Why is a raven like a writing-desk?

di Tabheta
(/viewuser.php?uid=149837)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bittersweetness ***
Capitolo 2: *** Oblivion ***
Capitolo 3: *** Power ***



Capitolo 1
*** Bittersweetness ***




Nella mente di Armin la faccia sghignazzante di Connie appariva a fasi alterne, beffandosi di lui. Non sapeva esattamente come fossero finiti a scommettere in quel modo balordo, ma Armin aveva la consapevolezza di star mettendo le mani in una tana di scorpioni dal momento in cui aveva acconsentito a quel gioco ridicolo. 
Era stato raggirato, vittima di un qualche stupido orgoglio virile che non si era mai risvegliato se non dacché Connie aveva cominciato a fargli degli irritanti versi da gallina appresso – a dir poco ridicoli, come aveva fatto a cedere ad un’ intimidazione tanto ottusa?
Tralasciando l’immaturità dei suoi amici, che quando non erano oltre le mura ad uccidere titani – erano l'ultima speranza dell’umanità per la miseria, si divertivano nei passatempi più demenziali, non poteva prendersela con nessun altro all’infuori di sé stesso: si era messo di sua spontanea iniziativa nella peggiore delle situazioni.
Connie non era esattamente la pallina più brillante sull’albero di natale, era più un tipo d’azione, se avesse dovuto definirlo in un modo dignitoso e non riempirlo di insulti – ipotesi che adesso lo allettava alquanto. Qualcuno doveva spiegargli come gli fosse saltata in mente un’idea così diabolica.
Quando la bottiglia puntò verso di lui un brivido freddo gli passò attraverso la schiena. Sesto senso?
“Armin, ti sfido a rubare i dolci di Levi-taichou.”
Il capitano Rivaille – Levi per i pochi che fossero con lui in confidenza, aveva due punti deboli: la sua ossessione per il pulito e la sua insostenibile passione per i dolci. Sebbene il suddetto facesse di tutto per non darlo a vedere, avrebbe ucciso – immagini raccapriccianti gli si dipinsero nel cervello, per un qualcosa di dolce. La cosa poteva anche sembrare carina applicata a qualunque altro essere, umano e non, escluso il generale Levi. Quel Levi, il massacratore di titani, Levi-ti-uccido-solo-con-lo-sguardo, quel Levi.
Per Armin era una fine atroce. Contava di morire tra le fauci dei titani, non tra quelle del suo stesso superiore – anche se, se avesse dato a Levi del superiore in un contesto pubblico, era abbastanza sicuro che non ne sarebbe uscito poi tanto indenne.
Dopo anni di osservazione, avevano notato che il capitano si faceva recapitare con cadenza settimanale un pacchetto di dubbia provenienza. Non era stato facile dedurne il contenuto. Vista la foga con la quale lo strappava dalle mani di chiunque glielo recapitasse ogni volta, erano partite una serie di scommesse – sì, avevano proprio il vizio, la noia della vita in caserma, quando non si ammazzano titani, può essere anche più mortale. Per Mikasa erano armi di nuova fattura, per Jean delle lettere d’amore, per lui dei rapporti super segreti, per Sasha del cibo prelibato.
Su quest’ultima ipotesi non ci avrebbero puntato un centesimo, finché non beccarono il capitano con le mani nella marmellata – letteralmente. Da quel momento le voci nei corridoi assunsero un tono da presa in giro tale che se fossero arrivate alle orecchie sbagliate, quelle pericolosamente affilate di Rivaille, sarebbero state messe a tacere per sempre.
Ma ciò non avvenne mai, o meglio non ancora. Armin aveva il brutto presentimento che sarebbe stato lui il primo ad assaggiare tale onore. Deglutì rumorosamente, poi si pentì di averlo fatto, ma lo fece senza volere a mezza voce, quindi si diede mentalmente dell’idiota. Strisciava per i corridoi come avrebbe fatto un ninja.
“Se proprio deve succedere che almeno la mia fine sia veloce ed indolore” pensò tra sé e sé mentre si affrettava a raggiungere la camera del capitano. Diede uno sguardo veloce da un lato all’altro del corridoio.
 “Idiota, chi vuoi che ci sia in giro durante la pausa pranzo?” maledizione, aveva di nuovo borbottato tra sé e sé. Si maledisse un’ultima volta ed entrò.
La camera del comandante era, ovviamente, pulita in modo maniacale.
“Si accorgerà sicuramente se qualcuno mette a soqquadro qualcosa.”
Rivaille avrebbe riconosciuto il suo odore, lo avrebbe preso alla gola, ed allora fine del povero Armin. Gli veniva da piangere, inoltre non aveva idea di dove cominciare a cercare, visto che apparentemente non c’era nulla di compromettente a portata di sguardo.
Non fece in tempo a mettere insieme due pensieri che un rumore di passi gli arrivò alle orecchie fin troppo pronte. Non si stupì, aveva già mentalmente firmato la sua condanna a morte qualche pensiero suicida fa. Il suo cervello tornò nuovamente a Connie: quale amico manda un proprio caro al patibolo al grido di “vedrai, sarà divertente”? Cosa c’era di divertente? La parte in cui avrebbe dovuto ridere gli sfuggiva.
Il piano più veloce che il suo istinto di sopravvivenza riuscì a suggerirgli fu quello di nascondersi da qualche parte, da qualsiasi parte. Il luogo più vicino era la scrivania di mogano.
“Kami-sama, fa che non si avvicini alla scrivania di mogano!” Non gli restava che pregare.
Ora, col senno di poi, quale idiota sceglierebbe di nascondersi dietro un minuscolo tavolo? Perché avevano messo nelle sue mani il futuro dell’umanità?
Rannicchiatosi alla meglio, Armin cercò un modo per scomparire come poteva, abbracciato tra le ginocchia e la parete interna della scrivania. Azzerato il respiro, Armin si rese conto che i passi erano doppi.
“Perfetto, pubblica umiliazione” pensò.
Levi entrò sbattendo la porta. Non sembrava essere molto contento di avere ospiti.
“Cosa vuoi? Parla, non mi va di saltare il pranzo.”
Armin rabbrividì come senti il generale appoggiarsi proprio sulla superfice opposta della scrivania. Quell’uomo uccideva titani per la miseria, come poteva non accorgersi di lui?
L’altra presenza si decise solo dopo un breve intervallo a parlare. Dalla voce ebbe una raccapricciante consapevolezza.
“Niente, non mi merito anche io la mia dose di zuccheri settimanale?”
Oddio, oddio, oddio. Erwin. Il generale Erwin. Era finito nel bel mezzo di un incontro privato tra due delle peggiori persone possibili, grazie Connie.
“Non fare lo spiritoso, mi disgusti.”
“Ah sì? Non mi sembri così disgustato di solito quando faccio questo.”
Al ché Armin sentì un suono umido che non gli piacque per niente. Alzò lo sguardo giusto in tempo per notare l’accaduto dallo specchio appeso fra la parete e la scrivania. Adesso era anche un voyeur. Era già arrivata la parte divertente?
“Ti stai divertendo?” no, Armin non si stava divertendo affatto.
“Preferirei mi togliessi le mani dalle chiappe.” Levi scandì per bene le parole.
“E dove le preferiresti, sentiamo.”
Armin voleva morire. Non faceva il comandante un tipo così spudorato, anche perché ci voleva fegato per anche solo pensare di parlare così a Rivaille.
Attraverso lo specchio poteva godere di uno spettacolo che molti avrebbero definito privilegiato. In un mondo come il loro c’era poco da fare gli schizzinosi, un giorno potevi esserci ed il giorno dopo diventare concime per piante. Tanto valeva godersi quel poco di piacere che la vita  riservava agli esseri umani. Non erano altro che un allevamento di animali chiusi tra quattro mura, buoni solo per accoppiarsi tra di loro.
Aveva la gola secca e la sensazione che la temperatura della stanza si stesse alzando pericolosamente. Erwin ed il capitano non sembravano accorgersi di lui, presi in qualcosa di decisamente più interessante.
Inizialmente, un po’ per pudore, un po’ per vergogna, aveva esitato nel guardare attraverso lo specchio, ma dopo un po’ era diventato uno spettacolo impossibile da ignorare. Le mani di Erwin erano saldamente strette al didietro del minore, mentre le braccia di Levi - stentava a crederlo, erano avvolte attorno al collo del comandate e gli stava sussurrando all’orecchio qualcosa che non poteva udire. Giudicò al biondo fosse piaciuto, visto che, sempre afferrandolo per il fondoschiena, lo sollevò violentemente contro la scrivania. L’impatto fu talmente forte da farla sbattere contro la schiena di Armin. Gli tremavano le gambe. Non avrebbe saputo dire se per la paura o per chissà cos’altro. E dire che tutto quello era cominciato per un motivo così stupido. 
“Vuoi ancora andare a pranzo?”
“La tua vista mi ha fatto perdere l’appetito” gli disse mentre con la lingua gli andava a solleticare l’orecchio. Erwin emise un grugnito improvviso che per poco non gli fece prendere un colpo. Un secondo e stava già armeggiando con i pantaloni del moro. Dal suono persistente delle cinture Armin capì che non se la stava cavando troppo bene. 
“Lascia ti faccio vedere io come si fa” sbuffò Levi spazientito, scendendo dalla scrivania e sparendo dalla visuale, già di per sé minima, che gli era consentita dallo specchio.
Armin aveva già capito dove voleva andare a parare. Stavolta le cinture saltarono come dovevano. Nonostante non riuscisse a vedere quello che Levi stava facendo, i mugugni del comandante ed i suoni ovattati erano inconfondibili. Le guance di Armin si colorarono di tutte le sfumature di rosso esistenti, costringendolo a distogliere lo sguardo dallo specchio per appoggiare la testa sulle ginocchia. Stava ancora aspettando la parte divertente.
Finché un ennesimo rumore di passi di carica provenne dal corridoio. Levi alzò la testa quanto bastava perché il suo profilo tornasse a riflettersi sulla superficie di vetro ed Armin potesse vederne le guance ossute leggermente congestionate. 
“Cosa c’è adesso?”
Non sembrava affatto scomposto. Il suo tono era asettico come al solito, se  non avesse assistito alla scena di poco fa avrebbe stentato a credere fosse mai avvenuta. 
“Il dovere chiama.”
“Pensa a tirarti su i pantaloni piuttosto.”
Erwin fece giusto in tempo a ricomporsi prima che Eren cominciasse a bussare alla porta della stanza di Levi. 
“Entra.”
“Taichou, Armin sembra sparito, non riusciamo a trovarlo.”
Armin avrebbe voluto ridere, se non fosse stato terrorizzato a morte. La sorte sapeva essere beffarda. 
Eren, non cogliendo minimamente l’aria di ambiguità che aleggiava nella stanza, si limitò poi a salutare come se nulla fosse il comandante.
“Signore, vedo che anche lei ha sentito le notizie.”
Provava pena per Eren se pensava che la sua scomparsa potesse essere di una qualche rilevanza per gli alti gradi del corpo di ricognizione.
“Sì ho sentito, riposo soldato.”
“Sei venuto a disturbarmi per questa stupidaggine?” 
Vide Eren boccheggiare un attimo ed un po’ si sentì in colpa per aver trascinato anche lui in quella situazione ambigua. 
“Ecco, Hange-san mi ha detto...”
“Va bene, va bene, sto arrivando.” Levi non gli diede il tempo di finire che si avviò avanti a lui fuori dalla stanza. Erwin, sorridendo – un sorriso inquietanti dei suoi, si girò guardando verso lo specchio. Gli sembrò che i loro sguardi si incrociassero nel riflesso, prima che si dirigesse con gli altri due fuori dalla camera. Aveva immaginato tutto vero?

*

“Dove hai detto di averli trovati?”
“In un cassetto interno della sua scrivania.”
“E dire che mi vedevo già la vittoria in tasca” piagnucolò Connie.
Non vedeva l’ora di mettersi a letto, anche se aveva la sgradevole sensazione che quanto aveva visto non avrebbe abbandonato il suo sonno per molto tempo.
“Prima il capitano Levi ti cercava, comunque. Io mi sono inventato che avevi il turno di piantonamento. Il comandante Erwin sembrava divertito, non so per quale ragione.”
Connie non capì perché Armin fosse divenuto pallido come un cencio.
 
 




*********
Ehilà, mi sembrano passati secoli dall'ultima volta, ma chi l'avrebbe mai detto eccomi qua!
Se non fosse stato per l'organizzatrice di questa challenge probabilmente questa schifezzuola non avrebbe mai visto la luce :')
Ci tengo a premettere che la seguente fanfiction è volutamente demenziale, la mia speranza è di non essere crollata nell'ooc, ma ai lettori l'ardua sentenza. Se vi siete divertiti lasciatemi un vostro parere e, se kami-sama mi assiste, alla prossima one-shot!
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Oblivion ***


Stavolta le premesse le piazzo prima che cominciate a leggere u.u
Allora: spoiler lievi sul passato di Levi, in caso non aveste letto il suo spin-off (recuperatelo!!). Vi segnalo, inoltre, che sono presenti accenni Erwin/Levi, perché ho un problema di addiction e non so tenermi a bada ahahahah
Detto ciò, la storia risponde ad un prompt su un ipotetico attacco d'ansia del personaggio. Ovviamente, quando il personaggio in questione si è rivelato essere Levi non ero troppo convinta, ma poi mi sono detta, perché no, in fondo anche lui è umano (IN FONDO). 
Buona lettura! <3

***






Piano. Un respiro, poi un altro. I minuti si dilatavano e gli sembrava che un singolo fiato durasse ore. Non si era mai soffermato a pensare a quanto fosse difficile un atto altrimenti così spontaneo, a quanti muscoli occorresse mettere in funzione – e sentiva lo sforzo in ciascuno di loro, poteva giurarlo.
Levi era piccolo, ma schiacciava giganti e quello era sufficiente a renderlo l’uomo più imponente del mondo. Eppure per la prima volta aveva sentito un senso di oppressione così forte da fargli perdere l’equilibrio e farlo accartocciare a terra. Lui, che pur di non piegarsi davanti a qualcuno o qualcosa sarebbe piuttosto morto seduta stante.
I suoi arti, i suoi muscoli, di cui si era sempre fidato – doveva loro la vita, lo stavano abbandonando. Si contorcevano come serpi, non obbedivano al loro padrone. Era arrabbiato, così arrabbiato, voleva gridare la sua frustrazione, ma non riusciva nemmeno a stringere i pugni. Perse infatti la forza in tutto il corpo e si afflosciò come un ramo secco.
Tutto ciò che riuscì a vedere, prima che i sensi lo abbandonassero, furono i volti dei suoi compagni – no, non poteva abbandonarli di nuovo, ma le loro voci sembravano lontane miglia e miglia.


*


Rivaille riaprì gli occhi in un bagno di sudore. Il suo letto era un campo di battaglia: aveva mandato le coperte da ogni parte. Il vento ululava fuori dalla finestra serrata. Si trovava nella sua stanza. I dintorni familiari gli fecero tirare un sospiro di sollievo, ma non lo calmarono. Il suo cuore correva a mille e lui non riusciva a seguirlo. Non era più un ragazzino: gli incubi li viveva da sveglio e spesso erano anche peggiori di quanto la sua immaginazione avrebbe mai potuto partorire.
Ed allora perché i battiti non rallentavano?
“Rivaille!” era un suono reale.
“Levi!” continuava.
Non riusciva a trovare la voce per rispondere. Sentì la porta sbattere ed all’improvviso aveva due braccia posate sulle spalle. Levi sussultò leggermente, come se si fosse svegliato solo ora.
“Erwin.”
“Ti ho sentito gridare.”
“Non ho bisogno del tuo aiuto.”
Fece per tirarsi su dal letto, ma i tremori alle braccia lo fecero desistere. Non voleva apparire debole, anche se sapeva che Erwin se ne sarebbe accorto in ogni caso. Aveva come un sesto senso per qualsiasi cosa riguardasse i suoi uomini.
Erwin cercò di metterlo a proprio agio ripristinando le distanze che erano state violate dall’urgenza del momento.
“Meno male” disse solo, sedendosi su un lato del materasso.
Levi era in quiete adesso. Come una zattera dopo la tempesta, la sua mente oscillava beandosi di non essere turbata da alcun pensiero. Il suo silenzio prolungato gli fece guadagnare un’occhiata intensa del comandante, che lo invitava tacitamente ad aprirsi con lui.
“Questa è la prima volta che mi fai entrare nella tua stanza” – non per altri intenti, Levi completò mentalmente il significato di quella frase.
“Ti si addice. Anche tu sei così essenziale.”
“Ho sognato di quel giorno.” Sputò fuori mettendo a tacere quel superfluo scambio di parole, dando di fatto ragione all’osservazione di Erwin.
Il comandante gli prese la testa tra le mani. Levi fece per divincolarsi da quel contatto fisico invadente ed inaspettato, ma le poche forze che aveva a disposizione non furono sufficienti.
“Che cazzo stai facendo?” lo ammonì ad un palmo dal naso.
“Tu perché uccidi i titani, Levi?”
Svegliarsi, cacciare, dormire. La vita ciclica della bestia in gabbia non gli apparteneva più da tempo, ma non poteva dimenticare. L’oblio non era un piacere riservato agli esseri umani. Dopo aver perso i suoi compagni – a quel punto si era lasciato alle spalle una catasta di morti, aveva capito che nessuno si salvava da solo, per quanto forte potesse essere. Li avrebbe vendicati, avrebbe dato all’umanità una nuova speranza, ma soprattutto non sarebbe mai tornato a quella vita di fogna e di incoscienza, priva del sapore della libertà.
“Voglio essere libero.”
Libero di avere delle persone a cui tenere senza paura di perderle il giorno dopo, libero di volare il più lontano possibile senza essere costretto a fermarsi.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Power ***





 
***





“Ohi! Che state facendo! Disperdetevi!” la voce di Levi li riportò tutti alla realtà.
Il suo cavallo era scappato – o peggio, ma Eren era stato così fortunato da venire tramortito abbastanza forte da risparmiarsi anche quell’eventuale spettacolo.
Decisamente una spalla slogata non era quello che pensava di ottenere dal pattugliamento di quella mattina.
“Corri, cazzo, le gambe ti funzionano mi pare.”
Eren avrebbe voluto rispondergli che sì, poteva correre anche senza diventare sordo, ma non avrebbe mai avuto il fegato di ribattere a quel modo a Rivaille. Stette zitto ed eseguì gli ordini.
Mikasa, alla sua destra, lo aiutava come meglio poteva. Col tempo ci aveva fatto l’abitudine a farsi sostenere dalla propria amica d’infanzia, ed ormai non ledeva più il suo orgoglio, anzi, era grato perché quella era una delle poche sicurezze che ancora aveva. Se mai fosse caduto non sarebbe stato da solo.
Levi, dall’altro lato, teneva il cavallo suo e di Mikasa per le briglie, guidandoli verso una radura boscosa. Dietro di loro infuriava la tempesta: era colpa di tutta quell’acqua se aveva perso il controllo del meccanismo di manovra tridimensionale. Si vergognava di quella figura da recluta di terz’ordine.
Avevano lasciato indietro il solo generale Erwin ad occuparsi della situazione. C’era solo un gigante da poco più di dieci metri, bastava un solo uomo. Era un bersaglio facile, ed Eren era stato ferito come un dilettante. Quello il suo orgoglio non poteva sopportarlo, anche se si sarebbe sentito decisamente peggio se si fosse ferito qualcuno dei suoi compagni. Per quello Erwin aveva ordinato la ritirata: voleva evitare di perdere uomini per un motivo tanto stupido.
A volte si chiedeva se le decisioni di Erwin fossero prese per il bene dei suoi soldati o piuttosto per un suo tornaconto personale. Ad una domanda del genere avrebbe certamente sorriso con quel suo fare impenetrabile e lo avrebbe lasciato nel dubbio: in quel suo mutismo gli ricordava Levi, ma in un modo più capriccioso. C’era sempre un motivo se Levi taceva, che fosse perché le parole fossero superflue o perché l’interlocutore avesse posto un interrogativo troppo stupido per degnarlo della propria attenzione.
Il suono del gigante abbattuto in lontananza lo riportò alla realtà: Mikasa aveva il fiatone, ovviamente era affaticata, per quanto cercasse di mostrarsi il più possibile calma. Levi era evidentemente infastidito da quello spiacevole fuori programma, ed aveva la netta sensazione che appena si fossero fermati si sarebbe dovuto preparare ad una strigliata di tutto rispetto.
La pioggia nel frattempo non aveva intenzione di cessare. I soffi del vento rendevano la loro fuga ancora più faticosa.
“Ci fermiamo.” Il tono di Levi non ammetteva repliche. Eren non voleva fare l’ennesima domanda stupida – non voleva rendere peggiore l’umore già nero del capitano, ma non vedeva dove  esattamente avrebbero dovuto fermarsi.
“Dove, capitano?” Mikasa diede fiato ai suoi pensieri.
“Mi piacerebbe saperlo, ma non ha senso continuare a vagare nella pioggia con un ferito. Soprattutto se vogliamo andarcene via da qui il prima possibile i cavalli hanno bisogno di riposare.”
Da quanto tempo erano là fuori? Eren aveva perso ogni cognizione del tempo. Aveva fatto una bella caduta e si sentiva vagamente febbricitante. Anzi, mentre cercava di sollevare il suo corpo lo trovava fin troppo instabile.
La vista gli si stava offuscando. L’ultima cosa che vide fu la sagoma di un tetto emergere dalla pioggia.



*



Aprire gli occhi gli costò un acuto dolore alle tempie. La prima cosa che il suo istinto gli disse di fare fu di tastare la spalla ferita: faceva un male cane: era ancora vivo.
“Alla buon ora, in ritardo per il tè delle cinque.”
Il sarcasmo del capitano si guadagnò un’occhiataccia di Mikasa. I due erano seduti vicino al fuoco di quella che sembrava la casa di un qualche taglialegna, abbandonata da chissà quanto.
“Che ore sono?”
“E’ notte fonda. Come ti senti?” Mikasa si avvicinò a toccargli la fronte.
“Bene, credo.”
Non voleva dare troppe preoccupazioni a Mikasa.
Ora che si guardava intorno la casa non sembrava avere altre stanze. C’era un unico stanzone compreso di letto e fuoco, segno che colui che la abitava non doveva poi essere un tipo molto esigente.
Solo ora notava i suoi vestiti fradici accostati ad asciugare al fuoco. Arrossì pensando a chi lo avesse spogliato e messo a letto. Era stata sicuramente Mikasa, il suo cervello si rifiutava di immaginare fosse stato Rivaille.
“Lo spero per te, la partenza è fissata per domattina presto.” Sentenziò il capitano, avvicinandosi all’altro lato del letto e scostando le coperte.
“Ehi!” Eren doveva essere suonato più stridulo del previsto.
“Vedi altri letti qui?”
Non poteva controbattere, effettivamente. Ora che era sveglio è stava meglio non avrebbe certo lasciato i suoi compagni a dormire per terra. Levi sembrava quasi divertito da quel suo improvviso scatto di pudicizia. Aveva dormito tante volte insieme ai suoi amici, ma mai insieme al capitano.
Mikasa colse con disappunto il suo disagio. Sollevò a sua volta le coperte e si coricò affianco ad Eren prima che Levi potesse aggiungere altro.
Sarebbe stato meno in imbarazzo se avesse almeno avuto i suoi vestiti, ma temeva che se ne avesse fatta menzione il capitano lo avrebbe preso ulteriormente in giro. Era talmente teso che gli facevano male i muscoli. Era sicuro che tanto Mikasa, quanto Levi percepivano il suo corpo in tensione attraverso le coperte.
Cercava di tenersi impegnato nella speranza che il mattino arrivasse presto, pensava a quello che Rivaille e Mikasa si fossero detti mentre era incosciente. Probabilmente nulla, visto che dubitava i due si intrattenessero volentieri in conversazioni – inoltre era abbastanza sicuro che Mikasa non potesse troppo sopportare alcuni atteggiamenti del capitano, anche se rispettava indubbiamente la sua forza.
Era così strano che in un corpo tanto piccolo vi fosse tutta quella potenza. Eren aveva visto all’opera Rivaille in un numero infinito di circostanze ormai, eppure ogni volta non poteva che rimanere incantato quando un gigante precipitava sotto la furia dei suoi colpi. Osservandolo così, assopito e vulnerabile, non sembrava possibile che le speranze dell’umanità si fossero materializzate nel corpo di quell’uomo.
“Hai finito di muoverti?”
“Non riesco a dormire.”
“Me ne sono accorto, è normale dopo una giornata del genere.”
Eren era grato che Levi non potesse leggere i suoi pensieri, per quanto più volte si fosse ritrovato a dubitare che quegli occhi penetranti non fossero invece a conoscenza di tutto quello che gli passava per la testa. Anche adesso, si sentiva a disagio sotto l’intensità di quello sguardo.
“Domattina, quando anche Mikasa sarà sveglia, voglio scusarmi per quanto successo.”
L’agitazione gli aveva fatto formulare quella frase in maniera più formale di quanto immaginasse.
“Ti ho messo io a letto, ringraziami per quello se vuoi sentirti in pace con te stesso.”
Eren era davvero grato che Levi non avesse accesso ai suoi pensieri. Sfortunatamente poteva vedere la vasta gamma di tonalità che la sua faccia aveva assunto dopo la sua affermazione.
“Grazie.” Riuscì a dire, prima di girarsi dall’altro lato fingendo di rimettersi a dormire ed in realtà soltanto cercando di nascondere l’imbarazzo.  Aveva le orecchie in fiamme.
“Mi hai svegliato per questo?” Sbuffò con tono fintamente scocciato.
Si chiedeva in quale altro modo il capitano avrebbe minato al suo autocontrollo. Non aveva intenzione di dormire, solo di evadere quel confronto troppo intimo perché fosse preparato. Era privo di difese: non contava nulla il fatto che potesse trasformarsi in gigante, quando era di fronte a Levi si sentiva carne da macello.
Rivaille sapeva benissimo che gli sarebbe potuto saltare addosso da un momento all’altro, anzi, forse era proprio quello che voleva fin dall’inizio. Ed Eren non si sarebbe fatto pregare troppo, nonostante il suo cervello gli ricordasse periodicamente la presenza di Mikasa, addormentata lì affianco.
Eren gli si fece vicino quanto poteva con la spalla offesa, cosa che gli fece emettere più di un paio di gemiti di dolore. Levi gli sfiorò l’arto con le dita fredde.
“E’ solo un graffio.”
Sperava bastasse a farlo desistere dal contatto, perché dovunque toccasse sulla sua pelle gli sembrava di bruciare. Ma le sue dita scesero ad accarezzarlo dalla spalla al ventre, libere da qualsiasi resistenza di vestiti.
Perse definitivamente ogni freno inibitore, afferrandogli con forza la testa con l’unico braccio che riusciva a muovere. Si diedero un bacio umido che Eren pregò fosse abbastanza ovattato da non far svegliare Mikasa. Era sicuro che i sensi di colpa lo avrebbero tormentato.
Purtroppo non abbastanza da fargli togliere le mani dal fondoschiena sodo del capitano. Forse aveva dei poteri curativi, perché per un attimo aveva sentito la spalla offesa piena di vita, pronta ad aggiungere una mano a quella già presente sul sedere di Levi. Ben presto il corpo inizialmente freddo del compagno fu contagiato dal calore ancora febbricitante del proprio, nel momento in cui se lo era trascinato sopra. Non ne avrebbe avuto la forza da solo, ma il capitano aveva capito autonomamente dove Eren voleva arrivare, issandosi sul suo ventre pulsante senza troppi complimenti. Non era ancora totalmente sicuro di essere vivo.
 Non si era mai fermato a pensare. In quegli anni non aveva mai avuto il coraggio di razionalizzare i propri sentimenti. Era più facile abbandonarsi all’istinto, senza pensarci troppo – non sapeva nemmeno fino a quanto sarebbe sopravvissuto in fondo, ma sentiva crescere il desiderio come un fuoco dal fondo dello stomaco. Voleva la forza, ne era disperatamente attratto. In un mondo sconquassato come il loro la forza è quello a cui ogni strisciante, disgustoso, parassita si aggrappa, e lui non era diverso.
Era come una falena, Eren, non ne aveva mai abbastanza. Sarebbe potuto bruciare in quel momento, mentre aveva l’illusione di possedere il corpo dell’ultima speranza dell’umanità.




*






La parola all’autrice: se vi state chiedendo quale sia la fine, bhé sappiate che sono tornati tutti e tre sani e salvi a casa, qualcuno più felice degli altri… povera Mikasa, mi sono sentita molto in colpa a farle patire Levi ed Eren ahahahah
Sappiate che questa ship è un mio esperimento, dato che sono della sponda praticamente opposta, quindi fatemi notare eventuale IC <3
 

 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3860122