Character: James
Buchanan Barnes; Steve Rogers; Shuri { nominated }; Sam Wilson {
nominated };
Pairing: Bucky/Steve { stucky }
Warning: slash, mermaid!au;
pre-siero!steve;
La perla dell'oceano
L’arpione è un fischio nel buio che
sfreccia e si aggancia alla cancellata. Un pulsante schiacciato e il
cavo si riavvolge, trascinandolo in alto senza alcun intoppo – i
giocattoli di Shuri, d’altronde, non lo hanno mai tradito.
Lo slancio è un volo di qualche metro
che termina oltre il cancello. Bucky vola, cade e, come un gatto, si
raddrizza per atterrare in punta di piedi e zaino sulle spalle sulla
cima di vetro di una delle gabbie che riempiono quell’ala dello zoo.
Ad accoglierlo soltanto il silenzio, ma
dopo un salto così, non si può biasimarlo quando allarga le braccia
e si inchina a ricevere applausi immaginari. Anche i ladri hanno
bisogno di essere apprezzati di tanto in tanto.
Nessuna delle guardie dello zoo si
trova nei paraggi, è ora di sfamare i leoni nell’ala ovest, ben
lontani dalla zona acquatica delle vasche e degli acquari. È proprio
su uno di questi che è atterrato, sul vetro rinforzato che fa da
tetto a una scenografia di coralli, conchiglie giganti e perle
finte. Tra tutte, però, ce n’è un’unica vera – bianca, splendida e
lucente, come una luna in miniatura –, esposta nel piccolo scrigno
spalancato sul fondale. Per quanto meravigliosa, ha sempre trovato
esagerato esporla in una teca di vetro alta tre metri e larga
quattro (c’è perfino una targhetta con la didascalia “La perla
dell’oceano”), ma è lì per rubare, non per giudicare.
Si inginocchia poggiando lo zaino sul
tetto di vetro, iniziando ad estrarre l’attrezzatura.
È allora che qualcosa, sotto i propri
piedi, cattura la sua attenzione. Due occhi azzurri lo fissano
curiosi; quando si rende conto che non è il riflesso dei propri,
scatta indietro spaventato, dimenticandosi del bordo.
La caduta questa volta è rovinosa, il
contatto duro col terreno gli toglie il fiato e il dolore è così
lancinante che Bucky teme di essersi rotto qualcosa. Non sa come
riesca a sollevarsi in piedi e recuperare lo zaino caduto con lui,
sa solo che deve scappare e andarsene il più in fretta possibile,
prima che qualcuno lo scopra.
Non riesce comunque ad evitarsi di
voltarsi indietro. L’ultima cosa che vede, prima di sparire nella
notte, è un corpo minuto immerso nella teca e una coda immensa.
Bucky torna dopo qualche settimana,
guarito da ogni ferita.
È dovuto tornare.
La notte sogna di occhi azzurri come il
cielo e una coda squamosa dai riflessi blu come il mare e deve
scoprire cosa diavolo ha visto o non se ne darà pace.
Quando le guardie terminano il loro
giro e l’acquario rimane incustodito, Bucky si avvicina, questa
volta dal basso.
Non li ha immaginati, gli occhi azzurri
ci sono davvero, così come la coda.
«Da dove… come… non ci credo…» Si
strofina gli occhi, ma quello che vedeva prima, lo vede ancora: c’è
qualcuno immerso nell’acqua che schiude sottili labbra rosa corallo
buttando fuori bolle d’aria e parole fischiate in una lingua che non
è umana.
Aveva creduto fosse un ragazzino, ma a
guardarlo meglio potrebbero avere la stessa età. Il fisico, però,
appare così minuto che Bucky potrebbe infilarselo in tasca e rapirlo
insieme alla perla… se non fosse per una coda infinita che da sola
occupa metà della teca.
«Sei reale?» Lo chiede alla creatura,
ma anche a se stesso.
Oltre il vetro, gli occhi di cielo lo
fissano in silenzio.
«Ok, facciamo così: se sei reale batti
un colpo contro il vetro.» È ovvio che stia scherzando –
qualsiasi cosa si trovi davanti, non può essere reale – ma gli occhi
di cielo sembrano guardarlo con una certa nota di biasimo, ruotano
verso l’altro e, infine, una mano piccola e palmata batte un colpo
contro il vetro.
«Gesù!» Bucky scatta con un salto
indietro. «Ca – capisci quello che dico?»
Un altro colpetto al vetro.
Il cuore gli sale in
gola.
Avanza di nuovo,
annienta ogni distanza e schiaccia la fronte al vetro. L’acqua
distorce le immagini, arrotonda quello che in realtà è un corpo
fatto di spigoli, con spalle strette e muscoli acerbi; sul collo
sottile vede aprirsi branchie e, al posto delle orecchie, ci sono
membrane verde acqua accarezzate da capelli biondi come il grano.
«Wow…» mormora. Se
quella è la vera Perla dell’oceano, allora la vuole per sé.
Di colpo, però, la
creatura batte una mano al vetro – colpi agitati, che riflettono
l’ansia del suo sguardo – e indica alle spalle di Bucky.
Il fascio bianco di una
torcia che si sta dirigendo nella loro direzione chiude la serata.
La sera seguente Bucky
si presenta nuovamente all’acquario della Perla dell’oceano.
La creatura è di
spalle, poggia contro un angolo della teca e si stringe in un
abbraccio. Sembra così minuscolo e così fragile, ora, che Bucky
vorrebbe poter rompere il vetro, eliminare ogni barriera tra di loro
e abbracciarlo fino a sentire le sue ossa conficcarsi nelle proprie.
Invece lo chiama piano,
sfiorando il vetro. È sufficiente quel gesto perché la vibrazione si
riverberi nell’acqua come un richiamo e la creatura si volti di
scatto, sorpreso.
Bucky non è sicuro di
come funzionino le emozioni con quel tipo di “essere”, ma gli sembra
di scorgere un lampo di gioia.
Poi, però, la creatura
scioglie l’abbraccio al proprio busto e gli nuota incontro a indice
spiegato e rimbrotti fischiati, qualcosa che gli ricorda una pentola
a pressione o l’avviso di una teiera quando l’acqua è abbastanza
calda.
Bucky ha l’atroce
dubbio che gli stia facendo una paternale. «Sul serio? Io vengo a
trovarti e tu mi rimproveri? Si può sapere che cos’avresti tanto da
lamentarti, ancora non ho fatto niente!»
La creatura incrocia le
braccia al petto. Nonostante la figuretta che, se solo fosse (del
tutto?) umana, probabilmente arriverebbe a malapena alla spalla di
Bucky, così impuntato non gli sembra più tanto fragile.
Bucky sorride. «Non ce
l’hai un nome, amico?»
L’indice palmato della
creatura scivola sul vetro. Segna le rotondità di una “S” al
contrario, le stanghette di una “T”, per tracciare il nome Steve.
Bucky dubita sia il suo
vero nome, quasi certamente gliel’avrà dato il proprietario dello
zoo per avere un modo semplice con cui chiamarlo ma, in fondo,
quella semplicità di suono, quella familiarità americana, gli piace.
«D’accordo, Steve. Io sono Bucky.»
Le visite si
susseguono.
Bucky ha dimenticato il
motivo iniziale che lo ha spinto a intrufolarsi la notte in uno zoo.
Sam gli ha dato dell’incapace, non ha creduto alla storia del
tritone (è stata Shuri a chiamarlo così) e si è convinto che sia una
scusa per coprire il suo fallimento; ma finché può passare del tempo
con Steve, non gli importa.
E poi questa volta è
venuto preparato.
Arriva dall’alto:
arpione, anfibi dalle suole antiscivolo, guanti e attrezzatura nello
zaino.
Riprende da dove ha
lasciato la prima volta, tagliando il vetro e aprendo un buco
abbastanza grande perché possa infilarvici una persona.
Quando si sporge a
guardare oltre il bordo, l’odore di acqua dolce lo investe e Steve è
una scheggia marina che nuota fino ad emergere dall’acqua. È
esattamente come quel cartone della Disney (o quasi): il suo (che
non è davvero suo) piccolo sirenetto fa forza sulle braccia per
tenersi sollevato, tira indietro la testa e i capelli biondi
schizzano acqua in faccia a Bucky.
Lui ride e Steve… dio,
Steve gli è così vicino che può sentire perfino il suono dei suoi
pensieri.
«Hey.» Lo saluta.
Steve lo guarda a bocca
schiusa. È arrossito – crede. Ed è la cosa più bella che Bucky abbia
mai visto, mentre lo guarda schiudere la bocca e assaggia parole che
non ha mai pronunciato fuori dall’acqua. Quello che ne esce è un
gemito senza suono, un’acca aspirata e un po’ fischiante che si
incastra male tra i timpani di Bucky e li fa dolere.
Basta poco perché Steve
aggiusti il tiro. «Bh… bu… ck… y…» e la prima parola che pronuncia è
proprio il nome dell’umano, cosa che gli fa scoppiare il cuore di
gioia.
Steve gli sorride e
Bucky allunga una mano verso di lui, con il bisogno di toccarlo e
sentire sotto le sue dita la consistenza morbida dei suoi capelli e
la pelle liscia e umida del volto. Ha aspettato così tanto questo
momento, che ora che può finalmente toccarlo, l’idea di doversi
separare di nuovo da lui lo uccide.
«Voglio portarti via
con me.» la confessione arriva naturale come lo schianto di un
fulmine.
Steve gli stringe la
mano e stranamente le sue dita palmate non sono viscide come si era
immaginato, ma si incollano alla sua pelle con piccoli schiocchi
delle ventose che gli costellano il palmo.
«Non… non essere…
stupido…» zoppica un po’ nella lingua, anche se l’insulto arriva
forte e chiaro. «Se dovessero scoprirti… non so cosa ti… farebbero…»
«Gesù, Steve, sei un
guastafeste!» È una rivelazione a cui segue una risata divertita e
le braccia dell’umano che trovano posto intorno alle spalle del
tritone. Lo stringe a sé e non gli importa del rischio di cadere nel
buco della teca o di essere scoperto, non ora che respira il profumo
d’oceano dalla pelle di Steve e incolla il petto contro quello
piccolo e nudo dell’altro. «Ormai ho deciso e non c’è nulla che tu
possa dirmi per farmi cambiare idea: ti libererò Stevie, vedrai.»
Quando Bucky torna, è
pronto a mantenere la sua promessa.
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