi verdi così intesi e ancor più stranamente belli quando colmi di disappunto. Le labbra schiuse, contratte, invitanti come non erano mai state. Il petto gli si gonfiava ripetutamente per il freddo e la stretta maglia nera a mani corte lasciava intravedere le braccia atletiche e le vene dei muscoli in tensione.
 
Il corpo erculeo dell’uomo invitava la Molinari a peccare di lussuria, e le parole che l’insegnante pronunciò di certo non aiutavano a restare pii e lontani da ogni trasgressione.
 
Vi fu dunque un terzo tonfo al cuore grazie al quale la ragazza comprese che quella non era paura, era altro.
 
Lo fissava inebetita.
 
Perché lui era uno gnoccone, porca merda.
 
E gli ormoni li aveva anche lei, Francesca Molinari, seppur sepolti sotto strati e valanghe di cinismo e indifferenza.
 
E poteva mai resistere a quegli occhi chiari?
 
-Da chi stavi fuggendo?-, domandò lui arcuando ancor di più le sopracciglia e osservandola con una disarmante intensità.
 
-Un tipo…-, rispose vaga la Molinari.
 
-Ti dava fastidio?
 
-Mi era antipatico.
 
Il professore sbuffò, divertito.
 
Poi si voltò e riaccese il motore; tutto finì così in un breve istante.
 
Riprese a guidare in silenzio picchiettando ad ogni semaforo sul volante, finché non arrivarono a casa di Francesca.
 
Si salutarono formalmente, come un professore e un’alunna, con un consueto “Buonanotte”.
 
Quando però Francesca stava per scendere dal mezzo, il professore la bloccò posandole una mano sul braccio.
 
Lei si sentì scottata e voltò il capo con sorpresa, mista ad una strana e inadeguata aspettativa.
 
Doveva smetterla.
 
Dovevano smetterla entrambi.
 
Lui, soprattutto, doveva smetterla di essere così gnocco, e che diamine!
 
Francesca rimpianse le renne psichedeliche quando gli occhi dell’insegnante si posarono sui suoi.
 
-Tutto questo non è mai successo. Non hai mai visto quel che hai visto e non sei mai salita sulla mia auto, intesi? Conto su di te, Molinari: devi custodire questo nostro segreto.
 
 
 
 
 



Come poteva Francesca Molinari custodire un segreto?
 
Come poteva farlo, se il mondo collaborava contro di lei?
 
Quella domenica mattina, Matilde aveva bussato alla sua porta. Le aveva chiesto se fosse disposta ad accompagnarla dalla parrucchiera, perché aveva deciso di spuntare le sue doppie punte.
 
Francesca, che aveva aperto la porta con una faccia da mummia, accettò di buon grado, con l’intento di svagare. Con l’intento ovvero di pensare a tutto ciò che non fosse Marco Fanti.
 
Perché, finché fosse stata sola, non avrebbe pensato ad altro.
 
Si era alzata con le parole del professore che le vorticavano nel cervello; il fatto, poi, che un nostro le vorticasse attorno da un bel pezzo, in grassetto e a caratteri cubitali, non era di certo un buon segno.
 
Insomma, lei aveva qualcosa di suo con il professor Fanti.
 
Era lecito?
 
Ormai la vecchia Francesca era tornata alla ribalta, aveva gettato in un cestino della spazzatura quella vecchia e ubriaca che era salita nell’auto di un insegnante, ed aveva iniziato ad analizzare ogni particolare della precedente serata.
 
Aveva passato la prima parte della mattinata domandandosi se fosse stata lecita e accettabile questa o quell’altra cosa che aveva compiuto, rispondendo ai suoi quesiti sempre con la stessa e unica sentenza.
 
No.
 
No.
 
E ancora no.
 
Non c’era niente di giusto in quel che aveva fatto quel sabato sera, se non sgattaiolare via da Cristiano Mori.
 
Ma qualcosa l’aveva portata a seguire il prof Fanti.
 
Cos’era? Celato interesse?
 
Robe del tipo “chi disprezza compra”?
 
Gli ormoni che davano un happy hour nel suo corpo?
 
Se quest’ultima fosse stata la vera ragione, lei doveva assolutamente proibire ogni “ormoni pride” e ibernare ogni singolo centimetro di pelle in presenza del professore.
 
Il suo cervello funzionava ancora, bisognava soltanto rimetterlo in movimento e riprendere l’attività sospesa per una sera del footing quotidiano dei neuroni.
 
Ma in quel momento si trovava dalla parrucchiera.
 
E la parola parrucchiera, nella mente della Molinari, corrispondeva o, se non altro, veniva il più delle volte collegata alla parola gossip.
 
E, se venissero addizionate la parola parrucchiera e la parola gossip, il risultato sarebbe uno soltanto: spifferare i segreti.
 
Ora, lei aveva un segreto.
 
Un segreto con il professor Fanti.
 
Alla sua destra sostava la sua migliore amica, Matilde, che finché si fosse limitata a sfogliare riviste di moda, come stava facendo in quel momento, sarebbe risultata innocua.
 
Francesca si sfregò le mani, sempre più nervosa.
 
Sentiva gocce di sudore freddo percorrerle la fronte.
 
Scrutò con la coda dell’occhio Matilde.
 
La sua migliore amica avrebbe potuto mantenere il segreto?
 
Magari avrebbe insistito per dirlo anche a Gaetano.
 
Gaetano forse se lo sarebbe fatto scappare con la sua fidanzata.
 
Poi la fidanzata di Gaetano l’avrebbe spifferato senza preoccupazioni a qualcun altro, magari a qualche sua amica.
 
E di conseguenza un’interminabile catena di Sant’Antonio sarebbe nata.
 
Avrebbe corso il rischio?
 
Si morse le labbra.
 
Lei moriva dalla voglia di dirlo. 
 
Perché se quel che era accaduto con il professore la sera precedente fosse rimasto soltanto loro, Francesca non avrebbe avuto nessuno cui parlarne.
 
Nessuno cui chiedere delucidazioni.
 
Spiegazioni.
 
Nessuno con cui avrebbe potuto condividere apertamente le sue emozioni.
 
Perché lei voleva chiarezza.
 
Era ovvio che a lei quell’uomo non interessasse: era conscia dei rischi e pericoli che sarebbero sopraggiunti se solo avesse pensato a lui come ad un uomo avvicinabile, accalappiabile e scopabile, ecco.
 
Ed era dunque preoccupata per i pensieri poco casti che aveva fatto su di lui quand’era ubriaca.
 
Francesca aveva sempre creduto al vino veritas.
 
Il suo caso era l’eccezione che confermava la regola?
 
Si disse che sì, lo era.
 
Perché lei, fondamentalmente, quell’uomo l’odiava, davvero.
 
Lui tentava di metterle sempre i piedi in testa e screditarla; lavorava elaborando piani malefici affinché lei facesse la figura dell’imbecille davanti a tutti. La riprendeva continuamente, la richiamava all’attenzione, anche se era innocente, e le affidava infine stupide commissioni come se cercasse sempre una scusa per mandarla via dalla classe.
 
Non poteva fare pensieri di quel tipo su un uomo del genere.
 
Lei voleva soltanto che lui fosse la sua prima e ultima vittima.
 
Voleva strappargli le budella e usarle come addobbo natalizio.
 
-Cosa hai fatto ieri sera? Sembri stanca…
 
Francesca quasi saltò sulla sedia quando sentì d’improvviso la voce di Matilde e, soprattutto, la sua domanda.
 
Maledisse le sue occhiaie da panda che non erano andate via nonostante i chili di fondotinta che vi aveva applicato e che potevano ben rappresentare, pertanto, la sua serata in discoteca.
 
Cosa le avrebbe detto?
 
Poteva optare per la mezza verità.
 
Poteva dirle che aveva guardato un film con Luigi Tenco.
 
Il che era vero. Relativamente.
 
La questione si sarebbe comunque risolta in pochi attimi.
 
Matilde e Caterina non si conoscevano, se non di vista; le possibilità che avrebbero parlato e confrontato le loro versioni sulla serata erano poche come i centimetri di collo visibili di Maurizio Costanzo.
 
Tuttavia Francesca non riusciva a mentire a quegli occhi azzurri così buoni e comprensivi.
 
-Sono stata in un locale con Caterina-, rispose vaga alzando le spalle e afferrando anch’ella una rivista di moda.
 
Matilde fece un verso d’approvazione, poi chiese: -Qualche conquista? Le tue occhiaie mi dicono che hai avuto una serata lunga e abbastanza movimentata.
 
Francesca rispose con un risolino di scherno e un –No, ma ti pare-, che pronunciò con ovvietà.
 
-Caterina ha caricato delle foto su Facebook. Non le hai viste?
 
-Mati, questa mattina mi son svegliata per disperazione. Il letto mi sembrava un rovo di spine e in testa avevo una specie di martello pneumatico. Con tutto il nervosismo che mi ha accompagnata durante la colazione, secondo te possedevo la forza sufficiente per accedere a Facebook? Con il rischio che qualcuno rompesse le scatole di prima mattina in chat o inviandomi richieste su Candy Crush Saga?
 
Matilde alzò le mani in segno di resa ridacchiando:-Ha immortalato te e Cristiano Mori in una posa abbastanza, come dire?...ehm, intima, direi.
 
Francesca osservò la biondina con gli occhi sgranati e un’espressione ebete.
 
Appena avrebbe acciuffato quella Lady Oscar, le avrebbe tirato via a morsi la criniera!
 
-Perché non mi dici nulla? Perché non hai confessato? Parla! Perché hai segreti con me? Non devi avere segreti con me!
 
-Segreti?-, domandò nervosa la Molinari, che appena udì la parola“segreti” subito pensò al prof Fanti e al loro, di segreto;-Non si tratta di un segreto: non è successo nulla.
 
-Sì, sì, bugiarda. Dai, voglio i dettagli!
 
Francesca si alzò alla svelta per disperazione, marciando verso la parrucchiera per evitare di affrontare quel discorso con Matilde.
 
Poiché lo sapeva: se avessero continuato a parlare della sera precedente, lei avrebbe certamente svelato a Matilde quel loro segreto.
 
E non poteva.
 
Lei aveva promesso.
 
Aveva bisogno di un taglio netto ai pensieri che le vorticavano in testa.
 
E perché non iniziare dai capelli?
 
 
 
 
 
 
 
 

Francesca Molinari adorava il suo nuovo taglio di capelli.
 
Le arrivavano appena sotto le spalle ed erano più mossi e voluminosi che mai.
 
Perfetti.
 
Da quando si era svegliata non aveva fatto altro che specchiarsi e rispecchiarsi in specchi e vetrine ripetendo al suo riflesso, alle volte in mente, altre a bassa voce, “sei una gnocca, sei una grandissima gnocca”.
 
Arrivò a scuola puntuale come un orologio svizzero e, giunta in classe, marciò verso l’unico individuo presente già a quell’ora in aula: Gaetano Borbone.
 
-Tano, guarda!-, squittì attirando l’attenzione del suo migliore amico, ch’era chino su un libro, mentre si massaggiava i capelli bruni, -Non sono perfetti? Sono bellissimi! Non sono bellissimi?
 
Gaetano alzò gli occhi dal libro di filosofia visibilmente incuriosito. Quando incrociò il viso di Francesca, spalancò la bocca in un’espressione di sorpresa e contentezza:-Wow!-, seppe solo esclamare.
 
Quante soddisfazioni le dava il suo migliore amico.
 
-Se ti vedesse Gianluca, tornerebbe indietro!
 
Ecco, questa magari poteva anche risparmiarsela.
 
Il sorriso giulivo di Francesca si spense di colpo, ritornando alla solita smorfia cinica che indossava ogni giorno come se fosse un accessorio.
 
-Scusa, Fra. Non volevo…
 
Gli occhi color caramello di Gaetano s’incupirono colmi di rimpianto; poche volte aveva visto la sua migliore amica sorridere in quel modo ed entusiasmarsi così tanto per motivi vanesi e collegati all’aspetto esteriore.
 
Francesca era una che spesso non si piaceva. O che, meglio, non badava al farsi o meno piacere. Lei camminava con quel passo da gazzella non curandosi dei giudizi che avrebbe avuto la gente su di lei, eppure assumendo un’aria baldanzosa, come ad essere comunque conscia dell’arsenale che sbandierava camminando per le strade.
 
In cuor suo però non si piaceva mai.
 
Agli altri faceva pensare di piacersi e convinceva spesso anch’essa di farlo.
 
Ma alle volte, la verità affiorava, e dolorosamente.
 
Perché Francesca aveva un difetto che neanche un intervento estetico avrebbe potuto sanare: lei aveva gli occhi soli.
 
Il suo sguardo scuro sprizzava spesso solitudine.
 
Disordine.
 
Perdizione.
 
Come se si fosse persa il mondo stando rinchiusa in una gabbia.
 
Francesca fece un vago gesto con la mano:-Non preoccuparti.
 
Gli sorrise poi rassicurante sedendosi davanti a lui.
 
 
 
 
 
 



-Quando nell’interazione tra due corpi, il corpo A viene sollecitato dal corpo B con una forza FB (azione), esso risponde sollecitando il corpo B con una forza FA (reazione) uguale in intensità e direzione, ma opposta in verso. Se un cavallo tira una pietra legata ad una fune, anche il cavallo è tirato ugualmente verso la pietra: la fune distesa tra le due parti, per lo stesso tentativo di allentarsi, spingerà il cavallo verso la pietra e la pietra verso il cavallo; e di tanto impedirà l’avanzare dell’uno di quanto promuoverà l’avanzare dell’altro.
 
Il professor Remi osservò i suoi alunni in cerca di un qualche segnale di vita.
 
Che non arrivò.
 
I ragazzi erano tutti stanchi e sbuffavano in continuazione e senza ritegno. Si erano, come sempre, aggrappati alla scusa della penultima ora. Erano stati tartassati per tutto il giorno: interrogazioni, spiegazioni, correzioni di esercizi. Bisognava pur comprenderli, poveri pargoli: avevano i nervi a pezzi.
 
Comprensivo e caritatevole, il prof Remi pose fine alla lezione, concedendo agli alunni di occupare gli ultimi quindici minuti con un meritato, si fa per dire, riposo.
 
Francesca poggiò sfinita la testa sul banco.
 
Matilde si era alzata dal suo posto, capendo che la sua amica non era in vena di parlare e cercando così di fare due chiacchiere con qualche altro compagno dirigendosi verso l’ala opposta dell’aula.
 
La Molinari intanto pensava, aiutandosi con i principi della fisica.
 
C’era stata un’azione. Quella di Marco Fanti.
 
Professor Marco Fanti.
 
Ora, la forza F esercitata dal corpo Marco M, andò ad incidere sul corpo F Francesca.
 
Qualunque fosse stata la natura dell’azione del professore, a Francesca comunque non piacque e decise di dover rispondere con una reazione di uguale intensità ma contraria.
 
Il contrario di quel che il professore aveva fatto sarebbe stato il doverlo lasciare solo et pensoso et ubriaco in un parcheggio ad un’ora tarda.
 
Non se ne sarebbe presentata mai l’occasione, di questo Francesca era più che certa.
 
E non avrebbe pur potuto attendere con le mani in mano.
 
Bisognava solo che la fune stesse dalla sua parte.
 
A lei serviva quella reazione uguale e contraria.
 
Doveva riportare le cose al punto di partenza.
 
All’odio puro e viscerale che provava per quell’uomo sempre così stronzo con lei.
 
Non poteva sentirsene attratta.
 
Non doveva fargli credere di esserne attratta.
 
Non poteva, né doveva, né voleva dargli l’impressione di essere un’oca giuliva, preda degli ormoni e coltivatrice di malsane aspettative.
 
-Molinari?-, si sentì chiamare improvvisamente dal prof Remi.
 
Alzò il capo dal banco e osservò l’insegnante stordita:-Sì?
 
-Stavi per caso dormendo, Molinari?-, domandò con divertito sarcasmo, per poi subito aggiungere:-Ti cerca il professor Fanti.
 
Soltanto allora Francesca notò il bidello sulla soglia della porta, che svolse certamente il ruolo di messo per il professore di letteratura. Così si alzò curiosa e seguì l’inserviente fino all’aula dei docenti.
 
Nell’aula vi era un insegnante di sostegno con un alunno e, ovviamente il professor Fanti. Poi il deserto.
 
Francesca rimase spiazzata quando notò un particolare.
 
No.
 
E ancora no.
 
No all’infinito.
 
Dov’era quella maledetta zazzera?
 
Perché il professore aveva deciso di potare l’unico elemento al quale la Molinari si aggrappava per provare la sua poca figaggine?
 
Perché?
 
No, la zazzera no.
 
La zazzera doveva rimanere lì dov’era sempre stata.
 
Zazzeretta, non andare via.
 
Francesca canticchiò, in mente, con rammarico, quel motivetto sulle note di una canzone di Baglioni, storpiandone il testo.
 
Come avrebbe fatto Francesca d’ora innanzi?
 
Lui non poteva essere perfetto.
 
Non doveva.
 
Non nel covo dell’adolescenza, degli ormoni in festa e dei primi bollori.
 
Che qualcuno gli rendesse la zazzera, perdinci!
 
-Molinari-, la salutò lui con un sorriso affabile sulle labbra appena la notò imbambolata sulla porta; le fece segno di avvicinarsi per prendere posto al suo fianco.
 
Francesca fece come l’era stato suggerito e si sedette, ancora indecisa sul da farsi.
 
Le serviva un’immediata reazione.
 
E soprattutto doveva chiudere gli occhi e immaginare quella zazzera che se ne stava ancora lì.
 
Perché la zazzera l’aveva sempre aiutata a non balbettare dinanzi a cotanta bellezza.
 
L’aveva aiutata a giudicare il prof Fanti un uomo passabile. Un tantino accettabile.
 
Ma ora, senza la zazzera, ogni forza dell’intelletto poteva annullarsi.
 
La zazzera era la sua cavolo di ancora di salvezza!
 
Il prof Fanti frugò nella ventiquattrore e tirò fuori della carta straccia che mise subito sotto il naso di Francesca.
 
Era un elenco della spesa.
 
Francesca arricciò il naso e lo osservò accigliata.
 
Più che altro perché tra l’elenco vi era l’elemento “assorbenti interni”.
 
Cioè.
 
Che il prof fosse trans?
 
Tanto meglio per la sua sanità mentale.
Si intende quella di Francesca.
 
Magari la presenza di una, come dire, cavità al posto della proboscide l’avrebbe salvata completamente, prendendo il posto della zazzera nel ruolo di “salva Molinari da tempesta ormonale” e migliorando le cose del 110%.
 
L’ipotesi che avesse una donna a casa era molto più plausibile e probabile.
 
Ma Francesca era ottimista, e la scartò, sperando che il professore fosse un transessuale.
 
L’insegnante portò un indice sul foglio, per poi bisbigliare:-Devono credere che io ti stia spiegando qualcosa, che ti stia chiarendo un qualche dubbio su un compito-, fece comprendere a Francesca, indicando leggermente con la testa gli altri due individui presenti nell’aula.
 
Alla Molinari la situazione parve abbastanza stramba e i piani che elaborava quell’uomo lo erano ancora di più; volle ridere, ma le risate vennero frenate dalla preoccupazione.
 
Di cosa voleva parlarle, esattamente?
 
-Hai detto a qualcuno di quel che…
 
Francesca non gli diede il tempo di concludere la frase, poiché scosse la testa.
 
-Ottimo-, riprese il professore, -meglio così. Mi devi comunque scusare, Molinari, per il mio comportamento. Se ti hai qualche ricordo dell’altra serata, potrai facilmente dedurre che ero ubriaco anch’io.
 
Francesca annuì, non avendo la forza di parlare.
 
Osservava quell’uomo ora così perfetto e così vicino e così intoccabile.
 
Non poteva essere un transessuale, perdinci.
Quell’uomo spirava mascolinità da ogni poro!
 
Ed era a due centimetri da lei, che sentiva la stoffa della sua camicia accarezzarle il braccio coperto.
 
Le labbra dell’uomo si muovevano lentamente e i suoi occhi erano seri e leggermente preoccupati.
 
-Bene, non ho niente altro da aggiungere se non chiederti per una seconda volta di dimenticare ogni cosa.
 
Francesca stava per annuire, ma la necessità, il dovere, quasi l’obbligo di trovare un’adeguata reazione all’azione del professore, la portò ad immobilizzarsi.
 
Fissò l’insegnante con uno sguardo incerto; come poteva dimenticare?
 
Ad occhio esterno, poteva sembrare che non fosse successo niente.
 
Niente sarebbe successo per alcune ragazze.
 
Per altre ancora sarebbe successo anche troppo.
 
Ma per una come la Molinari qualcosa era certamente successo.
 
Ed era successo che lei aveva provato dell’attrazione fisica per quell’uomo.
 
Attrazione così sbagliata e malsana, ma che stava per riaccendersi con la scomparsa della deturpante zazzera.
 
Spostò lo sguardo sul petto dell’uomo, come se fosse stata attirata a puntare l’attenzione su quella specifica parte del corpo, e…
 
Che schifo!
 
Storse le labbra, alzò un sopracciglio e guardò l’insegnante negli occhi:-Questo è un altro dei suoi tentativi?
 
Marco portò lo sguardo sulla camicia azzurra che portava aperta sul petto, lasciando intravedere i peli da orso.
 
Molto trash, bisogna dire.
 
Davvero un tocco da tamarro.
 
L’uomo si lisciò il petto con una mano e assunse un’espressione candida, quasi innocente:-Veramente no.
 
Sembrava quasi vergognarsi. Anzi, sembrò offeso dalle parole dell’alunna.
 
Povero pavone vanitoso, qualcuno aveva criticato la sua coda maestosa.
 
-Mi scusi, non avrei dovuto permettermi.
 
Francesca assunse il tono più dispiaciuto dell’universo, ma nella sua mente si faceva i complimenti.
 
3 a 1.
 
Un punto per la Molinari, finalmente.
 
Ecco la reazione uguale e contraria che stava tanto agognando. Ed era arrivata repentinamente e inaspettatamente; quasi non ci credeva.
 
-Hai tagliato i capelli?-, le domandò il professore cambiando argomento, com’era solito fare, e ponendo la questione con fare disinteressato mentre riponeva la lista della spesa nella ventiquattrore.
 
Francesca lo osservò arcigna.
 
Pensava di far le moine a una come lei? Pensava di addolcirsela perché avevano un segreto e aveva paura che lo divulgasse?
 
Era ovvio che avesse tagliato i capelli, perché dover fare una constatazione così stupida?
 
-Anche lei, vedo.
 
Ecco, la Molinari era finanche più stupida di quel broccolo che le stava innanzi.
 
Fu una mossa azzardata, poco delicata. Soprattutto dopo quel che era accaduto.
 
Ma era tutta colpa di quella zazzera.
 
Quella zazzera che era andata via.
 
Francesca la vedeva sporta al finestrino di un treno sbuffante, partire e sventolare un fazzoletto bianco; lei rincorreva invano la zazzera, correndo dietro ad un treno più veloce di lei.
 
Magari avrebbe potuto scoprire dove l’uomo aveva tagliato i capelli, frugare nel cestino del luogo del misfatto, ritrovare la zazzera e incollarla sul cranio del prof con della colla vinilica.
 
O avrebbe potuto sempre rubare i capelli di qualche cadavere per cucirli sulla testa dell’uomo.
 
O avrebbe potuto comprare una parrucca. Semplice, veloce, indolore.
 
O avrebbe potuto ricattare il professore e costringerlo a indossare una bandana che l’avrebbe fatto sembrare un uomo uovo.
 
E avrebbe potuto così far dimettere la sua sanità mentale da un ospedale psichiatrico e farla ritornare a casa, nel suo cervello, e organizzare persino una festa per la bentornata.
 
-Stai davvero bene così-, le disse alzandosi.
 
Fanculo tutti i suoi buoni propositi!
 
Francesca si guardò attorno e vide l’aula deserta; l’insegnante di sostegno e il suo alunno avevano già fatto i bagagli e sgomberato l’area, lasciando il professore e l’alunna da soli.
 
Azione. Reazione.
 
Uguale e contraria.
 
Uguale?
 
Apprensione.
 
Interessamento disinteressato.
 
Contraria?
 
Il professore aveva puntato sulla sanità fisica e mentale della sua alunna, a fin di bene. L’aveva salvata dalle grinfie di un ipotetico molestatore e l’aveva ricondotta sana e salva, seppur ubriaca, a casa, raccomandandole di non bere più e di stare più attenta al suo vestiario.
 
Ottimo.
 
Una reazione uguale.
 
Doveva pertanto utilizzare apprensione e interessamento disinteressato, come aveva fatto con lei il suo insegnante.
 
Ma doveva essere anche contraria.
 
E il contrario di fin di bene, è fin di male.
 
Osservò il corpo atletico dell’insegnante, le sue spalle larghe, la leggera barba sulle guance; osservò tutto, tranne i suoi occhi.
 
Gli occhi di quell’uomo erano letali e non l’avrebbero di certo aiutata nella sua reazione a fin di male.
 
Francesca si avvicinò, per quanto ancora potesse avvicinarsi, e si bloccò a un centimetro dal suo volto.
 
Portò le mani sul petto dell’insegnante e lo sentì irrigidirsi sotto il suo delicato tocco.
 
Chiuse un bottone.
 
Poi un altro.
 
Con lentezza, indugiando.
 
-Adesso sta davvero bene anche lei.
 
Poi si voltò, sparendo in pochi attimi dalla vista quasi ormai annebbiata dell’uomo.
 
Perché la Molinari avesse cercato quella reazione, così contraria ai suoi piani, non lo capì neanche lei.
 
Lo fece e basta, d’istinto.
 
Probabilmente perché una zazzera non c’era più, e questo avrebbe peggiorato molte cose.
 


Ave, popolo!
Mi scuso enormemente per avervi fatto attendere così tanto. Dall'ultimo aggiornamento è passato quasi un mese, chiedo venia, ma non ero a casa e non avevo il pc con me, così non ho potuto scrivere niente.
Confesso che ero titubante, incerta sul cosa scrivere, poi mi son buttata a capofitto sulla prima idea che mi era venuta e l'ho sviluppata.
Spero che apprezzerete il mio lavoro. 
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima :) 
 

 
   

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Capitolo 5
*** La donna è mobile. ***


Capitolo V
La Sindrome di Stoccolma
“La donna è mobile”

 



Lei aveva non solo sfiorato il petto del suo docente di italiano.

Lei lo aveva fatto indugiando sullo stesso, quasi fosse un magnete che l’attirava a sé e dal quale non riusciva a staccarsi.

Cercava una reazione. Certo, ve ne erano infinite tra le quali optare. Ma lei no, scelse la più idiota di tutte.

Perché lei era, si disse a quel punto, un’idiota, altrimenti avrebbe fatto qualcosa di più sensato.

Di più consono.

Di più adeguato.

Di più intelligente.

Insomma, altro, altro, altro. Avrebbe dovuto fare altro.

Dopo il loro incontro nell’aula docenti, Francesca aveva deciso saggiamente di non pensarci.

Ma l’ora di letteratura italiana si avvicinava e il ricordo del misfatto le si palesò tra i pensieri come un fulmine a ciel sereno.

E allo stesso modo e allo stesso tempo si avvicinava Marco Fanti, che entrò proprio nel momento in cui le sue paturnie mentali avevano raggiunto un picco così alto, che alzò lo sguardo su di lui con un’espressione talmente sconsolata che neanche Barbara “lei mi sta dicendo che” D’Urso avrebbe potuto fare di meglio.

Dal canto suo, il docente evitò lo sguardo dell’alunna e posò la sua ventiquattrore sulla cattedra borbottando un buongiorno poco convinto.

Tanto meglio.

Fu però molto convinto e anche piuttosto sadico e glaciale nel dire:-Oggi interrogo.

In aula si levò un brusio di voci incerte e preoccupate: erano stati tutti tratti in inganno dai modi affabili del docente, dalle sue battutine ilari e molto probabilmente anche dalla sua giovane età; tutti convinti che mai quel buontempone di Marco Fanti avrebbe potuto tradirli con un’interrogazione a sorpresa.

E invece.

Sfogliando con disinteresse le pagine del libro di testo il professore domandò se vi fosse qualche volontario.

Come se fossero stati appena tratti in salvo dal peggiore dei gironi infernali, diciotto dei venti alunni della classe IVC puntarono i loro occhi pregni di speranza su quelli già accigliati, allarmati e consapevoli di Francesca Molinari e Gaetano Borbone.

Quest’ultimo incrociò le braccia al petto e sentenziò cinico: -Non mi faccio rovinare la media per voi stupidi ignoranti.

Francesca, invece, si sentì improvvisamente poco interessata alla sua media, ma ugualmente restia ad affrontare quell’interrogazione. Per un ben più grande problema.
Osservò bieca per un breve frangente di tempo il suo insegnante, lo sguardo le cadde sul suo petto, lì ove il giorno precedente aveva posato le sue dita e si voltò di scatto, implorante, verso Gaetano.

-Tano, ti prego. Offriti volontario.

Lui alzò in volo le sopracciglia esterrefatto. Come poteva lasciarlo solo lungo la strada verso il patibolo?

La Molinari colse i suoi pensieri e specificò in un sussurro: -Sto cercando di evitarlo.

Gaetano non riuscì a domandarle chi o cosa specificamente stesse evitando, perché la voce dell’insegnante si impose perentoria su quella flebile di lui: - Borbone e Molinari che ne dite di venire a chiacchiere qui, alla lavagna?

Francesca non riuscì a voltarsi e continuando a guardare il volto amico di Tano gli chiese: -Che facciamo?

Perché lei quella testa di canfora.

Quel maniaco sessuale.

Quel maniaco che era divenuto per chissà quale scherzo del destino anche sensuale.

Quel tocco di manzo dagli occhi verdi e dalla voce calda, voleva evitarlo.

Perché lei era un blocco di marmo. Un blocco di marmo che quel vulcano eruttante lapilli e sorrisetti canzonatori del suo insegnante fece irrimediabilmente scogliere nell’abitacolo della sua auto qualche sera addietro.
E lei, in seguito al suo passaggio di stato da solido a liquido, si era addirittura permessa un gesto istintivo che le stava costando caro. Ed un gesto istintivo equivaleva ad un gesto non da lei.
Si stava trasformando in un animale, tutto istinto e bisogni primari.
Con quella cavolo di reazione uguale e contraria, si rese conto, aveva spedito con un transatlantico il suo raziocinio verso il Nuovo Mondo.

Dunque, stare a contatto con lui significava rinunciare non solo al suo cinismo e alla sua razionalità, ma anche e soprattutto alla sua integrità psico-fisica. E lei, che era già abbastanza psicolabile di suo, sperava di evitare un ulteriore peggioramento.

Un voce però le venne incontro. Un Simone di Cirene pronto ad aiutarla a portare la croce e a spartirne i dolori nella sua personalissima Via Crucis: Gaia Fallani.

Un momento.

Gaia Fallani?

Quella Gaia Fallani?

La tipa che pensava Andreotti fosse ancora vivo, magari ancora imbambolato davanti a una Paola Perego confusa e sconcertata?

-Prof, non è giusto: doveva avvisarci-, disse lei con una voce che parve alla Molinari stranamente imbronciata.

Cos’era quella spasmodica voglia di farsi interrogare?

Francesca smise di osservare Tano e si voltò verso Gaia con una curiosità che la sorprese.

-Oggi c’è anche stato il compito di biologia- fece sapere al loro insegnante Stefano Olmi, lo sportivo della classe che di certo non aveva studiato né per il compito di biologia, né, men che meno, la letteratura italiana.

-Ragazzi- il tono dell’insegnante non ammetteva di certo repliche, -Per oggi vi avevo assegnato dei compiti. Sono o non sono stati eseguiti?

-Sì, ma…- provò Gaetano.

-Niente ma-, sentenziò glaciale l’insegnante con un gesto della mano per interrompere sul nascere qualsiasi protesta, -Vi avevo o non vi avevo detto di essere dinamici, con me?

Francesca lo osservò rapita.

Improvvisamente.

Piacevolmente.

Inevitabilmente.

Incommensurabilmente.

Rapita.

Deglutì.

E ora cosa diamine stava facendo?

Certo, l’odio che precedentemente provava per quell’uomo poteva essere incanalato verso qualcosa di positivo, fungendo da una specie di incentivo per motivarla e portarla a fare sempre meglio. Tutto questo per potergli dimostrare di non essere quell’insetto insignificante che lui riusciva a schiacciare adoperando alle volte anche un solo vocabolo.

E anche per imparare sempre più e con maggior consapevolezza. Ma quest'ultima prospettiva chissà perché venne da lei relegata in secondo piano.

Quell’ammirazione, tuttavia, era fine a se stessa. Anzi, con ogni probabilità avrebbe dovuto ritenerla controproducente.

Perché quando la Molinari iniziava a provare anche solo un accennato e minimo interesse per qualcuno, avrebbero dovuto chiamare “Chi l’ha visto?” e lanciare un appello al fine di ritrovare le sue capacità razionali.
Quando la Molinari si prendeva una cotta mandava in ferie quell’essere cinico, calcolatore, spietato e razionale per lasciare spazio ad una goliardica oca giuliva talmente idiota, incerta, sbadata e goffa da sembrare irriconoscibile.
E quel gioco, ossia il professor Fanti, non valeva di certo la candela, ossia il rinunciare all’essere cinico e razionale che la Molinari sentiva con orgoglio di essere.
Perché la trattava spesso nel peggiore dei modi. E quindi lei avrebbe dovuto rimetterci l’orgoglio.
E perché, diamine, era  pur sempre un suo insegnante. E quindi lei avrebbe dovuto rimetterci anche un’ottima carriera scolastica.

Grazie al cielo però quella che stava affrontando era in realtà una fase intermedia, tra la razionalità e l’a-razionalità, in cui poteva ancora permettersi di salvare il salvabile.

Si sa, per fortuna o purtroppo, la donna è mobile.

Così fece un lungo respiro e pensò che anche se quel che stava per fare, ovvero affrontare gli occhi chiari del suo insegnante, le sarebbe costato un’immensa fatica ed in indicibile sforzo, cercò di portare a termine la sua missione.

-Professore?-, lo chiamò con un tono velatamente incerto facendo svolazzare in aria la mano.

Il professor Fanti la osservò per la prima volta nell’arco della mattinata e inarcò le sopracciglia dandole il tacito permesso di continuare.

-Abbiamo tutti svolto l’analisi de “La locandiera”- e quella era una mezza bugia, perché lei sì, aveva portato a termine il lavoro, ma non avrebbe messo una mano sul fuoco anche per i suoi compagni di classe, -Magari oggi potrebbe essere clemente ed evitare di interrogare …

A quelle parole diciannove teste presero ad annuire incoraggianti osservando l’insegnante.

-…e potrebbe piuttosto optare per una dibatto sulla commedia.

A quelle parole, invece, diciannove teste si voltarono ad osservarla esterrefatte.

-Ma che cazzo dici?!- esclamò qualcuno.

Lei fece spallucce e osservò i suoi comites con gli occhi più innocenti e spaesati del mondo.

Marco Fanti sghignazzò adagiandosi contro la cattedra –I tuoi compagni sono come sempre in disaccordo con te, Molinari, complimenti.

Lei si indispettì e aggrottò le sopracciglia pronta a rispondere, ma lui continuò domandando, sincero e divertito al contempo, ai suoi alunni: -Ma chi l’ha votata?

-Nessuno- rispose quella serpe di Rita Neri:-Era l’unica candidata.

Il risolino snervante del prof le punse l’orgoglio come un spillo.

Eppure fu per lei un pharmakon.

In greco antico il termine pharmakon ha un significato ambiguo. Significa, infatti, al tempo stesso veleno e antidoto.

Un male: perché Marco Fanti l’aveva derisa per quella che le risultò essere l’ennesima ed insopportabile volta. E si sentì un po’ triste per quelle denigrazioni gratuite.

Un rimedio: perché la sua flebile infatuazione venne spazzata via da quell’essere irritante quasi nello stesso momento in cui aveva iniziato a germogliare.

L’aver scampato il pericolo di una folle cotta adolescenziale non lo avrebbe però salvato da un commento indispettito e sarcastico che sarebbe certamente arrivato, se non fosse entrata in aula proprio in quel momento la professoressa di storia e filosofia Elisa Gigli, con il suo stentato metro e trenta e la sua insostenibile leggerezza del non essere.

Come un ectoplasma inanimato trascinò il suo corpo tozzo e vetusto verso la cattedra, ove incontrò lo sguardo curioso del prof. Fanti.

Ed ella, innanzi a cotanto splendore, s’animò d’un tratto.

Come se un anelito di vita fosse passato dal corpo scultoreo del professore al suo, le si ravvivarono gli occhi e un sorriso sghembo le illuminò il volto rugoso.

Ma che era?

Ma che stava a fa?

Ce stava a prova’?

Anche lei!?

Quella donna tanto stramba quanto inflessibile e professionale, era anch’ella intrappolata nella morsa di una trappola mortale che rispondeva al nome e al cognome di Marco Fanti?

Oh, andiamo!

Era bello, d’accordo.

Ma non era l’unico sulla Terra ad essere bello.

Sentivano tutte il bisogno incontrollabile di manifestargli quanto fosse impetuoso e disarmante il suo fascino?

Il professore tossicchiò imbarazzato e la professoressa Gigli, non ancora intenzionata a ricomporsi, gli parlò con una strana voce melliflua.

Che poi professoressa Gigli più voce melliflua era una combo che rasentava il grottesco.

Era un po’ come vedere il Grinch provarci con un adone.

Anzi, anche solo vedere il Grinch provarci e basta.

Rivoltante e ridicolo al contempo.

Quella scena non si stava davvero palesando di fronte ad un’indignata e priva ormai di ogni benché minima certezza Francesca Molinari.

Vero?

-Venerdì ci sarebbe l’uscita didattica ad Amiternum. Ho portato le autorizzazioni. E vi invito, ragazzi-, fece presente ai suoi alunni degnandoli finalmente di uno sguardo-a partecipare dato che sarà molto interessante.

Poteva esserlo. Ma con lei al seguito, Francesca lo dubitava fortemente.

Con la sua prepotenza e il suo carattere suscettibile sarebbe stato, come no, davvero interessante.

Sì, sì, certo. Ai, ai caramba!

-Professor Fanti- disse poi con una strana inclinazione nel tono della voce,-la professoressa Giusti avrebbe dovuto accompagnare i ragazzi della IV C. Lei sarebbe disponibile?

Oh no.

Lui fece spallucce ed annuì poco convinto.

La Gigli, invece, entusiasta come un’ossessa al concerto del suo cantante preferito, gli accarezzò l’avambraccio contenta.

Ma cosa stava facendo?

“Qualcuno la fermi”, pensò Francesca.

Il professor Fanti la osservava con un’espressione abbastanza eloquente. Il divertimento e il fastidio si alternarono negli occhi di lui per una manciata di secondi, finché l’uomo non decise di proseguire ciò che aveva iniziato nonostante l’ingombrante presenza della professoressa.

-Allora, dove sono questi volontari?

La Gigli non dava cenni di cedimento: aveva dato inizio ad una penosa contemplazione dell’uomo che oramai spazientito, sia per l’inesistenza di volontari sia per la tac che stava subendo da un’indecente cougar alla sua sinistra, si era portato una mano sul volto, per massaggiarselo.

Quella posa da dannato dantesco portò il suo livello di fascino ad un livello superiore, un livello che andava ben oltre la fascia di sopportazione della Molinari.
Così attirò l’attenzione dell’insegnante per chiedergli di andare in bagno, in un disperato tentativo di fuga.

Lui dapprima acconsentì, poi, quando lei gli fu accanto mentre marciava verso la porta, la osservò titubante e le domandò:-Molinari, stai per caso fuggendo via da un’eventuale interrogazione?

Come poteva ritenerla capace di una cosa simile?

Lei non sarebbe mai fuggita di fronte ad un’eventuale interrogazione.

Contrariamente, di fronte ad un anomalo surriscaldamento, sì, lo avrebbe fatto.

E stava effettivamente cercando di farlo.

Sentì qualche mormorio alle sue spalle, segno che i suoi compagni di classe si stessero malvagiamente domandando, senza in realtà alcuna un’ombra di dubbio, la stessa cosa. Conscia del fatto che probabilmente la stessero odiando ritenendola una vigliacca codarda, fece nascere una fugace espressione triste sul viso.

Un’espressione che a lui non sfuggì.

-Scusa Molinari-, disse l’insegnante mettendo le mani avanti ed accompagnando le sue parole con un sorriso imbarazzato –Stavo scherzando. Puoi andare.

Una volta sola, mentre a passo spedito avanzava verso il bagno, ammise a se stessa di essere dannatamente confusa: non riusciva a comprendere perché lui l’avesse presa di punta né perché non avesse remore quando si trattava di condannarla alla gogna pubblica.

Prese allora una decisione.

Decise di spazzare via tutte quelle domande.

Decise di smetterla di dargli tutta quella importanza.

Decise che lui non meritava le sue infinite elucubrazioni mentali.

E infine decise di nominarlo suo personalissimo capitalis hostis: nemico mortale.
 

 






 
-L’anfiteatro che vedete alla vostra destra è di epoca augustea-, stava spiegando la professoressa Gigli ai suoi alunni che la seguivano senza la benché minima traccia né d’entusiasmo né d’attenzione.
Gli unici attenti erano quei due noiosi di Francesca e Gaetano.

Gaetano perché secchia.

Francesca perché captò la parola “augustea” e d’un tratto si fece attenta, dal momento che Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto era il suo uomo ideale. E più ne sentiva parlare, più si sentiva felice.
Ma mentre seguiva rapita la sua docente, una mano posata sul suo braccio le arrestò il passo.

Si voltò e si sorprese nel vedere gli occhi azzurri e idioti di Cristiano Mori.

L’uscita didattica ad Amiternum venne organizzata per le tre quarte e, ovviamente, era presente anche la IV A e il suo degno esponente Cristiano Mori.

Degno esponente perché si trattava di una classe di dementi come lui, probabilmente selezionati con cura e relegati tutti fra le stesse quattro mura al fine di non turbare chi aveva optato per quel percorso scolastico per degni e meritevoli motivi, e non perché costretti dai propri genitori a fare una scelta di facciata.

Inutile dire che quella classe le stesse antipatica in blocco.

-Che vuoi?- gli domandò indisponente come sempre.

-Come che voglio?-, rispose alla sua domanda con un’altra domanda che aveva l’inclinazione vocale propria di una domanda retorica –Dobbiamo parlare. A scuola tutti credono che stiamo insieme-, finì indignato.

Indignato?

Lui?

Calma, Molinari.
Calma.

-Cos’è quell’espressione indignata?- chiese infatti lei, decidendo deliberatamente di accantonare l’argomento principale della loro conversazione per concentrarsi su quell’insulso particolare.

Donne.

-Cos’è? Ti faccio schifo?-, rincarò la dose.

Lui ridacchiò un po’ spaesato: -Calma tigre. Non mi fai affatto schifo. Ma ti conosco appena, in realtà solo di vista. Quello che voglio dirti è che mi dispiace far pensare che sono occupato quando invece sono liberissimo. Mi rovini la piazza, capisci?

-Beh, e tu la rovini a me.

In realtà non c’era nessuna piazza da rovinare, nella vita della Molinari.
Magari qualche duna nel deserto del Sahara. Inabitato ed evitato dai più saggi.

-Infatti io sto dicendo in giro che non stiamo insieme. Ma nessuno mi crede. Perché?- aggiunse infine sconsolato.

Lei lo osservò per un po’. Lo sguardo sinceramente confuso e preoccupato del ragazzo la osservava implorante alla ricerca di un responso sibillino.
Ma la risposta non le sembrò né criptica, né così difficile da raggiungere.
Le bastò rendersi conto che si trovavano isolati, in quel momento, lontani dal resto del gruppo. L’una di fronte all’altro e più vicini del dovuto.

-Se magari tu mi stessi alla larga, eviteremmo i pettegolezzi-, le fece notare lei con un tono saccente – Ignorami e basta.

-Ma guarda che è la prima volta che ti vengo a parlare da quando quella cretina ha pubblicato su Facebook le foto. Ti ho ignorata e comunque ne parlano.

Aveva preso ad agitarsi sconsolato e deluso dalla risposta di Francesca, forse perché sperava lei potesse regalargli la chiave per uscire da quel pasticcio creato dalla pseudo amica di lei, Caterina.

Quella stronza.

-Tu continua ad ignorarmi- lo liquidò lei disinteressata alle sue paturnie e muovendosi verso i suoi compagni di classe, -prima o poi si annoieranno. Smetteranno e tu potrai riprendere a scopare serenamente con chiunque ti capiti a tiro, come se non ci fosse un domani.

Francesca era abbastanza lontana da Cristiano Mori quando il ragazzo sibilò uno incerto:-Stronza-, contornato da una insolita e inusuale punta di desiderio.

Tutti ai ripari!
 

 


 
La professoressa Gigli aveva da poco terminato il suo interminabile soliloquio e i ragazzi della IVC iniziarono a girovagare senza meta alcuna tra quel prezioso cumulo di storia antica.

Francesca ne era affascinata.
Sfiorò lievemente un capitello, con dolcezza e timore come quando le mani si posano su tesori preziosi.
Preziosi e fragili. Così fragili che avrebbero potuto sgretolarsi tra le dita.

Marco Fanti, richiamato da quello sguardo colmo d’amore per dei capitelli, le si fermò accanto domandandole:-Imperatore preferito?

Lei si sentì come improvvisamente svegliata da un piacevole sonno e lo osservò di sbieco con lo sguardo leggermente annebbiato, ancora sospesa con la mente tra la Roma antica e il vivido presente.
Fece una smorfia corrucciata senza rispondergli né voltarsi. Riuscì a dire soltanto, e dopo un po’ di tempo:-Non glielo dico.
Capitalis hostis.

-Perché?- chiese lui incrociando le braccia al petto con uno sguardo che passò dal risentito al divertito in un millisecondo.

Dirgli la verità?

Dirgli che lei lo odiava così tanto perché la faceva sentire così sciocca e ingenua e ignorante come mai?

Nessuna verità con la Molinari.

Poteva al massimo concederne qualche mezza.

E gli rispose infatti con una mezza verità che trasportava nel suo tono di voce anche l’altra metà non esternata.
-Perché troverebbe comunque il modo per canzonarmi.

-Perché pensi questo? Non è affatto vero, Molinari.

La sua risposta fu candida. Come se stesse dicendo la verità.

Ma quella non era la verità.

Era lapalissiano che non lo fosse.

Lei si voltò d’impeto verso di lui quasi indignata per le sue parole.

Quel broccolo indicibile.

L’istinto le suggeriva di rispondergli adoperando un tono e una verve simile a quella di Zequila, con un indice puntato verso il petto di lui, e digrignando i denti urlare “Non ti permettere mai più. Mai più. Okay? MAI PIÙ!”. Ma il suo cervello le venne in aiuto come sempre  e la convinse a limitarsi a scuotere semplicemente la testa, un po’ affranta. Bofonchiò un:-Lasci perdere-, e tornò a prestare attenzione al parco archeologico.

Lo sentì sospirare e poi dire:-Scusa Molinari, per qualunque crimine tu mi stia accusando in questo momento.

Lei sbuffò sia divertita sia amareggiata.

Come poteva lui non notare il suo stesso comportamento nei confronti della sua alunna? Come riusciva ad ignorare le battute di scherno che spesso le rifilava e il più delle volte gratuitamente?

Era raro, questo andrebbe constatato, che la Molinari riuscisse ad ispirare a qualcuno simpatia. Eppure lui non poteva permettersi né di palesare l’antipatia che, a quel punto lei si disse il prof Fanti certamente provava, né tantomeno e a maggior ragione poteva ritenerla antipatica, trattandosi di una valutazione che non rientrava prettamente tra quelle che era chiamato a compiere.

O meglio, lui poteva anche ritenere antipatici o meno i suoi alunni, ma certamente non poteva adottare con loro un comportamento piuttosto che un altro basandosi sulle sensazioni che loro gli suscitavano a pelle.

Sarebbe stato infantile.   

Prima che Francesca potesse replicare, lui la precedette:-Il mio è Traiano. E per ovvi motivi.

Scontato.

Tipico.

Si era solo accodato al gregge che belava “Optimus princeps” pensando a Traiano.

Lei lo fissò e si perse per un attimo, forse di troppo, nei suoi occhi.

La donna è mobile.

E muta fin troppo velocemente e facilmente i suoi pensieri su un uomo.

Era o non era stato da poco elevato al rango di capitalis hostis?

La risolutezza di lei si dimostrava di giorno in giorno sempre più fragile innanzi a quegli occhi verdi e grandi; di giorno in giorno, sentiva di rinunciare gradatamente ad una parte importante di se stessa cui non riusciva ancora a dare un nome.

Capitalis hostis.
Capitalis hostis.
Capitalis hostis.
Cercava di ripeterlo come un mantra, senza tuttavia sortire l’effetto agognato.

Perché d’improvviso un desiderio fugace e prepotente e incontrollabile le si affacciò nel cuore.

Avrebbe voluto incontrarlo altrove. In un museo, a teatro, in una biblioteca.

Avrebbe voluto avere quella conversazione con lui in un altro tempo, in un altro spazio.

Avrebbe voluto essergli alla pari: senza alcun freno poterlo mandare al diavolo quando si comportava da stronzo, inveirgli contro fino allo stremo e rovesciargli addosso l’ingente valanga d’insulti che aveva in serbo per lui.

Nella sua immaginazione si vedeva scalciare per liberarsi da quella gabbia in cui il  crudele fato l'aveva rinchiusa.

Marco Fanti non doveva essere il suo insegnante. Non poteva.

“Perché non si dimette?” pensò.
-Perché non si dimette?-, domandò contemporaneamente.

Quando si rese conto dell’indicibile castroneria che aveva appena fatto sgorgare da quella fogna di boccaccia che si ritrovava, Francesca se la tappò cercando di decifrare lo sguardo sorpreso di lui.
Ma mentre studiava i lineamenti del volto perfetto del docente, qualcosa alle spalle di lui attirò la sua attenzione.

La professoressa Gigli marciava incerta, facendosi largo tra i massi e le erbacce, verso una meta ignota. Dietro di lei Ettore Ciaglia faceva penzolare sulla testa dell’insegnante una frasca raccolta chissà dove. Alla sinistra del corteo che si era creato intorno alla Gigli, Stefano Olmi stringeva tra le dita il suo cellulare da cui risuonava la “Marcia Trionfale” de “L’Aida”.

La scena le parve talmente comica che Francesca dimenticò la figura di merda che aveva appena fatto con il suo insegnante.
Lui  seguì curioso lo sguardo di lei divertito e notò quel che stava accadendo a pochi passi da loro, non riuscendo a trattenere una fragorosa risata.

Francesca peccò miseramente e lo studiò con minuzia.

I capelli del docente, biondi sotto la calda luce del sole, gli ricadevano sul viso in morbidi ciuffi leggermente arricciati.

Gli occhi verdi erano così belli e vivi quando si coloravano dell’ilarità del suo riso, che la Molinari si sentì inerme e inerte innanzi al suo aguzzino.

Aveva la merda fino al collo.

E la sindrome di Stoccolma diagnosticata sulla sua cartella clinica.







-Sa, sa…- ripeté Stefano per collaudare il microfono, -sa di cazzo.-, concluse infine lanciando occhiate complici al resto della comitiva.

La professoressa Gigli si fiondò su di lui arpionando il microfono e strappandoglielo con foga dalle dita. Ma il boato ilare che si propagò lungo il pullman animò Stefano che caparbio cercava di tenere per sé l’oggetto della disputa.
Marco Fanti se ne stava sghignazzante ad osservarli alla loro sinistra, ignaro delle occhiate furtive che la rappresentante della IV C Francesca Molinari molto poco ogni tanto gli lanciava.

Lui l’aveva resa un mostro.

Un mostro lussurioso che aveva mandato alle ortiche anni di integrità professionale.

Per un broccolo.

Un broccolo che per giunta la denigrava.

E a lei, masochista, lui piaceva.

Ma che problemi mentali esattamente aveva?

-Ma la smetti di spogliarlo con lo sguardo?-, le sussurrò Matilde seduta al suo fianco come sempre.

La Molinari scattò come una molla super tesa:-Ma che dici? Ma chi io?- domandò puntandosi l’indice al petto con fare teatralmente indignato -Ma chi se lo fila.

La sua amica la osservò parecchio per poi propinarle un derisorio e irritante “pft”.

-Preghiera della sera-, annunciò Stefano al microfono attirando l’attenzione di tutti su di sé.
-Stefano, non essere blasfemo.
-Ma che blasfemo, prof! Ho davvero intenzione di recitare una preghiera.
-Stefano dammi il microfono.
-Prof, solo una preghiera.
-Olmi! Non farmi arrabbiare!- tuonò la Gigli inviperita.
Gli occhi di Stefano ruotarono a 360° prima di lasciarle il microfono. Tuttavia non abbandonò la postazione ed incrociò le braccia al petto sfidando con quel gesto la sua insegnante a fare di meglio per intrattenere i passeggeri.

La Gigli ovviamente non disse nulla di altrettanto divertente e accattivante ed iniziò la sua filippica contro chi quel giorno era risultato distratto e poco attento, facendo presente che aveva notato quanti di loro si fossero imboscati e che aveva per loro in serbo una punizione esemplare.

Tutti però si stupirono e tutti si fecero improvvisamente attenti quando estrasse dalla borsa un taccuino ed iniziò a leggere un elenco di coppie.
La situazione poteva sembrare anche leggermente comica alla Molinari, ma prese a non esserlo sul serio quando la Gigli lesse due dei nomi presenti sulla sua lista nera.
-Cristiano Mori e…questo da te proprio non me lo aspettavo, Francesca Molinari.

Vi furono alcuni applausi, alcuni gridolini di ammirazione.

Ma l’unica cosa che Francesca riuscì a percepire in quel momento fu l’espressione accusatoria e delusa di Marco Fanti.

Non riuscì a concentrarsi su altro.

Vedeva solo i suoi occhi verdi su di lei, tutto il resto scomparve.
 
Fu per lei il punto di non ritorno.

Ave popolo!
Chiedo enormemente venia per avervi fatto attendere cinque lunghi anni. Perdonatemi, cercherò di farmi perdonare aggiornando piu spesso.
Alla prossima!! (che sarà a breve, eh! non tra una decade)











 

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