Love is a dangerous fire

di lady lina 77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentasette ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentotto ***
Capitolo 39: *** Capitolo trentanove ***
Capitolo 40: *** Capitolo quaranta ***
Capitolo 41: *** Capitolo quarantuno ***
Capitolo 42: *** Capitolo quarantadue ***
Capitolo 43: *** Capitolo quarantatre ***
Capitolo 44: *** Capitolo quarantaquattro ***
Capitolo 45: *** Capitolo quarantacinque ***
Capitolo 46: *** Capitolo quarantasei ***
Capitolo 47: *** Capitolo quarantasette ***
Capitolo 48: *** Capitolo quarantotto ***
Capitolo 49: *** Capitolo quarantanove ***
Capitolo 50: *** Capitolo cinquanta ***
Capitolo 51: *** Capitolo cinquantuno ***
Capitolo 52: *** Capitolo cinquantadue ***
Capitolo 53: *** Capitolo cinquantatre ***
Capitolo 54: *** Capitolo cinquantaquattro ***
Capitolo 55: *** Capitolo cinquantacinque ***
Capitolo 56: *** Capitolo cinquantasei ***
Capitolo 57: *** Capitolo cinquantasette ***
Capitolo 58: *** Capitolo cinquantotto ***
Capitolo 59: *** Capitolo cinquantanove ***
Capitolo 60: *** Capitolo sessanta ***
Capitolo 61: *** Capitolo sessantuno ***
Capitolo 62: *** Capitolo sessantadue ***
Capitolo 63: *** Capitolo sessantatre ***
Capitolo 64: *** Capitolo sessantaquattro ***
Capitolo 65: *** Capitolo sessantacinque ***
Capitolo 66: *** Capitolo sessantasei ***
Capitolo 67: *** Capitolo sessantasette ***
Capitolo 68: *** Capitolo sessantotto ***
Capitolo 69: *** Capitolo sessantanove ***
Capitolo 70: *** Capitolo settanta ***
Capitolo 71: *** Capitolo settantuno ***
Capitolo 72: *** Capitolo settantadue ***
Capitolo 73: *** Capitolo settantatre ***
Capitolo 74: *** Capitolo settantaquattro ***
Capitolo 75: *** Capitolo settantacinque ***
Capitolo 76: *** Capitolo settantasei ***
Capitolo 77: *** Capitolo settantasette ***
Capitolo 78: *** Capitolo settantotto ***
Capitolo 79: *** Capitolo settantanove ***
Capitolo 80: *** Capitolo ottanta ***
Capitolo 81: *** Capitolo ottantuno ***
Capitolo 82: *** Capitolo ottantadue ***
Capitolo 83: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


"Levati di mezzo!".

Era iniziata così, la sua discesa verso l'inferno. O forse no, era iniziata prima ma in quel momento, quando Ross aveva pronunciato quelle parole, si era portato a compimento un processo iniziato tanto tempo prima, da prima che Francis morisse.

Levati di mezzo... Voglio andare da lei...

Ross da sempre aveva voluto andare da lei. Aveva creduto di amarla, forse ci aveva provato ma il suo cuore aveva sempre pulsato d'amore solo per Elizabeth. Era solo questione di tempo, Demelza lo aveva sempre saputo.

L'amore vero non vince ogni ostacolo? L'amore vero non è quello che da sempre sa trionfare?

Demelza lo aveva sempre saputo, era stata un ripiego. All'inizio del suo matrimonio era semplicemente felice di essere la moglie di Ross, non si aspettava nulla in cambio da un uomo che riteneva tanto superiore, perfetto e irraggiungibile, era solo orgogliosa che lui l'avesse sposata e ingenuamente convinta che il suo amore per lui sarebbe bastato. Poi gli angoli si erano smussati, si erano innamorati, erano stati felici ed era nata Julia. E ci aveva creduto, aveva creduto in loro due, coppia nata per caso e per i motivi sbagliati ma forse destinata a brillare come una stella. Eppure, anche nei momenti più belli, silenziosa come un fantasma, Elizabeth era sempre stata fra loro due.

Poi Julia era morta e l'incantesimo che si era creato fra loro si era sgretolato. E dopo che era morto anche Francis, il cuore e la mente di Ross erano andati definitivamente verso Trenwith, verso Elizabeth, verso Jeoffrey Charles.

Ross era un uomo buono, generoso, che si faceva in mille per gli altri. Aveva aiutato i minatori, i suoi amici, aveva aiutato Dwight e Caroline a ritrovarsi e si era fatto in mille per Elizabeth. Era una persona dall'animo altruista e votata agli altri. Solo lei veniva sempre dopo tutti, per lui. Lei e Jeremy.

Ross non aveva mai voluto Jeremy ma si era illusa che lo amasse. Si era illusa finché non aveva scoperto che, con lo spettro di due anni di prigione davanti, suo marito aveva pensato unicamente al sostentamento di Elizabeth e Jeoffrey Charles per il periodo in cui non ci sarebbe stato, senza la minima preoccupazione per lei e soprattutto per suo figlio, lasciato con calcolo senza sostentamento e nell'indigenza. Le faceva male pensare a questo fatto, le faceva male esserne venuta a conoscenza tramite altri e soprattutto le avevano fatto male le scuse assurde a cui Ross si era aggrappato.

In fondo, il vero tradimento fisico, non era nell'aria già da tanto? Era una questione di tempo ormai...

Nampara non interessava più, a Ross. Né lei, né Jeremy, né il nuovo bambino che stava aspettando. Nulla di tutto questo lo aveva fermato, quella notte. E ora vivevano sotto lo stesso tetto, in un limbo doloroso dove ognuno stava sulle sue, dove si respirava astio, dove Ross vagava confuso senza sapere cosa fare o dire e lei scattava come una molla alla minima provocazione.

Jeremy, di cui si occupava prevalentemente Prudie, era fin troppo buono e tranquillo per i suoi due anni e mezzo ma avvertiva anche lui la tensione che aleggiava in casa e la notte spesso si svegliava in lacrime.

Lei invece, portava avanti una gravidanza che sembrava non darle più gioia. Era al quinto mese di gestazione, si sentiva perennemente stanca e svuotata di ogni emozione e nemmeno i calcetti del bimbo che aspettava, sembravano regalarle un sorriso. Che vita avrebbe offerto a questo nuovo figlio? Avrebbe avuto un padre? Avrebbe avuto amore? E lei, sarebbe stata capace di ritagliarsi la serenità necessaria a crescere anche da sola due bambini?

Demelza aspettava... Che Ross parlasse, che Ross decidesse, che Ross aprisse la porta per andarsene definitivamente o la chiudesse per restare.

Ma lui sembrava inerme, lontano, perso quanto lei. Lontano da tutti, lontano dalla sua famiglia come lo era, stranamente, anche da Elizabeth.

E Demelza non chiedeva, non osava rompere quel silenzio per la troppa paura che dalla bocca di suo marito uscissero parole che potessero distruggerla definitivamente. E non poteva permetterselo, non poteva crollare, aveva Jeremy e un altro bimbo in arrivo a cui pensare.

E allora si trascinava stancamente per la casa, aspettando che venisse sera e l'oscurità inghiottisse ogni cosa, nella speranza che il nuovo giorno fosse migliore del precedente.

Nel silenzio e nella penombra dell'imbrunire, strofinò con fatica un grosso pentolone sporco di grasso. Era un lavoro che avrebbe dovuto fare Prudie ma la serva si stava occupando di Jeremy che quel giorno non era stato fermo un attimo e lei, troppo spossata dalla nausea, non era riuscita a prendersi cura di lui.

Ross, chiuso in un mutismo impenetrabile, era seduto all'altro lato del tavolo, intento ad osservare una mappa della Wheal Grace. Alzò gli occhi su di lei, sospirò e poi scosse la testa. "Non dovresti farlo!".

Lei lo guardò, con la mente assente e lontana. "Perché?".

"Perché è da stamattina che stai male e non dovresti stancarti".

Lei lo fissò con freddezza. "E' da maggio che sto male, non da stamattina" – disse, intenzionata a ferirlo. "Ma ti ringrazio per l'interessamento" – concluse, sarcastica.

Ross, con un gesto secco, picchiò la mappa sul tavolo. Evidentemente lo aveva capito anche lui che stava cercando di provocarlo per avere una qualche reazione. "Demelza, questo tuo atteggiamento non ci è di nessun aiuto!".

"Nemmeno i tuoi di atteggiamenti, ci sono stati d'aiuto, Ross".

Lui si morse il labbro. Demelza lo conosceva, sapeva quanto si sentisse frustrato, in trappola e in difficoltà in quel momento. Ross era un uomo d'azione, un uomo del fare, ma gli era sempre risultato difficile aprire il suo cuore, parlare dei suoi sentimenti e affrontare le conseguenze dei propri errori.

Demelza era rimasta, sarebbe rimasta finché avesse sentito che c'era speranza per loro. O finché Ross non avesse deciso cosa fare della sua vita, del loro matrimonio e della loro famiglia. Ma lui taceva e lei, che pur conosceva a memoria ogni angolo della sua mente, non riusciva più a leggergli dentro. E quindi cercava di provocarlo, di ottenere una reazione, di spingerlo a parlare, a urlare o a dire qualcosa di dannatamente necessario per loro.

Ross, sfinito in volto quanto lei, sospirò e abbassò il capo. "Demelza, sto cercando di fare del mio meglio".

"Mi sembra che tu non stia facendo niente. Stai quì, zitto! O scappi in miniera e ti nascondi sotto terra come farebbe un ladro... E il tempo passa e mi sembra che, sempre più, io e Jeremy siamo diventati fantasmi fastidiosi per te".

Ross fece per replicare ma sembrava a corto di parole, in difficoltà, al muro. "Tu non sei un fantasma! E nemmeno Jeremy!".

Lei scosse la testa, esasperata. "Siamo invisibili da così tanto noi, ormai... Che tu sia quì, che tu sia in miniera, che tu sia a Trenwith, per noi non cambia nulla, non ci vedi, siamo trasparenti ormai ai tuoi occhi".

"Non lo siete mai stati!".

"E invece sì! Da quando è morto Francis, soprattutto... Ma in fondo anche da prima che lui morisse, a ben pensarci, non hai mai smesso di invidiare la sua vita e il suo matrimonio".

Ross avvolse la mappa, la legò con uno spago e la gettò in una cesta di vimini vicino al camino spento. "Elizabeth era sola ed incapace di provvedere a se stessa e come capo della famiglia Poldark era mio dovere prendermi cura di lei e di suo figlio. Tu avevi me!".

Lei strinse con forza i pugni e poi, con un gesto stizzito, gettò la spugna nel pentolone che stava cercando di pulire. "Te? Quando avevo TE? Quando hai pensato a noi? Come ti avrei avuto in quei due anni di prigione? Elizabeth ti aveva, Elizabeth ti HA AVUTO! Non io, non Jeremy, non il bambino che aspetto". Frustrata, con le lacrime che le pungevano gli occhi, riprese la spugna e ricominciò a strofinare con forza.

E a quel punto Ross si alzò dalla sedia, togliendole il pentolone di mano con un gesto secco. "Ho detto di smetterla! Lo farà Prudie! Sei incinta, dannazione! E non stai bene!".

"Come se ti importasse qualcosa" – urlò lei, mentre ormai le lacrime le bagnavano le guance.

Ross fece per replicare, ormai era furibondo e la rabbia sembrava esplodere da ogni suo poro. Ma fu fermato, provvidenzialmente, dall'arrivo di Jeremy e di Prudie.

Il bimbo, preoccupato di vederla piangere, corse da sua madre. "Mamma" – mormorò con vocina stentata.

Demelza si sforzò di sorridere. "Amore tranquillo, mamma si è presa il raffreddore".

"Ecciù" – rispose lui saltandole in braccio, ridendo.

Demelza lo baciò sulla fronte, rimettendolo a terra. Era dolcissimo Jeremy, un vero piccolo principe azzurro in miniatura. E sarebbe diventato un grande uomo un giorno...

Prudie, quasi timorosa, si avvicinò a Ross. "C'è una lettera per voi. Da Trenwith" – mormorò, guardando Demelza con sguardo triste e pieno di sensi di colpa.

Ross divenne di ghiaccio. E anche Demelza. Lei finse indifferenza, lui prese la busta con un gesto veloce e poi, dopo aver intimato a Prudie di andare via con Jeremy, si sedette nuovamente alla sua sedia.

Demelza, sopraffatta dal dolore ma decisa a essere forte, osservò la busta bianca fra le mani del marito. Si aspettava qualcosa del genere, era ovvio che prima o poi Elizabeth si sarebbe fatta viva. Erano passati quasi due mesi da quella notte maledetta e Ross non era più andato a Trenwith da lei e aveva fatto perdere le sue tracce con le persone che vivevano lì.

Scappava, da lei come da Elizabeth...

Scappava e lei non riusciva più a riconoscere l'uomo che aveva sposato. Dov'era Ross, il Ross forte, fiero e coraggioso? Cos'era successo a suo marito? "Non la leggi?".

Ross sollevò un occhio su di lei. "Suppongo che non dovrei".

"Io invece suppongo che dovresti farlo. Sarebbe... cortese... dopo tutto quello che è successo".

E a quel punto, Ross esplose. Si alzò in piedi, la sedia su cui era seduto cadde con un tonfo sul pavimento e picchiò le mani sul tavolo con violenza. "Cosa vuoi che faccia? Sono quì, con te! COSA DEVO FARE ANCORA???".

Demelza deglutì. Ecco, la reazione era arrivata e lei era talmente sfinita per riuscire a fronteggiarla... E ora dove li avrebbe condotti quell'esplosione di rabbia repressa? "Devi decidere cosa vuoi Ross! Essere onesto con te stesso e con le persone coinvolte in questa storia".

"Sono quì, non ti basta? Il resto si sistemerà, è stata solo una dannata notte Demelza e speravo che tu capissi che non è il caso di fare tutte queste tragedie. È finita, andata! E' successo e non si può tornare indietro, ma ci si può lasciare tutto questo alle spalle, se tu...".

Come se dipendesse da lei, pensò amareggiata... Come se il problema fosse lei... Demelza guardò nuovamente la busta. "Leggi quella lettera! Dopo tutto, lo devi ad Elizabeth... Una qualche spiegazione, intendo!".

Ross le lanciò uno sguardo di sfida. "Lo vuoi davvero?".

"Quello che voglio io conta poco".

Ross la guardò storto e poi, stizzito, tolse la ceralacca e aprì la busta. Lesse quelle che non dovevano essere che poche righe e poi distolse lo sguardo, fingendo interesse per qualcosa di inesistente alla finestra.

"E allora?" - chiese lei, guardandolo insistentemente in viso.

"Vuole che vada a Trenwith, dice che deve parlarmi".

Demelza osservò Ross. Rispetto a quella maledetta notte di maggio, ora suo marito aveva un tono freddo e distaccato. Distaccato da lei ma anche da Elizabeth... "Te ne stupisci?".

Lui la fissò, torvo. "A me stupisce che tu non sia stupita".

Demelza sospirò. "Ross, non le hai detto una parola. Sei andato lì, hai fatto in modo che rimandasse il suo matrimonio con George, hai tradito tutti i voti nuziali che ci siamo scambiati nel giorno in cui ci siamo sposati e poi sei sparito. Certo che vuole parlarti! E onestamente, io la odio ma credo che tu glielo debba! Se non vuoi parlare con me, posso accettarlo! Ma lei non è obbligata a fare altrettanto".

Ross ripiegò la busta, mettendosela in tasca. "Mi stai spingendo... ad andare da lei?".

"Ti sto spingendo a prenderti le tue responsabilità. Prima lo fai, prima forse supereremo questo momento".

Ross scosse la testa. "Sono un uomo sposato, le mie responsabilità sono quì".

"BALLE! Tu stai scappando, Ross".

Lui sussultò, MAI lei era stata tanto diretta e irrispettosa verso di lui. E il suo sguardo ferito sembrava urlare ai quattro venti che lei aveva centrato il bersaglio. "Non sto scappando".

"E allora, va a Trenwith" – rispose Demelza, con sguardo di sfida.

Ross la guardò con malcelato astio. "Andrò domattina" – disse, avviandosi verso la porta della biblioteca dove c'era la brandina che era diventata il suo letto.

Demelza lo guardò freddamente, poi abbassò lo sguardo, riprese la spugna e fece per riprendere fra le mani il pentolone. "Domani...".

Ross fu subito dietro di lei e, nuovamente, le tolse la pentola dalle mani. "Ho detto che non devi farlo! Va a letto! Ora!".

Demelza sussultò. Erano le stesse parole che aveva pronunciato una sera di tanti anni prima, mentre lei indossava un abito di seta azzurro appartenuto a sua madre e cercava un modo per non tornare ad Illugan. Quella sera era iniziato tutto ma ora, sentire quelle parole, aveva un sapore totalmente diverso e amaro. "Ross...".

Lui avvampò e in quel momento lei si rese conto che stava ricordando la medesima cosa. "A letto" – mugugnò, distogliendo lo sguardo.

E lei, a malincuore, fu costretta ad ubbidire.


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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Si sentiva come un condannato a morte, quella mattina, mentre si dirigeva verso Trenwith. Ad ogni passo del cavallo era come se un nodo alla gola gli impedisse sempre più di respirare e l'ansia era sempre più opprimente nel suo stomaco.

Demelza aveva ragione, doveva andare! Lo doveva ad Elizabeth, gli doveva delle spiegazioni e delle scuse. Gli doveva dire cosa lo aveva spinto ad agire come un folle quella notte, cosa provasse e cosa volesse.

La verità però, era che nemmeno lui sapeva cosa si stesse agitando nel suo animo in tumulto. Elizabeth era sempre stata il suo sogno, incarnava la donna ideale da amare e ammirare e rappresentava tutto ciò che per lui era giovinezza e spensieratezza. Poi era arrivata Demelza, sposata per ripiego ma che poi aveva saputo dargli serenità, felicità e un nuovo amore che avrebbe dovuto soppiantare i vecchi fantasmi del suo passato. Era felice con lei, lo aveva reso uomo e padre eppure quell'ombra di Elizabeth, quell'ombra di qualcosa a lungo sognato e mai avuto, era lì, pronta a riespodergli nella mente e nel cuore.

Dopo la morte di Francis si era preso cura di Elizabeth perché certo, era suo dovere come capo della famiglia Poldark ma Ross, in cuor suo, sapeva anche che era stata la sua antica passione per lei a spingerlo sempre più spesso a Trenwith a discapito della sua famiglia, cammuffando il suo comportamento egoista per un atto di generosità disinteressato. Aveva abbandonato a loro stessi, per lunghi mesi, Demelza e Jeremy, adducendo mille scuse. Era stato un pessimo marito e padre per loro perché era sempre impegnato con Elizabeth e Jeoffrey Charles a giocare al marito e padre della sua famiglia dei sogni.

Era quello che voleva? Era Trenwith? Era Elizabeth? Non aveva pensato in quei mesi, lui stesso e vergognandosene un pò, che se Demelza, Jeremy e il nuovo bambino in arrivo non fossero esistiti, lui avrebbe potuto finalmente avere la donna da sempre amata?

Eppure era scappato, dopo averla finalmente avuta! Era andato via, mancando di rispetto a lei, oltre che alla sua famiglia.

Cosa voleva allora?

Che razza di uomo era diventato?

Aveva fatto del male a lungo alla sua famiglia, aveva disonorato, per poi sparire senza prendersi alcuna resposabilità, una giovane vedova, e ora si sentiva come un ragazzino incapace di far fronte alle conseguenze generate dai suoi atti sconsiderati.

Si vergognava di se stesso, tanto... Talmente tanto da chiudersi a riccio con chiunque, in silenzio, aspettando che per magia passasse la burrasca e tutto tornasse come prima.

Demelza aveva ragione anche su un'altra cosa, la miniera in cui passava tante ore da quando quella notte maledetta aveva distrutto le vite di tutti, era diventato il suo rifugio. Come i topi, si nascondeva sotto terra per evitare di vedersi riflesso nella luce del sole e vedere quanto in basso fosse caduto.

Faceva male constatare che lui, che spesso aveva giudicato severamente l'operato di altri, era diventato a sua volta quel tipo d'uomo che aveva a lungo detestato. Non voleva essere così, voleva essere un bravo marito, un buon padre, costruire una famiglia serena accanto alla donna che aveva sposato e reso padre e invece...

E invece la sua mente vagava fra Trenwith e Nampara, fra due donne che si contendevano il suo cuore: una era sua, per legge. L'altra era un suo antico desiderio e Ross non capiva se ora, dopo averla avuta, fosse ancora tale oppure se si fosse trasformata nella fine di un'illusione...

Quando arrivò ai cancelli di Trenwith, il piccolo Jeoffrey Charles che stava giocando nei giardini, gli corse incontro contento. "Zio Ross, mamma e zia Agatha mi hanno detto che oggi saresti venuto!".

Ross si sforzò di sorridere, guardandolo, ricordando quante attenzioni gli avesse riservato in quei mesi e quanto invece avesse ignorato suo figlio Jeremy. "Sì, devo parlare con lei di qualcosa di importante".

"Ti accompagno!" - si propose il piccolo.

Ma Ross declinò l'offerta. Avere accanto il bambino poteva essere una buona scusa per non affrontare certi argomenti, ma quegli argomenti andavano affrontati ed era arrivato fin lì per quello. Non poteva più scappare. "Dobbiamo parlare di cose da grandi, cose molto noiose. Credo che ti divertirai di più quì fuori a giocare".

"Va bene! Sono contento che sei venuto, zio Ross! Era tanto che non mi venivi a trovare, prima era sempre quì da noi".

Ross deglutì. "Mi spiace, ma ho avuto molto da fare in miniera".

"Alla Wheal Grace? Mamma dice che avete trovato un grande giacimento e che ora potrai guadagnare molti soldi".

Ross sorrise amaramente pensando a quanto avesse inseguito quel sogno con Demelza e a come ora tutto apparisse lontano, senza importanza o gioia. "Speriamo..." - rispose, vagamente. "Dov'è la mamma?".

"A letto, in questi giorni non sta molto bene".

Ross si allarmò. "E' malata?".

Jeoffrey Charles alzò le spalle. "Non proprio, ha solo la nausea. L'ha spesso, da inizio settimana".

Sospirò rinfrancato, non doveva essere nulla di grave, solo una banale influenza. "Vado da lei, grazie per la chiacchierata".

Il bambino alzò la manina per salutarlo, mentre si allontanava. "Grazie a te per essere venuto a trovarci!".

Ross annuì, prima di entrare in casa. La servitù lo guardò con aria torva, ma ignorò i loro sguardi. Sapeva che loro sapevano, quella notte aveva buttato giù a calci la porta di Trenwith, aveva gridato come un pazzo e difficilmente quanto successo con Elizabeth e il fatto che aveva dormito lì, erano passati inosservati.

Era stato sulla lingua di quelle persone e oggetto dei loro pettegolezzi per tutti quei due mesi, poteva scommetterci la sua miniera.

Cercò di passare velocemente dal salone principale per evitare zia Agatha che, seduta al suo tavolino, giocava a carte, ma fallì miseramente.

"Nipote, era da tempo che non venivi da queste parti. Troppo, viste le circostanze...".

Ross abbassò lo sguardo. "Buongiorno zia Agatha. Sono quì perché devo vedere Elizabeth" – sussurrò, chinandosi a baciarle la mano rugosa.

L'anziana donna girò una carta dei tarocchi, la osservò, la mise sul tavolo e annuì seria. "Vedere Elizabeth, sì... Certe cose vanno fatte. Hanno la priorità, nipote. E tu hai aspettato anche troppo".

Ross la guardò senza capire se si riferisse a qualcosa di astruso visto nelle carte o se stesse parlando di quanto successo fra lui ed Elizabeth. Fantastico, pure lei sapeva e di certo non se ne stupiva...

Imbarazzato, farfugliò un saluto. E poi salì a grandi falcate le scale.

Quando fu davanti alla stanza di Elizabeth prese un profondo respiro, ricordando con vergogna, passo passo quanto successo fra quelle mura solo due mesi prima, la sua furia, le urla, la litigata e quella passione furiosa che ben poco aveva di amorevole, scoppiata fra loro.

C'era tanto da ricostruire nella sua vita e Ross sapeva che doveva ripartire da quì per farlo. Bussò e quando lo voce di Elizabeth lo invitò ad entrare, si fece coraggio e andò da lei.

Elizabeth era a letto, con i capelli raccolti in una lunga treccia, poggiata con la schiena contro il cuscino e aveva indosso una camicia da notte di seta rosa decorata sul petto. Era bella, bella come quei quadri che si ammirano nei musei...

Eppure ora la vedeva in maniera diversa, aveva smesso di essere un sogno utopistico, l'aveva toccata, fatta sua e aveva spezzato quell'alone di magia che da sempre aveva ai suoi occhi e ora... ora non sapeva ancora cosa provava per lei ma era qualcosa di diverso rispetto a prima.

Elizabeth rimase per un attimo silenziosa quando lui entrò e si avvicinò al letto. Il suo sguardo era muto ed immobile e le sue labbra erano contorte in una smorfia nervosa. "Cominciavo a temere che fossi ripartito per la guerra, come allora..." - disse, in tono sarcastico.

Ross abbassò lo sguardo. "Scusa se sono sparito ma è stato tutto molto difficile per me e sapevo che tu avevi tutto quello di cui avevi bisogno".

"Ti sbagli!" - disse lei, freddamente. "Mi mancava la cosa più importante, mi mancava la tua parola e il suo compimento. Sei venuto quì, hai preso con la forza ciò che volevi e poi sei scappato e se io non ti avessi scritto, oggi non ti saresti ripresentato in questa casa".

Ross non aveva nulla da obiettare, lei aveva ragione su tutto e lui era un pessimo uomo. "Scusa" – ripeté di nuovo – "Devo ringraziarti per avermi scritto oppure non mi sarei mai smosso da dove mi ero rifugiato".

"Non avrei voluto scriverti, Ross! Avrei voluto fare la superiore, avrei voluto odiarti, far finta che nulla fosse successo e sposare George. Ma ho dovuto... E tu ora ti assumerai le tue responsabilità".

Ross sospirò, sedendosi sul letto accanto a lei. C'era tenerezza e gentilezza nei suoi gesti, ora, non era come in quella notte maledetta e tutto quello che desiderava era fare ammenda e magari tornare ad essere amici come prima, perdonandosi a vicenda per l'accaduto. "Elizabeth, credi che potremmo mai superare questa cosa, in qualche modo?".

"No".

"Elizabeth, ti prego!".

Lei gli piantò gli occhi addosso ed in essi ora, assieme alla rabbia, si scorgeva tanta disperazione. "Avrei potuto sposare George, vivere bene, tranquilla, con a disposizione tutto ciò che mi serviva per garantire un futuro a mio figlio. Eppure per te avrei rinunciato a tutto questo se fossi rimasto, se fossi tornato come avevi promesso, se avessi portato a termine quanto iniziato quella notte fra noi. O, in fondo, quanto iniziato prima che tu partissi per la guerra, tanti anni fa".

A quelle parole, ricordando quanta fretta aveva avuto di scappare dopo quella notte maledetta, Ross pensò a Demelza, a Jeremy e al bambino in arrivo. Era tornato da loro, non sapeva cosa lo avesse spinto ad agire così con Elizabeth né cosa lo avesse spinto a tornare a Nampara dopo averla avuta ma il suo istinto e il suo cuore lo avevano ricondotto a casa e immaginava che fosse quello che desiderava, che voleva davvero. Elizabeth era stata una dolce illusione giovanile, Demelza e la famiglia che avevano formato insieme invece erano il suo presente, la sua realtà, la sua vita. E a quella sua vita che amava ma che spesso aveva bistrattato e data per scontata, carico di sentimenti di colpa, era tornato. "Sono sposato, ho una moglie, un figlio e un altro in arrivo. Ho sbagliato a fare quello che ho fatto, ho sbagliato tanto con te quanto con Demelza e ora vorrei solo trovare un modo per superare tutto questo".

Elizabeth lo aveva ascoltato in silenzio, non togliendogli gli occhi di dosso. La sua espressione era seria e contrita e non c'era traccia alcuna in lei, della spensierata ragazza di sedici anni che era stata. "Aspetti un figlio, vero! Anzi, due...".

Quelle poche parole, quella variabile del destino a cui MAI avrebbe pensato, ebbero l'effetto di un terremoto su di lui. Sentì la terra sprofondargli sotto i piedi, la vista annebbiarsi e il baratro aprirsi davanti ai suoi occhi. Le parole di Elizabeth, tanto sibilline quanto schiette, non lasciavano spazio a troppe interpretazioni. No, NOOO!!! Non poteva essere, non poteva dannazione! Se quello era un incubo, sperava di svegliarsi presto. "Cosa stai dicendo?".

Lei gli piantò gli occhi addosso, furibonda. "Sono incinta Ross e Francis è morto da otto mesi! Sono incinta e questo esclude ogni possibilità di matrimonio con George o chiunque altro. Sono incinta, hai distrutto la mia vita e la mia reputazione, hai distrutto l'immagine di me che ho costruito in tutti questi anni! Sono incinta, aspetto TUO figlio e quando George lo saprà, mi toglierà Trenwith per vendetta, usando la scusa di recuperare i debiti di Francis e io mi ritroverò sola, con due figli, in mezzo alla strada e allo scandalo. Ed è tutta colpa tua...".

Sentì le gambe cedergli. E ora? Ora cosa poteva fare? Elizabeth aveva ragione, aveva distrutto la sua vita e adesso lo sapeva, anche quella di Demelza e dei suoi figli. Come avrebbe potuto guardare ancora in viso quelle due donne? O i suoi figli? O chiunque incontrasse per strada? Era il peggiore degli uomini e ora non trovava strade d'uscita per sistemare il disastro che aveva combinato. Non ne trovava perché non ce n'erano "Io..." - balbettò, shoccato.

Lei sorrise freddamente. "Tu ti prenderai le tue responsabilità! Hai capito? E' colpa tua, è colpa tua se la vita di mio figlio sarà un incubo!".

"Cosa vuoi che faccia?" - chiese, rimettendosi completamente nelle sue mani.

"Il padre, il marito, il capo famiglia. Davanti a me, Dio e tutta la nostra comunità".

Ross spalancò gli occhi. Che stava dicendo? "Io sono sposato, ho un figlio e Demelza ne aspetta un altro".

"E nonostante questo, sei venuto a letto con me" – ribatté lei. "Quindi ora, da uomo, farai quello che va fatto".

"Cosa dovrei fare? Ho due bambini, non c'è solo questo che aspetti tu, a cui pensare...".

"Che Demelza sia incinta, non è certo motivo di scandalo, al momento siete ufficialmente sposati. Ma quando la mia gravidanza sarà evidente, allora per me sarà diverso, sarà un inferno e la mia vita sarà distrutta. Sarò additata come una sgualdrina, come la peggiore delle donne".

"Non lo permetterei mai". Ross le prese la mano, la strinse fra le sue e la guardò con disperazione. "E io farò di tutto per aiutarti, tutto quello che mi chiederai. Ma sono e resto il marito di Demelza".

Lei lo guardò freddamente. "Non legalmente".

"Cosa?".

Elizabeth soppesò i suoi pensieri, prima di parlare. "Una volta, hai detto a me e Francis di aver ingannato il Reverendo Halse per poter sposare subito Demelza. Lei non era ancora maggiorenne e tu hai mentito, sostenendo che aveva diciotto anni quando in realtà ne aveva appena compiuti solo diciassette. Questo, se ne farai richiesta, renderà il vostro matrimonio nullo! E una volta fatto, potrai sposare me e legittimare la mia posizione e quella di nostro figlio. Non è quello che abbiamo sempre desiderato, in fondo, dentro di noi?".

Ross la guardò, era incredulo. Ciò che gli aveva appena proposto era crudele, insensibile, completamente folle e lei ne parlava come si parla di un pettegolezzo di mercato. Era sempre stata così? Tanto fredda, tanto algida, tanto impermeabile ai sentimenti e alla pietà... Oppure era la disperazione della sua condizione a farla parlare così? "Elizabeth, che diavolo stai dicendo?".

"Annulla il matrimonio con Demelza, è l'unica cosa che puoi fare per sistemare questo disastro! Io ti avevo detto NO!".

Ross scosse la testa, questo non era completamente vero. "Tu mi hai detto no ma volevi dire sì! Tu mi hai scritto quella lettera, tu hai voluto che io venissi quì e che fossi fuori di me".

"Tu volevi ME!" - urlò lei, contro la sua faccia – "Mi volevi da tanto, io lo so e lo sai anche tu. Mi volevi ed è per questo che sei venuto quì ed è successo ciò che è successo!".

Ross abbassò lo sguardo, nuovamente preda di sensi di colpa. Era vero, era stato un pessimo marito e spesso si era fermato a pensare a come sarebbe stata la sua vita con Elizabeth. Spesso, l'aveva desiderata, con la bramosìa con cui si desidera un frutto proibito. E l'idea che Francis l'aveva avuta e che persino George l'avrebbe fatta sua mentre lui aveva avuto solo languidi sguardi e ammiccamenti da lontano, lo aveva mandato in bestia. In quella notte maledetta avevano smesso di esistere il Ross di Nampara, il Ross della Wheal Grace, il Ross che lottava per gli amici più deboli, il Ross che si ribellava alle ingiustizie, il Ross marito di Demelza e il Ross padre di Julia, Jeremy e di un altro piccolo in arrivo...

In quella notte era diventato un uomo che mai avrebbe perdonato! Mai si sarebbe perdonato! Aveva infranto ogni suo ideale, tutti i suoi proponimenti, era andato contro la logica dei sentimenti e della ragione. Aveva spezzato il cuore della donna che gli era accanto e che lo amava e ora avrebbe dovuto infliggerle un nuovo dolore...

Si chiese se mai, a Nampara, sarebbe tornato il sorriso...

"Elizabeth, quello che mi chiedi è pura follia. Come posso fare questo a Demelza? E i miei figli? Cosa ne sarebbe dei miei figli?".

Lei distolse lo sguardo. "I tuoi figli sono nati all'interno di un matrimonio nullo. Non meritano nemmeno di portare il tuo cognome".

Ross si morse il labbro. Era preoccupato e si sentiva in colpa ma allo stesso tempo i modi di fare di Elizabeth lo irritavano. Stava parlando dei SUOI bambini, dannazione! Non di oggetti di scarso valore, dei SUOI FIGLI! "Avrò mentito a Padre Halse, allora! Ma in questi anni lei è diventata ufficialmente mia moglie, ora è una donna adulta e maggiorenne e abbiamo dei figli! Il nostro, il mio e di Demelza, è un matrimonio! Forse traballante, forse problematico ma io sono suo marito e lei mia moglie e questa è una realtà incontrovertibile".

Elizabeth parve andare fuori dai gangheri. Lo prese per il bavero, strinse forte e lo attirò a se. Era una leonessa in quel momento, una leonessa che stava lottando per la sopravvivenza sua e dei suoi figli. "Me lo devi, tu farai quello che ti ho detto di fare! Demelza sarà la povera vittima, cosa credi? Di farle del male? Tutta la comunità coccolerà la povera figlia di un minatore ripudiata dal marito... Lei se la saprà cavare, è abituata a lavorare! Verso i bambini non avrai obblighi, dopo l'annullamento del matrimonio non avranno più diritto al tuo cognome e non saranno un tuo problema. Io sono stata danneggiata dal tuo comportamento, io e Jeoffrey Charles finiremo in mezzo a una strada a causa tua, se non mi sposerai! La gente ti considererà un bastardo, ma a me non importa e in fondo nemmeno a te è mai interessata l'opinione altrui. Ne parleranno e poi si stancheranno di farlo e le acque torneranno calme e placide, dopo un pò!".

"Non posso farlo" – disse lui, con un filo di voce. Non poteva, non per le voci o lo scandalo che ne sarebbero conseguiti, non poteva perché l'idea di fare una cosa simile a Demelza e ai suoi bambini lo annientava...

Si alzò dal letto, si allontanò da lei arretrando verso la porta e guardandola come se fosse la sua peggiore nemica. "Non posso..." - balbettò di nuovo. E poi uscì, correndo verso le scale, sentendo nelle orecchie le grida di Elizabeth che gli urlavano ancora e ancora che glielo doveva!

Quando giunse nel salone, per poco non si scontrò con zia Agatha che sembrava aspettarlo davanti alle scale.

La donna lo guardò con severità e poi scosse la testa sentendo le grida di Elizabeth. Lo fissò come lo fissava da piccolo quando aveva combinato qualche guaio e poi, con la sua voce gracchiante, lo affrontò. "Certe cose hanno la priorità. Sei un Poldark e quello che è in arrivo è un Poldark. Mi spiace per la tua piccola sguattera e per i suoi bambini ma il tuo posto non è con lei".

Ross non rispose, tutto era sempre più cupo e minaccioso. Tutto era sempre più assurdo...

Come potevano quelle persone che tanto amava e di cui tanto si fidava, parlare a quel modo di Demelza?

Senza rispondere, si allontanò da lei. E una volta in giardino, senza salutare nemmeno Jeoffrey Charles, saltò sul cavallo e fuggì via. Di nuovo...

Ma stavolta lo sapeva, né la miniera né il suo cavallo avrebbero potuto condurlo in un nuovo nascondiglio dove nascondersi come un topo.

Sarebbe stata una fuga breve, prima di ripiombare all'inferno...


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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Mentre tornava a casa, si sentiva come un condannato a morte. Se Ross avesse potuto, si sarebbe sotterrato da solo sotto terra per la vergogna che stava provando verso se stesso e quello che aveva fatto.

In una notte di follia aveva distrutto tutto ciò che di buono aveva costruito nella sua vita. Aveva rimesso in piedi Nampara, aveva costruito una famiglia assieme a una ragazza buona e gentile che lo amava e che gli aveva dato dei figli e tutto, TUTTO era stato spazzato via dalle sue azioni, dai suoi desideri egoistici, dalla bramosìa di possedere qualcosa che aveva sognato intensamente da ragazzo e che non gli apparteneva più.

Ora che ci pensava, Demelza aveva ragione, non era stata solo una singola notte a distruggere ogni cosa. Era da tanto che il suo cuore e la sua mente vagavano verso Trenwith, era da tanto che aveva lasciato da parte le cose importanti e più amate accampando scuse su scuse per correre da Elizabeth, era da tanto che aveva smesso di prendersi cura di sua moglie e suo figlio. Ogni suo pensiero, ogni suo gesto, ogni sua azione era stata votata al benessere di quelli di Trenwith e sul serio aveva abbandonato a loro stessi Demelza, Jeremy e il piccolo in arrivo. Vero, c'erano tanti problemi attorno a lui da risolvere e che lo avevano tenuto occupato, ma da quanto non rideva con sua moglie, da quanto non la baciava e la faceva sentire amata e unica? Da quanto non giocava con Jeremy...? Anzi, ora che ci pensava, non aveva mai giocato con suo figlio, lui. E nemmeno aveva mai accarezzato il ventre di sua moglie che ospitava una nuova vita che si apprestava a venire al mondo in una famiglia ormai distrutta.

E ora ce n'era un altro di bambino in arrivo, quello di Elizabeth. E sarebbe stato il caso di cominciare a pensare seriamente anche a questa nuova realtà! Che doveva fare? Fingere e far finta di nulla o prendersi le sue resposabilità? Aveva messo Elizabeth in un mare di guai che difficilmente avrebbe saputo fronteggiare da sola e lui ne era responsabile. Ed esserne responsabile significava di nuovo scegliere lei a discapito di Demelza.

Non riusciva a concepire di fare quanto gli aveva chiesto Elizabeth ma la voce della sua coscienza gli urlava, come aveva fatto lei poco prima, che glielo doveva.

Elizabeth aveva preteso forse a ragione la priorità ma odiava il modo in cui aveva parlato di Demelza e di Jeremy, sentendosi superiore a lei. Ma se Elizabeth aveva parlato a quel modo, era per arroganza? O perché lui, in fondo, l'aveva portata a pensare di essere superiore a Demelza? Non era questo, che gli aveva ripetuto più volte, sussurrando? Che era lei il suo vero amore, che gli amori veri superano gli ostacoli, che una parte del suo cuore sarebbe sempre stata sua... Non era lui che con gesti e sguardi, le aveva fatto intendere silenziosamente che era lei la donna con cui voleva stare?

Eppure ora, quando da salvare c'era ben poco, si rendeva conto che era il Ross ventenne quello che correva da Elizabeth in cerca di attenzioni, era il Ross adolescente e scavezzacollo che aveva preso il posto del Ross adulto, da quando Francis era morto. Aveva inseguito come uno stupido i suoi sogni di ragazzo, non rendendosi conto che ora era altro che desiderava, che era cambiato e che la sua felicità risiedeva altrove. Aveva cercato in quel passato fatto di ricordi perfetti e felici, giovanili, un presente che fosse idilliaco in egual maniera, senza rendersi conto che la vita vera, che l'amore vero erano altro rispetto ai sogni di un ragazzino che ancora non aveva imparato a vivere.

Guardò al cielo, cercò in esso una soluzione a tutto quel marasma che era diventata la sua vita, ma non trovò nulla. Non c'era soluzione, c'era solo biasimo per se stesso, per ciò che aveva fatto e per l'uomo che era diventato: un uomo che doveva scegliere e non sapeva più nulla, né quale fosse la soluzione giusta, né cosa volesse il suo cuore.

E si sentiva un mostro...

Quando giunse a Nampara, era quasi mezzogiorno. Il sole era alto in cielo e sembrava una di quelle giornate estive perfette dove non ti può succedere niente di male.

La sentì ridere, dal retro...

A passi lenti, per non farsi sentire, oltrepassò la stalla e si affacciò a sbirciare dal muro sua moglie che stava giocando con Jeremy. Sistemavano del fieno che il vento aveva sparso nell'aia e lei rideva... O quanto meno, si stava sforzando di farlo. Le sue labbra sembravano quelle di una persona felice, sorridenti e sbarazzine, ma i suoi occhi tradivano una profonda stanchezza e tristezza. Erano gonfi, doveva aver pianto...

Jeremy, vicino a lei, trotterellava fra le sue gambe lanciandole manciate di fieno che coglieva da terra. Rideva, felice dei suoi due anni e mezzo e completamente all'oscuro di tutto, come era giusto che fosse.

Accanto a loro, borbottando, Prudie legava delle fascine, per niente felice di lavorare col caldo e con lo stomaco vuoto.

Ross rimase lunghi istanti a fissarli, desideroso di unirsi a loro, di ridere con loro e vivere quella quotidianità fatta di piccole cose che forse non si era mai soffermato ad apprezzare. Si chiese se fosse troppo tardi, se si potesse fare qualcosa, se tutto il male che lui aveva fatto potesse essere superato ma si sentì piccolo ed impotente davanti a quei pensieri e rimase immobile, mentre una fitta gli faceva dolere lo stomaco.

Fu Demelza a scorgerlo, con la coda dell'occhio. Smise di ridere e divenne improvvisamente seria, stringendo a se protettivamente Jeremy. Poi spinse il bimbo verso Prudie, facendogli segno col capo di prendersene cura. "Tesoro, vado a preparare il pranzo, tu resta quì e finisci di sistemare il fieno".

Jeremy annuì, rifugiandosi fra le braccia di Prudie. "Sì".

Demelza gli si avvicinò, non dicendo una parola e sorpassandolo prima che il loro bambino vedesse che era tornato. “Entra dentro” – sussurrò quindi, in un soffio.

Ross la seguì silenzioso e ubbidiente come un cagnolino. Era così strano vederla tanto fredda, distante, altera e rigida, lei che era sempre stata dolce e gentile.

Entrarono in casa e per la prima volta da quando era nato, Ross ci si sentì un estraneo. E forse lo era o lo sarebbe stato a breve…

E allora?” – disse lei, poggiando le mani sul tavolo della cucina.

Ross osservò il suo viso reso stanco dal dolore, dalla gravidanza e dalle mille preoccupazioni che le affollavano la mente e si sentì in colpa per il male che le avrebbe inferto nuovamente. Ebbe paura, si chiese se sarebbe stata abbastanza forte da affrontarlo o se sarebbe crollata, gettandolo ancora di più in una profonda disperazione da cui non trovava strade di uscita. Si chiese se essere sincero o se tergiversare ancora un po’ ma si rese conto che mentire non sarebbe servito a nulla se non a farla arrabbiare ancora di più, una volta scoperta la verità. Demelza doveva saperlo e lui non aveva tempo, aveva decisioni importanti da prendere quanto prima. “Siediti” – le disse, in tono gentile.

Sto bene in piedi”.

Ross deglutì. “Forse sarebbe meglio se tu…”.

Demelza lo fulminò con lo sguardo. Era sfinita ma aveva ancora la capacità di tirare fuori una grinta da leonessa. “Non ho voglia di sedermi e non ho voglia di preamboli! Che ti ha detto Elizabeth? Cosa vuole e cosa hai deciso di fare?”.

Ross chiuse gli occhi, non c’era modo di indorare la pillola, non c’erano frasi dolci e gentili che potessero lenire la gravità di quanto stava per dire. “E’ incinta” – disse infine, rendendosi conto di quanto quelle due semplici parole, dette in modo tanto diretto e brutale, avrebbero provocato nelle vite di tutti.

La vide impallidire di colpo, tanto che temette di vederla svenire. “Cosa?”.

Lo ripeté, di nuovo. “Elizabeth è incinta. Aspetta un bambino e il padre sono io”.

Per lunghi istanti Demelza non disse nulla, divenne come di ghiaccio, di pietra. Rimase immobile, non urlò, non pianse, non imprecò, non lo prese a sberle. Rimase solo zitta, come se si fosse estraniata da tutto e tutti e la sua mente fosse fuggita lontana. Il suo viso era immobile, non esprimeva alcun sentimento o reazione, era come se il suo cuore e la sua mente si fossero paralizzate. Si sentì spaventato, di tutte le reazioni che si sarebbe aspettato, era quella che gli faceva più paura. “Demelza”. Tentò di avvicinarsi a lei per scuoterla o per sortire qualche sorta di reazione e a quel punto lei lo guardò con sguardo vacuo e lontano.

Non toccarmi…” – sussurrò, con una voce che non sembrava nemmeno sua.

Demelza”.

NON-TOCCARMI!” – urlò stavolta, allontanandolo bruscamente con una spinta.

Tentò di afferrarla per i polsi, di attirarla a se ma lei, con la grazia di un felino, si divincolò. “Sta lontano da me… Da noi!”.

Spinto dalla disperazione, tentò di nuovo di avvicinarsi a lei. “Demelza, dobbiamo parlare!”.

Gli occhi di sua moglie divennero lucidi, benché sembrasse intenzionata a non piangere. “Di cosa, Ross? Di Elizabeth? Non devi dirmi niente, immagino già perché ti ha voluto a Trenwith e quello che ti ha detto! Vuole che tu ti prenda le tue responsabilità, giusto? Lo pretende, vero? E in fondo non era questo a cui mirava quando ti ha scritto quella lettera, in quella maledetta notte di due mesi fa? Ora ha tutti gli strumenti per averti, sei in trappola. E immagino che tu ne sia felice, ora sei davvero legittimato a correre da lei, a stare con lei e con la tua perfetta famiglia…”.

Ammutolito, senza parole, si rese conto che Demelza aveva saputo capire i sentimenti e le azioni di Elizabeth meglio di quanto lui non avesse mai fatto. "Demelza, come puoi pensare che sia felice? Pensi davvero che avrei voluto una cosa del genere?".

La donna strinse i pugni, appoggiandosi con entrambe le mani al tavolo. "Oh, non lo so! Magari volevi solo una notte di passione o magari volevi la spinta giusta per rimanere con lei definitivamente. Non so cosa vuoi, cosa volevi, cosa vorrai fare! Tu lo sai, non io!".

"Demelza, ascoltami...".

"NO!!!". Lei indietreggiò, coprendosi protettivamente il ventre. "Aspetti un bambino da lei... E io non voglio stare a sentirti! Non voglio scuse, non voglio bugie, non voglio niente. Dimmi solo cosa vuole fare lei e cosa vuoi fare tu".

Ross deglutì. Capiva quanto fosse sconvolta, ne percepiva a pelle il dolore che era anche il suo in quel momento, anche se lei non ci avrebbe mai creduto, e non sapeva cosa fare. "Voglio parlarne con te, con calma".

"Perché?".

"Per trovare una soluzione. Deve esserci, Demelza".

Lei si avvicinò a un vaso di fiori ricolmo di margherite e poi, con un gesto violento, lo scaraventò a terra, mandandolo in mille pezzi. "Aspetti un figlio da Elizabeth! Che soluzione vuoi che ci sia a questo? Vuoi stare mezza settimana quì e mezza a Trenwith? Cenare con lei e pranzare con noi? Sposare entrambe? Vivere tutti insieme da qualche parte per caso? La soluzione ideale sarebbe stata una sola, non correre da lei, ma era più forte di te, è SEMPRE stato più forte di te! E ora cosa vuoi, che io ti dia una soluzione? La chiedi a ME? A me che non hai mai voluto ascoltare e che sono sempre venuta per ultima? La soluzione te l'avrà prospettata Elizabeth! O sbaglio?". Gli si avvicinò, il suo volto era sconvolto e minaccioso, sembrava desiderosa solo di picchiarlo. "E' per questo che ti ha chiamato, giusto? Cosa voleva Elizabeth, stamattina?" - chiese sconvolta e sibillina, come percependo la natura di quanto si erano detti lui e il suo primo amore poche ore prima, a Trenwith.

Ross era annientato, non sapeva come dirle quanto gli aveva suggerito Elizabeth. Gli sembrava una mostruosità e lo era, in effetti, ma oggettivamente era l'unica soluzione possibile per ovviare, almeno in parte, al disastro che aveva combinato. Avrebbe fatto il bene di Elizabeth, della donna che aveva danneggiato, glielo doveva dopo averle precluso ogni altra possibilità... Ma il bene di Demelza? E dei bambini? Per loro, cosa poteva fare? "Credo che si sia rivolta a un avvocato che le ha suggerito una soluzione... Non riesco a trovare altre spiegazioni a ciò che mi ha detto".

Demelza lo guardò, sconvolta. "Quale soluzione?".

"Una soluzione che tutelerebbe lei e il bambino che aspetta".

Sua moglie sorrise, freddamente. "Ovviamente...".

Era sarcastica, disperatamente sarcastica. Possibile che Demelza avesse imparato a conoscere Elizabeth meglio di quanto la conoscesse lui? "Il nostro matrimonio, Demelza, potrebbe non essere valido. O meglio, potrebbe essere invalidato".

Demelza, a dispetto della rabbia, spalancò gli occhi sorpresa e si bloccò. "Cosa?".

"Abbiamo mentito sulla tua età, quando ci siamo sposati. Lo ricordi? E questo, se si facesse ricorso, renderebbe le nozze nulle".

Lei lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite, poi scoppiò a ridere. Sembrava isterica, fuori di se... Non l'aveva mai vista in quello stato e aveva paura. Non le faceva bene tutto quello stress, non ne faceva a lei e nemmeno al bimbo che aspettava. Sperava almeno che Jeremy, fuori con Prudie, non sentisse nulla... "Demelza, per favore, siediti. Sei fuori di te".

Come se non lo avesse nemmeno sentito, lei si appoggiò alla parete e poi, una volta smesso di ridere, lo guardò con freddezza. Non c'era traccia di lacrime in lei, era come se i suoi sentimenti fossero congelati. "Ross, io sono tua moglie! Siamo sposati da cinque anni, abbiamo avuto due figli e ce n'è un terzo in arrivo! E un cavillo non annullerà mai tutto questo".

"Per legge potrebbe" – ammise lui, sconfortato. Era orribile pensare che un semplice dettaglio potesse annullare un matrimonio, un amore e tutto quello che si era costruito insieme in giorni duri, di lacrime e sudore ma fatti anche di amore e risate, di gioia e di nuova vita venuta ad arricchire le loro.

Demelza parlò, con freddezza, la sua voce era metallica. "La legge potrebbe se tu lo vorrai! Elizabeth non può provare nulla e non può ottenere nulla, da sola. Potrebbe farlo solo se tu...". Si bloccò e per un attimo parve vacillare dalla sua freddezza. Abbassò il capo, si accarezzò il ventre dolcemente e in quel momento una smorfia di dolore le attraversò il viso. "Tu fai sempre quel che è meglio per lei... Tu lo farai..." - sussurrò, quasi stentando essa stessa di sentirsi dire quelle parole. Lo guardò, ora smarrita, vedendosi passare davanti ogni azione, ogni parola, ogni atto occorso fra loro dalla morte di Francis.

Si sentì morire, vedendola così. E si rese conto che conosceva a perfezione ogni sua debolezza, ogni suo tentennamento e tutto quello che, in quei mesi, lo aveva spinto da Elizabeth. "Demelza, io non so cosa fare! Non so cosa sia giusto o cosa sia sbagliato! Qualsiasi decisione prenderò, farò soffrire qualcuno".

Lei si toccò il ventre e finalmente una lacrima le rigò il viso. "Non sai cosa è giusto e cosa è sbagliato? Questo bambino è giusto! E quanto vuole Elizabeth e il bambino che aspetta è sbagliato! Ma ormai esistono, esiste tutto questo e tu lo hai creato! E ti conosco, Ross Poldark! Ti conosco bene e quando devi scegliere fra il mio bene e quello di Elizabeth, è lei che scegli! SEMPRE! Perché mi chiedi cosa fare? Perché vuoi ascoltare ME quando di certo, in cuor tuo, hai già deciso cosa vuoi?".

Lui balzò in piedi, come punto da uno spillo. "Io non ho deciso niente!".

Lei calpestò i vetri del vaso rotto, avvicinandosi a lui mentre questi le scricchiolavano sotto i piedi. "E invece sì! Perché se avessi ritenuto folle l'idea di Elizabeth, le avresti riso in faccia da subito e poi saresti tornato da me. E invece sei quì e me ne parli e forse ora ti sembra di non aver deciso niente ma in realtà la tua abnegazione, il tuo senso del dovere, i sensi di colpa per aver distrutto la vita di una donna per bene e i sentimenti che provi per lei ti spingeranno a scegliere lei. Lo so io, lo sai tu... Quando si tratta di Elizabeth, il bene della tua famiglia arriva dopo. Io, i tuoi figli, tutto quello che abbiamo costruito insieme, non contano niente se nei paraggi c'è lei".

Non era così! Non era dannatamente così e avrebbe voluto urlarglielo in faccia che forse sì, aveva ragione, che forse avrebbe dovuto fare quello che aveva chiesto Elizabeth perché se non lo avesse fatto sarebbe stato la causa della sua rovina, ma che non era quello che desiderava il suo cuore. Ora che aveva avuto Elizabeth, ora che aveva toccato con mano ciò che era e la freddezza del suo cuore, si rendeva conto del perché dopo quella notte il suo istinto lo aveva riportato a Nampara, dalla sua famiglia. Si rendeva conto che Elizabeth era un sogno infantile e che tutto quello che voleva era l'amore vero, adulto e sincero costruito con sua moglie. Come poteva dirglielo, come poteva fare in modo che Demelza gli credesse, dopo quello che aveva fatto? Come poteva quando nemmeno nemmeno lui era più capace di fidarsi di se stesso? Eppure c'era una certezza nella sua vita ed era sempre stata Demelza, lei e solo lei era l'unica presenza che aveva ritenuto da sempre incrollabile e insostituibile accanto a se. L'aveva messa da parte, aveva commesso tanti errori con lei ma MAI avrebbe potuto credere che un giorno le sarebbe sfuggita dalle mani. E invece ora aveva capito... La amava ma non era stato capace di prendersene cura.

Se avesse assecondato Elizabeth non ci sarebbe mai stata gioia in quella decisione, per lui, MAI. Ma solo dolore e rimpianto per quanto aveva distrutto da solo... "Demelza, aspetta, lasciami spiegare" – sussurrò, sfiorandole le braccia.

Ma lei si ritrasse con la foga di una bestiolina ferita che scappa dal suo assalitore. Indietreggiò e i suoi occhi si riempirono di una ferocia di cui non l'avrebbe mai creduta capace. "Non mi toccare!".

Non la ascoltò, le si riavvicinò e la prese per la vita. "Demelza".

"NON MI TOCCARE!!!". Lei urlò, si divincolò e lui non riuscì a dire nulla. Non riuscì a dirle né che l'amava, né che nessun cavillo legale o annullamento di matrimonio avrebbe cambiato ciò che lei e i suoi bambini rappresentavano per lui.

"Ti prego, calmati".

"Sta lontano da me" – disse lei, fra i singhiozzi. Poi si accasciò a terra, improvvisamente, come se di colpo le forze l'avessero abbandonata. Si prese il ventre con le mani, si rannicchiò ed emise un singhiozzo di dolore.

Ross fu preso dal panico e in un attimo le fu accanto, in ginocchio. "Demelza, cosa cè?".

"Sta lontano, ora possa" – sussurrò la donna, fra i singhiozzi.

Al diavolo, non si sarebbe allontanato e tutte le sue preoccupazioni in quel momento presero forma. Stava male ed ancora, era lui la causa di tutto ciò. Il dolore che le aveva inferto era troppo per una donna nel suo stato e anche se Demelza era forte, non sarebbe stata capace di sopportarlo. "Ti porto in camera".

"No" – rispose lei, col fiato corto. "Chiama Prudie, non voglio che tu mi tocchi".

Beh, Prudie poteva essere una buona soluzione al momento, l'avrebbe assecondata per non agitarla ulteriormente. "Va bene, corro a chiamarla! E poi andrò da Dwight e lo farò venire quì".

Demelza annuì, senza obiettare. Non ne aveva la forza e capiva anche lei che aveva bisogno di un medico.

Di corsa Ross uscì fuori e, urlando, disse a Prudie di andare dentro e di portare Demelza a letto perché non si sentiva bene. Poi prese Jeremy, lo mise sul cavallo, montò anch'esso in sella e, con la disperazione che aveva preso possesso di ogni sua fibra, andò al galoppo con suo figlio da Dwight.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Aveva prelevato a forza Dwight dal tavolo dove le cameriere avevano appena apparecchiato per il pranzo suo e della sua neo-sposina, senza spiegargli granché.

Con foga, con Jeremy in braccio, gli aveva solo farfugliato che Demelza stava male e aveva dei dolori al ventre che lo facevano temere per il bambino in arrivo e Dwight non aveva voluto sapere altro. Aveva dato un bacio frettoloso sulle labbra ad una preoccupata Caroline, si era fatto sellare un cavallo e poi si era diretto con lui a Nampara.

Galopparono come pazzi costeggiando le costiere che accarezzavano un mare insolitamente calmo e trasparente.

Ross credeva che Jeremy si sarebbe spaventato ad andare a cavallo a quel modo ma il bimbo aveva emesso gridolini felici e divertiti e anzi, una volta giunti alla stalla di Nampara, aveva protestato vivacemente quando lo aveva messo a terra.

Dwight era entrato in casa di corsa e Ross non aveva fatto in tempo a dirgli nulla sulle circostanze che avevano portato a quel disastro e ora si chiedeva come avrebbe reagito il suo amico, se fosse stata Demelza a parlargliene. Non che volesse nascondere a Dwight qualcosa ma si vergognava di se stesso talmente tanto che non avrebbe potuto sopportare di vedere biasimo e muto rimprovero sul viso del suo migliore amico...

Eppure sapeva che, se non l'avesse fatto Demelza, avrebbe dovuto farlo lui. Dwight era un amico, era il medico curante della sua famiglia ed era un ragazzo buono, saggio ed assennato e forse nelle sue parole avrebbe potuto trovare conforto e una soluzione a tutto il disastro che aveva combinato.

"Papà".

Ross abbassò lo sguardo su Jeremy che gli trotterellava intorno mentre al piano superiore Dwight, aiutato da Prudie, si prendeva cura di Demelza. Si sedette sul divanetto del salotto e prese il suo bambino in braccio, facendolo sedere sulle sue ginocchia. "Dimmi" – gli intimò in tono gentile, rendendosi conto che erano rarissime le volte in cui si era soffermato ad ascoltare e a prestare attenzione a suo figli.

Jeremy gli mostrò un piccolo cavallino di legno che teneva stretto nella manina e che aveva preso dal cestone di giocattoli accanto al camino. "Ndiamo?".

Ross gli sorrise, trovando in suo figlio e nel suo volto tranquillo una sorta di pace dell'animo. "Vuoi andare ancora sul cavallo?".

"Sì".

Lui indicò il giocattolo. "Su quello che hai in mano? Forse è troppo piccolino per salirci, no?".

Jeremy rise a quelle parole. "Noooo quetto! Papà, queio grandiscimo!" - esclamò indicando la finestra che dava sull'aia e sulla stalla.

Finse di stare al gioco, lo sistemò meglio sulle sue ginocchia e lo fece saltellare sopra esse. "Così? Vuoi andare così?".

Jeremy rise ancora. "Sìììì". Poi si voltò verso di lui, prendendogli una mano con la sua manina e stringendogliela. "Ndiamo?".

Si chinò su di lui baciandolo sulla fronte, chiedendosi cosa avrebbe fatto del suo ruolo di padre e maledicendosi per tutto quello che stavano passando Demelza e il piccolo in arrivo a causa sua. "Presto Jeremy, presto ci andremo".

"E mamma?".

Ross sorrise tristemente. "Anche mamma, quando starà meglio e sarà nato il tuo fratellino. O la tua sorellina. Mamma sa andare a cavallo meglio di me, sai?".

Jeremy ci pensò su. "E io?".

Gli strizzò l'occhio, poi osservò la manina di suo figlio ancora appoggiata contro la sua. "Quando la tua mano sarà grossa almeno la metà della mia, ti insegnerò come si va a cavallo. Te lo prometto".

"Siiiii". Eccitato, il piccolo lanciò in aria il cavallino di legno che teneva nell'altra manina e il giocattolo cadde in terra, rotolando fin sotto alla credenza.

Ross sospirò, divertito nonostante tutto. Suo figlio con la sua vivacità ed innocenza, stava riuscendo ad isolarlo dal male che lo circondava e a fargli godere di uno sprazzo di buon umore che sicuramente non meritava. "Jeremy, sei un disastro. Ora te lo prendo".

Mise in terra il bambino e fece per chinarsi quando i passi di Dwight, dietro di lui, lo fecero rialzare di scatto. Il medico, seguito da Prudie, scese le scale e poi, con un timido sorriso, gli fece segno di seguirlo fuori casa per parlargli.

Ross annuì, carezzando la testolina di Jeremy. "Il cavallino lo recupereremo dopo. Ora va da Prudie e gioca con lei".

"Sì" – rispose Jeremy, ubbidiente, correndo con quella sua andatura ancora goffa verso la domestica.

Ross gli diede un'ultima occhiata e poi seguì Dwight nell'aia. Il sole era ormai alto nel cielo limpidissimo e terso e l'ora di pranzo doveva essere passata da un pò. "Mi spiace, non volevo disturbare te e Caroline ma era un'emergenza".

Dwight sorrise, appoggiandosi alla staccionata. "Sono un medico Ross e quando ho deciso di diventarlo, avevo messo in conto cose come questa. I medici esistono proprio per risolvere le emergenze".

Ross lo studiò in viso. Dwight sembrava tranquillo e amichevole come sempre e Demelza non doveva avergli detto nulla. O forse non ne aveva avuto la possibilità... "Come sta mia moglie?" - domandò, corroso dall'ansia.

Dwight sospirò. "Demelza si stanca sempre troppo, non sta mai ferma e questo di per se non è un problema ma durante una gravidanza dovrebbe cercare di riguardarsi di più. Le ho dato un sedativo, ora sta dormendo e le contrazioni paiono cessate. Deve stare a letto per un pò di giorni, magari una settimana, servita, riverita e tranquilla. Mi è parsa molto agitata e scossa e non va bene nel suo stato".

"Tenere Demelza a letto sarà dura..." - rispose Ross, vago.

"Sì, decisamente!". Dwight si accigliò. "L'ho trovata stranamente agitata e allo stesso tempo giù di morale. E' strano, non è da lei. E' successo qualcosa?".

Ross abbassò il capo. "E' successo qualcosa...".

Dwight distolse lo sguardo, imbarazzato. "Scusa, non voglio entrare nelle vostre faccende private ma vorrei consigliarti di non agitarla. Ha bisogno di tranquillità e tu sei l'unico che può dargliela. La gravidanza va bene, non ha bisogno di particolari cure a parte pace e riposo, però ci vuole cautela, Ross".

Gli occhi di Ross divennero lucidi e finse che era per il sole. Pace... Come poteva dare pace a Demelza? Come poteva lui, che aveva distrutto ogni cosa e le aveva fatto male più di qualsiasi altra persona sulla faccia della terra? Come poteva ora, come? "Dwight, sei mio amico?".

"Sì, che domande fai?" - rispose il medico, ridendo.

"Lo saresti anche se io avessi fatto qualcosa di orribile?".

E a quella domanda, Dwight smise di ridere e tornò ad essere preoccupato. "Ross, che succede?".

"Ho combinato un disastro e non so come uscirne. Aiutami...".

Dwight lo vide accasciarsi a terra e in un attimo fu al suo fianco, in ginocchio. "Ross, che succede? Stai male?".

Alzò lo sguardo su di lui, chiedendosi se avrebbe capito. Ma come poteva farlo Dwight, se nemmeno lui capiva se stesso e il perché delle sue azioni. "Elizabeth è incinta" – sussurrò, nello stesso scarno modo in cui aveva comunicato quella notizia a Demelza.

Dwight spalancò gli occhi. "Elizabeth? La moglie di tuo cugino Francis?".

"Sì".

"Ma Ross, Francis è morto da otto mesi ormai e lei non mi è mai parsa...".

Ross lo bloccò, anche se immaginava che non ce ne fosse bisogno. Dwight avrebbe fatto due conti e avrebbe capito entro pochi istanti che... "Non è di Francis, ovviamente".

Dwight deglutì. "E di chi, allora?".

"Mio".

"Tuo?". Dwight indietreggiò, inorridito. Poi guardò di sfuggita Nampara, rendendosi conto da solo del perché Demelza stesse tanto male. "Ross, stai scherzando? Dimmi che è uno stupido scherzo!".

Ross scosse la testa. C'era stupore nella voce di Dwight, costernazione. E delusione e rabbia... "Vorrei tanto fosse uno scherzo ma invece...".

"Come hai potuto?".

La voce di Dwight era acuta, fredda. Mai lo aveva sentito usare quel tono e si trovò costretto ad abbassare il capo. "Non so come abbia potuto farlo, è successo e basta. Da quando è morto Francis e anche prima...". Alzò lo sguardo, come cercando comprensione. Che non ebbe... "Era il mio primo amore Dwight ed è rimasta lì, nel limbo. Non l'ho mai davvero dimenticata e lei stava per sposare George e io...".

Dwight lo prese per il bavero, attirandolo a se. "E tu sei un uomo sposato, una persona rispettabile e soprattutto un padre! Da quanto va avanti la tresca fra te ed Elizabeth?".

Ross spalancò gli occhi, inorridito. "Tresca? Dwight, è successo solo una volta".

"Coi fatti... Ma col pensiero, mi pare di capire, eri sempre lì".

Ancora, fu costretto ad abbassare il capo. "Già" – dovette ammettere amaramente.

Gli occhi di Dwight divennero rossi di rabbia. "Con una moglie come Demelza, che ti ama, che ti ha supportato in ogni cosa che hai fatto, anche la più idiota, tu...". Indicò la casa e nel suo sguardo c'era solo rimprovero. "La dentro, in un letto, tua moglie lotta per salvare la vita a tuo figlio! TUO FIGLIO! Che cresceva dentro di lei, mentre lei si occupava del bambino che già avete, DA SOLA, perché tu giocavi all'innamorato con Elizabeth! Non ti vergogni, Ross? Da tutti avrei potuto aspettarmi qualcosa di tanto meschino eccetto che da te...".

Ross si morse il labbro. Certo che si vergognava, avrebbe voluto sotterrarsi da solo sotto terra per quanto aveva fatto e per la sua incapacità ad uscirne. Non sopportava di essere stato squallido quanto e più di George, più scorretto degli uomini che aveva odiato e che avevano condannato Jim, più meschino di Francis quando aveva tradito Elizabeth. Era un uomo sposato con una donna meravigliosa che aveva dato a lungo per scontata, era un uomo che aveva tradito tutti i suoi principi e la sua famiglia per il suo orgoglio e per una manciata di momenti di piacere e follia, era un uomo che non era stato capace di apprezzare appieno, fino in fondo, la persona che il destino aveva scelto come sua compagna di vita. "Che posso dirti, Dwight? Vorrei solo si potesse tornare indietro...".

Il suo amico scosse la testa. "Non si torna indietro Ross e tu avresti avuto mille buone occasioni per farlo prima dell'irreparabile, se lo avessi voluto, nei mesi intercorsi dalla morte di Francis". Abbassò lo sguardo, affranto. "Ora capisco perché Demelza, prima, ha detto...".

"Detto cosa?".

Dwight scosse la testa. "Che sarebbe stato meglio perdere il bambino. Non riuscivo a capire perché una donna come lei, una madre tanto amorevole, dicesse qualcosa del genere. Ora lo comprendo e non posso biasimarla".

A quelle parole, Ross si sentì morire. L'aveva portata a questo? Era davvero tanto disperata da non vedere via d'uscita né per lei né per il loro bambino? Le parole di Demelza assumevano il significato di una condanna definitiva per il loro rapporto e il loro matrimonio. Aveva perso la fede, aveva perso ogni speranza che le cose si potessero sistemare e si era arresa... "Santo cielo" – mormorò.

Dwight sospirò. "L'ho tranquillizzata ed è stato solo un attimo di smarrimento più che comprensibile. E' al quinto mese di gravidanza e perdere il bambino ora, sarebbe devastante per lei. Non deve succedere e noi dovremo evitare che accada! Ora riposa e so che ama il suo bambino e che lotterà per lui. Anche da sola".

"Non dovrà farlo da sola" – ribatté Ross, piccato.

"Davvero? E tu cosa farai allora? Ed Elizabeth?".

Ross prese un profondo respiro e poi con coraggio raccontò a Dwight quanto si erano detti lui e la donna a Trenwith, poche ore prima.

La proposta fatta da Elizabeth parve non stupire Dwight che forse, come Demelza, aveva imparato a comprendere la donna meglio di quanto avesse mai fatto lui. "E tu lo farai, giusto? Distruggerai il matrimonio con Demelza e correrai da lei. E' questo che fai da tanto, giusto Ross? E' questo che si aspetta Demelza, è questo che l'ha fatta stare male. Lei lo sa, lei è consapevole che per te Elizabeth viene prima della tua famiglia e che accetterai la sua idea folle. Demelza lo sa, anche se ancora tu non sei consapevole di averlo già deciso".

Punto sul vivo, Ross divenne rosso di rabbia. Le parole di Dwight lo irritavano perché in esse c'era tanta verità e quella verità lo faceva sentire un verme. Era vero, era stato così per tanto, aveva messo Elizabet al primo posto a lungo, dopo la morte di Francis, sacrificando tempo, denaro e affetto per la sua famiglia, in suo favore. Ma ora quella specie di limbo che lo aveva tenuto prigioniero di un antico sogno giovanile, si era rotto e vedeva Elizabeth per ciò che era sempre stata: un amore di ragazzo, un amore idealizzato... Eppure il danno era fatto e ora toccava a lui rimediare e prendersi le sue responsabilità, in qualche modo. "Dwight, io ho mancato di rispetto ad Elizabeth e l'ho messa in una posizione terribile. Devo fare qualcosa, né ho il dovere! E non cederò alle sue richieste perché è una cosa che voglio fare, per un capriccio o per altro, se dovessi... se dovessi...".

"Sposarla?" - lo interruppe Dwight.

Lui annuì. "Se dovessi sposarla, sarà perché devo. Ma la mia famiglia, quella che io considero la mia VERA famiglia, è questa. E non sarà un cavillo legale a cambiare le cose".

Dwight lo guardò con severità. "Un cavillo legale che priverà Demelza e i tuoi figli del nome di famiglia, di ogni diritto e che li costringerà ad affrontare da soli la vita".

"Io ci sarò sempre, per loro!".

Dwight ridacchiò, sarcastico. "Non ci sei mai stato mentre vivevi quì, dubito che ci sarai se diventerai il marito di Elizabeth". Passeggiò avanti e indietro, nervosamente. "Caroline aveva ragione, sul tuo conto".

"Che vuoi dire?".

"Lei mi disse che tu sei quel tipo d'uomo che ha una moglie che tutti vorrebbero ma che lui non sa apprezzare perché guarda altrove. Le dissi che si sbagliava, allora... E invece...".

Ross abbassò lo sguardo, nuovamente schiacciato dal senso di colpa. Era un marito davvero pessimo, anche gli altri se n'erano accorti. Se n'erano accorti tutti tranne lui, fino a quel giorno. "Non voglio fare del male a Demelza. Vorrei evitarle tutto questo, vorrei che fosse solo un incubo".

Dwight lo guardò, pieno di biasimo. "Penserò io, come medico, a Demelza. Tu limitati a... beh, a non fare altri danni. Elizabeth vorrà una tua risposta a breve e purtroppo Demelza dovrà affrontare le conseguenze dei tuoi gesti e delle tue decisioni. Non so come tu possa fare ma vedi di agire pensando al bene di tua moglie e dei tuoi figli, vedi di non farla agitare e cerca di tergiversare finché puoi. Demelza deve stare tranquilla il più possibile anche se, credo, sappia già cosa deciderai".

Ross annuì. "Tu ci starai accanto?".

"Starò accanto a Demelza, sempre. Come medico e, assieme a Caroline, come amico. E quando il bambino sarà nato me ne andrò. Mia moglie vorrebbe una nuova vita in posti più agiati come Bath o Londra e sai, dopo quello che ci siamo appena detti, credo che vorrò cambiare aria e che andrò via assieme a lei. Mi spiace per i disperati di queste terre ma non credo di riuscire a rimanere quì e a guardarti ancora in volto, dopo che avrai fatto ciò che farai. Il rispetto, l'amicizia... Per quel che mi riguarda li hai persi entrambi, ai miei occhi. Ma per Demelza, solo per lei, resterò quì fino a fine anno... Poi andrò via e spero di non vederti più".

"Dwight!" - cercò di argomentare, sgomento da quello che aveva appena sentito. Non poteva perdere anche il suo migliore amico...

"Stammi lontano!" - rispose il medico. "Non voglio più avere niente a che fare con te! E ora torna dentro e vedi di fare il marito e il padre, fintanto che resterai quì".

E così dicendo, salì in sella al suo cavallo e sparì al galoppo nella brughiera, lasciando Ross in pasto alla sua disperazione e ai suoi sensi di colpa che, anche se ancora non lo poteva sapere, lo avrebbero tormentato a lungo.




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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


I giorni successivi all'incontro con Dwight erano stati strani a Nampara, come se il tempo si fosse fermato e avesse lasciato tutto in sospeso...

Ross aveva continuato a dormire in biblioteca e ogni discorso su Elizabeth e sul bambino che aspettava era stato congelato dietro a un ostinato mutismo. Era strano, era come se si crogliolasse nell'illusione che, se non avesse affrontato l'argomento, il problema si sarebbe risolto da solo in un modo o nell'altro. E poi c'era Demelza e voleva lasciarla tranquilla, come aveva prescritto il dottore. E affrontare quell'argomento poteva essere pericoloso e quindi andava rinviata qualsiasi discussione, qualsiasi decisione che, giorno dopo giorno, diventava sempre più inevitabile...

Sua moglie, di contro, aveva ascoltato le prescrizioni di Dwight. Ross non avrebbe mai creduto di poterla vedere a letto per giorni e invece fu quello che accadde... Rimase a letto, mangiò a letto, giocò con Jeremy a letto e per ogni cosa di cui avesse bisogno, Demelza chiedeva a Prudie.

Era sfinita, Ross lo vedeva bene e sapeva che non era solo per la gravidanza. L'espressione di Demelza era perennemente triste, i suoi occhi sempre arrossati e il suo viso solitamente luminoso, era pallido e sofferente. Quando giocava con Jeremy, quando la sentiva ridere con lui, di soppiatto li spiava dalla porta per accertarsi che lei stesse meglio ma ogni sua speranza svaniva appena osservava i suoi occhi: spersi, tristi, opachi... E sembrava che nulla, nemmeno il sorriso che si sforzava di fare al loro bambino, potesse curare quella tristezza perenne di cui lui era responsabile.

Demelza non gli parlava, se non per motivi di assoluta necessità o per facezie che riguardavano Jeremy. Era Prudie a fare da tramite fra loro, per lo più. E pure Dwight, che veniva ogni giorno a visitare sua moglie, non gli rivolgeva la parola.

Ross si sentiva in trappola, sfinito e senza forze. Mai gli era capitato di sentirsi così e non trovava via d'uscita...

Il silenzio da Trenwith di quei giorni sarebbe presto finito, lo sapeva e non poteva illudersi del contrario. Elizabeth sarebbe tornata e avrebbe reclamato ciò che le spettava di diritto: la sua presa di coscienza e il suo assumersi le proprie responsabilità.

Ross non riusciva a pensare al bambino in arrivo, non quello di Elizabeth! Era preoccupato per la gravidanza di Demelza, per Jeremy che respirava la grande tensione che si era creata in casa, per il suo matrimonio... Ma non riusciva a pensare al figlio di Elizabeth o, se ci pensava, non riusciva a sentirlo suo. Era come se quell'imposizione voluta e decisa dal destino fosse una condanna e una punizione per quanto aveva fatto.

Sapeva che Elizabeth lo aveva guidato esattamente dove voleva, Demelza aveva ragione, lei aveva ottenuto quello che voleva.

Ma era davvero colpa di Elizabeth? Lui era davvero la povera vittima della situazione?

Sarebbe stato bello e comodo pensarlo ma sapeva che non era così. Per mesi, forse per anni aveva sognato di avere quella donna che il destino e Francis gli avevano rubato e che sentiva di aver perso ingiustamente e dalla morte di suo cugino, quel giovanile ed egoistico sentimento che lo univa a lei era riesploso, lasciando indietro coloro che amava e che lo amavano.

Quanto era successo con Elizabeth era stato voluto, da lei come da lui.

E in un atto egoistico, infantile e senza senso in cui non aveva pensato alle conseguenze, aveva distrutto tutto quello che la vita gli aveva dato di bello e prezioso: la fede di sua moglie, la serenità di suo figlio e il loro futuro insieme. E ora cosa sarebbe successo? Che ne sarebbe stato del suo matrimonio e del suo ruolo di padre? Ora che aveva toccato con mano quanto effimero e malato fosse quel desiderio ossessivo verso Elizabeth, ora che aveva distrutto tutto, come avrebbe fatto? Come avrebbe fatto a raccogliere i cocci e a conciliare tutto, sempre che fosse possibile? E facendo una scelta che ai suoi occhi e al suo senso del dovere sembrava inevitabile, quanto male avrebbe fatto a chi meno se lo meritava?

Rimuginò davanti al camino a lungo, quella sera, nel silenzio di fine estate che avvolgeva Nampara. Demelza dormiva ormai da ore o quanto meno così sembrava, Jeremy era ormai tranquillo nella sua culla e Prudie, al piano di sopra, aveva sistemato ogni cosa.

E lui? Lui sarebbe andato a letto da solo, nella sua brandina, in biblioteca, come sempre...

Sorseggiò il suo brandy – era ormai al quarto bicchiere – e si apprestò ad alzarsi dalla panca, quando udì i passi pesanti di Prudie dietro di lui. "Va tutto bene, di sopra?" - le chiese.

"Sì! La signora sta leggendo un libro ed ha del miracoloso che abbia ascoltato i suggerimenti del dottore e sia rimasta a letto per dieci giorni. Ormai i dolori dovrebbero essere passati ma per fortuna prolunga il suo riposo".

Ross scosse la testa. Demelza non stava riposando, Demelza era sfinita psicologicamente, tanto duramente da non trovare le forze per tornare quella che era prima di tutta quella storia. "Quanto meno, il bambino starà bene".

Prudie si sedette sulla panca accanto a lui e Ross le versò un bicchiere di brandy. Ultimanente, miracolosamente, aveva trovato solo in lei una fidata confidente, lei che lo conosceva fin da quando era un bambino smarrito che aveva perso la mamma. "Signore, il bambino starà bene e forse anche la signora, quando avrete parlato per bene di tutto quello che è successo".

Ross sospirò, Prudie sapeva tutto ed era inutile girarci attorno con lei. "Se parlo con lei di Elizabeth, la farò stare male di nuovo".

"La fa star male anche non parlarne".

Ross si mise le mani fra i capelli. "Non so cosa fare!".

E la serva disse la cosa più ovvia ma anche la più difficile da accettare. "La cosa giusta, signore".

"Non esiste una cosa giusta, però. Qualsiasi cosa farò, ferirò qualcuno".

Prudie lo fissò, laconica. "Dovevate pensarci prima!".

Ross sussultò. Era la schiettezza semplice della gente del popolo che parlava, quella più autentica e più pratica. Era vero, come darle torto? Era colpevole su tutto ed era pronto ad ammetterlo a se stesso, ma era anche consapevole che non si poteva tornare indietro e bisognava andare avanti, in qualche modo. "E' nella natura umana sbagliare, Prudie".

"Quindi, se avesse fatto questo sbaglio la signora, l'avreste presa allo stesso modo?".

Punto sul vivo, Ross scattò sulla sedia. "Non è la stessa cosa!".

"Oh certo! L'uomo può fare come gli pare e uscirne fuori dicendo che può capitare! Una donna invece no, deve stare a casa accanto al focolare, zitta e sorridente, mentre il marito la tradisce e fa un figlio con un'altra!".

Detto così, era brutale! Faceva male quella verità, anche perché non c'era molto che potesse replicare o imputare a Demelza se avesse fatto qualcosa a danno della loro famiglia come aveva fatto lui. "Prudie...".

"Discuterne fra noi non serve a niente, signore! Quando eravate un moccioso e sono venuta quì, appena morta la signora vostra madre, quando combinavate qualcosa vi prendevo sulle ginocchia e vi riempivo il sedere di sculacciate! Ora non posso farlo – anche se vorrei – e quindi la punizione e la via d'uscita ve la trovate da solo! Siete un uomo, un marito e un padre! Decidete secondo coscienza!".

Ross la guardò storto, sapeva che non stava scherzando, soprattutto sulle sculacciate. Scosse la testa, su una cosa Prudie aveva ragione: era un uomo adulto e doveva comportarsi come tale. "La coscienza mi suggerisce di pagare la mia colpa e prendermi ogni tipo di responsabilità verso chi ho maggiormente danneggiato".

Prudie spalancò gli occhi, improvvisamente agitata. "Non vorrete...".

"Devo farlo, devo prendermi cura di chi non è in grado di farlo, soprattutto in virtù di quello che è successo. Se scegliessi ciò che voglio, ciò che desidera il mio cuore, starei quì. Ma essere un uomo, come dici tu, mi spinge a scegliere ciò che DEVO. Capisci, Prudie?".

La domestica si alzò in piedi, sbattendo le mani sul tavolo. "Giuda, siete sposato, avete un figlio e un altro in arrivo. Mi state dicendo che volete...".

"Sto dicendo che DEVO prendermi le mie responsabilità. Demelza è forte, sa cavarsela da sola e io ci sarò sempre per lei. Sarà aiutata da tutti, è amata e sa affrontare ogni cosa. Elizabeth invece...".

"E' una gattamorta che vi ha fregato come un poppante!" - tuonò Prudie. "E per lei volete far del male a chi vi ama e ai vostri bambini".

Ross si alzò in piedi, di scatto, fronteggiandola col viso. "Prudie, è solo una formalità e non pensare che lo faccia a cuor leggero. Non cambierà ciò che provo per Demelza e non cambierà il mio ruolo di padre".

Prudie scosse la testa, esasperata e con gli occhi lucidi. "Giuda, come potete dirlo? Annullare un matrimonio cambia tutto! Come potete pensare di... di farlo... e illudervi che rimarrà tutto uguale?".

"Devo farlo!" - le disse ancora, esasperato e allo stesso tempo consapevole di quanto poco lucido fosse nel prendere quella decisione di cui voleva testardamente ignorare le conseguenze.

La donna indietreggiò fino alla parete. "Volete farlo... Volete sempre andare da quella là, a Trenwith".

"Non è vero".

"Sì che lo è! Lasciate sempre sola la signora, per la gattamorta e il suo bambino. Mentre per il vostro, di bambino, non avete mai una parola gentile o il tempo per dargli attenzioni".

Si sentì morire a quelle parole perché era vero, aveva trascurato a lungo la sua famiglia ma non era solo a causa di Elizabeth rimasta vedova e sola e per il senso di responsabilità che sentiva verso di lei. C'erano stati la miniera da salvare, i minatori, i debiti...

Come leggendogli nel pensiero, Prudie lo gelò di nuovo. "Avete tanti pensieri e vostra moglie e vostro figlio non sono mai al primo posto".

Abbassò il capo, che doveva fare? Aveva ragione, era stato un pessimo marito e anche se mai, MAI avrebbe desiderato fare del male a Demelza, in fin dei conti gliene aveva fatto. Aveva fallito, come marito e come uomo. E come padre... Non aveva voluto Jeremy e anche quando era nato, gli si era tenuto lontano. Aveva avuto paura di amarlo, aveva avuto paura di rivivere quanto sofferto con Julia e tenendosi lontano, aveva finito col perdersi il bello che ogni bambino porta nelle famiglie dove viene al mondo.

"Sono arrabbiata!" - tuonò Prudie – "Vi prenderei a padellate sulla faccia per questo macello. E per quello che volete fare...".

"Non ti agitare Prudie, va a letto...".

La voce stanca e monocorde di Demelza, dalle scale, fece voltare entrambi.

Ross deglutì, non l'aveva sentita arrivare. Pallida come un fantasma, con indosso la camicia da notte e coi capelli sciolti che le ricadevano morbidamente sulle spalle, Demelza li fissava dall'ultimo scalino e solo Dio poteva sapere quanto avesse udito di quella conversazione. In un attimo fu da lei, non doveva stancarsi nelle sue condizioni... "Cosa ci fai quì?".

Lei non lo degnò di uno sguardo ma continuò a parlare con Prudie. "Va a letto, è tardi. La casa è in ordine e io sono scesa solo per scaldare un pò d'acqua e bere una tisana".

"Te la preparo io, ragazza" – si affrettò a dire Prudie.

"Va a letto" – ripeté Demelza, stancamente.

La domestica ubbidì, rammaricata e preoccupata per la piega che avrebbe preso quella serata. Lanciò un'ultima occhiataccia a Ross e poi, di corsa, andò su per le scale, in camera sua.

Rimasti soli, Ross guardò sua moglie. "Demelza, te la porto io la tisana in camera, va a letto".

Lei lo fissò freddamente, prima di avvicinarsi alla brocca sul tavolo. "Dovrò abituarmi a farlo da sola, stando a quanto hai detto, no? Meglio farlo da subito, anzi, meglio non perdere questa mia abitudine ad arrangiarmi".

Preda di tanti sensi di colpa, Ross tentò di avvicinarsi, preoccupato per lei e soprattutto per quello strano comportamento freddo, distaccato e distante che sua moglie stava usando. Ogni donna al mondo avrebbe dato fuori di matto, avrebbe urlato e pianto e lei invece... Lei era come diventata di ghiaccio. "Demelza, lasciami spiegare".

"Non c'è nulla da spiegare Ross, ho sempre saputo che sarebbe finita così. Mi chiedo solo perché tu ci stia mettendo tanto a correre da lei".

"Non voglio correre da lei!".

Demelza versò un pò dell'acqua dalla brocca a un bicchiere e poi prese delle erbe da un barattolo, versandocele dentro. "Non devi spiegarmi niente...".

Vinto dalla disperazione, Ross alzò la voce più di quanto avrebbe voluto, rischiando di svegliare Jeremy. "Demelza, non è la scelta che voglio fare, è quella che devo fare! Ho distrutto la sua vita, non la tua! Come potrebbe sopravvivere, da sola, a uno scandalo? Come potrebbe sopravvivere a George quando saprà? Come potrebbe farcela con due bambini? Chi la vorrebbe ancora come moglie, con un figlio illegittimo?".

Demelza lo aveva ascoltato in un silenzio glaciale, la sua espressione immobile come quella di una statua. "Non devi spiegarmi niente, lo so... Elizabeth è la povera damigella da salvare e tu vuoi essere il suo principe azzurro. So come funziona, ha sempre funzionato così fra noi! Ora hai la motivazione giusta per stare con lei".

"Demelza...".

Lei lo bloccò. "Quindi, che si fa? Dobbiamo andare da un prete? Da un giudice? Da un notaio? Elizabeth avrà fretta di concludere prima che si veda il pancione...".

Ross scosse la testa mentre sentiva il terreno che si sgretolava sotto i suoi piedi... "Demelza, non voglio parlare di questo, non ora e non con te! Devi riposare e non devi agitarti".

Lei lo guardò, i suoi occhi iniettati di rabbia che stridevano con il suo comportamento fermo ed irreprensibile. "Sono calma, non vedi? E dobbiamo parlarne, giusto? E' del NOSTRO matrimonio che stiamo parlando, tuo quanto mio. O la mia opinione non conta nulla anche in questo caso?".

Era terribile sentirla parlare così e rendersi conto di quanto poco l'avesse fatta sentire amata e importante. Ross sospirò e poi, con un gesto gentile le sfiorò il gomito, guidandola verso la sedia. "Mettiti comoda e ascolta, ti chiedo solo pochi minuti".

Stranamente, forse vinta dalla stanchezza, Demelza ubbidì. "Pochi minuti, Ross. Non voglio sentire nulla di quello che devi dirmi".

Si sedette davanti a lei, il suo cuore era a pezzi e solo in quel momento si rese conto di quanto sarebbe stato bello, di quanto avrebbe amato occupare il suo tempo per stare con lei, per giocare con Jeremy e per godere insieme dell'arrivo del nuovo bambino. Demelza era la sua vita e stupidamente aveva data per scontata la sua presenza, sempre... E ora? Ora che poteva fare per non perderla? "Ti amo" – disse infine, con il cuore in mano. Ed era la cosa più vera e sincera che avesse detto in quel giorno. "Il mio cuore ti appartiene e so che non puoi crederci ma è così. Non scelgo Elizabeth, scelgo te, sceglierò sempre te. Ma il mio senso di colpa mi spinge ad andare da lei che è stata l'amore di gioventù, una ossessione mai sopita e un affetto che sempre mi accompagnerà. Vado da lei perché la mia follia distruggerebbe la sua vita, ora! Ma non è amore, non quello vero, ora lo so! Sarà una formalità, credimi! Glielo devo ma questo non cambierà cosa provo per te".

Demelza fece un sorriso freddo, distante, sarcastico. "Come puoi dirlo? Annullerai il nostro matrimonio illudendoti che niente cambierà? Toglierai il tuo cognome ai nostri bambini e continuerai a considerarti loro padre?".

"Certo, perché io SONO il loro padre. E non è un atto scritto che cambierà questa cosa. Le formalità non hanno mai avuto importanza per noi, no?".

Ross tentò di prenderle le mani ma lei si ritrasse. "Non è una formalità! Sarai il marito di un altra e altri bambini porteranno il tuo cognome. Non più Jeremy, non questo bambino che aspetto".

"Io sarò sempre il padre dei nostri bambini e non li abbandonerò come non abbandonerò te!".

Demelza scosse la testa, la freddezza di poco prima vinta dalla stanchezza infinita che accompagnava ogni suo movimento o parola. "Non potrai farlo, non quando sarai sposato con Elizabeth".

"Perché no? Credi che firmando quell'annullamento, smetta di essere il padre dei nostri bambini?".

"Smetterai di esserlo per la legge. Non avrai più nessun diritto verso di loro ma soprattutto, non avrai doveri".

"Ma la legge non può spezzare un legame del genere! Io SONO il loro padre e questo non potrà cambiare per nulla al mondo".

Demelza lo guardò con aria di sfida. "Cambierà invece! Elizabeth non ti permetterà di avere legami con noi".

Ross scosse la testa. "Elizabeth avrà in sostanza ciò che vuole ma non può impormi una cosa del genere, non glielo permetterò".

Demelza abbassò lo sguardo mentre le sue mani tremavano. "Lei otterrà tutto come sempre e tu sei un illuso a credere il contrario. Sposerai lei e sarai suo marito, avrai dei doveri, Ross! Non puoi ignorarlo e far finta di nulla. Ti vorrà solo per se e per il suo bambino, vorrà Nampara, vorrà che noi spariamo dalla tua vita".

"E io non glielo permetterò!" - rispose lui, sicuro.

Demelza scostò il viso, pallida come un cencio. "Certo..." - sussurrò, sarcastica. "E noi? E io e te?".

Già, e loro? Ross non sapeva cosa dire, cosa fare, come avrebbe gestito ogni cosa ed era semplicemente in balìa di una tempesta che faticava a domare. Ma non voleva arrendersi, non per quanto riguardava lei. "Posso solo chiederti di avere pazienza, un giorno tutto si sistemerà".

"Come, Ross?".

"Non lo so. Lo scoprirò, però...". Fece per abbracciarla ma Demelza si ritrasse.

"No Ross, non voglio. Non mi toccare, non se sarai suo marito".

La guardò indietreggiare e si sentì improvvisamente solo. Avrebbe voluto avvicinarsi, stringerla a se e dimostrarle che la amava, tutte cose che avrebbe dovuto farlo prima e che non aveva mai fatto. E ora era forse troppo tardi... "Demelza".

Sua moglie, lasciando la tazza con la tisana che non aveva nemmeno sorseggiato sul tavolo, raggiunse le scale. "Sono stanca, vado a letto. Vacci anche tu e domani va da Elizabeth e comunicagli la tua decisione. Dirò a Prudie di aiutarti a preparare le tue cose da portare via".

"Demelza...".

Lei gli voltò le spalle, salendo le scale. "Va da lei, è inutile parlarne, hai già deciso. E sono stanca..." - ripeté di nuovo, con la voce rotta.

E Ross rimase solo, nella stanza. Solo, preda dei suoi demoni e della sua disperazione.

Solo, come sarebbe stato per molto tempo...




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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


La mattina seguente era uscito presto, alle prime luci del sole. Come un ladro era scivolato fuori da Nampara quando tutti ancora dormivano e si era diretto a Trenwith. Era ora di affrontare l'inevitabile...

Aveva preferito andare via prima che Prudie, Jeremy o Demelza fossero svegli. Se li avesse visti, non avrebbe avuto il coraggio di andare via e avrebbe ancora prorogato una decisione che andava portata a compimento, anche se dolorosamente. Non poteva più aspettare...

Quando giunse a Trenwith, il portone principale era già aperto e un giardiniere era intento a sistemare le rose del roseto. Ross scese da cavallo e gli affidò l'animale, dandogli una leggera carezza sul muso nero. "La signora è già sveglia?".

"Sì signore, ha fatto colazione con Master Jeffrey Charles e poi è tornata a letto in preda a delle nausee".

Ross sospirò. Ogni fatto, cosa o persona sembravano volergli ricordare che stava per diventare padre di un bambino che MAI avrebbe voluto. "Vado da lei, ho bisogno di parlarle" – disse frettolosamente, in tono cupo. E poi entrò in casa, salendo a due a due le scale ed evitando di soffermarsi a vedere se zia Agatha fosse già in salotto coi suoi tarocchi. Non aveva la forza di affrontare anche lei e sentiva il suo cuore andare in mille pezzi per la direzione che, da quel giorno, avrebbe preso la sua vita.

Aveva desiderato tanto a lungo Elizabeth, l'aveva sognata anche dopo aver sposato Demelza, di nascosto, immaginandola come la realizzazione di una perfetta utopia. Con Demelza tante cose erano state dure, difficili: l'aveva sposata senza esserne innamorato, spinto dalle stesse motivazioni che ora lo stavano portando a sposare Elizabeth, avevano lottato contro la povertà e lo spettro della prigione che poteva portare a una condanna a morte, avevano pianto la morte della loro bambina. Non era così che aveva immaginato l'amore da ragazzo, quando incontrava Elizabeth e sognava un futuro con lei. Immaginava un amore da romanzo, romantico e sempre felice e ora si rendeva conto che quelle erano solo illusioni di un ragazzino non ancora cresciuto. Ora aveva imparato che l'amore non è quello perfetto e idilliaco ma piuttosto quello che sa affrontare le battaglie, i dolori, le lotte e le crisi uscendone più forte di prima.

Sposare Elizabeth, soprattutto ora, non gli avrebbe regalato la felicità perfetta ma avrebbe invece privato la sua vita di una moglie che amava e che lo amava nonostante tutti i suoi difetti, del profumo di Nampara e della salsedine, delle serate davanti al camino e dei pomeriggi nel suo studio passati a osservare mappe della miniera mentre Demelza lo guardava e poggiava una mano calda e gentile sulla sua spalla. Avrebbe perso le risate di Jeremy o il vederlo assonnato e spettinato la mattina mentre ciondolava per casa, i latrati di Garrick o le sue corse dietro ai poveri conigli che incrociavano il suo cammino, il calore della sua casa e di tutto ciò che amava...

Avrebbe perso il sorriso di Demelza, il sapore dei cibi che cucinava, la dolcezza del suo sguardo, la passione vera che solo lei riusciva a trasmettergli, la sua presenza al suo fianco, quando lottava con lui per qualcosa a cui teneva.

Elizabeth avrebbe fatto altrettanto per lui? Si sarebbe adattata al tipo di uomo che ora era, tanto diverso dal ragazzo che era stato e che lei credeva ancora esistente? Avrebbe fatto sua la povertà, la mancanza di certezze o la lontananza dalla vita frivola che avrebbe potuto offrirle George?

Ora che ci pensava, ecco qual'era stato il suo errore più grande: fermare un matrimonio fra due persone che, in fondo, volevano le stesse cose. Fermarlo per una sorta di predominio e possesso, per un diritto che si era arrogato senza averne motivo, spinto da un istinto cieco che non era stato capace di vedere le conseguenze di quel gesto e quanto male avrebbe fatto.

Quando fu davanti alla porta di quella camera dove si era introdotto a forza mesi prima, distruggendo tutto, si bloccò e stavolta bussò. Era strano agire così e pensare che forse, nel giro di poco, quella sarebbe stata casa sua.

Una domestica venne ad aprire e poi lo annunciò. Ross udì la voce di Elizabeth che la congedava e, chiedendosi come avrebbe dovuto rapportarsi con lei, entrò. La salutò con un cenno del capo e si accorse che era pallida quanto Demelza e che era a letto perché effettivamente non stava bene. Si sentì nuovamente in colpa, anche verso di lei... Santo cielo, cosa aveva combinato? "Il tuo giardiniere mi ha detto che non stai bene, quando sono arrivato".

"Nausee, dolori al ventre. Devo stare a riposo, dice il dottor Choake".

Ross sussultò. "Choake è stato quì? Che gli hai detto?". Se la notizia della gravidanza fosse trapelata, quel dannato ciarlatano l'avrebbe urlata ai quattro venti per tutta la Cornovaglia, rendendo quel dramma famigliare una farsa pubblica.

Elizabeth alzò le spalle. "Non si è accorto che ero incinta e del resto non mi aspettavo che capisse. Non ho detto nulla e lui ha scambiato i miei malesseri per influenza. Ma ho già avuto un figlio e so che questi dolori al ventre non vanno bene e voglio riposare. So di averne bisogno".

Ross si sentì sollevato. "Quindi, non lo sa nessuno?".

Lei aspettò qualche istante prima di rispondere, poi esibì uno strano sorriso. "Ci hai messo molto a tornare, mi stavo preoccupando..." - disse affabilmente, cambiando argomento.

"Beh, ci ho messo il tempo necessario. Ho una famiglia a Nampara e tu non hai risposto alla mia domanda. Chi sa di questa gravidanza, oltre a noi?".

"George Warleggan".

Ross spalancò gli occhi, inorridito e completamente spiazzato. Come aveva potuto dirglielo? Era impazzita? Come aveva potuto raccontarlo proprio a LUI? "Sei andata fuori di senno? A George, che non aspetta altro che un'occasione propizia per rovinarmi!? A lui?".

Lei sollevò le spalle, incurante del suo turbamento e assolutamente tranquilla. "Non c'è da preoccuparsi, Ross. Non dirà nulla, non si umilierà davanti a tutti raccontando che ancora una volta tu lo hai battuto sul tempo e che il nostro matrimonio non si celebrerà a causa tua e di un tradimento avvenuto alle sue spalle. Starà zitto, in disparte, aspettando che lo scandalo investa noi due ed uscendone pulito e senza nulla di cui vergognarsi".

"Ma perché glielo hai detto?" - urlò lui, esasperato ed arrabbiato.

"Ross, era venuto quì e pretendeva delle risposte! Avevo posticipato di un mese il matrimonio con lui ed il mese è passato senza che gli dessi notizie! Tu sei sparito, non ti sei fatto vedere per giorni e io ho dovuto essere sincera con lui".

Ross si mise le mani nei capelli, era un disastro. "Cosa gli hai detto?".

"Che sono incinta di tuo figlio e che ci sposeremo! Che tu hai forzato gli eventi e che ora ti prenderai le tue responsabilità! Gli ho detto che, in virtù dell'antico legame che ci univa e che ancora ci lega, è stato meglio così".

"Dannazione, Elizabeth!". Era annientato, come aveva potuto parlare in sua vece con George, senza nemmeno sapere cosa aveva deciso in merito a Demelza e Jeremy? Come poteva fidarsi di lei, ORA? "Avresti dovuto prendere tempo o dirgli che non desideravi sposarlo! Senza dargli spiegazioni".

"E lui mi avrebbe rinfacciato i debiti di Francis e ne avrebbe preteso il pagamento. Invece così, usando sincerità, è stato gentile".

Ross rise, non sapeva se lei lo stesse prendendo in giro o se davvero credeva alle frottole di quell'idiota. "Gentile? George Warleggan?".

"Sì! LUI. Mi ha detto che è dispiaciuto che tu abbia attentato alla mia moralità e che apprezza il fatto che mi sia confidata con lui. Ora non potrà ovviamente sposarmi ma mi avrà sempre a cuore e non pretenderà nulla dei suoi diritti su Trenwith fino alla nascita di nostro figlio. E' stato caritatevole e potrò vivere tranquillamente quì, nella tua casa di famiglia, la mia gravidanza. Vivremo quì, il nostro bambino nascerà quì e magari, ora che la Wheal Grace va bene, potremo saldare i debiti di Francis e riscattare la proprietà. O, se non ce la faremo, allora ci trasferiremo a Nampara col nostro piccolo".

Ross la guardò, con odio. Per la prima volta in vita sua sentì di odiarla e di non aver mai capito nulla di lei. Aveva deciso tutto e come un'abile giocatrice d'azzardo, lo aveva messo al palo e senza possibilità di replica. Anche se... "Hai detto a George che ti avrei sposata? Come hai potuto farlo, visto che non ti ho ancora dato una risposta?".

"E' OVVIO che mi sposerai. Perché è quello che devi fare e quello che desideriamo da sempre. Non ci sono più ostacoli ormai e anche il fato, tramite questo bambino, ci è venuto incontro".

Ross la fissò, freddamente, impedendo ai sensi di colpa per i pensieri malati che aveva nutrito per lei da mesi, prendessero il sopravvento. "Non ci sono ostacoli? E Demelza? E Jeremy? E il bambino che mia moglie aspetta?".

Elizabeth rise. "Ross, pure George non si è stupito del fatto che finalmente avresti colto la tua occasione di lasciare quella donna. E' la figlia di un minatore, le devo tanto ma non è e non sarà mai al tuo livello. Dal punto di vista burocratico, il notaio che ho contattato, farà tutto il necessario per annullare il matrimonio e non ci saranno problemi perché il matrimonio è nato sotto il segno di una menzogna".

Lui scosse la testa, era così difficile sentirla parlare così e paragonarla alla sedicenne piena di sogni che era stata e che aveva amato. Capiva che Elizabeth voleva proteggere suo figlio ma quella supponenza e quella voglia di schiacciare la sua famiglia come se fosse un insetto molesto, lo ferivano. "Io amo Demelza e la famiglia che ho creato con lei".

"Tu hai creduto di amarla quando hai pensato di aver perso tutto". Elizabeth gli prese le mani e tentò di stringerle ma Ross si divincolò. "Tesoro, mi hai desiderata per tutti questi anni e ora sarò tua. Come avrebbe dovuto essere dall'inizio... So che ti ferisce lasciare Demelza, ma lei saprà cavarsela e anche i suoi bambini. Sono nipoti di un minatore, hanno una madre forte e presto potranno lavorare per aiutarla a mantenersi. Tu non hai doveri verso di loro o quanto meno, non li avrai dopo l'annullamento del matrimonio".

Ross le rise in faccia, senza temere di ferirla. "I miei bambini NON lavoreranno per molto tempo ancora. E staranno a Nampara, dove cresceranno sereni e tranquilli. Io e te non vivremo MAI a Nampara, Nampara resterà sempre di Demelza e dei bambini e su questo non transigo".

Elizabeth spalancò gli occhi e la sua certezza parve vacillare. "Stai dicendo che resterai con lei?".

"Sto dicendo che non abbandonerò a se stessa la famiglia che amo. Prenderò le mie responsabilità e tu avrai ciò che vuoi ma per quanto riguarda Demelza e i bambini, su di loro tu non hai voce in capitolo".

"Che vuoi dire?".

"Che ti sposerò, Elizabeth perché ho fatto tanti errori e da uomo, ora, me ne prenderò le responsabilità. Che farò come vuoi e che questo mi fa star male perché spezzerò il cuore di Demelza e distruggerò tutto quello che ho costruito con lei e che amo. Che perderò tante cose dei miei bambini che per te forse non contano nulla ma che sono la mia ragione di vita e rappresentano il futuro. Che lascerò la casa che amo. Ma Nampara resterà a loro, io pagherò le loro spese e il loro mantenimento e quando potrò farlo, andrò da loro a far visita. E sarò presente per i miei figli, ogni volta che avranno bisogno di me, così come per Demelza. Prendere o lasciare mia cara, queste sono le mie condizioni e ti avverto che non sono trattabili".

Lei lo guardò, inorridita. "Vorresti dire che mi sposerai e che terrai Demelza come amante e seguirai due famiglie?".

Per un attimo, a Ross mancò il fiato. Certo che no, non avrebbe mai agito a quel modo e il solo pensiero che lei lo credesse capace di qualcosa del genere lo inorridiva, ma c'era dell'altro che si agitava in lui. Fino a quel momento non aveva pensato a cosa stesse perdendo, a cosa sarebbe successo sposando Elizabeth e a come sarebbe cambiata la sua vita ma ora quella semplice domanda aveva scoperchiato un vaso di Pandora pieno di dolorose incognite per il futuro da cui non poteva fuggire: avrebbe dovuto rinunciare a Demelza, alla sua vicinanza, all'intimità che condividevano... Non aveva mai voluto ammetterlo a se stesso, fino a quel momento. E il pensare che non avrebbe più assaporato il sapore dei suoi baci e dei suoi abbracci, il calore dei loro corpi fusi, la passione che condivide con lei soltanto lo annientava. Avrebbe dovuto vivere un'intera vita senza di lei, come avrebbe fatto? Era strano ma la sua mente, cedendo alle richieste di Elizabeth, si era cullata nella malata illusione che sarebbe stato un sacrificio temporaneo ma non era così. Un matrimonio era per sempre, non c'era via di ritorno...

"Ross?!" - urlò Elizabeth, stizzita.

Lui sussultò e i suoi occhi scuri divennero ancora più cupi. "Certo che no" – disse infine, col cuore a pezzi – "Non avrò amanti, non è quello che intendevo. Volevo solo dire che sarò sempre disponibile per Demelza e per ogni suo bisogno materiale. E che per i miei figli, io resterò un padre. Un pezzo di carta non può cambiare questa cosa, sono miei!".

Elizabeth balzò a sedere, sul letto, stizzita. "Ross, come puoi pensarlo? Sarai MIO marito! MIO!!! E mantenere i legami con Demelza e con la tua vecchia famiglia farà solo del male al nostro matrimonio. Avrai dei doveri che per legge ti verranno attribuiti, verso di me! Non verso Demelza e non verso i suoi figli!".

"E io onorerò i miei doveri verso di te!" - ribatté Ross, secco.

"Il tuo dovere, Ross, è far star bene la tua famiglia. George è stato gentile ma Trenwith...".

A quelle parole, al sentire ancora quel nome, Ross non seppe più trattenersi e scoppiò a ridere. "Una volta per tutte, mettitelo in testa! GEORGE NON E' GENTILE! Vuole apparirti come il principe azzurro da cui trovare rifugio dal pessimo marito che sposerai, vuole fare solo bella impressione e tenersi una porta aperta con te. Ma non lo fa per gentilezza, lo fa per suo tornaconto. E per dimostrare a se stesso e al mondo quanto migliore sia di me".

Lei divenne rossa di rabbia. "Beh, non ha importanza! Potremmo perdere Trenwith se non pagheremo i debiti di Francis e tu vuoi lasciare Nampara a Demelza? E io? E i miei figli?".

"Ho dei cottage! Se perderemo Trenwith, ne sistemeremo uno e ci andremo a vivere".

Lei si morse le labbra, trattenendo a stento la rabbia. "Demelza a Nampara e noi in un cottage? Non sono nata per questo, Ross".

"Mi volevi come marito e io sono quello che vedi! Non mi interessano le feste, né i balli e nemmeno il lusso. Voglio far fruttare la mia miniera e rendere migliore la vita di chi ci lavora, voglio un mondo dove non esistano privilegiati o emarginati, voglio essere un uomo che, quando si guarda allo specchio, non provi vergogna per se stesso. Non mi piace ciò che sono diventato e ciò che ho fatto a te e a Demelza e ti sposerò per rimediare in parte al torto che hai dovuto subire a causa mia. Sarò tuo marito e sarò il padre del bambino che aspetti e quando usciremo di casa insieme non dovrai vergognarti di me. Questo te lo prometto. Ma per il resto, non abbandonerò chi amo e mi ama! O mi ha amato..." - ammise, rendendosi conto che probabilmente Demelza avrebbe potuto odiarlo, ormai.

Elizabeth si alzò dal letto e, cercando di apparire più calma, si avvicinò a lui vestita della sola camicia da notte di seta azzurra. Ora non sembrava più arrabbiata ma pareva volersi dimostrare seducente e ammaliante. "Ross" – tentò, in tono più dolce – "So che ti senti in colpa adesso ma riuscirò a farti sentire meglio, te lo prometto. E presto Demelza e la tua vecchia vita ti sembreranno fantasmi lontani incapaci di toccarti. Saremo felici e avremo tutto ciò che abbiamo sempre desiderato e sognato. Non sono arrabbiata con te per quella notte e sono felice di portare nel grembo il tuo bambino, non devi sentirti in colpa verso di me. Per quanto riguarda Demelza, lei lo ha sempre saputo, lo sa che l'hai sposata come ripiego e che il vostro matrimonio non avrebbe mai dovuto essere celebrato. Se la caverà e non dovrai preoccuparti troppo per lei, vedrai".

Ross scosse la testa, come faceva a non capire? "Ma io voglio occuparmi di lei. Non è Demelza che me lo ha chiesto, sono io che sento di doverlo fare. Sto per togliere il mio cognome ai miei figli, sto per sparire per gran parte della loro vita e questo mi tormenterà, sempre... Uscirò con nostro figlio tenendolo per mano e non potrò farlo con Jeremy o col bimbo in arrivo e magari loro lo vorranno e io non potrò essere lì. Sono una persona orribile Elizabeth, molto diversa da quella che pensi tu. Te ne accorgerai e non sarai capace di farmi cambiare idea".

Elizabeht rimase in silenzio per un pò, poi decise di non insistere, almeno per il momento. "Quando ci sposeremo, quindi?" - chiese, cambiando argomento.

Quella domanda gli gelò il sangue nelle vene. "Non lo so, non sei tu quella che ha contattato un notaio per gestire la parte burocratica?".

"Sì. Se allora sei d'accordo, gli dirò di proseguire con la pratica. A breve avremo l'annullamento, poi dovrai solo firmarlo e farlo firmare a Demelza. Dopo di che potremo procedere alle pubblicazioni e sposarci".

"Sembra facile" – ammise lui, amaramente.

"Lo sarà". Elizabeth gli sfiorò il braccio, gentilmente. "Forse, già da ora, potresti trasferirti quì. Jeoffrey Charles ne sarà contento e io potrò averti vicino. Questa gravidanza è così difficile...".

Ross inspirò profondamente. Sì, forse sarebbe stato meglio, per tutti. Rimanere a Nampara in quei giorni sarebbe stata una agonia e avrebbe aggiunto dolore al dolore. Ogni parola, ogni gesto, ogni abitudine ripetuta nella giornata, avrebbe ricordato costantemente a tutti che ogni cosa stava per finire. "Farò preparare i bagagli a Prudie ma voglio la tua parola! Non mi impedirai di far loro visita".

Elizabeth lo fissò con freddezza. "Certamente..." - rispose, con un tono insolitamente glaciale e apparentemente tranquillo.

Ross non seppe interpretarla. Fece un leggero inchino, la salutò frettolosamente e poi, con la morte nel cuore, tornò verso Nampara. Vi giunse che il sole era ormai alto e la trovò insolitamente silenziosa. Uno strano timore si impossessò di lui, che stava succedendo? A quell'ora Jeremy di solito giocava nell'aia e Prudie dava da mangiare agli animali in stalla mentre ora tutto pareva deserto.

Entrò in cucina temendo che se ne fossero andati tutti e sospirò sollevato quando vide Prudie seduta al tavolo, intenta a rammendare delle vecchie calze.

"Signore".

"Dov'è Jeremy? E Demelza?".

Prudie guardò verso le scale. "Master Jeremy è con sua madre, a letto. La signora non è stata di nuovo bene, ha avuto nausea e vomito ed è a letto. E il piccolo, anche se è tanto piccolo, sembra capire che sua madre ha bisogno di lui e si è accoccolato buono buono a letto vicino a lei per tenerle compagnia".

Ross sorrise dolcemente, orgoglioso di Jeremy e intristito dal fatto che suo figlio, di due anni e mezzo, sopperisse da solo alle sue mille mancanze. "Dormono?".

"Non lo so, ma tutto è molto silenzioso".

Ross sospirò. "Vado da loro, devo parlare con lei. Tu, nel mentre, prepara il baule con le mie cose. E' ora che inizi a prepararmi per andare via e prima lo faccio e prima Demelza potrà stare tranquilla. Questo momento così confuso non le fa bene e non ne fa nemmeno a Jeremy. Non possiamo posticipare l'inevitabile".

Gli occhi di Prudie divennero lucidi. "Andrete davvero a Trenwith? Ma è un errore e non ne uscirà nulla di buono. Per voi, per la signora, per i bambini... Un matrimonio fatto per forza porta solo infelicità".

"Lo so, ma non posso fare altro. Devo dirlo a Demelza".

Prudie scosse la testa. "Non vuole vedervi, lei lo sa già. Lo sa che siete uscito per andare da quella la a Trenwith per dirgli che l'avreste sposata. Sta male per questo, che credete?".

Ross abbassò il capo, era a pezzi. Stava facendo del male, tanto male, proprio a coloro che non se lo meritavano e non poteva fare nulla per evitarlo. "Devo parlarle, almeno un'ultima volta".

Prudie non rispose, non poteva opporsi alla sua volontà. E Ross si avviò per le scale.

Quando entrò in camera, trovò Demelza sveglia, a letto, che cantava una canzone a Jeremy steso accanto a lei, rannicchiato sotto le coperte e felice di farsi coccolare dalla sua mamma.

Rimase per lunghi istanti fermo, nascosto dietro la porta, a guardarli. Cercò di imprimersi nella mente il suono dolce della voce di sua moglie che cantava, quella sensazione di pace e famiglia che impermeava la stanza, la dolcezza di quella donna che aveva sposato per caso e che gli aveva insegnato cos'è l'amore rendendolo un uomo migliore e un padre. E lui aveva gettato via tutto in un attimo e in una notte di follia.

La porta scricchiolò e Demelza e Jeremy si voltarono di scatto.

Appena il bimbo lo vide, gli si illuminò il viso. "Papà".

Ross gli si avvicinò, sorridendogli. E lo prese in braccio. "Ciao piccolo! Prudie mi ha detto che oggi sei stato davvero bravo ad aiutare la mamma".

"Sì".

Demelza, in silenzio, lo guardò senza parlare. Era pallida, i capelli le ricadevano disordinati sulla schiena e sembrava sofferente e smagrita. Non aveva nulla dell'aspetto radioso delle donne incinta. "Allora, tu e Elizabeth vi siete messi d'accordo?".

Deglutì, colpito dalla sua fierezza e dal coraggio che sembrava voler dimostrare. Mise Jeremy a terra, lo guardò e si rese conto che a pagare dei suoi errori sarebbero stati lui e Demelza. "Sì. Penserà a tutto un notaio che lei ha ingaggiato. Dovremo solo firmare i documenti quando saranno pronti". Sembrava tutto tanto freddo, burocratico, ovattato... Ma se avesse fatto trapelare i suoi sentimenti, tutti i suoi proponimenti sarebbero venuti meno e avrebbe gettato all'aria il suo senso di responsabilità scegliendo la strada che più voleva il suo cuore ma che era quella più egoistica per lui, dopo quello che aveva combinato.

"Hai detto a Prudie di farti i bagagli?".

"Sì" – rispose, ferito di vederla così distante, fredda e rassegnata al fatto che lui stesse scegliendo un'altra. Faceva male rendersi conto che, in fondo, Demelza se lo era sempre aspettato. Eppure, in quel momento, fra loro due era lei che mostrava più dignità di tutti, lei che sarebbe stata ripudiata e avrebbe cresciuto i suoi figli principalmente da sola.

"Quando andrai via?".

"Credo entro sera. E' meglio per tutti".

Sua moglie sorrise tristemente. "Di certo è il meglio per quelli di Trenwith...".

Lui sussultò, a quelle parole. "Demelza, potrai stare più tranquilla con una situazione definita fra noi e sarò comunque quì vicino".

Lei scosse la testa. "Ci credi davvero a quello che dici?".

"Ci sarò, fidati di me".

Demelza guardò Jeremy e il suo sguardo divenne ancora più sofferente e pallido anche se, ancora una volta, si impedì di piangere. "Non lo farai, non ci sarai e non perché non mi fidi della tua parola ma perché è impossibile far funzionare le cose come credi tu. Non ci riuscirai ed Elizabeth te lo impedirà".

"Lei non si intrometterà, in questo! Sono stato chiaro con lei, oggi".

"Va bene, sì Ross... Voglio crederti, voglio provarci per Jeremy. Se non ci fosse lui, me ne sarei già andata" - rispose, in quel tono stanco e rassegnato che spesso aveva usato nei suoi confronti, ultimamente.

Ross tentò di avvicinarsi, di abbracciarla, di stringerla a se per un'ultima volta ma Demelza si ritrasse, allontanandolo con le poche forze che le restavano. "No, non puoi più farlo. Nemmeno ora che siamo ancora sposati! Non puoi farlo più!".

Aveva ragione, non poteva essere ipocrita e forzarla ad averlo vicino anche se darle un gesto di affetto e sentirla vicina per un'ultima volta era quello che più voleva. Ma lei si sarebbe arrabbiato e non voleva che il loro bambino assistesse a un litigio. Si chinò per essere all'altezza di Jeremy, guardando suo figlio negli occhi. "Papà deve andare via e dormirà da un'altra parte. Mentre non ci sono, posso fidarmi di te? Ti prenderai cura della mamma e del fratellino in arrivo?".

Jeremy lo fissò accigliato. "Dove vai?".

"Sarò quì vicino e verrò spesso a trovarti. Semplicemente, non dormirò quì ma tu non devi preoccuparti per questo".

Il bimbo si imbronciò. "Quanno veni?".

"Presto, presto piccolo mio" – sussurrò, chiedendosi come avrebbe spiegato ai suoi figli, un giorno, quella difficilissima situazione.

"Davvelo?".

"Certo, davvero. Io verrò sempre da te".

"Sul cavallo?".

"Certo, sul cavallo. Ci andremo sopra insieme e quando sarai più grande ti insegnerò a cavalcare come ti ho promesso". Lo baciò, deciso a tenere fede a quella promessa, qualunque cosa fosse successa. Poi lo strinse a se e, guardando Demelza, si accorse che aveva gli occhi lucidi...

Voleva abbracciarla ma non poteva...

Voleva stringerla a se ma non le era più concesso... "Non fare così".

"Vattene, per ora vattene e basta. Se avrò qualcosa da dirti, manderò Prudie a Trenwith con un messaggio. Tu fai lo stesso con qualcuno della servitù che avrai laggiù".

Lasciarla in quello stato era la cosa più difficile che avesse fatto e nel viso sconvolto di Demelza e in quelle lacrime che si stava costringendo a non versare, vide tutta l'entità dei suoi errori. Avrebbe voluto tornare indietro, essere un marito diverso. Ma non si poteva e l'unica speranza che nutriva era che lei, un giorno, l'avrebbe potuto perdonare.

Ma ora, era il momento di andare...

Aveva solo Jeremy da salutare ed abbracciare e per il momento si sarebbe concentrato su di lui.

Lo strinse forte, ancora. Ross non poteva saperlo ma quell'abbraccio era un addio. La vita e il fato lo avrebbero allontanato a lungo da Jeremy e sarebbe passato molto tempo prima che potesse rivedere suo figlio.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Se qualcuno, anni dopo, le avesse chiesto di raccontare come era stato vivere dopo che Ross se n'era andato a Trenwith, Demelza non avrebbe saputo rispondere.

Visse quel periodo in modo strano, confuso, come sospesa su una nuvola avvolta dalla nebbia. Per settimane non provò nulla, non pianse, non si disperò, isolò il suo cuore e la sua mente da ogni emozione e, come un'automa, si limitò ad aggirarsi dentro le mura di Nampara sbrigando faccende domestiche, occupandosi del bucato, di Jeremy, della casa e del giardino. Dwight veniva quasi ogni giorno a visitarla con la scusa della gravidanza da tenere sott'occhio e spesso la incitava a lasciarsi andare a piangere, a urlare... Ma lei scuoteva la testa e diceva che non ne sentiva il bisogno, che andava tutto bene così...

Era difficile per Demelza capire quell'assenza di sentimenti che si era impossessata di lei. Chiunque sarebbe impazzito, al suo posto! Demelza amava un uomo che l'aveva abbandonata, era rimasta sola con due bambini, avrebbe perso il suo nome di matrimonio e i suoi figli il nome di famiglia eppure non sentiva nulla... O così le sembrava... O in quel modo si illudeva...

Prudie la osservava attentamente e si limitava ad assecondarla senza chiedere nulla, forse capendo più di lei cosa si agitasse, nascosto, nel fondo della sua mente, pronta a sorreggerla quando fosse crollata.

La gravidanza si era assestata, anche da quel punto di vista tutto pareva essersi congelato in un freddo da cui era difficile uscire. Il bambino... o la bambina, scalciava con forza e cresceva, anche se lei mangiava pochissimo e aveva perso peso, invece che metterlo. Ecco, l'unica cosa che poteva suggerirle un turbamento era la scarsa fame e la nausea costante che lei, cocciutamente, attribuiva solo al suo stato fisico. E il pensiero strisciante che forse avrebbe preferito essere ancora ad Illugan e che in fondo le botte di suo padre non erano peggio di quello che stava vivendo...

Jeremy si aggirava dentro il cortile di Nampara sperso. Giocava con lui, rideva con lui, lo teneva nel lettone, tentava in ogni modo di fargli apparire quella vita come qualcosa di normale ma il bambino, sebbene molto piccolo, pareva avvertire quella sorta di strisciante tensione che aleggiava sulla fattoria. E cercava il suo papà e spesso, con il pollice in bocca, lo chiamava piano... Ed era in quei momenti che Demelza doveva far violenza su se stessa per essere glaciale e non piangere, per impedire alle emozioni che voleva tenere nascoste di uscire allo scoperto, distruggendola. Non poteva permettersi di crollare, non ora, non per Jeremy e non finché il suo piccolo non fosse nato sano e salvo.

Ross, da quel giorno, non era mai tornato. E del resto lei aveva sempre saputo che non poteva che essere così...

Quando lui le aveva promesso la sua presenza e l'impegno di esserci sempre, per loro, era sincero e convinto delle sue parole e delle sue intenzioni ma non avrebbe potuto... Ross si illudeva ma ciò che voleva fare era irrealizzabile. Elizabeth glielo avrebbe impedito e dopo tutto qualsiasi moglie avrebbe fatto altrettanto.

Forse in questo gioco perverso che era diventata la loro vita, tutto aveva un senso. Ross aveva scelto di volgere il suo sguardo su Elizabeth e con lei avrebbe dovuto costruire il suo futuro. Tenere allacciati i rapporti con Nampara e con la sua vecchia famiglia, non avrebbe dato la serenità necessaria al suo matrimonio con Elizabeth per prosperare. Non poteva funzionare, MAI avrebbe potuto essere altrimenti...

Non sapeva cosa provasse, se odio o rassegnazione...

O dolore...

Ma no, quello non voleva provarlo, non poteva permetterselo e in fondo, pensava, era solo se stessa che doveva rimproverare: aveva sposato un uomo sapendo che non la amava e il cui cuore apparteneva da sempre a un'altra e da sempre sapeva che, se ne avesse avuto l'occasione, Ross sarebbe tornato da Elizabeth.

L'occasione, sotto le spoglie di un bambino illegittimo, era arrivata...

Ross diceva che lo faceva per dovere ma lei, dopo mesi in cui non era esistita per suo marito, si era convinta che in fondo fosse quell'antico sentimento verso Elizabeth, mai morto del tutto, ad averlo spinto alla decisione finale.

Sapeva che Ross soffriva per lei e Jeremy, sapeva che lui era consapevole della gravità di quanto sarebbe successo e probabilmente il suo senso dell'onore e di giustizia lo facevano sentire in colpa.

O forse no, forse non era tornato più perché, semplicemente, si era già scordato di tutti loro...

Non sapeva nulla di lui, non dal giorno in cui se n'era andato promettendo di tornare presto.

Finché, tre settimane dopo, un servitore di Trenwith arrivò a Nampara per recapitare un messaggio di Ross.


"Spero che stiate bene, tu, Jeremy e il bambino.

Perdonami per non essere venuto a farvi visita ma è tutto molto complicato per me, molto più di quello che avrei immaginato.

Domani mattina, verso le dieci, verrò a Nampara a prenderti. Ho temuto questo momento ma ormai non può più essere rimandato. Il notaio ingaggiato da Elizabeth ci aspetta a Truro prima di mezzogiorno per la firma sui documenti dell'annullamento del matrimonio. Saremo solo noi due, non voglio sia presente nessun altro. Se non ti senti bene, se sei ancora obbligata a stare a letto, fallo sapere al mio messaggero e organizzerò l'incontro col notaio a Nampara.

Perdonami, se puoi. Se riuscirai a farlo tu, forse anche io un giorno riuscirò a perdonare me stesso".

Ross


Leggendo, le parve che il suo cuore si fermasse o rallentasse i suoi battiti.

"Dite al vostro padrone che lo aspetto quì, domattina, come stabilito nella lettera" – disse, con la freddezza che ormai era sua compagna di vita.

Prudie la guardò con grandissima preoccupazione ma nemmeno in quel momento crollò. C'era Jeremy e in fondo, perché piangere? Quel giorno sarebbe arrivato, lo sapeva...

Fu forte, anche quella notte. Non pianse e decise che non avrebbe mai voluto farlo! E al mattino disse a Prudie di portare Jeremy alla spiaggia per farlo giocare. Voleva essere forte ma non era certa di riuscirci e non voleva che il suo bambino percepisse la sua disperazione, lo voleva sereno, aleno lui.

Si vestì con il suo soprabito migliore, mise un cappello in testa e poi, osservando il lettino di Jeremy, si chiese se stesse facendo la cosa giusta mettendo quella firma. Era il volere di Ross, certo... Ma lei non avrebbe dovuto lottare per tutelare i suoi bambini? Mettere quella firma, annullare il loro matrimonio, non sarebbe stato solo un atto che poneva fine alla loro storia di coppia ma avrebbe pregiudicato il futuro dei suoi figli...

Ma d'altra parte, che poteva fare? Lei non era che la figlia di un minatore di Illugan e Ross avrebbe comunque avuto tutti i mezzi per ottenere ciò che voleva, lottare sarebbe stato inutile. E poi, per cosa...? Lui amava Elizabeth e lei non sarebbe stata disposta a una vita in disparte, passata ad osservare suo marito che usciva di casa ogni volta che poteva per correre da un'altra e tradirla ancora e poi ancora...

Non sarebbe stato un bene, nemmeno per i bambini, vivere così!

Quando Ross arrivò in carrozza, lei non disse nulla. Nampara era deserta e il vento pareva essersi fermato, quel giorno. Faceva caldo, c'era afa e Demelza sentiva una forte nausea a causa di tutto questo.

Non si dissero nulla, quando furono uno di fronte all'altra. Lei si sedette dal lato, lo guardò di sfuggita e poi osservò il panorama fuori dal finestrino. Sembravano due estranei adesso e lo sarebbero stati da quel giorno in avanti, per sempre...

Ross, vestito bene e coi riccioli perfettamente pettinati e domati, pareva rigido come lo era stato il giorno del loro matrimonio. Il suo sguardo era come quello di allora, una maschera impenetrabile ed immobile che non permetteva agli altri di leggere i suoi sentimenti. Era indubbiamente teso e a disagio ma Demelza non sapeva dire per quale motivo: se fosse per la scocciatura di dover venire fino a Nampara a prenderla per sbrigare quella formalità o per il dispiacere di quanto stava per accadere, lei non lo chiese e per molti anni visse con quel dubbio nascosto nel cuore.

"Come stai?".

Fu l'unica cosa che lui le chiese, con una voce che non sembrava nemmeno la sua. "Bene".

"E Jeremy?".

"Bene anche lui...".

Non si dissero nient'altro, non ce n'era motivo. Era tutto così penoso, triste, pieno di cose lasciate in sospeso e non dette che era meglio tenere nascoste...

Avrebbe potuto chiedere come andava con Elizabeth, come si trovava a Trenwith, perché non era venuto a trovare Jeremy ma in fondo decise che non le interessava.

Si era ripromessa di essere forte e di non provare emozioni e così avrebbe fatto!

Fu solo davanti al notaio, un uomo anziano dall'aspetto bonario e pacioso e dai capelli ricci completamente bianchi, che si sentì cedere.

Il suo bambino le diede un calcione proprio mentre il documento dell'annullamento fu davanti ai suoi occhi ed ebbe lì davanti, nero su bianco, l'atto che avrebbe distrutto la vita sua e dei suoi figli.

Tremò e sentì gli occhi diventarle lucidi. Ma la cosa strana fu che pure Ross, nel medesimo istante, ebbe le stesse reazioni...

Si voltò verso di lui, lo cercò con lo sguardo e silenziosamente lo implorò di bloccarla, di impedirle di firmare.

Fra loro, sempre, nei momenti più difficili le parole non erano mai state necessarie. Ross poteva leggere dentro di lei, sapeva che era in grado di farlo se avesse voluto...

La mano le tremolò ancora, tanto che dal pennino cadde una goccia di inchiostro nero sulla scrivania. "Perdonatemi, signore" – disse quasi a scusarsi col notaio, con voce rotta.

L'uomo la guardò e nel suo sguardo lesse pietà. "Non preoccupatevi, la mia domestica pulirà più tardi".

Fu a quel punto che Ross le sfiorò la mano, stringendola nella sua. Era calda, confortevole, forte. "Demelza...".

In quel momento desiderò non essere forte come si era ripromessa...

In quel momento desiderò solo che lui le strappasse di mano la penna, la abbracciasse e la portasse via. Non importava dove, come avrebbero vissuto e quanto ci avrebbero messo a superare quell'incubo. Voleva solo andare via, con lui, a prendere Jeremy e poi scappare insieme lontano da tutto questo.

Ross per un attimo, come leggendole nel pensiero, parve desiderare la stessa cosa.

Le loro mani si strinsero più forte e per un istante si sentirono forti come una volta...

Per un attimo i loro sguardi si incrociarono e tutto fu come sospeso, come se il tempo si fosse fermato cristallizzando i loro desideri.

Ma poi Ross tornò alla realtà, ai suoi doveri, al peso della sua decisione. Le accarezzò la mano, delicatamente, quasi con amore, un amore che non poteva più provare, non ora che aveva scelto Elizabeth... "Mi dispiace" – disse solo, con voce strozzata e sofferente.

E Demelza capì che voleva quella firma e che non si poteva tornare indietro. Deglutì, raccolse tutta le sue forze e la sua dignità per non scoppiare a piangere e poi firmò...

E quando Ross ebbe fatto altrettanto, il bimbo scalciò di nuovo con forza.

Guardò suo marito che non lo era più, sentendosi quasi svenire...

Quell'uomo forte, coraggioso, giusto e battagliero che l'aveva sposata e di cui lei andava fiera, non era più suo marito.

E lei era tornata ad essere Demelza Carne, una povera ragazza di Illugan. Madre di due bambini illegittimi...

Il notaio tossicchiò. "Bene, la transazione è conclusa. Auguro ad entrambi buona fortuna. Signor Poldark, entro pochi giorni depositerò l'annullamento in tribunale e al massimo settimana prossima, potrete procedere alle pubblicazioni per il matrimonio con la signorina Elizabeth Chynoweth".

Demelza non disse nulla, non ne aveva la forza ma in quel momento le sembrò di odiare tutti.

Al diavolo le buone maniere, al diavolo tutto, al diavolo il saluto di commiato al notaio. Lasciò la mano di Ross, calda e confortevole, e uscì dalla porta, decisa a tornare a Nampara da sola.

"Demelza, aspetta".

Ross le fu dietro e sentì i suoi passi veloci avvicinarsi e il suo braccio catturarla prima che potesse raggiungere la strada. "Lasciami" – disse, senza voltarsi.

"Devo parlarti, devo spiegarti, devo...".

"Non mi devi nulla. Fammi andare a casa, sono stanca e il bambino è pesante".

"Ti porto io a Nampara" – disse lui, come a corto di parole.

Lei sorrise, tristemente. "Non è necessario".

"Certo che lo è!". Ross indicò lo studio del notaio e il suo sguardo divenne disperato. "Quello che è successo la dentro, non cambia nulla per me! Per ciò che tu rappresenti, assieme ai nostri figli".

"Certo... Ma sono solo parole visto che, nelle ultime settimane, non sei mai venuto a vedere Jeremy come avevi promesso".

Ross sospirò, abbassando il capo. "Elizabeth sta male, sta sempre a letto! E ogni volta che le parlo di te e dei bambini, di Nampara, ha contrazioni che ci spingono a chiamare il dottore. Non so cosa fare...".

Demelza scosse la testa, come si aspettava Elizabeth stava sfoderando tutte le armi che aveva a sua disposizione per tenere Ross incatenato a se. Era brava in questo, molto più di quanto non fosse mai stata lei. "A novembre nascerà il bambino. Verrai a conoscerlo, quanto meno?".

"Certo, non potrei mancare per nulla al mondo! E verrò anche prima, per Jeremy".

A quelle parole, lei si allontanò. "No, non lo farai e lo sai anche tu! Elizabeth avrà sempre le contrazioni, ogni volta che tenterai di farlo...".

Era ironica, anche Ross se ne accorse. "E' un incubo Demelza, per me quanto per te. Credimi...".

"Non voglio parlare di questo, Ross. Voglio solo che tu ci sia, quando il bimbo nascerà".

"Ci sarò!".

Demelza lo guardò e volle credergli. Ma tutto andava a rotoli e, anche se ancora non era riuscita a piangere, sapeva di essere distrutta come non le era mai capitato nella sua vita. E si chiese, silenziosamente, se sarebbe mai stata capace di essere felice di nuovo.


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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Il giorno in cui era morta Julia, Ross aveva pregato silenziosamente Dio di non fargli più rivivere un dolore simile. Di uccidere lui piuttosto ma MAI avrebbe più voluto assistere alla morte di una persona che amava, di un amore, di un figlio...

Dopo la morte della sua bambina si era svegliato spesso di soprassalto, di notte, col fiato corto e il cuore che pareva frantumarsi in mille pezzi. Incubi... Ricordi di quel dolore lancinante che mai se ne sarebbe andato via del tutto e che sempre tornavano a tormentarlo...

Julia sarebbe sempre stata un'ombra nel cuore di Ross, il suo più grande fallimento, il più grosso rimpianto...

Aveva sperato che le sue preghiere potessero trovare accoglimento eppure nel momento in cui lui e Demelza avevano apposto quelle firme e avevano annullato il loro matrimonio, aveva sentito il suo cuore andare nuovamente in frantumi. Ed era stato doloroso come quando aveva perso Julia...

Per un attimo Demelza, che fino a quel momento si era dimostrata tanto forte e fiera, aveva vacillato. Lo aveva guardato con quello sguardo implorante, in silenzio i suoi occhi lo avevano supplicato di portarla via, di scappare insieme da quell'incubo con il loro bambino verso un posto lontano dove nessuno li conosceva e dove avrebbero potuto ricominciare da zero.

Aveva desiderato la stessa cosa, nel medesimo momento...

Fregarsene della parola data ad Elizabeth, delle responsabilità, del suo onore...

Avrebbe voluto prendere quella donna che, da quando se n'era andato da Nampara, gli mancava come l'aria e con Jeremy scappare via, solo loro. E al diavolo tutto il resto!

Ma poi la ragione, stranamente per uno come lui, aveva prevalso.

Le aveva stretto la mano, aveva cercato di imprimere in se il calore della pelle di Demelza contro la sua rendendosi conto che, nonostante tutte le promesse che le aveva fatto, ora sarebbe stato tutto difficile e che pian piano si sarebbero persi per sempre.

Lui, lei, i loro figli...

Sarebbe gradualmente diventato un estraneo per loro, per loro che riteneva la sua vera e unica famiglia, quella famiglia a lungo bistrattata, dimenticata, data per scontata e che aveva distrutto con la follia di una notte.

Aveva perso tutto ciò che amava e lo meritava anche, ma non era questo che lo faceva stare così male. Era aver fatto del male a Demelza e a Jeremy, l'esserne consapevole, che lo annientava...

Lui avrebbe sofferto, in fondo se l'era cercata.

Ma lei no, non Jeremy, non il loro piccolo in arrivo...

Aveva distrutto tutto ciò che rendeva la sua vita degna di essere vissuta e aveva trascinato nel baratro tutto coloro che, nonostante i suoi difetti e i suoi mille colpi di testa, gli erano sempre stati accanto amandolo per quello che era.

Aveva fatto qualcosa di orribile, firmando quel documento: aveva reso Demelza una ragazza-madre e aveva reso i suoi bambini dei piccoli senza nome... Sarebbero stati chiamati 'bastardi' e in mille altri modi orribili ed era stato lui a renderli tali.

Si chiese se avrebbero potuto perdonarlo, un giorno. E amarlo come un padre, di nuovo...

Era difficile crederlo, sperarlo, aveva il baratro davanti a se.

Viveva a Trenwith, in una casa di famiglia che aveva sempre visto da lontano ma che mai avrebbe sentito sua, con una donna che aveva desiderato a lungo e che, ora che l'aveva, aveva capito essere stata il più grande errore e la più crudele illusione della sua vita.

E c'era un nuovo bambino in arrivo, la causa di tutto quel disastro, un figlio suo che non voleva, che era reale e che desiderava fosse un incubo, un essere vivente di cui non si sentiva padre e forse mai sarebbe riuscito ad esserlo.

In miniera, i suoi vecchi amici e compagni di gioie e dolori, appena saputa la notizia dell'annullamento del suo matrimonio, si erano allontanati con freddezza. Se lo aspettava, amavano Demelza e avevano una grande stima di lui come uomo, fino a quel momento... E ora? Ora sguardi ostili lo accoglievano ogni mattino alla Wheal Grace e di quel calore che faceva sembrare quella miniera una seconda famiglia, non era rimasto nulla. Lo avevano abbandonato anche i suoi amici, prima Dwight e poi Zacky e gli altri. Nessuno si era licenziato, era ovvio che tutti loro avevano bisogno di lavorare e che lui era lunico sostentamento per le loro famiglie, ma per il resto era trattato freddamente come se per loro fosse un estraneo.

Avevano perso pure loro, minatori spesso ubriachi e maneschi, la stima verso di lui come uomo...

Agatha, a Trenwith, era stata felice della sua scelta. Nella sua logica di vecchia matriarca della famiglia, lui aveva preso l'unica decisione giusta. Era un tipo di pensiero egoista ma Ross non si sentiva di condannarla. Era cresciuta con quei principi e non poteva cambierli ora, che aveva quasi cent'anni. Jeoffrey Charles era stato contento della novità di averlo a casa, accanto alla madre. Era troppo piccolo ancora, per capire l'entità di quella scelta e di quello che avrebbe comportato per tanti. Aveva perso il suo papà e da sempre si erano voluti bene, loro due, ma l'amarezza riusciva a mandare di traverso anche l'unico rapporto vero e gioioso che aveva in quella casa. Guardava Jeoffrey Charles e pensava a Jeremy che aveva abbandonato. Come poteva giocare con un bambino, metterlo a letto, ridere con lui quando aveva abbandonato i suoi figli?

Aveva promesso a Jeremy e a Demelza di andare spesso a trovarli ma poi non era riuscito mai a farlo. Elizabeth stava male, adduceva lo stress della situazione a Nampara come causa di quella gravidanza complicata ma non era questo che aveva impedito a Ross ad andare a far visita ai suoi cari. Spesso, di nascosto, aveva galoppato fino a Nampara. Ma poi si era fermato, vinto dai sensi di colpa e dalla paura che, se fosse entrato in quella casa, sarebbe crollato e non sarebbe più riuscito ad andarsene...

E poi era terrorizzato. Aveva paura di vedere il dolore e la delusione sui volti di Demelza e Jeremy, di vedere quanto quella firma avesse distrutto le loro vite...

Aveva creduto di potere esserci per tutti ma ora sapeva che Demelza aveva ragione: non poteva, non avrebbe mai potuto... Se n'era andato, li aveva abbandonati a loro stessi e non poteva tornare indietro, non c'era modo...

Aveva fatto una scelta, aveva deciso di avere dei doveri altrove e l'unica consolazione era il sapere che Prudie badava a Demelza come a una figlia e che se ci fosse stata un'emergenza lo avrebbe chiamato, portandolo a Nampara a calci nel sedere.

Elizabeth, dopo l'annullamento del matrimonio, si era addolcita. Forse per il fatto che la situazione con Demelza fosse stata ufficializzata, forse per imbonirlo, forse chissà per quale strano motivo... Se la guardava da lontano, senza pensare al fallimento che era diventata la sua vita, in alcuni istanti le sembrava la sedicenne di cui si era innamorato tanti anni prima...

Eppure era un'illusione che durava poco. Amore, matrimonio e famiglia significavano, per lui, condivisione di gioie e dolori. Aveva sofferto in quelle settimane per quanto aveva fatto a Demelza e se Elizabeth avesse dimostrato di capirlo e comprenderlo, di fare un pò suo il dolore di Demelza e Jeremy e dispiacersi per loro, forse avrebbe visto il suo futuro con lei meno cupo. Invece nulla, tanto che si era chiesto se lei avesse un cuore, se lo avesse avuto e poi perso o se l'avesse sempre ingannato con moine e sorrisini a cui lui aveva sempre creduto. Non c'era nulla che potesse condividere con lei, non i suoi sentimenti, non i suoi pensieri, non le preoccupazioni per la miniera e i minatori, niente di niente!

Sarebbe stato un matrimonio solo di facciata e lui sarebbe morto dentro poco per volta, lontano da chi amava e aveva trascurato e poi abbandonato... Non se n'era mai accorto prima di quel momento, non aveva mai realizzato se non dopo averla persa, quanto Demelza facesse parte di lui, quanto l'avesse reso un uomo migliore e quanto lontano era andato, grazie a lei e al suo supporto. E ora non c'era più... Quei lunghi capelli rossi, quegli occhi verde-azzurro, quel sorriso dolce non gli sarebbero più appartenuti e a lui mancavano come l'aria.

Si chiese se agli uomini fosse concessa una seconda opportunità, nel tempo e nello spazio... Si chiese se mai sarebbe arrivato un giorno in cui sarebbe stata di nuovo sua e avrebbero potuto essere ancora, insieme, una famiglia felice.

Ma fino a quel momento, se mai fosse arrivato, lui che uomo sarebbe stato? Un uomo a metà probabilmente, senza voglia di vivere e senza voglia di imbarcarsi in nessun obiettivo...

Sarebbe appassito, come appassiscono i fiori in autunno senza acqua e senza luce... Perché Demelza era la sua luce...

Siccome Elizabeth continuava ad accusare dolori e malesseri che, a suo dire, la costringevano a letto e le creavano ansia assieme alla faccenda di Nampara, Ross aveva imposto un matrimonio a Trenwith, solo fra loro, senza festa né ospiti. Avevano chiesto ai domestici di far da testimoni e il Reverendo Halse aveva celebrato la cerimonia nel salone, dopo che Elizabeth si era arresa a quelle sue scelte e aveva smesso di lottare per una festa più in grande.

Elizabeth non era stata contenta di quella decisione, avrebbe voluto un matrimonio elegante ma Ross era stato fermo nella sua decisione. Lo aveva voluto come marito e avrebbe dovuto imparare a convivere coi lati più oscuri del suo carattere, quelli che in quel periodo avevano preso il sopravvento.

E poi, dopo averle fatto notare che non riusciva ad alzarsi dal letto, lei aveva dovuto abbozzare con una smorfia, mordersi la lingua e accettare.

Aveva detto quel sì con un peso nel cuore, senza un sorriso o uno sguardo amorevole alla sposa. Quando aveva sposato Demelza era confuso e stupito di essere giunto a quella scelta ma in un certo senso aveva sentito il suo animo leggero, allora...

Con Elizabeth non era così, con lei pronunciare quel sì era equivalso a sentirsi condannato a una prigione eterna. Per un attimo l'aveva guardata e si era soffermato a pensare a quanto l'aveva desiderata senza rendersi conto di avere già tutto quello di cui aveva bisogno e lo rendeva felice.

Ora era sua moglie e si sentiva un mostro: verso di lei, antica illusione finita in cenere e che mai avrebbe reso felice, verso Demelza e i loro bambini, verso il piccolo che aspettava Elizabeth che non sarebbe mai riuscito ad amare del tutto, verso Jeoffrey Charles che in lui sperava di trovare un nuovo padre e che per questo sarebbe rimasto deluso. Agatha sorrideva, soddisfatta... Forse solo lei riusciva a vedere del bene in quel matrimonio, solo lei e i suoi quasi cent'anni...

Elizabeth, vestita con un abito color avorio, lo aveva sposato con aria sgomenta, forse rendendosi finalmente conto anche lei che non erano fatti per stare insieme e che lui non avrebbe mai potuto darle la vita che aveva sognato. Ecco, forse in quel momento anche lei, come lui, si era sentita in trappola...

Dopo la cerimonia, avevano offerto dei dolcetti voluti da Jeoffrey Charles alla scarsa servitù di Trenwith e poi, una volta congedati tutti e rimasti soli, Agatha aveva insistito per essere lei a mettere a letto il bambino. "Tua madre ha un marito adesso, per stasera lascia che pensino a loro e che a te ci pensi io".

Jeoffrey Charles aveva annuito, sorridendo contento. Si era avvicinato loro che, imbarazzati, avevano assistito alla scena e poi dopo aver dato a entrambi il bacio della buona notte, era corso sulle scale. "Zia dai, andiamo! Prima di dormire mi leggi i tarocchi?".

Agatha, tutta eccitata, dopo aver lanciato loro un'occhiata maliziosa, era salita sulle scale con passo piuttosto svelto.

Ross la osservò salire e appena sentita chiudere la porta della cameretta di Jeoffrey Charles, si incupì. Era meglio mettere le cose in chiaro! "Io continuerò a dormire nella camera degli ospiti, ovviamente!". Non riusciva nemmeno a concepire l'idea di condividere nuovamente un letto con lei. Dopo quella notte maledetta era scappato e il suo cavallo lo aveva ricondotto a Nampara, quasi sapesse che il suo cuore apparteneva a quel luogo. E ora dormire con Elizabeth, svegliarsi con lei accanto, condividere con lei intimità, preoccupazioni, pensieri o semplici risate dopo che era stata Demelza la sua compagna, per anni, gli sembrava assurdo. Non riusciva, non poteva!

Lei sussultò. "Siamo sposati, ora! E tutto quello che riesci a fare è respingermi. Anche prima, mi hai dato un bacio talmente freddo e veloce, quando il prete ci ha sposati...".

Lui si appoggiò al tavolo, sospirando. "Pensi che per me sia facile?".

Gli occhi di lei divennero lucidi. "E tu pensi lo sia per me?".

"Sì, lo è!" - esplose. "Lo è, lo è sempre stato. Decidere che dovevo venire quì, decidere di distruggere la vita di Demelza senza averne alcun rimorso e pretendere che io da un giorno all'altro cambiassi totalmente la mia esistenza col sorriso sulle labbra, è stato facilissimo per te!!! Lo hai preteso e ne hai ogni diritto visto quanto è successo ma vederti esserne contenta è troppo per me! Ti ho sposata, ho salvato la tua reputazione, ti ho legittimata come moglie e compagna abbandonando a se stessa Demelza e i miei figli! Ma non pretendere di più di questo, non posso dartelo...".

Lei si morse il labbro. "Ross, ci siamo desiderati tanto, tanto a lungo... Lo so che per te è difficile iniziare una nuova vita e va bene, ti do tempo. Ma dammi un'opportunità per trasformare questo matrimonio frettoloso in qualcosa di bello".

Ross sorrise amaramente, pensando a quanto in passato l'avesse desierata tradendo Demelza col pensiero, prima che coi fatti... "La verità è che non siamo più ragazzini... Siamo cambiati, non siamo più quelli di allora e vogliamo cose diverse. Doveva succedere questo disastro prima che me ne accorgessi...".

Elizabeth si toccò il ventre leggermente accentuato. "Disastro? Che brutto modo di chiamare tuo figlio...".

"Non sarebbe dovuto esistere e tu lo sai...".

Lei si indurì. "Ma c'è!".

"E io ci sarò per lui o lei. Sono quì per questo bambino".

Elizabeth si avvicinò, prendendogli la mano. "E non per me?".

Cosa poteva dirle? Come poteva spiegarle che non era lei la donna che voleva accanto? "Io mi sento sposato ancora con Demelza e non so se questa cosa potrà mai cambiare".

"Demelza? Ancora Demelza?" - urlò lei. "E' finita, Ross! Sei mio marito, ORA!!!".

La guardò con odio. La odiava ogni volta che parlava così, con quella noncuranza, di Demelza. "Era mia moglie, la amavo e mi ha dato dei figli e una vita felice! E' stata la mia compagna, la mia migliore amica, la mia socia, la mia sostenitrice nelle battaglie che ho intrapreso e che abbiamo condiviso insieme, per la maggior parte del tempo senza avere nemmeno i soldi per mangiare! E ha salvato Jeoffrey Charles a discapito di nostra figlia e mettendo a repentaglio la sua salute, nel caso lo avessi dimenticato! E voglio, PRETENDO che tu le porti rispetto".

Elizabeth accarezzò il legno del tavolo, con gli occhi lucidi, forse ricordando i giorni orribili della gola putrida. "Ross, io so che lei ha fatto molto per noi e mi dispiace. Ma...".

"Ma?".

Si accarezzò il ventre e la sua espressione divenne decisa. "Io vivo per i miei figli e ogni cosa che faccio, la faccio per il loro bene! E per il loro bene, per proteggerli e garantire loro un futuro, sono disposta a schiacciare chiunque senza guardarmi indietro. Sono disposta a mettere a tacere la mia coscienza e il mio cuore e ad andare contro a sentimenti di solidarietà e bontà, se necessario. Sono una madre e questo è quello che fanno le madri. E dovresti esserne contento, per il bambino che aspetto da te".

Ross scosse la testa. "Le madri devono essere d'esempio ai loro figli... Insegnare loro ad essere brave persone pur facedo sacrifici... Questo fanno le madri...".

"Anche i padri!" - ribatté lei. "E un padre dovrebbe mostrare ai figli rispetto per la loro madre!".

"Non ti rispetto?".

"Non vuoi dormire con me, Ross!".

Ross sorrise, sarcastico. "A nostro figlio, per ora, questo non importa. Non è ancora nato".

"E quando nascerà?" - chiese lei, con una nota di disperazione nel tono di voce.

"Vedremo... Per ora viviti la tua gravidanza difficile comodamente, senza disturbi da parte mia, in camera tua. Poi ci penseremo... In fondo è per il tuo bene, no?". Dopo tutto non c'era solo sarcasmo in quelle parole, era anche per le sue condizioni di salute... Se lei stava tanto male come diceva, averlo a letto non avrebbe fatto altro che aumentare il suo stress.

"Ross, sono tua moglie e voglio tutto di te! E so che lo sai, non puoi non saperlo che ti ho sempre amato".

"Tu hai già tutto quello che io posso darti e non posso assicurarti di riuscire a darti altro, in futuro" – rispose lui, amaramente – "E anche io ti ho amata".

"Parli al passato..." - commentò lei, con la stessa amarezza.

"Già".

Elizabeth deglutì. "Lo amerai?".

"Chi?".

"Il nostro bambino?".

Ross scosse la testa, sentendo una gran pena per tutta quella situazione. "Ci proverò...". E poi, mestamente, le voltò le spalle. Salì le scale con passo pesante, stanco come se avesse anche lui cent'anni come Agatha, e poi in camera sprofondò nel letto, annegando se stesso e i suoi dispiaceri nel buio di quella notte senza stelle né luna.


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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


L'inverno era arrivato in anticipo e gli ultimi mesi di gravidanza di Demelza erano stati difficilissimi. Il freddo, la stanchezza fisica e mentale e la tristezza infinita che l'accompagnava sempre, avevano reso il suo stato d'animo logorato e sfinito.

Non era mai stata tanto stanca in vita sua nemmeno ad Illugan e forse sarebbe stata stanca per sempre...

Era ricaduto tutto sulle sue spalle da quando Ross se n'era andato. Lui, come aveva immaginato fin dall'inizio, non era mai venuto ma sperava che, col parto, quella situazione di stallo avrebbe potuto sbloccarsi per il bene dei bambini. Di se stessa le importava poco, quello strappo al suo cuore dopo l'annullamento del matrimonio l'aveva resa apatica a tutto e non si aspettava nulla di buono per se stessa. Il dolore di aver perso Ross era stato troppo, l'aveva annientata e non essere mai riuscita a piangere aveva reso il suo cuore duro come pietra e impermeabile ad ogni emozione...

Si chiedeva spesso se e quando sarebbe crollata ma sapeva di non poterselo permettere per Jeremy e per il bene del bambino che aspettava. Doveva essere forte, lei per tutti. Anche se aveva perso l'amore... Il suo uomo... Colui che, nel mondo, era l'unico a farla sentire completa... La sua ragione di vita...

Per fortuna aveva due meravigliosi angeli custodi accanto, Prudie che le era vicina come una mamma e Dwight, sempre disponibile e scrupoloso, che la seguiva sia come medico che come amico. Erano i suoi unici appigli, gli unici a cui appoggiarsi quando sentiva che tutto era troppo e che quella situazione l'avrebbe schiacciata.

Zachy, dalla miniera, veniva ogni settimana a portare del denaro da parte di Ross ma Demelza aveva deciso di contare solo sulle sue forze per il proprio sostentamento, affidandosi ai doni della terra di Nampara. Non voleva la carità, non voleva nulla da lui!

Aveva usato una parte di quel denaro solo per Jeremy, quando ce n'era stata effettiva necessità. Il resto lo aveva chiuso in un cassetto, dentro a una busta e lo avrebbe restituito a Ross appena lo avesse visto.

Non sapeva perché era rimasta, in quei mesi si era chiesta spesso perché non era andata via e non aveva tentato di ricominciare una vita altrove. Se non fosse stato per Jeremy e per il bambino e per la vaga promessa di Ross di essere presente nella vita dei loro figli, se ne sarebbe già andata. Ma doveva dare una possibilità a quella promessa, lo doveva ai suoi figli più che a Ross. Doveva tentare prima di arrendersi e anche se era consapevole che difficilmente lui sarebbe riuscito ad essere un padre presente, voleva accertarsene di persona prima di gettare la spugna e andarsene coi suoi figli.

La gravidanza, nonostante tutto, era proseguita senza troppi problemi. Il bambino era vispo, scalciava spesso e viste le dimensioni del suo girovita, doveva essere pure bello grosso.

Jeremy, la sera, le accarezzava il pancione e fingeva di parlare col fratellino o la sorellina ed era il momento più dolce della giornata per lei, quello, dove si sentiva amata e protetta dalla presenza dei suoi figli.

Il resto della giornata non era così, il resto della giornata era duro e difficile. Si sentiva sola, spaventata dal futuro e ogni cosa le sembrava impossibile da superare senza Ross...

Eppure stringeva i denti, volta per volta, e ce la faceva...

Sempre...

Non aveva altra scelta se non essere forte, soprattutto per Jeremy. Da quando Ross se n'era andato, era diventato agitato e capriccioso e spesso aveva dovuto imporsi a lui con fermezza, quando il bimbo aveva superato il limite. Faceva storie per mangiare e spesso la notte si svegliava in lacrime. La cercava ma cercava anche Ross...

E in quel momento le si stringeva il cuore perché Jeremy aspettava il suo papà, non capiva perché non lo vedesse più e una volta le aveva chiesto, stentatamente, se se ne fosse andato perché lui era stato cattivo.

Aveva odiato Ross, in quel momento... Quanto male stava facendo a Jeremy? Ne era almeno consapevole?

Lo aveva abbracciato, aveva asciugato le sue lacrime e gli aveva detto che no, non era per quello, che il suo papà aveva delle faccende urgenti lontano da casa e che non poteva tornare ma che, alla nascita del fratellino, sarebbe corso da loro.

E da allora, ogni mattina, Jeremy aveva chiesto se era arrivato il giorno della nascita. Aspettava il fratellino ma soprattutto, aspettava il suo papà... E Demelza pregava in silenzio che Ross mantenesse la parola data e che venisse perché in caso contrario avrebbe distrutto il cuore di Jeremy e tutto quello che avrebbe potuto venire...

La mattina del 20 novembre iniziò in maniera gelida. I campi erano coperti di brina, il cielo nuvoloso e spirava da nord un vento freddo che pareva voler congelare ogni cosa.

Demelza si svegliò per una fitta al ventre che, da quanto era potente, le fece mancare il respiro. Guardò fuori dalla finestra e vide che c'era già un pò di luce e che quindi l'alba doveva essere passata e rimase ad aspettare. Ma quando, dopo cinque minuti di immobilità arrivò una seconda fitta, si convinse ad alzarsi dal letto e ad andare a chiamare Prudie. Era arrivato il momento ed era da qualche giorno che se lo aspettava... Aveva avuto spesso contrazioni e fitte durante l'ultima settimana e a conti fatti, quelli erano i giorni indicati da Dwight come i possibili per il parto.

Aveva paura di quel parto... Per la prima volta in vita sua era terrorizzata perché sarebbe stato il momento della verità: per mesi si era chiesta cosa facesse Ross, cosa pensasse, se sarebbe venuto dai bambini...

Ora avrebbe avuto ogni risposta e aveva paura... Paura che venisse, paura che non venisse... Ogni soluzione la terrorizzava per il carico di emozioni e decisioni che avrebbe portato con se.

Sapeva solo, al momento, che era sola. E che doveva partorire con le poche forze che le erano rimaste.

Prudie, approfittando del fatto che Jeremy dormisse ancora, era corsa verso la residenza di Dwight e Caroline infagottata come un pinguino, con indosso ancora la camicia da notte che non aveva fatto in tempo a togliere e che aveva coperto con gli abiti da lavoro e il mantello.

Demelza rimase a letto, in attesa, attenta a non lamentarsi per non far svegliare Jeremy. Se suo figlio si fosse accorto del trambusto e si fosse agitato, non sarebbe stata in grado di prendersene cura.

Dwight arrivò in fretta e per fortuna giusto in tempo, perché le contrazioni divennero subito ravvicinate e forti, segno che il parto sarebbe stato estremamente veloce.

Prudie corse a dare un occhio a Jeremy e per fortuna il bambino non si era svegliato, poi tornò in camera con bacinelle d'acqua, stracci e asciugamani.

Dwight le prese la mano, sorridendole e accarezzandole la fronte. "Pare che questo bambino abbia estremamente fretta di nascere, credo che sarà un parto rapido".

Nonostante i dolori, Demelza gli sorrise. Una buona notizia, finalmente! "Mi spiace di averti buttato giù dal letto a quest'ora, con questo freddo".

Dwight le strizzò un occhio. "Caroline, visto che la partoriente sei tu, mi ha dato il permesso di venire... Ma non ho molto tempo e quindi sù, facciamo nascere questo bambino".

Demelza annuì e si accorse di avere paura. Non per il parto in se ma per quello che avrebbe comportato... Se Ross non si fosse fatto vivo, avrebbe dovuto prendere decisioni importanti e la responsabilità dei due bambini sarebbe ricaduta tutta su di lei. "Se almeno fosse diverso... Se lui...".

Dwight le strinse la mano, vigorosamente. "Non pensarci, non adesso! A tutto c'è rimedio Demelza e ora devi concentrarti unicamente sul parto così che, quando Jeremy si sveglierà, si troverà con un nuovo fratellino o una sorellina. Questo è un bel giorno per te, Demelza! Ricordatelo!".

"Sì". Chiuse gli occhi, decise che lui aveva ragione e raccolse tutte le sue forze. Si lasciò guidare da Dwight che, in quei momenti concitati fu medico oltre che amico, tentò di non urlare per non svegliare suo figlio, si aggrappò con forza a Prudie che la sosteneva mentre spingeva e alla fine, alle otto in punto del mattino, lei nacque... E il suo pianto, come quello dei bambini nati prima di lei, gli parve il suono più bello del mondo.

"E' una bambina! Santo cielo, è pure bella grossa!" - esclamò Dwight contento, tenendo la neonata in braccio.

Demelza si accasciò sul cuscino e Prudie corse a prendere una copertina con la quale avvolse la bambina.

"Sta bene?" - chiese Demelza, col poco fiato che aveva in corpo.

Dwight osservò la piccola che piangeva stizzita e pareva voler far tremare i vetri con la sua voce. "Direi che ha degli ottimi polmoni ed è piuttosto arrabbiata per il trambusto che ha dovuto vivere. La senti strillare? Questa bambolina sta meglio di tutti noi messi insieme, scoppia di salute ed è assolutamente bellissima".

Le si avvicinò piano, poggiandole dolcemente la piccolina sul petto. Demelza la strinse a se e la guardò, in un misto di gioia autentica e vera per essere diventata mamma e di dolore perché Ross non era lì, ad accogliere alla vita la loro bambina. Era bellissima, talmente bionda da non vedersi quasi i capelli, con delle manine affusolate dalle dita lunghe, la carnagione chiara e gli occhioni azzurro-verdi come i suoi. Le sue guance erano piene e, anche se non somigliava per nulla a Ross, aveva ereditato da suo padre lo sguardo fiero e l'espressione di chi sa quello che vuole.

La bimba, fra le sue braccia, smise di piangere. Demelza la baciò sulla testolina, rendendosi conto che aveva fra le braccia la sua ragione di vita, assieme a Jeremy. Nonostante il dolore di quanto vissuto in quei mesi, nonostante Ross non avesse fatto parte di quell'attesa e di quella nascita spezzandole il cuore, nonostante la paura e le incognite del futuro, guardandola sentì di amarla e basta. E che in quel momento il resto non contava.

"Sembra una principessina, ha un aspetto nobile..." - disse Prudie, guardando la neonata.

Demelza cullò la piccola e sorrise a quelle parole, annuendo. "E' vero" – sussurrò, tentando di attaccarla al seno per allattarla. La bimba la osservò con il pugnetto della mano in bocca e poi, come se non avesse fatto che quello da sempre, si mise a succhiare il latte con voracità.

Dwight le accarezzò la spalla. "Complimenti, è bellissima e te la meriti tutta, questa bambina. Goditela...".

"Ci proverò".

"Come la chiamerai?".

Demelza ripensò a quegli ultimi mesi dove, per distrarre Jeremy, si era impegnata con lui a scegliere il nome del bambino in arrivo. Suo figlio si era lasciato prendere dal gioco e aveva inventato nomi di fantasia assurdi che, in quel momento tanto difficile, erano riusciti a farla ridere. Ecco, se c'era un qualcosa che poteva renderla ottimista, qualunque cosa fosse successa, erano i suoi figli. Ora ne aveva due e sarebbero sempre stati fonte di sorprese e gioie per lei. "Clowance, lei si chiamerà Clowance... Carne".

Lo sguardo di Dwight si fece serio mentre Prudie, impallidendo, voltò la testa atrove. "Demelza...".

Lo sguardo della donna si indurì e richiamò entrambi all'ordine. "Non voglio pietà, posso farcela e ormai le cose stanno così, è inutile far finta che la realtà sia diversa. Quindi, per favore, non guardatemi in quel modo" – disse, stringendo a se la piccola Clowance.

Dwight le sorrise dolcemente, sedendosi sul letto accanto a lei. "Hai ragione, scusa. Trovo che il nome Clowance sia bellissimo e stia davvero bene a questa bambina".

"E' un nome elegante e lei sembra una bambina elegante, anche se strilla come un'aquila quando piange".

Dwight alzò gli occhi al cielo, sospirando. "Tutte le donne eleganti strillano come aquile e fanno capricci..." - commentò, pensando scherzosamente a Caroline.

Nonostante fosse stanca, Demelza rise. "Come sei confortante, Dwight...".

Il medico rispose al sorriso mentre Prudie prendeva gli asciugamani sporchi e preparava l'occorrente per aiutare madre e figlia a lavarsi. "Demelza, devo dirti una cosa e vorrei che prendessi in considerazione l'offerta mia e di Caroline" – disse Dwight, a un tratto, con serietà estrema.

Demelza lo guardò, incuriosita. "Dimmi".

Dwight sospirò. "Come ben sai, il desiderio di Caroline è da sempre quello di iniziare una nuova vita lontano da quì. E dopo quanto successo fra me e Ross, ora è anche un mio desiderio e sono rimasto fin'ora solo per te, volevo esserci ed aituarti nel parto. Ma fra qualche giorno io e mia moglie partiremo, eravamo indecisi fra Bath e Londra e Caroline ha deciso per la capitale dove si trova la dimora principale della sua famiglia che ora lei ha ereditato. Ci farebbe piacere se tu venissi con noi, assieme ai bambini... Per te non c'è più nulla quì e a Londra potresti ritrovare la serenità e una nuova vita. E aiuteresti me tenendomi compagnia e non facendomi sentire l'unico pesce fuor d'acqua in quella grande città" – concluse, cercando di rendere il tono di voce più leggero e ironico.

Demelza sentì stringersi lo stomaco e il suo cuore parve andare a pezzi a quella proposta sicuramente gentile ma che... Andarsene...? Era vero, andarsene da Nampara e dalla Cornovaglia era una delle opzioni a cui aveva pensato ma in cuor suo sperava che Ross potesse trattenerla in qualche modo, che mantenesse fede alle sue promesse e che sarebbe stato presente per i bambini. Evidentemente era un'illusa... Perché era palese che Dwight non nutriva alcuna speranza su una soluzione del genere. Scosse la testa, stringendo a se la sua piccolina e le venne voglia di piangere. Ma ancora una volta si impose di non farlo... Lasciare Nampara e la Cornovaglia avrebbe significato lasciare lì un pezzo grandissimo del suo cuore, lasciare l'unico posto che per lei era stata casa, arrendersi all'idea che della famiglia che aveva creato con Ross e del loro amore, non era rimasto nulla. "Non posso andarmene coi bambini... Ross... potrebbe...".

Dwight scosse la testa. "Demelza, credi davvero che verrà?".

"Devo farlo o per lo meno, devo dargli una chances. Lo devo ai bambini, non posso andarmene togliendo loro l'opportunità di avere un padre. Devo almeno provarci...".

Prudie prese la bimba per lavarla e Dwight le strinse le mani. "Che padre sarebbe? Come potrebbe funzionare? Quando nascerà il bambino di Elizabeth, come potrete far funzionare la cosa? Demelza, io vorrei credere che Ross possa gestire tutto ma ti ha dimostrato ampiamente, in questi mesi, che non è così".

Abbassò lo sguardo, ancora vinta da quelle emozioni forti e da quel dolore che mai l'avrebbe abbandonata. "Gli devo scrivere per dirgli che la bambina è nata e poi, in base a quello che lui farà, deciderò il da farsi. Se non verrà...".

"Verrai da noi a Londra?".

Prudie, dietro di loro, armeggiando la bambina, attirò la loro attenzione. "Io la signora non la lascio. Se lei viene a Londra, trovate una stanza anche per me perché io parto con lei".

Demelza si mise le mani nei capelli. "Prudie...".

La serva si voltò verso di lei, serissima. "Cosa pensi ragazza? Che lasci te e i bambini? Che stia quì a fare da serva a quella gattamorta? Io vengo a Londra, fine del discorso. Avrai bisogno di una tata, no?".

Dwight sorrise. "Per me e Caroline andrà benissimo!". Prese un foglio e scrisse su di esso un indirizzo. "Noi abiteremo quì. Se vorrai venire da noi, sarai la benvenuta e farai parte coi bambini della nostra famiglia".

"Sai che è difficile, Dwight... Non posso partire così, coi bambini...".

"Sono tuoi, di Ross non hanno più il cognome e quindi puoi decidere per loro in autonomia".

Le parole di Dwight facevano male ma in esse c'era l'essenza vera di quell'incubo che stava vivendo. Era vero, erano i SUOI bambini... E lei doveva decidere per loro, non Ross. Lui se n'era andato da mesi e non si era più fatto vedere rendendo chiaro quanto poco gli importasse di loro...

Guardò da lontano la piccola Clowance, immaginò il faccino dolce di Jeremy ancora a letto e decise che, se Ross non fosse venuto, avrebbe intrapreso quella strada. Meritava di più di quello, meritava di più che rimanere sola in una casa ad aspettare un uomo che l'aveva abbandonata e che forse non sarebbe mai tornato. I suoi figli meritavano di più... "Se Ross non verrà, allora partirò" – disse, stringendo nella mano il foglio con l'indirizzo.

Dwight le baciò la fronte e la abbracciò. "Ti aspetteremo a braccia aperte e sarà un nuovo inizio per tutti. Ora vado a casa ma tornerò stasera per visitarti e per accertarmi che vada tutto bene".

"Grazie" – rispose lei, sorridendo dolcemente.

Prudie le si avvicinò, con la piccola avvolta in una copertina bianca. "Eccola, pulita e fresca come una rosa. E' bella come una perla!".

Demelza la strinse a se e la cullò, stringendola al suo petto e cercando di trarre da essa la forza e il coraggio necessari per andare avanti. Doveva farlo, per lei e per Jeremy! Pur con dolore, pur sapendo che Londra non sarebbe mai stata la sua casa, doveva dare ai suoi figli una nuova vita serena, se Ross non fosse venuto...

Sarebbero partiti, sarebbero andati via e Ross avrebbe fatto parte del passato, un passato da dimenticare...

Poco dopo Jeremy si svegliò e Prudie lo portò da lei. Il bimbo, appena vista la sorellina, saltò eccitato e contento di essere il fratello maggiore e di avere una sorella. "Clowance, Clowance!" - urlò, prima di salire sul letto e abbracciarla forte.

"Clowance, sì".

Jeremy diede un bacio alla sorellina, le pizzicò la guancia e tentò di prenderla in braccio ma Demelza lo convinse che non era il caso e che per ora era meglio che stesse con lei. Ma gli promise che avrebbero giocato tanto insieme, appena lei fosse stata abbastanza grande per farlo.

Jeremy annuì, non molto convinto. "Adesso papà arriva?" - chiese infine, formulando la domanda che Demelza più temeva.

"Ora gli scrivo per dirgli di Clowance".

Jeremy sorrise, contento. "E papà corre quì".

"E papà corre quì..." - disse lei, con un filo di voce rotta. E sperò per Jeremy che fosse vero! Per lui più che per se stessa o Clowance...

E mentre Jeremy faceva colazione di sotto con Prudie e Clowance dormiva accanto a lei, Demelza si alzò dal letto e raggiunse la scrivania.

Prese un foglio, penna e calamaio e, sedendosi a fatica, iniziò a scrivere la lettera più importante della sua vita.

Non voleva scrivere nulla di lungo o anticipare niente. Se Ross voleva conoscere Clowance doveva venire a Nampara oppure non avrebbe mai saputo nulla della sua bambina.


"Caro Ross, oggi 20 novembre,alle otto del mattino, ho partorito. Se vorrai venire come avevi detto mesi fa, per ora noi saremo quì ad aspettarti.

Demelza".


Non scrisse altro. E nel pomeriggio, mentre Jeremy faceva il riposino, mandò Prudie a Trenwith per consegnare la lettera.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Veniva giù un freddo nevischio e Trenwith era avvolta dal silenzio nelle prime ore del pomeriggio di quel 20 novembre.

La vecchia zia Agatha, dopo pranzo, si era ritirata in camera sua per riposare mentre Ross, silenziosamente, si era seduto al tavolo del salone principale a studiare delle mappe della Wheal Grace. Jeoffrey Charles stava seduto per terra accanto a lui a giocare con dei soldatini ed Elizabeth era comodamente sprofondata su una poltrona, a lavorare a maglia.

C'era un clima opprimente in quella casa e una strana cappa di tensione e malumore rendeva ancora più cupo quel pomeriggio invernale.

Ross aveva sempre considerato Trenwith una seconda casa per lui e, benché avesse amato quella dimora da bambino, non sarebbe mai riuscito a considerarla la sua vera casa. Il suo pensiero era sempre rivolto a Nampara, erano mesi che non vi rimetteva piede e giorno dopo giorno diventava sempre più difficile tenere fede al proponimento di andarci per fare visita. Era difficile, troppo... E sapeva di essere un codardo perché laggiù c'era sua moglie, colei che considerava davvero tale, e i suoi bambini.

E poi c'era Elizabeth... Stava sempre male o così diceva lei. Lamentava dolori e contrazioni continue che parevano aumentare per lo stress di sentirlo parlare della sua vecchia vita e dei proponimenti di farne comunque ancora parte. Ross non riusciva a capire se Elizabeth stesse male sul serio o se fosse una semplice tattica ma, qualunque cosa fosse, lei doveva arrendersi all'idea che prima o poi lui sarebbe andato a Nampara. Perché per quanto fosse difficile per lui farlo, dopo la nascita del bambino suo e di Demelza le cose sarebbero cambiate! Per tutti!

Fra lui e la sua nuova moglie c'era una sorta di gelo ed astio, si parlavano lo stretto necessario e, benché si sforzasse di avere toni gentili con lei, proprio non gli riusciva di considerarla la sua famiglia da lì e per sempre. E quando si soffermava a riflettere del diventare padre, era al piccolo Jeremy e al bambino che aspettava Demelza, che pensava... Non ad Elizabeth e a quel suo pancione ormai evidente. Non riusciva, non sarebbe forse mai riuscito ad amare quel bambino che aveva distrutto, assieme ai suoi gesti sconsiderati, la sua vita e soprattutto quella di chi amava. Ecco, se c'era qualcosa che lui aveva in comune col figlio che aspettava Elizabeth, era la capacità di entrambi di portare sofferenza agli altri. In questo, era decisamente suo figlio... Non era come Jeremy... Gli aveva promesso di portarlo a cavallo e di andare spesso a trovarlo. Ed erano mesi che non lo vedeva! Si chiese se, pian piano, suo figlio si stesse dimenticando di lui o se fosse arrabbiato per la sua assenza. O deluso...

Santo cielo, come avrebbe fatto a sistemare tutto?

Guardò di sottecchi Elizabeth, era pallida quel giorno. L'aveva adorata ed amata in silenzio per anni, dandole una devozione che avrebbe dovuto riservare a sua moglie. E ora che era sua e l'aveva conosciuta, non riusciva a non chiedersi perché fosse stato tanto cieco. Era così diversa da come l'aveva immaginata, così lontana da lui e dal suo essere, così fredda verso tutti coloro che per lei rappresentavano un ostacolo.

Elizabeth lo amava? O era possesso il suo? Voleva averlo per via del bambino? O per amore? O per vendetta, per quanto successo quella notte? O era per una questione di principio?

Beh, qualunque cosa fosse, fra loro non stava funzionando nulla. E dubitava che le cose sarebbero migliorate. Sapeva che lei amava i suoi figli e si muoveva unicamente per il loro bene ma non poteva accettare che in virtù di questo, schiacciasse senza rimorso chiunque: lui, Demelza, i bambini...

Come avrebbe potuto amarla? COME? Come diavolo aveva fatto a cacciarsi in quella situazione assurda?

La signora Tabb entrò, bussando. "Signore, c'è una lettera per voi".

Elizabeth sollevò lo sguardo e Ross parve sorpreso. “Una lettera per me?”.

Sì signore, la porta la serva di Nampara. Ha detto di dirvi che è urgente”.

La signora Tabb gli consegnò la missiva e poi, dopo un inchino, scomparve dalla porta da cui era arrivata. Ross si sentì attanagliare dall’ansia. Una lettera da Nampara? Era successo qualcosa di grave a Demelza o a Jeremy? Oppure… Oppure…

Col cuore in gola la aprì, temendo che portasse cattive notizie. E quando l’ebbe letta, a fatica, con le mani che gli tremavano, si sentì emozionato e vivo come non gli capitava da mesi.

Era diventato padre… Lontano da casa, dopo tanto dolore e tanti errori, era successo qualcosa di bello…

Rilesse quelle poche parole, era la scrittura di Demelza e se l’aveva scritta lei, significava che tutto era filato liscio e che stava bene. La lettera non diceva nulla del bambino. Il suo nome, se fosse maschio o femmina, niente di niente… Ma non importava, Demelza e i suoi figli lo stavano aspettando!

Che cosa c’è?”.

La voce fredda di Elizabeth lo riportò alla realtà. Sua moglie, accigliata, lo guardava dalla poltrona. Aveva smesso di lavorare a maglia e il suo colorito si era fatto più pallido e verdognolo. “E’ di Demelza. Ha partorito” – disse, alzandosi dalla sedia.

Dove stai andando?” – chiese la donna in tono acido, tanto che Jeoffrey Charles fu costretto ad interrompere, sussultando, i suoi giochi tranquilli.

A Nampara” – rispose lui, gelido, sapendo già che ne sarebbe scaturita l’ennesima discussione a cui lui stavolta non avrebbe abbassato il capo.

No, non ci andrai” – disse Elizabeth. E non era una richiesta, era il tono di voce con cui si da un comando.

No, non avrebbe ceduto… “E’ nato mio figlio stamattina!”.

Lei guardò la busta fra le sue mani. “La lettera l’ha scritta Demelza?”.

Sì”.

E allora vuol dire che sta bene. E anche il bambino! Ragion per cui puoi e devi rimanere qui, dov’è il tuo posto!”.

Jeoffrey Charles arretrò fino all’angolo della sala, aveva imparato anche lui a fiutare i guai in arrivo.

Ross inspirò, tentando di mantenere la calma. “E’ il mio bambino”.

Lo sguardo della donna divenne freddo, cattivo. “Non lo è. Porta il tuo cognome? NO!”. Si toccò il ventre, avvicinandosi a lui a piccoli passi. “QUESTO è il tuo bambino ed è l’unico verso cui hai degli obblighi. Nampara, Demelza e i bambini che vivono laggiù non sono più un problema tuo!”.

Scosse la testa, come faceva ad essere tanto fredda e insensibile? “Elizabeth, a me di quello che ha comportato l’annullamento del matrimonio con Demelza, non importa niente! Sono i miei figli quelli, sono nati da me e dalla donna che per anni è stata mia moglie! Hanno un padre e sono io! E tu stai rovinando uno dei giorni più importanti della mia vita”.

Non puoi essere il loro padre, non più! Mettitelo in testa!”.

Jeoffrey Charles strisciò fra loro, spaventato dall’aumento del tono delle loro voci. “Mamma… Zio Ross…”.

Elizabeth, quasi non lo vedesse presente in quella stanza, lo oltrepassò. Era ancora più pallida, ora… “Vuoi bene a quei bambini? E allora fatti da parte e vivi la tua vita QUI’! Non puoi essere presente per loro, non puoi essere un padre allo stato attuale delle cose. Esci di scena, lasciali liberi, lascia che Demelza trovi qualcun altro che si prenda cura di lei e faccia da padre ai suoi figli e tu occupati di noi!”.

Quelle parole ebbero l’effetto di una scossa da mille volt su di lui. L’idea che Demelza potesse volgere lo sguardo altrove, a un altro uomo, gli era insopportabile tanto che MAI, un’eventualità del genere, aveva sfiorato la sua mente. L’idea che un uomo la amasse, ricambiato, che la baciasse, che facesse l’amore con lei era una realtà che non avrebbe potuto tollerare nemmeno in un incubo. E pensare ai suoi figli che chiamavano papà un altro uomo, un uomo che sicuramente sarebbe stato meglio di lui…

Non voleva! Sapeva di essere egoista ma non voleva! Erano… la sua famiglia! La famiglia che aveva tradito e abbandonato, la famiglia da cui avrebbe voluto sempre tornare…

Non avrebbe potuto biasimare Demelza se avesse voluto rifarsi una vita, certo. Né avrebbe avuto diritto di replica sulle scelte che avrebbe fatto per i bambini, lei aveva voce in capitolo e lui invece, per legge, non più e su questo Elizabeth aveva purtroppo ragione. Doveva andare da lei, subito, era stato lontano da Nampara fin troppo tempo! Voleva andare da lei, abbracciarla, abbracciare i suoi figli e far sentire loro che li amava e che ci sarebbe sempre stato.

Arretrò, facendo cadere la sedia dietro di lui. “Io vado!”.

Elizabeth si avvicinò ancora di più, minacciosa, mentre il bambino nella stanza iniziava a piangere. “Tu non vai! Non so come tu fossi abituato con Demelza ma io non sono lei!”.

Che vuoi dire?”.

Che non farò come ha fatto lei, non permetterò che tu disonori la tua famiglia e tua moglie facendo come più ti aggrada. Sono tua moglie, aspetto TUO figlio ed è con noi che devi stare. Demelza ti permetteva di andartene dove volevi e da chi volevi, io no!”.

La osservò e si sentì un verme, oltre che arrabbiato con lei. Era vero, Demelza gli aveva sempre conferito la massima fiducia e lui come l’aveva ricompensata? Tradendola e abbandonandola… E ora poteva davvero biasimare Elizabeth, se non si fidava di lui? Era un uomo che aveva tradito già una volta, chi dava a quella donna la garanzia che non sarebbe risuccesso di nuovo? “Venivo da te, quando andavo via da lei...” – balbettò.

E visti i risultati, Demelza ha sbagliato a permetterti di farlo. Io non farò lo stesso errore! Non starò zitta come feci con Francis, non permetterò che…”.

E’ MIO FIGLIO!” – urlò infine Ross, quasi isterico. “E sono con te, ho sposato te, vivo con te in questa dannata casa in un dannato matrimonio che non rende felice nessuno e che non porterà a nulla di buono! Hai tutto, cosa vuoi ancora? Hai salvata la reputazione, tuo figlio avrà un cognome, la mia presenza e una famiglia regolare alle spalle! Ma questo, QUESTO me lo devi concedere e se non lo farai, io ci andrò lo stesso”.

A quel punto Jeoffrey Charles iniziò a piangere, spaventato. “Zio Ross…”.

Ma Ross non poteva sentirlo, non più. Aveva superato il limite e anche Elizabeth dovette accorgersene perché impallidì vistosamente.

Io vado a Nampara. ADESSO!”.

Ross, no… Se vai non tornerai… Pensa a tuo figlio” – balbettò Elizabeth.

Lui la guardò, gelido. “E’ quello che faccio, vado a Nampara da mio figlio, dalla donna che lo ha appena partorito!”.

Elizabeth tentò di riguadagnare risolutezza ma a un certo punto impallidì, si prese il ventre con le mani e, dopo un sibilo di dolore, si accasciò a terra.

Jeoffrey Charles le corse vicino mentre lei, inerme, si lamentava senza trovare la forza di rialzarsi. “Mamma!”.

Ross si morse il labbro, avvicinandosi e prendendola per un braccio. “Alzati, non funziona, non funziona più questo trucco!”.

Jeoffrey Charles, col viso rigato di lacrime, si alzò e lo colpì con dei pugni sulla pancia, piangendo. “Sei cattivo! Sei cattivo zio Ross! Fai sempre piangere la mamma, sta sempre male per colpa tua e non vuoi il mio fratellino”. Poi scappò via, in lacrime, sparendo nel corridoio e lasciandolo pieno di nuovi e dolorosi sensi di colpa.

Ross si maledì, odiava avergli fatto assistere a quella scena e si sentiva in colpa per non aver frenato la lingua in sua presenza. Ma perché doveva essere tutto tanto difficile in quella dannata casa? PERCHE’? Perché doveva essere sempre lui a rinunciare? Sospirò, cercando di riguadagnare la calma. “Tirati tu” – disse, inginocchiandosi accanto ad Elizabeth e cercando di usare un tono più gentile.

Non ce la faccio!”.

Si che ce la fai”.

Lei strinse i denti e Ross si accorse che piangeva. “Ross, sto male…”.

Faccio fatica a crederti! Fai sempre così, ogni volta che vedi insidiato il tuo ruolo di moglie. Non potremmo parlarne civilmente? Eviteremmo dolori e dispiaceri ad entrambi, soprattutto a Jeoffrey Charles”.

Elizabeth girò il capo, sembrava rabbiosa ed incapace persino di guardarlo in viso. Poi si toccò il ventre e abbassò lo sguardo. I suoi occhi si riempirono di orrore. Sangue… Il suo abito era macchiato di sangue… “Ross!”.

Lui scattò in piedi, urlando, in preda al panico. Dannazione, DANNAZIONE!!! Se anche prima di quel giorno Elizabeth aveva mentito, ora era evidente che non era così. “Signora Tabb, SIGNORA TABB!!!” - urlò, terrorizzato. Con Demelza non era mai accaduto nulla del genere e si trovò ad avere paura, una paura folle. Era sempre così, era difficile per lui affrontare cose che sfuggivano al suo controllo.

La cameriera arrivò di corsa. "Signore?".

Chiamate il dottor Choake, subito!” – ordinò, prendendo Elizabeth in braccio.

La donna osservò Elizabeth, vide il sangue che le colava dalle gambe e corse via in un baleno, spaventata. E Ross, col cuore in gola, lasciò la lettera di Demelza sul tavolo e portò sua moglie di sopra in camera, di corsa.


...


Il dottor Choake arrivò subito e Ross si sentì sollevato, non tanto per le capacità del dottore, Choake era un ciarlatano che faceva pagare care le sue bizzarre teorie mediche, ma quanto perché comunque ne sapeva più di lui e aveva assistito già Elizabeth durante il parto di Jeoffrey Charles.

Il bambino, mentre il medico visitava la madre, si era rifugiato in camera sua in lacrime e aveva permesso solo ad Agatha di entrare. Lui era stato rifiutato e, anche se aveva cercato di parlargli per far pace, il piccolo aveva frapposto fra loro un muro pieno di astio e risentimento.

Beh, a Jeoffrey Charles avrebbe pensato dopo... Ora erano altri i problemi...

Ross aveva passeggiato a lungo avanti e indietro nel corridoio del piano superiore di Trenwith, pieno d'ansia. Era preoccupato, indubbiamente. Fin'ora aveva avuto poca fiducia nel malessere di Elizabeth, al pari della scarsa fiducia che aveva lei sul suo ruolo di marito ma ora doveva iniziare a ricredersi su quella che forse era davvero una gravidanza difficile, condizione che lo rendeva ancora più prigioniero in quella casa.

E questo lo riempiva di disgusto verso se stesso e ciò che era diventato, oltre che verso il suo matrimonio che si fondava sul nulla più assoluto. Gli spiaceva che Elizabeth stesse male e che fosse per causa sua ma non riusciva a non pensare che, se quella gravidanza si fosse interrotta prima, quella catastrofe non sarebbe successa.

Non riusciva ad essere preoccupato anche per il bambino, riusciva solo a provare umana pietà per un piccolo innocente che stava rischiando la vita ma che non sentiva come suo figlio.

Era a Jeremy e al bimbo appena nato che pensava ed era da loro che voleva correre ma ora, con Elizabeth in quelle condizioni, era consapevole di non poterlo fare. E di nuovo doveva accantonare Nampara e la sua famiglia per far fronte alle conseguenze di quella notte terribile in cui aveva distrutto tutto.

Scese stancamente al piano di sotto, nel salone deserto dove aveva lasciato la lettera di Demelza. La strinse fra le mani, sentiva il suo cuore andare in mille pezzi al pensiero di non vedere subito il suo bambino e la donna che lo aveva messo al mondo. Ma stavolta non poteva stare in silenzio, non poteva davvero...

Andò allo scrittoio, prese un foglio e una penna e poi si sedette per scriverle. Doveva farlo, Demelza doveva sapere che, anche se non fisicamente, il suo cuore era con loro.


"Cara Demelza, sapere della nascita di nostro figlio e sapere che è andato tutto bene mi riempie di gioia. So che forse non riuscirai a credermi, so di aver mancato in tante cose e in tante promesse ma sappi che il mio cuore è da voi, a Nampara. Non quì, questa non sarà mai casa mia.

Purtroppo devo chiederti di avere ancora pazienza, ho gravi problemi a lasciare Trenwith per venire da voi e forse dovrò aspettare il parto di Elizabeth per farlo in tranquillità.

So di chiederti molto, a te e a Jeremy. E al nuovo bambino o bambina che è nato. So anche che non merito altre opportunità, so che mi merito anche il vostro odio. So tutto e in questo momento non riesco a fare niente per voi e per questo sono il primo ad odiare me stesso.

Abbraccia i miei bambini, da loro un bacio da parte mia e ti prego, pazienta ancora un pò. Non c'è altro posto dove vorrei stare, non c'è altra famiglia che per me conti se non quella che ho con voi.

Verrò, aspettatemi, vi prego!

Tuo Ross"


La signora Tabb comparve sulla porta, richiamandolo all'ordine. Il dottor Choake aveva finito di visitare Elizabeth e lo voleva in camera.

Ross annuì, mettendo la lettera per Demelza in una busta e salendo al piano di sopra seguito dalla domestica.

Quando entrò nella stanza, Elizabeth sembrava aver ripreso colore. Era a letto, sprofondata sopra un numero indefinito di cuscini e dava l'impressione di essere più tranquilla.

Choake stava sistemando la sua borsa da lavoro e non lo degnò di uno sguardo, mentre gli spiegava la situazione. "Pericolo scampato. E' stato uno stato indotto dallo stress, succede alle donne fragili in gravidanza. Elizabeth deve stare a letto fino al parto e deve godere di tutta la tranquillità possibile d'ora in poi. Le ho prescritto dei calmanti, gradirei che la servitù andasse a Truro in farmacia prima di sera per comparli, le distenderanno i nervi e la aiuteranno a riposare" – disse, dando il foglio della prescrizione alla signora Tabb.

Ross annuì. "Il bambino quindi sta bene?".

"Sì, sta bene ma non possiamo permetterci che nasca adesso. Manca troppo, tre mesi sono un'enormità. Riposo signor Poldark, dovete accertarvi che sia riposata e tranquilla, non deve avere altre emozioni forti".

Ross annuì, abbassando il capo. Era in trappola e se era un uomo, doveva rimanere lì e prendersi le sue responsabilità, per quanto gli pesasse. Demelza aveva partorito e i bambini stavano bene, solo quello importava in quel momento... A febbraio tutto sarebbe cambiato e dopo tutto a Nampara riuscivano ad andare avanti anche senza di lui. "Va bene". Si avvicinò alla signora Tabb e le diede la busta con la lettera destinata a Demelza. "Prima di andare in farmacia, passate da Nampara e consegnate questo alla signora. Non posso andare di persona, come vedete".

La domestica annuì e Ross uscì col dottore, accompagnandolo al piano di sotto per pagargli l'onorario e accomiatarlo.

Non disse nulla ad Elizabeth, anche se gli eventi avevano preso il sorpavvento, di nuovo l'aveva avuta vinta lei. Ancora una volta Demelza avrebbe dovuto venire dopo e questo era terribile da accettare...

Ed era colpa sua, solo sua! Non di Elizabeth, non del bambino in arrivo, non di Jeoffrey Charles. Era colpa sua, solo sua!

E si chiese per quanto ancora lo avrebbero aspettato e se quel nuovo intoppo avrebbe potuto distruggere tutto ciò che di buono poteva essere rimasto fra loro.

Aveva foschi presagi nella mente e nel cuore ma ancora una volta dovette azzittire la sua coscienza. Non c'era nulla che potesse fare, nulla! Era imprigionato in una trappola che si era costruito con le sue mani e ora ne era pienamente consapevole.

Si chiese com'era il suo bambino, a chi somigliasse, se era tranquillo o vivace. E come l'aveva accolto Jeremy... Pensò all'atmosfera calda di Nampara con un nuovo neonato, al camino acceso e a Prudie che borbottava in cucina per il nuovo lavoro che un bambino avrebbe portato sulle sue spalle. A Demelza, ai suoi lunghi capelli sciolti e al suono della sua voce mentre cantava una ninna-nanna ai bambini...

Avrebbe voluto essere lì, con loro...


...


"Signora Tabb" – disse Elizabeth, mentre la domestica le accomodava i cuscini prima di uscire per le due commissioni di cui era stata incaricata – "Datemi la lettera che vi ha dato mio marito".

La domestica impallidì, indecisa sul da farsi. "Signora, devo recapitarla a Nampara. Vostro marito ha detto...".

Elizabeth si sfiorò la pancia e decise che doveva proteggere il bambino da ulteriori rischi. Per lui e per Jeoffrey Charles sarebbe andata nel fuoco e avrebbe votato la sua anima al demonio, se necessario... "Sarà un segreto fra noi che vi verrà ben pagato. Datemi la lettera, consegnatemi ogni missiva da e per Nampara, se ne arriveranno altre. Mio marito non deve saperne nulla, raccontate che aveva fatto come richiesto, al resto penserò io".

La signora Tabb sembrava titubante, nonostante tutto... Ed Elizabeth decise di essere più incisiva. Aprì il cassetto del comodino, togliendo da esso uno degli anelli d'oro che aveva nel portagioie. "E' vostro, un piccolo dono per il vostro silenzio circa questo accordo. E' per il bene della famiglia e io sono la signora di Trenwith da più tempo rispetto a Ross. E' a me che dovete dar conto, non a mio marito".

La donna si arrese, com'era prevedibile, davanti all'oro. Prese l'anello, dando ad Elizabeth la busta consegnatale da Ross.

Elizabeth sorrise, stringendola fra le mani. "E ora andate a Truro, ho bisogno delle mie medicine".

E quando fu rimasta sola, prima che Ross tornasse, aprì la busta e la lesse... Sembrava... ERA una lettera d'amore... Impallidì dalla rabbia e dalla consapevolezza che le sue paure erano reali e che Ross non era ancora suo, dopo tutto. Demelza doveva andarsene, sparire dalle loro vite, c'era in gioco il futuro dei suoi figli e la felicità di tutti loro... Ross l'avrebbe amata, col tempo, quando il ricordo di Demelza fosse svanito... L'avrebbe amata come un tempo e loro sarebbero stati la famiglia felice che sognavano da ragazzi.

Si alzò dal letto e lentamente si avvicinò al camino. E poi vi gettò dentro la lettera che bruciò nel fuoco nel giro di pochi istanti.


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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Clowance era nata da tre giorni e Demelza aveva lasciato il letto quasi subito. Non poteva permettersi di poltrire, aveva due bambini piccoli da accudire, una casa grande da mandare avanti e Prudie non poteva fare tutto da sola. Anche se si stancava subito ed era perennemente senza forze, si era imposta di farcela anche quella volta!

La bimba sembrava piuttosto tranquilla, piangeva solo quando era affamata e per il resto stava buona e composta nella culla o nella fascia che si legava in vita, quando doveva portarla in giro per casa. Era una bambina splendida, dai lineamenti delicati e perfetti, con degli occhi chiari e trasparenti e un cipiglio deciso quando si svegliava per la poppata.

Clowance sapeva cosa voleva, era una Poldark... In teoria...

Demelza si era imposta di essere forte e non piangere, anche se di Ross non si era vista nemmeno l'ombra. Piangere per cosa? Non stava succedendo quello che aveva sempre preventivato?

Ross forse aveva voluto credere a quelle sue promesse di esserci, non lo riteneva un bugiardo ma di certo era stato un illuso a pensare di poter gestire la situazione, e il suo silenzio e la sua assenza di quei mesi ne erano la prova. Aveva una nuova famiglia, l'aveva per scelta e aveva voltato pagina, non aveva più tempo per loro e in fondo era giusto così. Aveva scelto Elizabeth e stava costruendo con lei la sua vera famiglia, di quella che aveva reso illegittima non gli importava più nulla. Non sarebbe venuto, non si era presentato nemmeno per conoscere Clowance e non aveva avuto tempo nemmeno di risponderle con una lettera per accertarsi delle loro condizioni dopo quei mesi di silenzio.

Era finita, ora lo aveva capito anche Ross e adesso lei doveva accettarlo e voltare pagina, magari seguendo Dwight e Caroline che erano partiti per Londra quella mattina, dopo essere passati da Nampara per salutarla e per rinnovarle il loro invito ad unirsi a loro. E forse lo avrebbe fatto, ora ne era quasi convinta anche se quella decisione le sarebbe costata sofferenza e dolore. Ma in fondo perché restare? Dwight e Caroline le avevano lasciato un foglio con scritto l'indirizzo della loro casa e una chiave per entrare quando fosse arrivata, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Era un gesto bellissimo e di fiducia e amicizia il loro, erano i suoi salvatori in quei giorni tanto bui, l'unico appiglio per iniziare forse una vita migliore. In fondo, cosa c'era in Cornovaglia per lei, adesso?

Su Ross era calato il silenzio e, anche se Demelza aveva il cuore a pezzi e tutto questo la faceva sentire una nullità, non voleva che i suoi figli vivessero le sue medesime sensazioni e forse andarsene sarebbe stata davvero la scelta giusta. Clowance era troppo piccola per capire ma Jeremy no, Jeremy cercava il suo papà e la gioia per la nascita della sorellina si era trasformata presto in un cocente delusione per lui. Per mesi aveva atteso la nascita di Clowance con ansia, collegandola al ritorno del papà a casa e ora che, giorno dopo giorno, non lo vedeva arrivare, si era immalinconito ed era diventato capriccioso e irascibile. Piangeva spesso, cosa che non aveva mai fatto. E Demelza non era in grado di consolarlo, non aveva la forza di fare nulla se non faccende di ordinaria amministrazione della casa che le permettevano di non pensare. Era sempre stanca, pallida, aveva perso peso e le sembrava di essere un fantasma, quando si guardava allo specchio. Cercava di lottare con se stessa per mangiare qualcosa ma il suo stomaco era come chiuso e spesso finiva col vomitare il poco cibo che aveva mandato giù. Per fortuna il latte pareva non mancarle e la piccola Clowance aveva i pasti assicurati ma, se le sue condizioni non fossero migliorate, presto anche l'allattamento ne avrebbe risentito, assieme alla sua salute. Non poteva permettersi di stare male, di piangere, di ammalarsi. Aveva due figli piccoli che avevano già perso il padre, erano soli e lei non li avrebbe abbandonati al loro destino.

"Dovresti piangere ragazza, ti farà bene".

Demelza, seduta sul letto e pronta per andare a dormire, osservò Clowance che riposava tranquilla fra le sue braccia, avvolta nella sua copertina bianca di lana. Il tempo era pessimo, quel giorno il buio della sera aveva abbracciato la Cornovaglia poco dopo le quattro del pomeriggio e di notte probabilmente avrebbe nevicato. Strinse a se la bambina mentre Jeremy se ne stava col faccino attaccato al vetro della finestra ad attendere chissà cosa, chissà chi... "Non posso Prudie, non voglio... Non servirebbe a niente".

"Servirebbe ad alleggerirti l'animo, ti stai ammalando e piangere e urlare un pò ti farebbe bene. Ti tornerebbe anche l'appetito...".

"Domani mangerò!" - le rispose, secca.

Prudie scosse la testa. "Potresti cenare anche stasera, volendo. Preparo del brodo per Jeremy, mangiane con noi anche tu".

Guardò suo figlio. Cenava da solo con Prudie, da quando era nata Clowance e sapeva quanto triste potesse essere per lui ma non ce la faceva. Si sarebbe gettata nel fuoco per i suoi bambini, soprattutto ora, ma non aveva la forza di fare nulla... Si odiava, se fosse stata più forte avrebbe potuto essere una madre migliore e se fosse stata più bella e più perfetta e colta, Ross non l'avrebbe lasciata. E invece era solo la figlia di un minatore, una ragazza che agli occhi di una famiglia come i Poldark avrebbe sempre contato poco, un banale oggetto di poco valore da gettare via quando non serviva più. Così aveva fatto Ross, dopo tutto...

Aveva coronato il suo sogno d'amore con la donna che il suo cuore voleva e lei e i bambini non gli servivano ormai, facevano parte di un passato che Ross sicuramente voleva dimenticare.

"Mamma...".

La vocina di Jeremy la richiamò alla realtà. "Amore, dimmi...".

Jeremy abbassò lo sguardo e poi appoggiò la fronte al vetro della finestra. "E' buio...".

"Sì, stasera le nuvole han fatto venire presto la sera. Usciremo domani a giocare".

"Domani papà arriva?".

Prudie, che stava piegando delle coperte, sussultò. E Demelza prese a tremare senza riuscire a fermarsi, come se quella semplice domanda, che Jeremy le aveva posto innumerevoli volte, avesse frantumato ogni sua difesa. In un attimo il peso di quei mesi dolorosi e difficili le piombò sulle spalle, sentì quasi un dolore fisico frantumarle le ossa e spezzarle il cuore e vide tutto nero. Era troppo debole per resistere ancora e quella domanda di Jeremy era stata la goccia che aveva fatto inaspettatamente traboccare il vaso.

Prudie si accorse che stava male, che stava succedendo qualcosa e in un attimo le fu vicino per sorreggerla con Jeremy che, spaventato, si era avvicinato al letto.

"Mamma...".

"Signora...".

Con le poche forze che le restavano, diede la neonata a Prudie. "Portali di sotto...".

"Ma... Ragazza...?".

Demelza chiuse gli occhi. "Portali di sotto per favore. Voglio rimanere sola per un pò". Pregò che la ascoltasse, che li portasse subito via. Non voleva che i suoi figli la vedessero cadere in mille pezzi e affogare in un pianto disperato che si era tenuta dentro per troppi mesi e che ora urlava per uscire.

Prudie la guardò e sussultò quando vide i suoi occhi finalmente lucidi e le lacrime che avevano iniziato a cadere. Prese saldamente Clowance fra le braccia e poi prese Jeremy per mano. "Su, si va di sotto a preparare la cena mentre mamma riposa. Poi magari più tardi verrà a bere la zuppa con noi".

Jeremy la guardò. "Mamma... piangi?".

Lo accarezzò sulla guancia, dolcemente. "Sono solo stanca e ho un pò di raffreddore tesoro. Mi lacrimano gli occhi... Va con Prudie, dopo scenderò a mangiare con voi quando la zuppa sarà pronta".

Jeremy la guardò smarrito, aveva capito che stava mentendo e nonostante avesse solo tre anni, divenne serio quasi fosse già adulto. "Mangi davvero? Con noi?".

"Sì...".

Prudie lo portò via, cercando di distrarlo con una battuta e Demelza si gettò sui cuscini, col viso, affondando in essi. E appena i passi per le scale si furono attutiti e nessuno poteva sentirla, scoppiò a piangere.

Pianse ogni lacrima che aveva in corpo, ogni lacrima che per mesi aveva tenuto dentro di se, urlò tutto il suo dolore e singhiozzò talmente forte che le fece male lo stomaco.

Pianse per il suo amore che se n'era andato e l'aveva dimenticata, pianse per la vita incerta che l'attendeva, pianse perché lasciare Nampara significava lasciare l'unico luogo che avesse sentito casa sua da quando era nata, pianse per i suoi bambini che sarebbero cresciuti senza un padre e senza alcuna certezza... Pianse perché era disperata ed aveva paura, perché era stanca e debole e non riusciva a riprendersi, pianse perché non avrebbe avuto nessuno a cui appoggiarsi, sarebbe stata sola e ogni decisione sui bambini sarebbe stata una sua esclusiva responsabilità. Pianse per Jeremy che aspettava ancora un padre che non lo voleva più e che forse non lo aveva nemmeno mai amato, pianse pensando a cosa avrebbe detto ai suoi figli da grandi, quando gli avrebbero chiesto di lui...

Pianse per ore, pianse senza riuscire a fermarsi dopo che per mesi si era imposta di non farlo. Garrick, che riposava per terra accanto al letto, saltò sul materasso e si stese al suo fianco, leccandole dolcemente una guancia. Le rimase vicino, in silenzio, senza abbandonarla, dandole quell'amore discreto e puro che solo i cani sanno dare. Lo strinse a se, cercando come da bambina, di trovare in lui un appiglio per non sprofondare. Bagnò il cuscino, le lenzuola, la sua camicia da notte e pian piano si sentì più leggera e la morsa allo stomaco si attenuò. E poi, sfinita, si addormentò e cadde in un sonno breve ma profondo, buio e senza sogni né incubi. Le lacrime si asciugarono sulle sue guance lasciando una traccia di sale sul suo viso e sulle sue labbra e dormì, cercando in quel sonno la pace per rialzarsi, cenare e ricominciare a vivere.

Fu il profumo della zuppa a svegliarla, che arrivò alle sue narici dalla fessura sotto la porta. Sapeva di carne, di carote e di patate, di casa e di serate invernali attorno al camino.

Si costrinse ad alzarsi, ricordando quanto promesso a Jeremy. Era sfinita, si sentiva svuotata di tutto ma, per la prima volta da mesi, incredibilmente leggera. Era debole, il pianto e lo stomaco vuoto l'avevano spossata ma in un certo senso si sentiva più forte di poche ore prima.

Forse Prudie aveva ragione, aveva bisogno di piangere per riprendere a vivere...

Si guardò allo specchio, sembrava un fantasma da quanto era pallida e non voleva essere così. No, i suoi figli non l'avrebbero vista in quello stato, aveva loro e loro erano un valido motivo per vivere.

Anche lontano dalla Cornovaglia.

Si pettinò, si risciacquò il viso, si tolse la camicia da notte e si vestì. Poi si avvicinò al comodino del letto, prendendo ed aprendo la busta che Dwight aveva lasciato per lei. Lesse quell'indirizzo di quella città lontana e a lei sconosciuta ma che poteva rappresentare il suo futuro. Non voleva appoggiarsi eccessivamente sui suoi due amici ma al momento doveva ingoiare il suo orgoglio e rimanere da loro, finché non si fosse ripresa. Poi avrebbe iniziato a camminare nuovamente da sola, coi suoi figli.

Si guardò attorno, in quella stanza dove era diventata donna e madre. Lasciare Nampara sarebbe stato doloroso ma sarebbe stato ancora più difficile restare, ora che Ross aveva reso chiaro che per loro non ci sarebbe più stato. Non avrebbe permesso che i suoi figli crescessero affacciati a quella finestra, ad aspettare qualcuno che non sarebbe mai venuto per loro. No, loro meritavano di più! E pure lei!

Ross aveva fatto la sua scelta e lei avrebbe fatto altrettanto, non doveva chiedergli il permesso per andarsene, per legge lui non aveva più alcun diritto su di loro, oltre che doveri.

Deglutì, prese un profondo respiro e scese al piano di sotto con Garrick che le trotterellava dietro. Aveva pianto, si era disperata e ora si sentiva nuova. Doveva riprendere a mangiare, preparare i bagagli, sistemare le ultime incombenze e poi partire.

Prudie, appena la vede, la osservò preoccupata ma poi le sorrise notando la sua espressione più forte e decisa. "Tutto bene?".

Demelza annuì, chinandosi ad abbracciare Jeremy che le correva incontro. Lo prese in braccio, lo baciò sulla fronte e gli fece il solletico sul pancino. "Mai stata meglio! Anzi, ho deciso che faremo un viaggio".

Prudie, che stava mescolando la zuppa sul fuoco, le sorrise. "Londra?".

"Londra, sì! Dobbiamo preparare i bagagli e prenotare la carrozza per il viaggio. Ci metteremo all'opera domani".

Jeremy le tirò il colletto del vestito. "Dove andiamo?".

Lo strinse a se, controllando Clowance che dormiva nella cesta, sulla panca dov'era seduta. "In una grande città! Vedrai, ti piacerà! Andremo da zia Caroline e da Dwight, nella loro nuova casa. Sarà bellissimo vedrai! Tu, io, Garrick, Prudie e Clowance ci divertiremo un sacco e faremo tante cose nuove".

Jeremy a quelle parole, abbassò lo sguardo, quasi timoroso. "Papà?".

Si morse il labbro, ora veniva la parte difficile. "Papà non viene, resta quì! Pazienza, ci divertiremo tanto senza di lui...".

Jeremy non sembrava eccessivamente contento. "Sì mamma...".

Lo strinse a se, cercando di infondergli coraggio. "Ti fidi della mamma?".

"Sì".

"E allora tranquillo, ti prometto che saremo tanto felici".

"Giura!".

"Giuro...".

Prudie divenne pensierosa, si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. "Come ce lo paghiamo il viaggio? Se non vuoi usare i soldi che il signore ha lasciato... e non hai voluto quelli del dottore e di sua moglie...".

Demelza si morse il labbro, aveva pensato anche a quello poco prima, mentre si spazzolava i capelli. Voleva iniziare una nuova vita e doveva liberarsi di tutto quello che l'aveva legata a Ross. C'era qualcosa che ancora non era riuscita a lasciare e, visto il valore, ora poteva fare al caso suo. Sarebbe stato difficile fare anche quel passo ma in fondo quell'oggetto non le serviva più a niente. "Domani, mentre fai i bagagli, andrò a Truro. Posso vendere la fede, è un anello d'oro e dandolo al banco dei pegni, ci ricaverò la cifra necessaria per il viaggio".

Prudie impallidì. "La fede? Ma...".

Demelza la bloccò seccamente, non voleva sentire obiezioni al riguardo. "Non mi serve più, posso venderla! Ciò che mi serve ora è mangiare ed essere in forze per allattare Clowance e andare in città domani. Portami la zuppa per favore".

Prudie non aggiunse altro. Si avvicinò alla pentola, prese un piatto e lo riempì fino all'orlo.


...


Aveva aspettato alcuni giorni prima di partire e quando la neve aveva smesso di scendere dando una breve pausa dal gelo alla gente della Cornovaglia soffocata da quell'inverno durissimo, si era messa d'accordo col cocchiere e aveva lasciato Nampara.

Era stata la cosa più difficile di tutte, quella. Erano partiti al mattino presto quando i bambini ancora dormivano e lei, dopo aver messo in carrozza i due piccoli con Prudie e Garrick e caricato i bagagli, aveva passato alcuni minuti da sola girando una ad una le stanze ormai deserte e silenziose di quel posto che avrebbe sempre amato e sempre portato nei suoi ricordi. Accarezzò quel letto testimone di un amore che per lei era stato assoluto, sia verso Ross che verso i bambini che lì vi erano nati, guardò quella cucina dove aveva cucinato da sguattera prima e da moglie poi, sfiorò la scrivania nella biblioteca dove spesso, con Ross, si era soffermata a guardare mappe e piantine delle loro miniere, diede un'ultima malinconica occhiata al suo amatissimo giardino.

Girò tutta la casa, mentre ancora una volta il suo viso era inondato di lacrime. Era la fine di un'epoca, di un mondo, della sua vecchia vita. Ma era giusto così, era la casa di Ross quella, la casa che gli era stata lasciata in eredità dai suoi genitori e lei e i bambini la stavano occupando illegittimamente, dopo l'annullamento del matrimonio. Il loro futuro era altrove adesso...

Uscì, chiuse la porta con la chiave, se la mise in tasca e si asciugò le lacrime. Poi si diede un tono, salì sulla carrozza e prese in braccio Clowance, stringendola a se ed ispirandone il profumo buono che ogni neonato aveva impresso sulla pelle.

Diede segno al cocchiere di partire e per prima cosa, prima di incamminarsi verso Londra, si diresse verso l'ultima tappa prima di iniziare quella nuova vita.

Percorsero i sentieri infangati che da Nampara portavano a Trenwith, con la carrozza che sobbalzava e rischiava di impantanarsi ad ogni curva e, quando furono abbastanza vicini, chiese al cocchiere di fermarsi e diede Clowance a Prudie. "Aspettami quì coi bambini. Vado a portare a Ross le chiavi di Nampara, torno subito".

Prudie strinse a se i due piccoli ancora addormentati. "Non li porti con te? Non vuoi che il signore li veda, prima di...".

Lo sguardo di Demelza si indurì. "No, non vedo motivo per farglieli incontrare. Jeremy piangerebbe, a Ross non importerebbe e a me verrebbe il fegato amaro. Non è più il loro padre, non mi pare che loro gli manchino e prima Jeremy si dimentica di lui, meglio è". Dopo aver pianto si sentiva forte, decisa, pronta a fare quanto necessario per i suoi figli e per la loro felicità. Scese dalla carrozza, percorse il sentiero che portava a Trenwith, oltrepassò il giardino e bussò con decisione.

Credeva sarebbe arrivata una domestica ad aprirle, era mattino presto, ma con sorpresa si trovò Ross davanti, con la mantella indosso e probabilmente pronto ad andare in miniera. Sussultò, spalancando gli occhi come se vedesse un fantasma, appena realizzò che lei era davvero lì. "Demelza...".

"Non ti agitare, mi fermerò solo un attimo" – rispose, freddamente. Sentì di volerlo picchiare, in quel momento... Come aveva potuto non venire nemmeno a conosocere la loro piccola, bellissima Clowance? Come poteva guardarsi allo specchio sapendo di non aver preso in braccio la sua bambina? Come poteva aver dimenticato Jeremy?

Non saresti dovuta venire a Trenwith”. La voce di Ross sembrava stanca e lui sembrava di colpo invecchiato di dieci anni.

Demelza osservò Ross e si accorse che, nonostante cercasse di apparire fermo, la sua voce tremava e faticava a guardarla in viso. Era sfinito dalla situazione, era evidente. E lei era stanca, aveva partorito da poco e nulla le era stato d'aiuto, in un momento tanto delicato. “Non mi fermerò molto, devo solo darti una cosa” - ripeté, con un filo di voce.

Ross abbassò il capo, immaginando più che bene perché lei fosse quì. “Ho ricevuto la tua lettera... Il bambino... La bambina? Beh, come sta? Volevo venire ma è successo un disastro quì e... cerca di capire... ho bisogno di tempo per gestire tutto e capire come farlo... Avevi ragione, è difficile, quasi impossibile far funzionare le cose e sto cercando un modo... Scusa se non ho potuto fare altro che scriverti una lettera di risposta”.

Lettera? Di cosa parli?”. Demelza lo guardò e non provò nulla. Il suo cuore era talmente dolorante e a pezzi che non riusciva più a sentire niente. Dolore, rabbia, delusione... Avrebbe voluto avvertirli ma la sua mente e il suo cuore erano come una tavola bianca e opaca. Si sentiva svuotata, morta, finita per quel che riguardava loro due. E se non fosse stato per i suoi due bambini, si sarebbe abbandonata all'oblìo ma doveva vivere, con loro e per loro. Erano la sua ragione di lotta e nessuna delle farfugliate giustificazioni o scuse di Ross avrebbe più potuto ammorbidirla o farla vacillare dalla sua decisione. “Non devi giustificarti, non fa niente, non sei obbligato a prestare attenzione a noi”.

Demelza...” - chiese lui, accigliato - “Non hai ricevuto la mia lettera?”.

Non so di cosa parli e onestamente non mi interessa”.

Ross sussultò, sorpreso e smarrito. “Sei sicura? Demelza, so che sei arrabbiata ma ti prego, questo tuo atteggiamento non aiuta”.

Non sono arrabbiata, sono solo molto stanca”.

Lui abbassò il capo. “Lo vedo... Sei così pallida, sembri malata. E sei dimagrita così tanto...”.

Mi riprenderò!”.

Lo so, sei più forte e brava di me in questo. Credi che per me sia facile tutta questa situazione?”.

Lei fece un sorriso strano, privo di gioia o sarcasmo. “Non so come sia per te, ma ti assicuro che al momento io sto peggio”.

Ross sospirò, si sentiva ferito e in colpa, era evidente. “Come stai? E il nostro bimbo? Demelza, vederlo era quanto più desideravo”.

Lei deglutì. Non era la LORO bambina. Era solo sua... “Stiamo tutti bene”.

E' un maschio? O una femmina?”.

Non ha importanza”.

Ross ispirò profondamente, frustrato. “Demelza, ti prego”.

Lei non disse nulla, non ne aveva la forza. Allungò la mano, prese quella di quell'uomo che un tempo era stato suo marito, una mano che l'aveva accarezzata, che aveva stretto la sua e l'aveva sorretta mentre cresceva e, in un gesto che le fece sentire una profonda fitta al cuore, fece scivolare fra le sue dita la chiave. “Credo che debba ridartela”.

Ross osservò quanto aveva fra le mani mentre un'espressione di terrore prendeva possesso del suo viso. “Cosa significa?”.

E' la chiave di Nampara. E' casa tua ed è giusto che la riabbia tu, a me non servirà più”.

Lui si avvicinò, prendendola per le spalle. “Demelza, che significa?”.

Me ne vado. Coi bambini, lontano da qui... Prudie vuole venire con me e io non sono riuscita a farle cambiare idea. Devo andare via o impazzirò e questo farà solo male ai miei figli”.

Ross spalancò gli occhi. Era annientato e si sentiva impotente, terrorizzato... “Te lo proibisco”.

Lei si scostò da lui. “Non ne hai alcun diritto, lo ricordi che non sono più tua moglie?”.

Non ne ho diritto? Te ne vai coi miei figli, dannazione!”.

Lei sorrise tristemente. “Non sono più i tuoi figli, hai fatto una scelta e non siamo più la tua famiglia. Non legalmente almeno e nemmeno di fatto visto che da mesi nemmeno vieni a farci visita”.

Gli occhi di Ross divennero lucidi. “Sarei venuto a Nampara, devi solo darmi tempo. E' tutto complicato e faccio del mio meglio ma sarei venuto! Davvero! Non mi importa cosa dice la legge, ho due figli con te e io mi sento e mi sentirò sempre loro padre. Amo i miei figli e... Dannazione, DEVI aver ricevuto quella lettera!”.

Ross, non sono una bugiarda! Non SO di cosa parli!!!”.

Ross, disperato, scosse la testa. “Come può essere...?”. Poi si voltò verso la porta di Trenwith che aveva chiuso alle sue spalle e il suo sguardo divenne improvvisamente cupo. “Demelza, posso spiegarti tutto...”.

Lei lo bloccò, stava per dire qualcosa che non era pronta e non voleva sentire. “La tua famiglia ora è questa, Ross. E' a loro che devi pensare, ad Elizabeth e al bambino che nascerà. Non hai risposto al mio messaggio quando ho partorito, non inventare scuse, e ora mi rendo conto che hai fatto bene, ciò che succede a noi non ti deve più riguardare. Hai la tua famiglia, quella che hai sempre sognato e desiderato, e io devo mandare avanti la mia, scegliendo il meglio per i miei bambini”.

Demelza, andare dove? Per fare cosa? Dannazione, devi restare, sono qui e sarò sempre qui per voi”.

Lei scosse la testa. “Andrò ovunque ci sia un posto per me dove ricominciare. Andrò dove sarò serena e lo saranno i miei figli. Andrò dove Jeremy potrà dimenticarti e non passerà più ore alla finestra ad aspettarti, piangendo e chiedendomi se è colpa sua se sei andato via. Andrò dove potrò lavorare, sono la figlia di un minatore e non sono certo la prima che viene abbandonata dal suo uomo. Se davvero ami i bambini, non fare storie e fammi andare via in pace. Per il loro bene e per il tuo, lascia che vada via. Tu potrai iniziare la tua vita serenamente con il bambino che nascerà e io potrò ricostruire la mia, di vita”.

Ross le strinse il polso, la attirò a se. “Demelza, ti prego, non è come pensi, questo non è quello che io voglio... Dimmi almeno dove hai intenzione di andare, dove cercarti...”.

Non voglio che tu mi cerchi, questo è un addio Ross. Ti auguro di essere felice, davvero! Ora potrai vivere con la donna che sogni da sempre, con il tuo amore, quello vero. Non pensare a me, a noi... Andrà bene, io saprò cavarmela e tu in pochi mesi ti sarai dimenticato di me e dei bambini e sarai semplicemente felice come lo è ogni uomo a cui la donna che ama da un figlio”.

Ross la lasciò andare, capì anche lui che non poteva fermarla e che forse davvero non ne aveva alcun diritto. L'aveva persa e chiederle di restare forse sarebbe stato l'ennesimo atto egoistico nei suoi confronti. Era stanca, distrutta, sull'orlo di una malattia e se voleva il suo bene e il suo bene era lontano da quell'inferno, doveva lasciarla andare. “Sarei venuto da te, quando Elizabeth partorirà, io...”.

Demelza sorrise, tristemente. “Ross, lo sai meglio di me che poi saresti rimasto bloccato da altre scuse. Non saresti venuto e io non permetterò che i miei bambini restino sempre alla finestra di casa ad aspettare qualcuno che per loro non troverà mai tempo”.

Ross strinse i pugni, arrendendosi all'evidenza di quella realtà. Ormai capiva anche lui che non c'era alternativa, che non ce n'erano mai state. “Ti prego, almeno scrivimi, di tanto in tanto”.

No Ross. Non ne vedo il motivo”.

E i bambini?”.

Lei sorrise tristemente. “Saranno felici, farò in modo che lo siano”.

Poi lo guardò un'ultima volta e lo vide fragile, sperso, indifeso e impotente. Sembrava un uomo finito ma era certa che presto sarebbe rinato e che sarebbe stato felice di nuovo. Era la decisione giusta, quella che aveva preso. Deglutì, si morse il labbro e si impose di non piangere oppure tutti i suoi buoni proponimenti sarebbero svaniti in un attimo. Gli si avvicinò, gli diede un delicato bacio sulla guancia e poi si allontanò cercando di impedire alle lacrime di scendere. “Buona fortuna, Ross”.

Girò le spalle, accelerò il passo e si diresse al cancello di Trenwith. A pochi metri, nascosta fra gli alberi, c'era la carrozza con Prudie e i suoi figli. Era ora di partire, era ora di andare via e cercare di vivere. Lontano...

Salì sulla carrozza, chiuse il portellone e sprofondò fra i cuscini, cercando di regolarizzare il suo respiro.

Prudie le strinse la mano. “Come stai?”.

Bene, credo...”.

Lo hai visto?”.

Sì, mi ha aperto lui di persona... Sembrava stanco e ha parlato di una lettera... E' arrivato qualcosa per me nei giorni scorsi, da Trenwith?”.

Prudie scosse la testa, pensierosa. “No, nulla”.

Demelza alzò lo sguardo e fissò il soffitto mentre anche quell'ultima illusione svaniva. “Lo immaginavo...”.

Sei sicura di volerlo davvero fare?”.

Demelza guardò i suoi bimbi che dormivano ancora tranquilli e incoscienti di quello che succedeva attorno a loro. “Sì, lo sono. Non c'è motivo per restare, lui ha scelto e lo devo fare pure io. In fondo lo sapevo fin dall'inizio, è solo colpa mia”.

Cosa?” - chiese Prudie, spalancando gli occhi.

Lei sorrise tristemente, mentre la carrozza iniziava il suo placido cammino. “L'ha sempre amata, Elizabeth. Come avrebbe potuto amare me, la figlia di un minatore? Non sono mai stata alla sua altezza e nemmeno lontanamente paragonabile alla perfezione di Elizabeth. L'ha sempre amata Prudie, sempre. E il vero amore a volte ci mette tanto, a volte si perde e deve percorrere strade tortuose per ritrovarsi ma poi ce la fa, dovessero volerci anni, lacrime e dolore. Il vero amore vince sempre...”.

Prudie restò in silenzio e con quel pensiero e quelle parole, Demelza lasciò la Cornovaglia.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Per un attimo, appena Demelza se ne fu andata, Ross vide tutto nero e fu assalito da un forte senso di nausea, tanto che dovette appoggiarsi alla porta per non cadere a terra e vomitare tutta la colazione.

Se n'era andata... Lei, quei bellissimi capelli rossi pieni di boccoli, quella voce dolce e melodiosa che sapeva intonare canzoni in grado di toccare il cuore di chiunque, quel sorriso sincero e gentile, quella voglia instancabile di lavorare e stargli vicino...

Lei...

E il suo piccolo Jeremy a cui qualcun altro avrebbe insegnato come diventare uomo... Stavano andando via, stavano scappando da lui per sempre perché era stato un marito e un padre orribile e li aveva abbandonati a loro stessi a causa dei suoi errori che avevano pagato loro, più che lui, sulla pelle.

Se ne stavano andando col suo bambino più piccolo... O bambina... Non sapeva nemmeno il sesso di suo figlio, il suo nome, nulla. Non avrebbe nemmeno mai avuto il ricordo di un attimo insieme e di un volto da tenere a mente...

Deglutì, faceva male. Al cuore, a ogni muscolo, a ogni osso, a ogni fibra del suo corpo che sembrava, in quel momento, disintegrarsi in mille pezzi.

Poteva fermarla, poteva urlarle di restare, ma per cosa? Cosa poteva offrirgli ormai, lui? Come poteva lottare per lei e per la felicità dei loro bambini, lui che era stato l'artefice del loro dolore?

"Io non voglio...". Lo disse ad alta voce, al vento. No, non voleva che andassero via e non voleva soprattutto che lei partisse pensando di non contare nulla per lui. Non voleva quella vita, non voleva il bambino che aspettava Elizabeth, non voleva Trenwith e non voleva un matrimonio che lo stava rendendo prigioniero, togliendogli carattere, forza, orgoglio e voglia di vivere.

Doveva tentare, decidere, essere uomo! E Ross, quello testardo, che sbagliava ma che sapeva combattere per chi amava, quello orgoglioso e che non si fermava davanti a niente, non avrebbe fatto andar via la donna che più amava.

Doveva tentare, capire cosa fosse successo e trovare una via d'uscita!

Però...

Davvero Demelza non aveva ricevuto quella lettera? Lei sembrava non saperne nulla e non era da Demelza mentire ma quindi, che era successo? Aveva lasciato la busta in mano alla signora Tabb mentre aiutava Elizabeth a sistemarsi, dopo la visita del dottor Choake, intimandogli di portarla subito a Nampara...

Vide nero, di nuovo! E stavolta dalla rabbia!

Era inutile stare troppo a chiedersi cosa fosse successo, il suo istinto lo sapeva già e ora era arrabbiato, lo era talmente tanto da voler spaccare ogni cosa.

Chiuse la porta dietro di se e come una furia salì le scale che portavano alla camera di sua moglie. In quei mesi era stato un dannato cagnolino, aveva accontentato Elizabeth in tutto, lei aveva fatto leva sui suoi sensi di colpa per ottenere tutto ciò a cui pensava di avere diritto e lui glielo aveva lasciato fare perché pensava di doverglielo. Ma ora basta, che senso aveva continuare quella farsa? Che senso aveva vivere con una donna che, se il suo istinto non si sbagliava, agiva alle sue spalle? Come poteva sopravvivere un rapporto dove non c'era la minima fiducia fra due sposi?

Arrivò al piano di sopra, percorse a grandi falcate il corridoio e spalancò la porta della stanza di sua moglie con violenza, facendola sbattere contro la parete.

Seduta alla toeletta, aiutata dalla signora Tabb che le pettinava i capelli, Elizabeth indossava ancora la camicia da notte e pareva essersi appena svegliata. La donna sussultò mentre la signora Tabb impallidì davanti a quell'arrivo brusco. "Ross, ti sembra il modo di entrare nella stanza da letto di una signora? Le buone maniere dove le hai lasciate questa mattina?".

Era irritata, era evidente. E lui lo era più di lei e non aveva tempo da perdere. "Devo bussare per caso, per entrare in camera di mia moglie?".

"Certo che no... Ma...".

Ross guardò la signora Tabb di sbieco, furente. Lei doveva sparire, da quella stanza e da Trenwith. "Voi siete licenziata! Prendete le vostre cose, subito, e andatevene".

La signora Tabb guardò Elizabeth con terrore e sua moglie si alzò di scatto dalla sedia, guardandolo come se fosse impazzito. "Ross, che stai dicendo?".

"Che licenzio una persona del mio personale. Non posso? Sono o non sono il signore di Trenwith? Sono o non sono responsabile della servitù?". Lo chiese con tono arrogante, voleva provocarla! Non aveva mai desiderato essere padrone e capo di una famiglia, aveva sempre sognato una di avere accanto una donna con cui prendere insieme le decisioni ma con Elizabeth, in quel momento, sentiva di dover dar sfogo al suo orgoglio e al suo ego che aveva tenuto troppo a lungo a guinzaglio per cercare di far funzionare un rapporto che non aveva comunque futuro.

Elizabeth si avvicinò con circospezione. Diede una rapida occhiata a una terrorizzata signora Tabb intimandole di andare fuori dalla stanza e poi cercò di prendergli la mano per calmarlo. "Certo Ross, sei il capo di Trenwith ma non vedo motivo per licenziare la signora Tabb. E' sempre stata una servitrice fedele fin dai tempi in cui era in vita tuo zio...".

La fissò e in quel momento si rese conto che Elizabeth per lui era un'estranea, una donna a lungo idealizzata ma che mai aveva conosciuto davvero. Gli vennero in mente le parole di Francis di alcuni anni prima, sussurrate proprio in quella casa in cui aveva portato Demelza nel loro primo Natale da sposati. Era vero quello che aveva detto suo cugino, lui aveva già fra le sue mani tutto quello che voleva e che pareva invidiare agli altri... E come un idiota se n'era accorto troppo tardi... "Una servitrice fedele, quando gli si dice di fare qualcosa, la fa!".

Elizabeth si accigliò. "Di che cosa parli?".

"Di una lettera che doveva consegnare a Nampara la settimana scorsa, il giorno in cui Demelza ha partorito. La ricordi, vero? C'eri anche tu quando l'ho consegnata alla signora Tabb, intimandole di consegnarla a Nampara...".

Elizabeth impallidì, dimostrando di capire perfettamente a cosa lui alludesse. "Ross, che è successo?".

"Scommetto che lo sai". No, non aveva alcuna voglia di essere accomodante.

Elizabeth deglutì e la sua espressione si indurì come faceva sempre, quando batteva i piedi per ottenere qualcosa. "Era necessario evitare di consegnare quella lettera ed era perfettamente inutile che Demelza la leggesse. Sei mio marito e non dovresti nemmeno pensarle le cose che hai scritto ma lo accetto, accetto che per ora tu provi sentimenti confusi. Ma non permetterò che tu pensi di far parte della vita di quelle persone. Non eri obbligato a sposarmi, potevi voltare la testa dall'altra parte, non interessarti del bambino e continuare la tua vita con Demelza. Ma hai scelto di sposare me, hai scelto di essere il capo di questa famiglia. MIO marito e il padre di NOSTRO figlio! Per tutto il resto non c'è posto".

Santo cielo, in quel momento sentiva di odiarla... Come aveva potuto intromettersi in quella faccenda? Era vero, aveva sposato lei... Ma era altrettanto vero che con Demelza aveva formato una famiglia che amava... "Era nato mio figlio! E ora Demelza se n'è andata, lo sai? Se n'è andata perché tu hai impedito, bloccando quella lettera, che lei si sentisse amata e mi sentisse vicino. Se n'è andata per permettere ai miei bambini di vivere sereni perché quì non possono più farlo, in questo stato di cose! Ho rinunciato a tutto per dovere in questi mesi ma i miei figli e Demelza, in un giorno tanto importante, erano un mio diritto. Un nostro diritto, mio e di Demelza... Non c'entravi, NON DOVEVI METTERE MANO NELLA NASCITA DI MIO FIGLIO!".

Elizabeth, quasi non l'avesse sentito urlare, sembrò per un attimo sollevata. "Demelza se n'è andata?".

"E' venuta quì poco fa!" - disse, togliendosi le chiavi di Nampara dalla tasca per mostrargliele – "Mi ha riportato queste e se n'è andata chissà dove, coi miei bambini che non rivedrò più".

Elizabeth lo fissò, glaciale. "Meglio così. Per lei, per noi... Per i bambini... La tua vita è quì e lei potrà ricostruire la sua altrove, lontano da dove potrebbe far danni a me, te e al nostro bambino".

Lui ricambiò quello sguardo con la medesima freddezza. Covava una rabbia cieca, apparentemente calma ma proprio per questo terribilmente pericolosa. "Io non lo voglio, il nostro bambino... Non voglio vivere quì, non voglio essere sposato con te, non voglio nulla di questa vita!". Finalmente l'aveva detto, finalmente aveva ammesso anche a se stesso, oltre che a lei, ciò che davvero voleva e non voleva. Era terribile per Elizabeth sentirselo dire, ne era consapevole. Ma le cose stavano così...

Elizabeth spalancò gli occhi, forse finalmente spaventata. Aveva capito anche lei che il vento era cambiato e che il Ross arrendevole non esisteva più. "Che vuoi dire?".

"Quello che ho detto...".

"Ross...".

Elizabeth cercò di avvicinarsi ma lui la respinse. "Fa quello che vuoi. Tieniti la signora Tabb, organizza la vita di Trenwith come ti pare, riposa come ti ha detto il dottore... Fa tutto come vuoi e quando vuoi. Ma da sola...".

"Che vuoi fare?".

Ross allargò le braccia, guardando il soffitto e ridendo come fosse ubriaco. Che diavolo ci era andato a fare in quel posto? Come aveva potuto distruggere la sua famiglia? La sua vita, la sua strada e il suo futuro non gli erano mai parsi tanto chiari come in quel momento. "Che voglio fare? Uscire, prendere il mio cavallo, cercare la carrozza che sta portando via la mia famiglia, implorare MIA MOGLIE di perdonarmi, urlare a lei e ai quattro venti che la amo, abbracciare forte e prendere in braccio i miei bambini e tornare con loro a casa nostra. Questo voglio fare e lo farò. Adesso!".

Elizabeth sbiancò, fece per toccarsi il ventre gonfio ma ormai quella scusa non funzionava più. Era terrorizzata, era evidente, ma questo non lo avrebbe fermato.

"Ross, sono tua moglie".

"No! Non lo sei, non è un pezzo di carta che ti rende tale... Questo non è un matrimonio e noi non siamo una famiglia! Annulla il matrimonio, se ti va... Visto come può essere facile?".

"ASPETTO IL TUO BAMBINO!" - urlò lei, isterica.

Aprì la porta, osservandola di sbieco prima di uscire. "Quando nascerà, penserò al suo sostentamento".

Elizabeth gli si gettò addosso, con la forza della disperazione cercò di allontanarlo dalla porta ma lui la respinse, di nuovo, costringendola ad indietreggiare. "Attenta, soffri di contrazioni, no? Choake ha detto che non devi fare sforzi".

"Ross, ti prego... Sono incinta, ho bisogno di te".

In quel momento Ross pensò a Demelza e a come l'aveva lasciata sola per mesi nella medesima situazione. LEI aveva voluto che Demelza fosse sola. "Anche Demelza aveva bisogno di me... Ora immagini come si è sentita? Forse no, forse però lo imparerai sulla tua pelle nei prossimi mesi, vivendo la stessa esperienza che hai preteso che io infliggessi a lei".

"Ross...".

Le voltò le spalle, a lei e ai giovani innamorati che erano stati, testimoni di un amore che poteva esistere solo nei sogni romantici di due ragazzini che ormai erano cresciuti e avevano preso strade diverse. Aveva sbagliato a voler fermare il matrimonio di Elizabeth con George, sarebbero stati felici insieme... Ma forse doveva provare, vivere sulla sua pelle il rapporto con lei e conoscersi, perdere Demelza e il rispetto per se stesso, perdere i suoi migliori amici e la stima di chiunque... Ora, a carissimo prezzo, aveva capito e doveva sbrigarsi, trovare Demelza e implorarla di perdonarlo. Non ne aveva il diritto, non si meritava nessun perdono ma doveva provare e sperare che il loro amore, nonostante tutto, sarebbe stato abbastanza forte da rinascere dalle ceneri.

Doveva correre!

Uscì di corsa, scese le scale e poi raggiunse le stalle. Sentiva i singhiozzi di Elizabeth dietro di lui ma stavolta non si sarebbe fatto incantare da quelle lacrime. Non c'era speranza in quel matrimonio e rimanere sarebbe stato solo un grosso errore.

Salì a cavallo, e si immise nel sentiero mentre la neve, ghiacciata, iniziava a scendere sferzandogli il viso.

Guardò a destra, guardò a sinistra, non aveva idea di dove fosse diretta Demelza e doveva andare a tentativi, contando sulla fortuna. La neve aveva coperto le tracce delle carrozze sullo sterrato e solo l'istinto lo guidava.

Spronò il cavallo, lo fece correre e si avventurò nella tempesta. Faceva freddo ma non gli importava. Era la sua ultima possibilità quella, poi l'avrebbe persa per sempre.

La brughiera era deserta, la temperatura glaciale. Però non avvertiva freddo anzi, il terrore di perdere la sua famiglia per sempre gli faceva bruciare le guance e battere all'impazzata il cuore.

Cavalcò a lungo, alla cieca, per i sentieri e per i prati. Non aveva idea di dove fosse diretta Demelza, se stesse tornando ad Illugan, se fosse diretta da Verity, se avesse trovato lavoro a Sawle o a Truro, oppure se la sua meta fosse più lontana. Le strade erano tante ma tutte parevano deserte ed essersi inghiottite, assieme alla neve, qualsiasi viaggiatore che si era avventurato su di esse.

Il cielo era plumbeo, forse Demelza e i bambini avevano freddo, forse sarebbe tornata indietro, forse avrebbe fatto una tappa intermedia per far giocare Jeremy. Ma non vide nessuno ed era come se, nel tempo intercorso a litigare con Elizabeth, una coltre di nebbia e di oscurità fosse calata sulla Cornovaglia, portandosi via con se chiunque avesse trovato sul suo cammino.

Galoppò a lungo, galoppò finché il cavallo riuscì a farlo ma poi la povera bestia si fermò. Era esausto, coperto di ghiaccio sulle gambe e aveva fame e freddo. Tentò di farlo ripartire ma non gli riuscì. E alla fine, sospirando, Ross dovette arrendersi all'evidenza.

Si guardò attorno, la visibilità non era che di pochi metri. Nevicava fitto, l'oscurità pareva voler avvolgere ogni cosa e d'improvviso ebbe freddo e si sentì stanco. Senza forze...

Nemmeno durante la guerra, quando aveva giaciuto a terra ferito e sanguinante in mezzo ai suoi compagni morti, si era sentito così... Morto dentro, col buio nel cuore e con la consapevolezza di aver perso tutto...

"Dove sei?" - sussurrò rivolto al vento, consapevole che Demelza doveva già essere molto lontana.

Non era mai stato da lui arrendersi ma non poteva fare altro. Ogni direzione presa poteva essere quella sbagliata e forse Demelza, visto il tempo pessimo e la presenza di due bambini piccoli, poteva essere tornata a casa. Certo, aveva lasciato a lui le chiavi di Nampara ma forse...

Fece dietro front, accarezzando il cavallo e andando al passo, diretto verso casa. La sua vera casa...

Che lei fosse tornata, era la sua ultima speranza. Poi avrebbe dovuto cercarla ma non sapeva dove, come, in quale luogo. E soprattutto, non sapeva se ne avesse davvero il diritto. Aveva annullato il loro matrimonio, tolto il suo cognome ai suoi bambini, non era andato a conoscere il suo figlio più piccolo ed esisteva un altro figlio in arrivo, di un'altra donna. Perché Demelza avrebbe dovuto accettare di tornare? Cosa poteva offrirle se non dolore e un futuro incerto?

Arrivò a Nampara che era ormai quasi sera. Tutto era deserto, l'aia era battuta dal vento che faceva volare la neve ghiacciata come se fosse stata borotalco e c'era un silenzio assordante che spezzava la sua mente e il suo cuore.

Portò il cavallo nella stalla, gli diede della biada e poi aprì la porta di quella casa che era la SUA vera casa, la casa da dove mancava da mesi. Da troppo tempo per un perdono, da troppo tempo per fare ammenda...

Era tornato, lo aveva fatto e non aveva intenzione di lasciarla più, Nampara. Ma lo aveva fatto troppo tardi...

Si guardò attorno, appena dentro. Tutto era in ordine, Demelza e Prudie avevano sistemato ogni cosa. Sentì il profumo dei mobili, delle tende, osservò pareti e quadri che gli erano famigliari e per la prima volta, anche se disperato, si sentì a casa dopo mesi. Andò in biblioteca e vide che i suoi libri contabili e le sue mappe erano riposte ordinatamente sulla scrivania, andò in cucina e trovò la dispensa in ordine e infine salì al piano di sopra, era tutto perfettamente sistemato anche lì. Il letto era rifatto, ogni cosa era al suo posto, nell'armadio c'erano i suoi abiti puliti e piegati, Demelza aveva lasciato tutto in ordine per lui per quando fosse tornato.

Vide la culla accanto al letto e questo gli fece male. Era vuota... In quella culla, in quei giorni, aveva dormito un figlio che per sempre gli sarebbe stato sconosciuto, di cui non avrebbe mai scoperto né viso né nome. Non c'erano in giro giochi e indumenti infantili, quelli li aveva portati via con se Demelza, assieme ai suoi abiti.

Ma tutto il resto lo aveva lasciato lì...

La sua attenzione fu improvvisamente catturata da una busta bianca riposta sul comodino. Ross si avvicinò, la prese e la aprì e i suoi occhi si spalancarono. C'era denaro, quasi tutto quello che aveva mandato a Demelza in quei mesi. Lo aveva lasciato lì...

Sorrise amaramente, nonostante tutto... Lei era fiera e orgogliosa quanto lui, non avrebbe mai accettato di farsi mantenere e anche se sola, incinta e con un bambino piccolo, assieme a Prudie aveva provveduto con le sue sole forze a se stessa e ai suoi figli.

Di cosa si stupiva? Demelza era come lui, combatteva le sue battaglie fino in fondo e lo avevano spesso fatto insieme in passato, era forte e non aveva bisogno di nessuno accanto, per stare bene.

Si chiese come avesse fatto a trovare il denaro per il viaggio ma relegò quella domanda in un angolo remoto della sua mente, per paura di trovare risposte a lui inaccettabili o troppo dolorose.

Poteva cercarla, poteva sperare di trovarla e illudersi di salvarla da una vita difficile ma la verità era che lei era molto migliore e forte di lui. Demelza ce l'avrebbe fatta, avrebbe ripreso in mano la sua vita e avrebbe dato, da sola, un'infanzia felice e serena ai loro bambini. Non era una che aspettava il principe azzurro e anche se l'avesse ritrovata, lui non sarebbe stato capace di salvarla da nulla perché di certo lei stessa era già riuscita a salvarsi da sola.

Ross sentì gli occhi pungergli e con le lacrime che gli solcavano le guance, scese mestamente al piano di sotto. Si accorse di piangere solo quando si accasciò davanti al camino spento e se ne stupì, aveva pianto poche volte nella sua vita: quando era bambino ed era morta sua madre e quando aveva perso Julia. Le lacrime, quelle vere come quelle di quel momento, le aveva versate solo quando aveva perso l'amore di persone che per lui valevano tutto. Non aveva pianto per Elizabeth, quando aveva scoperto di averla persa per Francis, non aveva pianto per i suoi compagni di battaglione, non aveva pianto per la fine miserabile delle miniere di famiglia. Solo per sua madre e per la sua famiglia, che aveva perso per sempre.

Si accasciò, appoggiando la testa contro la parete e improvvisamente notò, sotto la credenza a pochi passi da lui, un oggetto che lo fece sussultare e che gli portò alla mente il ricordo di una promessa che non avrebbe mai potuto mantenere.

Doveva essere sfuggito a Demelza durante i preparativi, se no l'avrebbe portato con se.

Si avvicinò, spostò il mobile e prese quell'oggetto che era finito lì per caso, tirato da Jeremy mesi prima, nel loro ultimo giorno insieme.

Un piccolo cavallino di legno...

Lo strinse in mano quel cavallino, forte, ricordando quando aveva giurato a suo figlio di insegnargli a cavalcare, da grande. Non lo avrebbe mai fatto, qualcun altro avrebbe insegnato a Jeremy a galoppare e a diventare un uomo. O lo avrebbe imparato da solo...

Aveva fallito, aveva tradito l'amore di sua moglie e di suo figlio, la loro fiducia, tutto...

Avvolse il cavallino fra le dita, baciandolo. Quel giocattolo sarebbe stato per sempre il suo tesoro, l'ultimo testimone della famiglia che aveva avuto e che aveva perso, la testimonianza del suo fallimento di uomo e padre e il muto rimprovero di una promessa che non avrebbe mai potuto mantenere.

Fuori nevicava e il vento faceva sbattere la porta rimasta aperta. E Ross pianse, come poche volte aveva fatto nella sua vita.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


Tornato a Nampara col cuore a pezzi, la mente in subbuglio e una casa deserta da gestire, Ross aveva assunto due nuovi domestici, i coniugi Jane e John Gimlet. Non più giovanissimi, si erano comunque dimostrati da subito due persone affidabili, oneste, gran lavoratrici e soprattutto dedite alla pulizia e al senso del decoro. Molto diversi dai trasandati Paynter anche se Ross avrebbe pagato oro per riavere indietro quei giorni con loro, Demelza e Garrick...

Ma per il momento, i Gimlet erano una soluzione più che buona per lui e la sua vita casalinga.

Non era più tornato a Trenwith dal giorno in cui Demelza era partita e anche se questo rimordeva la sua coscienza per via del bambino in arrivo, era ben deciso a mantenere le sue posizioni a riguardo. Certo, Elizabeth aspettava suo figlio e a conti fatti, alla sua nascita, avrebbe provveduto al piccolo ma oltre a questo, non desiderava offrire nulla. Un suo eventuale ritorno a Trenwith non avrebbe giovato a nessuno e per quel bambino innocente la vita, con due genitori dai rapporti tanto logorati, sarebbe diventata un inferno. Meglio così, meglio lontani, non c'era nulla da salvare e nulla da ricostruire. Anche per Jeoffrey Charles questa era la soluzione ideale, lui che, suo malgrado, era stato costretto ad assistere a scene incresciose di liti furiose meritava la pace quanto il fratellino in arrivo.

E poi Ross sapeva a chi apparteneva il suo cuore e aveva deciso che non voleva più mentire a se stesso! Nampara era la sua casa e Demelza era la donna che amava e con cui aveva creato una vera famiglia. Il resto era una stupida, patetica farsa a cui si era piegato senza rendersi pienamente conto delle conseguenze.

Aveva sperato che Demelza tornasse ma non era successo e i mesi erano scivolati via velocemente senza che le sue ricerche dessero esito. Sembrava sparita nel nulla e la gravidanza di Elizabeth, agli sgoccioli e comunque complicata, gli impediva di partire per cercarla.

Anche se spesso, di sera, nel silenzio della sua stanza, si chiedeva come avrebbe reagito Demelza, se l'avesse trovata. In fondo, lui che poteva offrirle? Come poteva riottenere la sua fiducia e il suo amore? E il perdono? Si rendeva conto di aver sbagliato troppo, di aver passato il limite e spesso la consapevolezza di questo lo bloccava, spingendolo ad abbandonare il desiderio di riaverla. Demelza meritava di meglio di lui... E lui non meritava una persona speciale come lei...

Cosa poteva darle ora? Un futuro incerto, un figlio nato da un tradimento che sempre avrebbe ricordato ai suoi occhi il dolore che lui le aveva inferto, la presenza costante di Elizabeth fra loro e un matrimonio annullato...

Incertezza, dolore e nulla più.

Era condannato, si era condannato con le sue mani!

In quei mesi si era messo a lavorare come un pazzo, giorno e notte, in miniera. Il clima e i rapporti con Zachy e gli altri, da quando era tornato a Nampara, si erano fatti meno tesi e più cordiali anche se erano comunque lontani da ciò che c'era prima. Era difficile per quegli uomini, quasi quanto lo era per lui guardarsi allo specchio, conferirgli nuovamente piena fiducia e li capiva. Erano uomini nati nella miseria e cresciuti con fatica, che si spaccavano la schiena per la loro famiglia e per garantire ai loro cari un pasto e lui... lui era un uomo che aveva rinnegato la donna che lo aveva reso padre e una persona migliore, che gli aveva dato amore e una felicità che non era stato capace di apprezzare appieno finché non l'aveva perduta.

Aveva anche pensato, sporadicamente, al bambino che aspettava Elizabeth. Non riusciva a considerarlo suo e non riusciva a provare per lui o lei la trepidazione che aveva avvertito, pur da lontano, per la nascita del bambino avuto da Demelza a novembre.

Era suo figlio ma non se ne sentiva legato, anzi, era come se lo ritenesse un perfetto estraneo. Eppure sarebbe nato presto e, bene o male, avrebbe dovuto impegnarsi per crescerlo al meglio. Il che presupponeva che lui ed Elizabeth, prima o poi, avrebbero dovuto incontrarsi a metà strada per il bene del bambino. Non avrebbero mai potuto essere una famiglia ma dovevano sforzarsi di essere quanto meno buoni genitori per chi stava per nascere e non aveva chiesto di farlo.

Avrebbe dovuto imparare ad amarlo... Come amava Jeremy e il bimbo o la bimba avuti da Demelza, a cui pensava sempre con una fitta al cuore. Come aveva amato Julia...

E così, con quei pensieri e quella solitaria e nuova routine di Nampara, era arrivato febbraio e il 14, in una sera strana dove la luna si era tinta di nero come per magia e il mare e il vento erano diventati furiosi e tutti avevano gridato a un segno di cattivo presagio, dopo cena sentì bussare alla sua porta.

Era seduto davanti al camino, a fumare la pipa e a cercare di scaldarsi, quando Jane Gimlet andò ad aprire.

"Avete visite, signore".

Ross si voltò, incuriosito, appena l'ospite fu entrato in salotto. E sussultò. "Zia Agatha? Che ci fai quì a quest'ora, con questo tempo da lupi?".

La donna lo fissò e la sua aria era palesemente di rimprovero. "Non sarà una notte di luna nera a maledire la mia vita, a quasi cent'anni nemmeno il malocchio riesce più a toccarmi. E quindi nulla mi impedisce di recarmi da mio nipote a ricordargli i suoi doveri".

Ross si alzò di scatto, accompagnandola alla sedia per farla accomodare. "Zia, che ci fai quì?" - chiese, ancora. Agatha non usciva quasi mai da Trenwith e da anni era come diventata un tutt'uno con la casa.

La donna alzò un sopracciglio grigio. "Sai che mese è?".

"Febbraio".

"E cos'è successo nove mesi fa, a giugno?".

Ross si accigliò, ci pensò un attimo a poi impallidì. Era... Era già passato così tanto? "Vuoi dire che...?". No, non era pronto, non ancora!

Agatha si rialzò subito dalla sedia. "Voglio dire che ti devi sbrigare, venire con me sulla carrozza e tornare a Trenwith. Tuo figlio sta per nascere, è da stamattina che Elizabeth è in travaglio e il dottor Choake sta combattendo contro un parto complicato. Mi auguro che almeno per la nascita e per ogni necessità, tu non vorrai mancare!".

A Ross venne la pelle d'oca. Il bambino stava per nascere! Santo cielo, stava per diventare tutto reale... Guardò Agatha, soppesò le sue parole e gli sembrò ironico che lei, come Elizabeth, ritenesse che lui dovesse assistere alla nascita del bambino quando entrambe, pochi mesi prima, avevano fatto di tutto per impedirgli di stare accanto a Demelza quando era stata lei a partorire. Ma non era il momento di recriminare... Prese il cappotto, il tricorno, disse a Jane e John che stava uscendo e che non sapeva quando sarebbe tornato e poi prese Agatha sotto braccio, scortandola alla carrozza. In fondo aveva ragione lei, doveva esserci! Esattamente come avrebbe dovuto esserci a novembre, per Demelza...

Aveva sbagliato una volta e non avrebbe ripetuto quell'errore. Non lo faceva per lui o la sua coscienza, non lo faceva per Elizabeth. Lo faceva per il bambino, perché non vivesse sulla sua pelle di neonato la stessa ingiustizia che aveva inflitto a un altro suo figlio.

Uscirono fuori, il vento era furioso e la notte oscura e minacciosa, come la luna ormai completamente nera. Non aveva mai visto nulla del genere e sì, non aveva mai avuto paura di molte cose nella sua vita ma quel cielo riusciva a farlo tremare. "Hai mai visto qualcosa di simile, zia?" - chiese, salendo sulla carrozza.

"No".

"Cosa potrebbe voler dire?".

Agatha scosse la testa. "Cattivi presagi? La luna nera non porta mai a nulla di buono e questa notte nascerà quel povero bambino...".

"Sono solo superstizioni!" - tagliò corto lui. Non voleva sentire altro! In quel marasma, ci mancavano solo i foschi presagi di Agatha!

Giunsero a Trenwith mezz'ora dopo, coi cavalli resi nervosi da quella strana notte.

Ross aiutò Agatha a scendere dalla carrozza e poi, dopo tre mesi che vi mancava, rientrò a Trenwith.

Un via vai incessante di cameriere e domestici lo accolse e tutto sembrava concitato e nervoso. Fermò una domestica, una giovane dal viso a lui sconosciuto che doveva aver iniziato a lavorare lì da poco e, assieme a zia Agatha, le chiese informazioni. "Elizabeth? Il bambino è nato?".

"Voi chi siete?".

Agatha intervenne. "E' il futuro padre".

"Oh, scusate signore". La ragazza, arrossendo, scosse la testa. "Non è ancora nato. La signora è stremata, sta perdendo tanto... troppo sangue e il dottor Choake sembra davvero preoccupato. Stiamo facendo tutti del nostro meglio per assisterla".

Ross impallidì mentre sentiva nelle orecchie le urla di Elizabeth. Santo cielo, che stava succedendo? Anche in quello, lui ed Elizabeth avrebbero pagato il prezzo di quella loro notte folle? Pregò che tutto andasse bene, per il bambino e per Jeoffrey Charles. E per lei che, anche se si era rivelata il più grosso errore della sua vita, era stata un suo grande affetto, era giovane e aveva una vita davanti.

Il piccolo Jeoffrey Charles sbucò dal salone del pianoforte, col muso lungo e l'espressione corrucciata. Lo fissò e in lui non vide nulla dell'affetto di un tempo. Poteva capirlo, aveva abbandonato sua madre e l'aveva fatta soffrire, Jeoffrey Charles non aveva torto. "Ciao..." - disse solo.

Il bimbo girò il viso di lato. "Mamma sta male, per colpa tua e per colpa di quel cavolo di fratellino che deve nascere!".

"Mi dispiace" – sussurrò, sfiorandogli la spalla. Ma Jeoffrey Charles si ritrasse e poi, singhiozzando, si rifugiò fra le braccia di Agatha.

E in quel momento, dopo un urlo violento di Elizabeth che fece tremare i vetri della casa, si sentì il pianto vigoroso di un neonato.

Tutti sussultarono, guardandosi speranzosi e allo stesso tempo spaventati.

Agatha alzò lo sguardo verso le scale. "Finalmente..." - disse, con la voce che però tradiva una certa preoccupazione.

Ross deglutì. Il pianto di un neonato... Il pianto di suo figlio... E lui, santo cielo, non provava la gioia profonda che aveva sentito con i figli di Demelza. E ora che doveva fare? Salire? Conoscere il piccolo? Cosa doveva dire ad Elizabeth? Provava solo confusione ma non quella dettata dalla gioia incontenibile di essere diventato padre. Era una confusione oscura, un sentirsi inadeguato e fuori posto, in colpa... Non era quello che voleva, non voleva diventare padre di un figlio così, come succede ad altri uomini che tradiscono la donna che li ama senza nessun rimorso. Eppure eccolo, era nato... Il simbolo perpetuo del suo fallimento come uomo, marito e padre, era lì.

Il dottor Choake scese dalle scale, trafelato. Aveva il viso paonazzo, era sudato e pareva aver finito un turno di dodici ore in miniera a picconare. "Signor Poldark, per fortuna siete quì!" - esclamò.

Ross gli strinse la mano, nonostante non provasse alcuna simpatia per lui. "Vi ringrazio per quello che avete fatto, so che è stato complicato e lungo".

Choake guardò Agatha, chiedendole di portare via Jeoffrey Charles. E appena furono soli e l'anziana donna si fu allontanata col bambino, scosse la testa. "Andate di sopra, fate in fretta".

"Perché?".

"La signora deve parlavi e forse non ci sarà molto tempo".

Ross lo guardò, non capiva ma il suo sesto senso gli suggeriva che qualcosa non andava. "Che volete dire?" - chiese, ripensando ai foschi presagi sulla luna nera di cui gli aveva parlato Agatha poco prima.

Choake scosse la testa. "Ha perso molto sangue, ci sono lesioni interne che favoriscono continue emorragie che non riesco a fermare. Ho già visto questo genere di cose e non portano a nulla di buono per la vita della madre. Andate da lei, io verrò subito. La stanno assistendo delle domestiche, per ora, che stanno facendo anche il bagno al bambino. E' un maschio apparentemente in salute e di questo devo congratularmi con voi".

Un maschio... Elizabeth che stava forse per morire... Santo cielo, era troppo! Era tutto troppo e doveva essere stato un uomo orrendo per meritarsi una cosa simile!

Corse per le scale, con la stessa disperazione di nove mesi prima quando aveva distrutto la sua vita, quella di Elizabeth e di tutte le persone che gravitavano attorno a loro.

Entrò nella stanza col fiato corto, le cameriere stavano portando via con delle ceste delle lenzuola impregnate di sangue ed Elizabeth era a letto, bianca come un cencio, senza forze, con le labbra violacee e i capelli sfatti e mosci sparsi sul cuscino. Sembrava un fantasma e gli si contorse il cuore nel vederla così, lei da sempre tanto bella e irraggiungibile. L'aveva amata e poi odiata negli ultimi mesi ma MAI le avrebbe augurato del male.

Si avvicinò, oltrepassò la culla col bambino non degnandola di uno sguardo e le prese la mano. "Elizabeth...".

Lei aprì gli occhi, a fatica. "Ross... sei venuto allora?".

Le sorrise, aveva la voce flebile come quella di un uccellino e il fiato corto. Gli ricordava Julia e sua madre, nei loro ultimi istanti di vita. "Come ogni padre dovrebbe fare". Non voleva essere un rimprovero, non in quel momento ma l'allusione al parto di Demelza era palese.

Elizabeth abbassò lo sguardo davanti a quelle parole. "Lo amerai? E' un bellissimo bambino, ti somiglia...".

"Farò del mio meglio".

"Lo devi amare, sei suo padre e avrà solo te!".

Le strinse la mano, forte. "Non dire così. Presto starai bene".

Elizabeth sussultò, colta come da uno spasmo e in un attimo la coperta divenne rosso sangue, di nuovo.

Una cameriera corse al suo capezzale, con una coperta pulita. Tolse quella sporca e Ross vide che la camicia da notte di Elizabeth era inzuppata di sangue vivo che continuava a sgorgare. Quella visione gli fece venire le vertigini...

Santo cielo, era terribile, cosa poteva fare? "Guardami e non dormire! Non chiudere gli occhi, passerà!" - la implorò, vedendola come perdere i sensi.

Lei riaprì le palpebre, a fatica. "Non volevo che tu mi odiassi... Volevo solo avere una famiglia felice...".

"E' passata" – mentì lui anche se la disillusione per quell'antico e utopistico amore era ancora ben viva nella sua mente ed Elizabeth lo sapeva.

Lei sorrise. "Mentire non ti riesce bene, sai Ross?".

Lui sospirò, accarezzandole i capelli. "Sono molte le cose che non so fare bene, l'ho scoperto nell'ultimo anno".

Lei lo guardò, il suo sguardo vacuo e lontano. I suoi occhi sembrarono diventare di gelatina e trasparenti... "Valentine...".

"Cosa?".

"Il piccolo si chiama così. Valentine, come il Santo di oggi. Mi piace tanto questo nome. Se fosse stata una bimba, avrei voluto chiamarla Ursula, vuol dire piccola orsa, sarebbe stato adatto a una Poldark. Ti piacciono?".

Annuì per farla contenta, il nome del bambino era l'ultimo dei suoi pensieri. "Tanto".

"Valentine Poldark" – sussurrò Elizabeth, in un soffio, quasi assaporando la dolcezza di quel nome sulle sue labbra.

E poi, silenziosa come un uccellino, spirò.

Ross non riuscì a fare nulla, a soccorrerla, a chiamare il medico. Morì tanto rapidamente che anche le domestiche rimasero gelate e immobili, come la morte che si era appena portata via quella giovane donna.

Poi tutto divenne nero, ovattato. I suoni, le grida delle cameriere, il calpesticcio di passi che correvano, le imprecazioni del dottor Choake e il pianto di Jeoffrey Charles e di Agatha sembrarono lontani da lui. Era circondato da persone e si sentiva distante da tutto e tutti...

Come un automa, si avvicinò alla culla.

Lui, Valentine, era lì. Coi suoi capelli neri, il faccino tondo e la fronte alta come la sua, era il figlio che più gli somigliava, probabilmente.

La sorte sapeva essere crudele e ironica, pensò...

Eccolo, la prova vivente dei suoi errori, del suo fallimento. Era lì, nelle vesti di un bambino bellissimo la cui madre, per dargli la vita, si era privata della sua di vita.

Suo figlio, il bimbo concepito in una notte maledetta e nato in una sera di luna nera, qualsiasi cosa significasse tutto ciò...

Lo prese in braccio, avrebbe dovuto imparare ad amarlo, ora più di prima. Elizabeth era morta, non poteva più fingere che il problema non esistesse e ora doveva diventare davvero uomo. Non poteva relegare a nessuno il suo ruolo di genitore! Valentine aveva solo lui e non poteva pagare per le colpe di altri...

Lo cullò fra le braccia, lo baciò sulla fronte e decise che lo doveva ad Elizabeth e a quel bambino, oltre che alla sua coscienza. Lo avrebbe portato a Nampara, si sarebbe preso le sue responsabilità e lo avrebbe cresciuto come meglio poteva, onorando giorno dopo giorno il debito con la sua coscienza macchiata dalla colpa e dal disonore. E avrebbe imparato forse ad amarlo come ogni padre col proprio figlio, col tempo.

"Valentine..." - sussurrò.

E il bimbo spalancò due grandi occhioni neri su di lui. Anche quelli erano uguali ai suoi.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Era arrivato dicembre, e con esso si avvicinava il suo secondo Natale a Londra. Era volato quell'anno e anche se per certi versi la sua vita era stata più facile e serena, per altri era ancora tutto difficilissimo per Demelza: una grande città che le faceva ancora paura, il suo sentirsi estranea appena usciva di casa, il suo faticare ad abituarsi a nuove abitudini e la nostalgia... la nostalgia, sempre, per la sua Cornovaglia e per la sua casa... La nostalgia per qualcuno che non voleva più nominare ma che il suo cuore si rifiutava di dimenticare... La catturava ogni mattina quando apriva gli occhi e ogni sera, prima di richiuderli e forse non se ne sarebbe mai liberata.

Aveva pianto spesso di notte, nei primi mesi a Londra, bagnando il suo cuscino. Caroline e Dwight, quando era arrivata, le avevano detto che lì sarebbe stata al sicuro e protetta e anche queste parole, benché dette con intenti gentili, avevano scavato un profondo solco nel suo cuore. La Cornovaglia, Ross, la sua vita laggiù erano diventati un male per lei e i suoi figli e leggerlo negli occhi dei suoi amici le dava l'esatta enormità di quanto stava vivendo.

Ci era voluto tanto per riprendersi ma pian piano aveva dovuto farlo per i suoi due bambini. Aveva dovuto imparare a sorridere e a sforzarsi di farlo anche quando non le andava, a relegare i ricordi in un angolo lontano e nascosto del suo cuore, a soffocare i sentimenti che sentiva ancora di provare verso un uomo che, nonostante tutto, sempre avrebbe amato perché nessun altro ai suoi occhi sarebbe mai stato come Ross. Sarebbe stato il suo tormento, sempre!

Giorno dopo giorno, quei dodici mesi erano scivolati via in fretta, nonostante tutto...

Clowance aveva compiuto un anno due settimane prima e, giorno dopo giorno, diventava sempre più bella. Era biondissima, come uno dei rami cadetti della famiglia Poldark, e aveva gli stessi ricci ribelli di Ross. I suoi occhi erano azzurri, chiari, era vivace e testarda e dimostrava già, pur essendo ancora molto piccola, di sapere cosa volesse dalla vita e dalle persone che la circondavano. Sorrideva sempre ma sapeva essere pure estremamente capricciosa, quando si impuntava. E aveva una grazia e una eleganza nei movimenti innata, che non spariva nemmeno ora che faceva i primi passi e il pannolone tentava di renderla goffa. Era elegante, elegante come lei non sarebbe mai stata nei modi di fare, una vera piccola lady, come diceva spesso Caroline che la riempiva di vestitini pieni di pizzi e merletti e ogni genere di vizi, cosa che la bambina sembrava apprezzare.

Jeremy era più tranquillo e dolce di carattere anche se a volte assumeva l'espressione biricchina e pure lui combinava qualche guaio o tentava di disubbidire davanti ad imposizioni su cui non era d'accordo.

Amava raccontare barzellette e sapeva farlo in maniera buffa e simpatica, adorava andare a giocare nei parchetti cittadini, conoscere nuovi bambini e si era dimostrato estremamente socievole e pronto a nuove amicizie tanto che, a un anno dal loro trasferimento, conosceva probabilmente più londinesi di lei.

Era un bambino gioviale e sensibile, molto protettivo con lei e Demelza sapeva che in un certo senso si sentiva l'ometto della famiglia. Cercava di non fargli percepire una tale responsabilità ma il piccolo spesso si fermava, la scrutava e pareva percepire i suoi pensieri e i dispiaceri che ancora le logoravano l'anima. Inizialmente aveva chiesto spesso di suo padre ma lei aveva sempre cercato di sviare il discorso su altro e poco alla volta, mese dopo mese, le domande erano diventate sempre più rade fino a sparire. Demelza non si illudeva che non ne soffrisse più ma probabilmente, poco alla volta, Jeremy aveva iniziato a scordarsi di Ross e anche se questo le faceva male, era consapevole che era la cosa più giusta per lui e per la sua serenità.

Caroline e Dwight erano l'immagine perfetta dell'amore, invece! La dolcezza di Dwight nel prendersi cura di lei, nonostante si sentisse pure lui un pesce fuor d'acqua a Londra e le frecciatine che nascondevano un profondo amore di lei, la incantavano... A volte si inteneriva nel vederli interagire, erano belli non solo esteticamente, erano belli nel loro animo ed erano forse l'immagine più bella e vera di come doveva essere l'amore.

Caroline aveva ripreso la sua vita mondana e lei si era offerta, in cambio del vitto e dell'alloggio in quella lussuosa e grande casa londinese, di cucirle gli abiti che indossava mentre Dwight aveva continuato a fare il lavoro che più amava: il medico. Curava gente di ogni ceto e spesso, quando aveva i pomeriggi liberi, si recava nella parte più povera della città per offrire il suo aiuto ai più bisognosi, cosa su cui Caroline spesso lo prendeva in giro dicendo che lo faceva perché gli mancavano i minatori della Cornovaglia che aveva sempre amato più di lei.

"Mamma".

Demelza si girò nel letto e si accorse che Clowance si era svegliata dal suo riposino pomeridiano. La piccola sembrava essere di luna buona e così, visto che Jeremy era fuori al parco con Prudie, decise di perdere un pò di tempo a coccolarsela, prima di scendere a bere il tè.

La baciò, le fece il solletico, risero insieme e poi, quando si accorse che la piccola era affamata, si alzarono. Demelza si pettinò, si sistemò il vestito e poi fece altrettanto con Clowance. Le mise un nastro rosso fra i capelli, cosa che alla bambina piaceva tantissimo, in tinta con l'elegante vestitino natalizio in tulle che le aveva regalato Caroline, le sistemò le calzine bianche e poi le fece indossare un paio di graziose scarpine di vernice, rosse come il vestito. Clowance aveva un sacco di abiti e Caroline le comprava, assieme a quelli, una moltitudine di scarpette e nastrini di vari colori, in modo che avesse un abbigliamento sempre impeccabile e coordinato. E Clowance pareva gradirlo perché, benché molto piccola, aveva un gusto estetico già ben sviluppato ed era piuttosto vanitosa.

Jeremy era diverso, era un maschietto e anche lui veniva riempito da Caroline di abitini nuovi e alla moda che però, di sera, finivano immancabilmente macchiati di erba e fango.

"Andiamo a fare merenda?" - chiese alla piccola, prendendola per mano.

"Tì".

Era sempre affamata! Le sorrise e uscirono dalla stanza, nell'elegante corridoio che portava allo scalone principale da cui poi si accedeva alla zona-giorno coi salotti, le stanze da pranzo, quelle da biliardo e le biblioteche del palazzo. E per poco non si scontrarono con Dwight che, con aria annoiata e allo stesso tempo nervosa, stava percorrendo il medesimo corridoio. Vederlo a casa a quell'ora incuriosì Demelza perché di pomeriggio, di solito, era nel suo studio a ricevere pazienti. "Dwight, che ci fai quì?".

Lui sbuffò, dando una carezza sulla testolina a Clowance. "Caroline mi farà impazzire! Non so cos'abbia in testa ma il fatto che oggi abbia invitato per il tè Lady Allyster con sua figlia, non mi lascia presagire niente di buono. Mi ha detto di non uscire e sono due ore che stanno giù in salotto a confabulare su qualcosa che, me lo sento, a me non piacerà per niente".

Demelza abbassò gli occhi su Clowance. Se Caroline aveva ospiti, era meglio non scendere a disturbarla, pensò. "Chi è lady Allyster?".

"Una lontana parente degli Hannover".

Demelza tremò. "Hannover... Stesso cognome del... nostro...".

Dwight annuì. "Re, esatto! Lady Constanze Allyster e sua figlia Margarita sono delle lontane cugine di grado collaterale dei nostri sovrani".

Spalancò gli occhi, tremò e dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. "E sono quì sotto?".

"Sì".

Prese Clowance per mano, stringendogliela forte. "Da dove posso scappare, Dwight?".

Lui ridacchiò, prendendole il polso. "Tu non scappi! Anzi, mi aiuti ad affrontare la situazione e scendi con me".

Demelza lo guardò come se fosse impazzito. Lei, figlia di un minatore, con due figli e senza un marito, davanti a dei parenti del re? "Scordatelo!".

Ma Dwight finse di non sentirla nemmeno, si chinò a prendere in braccio Clowance e poi le prese nuovamente il polso, trascinandola giù dietro di se.

Demelza quasi non riuscì ad opporsi e si stupì di quanto Dwight, quando era spaventato, sapesse dimostrare un carattere forte.

Quando entrarono nel salotto, trovarono Caroline vestita con un meraviglioso abito di seta rosa, i capelli pettinati in lunghi boccoli e un tavolo pieno di tè e biscotti.

Dwight mise Clowance a terra e Demelza, tentando di nascondersi dietro di lui, entrò con passo sommesso, sbirciando le due ospiti. Lady Constanze aveva circa cinquant'anni, era magrissima, coi capelli ormai grigi, il viso aguzzo e due occhi piccolini che rendevano l'espressione del suo viso piuttosto antipatica. Sua figlia invece era giovanissima, non poteva avere più di sedici o diciassette anni e fisicamente sembrava diversissima da sua madre. Aveva i capelli color miele pieni di boccoli, alcune graziose lentiggini sul viso tondo e dai lineamenti gentili, un fisico minuto ma già ben sviluppato per la sua età, con curve morbide che la facevano sembrare assolutamente deliziosa e desiderabile e due guance piene, abbellite da delle simpatiche fossette. Erano entrambe elegantissime, madre e figlia. La donna aveva modi di fare estremamente controllati mentre la ragazzina pareva invece più lenta e goffa nel movimento di sorseggiare il tè.

Appena Caroline li vide, si esibì in un sorriso. "Lady Constanze, lady Margarita, voglio prestarvi mio marito, Dwight Enys che finalmente si è deciso di degnarci della sua compagnia. E lei invece è una carissima amica, Demelza Carne, mentre la piccolina che gira attorno al tavolo coi biscotti è sua figlia Clowance".

Lady Margarita guardò la piccola, sorridendo. "Che carina!".

Ma quell'espressione cordiale non piacque alla madre che tossicchiò. "Margarita, dare confidenze a chi non conosci è cattiva educazione". Poi alzò lo sguardo su di loro e Dwight e Demelza ebbero come l'impressione che li stesse studiando pezzo per pezzo alla ricerca di difetti e imperfezioni.

Demelza si sentì come nuda davanti a quello sguardo indagatore ma la donna non fece commenti, annuì educatamente, si alzò e fece un elegante inchino. "Piacere di fare la vostra conoscenza, signor Enys. Dicono cose meravigliose di voi, come medico pare facciate miracoli".

Dwight annuì, imbarazzato. "Io i miracoli, li chiamo in un altro modo: scienza...".

La donna incassò senza dar segno di essere scocciata dalla sua risposta. "Chiamate le cose come volete, l'importante è che funzionino".

"Certo signora".

Poi Constanze si voltò verso di lei, salutando nuovamente con un perfetto inchino. "Piacere di conoscervi, signora Carne. Avete davvero una bambina molto graziosa".

Demelza osservò Clowance che aveva afferrato un biscotto e lo aveva già mangiato. "Grazie, siete gentile. E scusatemi per questa intrusione".

Constanze non rispose. Fece cenno alla figlia di alzarsi per salutare educatamente e Margarita lo fece, abbozzando un inchino che era ben lontano dalla perfezione di quello di sua madre.

Era un pò goffa ma in Demelza la ragazzina suscitò subito simpatia. "E' un piacere conoscervi, signorina".

Lady Constanze scosse la testa. "Mia figlia ha diciassette anni, viene educata dai migliori maestri di Londra da quando è nata ma è goffa come un tacchino sgraziato. Scusatela per questo disastroso inchino".

Demelza provò pena per quelle parole verso la ragazzina che, colpita dal rimprovero della madre, aveva abbassato lo sguardo e aveva preso a tormentare il suo vestito con le mani, stropicciandone la stoffa. E in quel momento Clowance si avvicinò barcollando e osservandole, dando a Margarita la mazzata finale e abbozzando un inchino che, a conti fatti, risultava più aggraziato di quello della ragazza.

Demelza avvampò, Caroline rise e Lady Constanze osservò la piccola, accigliata. "Quanti anni ha vostra figlia, Miss Carne?".

"Un anno, fatto poche settimane fa".

La donna si voltò verso la figlia, guardandola storto. "Margarita, santo cielo! Persino una bambina di un anno che cammina a malapena, sa fare l'inchino meglio di te".

"Scusa mamma..." - rispose la ragazzina, intimorita.

Lady Constanze si rivolse a Caroline e Dwight, sbuffando. "Vedete perché non la voglio mai portare con me? E' troppo goffa, mi fa sfigurare! E' graziosa ma così lontana dal sapersi comportare a dovere. Ma ha diciassette anni ormai ed è ora che faccia il suo ingresso nella società e quindi la vostra festa di Natale, signora Enys, sarà la giusta occasione per farlo".

Dwight, che era rimasto in disparte, spalancò gli occhi. "Quale festa di Natale?".

Caroline si esibì in un sorriso amabile e ammaliatore. "Amore mio, la festa che faremo la sera del 24, quì. Io e lady Allyster abbiamo predisposto tutto! Niente di grande, solo una cinquantina di ospiti, una buona cena, lo scambio degli auguri davanti al dolce e poi tutti alla Santa Messa di mezzanotte. Una cosa quasi in famiglia, in pratica. Dwight, Demelza, sarà una serata meravigliosa per tutti noi".

Demelza la guardò, in panico. E lei che c'entrava? "Io... io?".

Caroline fece finta di non notare il suo sguardo stravolto. "Domani verrà il tuo sarto a prendere le misure per l'abito. Anche il tuo, Dwight".

Demelza e Dwight si guardarono in viso, ormai consapevoli di essere stati incastrati. "Sarto? Noi non abbiamo un sarto!".

Caroline sbuffò. "Lo avete, ovviamente! Da quando stamattina ne ho assunto uno per voi".

Demelza tentò di argomentare che non era il caso e che stava già facendo fin troppo per lei ma si rese conto che non era il momento, davanti a Lady Allyster.

E Caroline, ormai certa del successo, continuò la sua opera di persuasione. "Da quando abitiamo quì, non abbiamo ancora fatto nessuna cena importante e una casa di Londra non è una vera casa di Londra, senza una festa di Natale! Quindi, prepariamoci a festeggiare".

Demelza si guardò attorno, voleva fuggire. Come Dwight e Margarita, a giudicare dalle loro facce. E Clowance le venne in aiuto. "Vado di sopra... Credo che mia figlia abbia bisogno di essere cambiata".

Lady Allyster sembrò inorridita, da quelle parole. "Non può farlo la servitù?".

Demelza stavolta la guardò a tono, in viso, come faceva sempre quando qualcuno metteva becco nelle faccende riguardanti i suoi figli. "No, preferisco farlo io. Amo occuparmi della mia bambina".

"Posso venire a vedere come fate?".

La voce di Margarita, dal suono dolce e gentile, la fece sorridere. Era così diversa da sua madre, a prima vista... E trovava irritante come veniva trattata e umiliata, per il semplice fatto di non saper fare un inchino. "Certo, se vostra madre ve lo permette".

Lady Constanze sospirò. "Va e lasciami parlare in pace con Caroline per definire i dettagli, visto che ci tieni tanto".

Demelza si sentì finalmente libera di fuggire e, con Clowance in braccio e Margarita dietro di lei, ripercorse velocemente le scale che portavano al primo piano.

E quando fu nella sua stanza, tirò un sospiro di sollievo mentre metteva sul letto la piccola.

Margarita le si avvicinò, osservandola incuriosita. "Grazie signora, mi avete salvato! Stavo morendo di noia laggiù, con mia madre e Caroline che parlavano di pizzi, di arrosti e di dolci di Natale. Odio queste cose e fin'ora son riuscita ad evitarle. Ma ora mia madre dice che devo entrare in società e che la cena da miss Caroline è perfetta per me".

Demelza sentì di provare un immediato affetto per quella ragazzina. Era gentile, apparentemente ingenua e molto sincera nel suo modo di parlare. E nonostante fosse nobile e di indubbio sangue blu, era una persona semplice che forse non capiva ancora appieno il suo ruolo nella società londinese. "Clowance ci ha salvate. Non io!" - rispose, mentre sistemava il pannolino della bimba.

"Da dove venite?" - chiese Margarita.

"Dalla Cornovaglia".

"Avete una bella bambina! E' stupenda. E' la vostra unica figlia?".

Demelza osservò la finestra, chiedendosi dove fossero finiti Jeremy e Prudie. Stava imbrunendo e pareva in procinto di nevicare... "No, ho un bimbo di quattro anni che ora è al parco con la mia domestica".

"E vostro marito?".

A quella domanda, Demelza impallidì. Era la domanda più ovvia certo, era sempre difficile per lei rispondere ma con Margarita sentì che poteva permettersi di essere sincera. "Non ho marito. E ora voi sarete inorridita".

Margarita rimase per un attimo in silenzio. Poi arrossì, abbassando il capo come aveva fatto poco prima, quando sua madre l'aveva ripresa. "Inorridita come voi quando avete visto il mio inchino?".

Demelza sorrise. "Non ero inorridita".

E Margarita sorrise di rimando. "Nemmeno io! E scusate, a volte parlo troppo, sono goffa e non so perfettamente le buone maniere. Mia madre ha ragione a rimproverarmi sempre...".

Sentì verso di lei un moto d'affetto a metà fra il materno e l'amicizia. "Le madri e i padri a volte sanno essere duri e ci feriscono, senza rendersene conto. Anche mio padre non era tenero con me, sapete?".

"Perché non sapevate fare l'inchino?".

Demelza tossicchiò, sudando freddo nel ricordare suo padre. "No ecco... lui aveva altri motivi di... disappunto... nei miei confronti...".

Margarita rise. "Mi piacete Demelza. Sono contenta che ci siate anche voi alla cena di Natale".

"Io non lo sono per niente, mi sentirò terribilmente a disagio e inadatta" – rispose, con sincerità.

E Margarita rise di nuovo. "Allora saremo in due! Ci faremo compagnia! Volete essere mia amica?".

Demelza spalancò gli occhi. Lo stava chiedendo a lei? Quella parente del re le stava chiedendo di... di...? "Cosa?".

"Vi va?" - insistette la ragazzina.

Le sorrise, prendendo Clowance in braccio. Era dolce e aveva provato da subito simpatia per lei, cosa ci sarebbe stato di male? "Ma sì, certo".

"E allora datemi del tu!" - disse Margarita. "Quando non c'è mia madre, ovviamente" – aggiunse, sotto voce. "Lei non gradirebbe...".

"Va bene, Margarita. Saremo amiche".

La ragazzina le strizzò l'occhio. "E allora saremo amiche e insieme ci sentiremo inadatte e imbarazzate alla festa di Natale. Sei brava nell'inchino?".

"Non perfetta".

"Come me! E' fantastico e credo che l'inchino sia troppo sopravvalutato".

Demelza annuì. "Sono d'accordo ma forse potremo imparare insieme a farlo meglio".

Clowance ridacchiò e lo fecero anche loro.

"Potrebbe insegnarcelo Clowance" – propose Margarita. "E' più brava di noi e da grande sarà una vera lady, credo".

Demelza fece il solletico a sua figlia. "Vuoi essere una lady?".

Clowance rise.

"Vuoi sposare un nobile?" - chiese Margarita.

E Clowance rise più forte.

"Vuoi sposare un re?" - aggiunse Demelza.

E a quella domanda, Clowance emise gridolini di gioia.

Margarita scoppiò a ridere. "Direi che sa cosa vuole! Beata lei". Poi si voltò verso Demelza, stringendole la mano. "Amiche! Sono contenta di essere venuta quì".

Demelza ricambiò la stretta, vigorosamente. "E io di averti conosciuta" – le rispose. Avevano qualche anno di differenza e vite totalmente diverse ma in quel momento Demelza sentì di aver trovato una vera amica.


...


Poche ore dopo, finita la cena, Dwight e Demelza se ne stavano seduti l'uno accanto all'altra nel salotto mentre Prudie correva dietro ai bambini e Caroline dietro alla servitù, eccitata per l'inizio dei preparativi della festa di Natale.

"Dwight, tua moglie ci ha incastrati".

Lui guardò il soffitto, sconsolato. "Lo so...".

"Sopravviveremo?".

"Non lo so...".

Dwight sbuffò. "Lady Constanze è davvero indigesta... Spero che gli altri ospiti non siano come lei...".

Demelza gli sorrise, prendendogli la mano. "Magari saranno come sua figlia. Margarita è un amore. Mi ha presa in simpatia e mi ha raccontato un sacco di cose su, mentre mi occupavo di Clowance. Come se mi conoscesse da una vita... Mi ha persino parlato del ragazzo che le piace. E' dolce, ancora una bambina e sua madre è un'arpia".

Dwight si accigliò. "La goffa Margarita, innamorata? Di chi?".

Demelza alzò le spalle. "Oh, credo sia un ragazzino della sua età. Un duca... Edward... qualcosa...".

"Beh, non ha importanza..." - commentò Dwight. "Chiunque sia, nella notte di Natale si sentirà meno inadeguato di me. Sarò l'unico a Londra, a sentirmi così".

Demelza sospirò, guardando il soffitto scoraggiata. "Saremo in due... Anzi, in tre, con lady Margarita".

Il dottore guardò anch'esso il soffitto. "Bene, questo mi farà sentire meno idiota e inadatto...".

"Sono d'accordo" – borbottò Demelza, che sperava arrivasse presto la mattina del 25.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


Avrebbe voluto essere in qualsasi posto eccetto in quello, alla Vigilia di Natale.

Caroline, nonostante le rassicurazioni di voler fare una cena 'in famiglia', aveva invitato più di cinquanta persone appartenenti alla nobiltà londinese e ora era circondata da elegantissime dame vestite con abiti da sogno pieni di pizzi e gioielli e uomini distinti che, probabilmente, con il re e il Parlamento decidevano delle sorti dell'intero paese e di tutti i suoi abitanti.

Santo cielo, che ci faceva lei, figlia di un minatore stolto e violento, in quel salone ricco, elegante, pieno di candele e con una tavola riccamente imbandita, circondata da persone così dannatamente importanti? Attorno a lei era tutto uno svafillare di luci e ricchezza e davanti a tutto questo si sentiva piccola e fuori posto. Aveva partecipato ad altri balli e feste eleganti in Cornovaglia ma nessun evento a cui aveva preso parte era stato così opulento e aristocratico.

Avrebbe voluto scappare e correre dai suoi bambini, giocare con loro, raccontargli una fiaba sul Natale davanti al camino e stare a guardarli mentre si addormentavano ma non aveva potuto sottrarsi a quella festa e alla gioia di Caroline che aveva voluto coinvolgerla. Non poteva dirle di no, non dopo tutto quello che lei e Dwight avevano fatto per lei. Avrebbe festeggiato con Jeremy e Clowance il mattino successivo, con cioccolata calda e dolcetti, regali e coccole nel letto ma ora aveva dovuto suo malgrado dar loro un bacio e affidarli alle cure di Prudie.

Caroline le aveva fatto confezionare un meraviglioso abito di seta blu, sbracciato come dettava la strana moda che aveva invaso Londra, con la vita alta e stretta e la gonna lunga che scendeva dritta, evidenziando le sue curve proprio come il corpetto, dalla scollatura generosa e intarsiato con decorazioni d'oro. Le avevano legato i capelli in una lunga ed elaborata treccia abbellita con un nastro blu come il vestito e si sentiva come se fosse nuda e sconveniente anche se le altre dame erano vestite in maniera simile. In inverno braccia e petto non dovevano rimanere coperti?

Seduta su uno dei divanetti del salone, con Dwight alla sua destra e Margarita alla sua sinistra, osserva la gente che danzava o conversava dopo la fine della cena, in attesa di recarsi alla Messa di mezzanotte.

I suoi compagni di sventura non sembravano divertirsi più di lei: Dwight se ne stava appoggiato al gomito del divanetto, con la mano a sorreggergli la guancia e una eloquente espressione annoiata sul viso mentre Margarita si era abbandonata sulla schienale, sbuffando ed osservando il soffitto.

"Sono l'unico idiota a non vedere l'ora che tutto questo finisca?" - chiese Dwight, con voce piatta e sonnolenta.

Demelza sospirò. "Siamo in due...".

"In tre..." - aggiunse Margarita, sconsolata. "Per fortuna ci siete voi a tenermi compagnia o sarei già morta di noia".

Demelza scosse la testa. In realtà lei non si stava anniando, lei era solamente terrorizzata dal trovarsi lì. Aveva sempre amato i balli e ne aveva sempre subito il fascino ma lì, sola e lontana dalla sua terra, circondata da estranei, le risultava difficile divertirsi. Margarita era giovane, la più piccola della festa ed era abbastanza normale che provasse noia, anche perché caratterialmente non era fatta per situazioni del genere, come Dwight del resto.

Improvvisamente Caroline comparve davanti a loro, bellissima ed elegantissima nel suo abito natalizio rosso. "Amore, che ci fai quì? Stai per fonderti con la tappezzeria!" - disse, prendendo Dwight per la mano e costringendolo ad alzarsi.

"Sono comodo" – obiettò lui.

"Sei asociale! Siete asociali, tutti e tre! Santo cielo, è una festa e alle feste si deve conoscere gente nuova".

Dwight parve considerare quelle parole. "Io conosco un sacco di gente a Londra".

"Gente malata!" - ribatté Caroline.

"Pur sempre gente...".

"Che forse non arriverà viva a capodanno". E con quelle parole, impedendogli di replicare, Caroline gli diede uno strattone e lo trascinò via con se, in mezzo alla folla danzante.

Margarita Sospirò. "Demelza?".

"Sì?".

"Perché alle feste si deve conoscere gente nuova? E' obbligatorio?".

Ci pensò su. "Non lo so, perché me lo chiedi?".

Margarita guardò gli invitati, sconsolata. "Perché – e ci scommetto tutta la mia eredità e le monete d'oro che ho nel salvadanaio – far poco arriverà quì mia madre e mi dirà la stessa cosa".

Demelza, mascherando un sorriso, le prese la mano e gliela strinse per darle coraggio. Era graziosa e quella sera indossava un delizioso abito verde che la rendeva ancora più carina. "Se arriva, immagina di essere altrove, isola la mente e fa finta di trovarti nel tuo posto ideale della notte di Natale. Ti alzi, cammini con la schiena dritta così tua madre non avrà nulla da ridire e trasforma tutto questo, con la fantasia, in qualcosa che ti piace".

Margarita sorrise. "Maud... Il camino... La cioccolata calda!".

"Cosa?".

La ragazzina ridacchiò. "Il Natale l'ho sempre passato così, fino allo scorso anno. Con Maud, che è stata la mia governante da quando sono nata, noi sole a casa, mamma e papà invitati a qualche festa, a raccontarci storie dell'orrore davanti al camino acceso nella mia stanza, bevendo cioccolata calda. Ma ora ho diciassette anni, mia madre ha deciso che non ho più bisogno di Maud e l'ha licenziata e io son dovuta venire quì per entrare in società. E ora..." - sospirò, sconsolata – "E ora mi annoio da morire e Maud lavora in un'altra famiglia e racconta le storie dell'orrore ad altri bambini".

Demelza provò la voglia di abbracciarla. Le faceva una tenerezza infinita Margarita e la sentiva un'anima affine a lei. Desideravano le stesse cose, dopo tutto.

Margarita parve improvvisamente prendere forza, si mise a sedere dritta e la sua espressione si fece decisa. "Demelza, un giorno mi sposerò, sì! Con Edward, figlio dei duchi di Cavendish!". Annuì, sicura, anche se quando si erano conosciute, le aveva detto che erano entrambi talmente timidi da non riuscire quasi a guardarsi in faccia, nelle occasioni in cui si erano incontrati. "Mi sposerò con lui, avremo dei bambini e non faremo nessuna festa di Natale! Passeremo la Vigilia noi, soli, davanti al camino e con la cioccolata calda, ci racconteremo storie dell'orrore e saremo felici! Questo è un vero Natale".

Demelza sorrise, sembrava decisa e sperò che tutti i suoi sogni si realizzassero... Beh, ora doveva solo trovare il coraggio di dichiararsi a questo Edward... O lui a lei... Ma visti i soggetti e la timidezza di entrambi, unita all'età molto acerba, la vedeva dura senza aiuti esterni... Le vennero in mente Verity e il capitano Blamey e si ripromise di aiutare anche Margarita, se ne avesse avuto l'occasione in futuro. Adorava combinare matrimoni, dopo tutto!

La voce della ragazzina la richiamò alla realtà. "Demelza, non vai a vedere i bambini?".

"Più tardi, quando dormono. Se mi vedono ora, scoppieranno a piangere se poi vado di nuovo via".

"Posso venire con te se ci vai?".

Demelza scosse la testa, cercando con lo sguardo Lady Constanze. "Margarita, tua madre si arrabbierebbe".

E in quel momento, quasi avesse sentito di essere stata evocata, Constanze Allyster si materializzò davanti a loro. "Margarita, alle feste di Natale non si sta sedute sul divano! Si DEVE conoscere gente" – disse subito, col consueto tono acido.

Margarita osservò Demelza divertita, a quelle parole predette poco prima ed entrambe lottarono con loro stesse per non scoppiare a ridere. "Sì mamma".

Demelza le strinse la mano. "Ricordati, schiena dritta e pensa ad altro..." - le bisbigliò.

Margarita annuì e poi, sospirando, si alzò, si mise ritta come un fusto, alzò il mento per darsi un tono e sorpassò sua madre camminando in maniera elegante.

"Dio sia lodato..." - commentò laconicamente lady Constanze osservandola, prima di seguirla, senza trovare, stavolta, nessun motivo di rimprovero per lei.

Demelza rimase sola, guardandole mentre si allontanavano. Attorno a lei tutti danzavano e chiacchieravano e non aveva il coraggio di avvicinarsi a nessuna di quelle persone. Che diritto aveva una come lei, la figlia di un minatore, a rivolgere la parola a gente tanto importante? Santo cielo, se avessero saputo delle sue origini, l'avrebbero spedita come minimo in cucina a rassettare!

Osservò l'orologio e vide che erano quasi le dieci e pensò che i bambini dovessero essere ormai profondamente addormentati. Si alzò di soppiatto, diede un'ultima occhiata al salone e poi si allontanò, superando i corridoi pieni di cameriere che andavano avanti e indietro per poi salire le scale e arrivare al piano superiore, deserto ed avvolto nel silenzio. Una fila di candele appese alle parete rendeva l'atmosfera magica e fioca e i rumori del piano di sotto arrivavano attutiti e lontani. E finalmente tirò un sospiro di sollievo.

Camminò, sentendo i suoi passi rimbombare piano sul pavimento, fino ad arrivare alla stanza dei suoi bambini. Entrò piano e vide che entrambi erano profondamente addormentati, compresa Prudie che sonnecchiava russando sul divano, con indosso una coperta di lana rosa di Clowance.

Si avvicinò al letto di Jeremy e si accorse che la piccola dormiva con lui, abbracciata al fratello. Sembravano pacifici e sereni, nel loro sonno magico della notte di Natale.

Sfiorò i loro capelli, quelli fini e castani di Jeremy e quelli color dell'oro e pieni di boccoli di Clowance, perdendosi nella perfezione dei loro visi. Erano meravigliosi, il suo capolavoro, il suo unico e vero amore e non vedeva l'ora che arrivasse il mattino successivo per festeggiare il Natale, per vederli ridere e respirare la loro gioia per i regali.

E in quel momento – e odiava quando succedeva – le venne in mente Ross e il loro primo Natale da sposati, quando aveva cantato per lui a Trenwith implorandolo di amarla. Le tremò la mano a quel pensiero, alle bugie, alle illusioni, alle parole d'amore che le aveva sussurrato e che si erano rivelate come la più crudele beffa della sua vita. Ross non l'aveva mai amata, Ross si era accontentato di lei quando Elizabeth non era a sua disposizione per poi abbandonarla appena ne aveva avuto l'occasione. Non aveva mai voluto i suoi bambini, ci aveva provato ad amare Julia ma forse si era solo illuso di farlo. Jeremy non lo aveva mai desiderato, non lo aveva mai degnato di uno sguardo e crudelmente, si era divertito a prendersi gioco di lui prima di andarsene, facendogli promesse che non aveva alcuna voglia di mantenere e che tanto avevano fatto soffrire il suo bambino. Clowance... beh, non era mai nemmeno stata nei suoi pensieri. L'aveva tradita durante la gravidanza, se n'era andato mesi prima del parto e non si era presentato a conoscerla dopo che era nata. Cosa Ross provasse per lei, era eloquente! Nulla!

A volte si sentiva stupida a pensare a Ross, a pensarci ANCORA! Santo cielo, lui probabilmente si era ormai dimenticato della loro esistenza! Probabilmente in quel momento era a Trenwith, felice, a festeggiare il Natale con Elizabeth, a riempirla di attenzioni, stava giocando con Jeoffrey Charles e col nuovo bambino e forse sua moglie era di nuovo incinta...

Perché pensava a Ross? A Ross che si era sempre preoccupato per tutti tranne che per lei e per i loro figli, non ritenuti meritevoli delle sue attenzioni? Perché non riusciva ancora ad odiarlo o quanto meno a provare indifferenza? Sarebbe stato il suo successo riuscirci, un giorno... Non valeva la pena pensarci, Ross non lo stava di certo facendo! Non lo aveva mai fatto nemmeno quando erano sposati e probabilmente ogni volta che si era avvicinato a lei, che l'aveva baciata, amata e fatta sua, lo aveva fatto immaginando che lo stesse facendo assieme ad Elizabeth. Proprio come lei stessa, poco prima, aveva consigliato di fare a Margarita spingendola ad immaginare una realtà diversa da quella poco gradita che la circondava.

Baciò i suoi bambini sulla fronte, rimpiangendo solo di non potersi più prendere cura della tomba di Julia che ora, probabilmente, era rimasta abbandonata a se stessa e sferzata dai venti della Cornovaglia senza che nessuno pensasse mai a poggiarvi un fiore. Ma Julia sapeva la verità, sapeva che ovunque lei fosse, sua madre l'avrebbe amata sempre. E questo era una consolazione...

Deglutì, non voleva scoppiare a piangere, non nella notte di Natale e non durante la festa di Caroline.

Uscì dalla stanza con passo felpato e percorse a ritroso il corridoio, sfiorando i muri freddi delle pareti. Dalle finestre delle ombre dalle forme strane si gettavano sul suo cammino e Demelza si fermò davanti ad una di esse, poggiandosi sul davanzale ad osservare il giardino sottostante invaso da una fitta nebbia.

Non c'era neve in quella notte di Natale, solo una fitta e gelida nebbia che avvolgeva ogni cosa e che, a suo modo, rendeva il mondo circostante così ben conosciuto, un luogo nuovo e misterioso tutto da esplorare.

Immersa in quella visione, sussultò quando avvertì dei passi dietro di lei e si girò di scatto per vedere chi fosse.

"Non volevo spaventarvi, signora".

Demelza rimase ferma, stupita di non essere sola. C'era un ragazzo giovane, dai capelli castano chiaro, snello, alto ed affascinante, dietro di lei... Poteva avere forse la sua età, era vestito elegantemente e aveva dei magnetici occhi verdi che le mettevano addosso una strana soggezione che la costrinse a scostare per un attimo lo sguardo. Chi era questo giovane uomo che era comparso dietro di lei come un fantasma? "No... Non mi avete spaventata...".

Lui sorrise. "Un pò sì, ammettetelo".

Fu costretta a rispondere al sorriso. "Un pò... Vi siete perso?".

Lui la guardò intensamente, quasi con aria sognante. Tutta quella situazione, ora che Demelza ci pensava, sembrava un sogno... "Forse sì, mi sento un pò perso..." - sussurrò con voce suadente e forse con un leggero imbarazzo.

Demelza si sentì arrossire davanti a quelle parole. "La sala da ballo è di sotto. Proseguite lungo il corridoio, scendete le scale e vi troverete immerso nella festa. Siete uno degli ospiti di Caroline?".

"Sì, mio malgrado mio zio mi ha costretto a venire quì. E voi?".

A Demelza venne da ridere. A quanto sembrava, la lista delle persone costrette a partecipare a quella festa stava diventando piuttosto lunga. "Sono una amica di Caroline".

"Poco amante del baccano? Per questo vi siete rifugiata quassù come me? Non mi sono perso, stavo cercando un attimo di pace per vivermi un pò di atmosfera natalizia da solo".

Demelza sospirò. A quanto pare quel giovane sconosciuto aveva gli stessi desideri suoi e di Margarita. "Sono salita a dare un occhio ai miei bambini, tutto quì".

Il ragazzo osservò il corridoio deserto e sembrò vagamente deluso da quelle sue parole. "Avete dei figli?".

"Sì, due. Jeremy di quattro anni e la piccola Clowance di uno".

"E, scommetto, un marito che si starà chiedendo che fine abbiate fatto".

A quelle parole, dette sicuramente senza malizia o secondi fini, Demelza abbassò lo sguardo. Era sempre così difficile rispondere ad affermazioni così... "Nessun marito ad aspettarmi..." - disse infine, frettolosamente, volgendo lo sguardo altrove.

Il ragazzo sussultò. "Scusate, non volevo sembrarvi indelicato. A volte parlo troppo".

Gli sorrise, aveva una voce gentile e calda, era piacevole parlare con lui in fondo. Stranamente si sentiva a suo agio e desiderosa di continuare quella conversazione con lui. "Non dovete scusarvi, non ce n'è motivo".

Il ragazzo si appoggiò alla finestra, accanto a lei. "Amate anche voi le atmosfere silenziose?".

"A volte".

Le indicò col dito il giardino avvolto dalla nebbia, facendo scorrere l'indice sul vetro ad indicarle le piante. "Sapete che cosa dicono della nebbia?".

"Che è umida?" - rispose lei, divertita.

Lui rise. "Sì beh, a parte questo...".

"No, non lo so".

Lui si voltò verso di lei e quando la guardò in viso, Demelza sentì un brivido lungo la schiena. Santo cielo, che le prendeva? "La nebbia arriva quando le creature magiche invadono il mondo perché hanno qualcosa di importante da fare. E quale migliore notte, se non quella di Natale?".

Demelza osservò fuori dalla finestra, incantata dal suo modo di parlare e da quelle argomentazioni tanto diverse da quelle a cui era di solito abituata. Aveva davanti un giovane sognatore all'apparenza piuttosto colto ma dai modi gentili e dolci. "A Londra c'è spesso la nebbia" – osservò.

"Quindi siamo circondati spesso da creature magiche. Ora lo sapete anche voi".

Demelza guardò la porta della cameretta di Jeremy, pensando a quanto gli aveva appena detto quel ragazzo. "A mio figlio questa storia piacerebbe tanto. Siete uno scrittore di racconti per bambini?".

Lui si sedette sul davanzale, pensieroso. "Vediamo... Sono il nipote di un lord, un navigatore e sì, amo scrivere poesie, immaginare e disegnare. Odio le feste e mi piace contemplare la vera bellezza, quando la scorgo..." - sussurrò al suo orecchio, con una voce calda che la fece rabbrividire di nuovo. "E forse sono un tipo banale e noioso ma adoro esserlo".

Demelza lo guardò, si sentiva stranamente bene in quel momento a parlare con quello sconosciuto. "Non mi sembrate noioso".

"Come vi sembro, allora?".

Demelza arrossì, a quella domanda. E abbassò lo sguardo, in preda all'imbarazzo. "Beh... Dite cose belle, interessanti... Magiche... E' bello starvi a sentire".

Lui sorrise, accorgendosi del suo imbarazzo. "Grazie ma è merito vostro!".

"Mio?".

"Siete una meravigliosa musa ispiratrice lady...". Si accigliò, rendendosi conto che non si erano ancora presentati.

"Demelza, mi chiamo Demelza Carne" – rispose lei, senza pensarci troppo.

Lui annuì. "Bellissimo nome, il nome di una fata. Siete sicura di non esserlo e di non essere apparsa dal nulla in questa notte di nebbia, come le altre creature magiche che aleggiano nel giardino".

Lei scoppiò a ridere e sentì il suo cuore farsi leggero. Nessuno le aveva mai parlato a quel modo. "Vi assicuro che sono assolutamente reale".

"Ottimo!" - esclamò lui, entusiasta. "Allora non scomparirete con il sorgere del sole e magari mi permetterete di venirvi a trovare per scrivervi una poesia".

Demelza arrossì. Poesia? A lei? "Cosa? Oh, non è il caso".

Lui le strizzò l'occhio. "Oh, certo che lo è! Mi avete tenuto compagnia in questa serata in cui rischiavo di morire di noia, avete ascoltato le mie farneticazioni senza trovarle noiose e avete acceso la mia ispirazione. Posso farlo per sdebitarmi?".

Santo cielo, un nobile che le chiedeva il permesso per qualcosa!? Con gentilezza poi! Per sdebitarsi di un debito che non esisteva! "Certo, se davvero vi fa piacere" – rispose, pensando che lui stesse scherzando. Come poteva essere serio, dopo tutto?

Lui si allontanò dalla parete, esibendosi in un inchino elegante. "Vi ringrazio mia lady. Sentirete presto parlare di me, allora". Le porse la mano. "Scendete? Fra poco dovremo uscire per andare a Messa".

E Demelza incrociò le dita con le sue, lasciandosi accompagnare al piano di sotto. "Certo. Ma non so ancora il vostro nome".

"Oh, che sbadato! Hugh Armitage, nipote di Lord Falmouth ed erede della dinastia dei Boscawen. Orgoglioso di servirvi, lady Demelza Carne".


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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Non credeva che Hugh Armitage parlasse sul serio ma si sbagliava.

Passate le feste di Natale, col gelo e la neve di gennaio erano iniziate ad arrivare puntualmente, ogni lunedì pomeriggio, delle lettere per lei. Ogni lunedì, verso le quattro del pomeriggio, qualcuno bussava al portone principale, consegnava in segreto alla cameriera addetta al ritiro della posta una busta per lei che gli veniva recapitata e poi spariva.

Era strano ma nel giro di poche settimane, anche se Hugh Armitage non si era più fatto vedere, quella era diventata una piacevole abitudine per lei, un piccolo angolo segreto e dolce che la faceva sorridere.

Sapeva che era lui e trovava dolcissimo quel modo di fare, quel donarle un pensiero senza farsi vedere quasi fosse lui stesso un essere magico come quelli di cui le aveva parlato la notte di Natale, col solo scopo di farle piacere. Erano a volte piccole poesie, a volte aforismi, a volte semplici pensieri scritti in rima su di lei o sulla bellezza in generale che circondava entrambi. Hugh sapeva trovare la bellezza in ogni cosa, anche nella più insignificante colomba bianca che volava sui cieli di Londra e questo le toccava il cuore. Era un animo sensibile e quei piccoli gesti, a cui non era abituata, la rendevano felice ma le facevano anche scaturire una strana ansia perché mai nessuno le aveva detto come rispondere a questo genere di gentilezze.

Una delle cose che più adorava era che Hugh, in ogni busta, mettesse ogni volta il petalo di un fiore diverso e ogni lettera terminava con la frase: “Indovina da che fiore l’ho colto”.

Gli scriveva la sua risposta su un foglio e lo affidava alla cameriera incaricata di portarle le missive segrete e lei, ad ogni lunedì, consegnava la lettera di risposta al giovane.

Questo avveniva sotto gli occhi di Dwight e Caroline che forse non si erano accorti di nulla o forse sì, ma tacevano per senso del pudore e per rispettare la sua privacy.

Leggeva quelle piccole poesie, che poi riponeva in un portagioie sulla sua scrivania, ogni sera, quando aveva messo a letto i bambini. Era il suo angolo di pace e quei momenti risvegliavano in lei un profondo senso di benessere che non provava da… Beh, non lo ricordava nemmeno più. O forse non l’aveva nemmeno mai provato perché nessuno aveva mai avuto pensieri tanto dolci e delicati nei suoi confronti.

Non sapeva se facesse bene o male a lasciarlo fare, se fosse sbagliato, se non era un comportamento corretto e onesto di una donna già madre e con un vissuto tanto complicato alle spalle ma non riusciva a rinunciarci. Anche se nei suoi pensieri c’era innegabilmente Ross. Ci sarebbe sempre stato Ross! L’apparizione nella sua vita di Hugh Armitage era qualcosa di misterioso ed indecifrabile per lei, nel tumulto della sua mente e del suo cuore. Era strano avere qualcuno che pensasse a lei, anche solo per pochi istanti, anche solo il tempo di scrivere una breve poesia per farla sorridere. In fondo, da quando era nata, a chi era mai importato davvero che lei fosse felice? Chi, con piccoli gesti si era dimostrato desideroso di farle piacere? Chi si era posto, nei suoi confronti, con la nobiltà di un romantico principe delle fiabe?

Non era tanto Hugh Armitage in se a colpirla – non lo conosceva dopo tutto, anche se lo trovava affascinante – era quella situazione dove per una volta si era trovata nei pensieri di qualcuno a darle quella strana serenità che non avvertiva da tanto.

Si era chiesta cosa Hugh volesse da lei, non era tanto ingenua da pensare che non avesse un fine e probabilmente immaginava anche quale fosse ma la cosa bella era che cercava di conquistare i suoi favori con modi gentili, romantici e delicati, senza pregiudizi e con assoluta incuranza della sua situazione. Chiunque sarebbe fuggito davanti a una donna sola, dal passato oscuro e con due bambini piccoli da crescere. Lui no! E questo faceva la differenza.

Quando arrivò la fine di febbraio, in un lunedì di sole pallido, decise che non avrebbe più mandato la cameriera a fare lo scambio di missive. E anche se si sentiva imbarazzata come una ragazzina al primo appuntamento, era ora che lo rivedesse e lo ringraziasse di ciò che aveva fatto per lei in quei mesi. Svegliò i bimbi dal pisolino, li affidò a Prudie per la merenda e poi sfiorò la busta con l’ultima poesia ricevuta la settimana prima. Conteneva un bellissimo petalo di narciso che stava cominciando proprio in quel momento la fioritura.

Sorrise, stavolta glielo avrebbe detto a voce il nome del fiore.

I bimbi corsero fuori e Prudie, prima di chiudere la porta, si attardò ad osservarla mentre si pettinava i capelli. “Non stare a pettinarti troppo. Ti troverebbe carina anche se ti vedesse appena sveglia, spettinata e in camicia da notte. Soprattutto in camicia da notte…”.

Demelza arrossì. Dannazione, se n’era accorta?! “Di che parli?” – chiese, fingendo indifferenza.

Prudie ridacchiò. “Ragazza mia, ne devi fare di strada per riuscire a fare qualcosa sotto ai miei occhi di nascosto”.

Demelza sospirò. Prudie era come una madre ed era fedele, in fondo che male c’era se condivideva con lei quel segreto? “Credi che faccia male?”.

Perché hai questo timore?”.

Abbassò lo sguardo. “Non lo so… Ho due figli a cui pensare”.

Prudie le si avvicinò, accarezzandole un braccio. “Sei una madre ma anche una donna. Non stai facendo niente di male, hai solo conosciuto una persona gentile che ha piacere ad avere a che fare con te. Non devi pensare a lui, non devi pensare che stai facendogli un torto”.

Demelza sussultò, anche se la domestica non aveva detto il nome, aveva capito benissimo a chi si riferiva. Prudie aveva centrato il nocciolo della questione, quella paura di non essere adatta che sempre l’aveva accompagnata da quando aveva conosciuto Ross. Anche ora che lui non faceva più parte della sua vita, in un certo senso aveva timore di deluderlo col suo comportamento… “Andrà mai via questo fantasma?”.

Prudie le strizzò l’occhio. “Conosci gente nuova e pian piano andrà via. E ora sbrigati o qualcuno se ne andrà senza che tu lo abbia incontrato. A proposito, è bello?”.

Demelza, a quella domanda, scoppiò a ridere senza risponderle. Poi la baciò sulla guancia. “Grazie Prudie”. E poi corse via.

Scese al piano di sotto, era deserto. Dwight era dai suoi pazienti, Caroline da delle amiche a prendere il tè e le domestiche erano affaccendate in cucina ad organizzare la cena. Fuori c'era un clima ancora freddo ma sereno e nell'aria si avvertiva quasi il profumo della primavera che, anche se ancora lontana, sembrava impaziente di arrivare.

Oltrepassò il giardino ancora spoglio, socchiuse il cancello e si appoggiò al pilastro di pietra che lo sorreggeva e aspettò, godendo dei raggi del sole sul suo viso. E quando sentì dei passi leggeri dietro di lei non si voltò ma, a voce, pronunciò il nome del petalo del fiore che lui le aveva portato la settimana prima. "Narciso...".

I passi si bloccarono di scatto al suono della sua voce e per un attimo lui parve indugiare. E allora lei prese coraggio, si voltò e gli sorrise. "Non avevo della carta da lettera con cui rispondere e così ho pensato che sarebbe stato educato darvi io stessa la soluzione al vostro quesito".

Evidentemente preso in contropiede, Hugh Armitage le sorrise di rimando, imbarazzato. Era bello come la notte in cui l'aveva conosciuto e alla luce del sole, coi raggi che rendevano dorati i suoi capelli castani e ancora più chiari i suoi occhi blu, era ancora più affascinante. Era elegante senza essere pomposo, aveva un fisico asciutto e snello e un sorriso dolce, gentile. "Ve ne intendete davvero di fiori. Non avete mai sbagliato nessuna risposta".

"Lo so, non ne avevo alcun dubbio". Demelza si avvicinò a lui, annuendo. "Amo coltivarli e prendermene cura. E volevo ringraziarvi per i pensieri gentili che avete avuto per me in questi mesi. Mi ha fatto piacere ricevere le vostre poesie".

"Pensavate che non l'avrei fatto? Che scherzassi?".

Lei arrossì, imbarazzata. "In effetti sì, credevo che scherzaste...".

Lui si chinò, le prese la mano e la baciò. "Mia lady, voi siete una perfetta musa ispiratrice e non scherzavo affatto la notte di Natale".

Se possibile, Demelza arrossì ancora di più. "Giuda, nessuno me lo aveva mai detto!".

A quella imprecazione lui rimase basito alcuni secondi, ma poi scoppiò a ridere. "Giuda?! Siete una continua fonte di sorprese e mi fa piacere vedervi".

Maledicendosi per l'esternazione poco signorile di poco prima ma piacevolmente sorpresa dal vederlo divertito, Demelza rise a sua volta. "Scusate, a volte dimentico dove mi trovo... E fa piacere anche a me avervi rincontrato. Era tanto che volevo ringraziarvi e mi avrebbe fatto piacere vedervi per un tè. Perché non siete più venuto?".

Lui le diede il braccio e lei accettò l'invito. "Perché noi poeti amiamo creare atmosfere soffuse e magiche e agire nell'ombra. Ma ora che voi siete quì... Vi va di fare due passi, Demelza?".

Santo cielo, Hugh Armitage sembrava più magico delle atmosfere che sapeva creare! "Certo, sono libera per qualche ora".

A braccetto percorsero un breve dedalo di vie e Hugh Armitage la scortò fino ad Hyde Park. "Non vi ho scritto quelle poesie per avere i vostri ringraziamenti o qualcosa in cambio, l'ho fatto perché mi faceva piacere farlo e perché sapevo che faceva piacere a voi riceverle. Non volevo altro e forse, se avessi bussato alla vostra porta, avrei finito con l'essere meno magico e più invadente e terreno. Noi poeti amiamo scrivere da soli, nell'oscurità, e guardare da lontano cosa prova la gente leggendo i nostri pensieri".

Giunti sotto un grosso castagno, Demelza si fermò. Le sue parole, il suo modo di fare e la delicatezza dei suoi pensieri e delle sue parole la stupivano e confondevano. Erano intenti nobili quelli di Hugh ed era molto gentile da parte sua ma c'era qualcosa che voleva chiedergli e ora che lo aveva davanti, prima di decidere se vedersi ancora e continuare quello strano gioco in rima fra loro, voleva avere una risposta. "Posso farvi una domanda?".

"Certo".

"Perché perdete tempo a scrivere poesie a me? Siete giovane, bello, aristocratico e sicuramente avrete conoscienze più interessenti di me a cui dedicare le vostre poesie".

Hugh la guardò in viso, terribilmente serio stavolta. "Chi siamo noi, per definirci più o meno interessanti? Vi ho vista la sera di Natale, voi e io, due perfetti sconosciuti... E ho parlato con voi con la stessa naturalezza con cui si chiacchiera con una persona conosciuta da sempre ed è raro che capiti, fra due perfetti estranei, succede solo con anime affini. Mi siete sembrata bella come una fata in quel corridoio avvolto dalla nebbia e mi dispiace che voi non vi riteniate interessante ma ai miei occhi lo siete e mi piace scrivere per voi. E vorrei continuare a farlo perché da molto, pensando a qualcuno, non provavo tanto piacere a scrivere qualcosa".

Demelza sorrise, tristemente stavolta. Santo cielo, lui era dolce e sicuramente genuino e sincero nelle sue parole ma lei non era così speciale come lui credeva e non voleva che un giorno restasse deluso da ciò che lei era davvero. "Hugh, non sono una fata, sono una donna sola, con due figli piccoli, che arriva da un mondo opposto al vostro. Ho tantissimi problemi e vi assicuro che il mondo non mi guarda con la stessa benevolenza che usate voi. Non sono quello che credete e forse davvero dovreste volgere lo sguardo altrove e dedicare le vostre poesie a qualcuno che davvero rispecchi ciò che vedete e scrivete".

Hugh sospirò, prendendole la mano e stringendola nella sua. "Ditemi una cosa! Siete una persona cattiva?".

Sussultò a quella domanda che non si aspettava. "No... No santo cielo! Cerco di non esserlo quanto meno...".

Lui sorrise, baciandole la mano che teneva stretta nella sua. "E questa è l'unica cosa che conta. I problemi arrivano per tutti prima o poi, di diversa natura. Non siamo noi a meritarceli, capitano e basta senza colpa di nessuno. Non mi importa cosa il mondo pensa di voi e non mi spaventa il passato che vi portate dietro. Solo una cosa conta, per me, quando guardo una persona...".

"Cosa?".

"Gli occhi... Voi Demelza avete dei meravigliosi occhi verdi, trasparenti e lucenti come quelli di un bambino. Occhi così appartengono a persone belle di animo e di cuore e sono quelli che ispirano i poeti e i menestrelli a scrivere poesie e ballate".

Sentì quei suoi occhi descritti con tanta passione da Hugh farsi lucidi. Nessuno le aveva mai detto qualcosa di simile, nessuno era mai riuscito a farla sentire... speciale... Tremò ma non per paura o freddo, tremò per un brivido di strano piacere che percorse tutta la lunghezza del suo corpo. "Quindi, nonostante le mie OTTIME argomentazioni, continuerete a scrivermi poesie?" - chiese, con la voce che le tremava.

"Ovviamente, nonostante le vostre ottime argomentazioni... Se voi me lo permetterete ovviamente".

Gli sorrise, annuendo. Santo cielo, che stava facendo? In che razza di guaio si stava cacciando? Eppure per una volta decise di essere irrazionale e di fregarsene del buon senso e in parte delle responsabilità. Voleva viversi qualcosa di bello per se, SOLO per se, qualcosa che la faceva star bene. In fondo con Hugh non faceva nulla di male e dopo tanto dolore e tante lacrime, era come aver trovato un raggio di sole capace di scaldarle un cuore che credeva irrimediabilmente ghiacciato. "Ve lo permetto".

Lui rise, felice come un bambino. "Potrò godere ancora della vostra compagnia come oggi?" - chiese, prendendola per mano e ricominciando a camminare per Hyde Park.

"Credo di sì. Ogni lunedì, quando verrete a portarmi la poesia, se vi va?".

"Il lunedì, ovviamente". Hugh divenne pensieroso, inspirò profondamente e poi prese coraggio. "Ma se vi chiedessi... Ecco... Domenica pomeriggio vi andrebbe una passeggiata con me?".

Demelza si bloccò, gelata e ancora più imbarazzata di lui. Ecco, se lo aspettava e gli faceva anche piacere che lui glielo avesse chiesto però ora quei problemi della sua vita che a lui non interessavano ma che c'erano, sarebbero improvvisamente ricomparsi spezzando la magia che si era creata fra loro. "Ho due bambini... La domenica la dedico a loro".

Lui ci pensò su. "Jeremy e Clowance, giusto?".

Stupita che si ricordasse i loro nomi che gli aveva detto ben due mesi prima, lei annuì. "Sì, giusto".

"Amano gli animali?".

Lei rise, stupita da quella strana domanda. "Sì! In queste sere gli sto leggendo una fiaba con protagonista Sveva-la zebra e la adorano. Jeremy mi chiede un sacco di cose sulle zebre e santo cielo, non so mai cosa rispondergli. Non ne ho mai vista una".

Hugh annuì. "Perfetto! Verrò a prendervi domenica pomeriggio alle due. Voi e i bambini... E vi porterò a conoscere... Sveva-la zebra".

"Cosa?".

Lui le strizzò l'occhio. "Vi fidate?".

Si sentì leggera, eccitata e curiosa come una bambina. "Dite sul serio?".

"Certo! Non scherzo mai quando si tratta di Sveva-la zebra! E voi, che animale vorreste vedere?".

Decise di stare al gioco, si stava decisamente divertendo. "Alcuni dicono che, con questi capelli rossi, ricordo la fierezza di una tigre. Non ne ho mai vista una però, per accertarmi che sia vero...".

"Le tigri sono esseri meravigliosi!". Lui le baciò nuovamente la mano. "Sveva-la zebra e la tigre. Si può fare... A domenica?".

Si mise le mani sui fianchi, dandogli corda e affrontando il suo sguardo in attesa. "Due bambini piccoli possono essere peggio di una tigre! E voi non mi sembrate esperto in materia".

"Parlate delle tigri?".

"Parlo dei bambini".

Lui non parve scoraggiarsi. "Sono affascinanti come la madre?".

"Molto più che la madre. Sono i bambini più belli del mondo".

Hugh le riprese la mano, ridendo. "E allora sarà un piacere passare la domenica pomeriggio con loro e con voi".


...


Domenica arrivò in fretta e per tutta settimana Demelza fu impegnata ad evitare ed ignorare le battutine divertite di Dwight e Caroline sullo strano interessamento 'del tutto disinteressato' di Hugh Armitage.

Dopo pranzo preparò i bambini per uscire, dicendo loro che avrebbero passato il pomeriggio con un amico della mamma. Santo cielo, non sapeva nemmeno se definire Hugh 'amico' fosse corretto, non era davvero consapevole di che genere di rapporto li unisse...

Mise a Jeremy dei pantaloncini verdi lunghi fino al ginocchio e una giacchetta dello stesso colore e fece indossare a Clowance un vestitino di lana azzurro, fermando i suoi boccoli ribelli con un nastrino del medesimo colore.

La giornata era bella, limpida ma ancora piuttosto fredda come era normale che fosse, a inizio marzo. Non aveva idea di cosa avesse in mente Hugh ma decise di non pensarci e di lasciarsi guidare da lui.

Arrivò a prenderla in carrozza, puntuale, e appena vide i bambini si esibì in un sorriso. Strinse la mano, da uomo a uomo, al piccolo Jeremy e baciò la manina di Clowance che rise diverita. E poi la sua, lentamente, facendole venire un brivido lungo la schiena. "Meravigliosamente belli, come la madre" – sussurrò. "Una fatina non poteva che mettere al mondo dei capolavori".

Jeremy gli tirò la giacca, spezzando quel momento romantico. "Dove andiamo, signore?".

Lui gli strizzò l'occhio. "Vedrai! E' una sorpresa".

Da vero gentiluomo prese in braccio i bambini, facendoli salire sulla carrozza e poi diede la mano a lei, aiutandola a fare altrettanto.

Demelza rise, non ci era decisamente abituata. Si sedette e rimase in silenzio, rilassandosi all'andatura placida della carrozza e cullata dalle chiacchiere di Jeremy che non smetteva di fare domande a Hugh.

Quando suo figlio iniziava a chiacchierare, era difficile fermarlo ma Hugh non pareva infastidito dalla cosa e anzi, sembrava in grado di mettersi al suo livello di bambino e di sostenere alla pari una conversazione con lui.

Clowance ogni tanto cercava di attirare l'attenzione del ragazzo e lui alla fine se la mise sulle ginocchia, facendola saltellare e ridere. E così dopo un pò anche Jeremy volle fare lo stesso gioco e Hugh lo accontentò senza problemi.

Quando finalmente la carrozza si fermò, erano in aperta campagna. Scesero e si trovarono davanti a una grossa stalla dalla quale si accedeva a un immenso campo delimitato da alte staccionate e recinzioni che si perdevano a vista d'occhio fino al bosco che si trovava a diverse miglia da loro.

"Che posto è questo?" - chiese Demelza, guardandosi in giro.

Hugh, prendendo Jeremy per mano, le indicò l'ingresso. "Una specie di ricovero per animali. Si prendono cura ed allevano animali destinati ai circhi e agli spettacoli viaggianti. Colui che lo gestisce è un mio amico e mi ha permesso di portarvi quì a vedere gli animali di cui si sta prendendo cura ora".

Jeremy saltellò eccitato. "Bello!!!".

"Oh sì" – rispose Hugh, accelerando il passo e trascinandoselo dietro. "Venite".

Con in braccio Clowance, Demelza seguì i due, osservando il paesaggio attorno a se. Passarono davanti a un lago pieno di fenicotteri rosa, in lontananza videro una giraffa che lasciò lei e i bambini a bocca aperta e infine giunsero in un altro recinto interno, posto al delimitare del bosco.

Hugh le prese Clowance dalle braccia, mettendola a terra con suo fratello. "Venite bambini, vi aspetta una vostra amica!".

Entrarono nel recinto e i due piccoli si bloccarono, quasi senza fiato dall'emozione.

"IEIA!!!" - gridò Clowance, indicando un uomo che teneva le redini di un grande animale bianco e nero.

Demelza spalancò gli occhi, guardando Hugh senza parole. "Una zebra...".

Jeremy saltellò. "Sveva-la zebra, Sveva-la zebra!!!".

L'uomo che teneva le redini dell'animale si avvicinò loro, esibendosi in un inchino. "Vi aspettavo signorini. E oggi sono a vostra disposizione". Li prese in braccio e poi li mise sulla groppa dell'animale che sembrava dolce e docile e i bimbi impazzirono di gioia.

Demelza rimase senza fiato. "Ma... ma...".

Hugh rise. "Sveva-la zebra che è innamorata di...". Si voltò verso Jeremy, aspettando che finisse la frase.

E il bimbo lo accontentò. "Di Nello-l'asinello".

"Esatto" – disse il poeta. "Oggi Nello non c'è, doveva lavorare, ma Sveva sarà la vostra compagna di avventure per tutto il pomeriggio e il signor Steve vi farà giocare con lei e vi insegnerà un sacco di cose su questo animale".

Il viso di Jeremy divenne rosso dall'emozione. "E' il giorno più bellissimo della mia vita! Signor Hugh ma conosci Sveva-la zebra?".

Anche Demelza era incuriosita dalla cosa. "Già! La conoscete?".

Hugh sospirò. "Ho passato QUATTRO giorni nelle librerie di Londra che si occupano di letteratura infantile, per trovare quel libro. Volevo essere pronto e quando l'ho trovato, l'ho letto in una notte. Bellissima storia".

Demelza scoppiò a ridere. Santo cielo, Hugh era una continua fonte di sorprese. "Avete letto una fiaba per bambini?".

Lui le prese la mano, salutando Steve ed affidandogli i bambini. "Ovviamente. Io leggo qualsiasi cosa" – disse, costringendola a seguirlo.

Demelza si accodò a lui. "Ma... una fiaba... non è una lettura che potrebbe amare un poeta adulto".

"Sbagliate! Io amo ogni tipo di lettura e le fiabe per bambini sono affascinanti perché sono quelle che ci lasciano più insegnamenti su cui riflettere. Hanno tutte una morale da cui anche noi adulti possiamo imparare".

Demelza era scettica. "E Sveva-la zebra che morale avrebbe?".

Lui ci pensò su, mentre la conduceva in un piccolo caseggiato di legno nel bosco. "Sveva ama Nello l'asinello. Due esseri diversi che si innamorano e sanno stare insieme nonostante appartengano a due mondi opposti. Lo trovo un insegnamento eccezionale! Questo insegna, che l'amore non ha barriere e non conosce distinzioni. Quando arriva, lo si deve accogliere e basta. E viverlo... Quando si ama non esiste diversità, parla il cuore e se lo sai ascoltare, l'amore vince sempre. E' una favola affascinante" – concluse, guardandola intensamente.

Demelza fu costretta ad abbassare lo sguardo imbarazzata, rendendosi conto che il discorso non verteva solo su Sveva e Nello ma anche su cose più terrene e personali che forse aveva paura di ascoltare. "Dove stiamo andando?" - chiese, sviando il discorso.

"Le sorprese non sono finite".

La fece entrare in un capanno e un altro uomo li attendeva. Era un ambiente spoglio con un vecchio tavolo di legno al centro, qualche sedia e un piccolo giaciglio di paglia all'angolo.

L'uomo si avvicinò, li stava evidentemente aspettando. "Mia lady, benvenuta" – disse, inchinandosi.

Demelza guardò Hugh, accigliata. "Che significa?".

"Venite". Hugh le prese il polso e la condusse fino al pagliericcio davanti al quale Demelza rimase senza fiato. A pochi passi da lei, tranquillamente addormentato nel fieno, dormiva un piccolo tigrotto delle dimensioni di Garrick. Aveva un maestoso pelo giallo e nero, zampe grasse e imponenti di chi sarebbe diventato, crescendo, maestoso e fiero e un musino talmente dolce da sembrare uno dei pupazzetti di Clowance. "Hugh...".

L'uomo del capanno si avvicinò, prenendo in cucciolo e mettendoglielo in braccio. Era morbidissimo e caldo e sotto le mani con cui lo sorreggeva, poteva sentir battere forte il suo cuoricino.

"E' figlio di una tigre dello zoo di Londra e arriva dalle Indie. Ha pochi giorni di vita e la madre lo ha rifiutato. Hugh mi ha chiesto di poterlo avere per alcune ore e mi ha assicurato che voi ve ne sareste presa cura per il pomeriggio".

"Io?" - chiese Demelza, in panico. "Non so come si fa".

Hugh sorrise. "Ci daranno un biberon e del latte. Bisognerà sfamarlo come si fa coi bambini, tutto quì".

Demelza sorrise eccitata per l'emozione, le tremavano le gambe ed era felice ed euforica come se fosse essa stessa una bambina. Era commossa, contenta come vivesse un sogno... Il tigrotto, quell'esperienza unica, quella gentilezza, quelle attenzioni...

Era felice perché era come se in quel giorno fosse diventata la bambina che non aveva mai potuto essere da piccola e qualcuno era lì per starle accanto e vedere semplicemente un sorriso sul suo viso. Qualcuno al mondo stava facendo tutto questo per vederla contenta. E questo ai suoi occhi, a lei che non aveva mai avuto nulla, pareva straordinario. Baciò il piccolo tigrotto sulla testolina e il cucciolo aprì i suoi occhietti verdi, leccandola sulla guancia e lasciandosi coccolare. Era adorabile ed era incredibile pensare che di lì a pochi anni sarebbe diventato un animale feroce e maestoso... "Latte? Beh, so farlo, posso farlo. Mi occuperò io di lui oggi" – disse sicura, felice come i suoi figli che, in quel momento, giravano il parco in sella a Sveva-la zebra.

E quella sera, quando tornò a casa e si trovò da sola in camera sua, al buio, dopo aver messo a letto i bambini, si girò e rigirò sul materasso, come se fosse stata una ragazzina eccitata per il primo amore...

Pensò alla zebra, al tigrotto, al parco, alle chiacchiere dei bambini, ai loro sorrisi finalmente felici...

E poi pensò a Hugh e sentì lo stomaco contorcersi e il cuore batterle più forte. Che le stava succedendo? Perché improvvisamente non vedeva l'ora che arrivasse domani per rivederlo e per ricevere la sua poesia? Perché voleva sentire ancora e ancora il calore della sua mano stretta alla sua, pelle a pelle? E cos'era quella leggerezza del suo animo e del suo cuore che le faceva apparire il mondo finalmente bello e migliore di quanto non fosse mai stato prima?

Hugh diceva che lei era una fata ma quello magico era lui. LUI aveva fatto una magia, LUI aveva reso il pensiero di Ross e del male che le aveva fatto più piccolo, più opaco e lontano. Per la prima volta da quando era arrivata a Londra, Ross e la Cornovaglia non erano al primo posto dei suoi pensieri ed erano stati relegati in un angolo nascosto del suo cuore.

Voleva Hugh, voleva solo che arrivasse in fretta il giorno dopo per rivederlo e riassaporare quella leggerezza di vivere che non gli era mai appartenuta fino a quel momento.

Questo faceva paura ma allo stesso tempo la riempiva di una strana felicità che non riusciva ancora a spiegare!



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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


Il tempo, quando si è sereni e forse anche felici, pare scorrere più in fretta.

La primavera era volata e Demelza aveva imparato a guardare Londra con occhi diversi, grazie alla vicinanza e alla presenza di Hugh Armitage.

Lui era gentile, sempre attento e vicino, sempre pronto a farla sentire speciale. Avevano abbandonato il 'voi' nel mese di aprile per darsi del 'tu', avevano cavalcato come pazzi per le campagne di Londra nelle giornate di sole scoprendo l'amore comune per i cavalli, avevano assistito a rappresentazioni teatrali di tanto in tanto, quando Demelza si faceva convincere a lasciare i bambini alle cure di Prudie di sera, avevano cenato assieme a Dwight e Caroline proprio come una volta lei faceva con Ross e insieme, loro quattro, erano diventati un gruppo affiatato e amico.

Hugh non aveva mai smesso, ogni lunedì, di farle avere una nuova poesia. Ispirata a lei o ai bambini, era diventata una piacevole abitudine che la faceva star bene.

I bambini si erano affezionati a lui, soprattutto Jeremy che spesso chiedeva quando sarebbe arrivato a trovarli o quando avrebbero fatto l'ennesima gita insieme. Con Jeremy e Clowance, lui aveva organizzato pomeriggi nei vari parchi londinesi, li aveva portati in barca e a vedere uno spettacolo di marionette destinato ai più piccoli e spesso donava loro dei nuovi libri di fiabe che avevano acceso in suo figlio il desierio di imparare a leggere e scrivere. E Hugh, nonostante Jeremy non avesse ancora cinque anni, con pazienza aveva iniziato a insegnargli le lettere, come scrivere il suo nome e tante cose semplici che però stavano avvicinando suo figlio al mondo della lettura e dei libri.

Di Clowance, Hugh aveva capito la natura vezzosa e vanitosa. Le portava spesso nastrini o mollettine colorate per i capelli o piccoli oggetti per le sue bambole e lei appena lo vedeva, gli correva incontro contenta e lo abbracciava.

Dell'affetto dei suoi figli verso Hugh, non aveva ancora saputo farsi un'idea. Era bello che avessero qualcuno che si fosse affezionato a loro ed era terribile, quando li guardava insieme, ricordarsi ogni volta che quel qualcuno non era il loro padre, che quel qualcuno aveva fatto per loro molto più di quello che avrebbe mai fatto Ross...

E lei? Lei si sentiva strana, in balìa di mille sentimenti contrastanti che la confondevano ma che sapevano anche inebriarla. Non poteva mentire a se stessa, la compagnia di Hugh Armitage, le sue attenzioni, la sua dolcezza e i piccoli gesti gentili che compiva nei suoi confronti, erano qualcosa che la faceva stare bene e a cui non voleva rinunciare. Anche se a volte, quando era con lui e ricordava chi lei fosse e da dove venisse, si sentiva 'sporca', come se stesse tradendo qualcuno. Ma poi guardava la sua mano, notava la mancanza della fede nuziale e si rendeva conto che nella sua vita non c'era proprio nessuno da tradire. Quella tradita e abbandonata era stata lei ed ora era libera da vincoli e da qualsiasi sentimento di colpa verso chicchessia.

Hugh non le aveva mai chiesto nulla del suo passato e lei avrebbe voluto raccontarglielo un giorno ma temeva che, se avesse saputo che era una moglie ripudiata, anche lui sarebbe sparito inorridito e spaventato dalle ripercussioni che il loro rapporto avrebbe avuto sulla società. Si vergognava di se stessa e anche se Dwight le ripeteva che non doveva farlo e che non aveva nessuna colpa, quella sensazione di non essere pura come le altre donne non la abbandonava quasi mai.

Non voleva che Hugh sparisse, non voleva perché sapeva che pian piano lui era stato la medicina alle sue ferite e l'unico che le stesse mostrando che poteva ancora vivere.

Non sapeva cosa desiderasse da Hugh ma spesso, sempre più insistentemente, aveva desiderato un contatto più ravvicinato con lui. Questo le faceva paura, non poteva permettersi di provare un sentimento del genere verso un Boscawen, non avrebbe portato a nulla di buono per nessuno dei due. Lui sembrava adorarla, amava quando le diceva che era la sua fata e spesso aveva desiderato, con terrore, che le sfiorasse il viso e la baciasse, che la stringesse fra le braccia e la facesse sentire amata e protetta, ma Hugh fino a quel momento non aveva mai smesso i suoi panni da gentiluomo e principe azzurro da fiaba e probabilmente questa era la cosa più saggia da fare. Era un tipo poco mondano e molto romantico e sicuramente non stupido. Hugh forse desiderava le stesse cose ma saggiamente sapeva che non potevano spingersi oltre! Lui non avrebbe mai potuto abbassarsi a una come lei, una che avrebbe potuto rovinargli la vita con la sua sola vicinanza e lei... lei sapeva che il suo cuore non avrebbe mai potuto appartenere a nessun altro che non fosse Ross. Hugh lo aveva toccato, curato, coccolato e guarito da molte ferite ma quel cuore non sarebbe forse mai stato capace di darsi a qualcun altro totalmente. Desiderava amore, due braccia che la stringessero, ne aveva dannatamente bisogno ma non poteva... Non poteva, non con lui, non con la consapevolezza di non poter restituire totalmente quei sentimenti tanto belli di quel giovane gentile che era piombato nella sua vita come per magia, rendendola infinitamente più bella.

Non c'era futuro, non c'era nulla che potesse realizzarsi se non il vivere, giorno dopo giorno, quella loro bella e pulita amicizia che li spingeva a cercarsi sempre, a sorridersi, a prendersi per mano, a chiacchierare ore o a galoppare col viso accarezzato dal vento nei verdi prati e boschi che attorniavano Londra.

Nessuno aveva osato fare di più, spingersi oltre... Il desiderio era palpabile fra loro, se lo leggevano negli occhi quando si guardavano ma per mesi, fino all'estate, riuscirono a tenerlo a bada.

Ma poi venne il ballo d'estate di Lord Bennett. E tutto cambiò...

"Vieni con me".

Glielo aveva chiesto in un pomeriggio caldo di giugno, mentre si trovavano nel giardino degli Enys dopo il tè e i bambini giocavano con Prudie poco lontano, correndo fra gli alberi. Hugh l'aveva guardata implorante, con uno sguardo a cui difficilmente si poteva dire di no. Aveva fatto tanto per lei e per i suoi bambini, senza chiederle mai nulla in cambio, però accettare... "Hugh, non è posto per me".

"Nemmeno per me, Demelza! Odio queste cose e di solito ci vanno mio zio o mia madre. Ma sono entrambi fuori città, Lord Bennett è un intimo amico di famiglia e stavolta sono costretto ad andarci io a questo evento, mio malgrado a rappresentare i Boscawen. Vieni con me, ti prego. Non posso andarci da solo".

Aveva deglutito e volto lo sguardo altrove. Santo cielo, possibile che non capisse...? "Hugh, ho dei figli piccoli e il ballo è in un cottage fuori Londra. Dovrei star fuori tutta la notte e non posso...".

"Puoi affidare i bambini a Prudie, per una notte. Siamo già usciti alcune sere per il teatro, no?".

Sospirò. "Certo. Ma siamo tornati a casa per mezzanotte".

"Giuro che ti riporterò a casa prima che i bambini si sveglino, al mattino".

"Sicuramente conoscerai dame più meritevoli di me di accompagnarti...".

"No, non direi. Lo sto chiedendo a te perché ai miei occhi la dama più giusta sei tu. Chi è più meritevole di una fata?".

Arrossì, era dolce e la confondeva quando faceva così ma... Scosse la testa, si sentiva in trappola e di colpo la differenza sociale fra loro divenne reale e tangibile e non solo un pensiero astratto. "Hugh, Lord Bennett è molto nobile?".

"Sì, abbastanza nobile. Fa parte della Camera dei Lords".

Lei lo guardò storto. "Io che ci farei a un suo ballo? L'unica cosa che potrei fare è andare in cucina a pulire i piatti, cosa che mi farebbero fare se conoscessero le mie origini".

Hugh sorrise, le prese le mani e le baciò dolcemente. "Verresti come mia accompagnatrice e mia ospite. Nessuno oserebbe dirti alcunché, io glielo impedirei e inoltre sei e sarai fra le dame più belle del ballo. Al massimo qualche comare potrebbe essere invidiosa di te...".

"Non ho un vestito adatto!" - provò ad argomentare.

Lui rise. "Qual'è il tuo colore preferito?".

"Il verde, perché?".

Hugh le strizzò l'occhio, per poi chinarsi a baciarla sulla guancia. "Perché avrai un abito di quel colore, al ballo. Te lo farò recapitare al più presto".

Rimase stordita dalla piega che avevano preso le cose e dalla scossa che aveva attraversato il suo corpo quando le sue labbra avevano sfiorato la sua guancia. Santo cielo, in che guaio si stava cacciando? Era ormai evidente che non poteva dire di no. E forse nemmeno lo voleva, urlò una vocina della sua coscienza che cercò di ignorare, senza tuttavia riuscirci.


...


Il 15 luglio, data del ballo, arrivò in un attimo. Aveva aspettato quel giorno con un misto di paura ed emozione e quando Hugh le aveva fatto recapitare l'abito per quell'occasione, era rimasta a bocca aperta: non aveva mai visto nulla del genere, nulla di tanto elegante in vita sua. Nemmeno alle feste dove l'aveva portata Ross, nemmeno indosso ad Elizabeth nei suoi momenti migliori... Ma in fondo non doveva stupirsi, era ad un ballo di nobili di Londra che doveva andare, era nella capitale e come accompagnatrice di un Boscawen, doveva indossare qualcosa che fosse all'altezza...

Deglutì, tirando fuori l'abito ed osservandolo con mani tremanti mentre Clowance, incuriosita, le trotterellava intorno nella stanza seguita da Caroline.

Il vestito era di un tessuto verde smeraldo lucidissimo e liscio, senza fronzoli o pizzi e merletti, con una gonna che andava giù allargandosi attorno alle gambe. Il corpetto era aderente e sembrava cucito apposta per lei, era perfetto per le sue forme. Smanicato, con una scollatura sulla schiena, era stretto in vita da un nastro di un verde più scuro, decorato con cuciture dorate che si intrecciavano. E nella scatola, accanto all'abito, c'era un nastro d'oro per acconciarle i capelli e delle scarpe verdi dello stesso colore del vestito, col tacco, lucide e dalla forma elegante. "Giuda...".

Caroline rise. "Giuda un bel niente! Siediti su quella sedia, lascia che ti aiuti a cambiarti e ad acconciarti i capelli e vediamo di sbrigarci! O non sarai mai pronta, Hugh sarà quì fra un'ora".

"Vieni anche tu, con Dwight!" - la implorò.

Caroline sospirò. "Mia cara, verrei volentieri se non fosse che Dwight, proprio stasera, vuole portarmi con se a un convegno medico. Ti invidio, tu ti divertirai da morire e io invece morirò di noia! Il mondo è proprio ingiusto".

Demelza sorrise. Amava quando si lamentava così, mentendo anche a se stessa su quanto amasse fare le cose con Dwight, anche quelle che riteneva più noiose. "Su, aiutami. Prima mi preparo, prima vado e prima torno...".

"Chissà..." - rispose Caroline, maliziosamente. "Io vorrei invece che tu ritardassi e te la godessi...".

Demelza fece finta di non sentirla e si lasciò accomodare per la serata mentre Clowance, attentissima ad ogni preparativo, stava ferma e buona a guardarla mentre diventava una lady per una sera.

Un'ora dopo era pronta e quasi non riuscì a riconoscersi, guardandosi allo specchio. L'abito era così bello, così perfetto, senza sbavature e con quel color verde smeraldo che sembrava ravvivarle il colore dei capelli e degli occhi. Caroline le aveva prestato degli orecchini di diamanti e una collana d'oro e le aveva acconciato i capelli in uno chignon intrecciato col nastro dorato che era abbinato al vestito. "Sono davvero io?".

"Sei davvero tu..." - rispose l'amica. "E ora vai e divertiti, Prudie penserà ai bambini e io e Dwight... ai derelitti di questa città" – concluse, con una smorfia.

Rise, baciò i bambini e scese di sotto col cuore che le martellava nel petto. E Hugh quando la vide, elegantissimo davanti alla sua carrozza, rimase senza parole. Le prese la mano, la baciò e la mangiò con gli occhi. "Sei bellissima, piccola fata".

"Merito dell'abito".

Lui scosse la testa. "Merito di chi lo indossa".

Gli sorrise dolcemente e lasciò che la aiutasse a salire in carrozza. E poi si diressero verso la periferia di Londra mentre il sole pian piano tramontava sulla città.

La grande casa di campagna di lord Bennett era un'immensa costruzione che spiccava per eleganza nella campagna londinese, circondata da boschi e campi arati. Dopo aver oltrepassato il grande cancello che delimitava la proprietà, si percorreva un lungo viale costeggiato dai boschi privati della famiglia e poi da lì si accedeva ai maestosi giardini pieni di roseti, siepi e fontane zampillanti. Un lusso sfrenato, talmente opulento che Demelza tremò. "Mi sento a disagio".

Hugh sospirò. "Anche io... Odio queste cose".

"Ci sei nato, in mezzo a queste cose".

"E ho sempre cercato di sfuggirvi... Perché sono entrato nella marina e ho navigato tanto a lungo in acque nemiche, secondo te?".

Demelza ci pensò su. Era vero, Hugh le aveva raccontato della sua carriera nella marina ma ora non ne faceva più parte da un pò, anche se non gliene aveva mai spiegato il motivo. "Vuoi dire che ti sentirai a disagio quanto me?".

"Probabilmente sì...".

Rise, nonostante tutto. Non stava mentendo e non la stava prendendo in giro. Era sincero e smarrito quanto lei, si vedeva che non amava questo genere di cose e che quella sera era lì per una costrizione dettata dalla sua famiglia. "Hugh?".

"Sì?".

"Cerchiamo di fare bella figura, dai".

Lui rise. "Cercherò di immaginarmi altrove e nel mentre penserò alla prossima poesia per te".

La carrozza si fermò davanti all'entrata. Altre carrozze stavano arrivando e ripartendo e c'era un via vai di nobili elegantissimi e blasonatissimi, lady in pizzi e merletti e lord in panciotto e abito nero.

Dei maggiordomi la aiutarono a scendere e in un attimo si ritrovarono in un grandissimo salone dove un'orchestra suonava un valzer e alcune coppie già ballavano mentre altre si soffermavano davanti al ricco buffet e alcuni uomini chiacchieravano di politica.

Demelza guardò Hugh, tremando. "Non lasciami..." - gli sussurrò. Aveva paura a trovarsi lì e soprattutto la annientava l'ipotesi che lui potesse sparirsene chissà dove, come aveva fatto sempre Ross ogni volta che l'aveva portata a un ballo.

Alcune donne la guardarono di sbieco e Hugh ridacchiò. La prese per mano, la condusse nella sala da ballo e dopo averle stretto la vita, iniziarono a danzare. "Non ti lascio, sta tranquilla".

Demelza fissò di sbieco le donne che l'avevano guardata storto. "Quelle sanno che non dovrei essere quì".

Lui scosse la testa. "Quelle sono quattro befane vecchie, rugose e prossime alla tomba... Sono invidiose... Ma non oseranno dire nulla alla mia compagna, sono di rango inferiore alla mia famiglia e di certo, a meno che io non sia il primo a rivolgere loro la parola – cosa che non farò - non potranno avere a che fare con noi".

"Oh...". Questa era una delle regole dell'alta società che lei ancora non conosceva, evidentemente. "Le persone di rango inferiore non possono parlare con quelle di rango superiore?".

Hugh annuì. "In teoria è così. Anche se non ci ho mai fatto caso e non mi sono mai attenuto a questa regola".

Demelza tremò. In quella sala c'erano SOLO nobili e a quanto sembrava solo in pochi avevano un rango superiore a Hugh. Cosa ci faceva LEI, lì, con LUI? Lui che poteva avere le dame migliori di Londra ai suoi piedi?

Rimase silenziosa, pensierosa, stretta a lui mentre ballavano.

Le danze si fermarono solo all'ora di cena, per il discorso di Lord Bennett che diede a tutti il benvenuto, fece alcune battute sui sovrani e sulla politica, elogiò la grazia delle dame presenti e poi invitò tutti a sedersi alla lunga tavolata piena di ogni prelibatezza esistente in Inghilterra.

Demelza non mangiò quasi nulla, avrebbe voluto sparire. Hugh era perfetto, era accanto a lei e pareva smarrito al suo pari ma improvvisamente, lì in mezzo, si era spaventata per quel legame sempre più forte con quel giovane gentile che la adorava. Era vero, Hugh era un poeta, un ragazzo romantico e appassionato ma era... era tanto, troppo diverso da lei. Demelza Carne non poteva essere amica di un uomo così, un uomo tanto nobile e tanto vicino alla corona... Un uomo con cui neppure tanti nobili potevano avvicinare...

"Demelza, cosa c'è?".

Sussultò, si era accorto che qualcosa non andava in lei. "Niente..." - mugugnò.

Mangiucchiò un pò di faraona dorata col miele e delle patate al forno e assaggiò la torta di cioccolato e panna ma il suo stomaco era chiuso tanto che, quando tutti si alzarono dal tavolo per tornare alle danze, con una scusa si allontanò da Hugh uscendo nel giardino ormai deserto per prendere aria.

Voleva tornare a casa, dai suoi figli... Quello era il suo posto!

Percorse il vialetto sterrato osservando gli alberi e quei giardini curati. Un forte vento si era alzato, un vento tanto simile a quelli furiosi della Cornovaglia e allo stesso tempo diverso. Sentì nostaglia per la sua terra, per le corse nei prati, per la morbidezza della sabbia della spiaggia sotto i suoi piedi nudi e provò la folle voglia di tornarvi. Ma non poteva, non ora... Non più...

Si sedette su una panchina desiderosa di piangere, mentre il vento le scompigliava i capelli facendo scivolare giù dallo chignon fattole da Caroline, alcune ciocche.

"Demelza...".

Sussultò, voltandosi. Hugh era dietro di lei ed appariva preoccupato. "Scusa, mi girava un pò la testa la dentro. Volevo stare un pò fuori..." - si giustificò, mentendo.

Lui la scrutò in viso, pensieroso, poi le si sedette accanto. "Demelza, cosa c'è che non va?".

Si morse il labbro, decisa ad allontanarlo e allo stesso tempo devastata dall'idea di non averlo più nella sua vita. Era dolce, era l'unico capace di farla stare bene ma appartenevano a due mondi troppo diversi e lei... lei e la sua vita complicata avrebbero reso un'inferno anche la sua, di esistenza. "Voglio andare a casa... Dai miei bambini".

"Ora?".

"Ora...".

"Perché Demelza? Cosa c'è che non va? A parte la noia, intendo...".

Lei lo guardò in volto, in quegli occhi verdi dolci e trasparenti. "Hugh, che ci fai quì, con me? Tu, a cui quasi nessuno la dentro potrebbe rivolgere parola per diritto di rango?".

Lui parve stupito da quella domanda. "Demelza, sono quì con te perché volevo venire con te".

Scosse la testa, disperata. "Perché vuoi me? Vuoi davvero che ti dica chi sono? Vuoi davvero che ti dica i mille motivi per cui non dovresti frequentarmi e che di fatto dovresti già sapere e fingi di ignorare?".

Lui divenne serio, alzò la mano e le accarezzò la guancia. "Io non ignoro nulla, io so chi sei e so quel che vedo. E questo mi basta".

"Avevo un marito! Clowance e Jeremy avevano un padre". Lo disse di scatto, d'istinto, urlando al vento quel segreto che aveva celato nel cuore per tutti quei mesi e che ora voleva uscire allo scoperto.

Lui sussultò. "Cosa?".

"Mi ha lasciata" – sussurrò, fra i singhiozzi, crollando fra le sue braccia vinta dal dolore. "Ha annullato il matrimonio per sposare la donna che amava davvero... Ha tolto il suo cognome ai nostri bambini...". Scoppiò a piangere, si fuse col suo petto e singhiozzò a lungo, raccontandogli la sua storia, raccontandogli di Ross, di Elizabeth, del loro bambino e di come lui fosse sparito dalla sua vita e da quella dei suoi figli, abbandonandoli a se stessi. "Non puoi, uno perfetto come te non può voler stare con una donna imperfetta come me... Con una vita come la mia, con origini come le mie... Meriti di meglio, meriti di più. Non sono una fata, non sono niente del genere".

Hugh, per nulla turbato ma solo preoccupato dal vederla così, le accarezzò la guancia, i capelli, asciugò le sue lacrime con le dita della mano e poi la strinse a se. "Tu sei una fata, lo sei sempre stata ai miei occhi e niente cambierà per me. Sei speciale e mi dispiace, non sei tu e nemmeno io a stabilire chi merita chi. Siamo persone che si sono conosciute e che stanno bene insieme. Non c'entra il rango, non c'entrano le nostre origini. Solo noi c'entriamo, ora. Io non conosco tuo marito, non conosco nulla di lui. Ma conosco te e i tuoi meravigliosi bambini e per ME siete una ricchezza molto più preziosa del mio dannato titolo nobiliare e di quello che rappresenta. Tu pensi che io sia così perfetto? Cosa ne sai? Cosa sai davvero di me per pensarlo? E' il mio titolo nobiliare che parla per me? O sono io, come persona?".

Demelza scosse la testa. "Certo che è il cuore a rendere speciale una persona! A me del tuo titolo nobiliare non importa nulla. Ma...".

Lui la fermò. "Lo so che non ti importa, ti credo. Ma perché non vuoi credere a me se ti dico in egual misura che non mi importa del tuo passato e da dove provieni?".

"E' vero, hai ragione...". Demelza sorrise nonostante tutto, stupita e sorpresa da quelle parole piene di saggezza su cui non aveva mai davvero riflettuto. Era vero, a Hugh della differenza fra loro non era mai importato, lo aveva dimostrato coi fatti, ma sentirglielo dire... "E ora che sai del mio passato? Mi sarai amico per pietà?".

"Assolutamente no, non farei mai nulla di simile. Giudico un onore che tu mi abbia raccontato la tua storia e ora ti prego, lascia che ti racconti la mia".

"Certo".

Hugh sospirò. "Sai che ero in marina, vero?".

"Sì".

Lui la guardò, intensamente. "Non ci sono più dallo scorso anno, sono stato congedato. Ho dei problemi agli occhi, la mia vista sta calando vertiginosamente e forse te ne sarai accorta dalle mie poesie, dalla mia scrittura a volte tremolante".

Demelza fece mente locale e in effetti realizzò di essersi accorta che la scrittura di Hugh non era sempre uguale a se stessa. "E' grave?" - chiese, preoccupata.

Hugh sorrise con amarezza. "Diciamo che... I dottori che mia madre paga per dire ciò che lei vuol sentirsi dire, dicono di no. Che passerà... I medici seri, quelli che paga mio zio per una vera diagnosi, dicono che forse perderò completamente la vista. E che la malattia potrebbe essere altrove, più grave e nascosta e che la perdita della vista è solo un sintomo di qualcosa più grave che potrebbe anche uccidermi, che è solo questione di tempo. Una volta ero disperato, spaventato! Lo sono stato fino allo scorso Natale, quando sono venuto dagli Enys e ho conosciuto te e ora non mi importa più. Tu mi hai reso il più fortunato fra gli uomini. E ora lo chiedo a te, ora che lo sai sarai mia amica per pietà?".

Per un attimo, mentre lui parlava della sua malattia con la calma e la placidità di chi ha serenamente accettato il suo destino, aveva tremato. Ma poi il coraggio di Hugh, la sua franchezza, i ricordi del loro vissuto insieme sempre col sorriso sul viso, l'avevano resa più coraggiosa e le avevano ricordato chi lui fosse per lei. "Certo che no...". Non avrebbe mai avuto pena per lui, non era nella sua natura provare sentimenti simili, come non era nella natura di Hugh provarne nei suoi confronti. Non era stato il bisogno a farli incontrare, erano stati caso e destino e stranamente si erano sentiti vicini ed affini. Lui aveva ragione, non importava altro...

Hugh si alzò dalla panca, allontanandosi di alcuni passi. "Mi piaci, Demelza... Lo sai, vero?".

Abbassò lo sguardo. "Lo so...".

"E?".

Lei scosse la testa. "E sei meraviglioso e mi piaci anche tu. In pochi mesi per me sei diventato... indispensabile... Hai saputo toccare il mio cuore, curarlo dalle sue ferite e farmi sorridere di nuovo. Me e i miei bambini. Ma il mio cuore è comunque a pezzi e forse non saprà più battere come prima, amare come prima, essere di qualcun altro oltre a... Ross... Ancora adesso e forse per sempre, sarà di Ross".

Lui abbassò lo sguardo. "Demelza, se anche solo mi permetterai di accarezzarlo il tuo cuore, di averne un solo frammento... io allora mi riterrò l'uomo più felice e fortunato della terra".

Una lotta si agitò in lei, a quelle parole. "Hugh, non puoi, non con me..." - tentò di argomentare, in un ultimo tentativo di proteggerlo.

Lui divenne risoluto in viso. La guardò, guardò il viale deserto che portava all'uscita della tenuta e il vento attorno a loro si fece ancora più vorticoso. "Voglio andarmene anche io da quì, come te. Se vorrai venire con me, stasera e domani, dopodomani e il giorno dopo ancora, decidi adesso... E' te che voglio, con la tua storia e il tuo passato. E non perché la malattia mi preclude un matrimonio vantaggioso o una compagna blasonata ma perché TU sei entrata nel mio cuore... Decidi Demelza, ora... Accetterò ogni cosa". E così dicendo le volse le spalle, incamminandosi lentamente, da solo verso il cancello d'uscita.

Demelza fu percorsa da un brivido mentre lo guardava andar via. Pensò al suo matrimonio, a Ross, al dolore, a quel giorno orribile dell'annullamento del matrimonio quando lo aveva pregato di stringerla a se, di proteggerla e di stare insieme, nonostante tutto. Parole inascoltate, preghiere non percepite. Ross aveva stretto la sua mano, allora, solo un istante, illudendola. Ma non c'era nulla in Ross per lei e quella stretta era solo una spinta a firmare in fretta per correre dal suo amore, Elizabeth... Poi era sparito e di lei, in lui, ora non c'era più nemmeno il ricordo.

Hugh era un salto nel vuoto, una sfida, la prima scelta forse egoisticamente fatta solo per lei. Voleva amore, voleva essere amata, voleva la sua voce e le sue poesie. E poi le sue carezze, un abbraccio, sentirsi nuovamente donna e viva... Voleva quell'uomo che la adorava...

Voleva farlo, quel salto nel vuoto? Hugh aveva ragione, doveva scegliere ADESSO!

D'istinto si alzò dalla panca mentre il vento faceva volare via il nastro che teneva legato il suo chignon e i capelli, rossi e selvaggi, le ricaddero sulle spalle.

Corse, corse come una pazza dietro a Hugh, decidendo che non le importava nulla delle differenze fra loro, delle malelingue della gente, di tutto e tutti. Corse per lui e per la prima volta, solo per se stessa. Non sapeva cosa ne sarebbe uscito, non sapeva quanto lei meritasse l'amore di Hugh ma non poteva più farne a meno. "Hugh..." - urlò, a pochi metri da lui.

Il giovane si voltò, si fermò e rimase in attesa.

E lei a piccoli passi si avvicinò, gli sfiorò il petto e gli cinse il collo. E senza dire nulla appoggiò le labbra alle sue, in un lungo e appassionato bacio. Il vento accarezzava i loro corpi, la mano di Hugh i suoi capelli mossi e fra loro, i loro cuori che battevano all'impazzata.

Si baciarono a lungo, come se non avessero bisogno d'altro. "Portami via..." - disse lei, infine, contro le sue labbra. "Andiamo via da quì, in un posto solo nostro".

Lui annuì. La prese per mano, uscirono dal cancello e nel buio della notte si incamminarono nelle campagne londinesi, baciati dalla luce della luna e delle stelle. Arrivarono vicino a un piccolo torrente, lo percorsero in silenzio per diverse miglia e alla fine, in una piccola insenatura sabbiosa, si fermarono.

Non c'era nessuno, solo loro. Demelza prese le mani di Hugh, le avvicinò al nastro che teneva in vita e lo invitò a slegarglielo.

Si svestirono, si stesero sulla sabbia e sull'erba e si amarono per la prima volta, cullati dal rumore dell'acqua che scorreva nel ruscello.

Un nuovo uomo, nuovi baci, nuove mani che accarezzavano il suo corpo.

Hugh la fece sua, con passione e tenerezza, quella stessa tenerezza che usava nelle sue poesie.

Lasciò che la amasse, lasciò che quell'amore di cui lei aveva fortemente bisogno si impadronisse di lei.

E dopo tanto tempo, dopo una vita in cui si era sentita solo di Ross, le sembrò di tornare davvero a respirare e a vedere uno spiraglio di luce nell'incubo in cui era capitata.

Una dolce euforia, una medicina che era uno spartiacque fra il suo passato in Cornovaglia, da recidere, e un futuro nuovo tutto da scrivere.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


A volte faticava a credere di essere Demelza o meglio, faticava a capire chi lei fosse adesso. Arrivata a Londra due anni prima, aveva creduto che per tutta la vita sarebbe rimasta la moglie abbandonata di Ross Poldark, votata unicamente a vivere di ricordi e a crescere i suoi due bambini.

Ma da un anno non era più così, non dalla sera di Natale in cui la sua strada aveva incrociato quella di Hugh Armitage. Erano diventati amici, confidenti e lui una figura di riferimento oltre che per lei, anche per i suoi due bambini che lo cercavano sempre e che gli erano ogni giorno che passava più affezionati.

E poi? Poi lei lo aveva desiderato, in silenzio, a lungo, tenendo a freno una strana ed inaspettata attrazione che non riusciva né a capire né a gestire. E infine era arrivato luglio e un ballo nelle campagne londinesi... E l'amicizia era diventata altro, la passione era esplosa e da allora la Demelza-moglie abbandonata ed ex signora Poldark, era diventata la compagna di Hugh Armitage.

Non sapeva dire cosa fosse, non sapeva dare un nome al loro legame. Lui le diceva cose dolcissime e bellissime e la adorava e amava di un amore totale come quello delle fiabe che Demelza mai avrebbe pensato di poter vivere. Lui non aveva occhi che per lei, ogni suo gesto, ogni sua parola erano dettati unicamente dal desiderio di farla felice e faceva tutto in maniera talmente naturale e spontanea che, da solo, era stato in grado di abbattere le differenze sociali fra loro, cosa che Demelza aveva creduto impossibile fino a luglio. Le diceva che era la sua fata, la amava con passione e tenerezza e ogni momento libero lo passavano insieme lontano da tutto e tutti, avvolti in una strana nube magica che celava al mondo la loro figura di amanti clandestini.

Hugh le aveva fatto vedere un volto dell'amore che con Ross aveva conosciuto poco: le passeggiate fatte solo per il gusto di stare insieme, le serate a teatro, le gite domenicali coi bambini e i pranzi e le cene al ristorante, erano qualcosa a lei sconosciuto e che lui aveva reso parte del suo mondo. Era la lady di Hugh, la sua donna e quando erano insieme non doveva temere la concorrenza di niente e nessuno, non c'era niente, non c'era nessuna Elizabeth a distogliere da lei le sue attenzioni. Tenerezze come tenerle la mano o baci rubati quando meno se lo aspettava, avevano saputo scaldare il suo cuore e intenerire la sua mente ormai chiusa ai sentimenti ed ora viveva in una specie di strana euforia, come quella di quando si è ubriachi, che teneva lontani dolore e dispiacere.

Non sapeva bene cosa provasse per Hugh, non bene quanto lui fosse consapevole dei sentimenti che nutriva verso di lei. Lo adorava, aveva imparato a conoscere e apprezzare ogni lato del suo carattere e dei suoi gesti, ne era diventata amante adattandosi a un nuovo modo di fare l'amore che all'inizio l'aveva lasciata spersa e che ora era diventato una piacevole abitudine, ma Demelza sapeva che le mancava qualcosa e aveva paura di ammetterlo persino a se stessa.

Pensava ancora a Nampara e al suo amore perduto, nonostante tutto... Gli mancava il suono caldo della voce di Ross e il calore che emanava il suo corpo fuso con suo.

Ross era un fuoco, tenero ma incredibilmente passionale a letto, un uomo che con un solo sguardo sapeva farti bruciare ancor prima di averti toccata. Hugh era romantico, delicato. C'era una forte attrazione e passione fra loro ma mentre con Ross, quando facevano l'amore, il mondo smetteva di esistere, con Hugh non era così ed era il contorno, le frasi dolci e le poesie, a farla navigare in un mare di piacere, come se fossero quelle attenzioni ciò di cui aveva più bisogno, più ancora dell'amore fisico.

Era consapevole che Hugh non era ai suoi occhi come Ross, era consapevole che lo adorava ma che non avrebbe mai potuto possedere il suo cuore, però era anche altrettanto certa di desiderarlo vicino, di voler sentirlo in lei e con lei e che in quel momento della sua vita fosse una luce arrivata a rischiarare un mondo fatto di ombre.

Sapeva che non era amore, non quello con la A maiuscola. Era un sentimento simile, forte, ma non uguale... Non sarebbe mai stato uguale a ciò che aveva provato con Ross e Hugh lo sapeva, glielo aveva detto che dopo quanto successo non sarebbe più riuscita ad amare nessuno come aveva fatto in passato. Hugh lo aveva accettato, aveva accettato tutto di lei, il suo passato e il suo modo di vivere il presente, aveva accettato di poter accarezzare il suo cuore e di stringerne fra le mani un frammento e nulla più ed entrambi, consapevoli di quanto avessero bisogno l'uno dell'altra, avevano trovato nella loro storia una potente serenità e gioia di vivere.

Avevano la stessa età, amavano le stesse cose e sapevano essere complici e coesi quando scherzavano fra loro o coi bambini. La cosa più bella di Hugh, il suo regalo più grande, non erano le poesie che le scriveva sempre ma l'averle dato la possibilità di ridere di gusto e di vivere con spenzieratezza la sua giovane età. Non aveva mai avuto questo privilegio prima, non con suo padre e non con Ross dove c'erano sempre problemi e tensioni da affrontare. Con Hugh poteva essere la ragazzina che non era mai stata, pur non dimenticando il suo ruolo di madre.

I mesi erano passati in fretta, estate e autunno avevano ceduto il passo ai primi freddi e con essi, era arrivato l'inverno.

E l'attesa per il Natale...

Hugh aveva insistito tantissimo per organizzare una piccola festa fra loro nella sua dimora e Demelza ne era stata terrorizzata sulle prime. Andare a casa dei Boscawen come compagna di Hugh significava ufficializzare qualcosa che lei avrebbe voluto per sempre tenere celato al mondo e solo per loro due, conoscere la sua famiglia che di certo non approvava il loro legame ed entrare davvero nella sua vita, in quel genere di vita privilegiata che tanto la terrorizzava e che Ross, a suo tempo, aveva cercato di combattere.

Lui l'aveva tranquillizzata, aveva giurato che le cose con sua madre e suo zio erano a posto e che la festa sarebbe stata a misura di bambino e che Jeremy e Clowance si sarebbero divertiti tantissimo.

E alla fine, vinta anche dalle insistenze di Jeremy che aveva preso Hugh come modello di riferimento, aveva dovuto cedere. Sarebbero stati in pochi, solo Hugh, sua madre, suo zio, lei e i bambini, Caroline e Dwight e la piccola Margarita con cui ormai era diventata amica in quell'ultimo anno. Una cosa semplice, un Natale in famiglia quasi...

Lord Falmouth, zio di Hugh, avrebbe voluto una grande festa ma il giovane lo aveva convinto a fare solo quel piccolo party adducendo problemi di salute ed emicranie sempre più frequenti che sarebbero solo peggiorati in mezzo alla confusione.

Lord Falmouth aveva ceduto e da quello che aveva capito Demelza, pur non avendolo ancora incontrato, era un'abitudine e consuetudine, quella di accontentare ogni richiesa di Hugh. Quello zio cedeva sempre alle richieste del nipote e Hugh aveva raccontato a Demelza che Lord Falmouth, non avendo figli, aveva finito per considerarlo un figlio a tutti gli effetti. E che ora era in ansia ancor più di sua madre per le sue precarie condizioni di salute.

Hugh non era stato davvero bene in quei mesi, non era una scusa e spesso aveva dovuto passare giornate a letto a settembre e ottobre, cosa che aveva messo in ansia anche lei, oltre a Lord Falmouth. Ma ora sembrava più in forze e quei malesseri erano serviti dopo tutto a dare un Natale più tranquillo ad ognuno di loro, più autentico e più vero. Un Natale in famiglia...

Nel tardo pomeriggio della Vigilia lei, i bimbi, Caroline, Dwight e Margarita erano andati in carrozza nell'enorme dimora dei Boscawen.

Avvolta in una deliziosa mantella di pelliccia bianca, dono di Hugh, Demelza aveva varcato quei maestosi cancelli con un misto d'ansia e paura, stringendo a se i suoi due bambini che invece sembravano eccitatissimi per la serata che li attendeva.

Lei aveva guardato con terrore a quell'enorme ed elegante palazzo che si dipanava in tre vie, composto da un lungo corpo centrale e due ali laterali, circondato da un immenso parco privato pieno di maestose piante secolari, vialetti di sassolini bianchi, panche in legno e ferro battuto, che confinava direttamente coi giardini di Kensington a cui, come le aveva raccontato Hugh, c'era un accesso diretto dalla tenuta. "Giuda, mai vista una casa tanto maestosa".

Caroline sorrise, ammiccando e sollevando un sopracciglio. "C'è qualcuno nei paraggi che vorrebbe renderti la lady di questa casa TANTO MAESTOSA, temo".

Margarita rise, Dwight sospirò preparandosi psicologicamente all'ennesimo bagno di nobiltà e sfoggio di ricchezza a cui, come lei, non si era minimamente abituato e lei arrossì senza trovare la forza di ribattere.

Jeremy si affacciò alla carrozza, eccitato. "Bellissimo mamma! Devo scoprire dov'è la pianta dove faremo la casetta".

Demelza si accigliò. "Di che parli?".

Il piccolo, vestito con un abitino di lana verde che lo faceva sembrare un piccolo lord, saltellò sul sedile, dondolando le gambette. "Hugh mi ha detto che c'è un albero antichissimo e grandissimo dove ci si può costruire sopra una casetta per giocare e che se voglio, possiamo costruirla insieme se mi lasci venire di pomeriggio".

Demelza impallidì. "Una casetta sull'albero? Te la vuole costuire Hugh?".

"Sì, io e lui insieme".

Demelza sospirò. Idea grandiosa, ma fra le doti di Hugh non spiccava di certo la predisposizione per i lavori manuali. E poi... portare lì Jeremy di pomeriggio? Santo cielo, il loro rapporto stava diventando grande, importante e ormai ne facevano parte anche i suoi bambini ed era bello sì, ma questa idea riusciva ancora a terrorizzarla. Hugh adorava i due bimbi e soprattutto con Jeremy aveva stretto un legame speciale e forte, tanto che insieme sapevano divertirsi come se fossero coetanei. Suo figlio lo cercava sempre, chiedeva spesso di lui e questo la faceva felice ma al tempo stesso le stringeva il cuore pensare che Jeremy, in Hugh, cercasse una figura paterna ormai assente da due anni e mezzo. "Pensi che ne sarete capaci?" - chiese, scacciando quei pensieri foschi.

"Sì" – rispose il bimbo, con sicurezza.

Clowance tentò di attirare la sua attenzione. "Io?".

Demelza la prese in braccio, stringendola a se mentre la carrozza arrivava al grosso portone principale dove erano attesi da dei domestici in divisa. Baciò i suoi ricciolini biondi e osservò l'evidente bellezza di sua figlia, una autentica bambolina che tutti si fermavano ad ammirare, quando la portava a passeggio per Londra. Caroline, ma anche Hugh, dicevano che da grande avrebbe fatto girare la testa a molti uomini e che sarebbe diventata una delle donne più belle della capitale. E lei ci scherzava sopra ma dentro di se sapeva che Clowance, coi suoi boccoli biondi e gli occhi azzurri come il mare, coi suoi lineamenti delicati e fini e il portamento nobile, era destinata a brillare di lì a breve. Era decisa, capricciosa, testarda e allo stesso tempo elegante e raffinata, con le idee già chiare su come vestirsi ed agghindarsi per essere bella. Aveva solo due anni e si intendeva di moda più di lei. "Tu vuoi aiutare tuo fratello?".

"No! Vojo giocale".

Risero tutti. "Ha le idee chiare, far lavorare gli altri e pensare solo a divertirsi senza sporcarsi le mani" – esclamò Caroline, accarezzando la testolina della bimba. "Brava piccola lady, tu sì che sei saggia".

Margarita ridacchiò, guardando la piccola. "Mia madre direbbe che ha già capito meglio di me come gira il mondo. E la cosa bella è che avrebbe pure ragione".

La carrozza giunse davanti all'ingresso e si fermò e da dietro i camerieri apparve un elegantissimo Hugh per dar loro il benvenuto. Dwight aiutò Caroline e Margarita a scendere dalla carrozza e il poeta, dopo aver preso in braccio i bambini, fece altrettanto con Demelza. "Benarrivata" – sussurrò, baciandole la mano.

Lei gli sorrise ma poi si irrigidì quando si accorse che, dietro al giovane, erano comparsi un uomo e una donna sulla sessantina, suo zio e sua madre probabilmente.

Lord Falmouth salutò educatamente tutti loro e si inchinò da vero gentiluomo e lo stesso fece sua sorella, la madre di Hugh. "Benvenuti nella nostra casa, è un vero piacere avervi come ospiti questa sera, per la Vigilia" – disse la donna, in tono gentile e neutro.

Clowance la osservò. Era bellissima, elegante, coi capelli castani in cui si scorgeva qualche filo d'argento, raccolti in una crocca. Indossava un meraviglioso abito marrone e al collo aveva una collana di diamanti che risaltava i suoi occhi color ghiaccio. La bimba, attratta dall'eleganza, le andò vicino e si esibì in un perfetto inchino che lasciò la donna a bocca aperta. "Una vera piccola e perfetta lady" - esclamò. "Come ti chiami, bimba?".

"Clowance Carne" – rispose la bimba, orgogliosa.

La madre di Hugh le sorrise, ammirata. "Sei davvero una piccola signora". Poi sorrise a Demelza, in maniera forzata ma sincera. "Sono Alexandra Armitage, la madre di Hugh. Tutti però mi chiamano Alix, in famiglia. E' un piacere conoscervi, signora Carne, mio figlio ci ha parlato molto di voi e dei vostri figli ed ero davvero ansiosa di avervi quì. Spero passeremo una piacevole serata".

Lord Falmouth si intromise fra loro. "Sono Lord Philippe, duca di Falmouth e principale amministratore del casato dei Boscawen. Anche per me è un piacere avervi quì" – disse l'uomo a lei e a tutti loro.

Demelza deglutì, stringendo la mano di Hugh. Erano tutti gentili ma non poteva non chiedersi cosa pensassero di lei quelle persone tanto rispettabili e nobili. E soprattutto, non aveva idea di cosa avesse raccontato di lei, Hugh.

Entrarono in casa, un immenso e antico palazzo che, durante il medioevo, doveva essere stato un castello. L'ingresso, dal corpo centrale e di proprietà di Hugh, era un susseguirsi di elegantissimi saloni decorati con arazzi e mobili di pregio, tappeti soffici di fattura persiana, quadri e monili antichi in ogni angolo disponibile e tante librerie che adornavano ogni ambiente. E quì si vedeva indiscutibilmente l'impronta di Hugh e il suo amore per i libri.

Margarita e Caroline sembravano a loro agio, Dwight un pesce fuor d'acqua e i bimbi eccitati di trovarsi in un posto tanto bello.

"Sei pallida" – disse Hugh, mentre si recavano nel grande salone del ricevimento. "Rilassati, mia madre e mio zio mi adorano e adorano tutto ciò che io amo e con loro non ho fatto altro che elogiare le tue doti e la bellezza dei tuoi bambini".

Lei lo guardò storto. "Certo... Immagino la loro gioia nel sapere che il loro erede frequenta una ragazza madre sola, senza uno straccio di titolo e senza denaro..." - disse, sarcastica.

Lui sorrise, baciandola sulla guancia e facendola avvampare. "Andrà tutto bene, loro ti adoreranno e tu adorerai loro...".

Demelza, imbarazzatissima dal modo genuino in cui Hugh le manifestava il suo affetto davanti a tutti, non rispose e si tenne per se tutti i suoi più che legittimi dubbi.

La serata proseguì tranquillamente, fra un brindisi e l'altro, fra chiacchere davanti al camino, giochi con le carte e una prelibatissima cena.

La madre di Hugh aveva fatto preparare uno speciale menù per i due bambini, con pollo e patate al forno glassate al miele e budino di cioccolato come dolce mentre per gli adulti erano state servite una prelibata zuppa di pesce, arrosto di maiale ripieno di castagne e noci tritate, frittatine di verdure e del pudding al rum.

Demelza si trovò a suo agio dopo un pò, nonostante tutto. Alexandra Armitage dopo cena si era intrattenuta a far vedere a Clowance nastrini e gioielli e, accortasi che la bimba sapeva abbinare colori di stoffe e monili preziosi, si era appartata con lei a parlare di cose da... lady...

Dwight e Caroline si erano accomodati con lord Falmouth e Jeremy davanti al camino e l'anziano patriarca dei Boscawen aveva mostrato al bambino i segreti del gioco delle carte e degli scacchi, trovando nel piccolo un interlocutore attento.

Demelza, appoggiata alla parete con un bicchiere di porto in mano, alla fine si era rilassata come gli altri e aveva preso a chiacchierare con Hugh, mano nella mano senza vergogna o imbarazzo, e Margarita. "Però è un peccato non essere riusciti ad avere quì il ragazzo che ti piace" – disse, rivolta alla ragazzina. Lei e Hugh avevano cercato di combinare la cosa ed avere come ospite anche il giovane Edward Cavendish ma purtroppo la famiglia di duchi al quale il ragazzo apparteneva, non rientrava fra le amicizie dei Boscawen e quindi un invito sarebbe risultato strano ed inappropriato.

Margarita arrossì. "Oh, siete gentili ad averci pensato, ma ho un piano B".

"Quale?" - chiesero all'unisono Hugh e Demelza.

Margarita rise, con fare da furbetta. "Ho scoperto che frequenta il centro di tiro con l'arco, ci va tutti i mercoledì pomeriggio. Mi ci iscrivo, mia madre dice che il tiro con l'arco... beh..." - ci pensò su – "Beh in pratica rende elegante la figura di una donna e i suoi movimenti e quindi mi da il permesso. Le ho detto che ho scoperto che voglio fare attività fisisca e ci ha creduto... E quindi...".

"Quindi ti ci iscrivi?" - chiese Demelza, divertita.

"Sì! Venite con me?" - li implorò la ragazza.

Hugh si mise a ridere. "Ho problemi di vista Margarita, direi che il tiro con l'arco non fa per me. Potrei uccidere qualcuno, se prendessi male la mira... Potrebbe venire Demelza a farti compagnia, se le va".

Demelza ci pensò su. Onestamente non aveva mai praticato alcuno sport ma l'idea di far da Cupido a Margarita ed Edward la attirava e dopotutto era solo un pomeriggio a settimana. "Si potrebbe fare" – esclamò, dando il cinque alla sua amica.

Hugh rise. "Santo cielo, prevedo guai e ho davvero voglia di venire per vedervi all'opera con arco e frecce".

Margarita saltellò contenta fino al divanetto dove si trovavano gli altri e Jeremy e Clowance chiamarono Hugh per giocare con loro con delle costruzioni in legno regalate da Lord Falmouth e Lady Alexandra.

Demelza sorrise, appoggiandosi alla parete ad osservarli, stranamente serena. C'era aria di casa, lì... Stranamente si sentiva parte di una grande famiglia di amici e non fuori posto, cosa che temeva.

Guardò Hugh che sollevava Clowance facendola ridere e Jeremy che si aggrappava alla sua schiena per farsi portare in spalla.

D'un tratto lord Falmouth le si avvicinò, facendola sussultare. "Vi state trovando bene?" - le chiese, porgendole un bicchiere di porto.

Lei arrossì, abbassando il capo. "Sì signore".

Lord Falmouth osservò Hugh che giocava coi bambini e poi Alexandra. “Mia sorella ha un debole per vostra figlia. Per intrattenerla, le ha fatto vedere poco fa un cofanetto pieno di gioielli ed è impazzita quando la piccola ha saputo riconoscere le pietre più preziose”.

Demelza rise. “Clowance ama le cose che luccicano”.

L’uomo si accigliò e la scandagliò in viso, come a voler mettere a nudo la sua anima. “E voi? Anche voi amate le cose che luccicano?”.

Quella domanda e il significato non troppo velato a cui alludeva, la fecero irrigidire e ancora una volta si sentì fuori posto. “No, le vere cose che luccicano per me, le più preziose, sono la serenità di vivere e vedere i miei bambini contenti” – rispose, con sincerità.

Lord Falmouth sospirò. “Voi sapete chi siamo e quanto contiamo nella società nobiliare di Londra, vero Demelza?”.

Certo”.

Lui osservò Hugh. “Voi, in condizioni normali, non potreste essere qui. Niente di personale, ma obbiettivamente questo non è il posto per voi. Hugh mi ha raccontato cose bellissime sulla vostra persona e sui vostri bambini e non ho nulla da eccepire, ora che vi ho vista. Siete una brava donna, educata, che sa stare al proprio posto e avete due figli deliziosi. Ma noi siamo Boscawen e resta il fatto che voi siete una ragazza-madre sola, con un dubbio passato e senza il minimo lignaggio o dote”.

Demelza deglutì. Tutte quelle cose le sapeva benissimo ma faceva male sentirsele elencare, ogni volta. “State dicendo che non devo più vedere Hugh?” – chiese, immaginando già la risposta e dopo tutto, d’accordo con i suoi pensieri.

L’uomo scosse la testa. “Hugh mi ha parlato di voi. Non troppo, mi ha solo detto quanto per lui siate meravigliosa come una fata e quanto è felice di avervi conosciuta. Nient’altro e mi ha fatto promettere, a me e a sua madre, di non fare ricerche sul vostro passato e di lasciare che siate voi, come persona, a farvi conoscere e apprezzare. Io amo mio nipote e sono un uomo di parola e quindi non indagherò mai sulla vostra vita, su chi eravate, sul luogo da cui provenite e sull’identità dei vostri figli e saprò queste cose SOLO quando e SE vorrete dirmele voi. Ho chiesto unicamente a Hugh se nel vostro passato ci fosse qualcosa di cui vergognarsi e lui mi ha detto di no e io gli credo perché è un romantico, un sognatore ma non uno stupido o uno stolto e sa quanto sia importante il buon nome della nostra famiglia. E siete amica di Caroline Penvenen, cosa che garantisce per voi”.

Demelza prese un profondo respiro di sollievo, prese coraggio e alla fine decise di chiedere il significato di quella discussione. “Cosa volete da me allora, Lord Falmouth?”.

Conoscete i problemi di salute di mio nipote?”.

Sì”.

L’uomo abbassò il capo, vinto dall’emozione e per un attimo parve perdere la sua aria imperturbabile. “Hugh potrebbe non essere più qui il prossimo Natale. O quello dopo ancora, lo avete visto pure voi quanto è stato male lo scorso autunno… E’ questione di tempo e so che anche Dwight Enys lo ha visitato e non ha una diagnosi favorevole per i suoi disturbi”.

Demelza sussultò. Sapeva che Hugh aveva chiesto un parere medico a Dwight e sapeva anche che il suo amico era preoccupato per le condizioni di salute del giovane ma non aveva idea di quale fosse precisamente la diagnosi. Certo, era consapevole che le sue condizioni di salute erano serie e che forse presto anche quel giovane dolce e gentile sarebbe sparito per sempre dalla sua vita lasciandola sola come avevano già fatto altri, ma sentirselo ricordare così, con quella rassegnazione, la feriva e addolorava. “A volte i dottori sbagliano e lui è tanto giovane…” – sussurrò, ricordando la promessa che aveva fatto a Hugh di lasciar fuori la malattia dalla loro vita e dalla loro storia. Promessa a cui, giorno dopo giorno, avrebbe tenuto fede… MAI lo avrebbe trattato come un malato proprio come Hugh, MAI, le ricordava il suo triste passato.

Lord Falmouth scosse la testa. “A volte i dottori sbagliano ma spesso non lo fanno. Non quelli bravi, almeno… Hugh avrebbe potuto ambire a un matrimonio da favola con una principessa o simili… Se fosse sano, se avesse speranze di vita lunga e la certezza di poter generare un erede, io avrei interrotto con le cattive la relazione fra voi. Ma la sua malattia, la quasi certa incapacità di generare un figlio ed erede e la scarsa speranza di vita, lo rendono inadatto a qualsiasi matrimonio. E allora, sapete cosa penso, Demelza?”.

Cosa?”.

Che se devo scegliere fra il prestigio di famiglia e la felicità che può dare un amore vero in quel che resta della vita di mio nipote, io scelgo la seconda opzione. Voi lo rendete felice, immensamente. E questo mi basta per fidarmi e affidarlo al vostro amore. Hugh è sempre stato un sognatore, uno che viveva nel mondo dei sogni e che sfuggiva ai suoi doveri reali. La vita politica, la ambizioni e le mie alleanze commerciali non lo hanno mai interessato, ha preferito la carriera in marina per sfuggire alle sue responsabilità verso la famiglia. Ma voi e i vostri figli…” – alzò la mano ad indicare i bambini e Hugh – “voi lo avete fatto crescere e reso uomo. Ha preso un impegno nei vostri confronti e sa che deve portarlo avanti soprattutto per l’affetto che i bambini hanno nei suoi confronti, oltre che per amore vostro. Per la prima volta non sfugge alle responsabilità e di questo suo diventare uomo finalmente, devo ringraziare solo voi. Promettetemi una cosa, Demelza”.

Cosa?” – chiese lei, stupita da quelle parole che mai si sarebbe aspettata.

Stategli vicino. Senza secondi fini, senza pensare di ottenere qualcosa in cambio. Stategli vicino per il solo piacere di farlo e allora saremo amici, voi ed io. Non pensate di ottenere qualcosa da questa famiglia, benefici economici o altro tramite Hugh… Lui è e sarà l’ultimo erede dei Boscawen, purtroppo… Quando se ne sarà andato e anche io non ci sarò più, non so cosa ne sarà di questo mio antico casato ma finché sarò in vita non permetterò a nessuno di approfittarne”.

Il tono della voce di Lord Falmouth era gentile ma fermo. Stava chiedendo, comandando e mettendo in chiaro. Non era solo un consiglio, era mettere nero su bianco i rispettivi ruoli e confini oltre i quali non si poteva andare. Demelza annuì, capiva le sue preoccupazioni, le avrebbe avute chiunque nella medesima posizione. Ma si sentiva tranquilla da quel punto di vista, a lei del denaro e del prestigio dei Boscawen non importava nulla ed anzi, la nobiltà di quella famiglia le faceva solo paura. “Hugh è stato una benedizione per me e i miei figli. Ha ridato luce alla nostra vita ed è solo grazie a lui se riesco ancora a ridere e a sentir battere il mio cuore. Non mi importa altro se non rendere serena e felice la sua vita, come lui ha fatto con me. Il denaro per me non è mai stato importante, non ne ho mai avuto molto e di certo non ne avrò in futuro. Non chiedo niente, non voglio niente. Solo sapere Hugh felice con me come io lo sono con lui”.

Falmouth annuì, dandole una leggera stretta sul braccio. “E allora andremo d’accordo. Mai nessuno avrà da dire qualcosa sulla vostra ‘amicizia’ e io ho il potere di mettere a tacere ogni malalingua o pettegolezzo, cosa che farò se necessario, per proteggere mio nipote”. E detto questo, l’uomo tornò dagli altri invitati, spingendo amichevolmente Demelza a fare altrettanto.

Il resto della serata trascorse amichevolmente. Alcune domestiche di vecchia data dei Boscawen intonarono dei canti natalizi, ci furono giochi di società, un brindisi a mezzanotte e ai bambini fu dato l’onore, dopo lo scocco della campana, di mettere la statuina di Gesù Bambino nel presepe.

Quando tutto fu finito e la notte si fece fonda, Lord Falmouth e sua sorella mostrarono agli ospiti le loro stanze e ognuno di loro andò ad accomodarsi per la notte.

Hugh condusse Demelza ed i bambini nella sua grandissima camera. I bambini, durante alcuni fine settimana passati fuori Londra, avevano già visto la mamma e Hugh dormire insieme e quindi non se ne stupirono e la cosa non li turbò.

Si misero tutti e quattro nel letto e Hugh ne approfittò, in un momento in cui i bambini erano occupati a riporre i loro nuovi giochi, per baciarla sulle labbra e darle un rametto di vischio in mano. “Buon Natale, piccola fata… Sappi che c’è ancora qualcosa per te, stasera”.

Jeremy a quelle parole ridacchiò e Clowance saltò sulle ginocchia di Hugh. “Sopplesa mamma!”.

Demelza li guardò. Che diavolo stavano confabulando quei tre? Erano giorni che Hugh stava architettando qualcosa coi bambini e non era riuscita a carpire, nemmeno implorando, i loro segreti. “Cosa avete combinato?”.

Jeremy guardò Hugh il quale tirò fuori dalla tasca della sua giacca una busta colorata e piena di disegni dei bambini. La diede al piccolo e lui la consegnò a Demelza. “Per te mamma, l’abbiamo fatta io e Clowance e Hugh ci ha aiutati”.

Si sentì emozionata e quell’atmosfera famigliare, complice e gioiosa, gli fece dimenticare le tristi allusioni di Lord Falmouth di poco prima sulle condizioni di salute di Hugh. Avrebbe vissuto come Hugh voleva, attimo dopo attimo, senza pensare al domani e senza permettere a quella malattia di rovinare quello che di bello c’era fra loro. Il destino aveva permesso il loro incontro, l’incontro di due anime affini ed affamate d’amore che l’uno nell’altra avevano trovato il modo di tornare a vivere ed essere felici. No, non avrebbe sprecato quel dono che la vita, di solito avara di regali, le aveva fatto. Aprì la busta e si commosse. I suoi occhi divennero lucidi e d’istino strinse a se i suoi due bambini. “Amori miei, ma l’avete fatta voi?” – chiese, baciandoli.

Jeremy prese il foglietto su cui, con scrittura stentata, c’era scritto semplicemente: Buon Natale mamma, da Jeremy e Clowance. “Sì, l’ho scritta io. Mi ha insegnato Hugh a scriverlo. Clowance ha fatto l’impronta della mano, non sapeva tenere la penna in mano”.

Intenerendosi pensando a quanto ci avessero messo per farle quel dono, Demelza notò l’impronta della manina fatta col carboncino, a lato del foglio. Ecco cosa stavano confabulando da giorni! “Hugh, bambini, è un regalo bellissimo, il più bello che abbia mai ricevuto” – sussurrò, stringendoli a se.

Hugh accarezzò la testolina di Jeremy e i due si scambiarono un segno d’intesa. “Per ora stiamo lavorando su frasi semplici e parole brevi ma per il prossimo Natale ci organizzeremo con una poesia vera e propria. Vero?”.

Jeremy saltò sul letto. “Vero! Voglio imparare a leggere millemila libri e a scrivere bene”.

Demelza rise, contagiata dalla speranza nel futuro di Hugh e dall’entusiasmo di Jeremy che in lui aveva trovato una figura di riferimento e un affetto sincero. “Grazie…” – sussurrò al poeta, baciandolo sulle labbra. Si sentiva a casa, in famiglia e questo era il più bel regalo, assieme al biglietto dei bambini, che potesse ricevere. Amore, cura, affetto attenzioni… Per lei, che una famiglia non l’aveva mai avuta e di cui nessuno si era mai interessato, questo era il dono più prezioso e di valore che potesse esserci. Aveva accanto una persona che la adorava e due bambini finalmente sereni e felici che le volevano bene. Non poteva chiedere nulla di più e fra le loro braccia il dolore che aveva passato assumeva una sfumatura opaca e finalmente lontana. Stava tornando a vivere e forse a lasciarsi per sempre Ross dietro le spalle…

E quando i bimbi si furono addormentati, fra loro, diede un lungo e appassionato bacio a Hugh. “Sei speciale… Sei davvero un tesoro prezioso…”.

Lui rispose al bacio. “Se sono speciale, mi faresti una promessa?”.

Quale?”.

Che penserai a questa casa e a quanto sarebbe bello se vi trasferiste qui… Insieme, tutti e quattro”.

Si sentì mancare, tremò dall’emozione e anche se sapeva che non sarebbe stato il caso, anche in virtù di quanto giustamente dettole da Lord Falmouth, non se la sentì di dirgli di no. “Te lo prometto, ci penserò…” – sussurrò, prima di baciarlo di nuovo.



Ross aveva passato la sera della Vigilia di Natale a Trenwith. Il successo della Wheal Grace e la scoperta di nuovi giacimenti gli avevano permesso di ricomprarla saldando i debiti di Francis e così Agatha aveva potuto continuare a vivere nella sua vecchia casa senza che George potesse allungare su di lei i suoi tentacoli.

Era stato però, nonostante tutto, un Natale pesante. La decana dei Poldark aveva tenuto tutti sull'attenti e in allegria ma l’astio di Jeoffrey Charles verso di lui e Valentine aveva guastato l’atmosfera. Il ragazzino aveva deciso di rimanere a vivere a Trenwith con la zia e Ross aveva dovuto alla fine cedere a questo suo desiderio. Dopo quanto successo, la convivenza fra loro era impossibile.

Anche Verity e la sua famiglia erano venuti a Trenwith per le feste e Ross aveva potuto ritrovare nella cugina il vecchio e antico affetto e supporto che da sempre li univa. Lei era stata ferma a suo tempo a condannare le sue azioni ma MAI le aveva fatto mancare la sua vicinanza in quegli anni tanto difficili. Sapeva parlare al suo cuore ed era amorevole, sempre, col piccolo Valentine. Era la sua ricchezza Verity e vederla felice e finalmente realizzata lo faceva sentire orgoglioso di quanto Demelza, a suo insaputa, avesse fatto per lei.

Verity spesso gli diceva che doveva aver fiducia nel futuro e nel fatto che forse un giorno avrebbe riabbracciato i suoi cari e lui in quelle parole trovava una vana speranza in un domani migliore. Sapeva che era impossibile ma era bello crederci…

Dopo aver lasciato i parenti a Trenwith, passata la mezzanotte, aveva preferito tornare a casa a cavallo con Valentine.

Nel silenzio della brughiera sferzata dai venti freddi, osservò suo figlio avvolto in una coperta, intento a giocare fra le sue braccia con un orsetto che gli aveva regalato Verity. Valentine era un bambino non semplice, non lo era stato fin dalla sua nascita quasi due anni prima. Era stato difficile, dopo la morte di Elizabeth, sobbarcarsi interamente la responsabilità di quel bambino mai desiderato e si era affidato ai Gimlet per la sua gestione, nonché alla cure di una balia che lo allattasse.

Valentine piangeva spesso e nei primi mesi della sua vita nessuno riusciva a dormire a Nampara. Piangeva disperato, di dolore e a sei mesi il dottor Choake aveva sentenziato che il piccolo soffriva di una forma di rachitismo e che i pianti erano dovuti ai dolori alle gambe. Aveva prescritto soluzioni non certo agevoli per un bambino tanto piccolo e Ross ci si era attenuto solo per un pò ma poi aveva cambiato medico, constatato che non c'erano miglioramenti. Avrebbe voluto avere vicino Dwight, lui avrebbe saputo curarlo al meglio ma il suo amico se n'era andato ormai da anni e non aveva più notizie di lui.

Valentine aveva i suoi capelli neri e i suoi ricci, i suoi stessi occhi scuri ed era un bambino piuttosto chiuso e taciturno, timido e tendente al pianto.

Ross aveva tentato di fare del suo meglio ma si rendeva conto che, pur desiderando essere per lui un buon padre, continuava a fallire. Ogni volta che lo guardava ricordava quanto aveva perso a causa sua e anche se sapeva che non era colpa del bambino, il suo pensiero cadeva sempre irrazionalmente lì... E questo lo faceva scappare e lo spingeva ad intrattenere col bambino solo rapporti saltuari e superficiali. Non riusciva, non riusciva davvero ad amarlo come avrebbe meritato e si limitava a non fargli mancare nulla di materiale e ad affidarlo alle cure dei suoi due domestici a cui il bimbo sembrava affezionato più che a lui. Difficilmente si fermava a giocare con lui, difficilmente lo portava in giro per una passeggiata e mai lo aveva portato alla Wheal Grace. Si vergognava perché Valentine, davanti agli altri, rappresentava in maniera concreta ogni sua colpa e mancanza verso la famiglia che aveva perso.

Arrivati a casa, Nampara era avvolta nel buio. I Gimlet dormivano e quella sera avrebbe dovuto essere lui a mettere a letto il bimbo. "Sù, ora si dorme senza fare storie" – disse, prendendolo in braccio ed entrando in casa, dopo aver fatto sistemare il cavallo nella stalla.

"Noooo" – piagnucolò il bimbo.

Ross fece finta di non sentirlo ed entrò, provando un brivido di freddo. Nampara, quando tutti dormivano e le candele erano spente, era cupa e opprimente e del calore della casa e della famiglia che una volta aveva accolto, non c'era più nulla.

Salì sulle scale e Valentine pianse più forte, aggrappandosi al suo collo. Provò la voglia di svegliare Jane per affidarglielo, non amava prendersi cura di lui da solo e ancor meno quando era capriccioso. Ma alla fine dovette cedere e, cosa che succedeva raramente, lo portò in camera sua per evitare che strillasse ancora di più.

E finalmente il bimbo smise di piangere, appena capito che avrebbero dormito insieme. "Nanna io e te?".

Ross lo guardò storto, cedere ai suoi capricci non era un'opzione che amava. "Dovresti dormire da solo".

"No, io e tu".

Lo guardò e gli venne voglia di urlare che non era lui il bambino che voleva accanto a letto, che non era lui la sua vera famiglia, quella che voleva vicino la notte di Natale. Provò rabbia per se stesso e quell'assurda situazione, acuita ancor di più dall'ennesimo Natale senza Demelza e i bambini. Ma poi si costrinse a respirare, a calmarsi e a fare il padre. Valentine non c'entrava nulla...

Si avvicinò, lo aiutò a cambiarsi e poi gli accarezzò i capelli, mettendolo sotto le coperte. "Ora che sei quì, che ne dici di dormire e di fare il bravo?" - chiese, stendendosi accanto a lui.

Valentine annuì, si rannicchiò contro il suo petto e Ross rimase in silenzio a sentire il suo respiro diventare rilassato e profondo, immerso finalmente nel sonno.

E lì, col bimbo finalmente addormentato, trovò il coraggio di aprire il cassetto del comò per tirarne fuori il cavallino di legno che Jeremy aveva perso quasi due anni e mezzo prima e che conservava come fosse una reliquia. Lo baciò, cercando di immaginare come fosse cresciuto e quante cose sapesse ormai fare suo figlio. Ora era un bimbo grande, di cinque anni, e suo fratello o sorella ne aveva ormai due. Sentì una fitta al cuore e gli comparve davanti agli occhi l'immagine di Demelza, coi suoi meravigliosi capelli rossi, il suono dolce della sua voce che cantava e la luce che sembrava donare ad ogni cosa che incontrava il suo guardo. Aveva dato la luce anche a lui e alla sua vita buia e lui l'aveva tradita ed abbandonata, commettendo il più grande errore che un uomo potesse fare. E lei aveva pagato, lei e i bambini ancor più di lui, la sua stupidità.

Nonostante tutto aveva sperato che in quei due anni lei gli scrivesse, che tornasse, che si facesse viva in qualche modo ma non l'aveva fatto e dopo tutto non poteva aspettarsi nulla di diverso, quando se n'era andata era stata chiara sul fatto che quella era una scelta definitiva e senza ritorno.

Era sparita per sempre, lei e i loro due bambini come di fatto lui li aveva costretti a fare perché tornassero ad essere sereni. Osservò quel cavallino, simbolo di tante promesse mai mantenute e sentì gli occhi che pungevano. Si odiava, immensamente, quando pensava a Demelza. Odiava il marito che era stato, odiava se stesso e le scelte fatte, odiava quella notte dannata in cui aveva rovinato tutto e i mesi prima dove si era preso cura di tutta la Cornovaglia eccetto che di sua moglie e suo figlio. E non poteva non chiedersi come, pur amando tanto una persona, avesse finito col farle così male.

Voleva sapere dove viveva, come stava, cosa faceva... Sapeva che lei era forte ed era certo che se la stesse cavando meglio di lui ma quell'oblìo sulla loro sorte era terribile da sopportare, giorno dopo giorno. Sarebbe stata la sua condanna, non avrebbe mai saputo niente di lei ed avrebbe espiato i suoi errori con una vita fatta di nulla, accanto a un bambino mai desiderato e col terrore che un giorno magari avrebbe incontrato i suoi figli da qualche parte e non sarebbe stato capace di riconoscerli.

Baciò nuovamente il cavallino, dolcemente, desiderando abbracciare il suo piccolo Jeremy e fare con lui tutto quello che non era stato capace di fare quando lui era lì. "Perdonami Jeremy, perdonami... E tu Demelza, se puoi, se ci riesci, pensa ancora a me ogni tanto... Mi va bene tutto, anche l'odio... Tutto eccetto l'ndifferenza e sapere che non sono più nei tuoi pensieri".

Valentine si rigirò nel letto e lo riportò alla realtà. La sua realtà! Quella che lo avrebbe tormentato e accompagnato per il resto della sua vita passata a chiedersi se Demelza pensasse a lui come lui pensava sempre a lei...


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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


Con l'arrivo del nuovo anno, Demelza e Margarita avevano inziato a frequentare il circolo di tiro con l'arco dove si allenava Edward, il ragazzo che piaceva alla giovane.

Non ci era voluto molto tempo per capire però che nelle vene delle due non scorreva il sangue di Robin Hood e dopo poche settimane di corso Margarita aveva già sulla coscienza due piccioni e molti alberi del parco che ospitava il circolo portavano impietosamente il segno, sulla loro corteccia, dei tiri sbagliati da Demelza.

In tutto questo gli istruttori erano disperati, Hugh si divertiva come un matto e rideva come non mai quando assisteva alle loro lezioni ed Edward si vedeva raramente e quando accadeva e notava la presenza di Margarita, scappava dall'altra parte del parco per la timidezza e i due finivano col non rivolgersi mai la parola.

Fu un periodo, quello, che Demelza avrebbe sempre ricordato come il più sereno e spensierato della sua vita. Hugh stava bene e si divertivano insieme, tanto da farsi venire il singhiozzo dal ridere tutti e tre per la mancanza di talento e mira delle ragazze. Dopo la lezione, Margarita tornava a casa col suo cocchiere Demelza e Hugh rimanevano soli, prendendosi quella mezza giornata solo per loro. Passavano la serata in una deliziosa pensione del centro dove cenavano insieme e si amavano nelle piccole e graziose stanze la primo piano. Era la loro serata, quella, dove Demelza lasciava i bimbi alle cure di Prudie e si prendeva delle ore esclusivamente per se stessa.

Era una strana euforia, un vivere leggera che mai le era appartenuto e che la faceva star bene e non pensare ai suoi problemi. Hugh sembrava in forze, i bimbi lo adoravano e la sua vita a Londra stava acquisendo riti, abitudini e consuetudini che le facevano sentire un pò più sua quella città che all'inizio l'aveva terrorizzata tanto e che ora invece, pian piano, stava diventando la sua casa.

Jeremy e Hugh avevano inziato anche la costruzione della casetta sull'albero nel parco della reggia dei Boscawen. Non aveva idea di cosa stessero facendo, i due mantenevano il più assoluto riserbo sulla loro opera edile ma il fatto che Hugh avesse le mani sempre piene di graffi e garze e Jeremy tornasse a casa pieno di trucioli e polvere, le facevano ritenere che la cosa dovesse essere più impegnativa di quanto preventivato. Jeremy aveva cinque anni e mezzo, Hugh era un poeta che nulla sapeva del lavoro manuale e l'unica cosa che la tranquillizzava era che il giovane si stava facendo aiutare anche dal giardiniere-capo della sua magione.

Ad inizio marzo, il giorno in cui Margarita trafisse il suo terzo piccione, finalmente Demelza riuscì a centrare la parte esterna del bersaglio per la prima volta, con grande sollievo degli alberi del parco che ospitava il tiro con l'arco, e a metà mese Hugh le propose a sorpresa, coi bambini, un viaggio in Scozia. Durante i lavori per la casetta sull'albero, aveva raccontato al bimbo storie di cavalieri, castelli e draghi di quella terra lontana e piena di leggende e ora aveva desiderio di mostrargliela di persona e di fare tutti e quattro una vacanza insieme.

Spinta da Dwight e Caroline ma ancora un pò titubante, alla fine aveva ceduto a quella prima vacanza della sua vita ed erano partiti con una sontuosa carrozza.

Rimasero in Scozia per tutta la fine di marzo e l'intero mese di aprile e Hugh, che già era stato in quelle terre da bambino, aveva mostrato a Jeremy antichi castelli abbandonati, foreste rigogliose e piene – a suo dire – di spiriti magici, laghi plumbei e pieni di mistero e infiniti prati di un verde acceso. Il ragazzo aveva fatto confezionare, per i bimbi, abiti da piccoli cavalieri e principesse e i due fratellini avevano corso per i corridoi di antichi e gloriosi castelli dal passato leggendario vestiti come mini condottieri o donzelle cantate nelle ballate dei menestrelli secoli prima. Fu qualcosa di grandioso per Jeremy e Clowance, qualcosa che avrebbero ricordato sempre per il resto della loro vita.

Era stato un viaggio meraviglioso. I bimbi avevano vissuto una fiaba e un'esperienza emozionante, resa ancora più magica dai racconti di Hugh, e lei, che non aveva mai visto nulla del mondo, si era sentita principessa di una fiaba vera, amata dal suo principe azzurro e spinta verso nuove avventure senza paura dell'ignoto e dei pericoli.

Si erano amati con passione nelle varie locande in cui avevano soggiornato durante il loro cammino e Hugh era rifiorito e mai aveva accusato malesseri mentre erano in viaggio, eventualità che l'aveva molto preoccupata alla partenza.

Erano tornati a Londra a inizio maggio, uniti più che mai da quell'esperienza vissuta insieme e Hugh aveva organizzato una festa anticipata per il sesto compleanno per Jeremy nel parco del suo palazzo, invitando i bimbi degli amici di famiglia dei Boscawen. Demelza avrebbe preferito una festa in piccolo e amichetti non così altolocati per suo figlio ma Hugh aveva insistito, Jeremy pure e lei aveva ceduto per l'ennesima volta.

Con la scusa della festa di compleanno, fu inaugurata la casetta sull'albero di Jeremy, graziosa, tutta in legno, che poteva ospitare fino a sei bambini al suo interno e altrettanti sulla piccola terrazza che la circondava e che era costata graffi e tagli ai suoi due improvvisati costruttori che però alla fine avevano vinto la loro sfida.

I suoi figli e i bimbi che Hugh aveva invitato si divertirono come matti a salirci e quel giorno Jeremy fece amicizia con Gustav, un bimbetto biondo suo coetaneo, figlio di un duca che però aveva modi impacciati e dolci come Margarita e nulla aveva dell'altezzosità dei nobili. I bimbi decisero che sarebbero stati il migliore amico l'uno dell'altro e da quel giorno, ai giardini di Kensington che si trovavano dietro la casa dei Boscawen e che erano frequentati dai pargoli dell'alta società londinese, giocarono sempre insieme. Divennero inseparabili, dando vita a una amicizia che sarebbe durata negli anni e che a Demelza ricordava quella che aveva unito Dwight e Ross, un tempo.

Fu dopo la festa di compleanno che Demelza iniziò a stare poco bene. Continui giramenti di testa e nausea l'avevano costretta a letto alcuni giorni e Dwight, sulle prime, aveva dato la colpa a una intossicazione alimentare. Le aveva prescritto riposo ma Demelza non era persona da stare ferma e immobile a letto troppo a lungo e, anche per sopire le preoccupazioni di Hugh sulla sua salute, dopo cinque giorni di inattività aveva accettato di fare un giro con lui a una fiera vicino ad Hyde Park.

Non era un giorno particolarmente caldo, la notte aveva piovuto incessantemente e l'aria era talmente carica di umidità che la nausea le tornò quasi subito anche se non disse nulla, limitandosi a prendere a braccetto Hugh per non cadere a terra a causa dei capogiri.

Fecero una passeggiata per Hyde Park, molto più grande dei giardini di Kensington dove giocavano i suoi figli e frequentato da una varietà più eterogenea di persone e a un tratto la sua attenzione fu catturata da un prete attorniato da bambini poverissimi, scalzi e vestiti di stracci a cui l'uomo distribuiva del pane. Demelza osservò quei bambini tanto simili a lei da piccola e così pericolosamente vicini a ciò che avrebbero potuto essere i suoi figli se non fosse stato per Dwight e Caroline e a quei pensieri, la nausea si accentuò. Vedere bimbi denutriti che vivevano di nulla faceva sempre male e la riportava alla vita in Cornovaglia, ai minatori, alla Wheal Grace e alle lotte di Ross per migliorare la vita di quelle povere persone come stava facendo, a modo suo, anche quel prete di Hyde Park. "Hugh, la gente come tuo zio e tua madre, non fa nulla per aiutare i poveri di questa città?".

Lui ci pensò su. "Beh, in teoria le sedute in Parlamento dovrebbero servire proprio a questo, a rendere l'Inghilterra un posto migliore".

Demelza storse il naso, era evidente che Hugh non avesse ben chiara la situazione e che il suo disamore per istituzioni e politica lo portasse a non conoscere o a ignorare i giochi di potere dei più forti e la disperazione dei più deboli. "Certo, in teoria... Ma in pratica in Parlamento si fanno leggi per arricchire ancora di più chi è già ricco".

Hugh abbassò il capo. "E' uno dei motivi per cui ho sempre trovato odioso partecipare alla politica con mio zio e sono fuggito".

"Ma... Fuggire e fingere di non vedere da parte di chi ha potere per cambiare le cose, non è sbagliato?".

Lui le accarezzò i capelli, baciandola sulla fronte. "Sì, credo che lo sia ma io mi conosco e so che in quell'ambiente non combinerei nulla di buono".

Demelza abbassò il capo. "Vorrei poter aiutare, in qualche modo... Cosa potremmo fare noi, nel nostro piccolo? Vedi, io avrei potuto essere la madre di uno di quei bambini affamati, bisognosa di tutto... Vorrei poter dare una mano a chi non ha avuto la mia fortuna! C'è un centro per i poveri dove poter offrire un aiuto?".

Hugh divenne stranamente serio e il suo volto si indurì. "Esiste ma non è posto per te, è pericoloso e vorrei ci stessi lontana. Parlerò con mia madre, magari lei può aiutarti a fare qualcosa, se ti fa piacere".

"Tua madre?".

Lui le strizzò l'occhio. "Adora fare cose tipo aste di beneficenza e raccolte fondi. Magari potreste organizzare qualcosa insieme".

Lei sospirò, arresa al fatto che da sola non avrebbe potuto fare di più e quella suggerita da Hugh era forse la soluzione migliore e più fattibile. La nausea era ancora più forte e la fiera lontana e di colpo provò la voglia di sedersi. Era senza forze... "Hugh, ci fermiamo un pò?" – propose, indicando una panca in legno.

Lui la studiò in viso. "Sei pallida! Stai ancora male?".

Demelza fece per rispondere quando fu interrotta da un uomo che, con un sorriso smagliante, si avvicinò loro. Era alto, elegante, dal fisico asciutto e atletico, coi capelli castani leggermente mossi, il viso squadrato e due occhi color ghiaccio.

"Hugh Armitage, quanto tempo è che non ci vediamo?".

Hugh stranamente perse il sorriso e si irrigidì e, conoscendolo, da quella reazione Demelza si accorse che il nuovo arrivato non gli doveva piacere molto.

"Monk Adderley, non immaginavo di trovarvi ad Hyde Park! Di solito sono i giardini di Vauxall quelli che frequentate" – disse Hugh, in tono di voce cordiale ma nervoso.

L'uomo, che anche a Demelza dava una sensazione sgradevole, sorrise sornione. "Volevo vedere un pò di marmaglia" – disse, indicando il prete coi bambini – "Mi giudicano tutti farfallone e amante del piacere e quindi ho deciso che un'ora del mio tempo la posso passare fra il popolino per arricchire il mio spirito viziato e vizioso. In fondo i giardini di Vauxall diventano interessanti di sera, non a quest'ora del pomeriggio...". Poi osservò Demelza, esibendosi in un sorriso suadente a trentadue denti. "Mia lady, è un vero piacere fare la vostra conoscenza" – sussurrò, inchinandosi e baciandole la mano. "Si sussurrava in giro che questo straniero di Hugh Armitage, sempre in fuga dai doveri di famiglia, fosse accompagnato da una donna bellissima dai capelli rossi ma i racconti su di voi non vi rendono onore...".

Demelza arrossì ma non perché quel complimento le fece piacere. C'era qualcosa di subdolo e viscido in quel Monk Adderley e fra lui e la nausea, sentiva che presto sarebbe stata malissimo. "Grazie signore" – si costrinse a rispondere in tono forzatamente gentile, desiderosa che se ne andasse, smettendo di mangiarla con quegli occhi lussuriosi e sgradevoli.

Lui sorrise di nuovo, alzò il cilindro in segno di saluto a Hugh e poi se ne andò per la sua strada. "Spero di vedervi presto, madame..." - sussurrò ancora, leccandosi le labbra in un gesto che a Demelza fece aumentare la nausea.

"Odioso!" - sbottò Hugh, appena furono soli.

Demelza si accasciò sulla panca, esausta. "Chi è quell'uomo?".

Hugh si mise accanto a lei, cingendole le spalle col braccio e attirandola a se. "Uno dei motivi per cui odio il Parlamento! Si chiama Monk Adderley, è un nobile molto potente quì a Londra ed è un parlamentare anche se, di fatto, non presenzia quasi mai alle sedute di Westminster. E' pericoloso, uno da trattare con riguardo ma da tenere lontano, ama il gioco d'azzardo, ha un'infinità di amanti e adora i duelli. Si dice che abbia già molti uomini sulla coscienza. Mio zio lo detesta e mi ha detto di stare sempre attento quando lui è nei paraggi. Ma per fortuna frequentiamo posti diversi".

"Ohh...". Demelza si appoggiò allo schienale della panca, tenendosi lo stomaco. "Un personaggio pessimo...".

"Già".

Lei chiuse gli occhi, la nausea sempre più opprimente e le vertigini sempre più forti. Non ce la faceva più... "Sto male..." - riuscì solo a dire. Prima di cadere svenuta fra le braccia del poeta.


...


Quando riaprì gli occhi era nel suo letto e aveva accanto Dwight e Hugh, mortalmente preoccupati. Santo cielo, cos'era successo? Quanto era rimasta priva di sensi? Non era mai svenuta prima d'ora e si sentiva debole e senza forze, spaventata e indifesa...

"Piccola fata, bentornata fra noi..." - susurrò Hugh, baciandole la mano.

Dwight, silenzioso, le accarezzò i capelli sulla fronte. "Come va? Hugh ti ha portata quì svenuta e ci hai fatto spaventare. Per fortuna i bambini, con Caroline e Prudie, sono fuori e non ti hanno vista in questo stato ma... Santo cielo, eri bianca come un cadavere e Hugh pure, dallo spavento che si è preso! Non farlo mai più, non uscire di casa se non ti senti in forma".

Troppe parole, le scoppiava la testa e lo stomaco le si contorceva in corpo. "Dwight, cosa mi è successo?".

Hugh la baciò sulla nuca, aiutandola poi a sedersi e a poggiarsi contro il cuscino. "Sei stata davvero male ma Dwight ti ha visitata e ora ti farà stare meglio. Non è nulla di grave, ne sono sicuro".

Demelza osservò Dwight, mortalmente serio e pensieroso, e poi Hugh a cui il suo amico non doveva ancora aver detto niente dopo la visita. "Dwight, ho due figli, dimmi che non è niente di grave" – lo implorò.

Il medico consigliò a Hugh di mettersi seduto accanto a lei e appena il poeta ebbe ubbidito, sospirò. "La Scozia, nei mesi scorsi, deve aver rigenerato mente e cuore di entrambi. E quando il cuore e la mente stanno bene, sta bene anche il fisico che diventa più forte e acquisisce nuova energia. Soprattutto nelle persone dalla salute malferma..." - concluse, guardando Hugh.

Demelza si accigliò. Che diavolo stava farfugliando Dwight? E soprattutto, cosa c'entrava col suo malessere? "Che stai cercando di dirci?".

Il medico prese un profondo respiro, quasi fosse spaventato lui stesso da quella diagnosi. "Sei incinta, Demelza. Di quasi due mesi... Il bambino dovrebbe nascere i primi giorni del prossimo gennaio".

Quelle semplici parole ebbero l'effetto di una potente bomba su di lei. Incinta? LEI ERA INCINTA? Era impossibile, non poteva essere, NON VOLEVA!!! Giuda, Hugh era malato e non in grado di diventare padre e invece lei ERA INCINTA! Provò la voglia di urlare, di piangere, di scappare lontano e fuggire da tutto ma la nausea e la consapevolezza che nessuna fuga l'avrebbe salvata, la lasciarono piantonata nel letto. Mille pensieri incoerenti affollarono la sua mente in quel momento che, sperava, essere un incubo. Ma non lo era, i suoi malesseri erano troppo reali per essere un sogno... Aspettava un bambino... Da Hugh... Lei, con la sua vita disperata, il cuore ancora diviso fra la nuova vita a Londra e la Cornovaglia che nonostante tutto era cuore e casa, ancora, aspettava un bambino da Hugh... Da quel giovane dolce, che la adorava, che le voleva regalare il mondo e che forse non avrebbe mai corrisposto con lo stesso forte sentimento... Era incinta e non di Ross e santo cielo, anche se lui faceva parte del passato, aspettare un bimbo non suo la annientava e la faceva sentire spersa nel nulla. "Non può essere" – sussurrò, mentre le mani tremanti di Hugh stringevano le sue. "Hugh non può avere figli".

Dwight sospirò. "Non è esatto. Aveva scarsissime possibilità di essere padre ma evidentemente il momento giusto, l'atmosfera rilassata, un momento di estremo benessere di entrambi...".

Hugh deglutì. "Ne sei sicuro?".

Dwight annuì. "Sì. Non c'è ombra di dubbio".

E a quella sentenza a cui non c'era appello, Demelza sprofondò fra i cuscini con le mani premute sul viso. No, no, nooooooo! E ora? E in quel momento si accorse che quell'anno e mezzo spensierato in cui si era sentita protagonista di una favola, era finito. Era un ritorno brusco e traumatico alla vita vera, reale, alla vita dove non va sempre tutto come nelle favole e non esistono elfi e fate ma imprevisti e problemi che ti riportano alla vera essenza dell'esistenza dove spesso c'è poco spazio per il romanticismo.

Dwight le mise una coperta addosso. "Vi lascio soli, avrete molto di cui parlare. E non so se sia il caso ma... congratulazioni... Un figlio è sempre un miracolo, soprattutto in questo caso. E Demelza, qualsiasi paura tu abbia, ricorda che con Clowance hai vissuto di peggio".

E detto questo, alludendo alla terribile gravidanza vissuta con la piccola a causa di Ross, Dwight uscì dalla stanza. Era vero, Hugh non era Ross. Nel bene e nel male, non era Ross...

Hugh la abbracciò forte, rimasti soli. Tremava, forse per la paura, forse per l'emozione. "Piccola fata... E' un miracolo! E io sono il più felice degli uomini".

Quelle parole sicuramente sincere la intenerirono, così come la commosse il suo non saper vedere quale terremoto avrebbe causato quella situazione. "Hugh, è... è una cosa che non sarebbe dovuta succedere". C'era troppo in gioco, troppe implicazioni, due mondi che mai si sarebbero amalgamati, una famiglia d'origine che non l'avrebbe accolta con favore e poi Jeremy e Clowance, figli di un uomo che le aveva mostrato il lato più crudele del matrimonio e della maternità.

Hugh parve non volersi far scoraggiare. "Ma è successo e niente succede per caso. Il nostro bambino non è in arrivo per caso... Io, che non avevo speranze nel domani, avrò un figlio o una figlia! Grazie a te... Sei davvero una fata, visto?".

Fata un corno! "Hugh, non è un gioco questo! E nemmeno una fiaba...".

"Lo so, è un figlio, il nostro. E io sono ubriaco dalla gioia".

Demelza deglutì e poi le lacrime, incontrollabili, iniziarono a cadere. Si rannicchiò contro il suo petto, lui la strinse a se e, vedendola piangere, tremò come accorgendosi solo in quel momento dell'enormità di quello che stava succedendo loro. "Come puoi esserlo? Siamo felici insieme ma un figlio rende SERIA la nostra storia e apparteniamo a due mondi incompatibili. Come possiamo essere genitori? Una famiglia? Quando nemmeno ci sono riuscita in Cornovaglia, con Ross, da sposata?".

Lui le prese la mano, baciandola. "Ricordi che a Natale ti avevo detto di pensarci? Di valutare se venire a vivere con me? So che il tuo cuore è rimasto la, in Cornovaglia, so che non sono Ross ma so che ti amo e che desidero stare con te come lo siamo stati fin'ora. Averti vicina, viverti, amarti, è la più grossa gioia che mi sia mai capitata. Un figlio è un miracolo e il destino, tramite lui, ci sta urlando la via che dobbiamo seguire". La baciò dolcemente sulle labbra, un bacio lungo e appassionato. "Sposami piccola fata... E io sarò, per il tempo che ho da vivere, il tuo compagno, il tuo sostegno, il padre dei tuoi figli e la tua spalla. Questo bambino, Jeremy e Clowance avranno un cognome e una casata a cui appartenere e per me tutti loro saranno la mia famiglia. Con te... E quando me ne sarò andato, avrò chiuso gli occhi con la certezza che tutto sarà a posto per il vostro futuro. Questo è un inizio nuovo Demelza e troveremo una soluzione felice che ci farà star bene. Tutti quanti. Sposami e sarò, saremo una famiglia. Te lo prometto".

"Hugh...". Rimase senza fiato. Le aveva chiesto di sposarlo e sentendolo parlare, per un attimo le sembrò tutto facile e fattibile... Una proposta di matrimonio fatta in modo dolce, romantico, appassionato come lui era sempre stato... Era così diverso dal matrimonio con Ross, dalla sua reazione alle gravidanze, alla sua freddezza e lontananza... Eppure un filo invisibile e sottile ma forte e resistente come il granito la collegava ancora a lui e le rendeva impossibile donare totalmente cuore e vita a quel giovane che aveva davanti, a cui voleva un mondo di bene ma a cui sentiva di non appartenere del tutto. Si accasciò sul cuscino, prendendo un profondo respiro. Le scoppiava la testa... "E' troppo... Tutto in una sola giornata... Lasciami tempo...".

Hugh le accarezzò il ventre, piano. "Non negarmi mio figlio" – disse, con voce spezzata.

Gli sorrise, nonostante tutto non avrebbe mai fatto una cosa del genere. E vedere un uomo così desideroso di essere padre era commovente, dopo quanto aveva vissuto con le gravidanze di Jeremy e Clowance. "Non lo farei mai e so che lui o lei avrà un meraviglioso papà. Ho solo bisogno di stare un pò tranquilla a rimettere in ordine le idee. Una cosa così non me l'aspettavo, non sono preparata e rivoluzionerà tutta la mia vita, assieme a quella dei miei figli".

La baciò sulla fronte, scompigliandole i capelli. "Hai ragione, ho lasciato che la mia gioia parlasse per me, non dandoti tempo per riprenderti. Ti lascio riposare, allora. Dwight è quì e si prenderà cura di te e io ne approfitterò per andare a casa a comunicare la notizia a mio zio e mia madre. Un erede, non ci speravano nemmeno più... Scoppieranno dalla gioia".

Demelza, a quelle parole, lo guardò storto. "Ne dubito..." - disse, con sarcasmo, ancora una volta intenerita dalla sua ingenuità.

Hugh la baciò ancora, le chiese di riposarsi, diede un'altra carezza al suo ventre e poi, emozionato come un bambino, corse via. "Torno presto, prestissimo".

Demelza lo guardò andarsene, comprendendo la sua gioia e le sue emozioni. Per lui doveva essere qualcosa di grandioso quell'evento e non riusciva a scorgerne le problematiche e quanto un bimbo avrebbe influito sulla sua vita sicuramente agiata, piena di passioni ma assolutamente priva di responsabilità.

Era strano per lei che uno come Hugh riuscisse a essere felice di avere un figlio da una donna con un passato come il suo, con due figli piccoli e un legame nonostante tutto indissolubile col loro padre. Il suo innamoramento era sempre stato un mistero ai suoi occhi, anche perché da subito era stata chiarissima circa i suoi sentimenti e gli strascichi che Ross aveva lasciato sulla sua mente e il suo cuore. Eppure quel legame, ora, doveva essere reciso del tutto perché un bambino c'era e lei era sua madre e l'avrebbe amato e protetto come gli altri due. Si accarezzò il ventre, da stesa, notando già un leggero rigonfiamento. "Già la pancia al secondo mese di gravidanza? Santo cielo, ma quanto sei già grande, bimbetto scozzese? Non ce l'ho con te, dico davvero... Ma non me l'aspettavo, sei una sorpresa a cui mai avrei pensato e ho solo bisogno di tempo per abituarmi all'idea e capire cosa fare. Troveremo... troverò una soluzione, come sempre, sta tranquillo piccolo mio".

Si rannicchiò nel letto e pensò, cercando di calmare i nervi. I Boscawen come avrebbero reagito a questo piccolo, inaspettato erede? E lei, lei che ruolo avrebbe avuto? E Jeremy e Clowance? E Hugh e la loro storia, in virtù di quel terremoto che li aveva colpiti? E Ross, ormai perso nel passato ma che tormentava ancora i suoi pensieri nascosti, come avrebbe reagito, cosa avrebbe detto se avesse saputo una cosa del genere? Come l'avrebbe giudicata nel saperla sposata con un uomo appartenente a una casta che giudicava come il suo peggior nemico?

Pensò a quell'anno e mezzo di vita dolce e spensierata vissuta con Hugh, alla felicità dei suoi figli, al loro futuro e anche a quello di questo nuovo piccolino e capì che doveva agire con calma, mettere in chiaro un pò di cose, lasciar perdere poesie e fiabe e tornare coi piedi per terra per il bene dei suoi tre bambini.

E poi, spossata, prima di addormentarsi, pensò ai bellissimi paesaggi della Scozia, teatro di questa nuova vita... "Accidenti a te, terra scozzese che fai spuntare bambini dal nulla come funghi!" – mormorò, prima di addormentarsi.

Si risvegliò che era ormai quasi buio e probabilmente era già passata l'ora di cena, destata dal vociare dei suoi due figli che avevano fatto irruzione nella sua stanza. Fisicamente stava meglio ma per un attimo si sentì confusa al suo risveglio, come se fosse uscita da un incubo non reale. Però poi si guardò attorno, si accorse che era a letto da ore, che lo stomaco era ancora un pò sottosopra e lo sconforto l'assalì di nuovo. Era incinta, decisamente!

Jeremy e Clowance saltarono sul letto illuminato da una candela sul comodino che qualcuno doveva aver acceso mentre dormiva. "Mamma, mi ha detto Dwight che sei un pò ammalata" – disse il bimbo, guardandola con preoccupazione.

Guardò i suoi figli, il suo più grande tesoro, l'unico amore che MAI avrebbe messo in discussione, l'unica certezza della sua vita. "Sto meglio, non sono malata".

"Cos'hai?" - chiese Clowance, curiosa.

Sospirò, negare o procrastinare non sarebbe servito a niente considerando che il baby-scozzese sembrava impaziente di farsi vedere al mondo. "Diciamo che, fra sette mesi, a gennaio, avrete un fratellino o una sorellina".

Jeremy divenne rosso per la sorpresa e per l'emozione, Clowance si accigliò e per un attimo calò un pesante silenzio nella stanza. Che durò poco, per fortuna.

"MAMMA, C'HAI UN BAMBINO NELLA PANCIA?!" - urlò Jeremy, toccandole il ventre, ridendo.

E la sua risata finì per contagiare anche lei. "Sì, un minuscolo, piccolo principe. O una principessina...".

E a quella parola, Clowance divenne furiosa. Le prese il viso fra le manine, si fece seria e poi scosse la testa. "Io plincipettina!".

La baciò, si era momentaneamente dimenticata che Clowance si sentiva l'unica lady della casa e che una eventuale rivale l'avrebbe decisamente contrariata. "Ma certo amore, la grande principessa sarai sempre tu. Lei potrà solo imparare da te che sei già bravissima".

Clowance annuì, finalmente soddisfatta.

Osservò poi Jeremy che, silenzioso, si era fatto però pensieroso. "Il suo papà è Hugh?".

Deglutì, non sapendo bene come spiegare al suo bimbo i rapporti fra uomo e donna adulti. "Sì tesoro. Probabilmente ci sposeremo e tutti insieme, voi, lui e il nuovo bimbo, saremo una grande famiglia e andremo a vivere nella sua grande casa. Sei contento? Avrai tutti i giorni a disposizione la tua casetta sull'albero". Glielo chiese, glielo disse, doveva sapere cosa ne pensavano di quella eventualità che si faceva man mano sempre più certa... Era ovvio che per il bene del bambino avrebbe sposato Hugh, se Lord Falmouth non avesse fatto resistenze. Non era ciò che sentiva come il suo destino ma se aveva bisogno di qualcosa per recidere il filo che ancora la teneva legata a Ross, quel bambino era decisamente la spinta giusta. Hugh la adorava, si volevano bene, c'era passione fra loro, un figlio in arrivo e una vita che poteva essere rosea per tutti. Aveva sposato Ross per amore ed era andata male, avrebbe sposato Hugh perché la vita l'aveva instradata forzatamente su quella scelta suo malgrado, con mille dubbi e paure e forse sarebbe andata bene proprio grazie a tutte quelle incognite che nel suo cuore non sentiva con Ross. Quel sonno di poco prima aveva fatto luce sulle sue mille paure e sulle soluzioni e sposare Hugh era l'unica scelta per dare un padre, un cognome e una famiglia a suo figlio e anche agli altri due. Hugh avrebbe annullato il passato difficile che si portava dietro, dato un nuovo futuro ai suoi figli e soprattutto amore. Non importava il suo nome e nemmeno il suo denaro, Hugh poteva essere l'uomo più povero della terra ma desiderava dar loro una vera casa e una vera famiglia e per Demelza quello era ciò che più contava, soprattutto per i suoi bambini. Se il destino voleva questo dalla sua vita, non aveva motivo per opporsi. Specialmente ora, con un nuovo figlio in arrivo, giunto a sorpresa battendo un destino avverso e una malattia che forse li avrebbe prima o poi privati di Hugh. E questo doveva avere un perché!

"Mamma...?".

"Dimmi Jeremy...".

Il piccolo abbassò il capo. "Se sposi Hugh... allora vuol dire che papà non viene più da noi?".

Quella domanda ebbe l'effetto di un terremoto, di un violento schiaffo in pieno viso. Giuda, Jeremy allora ricordava ancora Ross? Ancora lo aspettava? Non ne parlava mai, lo aveva visto per l'ultima volta quasi tre anni prima e credeva lo avesse scordato e sostituito con Hugh ma invece... Tremò, era troppo pure quello, per quel giorno... "Jeremy, certo che non viene... Credevo che lo avessi ormai capito, dopo tutto questo tempo".

"Perché?".

Jeremy fece quella domanda con una serietà che poco aveva a che fare coi suoi cinque anni e mezzo di età. Chiuse gli occhi, tanti ricordi tristi presero il sopravvento e si sentì gli occhi pungere. E per un attimo il dolore e la rabbia presero il sopravvento, facendole dire cose che mai avrebbe dovuto pronunciare davanti ai suoi figli. "Perché non ci vuole. Non voleva me, non voleva voi. Voleva essere il marito di un'altra donna e il padre di altri bambini. Non lo devi aspettare e non devi ricordarlo. Lui ci ha già dimenticati e vive felice con la sua nuova famiglia, lontano...".

Disse quelle parole come in tranche e si rese conto del loro significato solo quando vide il viso sgomento di Jeremy, il suo dolore e lo smarrimento di Clowance che, anche se ancora molto piccola, sembrava aver compreso l'enormità di quella rivelazione. Si mise le mani nei capelli, che aveva fatto? CHE AVEVA FATTO? Tentò di recuperare, strinse a se Clowance baciandole i boccoli biondi e accarezzò il visino di Jeremy. "Tesoro, forse mi sono spiegata male... Volevo dire che lui ha seguito il suo cuore, il suo vero amore. Ed è una cosa bellissima lottare per chi amiamo veramente. Lo dovrai fare anche tu da grande, lottare per stare con chi ami. Tuo padre è un uomo generoso, che ha sempre lottato per chi amava, che si è spaccato la schiena per dare una mano ai poveri che lavorano in miniera, che...".

Jeremy alzò lo sguardo, serio, guardandola dritta negli occhi. "Vuol bene a tutti tranne a noi?".

Demelza deglutì e per una volta non seppe rispondere. Dire la verità era sempre un bene ma in quel caso lei aveva sbagliato a sfogarsi e ora doveva rispondere con una bugia per sistemare il disastro fatto e non gliene venivano in mente... E Hugh, il suo amore e la sua gioia per il bimbo in arrivo, in contrapposizione a quello che Ross aveva fatto alla sua famiglia divennero reali e lì, davanti ai suoi occhi ancora spaventati della scelta che presto avrebbe dovuto fare, le diedero le risposte che cercava per intraprendere la strada giusta per i suoi figli . "Jeremy, tu ti ricordi ancora di lui?".

"Non tanto, non la faccia... Solo una cosa che mi ha detto...".

"Cosa?".

Jeremy alzò le spalle. "Niente di importante, mamma".

Capì che non voleva parlare e che forse era meglio non insistere. C'era un'altra cosa che voleva sapere da lui, ora, importante quanto il discorso su Ross. "Saresti felice se mi sposassi con Hugh? Lui ti piace?".

Jeremy sorrise. "Sì".

"E a te, Clowance?" - chiese, alla bimba.

"Sì".

Li baciò sulla fronte, guardando la loro bellezza e ringraziando il cielo di averli avuti. Se Ross non era stato capace di amarli e godere della loro presenza, era un problema suo e lei non avrebbe mai più dovuto pensarci. Erano la sua ricchezza e a quel pensiero, unito a quello del nuovo bimbo in arrivo, si sentì immensamente grata verso la vita e un pò più positiva verso quella nuova ed inaspettata gravidanza.

"Mamma, posso chiederti una cosa?".

Credeva, con terrore, che Jeremy gli chiedesse altro di Ross ma il bimbo la stupì, cambiando di colpo argomento. "Certo".

"Voglio imparare ad andare a cavallo. Adesso!".

Si accigliò davanti a quella richiesta che non capiva, soprattutto in quel momento. Ma lo assecondò. "Ovviamente, amore mio! E' tanto che ti chiedo, con Dwight, se vuoi provare, ma mi hai sempre detto di voler aspettare".

Lui scosse la testa. "Adesso non voglio aspettare più. Gustav va a lezioni al maneggio vicino ad Hyde Park, posso andare con lui?".

"Sì. Lasciami sistemare un pò di cose relative al bambino e a Hugh e poi potrai andarci".

"Grazie mamma" – disse Jeremy, baciandola sulla fronte.

E dopo quelle parole, calò il silenzio nella stanza.

I bimbi si addormentarono con lei e quella notte li tenne con se, aveva bisogno di loro. Odiava essersi lasciata andare parlando a quel modo di Ross ma i suoi nervi tanto provati non erano riusciti a frenare la sua lingua. Clowance avrebbe dimenticato quel discorso nel giro di poco ma temeva che Jeremy prima o poi le avrebbe fatto ulteriori domande.

Ma si sbagliava perché da quel giorno, Jeremy non chiese mai più nulla di Ross e fu come se quella figura fosse evaporata completamente dalla sua mente.




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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


"Ebbene..." - disse Lord Falmouth, mostrandole il divano del suo lussuoso salotto dove voleva che si sedesse, accanto a Hugh.

"Ebbene..." - ripeté Demelza, spaventata da quello che ne sarebbe uscito in quella conversazione ma decisa a mettere ogni cosa in chiaro, prima di scegliere definitivamente di cambiare il suo destino e la sua vita.

Aveva passato dieci terribili giorni a letto, spossata dalla nausea e terribilmente stanca, senza forze, come se quel bambino che aspettava le risucchiasse ogni energia. Mai si era sentita tanto debole durante una gravidanza e quel suo stato fisico era di difficile gestione, assieme ai mille sentimenti contrastanti che si agitavano dentro di lei. Certo, rispetto a quando aspettava Clowance era coccolata ed amata, seguita nel migliore dei modi e con un futuro padre che era sempre accanto a lei in ogni momento quando questo era possibile, ma ancora non si sentiva serena ed era piena di incertezze per il futuro.

All'undicesimo giorno si era iniziata a sentire meglio e Hugh, dopo averle comunicato la gioia della sua famiglia alla notizia della gravidanza – gioia a cui lei credeva poco – le aveva detto che suo zio e sua madre avrebbero avuto piacere ad averla a pranzo per discutere il da farsi, coi bambini. E quella mattina era andato a prenderli in carrozza ed avevano pranzato tutti insieme dai Boscawen.

La tavola era piena di prelibatezze e i bimbi ne furono entusiasti, soprattutto quando fu servito uno speciale dolcetto di cioccolato e panna fatto preparare appositamente per la loro visita. Lei non mangiò quasi niente, il suo stomaco faceva davvero fatica a introdurre cibo, e si limitò a sbocconcellare della pastasfoglia ripiena di carne e del pane.

Mentre i bambini erano a tavola, Lord Falmouth li studiò attentamente e studiò lei con lunghi e sornioni sguardi. Demelza si sentì tutto il tempo sotto esame perché Lord Falmouth era bravissimo a dissimulare, parlando del più e del meno, quel suo silenzioso esame su di lei e sui suoi figli. Era difficile capire cosa pensasse, sembrava un uomo abituato a nascondere i suoi pensieri e i suoi piani, abilità appresa durante le trattative in Parlamento o quando concludeva affari probabilmente, e questo la metteva terribilmente in soggezione.

La madre di Hugh invece sembrava una persona dall'animo più semplice, portata gioiosamente a parlare di pettegolezzi e si notava una sorta di predilezione, in lei, per la piccola Clowance che aveva voluto seduta vicina a tavola, memore dell'interesse comune per il lusso che avevano scoperto condividere a Natale.

Dopo pranzo fu chiamata una domestica incaricata di portare i bambini in giardino a giocare e finalmente i quattro adulti rimasero soli, seduti su quei comodi divanetti davanti al fuoco, davanti a un tavolino con del tè caldo.

"Ho rassicurato Demelza sulla vostra gioia nel conoscere la notizia. Era preoccupata, molto, della vostra reazione" – disse Hugh, prendendole la mano.

Demelza deglutì, Lord Falmouth sospirò e Alexandra rimase in silenzio, aspettando che fosse il fratello a parlare.

"Demelza, la gravidanza come procede? Hugh dice che soffri di molti malesseri..." - chiese Falmouth, notando il suo scarso appetito a tavola.

"E' una gravidanza un pò pesante. Capita...".

Falmouth rimase in silenzio alcuni istanti, tamburellando le dita sulla gamba. "La Scozia ci ha fatto una bella sorpresa... Inaspettata e...".

"Sgradita?" - chiese Demelza, decisa a giocare a carte scoperte nonostante l'entusiasmo di Hugh. Alla gioia di Lord Falmouty non ci credeva!

Alexandra sussultò mentre Falmouth parve sorpreso dalla sua faccia tosta e dal coraggio nel porgere quella domanda. "Voi sapete che non siete la donna che io desidero accanto a mio nipote?".

"Sì".

Hugh fece per intervenire in difesa di Demelza ma uno sguardo di ghiaccio di Lord Falmouth lo bloccò al suo posto. "Fammi proseguire, nipote...".

Hugh annuì, impallidendo e stringendole la mano ancora più forte.

Lord Falmouth si schiarì la voce, pronto a fare il suo lungo discorso. "Siamo una famiglia nobile, antica e piena di prestigio e Hugh sarebbe stato destinato a un matrimonio da favola che avrebbe garantito una discendenza forte a questo casato. A causa della sua malattia, questo non potrà avvenire e tutti eravamo rassegnati all'ineluttabilità del destino. La vostra gravidanza, come mi hanno confermato più medici signora Carne, è un evento più unico che raro che non capiterà di nuovo, un regalo del fato e del destino a cui non voglio rinunciare perché non avrò altre possibilità per avere una discendenza. E questo cambia il mio modo di vedervi, cambia le priorità e cambia le mie aspettative sul futuro. Voi non siete la donna che io avrei scelto, vi ha scelto Hugh e io per la sua felicità e viste le sue condizioni, ho accettato che vi frequentaste con la convinzione che poi sareste tornata nel nulla da cui provenite. Ma ora no, ora voi diventate preziosa non tanto per Hugh e le sue velleità di padre, quanto per il casato. Ora voi siete e sarete il perno di questa famiglia, l'unico appiglio per un futuro ancora possibile. Aspettate un erede dei Boscawen, un piccolo lord o una piccola lady. Un bambino o una bambina destinati a diventare gente che conta, in Inghilterra, e questo vi rende preziosa ai nostri occhi. E' un miracolo questa gravidanza e come tale va trattato".

Demelza, durante questo discorso, trattenne il fiato. In realtà si aspettava di venir spedita a calci fuori casa visto l'affronto verso la famiglia ma Lord Falmouth la pensava diversamente, a quanto sembrava. Non si muoveva per affetto o per la gioia di un nipotino, era un uomo del fare, una persona pratica che perseguiva i suoi obbiettivi fra cui quello di garantire il futuro della famiglia e in quella logica si muoveva. E proprio per questo doveva mettere le cose in chiaro, prima di decidere una volta per tutte il futuro suo e dei suoi bambini. "Io non aspetto un piccolo lord o una piccola lady. Aspetto un figlio, un bambino... E un bambino non è un titolo nobiliare o una medaglia da esibire, un bambino è un bene molto più prezioso e come tale voglio che sia considerato".

"Che volete dire?" - chiese Alexandra, incuriosita.

Demelza deglutì e Hugh la guardò incantato. "Che un bambino non vuole essere un vessillo o un trofeo. Vuole una nonna che lo ami e un prozio che farà altrettanto per affetto e non solo per le ripercussioni che la sua nascita avrà sul futuro".

Falmouth assottigliò gli occhi. "Ovviamente sarà amatissimo. Questo mi pare fuori discussione e nemmeno trovo motivo per discuterne. Ma la domanda quì è un'altra, signora Carne... Avrete tutto ciò di cui avete bisogno e che mai avreste sognato di possedere, servi, assistenza, medici pronti ad aiutarvi in ogni difficoltà, denaro, abiti di lusso, prestigio, un titolo nobiliare che vi porrà sopra molta della nobiltà londinese e gioielli preziosi. E un nome di famiglia nobile di cui non godrete solo voi e il piccolo in arrivo ma anche i vostri primi due figli che non hanno né padre né cognome. Promisi a Hugh che MAI avrei indagato sul vostro passato e mai lo farò ma ora voi dovete fare ciò che è giusto e io in cambio farò ciò che è giusto per voi e i vostri primi due adorabili bambini. Siamo simili signora Carne, noi due. Siamo persone pratiche e voi sapete quanto me che un matrimonio è l'unica cosa assennata da fare. Non ve lo sto chiedendo, ve lo impongo, spingendovi a pensare a tutti i benefici che ne trarrete. Ricordate cosa vi dissi a Natale? Mai avreste fatto parte di questa famiglia ma il destino ha deciso altrimenti e ora voi siete il tramite al nuovo futuro di questa casata. Il matrimonio ovviamente, per ragioni di decenza e decoro, avverrà in forma privata nella cappella di famiglia nel parco di questa casa, con pochi ospiti. Si parlerà di voi e forse si tenterà di far scoppiare uno scandalo ma... i potenti che potrebbero far ciò hanno troppi interessi economici e favori da rendermi e staranno zitti. E le classi inferiori... Beh, a me di quel che dice la marmaglia per passare il tempo non interessa. Sparleranno e quando qualcos'altro attirerà la loro attenzione, si dimenticheranno di voi. Vi è tutto chiaro?".

Tremò, assieme a Hugh. A quanto sembrava Lord Falmouth aveva già deciso delle loro vite. Ma lei non era sua nipote come Hugh, non erano parenti, non gli doveva nulla e voleva mettere in chiaro alcune cose, prima di accettare. Perché per quanto ne dicesse Lord Falmouth, lei era una donna libera e nessuno avrebbe mai potuto gestire la sua vita. "Un attimo, non così in fretta" – disse, freddamente. Aveva vissuto un anno e mezzo in un sogno, era stata una principessa amata e coccolata da un uomo che la adorava ma ora sarebbe uscita fuori anche la Demelza forte, lottatrice, quella che combatte per ciò in cui crede e per i suoi figli.

"C'è qualcosa che non vi è chiaro, signora Carne?".

Hugh deglutì ma lei decise che non si sarebbe fatta intimorire. C'era in gioco il futuro dei suoi figli, il suo passato a cui si sentiva ancora legata e che avrebbe dovuto recidere mettendo in silenzio la sua coscienza, avrebbe dovuto dimenticare la se stessa che era stata per diventare una nuova persona in una nuova famiglia diversissima da quella in cui era cresciuta e in cui pensava di trascorrere la vita. Si stava davvero giocando tutto... "Forse c'è qualcosa che non è chiaro a voi, Lord Falmouth. Io non voglio bei vestiti, gioielli, prestigio o denaro. Non voglio niente di tutto questo, non ho mai giudicato importanti cose del genere. Aspetto un figlio da Hugh e mi state chiedendo di unire la mia vita per sempre non solo con lui ma con tutti voi, per il bene del bambino in arrivo. E io per questo bambino non cercato ma di certo già amato, farei di tutto. Ma ho altri due figli...".

Lord Falmouth la bloccò. "I vostri due figli ovviamente verranno quì con voi. Mi pare che questo sia un desiderio condiviso pienamente da Hugh e avranno la migliore cura ed istruzione che si possa trovare a Londra. Col matrimonio saranno adottabili da Hugh e ne trarranno ogni beneficio economico".

Scosse la testa, SEMPRE il denaro! Non poteva evitare di nominare qualcosa di cui non le importava affatto? "Lord Falmouth, non è questa la mia preoccupazione e non è questo di cui hanno bisogno i miei figli. Loro vengono prima di me in ogni mia decisione e li porterò quì e accetterò di sposare Hugh solo a una condizione: che li amiate, che mi assicuriate che saranno trattati come il piccolo in arrivo, che sarete per loro un prozio e una nonna, una famiglia unita come quella che né io né loro abbiamo mai avuto. Non chiedo denaro, non chiedo che vengano ricoperti di giocattoli, vorrei solo che vi possano conoscere come punti di riferimento e affetti sinceri, come qualcuno da cui prendere esempio e rifugiarsi nei momenti difficili. La cosa che vorrei di più non è il lusso, vorrei solo una famiglia che insieme, la sera, si sieda attorno a un tavolo a cenare in armonia, parlando, ridendo, raccontandosi la giornata trascorsa. Solo quello...".

Lady Alexandra applaudì, entusiasta. "Cenare insieme è un'ottima idea! Ognuno di noi cena da solo nella sua ala del palazzo ma ora che ci sono dei bambini e una famiglia in formazione, stare insieme la sera sarebbe bello... Approvo la vostra idea Demelza". Si alzò, andandole vicino e prendendole la mano. Era una sognatrice, una donna elegantissima che viveva in un mondo frivolo ma con un animo buono e felice di avere una nuova famiglia vicina, dopo aver pensato a lungo di essere in procinto di perdere l'ultimo pezzo di quella che aveva creato.

Hugh sorrise, entusiasta come la madre di quella proposta. Lord Falmouth si alzò dal divanetto, andando davanti a loro. "I vostri figli sono deliziosi e io non farò mancare loro l'affetto che meritano. Il bambino che aspettate sarà loro fratello e loro per lui saranno punti di riferimento importanti, quando sarà grande. Voglio che i bambini crescano insieme, in armonia. Il destino ha scelto questo per noi, una donna dal passato incerto con due figli, e noi faremo in modo che tutto funzioni al meglio. Ma...".

"Ma?" - chiesero Demelza e Hugh, all'unisono.

"Ma voi avrete comunque abiti e gioielli, Demelza. Non lo troverete così terribile da sopportare... E i bambini i migliori giochi e i migliori maestri a disposizione, su questo non transigo. Entrerete a far parte di una famiglia importante e farete vostri i nostri principi, le nostre idee e la nostra tradizione. Siete la madre dell'erede di questo casato, sarete una figura di riferimento e una donna che dovrà essere sempre impeccabile davanti agli altri. Dovrete ispirare ammirazione, timore e riverenza, in chi vi guarda. Guarderanno tutti i vostri figli e quando avranno finito con loro, guarderanno voi, non dimenticatelo mai... Demelza, sarete la Lady di questa casa, vi sto dando la massima fiducia come ve l'ha data mio nipote e spero che non mi deluderete". Poi si voltò verso Hugh. "La paternale non è finita, ce n'è anche per te. Ho sempre rispettato il tuo voler vivere ai margini della famiglia, lontano dalla politica e dagli affari. E ancor più ti ho assecondato in ogni cosa dopo che ti sei ammalato, compresa la relazione con la signora Carne che mai avrei approvato in condizioni normali. Ma ora sarai marito e padre e per quello che riuscirai a fare, pretendo che tu ti assuma le tue responsabilità. Avrai una famiglia a cui badare e alle tue poesie e ai tuoi libri penserai di sera, se ne avrai tempo. Di giorno, quando starai bene, verrai con me a Westminster o nel mio studio e apprenderai le basi per essere un uomo d'affari e un politico. Demelza imparerà ad essere una lady, tu diventerai uomo e insieme crescerete i bambini. Con giudizio!".

Hugh si oscurò ma annuì. Non amava la politica, stava andando contro al suo essere e forse iniziava a comprendere l'enormità di quella valanga che aveva investito le loro vite. Era felice del bambino ma ora si rendeva conto che c'erano infinite responsabilità da fronteggiare. Il tempo delle fiabe e delle fate era finito, almeno in parte. Ora doveva sognare un pò meno ed essere un pò più terreno, come stava del resto facendo Demelza.

A lei spiaceva, sapeva quanto tutto questo avrebbe rivoluzionato la vita di Hugh ma entrambi avevano dato vita a questo figlio ed entrambi dovevano scendere a patti coi loro ruoli. Hugh avrebbe iniziato a seguire la strada di famiglia e lei... lei avrebbe messo a tacere ogni dubbio, ogni battito di cuore rimasto in Cornovaglia e avrebbe dato davvero un taglio definitivo a quella sua vecchia vita. Demelza di Nampara, la moglie di Ross che cacciava conigli e lottava per la sopravvivenza della sua famiglia e per i minatori della Wheal Grace era finita, non esisteva più. E non esisteva più nemmeno Ross, lui aveva scelto tre anni prima chi voleva essere ed era andato avanti. Lei doveva fare altrettanto e quella scelta era la più giusta per lei e per i suoi bambini. Una vita serena, affetti costanti, un futuro già scritto e radioso per i suoi figli e soprattutto, un padre. Finalmente avrebbero avuto un padre! E davanti a questo la Demelza ancora ancorata a Nampara doveva sparire, per sempre... "Io e Hugh non vi deluderemo, Lord Falmouth".

"Sì zio, non ti deluderemo. Accanto a Demelza posso essere un uomo migliore e un buon padre" – aggiunse Hugh.

Ecco, a proposito di questo, c'era ancora un aspetto che voleva discutere. "Lord Falmouth, ovviamente voi sarete una guida per i bambini ma...".

"Ma?".

"Io e Hugh siamo i genitori e a noi spettano tutte le decisioni su di loro. Accetteremo consigli, aiuti e pareri ma non dimenticate mai che sono i nostri figli. E quando il bambino nascerà, voglio prendermene cura personalmente. Niente balia, niente nutrice, niente di niente. Ho sempre badato ai miei figli da sola e continuerò a farlo".

Falmouth annuì, ancora una volta impallidendo davanti a quella forte determinazione del resto tanto simile alla sua. In fondo non erano così diversi, quando perseguivano un obiettivo. "Va bene, voi siete la madre e voi saprete fare un ottimo lavoro assieme a Hugh. Fissiamo la data delle nozze?".

Demelza deglutì. Santo cielo, se glielo avessero raccontato due anni prima avrebbe riso di gusto... Eppure ora era lì, in quella grandissima ed elegante casa del centro di Londra, sarebbe stata una lady e la moglie di un uomo appartenente a una famiglia ricchissima e nobile, madre di suo figlio, ricca e importante. Non avrebbe mai sentito però tutto ciò davvero suo, lo sapeva ma doveva mettere a tacere la sua coscienza, nessuno poteva vivere una vita idilliaca e perfetta. Un angolo nascosto del suo cuore avrebbe sempre considerato sua Nampara, la spinetta, i campi, il rumore del mare e il passo del cavallo che portava a casa Ross ogni sera... Ma quel mondo era perso e ora basta, doveva guardare avanti. "Fissiamo le nozze, certo. Posso chiedervi ancora una piccola cosa?".

Alexandra annuì. "Tutto ciò che volete. Nulla vi sarà mai negato e siete assolutamente bravissima nelle trattative con mio fratello. Mai nessuno, prima di voi, aveva ricevuto in una sola volta tanti sì".

Demelza rise a quelle parole. La madre di Hugh le ricordava un pò Margarita, nella sua spontaneità ed ingenuità. E forte di quelle parole della sua futura suocera, si trovò a chiedere di nuovo qualcosa... Aveva perso tutto il suo passato ma c'era ancora qualcuno o qualcosa della Cornovaglia che aveva con se e che mai avrebbe voluto perdere. "Potrò portare quì il mio cane, Garrick? E Prudie, la mia domestica e quasi seconda madre, che mi è sempre stata vicina? Voglio che sia lei ad aiutarmi, col bambino".

Lord Falmouth annuì. "Ovviamente. Tutto quì? Non volete un cane di razza?".

"Tutto quì, non voglio nessun cane di razza, solo Garrick". Sarebbe stata dura lasciarlo a Dwight e Caroline. Separarsi dai suoi due amici e da quella casa che era stata il suo rifugio per due anni era difficile ma era anche giusto così. Era il momento che Dwight e Caroline vivessero il loro matrimonio da soli, senza disturbi, liberi nella loro casa finalmente vuota. Gli sarebbe stata grata per sempre per il loro aiuto e li avrebbe considerati suoi amici per l'eternità ma ora ognuno avrebbe avuto la sua casa, come era giusto che fosse.

Lord Falmouth le porse la mano e se la strinsero. Poi diede una leggera pacca amichevole sulla spalla di Hugh ed infine chiamò una cameriera che servisse loro del vino. "Bisogna brindare allora! Al matrimonio, alla nuova famiglia e all'arrivo del nostro piccolo erede. Un bambino concepito in Scozia, prova ulteriore della nostra superiorità in quella terra!".

Demelza e Hugh si guardarono negli occhi senza capire, Alexandra rise e la domestica se ne andò alzando gli occhi al cielo.

"Prego?" - chiese Demelza.

Lord Falmouth indicò il suo ventre, leggermente gonfio. "Siete partiti in quattro inglesi e siete tornati in cinque. In terre inospitali che abbiamo piegato con battaglie gloriose e rese nostre. Avete sconfitto il destino, ne siete usciti vincitori e in quella terra avete generato un nuovo inglese destinato a comandare la società che conta! Un nuovo schiaffo per quella terra selvaggia abitata da uomini in gonnella!".

Hugh ridacchiò, poi le sussurrò all'orecchio. "Mio zio riesce a mettere la politica in ogni discorso, devi farci l'abitudine".

Demelza sospirò. "D'accordo...". E in quel momento si chiese quanti bicchieri di porto avesse già bevuto di nascosto Lord Falmouth per apparire già tanto ubriaco. Ora che la tensione si era stemperata, era decisamente più ciarliero e simpatico rispetto a poco prima.

L'uomo proseguì, entusiasta. "Vi sposerete quanto prima. Alexandra, tu e Demelza penserete al vestito. Gonna larga, il bambino è una benedizione ma non è il caso di sbandierarlo ai quattro venti fino al matrimonio".

Demelza abbassò lo sguardo, sbuffando. Santo cielo, non era nemmeno al terzo mese e già si notava il pancino, sarebbe diventata una balena! "Sì, gonna larga direi...".

Lord Falmouth rise. "E' un bambino già desideroso di mostrarsi al mondo per il suo vigore! E' un piccolo gigante Golia, sano e forte, sembrerebbe... La tempra dei Boscawen si vede già!".

"Già" – borbottò Demelza, meno entusiasta di lui. "Spero che il suo vigore lo mostri dopo la nascita, visto che devo partorirlo io!".

Alexandra e Lord Falmouth rimasero stupiti da quell'esclamazione che a loro e alla loro educazione doveva apparire come estremamente impertinente ma non fecero commenti.

E in quel momento rientrarono con la domestica Jeremy e Clowance, rossi in viso per i giochi all'aperto e le corse.

Lord Falmouth li osservò, compiaciuto stavolta. "Vi piace giocare quì?".

"Sì, c'è pure la mia casa sull'albero" – rispose Jeremy.

Lord Falmouth sorrise, sornione. "Bene... Vi lascio con Hugh e vostra madre. Devono parlarvi". E così dicendo prese sua sorella Alexandra sotto braccio, salutando e scortandola fuori dalla stanza. "Noi andiamo a predisporre i preparativi, voi parlate coi bambini dei piani futuri".

Clowance saltò sul divano, sulle ginocchia di Demelza, Jeremy ridacchiò e si mise seduto accanto a Hugh. "Io lo so cosa dovete dirci?".

"Cosa?" - lo sfidò Demelza.

"Vi sposate!" - rispose il bimbo, sicuro. "Vi ho sentito i giorni scorsi, che parlavate... Anche se lo facevate piano...".

Demelza deglutì, pensando al loro discorso su Ross di alcune settimane prima e alla delusione che aveva vissuto Jeremy a causa del suo sfogo. Ma ora sembrava tornato sereno e vivace e pareva entusiasta di avere Hugh definitivamente nella sua vita. "Sei felice se mi sposo con Hugh?".

"Sì. Ma...".

"Ma cosa?".

Jeremy le accarezzò il pancino. "Il fratellino, quando nasce, chiamerà Hugh papà?".

Hugh annuì. "Certo".

E gli occhi di Jeremy divennero lucidi. "Anche io voglio chiamarlo così. Posso mamma?".

Demelza sbiancò, Hugh spalancò gli occhi e calò un silenzio pesante per un attimo, dopo quella domanda. Demelza guardò suo figlio, un bimbo che il suo vero padre non aveva né mai voluto né mai amato, di cui si era sempre disinteressato e che aveva abbandonato. Jeremy voleva un padre, ne aveva diritto, lo desiderava e lei chi era per negargli quella gioia? Era normale che chiedesse una cosa simile, adorava Hugh! Davvero, era ora di tagliare ogni ponte con Ross, era finita e non meritava più un briciolo dei loro ricordi e del loro futuro. Iniziava una vita nuova, per lei e per i suoi figli. E Hugh era l'unico padre che Jeremy avesse mai conosciuto, l'unico che lo avesse mai ascoltato, sorretto, fatto felice. L'unico che si fosse mai preoccupato per lui. Deglutì, era difficile, troppo, ma doveva essere fatto prima o poi. "Quando un bambino chiama un uomo 'papà', gli conferisce un grande onore. E io credo che nessuno meriti questo onore più di Hugh. Per me va bene, se anche Hugh è d'accordo".

Hugh divenne rosso dall'emozione, strinse a se il bambino e se lo mise sulle ginocchia. "Certo che va bene! E io sono l'uomo più felice del mondo! Sono padre, sarò marito".

Demelza gli prese le mani, intrecciandole con le sue. "E io moglie e madre, di nuovo... Sei sicuro di volerti prendere tutti noi e tutte queste responsabilità?".

Hugh si chinò su di lei, baciandola sulle labbra. "Sicuro, piccola fata. Anzi, da come hai tenuto testa a mio zio, ora mi sembri più una tigre come quella che hai tenuto in braccio lo scorso anno".

I bimbi e Demelza risero e lei pensò a quanto Hugh avesse fatto per loro e agli insegnamenti che avrebbe lasciato soprattutto a Jeremy su come un uomo dovesse comportarsi con le persone che ama. Questa sarebbe stata la vera ricchezza per i suoi figli, un esempio per essere un giorno brave persone.

Jeremy si rannicchiò fra le braccia di Hugh, chiudendo gli occhi e assaporando quella sensazione per lui tutta nuova. "E io sarò figlio di un papà".

Clowance picchiettò sulla guancia di Demelza. "Io?".

Lei rise. "Tu sarai una figlia. Vuoi?".

La piccola guardò Hugh, annuì come se quel discorso per lei fosse superfluo e ovvio e poi sospirò. "Sì. Hugh papà".

"Hugh papà..." - sussurrò Demelza. E da quel momento decise che il fantasma di Ross non avrebbe più dovuto essere presente nelle loro vite.

E che lei da quel giorno e per sempre sarebbe stata Lady Armitage.


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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


Faceva caldo, quel primo luglio. Lo avvertiva come soffocante, fastidioso e la nausea perenne non contribuiva certo a migliorare le cose. A causa di essa avevano dovuto posticipare il matrimonio due volte ma ora Lord Falmouth picchiava i piedi e oggettivamente la data in cui sarebbe stata di nuovo in forma era molto incerta. E così si era decisa, nonostante mille paure e mille tentennamenti, a decidere per il primo giorno del settimo mese dell'anno, per dire sì.

Nell'ultima settimana si era trasferita coi bambini nel grandissimo palazzo dei Boscawen, nell'ala riservata alla sua futura suocera, in una grandissima stanza provvisoria riservata a lei e ai bambini a cui Hugh, secondo tradizione, non poteva accedere. Questo la faceva sorridere, era incinta ed era palese che lei e il suo futuro sposo avessero già vissuto anche l'amore fisico, ma Lord Falmouth era stato irremovibile, aveva preteso il rispetto della tradizione – anche se era davvero solo una formalità e lo sapeva anche lui – e lei su questo aveva dovuto cedere.

Lasciare la casa di Caroline e Dwight era stato difficile, per due anni e mezzo vi si era rifugiata e si era sentita in una famiglia, ma si rendeva conto che era giusto così. Loro dovevano formare la propria famiglia e lei la sua.

Si accarezzò il ventre, già piuttosto evidente sotto il bellissimo abito bianco che Lady Alexandra aveva fatto confezionare per lei. Aveva un corpetto tempestato di gemme e una gonna piena di velluti e tulle che scendeva larga, cercando di nascondere al senso del pudore quella gravidanza giunta prima del fatidico sì.

Nonostante la nausea non la abbandonasse praticamente mai, togliendole la voglia di mangiare, il bambino sembrava prosperare. Era solo al terzo mese di gravidanza e la pancia si vedeva già, non era mai successo. Lord Falmouth chiamava il bambino 'piccolo gigante Golia', lo diceva pieno di orgoglio. E Demelza inziava a pensare che avesse ragione. Sarebbe diventata più grassa di una balena, ora del parto...

La domestica incaricata di prepararla alla cerimonia le sistemò i capelli, pettinandoli delicatamente. "Signora, come li desiderate? Sciolti o raccolti?".

Sospirò, guardandosi allo specchio. Era bellissima, elegante, raffinata... E stentava a riconoscersi, era davvero lei che, di lì a poche ore, sarebbe stata la moglie di uno dei rampolli della Londra più aristocratica? Pensò al matrimonio con Ross, finito tragicamente, al suo abbigliamento semplice di quel giorno, ai capelli ribelli ornati da fiorellini di campagna, al suo stupore di trovarsi nella Chiesetta di Sawle e alla sua gioia nel guardarlo e sapere di essere in procinto di diventare la moglie di un uomo che per lei era tutto... Strinse i pugni a quel ricordo. "Li raccolga, per favore". No, niente doveva essere uguale a quel giorno in Cornovaglia, niente...

"Uno chignon le andrebbe bene?".

"Va benissimo, fate voi...".

Chiuse gli occhi, lasciò che la donna la acconciasse e poi, quando ebbe finito, si alzò e si guardò allo specchio. Era... sembrava... una delle principesse delle fiabe che leggeva a Clowance. Eppure, nonostante stesse per sposare un uomo che la adorava, che le avrebbe dato tutto, che l'avrebbe trattata davvero come una regina e che avrebbe fatto da padre ai suoi bambini, era triste. E sapeva che era l'ultimo giorno in cui avrebbe potuto permettersi il lusso di esserlo. Stava per lasciare per sempre la sua vecchia vita, la vecchia Demelza che era stata e che credeva di essere per sempre per reinventarsi, per diventare un'altra, per abbracciare una vita che sempre aveva visto vivere dagli altri, guardandoli dal basso in alto. Ora altri avrebbero guardato lei in quel modo e faceva paura...

"Siete bellissima" – esclamò la cameriera.

"Grazie". Le sorrise, dandole una leggera carezza sul braccio. "Potrei rimanere da sola due minuti, ora?".

La ragazza sorrise. "Certo. Ma non fate aspettare oltre il vostro sposo, non vede l'ora di avervi in moglie".

Annuì, abbassando il capo. E quando fu sola, si appoggiò al tavolino della toeletta, prendendo fiato. Era spersa, spaesata, spaventata. Sapeva che era dove doveva essere e che non c'erano altre strade percorribili per lei, ma era difficile lo stesso. Sentiva un dolore sordo in fondo al cuore che le chiudeva lo stomaco, era consapevole della sua causa ma non poteva fare nulla per curarlo. Hugh la adorava, voleva davvero una famiglia con lei e lei gli voleva bene. Hugh era la sua luce, la ragione dei suoi sorrisi e della serenità ritrovata, ne era attratta, stavano bene insieme e si divertivano ma... bastava questo a far funzionare un matrimonio? Aveva paura di essere andata troppo oltre, di aver intrapreso una strada che poi non sarebbe stata capace di sopportare, di non essere adatta a quel mondo e a quel giovane. Hugh le aveva dato tutto, ma lei? Lei, col suo cuore spezzato e forse per sempre imprigionato altrove, lei che aveva un passato difficile alle spalle e due figli senza padre, lei che mai sarebbe stata capace di sussurrargli, con cuore pienamente sincero, che lo amava. Perché l'affetto profondo che lei provava per Hugh era vero e tangibile ma l'amore era altro... Non che non lo provasse, ma era un amore diverso, più votato alla tenerezza e alla dolcezza, un amore per ciò che lui rappresentava ma che ancora non aveva abbracciato pienamente ciò che lui era. Stava per sposare un uomo buono ma diverso da lei, per visione della vita e aspirazioni, per carattere e vigore. Ross era stato il suo compagno di vita e di lotte e avevano combattuto insieme per e con passione. Con lui era un matrimonio di mente, anima e corpo, ma Hugh...? Hugh sarebbe mai stato altrettanto? Certo, sarebbero stati sereni, sarebbero stati capaci di ridere e divertirsi, di vivere con leggerezza e senza problemi ma ad entrambi, quel matrimonio, stava imponendo qualcosa che non era nel proprio essere e prima o poi questo avrebbe preteso il conto.

Si accarezzò di nuovo la pancia, non poteva avere tentennamenti ora. La nuova vita che cresceva in lei stava prepotentemente formandosi e preparandosi a venire al mondo e aveva diritto a un padre e a una madre, insieme. E questo e solo questo contava, ora.

Sentì gli occhi pungerle e in quel momento la porta della stanza si aprì, facendola sussultare. Si affrettò ad asciugare quelle dannate lacrime che rischiavano di scappare rovinandole il trucco e mettendo a nudo i suoi pensieri più intimi e profondi, inspirando profondamente per riprendere il controllo di se stessa. Poi si voltò, trovandosi accanto Prudie.

"Ragazza, tutto bene? Ti stanno aspettando tutti la, nella cappella".

Demelza, esausta ma rinfrancata dal vederla, si accasciò sulla sedia. Avere lì Prudie era una benedizione, era l'unica che la conosceva da tanto, l'unica ad aver seguito tutta la sua storia, l'unica che forse conoscesse davvero i tormenti del suo animo. "Non lo so se va tutto bene... Questo vestito è bellissimo ma la pancia si vede lo stesso, non so come sto coi capelli raccolti, non so se faccio bene o se faccio male ad essere quì, non so niente...".

Prudie si inginocchiò davanti a lei, prendendole le mani e stringendole. "Piano ragazza, respira e calmati! Tutte le spose sono agitate il giorno delle nozze".

"Non sono agitata... Non so come mi sento, non so se sono contenta o se ho voglia di scappare... Non so niente...".

Prudie sospirò. "Cosa ti tormenta, piccola? Dillo a Prudie che ti capisce e vediamo se riusciamo a risolvere la situazione".

Una nuova lacrima le scappò dall'occhio sinistro, scivolando sulla sua guancia. Al diavolo pure il trucco! "Io... Io volevo essere per tutta la vita la moglie di Ross Poldark... La signora Poldark. Non volevo essere ricca, essere una lady, essere la mamma di un futuro lord o di una contessina o di quello che sarà, non ricordo nemmeno i titoli nobiliari del bambino che mi ha elencato Lord Falmouth in questi giorni... Volevo solo Nampara, il mio giardino, il mio cavallo, i miei animali e... e lui... Avrei combattuto con lui ogni sua battaglia, anche senza un soldo in tasca e col pensiero fisso su cosa mangiare domani... Avrei dato la mia vita per lui, per essere ai suoi occhi degna del suo amore... Non volevo altro, solo il suo amore... Che mi amasse e che amasse i nostri bambini".

Si accasciò contro al petto di Prudie, singhiozzando come una bambina, sfinita da quell'ammissione che mai avrebbe voluto fare e che riapriva ferite che mai sarebbero guarite.

"Lo so, lo so ragazza... Ma non è possibile, non più. Lui ha scelto e lo hai fatto anche tu, donandoti al tenente Armitage. Non pensare a Ross, non puoi, finiresti solo per tormentarti inutilmente. Ce l'hai messa tutta ma non è bastato e lui ha scelto... quella spaventapasseri che gli farà pentire ogni sua scelta in futuro... Ma se la purgherà da solo, stavolta non ci sarai tu a raccogliere i pezzi dei suoi errori".

Demelza annuì, lo sapeva anche lei che doveva lasciare andar via i ricordi, ma il suo cuore in quel momento gridava desideri che per un anno e mezzo erano come stati congelati dalla favola vissuta con Hugh e ora cercavano di riprendere il posto che spettava loro di diritto, al centro del suo cuore. Non era così convinta come lo era Prudie che Ross un giorno si sarebbe pentito, amava troppo profondamente Elizabeth, da sempre, l'aveva sognata e desiderata per anni pur con tutto il mondo contro e ora che era sua, di certo l'avrebbe venerata per il resto dei suoi giorni. "Credi che lui si ricordi ancora di me? O dei bambini...? Ricorda che siamo esistiti, anche se vive felice con la donna che ama?".

E Prudie rispose, dicendo qualcosa che le aveva già detto la dolce Verity tanti anni prima. "Il signor Ross non dimentica mai nulla. Fidati, lo conosco fin da quando era un moccioso che frignava per la morte di sua madre. Ma lui non è quì, non sarà mai quì e tu devi vivere. Ed essere felice perché lo meriti. L'uomo la sotto ti adora e ti ha reso felice ed è migliore di tanti uomini in circolazione. Ti darebbe il mondo se potesse, a te e ai tuoi bambini. Lascia andare Ross, dimentica il male che hai patito e vivi la tua vita come lui ha scelto a suo tempo di vivere la sua. Non puoi tornare indietro, non più... Ai tuoi primi due figli è stato portato via un padre, non fare lo stesso con questo nuovo bimbo in arrivo. Merita un padre e merita una madre felice".

Demelza sorrise, col viso nascosto contro il suo petto. Prudie era davvero diventata per lei come la madre che non aveva mai avuto e tante volte in quel periodo tanto difficile aveva trovato le parole giuste per acquietare il suo cuore. "Certo che lo merita e io MAI priverei mio figlio di suo padre. Hugh lo vuole questo bambino, ogni giorno mi chiede quanto manca alla nascita, fa progetti, è felice ed emozionato e non vede l'ora di stringerlo fra le braccia. Adora Clowance e Jeremy e loro amano lui e io so... so che non sarò infelice, so che non sarò sola, so che per la prima volta metterò al mondo un bambino desiderato da suo padre, ma...".

"Ma?".

Demelza scosse la testa. "Ma so che questi sono gli ultimi momenti in cui sono solo Demelza Carne, una ragazza della Cornovaglia. E piango perché a ciò che ero sto dicendo addio... Fa paura! Fra pochi minuti dirò sì e allora sarò Lady Armitage e ho il terrore di perdermi, di cambiare e di non ricordare più chi sono davvero e cosa vuole il mio cuore. Mi sposerò perché ho voluto Hugh e perché lui era ciò di cui avevo bisogno in questo periodo, mi sposerò perché è ciò che devo fare e lotterò per la famiglia che formerò col mio futuro marito ma... ma mi sento in colpa. Perché sposo un uomo che mi adora e per quanto bene gli voglia, io non saprò mai corrispondere appieno i suoi sentimenti e non so se è perché nonostante tutto amo ancora Ross o se sia stato Ross a rendermi incapace di amare dopo quanto è successo, ma so che è così. Sai, in questi giorni ci ho pensato, ad entrambi, a Hugh e a Ross. E ho capito in cosa sono diversi, ai miei occhi".

"In cosa?".

Demelza sorrise dolcemente. "Ross era fuoco, un fuoco che mi è entrato nella carne e nell'anima, un fuoco che mi ha fatto sua. E ti senti viva, completa, avvolta in quella fiamma... Ma proprio perché ti entra nel profondo, il fuoco brucia, fa anche male ed è caro il conto che ti chiede per la beatitudine che ti ha regalato per un attimo. Hugh è diverso, Hugh è come il tepore piacevole di un camino acceso in una stanza che prima era fredda. Il calore che emana non fa male, fa bene al cuore, ti fa sentire coccolata e protetta. E non è come il fuoco sulla pelle, non è altrettanto pericoloso e letale, ma non è nemmeno capace di penetrarti dentro fino al profondo. Un camino acceso ti fa star bene e basta, ti fa stare tranquilla senza il rischio di scottarti mentre il fuoco ti brucia anima e cuore quando entra dentro di te".

Prudie le accarezzò il viso. "E tu cosa vuoi? Scottarti o star bene e basta, senza scossoni?".

Ci pensò, quella domanda era il perno di tutti i suoi dubbi e paure. Cosa voleva? Un fuoco pericoloso o, finalmente, la pace per se e i suoi bambini? "La vita mi ha insegnato che l'amore è un fuoco pericoloso, che brucia e fa male... Posso farne a meno, DEVO farne a meno, anche se questo forse mi farà sentire meno viva".

"Sicura?".

Deglutì. "Devo esserlo...". Si accarezzò il ventre, ancora, addolcendo il suo sguardo. "Lo amo, amo questo bambino con tutta me stessa, anche se è un piccolo gigante che farà diventare gigantesca pure me. Voglio che sia felice e se lo sarà lui, lo sarò anche io".

Prudie le asciugò le lacrime cristallizzate sul viso con un fazzoletto. "E se lo sarai tu, lo sarò pure io. E i bambini".

Demelza inspirò profondamente, si alzò in piedi, si sistemò la gonna e sorrise. "Prudie, grazie" – sussurrò, baciandole la guacia. "Resta sempre con me, cresci i miei bambini con me e soprattutto, non permettere mai che io dimentichi chi sono. E' il più grande favore che potresti farmi".

"Lo farò, non permetterò che diventi una smorfiosetta con la puzza sotto il naso! Tu sei una creatura selvaggia della Cornovaglia e farai grandi cose con questi ricconi. E anche senza il signor Ross, col potere che avrai fra le mani, sarai capace di portare avanti le lotte che combattevi con lui. So che farai buon uso del titolo di Lady che ti verrà conferito oggi e so che non perderai te stessa".

Demelza la abbracciò, forte. Con lei vicino, si sentiva pronta ad affrontare quel matrimonio. Prudie aveva ragione, meritava di essere felice e lei e i bambini avrebbero trovato la pace e il loro posto nel mondo in quella elegantissima casa di Londra. La vita era strana, a volte sapeva riservare sorprese inaspettate a cui adattarsi anche con fatica e se il destino aveva deciso che lei e i suoi figli dovevano vivere e crescere a Londra e non in Cornovaglia, un motivo ci doveva essere. "Mi accompagni di sotto?".

Prudie le offrì il braccio. "Ovviamente, ragazza".

"Sono bella?".

"Bellissima, tranquilla".

"Anche col pancione?".

La serva rise. "La scelta della tua futura suocera è stata eccellente. Quella gonna larga nasconde bene il piccolo gigante, la vecchia se ne intende di moda...".

"Prudie, stai parlando di mia suocera!". Demelza alzò gli occhi al cielo, uscendo dalla stanza con lei, osservando ancora il suo ventre gonfio. "Ti sembra normale la pancia così grande?".

"No, con gli altri si è vista molto più tardi. E' strano...".

Ecco, lo sapeva, se lo diceva pure Prudie c'era da preoccuparsi. "Anche Dwight è sempre accigliato quando mi visita. Sono preoccupata, sento questa gravidanza diversa...".

"Non ci pensare, non oggi...".

Demelza fece per rispondere quando, appena uscite nel giardino, furono raggiunte dalle sue due testimoni e dai bambini.

Deglutì, emozionata, mentre Margarita e Caroline, le due amiche che aveva voluto vicine più di chiunque altro, le andavano incontro tenendo per mano Jeremy e Clowance. Le due ragazze indossavano degli splendidi abiti di seta rosa, identici, con un nastro di pizzo rosso in vita. Clowance indossava un bellissimo abitino bianco come il suo, identico, che la faceva sembrare una piccola sposa in miniatura mentre Jeremy aveva degli eleganti pantaloncini blu lunghi fino al ginocchio e una camicina di seta bianca.

Si chinò, ad abbracciare i suoi bambini, stringendoli a se. Ogni dubbio, ogni paura scomparve vedendoli tanto felici. Prudie aveva ragione, lo meritavano, loro e lei...

Li abbracciò, tenendo fra le sue braccia i suoi figli già nati e quello in arrivo, che cresceva dentro di lei. I suoi tre tesori...

Margarita le sorrise, la abbracciò e le diede il bouquet di roselline con cui entrare nella piccola cappella in giardino. Caroline la prese sotto braccio, radiosa e felice. "Sono gelosa, diventerai più blasonata di me" – disse, col suo solito fare cinico. "Vedi di non piangere durante il sì, portare Dwight alle cerimonie è sempre una sofferenza e io non sono in condizione di sentirlo lamentarsi per ore...".

Demelza si accigliò. "Sei malata?".

Caroline diede un'occhiata al suo ventre. "No, ero solo gelosa di te e del bambino in arrivo. Mi da fastidio vedere come le donne incinta attirino su di se l'attenzione di tutti e alla fine ho deciso che volevo anche io quell'attimo di notorietà".

Margarita, Prudie e Demelza spalancarono gli occhi, Jeremy si grattò il capo e Clowance rise.

"Sei incinta?" - chiese Demelza, a bocca aperta. "Anche tu?".

Caroline sospirò, fingendosi scocciata. "Sì... E' una condizione un pò noiosa, ma il mio marmocchio è meno grasso del tuo, la pancia ancora non si vede e io sarò snella e bella più a lungo di te. E non commuoverti e non piangere, io non l'ho fatto e a te colerebbe il trucco!".

"Congratulazioni Miss Caroline!" - esclamò Margarita.

Demelza si bloccò, abbracciandola. Al diavolo il trucco, era così felice per lei che sarebbe scoppiata a piangere dalla gioia molto volentieri. "Congratulazioni, è meraviglioso. Quando nascerà?" - chiese, pensando alla gioia che doveva provare Dwight in quel momento.

"A marzo. Due mesi dopo tuo figlio". Le lasciò il braccio, indicandole l'entrata della cappella. "Basta parlare, ricomponiti, entra e sposati. E' il tuo momento ora, non il mio".

Demelza tornò alla realtà, dopo quel piacevole diversivo. Tremò, cercò con lo sguardo Prudie e la serva le sorrise, annuendo. E Jeremy le prese la mano per accompagnarla all'altare, stringendogliela forte, mentre Clowance le sorresse il velo come le aveva insegnato Lady Alexandra, da perfetta piccola damigella.

Guardò i suoi figli, prese coraggio e decise che avrebbe lottato per quella vita, perché fosse felice per lei, per i suoi bambini e per l'uomo che l'aveva resa il centro del suo mondo, facendole vivere il sogno di essere la sua fata.

Entrò, a testa alta. E Hugh rimase a bocca aperta, incredulo, felice. Si avvicinò a lui e nonostante il cerimoniale e le occhiatacce di Lord Falmouth, si abbracciarono forte, per darsi entrambi quel coraggio necessario a quel salto nel vuoto.

"Sei bellissima, piccola fata... E ogni mio respiro sarà atto solo a renderti felice. Hai reso vero un sogno".

Gli sorrise e capì che avrebbe voluto dargli la salute, la gioia di vivere e la felicità di una famiglia vera, la loro famiglia. E che il tepore costante e dolce di un camino sarebbe andato benissimo per vivere serena. Non importava quanto tempo avrebbero avuto, quanto sarebbe durata, vivere pienamente giorno per giorno, godendo di ogni dono della vita, era un qualcosa che molti non riuscivano a fare per lunghe esistenze vuote. Ma loro no, loro sarebbero stati diversi... Volevano essere felici, si meritavano di esserlo e un giorno, un mese, un anno o dieci non aveva importanza. Avrebbero vissuto pienamente ogni istante a loro concesso, insieme.

Abbandonò i ricordi, chiuse a chiave ogni sentimento che la legava a Nampara e a Ross, alzò lo sguardo e guardò suo marito, il suo futuro. E poi disse sì, diventando Lady Armitage.

E ora non sarebbe più potuta tornare indietro...


...


"Sono indeciso se rimanere sveglio a pensarti, o dormire con la speranza di sognarti! Demelza, dove sei?".

Colto da questo strano pensiero e dalla malinconia che ogni sera, quando andava a letto, si impossessava di lui, Ross si voltò di lato. Era stato un giorno strano quello, dove una opprimente inquietudine lo aveva tormentato fin dal primo momento in cui aveva aperto gli occhi. Ci aveva riflettuto e alla fine aveva capito che il suo sesto senso gli stava urlando che era il pensiero di Demelza e dei bambini a logorarlo, come se stesse cercando di dirgli qualcosa di importante che però non riusciva a capire. Si era chiesto se fosse successo qualcosa di grave, se avessero bisogno di aiuto, se quel suo malessere fosse collegato a loro come un filo invisibile che gli faceva percepire quando qualcosa non andava ma non era giunto ovviamente a nessuna conclusione. E poi, che poteva fare? Non sapeva dove fossero, dove cercarli e soprattutto, non sapeva se stesse definitivamente impazzendo.

Nel pomeriggio aveva ricevuto la visita di Lord Bassett, un nobile che cercava invano, da tempo, di coinvolgerlo nella politica, una persona piacevole, intelligente e con idee affini alle sue che lo voleva con se a Londra, a Westminster, e che veniva spesso a fargli visita per convincerlo. Ma Lord Bassett non sapeva che era allergico a ogni forma di potere e che non avrebbe mai corrotto il suo animo entrando in un gioco che avrebbe finito con lo sporcare i suoi ideali e ciò in cui credeva. Bassett non demordeva da mesi, era testardo ma forse non aveva ancora capito che lui lo era ancora di più e che stava perdendo solo il suo tempo. Così anche quel giorno disse cordialmente no, lo salutò e poi tornò solo coi suoi tormenti e pensieri, a casa.

Non era solo, c'era Valentine accanto a lui nel letto, quella sera.

Solo Valentine...

Quel giorno aveva pianto per i dolori alle gambe e grosse lacrime che gli solcavano il viso al suo arrivo a casa, unito alla preoccupazione che leggeva sul viso di Jane, gli avevano fatto capire che stavolta non erano solo capricci ma che stava male davvero. In quei momenti si sentiva ancora più impotente e rabbioso. Impotente perché non poteva fare nulla per lui e per aiutarlo e perché l'unico medico in grado di farlo se n'era andato e non erano più amici da anni. Ed arrabbiato perché Valentine, la sua esistenza e quella malattia c'erano a causa di quella sua notte di follia in cui aveva distrutto la vita di due donne, dei suoi figli e aveva generato un bambino votato alla sofferenza. Era tutta colpa sua, dannazione! Tutti quelli che lo avevano conosciuto soffrivano a causa sua!

Si odiava per questo, si odiava quando si trovava a pensare a Demelza e al fatto che non sapeva dove fosse, cosa facesse, com'era diventato Jeremy e... l'altro bambino. O bambina. Di cui non conosceva né sesso né nome perché quando era venuto al mondo era stato talmente codardo da non avere il coraggio di trasgredire come aveva fatto molte volte nella sua vita e di andare a conoscerlo.

La manina di Valentine lo toccò, facendolo sussultare. “Papà, male quì?” - chiese, toccandogli le gambe con la manina.

No, certo che no! E tu, stai ancora male?”.

Sì. Tu no?” - chiese, ancora, con la sua vocina stentata.

Ross sorrise amaramente. “No, a me fa un po' male il cuore ma forse mi passerà” - rispose, accarezzandogli i ricciolini neri.

Poi si voltò nel letto, dandogli le spalle. Guardarlo era sempre una sofferenza, soprattutto quel giorno e soprattutto quando stava male e lui non riusciva a non tormentarsi su quanto la vita di tutti sarebbe stata migliore se quella notte maledetta fosse rimasto a casa con Demelza. Vedere Valentine sarebbe sempre stato il suo più grande dolore e rimpianto e non sarebbe mai riuscito a godere della sua presenza in quella sua vita tempestata ormai solo di rimpianti.

Papà...” - piagnucolò il bimbo.

Dormi...”.

Papà...”.

Non si voltò, non ce la faceva. Lo sentì singhiozzare col visino contro la sua schiena ma poi, esausto, il suo respiro si fece più profondo e lo sentì addormentarsi, avvinghiato a lui come un koala. “Dormi e lasciami solo, Valentine... E perdonami. Coi miei figli io sono destinato a sbagliare, sempre... E tu non fai eccezione”.

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


Il tempo era volato, nonostante la gravidanza fosse davvero impegnativa e pesante rispetto alle precedenti.

La nuova vita la travolse e anche se all'inizio era spaventata, presto lei, Hugh e i bambini trovarono il loro posto, nuove abitudini e una nuova routine nella grandissima dimora dei Boscawen. Lord Falmouth era il vero capo famiglia, lui decideva, lui programmava, lui comandava. Ma sapeva anche essere un uomo ironico, era intelligente ed esperto del mondo e le sue buone maniere erano sempre impeccabili. Lady Alexandra, che i bambini avevano iniziato a chiamare 'nonna Alix', era una donna mite, gentile, che dietro la sua aria un pò sognatrice e svampita sapeva nascondere il dolore di convivere con la malattia del figlio.

Come Demelza aveva desiderato, avevano imparato a cenare tutti insieme ogni sera e se all'inizio questa era fonte di imbarazzo, pian piano il ghiaccio si era sciolto fra loro e quello era diventato il momento migliore della giornata. Lord Falmouth parlava dei suoi impegni in parlamento e dei suoi affari, i bambini raccontavano dei loro giochi e della loro giornata, Hugh si sforzava di non morire di noia nel sentire suo zio parlare di re, regine e politica mentre lei invece da quei racconti, pian piano, aveva imparato a conoscere quel mondo che le era sconosciuto, a fare domande e alla fine anche a controbattere, cosa che allo zio di suo marito piacque molto. Le chiacchiere spesso si protraevano fino a tardi e per Demelza, costretta al più assoluto riposo dalla famiglia e spesso annoiata, quello era un momento delizioso da condividere. A volte gli scambi fra loro erano condivisi da Hugh: suo zio gli insegnava la politica e lui in cambio gli parlava di poeti antichi e di canti medievali. Era un tacito compromesso fra i due a conoscere meglio i rispettivi mondi e passioni.

Dopo cena Lady Alexandra giocava coi bambini e con Garrick, si divertiva a disegnare nuovi modellini per i vestitini di Clowance e Jeremy aveva chiesto a Lord Falmouth di insegnargli il gioco degli scacchi, cosa che aveva reso l'uomo entusiasta. Adorava l'idea di avere una nuova mente da formare.

In tutto questo il suo pancione era cresciuto e attorno a lei c'era la più assoluta riverenza. Era la regina della casa, la madre dell'erede e ogni suo desiderio, anche solo sussurrato, diveniva realtà. Non era mai stata tanto viziata in vita sua e spesso si sentiva in colpa per il troppo che aveva quando molte donne non possedevano, nelle medesime condizioni, nemmeno il necessario per vivere. Lady Alexandra le aveva fatto confezionare centinaia di abiti eleganti, le aveva insegnato le regole dell'alta società e le aveva imposto, nelle occasioni ufficiali, di non indossare MAI per due volte lo stesso vestito. Troppo sconveniente, diceva! Durante i primi mesi era rimasta sconvolta dalla quantità di cibo e vestiti che, ancora nuovi, venivano gettati e alla fine, visto che non poteva fare nulla, aveva ideato un piano in cui aveva coinvolto sua suocera per aiutare i più bisognosi. Aveva chiesto di devolvere il cibo in più agli orfanotrofi della città e di non gettare via i vestiti ancora nuovi, insegnando alla donna un modo per riutilizzarli. Le aveva mostrato come disfarli, scucirli e ricucirli, facendone abiti per bambini, cuffie, mantelle e altri generi da distribuire ai più poveri nei centri per i senzatetto di Londra. A Lady Alexandra questo era piaciuto molto, era una donna nobile e in fondo annoiata dalla vita, e insieme si erano impegnate in quella missione che per Demelza era vitale e per sua suocera una piacevole novità. Demelza le aveva insegnato a cucire e questo facevano di pomeriggio, quando i bambini erano fuori con Prudie a giocare.

Anche Jeremy e Clowance si abituarono presto a quella nuova vita: in estate con Prudie e Mary, una bambinaia che Lady Alexandra aveva insistito per assumere, avevano giocato intere giornate nei giardini di Kensington dietro casa e a novembre, per il terzo compleanno di Clowance, Hugh aveva organizzato una grande festa e una caccia al tesoro nel parco del palazzo. I piccoli invitati si erano divertiti un sacco, avevano esplorato la casa sull'albero di Jeremy, Clowance era stata ricoperta di regali e a fine giornata, come era successo fra Jeremy e Gustav, anche lei aveva trovato una migliore amica, Lady Chaterine, una sua piccola coetanea dai capelli castani e pieni di perfetti boccoli, indubbiamente capricciosa e vanitosa come la piccola di casa.

Hugh si era dimostrato un marito premuroso, attento e soprattutto eccitato dal suo ruolo di padre. Attaccatissimo ai bambini, era diventato tutt'uno con Jeremy e negli ultimi mesi della gravidanza avevano confabulato molto di nascosto, su qualcosa che non era riuscita a captare nemmeno implorando. C'era un segreto fra loro e lei non doveva sapere nulla fino a tempo debito, così avevano detto...

Per il resto, aveva fatto sistemare la casa perché fosse adatta alla nuova famiglia che vi si era trasferita: aveva adattato la sua camera, rendendola una stanza matrimoniale piena di ogni confort e aveva poi trasformato la stanza comunicante da biblioteca a nursery, con tutto l'occorrente per l'arrivo del nuovo bambino.

La sua biblioteca era stata trasferita in un grande salone al piano terreno. Aveva diviso la stanza in due, una per i libri degli adulti e una dedicata interamente alla letteratura per l'infanzia in modo che Jeremy prima e Clowance e il bimbo in arrivo poi, avessero il loro spazio per appassionarsi ai libri.

Spesso di sera, dopo cena e dopo aver messo i piccoli a letto, aveva passato in quella biblioteca lunghe ore con Hugh, a discutere di libri e poemi. Gli occhi di suo marito si illuminavano quando parlava di arte e cultura ed era meraviglioso stare a sentirlo raccontare di quel mondo che doveva adorare e che considerava amico. Ridevano spesso insieme, come due ragazzini, oppure discutevano su un romanzo che Hugh le aveva consigliato di leggere o ancora, fantasticavano sul bimbo in arrivo. C'era serenità in casa, un qualcosa che Demelza non aveva mai provato prima. A Nampara o ancora prima ad Illugan c'erano sempre problemi e pericoli da affrontare, la fame, i debiti, lo spettro della prigione o altro ancora... Ora era solo una moglie e madre in attesa di un bambino, non c'erano problemi, non c'erano ansie, c'era solo la serenità di una vita tranquilla che la faceva sentire coccolata e amata... A volte capitava che si sentisse spaesata, che non avvertisse quel posto come casa sua ma era un attimo, bastava un sorriso, un gesto gentile, una parola buona o le risate dei bambini in giardino e tutto passava e veniva seppellito in una parte remota del suo cuore.

Il bimbo in arrivo aveva guadagnato in poco tempo un sacco di soprannomi: Lord Falmouth lo chiamava 'piccolo gigante Golia', Lady Alexandra 'Bijoux' mentre Jeremy e Clowance lo avevano preso a chiamare 'Garrick'. E alla fine, esasperata, aveva implorato Hugh di scegliere un nome maschile e uno femminile definitivo, con cui chiamare quel povero piccolo che aspettava. Credeva che lui avrebbe proposto nomi antichi di famiglia e grande fu la sua sorpresa quando Hugh le aveva confessato di volere per suo figlio un nome che iniziasse con la lettera D, come il suo... Si era commossa, aveva temuto che la famiglia di Hugh si offendesse ma quando lui l'aveva rassicurata sul fatto che il secondo e terzo nome del bambino sarebbe stato attinto dall'albero genealogico dei Boscawen, aveva acconsentito alla richiesta dolce di Hugh. E così avevano scelto due nomi semplici, brevi, dal suono gentile: Demian nel caso il bambino fosse stato maschio, Daisy nel caso fosse stata una femmina.

La gravidanza si era rivelata pesantissima, il suo pancione immenso e il bambino aveva iniziato a muoversi presto e si era dimostrato da subito vivace più dei suoi fratelli maggiori. Si muoveva sempre, non c'era sosta, tirava calci che le facevano mancare il fiato e spesso a causa di ciò aveva passato lunghe notti in bianco. Non vedeva l'ora che nascesse per vedere che faccia da pestifero/a avesse... Lo adorava, ma era decisamente stanca di essere incinta e di sentirsi come un elefante.

Hugh le diceva che era bellissima – e non gli credeva – Lord Falmouth aveva assunto un infermiere a domicilio per ogni evenienza e anche se Dwight era e rimaneva il suo medico, ogni giorno doveva rendere conto delle sue condizioni anche a questo nuovo e sconosciuto medico.

Lady Alexandra aveva comprato e fatto fare montagne di vestitini per il piccolo e le aveva comprato anche uno strano trabicolo chiamato 'carrozzina' con cui portare in giro il neonato senza stancarsi di averlo in braccio e, anche se preferiva tenere i suoi figli accanto, aveva dovuto ringraziare per quel regalo che forse le sarebbe tornato utile nei giorni di maggiore stanchezza.

E così era arrivato il 20 dicembre, con lei che aveva un pancione immenso, due settimane ancora di gravidanza da vivere e un ballo di Natale a casa del Conte Spencer a cui aveva deciso di non mancare, nonostante tutto. Si sentiva da sempre inadatta fra i nobili, odiava farsi vedere incinta, avrebbe preferito rimanere a casa col suo pancione e la sua stanchezza ma aveva buone ragioni per andarci, stavolta. Lord Falmouth era contento del fatto che partecipasse con Hugh a quel ballo, Lady Alexandra era elettrizzata dal doverle preparare un abito nuovo per l'occasione e lei si era fatta dare da sua suocera la piantina del grande salone da ballo degli Spencer da studiare attentamente. Aveva in mente un piano...

"Dove hai preso quella mappa?" - chiese Hugh, osservandola mentre studiava il da farsi seduta sul letto.

"Me l'ha data tua madre".

"Perché? E soprattutto, che posto è?".

Demelza sorrise. "E' il salone da ballo del Conte Spencer, quello che ci ha invitato alla festa di Natale a cui andremo stasera".

Hugh la guardò storto. "Il ballo dove non volevo andare e a cui tu mi hai costretto?".

"Proprio quello...".

Suo marito le si sedette accanto, facendosi aiutare ad annodare la cravatta. "Hai sempre cercato di sfuggire a queste cose. Come mai oggi...?".

Lei sorrise, si inumidì le labbra con la lingua e ripiegò la cartina. "Ci saranno, fra gli ospiti, Margarita e il giovane Duca Edward Cavendish".

"E allora?".

"E allora Edward Cavendish è il ragazzo di cui è innamorata da sempre Margarita. Abbiamo una missione, dobbiamo organizzare un incontro 'casuale' fra loro".

Hugh rise, le scompigliò i capelli e scosse la testa. "Vi siete iscritte al corso di tiro con l'arco per organizzare un incontro casuale con lui. E non ha mai funzionato".

"Appunto! Ma stasera sarà diverso, saranno entrambi sicuramente presenti ed è un ambiente chiuso. Non possono sfuggirsi...".

Hugh si grattò il mento, pensieroso. "Amore? Perché dovremmo aiutarli?".

"Perché da soli non ce la fanno, sono timidi".

"Io ti ho conquistata senza aiuti!" - obiettò Hugh.

"Tu sei tu, loro sono loro! E li aiuteremo, fine del discorso e delle lamentele" – disse, perentoria.

E Hugh capì che non c'era margine di trattativa. "Sei molto incinta... Sei sicura di riuscire a farcela a sopportare un ballo? Mancano solo due settimane al parto...".

Demelza si toccò il pancione, sospirando. In effetti era esausta ma doveva resistere, almeno per quella sera, anche se aveva l'impressione che il bimbo sarebbe nato un pò prima del termine. "Ci saranno Dwight e Caroline con noi. Se succederà qualcosa, avrò il mio medico del cuore vicino...".

Hugh spalancò gli occhi. "Hai coinvolto anche loro in questa storia?".

"Ovviamente!".

Lui la guardò e scoppiò a ridere. "Ti stai divertendo?".

Gli fece la linguaccia, rilassata e incredibilmente felice. Si sentiva leggera, Hugh stava bene, i bambini anche, era circondata da amore, stava facendo una cosa che amava e presto sarebbe diventata nuovamente mamma, senza ansie e pensieri. "Da morire. Mi aiuterai?" - chiese, baciandolo brevemente sulle labbra.

"Ovvio, anche perché non ho scelta...".

Lei annuì, soddisfatta. "Tuo zio ne sarà contento! Adora quando coltiviamo le...".

"Relazioni sociali...?" - concluse lui.

"Esatto, quelle! E Margarita forse avrà un fidanzato entro domani".

"Sembra tutto perfetto, socia...".

"Assolutamente, socio" – concluse lei, stringendogli scherzosamente la mano.


...


La festa era bellissima, piena di cibo meraviglioso, gente elegante e con un'orchestra che suonava musiche natalizie in modo divino. C'erano molti nobili che aveva imparato a conoscere in quei mesi, tutti si dimostrarono gentili e l'unica pecca era che, quando una donna era incinta, l'attrazione principale di un evento era il pancione. Tutti lo guardavano, tutti lo accarezzavano, tutti facevano mille domande...

Ecco, era uno dei motivi per cui odiava essere incinta, quello...

Ma quella sera doveva stringere i denti, essere gentile, sopportare, essere una perfetta Lady Armitage e futura mamma di un Boscawen e portare a termine il suo piano.

Dwight, assieme a Caroline che col suo pancione molto più ridotto era destinata ad essere al centro dell'attenzione come lei, dopo cena si erano messi a chiacchierare vicino al tavolo dei vini osservando di nascosto le mosse di Edward e Margarita mentre lei decideva il da farsi.

Demelza passeggiò con Hugh nella sala, spiò la posizione di porte e vie di fuga, si guardò attorno guardinga osservando la scena attorno a lei, la posizione degli invitati al ballo e la balconata dove si era rifugiato il giovane erede dei duchi di Cavendish dopo il dolce. Poi, dopo aver visto che Lady Margarita si era rifugiata in un angolo buio della sala con lo sguardo perso di chi sa di essere goffa e di non aver ancora imparato né a ballare né a fare l'inchino correttamente, prese Hugh per la giacca, attirandolo vicino. “Vai da Edward sul balcone e bloccalo lì. Io cercherò di portarci, con una scusa, Margarita”.

Hugh annuì, divertito. “Sembra di essere delle spie che stanno ideando un piano segreto. Mi piace, non avrei mai creduto che un ballo potesse essere tanto divertente. In fondo hai avuto un'ottima idea ad ideare questo piano”.

Demelza ci pensò su e poi annuì, soddisfatta. “Siamo spie, in un certo senso. Lady Margarita è una delle mie migliori amiche di Londra, assieme a Caroline, ma rispetto a Caroline è goffa e se la lasciamo fare da sola, rimarrà tutta la vita ad aspettare che Edward Cavendish, imbranato quanto lei, si dichiari. Lei ne è innamorata, lui pure, inizia a balbettare appena la vede e noi, da amici, dobbiamo cercare di fare qualcosa. Subito, sono troppo incinta per tentare al ballo post-natalizio dal principe del Sussex di settimana prossima...”.

Che gli dico?”.

Demelza sbuffò. “Cerca una scusa, intavola un discorso. Sei un poeta, no? Parlagli di arte!”.

Hugh annuì, ingurgitò il bicchiere di champagne che aveva in mano e, mentre Caroline e Dwight li osservavano divertiti da lontano, andò sulla balconata.

Demelza scosse la testa, strizzò l'occhio a Caroline e a uno smarrito Dwight e poi si diresse da Margarita. “Non ti senti bene?” - chiese, appena l'ebbe davanti. La ragazza, col suo grazioso vestito rosso, si era rifugiata smarrita in un angolo buio della sala, con lo sguardo basso di chi vuole solo scappare. Non era cambiata, rispetto a quando l'aveva conosciuta due anni prima...

Margarita abbassò il viso, stringendo fra le mani il bouquet di roselline che aveva portato con se. “Vorrei ballare ma non me lo chiede nessuno. La mia fama di pessima ballerina ha raggiunto ogni angolo di Londra...”.

Demelza le fece un sorriso malizioso. “Vorresti un ballerino in particolare o ti va bene chiunque...? Posso prestarti Hugh, se ti va”.

Margarita ridacchiò. “Smettila di prendermi in giro, sai chi vorrei! Ma non gli piaccio, è persino sparito chissà dove per non incontrarmi. Appena mi vede gira la faccia, balbetta e scappa via...”.

Demelza, dolcemente, la prese sotto braccio. “Sai, gli uomini che fanno così non disprezzano. Sono solo timidi e impacciati...”.

Grazie Demelza, sei gentile. Ma non gli piaccio, non piaccio a nessuno io! Mia madre dice che sono goffa e che la mia bellezza ne è offuscata, lo sai bene anche tu. Dice che persino Clowance sa fare l'inchino meglio di me ormai. E la tua bambina ha solo tre anni, figurati!”.

Demelza sospirò, che doveva dirle? In effetti era vero, Clowance era una lady già più aggraziata di Margarita, ma non era quello il punto... “Sei bella, hai dei meravigliosi capelli color miele, gli occhi azzurri e un viso fresco e simpatico. Hai le lentiggini, agli uomini piacciono, sai? E sei gentile e semplice, non sei vanitosa e hai sempre una parola gentile per tutti. Poi... sei una lontana nipote dei nostri sovrani, nessuno oserebbe mai dire che non sei interessante... Nemmeno Edward”.

Margarita sospirò. “Magari fosse così...”.

E' così!”. Bene, era ora di passare al piano d'azione prima che Hugh finisse gli argomenti di conversazione ed Edward sparisse di nuovo. “Senti, mi accompagni sulla balconata? Sai, con la gravidanza ho sempre caldo e qui dentro si soffoca, ho bisogno d'aria”.

Margarita le guardò il pancione. “E' immenso, quanto manca?”.

Due settimane! Mi sembra di aspettare un vitello, non un bambino”.

Margarita rise, prendendola sotto braccio. “Vieni, andiamo fuori, tanto vedo che nemmeno Hugh è nei paraggi e tu, con quella pancia, non credo riusciresti comunque a ballare”.

Sospirò. Margarita era una cara ragazza ma a volte fin troppo sincera. Si sentiva già di suo una balena e sentirselo ribadire...

Raggiunsero la balconata zigzagando le coppie che danzavano con una leggiadria che Demelza non riusciva a non invidiar loro. E appena giunte, come in un tacito accordo, lei e suo marito iniziarono la loro messinscena. “Amore, sei qui?” - disse Demelza, allegra, mentre sentiva Margarita che si irrigidiva appena ebbe notato la presenza di Edward.

Hugh le corse vicino. “Demelza, tesoro... Ero uscito a prendere una boccata d'aria e mi sono fermato a parlare con il giovane Lord Cavendish di poesia. Sai che adora Shakespeare?”.

Oh... bene! Io invece sono uscita per riprendere fiato, la dentro si muore di caldo. Margarita è stata tanto gentile da accompagnarmi, viste le mie dimensioni...” - concluse, spingendo la ragazza davanti a lei, a tu per tu con Edward che divenne di mille colori in viso.

Hugh si mise fra i due, poggiando loro una mano sulle spalle e spingendoli ancora più vicino, a tu per tu. “Avete la stessa età, forse preferirete parlare fra voi di poeti e scrittori, giusto? Senza futuri padri e future madri col pancione ad offuscare i vostri discorsi... Forse io dovrei cercare un posto tranquillo dove portare Demelza, è stanca. Ti va un giro al parco, amore?”.

Demelza si toccò il ventre, colta da un'improvvisa fitta che la fece impallidire e le fece mancare il fiato. No, noooo, non ora!!! Quel dolore la fece vacillare... “Non ne sono sicura...”.

Hugh si accigliò, poi le corse vicino. “Demelza, tutto bene?”.

Anche Margarita ed Edward le si avvicinarono, preoccupati. “Demelza?”.

Inspirò profondamente, accarezzandosi il pancione. “Sto bene, devo solo sedermi un po'...” - ammise, aggrappandosi al braccio di Hugh. Voi restate qui a chiacchierare, torno subito...

Margarita e il suo giovane spasimante si guardarono imbarazzati e Hugh ne approfittò per prendere Demelza sotto braccio e portarla via. “Ahah, la mossa dei dolori alla pancia è stata fantastica per sviarsela e lasciarli soli!” - esclamò, appena furono abbastanza lontani dai due ragazzini.

Demelza lo guardò storto. “Non era preventivata...”.

Ma ha funzionato!”.

Lei si bloccò, aggrappandosi al suo braccio e dandogli un pizzicotto. “Hugh... Non stavo scherzando... Chiama Dwight per favore...”.

Lui impallidì. “Demelza...”.

Si morse il braccio, o suo marito si sbrigava o lo avrebbe preso a morsi. “CHIAMA-DWIGHT!” - ordinò, mentre un'altra fitta le faceva mancare il fiato.

Hugh indietreggiò, pareva sull'orlo di uno svenimento. “Stai dicendo che... che...”.

HUGH!!!”.

Ma mancano due settimane!”.

Spiegalo a tuo figlio!”.

Ma...”.

Alzò gli occhi al cielo! Giuda, gli uomini erano quanto di più inutile esistesse al mondo, quando le donne partorivano. “Va! O chiami Dwight e una carrozza o ti giuro che tuo figlio te lo partorisco qui, in mezzo al salone, al centro della sala da ballo!”.

Hugh non se lo fece ripetere. Annuì, pallido come un cencio. Poi corse via, alla ricerca di Dwight.

Il medico, con Caroline, fu subito da lei e appena la vide la prese sottobraccio e la scortò fuori mentre tutti la osservavano eccitati facendo battute che lei, in quel momento, non riusciva a ritenere divertenti. Santo cielo, si sarebbe seppellita sotto terra per la vergogna! Non era da vera Lady iniziare il travaglio durante una festa!

La fecero salire in carrozza e si accasciò fra le braccia di Hugh. I dolori erano già fortissimi, il travaglio era partito velocemente e non aveva tempo di riprendere fiato fra una contrazione e l'altra.

Dwight la guardò preoccupato, poi osservò Caroline. “Amore, SEMBRA doloroso ma...”.

Demelza alzò lo sguardo, i suoi occhi facevano fiamme. “Al diavolo, sta zitto, fa malissimo GIUDA!!!”.

Caroline si guardò la pancia, deglutì e poi impallidì. “Credo di voler andare a casa...”.

Certo amore, ti ci porto subito...” - rispose Dwight asciugandosi il sudore e prendendole la mano.

Hugh fece per accarezzarle i capelli ma Demelza si scostò con un gesto stizzito. Faceva malissimo e non voleva essere toccata nemmeno per una carezza. Le spiaceva essere brusca ma non ce la faceva davvero a essere ragionevole ed accomodante... Respirò, tentò di rilassarsi e di riprendere possesso di se ma si rese conto che era impossibile. Era un travaglio velocissimo e se non si sbrigavano, il bambino sarebbe nato in carrozza.

Lasciarono a casa Caroline, Dwight la salutò con un bacio e poi, a tutta velocità, si diressero verso la reggia dei Boscawen.

Dwight la prese in braccio mentre Hugh, su richiesta di Demelza, corse in casa a chiamare Prudie.

Dwight...” - pianse, accasciandosi contro il suo petto.

Dwight la strinse a se mentre due domestiche giunte ad aprire il portone li scortavano verso la camera da letto.

Il dottore la mise sul materasso, ordinò alle domestiche di accendere il fuoco nel camino e quando Prudie fu arrivata con Hugh, le chiese di aiutarla a spogliare Demelza.

Era buio pesto, era tardissimo ma quel trambusto parve risvegliare ogni abitante della casa.

Hugh, va a chiamare l'infermiere personale di Demelza, potrei aver bisogno di aiuto” - ordinò Dwight, tornato nelle vesti serie di medico.

Demelza, a quelle parole, fu presa dal panico. Non voleva l'infermiere assunto da Lord Falmouth, non voleva nessuno a parte Dwight e Prudie, come sempre era stato... E ancora, per un attimo, schiacciata da dolori potentissimi che non riusciva a controllare e che le facevano venire voglia di urlare, si sentì circondata da un mondo estraneo. Il parto era qualcosa di violento, potente, qualcosa che rendeva inerme la mente e la volontà di una donna che lo viveva e che metteva a nudo non solo il corpo ma anche tutti i suoi pensieri più nascosti. Strinse la mano di Prudie, cercando in lei la guida, il coraggio e l'appiglio a qualcosa, a un luogo e a un passato pieno di ricordi che avrebbe potuto aiutarla a calmarsi. “Voglio andare a casa...” - mormorò, confessò a lei e alla sua mente che gridava in quel momento un desiderio che mai, in condizioni normali, avrebbe espresso ad alta voce.

A quelle parole Prudie capì, le strinse la mano e Dwight si oscurò in volto, comprendendo anche lui cosa si nascondesse dietro di esse.

Hugh invece per fortuna non capì o non volle farlo. Si chinò su di lei, baciandola sulla fronte. “Sei a casa, sei nella tua stanza amore mio...”.

Dwight lo prese per il braccio. “I papà non sono ammessi, ora qui sei di troppo. Va, avverti tua madre e tuo zio che il bambino sta per nascere e poi dai un occhio, nelle loro stanze, a Clowance e Jeremy. Controlla che non si sveglino con questo trambusto”.

Ma...”.

Niente ma, Hugh! Fuori, Demelza ha bisogno di gente esperta ora! Chiama l'infermiere, per favore”.

Demelza gli strinse la mano per dargli coraggio. Era spaventato, era ovvio, lo era più di lei probabilmente. “Non voglio l'infermiere, voglio solo Dwight e Prudie. Vai dai bambini Hugh, ci vediamo dopo... Sta tranquillo, andrà tutto bene”.

Lui deglutì, annuì non troppo convinto e dopo averle dato un bacio e aver chiesto a Dwight di fare del suo meglio, uscì incespicando dall'emozione sui suoi passi.

Demelza si accasciò contro il cuscino, lasciando che Prudie le togliesse i vestiti e la lasciasse solo con una sottoveste. “Non volevo dirlo... Sono a casa...”.

Shhh ragazza, quando una partorisce dice sempre cose strane... Il dolore fa straparlare”.

Demelza le sorrise, nonostante i dolori. Prudie sapeva che non stava straparlando ma era comunque capace di rassicurarla ed era quanto di più prezioso avesse accanto a se in quel momento, assieme a Dwight.

Il medico la visitò, era preoccupato ed accigliato come spesso era accaduto durante quella gravidanza, anche se non ne aveva mai spiegato il motivo. “Demelza, il travaglio è velocissimo, quando senti di dover spingere, fallo pure”.

E lei lo fece. I dolori divennero lancinanti, urlò forte come non aveva mai fatto con gli altri figli, pianse ogni sua lacrima e alla fine, sorretta da Prudie, dopo uno sforzo immane, sentì il corpicino del suo bambino uscire da lei, scivolando verso la vita come fosse un pesciolino.

Si accasciò sul cuscino, esausta, sentendo quel pianto liberatorio che la rendeva di nuovo mamma.

E' una bambina...” - disse Dwight, avvolgendo la neonata in una coperta.

Demelza, con gli occhi annebbiati dalle lacrime, la guardò. Il pancione era talmente grande che si sarebbe aspettata una bimba gigante ed invece sembrava più piccolina degli altri figli... “Daisy...”.

E dopo aver pronunciato quel nome, improvvisamente tornarono i dolori, talmente forti da toglierle il fiato più di quanto non fosse successo poco prima. Urlò, spaventata, schiacciata da quel dolore atroce che sembrava smembrarle il ventre. Che succedeva? CHE SUCCEDEVA???

Lo immaginavo...”.

Sentì solo quelle parole, dalla bocca di Dwight. Sentì in lontananza che la incitava a spingere ancora, le urla di Prudie, il pianto di Daisy, una forte pressione sulla pancia e il sangue che fluiva dal suo corpo. Poi un nuovo strappo doloroso, tutto divenne nero e opaco e perse i sensi.

Il mondo attorno a lei divenne ovattato e attutito, perse consistenza e si sentì leggera, come se navigasse in una bolla d'aria trasparente lontana da tutto e tutti... Forse era morta, forse stava sognando, forse stava impazzendo... Seppe solo che per un lungo istante fu lontana da ogni cosa...



Fu un forte profumo di rose a svegliarla, unito alla dolcezza delle dita di Hugh che le accarezzavano il viso. Aprì gli occhi, a fatica. Il dolore era scomparso, era nella sua stanza e suo marito, Prudie e Dwight erano accanto a lei con gli occhi lucidi.

Santo cielo, era svenuta! Fu la prima cosa che realizzò! Che le era successo? E la bambina? La sua piccola bambina che aveva partorito? E il dolore successivo?

Dov'era la sua piccola? “Hugh...”.

Lui si chinò, stringendola delicatamente a se. “Amore mio, sei stata bravissima ma ci hai davvero fatto spaventare. Sei svenuta e per fortuna Dwight è un medico eccezionale e...”.

Non le importava di se stessa, non era quello che voleva sapere ADESSO. “Dov'è la mia bambina?” - lo interruppe.

Prudie sorrise, guardò Dwight e si allontanarono insieme dal letto. Poco dopo il medico tornò, con un fagottino in braccio che le mise a fianco, avvolto in una copertina di lana rosa. “Eccola qui la tua piccola lady. Sana, perfetta e vivacissima. Non è ancora stata ferma un attimo”.

In quel momento anche Prudie si avvicinò al letto, con un altro fagottino fra le braccia. “Ed ecco anche il tuo piccolo Lord” - sussurrò, poggiandole accanto un altro bambino.

Demelza spalancò gli occhi incredula, guardò i due bambini e poi suo marito, Dwight e Prudie. “Che significa? E questo bambino da dove spunta?” - chiese, stringendolo a se.

Dwight rise, accarezzandole i capelli. “Diciamo che il tuo pancione non era dovuto a un bambino molto grosso ma a due piccoli monelli pestiferi. Sei mamma di due gemellini, un maschio e una femmina. Sani, vivaci e non molto amanti della nanna, sembrerebbe...”.

A bocca aperta abbassò lo sguardo sui suoi due piccoli. Perfetti, dalla pelle rosea, i lineamenti fini e con due splendidi occhioni azzurri vivaci ed intelligenti. Bellissimi, coi loro capelli biondi sottili e morbidi, il nasino all'insù e delle dolci manine minuscole che cercavano di afferrarle le dita. Santo cielo, li aveva davvero fatti lei? “Gemelli?”.

Dwight fece segno a Prudie di uscire con lui per lasciarla sola coi piccoli e con Hugh. “Gemelli... E' raro ma può succedere”.

Tu lo sapevi?”.

Lo sospettavo ma non ti ho detto nulla. Preferivo non farti preoccupare inutilmente, non avendone la certezza. Congratulazioni ad entrambi, è davvero un miracolo quello che è successo alla vostra vita” - disse, conducendo Prudie fuori dalla porta. “Cerca di riposare ora, verrò domattina a farti una visita di controllo”.

Demelza si accasciò sul cuscino, mettendosi sul petto il maschietto e stringendo la bimba in un abbraccio. “Gemelli... Demian... e Daisy...”.

Hugh sorrise. “Demian e Daisy... Due miracoli come dice Dwight, non potevo crederci! Ti amo, piccola fata! Hai reso possibile un sogno... E amo Jeremy, Clowance e loro due...”.

Demelza si sentì forte, euforica, piena di gioia. La paura di poco prima sparì e finalmente si sentì a casa. Il posto dove erano nati i suoi figli era CASA, ora lo era ufficialmente. Baciò i due bambini sulla punta del nasino, si perse nei loro visini e si sentì ubriaca di gioia. Ogni dolore era dimenticato, era mamma di nuovo. Baciò Hugh sulle labbra, felice, perdendosi nella morbidezza delle sue labbra e nella gioia di averlo conosciuto e di essere arrivata grazie a lui a quel dono che la vita le aveva fatto quando pensava che mai sarebbe riuscita ad essere felice di nuovo. Poi il suo sguardo ricadde sul comodino e rimase a bocca aperta. C'era un grande vaso di rose, un fiore di certo non tipico di dicembre, ad ornarlo. Tantissime rose, di tre colori diversi: rosse, rosa e blu... Sfiorò i petali... “E queste?”.

Sono il regalo mio e dei bambini per te. Io e Jeremy le abbiamo cercate a lungo in tutti i fiorai di Londra, sappiamo quanto ami i fiori. Ho persino chiesto ai fiorai di portarne dalle colonie, se qui non fosse stato possibile trovarne”.

Il suo cuore accelerò i battiti, era un regalo bellissimo e dolce. “Sono meravigliose! Tre colori, perché?”.

Hugh osservò il vaso. “Rappresentano ciò che provo per te. Le rose rosse rappresentano l'amore per la donna che mi ha reso padre. E quelle rosa e azzurre...”.

Sì?”.

Beh, non sapevamo se il bimbo in arrivo sarebbe stato maschio o femmina, così assieme a Jeremy ne ho ordinate alcune rosa e alcune bianche che ho fatto tingere di azzurro. Alla fine sono tutte adatte a noi e alla nostra storia, visto che i bimbi sono due: una piccola fatina e un piccolo elfo”.

Demelza rise a quelle parole, rannicchiandosi coi bambini fra le sue braccia. “Gli elfi, a giudicare dai libri di fiabe che leggiamo a Jeremy e Clowance, sono esseri dispettosi...”.

Hugh annuì, guardando i due piccoli ancora perfettamente svegli. “E questi due sembrano sapere già il fatto loro. Guarda che faccini furbi che hanno...”.

Demelza li strinse a se. I suoi due bellissimi tesori, una delle sorprese più grandi che le avesse riservato la vita... “Li amo... Giuda, nemmeno immaginavo che fossero due, ne ho amato solo uno per nove mesi e invece...”.

E invece ora ne ami due. L'amore è il mistero più grande della vita e ora che sono padre ne comprendo ancora di più l'enorme potere”.

Hugh li strinse a se e a lungo rimasero in silenzio, osservando i due gemellini fra le loro braccia. “Domani Jeremy e Clowance impazziranno di gioia quando li vedranno”.

Anche tua madre e tuo zio...”.

Hugh scoppiò a ridere. “Loro lo sanno già! Ho dovuto impormi per lasciarti tranquilla altrimenti avrebbero fatto già irruzione qui. Credo siano ormai molto ubriachi, stanno festeggiando la doppia nascita praticamente con chiunque incontrino della servitù. Mio zio dice che i gemelli conquisteranno definitivamente l'Inghilterra e la Scozia!”.

Baciò i suoi due piccolini sulla fronte. La piccola sembrava tranquilla al suo fianco ma se la si stringeva troppo pareva lamentarsi, il maschio invece si era rannicchiato sul suo petto e si lamentava se qualcuno cercava di allontanarlo.

Sei stanca amore mio?”.

Un po'...”.

Posso lasciarti sola allora? Vado a controllare mio zio e mia madre e a riferirgli che stai bene”.

Demelza annuì. Stava bene con lui vicino ma voleva godersi anche i primi momenti da mamma da sola, coi due bambini. Voleva conoscerli, voleva sentire il loro profumo, studiare il loro viso, imprimersi nella mente ogni particolare. “Va pure, ti aspetteremo qui...”.

Hugh la baciò sulla fronte. “Non metterli troppo vicini. Prima, mentre eri senza sensi, ho provato a metterli nella culla insieme. Daisy è diventata una jena appena le abbiamo messo accanto suo fratello, voleva la culla solo per se. Credo sia stanca di averlo accanto, dopo nove mesi insieme. Lui invece piangeva a starci da solo, nella culla... Sembrano saper già cosa vogliono...”.

Demelza scoppiò a ridere. “Piccoli elfi, è? Temo tu ci abbia azzeccato...”.

Anche Hugh rise e dopo averle dato un'altra carezza, uscì dalla stanza. E Demelza si rannicchiò al caldo, sotto le coperte, respirando il profumo e la presenza dei suoi figli, stringendoli a se. Demian, il suo piccolino, si era rannicchiato forte contro il suo petto e con gli occhietti aperti la scrutava incuriosito. Daisy, avvolta nella copertina, muoveva le gambette e si succhiava il pollice, persa in chissà quali pensieri.

Li baciò e sentì di amarli già immensamente. Come Clowance e Jeremy. Era stata male, aveva creduto di morire ma ora era qui, circondata da una famiglia felice, con un marito e quattro bambini da amare e che la amavano... Nampara faceva davvero parte del suo passato ora, assieme ai ricordi tristissimi della solitaria nascita di Clowance, venuta al mondo senza una famiglia attorno, in un clima disperato, senza padre e senza certezza alcuna per il domani.

Era davvero cambiato tutto, adesso...

Tentò di allattarli e dopo vari tentativi, ci riuscì. Daisy si stancò subito ma Demian parve gradire tanto che, alla fine, si appisolò contro il suo seno. E Demelza, coi piccoli, si appisolò a sua volta, cercando un po' di riposo.

E dormì alcuni minuti, finché la porta non si aprì ed entrò Prudie.

La serva, mandata da Dwight a darle un occhio, entrò con passo felpato per controllare come andassero le cose, avvicinandosi al letto ed osservando i bambini. “Ci ho pensato e... Questa cosa non è normale...”.

Cosa?” - chiese Demelza strofinandosi gli occhi, non capendo a cosa alludesse.

Prudie scosse il capo. “Signora, da una pancia nasce un bambino! Non due! Mai vista una cosa del genere!”.

Demelza sorrise, accarezzando dolcemente la guancia del piccolo Demian che, già sveglio ed incapace di stare fermo, giocava con la copertina, muovendo le gambette. Avevano entrambi la pelle chiarissima che faceva risaltare i loro meravigliosi occhi azzurri, i capelli biondi e ancora radi e un visino ancora più perfetto e bello di poco prima. “Sono gemelli, Prudie. Dwight dice che è raro ma può capitare”.

Prudie però non pareva convinta. “Sicura? Sicura che non ci sia lo zampino del demonio in questa cosa?”.

PRUDIE!”.

La donna non si fece scoraggiare dalle sue occhiatacce. “Signora, hanno la faccia da angioletti eppure secondo me questi due ci stanno fregando. Dietro a faccini del genere si nascondono calamità nascoste...”.

Demelza la guardò storto, sbuffando. Nonostante tutto era divertita quando Prudie faceva così, esibendo quel suo modo burbero che nascondeva un grande cuore. “Sono normalissimi bambini, nati da un uomo e una donna. Il demonio non c'entra, te lo assicuro! Sono solo dicerie e superstizioni”.

Non ho mai visto gemelli!”.

Nemmeno io, fino ad oggi”.

Prudie si avvicinò al letto, toccando la mano di uno dei due bambini. “Questo chi sarebbe? Il maschio?”.

No, lei è Daisy Alexandra Charlotte” - disse, elencando anche il secondo e terzo nome scelto con Hugh nei mesi precedenti.

Giuda! La dobbiamo chiamare con tutti questi nomi?”.

Demelza rise. “No, sarà solo Daisy ovviamente. E Demian Philippe Luis sarà solo Demian”.

Prudie guardò la neonata, studiandola attentamente e guardandola in cagnesco. “Come fai a sapere che è la femmina? Sono uguali, avvolti nella coperta”.

Demelza alzò le spalle. “Sono la loro madre, li riconoscerei anche al buio”.

La donna sbuffò, prendendo la bambina in braccio con un gesto brusco e Demelza non fece in tempo a dirle di fare piano che la piccola le aveva già rigurgitato del latte sul vestito.

Prudie ringhiò. “Lo vedi? Questa qua fa già disastri! Vedi che non c'è da fidarsi di questi due, ragazza?”.

Sospirò, allungando le braccia per riprendere la sua bambina. “Prudie, ha appena mangiato ed è nata da poche ore, non agitarla troppo, altrimenti...” - concluse, indicando la chiazza di latte sul petto della sua serva.

Prudie osservò ancora più di sbieco i bambini. “No ragazza, a me questi due non la contano giusta! Questi ci metteranno a ferro e fuoco la casa! Londra! L'Inghilterra! Oltre alla Scozia... Ricorda queste parole quando li vedrai portare in riformatorio!”.

Prudie...” - la implorò.

La donna osservò Demian. “Quello si vede che è maschio!”.

Da cosa lo vedi?”.

Come tutti i maschi, per tenerlo buono basta metterlo fra le braccia di una donna col viso contro il suo seno... Si azzittiscono subito!”.

Demelza sospirò, le prese la mano e sorrise. “Grazie... Senza di te sarei persa... Sarei stata persa... Ti prenderai cura dei gemelli? Gli vorrai bene come ne vuoi a Jeremy e Clowance?”.

Prudie le diede un buffetto sulla guancia, decidendo di andare per farla riposare. “Oh, gli vorremo bene a questi due, certo! Come a master Jeremy e miss Clowance. Li raddrizzerò io questi due! Ma posso tenermi le mie riserve per ora? Posso non fidarmi?”.

Demelza sorrise, stringendo a se i due piccoli. “Certo, come no? Ma vedrai che ti sbagli...”.

Vedremo...” - rispose Prudie, sparendo dietro alla porta.

Demelza si gettò sul letto, stringendo Demian sul suo petto e abbracciando Daisy. “E' scorbutica ma una brava persona. E' come se fosse la mia mamma... Non datele retta, io e papà lo sappiamo che siete bravi bambini! Vedrete che lo capirà anche lei”.

Daisy si stropicciò gli occhi, rannicchiandosi sotto la copertina, Demian sbadigliò stringendo la sua camicia da notte con la manina, ribadendo silenziosamente che lui dal suo petto non si sarebbe spostato e che non ammetteva repliche.

E Demelza si rese conto che ora tutto il suo passato doveva davvero essere lasciato alle spalle e che la sua casa e il suo futuro sarebbero stati per sempre lì, a Londra.

Quella era la sua casa, adesso e per sempre!

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitre ***


Quella Vigilia di Natale furono i gemelli a salvarla dal dover partecipare a una grande festa. I bambini erano troppo piccoli per essere lasciati soli a lungo, lei era ancora reduce dalle fatiche del parto, si stava abituando a quella nuova vita con due figli in più e con Hugh erano riusciti così a spuntarla con la voglia di un grande ricevimento di Lord Falmouth, organizzando una piccola cena in famiglia e fra amici con presenti solo Caroline e il suo pancione, Dwight, Margarita e all'ultimo un amico/nemico dello stesso Falmouth, un tal Lord Bassett che era arrivato in visita con la moglie e la figlia Emily, una coetanea di Clowance.

Come aveva sognato Margarita fin da bambina, avevano passato la serata bevendo cioccolata calda davanti al calore del camino, raccontandosi storie dell'orrore che, invece che spaventare i piccoli di casa, avevano finito per farli ridere, Lord Bassett e Lord Falmouth si erano stuzzicati con strani anedotti circa la camera dei Lords che nessuno a parte loro aveva capito e i bambini erano stati sommersi di regali, avevano giocato assieme attorno all'albero, Lady Alexandra aveva allietato la serata suonando l'arpa, i due Lords e i poveri Hugh e Dwight, praticamente costretti, avevano discusso di politica e povertà bevendo wisky davanti al camino e lei aveva chiacchierato con le altre donne di maternità e neonati, rispondendo alle mille domande della moglie di Lord Bassett sul mondo dei gemelli. Non che ne sapesse molto, erano nati da soli quattro giorni, ma sembravano destare grande curiosità nelle altre donne.

Daisy dormiva nella carrozzina, a braccia aperte, serafica e incurante del chiasso attorno a lei. Era una bambina dal carattere deciso, nonostante avesse il viso di un angioletto biondo. Soffriva di tanto in tanto di coliche, piangeva spesso, ma non amava stare in braccio. Ci stava solo se aveva male alla pancia o se era sveglia, ma quando voleva dormire voleva uno spazio solo per se. La culla e la carrozzina erano sua esclusiva proprietà e suo fratello non vi era ammesso.

Demian invece era un tesorino che amava sempre stare in braccio, che le afferrava i capelli o la stoffa del vestito per non perdere il contatto con lei, che la cercava sempre e che piangeva se non l'aveva vicina al momento di dormire. Voleva solo lei e in braccio a Hugh, Jeremy o Clowance ci stava poco. Poi iniziava a cercarla, a piangere disperatamente e smetteva solo quando lei lo stringeva nuovamente fra le sue braccia. Lady Alexandra desiderava comprare una seconda carrozzina visto che i bambini erano due ma l'istinto materno di Demelza le suggeriva che per Demian sarebbe stata inutile. Non ci sarebbe stato, avrebbe pianto come un matto e quindi aveva convinto sua suocera a spendere quel denaro in altro modo, donandolo in beneficenza.

Essere mamma e essere parte della famiglia Boscawen aveva indubbiamente molti vantaggi: era aiutata, c'era sempre qualcuno pronto ad alleggerirle il peso di dover gestire due neonati, disponeva di ogni comodità per se e per i bambini, cibo di prima scelta, servitori assunti unicamente per far star bene lei e i suoi figli e questo era fantastico ma...

Ma era troppo...

Lei non era una da tate o carrozzine, lei era nata in un posto dove le mamme partorivano in campagna figli che tenevano in braccio mentre lavoravano nei campi, che si alzavano dal letto poche ore dopo aver partorito e che lottavano per mettere insieme un pò di cibo per i propri bambini. Certo, era comodo essere tanto seguita e coccolata da tutti, ma le sembrava davvero un enorme spreco di persone e denaro tutto ciò che la circondava. Se era stanca c'era subito una servitrice che si proponeva di tenerle i bimbi mentre dormiva e dopo una notte in cui Daisy aveva strillato per ore aveva ceduto, ma poi al risveglio, senza i suoi bambini accanto nel letto, si era sentita persa e aveva deciso che da lì in poi avrebbe fatto sempre da sola.

I gemelli erano creature strane, misteriose ed affascinanti. E forse un pò magiche, come diceva Prudie, per quella strana ed evidente capacità che avevano di sapere sempre tutto l'uno dell'altro anche ora che non erano più insieme nella pancia. Si somigliavano molto fisicamente ma avevano modi di fare diversi nonostante la fortissima alchimia fra loro, che si percepiva a pelle. Daisy non voleva accanto Demian quando dormiva ma quando erano entrambi svegli, sembravano collegati da un filo invisibile. Se li metteva vicino si cercavano con le manine, si toccavano, si annusavano, si abbracciavano forte, come sapendo meglio di tutti il grande legame che li univa... E se uno dei due piangeva per un malessere, l'altro sembrava agitarsi anche se era magari in un'altra stanza. Era come se una mano invisibile li collegasse sempre, facendoli sentire uniti e vicini come lo erano stati per nove mesi e come forse sarebbero stati sempre.

Era una Vigilia di Natale serena, felice, intima ed allietata dall'arrivo anticipato dei due neonati e dalla gioia che avevano portato con se.

Demelza era stata ricoperta di regali da Hugh e dalla sua famiglia, Jeremy e Clowance le avevano fatto un biglietto di auguri ancora più elaborato e bello dell'anno precedente corredato dei loro disegi sui fratellini nuovi e la casa era un tripudio di luci e festoni.

Un Natale così intimo, circondata da chi amava e tanto diverso da quelli che aveva vissuto da piccola in Cornovaglia con un padre ubriaco prima e un marito assente poi...

Adoro il tuo ciondolo!” – esclamò Caroline, osservando la preziosa collana adornata con un diamante che Demelza aveva al collo.

Arriva dalle colonie? E' un gioiello splendido” – chiese Lady Bassett.

Non ne ho idea”. Demelza sospirò, sfiorando il gioiello e pensando alla sorpresa avuta ricevendo quel regalo da sua suocera e Lord Bassett tre giorni prima, quando erano andati a farle visita per conoscere i gemelli. “E’ un regalo per la nascita dei bambini. Mi sembra tanto strano venir premiata per aver messo al mondo dei figli, ma a quanto pare funziona così quì, a Londra”. Era strano, non capiva come la nascita di un figlio, un avvenimento assolutamente naturale nel corso della vita, potesse venir premiato con un regalo tanto prezioso il cui valore, quando viveva in Cornovaglia, avrebbe addirittura potuto aiutare tutti i minatori del distretto di Truro a passare un Natale sereno, ma ai Boscawen farle quel dono era sembrata una cosa assolutamente dovuta e necessaria. Naturale... Non che non le facesse piacere ma non riusciva ad abituarsi a quel mondo e a quelle abitudini che doveva far sue, prima o poi.

Caroline rise. “Quando una donna partorisce, un regalo E’ DOVUTO!” – esclamò, facendo attenzione a farsi sentire da Dwight.

Demelza, Margarita e Lady Bassett risero, Dwight sbuffò, Hugh le diede un’occhiata d’intesa dal divano e Daisy si agitò nella carrozzina.

Si sta svegliando, temo…” – osservò lady Bassett.

Demelza annuì, ormai conosceva bene orari e abitudini dei gemelli. “La sera piange sempre un po’, le viene mal di pancia”.

Che incubo…” – sbuffò Caroline. “E l’altro… te lo tieni sempre in braccio? Da quando è nato ce l’hai sempre addosso”.

Demelza strinse a se il piccolo Demian. “Adora il contatto fisico, è piccolo ed è nato con due settimane di anticipo. Ha bisogno della mamma e io amo sentirlo vicino…” – sussurrò, baciando la testolina del figlio.

"La femmina può fare a meno di te, direi... Ama la sua carrozzina più di te!" - osservò l'ereditiera.

"Ogni bambino è diverso, anche i gemelli" – le rispose, dando un'occhiata alla piccola.

Caroline scoppiò a ridere. “Abbiamo capito chi è il cocco di mamma, dei quattro! Lo vizierai così…”.

Demelza sospirò, era inutile cercare di ribattere e presto Caroline avrebbe capito da sola che coi figli bisognava improvvisare man mano che si conosceva il loro carattere.

Margarita osservò Daisy che iniziava ad agitarsi. “E’ così carina! Anche io voglio fare tanti bambini”.

Demelza si accigliò, guardò Caroline con sguardo di intesa e poi di nuovo Margarita. In effetti, nella concitazione del travaglio, si era dimenticata di lei ed Edward e non aveva più pensato ai possibili esiti del suo perfetto piano di wedding planner al ricevimento di quattro sere prima. “A proposito… Com’è andata poi con Edward?.

Gli occhi di Margarita scintillarono. “Ohhhh Demelza, è stato così bello chiacchierare con lui che non mi sono accorta dello scorrere del tempo e del fatto che te n’eri andata perché stavi male. Scuuusaaaa!!! Sono una amica pessima”.

Ah, lascia perdere me e il mio parto e racconta!”.

Lo rivedrò dopo Capodanno! Mi ha invitato a un ricevimento a casa dei suoi genitori nella loro tenuta di campagna”.

Lo hai baciato?” – chiese Caroline, maliziosamente.

Margarita arrossì. “Baciato? Ohhh no, non così presto! Bisogna aspettare i tempi giusti…”.

Demelza la guardò, era così impacciata ancora, così poco decisa e tanto infantile che le faceva tenerezza. Sospirò… “Margarita, aspettare i tempi giusti? Santo cielo, ti ho conosciuta due anni fa e già eri innamorata di Edward mentre io nemmeno ci pensavo a un nuovo amore e a un matrimonio! Com’è che in due anni io ho conosciuto Hugh, l’ho sposato e ci ho fatto due gemelli e tu stai ancora aspettando il momento giusto per baciarlo?”.

Margarita sospirò e Caroline fece lo stesso. “Mia cara, tua madre ha anche un po’ ragione però…”.

Lo so…” – sospirò Margarita. “Ma a breve lo farò, giuro!”.

Demelza le sorrise, abbracciandola. “Ecco brava, inizia dal bacio e poi, MOLTO poi, pensa ad avere figli…”.

Caroline le strizzò l’occhio. “Parte tutto da un bacio” – disse, accarezzandosi il pancione.

E su quelle parole, Daisy, la conseguenza di un bacio e molto altro, iniziò a strillare, attirando su di se le attenzioni di tutti. Demelza sospirò, prendendo in braccio anche lei. “Le coliche, di nuovo…”.

"Anche la mia Emily ne soffriva, poi passano" – osservò lady Bassett accarezzando i capelli biondi della piccola che strillava come un'ossessa, diventando completamente paonazza in viso.

Hugh le si avvicinò coi bambini, preoccupato. “Il pancino?”.

Anche Dwight arrivò, accarezzando la schiena della piccolina. "E sì. Bisogna avere pazienza, sono cose comuni nei neonati, col tempo si sistemerà".

Sì, non mi preoccupo troppo ma mi spiace vederla piangere così” – rispose Demelza mentre anche Demian, svegliato dalla sorella, iniziava a strillare. “Scusatemi tutti ma credo sia ora che io mi ritiri in camera coi bambini e vi lasci proseguire la festa senza i loro strilli. E’ tardi per loro, li porto a letto e chiedo a Prudie di fare a Daisy una camomilla per calmarla”.

Jeremy le si aggrappò alla gonna. “Ma mamma… Noi vogliamo andare fuori a giocare con la neve, vieni con noi”.

Gli sorrise, accarezzandogli i capelli. “Amore, come faccio coi gemelli? Lo vedi come piangono?”.

Fu Clowance a trovare la soluzione. “Li regali a qualcuno e vieni con noi. Così non li sentiamo più, piangono sempreeee”.

Hugh e Demelza si guardarono divertiti negli occhi davanti a quell’evidente esternazione di gelosia di Clowance. “Tesoro, nessuno vorrebbe bambini così piagnucoloni, dobbiamo tenerceli, temo… Tu e Jeremy uscite con papà e con gli altri a giocare e io vi aspetto tranquilla in camera”. Papà... Ogni volta che definiva in quel modo Hugh provava gioia per i suoi figli che avevano bisogno di avere quella figura nella loro vita ma allo stesso tempo un groppo alla gola per l'uomo che li aveva messi al mondo e invece di amarli e proteggerli, li aveva gettati via e rinnegati come si fa con un panno vecchio... Ma era Natale, era una festa e tutto andava bene, doveva essere felice e basta! "Su forza, tutti fuori da quì".

Sei sicura?” – chiese Hugh. “Non vuoi che resti con te?”.

Demelza guardò gli ospiti e decise che no, lui doveva rimanere con loro. Era stanca, aveva bisogno di stendersi un po’ e per i gemelli era troppo tardi e necessitavano di pace. Hugh era dolce, tentava sempre di aiutarla coi bambini ma non era ancora capace – e forse mai lo sarebbe stato – di prendersi cura in maniera efficente di loro e non sarebbe comunque stato in grado di calmarli. Inoltre Lord Falmouth pretendeva da lui che facesse gli onori di casa e ritirarsi in camera con lei e i bambini mentre gli ospiti erano ancora presenti... sarebbe stato poco onorevole... “Gioca coi bambini, godetevi la neve, i regali e il Natale e quando la festa è finita, venite a letto. Non preoccupatevi per me…”.

Hugh annuì poco convinto ed entusiasta ma poi sorrise, prese i bimbi in braccio e dopo averle dato un bacio, uscì con gli ospiti in giardino per finire lì la serata.

E Demelza, dopo aver salutato le sue tre amiche e aver augurato loro buone feste, si ritirò nelle proprie stanze, imitata da una stanchissima e assonnata Lady Alexandra che voleva darle una mano, prima di dormire, a calmare i gemelli.


...


Hugh rientrò dopo mezzanotte, con Jeremy e Clowance. I bimbi la salutarono, le diedero un bacio e fecero una carezza ai gemellini e alla fine lei li accompagnò a letto, lasciando i gemelli da soli con Hugh.

Quando Clowance e Jeremy si furono addormentati, tornò in camera e si sedette accanto a lui sul letto, mettendo i piccoli fra loro. Daisy dopo infiniti pianti e un biberon pieno di camomilla si era finalmente si era calmata e ora, esausta, si ciucciava il dito alla ricerca di tranquillità e sonno. Demian già dormiva ma Demelza sapeva che si sarebbe svegliato presto e quindi lo prese subito in braccio, mettendoselo sul petto in modo che proseguisse il suo sonno indisturbato.

Hugh, ancora preoccupato per il pianto della figlia a cui non era abituato e che ancora lo spaventava, si mise a sedere con la schiena contro il cuscino. “Perdo ogni volta vent'anni di vita, quando la sento piangere a quel modo”.

Demelza sorrise, accarezzando il pancino della piccola. “Non devi spaventarti, i neonati sono così, piangono spesso. E' il loro modo di comunicare qualcosa che non va o che desiderano. L'unico modo che hanno visto che non sanno parlare”.

E lei che cos'ha che non va?”.

Gli sorrise, era così apprensivo... Voleva fare mille cose per loro ma alla fine non ne portava a termine nessuna, non per cattiva volontà ma per inesperienza. “Aveva semplicemente male al pancino, ora le ho dato da bere della camomilla e le è passato. Niente di grave, succede spesso anche questo”.

Hugh sospirò. “Sai, mentre eri incinta ho letto un sacco di poesie sulla maternità e sui neonati. Ed erano tutte così dolci e delicate, che quasi stento a credere che un bambino possa piangere così. Insomma, nelle poesie che ho letto non si parlava di mal di pancia, pianti, coliche e notti insonni...”.

A quelle parole, Demelza rise. “Hai letto poesie sulla maternità scritte da uomini o donne?”.

Uomini”.

Gli strizzò l'occhio. “Mio caro, avresti dovuto leggere qualcosa scritto da una donna, su questo argomento. Avresti trovato una fonte di informazione più attendibile...”.

Hugh arrossì, sentendosi forse un po' sciocco davanti a quell'osservazione. Guardò la piccola Daisy che, finalmente, si era addormentata e poi la baciò sulla fronte. “Sei felice di avere avuto i gemelli?”.

Demelza si accigliò, mai le aveva posto quella domanda. “Certo, peché me lo chiedi? Mi hanno preso furiosamente a calci la pancia per quasi nove mesi, mi hanno fatta sembrare una balena, mi hanno quasi uccisa nel parto ma... sono i miei figli, li amo. Sono la mia vita” - concluse, addolcendo lo sguardo.

Non eri contenta però, quando hai scoperto di essere incinta”.

Lei gli sorrise dolcemente, accarezzandogli la guancia. “Hugh, quando ti ho conosciuto non ero alla ricerca di un marito, di un matrimonio e di altri figli. Quando ci siamo incontrati per la prima volta, la mia vita era a pezzi e non ero in grado di garantire un futuro ai figli che avevo già. Ma poi sei arrivato tu, mi hai dato nuovi orizzonti, amore, mi hai rassicurata e mi hai dato una casa. Per me e i miei figli. TUTTI i miei figli... Sei il loro papà... Le cose sono cambiate da quella festa di Natale di due anni fa e se questi bambini sono nati, è perché doveva essere così. Non mi sto a chiedere perché ci siano, i bambini bisogna accoglierli con amore e basta, senza chiedersi il motivo del loro arrivo. Sono una benedizione, sempre”.

Hugh le prese la mano, la guardò negli occhi e il suo sguardo si fece serio. “Dimmi una cosa”.

Cosa?”.

Mi ami?”.

Demelza si irrigidì, era la prima volta che gli chiedeva in maniera diretta anche questo. Dire 'Ti amo', era qualcosa da sempre estremamente difficile per lei, preferiva dimostrare i suoi sentimenti coi fatti piuttosto che con le parole e anche ai tempi in cui viveva con Ross non era stata tanto diversa. Provava sentimenti molto profondi per Hugh ma dubitava che avessero la stessa intensità di quelli che lui provava per lei. Lo amava? Il suo cuore, dopo quanto successo con Ross, si era forse chiuso alla vera essenza dell'amore, si era imposto di non provarlo fino in fondo e forse non era più in grado di amare con l'intensità di un tempo e questo lo sapeva anche Hugh perché lei stessa glielo aveva confessato, durante la prima notte d'amore con lui. O forse il vero amore è qualcosa che si può provare solo una volta nella vita. Sospirò, sperando di spiegarsi al meglio. “Esistono tanti tipi di amore Hugh e sì, ti amo. Per quello che sei, per quello che fai, per avermi fatto scoprire com'è essere amata come tu ami me”.

Hugh sorrise ma c'era tristezza nel suo volto. “Mi hai risposto ma è come se non lo avessi fatto...”.

Lo sguardo di Demelza si riempì di amarezza. Sapeva cosa intendeva dire e avrebbe voluto dirgli ciò che Hugh desiderava: che era pazza di lui, che viveva per lui, che il suo cuore gli apparteneva interamente. Ma era una bugia e Demelza sapeva di non essere capace di dirne, anche se a fin di bene, e sapeva anche che Hugh era in grado di leggerle fino in fondo all'anima e che non meritava una sua menzogna. Sapeva di volergli bene, un bene dell'anima, sapeva di esserne attratta, da lui e da quell'amore candido e pulito che sentiva per lei, ma sapeva anche che non si sentiva sua. Non del tutto, non come era con Ross. “Hugh, tu sei il padre dei miei figli e mio marito. Esistono tanti modi di amare e io non posso essere diversa da ciò che sono”.

A volte credo che tu voglia amarmi. Ma che non ci sia mai riuscita del tutto... Desideri amore e io te ne darò sempre, finché avrò vita. SEI la mia vita! Per me sei tutto Demelza, tu e i bambini. Ma so che il tuo cuore o una parte di esso è rimasto in Cornovaglia e non riuscirò mai ad averlo tutto per me. Anche se ti regalassi il mondo”.

Io non voglio che tu mi regali il mondo, non voglio niente più di questo. Una casa, una famiglia, un uomo che voglia bene a me e ai nostri bambini, dei figli sani, serenità... Il resto conta poco per me e forse l'amore vero è quello che mi dai tu, quello che ti da la pace e la serenità di affrontare la vita senza troppi pensieri e tensioni. Io sono questa che vedi, col mio passato che non ti ho mai nascosto e che tu hai accettato... E ho scelto di proseguire con te, ho scelto di darmi una nuova opportunità e di darla a noi e ti assicuro che non è stato facile e che l'ho fatto solo per te perché ti ritengo speciale. Ho amato un uomo per cui sono sempre stata un ripiego, l'ho amato più di quanto forse io abbia mai amato me stessa, l'ho amato sentendomi sempre infinitamente inferiore a ciò che lui era ai miei occhi. L'ho amato nonostante tutto il dolore e il male, l'ho amato per ciò che faceva, per come lottava per aiutare chi aveva attorno, l'ho amato anche se, quando ha dovuto scegliere, ha scelto la lady e non la donna che proveniva da quel mondo che voleva rendere migliore, l'ho amato e una parte di me continuerà a farlo e io combatto contro quella parte che mi impedisce di essere totalmente tua ma anche se a volte vinco una battaglia, mai riesco davvero a vincere la guerra”. Si rannicchiò fra le sue braccia, sentendo gli occhi pungerle perché sapeva di fargli del male in un certo senso, quel male che Ross con Elizabeth aveva inflitto anche a lei. Ma Hugh meritava la sua sincerità! Aveva accanto un uomo meraviglioso che meritava tutto il bene del mondo e sicuramente più di quanto lei riuscisse a dargli. Era vero, lei voleva amarlo e una parte di se stessa, quella più razionale, ci era riuscita. Avrebbe lottato per Hugh e per guarirlo dalla sua malattia anche se era una lotta impossibile da vincere, gli avrebbe dedicato tutta la vita e gli sarebbe rimasta accanto sempre, come moglie e madre dei suoi figli. Felice di esserlo! Ma Hugh aveva ragione, una parte del suo cuore, forse piccola ma dal potere immenso, era rimasta lontana, avvinghiata in una piccola casa vicino alle scogliere della Cornovaglia, accanto a un uomo che non l'aveva voluta e l'aveva cacciata e che ora viveva per un'altra donna. E lei ma anche Hugh sapevano di dover convivere con questa realtà per sempre. Ma ora aveva altri due figli, Jeremy e Clowance un padre e un cognome e lei una famiglia e amore e avrebbe chiuso per sempre a chiave quella parte della sua anima che le urlava che voleva rivedere Ross, lo avrebbe fatto per chi aveva attorno, per il bene dell'uomo che ora era suo marito e anche per se stessa perché quel capitolo doveva essere chiuso o quanto meno reso muto. Guardò i gemellini finalmente addormentati e sereni ed erano loro più di tutti a dirle che doveva andare avanti, che la sua vita e il suo cuore dovevano essere lì. “Hugh... ti sei mai pentito di esserti innamorato di me?”.

No, mai...”.

Nonostante Ross?”.

Hugh si fece serio, accarezzando la guancia di Daisy. “Sai, a volte mi verrebbe voglia di andarci in Cornovaglia, per vedere chi è. Mi dici che combatteva per mille ideali, per l'uguaglianza fra le persone, per un mondo migliore e senza privilegi eppure, come hai detto tu, quando ha dovuto scegliere per se stesso ha scelto la lady, la donna nobile... Non te! E sai cosa non mi piace di tutto questo?”.

Demelza deglutì. “Cosa?”.

Che Ross rappresenta tutto ciò da cui io ho sempre voluto fuggire di questa società. Mio zio mi vuole in Parlamento e il Parlamento è composto da tanta gente uguale a Ross, gente nobile, che ha goduto come me e lui di privilegi fin da quando è nata e che gioca a fare le leggi a favore dei bisognosi per alleggerirsi una coscienza che sa di vivere bene sfruttando il dolore di chi vive a stento. Ross, il tuo ex marito, non era un idealista, era come tutti gli altri, una persona che cercava di vivere meglio con se stesso e col potere che rappresentava, cercando di aiutare chi giudicava inferiore. Io so di essere fortunato, so di aver vissuto nella bambagia e mi ci trovo bene, so di avere più degli altri e so anche che non saprò rendere il mondo un posto migliore, di non averne le capacità e quindi vivo nel ruolo che il destino mi ha assegnato, inseguendo quelle che sono le mie vere passioni. Ora ci sono i bambini, ci sei tu e ho una famiglia e cerco di imparare da mio zio e di fare ciò che lui desidera ma mi sento un ipocrita... Chi fa politica appartiene alla classe nobiliare e il fine ultimo è quello di arricchire sempre più chi è già ricco. Alla Camera dei Lords non c'è nessuno che ci si reca per puro spirito filantropico”.

Demelza abbassò il capo, riflettendo su quelle parole, sulla visione pessimista di Hugh e sull'idea che si era fatto di Ross in quegli anni. Mai aveva parlato di lui, era la prima volta che ne discutevano e ciò che aveva appena detto poteva mettere in discussione tutto quello in cui lei aveva sempre creduto. Ma non lo fece, nonostante Ross le avesse fatto tanto male lei sapeva cosa muoveva il suo animo e non era ciò che affermava Hugh. “Ross era diverso... Non lo dico perché era mio marito e perché mi senta ancora legata a lui, Ross ci credeva davvero in quel che faceva. Non avevamo denaro, rischiavamo di finire in strada ma lui lottava per i suoi minatori mettendo a loro disposizione ogni singola moneta che finiva nelle sue tasche. Lo faceva col cuore, non ci dormiva la notte pensando a delle soluzioni per loro e non lo faceva per alleggerirsi la coscienza... Su questo, anche adesso, ci metterei la mano sul fuoco!”.

E allora perché ha scelto la lady?”.

Non ha scelto la lady, ha scelto l'amore. Avrebbe scelto lei anche se fosse stata la più povera fra le donne della Cornovaglia... La amava, Hugh. La amava come tu ami me, con lo stesso coraggio di sfidare le regole per stare con lei che hai avuto tu sposando me”. Faceva male dirlo, forse pensare che Ross avesse scelto semplicemente la più nobile sarebbe stato meno doloroso, ma non era la verità.

Hugh annuì, chinandosi a baciarla. “Ha fatto la scelta sbagliata. Ha lasciato una fata per una che...”.

Dovresti vederla Hugh, prima di giudicarla. Forse, se la incontrassi, la penseresti come Ross”.

Ne dubito”.

Gli sorrise dolcemente, appoggiando la fronte alla sua. “Elizabeth è una bellissima donna, nata e cresciuta per essere ammirata...”.

Lo sei anche tu, Demelza...”. La baciò sulle labbra, stringendola a se coi bambini. Osservò i suoi figli e il suo sguardo si fece stranamente cupo, nonostante la serata fosse stata inizialmente allegra e leggera. “Demelza, fammi una promessa”.

Quale?”.

Hugh accarezzò i capelli biondi dei gemelli. “Quando cresceranno, ci saranno pressioni fortissime su di loro. Lo so perché ho vissuto io stesso aspettative sul mio ruolo in società che poi ho disatteso. Mio zio li ama questi bambini ma si aspetta qualcosa da loro... Proteggili! Fa che possano essere ciò che VOGLIONO e non ciò che DEVONO essere”.

Quelle parole inaspettate e la loro serietà accesero in lei una strana inquietudine. Sembrava quasi un testamento, un lascito, quello... E non le piaceva per niente. “Perché mi stai dicendo queste cose? Stai male di nuovo?”. Ultimamente aveva avuto spesso mal di testa e di sera, Hugh faceva leggere a lei la fiaba ai bambini e si limitava ad ascoltarla. Questo le era sembrato strano, gli aveva chiesto se la sua vista fosse peggiorata ma lui aveva risposto che le faceva leggere le fiabe perché era più brava di lui a farlo, ma ora... “Hugh...”.

Hugh strinse a se Daisy. “Sono malato, lo sai anche tu che potrebbe...”.

Non voglio parlarne... Ora stai bene...”.

Pallido in volto, le accarezzò il viso. “Sai che non durerà, sai bene che questo stato di benessere che vivo da quando ci sei tu è un dono inaspettato. Vorrei vederli crescere questi bambini, saranno uno spasso fra qualche anno, ma sono consapevole che probabilmente non succederà. E lo sai anche tu! Daisy e Demian saranno la mia impronta nel mondo, tu hai reso possibile tutto questo e sono felice, nonostante il destino che mi attende, di saperli con una madre come te che li proteggerà e li farà crescere e diventare brave persone. Fa che vivano la loro vita come vogliono, ti chiedo solo questo e ti prego, dimmi che lotterai perché sia così. So che non potrò mai possedere del tutto il tuo cuore ma so che lo saprai donare interamente a loro e questo è tutto quello che voglio davvero per me, tutto quello che posso chiedere alla donna che amo”.

Demelza sentì il cuore intenerirsi e poi frantumarsi davanti a quelle parole, faceva male pensare che forse, presto... Ma doveva essere forte perché per quanto male facesse a lei, era nulla in confronto al dolore di lui che sapeva di non poter vedere diventare grandi quei bambini che tanto amava. “Te lo prometto. Per i miei figli so diventare una tigre. Lo hai detto tu, ricordi?” - sussurrò, sforzandosi di usare un tono leggero.

Hugh sorrise. “Promettimi un'altra cosa”.

Certo”.

Che quando non ci sarò più, non permetterai che il lutto e la tristezza facciano da padroni in questa casa. Non voglio! Voglio immaginare quattro bambini contenti, sereni, felici di vivere, che scorrazzano nei corridoi e nei giardini, che giocano, che litigano, che si fanno i dispetti e poi fanno pace e vanno a dormire volendosi bene più di prima. Fa che questa casa sia piena di risate infantili, è solo questo che voglio per i miei figli”.

Lo baciò sulle labbra, a lungo, sentendosi forse davvero per la prima volta come fusa con lui e con i suoi sentimenti. Mai si era sentita così vicina a Hugh, nonostante quei meravigliosi anni vissuti insieme. Non c'erano poesie, fate, principesse o poemi, davanti a lei aveva il suo uomo che aveva messo a nudo i suoi sentimenti e le sue paure, rendendola partecipe del suo intimo più profondo, facendola sentire davvero sua moglie in tutto e per tutto per la prima volta. Ed ora vedeva Hugh per ciò che era, non solo un poeta sognatore romantico ma un uomo e un padre che parlava della cruda realtà e del destino avverso che prima o poi avrebbe affrontato, col suo carico di dolore e paure. Un uomo... Non più solo un poeta... In quel momento erano un uomo e una donna, due sposi, che forse per la prima volta da quando si conoscevano avevano saputo mettere a nudo la propria anima e proprio per questo, finalmente, si sapevano sentire una cosa sola.

Demelza pensò alle sue parole, al suo dolore e ai suoi desideri e decise che avrebbe sputato sangue, se necessario, per tener fede a quelle promesse. Una casa piena di risate infantili... Se fosse successo qualcosa a Hugh sarebbe stato difficile da superare ma decise che ce l'avrebbe fatta, che doveva essere felice anche per lui, assieme ai suoi bambini. “Ti prometto questo e tutto quello che vorrai”. Lo baciò sulle labbra, lentamente.

So che lo farai, Demelza”.

Gli sorrise, non voleva più parlare di cose tristi ora. “E' una notte lieta questa, una notte magica e come tale dovremmo trattarla. Dobbiamo sorridere, Hugh. E' la notte di Natale... Il nostro terzo Natale insieme...”. Nel primo si erano conosciuti, nel secondo lui l'aveva condotta orgogliosamente a casa sua presentandola alla sua famiglia ed ora erano loro stessi una famiglia a cui si erano aggiunti due nuovi bambini. “Il quarto Natale cosa ci porterà?”.

Hugh non rispose, si limitò a stringerla a se. Al quarto Natale non voleva evidentemente pensare...

E nel buio della stanza, Demelza ripensò a quei tre ultimi Natali: Il primo era stato quello delle fiabe, il secondo l'inizio di una nuova famiglia, il terzo il raggiungimento della maturità, un punto di arrivo.

E davanti a questo pensiero decise che nemmeno lei voleva pensare a cosa avrebbe portato il quarto Natale.


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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


Hugh camminava nei corridoi ormai bui della casa, il suo mal di testa sempre più forte e le sue forze sempre più esigue, come la sua vista che era tornata a peggiorare.

Aveva vissuto due splendidi anni di benessere, intervallati solo da brevi, seppur violente, crisi che avevano messo a repentaglio la sua salute e fatto preoccupare tutti ma che poi erano passate. Ma nell’ultimo mese di gravidanza di Demelza, le cose erano iniziate nuovamente, seppur impercettibilmente per gli altri, a peggiorare e non avevano mai smesso di farlo. Inizialmente erano mal di testa sporadici che lo colpivano la sera e che passavano poi col sonno ma poi quel malessere era diventato strisciante e persistente e benché il dolore fosse tollerabile e facilmente nascondibile, era diventato continuo. Poi era subentrata una fastidiosa febbriciattola che a Demelza aveva spacciato per influenza stagionale, deciso a non turbarla in prossimità del parto.

Hugh si conosceva, sapeva che qualcosa di grave e latente si agitava in lui da anni e che presto avrebbe chiesto il conto ma la felicità vissuta da quando aveva conosciuto la sua fata era riuscita quasi per magia a renderlo immune dalla malattia, a lungo.

La nascita dei gemellini era stata l’apice della sua felicità e benché non fosse in forma, aveva vissuto quell’evento con gioia assoluta, gustandone ogni attimo. I bambini erano felicissimi dei nuovi fratellini, i gemelli erano sani e bellissimi e Demelza era radiosa quando era circondata dall’amore della sua famiglia.

Tutto bello, idilliaco… Avere una famiglia lo aveva costretto a prendersi delle responsabilità e a scendere a patti con suo zio ma era una cosa che faceva per le persone che amava e che avevano dato un senso alla sua vita e benché politica e finanza non fossero il suo mondo e non facessero parte del suo essere, aveva accettato di diventare il Boscawen che la sua famiglia aveva sempre desiderato.

Era un marito e un padre, ora, oltre che un poeta. Amava una donna che giudicava unica, meravigliosa, dal passato difficile e con un velo di tristezza sempre presente negli occhi, che aveva accettato coraggiosamente di essere la sua compagna, pur con mille se e ma. Una donna che lo aveva reso padre di due meravigliosi e miracolosi gemellini e di due bambini senza papà. Avere accanto Jeremy e Clowance e con essi la fiducia che in lui aveva riposto la loro madre, era il dono più grande che Demelza gli avesse mai fatto.

In un certo senso, pur conoscendo il fantasma di Ross Poldark sempre fra loro e il pericolo dato dalla sua malattia, Hugh sperava che quel momento magico durasse per sempre, anche fra mille malesseri.

Ma tre settimane dopo la nascita dei bambini, mentre era nello studio di suo zio, aveva avuto delle violente vertigini ed era finito sul pavimento, svenuto. E quando si era ripreso, era stato talmente male di stomaco che Lord Falmouth aveva fatto chiamare frettolosamente Dwight Enys che non aveva potuto far altro che sentenziare il peggioramento della sua malattia.

Suo zio gli aveva imposto riposo ma, nonostante desiderasse allontanarsi da politica e burocrazia, questo avrebbe significato rendere partecipe Demelza del peggioramento delle sue condizioni di salute. E non voleva, non ora!

Sua moglie aveva appena partorito i gemelli, stava gustando la gioia della maternità e non voleva rovinare quello stato di grazia finché non fosse stato impossibile nasconderle il peggioramento del suo male. Così aveva imposto il silenzio a suo zio e a Dwight e aveva continuato a lavorare, pur con sempre maggiore fatica. E lo aveva fatto per quasi tre mesi anche se Demelza spesso gli chiedeva cosa avesse che non andava ed era troppo intelligente per non capire e per nasconderle a lungo le sue condizioni. Troppo intelligente perché ci credesse. Cercava di essere normale con lei, di scherzare, ridere, di mantenere le loro vecchie abitudini e di essere un marito presente e attento ma diventava via via sempre più difficile. La baciava spesso, dopo due mesi dalla nascita dei bambini aveva ripreso a fare l’amore con lei ma ogni volta, nonostante il piacere e l’estati che il corpo della moglie fuso con il suo gli procurava, sentiva il timore che fosse l’ultima…

Aveva paura… La morte faceva paura anche all’uomo più coraggioso e lui non era un’eccezione. Sapeva che quella crisi iniziata in novembre non era una crisi come le altre, si rendeva conto delle sue forze sempre più esigue e ogni volta che guardava i suoi bimbi gli si stringeva il cuore all’idea di non vederli crescere e scoprire che persone sarebbero diventati. Li voleva felici, sapeva che lo sarebbero stati con accanto una madre come Demelza ma l’idea che il tempo con loro fosse tanto limitato lo annientava… Faceva male pensare a quei figli che nessuno avrebbe mai pensato venissero al mondo, a cui non avrebbe mai potuto fare da padre.

Camminò nel corridoi diretto alla sua stanza sentendo nuovamente i brividi della febbre addosso ma doveva cercare di dissimulare, per quanto possibile. E godersi anche quella sera la sua famiglia…

Stava per arrivare alla sua stanza quando vide Jeremy che, con un quaderno in mano, sgattaiolava nel corridoio come un ladro. Adorava quel bambino, era quello coi gusti e il temperamento più simile al suo e ogni cosa che avevano fatto insieme aveva arricchito e reso felice entrambi. Era colui che lo aveva reso padre prima di tutti. Giocare, chiacchierare, costruire qualcosa con Jeremy lo aveva cresciuto e reso un uomo migliore. “Dove scappi come un ladro? E’ tardi…”.

Jeremy, colto in fallo, sussultò. “Papà, ecco… Fuori… Nella casetta sull’albero. Ed è un segreto, non dirlo a mamma”.

Hugh osservò la finestra, era ormai buio e anche se era marzo inoltrato, faceva ancora decisamente freddo. “Perché?”.

Jeremy gli mostrò il quadernetto che aveva in mano. “Devo finire i compiti e nella casetta mi concentro meglio che in camera. Tanto lo sai, fra un po’ Daisy inizia a strillare e nessuno potrà più dormire o fare qualcosa”.

Hugh ridacchiò, pensando agli strilli della sua adorabile principessina. Aveva creduto, durante la gravidanza, che i bambini fossero delle angeliche e delicate creature ma Demian e Daisy gli avevano dimostrato subito il contrario. I neonati sono forti, tenaci, sanno cosa vogliono e quando piangono riescono a far tremare i vetri. Accarezzò i capelli di Jeremy, lunghi fino al collo e pieni di boccoli come quelli della madre. Era un bambino dolce, gentile ed adorabile, oltre che intelligente. “Senti, facciamo così! Ti aiuto io a finire i compiti” – propose, come aveva già fatto molte volte da quando, a settembre, Jeremy aveva iniziato i suoi studi con un precettore.

Il bimbo sorrise. “Va bene…” – esclamò, prendendolo per mano e rientrando con lui nella stanza.

Si sedettero alla scrivania e Hugh lo prese sulle ginocchia. “Che devi fare?”.

"Cosa sono gli aggettivi?".

"Parole che servono a descrivere una persona. Perché?".

Jeremy sbuffò. "Il maestro vuole che scrivo due aggettivi per ogni persona della mia famiglia. Mi aiuti? Tu sei bravo a scrivere e a trovare le parole, papà!".

Hugh sorrise, nonostante la malattia e i problemi alla vista, la scrittura rimaneva il suo punto forte. "Certo che ti aiuto! Tu come ti descriveresti?".

"Bello e simpatico!" - rispose il bimbo, sicuro, iniziando a scrivere lentamente con una scrittura ancora incerta.

Hugh rise, viva la modestia! "E Clowance?".

Jeremy incrociò le braccia, pensieroso. "Femmina e... come si chiama chi si guarda sempre allo specchio?".

"Vanitosa".

Jeremy annuì. "Femmina e vanitosa!". Scrisse soddisfatto, poi però si bloccò, imbronciandosi. "Ma non è giusto!" - esclamò, come se si fosse accorto solo in quel momento di un particolare che gli era sfuggito.

"Cosa?".

"Il maestro è cattivo, doveva darmi questo compito prima di Natale! Almeno avrei avuto due persone in meno da raccontare".

Hugh scoppiò a ridere e si sentì come se l'ingenuità di Jeremy, le sue esclamazioni infantili e quella tranquillità casalinga potessero proteggerlo dal male che lo divorava. "I gemelli! Parli di loro? Ti è andata male, devi trovare degli aggettivi anche per i tuoi due fratellini nuovi, visto che sono nati. Com'è Demian?".

"Mammone... E frignone!".

Hugh sospirò. In effetti, come dargli torto? Il bimbo stava sempre in braccio a sua madre e se la sentiva allontanarsi, piangeva disperatamente. "E... Daisy?".

Jeremy ridacchiò. "Prudie dice che è una fetente!".

Hugh sollevò un sopracciglio... Sì, come definizione FORSE era azzeccata, ma non era il caso di scrivere quella parola e dar adito a certe voci, anche se in effetti la gemellina pareva già molto furba e sicura di quel che voleva... "Al maestro l'aggettivo 'fetente' non piacerebbe. Cerchiamone altri... Urlatrice folle... Che ne dici?".

"Sì. E' pure vero, papà, da quando è nata abbiamo tutti il mal d'orecchio. E poi... furba! Comanda lei".

Hugh sospirò. Era vero anche questo...

"E la mamma? Come la descriviamo, Jeremy?".

Il bambino si rannicchiò fra le sue braccia, ridendo. "Dimmelo tu! Sei bravo a trovare le parole per la mamma".

Lo baciò sulla punta del nasino, scompigliandogli poi i capelli con la mano. "Bella come una fata, forte come una tigre" – sussurrò, immaginandola nella sua bellezza e nella sua dolcezza che gli apparivano come il dono più bello che madre natura avesse fatto a lui e alla terra facendola nascere. Non c'era definizione migliore di Demelza per lui che l'aveva conosciuta in una notte di nebbia e di fate e l'aveva vista tenere in braccio con assoluta naturalezza un cucciolo di tigre, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.

Gli occhi vivaci di Jeremy brillarono e lo abbracciò, sprofondando il viso contro il sul petto. "Ti voglio bene, papà! Mi piace come sei sempre bravo e dici cose belle della mamma".

Si sentì orgoglioso e fiero di se stesso per quelle parole che Jeremy gli aveva rivolto e di cui si sentiva onorato. Non aveva mai combinato molto nella sua vita ma per fortuna, con Demelza, qualcosa di buono lo aveva fatto. Guardò Jeremy, il suo piccolo Jeremy, negli occhi, sperando di potergli insegnare qualcosa, oltre agli aggettivi, che gli fosse utile da grande. "Certo, bisogna sempre essere gentili e trattar bene le donne che amiamo. Ricordalo quando sarai grande e avrai una fidanzata e una moglie".

Jeremy annuì. "Va bene, sarò gentile con la donna che mi piace".

"Bravo".

Jeremy sorrise, riprendendo in mano il foglio dove aveva scritto gli aggettivi. "Manchi tu!".

"Cercali da solo, due aggettivi per me".

"Papà... e bravo...".

"Papà non è un aggettivo" – osservò Hugh.

Jeremy scosse la testa, in disaccordo. "Sì! I papà sono gli uomini bravi con le mamme e coi loro bambini. E' un aggettivo che descrive poche persone, mica tutti gli uomini sono papà. Mica tutti sono capaci di esserlo".

Hugh si chiese se dietro a quelle parole ci fosse un riferimento nascosto a Ross ma decise di non chiedere. Non voleva sapere, non voleva che l'ombra di quell'uomo sconosciuto si formasse anche fra lui e quel bambino che amava quanto sua madre. E così annuì, fece per ribattere che forse era d'accordo con lui e quando fece per parlare, gli strilli di Daisy nella camera matrimoniale dall'altro lato del corridoio giunsero alle orecchie di entrambi. "Inizia lo spettacolo serale, a quanto pare" – esclamò, mettendolo a terra. "Andiamo dalla mamma?".

"Sì" – rispose Jeremy, prendendolo per mano.

Riposero i fogli dei compiti, ordinatamente, e poi uscirono in corridoio diretti alla camera matrimoniale. Quando vi entrarono, Demelza era seduta sul letto, vestita ancora con l'abito blu che aveva usato durante la cena, e accanto aveva Clowance che giocava con una sua bambola e i gemelli in lacrime, uno in braccio e una avvolta nella sua copertina, sul letto.

Jeremy rise. "Ha male alla pancia?".

Hugh sorrise avvicinandosi al letto e prendendo Daisy in braccio. Era disperata, urlante e decisamente arrabbiata, aveva un caratterino già ben deciso. "Io so cosa vuole... Scommettiamo che, se ottiene ciò che desidera, le passano tutti i malesseri?".

Demelza lo guardò storto. "Hugh, non comanda lei...".

"Ma mio zio dice che Daisy e Demian conquisteranno...".

"La Scozia!" - esclamò Clowance. "Però piangono troppo tanto, mamma perché non li butti via e cerchiamo dei fratellini che non piangono mai?".

Demelza sospirò mascherando un sorriso, poi strinse a se Demian. "I bambini non si possono buttare via, dobbiamo tenerceli come sono, i gemelli".

"Peccato" – sussurrò la piccola, imbronciata.

Hugh la prese in braccio, gli era venuta un'ottima idea. Stare con la sua famiglia gli dava benessere e quando erano tutti assieme, anche in mezzo alla confusione, si sentiva più forte e pieno di energie. Sentiva che il tempo a sua disposizione era poco e finché aveva le forze voleva sfruttarlo per conservare in se ogni ricordo piacevole di qualcosa fatto con le persone che amava. E quando in lui ogni ricordo sarebbe scomparso, sarebbero rimasti però nella sua famiglia, nei cuori delle persone che lo amavano, rendendolo immortale. "Usciamo! E' quello che Daisy vuole".

Jeremy e Clowance si guardarono in faccia, eccitati da quella proposta. "SIIIIIIIIIIII".

Demelza lo guardò storto, come se fosse impazzito. "Hugh, è sera, è tardi e non è l'orario adatto a portar fuori i bambini. E Daisy non ha facoltà di decidere cosa fare...".

"Ma quando le metti la cuffietta, il cappotto, la imbacucchi e la metti nella carrozzina, lei smette di piangere, le passa il mal di pancia e si tranquillizza. Ama uscire, facciamo una passeggiata in modo che si addormenti".

"Fa ancora freddo di sera, è marzo, non siamo in estate".

Hugh decise di insistere e, per una volta, di imporsi a sua moglie. Una vocina dentro di lui gli urlava di portarli fuori, di vivere una serata solo loro, insieme, e di fare una passeggiata che forse sarebbe stata l'ultima. "Oggi il clima è primaverile, copriamo bene i bambini e non ci saranno problemi. E Daisy sarebbe contenta".

Demelza sbuffò, mettendosi le mani sui fianchi per apparire autoritaria. "Daisy non è la capo-famiglia".

Hugh le strizzò l'occhio prima di baciare la neonata sulla fronte. "Daisy e i gemelli conquisteranno la Scozia. Si stanno iniziando ad esercitare ribadendo l'autorità quì, cercando di prendere il controllo come capi-famiglia".

Demelza cercò di essere seria ma alla fine fu costretta a ridere. "Jeremy, Clowance, mettetevi i cappotti, coraggio..." – disse infine, cedendo e rendendosi conto di essere in minoranza. Poi si alzò dal letto, diede Demian a Hugh e prese Daisy che ancora strillava come un'ossessa. Le mise la cuffietta di lana, la avvolse in una coperta e poi, una volta messa in carrozzina, rimase ad osservarla.

E la piccola fetente, come la definiva Prudie, appena ebbe capito che sarebbe uscita, smise immediatamente di piangere. Si esibì in uno splendido sorriso, spalancò i suoi occhioni azzurri, si mise a pancia ingiù e si rannicchiò col sederino per aria. Demelza le diede un leggero colpetto sul culetto, sospirò e poi la coprì con un'altra coperta. "Ha vinto di nuovo lei... Comincio a credere che conquisterà davvero la Scozia, o con suo fratello o da sola...".

Demian, che Hugh aveva avvolto in una pesante coperta bianca, la richiamò all'ordine frignando e suo marito glielo ridiede in braccio.

Demelza lo strinse a se, guardando storto pure lui che, se non l'aveva sott'occhio, piangeva come se lo stessero scannando vivo. "Hugh...".

"Sì, amore...".

"Dobbiamo ristabilire la gerarchia di comando coi gemelli...".

"Sì, amore...".

Jeremy e Clowance, con le loro mantelline blu, corsero da loro, Demelza si mise addosso una mantella di lana bianca e di soppiatto, spingendo la carrozzina, uscirono di casa tutti e sei, in silenzio, in modo da non essere scoperti.

"Dove andiamo?" - chiese Demelza, nell'osurità del giardino, coi gemelli già tranquilli nei loro ambienti preferiti, una nella carrozzina e uno fra le sue braccia.

Hugh le indicò il cancelletto di legno che, dal giardino della loro tenuta, portava direttamente ai giardini di Kensington dove giocavano di pomeriggio Clowance e Jeremy.

I due bimbi saltarono eccitati. "Sììì, il parco tutto per noi!".

Demelza sorrise, felice di vederli tanto contenti. In fondo era una bella serata per uscire a fare una passeggiata. Londra dormiva, il cielo era sereno e pieno di stelle e i giardini di Kensington, deserti, avevano un qualcosa di magico insito in loro. "Sembra come... quando ci siamo conosciuti... Era una serata magica come questa, solo che c'era la nebbia e non le stelle" – sussurrò, prendendo per mano suo marito ed intrecciando le dita con le sue.

"Vero... Visto che era una buona idea uscire?" - la punzecchiò Hugh.

Demelza mascherò un sorriso, lanciando un'occhiata alla carrozzina. "Certo... Ne riparleremo domani sera quando Daisy pretenderà lo stesso trattamento e strillerà come una pazza per uscire, svegliando tutto il palazzo. E questo vizio che le hai dato, sarà colpa tua e te lo dovrai gestire". Si fermarono davanti a una panchina, sedendovisi. Il parco era avvolto dal silenzio ed era tutto per loro. "Però in fondo sì, è stata una bella idea venire quì. C'è un'atmosfera così romantica... E Daisy dorme".

Hugh allungò il viso verso la carrozzina e poi rise guardando la bimba, sentendosi incredibilmente bene in quel momento. "Non dorme... Sta a pancia in giù e ci spia da sotto la coperta. Se la ride sotto i baffi, sembra contenta" – sussurrò, prendendo la piccola in braccio e mettendola fra loro.

La bimba lo guardò, fissò i suoi fratelli e la sua mamma e poi, per nulla assonnata, allungò la manina e strinse quella di Demian che, in tutta risposta, si agitò muovendo le gambe, divertito. Quando erano svegli e vicini, erano sempre contenti.

Jeremy rise. "Mica c'hanno sonno".

"Nemmeno un pò..." - sussurrò Demelza, mettendo la sua mano sotto quelle dei gemellini che si appoggiarono così al suo palmo. Clowance guardò la scena, poggiando a sua volta la manina su quella dei gemelli e Jeremy la appoggiò sulla sua. E Hugh coprì tutti con la propria di mano, intrecciando le dita con Demelza, in modo che potessero accogliere e proteggere come in uno scrigno tutte le manina dei loro bambini.

Demelza guardò la scena, poi suo marito. E si avvicinò, dandogli un dolce bacio sulle labbra. "Famiglia...".

La strinse a se, coi bambini fra loro. "Famiglia..." - sussurrò, ringraziando Dio per quel dono che gli aveva fatto quando pensava che la vita per lui non avesse più nulla da regalare. E quei tre anni erano stati intensi, belli, pieni di risate e sorprese e per quanto brevi, valevano più di tante e lunghe vite vuote e fredde. Era fortunato e se tutto stava per finire, se ne sarebbe andato con la serenità di aver costruito qualcosa di bello che avrebbero portato avanti le persone che amava.

"Che scenetta stucchevole!".

Quella battuta inaspettata, detta con l'ancor più inaspettata voce di Caroline Enys, fece sobbalzare tutti e sei.

Demelza e Hugh guardarono nell'oscurità del parco e davanti a loro si materializzarono gli Enys con tanto di occhiaie da neo-genitori e di carrozzina.

Demelza scoppiò a ridere, ben intuendo cosa ci facessero lì... Le motivazioni non potevano essere molto diverse da quelle che avevano portato anche loro nei giardini di Kensington a quell'ora della sera.

"Zio Dwight, zia Caroline" – urlarono Jeremy e Clowance, correndo verso di loro.

Hugh, con in braccio Daisy, osservò la coppia che si stava avvicinando. Era una situazione divertente, a ben pensarci. L'aristocratica, bellissima, sfuggente ed eccentrica Caroline aveva partorito da tre settimane una bellissima bambina, Sarah, ed era già perfettamente in forma, elegante e tornata allo splendore di prima della gravidanza.

Anche se, a giudicare da quell'incontro, la piccola aveva sconvolto anche quell'esistenza dorata che sua madre aveva giurato, fino al mese prima, nessuno avrebbe mai intaccato. Anche Caroline aveva imparato, come lui del resto, che i neonati non sono creature angeliche e che anzi, hanno un potere immenso fra le loro mani che gli consente di manipolare la vita di chi hanno intorno. "Sarah non voleva dormire?".

Caroline lo guardò storto. "Non fare lo spiritoso, Hugh Armitage... Se sei quì vuol dire che pure i tuoi di marmocchi, non sono nel loro letto nel mondo dei sogni".

Demelza si avvicinò loro con Demian. "Daisy ha fatto chiaramente capire di non voler stare in casa. E Hugh l'ha ovviamente accontentata...".

Caroline guardò la gemella di sbieco, sospirò e poi guardò la sua elegante carrozzina dove la piccola Sarah cercava di trovare il sonno, senza tuttavia riuscirci. "Beh, guardiamo il lato positivo... Sono donne nate in un mondo guidato da uomini... Cercano di affermarsi da subito, sanno già che per noi nulla è mai facile e affilano le unghie... Dovremmo esserne fiere".

Demelza sbuffò. "Lo sarò quando riuscirò a fare otto ore di sonno filato. E' da dicembre che non ci riesco".

Caroline impallidì. "Non me lo dire...".

La rossa rise. "Non eri tu che mi dicevi che dovevo avere polso coi gemelli e che non dovevo cedere ai loro pianti? Che non dovevo viziarli? Visto che cambiano le cose, quando i bambini son nati...?".

"Z-I-T-T-A!!!" - lo fulinò Caroline, punta sul vivo.

Nonostante la scenetta divertente e rilassata, Dwight abbassò il capo e Hugh si accorse di una strana malinconia e di un velo di tristezza che attraversava i suoi occhi, qualcosa di inusuale per quel medico sempre gentile e col sorriso sulle labbra, soprattutto in un momento di gioia come quello in cui era diventato padre di una bambina che aveva atteso tantissimo.

Sarah, nella carrozzina, dimostrò di essere contrariata da quell'interruzione della sua passeggiata e scoppiò a piangere e Hugh si chinò a prenderla in braccio per metterla vicino a Daisy. "Fate amicizia, sarete amiche fra qualche anno" – sussurrò alle due bimbe.

Ma Daisy dimostrò di non apprezzare troppo quell'intromissione di una sconosciuta fra lei e il suo papà e scoppiò a piangere disperata finché Demelza non la prese con se, mettendola accanto a Demian.

E Hugh rimase con in braccio solo Sarah. La guardò negli occhi, aveva ereditato la bellezza di sua madre e sarebbe diventata una bambina splendida. "Scusala piccola, Daisy ha un caratteraccio... Ma sarete amiche lo stesso...".

Dwight si rabbuiò a quelle parole e anche Demelza se ne accorse e si accigliò, anche se rimase in silenzio, stupita.

Caroline invece pareva non essersi accorta di nulla. Chiaccherò come se nulla fosse, lamentandosi di quanto fosse noioso un neonato, e Demelza la ascoltò pazientemente sedendosi con lei e i gemelli sulla panchina.

Dwight e Hugh invece, con Sarah e i due bambini più grandi si allontanarono per fare due passi nel parco.

"Papà, le fate!" - urlò Jeremy, indicando delle luci che si muovevano fra gli alberi.

Hugh, con in braccio Sarah, si inginocchiò. "E' vero... Le chiamano 'lucciole' ma noi che conosciamo la magia sappiamo che sono fate. Correte, andate a vederle da vicino".

Jeremy, emozionato, prese Clowance per mano e insieme corsero verso la fonte di quelle luci meravigliose, lasciando i due uomini da soli.

Hugh si voltò verso Dwight, tanto silenzioso e cupo da preoccuparlo. "Qualcosa non va?".

Dwight sussultò, si voltò per vedere se fossero soli e poi diede un intenso sguardo a sua figlia. "E' bella, vero?".

"Sì, lo è. Da grandi lei, Clowance e Daisy faranno girare la testa a tutti i giovanotti di Londra".

Dwight abbassò il capo. "Forse no...".

Hugh guardò la piccola che, passeggiando, si era calmata. "Perché?".

"E' malata, Hugh. Ha una malattia al cuore e quando prenderà un raffreddore o la sua prima febbre, sarà troppo debole per superarla e guarire. Morirà... Sarah non sarà mai grande. E io, SUO padre, un medico, non posso fare nulla. Ironico, vero?".

Hugh si sentì mancare la terra sotto i piedi. Sapere che la sua vita, benché breve, fosse giunta al termine dopo un percorso però pieno, intenso e bellissimo era duro da accettare ma nel grande schema delle cose aveva un senso, ma Sarah... Sarah non aveva ancora provato niente, non aveva ancora iniziato a vivere e a sperimentare il bello e il brutto che ogni esistenza porta con se, era una bambina senza colpe e stava per essere colpita dal medesimo e terribile destino che attendeva pure lui. Si sentì annientato peggio di quando pensava alla sua, di malattia. "Caroline... Caroline lo sa? Sembra così...".

"Non lo sa!" - lo interruppe Dwight. "Non so come dirglielo...".

Hugh sospirò, abbassando lo sguardo. "Non posso fare molto per te, se non darti la mia amicizia e offrirti una spalla su cui appoggiarti, quando ne avrai bisogno. Sono padre e posso immaginare come ti senti e quanto sia difficile parlarne con chi ami... L'idea di perdere un figlio è inaccettabile, da impazzire... Vorrei poterti aiutare, anche se non ho soluzioni da darti. Le mie forze sono esigue ma per quel che posso e potrò fare come amico, ci sono...".

Dwight sorrise tristemente, poggiandogli la mano sulla spalla. "Grazie. E tu? Come stai? Sei pallido, sembri febbricitante".

"Sono febbricitante...".

"Demelza lo sa? Le hai parlato del peggioramento delle tue condizioni?".

Hugh scosse la testa, nessuno poteva capirlo meglio di Dwight. "No, non voglio dirle nulla finché potrò nasconderlo. E' così felice e serena, non posso rovinare tutto coi miei problemi".

"E' tua moglie, ha diritto di sapere e conoscendo Demelza, lo vorrebbe. Lei preferisce affrontare la realtà di petto per quanto brutta, è una lottatrice, non una damina da proteggere nascondendole le cose dolorose che dovrà affrontare comunque".

Hugh lo guardò, intensamente. "E Caroline è la madre di Sarah e ha diritto di sapere anche lei... Ma vuoi proteggerla finché puoi, come io voglio proteggere Demelza e i bambini. Siamo uguali, tu ed io. Ed io e Sarah..." - sussurrò, guardando la piccola che aveva in braccio che in quel momento gli sembrava lo specchio di se stesso.

Dwight li guardò, insieme. "Vederti con lei in braccio...".

Hugh capì cosa volesse dire... Teneva in braccio una bambina che forse avrebbe condotto con se, a breve, in un viaggio senza ritorno... Insieme, come lo erano in quel momento. "Non si sentirà sola, quanto meno le farò compagnia".

Dwight sorrise, tristemente. "Se... Se esiste qualcosa... un posto migliore di questo dopo questa vita... Prenditi cura di lei".

"Se esiste quel posto, lo farò come avrei fatto coi miei bambini".

"Grazie".

Hugh baciò sulla fronte la piccolina, restituendola al padre. "Sai una cosa? Siamo quì, con la nostra famiglia! Ed è una serata splendida, abbiamo i giardini di Kensington tutti per noi e ci sono le persone che più amiamo! Godiamoci questo momento e lasciamo che i pensieri foschi ci raggiungano quando si presenteranno i problemi. Ci sono i bambini, le lucciole e un mare di stelle in cielo, è una notte magica dove nulla di male può succederci. La morte non può raggiungerci stasera, siamo più forti noi".

Dwight annuì, colpito da quelle parole. Raggiunsero Jeremy e Clowance che correvano nel prato inseguendo le lucciole e poco dopo furono raggiunti da Caroline, Demelza e i gemelli. Giocarono, corsero coi bambini, risero, osservarono le smorfie dei tre neonati che erano appena venuti al mondo scrutando e ammirando in loro la vita e non l'ombra della morte e della malattia.

Fu una serata bellissima, magica, intensa, nata per caso dal pianto di due neonate che non ne sapevano di voler dormire e che, inconsapevolmente, stavano regalando un tesoro prezioso ai loro genitori: la magia di un ricordo, di un momento perfetto che avrebbe scaldato i loro cuori nelle notti fredde in cui dolore e lacrime avrebbero fatto capolino straziando le loro anime colpite da un lutto a cui non potevano sottrarsi.

Dwight, Demelza, Caroline, Jeremy e Clowance avrebbero ricordato sempre quella sera, le lucciole e il silenzio dei giardini di Kensington mentre Hugh e Sarah avrebbero intrapreso una strada diversa, insieme, mano nella mano verso un luogo dove non esistevano dolore, malattia e bambini che non potevano diventare grandi.


...


La notte magica finì tardi, con dei bambini finalmente addormentati e scaldata dai corpi di un marito e una moglie che si concedevano l'un l'altro in un intenso atto d'amore.

E mentre guardava Demelza dormire, Hugh decise che non poteva più aspettare, che c'erano cose da fare per il bene della donna che amava e dei loro bambini.

Il mattino successivo, molto presto, si recò nello studio di suo zio. Era ora di sistemare le cose in modo che dopo la sua morte tutto sarebbe andato nel modo in cui lui voleva. E né la febbre, piuttosto alta, nè i capogiri che lo avevano colpito appena messo piede giù dal letto, lo avrebbero fermato.

Lord Falmouh, notoriamente mattiniero e già al lavoro dall'alba, appena lo vide arrivare, si stupì. "Stai bene e vuoi lavorare oppure fuggi dai pianti dei gemelli?".

Hugh, stanco come se avesse lavorato venti ore in miniera, si sedette sulla sedia. "Nessuna delle due cose...".

"Stai male?".

"Sì zio...".

Lord Falmouth perse il suo aplomb, impallidì e sul suo viso si materializzarono rughe di dolore e preoccupazione per quel nipote che per lui era sempre stato un figlio. "Vai a letto, riposa... E parla con Demelza delle tue condizioni di salute".

"Voglio parlarne con te. E con un notaio".

Lord Falmouth spalancò gli occhi. "Un notaio?".

Hugh divenne mortalmente serio. "Sì. Voglio mettere per iscritto le mie volontà e amministrare così il futuro del mio patrimonio e dei miei beni, decidendo cosa ne sarà dopo la mia morte".

Falmouth sospirò. "Penserò io a tutto quanto. Il futuro dei tuoi bambini è in ottime mani e per ora tu sei quì, VIVO...".

Hugh lo guardò. Era suo zio, era come un padre e sapeva che non accettava di dover sostenere quel discorso, ma non poteva sottarsi. Doveva mettere le cose in chiaro e non solo per i gemelli a cui suo zio sicuramente avrebbe pensato. Ma non era abbastanza, non per lui, non per l'amore che provava non solo per i piccolini appena nati ma anche per gli altri due bambini e per sua moglie... Aveva una famiglia e ogni cosa, PER OGNUNO, doveva essere sistemata senza l'ombra di fraintendimenti. "Tu penserai al patrimonio di famiglia... Ma il mio, il mio patrimonio personale che sarà la mia eredità ai bambini, credo lo debba amministrare qualcun altro. Qualcuno che lo farà sicuramente meglio di tutti".

"Cosa vuoi dire? Non vorrai...".

Hugh lo guardò, deciso. Il momento delle poesie e dei sogni da adolescente era finito, aveva poco tempo davanti e doveva sbrigarsi a sistemare tutto quello che poteva rimanere in sospeso. "VOGLIO! E ho l'età per decidere. Chiama il nostro notaio di famiglia".

Lord Falmouth sospirò, capendo che non c'erano margini di tratttiva. "Come vuoi... Ma sappi che io mi prenderei cura di tutti, come sempre".

"Lo so... Ma voglio comunque un notaio. E che le mie volontà restino per sempre scritte. Sarà un modo per star vicino alle persone che amo".

Lord Falmouth sospirò, prese la campanella sulla sua scrivania, la scosse e chiamò il suo maggiordomo. "Gaston, fa preparare la carrozza e va a chiamare il mio notaio. Devo vederlo, subito".



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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Era stata una primavera fredda e piovosa a Londra, quell'anno, e il cielo pareva preannunciare, col suo carico di nubi nere e oscurità, l'avvento di tempi difficili.

Hugh era peggiorato improvvisamente. O, come le aveva detto Dwight, improvvisamente i sintomi che accusava da mesi e che le aveva tenuto nascosto, erano diventati evidenti.

E per Demelza era iniziato un incubo che sempre aveva sentito incombente su di lei e sui bambini ma che aveva cercato di tenere lontano dalla mente, aggrappandosi ai momenti sereni che viveva con la famiglia che avevano formato, la cui forza sembrava aver allontanato lo spettro della malattia.

Ma ad inizio aprile, nell'ennesima mattina cupa e piovosa, Hugh era svenuto appena alzato dal letto e poi era stato colto da una fortissima crisi epilettica che l'aveva terrorizzata e fatta urlare, svegliando i gemelli e facendoli piangere spaventati.

Prudie e altri domestici erano accorsi, l'avevano aiutata a soccorrerlo e Dwight, chiamato in fretta e furia, non aveva potuto fare altro che dire di prepararsi all'inevitabile perché le condizioni di Hugh si sarebbero aggravate ulteriormente e non c'erano né cura né via di ritorno.

Da quel giorno, difficilmente Hugh riuscì ad alzarsi sul letto. La febbre sempre presente, il mal di testa continuo e lancinante e la vista sempre più debole, gli avevano strappato via ogni parvenza di normalità.

Demelza non lo lasciava mai e anche Dwight non mancava di venire a visitarlo più volte al giorno, nonostante il dramma personale che stava vivendo anch'esso a casa sua, con la salute malferma della piccola Sarah. Nonostante mille tentennamenti, aveva dovuto trovare il coraggio di dire la verità a Caroline circa le condizioni della bambina e l'ereditiera aveva raccontato tutto quanto, con la freddezza e il cinismo che usava per nascondere il suo dolore, a Demelza. Si erano abbracciate, in silenzio, ognuna stretta nel dolore dell'altra, senza dire nulla. Le parole erano di troppo, ormai... Hugh per Demelza era un tormento costante e pensare anche alla malattia della piccola Sarah era per lei un'ulteriore dolore che la riportava alla sua Julia, persa anch'essa nelle tenebre della morte tanti anni prima, quando era piccolissima. Sapeva cosa attendeva Caroline e non riusciva a trovare per lei parole di conforto perché sarebbero risultate vuote e fatue e allora rimase zitta perché quando non si ha nulla di intelligente da dire, sono meglio il silenzio e un abbraccio.

Era come camminare sul vetro, per entrambe le famiglie. Ogni passo falso poteva aprire una crepa e poi una voragine e far precipitare tutti sotto quel sottile strato di vita che teneva ancora con loro chi amavano.

Lord Falmouth e Lady Alexandra venivano a trovare Hugh in ogni momento e Hugh stesso aveva insistito perché loro, con Demelza e i bambini, continuassero la bella abitudine presa dopo il matrimonio di cenare insieme, anche se lui non poteva fare parte della tavolata.

Per il resto, Demelza cercava di essere forte anche se dentro andava a pezzi. Hugh, il suo raggio di sole, l'uomo che aveva curato le sue ferite e l'aveva amata senza riserve, che le aveva dato due figli ed era stato il meraviglioso compagno di un tratto della sua vita, stava per lasciarla. E non era giusto... Lui, che amava i bambini, che aveva un animo gentile e un pò sognatore, che la adorava e che non chiedeva nulla se non stare con lei, lui che per loro aveva saputo anche mettere da parte le sue passioni per diventare un uomo di famiglia, meritava di vivere e veder crescere i suoi figli.

Era terribile pensare che stesse per andarsene così giovane e pieno di progetti e la cosa strana era che, nei momenti di crisi, era Hugh a consolare lei. Il suo animo filosofico aveva accettato la sua imminente fine ed era semplicemente grato per la vita piena che aveva avuto negli ultimi anni. Era saggio, animato da quell'immancabile spirito di elfo un pò magico che vedeva l'incanto anche se dilaniato dalla malattia, mai rabbioso e nemmeno rassegnato. Accettazione... Era tutto ciò che lo salvava dall'impazzire e che salvava lei che in lui trovava la forza di lottare senza crollare.

L'unica cosa che Hugh desiderava era avere vicino la sua famiglia e Demelza gli portava i bambini sempre, desiderosa che loro e lui attingessero gli uni dagli altri degli splendidi ricordi da portare sempre nel proprio cuore.

Jeremy gli si sedeva accanto, gli leggeva le cose che faceva col precettore o un libro di fiabe della libreria per bambini che Hugh aveva fatto per lui e per gli altri bambini, Clowance gli parlava delle mille avventure frivole vissute con le sue bambole durante la giornata e i gemelli, coi loro gorgoglii, gli tenevano compagnia a modo loro. Hugh sapeva dar loro retta come sempre, riuscendo a nascondere bene la malattia quando i piccoli erano con lui e per i bambini era diventata una normalità passare tante ore in camera da letto tutti insieme.

Per la gioia di Hugh, i gemelli crescevano benissimo, Dwight diceva che sprizzavano energia da tutti i pori ed erano molto precoci, molto rumorosi e decisamente desiderosi di diventare parte attiva della casa. Bellissimi, biondi e con gli occhi azzurri, paffuti e vivaci, erano una gioia per gli occhi in quel momento tanto buio e il loro papà, ogni volta che li guardava, sprizzava orgoglio da tutti i pori. Erano la sua vittoria sul destino e sarebbero stati sempre la sua impronta nel mondo, il segno vivente del suo passaggio. Daisy aveva iniziato a girarsi da sola, a pancia ingiù, già a quattro mesi. Con le gambette tentava di gattonare per scapparsene chissà dove ma per fortuna, al momento falliva miseramente. Demian era rimasto mammone e coccolone ma era oltremodo furbo e capacissimo, col suo visino d'angelo, ad ottenere attenzioni esclusive e la mamma tutta per se. Dormiva ancora con lei nel lettone e solo poche notti, quando Hugh era stato molto male, aveva dovuto cedere e affidarlo a Prudie, nonostante i suoi pianti disperati.

E col progredire della malattia di suo marito, aveva anche dovuto cedere alla richiesta di Lord Falmouth di affidare la cura dei bambini a un'ulteriore balia. Voleva tenere duro ma purtroppo, rendendosi conto che non poteva fare tutto, aveva acconsentito e nei momenti più difficili vi si affidava. Perché non poteva sdoppiarsi e arrivare dappertutto, non voleva lasciare il cappezzale di Hugh e soprattutto, quando le crisi erano forti, non voleva che i bambini vi assistessero. I gemelli e Clowance erano troppo piccoli per capire ma Jeremy pareva comprendere la situazione e spesso lo aveva visto malinconico e con gli occhi rossi dal pianto. Adorava Hugh, era per lui il padre che non aveva mai voluto essere Ross e aveva capito perfettamente che stava per perderlo. E Demelza pregava, pregava e ancora pregava di essere capace di stargli vicino e di trovare le parole giuste per confortarlo e fargli superare quel dolore che presto avrebbe travolto tutti.

La primavera passò in un misto di incertezze e preoccupazioni e nell'attesa che qualcosa avvenisse... O un miracolo, o l'inevitabile.

A fine giugno la piccola Sarah prese un forte raffreddore, materializzando tutte le paure più profonde di Dwight che temeva quel momento perché il cuoricino della bimba non aveva abbastanza forza per combattere la malattia, purché banale. E contemporaneamente, anche le condizioni di Hugh precipitarono ulteriormente, lasciando il giovane preda di febbri altissime, deliri e lunghe perdite di coscienza.

Demelza gli rimase a fianco, non abbandonandolo mai. Era stanca, stravolta, con profonde occhiaie che le solcavano il viso e che facevano preoccupare Lord Falmouth, Lady Alexandra, Prudie e i bambini, nonché tutti i servitori di quella grande casa che le si erano affezionati nel corso di quell'ultimo anno vissuto lì. Ma decise di essere forte, non ascoltò consigli, rifiutò di dormire in un'altra stanza e lasciare Hugh con un infermiere, Demelza Carne non era mai stata una donna che si metteva a sonnecchiare stravolta dalla fatica se c'era bisogno di lottare e nemmeno Demelza Armitage sarebbe mai stata quel tipo di persona. Il suo sesto senso le diceva che erano agli sgoccioli e nella sua vita aveva visto morire già tante persone, a partire da sua madre, e questo le aveva dato una certa attitudine a riconoscere sul viso di un malato i segni della fine imminente.

La mattina del 23 giugno, Dwight non venne a visitare Hugh. Mandò un messaggero ad informarli che preferiva rimanere a casa per l'aggravarsi delle condizioni di Sarah e consigliava il nome di un medico suo amico per l'assistenza giornaliera a Hugh.

Ma stranamente, quel giorno Hugh si svegliò in preda a un benessere curioso ed inaspettato, che non provava da lungo tempo e che lasciò tutti a bocca aperta visto che stava delirando solo poche ore prima ed ora sembrava fresco come una rosa, senza dolori né febbre.

Riuscì a sedersi sul letto, a mangiucchiare qualcosa, a chiacchierare con lei e coi bambini che non finivano di abbracciarlo e di rannicchiarsi accanto a lui, si fece leggere il giornale da suo zio e ricordò con sua madre alcuni avvenimenti della sua infanzia.

Demelza lo guardò, chiedendosi se esserne contenta o se quello non fosse altro che l'ultimo canto del cigno, quello strano senso di benessere che spesso accompagna le ultime ore di un malato. Ma decise che, se era davvero così, doveva approfittarne e vivere ogni attimo con Hugh intensamente, lei e i bambini. Era un dono vederlo nuovamente fra loro, sentire la sua voce, godere della sua compagnia.

Non chiamò il medico indicato da Dwight nel biglietto, non voleva nessuno. Scrissero una nota affettuosa per gli Enys insieme, dando un bacio alla piccola Sarah, e trascorsero la serata tutti e sei sul lettone, chiacchierando e ridendo.

Era strano riuscire a ridere ma insieme, loro, riuscivano a fare anche questo...

Hugh raccontò una storia ai bambini, la storia di un giovane poeta che non sapeva fare niente se non scrivere ma che con la sua tenacia riusciva a trovare la mitica città di Atlantide, piena d'oro e di oggetti preziosi. E alla fine, accarezzando i capelli castani di Jeremy che gli faceva mille domande, passò al bambino il testimone. "Sei molto bravo anche tu ormai, a leggere. Più di me. E sei anche bravissimo a raccontare fiabe, quindi sai una cosa?".

"Cosa?" - chiese il bimbo.

"D'ora in poi sarai tu l'incaricato per la lettura delle fiabe alle tue sorelline e a tuo fratello".

Jeremy per un attimo parve onorato da quell'onoreficenza ma poi si rabbuiò, rannicchiandosi fra le sue braccia. Era troppo sensibile per non capire cosa ci fosse dietro quelle parole... "Grazie, ma non voglio... Sei più bravo tu papà, devi farlo ancora per un bel pò".

Hugh gli baciò la testolina. "Leggere le fiabe e i libri è importante, non darei a nessuno che non sia davvero meritevole questo onore. Te lo meriti, sei diventato davvero più bravo di me e quando una persona è brava a fare qualcosa, deve farla per il bene degli altri. Hai tutta la libreria per voi bambini a tua disposizione, ho sistemato i libri in ordine di età e potrai scegliere da solo cosa leggere a Clowance e ai gemelli. E' un onore grandissimo e tu sei l'unico bambino speciale a cui darlo".

"Va bene..." - rispose Jeremy, non obiettando ulteriormente, mentre i suoi occhi diventavano lucidi. Guardò sua madre, annuì e poi baciò Hugh sulla guancia. "Li leggerò tutti i libri, te lo prometto. E non ci farò neanche una pieghetta sui lati o gli angoli".

"Bravo bambino, sono così orgoglioso di te...". E detto questo, Hugh accarezzò i boccoli biondi di Clowance che, nella sua camicina da notte di seta bianca, sembrava una bambolina di porcellana. "Domani dove ti porta la nonna?".

"A comprare la crinolina per un vestito nuovo. Le serve proprio, io la aiuto a scegliere".

Demelza sorrise, Clowance era una bravissima esperta di moda ormai, anche se aveva solo tre anni e mezzo. "La crinolina è solo per la nonna?".

Clowance si mise le manine sui fianchi, stizzita. "Serve anche a me un vestito nuovo! Devo andare al compleanno di Emily Bassett, che mi metto?".

Hugh rise. "Ha ragione Demelza, lei è una lady, deve avere un vestito nuovo".

"Sì" – asserì la bimba, decisa e soddisfatta.

Hugh baciò anche lei sulla fronte, ammirandone la grande bellezza. "Clowance, tu farai innamorare tutti gli uomini di Londra da grande. Vedi di scegliere bene chi sposare però, non tutti sono alla tua altezza".

"Io sposo il re!" - rispose la piccola, sicura, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Hugh spalancò gli occhi, guardò Demelza a bocca aperta e poi rise, di nuovo, sciogliendo con quel gesto il cuore triste di sua moglie che sanguinava nel vederlo, a modo suo, dire addio ai suoi bambini. "Il re è alla tua altezza davvero, piccola" – disse infine. "E tu, amore mio, diventerai la suocera di sua maestà!".

Demelza sorrise, stringendo a se la piccola, futura regina di Inghilterra. "A quanto pare...".

E infine Hugh guardò i gemellini che, sul letto fra lui e Demelza, giocavano fra loro o con dei pupazzetti, emettendo gridolini. Erano meravigliosi, due bambolotti viventi che tutti ammiravano quando venivano portati fuori a passeggio. Con la mano sfiorò il mento di Daisy che da qualche giorno era preda di una salivazione eccessiva e finiva sempre con l'avere collo e vestitini fradici. La bimba sorrise, muovendo le gambette e spalancando le labbra. E Hugh fu colpito da qualcosa che nessuno aveva mai notato prima. Sfiorò col dito le gengive della piccola, accarezzando una puntina bianca che spuntava da esse. "Demelza, guarda".

Lei guardò, sorridendo. "Sta spuntando il primo dentino! Giuda, è talmente tremenda che presto prenderà a mordere tutti quanti!".

Hugh prese la piccina in braccio, stringendola a se, poi fece lo stesso con Demian che quel giorno pareva propenso a farsi spupazzare anche da lui, oltre che dalla sua mamma. "Daisy non è tremenda, Daisy è indipendente e forte e sta diventando grande. Conquisterà il mondo e sarà una donna libera che potrà fare tutto ciò che desidera. Non una lady da salotto, lei potrebbe..." - guardò il faccino furbo della piccola che lo guardava ridendo – "Potrebbe benissimo fare la piratessa e mettere a tacere pirati con anni di esperienza e brigantaggio sulle spalle. Ce la vedo che li comanda a bacchetta!".

Demelza sussultò. "Piratessa? Giuda, no!".

"Non eravamo d'accordo che i bambini dovessero fare ciò per cui sono più predisposti e che debbano scegliere liberamente come vivere la loro vita?".

Demelza sospirò. "Sì, ma non voglio vedere mia figlia appesa al cappio per il collo" – esclamò, mentre Clowance scuoteva la testa e Jeremy, nonostante la tritezza nel suo sguardo, ridacchiava.

Hugh baciò la piccolina. "Non succederà, è troppo sveglia per farsi catturare. Mentre lui..." - disse, accarezzando la testolina bionda di Demian – "Lui è come me, adora averti vicina. Sarai sempre il principe della mamma?".

Demian rise, mettendosi le manine in bocca e succhiandosele, rendendo palese che a breve i denti sarebbero spuntati pure a lui. E Demelza lo prese, stringendoselo a se. "Mi chiedo quando vorrà dormire da solo nella sua culla...".

Hugh la strinse a se, coi quattro bambini fra loro. "Lo farà quando si sentirà pronto. Ora ha bisogno di te, tienitelo vicino finché non sarà lui a volersene andare. Sarà davvero il tuo piccolo principe, lo so... Anche lui lo sa che è questo il suo ruolo... Quando sarà grande, sarà lui a mollarti per dormire da solo".

"Ma certo che lo tengo con me questo piccolo elfetto..." - sussurrò Demelza, stringendo il piccolino fra le sue braccia.

Demian rise e prese dal letto un pupazzetto azzurro a forma di elefantino, stringendoselo a se per giocare, e Daisy si imbrociò. Scivoltò dalle braccia di Hugh, si mise a pancia in giù e, circondata dalla curiosità di tutti, strisciò fino al fratello, cercando di rubargli il giocattolo.

Demian strillò, lei tentò di morderlo e di graffiarlo e lui in tutta risposta cercò di spingerla via muovendo le gambette per darle dei calci.

Due piccole pesti in erba, decisamente!

E davanti a quella rappresentazione di tante liti furibonde future, tutti risero in quello che, negli anni, avrebbero ricordato come l'ultimo momento felice insieme della famiglia Armitage al completo.

Hugh riprese Daisy, cercando di calmarla e intrattenendola con un altro gioco, Clowance le diede una bambola ma la piccola urlò stizzita, piangendo per avere l'elefantino azzurro. "Ha più carattere di quanto ne potrò mai avere io..." - sussurrò Hugh.

Demelza lo abbracciò, accoccolandosi fra le sue braccia e i bambini rimasero vicino a loro, sul letto, in silenzio finché anche i gemelli si furono calmati.

"Daisy morde davvero. O vuole farlo..." - sussurrò infine Jeremy, guardando la sorellina.

E in quel momento entrò Prudie, ciabattando stancamente con una lettera in mano. "Scusate il disturbo ma c'è una missiva dagli Enys" – disse, guardando in cagnesco i gemelli. "E le piccole pesti si sentivano urlare fino in fondo al corridoio, vi faccio notare!".

Demelza e Hugh si guardarono con un misto di apprensione, una lettera da Dwight e Caroline a quell'ora della sera non poteva portar altro che cattive notizie. Fuori era ormai buio, era tardi, mancava poco alla mezzanotte e se quella lettera diceva ciò che temeva, era il caso di mandare a letto i bambini. Hugh appariva stanco e bisognoso di riposo e lei voleva un attimo di pace sola con lui. Forse domani avrebbero avuto un altro giorno insieme o forse no e proprio per questo dovevano vivere il tempo loro concesso attimo per attimo, senza sprecare nessun istante. Si alzò, prese la busta dalle mani di Prudie e poi annuì, indicandole i bambini. "E' ora di metterli a letto, potresti pensarci tu?".

"Certo signora...".

"Potresti pensare ai gemelli anche stanotte? Vorrei che Hugh riposasse al meglio".

Prudie sbuffò. "Sì signora... Ma se strillano, gli faccio pat-pat sul sedere a questi due" – sbottò, assumendo un'espressione altera che ai gemelli fece solo ridere.

Jeremy si imbronciò, abbracciando Hugh e scoppiando a piangere. "Noooo, io non voglio andare a letto, resto quì!".

Demelza si avvicinò a suo figlio, stranita da quel capriccio – Jeremy non era tipo – e preoccupata che avesse capito la gravità delle condizioni di Hugh e non volesse lasciarlo per paura di non vederlo più. Ma se davvero così doveva essere, voleva che suo figlio lo ricordasse sereno, mentre rideva assieme a tutti loro sul letto, non col volto marmoreo della morte... "Tesoro, su fai il bravo! E' tardi".

Hugh lo baciò sul nasino, se lo mise sulle gambe ed appoggiò la fronte contro la sua. "Devi sempre ubbidire a tua madre, lei sa cosa è meglio per te".

Jeremy scosse la testa, disperato. "Domani mi darai il buongiorno?".

Hugh annuì. "Se non dovessi riuscirci... Se non dovessimo vederci, beh non sarebbe grave... Tu sai cosa devi fare?".

"No".

"Cercarmi nei posti della casa che più mi piacciono. Sai quali sono?".

Jeremy deglutì, asciugandosi una lacrima dal viso mentre anche Clowance singhiozzava, pur non capendo appieno il senso di quel discorso. "La nostra casetta sull'albero?".

"Esatto. Poi?".

"La biblioteca...".

"Bravo! Sai, a volte le persone diventano invisibili, non si possono più vedere ma rimangono a vegliare su ciò che amano. Lascerei mai i miei libri?".

Jeremy azzardò un sorriso triste. "No".

Hugh lo baciò sulla fronte. "Cercami lì, quando sarai triste. E io ti guarderò ed ascolterò, nascosto fra quelle pagine".

"Non è la stessa cosa" – obiettò il piccolo.

"Oh, è molto meglio. Fra i libri e sugli alberi, c'è la conoscenza assoluta che avvicina le persone le une alle altre. Se starai in silenzio, se saprai ascoltare... mi sentirai presente. Curerai i miei libri?".

"Sì. E leggerò le fiabe...".

Hugh lo strinse a se. "Lascio tutto nelle tue mani. In ottime mani... Sarai un grandissimo uomo, Jeremy. E io sono stato fortunato a essere diventato tuo padre. Il padre di tutti voi..." - disse, guardando i quattro bambini. "Fate i bravi con la mamma e con Prudie, con lo zio e la nonna, con tutti quanti...".

Prudie, con gli occhi lucidi, prese i gemelli in mano, azzardò un inchino impacciato e poi lasciò che Hugh baciasse i piccolini che teneva fra le braccia. "Buonanotte signore" – sussurrò.

"Buonanotte e grazie di tutto, Prudie...".

Demelza baciò Clowance e Jeremy, li abbracciò e tentò di dimostrarsi serena e forte mentre li salutava per la notte, immaginando già come sarebbe stata triste la loro vita senza quel nuovo padre regalato dal cielo e dalla fortuna di un incontro inaspettato che aveva reso tanto ricche d'amore le loro vite.

I bimbi si lasciarono condurre fuori dalla camera da Prudie ma prima di uscire, Jeremy e Clowance salutarono Hugh con la manina e i gemelli urlarono quello che doveva essere un saluto e la domestica sbuffò, borbottando che le due bestioline l'avrebbero resa sorda.

Demelza sorrise tristemente, poi tornò al letto, sedendosi accanto a suo marito. Gli accarezzò i capelli, si stese al suo fianco e lasciò che lui la stringesse a se. "Non voglio aprirla questa lettera" – sussurrò, con la missiva che teneva ancora in mano.

Hugh prese la busta. "Dobbiamo...".

"Non voglio... Non voglio niente, solo stare quì con te a parlare e ridere come fin poco fa".

"E' stata una bella giornata... I bambini sono meravigliosi..." - sussurrò Hugh, accarezzandole la schiena. "Jeremy è un bambino geniale, buono e sensibile, farà grandi cose. Come Clowance... Come i gemelli, se sopravviveranno a Prudie".

Demelza sorrise, nonostante tutto. "Comincio a pensare che lei avesse ragione... Diceva che i gemelli sono esseri terribili e Daisy e Demian le stanno dimostrando che ci aveva ampiamente visto giusto".

"Bambini di carattere, non terribili...". Hugh sorrise pensando ai figli ma poi divenne improvvisamente serio e pensieroso, a quelle parole. "Lascio tante cose nelle tue mani e mi dispiace saperti sola ad affrontarle, anche se so che sarai bravissima. Forse domani non riuscirò a salutare Jeremy...".

"Non dirlo!".

"Sai anche tu che oggi è stato un dono... Ricordati cosa mi hai promesso, Demelza!".

Lei si asciugò le lacrime che avevano preso a cadere. "Cosa?".

"Che questa casa sarà piena di risate di bambini".

"Te lo prometto" – sussurrò, baciandolo sulle labbra. Avrebbe lottato col sangue perché fosse così, per lui e per i suoi figli.

Hugh rispose al bacio. "Lo so che lo farai! Sei una donna eccezionale, una fata, il miglior dono che mi abbia fatto la vita. Mi hai donato una famiglia, dei figli, obbiettivi per cui vivere e lavorare. Sono diventato un uomo migliore grazie a te... E il destino sa essere gentile e prodigo di doni ma ora arriva la parte più beffarda, succede sempre così".

"Possiamo ancora sperare... Sei quì, Hugh! Io voglio sperare, ne ho bisogno". Si tirò su, sentiva che doveva dire cosa aveva nel cuore, cosa provava, cosa sentiva ora. "Io non voglio che tu te ne vada, non voglio di nuovo sentirmi sola, coi miei bambini, senza la presenza di chi mi ha amato. Ti voglio accanto...".

Lui le prese le mani, stringendole fra le sue. "Ricordi quando ci siamo conosciuti?".

"Alla festa di Natale di Caroline, certo".

"C'era la nebbia, ricordi? Ricordi cosa ti avevo detto?".

Demelza sorrise dolcemente, ricordando quella sera di due anni e mezzo prima quando davanti a se non vedeva nulla se non un buco nero senza futuro. Quanto era diventato importante quel giovane poeta, per lei, da quella notte? Quanto avevano costruito insieme? Quanto avevano riso e gioito? "Mi dicesti che nella nebbia si nascondono gli spiriti e le fate. Le creature magiche...".

"Brava, piccola fata. La nebbia mi ha portato a te e ora nella nebbia potrai cercarmi. Io sarò lì, come sarò nella libreria e nella casetta sull'albero. Ma soprattutto, per te, nella nebbia. E' il nostro simbolo. Quando avrai bisogno di me, scrutaci attraverso e mi troverai e io sarò lì per te".

Demelza singhiozzò. "Jeremy ha ragione, non è la stessa cosa".

Hugh le prese il viso fra le mani, accarezzandolo. "Avrai tutto ciò che ti serve per essere felice, serena e senza pensieri per il futuro. Starai bene e anche i bambini. Avrai una bella vita, non è come quando hai lasciato la Cornovaglia, questa è la tua casa, la tua famiglia e io sarò in ogni angolo di questo posto, per voi... Cercami, parlami col cuore e io troverò il modo di risponderti. E ridi, ridi sempre. Viaggia, goditi la vita, divertiti, prendi un cavallo e galoppa finché sei esausta... Fa quello che vuoi senza pensieri, ora puoi e potranno farlo anche i nostri bambini. Tutti e quattro... Non ho potuto fare molto per loro, troppo poco tempo, ma gli lascio il mio nome di famiglia e con questo saranno accettati nel mondo, avranno una posizione e la possibilità di esaudire ogni loro desiderio. Sìì solo felice Demelza, vivi e fallo anche per me, quì o dove vorrai, dove ti potrai sentire a casa. Anche in Cornovaglia, se vorrai tornarci".

Demelza annuì, strinse la sua mano fra le sue, la portò alle labbra e la baciò e poi la tenne stretta contro il suo grembo. "Non c'è più nulla per me in Cornovaglia, la mia casa è quì. Sai Hugh, una volta mi hai chiesto se io ti amassi... E quello che posso dirti ora, che so ORA, è che sei stato il meraviglioso compagno di un pezzo importante della mia vita, l'unica anima gemella capace di raccogliere il mio cuore a pezzi, curarlo e farlo tornare a battere. Nessuno al mondo ne sarebbe stato capace... Io non so più se esiste l'amore assoluto ma so che tu sei stato l'amore perfetto di questo pezzo di vita, vero e sincero. Mi hai sempre detto che sono una fata e all'inizio non ci credevo e forse non ci credo nemmeno ora, ma mi fai sentire tale, solo tu... Solo tu hai visto una fata in una donna che, alla meglio, è stata sempre e solo definita la figlia di un minatore adatta solo a lavorare. Hai amato i miei figli, li hai cresciuti con me e loro ti porteranno sempre nel cuore, farai parte del loro essere e degli adulti che diventeranno. Grazie per aver incrociato il mio cammino, per avermi amata e per avermi permesso di amare di nuovo... Questa casa sarà piena di risate infantili, te lo giuro. E riderò con loro, ci riuscirò per te...".

Hugh sprofondò sul cuscino, inspirando profondamente, seppur a fatica. "Grazie..." - sussurrò, con gli occhi lucidi di chi finalmente sente pace e amore su di se.

"Sei stanco?".

"Voglio dormire... Ho freddo ma non importa...".

Demelza deglutì. Era ormai estate, faceva caldo e questo non era un buon segno. "Vuoi che accenda il camino?".

"No, voglio che tu apra la busta di Dwight e Caroline".

Lo accontentò, non poteva non farlo. Non voleva leggere, non voleva sapere di un'altra bambina che, come Julia... Ma lo fece, per lui. Gli avrebbe regalato il mondo se questo avesse potuto salvarlo. Aprì la busta e lesse, con gli occhi gonfi di lacrime. "Sarah è morta oggi pomeriggio, fra le braccia di Caroline..." - disse solo, fra i singhiozzi.

Hugh la guardò ma non pianse come lei. Anzi, sul suo viso comparve uno strano senso di pace. "E allora è arrivato davvero il momento di andare...".

"Che vuoi dire?".

La strinse a se, premendola contro il suo corpo. La baciò un'ultima volta sulle labbra, le accarezzò quei lunghissimi capelli rossi che adorava e poi chiuse gli occhi. "Che devo mantenere una promessa... Tutti ne dobbiamo mantenere una...".

Girò la testa di lato, affondò il viso nel suo collo e pian piano, cullato dal respiro di sua moglie, si addormentò senza dire altro. Demelza lo strinse a se accarezzandogli i capelli, gli prese la mano, la tenne stretta nella sua e le loro fedi nuziali tintinnarono toccandosi. Quella fede era lì, a ricordare a Demelza chi era l'uomo che aveva sposato, che era rimasto, che non aveva cercato altrove altre donne, che l'aveva amata e che era stato il padre dei suoi figli senza pensare mai di scappare. Suo marito...

La mano di Hugh divenne fredda nella sua e pian piano scivolò dal sonno alla morte serenamente, senza soffrire e senza accorgersene. E lei pianse in silenzio, disperata, di nuovo sola ad affrontare il mondo, senza più quell'uomo che le aveva fatto apparire la vita come un'immensa favola. Pianse, ci sarebbe stato il momento per essere nuovamente felici come promesso, ma c'era un momento per ogni cosa e quello era ancora il tempo delle lacrime.

E anche se Demelza non lo seppe mai, quel giovane poeta che l'aveva sposata raggiunse la bambina che, da qualche ora, lo stava aspettando per intraprendere con lui un lungo viaggio lontano, insieme.

Hugh aveva mantenuto la sua promessa...


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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


Le avevano spiegato che una Lady non piange mai in pubblico, non deve mostrare le proprie emozioni e soprattutto le sue debolezze. Gliel'aveva detto Lord Falmouth nel suo studio, con la sua classica compostezza unita però a due sofferenti occhi lucidi di chi aveva pianto tanto e dormito poco, poco prima dell'inizio della cerimonia funebre in cui avrebbe dovuto dire addio a quell'uomo che era stato per lei marito, poeta, anima romantica e innamorata, elfo o principe azzurro delle fiabe e padre dei suoi figli.

Si era vestita di nero, aveva cercato di trovare in se la forza di affrontare quella giornata come ci si sarebbe aspettati dalla Lady di casa Boscawen, aveva scavato dentro di se alla ricerca di coraggio e orgoglio perché la sua nuova famiglia e Hugh fossero orgogliosi di lei ed era uscita a viso alto e col cuore a pezzi. Aveva pianto tanto la notte precedente, stringendo a se i suoi figli e avrebbe pianto di nuovo al suo ritorno ma ora doveva essere forte, questo ci si aspettava da lei e anche se non capiva cosa ci fosse di male ad esternare i propri sentimenti, se queste erano le regole, doveva adeguarsi.

Aveva affidati i gemellini e Clowance a delle tate, non se la sentiva di portarli al funerale, erano troppo piccoli per capire e avrebbero disturbato la funzione, solo Jeremy le sarebbe rimasto a fianco. Suo figlio era sprofondato in un profondo stato di tristezza quando gli aveva detto che Hugh era volato in cielo, si era chiuso in camera sua per un'intera giornata rifiutando di mangiare e parlare con chiunque e solo con infinita pazienza era riuscita a farlo sfogare e piangere, come era giusto che fosse. Se lo era tenuto nel lettone, assieme agli altri bambini, quella notte, accarezzandogli la schiena e asciugando le sue lacrime ma era annientata e non trovando consolazione in lei, non riusciva a trovarne per lui. Era terribile, si sentiva sola, spersa, fredda senza l'alone di calore che Hugh emanava ogni volta che le era accanto. Era morto, giovane, con una vita davanti, pieno di sogni e speranze, con tanti libri che avrebbe voluto leggere e mai avrebbe sfogliato e con la consapevolezza di non poter vedere crescere i suoi amatissimi figli, portarli al parco di notte perché non dormivano, scoprire se avrebbero conquistato davvero la Scozia o se Daisy sarebbe diventata sul serio una piratessa, Clowance una regina o Jeremy un letterato. Era morto quando chiedeva solo tempo per amare e scrivere in versi i suoi sentimenti, era morto nel fiore degli anni lasciando lei, una donna che credeva di non essere capace di provare ancora sentimenti, disperata e inconsolabile. Le aveva fatto scoprire il lato più delicato e puro dell'amore, quello che sa dare incondizionatamente cercando di non ferire mai, quello unico e vero che non si aspetta null'altro in cambio se non di vedere felice chi si ama, quello vero, quello che non cerca altrove e ferisce e uccide. Quello che ti fa sentire la principessa di una fiaba amata da un principe che arriva su un cavallo bianco, che promette di amarti per sempre e poi lo fa sul serio...

Prese Jeremy per mano, lui aveva insistito per essere presente al funerale e non poteva negargli nulla in proposito, era abbastanza grande per capire, adorava Hugh e aveva diritto a dirgli addio, per quanto straziante potesse essere... Quando Ross era scomparso dalla vita di suo figlio, Jeremy era piccolissimo e non aveva realizzato così violentemente il distacco e di fatto suo padre non era mai stato presente per lui, non lo aveva mai né voluto né amato, ma Hugh... Hugh era suo padre più di quanto non lo fosse mai stato Ross, aveva passato tanto tempo con lui, gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva, avevano riso e si erano confidati l'un l'altro e costruito insieme talmente tante cose che ora, per il bambino, si era aperto un baratro davanti a se. Ora davvero Jeremy si sentiva orfano, ora aveva davvero perso un padre.

Salirono sulla carrozza, attesi da Lord Falmouth e Lady Alexandra, anche lei vestita a lutto, in nero, col viso celato dalla retina di un cappello. La guardò, provò pietà per lei perché conosceva bene il suo dolore e sapeva che non era paragonabile al dolore di nessun altro fra loro. Lady Alexandra aveva perso suo figlio, il suo unico e adorato figlio, la luce dei suoi occhi e il suo orgoglio più grande... Come lei, quando aveva perso Julia... D'istinto allungò la mano, accarezzò quella della suocera e la strinse nella sua.

Lady Alexandra alzò a malapena lo sguardo, annuì e ricambiò la stretta, impercettibilmente.

La Chiesa era gremita e al loro arrivo, Demelza sentì tutti gli occhi puntati su di se. Strinse la manina di Jeremy che tremava e mordendosi il labbro per cercare di non piangere, prese posto nella prima fila, riservata ai Boscawen.

C'erano tutti, tutta l'alta società londinese, rappresentanti della nobiltà, volti amici e volti meno noti ma comunque tutte persone della Londra alto-locata che avevano riverenza e rispetto per il casato o che avevano a che fare con Lord Falmouth, affari in comune o carriere politiche affini. Hugh non era molto conosciuto in quell'ambiete, era sempre vissuto ai margini di quella società ma la sua famiglia era fra le più antiche e nobili della capitale e godeva del rispetto di tutti coloro che contavano a Westminster e a corte. C'erano rappresentanti del Parlamento, notai, duchi e conti, principi e poi Lord Bassett, amico-nemico di Falmouth, sua moglie, la dolcissima Margarita che, fregandosene delle occhiatacce di sua madre e delle regole dell'etichetta, singhiozzava seduta sulla sua panca e tante altre persone che in quell'ultimo anno aveva incrociato nella sua nuova casa e di cui non riusciva, in quel momento, a ricordare i nomi.

Era confusa, annientata, l'unica sua certezza, l'unico dono bello della sua vita se n'era andato. Era suo destino rimanere sola ed era destino dei suoi piccoli crescere senza padre... Guardò Jeremy che aveva perso la sua guida, pensò a Clowance che di Hugh avrebbe avuto un ricordo sbiadito e poi gli si strinse il cuore nel realizzare che per i gemellini lui sarebbe stato solo un'idea vaga, una figura da immaginare ma che mai avrebbero potuto conoscere.

Guardò la bara in mezzo alla navata e immaginò il corpo giovane, dai lineamenti delicati e dal sorriso gentile che vi riposava dentro, al buio, senza più nessuna possibilità di assaporare la vita. Provò la voglia di piangere, una lacrima le scivolò dal viso e non riuscì a fermarla. Giuda, che male c'era a piangere per la morte del suo uomo?

Avrebbe voluto avere vicino Dwight e Caroline ma loro erano impegnati, in un'altra Chiesa, a dire addio alla loro piccola Sarah e in quei giorni durissimi ognuno di loro aveva dovuto far fronte al proprio dolore da solo, senza l'aiuto di altri... Demelza avrebbe voluto star vicino ad entrambi, il loro dolore, come quello di Lady Alexandra, era anche il suo, ma non poteva. Non ci riusciva... Ed era certa che anche Dwight e Caroline avrebbero voluto starle accanto ma non avevano potuto esserci per i medesimi motivi. Ci sarebbero stati, gli uni per gli altri, dal giorno dopo ma ora, adesso, ognuno sarebbe rimasto rintanato nel proprio mondo, a sopportare da solo il peso delle scelte che il destino aveva compiuto sulle loro vite.

La cerimonia scivolò via, fra parti rituali e ricordi e aneddoti sulla vita di questo giovane uomo, poeta e navigatore, che se n'era andato troppo presto. Jeremy si strinse a lei, affondò il viso contro il suo fianco e Demelza lo cinse con le braccia. Non gliene importava niente dell'etichetta e se Jeremy voleva piangere suo padre, aveva tutto il diritto di farlo e lei non glielo avrebbe impedito. E non lo impedì nemmeno a se stessa, quando calarono la bara nella terra. Lasciò scivolare silenziosamente le lacrime sul suo viso e lo ricordò vivo, che la portava a conoscere un cucciolo di tigre, che le lasciava poesie con un petalo di fiore ogni volta diverso nella busta, che si devastava le dita a martellate per costruire a Jeremy la casetta sull'albero, che insegnava ai suoi figli a scrivere per lei una letterina di Natale. Ed era così che lo avrebbe sempre portato nel suo cuore, vivo, gentile, sorridente... Non nella terra fredda, MAI! Hugh sarebbe stato per sempre il suo elfo magico nascosto nella nebbia, pronto ad accarezzare il suo cuore ogni volta che lei ne avesse avuto bisogno.


...


Quando rientrarono a casa, a sera tardi, Lady Alexandra si rifugiò nelle sue stanze e Lord Falmouth nel suo ufficio, non prima di averle detto che voleva parlarle quanto prima.

Lo rassicurò che sarebbe andata da lui appena sistemati i bambini e, dopo essere andata da Prudie ad abbracciare i gemelli e Clowance e avergli affidato Jeremy, silenzioso e cupo, li baciò e si recò da lui.

Percorse quei lunghi corridoi che ormai erano diventati famigliari ma che senza Hugh erano diventati come freddi e impersonali, come se non fossero più casa...

E mentre camminava, da sola, si concesse un lungo pianto. Si accasciò in terra, era in un corridoio buio e deserto e nessuno avrebbe visto che piangeva come sanno piangere le figlie dei minatori e non le Lady. E non le importava, lei voleva piangere, voleva lasciar andare il suo dolore e sentiva di averne il diritto. Aveva perso l'unica persona al mondo che l'avesse davvero amata, suo marito e il padre dei suoi bambini ed ora era sola, di nuovo... E doveva essere forte, per lui e ciò che gli aveva promesso e per i suoi figli. Soprattutto per loro!

E quando si riprese, quando finì quel suo sfogo solitario, andò da Lord Falmouth. Bussò alla porta e la voce sommessa dell'uomo la invitò ad entrare.

Era seduto alla sua scrivania, il volto scavato dal dolore e i capelli sempre perfettamente pettinati ed ordinati erano in disordine come se ci avesse passato istericamente le dita fra una ciocca e l'altra. Aveva gli occhi arrossati, come lei... E forse anche lui, da solo, aveva pianto poco signoribilmente quel nipote ormai perso che per lui era stato come un figlio. "Demelza, siediti" – chiese, con aria stanca.

Lei annuì, andò alla scrivania e si sedette davanti a lui, sfinita. E Lord Falmouth le avvicinò dei fogli, scritti in bella grafia, firmati da Hugh e da qualcun altro che lei non conosceva. "Cosa sono?" - chiese, confusa e incerta sul perché fosse lì quando avrebbe voluto solo andare dai suoi bambini, chiudersi in camera e trovare in loro la forza di vivere.

Lord Falmouth le sorrise, gentilmente. "Le volontà di Hugh, che ha redatto tre mesi fa con me e un notaio. Non voleva che te ne parlassi prima di... prima..." - si interruppe, con voce rotta, poi si ricompose – "Prima che se ne andasse... Non voleva turbarti prima del dovuto e ha pensato a ogni cosa per tutelare te e i bambini senza darti disturbo".

"Cosa?". Lo guardò, non ci capiva un accidenti di quel fiume di parole dal dubbio significato e non aveva idea di cosa Lord Falmouth stesse parlando.

L'uomo sospirò, prendendole una mano nella sua e stringendola gentilmente. "All'inizio, Demelza, tu non mi convincevi. Ti ho guardata, soppesata e studiata in silenzio con occhi attenti e clinici, come Hugh non poteva fare perché guidato dai sentimentalismi che da sempre hanno spinto il suo agire. Lo sai bene pure tu, pensavo fossi una piccola arrivista in cerca di ricchezza e di un nobile dal ricco patrimonio, ma...".

Lo sguardo di Demelza si indurì. "Ma?".

"Ma aveva ragione lui, Hugh..." - ammise infine Falmouth, sorridendole di nuovo. "Sei entrata in questa casa e in questa famiglia e noi ti amiamo. Hai portato una nuova luce in questa casa, hai dato gioia non solo a Hugh ma anche a me ed Alexandra, hai reso la nostra vita più famigliare e intima, hai portato a noi due bambini deliziosi e ci hai resi più ricchi con la nascita inaspettata e incredibile di due sani gemelli. Hugh ti ha scelta e ha scelto bene... Il suo cuore lo ha guidato nella giusta direzione e io sono felice che tu sia quì e mi sarei preso cura di voi in qualunque caso... Ma Hugh ha voluto mettere per iscritto ciò che desiderava e ora ti devo rendere partecipe delle sue scelte".

Rimase senza fiato, commossa da quelle parole tanto simili a quelle che le aveva rivolto Francis anni prima, il giorno in cui era morto alla Wheal Grace. E quella casa che le era apparsa poco prima fredda e priva di calore, tornò improvvisamente a battere di calore e amore nelle sue vene. Era a casa e quella era la sua famiglia... "Scelte?".

Falmouth annuì. "Ero intenzionato a gestire da me la parte di patrimonio spettante a Hugh, in attesa che i bambini fossero abbastanza grandi per farlo da soli. Avrei provveduto a te dandoti, come faccio con Alexandra, un generoso appannaggio mensile e avrei disposto del denaro di Hugh per la gestione dei bambini. Jeremy e Clowance, in quanto figliastri, entrano nell'asse ereditario ma in maniera minore rispetto a Daisy e Demian. Beh, così dice la legge, quanto meno... Ma Hugh non era d'accordo, ha dato il suo cognome ai tuoi primi figli e li ha amati come ha amato i suoi gemelli e in base a questo ha fatto scelte precise a loro riguardo".

"State parlando di denaro?". Demelza scosse la testa, i soldi non le erano mai interessati e non aveva voglia di parlarne proprio ora, dopo aver seppellito suo marito.

Falmouth parve capire le sue titubanze e si affrettò a spiegare. "Dobbiamo parlarne ora perché Hugh me lo ha chiesto. Ora e poi non affronteremo mai più l'argomento. Puoi sopportarlo?".

"Se Hugh voleva questo, lo sopporterò" – rispose, pensando a quanto avesse riflettuto Hugh su faccende come denaro e testamento che tanto distanti erano dal suo essere.

Falmouth srotolò il documento che teneva in mano. "Hugh desidera che sia tu a entrare in possesso dell'intera parte di patrimonio di sua proprietà. Denaro, titoli, diversi cottage fuori Londra e altre proprietà sparse per l'Inghilterra, la parte di questa casa che era di sua proprietà, da oggi sono tuoi e a te spetta la loro amministrazione. Ho piena fiducia in te e ne aveva anche Hugh e...".

Demelza scattò sulla sedia, incredula. "COSA?". Giuda, come poteva essere, come poteva fare a gestire un qualcosa di tanto grande? Come aveva potuto Hugh fare una scelta tanto folle? Era la figlia di un minatore lei, lui lo sapeva che non poteva esserne capace! Era impazzito?

Falmouth sorrise a quella sua reazione. "Hugh mi disse che nessuno avrebbe saputo amministrare meglio di una madre il patrimonio che poi passerà in eredità ai suoi figli. Sei una donna intelligente, piena di volontà, che apprende in fretta e che ama i suoi bambini e benché avrei preferito essere io a gestire tutto, sono d'accordo con la scelta di Hugh perché in te vedo le capacità per farcela. Hai carisma e un occhio più attento e lungimirante di mio nipote per gli affari, sono certo che farai bene e di fatto, se ne avrai bisogno, io sarò quì ad aiutarti. Per quanto riguarda i bambini... Hugh ha disposto che il patrimonio che gestirai venga diviso in quattro parti uguali fra i tuoi figli, equiparando i diritti di Jeremy e Clowance a quelli dei gemelli. Entreranno in possesso della loro parte al compimento della maggiore età e sarai tu, nel frattempo, a gestire il patrimonio che Hugh ti ha affidato. In più avrai per te stessa il tuo appannaggio mensile, della somma doppia rispetto a quella che do a mia sorella Alexandra perché tu rappresenterai assieme a me i Boscawen, parteciperai con me a eventi e feste e le spese per essere impeccabile e ammirata sono superiori di quelle di tua suocera. Sei la punta di diamante di questo casato, la Lady dei Boscawen, Hugh ha deciso di darti piena fiducia e di predisporre perché tu e i piccoli abbiate davanti un futuro radioso e sereno. Per il resto, io continuerò ad occuparmi degli affari di famiglia e di politica, gestirò l'immagine del casato e continuerò ad essere lo zio presente che sono sempre stato per i bambini. Le abitudini della cena insieme, delle chiacchiere estive in giardino, delle passeggiate con Jeremy e quant'altro, che tu hai portato con Hugh in questa casa, devono proseguire. Ora e per sempre. Hugh desiderava anche questo!".

Tremò, spaventata da quel fiume di parole e dalla vastità del dono fattale da Hugh e dal carico di responsabilità annesso. Lei... Lei, Demelza Carne, figlia di un minatore e moglie ripudiata di un nobile di campagna, giunta a Londra pochi anni prima senza un soldo e con due figli piccoli da mantenere, era ora una delle donne più facoltose e ricche di Londra. Avrebbe avuto mille impegni, mille responsabilità, un nuovo stile di vita e il dovere di gestire non solo i suoi figli e il loro futuro ma anche quello della casata di cui era entrata a far parte e di cui i suoi bimbi erano di fatto eredi. Tutti, allo stesso modo... Hugh aveva dimostrato e desiderato mettere nero su bianco quanto li amasse, senza fare distinzioni. Avrebbe voluto picchiarlo per la grande responsabilità che le aveva lasciato sulle spalle e baciarlo per quella grande prova d'amore che le aveva dato. "Non so che dire...".

Falmouth si alzò dalla sedia, invitandola a fare altrettanto. "Stasera non devi dire nulla, è il momento del lutto, questo. Ora devi solo andare dai tuoi figli, abbracciarli e piangere con loro mio nipote, tuo marito e loro padre. E da domani penseremo a iniziare una nuova vita, Lady Armitage. O Lady Boscawen... Ti chiameranno in entrambi i modi, cerca di abituarti".

"Va bene... Ma mi aiuterete?".

"Sono quì per questo, Demelza. Costruiamo un futuro brillante per i quattro piccoli eredi di questo casato. In memoria di Hugh...".

Sorrise, dolcemente. "Per Hugh". Gli strinse la mano ma poi cedette al desiderio di abbracciarlo. Stava soffrendo, quanto lei. Aveva perso suo nipote e tante idee che lo avevano sorretto negli anni erano crollate col suo arrivo e aveva dovuto reinventarsi a un'età non più giovane. E ci era riuscito, dimostrando una grande forza ed intelligenza. Voleva bene a Lord Falmouth, lo ammirava ed era grata della sua presenza nella vita dei suoi figli soprattutto ora che Hugh non c'era più.

Lo salutò con affetto, col cuore un pò più leggero e poi tornò nelle sue stanze.

Quando arrivò, c'era Mary in camera da letto coi bambini. Era la domestica privata di Lord Falmouth e spesso aveva curato i piccoli, dando il cambio a Prudie. Clowance dormiva sul lettone e stranamente lo stava facendo anche Demian, fra le braccia della sorellina. Daisy invece dormiva nella culla, da sola come sempre, mentre Jeremy era seduto sul davanzale della finestra, intento a guardare il giardino sottostante ormai avvolto dal buio della sera.

Congedò Mary e si avvicinò a suo figlio, al suo piccolo ometto che stava soffrendo quanto lei e che era quello che più capiva l'immensità della tragedia che li aveva colpiti. Era fiera di lui, era stato un figlio bravo sia durante la vita di Hugh sia durante il suo funerale, dimostrando una maturità superiore ai suoi sei anni. Era ancora tanto piccolo e aveva già così sofferto... "Cosa guardi?" - gli chiese, sedendosi sul davanzale davanti a lui.

"Niente... Pensavo".

"A cosa?".

Jeremy abbassò lo sguardo. "Papà mi ha chiesto di leggere le fiabe ai miei fratelli. Ma io voglio lui quì a leggerle, anche a me! Voglio il mio papà!".

Gli accarezzò il visino nuovamente rigato di lacrime, lo strinse a se e cercò le parole giuste per consolarlo. "Hugh non è stato per troppo tempo il tuo papà ma è stato un genitore talmente bravo che resterà sempre nel tuo cuore e tu, per farlo contento, dovresti fare quello che lui ti ha chiesto".

Jeremy singhiozzò. "Poco tempo, troppo poco! Non è giusto...".

Gli sorrise, se lo prese sulle ginocchia e lo strinse a se. "Vuoi saperla una storia?".

"Quale?".

"La mia, di quando ero piccola come te...".

"Sì".

Demelza sospirò, chiuse gli occhi e con la mente tornò ad Illugan, nella povera casa dov'era nata e cresciuta. "Sai, il mio papà... tuo nonno... Non era buono con me. E' stato mio padre a lungo, per quattordici anni. E io per quattordici anni ho ricevuto solo botte, cinghiate sulla schiena, pugni e brutte parole. Non avevo cibo, non avevo vestiti e non ho mai ricevuto un gesto gentile da lui... E quindi vedi, non è importante per quanto tempo un bambino abbia un padre, la cosa importante è COME si passa il tempo insieme. Tu e papà siete stati insieme solo tre anni ma sono stati tanto belli, felici e preziosi, che valgono una vita. E sei stato un bambino fortunato a vivere questi anni con lui... Ti ha amato tanto, come pochi padri sanno amare un bambino, eri il suo preferito e stravedeva per te e quindi Jeremy, tre anni sono pochi ma nel tuo caso valgono una vita e ne dovrai sempre fare tesoro".

Jeremy si voltò a guardarla, pensando a quanto le aveva appena detto. "Sì, io ho avuto un bravo papà. Non tutti i bambini ce l'hanno... Tu non lo avevi, nemmeno io una volta, ne avevo uno cattivo ma poi ho trovato un papà bravissimo! Tu no?".

Demelza sussultò per quel vago accenno – voluto o casuale – di Jeremy a Ross. Ma decise per il momento di ignorarlo. "No, ma poi son stata ripagata in un altro modo".

"Come?".

Si chinò a baciarlo sulla punta del nasino. "Con quattro bellissimi bambini, i migliori del mondo".

Jeremy arrossì, imbarazzato. "Mamma?".

"Sì".

"Il mio primo papà, quello cattivo, mi picchiava come faceva il tuo?".

Demelza spalancò gli occhi, presa alla sprovvista da quella domanda che non si aspettava. "No... Certo che no! Non era il tipo e io non glielo avrei comunque permesso".

Jeremy si rannicchiò fra le sue braccia. "Ma era cattivo lo stesso, io non gli piacevo, non mi voleva e voleva buttarmi via... Per fortuna poi ho avuto un papà nuovo bravo. Hai ragione, sono stato fortunato".

Era felice che Jeremy avesse trovato una consolazione ma quelle parole dette verso Ross... Un papà cattivo... Ricordava quando, durante la gravidanza dei gemelli, si era lasciata andare a uno sfogo con lui che forse avrebbe dovuto evitare e che evidentemente aveva lasciato il segno ma come poteva mentirgli? Come poteva dirgli che anche Ross lo aveva amato quando era palesemente una bugia? Ross non aveva mai voluto Jeremy, non gli era mai importato nulla di lui, né se avesse cibo, né se avesse freddo, per lui era importante solo Jeoffrey Charles e avrebbe tolto volentieri a Jeremy anche il poco che aveva, se fosse servito a far contento suo nipote ed Elizabeth. Ross non aveva mai degnato di uno sguardo Jeremy, mai lo aveva visto guardarlo con amore, affetto o semplice desiderio di fare qualcosa insieme a lui... Ross voleva solo prendersi cura di Elizabeth e appena ne aveva avuto l'occasione, era fuggito da lei abbandonando tutti loro. "Fortunato, sì..." - rispose, con quel nuovo peso nel cuore.

"Il mio primo papà non mi voleva bene?" - chiese Jeremy, insistendo.

"No".

"E a te?".

"No".

"E a Clowance? Clowance piace a tutti, mamma".

Scosse la testa. "No, nemmeno a Clowance...". Lo abbracciò, forte. "Nella vita Jeremy, dobbiamo fare delle scelte. E io ho scelto Hugh come vostro padre, l'UNICO padre. Non pensare a nessun altro, ricorda lui e quanto ti ha amato. E dimentica tutto il resto, non ha senso pensarci, non ha senso pensare a chi non ha voluto aver cura di noi. Questa è la nostra casa, questa è la nostra famiglia e noi dobbiamo viver quì, con chi ci ama e ha piacere ad averci vicini. Il resto...".

"Non conta..." - concluse, il bambino.

"No, non conta. Dobbiamo ricordare chi ci ha fatto del bene, non chi ci ha fatto del male".

Jeremy fece per rispondere, ma i vagiti di Daisy dalla culla, fecero voltare entrambi. "Fra un pò strilla!" - esclamò il bambino.

Demelza si avvicinò alla culla, prendendo in braccio la piccola che si era svegliata e si tormentava le manine mordendosele. "Amore mio...". Le davano fastidio le gengive, fra un pò avrebbe iniziato a piangere sul serio, svegliando i due bambini che ancora dormivano. "Jeremy, vado a farle un biberon con della camomilla. Potresti dare un occhio a Clowance e Demian mentre sono via?".

"Sì!".

Gli sorrise, era un bravissimo bambino. Strinse a se Daisy e uscì dalla stanza giusto in tempo prima che la piccola iniziasse a piangere disperata. "Shh amore, ora passa" – le sussurrò, pensando a quanto si sarebbe preoccupato Hugh per quei piccoli e normali malesseri infantili.

Prudie uscì nel corridoio, destata dal rumore del pianto della piccola. In camicia da notte, con la cuffia sulla testa, le si avvicinò per aiutarla. "Tutto bene?".

"Vado a farle una camomilla, piange per i denti...".

Prudie guardò storto la piccola. "Prima le coliche, ora i denti... Questa marmocchia trova sempre scuse per piangere".

"Forse le manca anche il suo papà... Hugh se la cullava sempre la sera, per farla addormentare" – sussurrò Demelza, con voce rotta.

Prudie abbassò il capo, sospirando. "Vengo io ad aiutarti con la camomilla, ragazza. Tu occupati della piccolina mentre la preparo".

"Grazie" – sussurrò Demelza, prendendola sotto braccio.

Scesero fino alle cucine, deserte, e Demelza si sedette su una sedia con Daisy sulle gambe mentre Prudie scaldava dell'acqua. "Sai, Hugh ha fatto testamento alcuni mesi fa... Me lo ha comunicato prima Lord Falmouth".

Prudie si voltò, sorpresa. "Ed è una cosa bella?".

"E' una cosa che fa paura, ora avrò tante responsabilità. Mi ha nominata tutore assoluto dei suoi beni, compresa l'eredità che andrà ai bambini. Ha disposto che loro quattro abbiamo la stessa eredità, tutto sarà diviso in parti uguali".

Prudie sbiancò. "Clowance e Jeremy avranno le stesse cose dei gemelli?".

"Sì... Hugh amava i miei figli, per lui erano suoi come lo sono Daisy e Demian. Non ha voluto fare distinzioni fra loro e così facendo ha evitato gelosie future, garantendo a tutti e quattro un rapporto sereno fra fratelli. E tutto il resto è in mano mia, mi ha sempre dato massima fiducia e ha preferito me a Lord Falmouth per amministrare i suoi beni e io...".

"E tu?".

"E io non so se me lo merito. Sono Lady Armitage ma in fondo al cuore non ho mai smesso del tutto di sentirmi Demelza Poldark. Non è giusto, non verso Hugh. Ross mi ha tradita, mi ha lasciata, ha abbandonato i suoi figli lasciandoli senza nulla e io, nonostante abbia trovato un uomo meraviglioso che ha preso il suo posto e ha fatto ciò che lui non ha mai voluto fare, non ho mai lasciato andare completamente quel ricordo di lui. Ma ora basta... Ora voglio essere una donna degna di lui, una donna di cui Hugh possa essere orgoglioso assieme alla sua famiglia. Voglio fare bene per chi mi ha fatto del bene e cancellare ogni traccia dentro di me di chi mi ha solo umiliata e tradita. Ross nemmeno ricorda che sia mai esistita, vive felice con la famiglia che ha sempre desiderato e sarà un padre e un marito meraviglioso e io... io vivrò la mia di vita. Quì, con queste persone che mi amano, che amano i miei figli e che mi hanno accolto dando a tutti noi una famiglia. Demelza Poldark non esiste più, da oggi. Sarò Lady Armitage, la Lady di questa famiglia e lotterò per rappresentarla al meglio in attesa che i miei figli crescano".

Prudie si avvicinò, accarezzandole la guancia e dando il biberon con la camomilla a Daisy. "Ci riuscirai? Riuscirai a dimenticare?".

"Dimenticherò Ross e il male che mi ha fatto. Non chi sono, quello mai e tu devi aiutarmi a rimanere me stessa in questo nuovo mondo dove sono capitata".

Prudie sorrise. "Dimenticherai Ross? Davvero?".

"Lo farò, come lui ha fatto con noi del resto".

Prudie sospirò. "Io non credo che lui abbia dimenticato... Credo che abbia fatto errori enormi ma dimenticare, mai. Lui non dimentica, soprattutto le sue colpe...".

"Lui non considera una colpa ciò che ci ha fatto. Non valevamo nulla ai suoi occhi. Prima di tutto veniva Elizabeth con Jeoffrey Charles, poi Trenwith, poi i minatori e le loro famiglie e in fondo alla lista, se gli rimaneva del tempo e ne aveva voglia... arrivavamo noi. Tu c'eri, tu hai visto... E hai visto anche Hugh e come dovrebbe essere l'amore".

Prudie le scompigliò i capelli. "Sì, c'ero e ci sarò per aiutarti. E ora su, porta questa monella a letto, è tardi e le orecchie della vecchia Prudie sono esauste per i suoi strilli...".

Demelza annuì, baciò la testolina della piccola che si era calmata e si scolava la sua camomilla e tornò in camera accompagnata da Prudie che poi si congedò nella sua stanza. Camminando, guardò le pareti, i corridoi, i grandi saloni e il giardino fuori dalle finestre. Era suo, tutto suo. E lei era la moglie di Hugh Armitage, la Lady di quella casa e la madre dei suoi quattro eredi. Era ora di mantenere fede al suo ruolo e ricambiare l'amore e la fiducia immensa che le aveva conferito Hugh...

Entrò in camera, trovando i bambini svegli. Jeremy, seduto sul letto, cercava di calmare il pianto di Demian e Clowance faceva le linguacce al fratellino nel tentativo di farlo ridere.

Demelza si avvicinò, sedendosi sul letto. "Demian, Demian... Vieni dalla mamma, su" – disse, prendendo il bimbo fra le braccia.

Demian la guardò, si strinse al suo collo e si calmò all'istante, facendo ridere Clowance. "Mammone!".

"Temo di sì".

"Posso dare io il biberon a Daisy?" - chiese la piccola.

"Certo, dobbiamo aiutarci fra noi, da ora" – rispose Demelza. "Tu darai il biberon e Jeremy la terrà in braccio mentre io mi occupo di Demian il mammone!".

Jeremy, entusiasta, prese Daisy e Clowance sorresse il biberon per aiutare la sorellina a bere.

E Demelza li guardò, sentendosi infinitamente triste per la perdita di Hugh che avrebbe saputo amare infinitamente quel momento tutti insieme, ma anche infinitamente ricca per ciò che la vita le aveva dato.

Avrebbe lottato per i suoi figli e per il futuro che li attendeva, avrebbe pensato solo a loro e al bello che la circondava, dimenticando le cose brutte del passato. Sarebbe sempre stata Demelza Carne, nel cuore. Ma mai più una Poldark...

E quella notte nacque definitivamente Lady Armitage. Ora era sul serio una Boscawen.

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


Cornovaglia, 2 anni dopo la morte di Hugh Armitage...


Finito di ispezionare il nuovo tunnel apertosi dopo l'esplosione con la dinamite che avrebbe portato, secondo le sue speranze, a un nuovo filone di rame, Ross risalì le scalette che portavano all'esterno della Wheal Grace. Era soddisfatto, i suoi calcoli si erano rivelati esatti e a breve la sua miniera avrebbe ulteriormente arricchito i suoi frutti e lui avrebbe potuto dare lavoro a nuovi minatori rimasti senza occupazione dopo che George Warleggan aveva chiuso, per ripicca a qualche torto che pensava di aver subito, una delle sue miniere della zona.

Sudato e pieno di polvere dalla testa ai piedi, Ross uscì all'esterno per prendere una boccata d'aria. Si tolse la camicia, la sbatté per togliersi di dosso un pò di sporco e a petto nudo osservò il meraviglioso paesaggio estivo della Cornovaglia. Il sole stava iniziando a tramontare, il cielo era rosato e il vento di solito impetuoso di quelle terre, quel giorno assumeva i contorni di una leggera e piacevole brezza. I minatori stavano tornando a casa per la cena, gli affari andavano a gonfie vele e tutto sarebbe andato ulteriormente bene col nuovo tunnel da esplorare.

Zachy Martin, il suo compagno di scorribande nel sottosuolo, lo raggiunse. Il loro rapporto anni prima, dopo quanto successo con Demelza, si era raffreddato e deteriorato ma col tempo, lavorando fianco a fianco in quella miniera che per entrambi rappresentava una ragione di vita, si erano ritrovati, capiti, avevano compreso gli stati d'animo di ognuno e pian piano erano tornati il rispetto e una nuova forma di amicizia, più adulta e consapevole delle rispettive debolezze. "E allora Ross? Che ne dici?".

Si appoggiò alla balaustra, osservando la linea del mare all'orizzonte. "Dico che la sotto c'è qualcosa di interessante. Ci sarà da lavorare e avremo bisogno di uomini per farlo".

Zachy alzò un sopracciglio. "Uomini che abbiamo... Ne hai assunti dieci in più di quanti ce ne servivano, un mese fa. Possiamo utilizzare quelli per esplorare il nuovo tunnel".

Ross scosse la testa. "Lavorano ai piani superiori della miniera, ci sono nuovi filoni anche lì, rimasti inesplorati. Non posso sovraccaricare i minatori di ulteriore lavoro".

"Ross, Ross... Non puoi dare lavoro a tutti i minatori disoccupati della Cornovaglia, non puoi salvare il mondo. Sai benissimo che il personale già assunto è sotto-occupato e che non abbiamo bisogno di uleriore manodopera. Lo so che ti preoccupi per gli uomini licenziati da Warleggan ma non puoi fare più di quello che già fai".

Ross sospirò, sapeva che Zachy aveva ragione ma voleva comunque fare qualcosa e, dopotutto, qualche minatore in più non lo avrebbe mandato sul lastrico. Gli affari prosperavano, gli stipendi venivano pagati con regolarità e tutto andava bene, perché no? "Dieci minatori in più aiuteranno a distribuire meglio il carico di lavoro".

Zachy spalancò gli occhi. "Dieci?".

"Dieci... Per ora... Se il filone la sotto si dimostrasse ricco quanto immaginiamo, dovremo assumerne comunque altri".

Zachy sbuffò. "SE sarà un filone fiorente, certo. Ma ora, così, alla cieca... Ross, tu non diventerai mai ricco, se vai avanti così".

"Non voglio essere ricco, voglio solo avere il necessario per mantenere la mia casa e pagare i miei uomini. Niente più, niente meno...".

Zachy gli diede una pacca sulla spalla, arreso all'idea che non gli avrebbe fatto cambiare idea, come al solito. "E allora, fa come desideri...".

Ross si appoggiò alla balaustra, pensieroso. "Tuo figlio, Jago, cerca ancora lavoro?".

A quella domanda, lo sguardo di Zachy si fece cupo. "Jago è la mia spina nel fianco. Averlo sott'occhio quì mi sarebbe di grande aiuto e mi farebbe stare più tranquillo ma quella testa calda è partito in cerca di avventure per mare, spinto da amici che gli hanno messo in testa pericolose idee rivoluzionarie che arrivano dalla Francia. Ho paura che si metta nei guai, Ross... I ragazzi, a quell'età, agiscono senza pensare e lo sai anche tu, a volte le conseguenze possono essere gravi".

Lo guardò, preoccupato, non ne sapeva nulla di quella storia. "Ora dov'è?".

"Su un mercantile nei mari a sud della Francia, credo... O così mi ha detto nell'ultima lettera che ho ricevuto ma chi può dire dove sia esattamente? Ah Ross, non sapere dov'è un figlio, cosa fa e se sta bene, ti assicuro che è una vera tortura...".

Si bloccò di scatto e Ross capì il perché di quell'improvviso momento di imbarazzo. "So bene cosa si prova, Zachy e non devi preoccuparti a parlarmene...".

L'uomo si morse il labbro. "Scusa, non volevo essere inopportuno ma è passato talmente tanto tempo che a volte dimentico che è successo davvero tutto quello che ha colpito te e la tua famiglia. E sai, viste le scelte che hai fatto allora, non ho mai capito se Demelza e i bambini siano una tua preoccupazione adesso. Non ne parli mai".

Ross si oscurò, era davvero questa l'immagine che dava di se agli altri? Era questo che pensavano di lui? Che non si logorasse dalla preoccupazione di sapere dove fossero Demelza e i suoi bambini? Ogni giorno, appena si svegliava, aveva quel pensiero fisso, quel dolore nel petto che mai se ne sarebbe andato... Erano passati cinque anni e mezzo da allora, Jeremy aveva ormai circa otto anni, il suo secondo figlio o figlia cinque e lui non sapeva più nulla di loro. "Ho fatti tanti errori Zachy e li hanno pagati loro in prima battuta. E poi io, con tutti questi anni di nulla che sicuramente mi meritano ma che mi uccidono pian piano... Come puoi pensare che non mi importi di Demelza e dei miei bambini? Erano la cosa più bella che avevo e ogni volta che penso a loro, mi sento risucchiare ogni alito di vita in corpo e realizzo che questa miniera e farla funzionare bene, dare lavoro a quanta più gente possibile, è l'unica cosa che mi faccia sentire utile a qualcosa e vivo".

"Mi spiace, scusa. Non volevo essere indelicato ma credevo che fosse stata una scelta condivisa la vostra, quella che lei partisse coi bambini".

Ross scosse la testa pensando a quei giorni confusi e ormai lontani dove tutto pareva sfuggirgli dalle mani e dove ogni cosa che faceva si tramutava in un disastro. Era passato molto tempo da allora ma faceva male lo stesso, sempre di più. Ed era in giorni soleggiati come quello che, guardando l'orizzonte, si aspettava di vederla arrivare coi capelli rossi mossi dal vento, sorridente, coi suoi bambini che gli correvano incontro per tornare a casa tutti insieme dopo una giornata di lavoro. Come avrebbe voluto che succedesse e come era cocente ancora oggi, la dura realtà. Nessuno sarebbe venuto da lui per tornare a casa insieme e lui non avrebbe mai potuto ammirare di nuovo quei meravigliosi capelli color fuoco che lo avevano stregato. Perché non le aveva mai detto quanto li considerasse belli e seducenti? Perché non le aveva mai confessato quanto amasse sentire la sua voce cantare solo per lui e per i loro bambini e quanto ne fosse geloso? Perché aveva taciuto su quello e tante cose che, forse, le avrebbero potuto far piacere e l'avrebbero fatta partire senza la cocente ed errata certezza che per lui lei non significasse nulla? Questo faceva più male, saperla lontana e convinta e di non essere mai stata amata. "Fu una scelta di Demelza quella di andarsene, inevitabile. Aveva ragione lei, non poteva fare altro per il bene dei nostri figli e io non avevo la forza di darle alternative plausibili. Avevo rovinato tutto e non c'era strada di ritorno. Ma in tutti questi anni... Questo silenzio che può voler dire che sono felici o che non ce l'hanno fatta... Zachy, so cosa provi, so cosa vuol dire non sapere nulla di chi ami, non sapere cosa fa tuo figlio e com'è diventato, non sapere se la donna che ami sta bene e non sapere come vive e se ha bisogno di qualcosa. Ma non devi preoccuparti, nel tuo caso Jago ha avuto un buon padre, ha la testa sulle spalle e lo hai cresciuto tu. Tornerà e tu sarai orgoglioso di lui. Ogni ragazzo ha, nella sua vita, un periodo in cui diventa testa calda, io stesso sono stato così da giovane ma poi, come vedi... Ora sono quì. E presto darò lavoro a dieci nuovi minatori" – concluse, cercando di alleggerire il discorso.

Zachy sorrise, tristemente, dandogli una leggera pacca sul braccio. "Finirai sul lastrico, caro Ross".

Ross rise. "Finiremo sul lastrico. Sei mio socio, ci terremo compagnia e farà meno male finire col sedere a terra in due!".

Zachy sospirò. "ERI una testa calda? Sei sicuro di non esserlo ancora?".

Ross gli strizzò l'occhio. "Sono migliorato. E ora, da buon padre di famiglia torno a casa, strada facendo mi faccio una nuotata nel mare per pulirmi da tutta questa terra che ho addosso e poi vado a vedere che combinano i miei due domestici e mio figlio".

"Oh, Valentine! Perché non lo porti quì, ogni tanto? Giocherebbe coi figli dei tuoi minatori e si divertirebbe di più che a Nampara, da solo coi domestici".

Ross si adombrò. Non portava mai Valentine con se, faticava ancora a stabilire un rapporto sereno e duraturo per tutto l'arco della giornata con lui ed era più comodo lasciarlo a Nampara e vederlo solo di sera. Non aveva un vero e proprio rapporto con lui, non erano padre-figlio ma il loro sembrava più un freddo rapporto di... cortesia... Non che non gli volesse bene ma era come bloccato dal lasciarsi andare con quel bambino in cui vedeva ancora la causa di ogni suo male e dispiacere. Era l'emblema vivente del suo fallimento, Valentine. E poi si sentiva in colpa nell'immaginarsi con lui, a giocare, quando con i suoi altri due figli non era riuscito a fare niente del genere ne a prendersene cura. "Valentine lo sai... è delicato. I bambini del villaggio lo farebbero a pezzi".

"E' ora che inizi a conoscere il mondo" – obiettò Zachy.

"Lo farà a tempo debito. In fondo ha solo cinque anni" – disse, come scusa.

Zachy capì che non era il caso di insistere e lo salutò con un cenno del capo. "Vado a casa adesso, è davvero tardi. A domani allora, Ross... E medita su quei dieci minatori che vuoi assumere".

Ross rise, scendendo gli scalini. "Mediterò, stanne certo. Devo capire se ce ne servono di più".

Zachy alzò gli occhi al cielo, rassegnato all'inevitabile. "Sei pazzo".

"Sono lungimirante" – gli rispose, salendo a cavallo e partendo al galoppo. Si sentiva tranamente ottimista sulle sorti della miniera e del nuovo filone di rame che aveva trovato, sarebbe andata bene e forse avrebbe ulteriormente ampliato il suo giro d'affari e la mole di lavoro.

Galoppò col sole negli occhi, arrivò alla sua spiaggia e si spogliò, entrando nell'acqua fresca e trovando in essa giovamento da fatiche e pensieri. Nuotò per lunghi minuti, sentendosi rinascere. Si lavò i capelli, si passò il petto incrostato di polvere e quando si sentì sufficentemente pulito, uscì fuori e si mise i vestiti di cambio che aveva portato con se.

E poi tornò a casa, al galoppo.

Quando giunse a Nampara, dopo aver messo a riposo nella stalla il cavallo, qualcosa di anomalo colpì la sua attenzione. Valentine, che di solito se ne stava in cucina a ciondolare attorno ai Gimlet, era fuori, seduto al tavolo di legno a ridosso del muro di cinta. E non era solo, ma in dolce compagnia...

Una bimbetta mora, vestita elegantemente con un vestitino rosso di fattura scozzese, con lunghi boccoli neri elegantemente pettinati e un nastrino fra di essi, gli sedeva davanti, chiacchierando con lui ed esibendo una ricca parlantina. Aveva circa la stessa età di suo figlio e non aveva la minima idea di chi fosse...

Appena Valentine lo vide, lo salutò con la manina. "Ciao papà!" - esclamò, contento di vederlo. Da piccolo era stato molto male a causa del rachitismo e dopo un pò i rimedi arcaici del dottor Choake erano stati abbandonati quando non si erano visti miglioramenti, perciò Ross aveva deciso che aria e luce gli avrebbero fatto meglio che le tante medicine da ciarlatano che i medici gli avevano prospettato. E Valentine in effetti era migliorato ed ora appariva molto più florido rispetto ai suoi primi anni di vita, anche se ogni tanto capitavano ancora alcune violente crisi che lo facevano piangere dai dolori alle gambe. Gli somigliava molto fisicamente, anche se di indole era chiuso e poco combattivo rispetto a lui.

"Ciao...".

Suo figlio gli indicò la bambina davanti a lui. "Abbiamo ospiti".

"Lo vedo... Lei è...?".

"Emily" – rispose il bambino.

"Emily...". Ross annuì curioso, era davvero perplesso... Valentine aveva già iniziato alla tenera età di cinque anni a interessarsi al gentil sesso? Eppure era timido e chiuso, non aveva amici e non conosceva molti bambini della zona, eccetto forse quelli che ciondolavano fuori Nampara, figli dei minatori che lavoravano per lui. E questa Emily, dall'abbigliamento, non era certo figlia del popolo. E quindi, da dove spuntava quella piccola lady?

La bimba, vedendolo pensieroso, si alzò in piedi, esibendosi in un perfetto inchino. "Emily Basset, signore. Piacere di conoscervi".

Ross si grattò il mento. Basset... Basset, Basset... E quando gli venne in mente dove aveva già sentito quel cognome e capì cosa stava succedendo, Jane Gimlet uscì dalla porta, venendo loro incontro. "Signore, bentornato. Avete un ospite".

"Lo vedo" – disse Ross, guardando di sbieco Emily.

Jane rise nervosamente. "Oh, non la bambina. Suo padre, intendo! E' in casa, gli ho offerto un tè e vi sta aspettando per parlarvi".

Ross sospirò, salutò i bambini ed entrò in casa, pronto ad affrontare l'ennesima discussione a fini politici con Lord Basset. Era un pò che quell'uomo, un giudice e un politico molto rispettato sia a Londra che in Cornovaglia, gli girava attorno, alla ricerca di un qualche accordo politico con lui. Non aveva idea del motivo che lo aveva portato a mettere gli occhi su un piccolo proprietario di miniere in quella zona spersa d'Inghilterra ma ultimamente aveva insistito molto per parlare con lui, cosa che a Ross portava solo noia. Certo, avevano idee comuni, si auspicavano entrambi un mondo nuovo senza distinzioni di classe, la pensavano alla stessa maniera su molti temi d'attualità e anche Basset proveniva dal mondo delle miniere, ne gestiva molte che ne avevano decretato la ricchezza, assieme alla sua brillante carriera di deputato a Westminster, ma le somiglianze fra loro finivano quì: Basset era una brava persona e un uomo sicuramente onesto ma portava avanti le sue idee in un covo di serpi che Ross odiava e l'idea di essere introdotto in quel mondo corrotto che funzionava solo con tangenti e accordi sotto banco, lo nauseava. Scendere a compromessi non aveva mai fatto per lui, non voleva sporcare la sua coscienza mettendosi alla pari delle vipere che detenevano potere e ricchezza nella capitale e anche se Basset, tramite questo modo di fare, riusciva a fare del bene, era comunque un ingranaggio di un gioco meschino di cui Ross non voleva fare parte. Gli aveva detto di no quando, un anno prima, gli aveva proposto un posto in Cornovaglia come Giudice di Pace, incarico che poi era andato a George Warleggan. E ora gli avrebbe detto di no per le imminenti elezioni dei due rappresentanti della Cornvoaglia da portare a Londra, a Westminster. Era sicuro che fosse venuto a casa sua per quello e sapeva già che lo avrebbe rimandato nella sua lussuosa villa con l'ennesimo rifiuto.

Entrò in casa, trovando Basset seduto al tavolo, col cilindro appoggiato a una sedia e con indosso un elegante completo di velluto. "Lord Basset, buon pomeriggio. E' insolito avere visite quì, scusate se sono arrivato solo ora ma non ero stato informato del vostro arrivo".

Basset sorrise, amabilmente. "Oh, passavo di quì per caso con mia figlia e ho deciso di venire a far visita. Non ero atteso e vorrei scusarmi per la mia intrusione".

Ross si avvicinò alla credenza dei liquori. "Posso offrirvi un bicchiere di Porto?".

"No, grazie. Sono di fretta, presto Emily inizierà a fare i capricci per tornare a casa e la vostra domestica mi ha già offerto una buona tazza di tè. Vorrei solo far due chiacchiere, sentirvi rifiutare come al solito la mia offerta e poi cercare di convincervi a valutarla senza scartarla a priori".

Ross sorrise, sarcastico. "Lo immaginavo! Se è per le elezioni per il Parlamento che avverranno fra sei mesi, la mia risposta è no! Non ho intenzione di mischiarmi ai vermi che popolano il Parlamento di Londra. Non ho lo stomaco forte come il vostro".

Basset scosse la testa, per nulla deciso a demordere. "Ross, so che fare l'eroe solitario è più affascinante e porta a non cercare compromessi che, secondo voi, sporcherebbero la vostra coscienza, ma gli eroi solitari non possono cambiare il mondo, a un certo punto bisogna imparare a stare alle regole del gioco, entrarci e cercare di cambiarle in meglio dall'interno del sistema. Siete un ottimo oratore, una persona dalle idee nuove e vincenti e a Londra trovereste persone a voi affini, non sono tutte serpi come pensate voi. Si discute, si cerca di convincere, si ascolta e magari si cambiano le proprie idee, anche fra i miei avversari politici ci sono persone degne di rispetto e dotate di grande carisma ed intelligenza, come voi. Insieme, noi due, potremmo tentare di portarle dalla nostra parte, di ampliare il numero di consensi, di fare leggi più giuste non solo per noi che comandiamo ma anche per queste povere persone che lavorano nelle nostre miniere e in queste terre che tanto amiamo".

Ross sospirò. Basset sapeva parlare, sapeva discutere e sapeva argomentare molto bene ma lui era più testardo e mai si sarebbe fatto convincere ad entrare in un mondo che non considerava suo. "Io vivo quì, son nato per gestire le mie miniere e cerco di far del bene per le persone a me vicine. Non so trovare compromessi, le mie litigate di solito si son sempre concluse con una scazzottata e non solo l'uomo che vi sarebbe utile come alleato".

Basset si alzò dalla sedia con sguardo deciso. "Ross, quante persone potete aituare quì? Altre dieci, venti? Assumendole magari sotto-impiegate nella vostra miniera? Ma i loro diritti, quelli dei loro figli, a questo non ci pensate? E' quello che conta, è quello che fa la differenza e le regole del gioco le potete cambiare solo a Londra, nella sede dove le leggi nascono e vengono discusse. Avete già lasciato un incarico importante a George Warleggan e i risultati si sono tristemente visti... Non mettetemelo a fianco anche nelle elezioni per il Parlamento, fatelo per le persone a cui dite di voler bene".

"Warleggan è un candidato al Parlamento più idoneo di me!".

Basset scosse la testa. "Sapete benissimo che non è vero".

In quel momento i bimbi fecero capolino nella stanza, con sguardo annoiato. Emily si aggrappò alle gambe del padre e Valentine si appoggiò al tavolo, incuriosito da quel discorso.

Basset, accarezzando i capelli della figlia, proseguì. "Fatelo anche per vostro figlio o almeno pensateci. Diventare un politico di Londra vi permetterebbe di portarlo in un posto nuovo e stimolante per un bambino. Emily adora Londra, ha molti amici e parchi enormi dove giocare. Per il giovane Valentine sarebbe un'esperienza emozionante e formativa".

"Valentine sta bene quì, dove è ora!" - rispose Ross, secco.

Basset sospirò. "Siete testardo, per questo mi piacete. Ci sono sei mesi che ci separano dalle elezioni, promettetemi almeno che ci penserete".

"Ci penserò" – disse Ross, con tono di voce poco convinto.

Basset lo guardò storto. "Sul serio però".

"Sul serio...".

L'uomo prese per mano sua figlia, mettendosi il cilindro in testa. "Tornerò, sarò più fastidioso di una zecca nei prossimi mesi. Se voi pensate di essere il più testardo, dovrete ricredervi. Io lo sono più di voi".

Ross, mascherando un sorriso, gli strinse la mano e salutò poi la bambina. In fondo sapeva che Lord Basset era una brava persona e che insieme sarebbero andati anche d'accordo, ma era il mondo dove lo voleva introdurre che lo frenava. Odiava il potere, in ogni sua forma! Anche se, una vocina nella sua mente, sembrava urlargli sempre più forte che lui aveva ragione e che se davvero voleva cambiare il mondo, doveva iniziare comformandosi alle sue regole per poi cercare di cambiarle. E sempre quella vocina, gli diceva che in Cornovaglia non c'era altro che potesse fare, che aveva già dato il massimo che potevano permettergli le sue finanze per le povere persone che lo circondavano e che per sentirsi vivo, dopo quanto successo nella sua vita, forse c'era bisogno davvero di cambiar pagina e tentare altro. Ma in quel momento la sua testa dura prevalse e rifiutò, cordialmente. "Beh, a presto allora!".

"Statene certo" – rispose Lord Basset, uscendo da Nampara con Emily per mano.

La bambina salutò Valentine con la manina e poi si allontanò col padre e Ross chiuse la porta dietro di se, sbuffando. "Mi attendono mesi di tortura incessante, temo".

Jane emerse dalla cucina, ridendo. "Oh signore, voi sareste un grande politico".

"Un grande ipocrita, vorrete dire".

La donna rise sotto i baffi e poi tornò in cucina a preparare la cena. Ross si mise sul sofà davanti al camino e si immerse nei suoi pensieri sul nuovo tunnel alla Wheal Grance, che al momento era la sua prima preoccupazione.

"Papà?".

Valentine si sedette accanto a lui, richiamandolo all'ordine. "Dimmi".

"Che cos'è un politico?".

Ross sospirò. "Un uomo che è tanto arrogante da pensare di poter decidere per tutti".

"Ma se uno è bravo, magari decide bene".

Ross sospirò, annoiato da quel discorso e dal fatto che ci si mettesse pure Valentine che di solito era silenzioso, a tormentarlo. "Sei troppo piccolo per capire e non è così semplice".

"Dov'è Londra?" - insistette il bambino.

Santo cielo, che avevano tutti quella sera! Perché lo tormentavano? "Lontano".

"E' bella?".

"Interessante... Deve piacere".

"A te piace?".

Ross prese un ciocco di legno, gettandolo nel camino. Era stizzito, ecco! "Non lo so, non ci ho mai vissuto".

"Ci andiamo?".

"No!".

Valentine incrociò le braccia al petto, come se fosse pronto a fare un capriccio, cosa che di solito non succedeva mai. "Papà, Emily dice che vivere a Londra è bello. Ci sono tanti bambini e lei va a tante feste di compleanno".

Ross scosse la testa, irritato. Ecco perché odiava quel mondo patinato! Tutti ricchi, viziati e felici di vivere in una bolla dorata dimenticandosi di chi faticava a mettere del cibo sul tavolo di sera per i propri figli. "Emily è capricciosa e piena di vizi".

"Che cos'è una festa di compleanno?".

Ross si grattò il mento. O gli rispondeva o quella dannata conversazione non sarebbe mai finita! "Quando uno festeggia il giorno in cui è nato. Alcuni fanno una festa, preparano la torta ed invitano gli amici per stare tutti insieme".

"Anche io ne voglio una allora!" - mugnugnò il bambino.

Ross lo guardò storto. Valentine, nascendo, aveva spezzato e distrutto le vite di molti, sua madre era morta dandolo alla luce e non vedeva alcun motivo né di festeggiare quella ricorrenza nè di dare vizi da bambino capriccioso a suo figlio. "Jane ti prepara ogni anno una torta".

"Ma non facciamo una festa".

"Hai degli amici da invitare?".

Valentine abbassò lo sguardo, triste. "No".

"E allora, fine del discorso" – ribattè Ross, secco. Gli spiaceva ferirlo e non accontentarlo ma vivevano circondati da gente povera che non poteva permettersi nulla e non avrebbe elevato suo figlio a damerino del posto, ostentando vizi e ricchezze che gli altri non potevano permettersi. Nessun bambino di quei luoghi aveva mai avuto una festa di compleanno e quindi non c'era motivo che ne avesse una Valentine. Il resto erano capricci. "Va ad aiutare Jane a preparare la cena. Adora averti vicino" – disse, per farlo allontanare.

"E per il compleanno? E Londra?".

"Il tuo compleanno è lontano, Londra pure e tu soffri ancora, spesso, di dolori alle gambe! Fine del discorso". E con quelle parole sbrigative, concluse ogni genere di trattativa anche con suo figlio.


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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


Londra, due anni e mezzo dopo la morte di Hugh Armitage.


Ci siamo ripersi Demian, si è arrampicato di nuovo sul ramo più alto del tiglio vicino al cancello e non vuole scendere giù” - borbottò Prudie, tutta trafelata e col fiato corto.

Demelza sospirò, questa non ci voleva proprio! Era già in ritardo, dannazione! Guardò sua suocera, ormai rassegnata quanto lei a rimandare il misterioso invito per il tè da Lady Margarita e sua madre. Era sempre così, alla fine qualcosa succedeva e lei finiva per arrivare in ritardo da ogni parte! Aveva quattro figli vivacissimi ed imprevedibili e tutti con un carattere diversissimo l'uno dall'altro. Era incredibile che, bambini tanto diversi, fossero fratelli e tutti figli suoi.

Jeremy aveva nove anni ormai ed era il suo principe azzurro, il figlio più dolce e sensibile, quello più attento a lei, quello che sembrava essersi caricato sulle spalle il peso di questa famiglia che non aveva un padre. Hugh gli aveva trasmesso l'amore per la lettura e spesso, soprattutto nei mesi invernali, si rintanava per ore in biblioteca a leggere oppure se ne stava da Lord Falmouth a giocare a scacchi e a dama o a sentirlo parlare di politica coi suoi soci. Era un bambino intelligente, vivace il giusto e con un garbato, sottile ed irriverente sarcasmo che spesso la lasciava a bocca aperta, soprattutto quando le sussurrava all'orecchio commenti pungenti su qualche ospite importante che veniva invitato al loro palazzo. Il ricordo di Hugh, l'amore smisurato che aveva provato per lui e la malinconia di non averlo più vicino, lo tormentavano spesso ma poi riusciva a distrarsi con qualcosa e tornava ad essere il bambino sorridente di sempre. Demelza non sapeva quanto ricordasse di Ross, Jeremy non lo nominava mai e lei non osava chiedere per paura di aprire una ferita che magari era guarita ed era lasciata alle spalle. Sapeva solo che era un bambino sereno, furbo e vivace il giusto e che stava tenendo fede, sempre col sorriso sulle labbra, alle promesse fatte a Hugh prima di morire, diventando davvero il punto di riferimento delle sue sorelle e di suo fratello.

Clowance era la vera lady della famiglia. Aveva compiuto da alcuni giorni il suo sesto compleanno e rappresentava tutto quello che una bambina della nobiltà doveva possedere: era bellissima, con dei lunghi capelli biondi pieni di boccoli e dei trasparenti occhi azzurri e una grazia ed eleganza inusuali in una bambina tanto piccola accompagnavano ogni suo movimento. Era elegante, adorava i bei vestiti, era vanitosa e spesso, di nascosto, cercava di truccarsi e finiva sempre per essere costretta da lei ad andare a lavarsi il viso. Conosceva perfettamente le buone maniere tanto che sua suocera, la madre di Hugh, adorava portarla in giro con se perché sapeva che con Clowance avrebbe sempre fatto bella figura. Ma nonostante questo, era anche piuttosto vivace e aveva un carattere decisamente dispettoso, soprattutto con il fratellino più piccolo ed ingenuo che spesso prendeva in giro probabilmente per gelosia. Quando giocavano tutti insieme al parco, i suoi tre fratelli finivano per essere sporchi e spettinati ma lei no, lei riusciva a tenere i suoi abiti lindi e puliti e a non avere un capello fuori posto. L'eleganza era innata in lei, amava Londra e l'ambiente che la circondava e spesso Caroline le diceva che Clowance, nel giro di pochi anni, avrebbe avuto tutta la capitale ai suoi piedi.

E poi c'erano loro, i gemellini... Che di Hugh, del suo portamento, della sua dolcezza e della sua eleganza non avevano preso nulla. Erano due pesti scatenate, dei veri monelli che, dietro i loro capelli biondissimi e gli occhioni azzurri, sapevano incantare e poi castigare chiunque gli capitasse a tiro e gli desse fiducia.

Di loro, Lord Falmouth diceva che sarebbero diventati persone importanti a Londra, un giorno... Sempre che fossero riusciti ad evitare la prigione.

A poche settimane dal loro terzo compleanno, Daisy e Demian sapevano parlare perfettamente, anche grazie alla vicinanza dei due fratelli più grandi.

Demian non stava fermo un attimo, amava arrampicarsi sugli alberi, sui muretti, su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro e potesse sollevarlo da terra. Era perennemente in castigo, ma questo non sembrava fermarlo. Se non si arrampicava, combinava mille pasticci in casa oppure passava il tempo a fare scherzi alla loro servitù. Però, di contro, era un bambino ingenuo, dall'animo buono e il più attaccato a lei. Credeva a tutte le frottole che gli raccontava Clowance e se lei gli diceva che di notte sarebbe entrato un orso nella sua camera a mangiarlo, lui passava la serata a piangere e poi si rifugiava nel suo letto. Di sera infatti si trasformava, diventava improvvisamente dolce e mammone e trovava mille scuse per sgattaiolare nella sua stanza per dormire con lei. Come faceva Jeremy fino a pochi anni prima, del resto... Lei lo lasciava fare, era sola ed era bello stringere a se quel bimbo dai capelli a caschetto color oro e dal faccino bello e simpatico che, quando era imbronciato o pensieroso, le ricordava tanto Hugh. Poco prima di morire, suo padre le aveva detto che Demian sarebbe stato il suo principe azzurro e che avrebbe preso il suo posto e infatti era stato così. Si era aggrappato a lei appena nato e ancora non era riuscita a farlo dormire da solo la notte. Ma le piaceva averlo vicino e le era stato di grande consolazione quel figlio che la cercava e la desiderava, dopo la morte di Hugh. Sapeva che era un vizio, sapeva che sbagliava a non renderlo indipendente ma Demelza non ce la faceva e quel bambino, che da Hugh aveva ereditato anche uno strano amore per arte e disegno, era diventato il suo piccolo principe e, come diceva Caroline, il suo cocco.

Daisy era anche più vivace del fratello gemello. Era sempre stata più indipendente di Demian e anche da neonata preferiva dormire nella sua culla o in carrozzina piuttosto che con lei. Crescendo, aveva legato particolarmente con Clowance perché, benché fossero diversissime di carattere, erano anche molto più vicine di età di quanto non fossero Jeremy e Demian.

Daisy aveva imparato tutto quello che non avrebbe dovuto imparare da Prudie che era quella che più di tutti si prendeva cura dei bambini: le parolacce. Spesso la si sentiva imprecare con un 'Giuda' o parole simili che poi insegnava al parco anche agli altri bambini e non era mai servito nessun castigo, era incorreggibile. E ribelle. Spesso, davanti a un no, alzava il faccino, si scostava i lunghi e lisci capelli biondi dal viso, la fissava con aria di sfida e faceva davanti a lei quello che le era stato vietato di fare. Con Daisy ci voleva pazienza, tanta... E spesso Demelza, pensando al futuro, tremava per il rapporto che avrebbero avuto e silenziosamente pregava perché la bimba diventasse più tranquilla e meno ribelle.

Era strano, quando ci pensava. I figli avuti da Ross somigliavano tanto a Hugh, per carattere. Quelli avuti da Hugh erano invece similissimi a Ross... Non sapeva se piangere o ridere, di questa cosa. L'unica certezza era che sia sua suocera che Lord Falmouth, che i bambini chiamavano zio, preferivano uscire con Jeremy e Clowance e mai, MAI, si erano proposti di portare con loro Demian o Daisy, se non quando era presente anche lei.

Demelza guardò Lady Alexandra, picchiettando nervosamente il piede per terra. “Prudie, cercalo, stanalo e digli che se non scende dall'albero, stanotte dormirà da solo in camera sua e che non vorrò sentire scuse”.

Ma... Ma... Quello mica mi ascolta!” - balbettò Prudie.

Se lo minacci sul dormire da solo, scenderà subito, lo conosco. E noi siamo già in ritardo per il tè...”.

Prudie annuì, capendo appieno che doveva fare da sola e che Demelza per quel giorno non poteva aiutarla. “Vado, ci provo e al massimo chiamo Bastian per tirarlo giù, se non scende”.

Demelza le accarezzò il braccio, era così grata per la sua presenza. Prudie si occupava dei bambini più di tutti e di lei si fidava a occhi chiusi. Al mattino, mentre Clowance e Jeremy studiavano con il loro precettore e lei usciva di casa con sua suocera per sbrigare le faccende di volontariato in cui erano attivamente impegnate, era lei ad occuparsi dei gemellini ed era quella che, allo stato attuale, li sapeva gestire meglio di tutti. Li portava al parco e passava la mattinata a inseguirli per i prati, li preparava per il pranzo e poi li gestiva anche per la merenda e per il bagnetto serale. Sarebbe stata persa senza se non ci fosse stata. “Grazie Prudie... Ci sarei andata io a riprenderlo ma Margarita ha insistito, senza dirci il motivo, per averci ospiti a casa sua per il tè oggi pomeriggio, dice che deve darci una notizia importante ma non ha aggiunto altro, solo che è fondamentale la nostra presenza... Sto già tremando”.

Lady Alexandra sbuffò. “Anche io! Se arriviamo tardi a causa di Demian, immagino già le occhiatacce di quell'arpia di sua madre... Donna odiosa, non ho mai capito come abbia fatto a mettere al mondo uno zuccherino come Margarita”. Poi guardò Demelza, di sbieco. “Così come non capisco come uno zuccherino come Demelza abbia potuto mettere al mondo due pesti come i gemelli”.

Prudie tossicchiò, imponendosi di non ridere. “Vado a recuperare la bestiol... ehm... il piccolo Lord dell'albero. Buon pomeriggio signore”.

Anche a te, Prudie” - rispose Demelza, sorridendole dolcemente. E poi, dopo essersi sistemata l'elegante abito verde che indossava, i capelli, e essersi coperta con una elegante e calda pelliccia sulle spalle, uscì di casa con sua suocera.

Quando la carrozza arrivò nella dimora della sua migliore amica, passando da strade ghiacciate e innevate di un quell'inverno glaciale che aveva colpito Londra, Margarita, vedendola arrivare dalla cancellata spalancò la finestra del salotto. “DEMELZA!!!” - urlò eccita. “Finalmente!”.

La salutò con la mano, attenta a non fare altrettanto baccano e poi, dopo essere scesa dalla carrozza ed entrata in casa, fu travolta dalla corsa e dall'abbraccio di quella che, in quegli anni, era diventata la sua migliore amica assieme a Caroline. “Hei, sembra che non ci vediamo da una vita!” - esclamò, dimenticando per un attimo le buone maniere ed attirandosi un'occhiataccia da Lady Alexandra che ignorò - “Eppure ci siamo incontrate solo tre giorni fa, al nostro disastroso corso di tiro con l'arco”. Non lo avevano mai abbandonato quel passatempo, fin da quando vi si erano iscritte e Hugh le accompagnava, ridendo dei loro insuccessi e soccorrendo i poveri piccioni trafitti dalle loro frecce. Non erano migliorate poi molto nel tempo ma in quel circolo avevano trovato molti buoni amici fra cui Daniel Crungle, il loro giovane e simpatico istruttore privato che spesso incontravano ai vari party della Londra aristocratica a cui partecipavano.

Margarita la prese per mano, dopo aver salutato Lady Alexandra. “Sì, ma oggi c'è una cosa bellissima che ti devo dire ed è il motivo per cui vi ho invitate quì” - esclamò allegra, salutando con un inchino la suocera di Demelza.

MARGARITA!!!”.

La voce acidula della madre della ragazza, giunta dalla scalinata alle sue spalle, fece voltare tutte e tre.

Lady Constanze, in un elegantissimo abito color senape, guardava sua figlia con sguardo severo, scuotendo la testa in un ennesimo segno di diniego. “Ti sembra il modo di accogliere le nostre illustri ospiti?”.

Demelza alzò un sopracciglio, ricordando come la considerasse poco illustre e degna di considerazione quando si erano conosciute quattro anni prima e come avesse cambiato idea in un batter di ciglio appena lei era diventata Lady Boscawen sposando Hugh. Da quel giorno era stata felicissima dell'amicizia fra lei e Margarita, entusiasta come una scolaretta al primo giorno di scuola, chissà come mai...? “Fra noi, Lady Constanze, non c'è bisogno di etichetta. Siamo amiche, non usiamo convenevoli”.

Lady Constanze annuì contrariata ma non disse nulla perché Demelza aveva imparato, in quegli anni, che una donna nobile ma di rango inferiore a un'altra nobile, non poteva obiettare mai su quanto gli veniva detto. Anche se erano nella sua casa e lei ne era la padrone! E Demelza aveva imparato che, in quanto Boscawen, era di fatto di rango superiore alla famiglia di Margarita e ogni volta che se ne ricordava, le veniva da ridere. Anche perché le sembrava assurdo che dei lontani parenti dei sovrani avessero meno potere e rango di lei. Non avrebbe mai capito questo genere di gerarchie a cui si era adattata per forza di cose ma che considerava inutili ed odiose!

La donna si ricompose mentre Alexandra gongolava a fianco di Demelza, nel vedere in difficoltà colei che considerava una sua rivale. “Volete seguirci nel salotto del tè? Come diceva mia figlia, dobbiamo parlare”.

Demelza vieni!” - disse Margarita, prendendola per mano.

Le due giovani arrivarono nel salotto, sedendosi vicine, mentre le due donne più anziane prendevano posto al tavolo, una davanti all'altra guardandosi in cagnesco ma con grazia.

Il maggiordomo servì loro il tè, portò dei biscotti e una torta al cioccolato e dopo i convenevoli, spinta dalla curiosità sempre più forte, Demelza si decise a chiedere cosa stesse succedendo. Ormai lei e Margarita erano come sorelle, c'era una confidenza assoluta fra loro, ridevano, scherzavano, la faceva giocare coi suoi figli e lei aveva ascoltato e sorretto le sue spalle stanche quando, dopo la morte di Hugh, non riusciva a smettere di piangere. Era stata dura allora e se non fosse stato per quella ragazza dolce, ingenua e dal cuore d'oro, forse non sarebbe mai riuscita a rialzarsi e a ricominciare a vivere, portando nel suo cuore Hugh non come un ricordo doloroso ma come una presenza dolce e costante. “E allora, che succede?”.

DEMELZA!” - la rimbeccò Lady Alexandra con fare materno ma piuttosto simile a quello della sua rivale Lady Constanze, sbuffando per quei modi tanto sbrigativi e poco da Lady.

Margarita, infischiandosene dell'etichetta, si alzò dalla sedia, picchiò trionfalmente le mani sul tavolo e le guardò tutte quante con aria trionfante. “Succede che... mi sposo!”.

Lady Alexandra spalancò gli occhi, Lady Constanze annuì sollevata per quell'annuncio in cui non sperava più e Demelza divenne rossa dalla gioia e dalla contentezza. Si alzò in piedi di scatto, abbracciò la sua amica, risero insieme come pazze infischiandosene dell'etichetta e si commossero, guardandosi con occhi lucidi. “Edward? Giuda, non me n'ero accorta!”

DEMELZA!!!” - la richiamò all'ordine sua suocera.

Ma la ragazza fece finta di non sentirla.Come può essere? Ogni volta che viene con noi alle lezioni con l'arco, sembrate tanto timidi e ancora lontani...”.

Margarita le strizzò l'occhio. “Sappiamo dissimulare bene... Volevamo tenerci ancora un po' per noi la nostra decisione ma ormai ho ventun'anni e credo sia arrivato il momento di fare il grande passo. Scusa se te l'ho tenuto nascosto, non vedevo l'ora di dirtelo e odio mantenere i segreti”.

Demelza la guardò, emozionata per lei. Era un amore forse ancora dai tratti adolescenziali quello fra Margarita ed Edward ma era puro, vero, sincero e pronto a lottare per crescere. Erano simili, entrambi un po' imbranati e ancora bambini, senza pretese, desiderosi solo di stare insieme nel loro mondo e formare quella famiglia che tanto desideravano, un po' più libera di quella d'origine piena di regole ed etichette. Margarita agli occhi di sua madre era la meno nobile di Londra nei modi di fare ma per lei che ne conosceva il cuore buono e sincero, era la più blasonata ragazza d'Inghilterra, la più meritevole di tutto ciò che di buono la vita poteva portare. “Congratulazioni, sarai felice...”.

Margarita... ehm...” - tossicchiò sua madre, richiamandola all'ordine.

La ragazza alzò gli occhi al cielo. Erano ormai lontani i tempi in cui temeva il giudizio di sua madre... “Già, siete qui non solo per questo annuncio!”.

E per cos'altro?” - chiese Lady Alexandra pregando con lo sguardo Demelza di risedersi compostamente.

Margarita prese le mani di Demelza, stringendole nelle sue. “Se mi sposo, se io ed Edward abbiamo potuto conoscerci e innamorarci... è grazie a Demelza e Hugh e all'incontro che hanno organizzato per noi tre anni fa a quel ballo di Natale dopo il quale sono nati i gemellini. Senza voi due non sarei mai riuscita a fare nulla e sarei rimasta tutta la vita a sospirare per Edward guardandolo da lontano. Sei la mia migliore amica Demelza e vorrei tanto che fossi la mia damigella d'onore al matrimonio. La mia testimone... Vorrei anche Hugh come testimone per Edward ma siccome purtroppo non è più qui... so che sarà contento di vedersi rappresentato da coloro che più amava”.

Demelza sentì il cuore batterle nel petto a quel ricordo di Hugh e di quella festa dove, in mezzo a tanti nobili e nel pieno di un piano perfetto da combina-matrimoni, aveva iniziato il travaglio. Da allora erano passati tre anni, ogni cosa era cambiata nella sua vita e lei aveva imparato ad essere una lady perfetta ma ancora adesso, quando aveva tutti gli occhi puntati su di se, di nascosto, tremava dalla paura di sbagliare qualcosa. E gli occhi di tutti, al matrimonio di una lontana parente dei sovrani, sarebbero stati puntati decisamente anche su di lei, anche se era di rango maggiore a quello della sposa. “Ohhh... Sei sicura? Non preferiresti dei parenti?”.

Lady Boscawen, avervi come damigella d'onore sarà per noi un grande onore che spero accetterete senza riserve” - intervenne Lady Constanze notando le sue titubanze e correndo ai ripari.

Demelza guardò Lady Alexandra che, con un sorriso gentile e comprensivo, le fece cenno di accettare. E alla fine cedette. “Va bene, sarò felicissima di farlo”.

SIIII!!!” - urlò Margarita, guadagnandosi un'altra sgridata da sua madre per quei modi che giudicava selvaggi.

Quando sarà il matrimonio?” - chiese Demelza.

Fra sei mesi, il primo giugno” - rispose Margarita. “Tu e i bambini avrete tutto il tempo di preparavi”.

E a quelle parole, Demelza e Lady Alexandra spalancarono gli occhi. “I... bambini?”.

Margarita annuì. “Certo, è compito della damigella d'onore preparare paggetti e damigelle che seguiranno il corteo della sposa. Saranno in tutto otto bambini, quattro maschi e quattro femmine. Ho scelto Jane e Grace Constyn, le figlie di una mia cara cugina. Jane ha sei anni ed è un amore, Grace ne compirà due a marzo ed ha dei boccoli stupendi, sarà un tesoro vestita da damigella. E poi i figli del Conte Altan, Frederik e Lorys. Hanno nove e cinque anni e hanno già fatto i paggetti a un altro matrimonio, sanno come si fa e non creeranno problemi”.

Demelza annuì, conosceva quei bambini perché giocavano spesso al parco coi suoi figli. “Sono quattro... E gli altri?”.

Margarita sorrise. “Il tuo Jeremy è un piccolo ometto giudizioso ed educato. E Clowance è una bellissima e piccola lady, migliore di quanto potrò mai essere io. So che anche Clowance ha già fatto da damigella, giusto?”.

Lady Alexandra, con un moto d'orgoglio, annuì col capo. “Lo scorso anno, al matrimonio dei Visconti Dorington. Un perfetto debutto in società per la piccola ma d'altronde con Clowance non poteva che essere così, l'hanno ammirata tutti”.

Demelza sospirò, scoraggiata nonostante tutto. Mancavano ancora due nomi al gruppo e il suo sesto senso stava facendo nascere in lei un profondo terrore che sua suocera non aveva ancora captato. “Gli altri due bimbi...?” - chiese, con circospezione.

Ma che domande!” - esclamò Margarita. “I tuoi due bellissimi gemellini! Con quei visini da angioletti, quei capelli biondissimi e quelle guanciotte da mordere, saranno un amore”.

Alexandra sbiancò a quelle parole, Demelza impallidì e se non fosse stato che aveva un ventaglio in mano con cui farsi aria, sarebbe caduta a terra svenuta. “I miei... gemelli?” - chiese, con terrore.

Margarita la guardò farsi aria col ventaglio, accigliandosi. “Demelza, hai caldo?”.

Sì, molto!” - rispose, sventagliandosi furiosamente.

Strano, siamo in pieno inverno...”.

Strano, davvero... Il tuo camino funziona benissimo” - biascicò, desiderando sparire dalla faccia della terra.

Lady Constanze riprese in pugno la situazione. “Ovviamente vogliamo anche i gemelli, ogni bambino che si rispetta e che appartiene all'alta società deve fare il suo debutto seguendo il corteo di un matrimonio. Fa parte delle tradizioni ed è un preciso dovere di questi piccoli che un giorno guideranno la nazione. I gemelli avranno tre anni fra poche settimane, è ora che si facciano conoscere al mondo e che debuttino nell'alta società. Quale occasione migliore del matrimonio di una delle nipoti dei sovrani?”.

Ma... ma...?”. Demelza guardò sua suocera in cerca d'aiuto ma anche Lady Alexandra pareva disorientata e terrorizzata dall'idea di quelle due pesti costrette a stare ferme e brave durante un'intera cerimonia nuziale.

Margarita rise. “Oh, non devi preoccuparti, tutti ci siamo passati! Io a tre anni ho fatto da damigella al matrimonio di Lord Casper. Mentre percorrevo la navata con gli anelli sul cuscino, sono inciampata, le fedi sono finite sotto una panca e zio Karl ha dovuto mettersi a carponi e passare fra le gambe delle invitate per recuperarli. Eppure sono sopravvissuta...”.

Lady Constanze la fulminò con lo sguardo. “Margarita, non è il caso di ricordare quello spiacevole episodio”.

E' un episodio così simpatico, mamma! Non ti viene da ridere al ricordarlo?”.

NO!” - rispose la donna, prendendo a sua volta a farsi aria col ventaglio.

E Lady Alexandra la guardò con sguardo maligno. “La nostra Clowance invece, lo scorso anno non è inciampata affatto e le fedi sono arrivate agli sposi senza incidenti”.

Lady Constanze divenne rosso fuoco, Margarita rise sotto i baffi e poi si voltò di nuovo verso Demelza. “Accetti? Avere te e i tuoi bambini vicino, significa molto per me”.

Demelza sospirò... Non poteva dirle di no, non sarebbe mai riuscita a deluderla e nemmeno lo desiderava anche se l'idea di avere i gemelli da gestire in una cosa del genere la annientava. “Certo... Che devo fare?”.

Conservare le fedi, trovarti un bellissimo vestito in tinta con quello delle bambine, trovare gli abiti adatti a paggetti e damigelle e istruirli su cosa dovranno fare. Hai carta bianca per i bambini, sono sicura che sceglierai al meglio per loro! Hai dei gusti meravigliosi in fatto di abbigliamento infantile Demelza, adoro come vesti i tuoi figli! Faremo delle prove, ci sono sei mesi di tempo e ce la faremo ad organizzare ogni cosa insieme. Poi mi sposerò e verrò a vivere in una via adiacente alla tua, saremo praticamente vicine di casa e ci vedremo spesso”.

Demelza la riabbracciò, commossa, mettendo in un angolo ogni preoccupazione sui gemelli. Non era il momento per quello, ora doveva solo gioire per Margarita e per il meraviglioso futuro che la aspettava. “Sono felice, tanto”.

Pure io... Anche perché finalmente non vivrò più sotto lo stesso tetto con mia madre...” - le sussurrò Margarita nell'orecchio, facendola ridere. Poi però le strizzò l'occhio, facendole cenno di non andare oltre per evitare di irritare ulteriormente sua madre.

Grazie, mia cara damigella” - sussurrò Margarita.

Grazie, mia cara sposa. Cercherò di addestrare al meglio i bambini e di renderli impeccabili ed eleganti”.

E io la aiuterò” - concluse Lady Alexandra, entusiasta di sbandierare in faccia alla sua rivale la superiorità dei piccoli eredi Boscawen.

Alle cinque, quando ormai era quasi buio e il gelo si stava facendo intenso, le due donne salutarono e tornarono a casa nella loro carrozza.

Appena furono sole, Lady Alexandra prese le mani di Demelza, stringendole nelle sue. “Demelza, i gemelli! Davanti a quell'arpia son stata zitta ma sono terrorizzata!”.

Demelza sospirò. “Abbiamo sei mesi di tempo per prepararli”.

Ci vorrebbero sei secoli” - rispose Alexandra. “Giuda, ma dobbiamo dimostrare la nostra superiorità! E i bimbi devono comunque debuttare in società”.

Demelza sussultò e poi scoppiò a ridere davanti a quell'espressione così poco signorile. “Giuda? Santo cielo, non è da Lady dirlo!”.

Lady Alexandra ci pensò un attimo e poi scoppiò a sua volta a ridere, cingendola con le braccia e stringendola a se. “Ah bambina mia, è colpa tua e di Daisy! E di Prudie... La mia buona educazione è finita chissà dove ormai, da quando vi conosco”.

Demelza rise, cullata da quel momento di serenità. Era una donna, una madre, aveva tante responsabilità e una vita sulle spalle che era stata costellata di grandi dolori ma in Alexandra aveva trovato una specie di madre. Ed era bello e trovava piacevole venire 'ripresa' da lei come una figlia, venire guidata, essere abbracciata come non era mai stata abbracciata da bambina. Lei, che non era mai stata figlia di nessuno, ora poteva esserlo e poteva anche permettersi di venire presa per mano e guidata se ne capitava l'occasione. Amava Lady Alexandra, nonna Alix come la chiamavano i bambini, e in lei e Lord Falmouth aveva trovato finalmente una dimensione non solo fatta di doveri e responsabilità ma anche due guide da seguire e in cui rifugiarsi. E Alix, che aveva perso un figlio, aveva trovato in lei e nei suoi bambini una nuova famiglia da vivere e da amare. Un binomio perfetto, bello, pulito... “Dobbiamo impegnarci! Sono terrorizzata da questa cosa ma dobbiamo preparare i bambini, farei di tutto per Margarita e saperci tutti vicino a lei nel giorno più importante della sua vita, è per me un onore. Che gusterò, appena mi sarà passata la tremarella e la crisi di panico...”.

Pure io” - rispose Lady Alexandra, continuando a tenerla stretta a se.



Giuda Prudie, ci sono migliaia di bambini a Londra! E Margarita vuole proprio i miei, per accompagnarla all'altare?! Ed è bellissimo, la adoro per averci scelti ma i gemelli...? Cos'hanno di speciale i miei figli?” - disse, percorrendo come una folle i corridoi delle sue stanze, appena tornata a casa.

La serva, che le stava dietro a fatica e che era stata travolta da quella crisi di panico, scosse la testa. “I tuoi bambini, ragazza, hanno un cognome nobile. E due di loro hanno sangue blu”.

Demelza la guardò storto. “I due che mi daranno più problemi”.

Prudie le si parò davanti, con le mani sui fianchi, bloccandole la strada. “Niente panico! Abbiamo sei mesi per addestrare i gemelli, giusto?”.

E se dicessi che hanno la febbre?”. Certo, fino a poco prima era stata pronta ad accettare la sfida ma ora, tornata a casa in mezzo alla baraonda di giochi disseminati ovunque dei suoi figli, si rese conto che la faccenda assumeva toni da impresa.

Una febbre per sei mesi? La gente penserà che sono moribondi”.

Demelza sospirò, alzando gli occhi al cielo. Santo cielo, la chiamavano lady, la consideravano una gran signora e un importante membro dell'alta società ma lei era Demelza di Illugan e ogni volta che si rapportava a quelle persone, voleva solo scappare in cucina a mangiare con i servi. Soprattutto in situazioni del genere! E ora la nipote della regina, la sua migliore amica, la voleva al suo matrimonio, a gestire paggetti e damigelle. Di cui avrebbero fatto parte i suoi vivacissimi e indisciplinati figli. “Vorrei annegarmi nel Tamigi con una macina al collo, Prudie. Prima quando Margarita me l'ha detto, ero contenta. Ma ora che ci penso, sono nel panico!”.

Non facciamo troppe tragedie, da che mondo e mondo i bambini compongono il corteo di una sposa. Mi pare sia proprio normale che sia l'impegno ufficiale per i marmocchi ricchi”. Prudie le mise amichevolmente una mano sulla spalla. “Iniziamo subito coi preparativi! Sei mesi sono sufficienti per insegnare ai gemelli a non far guai per mezza giornata. Sono bestioline, vanno solo ammaestrati”.

Demelza sbuffò. “Ho mandato Mary a chiamarli, erano in giardino a giocare. Prendimi un lenzuolo bianco, iniziamo subito, non c'è tempo da perdere!”.

Certo signora”.

Demelza osservò Prudie che correva goffamente per i corridoi del palazzo, appoggiandosi contro il muro. Era una casa così bella e raffinata la sua, come poteva esserne la padrona? Perché lady Margarita l'aveva scelta per la preparazione dei paggetti e delle damigelle? Perché proprio i suoi bambini? A volte faticava ancora a capire perché fosse tanto importante e perché tutti volessero avere a che fare con lei, le succedeva sempre di non capirlo o ricordarlo, quando era in panico. Il suo matrimonio con Hugh le aveva conferito un rango molto superiore a quello di tanti nobili che lei stessa considerava irraggiungibili e che invece, nella scala sociale di Londra, dovevano aspettare un suo cenno per rivolgersi a lei. Era incredibile, non ci si sarebbe mai abituata.

In quel momento Mary arrivò, coi bambini. Ripuliti, lavati, pettinati e rimessi a nuovo, ora la guardavano con fare interrogativo. “Signora, ecco i vostri figli. Sono riuscita a far loro il bagno, a parte Clowance erano impresentabili”.

Ti ringrazio” - mormorò, grata per il suo aiuto. Si avvicinò ai piccoli, mentre Mary si allontanava. Erano in fila davanti a lei, per ordine di età e Demian sembrava già annoiato anche se non aveva ancora iniziato a parlare. “Demian, potresti ascoltarmi per qualche minuto senza prendere a calci il muro o tua sorella perché ti annoi?” - disse, rivolta al piccolo.

Sì mamma!”.

Jeremy osservò i fratellini e poi lei, sospettoso. “Siamo in castigo?”.

No, vi ho fatti chiamare perché dovevo parlarvi”. Osservò Jeremy e Clowance, loro sarebbero stati entusiasti della cosa e si sarebbero comportati bene senza troppa fatica. Ma i gemelli avevano tre anni scarsi, erano dei bambini vivacissimi e spesso ingestibili e si faticava a tenere troppo a lungo la loro attenzione e la loro collaborazione. Erano alla perenne ricerca di un guaio in cui cacciarsi, erano imprevedibili e spesso tutto ciò che passava nelle loro mani finiva in mille pezzi. “Oggi ho visto lady Margarita assieme alla nonna e mi ha dato un incarico importante. Fra sei mesi si sposa e vuole che voi siate i suoi paggetti e le sue damigelle, assieme al vostro amichetto Frederik, a Lorys Altan e alle bambine di Lord Constyn”.

Gli occhi di Clowance si illuminarono. “La damigella? Sarò una bambina dei fiori? E avrò un vestito bianco e bellissimo?”.

Certo tesoro!”.

La bimba saltellò contenta e Demelza le sorrise. Clowance, a sei anni, era una lady migliore e più entusiasta di lei.

Jeremy invece la guardò male e questo la destabilizzò. “Mamma, paggetto? Come quelli che c'erano al matrimonio dei visconti Dorington?”.

Sì”.

Il bambino indietreggiò, incrociando le braccia davanti al petto. “Nooo! Vestirai me e Demian come degli scemi e Clowance e Daisy come delle meringhe? Non voglio!!!”.

Demelza sudò freddo. In effetti, a quel matrimonio i bambini che avevano seguito il corteo del erano vestiti in maniera pittoresca e pacchiana, ma su quel punto voleva rassicurare suo figlio. Lady Margarita le aveva chiesto di occuparsi interamente della preparazione di tutti i bambini, compresi abiti e coroncine e quindi avrebbe scelto qualcosa di elegante ma non troppo pomposo. “Sceglieremo insieme i vestiti, sono io che devo occuparmene e ti giuro, Jeremy, che non sembrerai scemo. E quella non è una parola che comunque devi dire!”.

Daisy alzò il faccino e fece un sorriso divertito. “Scemo, scemo!”.

E Demelza sudò freddo di nuovo. “Ecco, appunto! Sai che tua sorella ripete solo le parolacce”.

Scemo” - disse ancora Daisy prima di bloccarsi davanti allo sguardo omicida di sua madre.

Si inginocchiò davanti a loro per essere alla stessa altezza. “Mi aiuterete a rendere bello il matrimonio di lady Margarita?”.

Demian riprese a prendere a calci il muro, ancora più annoiato. “Non sono capace”.

Ti insegno io. Adesso, con Prudie”.

Non voglio” - ribatté il bambino.

Io forse devo fare la pipì. Adesso!” - aggiunse Daisy.

Demelza parve ancora più sconfortata. Santo cielo, non sarebbero bastati sei mesi! Nemmeno sei anni o sei secoli! “Per favore” - li implorò.

Jeremy sbuffò. “Va beh, alla fine se non ci vesti da sce... ehm... stupidi... va bene! Tanto dobbiamo solo seguire la sposa, tenerle il velo e lanciare i petali di fiori, giusto?”.

Giusto”.

Giurami che al matrimonio non ci sarà nessuno dei miei amici a vedermi!”.

Non posso assicurartelo, non ho ancora la lista degli invitati. Ma potresti farlo lo stesso? Prometto che non ti vestirò in modo ridicolo”.

Jeremy sbuffò. “Va bene... SOLO per stavolta! Posso però chiederti una cosa? Ma se sei tu a dover gestire tutto, mamma, vuol dire che poi verranno a casa nostra anche gli altri bambini che devono fare il corteo, per fare le prove?”.

Sì”.

Jeremy sbuffò. “Frederik e Lorys li conosco, son simpatici. “Ma Grace e Jane Constyn ti prego, no! Frignano sempre e non capiscono niente! E Grace ha due anni, al parchetto piange sempre e fa un sacco di versi da bambina stupida, non riuscirai a farle fare la damigella”.

Prudie arrivò in quel momento a salvarla da quel discorso complicato da cui non ne sarebbe uscita viva, con un lenzuolo bianco fra le mani che dispiegò, mettendolo sulla testa di Demelza come se fosse un velo.

Clowance scoppiò a ridere. “Mamma, cosa fai?”.

Demelza le strizzò l'occhio. “Faccio finta di essere la sposa. Demian e Jeremy dovranno reggere il velo e seguirmi e voi due bambine seguirete loro per il corridoio. Dovrete essere seri, camminare dritti e non ridere”.

Io vi aspetterò in fondo al corridoio facendo finta di essere il prete” - concluse Prudie, allontanandosi.

E a quelle parole, i bambini scoppiarono definitivamente a ridere. E anche Demelza. E Prudie... Risero di gusto e Demelza si sedette per terra, lasciando cadere dietro le sue spalle il lenzuolo. Ci sarebbe stato tempo per fare le prove, ora era troppo divertita per spezzare quel momento gioioso di risate coi suoi figli. Allargò le braccia e accolse i bimbi fra di esse, rendendosi conto di quanto fossero ridicoli sia quei preparativi, sia le sue paure. Baciò Daisy sulla nuca e fece il solletico a Demian, diede un pizzicotto affettuoso sulla guancia a Clowance e lasciò che Jeremy gli si sedesse di fianco. Erano vivaci ed indisciplinati ma non li avrebbe cambiati con nessun altro bambino al mondo. Né avrebbe permesso a nessuno di farlo. “Bambini, d'accordo, per oggi niente prove! Su, andate a giocare”.

Quanti mesi ci sono, per imparare a fare i paggetti?” - chiese Jeremy

Sei”.

Jeremy guardò i gemelli che si erano già rialzati e avevano ripreso a rincorrersi e a fare rumore. “Mamma, sei nei guai con loro due. E anche con Grace!”.

Come sei incoraggiante!” - rispose, scompigliandogli i capelli. “Lo so che sono nei guai ma tu cerca di non farmi deprimere troppo facendomelo notare”.

Jeremy rise e poi si alzò, prendendo Demian per mano e incitando le bambine a seguirlo.

Ma Demian si divincolò, rifugiandosi fra le braccia di Demelza. “Io voglio stare con la mamma”.

Mammone!” - ribatté Clowance nel suo elegante abitino rosa, facendo la linguaccia al fratellino.

Jeremy rise, la prese per mano per farla smettere e corsero via, nel salone di sotto, sghignazzando e facendo baccano.

Prudie li osservò sparire alla loro vista. “Ci sei riuscita, ragazza”.

Non sono riuscita a far niente e i bambini sono ancora dei selvaggi”.

Non sono selvaggi, sono contenti. Ricordi cosa volevi, quando è morto Hugh due anni e mezzo fa? Cosa lui ti aveva chiesto? Cosa gli hai promesso?”.

Demelza alzò lo sguardo su di lei, accigliata, poi il suo sguardo si addolcì e si chinò a baciare la testolina bionda di Demian. “Quando Hugh è morto, non ero nemmeno consapevole di come mi chiamassi. Però sì, ricordo... Quella promessa è stata la mia ragione di lotta e di vita”.

Prudie le sorrise dolcemente. “Hai giurato che per Hugh avresti riempito questa casa di risate di bambini. E guarda, ce l'hai fatta e lui ora ne sarà contento”.

Demelza sorrise di rimando, ricordandosi di quei giorni nebulosi. Era vero, ci era riuscita! E in quei due anni e mezzo anche il suo cuore, assieme a quello dei suoi figli, si era fatto più sereno e leggero, mentre li guardava crescere. E lo sapeva che Hugh, il suo poeta sognatore un po' magico che li spiava nella nebbia, era felice per loro. Si portò la mano con la fede al dito alle labbra, la baciò e poi si alzò in piedi, tenendo Demian per mano. “Andiamo in camera? Mamma deve cambiarsi d'abito e prepararsi per la cena”.

Sì. Io sono pronto, guarda!”.

Demelza congedò Prudie, sorrise e lo guardò mentre entravano in camera. Demian indossava un maglioncino blu, dei pantaloncini corti dalla fantasia scozzese, scuri, calzini fino al ginocchio e i suoi lunghi capelli biondi erano pettinati e perfetti. Non sarebbe durato a lungo così agghindato ma era incantevole in quel momento anche se non aveva mai amato i dettami in fatto di abbigliamento di Londra che imponevano i pantaloncini corti ai bambini dell'alta società fino agli otto anni, anche in pieno inverno. Aveva dovuto abituarsi a quella regola, tutti i bambini erano vestiti così e Demian non sembrava aver freddo ma considerava quella moda ridicola.

Si tolse il mantello, lo appoggiò sul letto mentre Demian ciondolava per la stanza e improvvisamente un 'piccolo dettaglio' attirò la sua attenzione. “DEMIAN PHILIPPE LUIS!!! Vieni quì” - disse, scandendo il suo nome per intero, cosa che succedeva solo quando era arrabbiata con lui. “Cos'è questo?” - chiese, indicando un cumulo di pezzi di legno che una volta erano il suo comodino.

Il bimbo si avvicinò, guardandola con la sua consueta aria da angioletto. “Volevo vedere com'era dentro. L'ho aperto”.

Demelza si mise le mani fra i capelli. “Giuda, lo hai completamente smontato!”.

Sì” - rispose lui, sincero.

Lo guardò storto, sospirò e poi decise che doveva sistemare subito quel disastro prima che qualcuno se ne accorgesse e lo riferisse a Lord Falmouth. Si avvicinò all'armadio, si chinò e dal fondo estrasse una cassettina di legno che teneva segretamente nascosta sotto cumuli di coperte. Si avvicinò al comodino smontato, si sedette per terra e la aprì, facendo vedere il contenuto a suo figlio.

Cos'è mamma?”.

Cacciaviti, viti e cose simili... Servono a sistemare i tuoi disastri” - disse Demelza, prendendo a rimettere insieme i pezzi del mobile.

Demian rise. “Una Lady non lo fa!”.

Quell'espressione la fece riflettere, prima di farla ridere assieme al bambino. “Una lady no. Ma Demelza Carne di Illugan sì!”.

E tu chi sei, mamma?”.

Gli strizzò l'occhio. “Tutte e due”. Già, era tutte e due. Per amore di Hugh e della sua famiglia era diventata una Lady ma MAI avrebbe smesso di essere, quando era necessario, Demelza Carne. E sapeva che Hugh era fiero di lei ed era così che voleva vederla. Anche perché, visti i disastri dei gemelli, aveva dovuto fare di grazia, virtù. “Aiutami!” - disse al bimbo, mettendogli in mano delle viti. “E ricorda, sei in castigo per tutto domani”.

Demian spalancò gli occhi, sbuffò, fece la faccia sorpresa e poi la abbracciò da ruffiano. “NOOO! Perché?”.

Lo guardò storto, rifiutandosi di rispondere a quella domanda ovvia. Era un maestro a fregarla e a farla intenerire ma quella sera Demian non ce l'avrebbe fatta. “Farai compagnia a Daisy che stamattina ha lanciato la marmellata in testa a Silvie, in cucina. Starete tutto il giorno in casa a sfogliare – SENZA ROMPERLI – i libri che vi ha lasciato il vostro papà. E ora su, sistemiamo questo disastro prima che lo sappia tuo zio e mi venga a dire di nuovo che sei un selvaggio e che ti serve un istitutore svizzero che educa col bastone, di nome Gotfried”.

Demian incrociò le braccia al petto, imbronciato. Ma poi, interessato a quel lavoro manuale, la aiutò a sistemare il disastro che aveva combinato e le sue rimostranze finirono lì.

Si divertirono insieme, come succedeva sempre quando si trovava a fare qualcosa con Demian. Era, fra i suoi figli, la sua anima gemella, in un certo senso.

Rimontarono l'armadietto e poi Demelza ripose di nuovo, al sicuro, la sua cassetta segreta degli attrezzi. Si avvicinò poi alla grande finestra che dava sul giardino, osservandolo immerso nel buio e nella nebbia. Ce n'era tanta, come in quella sera in cui aveva conosciuto Hugh... Pensò a lui, ai bambini, al matrimonio di Margarita e al compito che la aspettava e in silenziò prego. “Avevi detto che ti saresti nascosto nella nebbia e che se avevo bisogno di aiuto, mi avresti ascoltata. Ecco, ho bisogno di aiuto, Hugh. Se sei qui davvero, se sei il mio elfo... Ecco, aiutami a mettere un po' di sale in zucca ai gemelli e fa che siano bravi almeno nel giorno del matrimonio di Edward e Margarita. Per favore...” - pregò, baciando nuovamente la fede che aveva al dito. Era terrorizzata da quell'incarico...

Con chi parli?” - chiese Demian, corso al suo fianco ed attaccato alla sua gonna.

Demelza gli sorrise, lo prese in braccio e con lui si affacciò nuovamente alla finestra. “Con gli elfi e le fate. Sai, il tuo papà mi diceva che si nascondono nella nebbia... Tutte le creature magiche che esistono, stasera sono nel nostro giardino”.

Demian si appoggiò con il viso e le manine al vetro, osservando attentamente fuori, poi rise. “Sì, le vedo!” - esclamò.

Cosa?”.

Le cose magiche. Ce ne sono tante... Anche gli gnomi”.

Demelza lo strinse a se, baciandolo sulla fronte. “Davvero, mio piccolo principe?” - chiese, chiamandolo in quel modo affettuoso e segreto che usava con lui quando erano soli.

Davvero”.

Guardò fuori, lei non vedeva niente. Ma forse era così, forse agli adulti era precluso vedere cose che, agli occhi ancora trasparenti dei bambini, era limpido e chiaro. I bimbi sapevano vedere oltre e non era fantasia, non del tutto. Di questo era sicura! “Farai il bravo paggetto?”.

Sì. Ma sono ancora in castigo domani?”.

Sì”.

Ma adesso il comodino è guarito...”.

Demelza rise, mettendolo a terra e osservandolo correre sul letto. Il bimbo si gettò sui cuscini, rotolando fra essi ridendo.

Mamma, giochiamo?” - chiese.

E Demelza annuì, sentendosi leggera e al sicuro da ogni male del mondo nel calore di quella stanza, coi suoi bambini che giocavano di sotto e con lei. “Giochiamo” - rispose, lanciandogli allegramente un cuscino in testa.

Prudie aveva ragione, stavano ridendo. E lei aveva mantenuto fede alla promessa fatta a Hugh e lui la fuori, nella nebbia, era orgoglioso di tutti loro.

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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


"Signore, avete visite".

Ross, intento a fare colazione, alzò lo sguardo accigliato. Visite? A quell'ora? Era presto, il sole non aveva ancora illuminato la brughiera, Valentine stava facendo baccano picchiando il cucchiaio nella ciotola con il latte e lui per questo era già di cattivo umore. Non sopportava Valentine quando faceva così, quando faceva rumore e capricci per attirare l'attenzione. E ora ci si metteva anche l'ospite mattutino? "Di chi si tratta?" - chiese a Jane.

"Zachy Martin. Sembra molto agitato".

Ross guardò di sbieco Valentine intimandogli in modo brusco, stavolta, di smetterla e poi, dopo averlo affidato alle cure di Jane, andò a vedere cosa portava il suo socio a casa sua a quell'ora.

Appena giunse alla porta, trovò Zachy sconvolto, pallido, sudato e in preda a un'inusuale agitazione che non aveva mai fatto parte del suo carattere. "Che succede, amico mio? Vieni dentro dai, non stare quì sulla porta".

Zachy scosse la testa, c'era una sorta di disperazione sul suo viso e nella sua espressione... "No, non ho tempo, non c'è tempo! Ross, aiutami" – sussurrò con la voce rotta dal pianto, aggrappandosi alle braccia dell'amico quasi come avrebbe potuto fare un bambino in preda a un incubo.

Ross entrò in allarme, se Zachy era in quello stato, doveva essere successo qualcosa di grave. "Non c'è tempo per cosa?".

"Per Jago" – disse l'uomo, accasciandosi a terra piangendo come un bambino.

"Jago?". Ross capì subito che, se Zachy si trovava in quello stato, suo figlio doveva averla combinata grossa. Jago era stato da subito, fin da piccolissimo, una testa calda sempre nei guai e sempre pronta a fare a botte e crescendo non era cambiato. Solo che c'era una bella differenza fra una scazzottata fra due monelli della Cornovaglia e guai con perfetti e pericolosi sconosciuti incontrati in giro per il mondo. "Cosa ha fatto? Mi avevi detto che era impiegato come mozzo su una nave...".

Zachy scosse la testa. "E' tornato la settimana scorsa. E' stato a casa solo pochi giorni, da quando sua madre è morta fugge lontano appena può e così è stato anche stavolta. L'altro ieri... Hai sentito dei disordini a Truro?".

Ross si oscurò in volto. "Sì, un gruppo di minatori e contadini ha aggredito delle guardie e una è stata uccisa. Non dirmi che Jago è implicato...".

Zachy annuì. "Era lì, ovviamente! Andare in Francia gli ha messo in testa idee strane e pericolose e lo avevo messo in guardia, gli avevo detto che si sarebbe messo nei guai! E' stato arrestato durante gli scontri e processato immediatamente. E' stato giudicato colpevole, assieme ad altri due ragazzi, di omicidio e incitazione alla sommossa".

L'animo di Ross divenne cupo, erano accuse gravi e non se ne poteva uscire con una semplice ammonizione da parte del giudice. Eppure non riusciva a credere che Jago, cresciuto da una famiglia sana e comunque buono d'animo, potesse aver fatto una cosa simile. "Hai parlato con lui?".

"L'ho potuto vedere solo pochi minuti ieri, prima del processo. Mi ha giurato che è innocente, che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato e che voleva solo protestare con gli altri per un prezzo del grano più equo. Ha cercato di spiegarlo anche al giudice, ma George Warleggan non ha voluto sentire scuse".

Un brivido freddo percorse la schiena di Ross... Se George Warleggan era stato il giudice di Jago, la punizione doveva essere pesantissima e sapendo che i Martin erano amici dei Poldark, sicuramente ci era andato giù pesante. Era una situazione pessima, quella! "Warleggan...? Qual'è la sentenza?".

Zachy si accasciò a terra, piangendo come un bambino a quella domanda. "Lo impiccheranno stamattina alle undici a Bodmin, assieme agli altri due ragazzi condannati con lui". Gli prese la mano, stringendola convulsamente, cercando in lui una qualche soluzione a quell'incubo. "Ross, aiutami! E' solo un ragazzo".

Si sentì le gambe tremare, avrebbe avrebbe fatto qualunque cosa per lui ma se George era implicato e aveva emesso quella sentenza, c'erano poche direzioni da seguire per poter salvare Jago. E lui DOVEVA salvarlo! Perché era giovane, perché lo conosceva fin da quando era piccolo, perché era figlio di Zachy e perché era un bravo ragazzo pieno di energia e poco capace di prevedere le conseguenze delle sue azioni come tanti altri ragazzi della sua età. Non poteva morire, non così! Ma andare da George e implorare non sarebbe servito a nulla e aveva solo una strada da percorrere!

Si inchinò, aiutando Zachy a rialzarsi, poi gli diede una pacca amichevole sulla spalla e gli sorrise forzatamente. "Prendi uno dei miei cavalli e galoppa fino a Bodmin, Jago vorrà sentirti vicino. Io tenterò di parlare con una persona influente che forse potrà fare qualcosa per tuo figlio, ci vado subito e farò quanto in mio potere per fermare questa pazzia. Poi ti raggiungerò in quel luogo dannato dove pure io, anni fa, rischiai la stessa pena inflitta a Jago". Già, sembravano passati secoli da allora... Julia era appena morta, Demelza era sopravvissuta per miracolo alla gola putrida e nonostante il dolore per la malattia e per la perdita della loro bimba, aveva trovato la forza per stargli vicino durante quel dannato processo dove ancora una volta lui aveva messo il suo orgoglio davanti al suo amore per lei. Demelza... Pensarla, ogni volta, faceva molto male. Gli era stata sempre vicino e avrebbe meritato che lui le regalasse il mondo e invece era stato capace solo di ferirla e di farla soffrire. Ed era l'ultima persona al mondo che lo meritasse... Ora non poteva più fare ammenda con lei e coi suoi figli ma per Zachy e per Jago si sarebbe battuto fino allo stremo e anche oltre. Questo non avrebbe cancellato i suoi torti passati ma forse avrebbe potuto alleggerire il suo animo appesantito da tanti, troppi sensi di colpa.

"Con chi vuoi parlare?" - chiese Zachy. "Chi può avere il potere di annullare una sentenza già emessa?".

"Te lo dirò dopo, ora non c'è tempo. Va a Bodmin Zachy, ti raggiungo lì".

Zachy annuì dirigendosi, apparentemente più rinfrancato, verso le stalle. E Ross corse in casa per prendere il suo tricorno e avvertire Jane e John Gimlet che non si sarebbe recato alla miniera per quel giorno e che non sapeva a che ora avrebbe fatto ritorno.

Appena dentro spiegò tutto a John ma fu interrotto nuovamente da Valentine, in vena di fare capricci quella mattina.

"Papà".

Ross lo guardò di sfuggita, il suo cuore era in tumulto per il destino di Jago e non aveva tempo da perdere con suo figlio. "Non ora...".

"Ma devo dirti una cosa importante".

Ross sbuffò. "Dilla a Jane".

"NOOOO".

Santo cielo, quella mattina Valentine rischiava di prendersi una sculacciata! "Che c'è?".

Valentine gli si avvicinò, tirandogli la giacca. "Mi leggi una fiaba, stasera quando torni?".

Si sentì irritato, era un bambino insensibile e viziato che non sapeva vedere oltre i suoi desideri. Un ragazzo rischiava di venire impiccato e lui pensava alle fiabe. "Se il tuo unico pensiero è leggere una fiaba, sei un bambino davvero fortunato rispetto a tutti gli altri... Fattela leggere da Jane, non ho tempo per queste sciocchezze, soprattutto oggi!".

Gli occhi di Valentine divennero lucidi. "Ma papà... Lo avevi promesso!".

Il bimbo, non sapendo del tumulto e della disgrazia imminente che stava per abbattersi su una famiglia da sempre amica, scoppiò a piangere e Jane accorse per calmarlo. Ross non aggiunse altro, lo guardò con irritazione, gli voltò le spalle e poi corse verso le stalle per partire a sua volta al galoppo.

Destinazione: Lord Basset.

Galoppò come un forsennato, non c'era da perdere nemmeno un minuto e quando arrivò, nonostante fosse mattino ancora presto, fece irruzione nella grande casa di Basset interrompendo l'uomo che stava facendo colazione nel suo studio mentre leggeva delle carte.

Basset sollevò gli occhi su di lui, dando un cenno al maggiordomo che aveva dovuto seguire l'avanzata di Ross di congedarsi. "Ross Poldark... Che piacere vedervi quì, non aspettavo la vostra visita. Non stamattina almeno".

Ross si oscurò. "Non è una visita di cortesia, sono quì per chiedere di intercedere per un ragazzo condannato ingiustamente all'impiccagione. L'esecuzione avverrà fra poche ore a Bodmin e se la sentenza verrà eseguita, sarà il più grande crimine che possa essere perpetrato ai danni del popolo. Conosco il ragazzo e sono pronto ad intercedere per lui e a prendermi la responsabilità di seguirlo da oggi in poi".

Basset piegò le carte che teneva in mano, sospirando. "Parlate dei tre ragazzi condannati per i disordini dei giorni scorsi a Truro?".

"Sì".

L'uomo scosse la testa. "Sono stati condannati a morte tre giovani, accusati di aver ucciso una guardia. La guardia è effettivamente morta, qualcuno ha armato un fucile e loro sono stati riconosciuti come gli esecutori materiali dell'omicidio. Ross, non c'è nessun errore, questa è la legge".

Ross scosse la testa, doveva dannatamente fargli capire e chiarire cosa poteva aver spinto George ad emettere quel verdetto. "Non posso dire per gli altri due giovani, ma Jago Martin è innocente, si trovava lì per protestare e anche se è una testa calda, è un bravo giovane cresciuto da una famiglia sana e onesta, non sarebbe mai capace di uccidere nessuno. E' un ragazzo, solo un ragazzo che si è fatto trascinare dagli eventi e purtroppo paga lo scotto di appartenere a una famiglia amica dei Poldark. E questo, George Warleggan lo sa bene e ha inciso sul verdetto".

Basset alzò i suoi piccoli occhi azzurri su di lui, scrutandolo con furbizia. "Potevate essere voi a pronunciare una sentenza che poteva salvarlo, se aveste accettato la nomina a giudice di pace. Non lo avete fatto, George lo è diventato al posto vostro e ha emesso una sentenza attenendosi alla legge. Non c'è errore in questo, la procudura è corretta e purtroppo la grazia può essere data solo dal re".

"E' INNOCENTE!!!" - urlò Ross.

Lord Basset si alzò dalla sedia, andando davanti a lui viso a viso. "Se lo è, non è stato in grado di dimostrarlo. Ross, io conosco il vostro buon cuore e cosa vi ha spinto quì, ma non posso aiutarvi".

No, non poteva finire così e non si sarebbe arreso. "Erano povere persone riunite per protestare sull'aumento del prezzo del grano. Disperati che non sanno che cosa dare da mangiare ai propri figli... Gente senza diritti, che non sa se il giorno dopo avrà un lavoro e del cibo in tavola, che vive di stenti e che a volte si lascia guidare da una disperazione mossa più dalla fame che dalla cattiveria. Non hanno diritti, non hanno tutele... Voi lo sapete, voi ed io su questo la pensiamo allo stesso modo".

Lo sguardo di Lord Basset si fece severo. "Vero, abbiamo visioni simili ma io, a differenza vostra, espongo la mia faccia e lotto perché le cose cambino, in sede opportuna, mettendo anche a tacere la mia coscienza se necessario! E' vero, non esistono giustizia sociale, tutele e diritti per i lavoratori e soprattutto non esiste pietà verso chi non ha nulla ma per cambiare le cose, gli uomini GIUSTI devono andare a dire le GIUSTE cose nelle sedi opportune. Voi non salverete quel ragazzo, Ross. Ad oggi nulla può esservi d'aiuto ma se vi metteste in gioco, forse salverete quelli che verranno dopo di lui".

Ross scosse la testa, non voleva sentire quel genere di discorsi, non in quel momento. "Vi prego... Mi metterò in ginocchio se servisse a qualcosa...".

"Non servirebbe a nulla Ross e voi lo sapete".

Lo guardò, vedendo in lui e nel suo volto il segno della sconfitta. Anche Basset si sentiva impotente in quel momento e poteva leggergli in faccia il dolore di non poterlo aiutare davanti a quell'ingiustizia. "Suo padre è il mio braccio destro... Un brav'uomo che ha cresciuto tanti bravi figli, onesti lavoratori che si spaccano la schiena nelle nostre miniere. Siamo padri anche noi, cosa faremmo al suo posto?".

Basset abbassò il viso. "Saremmo semplicemente disperati. Se siete amico di quell'uomo Ross, andate da lui e stategli vicino. L'esecuzione sarà fra poco e avrà bisogno di voi".

Ross lo guardò, pensando a Jago e ricordandolo bambino, quando giocava ad inseguire le lepri fuori dalla Wheal Leasure e faceva i dispetti alle bambine del distretto. Era giovane, aveva davanti una vita... E ora gli sarebbe stata strappata. Mise il tricorno in testa, annuendo e capendo che non poteva chiedere nulla e che la legge legava le mani di Basset quanto le legava a lui. "Scusate se vi ho disturbato".

"Di nulla, Ross".

Fece per andare ma Basset lo richiamò ancora una volta. "Ci penserete?".

Ross si voltò. "A cosa?".

"A ciò che vi ho detto, ad arrivare a discutere di queste tematiche nelle sedi opportune, con me".

Ross non rispose, non era il momento per discutere di cose simili e non aveva tempo di pensare. Salutò con un cenno del capo, uscì dalla stanza e dalla casa e poi montò in sella al cavallo, galoppando come un forsennato verso la prigione di Bodmin.


...


La folla gremiva la piccola piazzetta adiacente alla prigione dove si trovava il palco coi tre cappi.

Gente che urlava, che cercava di concludere affari approfittando della gran folla, gente venuta fin lì pensando di godersi uno spettacolo macabro. Ross era nauseato da tanta crudeltà ed insensibilità ma non poteva andarsene. E fianco a fianco di Zachy aspettavano l'inevitabile, lui con lo sguardo di pietra mentre guardava George Warleggan osservare il cappio con aria trionfante e Zachy con il viso rigato da lacrime che non poteva trattenere.

Ross gli poggiò la mano sul gomito per dargli coraggio. Sapeva come si sentiva, era come fu per Julia mentre la teneva in braccio dopo che Dwight gli aveva detto che non c'era niente da fare. Era la disperazione di un uomo che guarda suo figlio non per vederlo crescere ma aspettando di vederlo morire. Era terribile, un dolore da cui nemmeno lui si era mai rialzato del tutto e che forse aveva creato le prime crepe nella felicità perfetta dei primi anni di matrimonio con Demelza. Non c'era nulla da dire, c'era solo da stare accanto a Zachy come a suo tempo Dwight era stato vicino a lui.

Dwight, Julia, Demelza... Tutte persone belle a cui aveva voluto bene e che aveva perso... E ora guardando Jago salire sul palco e il boia mettergli attorno al collo la corda, il senso delle sue perdite tornava prepotentemente davanti ai suoi occhi con ferocia.

"Ross...".

Zachy si aggrappò a lui, affondando il viso nella sua spalla e Ross lo sorresse. "Zachy... Sarà un attimo, solo un attimo. Perdonami se non posso aiutarti, perdonami per non essere stato...". Si bloccò, rendendosi conto che per salvare Jago non avrebbe potuto far nulla quel giorno, tutto quello che poteva fare era decidere altro in passato. Ma per orgoglio aveva rifiutato un ruolo che poteva portarlo a fare del bene, mettendo in mano a George Warleggan un potere che gestito da lui diventava morte e distruzione.

Osservò quei tre giovani a cui non fu concesso nemmeno di dire un'ultima parola, i loro occhi pieni di vita ma terrorizzati, il futuro che non avrebbero avuto più.

E quando la botola sotto i loro piedi si aprì, l'urlo di Zachy lo trascinò a terra in un pianto disperato.

Lo abbracciò, gli tenne tenuto il viso contro il suo petto per non fargli vedere nulla di quello spettacolo magro e in quell'istante ritoccò con mano quel dolore atroce vissuto quando morì Julia.

Tutti coloro che avevano attorno urlavano esaltati. Ma per Ross e Zachy era come se non esistessero, il loro era un faccia a faccia intimo e solitario con morte e dolore e niente e nessuno avrebbe potuto toccare quel momento in cui i fantasmi della loro vita tornavano a tormentarli.

George Warleggan, assieme agli altri due giudici che avevano emesso il verdetto, se ne andò soddisfatto e senza alcun rimorso verso la sua carrozza e Ross lo osservò con odio, rendendosi conto che non poteva fare niente.

Non poteva fare niente... Per adesso...

Ripensò alle parole di Basset di quella mattina e dei mesi precedenti, alla sua cocciutaggine, a quanto valeva il suo orgoglio rapportato al bene che avrebbe potuto fare per gli altri, se avesse imparato ad accettare qualche compromesso...

La Cornovaglia era la sua terra, la sua vita, lì era nato e lì vivevano e avevano vissuto le persone che più amava. Ma era il momento di guardare anche oltre, cercando di non snaturare se stesso.

Guardò le salme di quei tre ragazzi a cui povertà e ingiustizia avevano strappato la vita, le lacrime disperate di un padre che aveva appena visto morire un figlio, ripensò alla vita di stenti dei suoi minatori, brava gente resa feroce dalla fame e dalla miseria. E decise...

Sorresse Zachy, lo costrinse ad allontanarsi da quel luogo di morte dove nulla poteva più salvare Jago e lo accompagnò a casa, vegliando su di lui con gli altri suoi figli finché non si addormentò, stremato.

E poi salì nuovamente a cavallo, galoppando verso la casa di Lord Basset in quella lunga giornata che sembrava infinita.

Lo trovò che era in giardino, intento a guardare sua moglie e sua figlia che giocavano con un gattino bianco. Un'immagine di serenità e pace dopo l'orrore visto poco prima, un qualcosa di piacevole ma stridente in quella giornata di morte e dolore.

Quando arrivò, Basset non parve troppo sorpreso. "Vi aspettavo, Ross. Sapevo che sareste tornato...".

"Il ragazzo è morto" – gli rispose, glaciale.

"Lo so, sono stato informato, fate le mie condiglianze alla famiglia".

Ross deglutì, strinse i pugni e si rese conto che la sua vita sarebbe cambiata da quell'istante. "E' ancora libero quel posto che volevate assegnarmi, come vostro compagno d'avventura alle prossime elezioni della Contea per due seggi a Westiminster?".

Basset lo guardò mentre un lampo di orgoglio gli attraversava gli occhi. "Ovviamente".

Ross annuì. "Beh, da ora non è più libero. Lo prendo io quel posto vacante".

"Finalmente! Sapevo che avreste ceduto, che avreste capito che quello era il posto da cui siete atteso, da sempre!". Basset gli si avvicinò per stringergli vigorosamente la mano. "Londra non vi terrà lontano da queste terre tutto l'anno, come me potrete tornarci quando vi aggrada, la strada non è così lunga come sembra. Apparterrete sempre a queste terre e potrete continuare a gestire le vostre miniere".

Ross annuì, non aveva bisogno di essere confortato su quegli aspetti, sapeva che nulla lo avrebbe mai potuto strappare definitivamente dalla Cornovaglia. "Vinceremo?".

"Se ci prepareremo a dovere".

"E quando inziamo?".

Basset sorrise di nuovo sotto i baffi. "Domani".


...


Quando tornò a casa era esausto e la fatica e il dolore di quel giorno terribile erano un fardello talemente enorme che voleva solo farsi un bagno e mettersi a letto, dimenticando il mondo attorno a lui per qualche ora. Aveva fatto una scelta che lo avrebbe costretto a cambiare vita, ad accettare compromessi e atteggiamenti, aveva deciso che il suo mondo sarebbe stato anche Londra e aveva assistito alla morte crudele di tre ragazzi. Era tanto, troppo...

Appena dentro casa, Jane gli andò incontro, prendendogli mantello e tricorno. "Bentornato signore".

Ross si guardò attorno, notando che la casa era insolitamente più silenziosa di come l'aveva lasciata quella mattina. "Valentine dov'è?".

Jane scosse la testa. "A letto, oggi ha avuto un pò di febbre".

Sospirò entrando subito in allarme, quel bambino era fonte perenne di preoccupazione. "E' qualcosa di preoccupante?".

"No, credo sia perché ha pianto tanto...".

Spalancò gli occhi. "Pianto? Ancora per la storia della fiaba?".

Jane lo guardò con una strana aria di rimprovero che mai gli aveva visto in volto. "E' solo un bambino, è piccolo e sta crescendo senza madre e con un padre perennemente assente. E' di salute delicata, vive in un posto isolato ed è normale che cerchi attenzioni. Credo, signore, che il piccolo Valentine sia il bambino più solo al mondo".

Ross abbassò lo sguardo, a disagio. Sapeva le sue pecche di padre ma era la prima volta che Jane gliele sbatteva così brutalmente in faccia. "Ho molte cose e molti problemi da gestire, Jane... E la tua presenza, assieme a quella di John, è importante per me e Valentine. Voi e vostro marito siete i punti di riferimento più importanti di mio figlio".

"Ma siete voi suo padre, non noi! Signor Poldark, se posso permettermi...".

"Dite".

"Fate in modo che voglia più bene a voi che a noi. Valentine vuole solo un pò di tempo con il suo papà".

Ross annuì, colpito da quelle parole. Poche ore prima aveva visto le lacrime di un padre che aveva perso un figlio che non avrebbe visto diventare uomo e lui invece sprecava il tempo che gli era concesso facendo tutto eccetto che stare con Valentine. Zachy non avrebbe avuto altre chances e lui non poteva dire con certezza se quel tempo sprecato con il suo bambino gli sarebbe stato restituito in futuro. Ci era già passato da errori simili e aveva perso tutto, non poteva non aver imparato la lezione! "Grazie Jane, ora vado da lui".

Prima passò dalla biblioteca per prendere un libro e poi salì le scale, stancamente, entrando nella stanzetta del figlio.

Valentine era seduto sul letto, pallido, intento a giocare con alcuni soldatini sparsi sulla coperta. "Papà...".

Si avvicinò, sedendosi accanto a lui. "Jane mi ha detto che hai avuto la febbre oggi".

Il bimbo annuì. "Non è stata una bella giornata".

"Nemmeno per me" – ammise Ross – "A volte il mondo di noi grandi è complicato e difficile".

"Anche quello dei bambini" – rispose Valentine, incredibilmente serio per i suoi cinque anni.

Gli accarezzò i ricciolini neri, guardò i suoi occhi scuri, erano identici loro due. Eccetto che gli occhi di Valentine erano sempre colmi di una tristezza che spesso lui fingeva di non vedere. "Mi spiace per averti parlato male questa mattina ma ero...".

"Cosa?".

"Niente... Niente di cui tu avessi colpa. Vuoi che ti legga qualcosa?".

Valentine osservò il libro nelle sue mani. "Solo se vuoi..." - disse, timidamente.

Gli sorrise. "Voglio! Ma sai, le fiabe credo siano per bambini più piccoli, questo libro è meglio" – concluse, alzando il volume dalla copertina rossa che aveva in mano.

"Che libro è?".

"Un libro sui pirati. Sai chi sono?".

Valentine rise. "Gente con una bella vita interessante".

Ross annuì, era d'accordo. "Te lo leggo, allora?".

"Sìììì" – esclamò lui, sorridendo finalmente. Gli si rannicchiò sul petto, lo abbracciò e Ross per la prima volta da quando era suo padre lesse qualcosa per lui.

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Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


L'invettiva di George Warleggan contro di lui, orientata a convincere tutti i votanti a non scegliere Ross Poldark, fu talmente convincente che pure lo stesso Ross, se fosse stato nei panni degli altri, non avrebbe votato per se stesso.

Rimase serio durante la fase delle votazioni, accanto a Lord Basset che, da vecchia volpe, si guardava attorno lanciando occhiate silenziose ed eloquenti agli altri rappresentanti delle contee presenti.

George elencò tutti i suoi peccati di gioventù, i suoi guai con la legge, gli incidenti alle sue miniere che avevano purtroppo avuto come esito alcune vittime, il suo carattere irascibile e poco serio, la sua scarsa socialità, il suo essere sempre fuori dalle regole... Fu convincente a suo modo e Ross, ridendo sotto i baffi, pensò quasi quasi di votare lui per il seggio di Londra.

Dopo un discorso del genere, difficilmente avrebbe preso dei voti. In tanti lo conoscevano di fama e chi non lo conosceva personalmente... beh, ora grazie a George sapeva tutto di lui.

Valentine, accanto a lui, gli tirò la manica della giacca. Lord Basset aveva insistito perché lo portasse con loro, convincendolo che l'immagine di padre di famiglia avrebbe fatto presa sugli astanti e Ross, anche se restìo, alla fine aveva portato il figlio con se. "Papà?".

"Sì?".

"Ma davvero hai fatto tutte queste cose da giovane? Quelle che ha detto quel signore?".

Ross annuì, vagamente orgoglioso di se stesso. "Anche di più".

Valentine sorrise, sinceramente colpito. "Forte!".

E Ross si accigliò, guardandolo storto. "Tu ovviamente NON le farai queste cose...".

Basset, con accanto sua moglie e la piccola Emily, gli diede una gomitata nella schiena. "Iniziano le votazioni, pregate che non debba fare il viaggio verso Londra con George Warleggan".

"Pregherò... per il bene dell'Inghilterra" – rispose Ross sarcastico, guardando il suo storico nemico che, con la consueta faccia corrucciata, lo guardava dall'altro lato della sala.

I votanti iniziarono a esprimere le loro preferenze e i primi quattro voti furono tutti per George. Ross sospirò, preparandosi all'inevitabile sconfitta. Non aveva mai nutrito troppe speranze e forse il suo destino sarebbe rimasto comunque quello di rimanere in Cornovaglia, come era nelle sue idee iniziali, a gestire le sue miniere.

Ma poi Basset votò per lui e tutto cambiò, facendogli comprendere quanto ascendente e quanto potere sugli altri avesse quell'uomo.

E dopo il voto di Basset, uno dopo l'altro arrivarono otto voti per Ross Poldark. Votarono tutti per lui, all'unisono, anche coloro che più erano vicini alla famiglia Warleggan.

Ross trattenne il respiro, George divenne paonazzo e quando il Presidente della seduta decretò la vittoria e l'assegnazione del seggio a Westiminster a Ross Poldark, se ne andò a passo spedito dall'aula, sbattendo la porta.

"Non prende bene le sconfitte" – sussurrò Ross, più divertito da quella reazione che dall'esito del voto che, forse, non aveva ancora mentalmente realizzato appieno.

Basset rise, trionfante, trascinandolo a stringere le mani a tutti coloro che avevano votato per lui, dandogli fiducia.

Ross si lasciò trascinare, quasi inebetito da quell'esito inaspettato che ora, grazie dopo grazie, diventava improvvisamente reale. Ora era vero, ora era un membro del Parlamento e sarebbe dovuto partire per Londra. Era emozionante, eccitante... e pauroso. Mille nuove responsabilità lo avrebbero atteso, avrebbe dovuto imparare l'arte della diplomazia, essere più accondiscente e meno irruento. Un uomo rispettabile, insomma, uno che non fa a botte nelle osterie per risolvere i problemi ma li affronta argomentando nelle sedi opportune.

Valentine gli corse vicino, abbracciandolo. "Papà, che vuol dire? Hai vinto?".

"Sì!" - gli rispose, accarezzandogli i capelli neri e pieni di ricci.

"Allora ora sei un uomo importante".

Basset annuì. "Esatto, ora è uno degli uomini più importanti della nazione".

La piccola Emily Basset, per mano alla sua mamma, arrivò da loro. "Valentine, ora verrai anche tu a Londra! Ci sono un sacco di bambini là, vedrai! Ti presenterò tutti i miei amici!".

Ross si accigliò, guardando la piccola Emily e poi Valentine. In realtà, fin da quando suo figlio era nato, aveva sempre cercato una scusa per sfuggire da lui e non essere costretto, tutto il giorno, a guardarlo e a ricordare il dolore e gli errori che aveva commesso in passato. Londra avrebbe potuto allontanarlo dal peso dei ricordi per molti mesi all'anno, avvolgendolo e risucchiandolo in una vita nuova e frenetica che poteva permettergli di non pensare mentre Valentine sarebbe rimasto a Nampara, accudito da Jane e John. Erano questi i suoi piani e, anche se questa scelta era in parte egoistica, la giudicava anche la soluzione migliore per un bambino tanto timido e delicato come suo figlio che di certo si sarebbe trovato più a suo agio nella casa dov'era cresciuto piuttosto che in una società frenetica e diversa come quella di Londra.

Valentine, incurante dei suoi pensieri, sorrise a Emily. "Amici? Quanti ne hai?".

"Tanti! Anzi, tante! Le femmine giocano con le femmine e i maschi coi maschi, a Londra! La mia migliore amica – ma io non sono la sua – è Lady Clowance Armitage. Ma lei preferisce essere la migliore amica di Lady Chaterine e io sono solo la seconda nella sua lista".

"Ohhh" – fece Valentine, stranito da quelle strane dinamiche a lui sconosciute.

Ross guardò Basset. "Lady Clowance? Lady Chaterine? Emily ha amicizie adulte?".

Basset rise. "No, sono due bambine sue coetanee moooolto nobili e con tanto di titolo nobiliare. Le conoscerete o meglio... ne conoscerete le famiglie. Soprattutto gli Armitage, del casato Boscawen. Lady Clowance è la nipote di Lord Falmouth, un mio amico di bisbocce ma avversario politico. Uomo furbo, sornione, una vecchia volpe che la pensa perennemente al contrario di me. Ma potente e che può veicolare molti voti in Parlamento. Ve lo presenterò una volta arrivati a Londra perché se riusciamo a convincerlo della bontà delle nostre idee e a portarlo dalla nostra parte, lui farà piovere su di noi parecchi voti dei suoi soci e compagni di partito".

Ross ci pensò su. "Boscawen? Ne ho già sentito parlare, forse... Una famiglia molto potente e vicinissima ai sovrani. Che ruolo avrei io nel convincere questo uomo a darmi fiducia? Come potrei farlo?".

Basset gli strizzò l'occhio. "Avete una buona parlantina, una grande faccia tosta e siete un grande oratore, appassionato e fiero. Tutte qualità che Falmouth ama. Se gli entrerete in simpatia, forse potremmo usufruire del suo aiuto, ogni tanto... Ma nel mentre, quando partirò con la mia famiglia per Londra, mi adopererò a trovarvi un alloggio consono al vostro nuovo ruolo".

Ross lo guardò storto, rendendosi conto che l'ingresso in quel mondo fatto di regole che lui non condivideva era ormai inevitabile e avrebbe dovuto abituarcisi. "Un uomo che chiama la nipotina con un titolo nobiliare non mi piace. Mi fa senso, un bambino dovrebbe essere solo un bambino".

Basset rise. "Lady Clowance? Oh ma quella è una piccola vera leader, una Lady nata. Come suo zio! E' l'idolo di tutte le bimbe dei giardini di Kensington, tutte vogliono essere sue amiche. Ma sono bambine e quando sono all'aria aperta giocano esattamente come giocano i monelli della Cornovaglia, non preoccupatevi".

Valentine sorrise eccitato, Emily annuì e Ross decise di affrontare il discorso della partenza con suo figlio da soli, una volta a casa. I racconti di Basset lo indirizzavano sempre più verso la scelta di lasciarlo a Nampara e in fondo avrebbe solo dovuto spiegargli il perché. Sarebbe stato bene, lui stava sempre bene con Jane e John e Londra non era una buona scelta per lui.

"Andiamo a brindare? Di là, nella sala accanto, hanno imbandito un banchetto" – propose Basset, prendendo sua moglie a braccetto.

Ross li osservò, erano davvero una bellissima coppia e guardandoli si chiese se Demelza sarebbe stata orgogliosa di lui quel giorno, se fosse stata presente. Abbassò lo sguardo, malendicendosi per quel pensiero che lo tormentava ad ogni momento del giorno, ricordandosi che era solo e che lo sarebbe stato per sempre.

Fece per prendere la mano di Valentine ma suo figlio si era già allontanato. Anche lui aveva trovato compagnia e, mano nella mano con la piccola Emily, trotterellava dietro la coppia dei Basset.

A quanto pare l'unico non accoppiato era rimasto lui...


...


Jane e John Gimlet gli avevano fatto trovare una torta di mele al suo ritorno, adducendo che erano sicuri della sua vittoria e volevano essere pronti per i festeggiamenti.

Banchettarono con i Basset organizzando date di partenza e districando difficoltà organizzative e poi in serata, una volta rimasti soli, Valentine gli saltò sulle ginocchia. Era eccitato quel giorno, allegro e insolitamente ciarliero, cosa che non accadeva quasi mai. E non stava fermo un attimo, segno che non aveva dolori alle gambe e che stare in compagnia di una bambina gli aveva fatto bene. "Ma papà, a Londra ti dovrai vestire come Lord Basset?".

"Temo di sì".

Il bimbo rise. "Sembrerai un... pinguino".

Anche Ross rise. "Dove hai visto i pinguini?".

"In un libro di fiabe che mi ha letto Jane. Anche Jane e John vengono a Londra con noi?".

Ross deglutì a quella domanda, era arrivato il momento di spezzare l'eccitazione di Valentine e di spiegargli un pò di cose. "Jane e John resteranno quì. Con te... Solo io partirò per Londra".

Valentine spalancò gli occhi e Ross sentì le sue manine tremare. "Solo tu? E io? Mi lasci quì solo?".

"Non solo, con Jane e John".

Gli occhi di Valentine divennero lucidi. "Ma starai via tanto tempo... Senza di me...".

Ross sospirò, cercando di spiegargli che non poteva fare altrimenti. "Valentine, Londra non è un posto adatto a dei bambini, starai meglio quì, lo faccio per il tuo bene".

"Emily Basset ci va però! Il suo papà non la lascia a casa da sola. E ci vivono tanti bambini a Londra, perché io non posso andarci?".

"Perché io ritengo che non sia un bell'ambiente per te! Dovrò lavorare, starò fuori tutto il giorno e non ci vedremmo comunque mai! Quì starai meglio".

Valentine lo guardò stranito e... arrabbiato? "Da solo? Per quasi tutto il tempo?".

"Valentine...". Ross era sicuro di essere stato convincente ma guardando suo figlio si rese conto che non credeva a nulla di quello che lui gli aveva detto.

Il bimbo sollevò i suoi occhi scuri, piantandoglieli addosso. Tremava, era arrabbiato ma anche deluso e spaventato per la piega che avevano preso le cose. "Partirai e non tornerai più. E io sarò da solo per sempre".

"Non essere sciocco, certo che tornerò! Quì ci sei tu, c'è la mia casa e c'è la mia miniera. Parto per lavoro, non per divertirmi! E tu mi aspetterai a casa".

"Perché Lord Basset ce la porta la sua famiglia? Lui Emily la vuole sempre con se anche se deve lavorare".

Ross sospirò. "Lord Basset ha una moglie e Emily una mamma che si prende cura di lei".

Valentine abbassò lo sguardo. "Io la mamma non ce l'ho e adesso non avrò più nemmeno il papà". Con rabbia gli voltò le spalle, si avvicinò alla credenza e prese un foglio e dei pastelli, sedendosi poi al tavolo senza degnarlo di uno sguardo.

Ross gli si avvicinò, preso in contropiede da quella reazione rabbiosa di Valentine e indeciso sul da farsi. Fino a quel momento Valentine era stato zitto e silenzioso davanti alle sue idee e decisioni ma qualcosa era cambiato, segno che suo figlio stava crescendo e stava iniziando a sviluppare la sua personalità. "Che cosa stai facendo?".

"Il mio ritratto".

Ross si grattò il mento. "Perché?".

Il piccolo alzò lo sguardo, serio. "Così te lo puoi portare a Londra e non ti dimenticherai di me e magari qualche volta tornerai a trovarmi".

Rimase spiazzato da quella risposta, come poteva pensare che...? Si inginocchiò accanto a lui, cercando la sua attenzione. "Valentine, sei mio figlio, come potrei dimenticarmi di te? Come potrei dimenticarmi di una persona a cui voglio bene?".

Valentine rimase in silenzio.

"Hei?".

"Lasciami finire il ritratto" – rispose il piccolo, senza alzare il viso.

Ross lo guardò e a un tratto fu colto da un terribile dubbio. "Valentine, tu sai che ti voglio bene, vero?".

E Valentine rimase in silenzio, di nuovo...

Ross a quel punto fermò la sua manina che disegnava, posò il pastello e sedendosi accanto a lui, lo prese sulle ginocchia. "Valentine?".

"Non vuoi mai stare con me, papà. Non credo che mi vuoi bene, non sempre. Quasi mai...".

Ross deglutì. Sapeva di non essere un buon padre e sapeva anche quanto avesse tentato di scappare dal suo rapporto con Valentine ma lo amava, anche se non era un gran che bravo a dimostrarlo. Era vero, era un genitore assente e sempre alla ricerca di emozioni che lo facessero sentire vivo e forse non si era mai soffermato a pensare a quanto questi suoi comportamenti influissero sul pensiero che Valentine aveva di lui ma era convinto che suo figlio, proprio in virtù del fatto di essere suo figlio, sapesse che un padre ama a prescindere, anche se non è bravo a farlo vedere. Ma non era così, era palese che si era sempre sbagliato... Valentine non era più un neonato, aveva ormai sei anni e ormai sapeva valutare il perché dei comportamenti di chi gli stava attorno e di certo percepiva il distacco emotivo fra loro, chiedendosi il perché. "Valentine, la mia vita non è facile, spesso sono nervoso e silenzioso. O assente. Ma ti voglio bene e se vado a Londra lo faccio anche per te, per rendere migliore il mondo in cui vivrai da grande".

Valentine lo guardò in viso. "Ma non mi vuoi mai con te, non fai mai niente con me. Io ti aspetto sempre ma tu non arrivi quasi mai e adesso starai a Londra, magari ti piacerà e non tornerai più".

Ross lo guardò e in quel momento il viso di Valentine si sovrappose a quello di Jeremy, nei loro ultimi momenti insieme più di sei anni prima. Stessa tristezza, stesso desiderio di contatto e di essere visti e ascoltati e in entrambi i casi lui aveva fallito. Aveva abbandonato Jeremy, non c'erano scusanti, non c'erano la gravidanza difficile di Elizabeth o l'inferno della situazione vissuta allora a scagionarlo. Lui, che aveva l'arroganza di voler andare a Londra ad insegnare come vivere agli altri, aveva ABBANDONATO suo figlio ben prima che Jeremy lasciasse la Cornovaglia. Lo aveva abbandonato a ogni sguardo o carezza negato, a ogni fuga verso Trenwith per vedere Elizabeth, ogni volta che si era preso cura di Jeoffrey Charles e non di lui, quella notte maledetta dove aveva tradito la sua famiglia e i suoi figli e dopo, quando aveva promesso di tornare a trovarlo e non lo aveva mai fatto. E ora si chiedeva cosa pensasse di lui questo suo bimbo che ormai aveva nove anni e forse si domandava chi fosse suo padre, perché non c'era mai stato e probabilmente lo odiava... E Valentine non era diverso, anche lui era sempre stato abbandonato a se stesso perché suo padre col suo egoismo era sempre impegnato in altro. Aveva ragione, perché credergli? Cosa garantiva a Valentine un suo ritorno? Cosa garantiva a suo figlio che lo amasse, lui che era sempre fuggito lontano da lui? Aveva già fatto quella promessa, l'aveva fatta a Jeremy e non era più tornato e ora... E ora voleva far credere a Valentine che lo stava lasciando in Cornovaglia per il suo bene? Non c'era più nessuno della famiglia nelle vicinanze e sarebbe rimasto per lunghi mesi solo con dei domestici. Trenwith era ormai deserta ed abbandonata dopo la morte di Agatha due anni prima e Jeoffrey Charles, con cui i rapporti non erano mai migliorati, aveva voluto andarsene e ora studiva in una scuola militare a Southampton. Suo figlio aveva ragione, sarebbe rimasto davvero solo...

D'istinto abbracciò Valentine, rendendosi conto che era l'unica famiglia che ormai avesse e che era suo e doveva esserne orgoglioso. Poi prese un pastello dal tavolo, mettendoglielo in mano. "Finisci il ritratto così che poi, quando arriveremo a Londra, decideremo dove appenderlo nella nostra casa nuova".

Valentine, a quelle parole, alzò la testa di scatto. "Londra?".

Ross sorrise, decidendo che dovevano stare insieme. "Esatto! Jane e John verranno con noi e ci trasferiremo la tutti insieme finché dovrò lavorarci".

Valentine divenne rosso dall'eccitazione, gli si aggrappò al collo e lo baciò sulla guancia. "Mi porti?".

"Ti porto".

"Grazie papà!". Il piccolo saltò giù dalle sue gambe, correndo verso la cucina. "Vado a dirlo a Jane".

Ross annuì, vedendolo schizzare via veloce come il vento. Era felice, ora... E forse anche lui, di quella decisione che era votata più al bene di Valentine che al suo, forse per la prima volta da quando era nato.

Poi salì nella sua camera, sedendosi sul letto e tirando fuori dal comodino il cavallino di legno di Jeremy che teneva con se da anni ormai. Chissà com'era cresciuto, chissà quante cose sapeva fare ormai, chissà quanto bene voleva a sua madre e al suo fratellino... o sorellina... Chissà cosa stava facendo in quel momento...

Si mise il cavallino nella tasca della camicia, lo avrebbe portato a Londra con se, sarebbe stato il suo portafortuna. Non avrebbe potuto restituirlo a Jeremy, lui sarebbe sempre stato il suo bambino perduto ma per fortuna aveva capito che non poteva permettersi di perdere anche Valentine perché una vita a chiedersi anche per lui dove fosse, cosa facesse, come vivesse, sarebbe stata un ulteriore inferno.

Aveva perso tre figli, una portata via dalla malattia, due dai suoi errori e dal suo egoismo. Non ne avrebbe perso un quarto!


...


Seduti nella libreria dei bambini, in attesa di andare a letto, con indosso le loro camicie da notte, Jeremy, Clowance e i gemelli stavano scegliendo il libro di favole da leggere quella sera.

Demian e Daisy si rotolavano sulla moquette con Garrick facendo baccano mentre Clowance aiutava Jeremy nella scelta della lettura.

"La principessa nordica! E' un bel racconto secondo me" – propose Clowance, seduta per terra e intenta ad accarezzare il pelo bianco e candido della sua lupa albina Queen, regalo di suo zio. L'aveva desiderata da morire dopo che Jeremy aveva adottato una specie di meticcio spelacchiato simile a un volpino anche per colore del pelo, che aveva trovato per strada e chiamato Fox, e Lord Falmouth l'aveva accompagnata a un allevamento di cani di razza ben felice di accontentarla. Aveva scelto una meravigliosa cucciola di lupa che si era accoccolata fra le sue braccia, bella ed elegante come lei e da quel momento erano diventate inseparabili. Queen, così l'aveva chiamata, era altera e regale nei movimenti, sfuggente e ubbidiva solo a Clowance di cui era l'ombra.

Jeremy, con a fianco il vivace Fox, la guardò storto. "Favola da femmina! Leggila tu, se la vuoi".

Clowance gli fece la linguaccia. "Leggere le fiabe è compito tuo! Lo ha detto papà".

"Sì certo! Ma se lo fai tu per una sera, mica sudi!".

Clowance lo guardò storto mentre i gemelli ridevano. "Non so ancora leggere bene!".

"Perché sei una somara! Lo dice anche il nostro maestro che non hai voglia di fare niente a lezione".

Clowance si imbronciò. "Sono una Lady, devo essere educata! Non istruita".

Jeremy rise, avvicinandosi e dandole un pizzicotto sulla guancia. "Somara, somara! Hai sei anni e nemmeno sai ancora leggere bene".

Clowance gli diede una manata ma poi scoppiò a ridere, dandogli uno strattone e facendolo cadere a terra. "Selvaggio! Tu e il tuo cane non di razza".

Demian si avvicinò allo scaffale coi libri, prendendone uno dalla copertina tutta colorata. "Questo, Jeremy".

Jeremy lo prese in mano, ridendo. "Sveva la zebra! Clowance, ti ricordi?".

"No, cosa?".

Gli occhi di Jeremy divennero lucidi. "Era il nostro libro preferito da piccoli! Papà ci aveva portati a vederla, Sveva. E aveva regalato un cucciolo di tigre a mamma!".

Per un attimo calò il silenzio e Clowance divenne triste, abbracciando Queen che la leccò sul viso. "Papà scriveva anche le poesie a mamma, lei me lo racconta sempre".

"Mi manca tanto il mio papà" – sussurrò Jeremy, stringendo a se il libro.

Daisy, molto più pratica e decisamente meno sentimentale, gli si avvicinò, dandogli una manata sulla schiena. "E allora leggi! Devi farlo tu, lo aveva detto lui!".

Jeremy sorrise alla sorellina, sedendosi in terra e prendendola sulle gambe. Demian sgattaiolò fino a lui sedendosi vicino e lo stesso fecero Clowance e i tre cani. Poi aprì il libro, leggendo le prime parole di quel racconto che lo riportava a un affetto mai dimenticato e purtroppo perduto troppo presto.

"C'era una volta una zebra che si chiamava Sveva e viveva nella Savana...".




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Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Quello verso Londra era stato un viaggio tanto noioso per Ross quanto eccitante per il piccolo Valentine. Il bimbo aveva guardato ad occhi spalancati i diversi paesaggi che scorrevano davanti ai suoi occhi durante il tragitto dalla Cornovaglia a Londra e aveva investito suo padre di mille e più domande, faticando a star fermo dall'emozione.

Ross era stupito nel vederlo così, Valentine era di natura molto pacato e timido, mai rumoroso e raramente di indole vivace ma da quando erano partiti da Nampara suo figlio gli stava mostrando lati del suo carattere che mai avrebbe sospettato. Era curioso e allo stesso tempo ingenuo, era palese che non aveva mai conosciuto altre realtà rispetto a quella in cui era nato e Ross era felice di vederlo tanto eccitato ma allo stesso tempo preoccupato dal pensiero che Valentine non fosse pronto ad affrontare la società di Londra. Non lo era nemmeno lui, dopo tutto... Era una città popolata da una varietà di gente immensa, con abitudini diverse e piena di persone assolutamente ricche che vivevano nel loro piccolo mondo dorato attorno ai palazzi reali, circondate da una moltitudine di poveri che campavano di stenti e nulla. La Cornovaglia sapeva essere povera ed impietosa ma era piena di gente pronta ad aiutarsi fra loro, i poveri di Londra erano poveri e disperati e basta e spesso soccombevano in mezzo al nulla, circondati dall'indifferenza di tutti.

Ross dubitava di riuscire ad abituarsi e probabilmente anche Valentine avrebbe fatto fatica, non era abituato al contatto con altri bambini e soprattutto non era preparato ai suoi coetanei di Londra.

Lord Basset aveva trovato per loro un grazioso appartamento in centro, a pochi isolati da Westminster, in una zona ricca e borghese della città. Posto al secondo piano, contava tre camere da letto – una per lui, una per Valentine e una per i Gimlet – una grossa e moderna cucina, un salone per gli ospiti con un piccolo studio adiacente per lui, una sala da pranzo e due stanze da bagno. Era grande, comodo per lui e grazie all'aiuto di Basset il trasferimento si concluse velocemente lasciando tutti soddisfatti.

Passò i primi dieci giorni a Londra al seguito di Basset che gli fece conoscere la città, i luoghi di ritrovo dei membri del Parlamento, gli mostrò i palazzi reali e lo iniziò ad introdurre nel ristretto circolo dei suoi amici fidati.

Lord Basset si dimostrò un buon amico e una brava persona. Ross ammirava il modo gentile che aveva di trattare con le persone, senza mai perdere le staffe, l'armonia famigliare che regnava a casa sua, il suo ruolo di marito devoto e di padre affettuoso. Tutte qualità che Ross in fondo gli invidiava e che se fosse riuscito a fare un pò sue, lo avrebbero reso sicuramente una persona migliore. Basset gli mostrò dove portare Valentine a svagarsi, lo lasciò giocare con la piccola Emily mentre loro discutevano di economia e politica e divenne, in quei primi giorni nella capitale che lo separavano dal debutto in Parlamento, il suo mentore.

"Che ne dite di Lord Flint?" - chiese Basset mentre passeggiavano in un pomeriggio assolato con Valentine nei giardini di Kensington.

Ross ci riflettè su. Fra due giorni avrebbe presenziato alla prima seduta a Westminster e quell'uomo incontrato mezz'ora prima, in un caffè, ne era un degno rappresentante. "Penso che sia un gran bevitore..." - osservò Ross con leggerezza, ricordando le guance rosso-vino dell'uomo. "Ma non ho capito se ci è nemico o amico".

"Né uno né l'altro. E' molto volubile e questo ci costringe ad essere gentili con lui più degli altri. E' nobile di nascita, è finito in Parlamento per diritto acquisito da suo padre, non se ne intende di politica e segue l'onda del vento, non ha interesse ai problemi del paese, per lui l'unica cosa che conta è il buon rhum che ha in cantina. E i suoi cani da caccia. E' un signorotto di poche qualità che va coccolato, convinto e trattato da amico. E se lo fai sentire amato, lui vota per te senza sapere nemmeno di cosa si stia parlando".

Ross rise. "Un idiota, in pratica!".

Anche Basset rise. "Un idiota potente, però. Il suo voto vale molto".

Ross sospirò. "Ah, Basset... Sapete, dubito che riuscirò mai a farmi piacere questo mondo fatto di sotterfugi e falsità".

"Siete la persona giusta nel posto giusto. Calamiterete su di voi l'attenzione di molti e sarete, se vi comporterete sapientemente, una guida e un punto di riferimento". Basset alzò lo sguardo, spalancando gli occhi dalla sorpresa. Indicò col braccio il vialetto che stavano percorrendo e alzò il cappello in segno di saluto a un uomo non più giovane che veniva dalla direzione opposta. "Diventerete uno che conta. Come lui".

Ross guardò nella direzione indicata da Basset e vide l'uomo, vestito elegantemente, sulla sessantina, che camminava con un cilindro in testa e col bastone, tenendo per mano una bambina biondissima che portava al guinzaglio... Ross strabuzzò gli occhi. Un lupo albino??? "Chi sono?".

Basset si avvicinò all'uomo, salutandolo con la mano. "Vi ho parlato di lui alle elezioni. Lord Falmouth, il rappresentante di una delle famiglie più potenti di Londra, a passeggio con la sua nipotina Clowance".

"Oh...". Ross guardò Valentine che guardava i nuovi arrivati, incuriosito quanto lui. Ricordava quando Basset gli aveva parlato di questo suo nemico-amico sornione, furbo come una volpe e terribilmente potente ma ora vedendoselo davanti, rimase un pò deluso. Aveva un aspetto ordinario, seppur vestito elegantemente, un fisico non particolarmente robusto e un viso piuttosto comune. Era la bambina accanto a lui che pareva brillare di luce propria. Capelli lunghissimi e biondi, una bellezza da lasciar senza fiato, una eleganza nei movimenti inusuale per una bimba che poteva avere l'età di suo figlio e dei lineamenti del viso talmente delicati da farla sembrare una bambola. Sembrava possedere il portamento di una principessa e Ross non ci avrebbe scommesso che non lo fosse. Aveva indosso un abitino azzurro di ottima fattura, bordato sul collo con del pizzo colorato, un nastro rosso fra i capelli e delle scarpette del medesimo colore. E il lupo, che portava al guinzaglio con la naturalezza con cui avrebbe portato a passeggio un barboncino, la rendevano unica nel suo genere.

Lord Falmouth sorrise, stringendo la mano di Basset appena l'ebbe davanti. "Vecchia canaglia, è un pò che non vi vedo! Credevo che la sonnecchiosa provincia che rappresentate vi avesse rapito per sempre".

Basset sollevò un sopracciglio. "Ve ne sareste dispiaciuto?".

"Niente affatto, un sognatore idealista in meno ad annoiarmi in Parlamento".

Basset rise, segno che quelle battute irriverenti fra loro erano la normalità nel loro rapporto. "Vi annoiate SENZA di me. E vi ho talmente a cuore che ho portato rinforzi".

Lord Falmouth guardò Ross, incuriosito. "Voi sareste...?".

Ross annuì, salutando con un cenno del capo. "Ross Poldark, nuovo membro del Parlamento".

Falmouth lo guardò stringendo gli occhi e studiandolo. "Oh, ho sentito parlare di voi. Pare siate un giovane promettente... Peccato per le amicizie che vi siete scelto..." - disse, mettendo ancora al centro dell'attenzione Lord Basset che ridacchiava. "Ci vedremo fra due giorni, a quanto pare. Sempre che io sopravviva al matrimonio di domani...".

Basset rise. "Oh, il matrimonio di Lady Margarita".

Falmouth sospirò. "Le donne di casa mi stanno facendo impazzire con gli ultimi preparativi! Son sei mesi che non dormo pensando al ruolo dei gemelli e in questo momento ho la casa invasa da paggetti e damigelle arrivati per le ultime prove del corteo, le mie ladies sono isteriche perché hanno finito i fiori per le coroncine e sono talmente disperato che mi sono offerto di uscire a comprarle io stesso pur di non sentirle! Ci sono schiamazzi ovunque, bambini ovunque e donne isteriche ovunque! Incredibile come non ci si riesca a nascondere dalle donne nemmeno se si vive in una casa enorme. Voi siete sposato, signor Poldark?".

Ross deglutì, guardando Valentine. "No, non più".

"Io non mi sono mai sposato, sapete perché?".

"No".

Falmouth gli diede una pacca sulle spalle. "Il fumo delle candele fa male ai miei occhi e ai miei polmoni, ho evitato la scocciatura di un'ora di funzione e soprattutto quello che ne viene dopo: la vita perenne con una donna che da fanciulla attraente si trasforma in una bisbetica isterica". Poi il suo viso si addolcì e la sua mano accarezzò dolcemente i capelli biondi della bambina al suo fianco, rimasta buona e ferma ad aspettare che finisse quella conversazione. "Escluse le presenti, ovviamente. Vero, Clowance?".

La bimba sorrise. "Vero, zio!".

Ross la guardò, ricordandosi dei racconti fatti di lei da Basset in Cornovaglia. E così era questa la famosa piccola Lady che era l'idolo di tutte le bimbe londinesi? Beh, ora che la vedeva, cominciava a capire il motivo per cui Emily la ammirava tanto. Era la perfezione fatta bambina, nessun capello fuori posto, altera, fiera, bellissima e perfettamente educata.

Basset si inginocchiò davanti alla bambina. "Clowance, Emily non vede l'ora di giocare con te. Ora è a casa con sua madre, ma da settimana prossima la troverai quì, al parco".

"Davvero?".

"Davvero. E tu, sei pronta per il tuo grande ruolo di domani?".

Falmouth intervenne. "Certo che è pronta, Clowance è nata per essere al centro dell'attenzione. Farà sfigurare la sposa, ne sono certo. Non che ci voglia molto, dopo tutto..." - concluse, tossicchiando.

A Ross venne da ridere davanti a quell'evidente orgoglio di zio per la nipote. Gli ricordava suo zio Charles quando parlava di Jeoffrey Charles appena nato...

Basset osservò poi il lupo. "Queen è cresciuta tantissimo. L'hai educata tu?".

Clowance annuì. "Sì, ovviamente".

"Posso accarezzarla?".

Clowance si voltò verso la lupa, accarezzandole il viso. "Queen, seduta. E lasciati accarezzare da Lord Basset".

Con grande sorpresa di Ross la lupa ubbidì, sedendosi composta, ferma e altera quanto la sua piccola padrona. Ma il suo stupore non era tanto nel comportamento della lupa, animale altamente intelligente che se addestrato diventava estremamente fedele, quanto nel vederla ubbidire a una bambina che aveva avuto talmente tanto carisma da farsi accettare come capo da un animale selvatico.

Basset accarezzò il muso della lupa che, guardinga, la fissava con quei suoi occhi color ghiaccio. "Animale splendido e perfettamente ammaestrato. Sei riuscita ad addestrare altrettanto bene la tua sorellina, per domani?".

Clowance rise. "Lì è più difficile".

Falmouth sospirò. "Non parliamo di questioni spinose che mi tolgono il sonno... Parliamo di affari, c'è la questione della mia strada privata che porta ai miei cottage di Dalston. Potremmo discuterne ad esempio ora, davanti a un buon bicchiere di brandy".

Clowance guardò Falmouth, imbroncinadosi. "Ma zio, e i fiori per le coroncine?".

"Già, e i fiorellini?" - chiese Basset, prendendo in giro il suo rivale.

Falmouth sospirò, alzando gli occhi al cielo. "I fiori! Vero, se non torno a casa subito con un cesto pieno, le mie ladies mi metteranno a dormire nella casetta sull'albero dei bambini. Che poi, pensandoci bene, visto il clima di oggi in casa, sarebbe il mio posto ideale per trovare pace".

Ross non riuscì a trattenere un sorriso. In fondo, ora che ci parlava, questo nobile di Londra tanto potente e austero non gli sembrava poi così mostruoso ma anzi, incredibilmente umano nella sua quotidianità. Era di certo un uomo colto, furbo, istruito e sornione, sapeva decisamente il fatto suo ma era anche affabile e un piacevole conversatore. Gli strinse la mano, vigorosamente. "Beh, visti i vostri impegni urgenti e improrogabili, vi saluto. E' stato un piacere conoscervi. Ci vedremo fra due giorni".

Falmouth sorrise. "No, venite domani mattina, tutti e due, a bere un brandy nel mio studio. Ci faremo una chiacchierata e ci accorderemo magari sul destino della mia strada privata".

"Che non avrete mai, se non scenderete a qualche compromesso" – rispose Basset.

Falmouth assottigliò i suoi occhietti azzurri. "Vedremo...".

Basset però, a quel punto, si accigliò. "Ma... domattina? Non c'è il matrimonio?".

"E' a mezzogiorno e ho intenzione di andarci quanto più tardi possibile, direttamente in Chiesa. Così eviterò di essere travolto da quella mandria di bambini che mi gira per casa da mesi. E poi ve l'ho detto, il fumo delle candele mi fa male".

Ross e Basset risero. "D'accordo, verremo a fare un breve giro domattina presto per salvarvi dai preparativi".

"Voi verrete al matrimonio?" - chiese Falmouth a Ross.

"No, non so nemmeno chi siano gli sposi".

"Gente importante, imparentata con i nostri sovrani, seppur alla lontana. Vi consiglio di assistere almeno alla cerimonia in Chiesa, di farci un salto. Incontrerete molta delle gente che conta a Londra e sapete, è più facile farsi un amico a un matrimonio che durante un litigio a Westminster mentre si discute del prezzo del grano".

Basset annuì. "Falmouth ha ragione, Ross, anche se mi spiace ammetterlo. Nemmeno io sono stato invitato ma farò un salto in Chiesa. Pensateci!".

Ross ridacchiò. "Come voi, Lord Falmouth, soffro il fumo delle candele".

A quelle parole, Falmouth sorrise e lo guardò con rinnovato interesse. "Vi aspetto domattina allora". Poi guardò Valentine, incuriosito. "Vostro figlio?".

"Sì".

Valentine, intimidito e silenzioso, annuì. "Buongiorno signore".

Falmouth gli sorrise, stringendogli la mano. "Benarrivato a Londra, giovanotto. Come ti chiami?".

"Valentine".

"Bel nome e bel ragazzo. Bravo Poldark!". Poi Falmouth accarezzò la testolina di Clowance. "Saluta, su. Magari diventerete amici".

Clowance guardò seria seria Valentine, soppesando il nuovo arrivato. Poi gli fece un perfetto inchino in segno di saluto. "Piacere di conoscerti" – disse, aspettando poi ferma e zitta una risposta.

Valentine la guardò, indeciso sul da farsi, poi cercò con lo sguardo l'aiuto di Ross che, rendendosi conto che suo figlio non sapeva nulla di buone maniere e di galateo, con un gesto veloce gli mise la mano sulla testa, obbligandolo a piegarla leggermente in avanti in segno di saluto.

Clowance lo guardò malissimo e Ross si rese conto che probabilmente la piccola doveva considerare suo figlio un selvaggio per quella mancanza di etichetta che aveva appena dimostrato.

Falmouth riprese per mano la piccola. "A domani".

"A domani" – rispose Basset. "Ciao piccola Clowance, è sempre un piacere vederti".

E finalmente, Ross la vide fare un sorriso genuino, da bambina, e alzare la mano per salutarlo. Come avrebbe fatto qualsiasi bambina del mondo! Poi Clowance osservò lui, annuì e fece un altro perfetto inchino in segno di saluto.

Falmouth la riprese per mano e con la piccola e la lupa, si allontanò mentre Ross riprese a camminare con Basset. "Che tipo singolare".

"Fa paura?" - chiese Basset.

"Non lui, sua nipote! Mai vista una bambina simile e tanto inquietantemente perfetta! Non è pericoloso che una bimba tanto piccola possegga un animale tanto pericoloso?".

"Come vedete, Clowance ha addestrato perfettamente la sua lupa" – ribatté Basset.

"Resta pur sempre una bambina, però. Anche se ha atteggiamenti davvero poco infantili... Generalemente, quando penso all'infanzia, mi vengono in mente bambini spettinati, sudati, sporchi e felici di scorazzare facendo baccano ovunque, non piccole Lady da esposizione".

Basset alzò gli occhi al cielo, osservandone l'azzurro intenso, pensando a come rispondergli. "Vedete, i Boscawen sono potenti e ogni cosa che fanno, ogni cosa che posseggono, è atta a dimostrare il grande valore del loro casato. La loro potenza. Compresi i cuccioli dei bambini. E per quanto riguarda la piccola Clowance, è una bambina deliziosa, ve lo assicuro".

Ross scosse la testa, continuando con la mente a pensare a quella singolare bimbetta che, con poche parole, era stata capace di assoggettare un animale selvatico. "Come ha fatto quella mocciosetta ad addestrare quella lupa?".

Basset rise. "Non ve ne siete accorto? Siete identici!".

Ross scoppiò a ridere. "Io e la piccola Lady? In cosa sarei identico alla nipote di Falmouth?".

"Avete il medesimo carisma, Ross, non ve ne siete accorto? Conoscendo entrambi, devo dire che è una cosa che vi accomuna. Avete la capacità di farvi seguire e rispettare da chiunque, anche da chi è apparentemente più forte di voi".

Ross ci pensò su e non aggiunse altro anche se quelle parole, unite allo strano incontro con quella bambina, gli mettevano addosso una strana ed indecifrabile sensazione. Basset aveva ragione, era dotata di un potente carisma che aveva colpito anche lui, anche se non ne capiva il motivo. Poi guardò Valentine che, silenzioso, gli camminava a fianco. "Sarà meglio che tu impari le buone maniere. Perché se saranno questi i bambini con cui vorrai giocare, temo che ti faranno a pezzi se non diventi più educato...".

Valentine annuì. "Faceva un pò paura quella bambina...".

"Già, anche a me" – rispose Ross, trovandosi d'accordo con suo figlio.


...


Era ormai buio, Prudie stava facendo il bagnetto ai bambini e Demelza, passeggiando nei lunghi corridoi della sua casa, arrivò alla porta di Lord Basset per portargli le fedi nuziali di Margarita ed Edward, da conservare nella sua cassaforte. Era ormai tutto pronto, aveva fatto del suo meglio per organizzare ogni cosa e adesso poteva solo sperare che gli otto bambini che aveva seguito in quei sei mesi si comportassero al meglio.

Bussò, trovando l'uomo seduto alla scrivania. "Ho portato le fedi".

Falmouth sorrise, le andò incontro, prese gli anelli e li portò nel retro dell'ufficio, nella cassaforte che teneva dietro una parete a scomparsa. "Nervosa?" - chiese quando tornò, sedendosi alla scrivania ed invitandola a fare altrettanto, offrendole un bicchiere di vino.

"Un pò... La piccola Grace piange spesso e vuole stare in braccio e quando la tengo con me, Demian fa i capricci e diventa geloso. E Daisy... Beh, lei è sempre imprevedibile ma sembra aver capito che deve imitare tutto quello che fa Clowance".

Falmouth picchiettò con l'indice sulla scrivania. "A proposito dei gemelli... Hai pensato alla mia idea di assumere Sir Gotfried?".

"Chi?".

"L'istitutore svizzero di cui ti ho già parlato il mese scorso. Usa metodi severi, non disdegna una bacchettata sulle mani se serve e ha educato i migliori rampolli di Londra".

Demelza lo guardò storto, MAI avrebbe permesso a un uomo del genere di avvicinarsi ai suoi bambini. "No, non ci ho pensato. Lo faccio adesso e... e no, non lo voglio".

Flamouth si mise le mani nei capelli. "Demelza, sono terribili. Hanno bisogno di disciplina. Mai visti bambini così. Sai che ha fatto Daisy, ieri?".

"No".

"Ha liberato i pulcini dalle gabbie, ha aperto la stalla e li ha portati in casa. I pulcini hanno fatto i loro bisogno sulla moquette del salone principale della parte di casa di Alexandra e quando ho chiesto spiegazioni a Daisy, sai che mi ha risposto?".

"Ehm... No...".

Falmouth sbuffò. "Che erano stati i pulcini ad aprirsi le gabbie da soli. Le ho detto che era una bugia e lei si è messa le mani sui fianchi, ha indicato i pulcini e mi ha detto di chiedere conferma a loro!!!".

Demelza, immaginando la faccina di Daisy mentre parlava con suo zio, rise. "Ai pulcini?".

"Sì, ai pulcini... Crede di farmi fesso e ha solo tre anni!".

Demelza sospirò, divertita dal panico con cui Falmouth analizzava il comportamento dei gemelli ma comunque decisa ad affrontare il discorso con Daisy e a prendere provvedimenti sulla sua impertinenza. "Sono bambini piccoli, sani e pieni di vita. Cresceranno e in loro non c'è nulla che non vada. Dove sono cresciuta io, era pieno di bambini anche peggiori di loro. Da grandi vi daranno soddisfazioni enormi, ne sono certa".

"Certo! Ma nel mentre demoliranno questa casa!".

Demelza gli strizzò l'occhio, ancora più divertita. "Beh, si esercitano a conquistare la Scozia, dovreste gioirne! E comunque Daisy sarà punita per la storia dei pulcini... dopo il matrimonio, ovviamente... Per ora meglio tenerla buona per evitare brutti scherzi, domani".

A quella battuta, Lord Falmouth gli riservò un'occhiataccia. "Fossero almeno bravi ed educati come Jeremy e Clowance...".

"Lo saranno!".

"Lo spero...".

Demelza si sporse in avanti, osservando incuriosita la mappa di Londra che Falmouth teneva sul tavolo. "Cos'è?".

L'uomo sospirò, indicando un punto sulla cartina. "La nostra strada, Demelza! Quella che vorrei costruire, che porta il grano dei nostri granai direttamente al mercato generale".

"Quella che dovrebbe partire dai nostri cottage di Dalston?".

"Esatto!".

Demelza sospirò, conoscendo ormai a menadito quella faccenda che tormentava Falmouth da ormai un anno. Voleva una strada privata che portasse in sicurezza il suo grano alla zona commerciale di Londra, quella dei mercati, trasportandolo in una strada privata tutta sua, ma il tragitto su cui sarebbe dovuta sorgere era disseminato di baracche e case popolari abitate dalla parte di popolazione più povera di Londra. Per costruire la strada, quelle baracche avrebbero dovuto essere abbattute lasciando in strada i suoi abitanti e la faccenda bloccava, in Parlamento, i desideri di Falmouth che riceveva secchi voti contrari dai suoi detrattori. "Dovreste dare qualcosa in cambio, fare una controproposta".

Falmouth divenne rosso in viso. "Controproposta? Voglio dare commercio alla città e dovrei anche giustificarmi per questo? La strada riqualificherà la zona, fra le più degradate della periferia!".

"Ma lascerà senza tetto tanti disperati" – ribattè Demelza.

"Potranno ricostruirsi le loro baracche da un'altra parte".

Demelza sospirò rendendosi conto che, benché gli volesse davvero bene, lei e Lord Falmouth avrebbero avuto sempre idee divergenti sulla povertà. Provenivano da due mondi e da due tipi di vita troppo diversi per avere un'opinione comune su certe faccende ma lei, negli anni, aveva anche imparato a conoscerlo e a guidarlo con furbizia dalla sua parte. "Sapete che è difficile anche costruire una baracca, se non si possiede denaro...".

"I poveri sanno sempre sopravvivere".

"E se..." - propose Demelza, bloccandosi pensierosa.

"Se?".

Lei sorrise, orgogliosa dell'idea appena avuta. "Se ad esempio trovaste loro un'altra collocazione?".

Falmouth alzò un sopracciglio. "Del tipo?".

Avvicinò il viso a quello dell'uomo, decisa a guidarlo in quella che le sembrava una buona soluzione per tutti. Era già successo in passato e trovava divertente parlare di questioni sociali con lui e riuscire a spuntarla. "La nostra fabbrica dismessa di lana, a Chelsea... La fabbrica è cadente e abbandonata, così come gli appartamenti e i cottage circostanti. Se la riaprissimo... Se affidaste gli appartamenti e i cottage agli abitanti del Dalston in cambio di lavori di ristrutturazione e impiego nella fabbrica rimessa a nuovo... Non credete che lascerebbero volentieri quelle vecchie baracche per una casa nuova e un lavoro sicuro? E voi potreste costruire la vostra strada".

Lord Falmouth si mise a ridere, a quella proposta. "Demelza, ristrutturare e rimettere in funzione quella fabbrica mi costerebbe molto denaro".

"Che abbiamo e che verrebbe comunque riguadagnato nel giro di poco tempo. La lana è un bene molto richiesto e l'investimento iniziale verrebbe ripagato con i profitti che perdureranno nel tempo. E i vostri cottage dismessi verrebbero rimessi a nuovo dal lavoro manuale dei lavoranti e delle loro famiglie, senza spese per noi. In cambio dell'alloggio gratuito potrete risparmiare qualcosa sugli stipendi e loro avrebbero una casa praticamente gratis e lavorerebbero per noi a prezzi modici, rimettendo in funzione una fabbrica che, ad oggi, per noi è solo un debito".

Lord Falmouth si bloccò, smettendo di ridere. La osservò come si osserva una creatura mitologica e rara e il suo sguardo alla fine divenne furbo e attento. "Sei un genio! Avrei la mia strada... e avrei allo stesso tempo risolto la questione sociale derivante dalla sua costruzione...".

"Esattamente!".

Falmouth si alzò in piedi, si avvicinò e le diede una pacca sulla spalla. "Mi piace! Basset resterà a bocca aperta quando tirerò fuori quest'idea in Parlamento, dopodomani!".

Demelza sospirò, soddisfatta e ancora un pò preoccupata. "Prima di dopodomani c'è il matrimonio. E il comportamento dei bambini...".

"Non pensarci, sono Boscawen! Va a letto e riposa!" - ordinò Falmouth, improvvisamente allegro come un bimbetto e assolutamente ottimista circa la vivacità dei gemelli.

Demelza annuì, era stanchissima e il giorno dopo l'avrebbe attesa una giornata campale. "Buona notte" – disse, aprendo la porta con animo più leggero di quando era arrivata.

Falmouth la richiamò. "E Sir Gotfried?".

Lei si voltò, guardandolo con lo stesso sguardo furbo. "Ci ho ripensato adesso. Ed è ancora NO!". E detto questo, chiuse la porta e si diresse verso la sua ala del palazzo, nella sua stanza.

Arrivò alla sua camera sbadigliando, si svestì e poi, con la camicia da notte, si mise a letto. Non aveva fatto in tempo a stiracchiarsi che la porta della nursery si aprì e Demian, in camicia da notte, fece capolino.

Mamma, posso venire nel lettone con te?” - chiese, come se facesse per la prima volta in vita sua quella domanda

Demelza si girò di lato, tirando indietro la coperta e poggiando il viso contro il braccio. Ecco, era ora di quella scena che si ripeteva ogni sera da quando era nato. “Cosa c'è?”.

Sono preoccupato” - disse lui serio, rannicchiandosi sotto le coperte ed affondando il viso contro il suo collo.

Demelza gli accarezzò i lunghi e sottili capelli biondi, baciandolo sulla fronte. “Preoccupato di cosa? Di aver rovesciato il barattolo di marmellata in testa a Miss Claire?”.

Demian rise. “C'aveva tutti i capelli incollati”.

Lo so”.

Però non sono preoccupato per Miss Claire”.

E per cosa, allora?”.

Demian divenne mortalmente serio. “Clowance dice che diventerò una femminuccia”.

A quell'affermazione, Demelza scoppiò a ridere. “Cosa?”.

Sì. Al matrimonio di Lady Margarita, mi metterai in testa le coroncine coi fiori che hai fatto oggi con la nonna, me lo ha detto Clowance. E io diventerò una femmina! Anche Jeremy”.

Santo cielo, Clowance era tremenda e Demian fin troppo credulone e ingenuo. “Amore, le coroncine non sono per te e Jeremy! E nemmeno per gli altri maschietti che faranno da paggetti! Sono per le tue sorelle e le altre damigelle”.

Allora rimango maschio? Non divento una femminuccia?”.

Scosse la testa, era da tanto che non era così divertita. “Amore, non credo ci sia questo pericolo”.

Demian sospirò, rinfrancato, sprofondando nel cuscino. “Mamma?”.

Sì?”.

Posso stare qui con te lo stesso?”.

Demelza gli diede un leggero pizzicotto sulla guancia. “Non è molto da maschietti, dormire con la mamma”.

Ma fa niente e io sono piccolo”.

Demelza sospirò, mascherando un sorriso e stringendolo a se. Gli uomini più importanti della sua vita, a parte Hugh, l'avevano ferita in mille modi diversi e abbandonata come un oggetto di poco valore. Ma Demian no... E nemmeno Jeremy! E mai, MAI lei avrebbe negato loro il suo letto e un abbraccio. “Certo amore, dormi qui!” - sussurrò, baciandogli la fronte e stringendolo a se. "E promettimi che domani farai il bravo".

"Sì, promesso".

Demelza lo guardò, orgogliosa di lui. Non lo avrebbe cambiato per nessuna ragione al mondo e nessun tutore svizzero si sarebbe mai avvicinato al suo piccolo principe. Era soddisfatta di lui, di come aveva organizzato le nozze di Margarita, dei suoi quattro bambini e di come era riuscita a trovare una buona via d'uscita per la strada di Falmouth. Si sentiva tranquilla e al sicuro e, stringendo a se il suo bambino più piccolo, si addormentò con la convinzione che nulla avrebbe potuto turbare la sua tranquilla routine e serenità.




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Capitolo 32
*** Capitolo trentadue ***


La grandissima casa dei Boscawen era quanto di più elegante Ross avesse mai visto in vita sua. Mobili di pregio, arazzi, quadri di valore alle pareti, tappeti di pregiata fattura persiana nei corridoi e nelle camere, un numero impressionante di servitori e personale di servizio, un parco enorme che abbelliva il retro della dimora pieno di alberi secolari, panche, fontane e vialetti ben curati. Un lusso estremo, anche se non pacchiano, che però a Ross non poteva piacere se rapportato alla grande povertà della gente che lo circondava in Cornovaglia.

Giunsero da Falmouth, lui e Basset, di mattina presto e un maggiordomo li portò nello studio dove l'uomo li aspettava già con la scrivania piena di documenti, carte e una bottiglia di ottimo brandy da sorseggiare insieme.

L'unico aspetto positivo di quella mattinata che, nonostante le buone premesse, prese subito una presa sonnecchiosa ai suoi occhi di uomo abituato alla fatica e al movimento.

Ross si stava annoiando da morire e in silenzio non smetteva di maledirsi per aver accettato l'invito di Lord Falmouth. Ma d'altro canto, scegliere di andare a Londra, capire che era da sempre la strada che faceva per lui e annoiarsi facevano parte del pacchetto, doveva farci solo l'abitudine. Doveva farlo, per lui che sentiva di essere dove doveva e per le persone a cui voleva bene che speravano che la sua presenza a Londra avrebbe migliorato le loro vite o comunque, più tardi, quelle dei loro figli. E poi, cosa aveva da perdere, partendo? In Cornovaglia si sentiva morto e senza più nulla per cui lottare, la sua miniera andata a meraviglia e Londra forse sarebbe potuta diventare un nuovo stimolo per il futuro.

Lord Basset insisteva con Lord Falmouth da ore, su questioni su cui non sarebbero andati mai d'accordo e lui li ascoltava cercando di imparare e chiedendosi come avrebbe fatto, col suo carattere orgoglioso, a giungere a compromessi con gli altri e la sua coscienza. L'intento di Basset era trovare alleati preziosi da portare dalla loro parte, era chiaro da sempre, e questo Lord Falmouth, da ciò che aveva capito, era un uomo potente e socialmente vicino ai sovrani e, anche se affabile e buon conversatore, di contro rappresentava il vecchio mondo dei privilegi nobiliari che lui non approvava. E neanche Basset. Come potevano trovare un accordo? Falmouth era un uomo indubbiamente intelligente e capace ma per Ross le affinità finivano lì.

Improvvisamente la porta dello studio si aprì di scatto, sbattendo rumorosamente sulla parete e facendolo sussultare, destandolo dal torpore in cui era caduto.

Quattro bambini irruppero nella stanza, portando baccano e risate. Ross e Basset si voltarono e quest'ultimo sorrise. “Oh, i piccoli Boscawen al gran completo, pronti per le nozze del giorno. A parte Clowance, è molto che non li vedo in giro e tutti insieme non sembrano meno rumorosi di quanto li ho incontrati a Natale al ricevimento di Miss Mougless”.

Ross osservò i bambini, felice per quell'improvvisata che dava sollievo alla sua noia. C'era la bambina vista al parco il giorno prima, quella con la lupa, un bambino di circa nove anni e due splendidi bimbi più piccoli, un maschio e una femmina, biondissimi, che a prima vista avevano circa tre anni e sembravano gemelli. Erano vestiti con abiti molto eleganti, le due bimbe con vestitini bianchi pieni di tulle, legati in vita da nastrini azzurri e con una coroncina di roselline fra i capelli e i maschietti con pantaloncini di seta blu, nastro in vita azzurro come i nastrini delle bambine e camicina di seta bianca con colletto di pizzo. Nulla era stato lasciato al caso, nell'abbigliamento dei piccoli, a quanto poteva vedere, soprattutto nella scelta dei colori.

Falmouth osservò i piccoli, sospirando. “Signor Poldark, vi presento i miei nipoti al gran completo. Che oggi saranno fra i paggetti e le damigelle del matrimonio del mese... SPERANDO che adempiano al loro compito egregiamente”.

Basset rise. “E allora? Pronti per il matrimonio di lady Margarita Allyster”.

Falmoth tossicchiò. “Speriamo che i paggetti e le damigelle facciano la loro parte senza fare scherzi... Sarà il debutto ufficiale dei gemelli nella società e io al pensiero non ci dormo da mesi, come sapete. Che ci fate qui, bambini? Non dovreste essere diretti alla Cattedrale?”.

Il bambino più grande, dai capelli castani leggermente mossi, che a Ross sembrava stranamente famigliare in certi tratti, annuì. “Zio, la mamma ieri ti ha portato gli anelli degli sposi ma stamattina ha dimenticato di venire a recuperarli. Ci aspetta in carrozza con gli altri bambini, siamo venuti a prenderli”.

Se no gli sposi non si sposano!” - aggiunse Lady Clowance.

Scusate signori” - disse Falmouth, alzandosi dalla sedia e dirigendosi nella stanza accanto - “Sistemo i bambini in modo che possano andare a fare il loro dovere e poi torno da voi”.

Ross sospirò, appoggiandosi allo schienale. Beh, aveva scoperto un'altra cosa su Falmouth, aveva quattro nipoti...

I quattro bimbi, vivacissimi, presero a giocare fra loro e a fare baccano e Basset rise. “Arriveranno alle nozze sporchi e spettinati come i peggiori monelli della Cornovaglia. Ho visto spesso questi quattro, qui da Lord Falmouth e a qualche ricevimento e sono scatenati. Quattro pesti furiose molto diversi da quell'angioletto che è vostro figlio Valentine. Eccetto Clowance, ovviamente” - concluse, guardando la bambina più grande che stava leggermente in disparte rispetto agli altri tre.

Falmouth, tornando da loro con due scatoline in mano, sospirò. “Bambini, basta!” - li ammonì, porgendo al più grande gli anelli. Poi scosse la testa. “Sono sei mesi che ci esercitiamo perché siano perfetti! Ma vedo che i risultati sono incerti... Accidenti a Lady Margarita che li ha scelti per condurla all'altare”. Occhieggiò il maschietto più piccolo, un monello con una faccia da peste evidente che, da sotto il caschetto biondo, lo guardava per nulla turbato. “Demian, che ti ha detto la mamma se non fai il bravo?”.

Che mi mette in castigo”.

Per quanto?”.

Tutta la vita” - rispose il bimbo, strappando un sorriso a Ross.

Falmouth sorrise. “Tutta la vita è un tempo lungo, vedi di fare il bravo”.

Demian alzò le spalle e poi si avvicinò alla scrivania, mettendosi in punta di piedi per vedere cosa ci fosse sopra. “Zio?”.

Sì?”.

Che cosa sono tutti questi fogli?”.

A quella domanda, Lord Falmouth si affrettò a impignare e ad allontanare dalle mani del bambino le sue carte. “Niente di importante, niente che tu debba toccare”.

Posso disegnarci sopra?” - chiese Demian, strappando un secondo sorriso a Ross che si immaginava il bambino che scarabocchiava sui progetti dell'agognata strada privata di suo zio.

Improvvisamente la bambina più piccola, quella che dal viso sembrava la più scatenata, si tolse con un gesto secco la coroncina di fiori fra i capelli. “Giuda, mi da fastidio!” - esclamò, gettandola a terra.

E Ross spalancò gli occhi e per poco non cadde dalla sedia. Da quanto non sentiva quell'imprecazione? Guardò quella bambina, un piccolo soldo di cacio che apparteneva all'alta aristocrazia londinese. Come poteva conoscere quell'espressione – così poco regale – in uso nel mondo dei minatori della Cornovaglia? “Ha detto... Giuda???”.

Falmouth, sospirando e torvo in viso, si alzò dal tavolo e si avvicinò alla piccola. “Ha detto Giuda e ora raccoglierà la sua coroncina, se la rimetterà in testa e farà la brava, se non vuole ritrovarsi il sederino rosso entro mezzogiorno”.

Gli altri tre bambini risero guardandosi in faccia mentre la piccola guardò lo zio con aria di sfida, incrociando le braccia al petto. “NNNNOOOO!”.

Daisy, rimettiti la coroncina! Subito!”.

Lei sostenne lo sguardo, non arretrando di un centimetro. “Se no che mi fai?”.

Basset scoppiò a ridere e anche Ross parve divertito dal vedere quella mocciosetta dar del filo da torcere a uno degli uomini più potenti di Londra. Era decisamente diversa dalla sorella incontrata ieri, anche se erano accomunate entrambe da un carattere decisamente forte che però si manifestava in modi diametralmente opposti.

A un certo punto Clowance si avvicinò alla sorella, raccogliendo la coroncina e mettendogliela in testa. “Ricordi? Dobbiamo essere uguali oggi. Io e te!” - le suggerì, con voce calma.

Mi punge” - si lamentò la piccola.

Sì, ma serve mettersela”.

Daisy sbuffò. “Uguale a te?”.

Sì, uguale!”.

E a quel punto la piccola cedette, con Clowance. NON con Falmouth. “Va bene” - disse, prendendo per mano la sorella.

Ross osservò di nuovo la bambina più grande, rendendosi conto che Basset aveva ragione, era davvero capace di catalizzare rispetto e attenzione su di se. Più di Falmouth stesso. Notevole, come lo era stato addestrare la lupa. E da quel poco che aveva visto, forse rispetto a Queen era più complessa e decisamente degna di lode la sua capacità di farsi ascoltare da quella sorellina terribile.

Falmouth, ormai innervosito, indicò loro la porta. “Sparite, voi e gli anelli! Correte da vostra madre, andate ad accompagnare la sposa all'altare, FATE i bravi e vedete di non fare scherzi!”.

I due bimbi più grandi annuirono.

Il ragazzino più grande si mise gli anelli in tasca, prese per mano Demian e si avvicinò alla porta. “Tu quando vieni, zio?”.

Il più tardi possibile” - rispose Falmouth. “Sai che le candele, col loro fumo, mi fanno male”.

I bimbi a quelle parole risero e poi corsero fuori, spinti dalle occhiatacce dello zio, ma prima di chiudere la porta, la piccoletta che odiava la coroncina si voltò, facendo la linguaccia. “Io vado! Però tu sei cattivo!” - disse a Falmouth, prima di sbattere la porta e correre dietro ai fratelli.

L'uomo sospirò, mettendosi le mani nei capelli. “L'istitutore svizzero! O il collegio fino alla maggiore età! Ecco che ci vuole! Se solo la loro madre...”.

Ross osservò la porta dove erano scomparsi i bambini, decisamente divertito da quell'intermezzo che aveva spezzato la noia delle loro conversazioni politiche. “Paggetti e damigelle a questo famoso matrimonio?” - chiese.

Falmouth annuì. “Sì”.

Ross sorrise, ricordando un episodio del suo passato. “A sette anni mi fecero fare da paggetto, con mio cugino Francis, al matrimonio di un parente. Ricordo con orrore i pantaloncini color oro fino al ginocchio, chiusi con un bottone, la camicia di seta bianca fredda come il ghiaccio e soprattutto un enorme fiocco giallo che mi hanno legato al collo che mi faceva sembrare una capra. Non ho parlato con mio padre per un mese, dopo, lo odiavo per avermi costretto a fare una pagliacciata simile... E' stata la cosa più umiliante che abbia mai fatto in vita mia... E tutti dicevano che ero carino...”.

Falmouth rise. “Beh, i miei nipoti sono belli e vestiti con gusto!”.

Ross annuì. “Beh, di certo i loro abiti sono meno appariscenti di quelli toccati a me! Ma non è comunque il mio stile. Ho sempre odiato i bambini coi pantaloncini corti”.

Basset rise. “Ross, è la consuetudine. I maschietti devono indossarli fino agli otto anni anche in inverno! E' l'etichetta che lo dice!”.

Ross alzò gli occhi al cielo. “E poi a otto anni che succede? Un bambino acquisisce il diritto di non morire di freddo?”.

Falmouth lo guardò leggermente interdetto ma poi scoppiò a ridere. “Ross Poldark, voi mi piacete! Sfacciato e diretto, come piace a me! Vorrei parlare con voi più a lungo ma temo di dovermi preparare per andare in Chiesa. Ci vediamo la?”.

Basset annuì. “Si, mi siederò nelle ultime file a vedere la cerimonia, come sapete non sono stato invitato. E spero che Ross vorrà farmi compagnia”.

Ross deglutì. “Ecco... Io nemmeno so chi siano gli sposi”.

Falmouth si alzò e Ross e Basset lo seguirono. “Signor Poldark” - gli disse, accompagnandoli verso l'uscita - “Gli sposi sono giovani e fuori dalla politica ma appartengono a famiglie importanti. Ma la cosa che conta sono gli invitati! Ci saranno tutti i rappresentanti della nobiltà e del Parlamento! Se siete furbo come sembrate, iniziate a conoscerli in un'occasione lieta come un matrimonio in modo che domani, in Parlamento, sappiano già chi siete e si rapportino a voi in via più... amichevole...”.

Ma...” - provò ad obiettare.

Ascoltatemi” - insistette Falmouth.

Giunti alla porta, Ross sospirò mentre un maggiordomo gli faceva segno di seguirli fino al cancello. “Lord Falmouth, grazie dell'invito” - disse.

Falmouth annuì, strizzando l'occhio a Basset. “Di nulla, vi voglio qui spesso! E spero di vedervi anche dopo, alle nozze. Basset, trascinatelo lì con la forza, se serve!”. E detto questo, si congedò, lasciando soli Ross e Basset in giardino, a seguito del maggiordomo di casa Boscawen.

Venite, che vi costa?” - insistette Basset. “Il matrimonio durerà si e no un'ora, non è una tragedia! Sarà interessante e al massimo, ci annoieremo insieme”.

Ho sempre odiato questo genere di cose... Cerco di evitarle pure quando a sposarsi sono parenti, figuratevi oggi...” - ammise Ross, ricordandosi poi di una cosa che lo aveva colpito poco prima, caduta nel dimenticatoio, che poteva servirgli per sviare il discorso. “Posso chiedervi una cosa?”.

Certo” - rispose Basset - “E io vi risponderò SOLO se verrete in Chiesa”.

Ross scosse la testa, divertito e ormai con le spalle al muro. Ma sì, era solo un'ora di cerimonia, poteva sopravvivere e se due Lords che se ne intendevano dicevano che sarebbe servito alla sua carriera... “Avete vinto... Anche se non capisco perché insistiate tanto”.

E' per il vostro bene, come vi ha anche spiegato Falmouth. Ascoltate quella vecchia volpe, da buoni consigli ai giovani che ritiene meritevoli. Ma ora su, che volevate chiedermi?”.

Sospirò, ormai persuaso ad andare a quelle dannate nozze. “Quella bambina... La piccolina... Ha detto 'Giuda'? Come può conoscere quel modo di dire? E' un'imprecazione che usano dire i bambini dei nostri minatori, non la piccola principessina di una delle più nobili famiglie di Londra”.

A quella domanda, Basset scoppiò a ridere. “Ahah, Poldark! SELEZIONATISSIME tate della Cornovaglia! La madre è originaria di lì e Daisy è tremenda, una piccola peste che apprende il peggio dalla servitù di cui è circondata. Fa impazzire suo zio e il suo gemellino non è molto diverso”.

Ross ridacchiò, incuriosito da quella strana famiglia. “E' molto diversa dalla sorella maggiore”.

Assolutamente” - rispose Basset. “E ora su, andiamo in Chiesa” - ordinò, mentre uscivano dalla residenza dei Boscawen. “E' ora che conosciate chi conta, qui a Londra!”.



La Cattedrale di Westminster era gremita di gente elegantissima, distinta e sicuramente piena di denaro e titoli nobiliari e quando Ross vi arrivò, con Lord Basset, si sentì per un attimo sperso in mezzo a tanta opulenza e ostentazione.

Le panche erano già tutte piene, i posti in prima fila assegnati ai selezionatissimi invitati d'onore e i due uomini si misero nelle ultime panche in fondo alla navata. Basset salutò i Lords e le loro mogli elegantissime e piene di gioielli preziosi che ne adornavano il corpo, lui annuì un po' da orso con la testa e in questo quadretto dove si sentiva un pesce fuor d'acqua, sperava solo che quella tortura finisse quanto prima.

Ross si sporse e vide lo sposo, giovanissimo ed emozionatissimo, che in lontananza aspettava la sua futura moglie davanti all'altare e guardandolo si rese conto che lui non era mai stato colto da quella felicità mista a paura prima del fatidico sì. Con Demelza c'era stata una strana costernazione e una sorta di incredulità nel trovarsi alla Chiesetta di Sawle a sposarsi mentre con Elizabeth... beh, quel giorno aveva detto sì con la morte nel cuore e senza alcuna aspettativa per il futuro. Mai, in nessuno dei suoi due matrimoni, si era sposato con la leggera paura e grande felicità che dovrebbe precedere un passo simile... Avrebbe voluto viverla, un giorno, quella leggera euforia mista ad agitazione che prova ogni sposo all'altare, mentre aspetta la donna che ama...

Improvvisamente l'orchestra cominciò a suonare la marcia nuziale e la sposa fece il suo ingresso. Aveva il viso pulito e ancora da bambina, un passo stentato e forse non propriamente aggraziato come ci si aspetterebbe da una delle rappresentanti della famiglia reale, la sua emozione era evidente dal colore rosso acceso delle sue guance e dal luccichio degli occhi e indossava uno splendido abito bianco dal lungo strascico che veniva sorretto da due bambini che la seguivano nel corteo.

Ross si sporse, riconoscendo fra loro i nipotini di Falmouth, oltre ad altri quattro bambini. Il bimbo dei Boscawen più grande, insieme a un altro dei paggetti, reggeva elegantemente il velo mentre gli altri sei bambini seguivano il corteo, con gli altri due maschietti che tenevano per mano ognuno due bambine.

Erano graziosi anche se – Ross ci avrebbe scommesso – si sentivano idioti a dover sottostare a quella pagliacciata. MAI avrebbe costretto Valentine a vestirsi da bambolotto per fare il paggetto a un matrimonio! MAI!!! E lui lo avrebbe ringraziato per questo, un giorno!

A Ross venne da ridere nel vedere la faccia dei due gemelli. La bimba era imbronciata, il maschietto sembrava annoiato e si guardava attorno con aria smarrita e un po' spaventata mentre la bambina amica della lupa pareva invece perfettamente a suo agio e sicura di se. Ma d'altronde su di lei, Ross non aveva dubbi, quello era il suo mondo! Si comportarono bene e per la gioia del loro zio, accompagnarono la sposa fino all'altare senza incidenti e poi furono presi in carico da una donna assunta probabilmente come bambinaia per intrattenerli durante la funzione. Erano piccoli dopo tutto e sarebbe stato impensabile tenerli fermi e zitti nella Cattedrale per l'intero tempo della Messa. Avrebbe faticato lui a starsene buono, figurarsi loro!

Dietro la sposa arrivarono i genitori, entrambi elegantissimi, alcuni parenti stretti e...

E a un certo punto il cuore di Ross si fermò...

Una giovane e bellissima donna dai capelli rossi, vestita con un elegantissimo e raffinato abito blu, avanzò a passo sicuro nella navata, in mezzo a quelle persone importanti. I suoi lunghi capelli erano stati lisciati e poi acconciati in morbidi e perfetti boccoli sulle punte, il corpetto del vestito, molto aderente, ne valorizzava le curve, le sue spalle erano nude e il collo era adornato con una preziosa collana di diamanti e la sua gonna, morbida, che le cadeva sulle gambe in mille strati di seta e pizzo, ondeggiava armoniosamente al suo passo.

Santo cielo, era... era... “Demelza...”.

Forse era un sogno, forse era impazzito! Anzi, quasi sicuramente era impazzito perché lei NON poteva essere lì! Non aveva senso...

Eppure... Eppure quel viso che sempre aveva sognato e mai dimenticato era per lui inconfondibile, come il sorriso sulle sue labbra, il colore chiaro della pelle e quello rosso fuoco dei capelli. Anche se pettinati e acconciati elegantemente, lui quei capelli li aveva baciati, accarezzati e fatti scorrere mille e più volte fra le sue dita e li avrebbe riconosciuti ovunque, anche ad occhi chiusi.

Ma nonostante tutto, non poteva essere! Lei, che aveva visto l'ultima volta sette anni prima pallida, stanca, magra e sfinita e che era sparita coi loro bambini dalla sua vita, cosa poteva farci lì, a quel matrimonio, in mezzo a quella gente aristocratica su cui lei primeggiava per raffinatezza ed eleganza?

Basset osservò il suo sconcerto. “Ross, che vi prende?”.

Lui deglutì, quasi timoroso di chiedere. “Chi è quella donna?”.

Quale?”.

Quella coi capelli rossi e il vestito blu” - rispose, sperando che Basset gli dicesse che non c'era alcuna donna così a quel matrimonio e che era preda di allucinazioni. Sì, voleva essere pazzo!

Basset però non disse nulla del genere e rise, sotto i baffi. “Oh, Lady Boscawen? Bella, vero? E' una donna molto potente e ammirata qui a Londra, una delle più nobili ma allo stesso tempo gentili e affabili. Una gran bella persona! Ma non guardatela così, quella non potete permettervela”.

Lady Boscawen...” - ripeté Ross, quasi in tranche.

Basset annuì. “Sì! Ha sposato il nipote di Lord Falmouth, il tenente Hugh Armitage ed è la madre dei quattro bambini che avete visto poco fa nel suo studio. Ed è la migliore amica della sposa nonché sua damigella d'onore!”.

Ross spalancò gli occhi e si sedette, sentendo le gambe tremargli. Sposata? Con il nipote di Falmouth? Era un incubo, non poteva essere altrimenti! Demelza non si sarebbe mai sposata, non avrebbe potuto farlo e l'unica certezza che lo aveva sorretto in quegli anni era che lei, come lui, non facesse trascorrere giorno senza rimpiangere la vita che avevano perso insieme. Non poteva essersi sposata, non poteva essere lei! Non la sua Demelza... Nonostante tutto, nonostante il male che le aveva fatto, lei non avrebbe potuto voltare davvero pagina e dimenticarlo... Si appartenevano, Ross lo sapeva e anche Demelza! Lei lo sapeva quanto lui! “Come si chiama...?”.

Basset gli toccò la fronte, cercando tracce di febbre che spiegassero quello strano modo di fare. “Ross, vi sentite bene?”.

Come si chiama Lady Boscawen?” - ripeté lui, senza nemmeno sentirlo.

Demelza... E' amica di mia moglie, a volte sono stato a cena da loro. Anche a una festa di Natale, tre anni e mezzo fa, quattro giorni dopo la nascita dei gemellini”.

Gli occhi di Ross si appannarono, non capì il perché. Demelza... Era lei, era sposata e aveva ricominciato una nuova vita accanto a un uomo che ora aveva la sua dolcezza, la sua vicinanza, i suoi sorrisi, la sua voce meravigliosa quando cantava, i suoi baci, il suo amore... “Demelza...” - sussurrò. Prima di spalancare gli occhi, rendendosi conto che se lei era... Se lei era...

Due immagini gli vennero alla mente, quasi istantanee, come se stesse mettendo a fuoco solo adesso un altro aspetto della valanga che lo aveva appena travolto: la bambina con la lupa e il bambino che aveva preso gli anelli e portato il velo della sposa... “Come si chiamano i suoi bambini?”.

Basset si accigliò, ora seriamente preoccupato. “Ross, il fumo delle candele vi fa male davvero. Uscite a prendere un po' d'aria!”.

Come si chiamano i nipotini di Falmouth?” - chiese ancora.

Basset sospirò, prendendolo per il braccio. “Demian e Daisy i gemelli. Clowance e Jeremy i due più grandi! Che vi prende, Ross?”.

Jeremy... Il suo Jeremy, che aveva visto per l'ultima volta quasi sette anni prima. E ora era lì, a fare da paggetto a una nobile londinese, era diventato grande, sapeva parlare perfettamente e aveva un nuovo papà che chissà cosa gli aveva insegnato...

E la bambina col lupo... La nobile, aristocratica e carismatica Clowance! Era una bambina, allora! Bellissima, eterea e completamente estranea a lui per conoscenza e modo di vivere... Aveva incontrato la sua bambina senza sapere nemmeno chi fosse... Sentì una fitta al cuore, faceva male saperlo e rendersi conto che erano due estranei perché lui l'aveva abbandonata prima ancora che nascesse.

I suoi bambini, i suoi bellissimi bambini che un altro uomo stava vedendo crescere e che loro chiamavano papà... “Devo uscire...” - mormorò, alzandosi di colpo dalla panca mentre la cerimonia proseguiva placida e tranquilla.

Basset annuì. “Volete che vi accompagni?”.

No, no! Ho un po' di nausea ma niente di grave, mi basterà una boccata d'aria e riposare un po'. Ci vediamo domani in Parlamento...”. E detto questo uscì, in preda a dei conati di vomito che non riusciva a trattenere.

Era un incubo... Un incubo reale che MAI, benché avesse tanto desiderato rivedere Demelza, avrebbe voluto vivere. Ma forse se lo meritava, forse doveva vedere coi suoi occhi a cosa avevano portato i suoi errori e il male che aveva fatto a chi amava. Aveva tradito e abbandonato la sua famiglia e loro lo avevano lasciato, cercando la felicità altrove.

E Demelza, la sua forte, fiera e combattiva Demelza era riuscita a rialzarsi e a tornare a vivere come lui non sarebbe mai riuscito a fare. Era sempre stata più forte di lui, dopo tutto...

Gli era passata davanti senza notarlo in mezzo a tutte quelle persone, erano a pochi metri e lei aveva proseguito dritto senza ovviamente vederlo mentre per lui, una volta accortosi di lei, non era esistito più nessuno in quella Chiesa.

Si sedette sugli scalini esterni, mentre le gambe faticavano ormai a reggerlo. E ora? Ora che doveva fare? Non sapeva, non capiva, non riusciva a formulare un ragionamento lineare. Era perso e improvvisamente Londra aveva assunto ai suoi occhi altri connotati. La sua famiglia era lì, viveva lì e lui senza saperlo era entrato nel suo mondo...

Rimase seduto sugli scalini senza accorgersi del tempo che passava e della gente che pian piano si affollava davanti ai portoni per vedere sposi ed invitati. Si alzò, camminò, quasi strisciando i piedi, fino a una uscita laterale per evitare di essere travolto dal corteo nuziale e poi si sedette di nuovo sugli scalini di pietra, incapace di fare altro se non fissare il vuoto che aveva davanti a se e nella sua mente. Era tutto ovattato attorno a lui e persino il suono delle campane che annunciava la fine della cerimonia e le urla festanti della gente sulla navata apparivano lontane e opache.

E improvvisamente la porta dietro di lui si aprì e i bambini, i quattro paggetti e le quattro damigelle, uscirono assieme alla bambinaia.

La donna lo occhieggiò sospettosa. “Signore, potreste spostarvi? Abbiamo scelto questa uscita per motivi di sicurezza e dobbiamo far salire i bambini nella carrozza”.

Ross osservò lei e poi i bambini. I suoi bambini... Che giocavano con gli altri piccoli, non degnandolo di uno sguardo. Vide una elegante carrozza scoperta che li attendeva a pochi metri, sulla strada, e poi tornò a guardare i suoi figli. Così belli, così lontani, così estranei... Eppure Jeremy lo aveva tenuto sulle ginocchia, avevano giocato assieme al suo cavallino di legno, lo aveva messo ogni tanto a letto e lo aveva tenuto fra le braccia, con orgoglio, quando lo avevano Battezzato. E Clowance... La perfetta, bellissima Clowance... La sua bambina che mai aveva visto e conosciuto, abbandonata nel modo più crudele quando ancora era nel ventre di sua madre.

Improvvisamente Jeremy chiamò uno dei bambini, cercando di non farsi notare dalla bambinaia. “Guarda, Frederik” - sussurrò a quello che sembrava un suo coetaneo, togliendosi qualcosa dalle tasche.

Frederik rise, mettendosi le mani davanti alla bocca. “Bello! Con questa ci divertiamo dopo, al party in giardino!”.

Ross, nella sua confusione, notò che Jeremy teneva in mano una specie di fionda. Cosa che notò anche la bambinaia che si avvicinò con fare severo. “Jeremy, dammi quella fionda!”.

Non è una fionda!” - rispose Jeremy mettendo le mani dietro la schiena per coprire quella palese bugia.

E cos'è?” - chiese la donna.

Il bambino alzò le spalle. “Un pezzo di legno CASUALMENTE simile a una fionda! La natura lo ha fatto così”.

La donna lo guardò storto, con aria severa che non ammetteva repliche e poi allungò la mano. E Jeremy, sbuffando, fu costretto a consegnarle il gioco.

Clowance sbuffò. “Selvaggi! Siete dei selvaggi!”.

Jeremy le fece la linguaccia. “Zitta! Che ancora nemmeno sai leggere”.

La bambina incrociò le braccia al petto. “Meglio analfabeta che selvaggia come voi! Noi siamo Ladies, che importanza ha saper leggere? Basta essere educate!”.

Jeremy rise, seguito dagli altri bambini. “Come Daisy?”.

Clowance si voltò e anche Ross lo fece, notando che la piccolina si era sollevata la gonna mostrando le mutandine, per grattarsi il ginocchio.

La bambinaia corse dalla piccola, tirandole giù il vestito. “Che fai?”.

Mi ha punto una zanzara! Mi prude! Mi prude tutto, pure la testa con questi fiori!” - si lamentò la bimba.

I maschietti risero. “Lady... Mica tanto!”.

Ross guardò i suoi figli che parlavano, litigavano, cercavano di fregare gli adulti e giocavano con altri bambini appartenenti a un mondo di cui lui non faceva parte.

La bambinaia, sbuffando, li fece arrivare fino alla carrozza posta in una strada ormai gremita di gente e Ross continuò ad osservarli come se non esistesse altro, anche se era circondato da perfetti estranei che spingevano per andare ognuno alla propria carrozza.

E improvvisamente, lei ricomparve...

Bellissima, sorridente, circondata da altre persone che lui non conosceva ma che le dovevano essere amiche.

Demelza, una volta spaventata alla sola idea di un Natale a Trenwith con la sua famiglia, ora era la principessa di una società ricca, aristocratica e irraggiungibile quasi per chiunque, vestiva abiti e indossava gioielli che lui non avrebbe mai potuto permettersi di comprarle e sembrava trovarsi perfettamente a suo agio.

Il gemellino più piccolo, Demian, gli corse incontro e lei si chinò a parlargli nell'orecchio, come spesso le aveva visto fare anche a Nampara con Julia e Jeremy quando doveva tranquillizzarli su qualcosa. Vide il bimbo sorridere, saltarle in braccio e lei abbracciarlo. Era suo figlio anche lui, ora lo realizzava appieno... Dei gemellini avuti con un altro uomo...

Era Demelza, ora ne era certo! Ed erano quei gesti dolci, quel modo di essere mamma, quel genere di attenzioni che le stava vedendo dare a quel piccolo a dargliene la conferma, più che le parole di Basset.

Era la sua Demelza...

O no, non era più sua...

Era di un altro uomo che aveva preso, amato e curato qualcuno che lui si era fatto sfuggire di mano e non aveva saputo difendere.

Si guardò attorno cercando quell'uomo che gli aveva portato via chi più amava ma c'era troppa gente, troppo rumore, troppo di tutto.

Rimase immobile, era nessuno fra migliaia di persone, nascosto agli occhi di lei così infinitamente lucente alla sua vista.

La vide salire coi bambini sulla carrozza, chiacchierare con loro e poi allontanarsi diretta a una festa sontuosa alla quale lui non avrebbe potuto partecipare.

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Capitolo 33
*** Capitolo trentatre ***


Era stato male, per giorni era stato preda di violenti mal di testa e una forte apatia aveva preso possesso di lui. Gli scivolava tutto addosso, la nuova avventura in Parlamento, la scoperta di Londra, Valentine, ogni cosa sembrava aver perso consistenza davanti ai suoi occhi, insieme a tutte le certezze che lo avevano sorretto in quegli anni.

Vedere Demelza era stato un sogno che si era realizzato ma quel sogno si era trasformato subito in un terribile incubo. Che meritava tutto ma che si era abbattuto su di lui con la violenza di un terremoto. L'aveva pensata tanto in quegli anni, si era isolato dal mondo e aveva passato ogni attimo della sua vita a preoccuparsi per lei e per i bambini, convinto che per lei fosse lo stesso e che, ovunque fosse, rimpiangesse la vita che avevano condiviso assieme e il loro amore. Ross sapeva di essere arrogante e sapeva anche che Demelza, quando se n'era andata, lo aveva fatto con l'idea di non tornare e di chiudere per sempre la storia con lui ma non riusciva ad accettare comunque ciò che aveva scoperto. Era egoista, ma non ci riusciva! Se n'era andata perché non le aveva lasciato altra scelta ma era sempre stato convinto che per lei fosse stato doloroso come lo era stato per lui. Invece si era ricostruita una vita, una vita bellissima da quel poco che aveva potuto notare. Lo aveva dimenticato, lo aveva lasciato indietro e assieme ai suoi figli si era proiettata verso un futuro di cui lui non faceva più parte. Sapeva che ne aveva tutto il diritto, che non aveva più doveri verso di lui eppure... Eppure Ross soffriva, irrazionalmente soffriva moltissimo perché mai, MAI in quegli anni, nonostante tutto, aveva smesso di considerarla l'unica e vera moglie che avesse mai avuto.

Era arrogante, lo sapeva! Ed egoista, sapeva di nuovo anche questo! E poi testardo, imprevedibile e mille altre cose che la stessa Demelza, in passato, gli ricordava. Eppure lei amava quei lati del suo carattere, anche quelli di cui meno c'era da andare fiero.

Era cambiata da allora, da quel giorno in cui gli aveva detto addio con un bacio sulla guancia, il viso pallido e le lacrime trattenute a stento, sulla porta di Trenwith. Era diventata una nobile, aveva voltato le spalle a ciò che era e aveva abbracciato persone che insieme avevano combattuto, era elegante, potente, altera e bellissima. La bellezza di una bambola di porcellana però, finta e con la medesima freddezza... Lo aveva tradito, non tanto come uomo ma in ogni cosa in cui avevano creduto e lottato insieme! Era annientato! E arrabbiato... Con lei, con se stesso, con i Boscawen, con tutto quel mondo nuovo che l'aveva catturata e cambiata e con quell'uomo nobile e potente che l'aveva fatta sua.

Un uomo sconosciuto l'aveva resa così! Un uomo che si era preso cura di lei ma che sentiva di odiare! Era egoista anche questo ma l'idea che qualcun altro l'avesse amata e che lei gli avesse permesso di farlo, lo faceva impazzire. Chi era questo tenente Armitage? Un uomo di mare? Non lo aveva mai visto in effetti e forse era spesso fuori, in navigazione, a costruirsi una carriera acquisita probabilmente per diritto di nascita più che per merito... Dannazione a lui! Come aveva fatto a conoscerla? Era un matrimonio d'amore? Come poteva Demelza essere stata accettata in casa dei Boscawen, una delle famiglie più potenti e antiche d'Inghilterra che si muoveva secondo regole sociali antiche di secoli e che mai avrebbe accettato in casa una donna sola con due bambini?

E i suoi bimbi, già... Jeremy era grande, un bambino bello, sveglio, che sapeva fare molte cose e che probabilmente aveva anche imparato a cavalcare. E non con lui! Quanto aveva immaginato il suo viso in quegli anni e che colpo al cuore rivederlo ora, com'era diventato.

E Clowance... Ora lo aveva scoperto, era una bimba quella partorita da Demelza in quel periodo terribile dove lui aveva lasciato lei e Nampara. Una bimba che ora aveva sei anni, un carattere aristocratico come i suoi modi di fare, bellissima, eterea e anche lei distante e assolutamente estranea al mondo di suo padre e alle sue origini.

E poi... Gemelli? Demelza aveva avuto altri figli? Cercò di ricordare, in quei giorni di buio, i visi dei due bambini più piccoli. Erano incantevoli, con lineamenti fini e delicati, capelli biondissimi e occhi azzurri e trasparenti. Avevano gli stessi colori di Clowance ma erano allo stesso tempo diversi. Avevano il carattere di Demelza, quanto meno la bambina, ma le somiglianze finivano lì. Fisicamente non avevano nulla della madre e quindi probabilmente somigliavano al loro dannatissimo padre. Quindi, se i bambini erano belli, il padre doveva essere affascinante... Dannazione a lui! E se aveva il carisma di Lord Falmouth e la sua intelligenza, forse Demelza aveva incontrato il perfetto principe azzurro. Di male in peggio! Ed era geloso... Forse anche Demelza era stata gelosa così, quando lui stupidamente correva da Elizabeth inventando mille scuse per stare con lei... Faceva male e si odiava per avergli inferto quel dolore, ora che lui stesso lo provava sulla sua pelle.

Dopo giorni di mutismo dove usciva di casa solo per le sedute in Parlamento, adducendo un'influenza si rifugiava subito a casa a macerarsi nei suoi pensieri. Ma dopo una settimana decise che doveva trovarla, capire, chiedere, parlarle! Demelza doveva sapere che era lì! Non era da lui stare a letto a macerarsi in pensieri che non portavano a nulla e solo Demelza poteva rispondere alle mille domande che gli affollavano la testa. Trovarla era stato un miracolo e ora doveva sfruttarlo per avvicinarla, anche se le conseguenze potevano essere pesanti e le risposte che avrebbe potuto ottenere, per nulla piacevoli.

Tornò a passare i pomeriggi con Basset, a farsi guidare da lui per cercare di capire la situazione, la società dove Demelza si muoveva, i posti dove incontrarla, ma alla fine capì che l'unico posto dove avrebbe potuto avere fortuna era proprio l'enorme dimora di Falmouth.

E quindi, con Basset, accettò ogni invito che il Lord faceva loro per discutere di politica. Demelza viveva lì e se era fortunato, l'avrebbe incrociata. E poi...? Come avrebbe reagito, lei? Beh, non lo sapeva e ci avrebbe pensato al momento, come faceva da sempre. Per ora doveva solo cercare di vederla, muovendosi con furbizia all'interno di quell'enorme palazzo, senza tradirsi, fingendo interessi politici senza mai nominare il suo nome. Non sapeva che genere di legami avesse coi Boscawen e cosa sapessero di lei, ma Falmouth non era a conoscenza del loro legame e quindi non l'avrebbe tradita.

Per due settimane, ogni lunedì e giovedì pomeriggio, lui e Basset andarono da Falmouth in visita ma a parte l'uomo, Ross non vide nessuno se non qualche membro della servitù. Demelza e i bimbi probabilmente vivevano in un'altra ala di quell'enorme palazzo e quindi, a meno di fortuite casualità che permettessero loro di incontrarsi, ci sarebbe voluta pazienza e perseveranza.

Al terzo lunedì però, quando il maggiordomo li scortò nell'ufficio di Falmouth dicendo loro che il suo padrone sarebbe arrivato nel giro di pochi minuti perché trattenuto da una faccenda urgente, una sorpresa fece sussultare Ross.

Lo studio non era vuoto come si sarebbe aspettato, ma la testolina di un bimbo biondo, steso sul pavimento e intento a disegnare, fece capolino.

Basset sorrise. “Ciao Demian!” - disse al bimbo, vestito con una camicina alla marinara e dei pantaloncini bianchi, abbigliamento che, unito ai suoi lunghi capelli biondi e alle guance paffute e rosse, lo faceva sembrare un dolce bambolotto.

Da sotto la scrivania, Jeremy fece capolino, a carponi, sbucando all'improvviso e facendolo sussultare. Non aveva notato che c'era anche lui! Giocava per terra, con dei soldatini, e probabilmente erano stati entrambi affidati allo zio per quel pomeriggio, per qualche ignoto motivo. “Buon giorno Lord Basset” - disse il bambino.

Basset annuì. “Ciao Jeremy! Soli? Dove sono le vostre sorelle?”.

Demian continuò a disegnare steso in terra, sul foglio che aveva in mano, Jeremy sospirò. “A una festa di compleanno. Le ha accompagnate la mamma”.

E come mai voi due siete qui?” - chiese lord Basset, curioso. “Non vi piacciono i compleanni?”.

Jeremy lo guardò storto, come se lord Basset avesse detto un'eresia. “Il compleanno di UNA FEMMINA? Neanche morto! Vero Demian?” - chiese, al fratellino.

Vero!” - disse il piccolo che probabilmente nemmeno li stava ascoltando.

Lord Basset rise. “Ah Jeremy, fra qualche anno cambierai idea”.

Su Lady Chaterine?”.

Ross osservò suo figlio, era la prima volta che lo vedeva tanto a lungo e così da vicino. Era incantato nel sentirlo parlare e nel vedere quanto fosse cresciuto. Aveva una voce così squillante e allegra e pareva spigliato e piuttosto deciso in quel che pensava. Era così diverso dall'ultima volta che lo aveva visto, quel giorno in cui gli aveva promesso di insegnargli ad andare a cavallo... Ora probabilmente sapeva già farlo, assieme a tante altre cose che qualcun altro gli aveva insegnato.

Basset scoppiò a ridere, come intendendo appieno la situazione che a Ross invece sfuggiva. “Lady Chaterine? Lei vuole fidanzarsi con te, lo sai? Ha detto alla mia Emily che è innamorata di te e che da grandi vi sposerete!”.

Lo dice lei, non io!” - rispose Jeremy, secco, mentre Demian in terra rideva.

Perché ridi, Demian?” - chiese Basset.

Perché io, se una mi vuole sposare, gli do un pugno e basta!”. Anche Demian sembrava deciso sul da farsi, nelle questioni di donne...

Cambierete idea” - disse Basset.

Su lady Chaterine?”. Jeremy ora sembra proprio terrorizzato e questa bambina, chiunque lei fosse, doveva davvero stargli antipatica. A Ross venne da ridere, lo avrebbe fatto se non fosse stato che, sentendo quella conversazione, aveva avuto la certezza di quanto estranei fossero ormai lui e suo figlio e che non conosceva più nulla della sua famiglia.

Bassett sorrise amabilmente. “Lady Chaterine è una bella bambina, nobile e di buona famiglia. Ma non è detto che cambierai idea su di lei. Intendevo che la cambierai sulle femmine, fra qualche anno”.

Jeremy sospirò. “Non lo so. Se sono tutte come quella lì... Lo sapete Lord Bassett? Al parco, quando mi vede e gioca con Clowance, mi insegue perché vuole baciarmi. Io sto attento, sono sempre all'erta se lei è in giro e scappo in tempo ma una volta son stato poco attento e quella lì ci è riuscita. Mi ha dato un bacio sulla guancia e mi fa schifo ancora adesso, se ci penso...”.

Lord Basset scoppiò a ridere, come Demian che, evidentemente, doveva aver assistito a quella scena. “E non ti è piaciuto?”.

No, mi ha sbausciato tutta la faccia! Ho tenuto la testa sotto l'acqua della fontanella mezz'ora, per lavarmi...”.

Ross lo guardò. Santo cielo, aveva un modo di raccontare le cose così leggero, divertente e spigliato che, se non fosse stato che per lui era un perfetto sconosciuto, si sarebbe unito con piacere a quella conversazione fra loro. E invece doveva esserne un semplice spettatore anche se, sentirlo parlare così, con quel modo di raccontare le cose, lo metteva comunque di buon umore... Somigliava a Demelza nel carattere, era allegro, espansivo e vivace, diversissimo da lui.

Basset gli si inginocchiò davanti, osservando i suoi soldatini. “Che battaglia stai conducendo, Jeremy?”.

Il bimbo indicò i due schieramenti. “Inglesi, questi qui in rosso. Contro scozzesi, questi qui con la gonna”.

Demian a quelle parole lasciò i pastelli e corse da lui, buttando in terra con una mano tutti i soldatini in gonnella.

Jeremy lo guardò a bocca aperta. “Demian, hai appena conquistato la Scozia!”.

Demian rise, saltellando, imitato da Basset. “Tuo zio sarà contento!”.

Ross osservò l'uomo, ora davvero smarrito su quel lato della conversazione. E Basset si affrettò a spiegare. “I gemelli sono stati concepiti durante una vacanza in Scozia e Lord Falmouth ci ha visto un segno profetico del destino”.

Ecco, forse sarebbe stato meglio non chiedere... Non aveva certo voglia di sentire di come e quando Demelza avesse concepito i due figli minori... Santo cielo, questo dannato padre dei gemelli l'aveva anche portata in vacanza... Cosa che lui non aveva mai fatto, per mancanza di mezzi economici certo, ma anche perché incapace di organizzare qualcosa di romantico solo per loro due.

A un certo punto Lord Basset, ignaro dei suoi pensieri, guardò i ritratti che ornavano la parete e il suo sguardo cadde sul fondo di uno di essi. Osservò accigliato e Ross guardò nella medesima direzione per capire cosa avesse attirato la sua attenzione.

Anche Jeremy guardò e poi impallidì, guardando il fratellino. “Demian, che hai fatto?” - disse, correndo vicino a un ritratto raffigurante una donna elegante che pareva di grande valore.

Demian osservò il ritratto e poi annuì, scuotendo i suoi lunghi capelli biondi. “Ci ho disegnato sotto un cagnolino e dei fiorellini coi pastelli”.

Perché?” - chiese Jeremy. “Lo zio si arrabbierà un sacco!”.

Il bimbo si alzò da terra e si avvicinò al fratello maggiore. “No, non si arrabbierà! E' più bello adesso! Prima c'era solo una signora morta, adesso è diventato un quadro contento!”.

Lo zio te le suona, stavolta! Altro che contento!” - disse Jeremy con convinzione.

Demian lo guardò con aria di sfida. “A me mi piace così! Anche alla signora morta gli piace così!”.

Lord Basset rise, ancora. “Jeremy, credo che avresti fatto meglio ad andarci, a quel compleanno!”.

Jeremy sospirò e in quel momento Lord Falmouth fece il suo ingresso nello studio.

Basset rise. “Caro Falmouth, avete un nipotino che sarà un grande artista! Non arrabbiatevi e guardate il lato positivo della faccenda!”.

Falmouth lo guardò male, osservò Jeremy, Demian e poi il grande quadro che aveva alla parete. I suoi occhi si assomigliarono... “Demian! Sai chi è quella donna nel quadro?”.

Una signora morta!” - rispose il bimbo.

Mia nonna Edgarda! Mi ha cresciuto lei e AMO tanto guardare quel quadro che me la ricorda! Perché ci hai pasticciato sopra?”.

Demian, per nulla intimorito dalle occhiatacce dell'uomo, alzò le spalle. “Perché così è più bello!”.

Falmouth divenne rosso in viso, quasi fosse sul punto di esplodere. “Sylvie!!!” - urlò, chiamando una domestica che giunse poco dopo.

Dite signore”.

Chiama il signor Smith, il restauratore! E fa sparire tutti i pastelli a cera del palazzo”.

Demian fece per commentare ma lo sguardo dello zio stavolta gli fece decidere che era meglio stare zitto. La donna raccolse i pastelli, Falmouth salutò Ross e Basset e Demian si stese in terra a giocare coi soldatini mentre Jeremy, forse incuriosito dal trovarsi a quella riunione di lavoro, si appoggiò al tavolo.

Falmouth tossicchiò. “E allora, Poldark? Avete cambiato idea su quelle questioni di cui vi ho parlato e che vi vedevano in totale disaccordo?”.

Ross guardò Jeremy che, sentendo il suo cognome per la prima volta, era rimasto assolutamente indifferente e poi sospirò. Il nome dei Poldark per il bambino non significava nulla, non risvegliava in lui alcun ricordo e questo significava che Demelza non lo pronunciava da anni e che quindi non gli parlava mai di lui. “No, non cambio idea facilmente e continuo a pensare che fare uno sforzo per ridurre il prezzo del grano sia una buona cosa per combattere la fame che attanaglia grandi fette della popolazione del paese”.

Signor Poldark, perché siete tanto testardo? Se Lord Basset, che da sempre è mio antagonista, vi ha portato qui, è perché pensa che noi tre potremmo trovare una linea comune. Se lui è testardo, non dovete esserlo anche voi!”.

Ross era stanco di ascoltarlo, era stanco di tutto. Era in quella ricca ed enorme casa per cercare di incontrare Demelza e anche se la politica gli interessava, così come le questioni sociali che agitavano il paese, ora erano altre le faccende che gli affollavano la mente. Voleva incontrare Demelza ma aveva sempre fallito, non l'aveva mai incrociata in quelle stanze e l'unico risultato raggiunto era che le sue continue visite con lord Basset avevano convinto Lord Falmouth che stesse cercando un accordo con lui.

Eppure quella visita, di quel giorno, non era stata infruttuosa, non del tutto! E doveva esserne contento! Perché arrivare sin lì e trovare Jeremy in quello studio, che giocava con quello che chiamava 'fratellino', era di per se già una vittoria. Lo aveva ascoltato rapito mentre parlava con Lord Basset che evidentemente conosceva bene, era così straordinario sentirlo parlare e vedere quanto fosse cresciuto. Ed ora era lì, a pochi metri da lui dopo che per quasi sette anni erano stati divisi da centinaia di miglia di distanza. Ignorando che in quella stanza ci fosse il suo vero padre e in fondo era normale e giusto così, non lo conosceva dopo tutto. “Come potremmo trovare un accordo, con idee di partenza così distanti?” - disse infine, per rispondere a Falmouth.

Si potrebbe cercare una buona via di mezzo che unisca il meglio delle vostre idee con le nostre” - disse Basset, cercando un punto di contatto che Ross non era disposto a trovare.

Lord Falmouth si voltò verso i bambini. “Demian, tirati su dal pavimento, smettila di rotolarti!” - intimò al piccolo che se ne stava steso sulla moquette.

Sono comodo!” - rispose il bimbo, mentre i lunghi capelli biondi ormai spettinati gli coprivano gli occhi.

Composto, Demian! Non si sta stesi in terra, non durante una riunione di lavoro”.

Ma mica sto lavorando! Tu stai lavorando!”.

Ross osservò la scena. Il piccoletto concepito in Scozia aveva una notevole lingua lunga e una enorme scorta di sfacciataggine.

Falmouth, pur non alzando il tono di voce, sembrò indispettirsi. “Se vuoi stare comodo, mettiti sul sofà. Non in terra! Oggi mi hai già rovinato coi pastelli un dipinto di mia nonna, vuoi che aggiunga anche questo alla lista di cose da raccontare a tua madre stasera, quando viene a prenderti?”.

Il bimbo sbuffò, poi si arrese e andò borbottando sul sofà, mentre Basset se la rideva della grossa. E anche Jeremy.

Lord Falmouth si voltò verso di lui. “Torniamo a noi. Jeremy, vuoi aiutarmi a spiegare al signor Poldark come stanno le cose?”.

Ross sussultò, preso alla sprovvista. Falmouth che voleva fare? “Io non credo...”.

Falmouth sorrise amabilmente. “I bambini a volte sanno spiegare meglio di noi adulti l'ovvietà della vita che ci circonda. Jeremy, tesoro, andresti a prendermi il libro di storia del diritto dallo scaffale”.

Certo zio”. Il bimbo andò alla libreria, prese un tono dalla copertina azzurra e poi tornò da loro, poggiandolo sul tavolo. “Eccolo”.

Falmouth gli sorrise, accarezzandogli i capelli. “Jeremy, chi è più bravo ad amministrare il potere? Spiegalo, al signor Poldark”.

Chi lo ha sempre avuto, zio”.

E i poveri?”.

I poveri non hanno mai avuto potere e non hanno mai comandato. Non saperebbero gestire nessun potere, vanno guidati da chi ne sa più di loro”.

Ross, a quelle parole, sentì le viscere rivoltarsi nel suo ventre. Fece per replicare, ma che poteva dire? Cosa poteva dire a suo figlio, a cui avevano messo in testa idee totalmente diverse dalle sue? Il suo bambino... che parlava del potere intoccabile della nobiltà. Lo aveva abbandonato e altri lo avevano cresciuto al suo posto e questi erano i dolorosi risultati... Ma perché Demelza lasciava che Jeremy acquisisse quei valori tanto diversi da quelli che, a Nampara, avevano sempre guidato la loro famiglia? Era davvero cambiata tanto?

Falmouth proseguì. “Quindi, Jeremy, cosa possiamo fare di buono per le persone povere?”.

Guidarli e fare leggi giuste”. Sorrise, soddisfatto nel vedere Falmouth compiaciuto. Poi però, dopo due secondi, tornò ad essere solo un bambino. “Zio?”.

Sì?”.

Io e Demian possiamo andare da Mary a fare merenda?”.

Certo, portami via dalla vista quel piccolo demonio di tuo fratello”.

Demian, dal sofà, ridacchiò. “Mary non c'è!”.

Dov'è?” - chiese Falmouth.

Stava nella biblioteca grande. Mi ero nascosto per giocare a nascondino e lei era lì e si sbaciucchiava tutta con il tuo maggiordomo”.

A quelle parole, i tre uomini spalancarono gli occhi, al colmo della sorpresa.

Falmouth guardò Jeremy. “E' vero?”.

Sì”.

E Basset scoppiò a ridere. “E' un classico! Tata dei bambini e maggiordomo...”.

Falmouth divenne nuovamente rosso in viso e ancora una volta... “SYLVIE!!!”.

La cameriera fu di nuovo lì, in un attimo. “Ditemi, signore!”.

Porta i bambini a fare merenda e poi mandali in giardino a giocare! E poi va in biblioteca, fa uscire CHIUNQUE vi si trovi e apri le finestre per arieggiare la stanza!”.

Certo signore!”.

Jeremy ridacchiò, poi si avvicinò allo zio con fare affabile. “Senti... Posso chiederti una cosa?”.

Dimmi” - rispose Falmouth, sfinito da quella giornata casalinga per nulla rilassante.

Dopo viene Gustav! Posso andare con lui al parco a giocare?”.

Certo!”.

Jeremy sorrise. “Ai giardini di Vauxhall?”.

Falmouth lo guardò, cambiando espressione. “No! Se vuoi andare al parco, vai a Kensington, qui dietro casa. Vauxhall non è posto per bambini, non puoi andarci non accompagnato e tua madre, se ti dessi il permesso, questa sera mi metterebbe sulla graticola”.

Jeremy, buono e ubbidiente fino a quel momento, picchiò i piedi, pronto a fare un capriccio. “Ma zio, Kensington è un posto per poppanti! Come Demian! E poi sarei accompagnato!”.

Da chi?” - chiese Falmouth.

Jeremy annuì, come rispondendo a qualcosa di ovvio. “Da Gustav! E' il mio migliore amico, chi meglio di lui può curarmi con taaanto amore? E io curerei lui!”.

Falmouth sbuffò. “Gustav ha la tua età, è il bambino più imbranato di Londra e dubito sia responsabile”.

Ma zio... Gustav è il mio migliore amico! E' come il fratello che non ho mai avuto!” - rispose Jeremy.

A quelle parole, il piccolo Demian si avvicinò alla scrivania, appoggiandocisi con la faccia dopo essersi messo in punta di piedi. “E io?” - chiese, guardando il fratello.

Anche Basset e Falmouth guardarono Jeremy. “Esatto, e lui?”.

Jeremy li guardò male, come se non capissero una cosa che per lui era ovvia. “Ma vedete, Gustav era il mio quasi fratello da prima che nascesse Demian. Non è giusto privarlo del suo titolo di quasi-fratello solo perché mi è nato un fratellino!”.

A quelle parole, Basset scoppiò a ridere. “Jeremy, tu da grande potresti diventare un avvocato bravissimo! Mi hai quasi convinto, sai?”.

Falmouth, meno divertito, guardò Jeremy con aria severa. “Niente Vauxhall, va con Demian a fare merenda e poi all'arrivo di Gustav, al massimo andate a Kensington! Fine del discorso!”.

Jeremy sospirò, sconfitto. E con Demian e Sylvie uscì dalla stanza, borbottando, lasciando però Ross piacevolmente affascinato da quel bambino furbo, sveglio e sicuramente più bravo di lui a portare avanti i suoi desideri. Aveva un'intelligenza vivace, un vocabolario ricco e dimostrava una notevole faccia tosta. Certo, era contento che non l'avesse avuta vinta perché nemmeno a Ross piaceva l'ambiente dei giardini di Vauxhall, ma Jeremy aveva portato avanti talmente bene le sue motivazioni che forse si sarebbe meritato di andarci, accompagnato da un adulto...

Quando la porta si chiuse, nelle sue ossa tornò il gelo. Avrebbe voluto avere ancora lì il suo bambino, parlare con lui e portarlo a casa con se per conoscerlo meglio.

Ma non poteva. E in pochi minuti tornò nel mare di noia da cui Jeremy lo aveva salvato. Era ora della politica e dei doveri ma nel suo cuore ringraziò Dio per avergli fatto vedere e conoscere meglio suo figlio.


...


Erano passate due ore, da quell'incontro, due ore condite da discussioni infinite e senza sbocchi, da proposte e controproposte e da un mutuo scambio di battute che alla fine aveva portato i tre uomini a conoscersi meglio e a far sentire Ross un pò meno estraneo in quel rapporto di amicizia fra Basset e Falmouth.

Passate le cinque, Falmouth li accompagnò nel corridoio per scortarli fino all'uscita e Ross si preparò a lasciare la grande dimora dei Boscawen senza aver incrociato Demelza per l'ennesima volta ma comunque felice di aver visto Jeremy.

Non credeva che l'avrebbe incontrato di nuovo e grande fu la sua sorpresa quando, sotto il grande portico che portava ai giardini, lo vide venire con Demian verso di loro. E non erano soli ma c'erano anche le due sorelle tornate evidentemente dalla loro festa, Clowance vestita con un elegante vestitino rosa che trascinava un carretto di legno pieno di orsacchiotti e bambole e Daisy, vestita con un abitino azzurro e con un nastro bianco fra i capelli.

Ross non riuscì a trattenere un sorriso, erano dolorosamente belli e uniti tutti e quattro insieme e Demelza aveva messo al mondo quattro capolavori. Demelza... Se le bimbe erano lì, forse c'era anche lei... Il suo cuore accelerò.

Guardando meglio per scorgerla, senza successo, si accorse che il piccolo Demian era completamento bagnato, con capelli e vestitino alla marinara fradicio.

Falmouth sospirò e Basset rise, di nuovo, avvicinandosi ai bambini. "Demian, che ci fai così, bagnato come un pulcino?".

"Ho fatto il bagnetto nella fontana! C'avevo caldo!".

Falmouth scosse la testa, inchinandosi a strizzare la camiciola del bambino. "Demian, ma perché fai così? Vedi di metterti al sole ad ascigarti o vai a casa a prendere abiti puliti e asciutti".

"E' poco furbo esserti bagnato così! Tua madre ti metterà in castigo e domenica prossima non potrai andare con lei e i tuoi fratelli alla gara di trotto all'ippodromo".

A quelle parole, Clowance guardò storto il fratellino. "Lord Basset, se Demian voleva nascere furbo, nasceva femmina! E invece...".

Ross spalancò gli occhi, colpito da quella frecciatina diretta, elegante e decisamente poco velata fatta in quei termini così decisi dalla piccola, perfetta Clowance. Santo cielo, sua figlia... Che parlava a quel modo... Deglutì pensando davvero che Clowance, ancora una volta, riusciva a fargli paura.

Basset invece rise. "Sentito tua sorella?".

Demian scosse la testa. "Mamma è contenta se faccio il bagno!".

"Non nella fontana!" - ribatté Jeremy.

Stanca di quella conversazione, la piccola Daisy si arrampicò nel carrettino dove Clowance teneva le bambole e i pupazzi, buttandoli a terra per farsi posto.

"DAISY!!!" - la rimbrottò Clowance.

La piccola peste dondolò le gambette. "Portami in giro!".

"No, scendi!".

Falmouth fece per intervenire ma Jeremy fu più veloce di lui e, da bravo fratello maggiore, si chinò a raccogliere le bambole e a rimetterle nel carrettino, prendendo in braccio poi Daisy che si avvinghiò a lui tutta soddisfatta. "Dai, ti porto io!" - sussurrò alla sorellina.

Daisy annuì, stringendosi a lui. "Sì!".

Basset accarezzò i capelli della bimba. "Ti piace stare in braccio a Jeremy?".

"Sì, è mio fratello grande".

Falmouth mise a terra Demian, sorridendo a Jeremy. "Vuole essere presa solo da lui, è il suo eroe!".

E Ross guardò suo figlio sentendosi estraneo in quel quadretto famigliare ma anche estremamente orgoglioso per il bambino assennato e responsabile che era diventato.

Demian, di soppiatto, si avvicinò a Clowance. "Mi prendi in braccio?".

"Neanche morta!".

Gli occhi di Demian divennero lucidi. "E allora voglio la mamma!".

Ross lo guardò, lo avrebbe ringraziato in quel momento per averla citata... Forse avrebbe potuto scoprire dov'era, forse l'avrebbero chiamata.

Ma Clowance spense le sue speranze. "Mamma ci ha portate a casa e poi è uscita, aveva lezione di tiro con l'arco! Torna per cena e tu sei un frignone e un mammone! Femminuccia!".

Demian scoppiò a piangere e Ross guardò Clowance, accigliato e contrariato per quell'atteggiamento forse infantile ma comunque molto duro verso il fratellino. Non la conosceva, non conosceva i rapporti fra i bambini ma da quel poco che aveva visto, Demian era estremamente attaccato a Demelza e probabilmente era il figlio più coccolato e che più godeva del contatto con lei mentre Clowance, inquietantemente simile a lui e ai Poldark per orgoglio e testardaggine, era più riservata e più incapace a manifestare i suoi sentimenti o un bisogno di affetto. Questo le rendeva più difficile, rispetto a Demian, lasciarsi andare a momenti esclusivi con sua madre e quindi era gelosa del fratellino che invece le si avvicinava senza problemi... Se aveva capito un pò Clowance, forse aveva compreso anche cosa c'era dietro quell'apparente astio verso il piccolo Demian. Gli si spezzò il cuore perché sua figlia stava facendo i medesimi errori che avevano portato lui a perdere chi amava.

Falmouth sospirò, rimproverò Clowance per l'atteggiamento e poi riprese Demian in braccio. "Sù, sei un ometto, basta piangere" – sussurrò al piccolo che frignava aggrappato a lui, intimando agli altri tre di andare e proseguire coi loro giochi.

Ross scosse la testa, pensando ironicamente che chiedere a un bambino che assomigliava a un bambolotto e vestito come un idiota, di essere più uomo, era davvero troppo. Demian era un bambino bellissimo e con quei capelli biondi lunghi e quei vestiti sarebbe stato trovato irresistibile da qualsiasi donna ma agli occhi di un uomo, di QUALSIASI uomo di classe sociale differente dai Boscawen, sarebbe apparso ridicolo. Perché Demelza vestiva il suo bambino così?

Beh, non aveva importanza! Demelza non era in casa quel pomeriggio e il fatto che prendesse lezioni di tiro con l'arco lo lasciava perplesso e gliela faceva sentire ancora più sconosciuta ma ora sapeva dove trovarla: la domenica successiva avrebbe preso parte alla gara di trotto all'ippodromo e lui vi si sarebbe recato. Ora non aveva più scampo, ora sapeva dove incontrarla!

Jeremy, Clowance e Daisy fecero per correre via ma Falmouth li bloccò. "BAMBINI!".

"Sì?".

"Salutate Lord Basset e il signor Poldark!".

I tre piccoli annuirono. "Buon pomeriggio Lord Basset, buon pomeriggio signor Poldark!".

E poi corsero via.





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Capitolo 34
*** Capitolo trentaquattro ***


Era una domenica di inizio estate bellissima, quella della gara di trotto.

Ross aveva affidato il piccolo Valentine ai Gimlet, pagando ai tre un biglietto per andare a vedere lo zoo cittadino, adducendo degli importanti impegni che lo avrebbero tenuto occupato tutto il giorno.

Gli spiaceva mentire, si sentiva un farabutto e un ladro ma per fare ciò che si era prefissato, doveva essere da solo. Valentine lo avrebbe voluto con lui, la domenica era il giorno in cui passavano più tempo insieme e ci era rimasto male per il fatto che non fosse andato allo zoo con lui, ma Ross sapeva di non poter fare altrimenti.

Odiava quel modo di agire nell'ombra, i sotterfugi... Odiava anche aver pianificato quel piano per vedere Demelza, a sua insaputa, odiava la fastidiosa sensazione che gli pareva sussurrare che la stava pedinando e che stava facendo qualcosa di assolutamente scorretto.

Non lo avrebbe fatto mai più ma quella dannata gara di trotto era l'unico appiglio che aveva per vederla. Non poteva chiedere di lei ai Boscawen, non poteva esporsi con Lord Basset più di quanto non avesse fatto a quel lussuoso matrimonio e non poteva appostarsi sotto casa sua ad aspettare che uscisse, rischiando di spaventare lei e i bambini. Sempre che le guardie non lo avessero cacciato prima di allora...

Demelza avrebbe preso parte come spettatrice a quella manifestazione e lui doveva trovarla e affrontarla, tutto quì. Non aveva nemmeno idea di cosa gli avrebbe detto, era arrivato a quel giorno spinto da frenesia e agitazione, senza un piano ben preciso o un discorso preparato. Era solo il suo istinto a guidarlo...

Doveva trovarla e sperare che fosse sola. Non era il caso che ci fossero i bambini con lei, decisamente no! E nemmeno quel damerino di suo marito... Sola, la voleva sola!

Si aggirò nel parco, gremito di gente. Ovunque c'erano nobili, ricchi uomini d'affari, donne eleganti che sventolavano i loro ventagli, bambinaie che correvano dietro a una moltitudine di graziosi ed elgantissimi bambini e venditori di cavalli in compagnia di purosangue di rara bellezza, pronti per essere acquistati dal migliore offerente.

Vicino all'ingresso del parco c'erano degli stands di legno che vendevano cibo e bevande e vi era un andirivieni di persone che vi si servivano per ristorarsi e abbeverarsi, sperando di sconfiggere la forte calura che faceva sudare ad ogni passo.

Beh, a Ross non importava né del cibo né dei cavalli. Forse in un altro momento sarebbe stato diverso, si sarebbe messo vicino alla staccionata che delimitava il percorso per la gara di trotto e di galoppo, avrebbe contrattato per acquistare un nuovo purosangue, avrebbe conversato con altri suoi pari, ma ora...

Camminò nel parco, sotto le piante del boschetto o nell'erba che lo delimitava e poi si avvicinò di nuovo alla staccionata del circuito, dove tanti uomini e donne erano assiepati per vedere la gara di cavalli.

Ross vi camminò vicino, percorrendone l'intera lunghezza e cercandola con lo sguardo. E finalmente la vide... Il suo cuore accelerò e si sentì emozionato come un ragazzino al primo appuntamento. Era così meravigliosa, perfetta... Ed era strano pensare che fosse la stessa donna che aveva vissuto e condiviso con lui la sua vita da moglie e madre a Nampara, cercando di sopravvivere a stenti, sventure e privazioni. Era dolorosamente cambiata adesso, troppo bella per non essere ammirata e troppo diversa per non rimpiangere ciò che era e che lui si era lasciato sfuggire. Vestita con un elegante e smanicato abito azzurro dalle maniche a sbuffo, Demelza osservava i cavalli che le sfilavano davanti. I suoi lunghi capelli pieni di boccoli erano stati lisciati e una mezza coda di cavallo li teneva a bada. Era bellissima come l'aveva vista al matrimonio, anche se leggermente più informale. Fece per avvicinarsi, anche se di fatto c'era molta gente attorno a loro e sarebbe stato meglio un posto appartato, quando si accorse che non era sola. Accanto a lei vi era un uomo alto, snello, elegante, dai capelli chiari e dallo sguardo vacuo. Suo marito?

Ross sulle prime tremò, sentì la rabbia invaderlo e cercò di mettere a fuoco la figura, finché si accorse che quell'uomo lo aveva già visto, non era il marito di Demelza di certo e non gli era piaciuto per niente. Passeggiando con Basset alcune settimane prima ai giardini di Vauxhall, un tardo pomeriggio lo avevano incrociato circondato da donnine scollate e compiacenti, di dubbia moralità. Monk Adderly, ecco, questo era il suo nome, un membro del Parlamento e dell'aristocrazia londinese che preferiva i tavoli da gioco e i giardini di Vauxhall con le loro attrattive, alle questioni sociali affrontate a Westminster. Gli era parso un uomo viscido, sfuggente e vagamente strafottente, una di quelle persone che, quando la incontri, ti lascia addosso una cattiva sensazione. Nemmeno a Basset piaceva, segno che in quell'uomo dagli apparenti bei modi affabili, c'era davvero qualcosa che irritava chi lo incontrava. Non era il marito di Demelza ma lei sembrava consocerlo bene, parlavano insieme, ridevano e sua... moglie... pareva perfettamente a suo agio in sua compagnia. Certo, era probabilissimo che si conoscessero, Adderly frequentava spesso i salotti più importanti della capitale ma il fatto che Demelza desse confidenza a un uomo apparentemente così viscido e che a lui non piaceva, lo irritava. Lui la guardava con bramosia, Ross sapeva riconoscere in un uomo il volto della lussuria e di tanto in tanto tentava di sfiorarle la schiena per avvicinarla a lui anche se, a onor del vero, Demelza sembrava piuttosto agile a ristabilire subito le distanze.

Ross scosse la testa, era sfortunato! Se quell'idiota di Adderly non se ne andava, gli sarebbe stato impossibile andare da lei.

Si appoggiò al tronco di un grosso albero che lo celava alla folla e rimase ad osservare. E Adderly rimase accanto a Demelza, continuando a parlare, per tutto il tempo della gara. Lei gli dava retta, sembrava piacevolmente assorta dalla sua compagnia anche se Ross vedeva nel suo comportamento una sorta di sopportazione concessa per dovere e celata dalle buone maniere che stava adoperando con lui.

La gara finì con un frastuono di applausi e a quel punto due donne si avvicinarono ad Adderly che, con un inchino, in loro compagnia, si allontanò da Demelza. Lei lo saluto, la vide sospirare forse sollevata dal fatto che fosse sparito e poi si mise a parlare con un venditore di cavalli che, dopo la gara, si era avvicinato agli spettatori con le sue bestie.

Ross sospirò. Dannazione, voleva che si allontanasse e che si mettesse in un ambiente più riservato ma Demelza pareva intenzionata a non muoversi da lì. Si avvicinò di alcuni passi però, per esserle quanto più possibile vicino, senza essere visto.

La lieve brezza estiva gli portò alle narici un soffio del suo profumo. Sapeva di albicocca ed era piacevole da respirare.

"Signora!!!".

Improvvisamente, una voce fece sussultare Ross che si voltò, trovandosi davanti un'altra persona del suo passato, persa anni prima a causa dei suoi errori.

Circondata dai bambini di Demelza e da quello che sembrava un amichetto di Jeremy, Gustav probabilmente, la serva si avvicinò alla sua padrona. Era cambiata anche lei, dopo tutto... I suoi capelli perennemente in disordine erano chiusi in uno chignon tenuto a bada da una cuffia, aveva abiti puliti da tata e anche la sua persona sembrava più votata alla pulizia di quanto non fosse stata in passato. E i bambini... Tutti bellissimi e allegri, chiassosi come li aveva sempre visti e vestiti allo stesso modo, con abiti alla marinaretta che parevano andare molto di moda a Londra. Gli pareva tanto strano che Demelza seguisse i dettami della moda e che agghindasse così i suoi figli ma di fatto era entrata in un mondo con norme molto rigide che, anche se non gradiva, doveva aveva imparato a seguire.

"Mamma!" - chiamò Jeremy, correndo vicino a Demelza.

Lei gli sorrise, stringendolo a se in un abbraccio. Gli accarezzò i capelli mentre i gemelli si arrampicavano sulla staccionata per vedere meglio i cavalli e Clowance vi si appoggiava, pensierosa e perfetta, come sempre.

Allora Jeremy, che cavallo vuoi? Questo signore me ne ha fatti vedere alcuni davvero belli”.

Il venditore sorrise al bambino, mostrandogli un purosangue dal mantello rosso. “E' un dono importante, piccolo Lord! Scegli bene! E' il tuo compleanno?”.

Demelza intervenne. “No, è un regalo perché è stato bravissimo negli studi, quest'anno! Ed è ora che abbia un cavallo tutto per lui”.

L'uomo annuì a Jeremy. “Bravo bambino, te lo meriti allora! Questo qui va veloce come un fulmine” - gli suggerì, mostrandogli la bestia che teneva per le redini. “Costoso, ma un costo che vale appieno il suo gran valore, Lady Boscawen”.

Demelza alzò gli occhi al cielo, come divertita dal modo di condurre gli affari di quell'uomo e Ross, da quella reazione, capì che il denaro non era davvero più un suo problema. Osservò allora Jeremy, il suo Jeremy che aveva ormai nove anni, era vestito alla marinaretta come un piccolo Lord e ormai, visto il genere di regalo, doveva aver imparato a galoppare. E allora cercò di non pensarci, cercando di concentrarsi su quella che sarebbe stata la sua scelta, per vedere se aveva occhio.

Jeremy osservò il purosangue costoso, ma poi camminò di alcuni passi lungo la staccionata ad osservare gli altri cavalli, fermandosi davanti a un meraviglioso esemplare bianco. “Voglio questo!”.

E' bianco come Queen!” - esclamò Clowance, correndo ad abbraccialo. Rideva, era la prima volta che la vedeva contenta e sembrava legatissima al fratello.

Jeremy rise. “E' bianco come il cavallo di papà, non come Queen! Voglio questo, mamma!”.

Bianco come il cavallo di papà... Sentirgli dire quelle parole, fu come una frustata al cuore di Ross... Eccolo quell'uomo che ancora sfuggiva alla sua vista, eccolo che diventava reale attraverso le parole di Jeremy, mostrandogli crudelmente che aveva preso il suo posto nel cuore di chi lui amava.

Demelza non lo contraddisse. “E sia, se sei convinto!”.

Convinto!”.

Il venditore sorrise. “Ottima scelta, piccolo Lord! Vuoi salirci?”.

Sìììì!Gustav, faccio un giro e poi torno subito e torniamo a giocare nel bosco!”.

Il venditore rise, soddisfatto. Poi si rivolse all'amichetto biondo di Jeremy, Gustav. “E tu, piccolo Lord? Tu non meriti un regalo per la tua bravura negli studi?”.

Gustav scosse la testa, sospirando. “I miei genitori mi hanno già regalato un maestro di latino quest'anno e quindi preferisco non rischiare di chiedere altri regali...”.

Jeremy rise, imitato da Gustav, poi scavalcò la palizzata, correndo dal cavallo scelto. Era stata una buona scelta, un ottimo animale pensò Ross, ma che avesse scelto quel colore perché era il colore del cavallo di suo padre... Santo cielo, non poteva accettarlo! Quell'uomo non era suo padre! LUI lo era e Demelza avrebbe dovuto ricordarglielo!

Lo osservò e lo vide salire agilmente sul cavallo e si rese conto che sapeva farlo. E quando il bambino partì al galoppo, incitato da Demelza a stare attento, cavalcò velocemente lungo il circuito, saltando senza problemi gli ostacoli sul suo cammino. Era bravo, aveva imparato a cavalcare senza sbavature e senza paura. Senza di lui...

Demelza si concentrò sul venditore di cavalli provvedendo al pagamento e i bambini iniziarono a fare baccano. Clowance le si avvicinò, chiedendole se poteva tornare a giocare con le sue amiche e poi, dopo aver ottenuto il permesso, corse via mentre il vento faceva muovere armoniosamente la gonnellina blu del suo abito alla marinara che la faceva somigliare ancora una volta a una perfetta bambolina.

Gustav la richiamò. “Vuoi che venga con te?”.

No!”.

Ma io voglio aiutarti a giocare!” - insistette Gustav.

Non ne ho bisogno, so giocare con le mie amiche da sola!” - ribatté Clowance. “E poi tu continui a venirmi dietro perché dici che da grande mi vuoi sposare e io non voglio che lo dici quando ci sono le mie amiche!”.

Ross sentì i capelli rizzarsi in piedi. Sposarsi??? Sarebbero passati secoli prima che Clowance... la sua piccola Clowance... Non voleva nemmeno pensarci al fatto che già sua figlia affrontasse situazioni del genere, anche se per gioco!

Va bene, non lo dico più! Ma mi sposerai?” - chiese Gustav, mentre Ross lo guardava scuotendo la testa... Santo cielo, non aveva la benché minima possibilità di farcela... Se tutti i pretendenti di Clowance erano così, lui avrebbe dormito fra due guanciali! Lei Gustav lo avrebbe schiacciato, ci riusciva già ora che aveva solo sei anni, tre in meno di lui.

Clowance gli si avvicinò, dandogli una leggera spinta. “Va in Cornovaglia, come re Artù! Trova una spada nella roccia, estraila, diventa re d'Inghilterra e poi torna da me! E ci penserò...”.

Santo cielo benedetto... Ross spalancò gli occhi, sinceramente ammirato ma ancora una volta intimorito dal caratterino di Clowance, Gustav annuì come se quanto chiesto fosse la cosa più facile del mondo e Demelza richiamò all'ordine la bambina, mandandola a giocare.

Demian guardò il ragazzino. “Cambia fidanzata!” - gli suggerì. E Ross si trovò decisamente d'accordo con lui.

Gustav sospirò, si avvicinò a Demian e lo prese per mano. “Torniamo a giocare da soli, allora? Dopo viene anche Jeremy, lo aspettiamo sotto le piante!”.

Demelza accarezzò i capelli biondissimi del gemellino, gli sussurrò nell'orecchio qualcosa e dopo avergli dato un bacio, lo lasciò andare con Gustav.

Rimase solo Prudie, con l'altra gemella, la pestifera Daisy. Ross osservò la scena, rendendosi conto che la bambina era scalza nell'esatto istante in cui se ne accorsero anche Demelza e Prudie.

Dove sono le scarpe?” - le chiese sua moglie, in tono dolce.

La piccola alzò le spalle e Demelza, con un sospiro, la affidò a Prudie. “Pensaci tu, ti aspetto alle sei all'uscita, con tutti i bambini. Vado a rinfrescarmi alla fontanella vicino alle stalle e a trovarmi un posto fresco dove sedermi, fa caldissimo. Cerca di essere puntuale a recuperare tutti i bambini, devo riportare Gustav a casa per l'ora di cena”.

Certo signora!”. Prudie, la cara Prudie che se l'era filata con Demelza sette anni prima e con cui avrebbe volentieri fatto due chiacchiere appena ne avesse avuto occasione, prese per mano Daisy, guardandola storto. “Dove sono le tue scarpe?” - le chiese, a una decina di metri da lui, senza che lo notasse, mentre procedeva verso il parco dove giocavano gli altri bambini.

Daisy alzò le spalle. “Non lo so, non lo ricordo! Avevo caldo...”.

Prudie ringhiò. “Non si gettano via le scarpe, anche se si ha caldo!”.

La piccola alzò lo sguardo a fronteggiarla. “Non le ho buttate via, è arrivato un ladro e le ha rubate! I ladri rubano, lo sai?”.

Prudie si inginocchiò, lanciando fiamme con il suo sguardo. “E' una bugia!”.

No!”.

Sì invece!”.

Invece no!” - rispose la piccola, non arretrando di nessun passo e sostenendo lo sguardo di Prudie anche davanti a quella bugia che portava avanti con tanta faccia tosta e senza il minimo tentennamento. Ross si accigliò, la mocciosetta aveva un certo invidiabile stile e se avesse affinato la tecnica, da grande avrebbe potuto fregare chiunque con quel faccino da angelo che si ritrovava.

Prudie, che doveva conoscerla bene, la prese per mano strattonandosela e trascinandosela dietro. “Andiamo a cercare le tue scarpe”.

Non so dove sono”.

Cercheremo in tutti i posti dove sei stata”.

Ma sono stata in tanti posti!” - si lamentò la piccola. “Non li ricordo!”.

Non mi interessa!” - ribatté Prudie.

Ma ho camminato tanto!”.

E camminerai altrettanto, adesso! Concentrati e pensa a dove sei stata”.

Non so cosa vuol dire”.

Se sai cosa vuol dire la parola 'ladro', sai anche che vuol dire 'concentrazione'! Coraggio bestiolina, inizia a pensare e a camminare”.

Ross si accigliò... Bestiolina? Si chiese cosa ne pensasse Lord Falmouth di quel nomignolo poco lusinghiero dato da Prudie alla sua piccola principessina ed erede... Ma poi capì che non era il momento. Demelza si stava allontanando, era sola ed era diretta ad un posto più riparato e isolato. Era il momento.

E con quel pensiero, senza essere visto e nascosto dal flusso della folla, la seguì. Esserle stato tanto vicino da poterla osservare senza essere visto, grazie alla gente che andava e veniva, era stata una fortuna ma ora doveva uscire allo scoperto. Sentiva il cuore in gola, le mani che gli sudavano e uno strano tremolio alle gambe e il suo stato d'animo strideva così tanto con la calma che ostentava Demelza in quel momento, tranquilla e all'oscuro di tutto.

La seguì di soppiatto, rendendosi conto che nonostante vivesse una vita agiata, aveva mantenuto il suo passo svelto. Demelza si allontanò dallo steccato, percorse un vialetto che portava ai chioschetti dove in tanti si stavano abbeverando e poi percorse un altro viale che sfilava dietro a una lunga fila di stalle affollate di cavalli, venditori e compratori. Ross non la perse di vista un attimo e quando la vide soprassare la zona delle stalle e fermarsi davanti a una piccola fontanella più defilata, posta all'inizio di un boschetto dove non c'era praticamente nessuno eccetto alcuni bambini che giocavano in lontananza, decise che era arrivato il momento...

Non aveva idea di cosa le avrebbe detto e onestamente non sapeva nemmeno cosa aspettarsi da lei. Demelza non sospettava minimamente della sua presenza, non si vedevano da anni e sicuramente, vedendolo, sarebbe stata sorpresa quanto lo era stato lui quando l'aveva vista in Chiesa. Come avrebbe reagito era un mistero e anche questo faceva male a Ross... Una volta erano un libro aperto l'uno per l'altra mentre ora erano praticamente due estranei che si ritrovavano dopo molto tempo, dolore e incomprensioni. E nessuno poteva prevedere le reazioni dell'altro...

Demelza si inginocchiò a bere dalla fontanella, sedendosi sul bordo di pietra della stessa. Il cinguettio degli uccelli doveva sembrarle molto piacevole e rilassante in quel momento, nella penombra degli alberi, dopo tutto il caldo patito durante la gara, tanto che non si accorse del suo passo che si avvicinava.

E quando lei allungò la mano per chiudere il rubinetto dell'acqua, Ross era dietro di lei e fece altrettanto, posando la mano sulla sua.

La sentì sussultare e poi la vide voltarsi lentamente verso di lui, come intimorita. E per la prima volta da quasi sette anni i loro sguardi furono di nuovo incatenati l'uno all'altra, gli occhi scuri di lui in quelli azzurro-verde di lei.

"Demelza...".

Lei non ebbe reazioni per alcuni istanti, sbatté le palpebre come per metterlo a fuoco, tremò e poi, senza dire nulla, si alzò di scatto, spezzando il contatto delle loro mani ancora unite. Indietreggiò, pallida come un cencio, fino ad arrivare con la schiena al tronco di un albero. "Non... Non..." - balbettò.

Ross per un attimo si trovò spiazzato. Credeva che la sua reazione sarebbe stata di rabbia, che avrebbe urlato, che avrebbe tirato fuori quel suo proverbiale caratterino che spesso li aveva portati a delle liti ma che la rendevano unica e affascinante ai suoi occhi e invece sembrava... spaventata... Aveva paura di lui... E non poteva essere, non poteva accettarlo! Capiva di averla presa di sorpresa, che probabilmente lui era l'ultimo dei suoi pensieri e che non capiva cosa ci facesse lì, ma che avesse paura... "Demelza...".

"NO!" - rispose lei, bloccandolo. "Non sei quì, non sei tu e non sei reale... Ora starai zitto, chiuderò gli occhi e quando li riaprirò, tu sarai scomparso! Non sei vero, non puoi essere tu...".

Ross deglutì. La voce di Demelza era metallica, impersonale e tremante. Era incredula, lo capiva, lui stesso aveva pensato di essere preda di allucinazioni quando l'aveva vista per la prima volta. Era normale, ora si sarebbe calmata e forse avrebbe potuto parlarle. "Sono vero, reale. Quanto te in questo momento".

Tentò di avvicinarsi per sfiorarle nuovamente lamano per calmarsi ma Demelza si ritrasse bruscamente. "Non toccarmi!" - disse, nello stesso modo in cui glielo aveva detto tanti anni prima, quando il loro matrimonio stava per finire e non voleva in nessun modo la sua vicinanza. "Vattene... Non sei vero, sei un sogno! Un incubo! E' il sole, il caldo... Mi ha dato alla testa e tu non sei reale! Sei lontano, a casa tua, in Cornovaglia...".

"Lasciami spiegare!".

Demelza scosse la testa, con gli occhi lucidi, come rendendosi pian piano conto che era vero, che era lì. "Non voglio sentire niente, né perché sei quì, né come tu abbia fatto a trovarti davanti a me in questo momento. Torna da dove sei venuto e lasciami in pace...".

Non era felice di vederlo, era palese che non volesse incontrarlo mai più. Ed era normale vista la sua vita e quanto successo fra loro ma non poteva, non poteva davvero fare quello che lei gli stava chiedendo. Non poteva andarsene! "Averti vista è stato un caso... Lasciami spiegare, voglio solo parlarti!".

Demelza lo guardò con sguardo perso, sfinito, come se improvvisamente le fosse crollato sulle spalle tutto il peso del mondo. Mai l'aveva vista così da quando l'aveva trovata a Londra e gli spiaceva farle quest'effetto e turbare la sua serenità, ma essersi ritrovati era la cosa più improbabile del mondo e se il destino aveva stabilito ciò, lui doveva cogliere l'occasione che gli era stata data. Era importante, per lui e per lei! Lo avrebbe capito anche Demelza appena si fosse ripresa dallo shock.

"Ross...". Disse quel nome che forse non pronunciava da tanto con un tono amaro e sofferente. Pareva annientata. "Non devi spiegarmi niente, non voglio sapere niente e non voglio parlare con te. Ora sparirai, come spariscono i brutti sogni quando ci si sveglia da un incubo e qualunque cosa tu faccia quì, andrai avanti a farla lontano da me".

Fece per allontanarsi, per scappare ma le corse dietro, prendendola per un braccio. "Demelza, aspetta! Solo un attimo!". Doveva parlarle, dirle come aveva saputo di lei, COSA aveva saputo, cosa l'aveva guidato fino a quella fontanella e chiederle... Chiederle mille cose che arrovellavano la sua mente! Non aveva diritto a trattenerla, lo sapeva, ma non si sarebbe fatto scoraggiare. "Demelza, ti prego! Solo un minuto!".

Lei si voltò, le guance rigate di lacrime. E a quel punto le lasciò il polso, era troppo sconvolta.

"Ti prego, Demelza...".

"Lasciami andare... Sparisci, torna nel buio che ha avvolto il tuo ricordo in questi sette anni... Non c'entri più nulla con me".

"Non direi!" - rispose, rendendo palese una cosa che sapeva benissimo anche lei. Non sarebbero bastati quei sette anni e quanto successo a cancellare il legame che c'era stato fra loro e cosa aveva generato. Restava l'uomo che aveva amato e sposato e il padre dei suoi due figli più grandi. E Ross non voleva prendere in considerazione null'altro in quel momento, non l'uomo che aveva sposato adesso né i bambini che erano nati da quel matrimonio. Doveva parlarle, doveva discutere con lei di tante cose! Capire cosa provasse, cosa le era successo in tutto quel tempo, la natura del suo matrimonio, il ricordo che ancora la legava a lui, se c'era... E Ross era sicuro che ci fosse! "Demelza, sei sconvolta, lo ero anche io la prima volta che ti ho vista alcune settimane fa, ma se ti sedessi un attimo e ti calmassi, io...".

Demelza si accigliò, a quelle parole. "La prima volta che mi hai vista? Settimane fa? Quando...?".

"Beh, ecco, io...".

Lei lo bloccò, impedendogli di proseguire in quel racconto. "Lascia stare, non mi importa e non voglio saperlo!".

"Demelza!".

La donna scosse la testa, arretrando. "No! Non voglio sentire niente! Non voglio sentire la tua voce, mai più!". Gli voltò le spalle, d'un tratto corse via allontanandosi e rendendo palese che nulla l'avrebbe fermata.

Ross fece alcuni passi per seguirla ma si rese conto che avrebbe solo peggiorato le cose. Era sconvolta, arrabbiata, ferita... Capiva cosa provasse, capiva quanto il peso di quei sette anni che lui aveva sentito giorno per giorno sulle spalle ma che lei forse aveva relegato in un angolo della sua mente mentre viveva la sua nuova vita, dovessero pesare su di lei. Era un peso enorme da sostenere tutto in una volta, all'improvviso.

Non poteva fermarla, non poteva imporsi, non in quel momento! Lei non lo avrebbe ascoltato, si sarebbe irrigidita ancora di più e solo qualche giorno di pace avrebbe potuto alleviare il suo animo.

Doveva avere pazienza e in fondo sapeva dove viveva e come trovarla... Avrebbe cercato un'altra occasione per rivederla e sicuramente l'avrebbe trovata più agguerrita ma anche più preparata. Ora lei sapeva che lui era a Londra e Ross era anche piuttosto certo che nei giorni a venire sarebbe stato al centro dei suoi pensieri!


...


La sua mente era come una tavola bianca mentre la carrozza la riportava a casa. Non era sicura di cosa provasse, se paura o rabbia. O se fosse semplicemente sconvolta, tanto da non riuscire a formulare pensieri coerenti. Si sentiva tremare e allo stesso tempo le pareva di bruciare per la febbre...

Mai, MAI avrebbe voluto rivedere Ross, mai avrebbe creduto di incontrarlo di nuovo a Londra. Cosa ci faceva lì? Perché? Aveva scoperto dove viveva ed era venuto a cercarla per qualche motivo? O era stato solo il caso, come aveva asserito vagamente lui? Quando l'aveva vista la prima volta? Cosa sapeva di lei? C'era Elizabeth con lui? E i loro figli? Si era trasferito e aveva lasciato la Cornovaglia per qualche strano motivo?

Se non fosse scappata, Ross forse avrebbe risposto a tutte queste domande ma in quel momento si rese conto che non voleva alcuna risposta da lui.

Voleva solo l'oblio, quell'oblio inconsapevole che aveva alleviato il suo dolore in quei sette anni, consentendole di ricominciare a vivere un'esistenza nuova come una nuova Demelza rinata dalle ceneri.

E invece Ross era comparso, riportando in vita quella donna lacerata, ferita e disperata che era giunta nella capitale quasi sette anni prima, riaprendo ferite che mai si erano chiuse del tutto ma che erano state alleviate da un nuovo amore, da una nuova famiglia, da due nuovi figli e dai tanti nuovi amici che aveva incontrato. Perché era tornato, PERCHE'???

Non sapeva cosa volesse Ross, non sapeva nulla. E non voleva sapere nulla, non voleva permettere a Demelza Poldark di riemergere dalle tenebre, soppiantando la tranquillità di Lady Boscawen e dei suoi bambini.

Demian le toccò il braccio mentre Prudie la guardava pensierosa e preoccupata per quel suo mutismo. "Mamma, sei arrabbiata?".

Accarezzò i capelli biondi del suo piccolo principe. "No amore, sono solo stanca".

Clowance, che giocava sul sedile opposto con Daisy ancora scalza e Jeremy rimasto solo dopo aver lasciato Gustav a casa sua, rise. "E' stanca perché Monk Adderly l'ha trovata e rapita e a mamma non piace ma deve essere gentile ed educata con lui!".

Demelza le sorrise. "Certo...".

Demian sospirò, rinfrancato. Poi le diede un bacio sulla guancia, rannicchiandosi fra le sue braccia. Lui capiva sempre quando qualcosa non andava in lei, era il più piccolo dei suoi figli ma era anche estremamente sensibile e ricettivo se la vedeva turbata.

Lo coccolò, desiderosa di calmare il suo cuore in subbuglio e di trovare la pace nel calore dell'abbraccio del suo bellissimo bambino biondo. Demian riusciva sempre a calmarla, sempre...

Quando arrivarono a casa e scesero dalla carrozza, anche Jeremy corse ad abbracciarla, come capendo che qualcosa non andava. "Mamma...".

"Cosa c'è?".

"E' per il cavallo che ho scelto? Costa troppo?".

Gli sorrise, accarezzandogli i capelli e stringendolo a se. Jeremy, come Demian, aveva un cuore d'oro e una sensibilità unica. Era colui che si sentiva responsabile dei fratellini e anche di lei, dopo la morte di Hugh. Lo amava immensamente, era stato il suo compagno di dolore sette anni prima, quando aveva vissuto l'inferno, e lei invece avrebbe voluto che fosse solo felice e un bambino senza pensieri. Eppure Ross prima e la morte di Hugh dopo, lo avevano caricato di responsabilità che non gli spettavano. Lo abbracciò più forte, desiderosa di proteggerlo da tutto e TUTTI e di rassicurarlo. "Ho solo mal di testa, faceva troppo caldo! Non preoccuparti, te lo meriti il tuo cavallo e niente costerà mai troppo se serve a renderti felice".

Jeremy annuì e Prudie si avvicinò, dandogli un buffetto sulla guancia. "In casa, tutti e quattro. Non è il cavallo il problema, sono le scarpe di quella bestiolina di tua sorella! Non le ho trovate, signora!".

"Non sono una bestiolina, sono una bambina senza scarpe perché me le hanno prese i ladri!" - rispose la gemellina, incrociando le braccia, con cipiglio imbronciato.

Prudie le diede una pacca leggera sulla testa. "Zitta, piccola bestiolina bugiarda! E ora, tutti in casa! Con o senza scarpe!".

Demelza le sorrise, osservando i bambini correre via più sereni e chiassosi, come al solito. "Non importa, gliele ricompreremo le scarpe. Ne ha tante, dopo tutto...".

Prudie la guardò, stupita che dicesse una cosa del genere. Non era da Demelza sperperare il denaro e soprattutto non insegnare ai bambini la responsabilità di gestire le loro cose. "Ragazza, cosa c'è? Stai male?".

Demelza scosse la testa con sguardo perso. "No...".

"C'è qualcosa che non va, sei bianca come un cencio e a Prudie non puoi non raccontarla giusta! Che succede? Hai la faccia di una che ha visto un fantasma...".

Un fantasma... Quale modo migliore per descrivere il suo incontro di poche ore prima? "Hai ragione, ho visto un fantasma..." - sussurrò, osservando il vuoto davanti a lei.

Prudie spalancò gli occhi, prendendola letteralmente in parola. Impallidì. "Fantasma? Del signor Hugh?".

Demelza scosse la testa. "No, non Hugh... Ross!".




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Capitolo 35
*** Capitolo trentacinque ***


Nella sua vita londinese era stata tante cose: Una fata, una musa amata e venerata, una Lady e anche, forse per la prima volta, una ragazzina spensierata, quella che non aveva mai potuto essere dov'era nata.

Era arrivata a Londra sei anni e mezzo prima con due bambini piccoli, un cuore a pezzi, un amore perduto in modo crudele e tante incognite sul futuro. Credeva che nulla di buono avesse in serbo per lei il destino, ma poi era arrivato Hugh che aveva saputo guardare oltre le convenzioni e le regole del suo ceto, le aveva dato amore, le aveva accarezzato quel cuore che credeva ormai di pietra dandogli nuova vita, un nuovo futuro, un nuovo ruolo e altri due meravigliosi figli.

C'erano state risate in quegli anni, serenità, gioia e calore famigliare con cui poi aveva potuto affrontare il dolore vero di una morte ingiusta per poi rialzarsi da donna nuova.

Lady Boscawen, Lady Armitage... Così la chiamavano tutti, con una strana ammirazione nel tono di voce che forse non aveva mai compreso e che la imbarazzava ancora, ma che aveva imparato a gestire con grazia ed educazione, come richiedeva il suo ruolo.

E poi di colpo tutto si era interrotto, bruscamente, in un caldo pomeriggio ad una gara di trotto. Improvvisamente Lady Boscawen era sparita, così, in un attimo, riportando in vita Demelza Carne... O peggio ancora, Demelza Poldark...

Ross, il suo incubo, il suo dolore nascosto dell'anima e del cuore era riapparso per qualche strano motivo davanti a lei, a Londra, a centinaia di chilometri da casa sua... Avrebbe voluto fosse un incubo, un brutto sogno...

Ma era davvero lui che aveva toccato con quella sua mano calda le sue dita, era davvero lui, nessun altro aveva quel tocco e quell'effetto sulla sua pelle...

Era scappata, spaventata e sconvolta, sotto shock, incapace di stare a sentirlo parlare. E ora erano giorni che si chiedeva, passato il trauma di averlo rivisto, cosa ci facesse lì, se la stesse cercando, se fosse stato un caso, se... se... se... Se vederlo fosse stato un qualcosa di orribile o forse il realizzarsi di un sogno segreto che aveva sempre cullato nel cuore, di nascosto pure da se stessa...

Mille se e mille domande di affollavano nella sua testa e non sapeva se voleva delle risposte oppure no perché non averle avrebbe significato non incontrarlo più. Ma non si illudeva, se Ross l'aveva vista e aveva deciso che doveva parlarle, anche contro ogni logica e ogni cambiamento intercorso in quegli anni, lui non si sarebbe arreso finché non fosse arrivato a lei. Lo conosceva, lo conosceva bene. Lo conosceva ancora...

Cosa voleva da lei? Voleva qualcosa? Cosa sapeva della sua vita, ormai tanto diversa da quella della Demelza che gli aveva detto addio a Trenwith? Dove l'aveva vista la prima volta?

Tante domande si affollavano nella sua mente, su di lui. E su se stessa... Mai aveva pensato all'eventualità di rivederlo e ora non aveva idea di cosa fare. Solo Prudie sapeva cosa provasse, Prudie che lo conosceva, che le era sempre stata accanto e che aveva raccolto, nel corso di quegli anni, tutti i suoi sfoghi. Come una madre...

Ma gli altri? I Boscawen non sapevano nulla del suo passato e sembrava non importare loro da dove venisse, Dwight non aveva mai affrontato il discorso su Ross e ora si trovava fuori Londra, in campagna, con Caroline e con la loro piccola Sophie, nata da un mese a colmare il vuoto lasciato da Sarah e i bambini... No, i bambini non dovevano sapere nulla!

Si girò e rigirò nel letto, cercando la pace per dormire qualche ora, dopo una notte insonne a causa delle mille preoccupazioni di cui era preda e del caldo torrido di quell'estate londinese. Stava albeggiando e la grande casa dei Boscawen era avvolta nel silenzio. Pensava... Pensava a quando c'era Hugh ed era la sua fata e anche a com'era serena solo dieci giorni prima...

E rimpiangeva quei momenti, quella leggerezza che l'aveva cullata a lungo, spezzata come un fulmine a ciel sereno da quell'incontro. Era Ross, era Ross ed era lui perché solo Ross Poldark aveva l'effetto di un terremoto quando entrava nella tua vita... Non sapeva cosa provasse ormai per lui o se lo sapeva, aveva preferito per lungo tempo non pensarci. Era perso, lei era persa e cambiata e qualsiasi cosa il suo cuore potesse provare per lui, nel bene e nel male, doveva essere cancellato. E lui doveva essere tenuto lontano!

Solo così avrebbe potuto rimettere a tacere la sua anima... Era Lady Boscawen, aveva ogni mezzo per tenere lontana gente non gradita e soprattutto era una madre. Avrebbe fatto ogni cosa per difendere la serenità dei suoi cuccioli e non avrebbe MAI permesso a Ross di avvicinarsi a loro. Non aveva mai avuto a cuore i suoi figli, bambini che per lui erano contati sempre poco più di nulla, bambini che aveva abbandonato o forse no, nemmeno quello... Si abbandona chi una volta si è amato, ma Ross non aveva mai speso un momento dei suoi pensieri per amor loro, nemmeno prima di quella dannata notte in cui l'aveva tradita...

Era un eroe per tutti gli altri, avrebbe dato la vita per tutti, si sarebbe sempre speso in grandi battaglie di giustizia per chi amava... Solo lei e i bambini non avevano mai meritato, ai suoi occhi, il suo tempo, le sue battaglie, le sue attenzioni e il suo affetto...

Si voltò nel letto, albeggiava, la finestra era socchiusa per lasciar entrare un pò d'aria e Demian dormiva con indosso solo le mutandine, a braccia spalancate e coi suoi meravigliosi capelli biondi sparsi sul cuscino.

Eccolo il volto dell'amore, un figlio nato dall'amore di un uomo... Un amore vero, un amore di un padre emozionato ogni giorno della gravidanza, un padre che avrebbe voluto assistere al parto, un padre che aveva sistemato ogni cosa affinché i suoi figli, dopo la sua morte, potessero star bene...

Baciò Demian sulla guancia, dolcemente, sperando di trovare in lui pace e tranquillità.

In quei giorni, per fortuna, la sua casa era tranquilla e poco affollata e lei, fra quelle mura, poteva rifugiarsi e sentirsi più libera di vivere quel momento tanto particolare.

Lady Alexandra e Lord Falmouth, come ogni estate, erano andati per alcune settimane in un loro cottage fuori Londra, per un periodo di riposo, visto che il Parlamento era chiuso per la pausa estiva. E come sempre avevano chiesto di portar con loro Jeremy e Clowance per farli svagare e divertire all'aperto, all'aria di campagna. Demelza li aveva lasciati andare come sempre, per il loro bene e anche perché, con Ross a Londra, era meglio che se ne stessero lontani.

Lei era rimasta, adducendo una scarsa voglia a partire con i gemelli, ingestibili in un lungo viaggio, e la preferenza a rimanere a vegliare sulla casa. Molta della servitù era stata mandata in vacanza e nella dimora c'era il minimo indipensabile di personale e così, assieme a Prudie, era un pò come tornare ai vecchi tempi in cui, da sole, gestivano casa e bambini. Certo, c'era il maggiordomo, c'erano le domestiche, le cuoche, i giardinieri. Ma tutto a rango ridotto e tutto vissuto in maniera informale...

Era la sua casa, quella. E ora anche il suo rifugio dorato dove nascondersi, pensare, imparare di nuovo a diventare forte e decidere cosa fare con assoluta tranquillità.

Improvvisamente la porta si aprì e Daisy sgattoiolò dentro, con la sua camicina da notte gialla. Si era legata, non sapeva bene come, i capelli in una coda di cavallo e ora era lì, cosa stranissima per lei.

La sera prima era andata più volte a controllarla nella sua camera perché temeva a lasciarla sola, data l'assenza di Clowance, ma la bambina si era addormentata senza problemi e conoscendo quanto amasse dormire per i fatti suoi, l'aveva lasciata lì.

Daisy si avvicinò al letto, appoggiandoci sopra il visino. "Mamma... Sono sveglia".

"Lo vedo! Vuoi venire quì con noi?" - rispose Demelza, facendosi da parte per lasciarle spazio in modo che potesse salire sul letto.

Daisy sbuffò. "Con te e Demian?".

"Sì".

La bimba scosse la testa. "Fa caldo, non voglio venire da voi! Mi date fastidio!".

A quella frase, Demelza ridacchiò, allungando la mano a pizzicarle leggermente la punta del nasino. Era straordinariamente sincera, fin troppo... "Hai il carattere di un orso!".

"Cos'è?".

"Un animale grande, grosso, feroce e che borbotta sempre!".

Daisy rise. "Lo voglio!".

Anche Demelza rise. "Ci basti tu!". Poi si alzò, aprì ancora un pò di più la finestra e infine le si avvicinò, togliendole la camicina da notte e lasciandola con indosso solo le mutandine, come Demian. "Così va meglio?".

"Sì".

"E allora su, vieni a letto con me" – sussurrò dolcemente Demelza mentre Garrick, nella sua cesta, si lamentava per quel chiacchiericcio che lo disturbava nel suo sonno.

Daisy ci pensò, guardandosi senza vestiti. "E'... è dis... dirindingevole...".

"Cosa?".

Daisy salì sul letto, mettendosi a pancia in giù. "Diring... Non lo so, lo dice la nonna!".

"Disdicevole?" - la aiutò Demelza.

"Sì, quello! Lo dice nonna Alix".

Demelza sospirò, chiedendosi quando sarebbe riuscita a far sue tutte quelle assurde regole di etichetta che coinvolgevano anche i bambini. "Non c'è nulla di male se stai solo con le mutandine, sei piccola e fa caldo... E nonna Alix non c'è" – concluse, strizzandole l'occhio.

Daisy annuì. "Chiamiamo Prudie? Voglio giocare".

"E' presto amore, Prudie dorme ancora come sta facendo Demian... Su, sta quì buona con me per un pò".

"Sì ma non mi toccare! Mi da fastidio".

Demelza la guardò con aria di sfida, sfiorandole la base del collo per farle il solletico. E la bimba reagì sgambettando nervosamente sul letto. "Mamma!" - sbottò, mentre Demian continuava a dormire beato.

Demelza non si fece scoraggiare. Era una piccola orsa ma era adorabile e quella sua inaspettata visita l'aveva distolta un pò dai suoi mille pensieri. La baciò sulla testolina e poi la lasciò tranquilla e Daisy per un pò rimase ferma. Ma durò poco, come era normale che fosse... "Mamma...".

"Dimmi".

"Caldo...".

"Amore, lo so... Non so come aiutarti".

Daisy si mise seduta, sul letto. "Andiamo in giardino e facciamo il bagno nella fontana!".

Non era una cattiva idea, spesso i bambini in estate avevano giocato nell'acqua della grande fontana del loro giardino, quella piena di zampilli e talmente capiente da farli giocare come pesciolini per ore.

A quella proposta di Daisy, Demian, che sembrava profondamente addormentato, si svegliò di colpo, come punto da uno spillo. Era strano, anche quando dormiva era come se fosse sempre all'erta, soprattutto quando Daisy era nei paraggi a proporre cose che sarebbero piaciute anche a lui. Erano magici come diceva Hugh e sempre, anche se fisicamente separati, i gemelli si percepivano a vicenda solo con la forza del pensiero. "Fontana! Sì!" - strillò Demian, sveglio da subito come un grillo.

I due gemelli si salutarono come se non si vedessero da secoli, si abbracciarono emozionati e pronti a giocare, sul letto, rotolando e strattonandosi a vicenda e Demelza, osservandoli, si rese conto che ai bambini non servivano quei minuti per riordinare le idee di cui necessitano gli adulti fra l'attimo in cui aprono gli occhi e quello in cui lasciano il letto, i bambini una volta svegli, SONO SVEGLI! Sorrise loro, perché no? Era mattino presto e potevano giocare liberamente prima che la casa prendesse vita. "D'accordo, avete vinto! Andiamo".

Li prese in braccio e così com'era, in camicia da notte smanicata e lunga fino ai piedi, uscì con loro in giardino. Li mise in terra e i bimbi, a piedi nudi, corsero fino alla fontana, tuffandocisi dentro con indosso solo le loro mutandine. L'acqua, decisamente frizzantina a quell'ora, non fece loro alcun effetto. Iniziarono a schizzarsi, a tuffarsi, a ridere e a tentare di nuotare come se fossero stati due ranocchie e Demelza si sedette sul bordo, a osservarli, cercando di far sua quella serenità e quel momento tanto magico e piacevole. A Hugh sarebbe piaciuto esserci e avrebbe riso e giocato con loro...

E con questo pensiero, decise. Entrò lei stessa in acqua, che le arrivava alle ginocchia, si avvicinò ai gemelli e prese a giocare con loro, incurante di etichette, regole e buone maniere. E ancora una volta Demelza Carne l'aveva vinta su Lady Boscawen... Vero, Alix non avrebbe gradito ma Alix era lontana, lei era la padrona di casa e soprattutto la mamma dei bambini e vederli tanto felici ed eccitati dal giocare con lei in acqua, era la giusta risposta ai dubbi se stesse facendo bene.

Il tempo perse consistenza e quando Prudie comparve dietro di loro, erano completamente fradici tutti e tre.

"Ragazza?".

"Prudie, mi hai spaventato!" - esclamò Demelza, presa alla sprovvista.

Daisy si affacciò al bordo della fontana. "Giuda, hai spaventato la mamma!".

Prudie le ringhiò, schizzandola sul viso con l'acqua. "Non devi andare al centro per i poveri? Non avevi detto che dovevi portare i vestiti per l'inverno che hai cucito con la signora Alexandra?".

Demelza sospirò, non l'aveva dimenticato. Nelle settimane precedenti avevano scucito i vecchi abiti pieni di inutili pizzi dei bambini e, con della lana che avevano acquistato, avevano poi fatto dei vestitini caldi per i bimbi poveri di Londra, da distribuire in vista dell'inverno. Non erano molti, per ora solo una ventina di abitini destinati a due grossi ed indigenti nuclei famigliari, poteva portarli da sola facendo una passeggiata ed era attesa. Uscì a malincuore dalla fontana, baciò i gemelli sulla fronte dicendo loro di fare i bravi con Prudie e poi uscì per andare ad asciugarsi, cambiarsi e svolgere le sue commissioni.

"Bada ai gemelli, non lasciarli mai soli se sono in acqua" – raccomandò a Prudie.

"Che vuoi che succeda?".

"Di tutto... Sono piccoli e l'acqua è pericolosa".

Prudie guardò storto i bimbi. "Han più vite di un demone, non preoccuparti anche per questo... Ne hai già troppi di pensieri, ragazza".

Demelza sorrise, grata per averla vicina e per la pazienza avuta nei giorni precedenti quando lo sconforto l'aveva avuta vinta su di lei ed era stata la spalla su cui piangere e sfogarsi. "Grazie".

Prudie annuì, capendo che parlava di Ross. "Se lo vedo, lo prendo a padellate in testa... Ma magari non ha il coraggio di avvicinarsi di nuovo".

"Ci credi, Prudie? Pensi davvero che potrebbe arrendersi così, solo perché gli ho detto di starmi alla larga?".

La domestica sbuffò. "No, ma volevo darti conforto".

"Ci hai provato!". Demelza sorrise, accarezzandole la mano e chiudendo il discorso. "Ciao, a dopo. Ciao bambini!".

"CIAO MAMMA!" - urlarono i gemelli, continuando a giocare nell'acqua.

Sorrise loro e poi tornò in camera per cambiarsi, per la prima volta sentendo un peso ad uscire di casa. L'intento era nobile, era una delle sue cause di lotta nella società londinese e far delle opere di carità rappresentava una delle poche libertà concesse a una donna che voleva impegnarsi nel sociale ma da quel dannato giorno della gara di trotto, era come se avesse paura ad uscire. Ogni passo, ogni via, ogni angolo, poteva riportarla a lui... E non voleva vederlo! O forse, con timore, sì... Per dirgli con fermezza di tornare nell'oblio da cui era venuto.


...


Non era tornato in Cornovaglia, per la chiusura estiva del Parlamento, com'era inizialmente nei suoi propositi. Non poteva, non dopo aver scoperto che Demelza viveva lì, a pochi passi da lui.

Dalla gara di trotto e dalla reazione di paura e rifiuto di Demelza, aveva rimuginato per giorni cercando di trovare una soluzione a quell'assurda situazione.

Demelza non era preparata a un loro incontro, era palese che l'avesse presa di sorpresa e di certo non si aspettava che gli gettasse le braccia al collo, ma non poteva demordere, non poteva arrendersi. Doveva trovare un altro modo, più soft, per giungere a lei senza spaventarla. Anche se poi, sorgeva il secondo problema. Cosa le avrebbe detto? Cosa voleva da lei? Come avrebbe reagito a trovarsi davanti il dannato uomo che aveva sposato? Perché ora, a mente fredda, capiva che un marito c'era, c'erano dei figli e c'era una famiglia potente alle spalle di Demelza che di certo non avrebbe gradito un suo avvicinamento alla madre dei suoi piccoli eredi. Non aveva diritti su Demelza e lei non ne aveva su di lui, erano due estranei, di fatto. Ma due estranei che erano stati marito e moglie, che si erano persi in maniera drammatica e che avevano messo al mondo tre bambini di cui lui era padre e per i quali era uno sconosciuto. Ripensò alla piccola Julia, alla cui nascita era seguito il periodo più sereno e bello della sua vita, a Jeremy che teneva in braccio mentre giocava col suo cavallino di legno e che ora era cresciuto e a sua volta si prendeva cura dei fratelli più piccoli, alla bellissima ed elegante Clowance, con la sua lupa albina Queen. La sua famiglia, avrebbe potuto esserlo ancora, per sempre, se lui... Se lei...

Strinse i pugni, camminando nelle strade afose di Londra. Faceva già un caldo tremendo quella mattina, anche se era ancora presto, ma aveva delle faccende da sbrigare e rimanendo attivo, manteneva attiva anche la sua mente che cercava incessantemente delle soluzioni ai suoi problemi.

Negli ultimi giorni aveva perlustrato le zone più povere di Londra, verificando in prima persona le condizioni disumane di vita della parte più povera della popolazione. Era giunto nella capitale per questo in fondo e non voleva dimenticare la missione che l'aveva portato fin lì. I poveri di Londra erano più poveri e disperati dei poveri della Cornovaglia e la miseria era davvero una piaga terribile in quella città così ricca per pochi e avara di possibilità per molti. C'erano padri di famiglia che non riuscivano a sfamare i figli, madri di famiglia che piangevano neonati morti di stenti che non erano riuscite ad allattare, bambini che iniziavano a lavorare ancor prima di aver compiuto sei anni e miseria, miseria ovunque, assieme a tanta sporcizia che faceva parte della vita quotidiana di quei disperati.

Si recò a visitare il centro di assistenza dei poveri, quella mattina, per verificare cosa si facesse per quella gente e scoprendo, suo malgrado, che né i nobili né il Parlamento avevano alcun merito nella gestione di quel luogo di speranza gestito solo da dame di carità e volontari che raccoglievano quel che potevano per poi distribuirlo ai più bisognosi. Poco, troppo poco per aiutare davvero quella città anche se, di fatto, era davvero ammirato da chi si impegnava per migliorare le cose.

Trovò file di bambini che aspettavano il loro turno per avere un pezzo di pane, donne che distriuivano abitini trovati chissà dove alle loro madri e uomini che discutevano fra loro su dove trovare qualche lavoretto per la giornata.

Ross sospirò, andandonese con il peso della sconfitta sulle spalle. Come poteva, da solo, aiutare quelle persone? Nessuno di chi contava sembrava averle davvero a cuore e lui non era che l'ultimo arrivato, giunto con la baldanza di sfidare regole ormai consolidate da secoli di privilegi a cui nessuno voleva rinunciare.

Col viso basso svoltò in un piccolo vicoletto che lo avrebbe allontanato da quel luogo di miseria quando fu costretto a fermarsi. Davanti a lui, come al matrimonio, per magia comparve Demelza. Sbatté gli occhi, incredulo che fosse davvero lei e sopreso di vederla in un luogo del genere, di cui non faceva ormai più parte. Voleva rivederla, certo! E sembrava essere stato inaspettatamente baciato dal caso e dalla fortuna! Aveva indosso un abito leggero, azzurro, legato in vita da un nastro blu e in testa aveva un cappello di paglia con un nastro anch'esso blu, per proteggersi dal sole. I suoi capelli sembravano umidi e i boccoli le ricadevano dolcemente sulle spalle, dandole l'aspetto di una bambolina. Era incredibile che lei fosse lì e per un attimo, di nuovo, pensò di essere preda di allucinazioni. Ma lo sguardo stupito e perplesso di Demelza era la chiara dimostrazione che non stava sognando. "Demelza?".

Lei, con aria decisamente meno spaventata del giorno alla gara di trotto, parve ricomporsi subito dalla sorpresa di quell'incontro inaspettato. "Che ci fai quì?".

Ross le si avvicinò di alcuni passi, con circospezione. Era meno timorosa di qualche giorno prima ma incredibilmente più fredda. "Dovrei chiederlo a te... Non è luogo per Lady Boscawen, questo".

Demelza si morse il labbro, rendendosi conto che lui conosceva molte cose su di lei. Strinse un pacchetto che aveva fra le mani e poi sospirò. "Vengo quì spesso per portare degli aiuti e sto portando dei vestiti per l'inverno per alcuni bambini".

"Oh...". Era stupito, piacevolmente. Allora non era cambiata proprio del tutto e ancora oggi, anche se in una posizione agiata, non dimenticava chi aveva meno di lei. Questo gli fece piacere e lo riempì di un rinnovato ottimismo. Forse la sua Demelza, quella che aveva combattuto con lui per il bene dei loro minatori ed amici, esisteva ancora e nulla era perso del tutto... "Sono felice di vederti, non sapevo come contattarti e ho bisogno di parlarti".

Lei lo guardò, gelida. "Io non sono altrettanto felice ma in fondo è un bene che ci si sia incontrati in modo così fortuito, oggi. Potremo chiarire alcune cose...".

"Cosa vuoi sapere?" - le chiese.

"Cosa ci fai quì, innanzitutto? E come mi hai trovata? Cosa sai di me? Cosa volevi da me alla gara di trotto? Scusa se ti faccio tutte queste domande ma trovarti alle mie spalle dopo sei anni e mezzo, quì a Londra, è stato un qualcosa che mai mi sarei aspettata".

Era fredda, voleva mantenere le distanze e Ross capiva perfettamente che dietro a tutte quelle domande c'era una chiara volontà di capire per poi agire di conseguenza. Decise di risponderle, con assoluta sincerità. "Sono stato eletto con Lord Basset, alle elezioni per rappresentare la Cornovaglia a Westminster. Sono un membro del Parlamento e...".

"Lord Basset?" - lo interruppe lei, stupita.

"Sì, lo conosci anche tu, l'ho scoperto solo una volta arrivato a Londra, per puro caso. Non sono venuto quì a cercarti, ti ho vista per caso a un matrimonio il mese scorso e Lord Basset mi ha spiegato chi eri... Sono stato a casa tua alcune volte, senza sapere che tu vivessi lì... E poi alcune volte dopo il matrimonio, per...".

"COSA?". Lo sguardo di Demelza si indurì, diventando freddo e rabbioso. "Sei stato a casa mia?".

"Da Lord Falmouth... Mi ha introdotto Lord Basset e spesso sono venuto per discutere di questioni politiche. Ho visto anche i bambini, pur senza sapere, inizialmente, chi fossero".

Gli raccontò del giorno del matrimonio e di cosa fosse successo e Demelza ascoltò con sguardo di pietra, senza mutare mai la sua espressione. Cosa provasse, se fosse sorpresa o arrabbiata, era difficile da decifrare.

"Ora capisco..." - rispose lei, lentamente, in tono piatto.

Ross deglutì, doveva trovare un punto di contatto, un modo per spezzare quella freddezza così inusuale per lei. Era da tanto che non si parlavano ed era come trovarsi davanti a un'estranea. "Era una bambina, allora..." - disse, con voce emozionata, pensando a Clowance.

"Di cosa parli?".

"Di nostra figlia...".

A quella frase, Demelza divenne rabbiosa. "MIA figlia, non tua... I MIEI figli, non i tuoi. E qualsiasi cosa tu abbia visto, qualsiasi cosa tu pensi di essere, dimenticala. Non sono figli tuoi, non sono tua moglie e non voglio che ti avvicini a casa mia. Se vuoi o hai necessità di vedere Lord Falmouth, l'ingresso ai suoi appartamenti è separato dai miei, ragion per cui non c'è motivo che tu mi veda. Per te sono una sconosciuta, non osare dire nulla sul mio conto a Lord Falmouth... Non dire nulla dei bambini... Entra in quella casa quando vuoi se è per politica, lo fanno in tanti... Ma per tutti, io e te non ci conosciamo! Segui questo consiglio e forse andrai d'accordo con Falmouth e non ti farà sbattere fuori casa e dal Parlamento a calci, se sapesse cosa ci hai fatto. Farai un favore a me, ai bambini, a te stesso e a ciò che di buono potresti fare, quì".

Ross parve stupito. Così Lord Falmouth non sapeva nulla del passato di Demelza, di lui e di chi fosse il padre dei bambini che lo chiamavano zio? Che rapporti c'erano in quella casa? Cosa li legava? E chi era e dov'era il nuovo marito di Demelza? "Non ho detto nulla e non lo farò, sta tranquilla! Anche se mi sembra davvero strano che...".

"Ottimo!" - tagliò corto lei, decisa ad andarsene.

Ma Ross la bloccò, correndole vicino e prendendola per il polso. "Fermati! Dobbiamo parlare".

Con uno strattone, lei si liberò. "Di cosa?".

"Dei bambini, di te, di me... Non puoi andartene così! Sei sparita sei anni e mezzo e dannazione, hai idea di quanto io sia stato in ansia per voi? Mai una lettera, un indirizzo, nulla di nulla! Hai idea di cosa ho provato scoprendo come vivi quì, chi sei, che sei sposata? Che hai avuto altri figli, che... che...?".

Demelza lo fulminò con lo sguardo, si voltò verso di lui e lo fronteggiò. "I bambini non sono affar tuo, così come il mio matrimonio e la mia famiglia. Non ho vincoli verso di te, tu non ne hai verso di me e hai una famiglia, mi pare. Quella che hai sempre voluto, quella per cui hai scelto di abbandonarci e di togliere ai bambini il tuo cognome. Lo ricordi? E ora cosa vuoi sindacare? Il tuo orgoglio ti fa andare in bestia all'idea che io e i bambini abbiamo trovato amore e una famiglia altrove? Che loro abbiano trovato un padre? Beh, non so cosa farci, so solo che hai delle persone di cui occuparti e di certo non siamo noi...".

Ross deglutì, i suoi errori passati li conosceva tutti ma sentirseli sbattere in faccia dalla voce di Demelza faceva incredibilmente male. Come poteva spiegarle quanto avesse sofferto, quanto si fosse maledetto, quanto l'amava e quanto aveva pensato a loro? Come poteva dirgli tutto questo e far si che lei ci credesse? "I bambini... I bambini sono sempre stati i MIEI bambini. Mai ho smesso di pensare a loro in questi termini e...".

Demelza fece una risatina sarcastica. "Hai pensato ai bambini? In questi anni?".

Era ironica, lo faceva per ferirlo e ne aveva diritto ma non poteva sfuggire a quella conversazione, anche se dolorosa. "Ogni giorno. A te e a loro".

"Vuoi dire che hai sprecato un pò del tuo prezioso tempo a pensare a una serva e a dei bambini senza nome? Che onore, Ross Poldark...".

Spalancò gli occhi, davvero era questo che pensava di lui? Davvero credeva di essere solo questo ai suoi occhi...? "Non puoi davvero credere a quello che hai appena detto... Non ho mai pensato a te in questi termini... E nemmeno ai bambini. Sono stato un padre pessimo e so di aver fatto molti errori, so di essere stato orribile e... E ho pagato tutto questo, l'ho pagato vivendo l'inferno... Ma vi ho sempre...".

Lei sospirò, imperturbabile, poi lo bloccò prima che finisse la frase. "Sei un uomo di successo, hai sicuramente una bella famiglia e un futuro radioso. Non voglio sapere nulla di te e mi auguro che tu faccia altrettanto con me. Stacci lontano, ti chiedo solo questo, fa che entrambi viviamo serenamente in questa grande città dove non incontrarsi è facile, nonostante questo incontro di stamattina. Ignoraci, fa come se non esistessimo, in fondo non deve essere difficile per te perché è così che hai sempre fatto, anche quando vivevo a Nampara. Ultimi nei tuoi pensieri e nelle tue preoccupazioni... Fallo anche ora, non ho bisogno di te e non ne hanno i miei bambini. Tu hai una nuova vita e io pure e non voglio che tu ne faccia parte".

Gli occhi di Ross presero a pungere. Faceva male vedere quanto Demelza si fosse sentita non amata, trascurata e sola. Era vero, spesso era stato assente con lei, troppo occupato a risolvere i problemi di tutti per pensare a cosa succedeva ai suoi cari, ma era sempre stato convinto che Demelza sapesse che aveva completa fiducia in lei e che per questo sentiva che poteva lasciarla a cavarsela da sola. Ora capiva... Aveva sottovalutato gli effetti delle sue mancanze e sopravvalutato la forza di quella donna sicuramente di valore ma che desiderava anche averlo più vicino e sentirsi amata e protetta, oltre che apprezzata per le sue capacità di massaia e di donna di casa. "Non è come pensi e tu... e i bambini...".

"Non sono i tuoi bambini, non più. O forse, non lo sono mai stati. Di certo non Clowance, mai è stata una Poldark. Per TUA scelta! E Jeremy... Non lo volevi, non lo hai mai voluto e lo hai ampiamente dimostrato. Contava solo Jeoffrey Charles, Jeremy non esisteva e appena hai potuto, te ne sei andato e lo hai abbandonato. Non sei il loro padre, Ross! Non basta andare a letto con una donna e metterla incinta, per esserlo. Essere padre significa sapere qual'è la fiaba preferita dei propri figli, sapere di cosa hanno paura, qual'è il loro cibo preferito, a che età è spuntato il primo dente, avere piacere a stare con loro, a vederli svegliarsi e addormentarsi, a sentirli parlare storpiando le parole... Sono stata, siamo stati solo un diversivo mentre cercavi un modo di tornare con la donna che davvero volevi, tutto quì. Banalmente quì...".

Scosse la testa, disperato. "Demelza, non è così".

"Non importa, non più..." - disse lei, in tono stanco e meno rabbioso. "Sta lontano da noi... Sei un parlamentare, conosci le regole della società e di certo sai chi sono... Odio usare i privilegi che la mia condizione mi ha concesso ma per una volta me ne avvarrò".

"Che vuoi dire?" - chiese, con paura. Demelza gli stava chiudendo ogni possibilità e precludendo ogni speranza.

"Che ho una posizione e un titolo nobiliare superiore ai tuoi. Non hai titolo di rivolgermi la parola, se io non desidero che tu lo faccia. E non lo voglio! Sta lontano da noi, Ross, sta lontano da me e dai bambini. Hai una famiglia tua e io una mia, come ben sai ormai! Fallo, te lo consiglio... Se ti trovo a girare attorno a casa mia, chiamerò le mie guardie e ti farò arrestare. Ed Elizabeth non gradirebbe...".

"Stai bleffando" – rispose, cercando in quegli occhi azzurri un briciolo d'amore che una volta aveva per lui.

"Mettimi alla prova, allora" – rispose lei, glaciale. E poi si voltò, allontanandosi da lui. "Buona giornata e buona fortuna, Ross. Non ho più nulla da dirti" – sussurrò, sparendo velocemente nella via senza dargli modo di ribattere.

E rimase fermo, incapace di fare qualsiasi cosa, in mezzo alla strada, chiedendosi se quello fosse l'inferno che meritava per quello che aveva fatto. Era la moglie di un altro, certo... Lo aveva metabolizzato e aveva trovato un senso a questa cosa comunque dolorosa, ma quel che faceva più male era ciò che pensava di lui, sentirglielo dire, vederla sicura e con la convinzione di non essere mai stata nulla mentre non era vero, per lui era stata tutto.

E ora l'aveva persa... Persa per sempre...

Ross strinse i pugni. Mai si era arreso nella sua vita ma forse, ora, era arrivato il momento di farlo, dopo sei anni in cui dolore e speranza si erano mischiati aiutandolo ad andare avanti. Era finita... Non lo considerava più un marito e un padre, non era nulla per lei ormai, lei che lo aveva così tanto amato una volta, coi suoi pregi e coi suoi mille difetti... Demelza e i bambini erano felici senza di lui e doveva solo accettarlo. Ma come? COME???


...


Demelza tornò a casa con cuore e mente in tumulto. La sua paura di incontrarlo si era inaspettatamente avverata anche se, di fatto, le aveva permesso di dissipare molti dubbi sulla sua presenza a Londra.

Era stata fredda, distante, decisa e sicura nel confronto con lui. Si era imposta di esserlo anche se spesso aveva dovuto far violenza a se stessa per non piangere davanti a Ross, offrendogli uno spiraglio che poteva costarle un attimo di debolezza che poi avrebbe pagato amaramente.

Aveva detto che li aveva pensati... Mai avrebbe creduto possibile una cosa simile e anche se quando lo aveva affermato sembrava sincero e commosso, come credergli? Era un uomo dai nobili natali, di successo, votato a una sicura e brillante carriera e con una famiglia meravigliosa alle spalle, la famiglia che aveva sempre voluto. Come poteva credergli? Che senso avrebbe avuto?

Camminò per i corridoi silenziosi, avvolti dal tepore del riposo del primo pomeriggio. La casa sembrava addormentata e Prudie, dopo aver messo a dormire i gemelli, doveva essere andata a sua volta a fare un pisolino. Arrivò fino alla camera da letto e scoprì, senza esserne troppo sorpresa, che i gemelli non dormivano affatto! Trovò Demian che, seduto in terra e abbracciato a Garrick, sfogliava un libro di Hugh spiegando al cane le figure che vedeva e questo strappò a Demelza un sorriso. Era incredibilmente calmo, segno che quella mattina doveva aver giocato come un pazzo ed era stanco. Prudie doveva averlo lavato, i capelli erano umidi e spettinati e indosso aveva abitini puliti. Daisy sbucò da sotto il letto, correndole incontro. Era ancora mezza nuda come l'aveva lasciata, con indosso solo le mutandine. E anche lei aveva già fatto il bagno e profumava di sapone.

I bimbi le saltarono fra le braccia, contenti di vederla. Anche Daisy, di solito avara di coccole... E Demelza li strinse a se... Erano il suo mondo, la gioia, la pace. La sua pace...

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Capitolo 36
*** Capitolo trentasei ***


Si passò il rossetto sulle labbra, si incipriò il viso e si acconciò i capelli in una perfetta treccia che le ricadeva morbida sulla schiena.

Non era mai stata una donna mondana, la vita notturna di Londra non l'aveva mai attirata e aveva sempre preferito starsene in casa la sera, coi suoi bambini, a meno che qualche ragione di famiglia o di rappresentanza la obbligasse a presenziare a qualche festa o ballo. Anche Hugh era stato così, anche lui aveva cercato di sfuggire a quegli obblighi che poi erano ricaduti su di lei, dopo la sua morte.

Ma quella sera era diverso, non c'erano occasioni ufficiali a cui presenziare, obblighi da assolvere o la pressione insistente di Lord Falmouth che spesso le ripeteva che partecipare alla vita mondana e notturna di Londra era comunque un obbligo a cui ogni gran dama doveva sottostare, quella sera aveva deciso di uscire per se stessa. Si era imposta di farlo, per cercare di liberare la mente dal turbine di emozioni che da un mese la spossavano senza sosta.

Aveva visto Ross due volte, la prima alla gara di trotto e la seconda dieci giorni prima, al centro di assistenza per i poveri, poi da allora più nulla anche se non si illudeva affatto che non lo avrebbe rivisto. Lei e Ross vivevano nello stesso quartiere della città, frequentavano lo stesso ristretto ceto sociale e sicuramente si sarebbero incontrati a qualche festa, ricevimento o occasione ufficiale oppure semplicemente al parco o per le vie del quartiere, mentre passeggiavano o stavano rientrando a casa... E poi... e poi Ross non si sarebbe arreso tanto facilmente, anche sotto minaccia. E, peggio ancora, prima o poi le sarebbe toccato anche vedere Elizabeth e i bambini che aveva messo al mondo con Ross... La meravigliosa, idilliaca famiglia perfetta sempre sognata da lui...

Era troppo e voleva non pensarci!

Due giorni prima Dwight e Caroline, tornati dalla campagna dopo la vacanza con la loro piccola Sophie, erano venuti a farle visita e lei aveva raccontato loro del ritorno di Ross e di quanto scoperto dieci giorni prima.

Caroline aveva reagito con una apparente leggerezza come sempre, dissimulando noncuranza. Adorava quel lato leggero del suo carattere, quella strana malizia che sempre traspariva dai suoi gesti e dalle sue azioni e spesso si era chiesta se l'avrebbe mai riacquistata, dopo la morte di Sarah. Caroline e Dwight avevano passato un periodo orribile dopo la perdita della loro bimba, rischiando di perdersi, nascosti ognuno nel proprio dolore, ma poi l'amore e la pazienza avevano avuto la meglio, avevano imparato che dovevano convivere con quella realtà e a riprendersi per mano per riscrivere un nuovo futuro. E così era arrivata Sophie, bellissima e vezzosa anche se neonata, come la madre... Bionda, paffuta, la regina della salute... Se lo meritavano...

Caroline, dopo il suo racconto, le aveva consigliato di non pensarci, di non temere Ross e di godersi i suoi soldi senza timore, magari sbattendo in faccia al suo ex marito il successo raggiunto con le sue sole forze, se lo avesse rincontrato. Dwight invece era rimasto in silenzio, non aveva proferito parola ed era diventato cupo e pensieroso.

Demelza pensava spesso all'amicizia interrotta fra Dwight e Ross. Le spiaceva, si sentiva in un certo senso in colpa e quando vedeva Dwight aggirarsi come un pesce fuor d'acqua fra i nobili amici londinesi di Caroline, scorgeva in lui il rimpanto di quanto lasciato in Cornovaglia. Dwight era come lei, nulla li avrebbe mai fatti diventare per davvero due nobili di Londra, erano diversi da chi li circondava, per carattere e provenienza sociale, due anime semplici trovatesi per caso in un mondo complesso e pieno di fronzoli. E avevano lasciato il loro cuore lontano anche se entrambi erano consapevoli di non poter più tornare...

Demelza non sapeva cosa pensasse Dwight di Ross, dopo tutti quegli anni. Non parlava mai di lui, non lo nominava e se fosse o meno ancora arrabbiato e deluso nei suoi confronti, era un qualcosa che lui teneva gelosamente per se. L'unica cosa che le aveva detto era di distrarsi, di uscire e di tenere la mente occupata, solo questo...

E lei lo aveva fatto, accettando di uscire quella sera per una passeggiata ai giardini di Vauxhall, luogo che non le era mai piaciuto particolarmente per la mondanità spesso volgare che lo impermeava soprattutto di sera, con le contesse Martine e Fabianne Sandringam. Non erano amiche, le trovava frivole e vuote ma le aveva incontrate spesso nelle occasioni ufficiali dove aveva dovuto presenziare e avendo circa la stessa età, era capitato di fermarsi a parlare con loro che cercavano spesso la sua compagnia ed attenzione. Nobili, felici di esserlo e votate solo ad essere ricche, eleganti ed ammirate, erano quanto di più lontano ci fosse dal modo di essere di Demelza ma forse, per una sera, vivere qualcosa di diverso l'avrebbe distratta.

Aveva accettato l'invito, aveva acquistato un abito all'ultima moda color cipria, scollato sul petto e piuttosto provocante, aveva preso del denaro per giocare con loro a dadi e ora era lì, davanti alla toeletta, a decidere che nastro mettersi in vita.

Sospirò, non era davvero portata per queste cose... Ma qualcuno esperto c'era, nelle vicinanze... "CLOWANCE!!!" - urlò, chiamando la figlia che giocava nella sua cameretta, dall'altro lato del corridoio.

Clowance arrivò di corsa, seguita da Daisy, di nuovo scalza e di nuovo con indosso solo le mutandine.

La figlia più grande la guandò con gli occhi lucidi dall'emozione. "Mamma, finalmente sei pronta per una vera serata londinese! Sei bellissima!".

Sospirò, decisamente meno entusiasta della figlia. Era già pentita di aver accettato di uscire, forse una chiacchierata a casa di Margarita ed Edward sarebbe stata più rilassante e più appropriata. "Che nastro mi metto in vita? Giallo?".

Clowance la guardò malissimo, come se avesse appena pronunciato un'eresia. "Mamma!!! Nastro giallo? Su un abito color cipria? Sei matta?".

Daisy, che si era seduta sul letto, picchiò la manina sul materasso. "Porco Giuda mamma, il giallo sul cipria no!".

Demelza alzò gli occhi al cielo, cercando di ignorare Daisy come le aveva consigliato Dwight, quando diceva le parolacce. "Quindi?".

Clowance si avvicinò al cassetto. "Questo va bene, è bianco e si adatta tantissimo!".

"Grazie amore".

"Prego mamma!" - rispose Daisy, che a dire il vero non aveva fatto nulla.

Demelza la guardò, non così convinta di lasciar cadere il discorso delle parolacce. "Amore? Dove sono le tue scarpe? Te ne ho già comprate tre paia questo mese e Prudie mi ha detto che oggi, mentre la accompagnavi a prendere del pane, sono magicamente sparite mentre era nel negozio e tu stavi fuori ad aspettarla".

"I ladri, ancora..." - disse, fingendosi sconsolata.

Demelza le si avvicinò, mentre Clowance rideva, le si sedette accanto e la fronteggiò. "E' una bugia! Gli stessi ladri della gara di trotto?".

"Forse...".

"Daisy...".

La piccola sospirò. "Li ho dati a una bambina povera. Le piacevano tanto e a me davano fastidio! Fa caldo, meglio senza scarpe! E lei è andata via contenta".

La osservò. Daisy diceva spesso bugie ma stavolta sembrava sincera... "E alla gara di trotto?".

"Le ho lasciate nell'erba, non mi ricordo dove! Ma mamma, correre senza niente fa solletico ai piedi, mi piace!". Anche questa volta era sincera...

Le sorrise, era così dannatamente simile a lei quando era bambina e correva senza sosta fra l'erba della brughiera e in spiaggia, godendo della morbidezza della sabbia sotto i piedi. Non riusciva a sgridarla, non per questo almeno. "Hai fatto una cosa... ABBASTANZA bella...".

"Cosa vuoi dire?" - chiese Clowance, avvicinandosi.

Demelza cercò le parole giuste per spiegare alle bambine il concetto di bontà. "Ecco, Daisy ha fatto contenta una bambina povera che di certo non ha mai avuto i soldi per comprarsi delle scarpe e questa è una bella cosa. Ma gliele ha regalate perché lei non le voleva, non per fare del bene. Capite cosa intendo?".

Le bimbe scossero la testa. "No!".

Le accarezzò sulle testoline bionde. "Ecco... Se quella bambina fosse stata affamata e tu avessi avuto con te, ad esempio, l'ultimo pezzo di cioccolato del mondo, l'ultimo per tutta la tua vita... Glielo avresti dato?".

Daisy si imbronciò. "Giuda, NO!".

Ignorò la parolaccia, ancora. "Ecco, è questa la differenza. Fare del bene, farlo davvero, significa privarsi di qualcosa a cui si tiene tanto per il bene di qualcun altro che ne ha più bisogno di te. Hai fatto bene a dare le scarpe a quella bambina ma il tuo gesto non è stato generoso. Lo hai fatto per fare un favore a te stessa, non a lei".

Daisy sbuffò, non troppo felice di quella spiegazione. "Mamma, ma per metà son stata brava, no?".

"Per metà...".

Daisy sorrise, da furba. "Allora mi devi fare un regalo! Andiamo al negozio che vende gli orsi?".

Demelza rise. "Non esistono negozi così! E non avrai un orso. Ma se sarai brava, questo autunno ti porto allo zoo a vederne uno vero".

"Ma io lo voglio a casa!" - si lamentò la gemellina.

Clowance scosse la testa. "Devi prima regalare il cioccolato a una bambina povera!".

Demelza la guardò, cercando di capire quando Clowance, capricciosa e vanitosa più degli altri figli, avesse capito del discorso fatto pochi minuti prima. "E tu... Tu daresti il tuo vestito preferito a una bambina povera?".

A quella domanda, inaspettatamente Clowance scoppiò a ridere. "Ma mamma, che se ne fa una bambina povera di uno dei miei vestiti? Non sono adatti ai poveri...".

Demelza si rabbuiò. Non amava i princìpi con cui stava crescendo Clowance, non amava il fatto che si credesse spesso superiore agli altri e soprattutto non le faceva piacere constatare quanto stesse diventando egoista e poco sensibile ai problemi di chi aveva meno di lei. Non era così che voleva che crescesse, non erano questi i valori che voleva trasmettere ai suoi bambini! Quel mondo dove vivevano aveva donato a tutti loro infinite possibilità ma li aveva anche allontanati dalla vita vera. Erano dei privilegiati in un mondo composto prevalentemente da gente che aveva sempre fame e Clowance sembrava non volersene preoccupare...

Pensò a Ross, al loro incontro di pochi giorni prima e alle battaglie vissute insieme per rendere il mondo un posto migliore più giusto per tutti. Quanto era cambiata da allora? Quanto aveva dimenticato chi era? Faceva quel che poteva per aiutare i bisognosi di Londra, ma da cos'era dettato questo interesse? Vera pena e dispiacere oppure il tentativo di lavarsi la coscienza per quanto aveva in più rispetto a chi non aveva nulla?

Improvvisamente la sua mente gridava a quelle considerazioni e forse era stato proprio Ross a riaprirle cuore e mente, con la sua comparsa. Lui era lì perché ci credeva, perché davvero voleva migliorare il mondo, aveva sempre lottato per questo e non aveva accettato mai compromessi. Mentre lei... lei quante volte aveva chiuso gli occhi per quieto vivere e perché doveva adattarsi allo stile di vita della famiglia che l'aveva accolta? Stava facendo la morale alle sue bambine ma forse non era migliore di loro... "Clowance, forse a una bambina povera piacerebbe per una volta indossare un abito come il tuo..." - sussurrò, pensando senza volerlo a quella sera in cui mise il vestito azzurro della madre di Ross e scoprì così il sapore dell'amore... Anche lei era stata una bambina povera che sognava di essere una Lady, per una volta... "E se anche non lo volesse per se, vendendo un tuo vestito potrebbe avere denaro per sfamare la sua famiglia per giorni".

Clowance sospirò e Daisy annuì, cogliendo subito la palla al balzo. "Sì Clowance, un tuo vestito fa meglio del mio cioccolato ai bambini poveri. Devi essere generosa!".

Demelza la guardò storto e si alzò dal letto, legandosi il nastro bianco in vita. Stava facendosi tardi e lei doveva uscire ma si ripromise, dal giorno dopo, di cambiare registro ed educazione con i bambini. Lord Falmouth e Lady Alexandra erano meravigliosi ma lei era la madre e lei voleva educarli secondo quelli che erano i suoi princìpi, quelli con cui era cresciuta e che una volta la facevano andare a dormire con la serenità di chi sapeva di aver fatto del proprio meglio. Aveva lasciato correre troppo ed era ora di insegnar loro e ricordare a se stessa le proprie origini.

La porta si aprì e Demian e Jeremy entrarono per salutarla, guardandola a bocca aperta.

"Mamma, però non è giusto" – sbottò Jeremy – "Tu vai ai giardini di Vauxhall e non vuoi che ci vada io, con Gustav!".

"Non è un posto per bambini!" - rispose lei, pensando a quali persone sgradevoli lo frequentassero, soprattutto Adderly, e all'effetto che potevano avere su menti giovani come quella di Jeremy.

"Però tu ti diverti! E a noi ci lasci con Prudie!" - si lamentò Daisy.

Demelza li guardò mentre Demian le si aggrappava alla gonna. "Fate i bravi. E tu..." - disse, prendendo in braccio il gemellino – "Dormi! Non fare capricci quando Prudie ti mette a letto, tornerò presto".

Demian sospirò, stringendosi al suo collo. "Giura!".

"Giuro!" - disse, mettendolo a terra.

Poi li salutò ed uscì, pronta ad affrontare una serata che, di nuovo, l'avrebbe inaspettatamente messa a contatto con quel passato da cui cercava di fuggire.


...


Spesso in quelle sere d'estate, quando era stato costretto a tardare e a cenare fuori, si era fermato ai giardini di Vauxhall, perdendosi nella loro allegria e frenesia. In Cornovaglia non c'era nulla del genere ed era un luogo di perdizione e divertimento dove, con la sua mente in tumulto, amava soffermarsi prima di rientrare.

C'era ogni genere di divertimento, giocolieri e mangiafuoco, donne compiacenti e ammiccanti pronte a regalare qualche ora di piacere ai nobili soli e in cerca di evasione, giochi da tavolo, chiacchiere bevendo del buon vino ai tavolini del bar, giovani, meno giovani e tutta la buona società di Londra che cercava una divertente vita notturna.

Spesso, guardando quelle persone vuote che li frequentavano, Ross si era trovato a disprezzarne la leggerezza e l'apparente noncuranza dei problemi della società che rappresentavano, salvo poi pensare che anche lui era lì e forse anche gli altri cercavano una fuga dai loro problemi, senza far nulla di male.

Ecco, forse gli anni e l'età gli avevano insegnato che niente è solo bianco o nero, ma che esiste anche un'immensa varietà di grigi da conoscere, prima di valutare...

E improvvisamente, passeggiando, la scorse... Lei... lì... In quel posto in fondo tanto estraneo alla sua personalità. "Demelza...".

Non credeva che l'avrebbe rivista lì, i Giardini di Vauxhall erano quanto di più lontano ci fosse da Demelza. O da ciò che lei era... Perché nonostante il rancore e la rabbia da lei espressi verso di lui e la sensazione visiva di quanto fosse diversa dalla donna semplice che ricordava, Demelza non sembrava cambiata nell'animo, non del tutto almeno. Aveva scorto ciò che era una volta vedendola ridere coi bambini o anche al loro incontro al centro di aiuto per i poveri, segno che non aveva dimenticato chi aveva meno di lei.

Era come se ci fossero due Demelza, ora che ci pensava: una semplice, solare e mamma dolce e presente e l'altra ricercata, elegante, senza un capello fuori posto, altera e distante, che sorrideva sempre ma che sembrava a volte sforzarsi di farlo per etichetta e anche, forse, per nascondere i suoi veri sentimenti... Una volta non era così, una volta rideva se era contenta e urlava e piangeva quando era ferita ed arrabbiata, mentre ora...

La guardò, rapito dalla sua bellezza. Se ne stava seduta a un tavolino rotondo, sotto un grosso tiglio, assieme ad altre donne con cui sembrava essere intenta a giocare a dadi. Indossava un abito color cipria con una provocante scollatura sul seno e i suoi capelli, pettinati in una perfetta treccia, ricadevano ordinati sulla sua schiena. Il viso era truccato, le labbra erano rosse e la pelle incipriata.

Era incantevole, molti uomini la guardavano con bramosia, passando. Rideva, incurante di loro, con le sue amiche, illuminata dal chiarore della luna.

Ripensò alla Demelza di Nampara, quella che se faceva tardi lo aspettava alzata con la camicia da notte e i capelli arruffati, sua moglie... Che lo aiutava a togliersi stivali e vestiti, che gli massaggiava il collo e le spalle se era stanco e gli raccontava dei lavori casalinghi che aveva fatto durante il giorno. Pensò alla Demelza che, a letto, al chiarore della candela sul comodino, coccolava dolcemente Jeremy e Julia mentre li allattava, cantando per loro una ninna-nanna. Ripensò a tante cose che aveva amato e forse mai dimostrato di apprezzare appieno e provò nostalgia per quella vita semplice dove erano solo loro due, innamorati e felici di esserlo... Non aveva bisogno d'altro, aveva tutto e non lo aveva capito! Stolto, idiota! E guardando quegli uomini che la ammiravano passando, tutti con l'occhio evidentemente più fine del suo, si chiese come avesse potuto essere tanto cieco da non vedere appieno la grande bellezza in lei e a sottovalutarla rispetto al fascino esercitato da Elizabeth.

Abbassò lo sguardo, allontanandosi da lei. Avrebbe voluto avvicinarsi ma per dirle cosa? Demelza era stata chiara, non voleva avere a che fare con lui e anche se non era intenzionato ad arrendersi, in quei giorni aveva capito che non poteva seguirla e comparirle davanti ad ogni passo ma che necessitava di un piano più elaborato e meno sconvolgente per entrambi. Era difficile essere faccia a faccia, per lei quanto per lui, e doveva rispettare il dolore di Demelza e i suoi tempi se voleva instaurare un rapporto quanto meno civile con lei. Non poteva essere egoista, non più! Comparirle davanti mentre era con le sue amiche era una pessima idea e non voleva farla arrabbiare più di quanto lei già non fosse. Era rientrato nella sua vita sconvolgendo la sua quotidianità e la sua serenità, non preoccupandosi degli effetti che questo poteva avere su di lei, aveva agito di nuovo da egoista come sette anni prima e voleva essere diverso, più maturo, più uomo... Pensare a lei e non solo a se stesso...

Erano estranei ormai, due estranei che si muovevano in un mondo che lei conosceva bene e in cui lui faticava ad arrancare. Doveva darsi tempo, capire le regole di quella città e della società di cui entrambi facevano parte e solo dopo tentare di avvicinarsi. Vivevano accanto a una cerchia ristretta di privilegiati che si contendevano il piccolo spazio ricco della Londra del centro, abitata da nobili e gente altolocata, avrebbero frequentato le stesse persone e le possibilità di incontrarsi sarebbero state tante senza che lui le cercasse, doveva solo avere pazienza.

Passeggiò a lungo mentre il rumore dei giochi dei giardini, della folla, dei cantastorie e dei mangiafuoco allietavano quella calda serata londinese.

Si sedette sulle rive di un laghetto dove per lunghi istanti rimase come incantato a guardare dei bambini che giocavano sul bagnasciuga. Forse avrebbe dovuto portare Valentine con se... Forse, se avesse visto Demelza in quel luogo mentre giocava coi suoi bambini spettinata e chiassosa come una volta, sarebbe stato meno doloroso. Invece i bambini erano a casa, Demelza era in compagnia delle sue amiche dell'alta società e forse avrebbe passato fuori la notte con loro.

Si chiese che razza di persona fosse suo marito? Dov'era? Non lo aveva mai visto né accanto a lei né da Lord Falmouth, ora che ci pensava. Era davvero così aperto di idee da permetterle di uscire la sera, da sola, per divertirsi e fare tardi? Certo, non tutti gli uomini erano gelosi e forse questo Hugh Armitage magari era un uomo moderno che lasciava a sua moglie ogni libertà, ma c'era comunque qualcosa di stonato in quella situazione, qualcosa che gli sfuggiva. Era fuori città in viaggio? Era in viaggio per mare, visto che a quanto sembrava era un tenente di marina? Ora che ci pensava, non era presente nemmeno alle nozze di Lady Margarita dove i suoi due figli, assieme a Jeremy e Clowance, facevano da paggetti e damigelle...

Rimase fermo e immerso in quei pensieri a lungo, estraniandosi da tutto e tutti. E improvvisamente si accorse che era buio del tutto, che i bambini che giocavano a pochi metri da lui se n'erano andati e che i rumori del parco si erano attutiti e rarefatti. Santo cielo, doveva essere tardissimo!

Sospirando, si alzò dall'erba e si avviò verso l'uscita. E contro ogni previsione, la rivide!

Demelza, seduta al tavolo dove l'aveva vista poche ore prima, era rimasta in compagnia di un uomo che, dall'abbigliamento, doveva essere un maggiordomo o un cocchiere. Ora non rideva più e sorseggiava piano del vino, con lo sguardo perso nel vuoto mentre l'uomo, un suo sottoposto probabilmente, aspettava pazientemente che lei decidesse di alzarsi.

C'era ormai poca gente e fu Demelza a notarlo, sollevando lievemente lo sguardo dal bicchiere. “Ross?”.

Sussultò, era meglio che non lo vedesse ma siccome lo aveva notato, lasciò da parte i suoi buoni propositi e d'impulso le si avvicinò, mentre pian piano la gente defluiva all'esterno e le luci si spegnevano. “Demelza”.

Lei lo guardò sospettosa, si morse il labbro e alla fine, abbassando lo sguardo, chiuse gli occhi e bevve in una sorsata tutto il vino che era rimasto nel bicchiere. “Che ci fai qui? Mi segui?”.

Signora, quest'uomo vi importuna?” - chiese l'uomo accanto a lei.

Non preoccuparti Bastian, va tutto bene. Aspettami in carrozza, arriverò subito”.

Sì signora”.

Ross osservò l'uomo andare via lanciandogli occhiate sospettose e infine tornò a fissare lei. “Non ti sto seguendo, tutta Londra viene qui di sera. Ti ho vista anche prima, assieme ad altre donne mentre giocavate a dadi”.

Avevo voglia di perdere del denaro! O di vincerlo...” - rispose lei, freddamente.

Quel tono e quella noncuranza lo irritarono. Era così distante e altera, rigida e controllata, che avrebbe voluto scuoterla per ottenere una reazione. “Devi averne molto, di denaro, per poterti permettere simili passatempi”.

Sì, è così. Problemi, Ross?”.

Se non ne ha tuo marito...” - rispose, sibillino.

L'espressione di Demelza si incrinò a quella frase e con un gesto secco si alzò dal tavolo. Per un attimo parve triste e spersa, senza che Ross ne capisse il motivo. “Mio marito non è affar tuo. Pensa a tua moglie e cerca di evitare di capitarmi fra i piedi”.

Ti ho detto che è solo un caso esserci trovati qui. Londra è grossa ma la parte della città che entrambi frequentiamo è piccola e capiterà spesso di incontrarci. Per puro caso!”.

Lei lo guardò con l'espressione di chi non crede a una parola di quello che gli si dice. “Sì certo. Ma ascolta il mio consiglio, di cuore. I giardini di Vauxhall offrono a un uomo solo molti svaghi e molte opportunità di gioire per una sera, salvo poi pagarne le conseguenze per tutta la vita. Portaci Elizabeth la prossima volta e non rischierai di cadere in tentazione. A una come lei piacerà questa mondanità”.

Ross sussultò. Il tono di voce di Demelza aveva un suono quasi metallico mentre parlava di Elizabeth... Parlava come se fosse ancora viva e quindi lei non sapeva che... Non sapeva nulla della sua vita in quegli anni e di certo non si era premurata di scoprire nulla nemmeno ora che lo aveva rivisto a Londra. Si rese conto, con dolore, che avrebbe voluto che lei si impicciasse perché significava che lui in qualche modo era ancora importante per lei. E invece... “Non lo sai?”.

Cosa?”.

Elizabeth è morta. Di parto, sei anni fa”.

A quella notizia che forse una volta l'avrebbe sconvolta, Demelza si accigliò ma non ebbe altre reazioni e se era rimasta turbata, era molto brava a nasconderlo. “Oh, condoglianze” - disse solo in tono asciutto, cavandosela con quella frase di circostanza.

Ross deglutì. “Ho un figlio, Valentine. Sono solo con lui da allora”.

Lei si scostò una ciocca dalla spalla. “E allora dovresti stare con lui e non qui con me”.

Era strano, si sentiva annientato. La morte di Elizabeth, ciò che era rimasto della sua vita e Valentine non la toccavano più, anche se di fatto anni prima tutto questo aveva distrutto le loro esistenze. Elizabeth e tutto ciò che li aveva divisi in quegli anni non c'era più eppure guardandola, si rese conto che non le importava. Era troppo tardi, era sposata, era felice e si era dimenticata di lui... Divenne freddo, per restituirle quel gelo che lei aveva messo fra loro. “Anche tu hai quattro figli e sei quì”.

Sono accuditi e coccolati. Non preoccuparti, ora torno da loro! Non sono certo io quella che abbandona i suoi figli e su questo argomento non accetto la morale da te. Tornatene a casa Ross, tornatene da quel bambino che HAI SCELTO e che ora ha solo te. Era così importante... Vai, fallo per la tua Elizabeth, ne sarebbe tanto contenta e tu non hai desiderato che la sua felicità”.

Improvvisamente la freddezza divenne risentimento. Rabbia... Dolore... Ross fece per reagire, risponderle, dire qualcosa che forse... forse...

Ma Demelza non gliene diede il tempo. Prese il suo ventaglio dal tavolo e gli voltò le spalle, avviandosi verso i cancelli dell'uscita. “Buona serata Ross” - sussurrò, mentre la sua voce veniva portata via dal vento.


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Capitolo 37
*** Capitolo trentasette ***


Aveva detto a Bastian di far galoppare piano i cavalli mentre in carrozza la riportava a casa, aveva bisogno di rimettere a posto le idee prima di tornare dai suoi bambini.

Era stata una serata orribile, passata in un posto che non faceva per lei e dove si era imposta di andare per dimostrare a se stessa chissà che, aveva giocato a dadi perdendo dei soldi e alla fine, come in un incubo che era destinato a ripetersi, era comparso Ross.

Era inutile scappare, chi viveva vicino ai re e faceva parte del Parlamento, occupava una piccola area di Londra e spesso si sarebbero trovati faccia a faccia, doveva solo trovare la freddezza per affrontarlo e abituarsi al fatto che quegli anni di leggerezza vissuti con Hugh e ora, coi suoi figli, erano finiti.

Si era imposta fermezza, si era ordinata di essere fredda, diretta e di non tentennare e tremare davanti a lui. Ogni suo sentimento doveva essere impenetrabile a Ross e anche a se stessa, non poteva farsi sopraffare.

Lui era sembrato un pò smarrito e meno sicuro di se stesso rispetto ai loro incontri precedenti, non aveva mentito quando aveva detto che si trovava lì per caso, Demelza ancora adesso sapeva leggere le sue vere intenzioni e sapeva in cuor suo che era stato sincero.

Pensò al loro colloquio, tanto freddo e formale, arido e privo di sentimenti, nonostante le rivelazioni che si erano fatti. Era così che lei voleva che fosse ma pensare ai suoi baci, alle risate insieme, alle serate trascorse a Nampara a chiacchierare davanti al camino, ai momenti dolci che c'erano stati prima della catastrofe, sentiva un dolore orribile schiacciarle il cuore. Era nostalgia, era un sotterraneo desiderio che non fosse mai finita, quel desiderio contro cui aveva combattuto per quasi sette anni... E aveva fallito, a quanto sembrava.

Era riuscita ad apparire glaciale e distante, certo, e ora Ross pensava che fosse diventata una donna senza emozioni e senza cuore e se davvero era così, aveva raggiunto il suo obiettivo. Però... Però...


"Elizabeth è morta. Di parto, sei anni e mezzo fa...".


Quella frase, a cui aveva apparentemente reagito con noncuranza e con delle fredde condoglianze, aveva avuto l'effetto di un uragano su di lei. Ogni certezza, ogni sua convinzione che l'aveva accompagnata in quegli anni era caduta e adesso si sentiva spersa e alla deriva.

Elizabeth era morta dando alla luce il bambino di Ross e da donna e madre non poteva non provare pena per lei. Anche se era la donna che avrebbe voluto odiare più di chiunque altro, troppo bella, troppo perfetta, troppo desiderabile per reggere il paragone agli occhi di Ross con lei.

Era morta...

E forse ognuno ha dal destino quello che si merita e forse in quegli anni era riuscita davvero ad odiarla o a provarne comunque compassione per quell'assenza di sentimenti e cuore che avevano portato Elizabeth a schiacciare una donna che aveva solo cercato di farle del bene... Forse ci era riuscita o forse no ad odiarla, ma restava il fatto che la sua morte non l'aveva lasciata indifferente.

Aveva perso Julia per salvare Elizabeth, ma questo non aveva contato, né per Elizabeth né per Ross... Julia era sacrificabile per quel loro amore che mai era morto... Non che Demelza si aspettasse qualcosa in cambio per quanto aveva fatto per Elizabeth e Jeoffrey Charles a discapito di se stessa e Julia, però quel tradimento aveva comunque fatto male...

Si era fidata di Elizabeth, un tempo, pur conoscendo i sentimenti di Ross.

Le aveva fatto delle confidenze sulla gravidanza di Jeremy e lei aveva finto amicizia e vicinanza, ma nel suo animo tramava per portarle via suo marito... E poi, appena aveva potuto, gli aveva strappato Ross in modo subdolo e crudele e lo aveva tenuto con se...

Quanto era stata ingenua, allora...

Quegli anni e quel passato tornavano a galla nelle mente di Demelza mentre tornava a casa, anni di dolore che aveva cercato di dimenticare e di relegare a un'altra vita. E ora erano di nuovo lì, a chiederle il conto stritolando il suo cuore e la sua anima.

Elizabeth era morta e la morte forse cancella tutto, i torti e il bene fatto. E in chi resta, rimane la pena per una donna che mai vedrà crescere suo figlio e mai vivrà l'amore dell'uomo che ha sempre desiderato.

Non avrebbe pianto per lei, no, sarebbe stato troppo. E le condoglianze erano più che sufficienti. Ma non avrebbe nemmeno gioito, nonostante tutto non ne era capace. Era ancora ingenua come allora, dopo tutto...

Pensò a Ross, da solo con un bambino da sei anni e mezzo. Pensò a quanto doveva aver sofferto per la perdita di chi amava, a quanto l'avesse pianta, a quanto si fosse logorato per non essere riuscito a salvarla. Ross era così, non sarebbe mai cambiato e sempre si sarebbe sentito in dovere verso chi amava. Ed Elizabeth era il suo tutto e la sua morte sì, che doveva averlo annientato! Non la sua partenza, non l'aver perso i suoi due bambini, no! Quello era niente per Ross, loro non erano Elizabeth e il fatto che se ne fossero andati era sicuramente stato vissuto come una liberazione. No, per loro non aveva pianto. Ma per Elizabeth sì, doveva averlo fatto e ora, sicuramente, viveva per quel bambino che lei aveva lasciato...

E a quel pensiero, la freddezza e l'autocontrollo che l'avevano contraddistinta in quella serata, crollò. Si accasciò sulla poltrona della carrozza che la portava a casa e pianse. E mentre piangeva per quell'uomo che per lei non aveva versato una lacrima ma che doveva averlo fatto per Elizabeth, capì che Lady Boscawen non poteva nulla contro la Demelza di Nampara, la moglie di Ross.

Era Demelza Poldark che piangeva, quella sera, non Lady Boscawen...


...


Quando arrivò a casa, era ormai passata da un pò la mezzanotte e rimase per alcuni istanti nella carrozza per ricomporsi. Aveva gli occhi arrossati e il viso rigato dal pianto e non voleva che qualcuno si accorgesse che aveva singhiozzato come una bambina, tanto meno i suoi figli.

Si asciugò il viso con un fazzoletto e poi, con passo pesante di chi si sente profondamente stanco, si avviò verso la sua camera. I bimbi dovevano già essere a letto da un bel pò, la casa era avvolta nel silenzio e lei ci si sarebbe rifugiata fino al mattino, elaborando la pesantezza di quella serata di cui non poteva parlare con nessuno e magari, con la luce del sole, tutto gli sarebbe apparso meno difficile...

Bastava mettersi a letto...

Già, il letto!

Peccato che, quando entrò in camera, sussultò spaventata trovandosi i suoi quattro bambini perfettamente svegli, seduti sulle coperte, che la aspettavano facendosi luce con delle candele sul comodino.

Spalancò gli occhi. "Che ci fate quì, ancora svegli?" - chiese, bruscamente.

"Dovevamo chiederti delle cose! E dopo che Prudie ci ha messo a letto, quando si è addormentata anche lei, siamo corsi quì ad aspettarti". Jeremy la osservò attentamente e Demelza ringraziò che la penombra non rendesse evidenti i suoi occhi rossi. "Mamma, come sono?".

"Cosa?".

"I giardini di Vauxhall! Sono fantastici come dicono?".

Demelza si avvicinò loro, sedendosi sul letto. "Non direi... Non mi è piaciuto molto".

"Ma magari a me piacciono!" - insistette il bambino.

Lei gli sorrise stancamente, cercando di procrastinare a una data lontana le prime uscite da solo di Jeremy, in un ambiente che non fosse per bambini. "Lo scoprirai... fra molti anni, temo!".

Clowance le toccò la stoffa del vestito. "Hai incontrato qualche principe che si è innamorato di te?".

Demelza alzò gli occhi al cielo, era quasi crudelmente ironica quella domanda. "No, non direi...".

"Sicura?".

Le sorrise, con sarcasmo. "Sì tesoro, sicura. Mai stata più sicura di qualcosa. E' stata una serata orribile, niente divertimento e niente principe azzurro". Li guardò, osservando i gemelli che sembravano anche loro intenzionati a parlare. "E voi? Che dovete dire?".

Demian incrociò le braccia al petto, imbronciato. "Mamma, lo sapevo che non ti piaceva, visto che io non c'ero! E poi hai detto che tornavi presto e è tardi! Non si dicono le bugie e io ti aspettavo da tanto".

Gli sorrise, chinandosi a baciarlo sulla testolina, pentita di averlo lasciato solo e decisa a non farlo mai più. "Hai ragione, scusa".

"Va bene..." - rispose il bimbo.

E a quel punto, toccava a Daisy. "Tu? Che cosa devi chiedermi?".

Daisy le portò il braccio sotto il naso, facendoglielo odorare. "Senti?".

Demelza annuì. "Profumo di violetta... Come mai?".

Daisy si imbronciò più del fratello. "Dopo cena sono uscita a giocare scalza, visto che le mie scarpe le ha la bambina povera! E la nonna mi ha fatto il bagno, anche se me lo aveva già fatto Prudie! COL SAPONE!!! Due volte in un giorno!".

Demelza rise, forse per la prima volta in quella serata difficile. "Beh, ora capisco! Il sapone alla violetta della nonna... E' prezioso, dovresti esserne contenta!".

Daisy scosse la testa, facendosi calare sul viso i suoi lunghi capelli biondi. "Non mi piace, puzzo di prato adesso! E poi Prudie dice che i bambini troppo puliti si ammalano! Ecco, adesso io mi ammalo e muoio ed è tutta colpa di nonna Alix".

Jeremy, Clowance e Demian si voltarono verso Demelza, preoccupati. Alzò gli occhi al cielo, nuovamente, riflettendo che doveva fare due chiacchiere con Prudie e soprattutto, non lasciare più da soli coi Boscawen i bambini, di sera. "Non ti ammalerai, non ci si ammala a farsi il bagno".

Demian sospirò. "Allora non resto senza la mia gemellina?".

"No".

"Daisy non muore? Non resto solo?".

"No, non muore e resterà con te per tutta la vostra lunghissima vita di gemelli!".

I quattro bambini parvero sollevati da quella spiegazione e a quel punto, Demelza decise che era ora che dormissero. "Su adesso, se avete finito, andate in camera vostra a dormire! E' tardi!".

Demian annuì. "Sì, tutti nel vostro letto, VIA!!!" - ordinò, esibendo una notevole faccia tosta.

I bimbi e Demelza lo guardarono divertiti. "Demian, anche tu avresti un letto" – disse la donna – "Anzi, due! Uno nella nursery e uno in camera con Jeremy" – osservò.

Demian si buttò sul materasso, a pancia in giù. "Domani!" - rispose, come sempre, chiudendo il discorso.

Demelza sorrise, chiedendosi quando sarebbe arrivato questo benedetto 'domani', ma allo stesso tempo grata di averlo vicino. Salutò gli altri tre, li rispedì con un bacio a letto e si coricò, ringraziando Dio di avere quei quattro bambini che sapevano farla sorridere anche quando si sentiva morire.

La manina di Demian la toccò, quando rimasero soli. "Mamma?".

"Dimmi".

"Sei arrabbiata?".

"No, perché?".

Demian si voltò verso di lei, stringendosi al suo ventre. "Perché hai pianto".

Sussultò, come aveva fatto ad accorgersene? "No... Non è vero" – balbettò, rendendosi conto ancora una volta che era difficile nascondere ai propri figli dolore e rabbia, quando li provava. Erano percettivi su queste cose, non riusciva a nascondere nulla quando si trattava di sentimenti e Demian soprattutto, era talmente legato a lei da accorgersi di ogni variazione del suo umore.

"Mamma, però tu dici che non dobbiamo dire le bugie".

"Non ho detto una bugia. E' stata solo una brutta serata, capita quando si è grandi... Passerà!".

Demian la fissò coi suoi occhioni azzurri e trasparenti. "Davvero?".

"Davvero" – rispose, stringendolo a se. Doveva passare per forza e soprattutto, doveva decisamente imparare a gestire meglio i suoi sentimenti per non renderli chiari ai suoi figli. Esattamente come aveva fatto con Ross!


...


Quella mattina Ross si era alzato presto, dopo una notte passata praticamente insonne.

L'incontro fortuito con Demelza ai giardini di Vauxhall gli aveva lasciato un terribile amaro in bocca e non riusciva più a capire cosa fare, cosa dire e soprattutto, chi lei fosse.

L'immagine di quella bellissima e seducente donna dai capelli rossi che giocava a dadi non rifletteva la sua Demelza, quella dei suoi ricordi, quella dal sorriso sincero e dai desideri semplici e genuini. No, gli era apparsa come una donna annoiata, viziata, capricciosa e fredda, come tante altre in quell'ambiente tanto ricco di Londra.

Eppure non ci credeva, anche se lei voleva dimostrarsi fredda e distante, MAI lui l'avrebbe creduta capace di cambiare tanto. Non lei, non quelle come lei con l'anima buona e candida che nemmeno i dolori più grandi potevano macchiare. Nemmeno lui, con tutto il dolore che le aveva arrecato.

Pensando, si era reso conto che aveva sbagliato tutto, dal suo arrivo a Londra. Si era imposto con lei in maniera prepotente e senza considerare la sua vita e i suoi sentimenti, lo aveva fatto senza conoscere nulla della sua nuova famiglia e di come viveva e così non aveva fatto altro che irrigidirla e turbarla, ottenendo il risultato finale visto a Vauxhall.

Eppure Demelza non era così, l'aveva vista alla gara di trotto, da lontano, ridere come una volta coi suoi bambini. E al matrimonio, mentre abbracciava sinceramente commossa la sua amica che si era appena sposata...

Quella era la Demelza vera, quella che non sarebbe mai cambiata, non la donna che per difendersi era diventata fredda e distante ai giardini di Vauxhall, tanto da apparire noncurante anche davanti alla notizia della morte di una donna giovane. Elizabeth aveva fatto molto male a Demelza eppure sapeva che lei non sarebbe mai stata capace di odiarla né tanto meno di gioire della sua scomparsa.

Doveva parlarle, mai si sarebbe arreso, ma doveva cambiare registro e imparare a conoscerla di nuovo per capire come arrivare a lei e al suo cuore. E per farlo, c'era una sola persona che poteva aiutarlo, una persona che le era stata accanto e che conosceva bene entrambi e la loro storia.

"PRUDIE!".

Certo, doveva pensarci prima! Prudie lo conosceva fin da quando era bambino, era stata a Nampara con loro e aveva seguito Demelza a Londra. Lei sapeva tutto, sia di lei che del suo misterioso marito. Da lei avrebbe potuto avere tutte le risposte che cercava!

Non aveva idea di come lo avrebbe accolto e magari si sarebbe beccato anche uno scappellotto ma doveva provare!

Prudie si prendeva cura dei bambini e quindi, quale posto migliore dei giardini di Kensington al pomeriggio, per incontrare una tata?

I suoi figli giocavano la e lei sarebbe stata nei paraggi.

E così, dopo aver sbrigato alcune faccende in Parlamento, si era recato in quel parco pieno di marmocchi ricchi e infiocchettati e bambinaie. Era stato attento a non farsi vedere, a rimanere nell'ombra dietro a siepi e piante, aveva atteso con pazienza e finalmente, dopo le cinque del pomeriggio...

Da sola, col suo passo pesante, era uscita dal portoncino che collegava i giardini al parco privato dei Boscawen e la vide dirigersi a recuperare i bimbi che probabilmente erano lì intorno a giocare.

Si nascose dietro una grossa siepe e quando lei vi passò davanti, uscì dall'ombra, parandosi viso a viso con lei. "Prudie...".

La donna divenne pallida come un fantasma, fece per urlare dallo spavento e lui, prontamente, le coprì la bocca con la mano. "Vuoi far spaventare tutto il parco?".

Prudie indietreggiò, terrorizzata ed evidentemente colta di sorpresa. Beh, non poteva darle torto, in effetti era stata una comparsa ad effetto che poteva farle venire un colpo, dopo quasi sette anni di vuoto...

"Si... Signore... Allora è vero... Giuda, potevate uccidermi?!".

Ross la guardò storto. Eccola, la sua domestica scansafatiche che si era sistemata in una grande ed elegante casa di Londra dove, poteva scommetterci, bivaccava alle spalle dei Boscawen. "Quanto tempo..." - disse, ironicamente.

Prudie deglutì spaventata. "I... Io devo andare. Non posso parlare con voi, la signora, se lo sapesse...".

La prese per il braccio, bloccandola. "Prudie, ti prego! Se sono quì, è perché ho bisogno di te e del tuo aiuto".

Prudie scosse la testa. "No no, io so che cosa volete e no! Lasciatemi in pace, LASCIATECI in pace! La signora mi uccide, se lo sa!".

"Prudie!".

Veloce come un gatto e insolitamente agile nonostante la stazza, Prudie schizzò via alla velocità della luce, riuscendo a sfuggirgli.

Prudie, aspetta!”. Le corse dietro, deciso a non perderla di vista.

La domestica accelerò il passo, diventando rossa dallo sforzo e dallo shock di ritrovarselo davanti dopo tutti quegli anni. “Ho fretta” - balbettò, mentre lui la superava e le serrava la strada.

Solo un attimo”.

Prudie si bloccò, guardandosi in giro furtiva. “La signora mi ha detto che eravate in città ma non vuole vedervi e avere a che fare con voi. E la cosa include me e i bambini. Andate via, prima che qualcuno ci veda! Datemi retta, almeno una volta! O siete rimasto il caprone testardo di allora?”.

Ross scosse la testa, per nulla intenzionato ad arrendersi. “Ho solo bisogno di fare alcune domande, di avere delle risposte, ho bisogno di sapere qualcosa dei bambini e di Demelza e tu sei l'unica che...”.

La signora mi ha detto che li avete visti da Lord Falmouth e che sapete del suo matrimonio con il Tenente Armitage e dei gemellini. Sapete tutto e io devo andare a riprendere i bambini”.

Ross spalancò gli occhi, guardandosi in giro. “Sono qui? Dove?”.

Prudie sbuffò. “Certo, tutti i mocciosi aristocratici di Londra giocano qui, ai giardini di Kensington. I bambini ci vengono da soli, il giardino del loro palazzo confina direttamente col parco e vanno e vengono da un cancello sorvegliato dalle guardie di famiglia. Vengono a giocare qui tutti i giorni e io di solito li vengo a riprendere prima di cena”.

Dove sono?” - richiese.

Prudie si adombrò. “Signore, state lontano da loro e da Demelza. Voi non c'entrate più niente con loro, non vi appartengono più e sono felici. Lo è anche la signora e voi non volete farle del male, vero?”.

Certo che no!” - rispose, piccato, capendo che Prudie parlava anche per il suo bene ma comunque deciso a non arrendersi. Sarebbe stato difficile per tutto ma anche Prudie lo sapeva, che lui e Demelza dovevano parlare. “Non voglio farle del male... Non più”.

Prudie gli toccò gentilmente il braccio. “Ma gliene fate, ogni volta che la incontrate o cercate di vederla. Me lo ha raccontato... Lei ora è serena ma ha pianto tanto in passato e io c'ero e la vedevo. Merita di stare tranquilla e lo meritano anche i bambini. Loro hanno una nuova vita, un nuovo nome, due nuovi fratellini. E sono creature di Londra, non appartengono più alla Cornovaglia e a Nampara”.

Ross si adombrò, faceva male sentire quelle cose anche se di fatto, avendo visto i suoi figli nella casa di Lord Falmouth, in cuor suo già lo sapeva. “Posso chiederti solo una cosa?”.

Cosa?”.

Lo ha sposato per amore, come dicono in giro?”.

Prudie deglutì, fece per rispondere ma fu interrotta dall'arrivo delle due bambine.

Ross sussultò. Eccola, sua figlia, quella che non aveva mai preso in braccio e che per anni non aveva avuto nei suoi ricordi nemmeno un volto. Bellissima, coi lunghi capelli biondi pettinati in morbidi e perfetti boccoli tenuti a bada da un nastro azzurro come il suo vestito di pizzo. Era linda e pulita come se fosse appena uscita da Messa o da una lezione con un precettore e non sembrava reduce da un pomeriggio di giochi all'aperto. Aveva un'espressione arrabbiata e stizzita e la sua camminata era nervosa, furente. E pareva aver pianto... Dietro di lei c'era la bimba più piccola che, a differenza della sorella, aveva i lunghissimi capelli biondi tutti scompigliati e sparsi anche davanti al viso, era sporca di fango e il suo abitino rosa era chiazzato di terra e strappato in alcuni punti. Sembrava una monella di quelle che vedeva attorno alle miniere, che aspettavano il ritorno dei loro padri dal turno di lavoro, piuttosto che una piccola lady di Londra.

Prudie gli fece cenno di non fiatare e poi si rivolse a Clowance. “Che è successo? Come mai quegli occhi rossi?”.

La bambina picchiò il piedino per terra, furente. “Io lo odio!”.

Chi?” - chiese Prudie, per niente turbata e forse abituata a quel tipo di scene che invece a Ross sembravano così estranee e fuori dal mondo. Ma in fondo, di che si stupiva? Non conosceva Clowance, non conosceva più Jeremy e non aveva idea di come fosse il loro mondo.

Jeremy!” - sbottò la bambina.

Avete litigato?”.

Sì, non vuole fare quello che gli dico”.

Improvvisamente, arrivò una terza bambina dai capelli biondo rame, tutta piena di pizzi e fiocchi, anche lei in lacrime. “Sono disperata!” - borbottò, rivolgendosi a Prudie fra i singhiozzi.

La donna alzò gli occhi al cielo. “Sei di nuovo zitella, Catherine? Jeremy ti ha dato buca ancora?”.

A quella domanda posta senza tatto e mezzi termini, la piccola scoppiò a piangere ancora più forte, correndo via verso quella che doveva essere la sua bambinaia.

Ross si grattò il mento, pensieroso. Quella Catherine, tolto l'abito pacchiano e i mille fiocchi, era davvero una bella bambina e suo figlio in fatto di donne era un idiota quanto lo era stato lui...

Clowance calciò un sassolino, frustrata. “Jeremy è orribile, non vuole fidanzarsi con lei e sposarla! E così io non posso diventare come una sorella per la mia migliore amica!”.

Prudie borbottò qualche parolaccia incomprensibile, poi sbuffò rumorosamente. “Dov'è Jeremy? E Demian?”.

Clowance fece un cenno col capo, indicando un grande tiglio poco lontano. “Si è arrampicato la sopra. Lascialo lì, su in alto, per sempre!”.

Giuda, come arrampicato? E Demian?”.

Clowance alzò le spalle. “Visto che si è arrampicato Jeremy, è salito sull'albero anche lui”.

La domestica sospirò. “Vado a riprenderli, tu va a casa”.

La bambina tirò su col naso, trattenendo le lacrime. “Sì, vado a casa e mi chiudo in camera mia a piangere per sempre! Per colpa di Jeremy la mia vita è distrutta”.

Ross spalancò gli occhi e per un attimo faticò a credere di essere il padre di quella bambina di sei anni tanto elegante, che si esprimeva in maniera così melodrammatica e che pareva piuttosto portata ai toni plateali. Si fece mille domande sui rapporti fra i bambini, su quel mondo patinato dove a sei anni pensavi già a fidanzarti, sulle dinamiche che animavano quei gruppetti di piccoli aristocratici che scorrazzavano nel prato e si domandò se intervenire. E poi, intervenire? Come? Clowance non lo aveva degnato di uno sguardo ed era normale così, per lei lui non era che un estraneo qualsiasi e di certo non poteva subentrare in quella lite fra bambini come avrebbe potuto fare da padre, a Nampara, se fossero cresciuti con lui.

Prudie le diede una leggera spintarella. “Su, va a casa e piangi in camera tua fino all'ora di cena. Poi vedi di ricomporti e di scendere a mangiare o ci penserà tua madre a farti sentire davvero disperata”.

Clowance annuì, poi corse via.

Prudie osservò la bambina più piccola. “Mi spieghi perché tua sorella sembra uscita da una boutique e tu da una palude? Guarda come sei sporca”.

Daisy alzò le spalle. “Non lo so”.

Non toccarti la faccia con quelle mani sporche di terra, mi raccomando!”.

A quella imposizione di Prudie, la bimba fece un sorrisetto malizioso e furbo, dimostrando un'intelligenza e una voglia di provocare inusuale per una mocciosetta di tre anni. E prima che la donna potesse fermarla, si diede due sonore pacche sulle guance, sporcandosi il viso e scoppiando a ridere compiaciuta di essere riuscita a disubbidire. “Guarda, adesso sembro un brigante!”.

Giuda, piccola bestiolina demoniaca!” - urlò Prudie, prendendola per il polso e dandole una sculacciata sul sederino che, invece di farla piangere, la fece ridere più forte.

Giuda, mi hai fatto diventare rosso il culetto!” - gridò Daisy, imitando la voce di Prudie. “Ma tanto non mi hai fatto niente!”.

Ross rimase perplesso ad osservare quella piccola bambina selvaggia e gli venne da ridere, nonostante tutto. L'aveva già vista all'opera alcune volte, assieme al suo degno, biondo gemellino, ed era rimasto impressionato dalla vivacità e dalla scaltrezza di quei due che tutto sembravano, eccetto che piccoli lord destinati a guidare l'aristocrazia di Londra, un giorno. Ci vedeva Demelza in loro, la Demelza che aveva conosciuto alla fiera di Redruth tanti anni prima. Non aveva idea di che tipo fosse il loro padre ma di certo, a parte il faccino angelico e i capelli biondissimi, avevano preso tutto dalla loro madre.

Prudie intercettò il suo sguardo divertito e ringhiò fra i denti. “Come vedete, ho da fare! Ho una bambina che piange disperata in camera, un'altra che vorrei affogare nel laghetto e due bambini da recuperare dalla cima di un albero. Non c'è davvero posto nel mio pomeriggio per voi, signore”.

Ross deglutì ma Prudie non gli diede tempo di dire altro. La donna si voltò verso la piccola, con sguardo severo. “Segui il percorso fatto da tua sorella e torna a casa. Dritta a casa!”.

Sì”.

Subito”.

Subitissimo!” - rispose Daisy, con un sorriso birichino sul viso che non faceva presagire niente di buono.

Prudie sospirò, arrendendosi all'idea che doveva portarla con se. La riprese per mano, la trascinò via e lo sorpassò, lasciando Ross solo, in mezzo al parco, circondato da mille bambini e bambinaie che correvano ovunque. “Buona serata, signore. A voi e alla vostra famiglia”.

Ross fece per dirle qualcosa ma la donna era già lontana e poté solo sentirla chiedere a Daisy maggiori delucidazioni sul litigio dei fratelli, sulle cui cause la bimba mantenne il massimo riserbo dicendo che non sapeva nulla. E Ross ebbe l'assoluta certezza che la piccola peste stesse nuovamente mentendo...

Ad un certo punto, mentre Prudie la trascinava via, la bimba si voltò verso di lui e per un attimo pensò che volesse salutarlo. Ma non era niente del genere, ovviamente. Lo guardò, lo studiò per un attimo e poi, con una sfacciataggine incredibile, gli fece la linguaccia. E Prudie, prontamente, le diede un'altra sculacciata sul sedere, spingendola avanti con fare non molto materno. “Va a dire a quei due disgraziati sull'albero di scendere e di correre a casa, prima che scaldi anche i loro, di sederi!”.

Daisy capì che era meglio filar via e Prudie, inaspettatamente, si voltò verso di lui. “Domattina, alle nove, quì...”.

Ross sussultò. “Cosa?”.

Prudie si guardò in giro guardinga. “Al mattino, mentre Jeremy e Clowance studiano, la signora esce con la suocera per delle commissioni e io porto i gemelli qui al parco per farli giocare, in modo che non disturbino le lezioni dei due più grandi. Saremo soli, al mattino qui c'è poca gente... Distraggo i due mocciosi, li sguinzaglio per il parco e vi parlerò, per quel che potrò. Ma non ditelo a nessuno... E davanti ai gemelli, attento a come fate e a cosa dite. Non ci conosciamo, VA BENE?”.

Ross sospirò, quanto era sospettosa! “Son solo due bambini piccoli, che vuoi che capiscano?”.

Prudie lo guardò storto. “Sono malefici, bisogna stare attenti, notano TUTTO!”.

Ross capì che doveva fare come diceva lei e annuì, talmente grato che l'avrebbe abbracciata e baciata, se avesse potuto. “Domattina alle nove” - sussurrò.

Prudie lo guardò con sguardo severo, forse non così sicura che stesse facendo bene. E poi sparì, correndo dietro alla gemellina.



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Capitolo 38
*** Capitolo trentotto ***


Quella notte, Ross non era riuscito a chiudere occhio. Mai nella vita, avrebbe pensato che un appuntamento con Prudie potesse portarlo a tanta agitazione ed era ironico pensare che quella donna schietta, una serva figlia del popolo e poco propensa a lavorare, fosse l’unico suo appiglio per sfiorare e accarezzare ciò che era rimasto della sua famiglia.

Al mattino si era svegliato prima dell’alba, con grande sorpresa dei Gimlet che, probabilmente, lo avevano sentito girarsi e rigirarsi nel letto tutta notte, aveva fatto una colazione veloce mugugnando che aveva impegni urgenti per quella mattina, dato disposizioni sulla giornata di Valentine, salutato il bimbo ancora mezzo addormentato ed era uscito subito, arrivando ai giardini di Kensington ben prima dell’ora concordata per l’incontro.

I giardini erano deserti a quell’ora e il cinguettio degli uccelli che volavano fra i rami degli alberi donavano un piacevole senso di pace ai suoi sensi annebbiati dall’ansia. Gli scoiattoli correvano sui tronchi, giocavano ad inseguirsi e sgranocchiavano ghiande e Ross si fermò a guardare le piante rigogliose, i vialetti, le panchine e tutti gli angoli e gli anfratti che i suoi figli dovevano conoscere come le loro tasche. Si chiese su quale albero si fosse arrampicato Jeremy il giorno prima, perché non gli piacesse la graziosa Catherine, perché Clowance ce l’avesse tanto con lui, quali fossero i loro giochi preferiti, i loro gusti a tavola, le loro abitudini, tutto… Non sapeva nulla di loro, assolutamente niente e su questo Demelza aveva ragione, un padre queste cose le sa…

Arrivarono le nove e le aspettò seduto su una panchina posta nel punto dove aveva fermato Prudie il giorno prima, da cui si vedeva il retro dell’enorme palazzo dei Boscawen. Lei, la sua Demelza era lì, dietro quelle possenti mura, magari fra le braccia del suo nuovo marito che forse la stava baciando, con cui forse… Tremò dalla rabbia e dalla gelosia, capendo che non poteva pensarci, non doveva o sarebbe impazzito! Sembrava tanto felice Demelza prima di incontrare lui mentre dopo, solo freddo e amarezza erano giunti da lei…

Non lo voleva a Londra, era palese che lei non lo volesse nella sua vita e aveva ragione a desiderarlo ma non poteva esaudirla, non in questo, non dopo sei anni e mezzo passati a prendere a testate il muro per la preoccupazione di cosa ne fosse stato di lei e dei loro bambini.

Cosa doveva fare? Lottare per lei? O semplicemente accertarsi che stesse davvero bene con chi la amava e amava i bambini, lasciando che poi vivessero la loro vita senza di lui? Non lo sapeva, non sapeva più nulla se non che aveva fatto mille errori e ora ne pagava amaramente le conseguenze. E l’avrebbe fatto per tutta la vita.

Cosa aveva buttato via per uno stupido sogno? Quante promesse aveva infranto nel più crudele dei modi? Quante volte aveva avuto l’occasione di fermarsi e porre rimedio ai suoi errori e poi non lo aveva fatto?

Se n’erano andati, lo avevano lasciato alla sua vita fatta di sogni infantili e vuoti e ora c’era un uomo che i suoi bambini chiamavano papà e che in quel momento amava in ogni modo possibile la donna che per lui era tutto.

Un vociare infantile lo destò dai suoi pensieri e dal fondo del vialetto vide comparire Prudie coi due gemellini. Il maschietto correva davanti, con dei pantaloncini blu e una camicina di lino bianca, inseguendo uno scoiattolo che cercava di scappare dalle sue grinfie e la bambina, pettinata con due lunghe treccine e con indosso un vestitino rosso, saltellava tutta contenta accanto a Prudie che, dalla faccia, sembrava desiderare solo di trovarsi ancora a letto.

Appena la donna lo vide, gli fece un cenno impercettibile di saluto col viso, chiedendogli silenziosamente di non parlare finché ci fossero stati i bambini.

Ross annuì e abbassò il viso, fingendo di leggere un giornale che aveva portato con se per passare inosservato. Finse di ignorarli anche se, con la coda dell’occhio, osservò i gemellini. Erano impietosamente belli, due piccoli capolavori di cui sicuramente i Boscawen andavano fieri anche per l’eccezionalità di un parto gemellare, cosa piuttosto rara che destava scalpore e curiosità e che doveva averli resi ancora più celebri. Dovevano essere l’orgoglio del loro padre, pensò amaramente… E anche di Demelza…

Prudie rallentò il passo e la piccola Daisy si guardò attorno per vedere cosa fare quando, a sorpresa, si voltò verso di lui, indicandolo con l’indice della mano destra. “Tu c’eri anche ieri, signore!”.

Ross sussultò, Prudie spalancò gli occhi e per un attimo calò un silenzio glaciale. Era vero, a quei due mocciosi non sfuggiva nulla, dannazione!!!

Prudie la prese frettolosamente per la mano, cercando di distrarla. “Non essere maleducata e non importunare il signore! Abita qui, probabilmente! E gli piace passeggiare al parco! Su, andate a giocare!” – ordinò loro, sbrigativamente.

Daisy si mise le mani sui fianchi, per nulla d’accordo. “No, voglio stare qui!”.

Ross deglutì, si metteva male e in cuor suo sperò che Prudie potesse liberarsi di loro in fretta.

La donna indicò ai bimbi un cespuglio con dei fiori. “Volete fare un regalo a Prudie che vi vuole tanto bene?”.

NO!” – risposero i gemelli, in coro.

Non volete far contenta la vostra Prudie raccogliendo per lei dei fiori?”.

NO!”.

La donna li fulminò con lo sguardo e Daisy sostenne le sue occhiatacce. “Sono la i fiori, prendili da sola!”.

Ross alzò un sopracciglio, cominciando a inquadrare ancora meglio il caratterino dei due mostriciattoli. Ciò che dicevano le leggende su quanto fossero terribili i gemelli, era vero… Guardò Prudie, sperando avesse una soluzione.

E lei sospirò, sedendosi sulla panca pesantemente, anche se dallo sguardo avrebbe voluto mangiarseli, quei due. “Andate, giocate, fate quel che volete! Ma sparite!”.

Demian, il maschietto che a Ross sembrava un bambolotto, prese la parola, dimostrandosi non meno sveglio della sorella. “Cosa devi fare di nascosto, che non ci vuoi?”. No, decisamente non era un bambolotto nemmeno lui...

Prudie ringhiò. “Siete troppo rumorosi, andate a giocare lontano e fatemi dormicchiare un po’ ancora! E fate leggere il giornale a questo povero signore! Siete autorizzati a fare tutto quello che volete, basta che ve ne andiate!”.

Demian sorrise. “Posso salire sugli alberi?”.

Sì, scalali TUTTI!”.

Ohhh, bello!”.

Daisy alzò le spalle. “Tutto, tutto? Possiamo davvero fare tutto quel che vogliamo?”.

Sì” – rispose Prudie, d’istinto. Ma poi si bloccò, saggiamente, rettificando… “Tutto quello che NON mi farebbe arrabbiare. Ti scaldo di nuovo il sedere prima di mezzogiorno se fai disastri, ricordatelo!”.

Daisy annuì, imitata da Demian, poi però tornò a guardare Ross. “Signore?”.

Lui deglutì, era la prima volta che si rivolgevano a lui. “Sì?”.

Prudie è nostra, non tua!” – lo ammonì, dimostrando che non si era per niente bevuta la balla del giornale.

Me lo ricorderò…” – fu costretto a rispondere.

A quelle parole, i gemelli si guardarono in modo furbo, risero e poi finalmente corsero via.

Ross si accasciò sulla panchina. “Mai visti dei gemelli, prima d’ora!”.

E Prudie lo guardò di sbieco, borbottando. “Certa gente ha delle fortune che non si merita!”.

Ross azzardò un timido sorriso, abbassando lo sguardo. Era così strano trovarsi a parlare con Prudie dopo tanto tempo... Sapeva di casa, di cose antiche, di ricordi di famiglia che aveva perso e cancellato da anni di dolore e solitudine. "Ti ringrazio per essere venuta, non ero così sicuro di trovarti quì stamattina".

La donna sospirò, guardandolo con aria severa. "Non ci ho dormito per questa cosa, tutta notte! Ero indecisa se venire in pace o con un martello da darvi in testa, ma poi col martello non sarei passata inosservata e ho lasciato perdere! Non sono così certa di far bene a stare quì e mi sembra di tradire la fiducia della signora".

"Non voglio che tu lo faccia e nessuno saprà mai che ci siamo visti" – la tranquillizzò.

Prudie indicò i bambini che, correndo, si stavano allontanando. "Lo sapranno loro! E loro sono pericolosi".

"Sono solo due bambinetti... Tremendi, ma pur sempre bambini".

Prudie alzò un sopracciglio. "Non sottovalutateli, notano tutto e non si lasciano fregare tanto facilmente".

Ross sospirò. "Beh, allora forse dovremmo fare in fretta".

Prudie annuì. "Cosa volete sapere? La signora mi ha detto di avervi visto alla gara di trotto e al centro di aiuto ai poveri e ne era davvero sconvolta. Lo sono stata anche io, non credevo che vi avremmo rivisto e ci ho pensato per giorni. Ieri mi avete spaventato ma lo sapevo che mi sareste comparso davanti come uno spettro, prima o poi, io vi conosco e siete peggio di un cane che fiuta una preda, quando ne trovate una!".

Ross sorrise amaramente, era decisamente schietta come la ricordava. "Cosa voglio sapere? Tutto! Tutto quello che puoi dirmi, perché Demelza non mi ha detto nulla... L'ho vista anche l'altra sera, ai giardini di Vauxhall, da sola. Non te l'ha detto?".

Prudie spalancò gli occhi, non se lo aspettava. "No, questo no".

Ross parve sorpreso ma poi capì che forse Demelza, che in quell'incontro aveva scoperto cose che lo riguardavano e che le erano sconosciute, avesse avuto bisogno di tempo per analizzare quanto aveva appreso, con calma, prima di parlarne. Era cambiata, era meno irruenta e forse aveva imparato a ponderare azioni e parole, negli anni... "Beh non importa" – concluse. "Dimmi solo qualcosa di lei, dei bambini, di suo marito... Io frequento Lord Falmouth ma ovviamente non mi azzardo a chiedere a lui e Demelza non vuole parlarmi, ma io DEVO sapere! Lo capisci? Non posso far finta di nulla, dopo aver rivisto mia moglie e i miei bambini".

Prudie si accigliò. "La signora non è più vostra moglie e i bambini portano un cognome che non è Poldark! Avete deciso che non volevate più avere a che fare con loro e hanno iniziato una vita quì".

Ross parve ferito da quelle parole di certo vere in chi lo aveva conosciuto sette anni prima ma che non corrispondevano a verità nel suo cuore. Mai! "Non ho mai desiderato questo e tu lo sai, Prudie... Mi conosci...".

"Credevo di conoscervi! Ma poi avete abbandonato la signora e il bambino e siete diventato come tanti altri uomini, egoista e crudele con chi più vi amava...".

Ross abbassò lo sguardo, ripensando a quei mesi terribili dove non solo aveva perso la sua famiglia ma soprattutto se stesso e il rispetto per l'uomo che voleva essere e non era stato. "Ho commesso molti errori, sono stato egoista, idiota e non ho saputo apprezzare ciò che avevo. Credevo di avere diritto a qualcosa che non era più mio, solo perché lo avevo desiderato tanti anni prima ed era tornato libero. Qualcosa che ai miei occhi appariva come puro, candido, liscio e senza problemi, qualcosa che mi attirava perché mi allontanava dai disastri della Wheal Grace, dai problemi di denaro, dal dolore per Julia... Quando Francis morì, improvvisamente ero di nuovo io il mondo di Elizabeth, quello che poteva salvarla e diventare di nuovo un principe ai suoi occhi... Non mi rendevo conto di quanto lei fosse cambiata e soprattutto io. Non ero più un ragazzino ribelle e sognatore, ero un marito e un padre ma non lo vedevo, non ci riuscivo più... Avevo smarrito me stesso ma mai, MAI ho agito con la consapevolezza di far del male a Demelza. Pensavo che avrebbe capito, accettato, che avrebbe aspettato che tutto finisse perché SAREBBE finito, in cuor mio sapevo che prima o poi avrei capito e sarei tornato ad essere l'uomo che ero diventato e non il ragazzino che ero stato. Io non volevo finisse così, non mi rendevo conto di quanto gravi fossero le mie azioni e i miei comportamenti! Non pensavo di cadere tanto in basso quella notte, non volevo fare del male a Demelza e non desideravo certo che ne uscissero conseguenze tanto gravi. Ero fuori di me! Sono stato idiota e meschino, hai ragione! Ma mi conosco e se non avessi toccato con mano il fondo, se non avessi visto coi miei occhi che ciò che credevo perfetto era solo un'effimera illusione, non avrei mai smesso di inseguire quel sogno che mi aveva ricatturato dopo le morti di Julia e Francis... Il problema era che, quando ho capito, il destino mi ha chiesto il conto dei miei errori. Ma ho sbagliato, tentando di fare la cosa più giusta, ho finito per fare la scelta più infelice... Ho scelto di prendermi le responsabilità dei miei errori verso la donna a cui, col mio gesto, avrei rovinato la vita, ho scelto con la mente ma non con il cuore, ho scelto credendo di fare ciò che doveva essere fatto. Credevo di salvare lei e di potermi prendere cura di Demelza ma non ce l'ho fatta, era palese che non potevo riuscirci... Ho sbagliato, avrei dovuto difendere e proteggere la mia famiglia e avrei dovuto farlo da ben prima di quella notte terribile in cui ho distrutto tutto, avrei dovuto farlo fin da quando ho deciso di sposarmi... Demelza e i bambini dovevano essere al primo posto e nessun altro. L'ho capito quando era troppo tardi e avevo perso tutto".

Prudie, silenziosa, era rimasta ad ascoltarlo senza fiatare. "Beh, non tutto... Ora avrete una bella famiglia con quella gattamorta là, di Trenwith".

Ross sospirò. Già, se Demelza non gli aveva parlato del loro incontro a Vauxhall, Prudie non poteva sapere cos'era successo in Cornovaglia. "Elizabeth è morta di parto, ho solo un figlio che ora ha sei anni ed è quì con me a Londra. Demelza lo sa, gliel'ho detto io quando l'ho vista l'altra sera".

"Oh...". Prudie abbassò lo sguardo. "La gattamorta è morta...? Non lo avrei mai creduto possibile, la credevo immortale visto il potere che aveva su di voi. Siete vedovo...".

Il potere che aveva su di lui... Ross deglutì, rendendosi conto di quanto palese fosse agli occhi degli altri la sua adorazione per Elizabeth e quanto, negli anni, questo avesse fatto soffrire Demelza senza che lui ci facesse caso. Ripensò alla sua freddezza e all'amarezza degli incontri londinesi con lei e si rese conto che quel comportamento tanto inusuale e distaccato ne erano la naturale conseguenza, la reazione di una donna che cercava di difendersi da nuovo dolore. "Vedovo, sì... Anche se, a dire il vero, Elizabeth l'ho lasciata quel giorno, quando ve ne siete andate. Non vivevo con lei quando è morta, non mi sento un vedovo e non mi sono mai sentito suo marito, quel matrimonio è stato una pura e semplice formalità. Ricordo solo di avervi cercato nella neve, a lungo. E di essere tornato a Nampara distrutto, quella sera stessa. E da allora vivo lì, con mio figlio. Sono tornato a Trenwith solo quando mi hanno chiamato per dirmi che Elizabeth stava partorendo e le cose andavano male...".

Prudie parve sorpresa da quelle parole e da quella realtà che mai avrebbe potuto immaginare. "Come mai l'avete lasciata? La adoravate...".

"Elizabeth?".

"Sì".

Lui sospirò, pensando a quanto in fretta il sogno idilliaco si fosse trasformato in un incubo. "Era la donna ideale dei miei sogni di ragazzo, vedevo in lei ciò che non c'era e volevo vedere. Non eravamo fatti per stare insieme, la nostra unione è stata forzata dagli eventi ed è stato un inferno. Fisicamente ero a Trenwith ma con la mente e il cuore ero a Nampara, avrei voluto solo essere con voi... Non venni a vedere Clowance perché sapevo che non sarei riuscito più ad andar via e ormai non potevo più permettermelo. E' stato l'errore più grande che io abbia mai fatto, avevo promesso di esserci sempre per i bambini... Li amo Prudie, almeno tu riesci a credermi?".

Prudie gli diede un buffetto sul braccio. "Sarò stolta e pazza ma sì, vi credo... Ma è tardi adesso e l'amore a volte si dimostra con la rinuncia... Fate del male alla signora, ora... E' serena, aveva riacquistato tranquillità e ha una famiglia che l'adora, ha tutto ciò di cui ha bisogno e anche i bambini... Non potete distruggere tutto! Se sono quì oggi, è per dirvi questo. Siete testardo ma avete anche cuore, usatelo!".

Ross guardò il cielo, limpido e azzurro. Infondeva pace, quella pace che cercava disperatamente anche lui e che non poteva permettersi... "Lasciarli andare... Non riesco, non ci riuscirò mai se... se prima non so... che dove sono stanno bene... Meglio di come starebbero se ci fossi stato io con loro".

Prudie lo guardò storto. "Senza offesa, ma non che ci voglia molto!".

Ross rispose all'occhiataccia. Era schietta e diretta ma nelle sue parole c'era la saggezza di una madre che lo conosceva fin da quando era piccolo. "Dimmi cosa è successo in questi anni, cosa ha portato Demelza a Londra, parlami di... di...".

"Del tenente Armitage?" - lo aiutò Prudie.

"Sì, di lui...".

Prudie sospirò, si appoggiò alla panca, guardò intorno per controllare dove fossero i gemelli e poi, accertatasi che non erano vicini, iniziò a parlare. "Quando nacque Lady Clowance, Dwight Enys aveva già deciso di venire a Londra con la moglie, Miss Penvenen. Chiesero alla signora di raggiungerla, volevano aiutarla a rifarsi una nuova vita ma Demelza sperava che voi sareste arrivato per i bambini e inizialmente rifiutò. Quando ha capito che non sareste arrivato, ha preso la decisione e siamo partiti. Lo ha dovuto fare, per se stessa e soprattutto per il piccolo Jeremy che vi aspettava tanto e che era sempre più triste per la vostra assenza... Demelza non voleva che vivesse accanto a una finestra la sua infanzia, ad aspettare un padre che non sarebbe mai tornato. Non voleva nulla del genere per i suoi figli. E ha scelto...".

Il sangue parve gelarsi nelle vene di Ross nel pensare a quanto male avesse fatto a chi amava. Ripensò al Jeremy di due anni, al suo piccolo bambino di cui non gli era rimasto che un cavallino di legno, lo immaginò ad aspettarlo, chiedendosi perché suo padre fosse sparito, sentì a pelle la sua delusione e il suo dolore e comprese che Demelza non poteva fare altro se non andarsene. E poi pensò al Jeremy di adesso, spigliato, sveglio, furbo, perfettamente educato come un piccolo Lord, un Jeremy che purtroppo non si ricordava di lui... E a Clowance, la sua bellissima piccola principessa che era diventata una principessa per davvero, ma che era stata cresciuta da altri e che, lontana da lui, era diventata bellissima ed irraggiungibile, nella sua ostinata perfezione. Pensò a se stesso e a quanto aveva sofferto allora, rendendosi conto che, troppo accentrato su quello che stava provando lui, forse non si era mai soffermato a pensare a cosa provassero quelli che aveva lasciato indietro. E poi a Dwight, quell'amico quasi fraterno che aveva deluso e di cui non sentiva parlare da anni. E così, era stato lui ad aiutare Demelza... Ora i pezzi di quel puzzle stavano andando ognuno al loro posto e si maledì per non aver pensato prima a quell'ipotesi. "Dwight vive quì?".

Prudie annuì. "Sì, con la signora Caroline. Demelza ha vissuto a casa loro per un anno, ci hanno trattati come se fossimo di famiglia ed è in quella casa che la signora ha conosciuto, a una festa di Natale, il tenente Armitage, che Caroline aveva invitato".

Ross deglutì, ora arrivata la parte difficile del racconto. "Dwight... E Caroline... Come stanno?" - chiese, cercando di prendere tempo per sentir parlare di Hugh.

"Beh, hanno avuto momenti difficili a causa di Sarah" – rispose Prudie.

"Sarah?".

"La loro prima bambina" – rispose la domestica. "E' nata pochi mesi dopo i gemelli ed è vissuta pochissimo a causa di una malattia al cuore. E' stata durissima per loro ma adesso... adesso è nata Sophie, sana come un pesciolino e bella come la madre e la vita è tornata a sorridere".

Ross impallidì. Sarah, Sophie... E Dwight, che gli era rimasto accanto quando era morta Julia, che aveva vissuto il suo stesso devastante dolore... Quanto aveva perso, quanto aveva gettato via, quante occasioni per essere un buon amico aveva mancato, a causa dei suoi errori, in quegli anni? Gli si strinse il cuore a pensare a Dwight, alla sua sensibilità, alla sua bontà, a quanto doveva aver sofferto nel non aver potuto salvare sua figlia... Quanto era successo in quegli anni, quante cose non aveva saputo? Dwight aveva perso sua figlia e lui non aveva potuto stargli accanto come aveva fatto lui per Julia.

Si sentì in colpa e si mise le mani nei capelli, disperato, appallottolando il giornale fra le mani. "Oh Prudie... Dwight ha aiutato me e poi Demelza e i miei figli. E io non ho mai potuto far nulla per lui".

"Ora gli Enys stanno bene e Demelza li frequenta spesso" – lo rassicurò Prudie. "Dwight segue i bambini come medico, ha aiutato Demelza nella gravidanza dei gemelli e si frequentano, in amicizia. Dopo tanto dolore, le cose si sono assestate. Fino al vostro arrivo".

Ross si accorse che i bambini, in lontananza, stavano arrampicandosi sugli alberi e tormentando dei poveri scoiattoli che cercavano di sfuggire alle loro grinfie e capì che doveva fare in fretta. Prudie era responsabile per loro e non poteva rubare altro tempo al suo lavoro. "Armitage... Parlami di lui? E' in casa in questo momento? In viaggio? Non l'ho mai visto e non l'ho nemmeno mai sentito nominare da nessuna parte". Era la cosa più dolorosa per lui, ma andava affrontata.

Prudie a quella domanda però fece una faccia sorpresa a accigliata, quasi non si aspettasse quelle parole. "In casa? Il tenente Armitage? Hugh?".

"Sì, il marito di Demelza!" - sbottò Ross.

Prudie scosse la testa. "Non sapete proprio tutto, allora...".

"Che vuoi dire?".

La donna sospirò. "Il tenente Armitage, Hugh... è venuto a mancare sei mesi dopo la nascita dei gemellini. Per questo non lo avete mai visto".

Ross sussultò sulla panca, a quella informazione che MAI si sarebbe aspettato. E per un attimo, prima ancora che il suo cervello potesse formulare qualche pensiero coerente, provò un insano senso di felicità e rivalsa. Fu solo un attimo di cui poi si vergognò subito, ma a caldo non poteva nascondere a se stesso che quella era la più bella notizia che avesse mai ricevuto da quando era arrivato a Londra. Anche se, il fatto che Demelza non glielo avesse voluto confidare, lo feriva. "Morto?".

"Morto..." - ripeté Prudie. "Quando ha conosciuto la signora, non stava già bene e la sua malattia, anche se in quel momento era come addormentata, era considerata grave e destinata a portarlo prima o poi alla tomba. Aveva la stessa età della signora, era alto, affascinante, elegante ed educato, un vero signore che mai ho visto compiere gesti maleducati e mai ha alzato la voce con qualcuno. La sua condizione di salute precaria gli permetteva di vivere come voleva e Lord Falmouth aveva rinunciato a farne il suo erede anche perché Hugh, a politica ed economia, preferiva la lettura e la poesia. La sua malattia lo rendeva inadatto al matrimonio, era stato sentenziato che non poteva avere figli e quando ha incontrato Demelza, nonostante lei non fosse certo la donna che i Boscawen avrebbero voluto vedere vicino al loro erede, loro gli hanno permesso di vivere quel rapporto senza interferenze. Falmouth avrebbe fatto di tutto per accontentarlo in quello che gli rimaneva da vivere e anche se all'inizio non era certo felice della scelta sentimentale del nipote, lo aveva lasciato libero da vincoli dinastici e famigliari. Hugh aveva un animo delicato, era un poeta e ha scritto tantissimi poemi per la signora e per i bambini... Era un sognatore, un... elfo... Come dice Demelza quando parla di lui. Forse era viziato, forse era una persona poco cosciente dei problemi del mondo che lo circondava, forse non aveva mai messo il naso fuori dal suo mondo dorato ma era buono, aveva un animo cavalleresco e gentile e quando ha conosciuto Demelza, se n'è innamorato follemente. Non era come voi, non aveva chissà quali ideali e forse nemmeno la volontà di perseguirne uno, ma ha lottato per rendere felice il suo piccolo mondo e le persone che aveva accanto. Sapeva di non essere destinato a diventare un eroe, voleva solo essere accettato e amato da chi amava a sua volta e voleva che la sua famiglia fosse felice e serena. Lei, quando si sono conosciuti, non voleva altri uomini, non voleva che crescere i suoi bambini... Ma lui ha saputo essere talmente romantico e insistente da farla cedere, pian piano...Nessuna donna avrebbe potuto resistere alla tentazione e alla dolcezza di un uomo che la trattava come se fosse la cosa più preziosa al mondo. E' diventato prima suo amico e confidente e poi... e poi è nato l'amore. Le dava mille attenzioni, i suoi occhi brillavano quando la vedeva, avrebbe fatto tutto per vederla contenta. E Demelza, che prima di lui sentivo spesso piangere la notte, pian piano è tornata a sorridere e a vivere. E con lei i bambini...".

Ross tremava, mentre Prudie parlava... Dalla rabbia di immaginare quell'uomo accanto a Demelza e dal dolore di non essere stato lui quello capace di farla ridere e sentire amata ma al contrario, di averne causato quelle lacrime che lei versava di nascosto la notte. Sembrava l'uomo perfetto, quello raccontato da Prudie, quell'uomo perfetto che lui non era mai stato e mai sarebbe diventato, probabilmente... "E poi... Poi come hanno fatto a sposarsi? Come ha potuto, Lord Falmouth, dare il suo consenso alle nozze?".

Prudie sorrise, come a volergli dare coraggio. "Hugh e Demelza mai avrebbero pensato di arrivare al matrimonio. Erano felici, vivevano la loro storia senza pensare al domani e i bambini adoravano il tenente Armitage. Uscivano spesso insieme, hanno fatto delle vacanze, Hugh con Jeremy ha costruito nel giardino qua dietro una casetta sull'albero e gli ha insegnato a leggere e scrivere, trattava la piccola Clowance come una principessa e Demelza come una fata... Così la chiamava... Lui impose a suo zio di non indagare mai sul passato di Demelza, di conoscerla senza pregiudizi e Falmouth, per rispetto di Hugh e pensando non ci sarebbero state conseguenze, non lo fece. Ma poi...".

"Ma poi?" - le chiese, capendo infine perché Falmouth non lo aveva collegato con lei, quando si erano conosciuti.

Prudie guardò verso i gemellini che stavano terrorizzando gli scoiattoli del parco. "Poi lei è rimasta incinta delle bestioline... Nessuno avrebbe creduto possibile qualcosa del genere! E improvvisamente è diventata molto speciale e importante per la dinastia dei Boscawen che con la morte di Hugh si sarebbe estinta. Rappresentava un nuovo futuro e a Lord Falmouth non importava più chi lei fosse e il suo passato, a lui importava solo il futuro che avrebbe dato alla famiglia. Pretese le nozze e Hugh ne era felicissimo. Demelza invece era spaventata e non molto convinta, mai avrebbe voluto tanto, mai avrebbe creduto di trovarsi in quella situazione, ma lo fece. Io la spinsi a farlo, quando in lacrime voleva scappare...".

Ross sentì una profonda irritazione verso Prudie. "Perché? Perché l'hai spinta a farlo?".

Lo sguardo di Prudie si indurì. "Per il suo bene, perché lei e Hugh erano felici insieme e avrebbe iniziato una nuova vita con lui! Per il bene dei bambini che con Hugh avrebbero di nuovo avuto un padre e un nome. Per le bestioline che ormai c'erano e che avevano diritto a una famiglia! Non poteva fare altro, Demelza. Io le ho solo dato la spinta ma anche lei, in cuor suo, sapeva di non avere scelta. E per fortuna lo fece perché, anche se breve, il loro è stato un matrimonio sereno e felice".

Ross abbassò lo sguardo, Prudie aveva ragione certo, ma si sentiva lo stesso furioso. "Se solo fosse stata attenta a non rimanere incinta...".

E a quella esclamazione, Prudie lo fulminò con lo sguardo. "Mi spiace signore ma da VOI questo non lo accetto! Avete fatto lo stesso errore ma a differenza della signora che era libera di rifarsi una vita, voi eravate marito e padre! Silenzio, quindi! La signora e i vostri bambini hanno avuto un futuro assicurato e Hugh li ha amati. Adorava lei e adorava i bambini, aveva un rapporto bellissimo con Jeremy e per quel bambino lui è stato un papà meraviglioso che ancora rimpiange!".

"Sono io suo padre!" - la bloccò Ross.

"No, non lo siete, avete perso questo privilegio! Un padre è chi ci ama e ama stare con noi...".

Ross scosse la testa, disperato. "Prudie, questo Hugh era sicuramente una brava persona ma era ricco, non aveva problemi e aveva tutto il tempo del mondo per scrivere poesie o giocare coi bambini, non aveva la responsabilità di dar da mangiare a delle persone senza lavoro che dipendevano da lui e nemmeno debiti da saldare. E' molto facile essere un perfetto principe azzurro quando tutto va bene, ma la vita è altro... E credevo che Demelza lo sapesse e non ambisse a una vita dove era semplicemente adulata come una bambolina".

Prudie annuì. "Lo so, questo lo so io e lo sa anche la signora che non ha mai ambito a nulla del genere. Lei voleva solo amore, ne aveva bisogno e ha ceduto al suo richiamo. Demelza è stata una bambina senza madre che ha dovuto far da madre fin da piccola ai fratelli, che è cresciuta a suon di botte e frustate, che ha lavorato duramente fin da giovanissima e che ha amato un uomo che poi l'ha lasciata sola e in un mare di disperazione. Non ha mai avuto vita facile, non è mai esistita per lei una vita senza problemi da risolvere e per la prima volta... qualcuno si prendeva cura di lei con amore. Hugh è stato la sua favola, la sua rinascita, un amore tenero e delicato, è stato la spensieratezza di una donna che con lui ha potuto essere per un pò la ragazzina che non è mai stata e le ha dato una leggerezza di vivere senza problemi che non ha assaporato nemmeno da bambina. Ridevano insieme, li sentivo spesso sghignazzare come dei ragazzini... I problemi, quando erano insieme, sparivano... Sono stati il balsamo del cuore l'uno per l'altro... In quel momento della sua vita, Demelza aveva bisogno di uno come Hugh. E Hugh di lei, che gli è rimasta accanto fino alla fine".

E Ross, a quelle parole, trovò il coraggio di porre la domanda che più temeva. "Lei lo amava?".

Prudie sorrise dolcemente. "Queste sono cose personali che riguardano la signora, dovreste chiederlo a lei. Ma sì, credo lo amasse davvero molto. In modo diverso dall'amore che provava per voi, era un amore più delicato e gentile, ma è stato amore, l'amore perfetto per quel momento particolare della sua vita... Non lo ha sposato per interesse e non era semplice affetto... E' stato la sua rinascita, una nuova vita, il riprendersi in mano la sua esistenza e uno stimolo di crescita che l'ha resa una donna forte e sicura di se. Una Boscawen... Falmouth la adora, la considera una stratega migliore di quanto Hugh avrebbe mai potuto diventare e ascolta con interesse i suoi consigli. Parlano spesso di politica, battibeccano e di fatto, in casa, comanda lei... E' l'anima di questa dinastia, ormai, come a suo tempo divenne l'anima di Nampara".

"E i bambini?" - chiese Ross.

"I bambini sono il cuore di questa casa, sono il futuro di questa casata e il tenente Armitage ha parificato, prima di morire, i diritti dei gemelli con quelli di Clowance e Jeremy. Voleva soprattutto che fossero uguali e che crescessero come fratelli uniti. Jeremy è un piccolo ometto che tanto deve a Hugh, nella sua formazione. Adora leggere ed è un bambino buono e sensibile anche se decisamente furbo. Spesso confabula col suo amichetto del cuore Gustav, ridacchiano e organizzano marachelle ma è intelligente, un bravo studioso e si sente responsabile di Demelza e dei fratelli più piccoli. Clowance invece...".

Al nome della figlia, Ross sentì una fitta al cuore. "Com'era? Quando è nata, intendo? Ogni giorno me lo sono chiesto, in questi anni... Chi era, come si chiamava, quanto era bello o bella...".

"Bellissima, una bambola. Ed era talmente buona e tranquilla da non sembrare vera" – disse Prudie. "Non dava pensieri, era la signora che mi preoccupava, aveva tanto bisogno di voi e anche se si sforzava di essere forte, era a pezzi. Temevo davvero tanto per la sua salute e anche il dottore. Le avete spezzato il cuore non andando da lei quando Clowance è nata e anche se Demelza è tanto forte, ho temuto che si spezzasse".

Ross sentì un'altra fitta al cuore al pensiero di quanto male aveva fatto all'amore della sua vita. "E' stato il più grosso errore che potessi commettere... Lo rimpiango ogni giorno!".

Prudie cercò di tranquillizzarlo. "Clowance è viziata, pettegola, capricciosa e sempre perfetta. E' ambiziosa, è bella e sa di esserlo ed è anche prepotente, se lo ritiene necessario! Conosce le buone maniere, è snob, regale e per questo è amatissima dai Boscawen e...".

"E?".

"Ed è però la più Poldark di tutti! Orgogliosa e testarda, come voi...".

A quelle parole, il cuore di Ross si gonfiò di orgoglio. Carisma, così aveva detto Basset... Lo stesso carisma che aveva lui, in quella bambina mai conosciuta e cresciuta lontano... "Eppure, non sanno nulla di me".

"No, la signora ha sempre voluto che fossero sereni e non pensava che sareste tornato. I bambini, soprattutto Jeremy, hanno sofferto tanto per la perdita di Hugh e assieme a Demelza hanno dovuto rialzarsi a fatica, dopo quel lutto. Per Jeremy è stata la nuova perdita di un papà, un papà che stavolta aveva avuto l'occasione di conoscere e che lo aveva amato tanto... Era troppo per parlare anche di voi e Demelza ha solo cercato di donare loro di nuovo serenità, in questi anni. Non so quanto Jeremy sappia o ricordi di voi, non so cosa Demelza possa avergli raccontato ma per fortuna pare non ricordare... Almeno questo dolore gli è stato risparmiato, dopo la morte di Hugh".

Ross si sentì nuovamente in colpa per aver esultato, poco prima, della notizia della scomparsa di Hugh. Era stato egoista, di nuovo, aveva pensato solo a se stesso senza soffermarsi invece sul dolore di coloro che erano stati accanto a Hugh, che lo avevano amato e che da lui erano stati amati a sua volta. Guardò Prudie pieno di gratitudine, le strinse la mano, come a volerla ringraziare per averlo visto e per quelle parole che gli avevano aperto un pò gli occhi, donandogli informazioni ma anche una nuova speranza che forse non tutto era perso se trovava la strada giusta, la strada guidata stavolta dal cuore, per giungere a lei. "E i gemelli? Com'è che Demelza ha avuto addirittura DUE BAMBINI da uno che non poteva, in teoria, averne?".

Prudie sospirò, cercando i bambini con lo sguardo. "Appunto, è la teoria che ci ha fregato! Giuda, io lo dicevo che erano demoniaci, fin dalla prima volta che hanno respirato! Non so com'è stato possibile, Dwight dice che è stato un caso eccezionale, che Hugh aveva una possibilità su... su non so quante per essere padre... Lui e Demelza devono averla sfruttata appieno e sono arrivati quei due che...". Si bloccò, alzandosi di scatto dalla panca. "Che ora strozzo! BESTIOLINE, VENITE QUI!!!".

Ross sussultò, vedendola diventare rossa per la rabbia. Poi si voltò a guardare che diavolo fosse successo, notando i bambini correre verso Prudie, sporchi e spettinati. Il bambino teneva fra le mani, per il collo, un disperato scoiattolino che cercava di scappare, aveva le ginocchia graffiate e la camicia bianca ormai marrone mentre la sorella era sporca d'erba sulle gambe e le sue treccine erano ormai un ricordo.

Prudie si avventò su Demian, liberando il povero scoiattolo. "Smettila di torturare quella povera bestia!".

"Ma volevo giocare con lui ma lui non voleva!" - sbottò il piccolo.

"Certo, lo capisco!" - rispose Prudie, a tono, prendendolo per il polso. "Guarda come sei conciato, che hai combinato?".

"Mi sono arrampicato sugli alberi, hai detto che potevo! TA-NNE-NBAUM!".

"Non ti inventare le parole, bestiolina! Parla bene" – lo ammonì Prudie.

"Ma parlo bene, vuol dire che...".

Daisy bloccò il fratellino, imponendogli il silenzio. "Shhhh, è un segreto".

E mentre Demian si metteva la manina davanti alla bocca, come rendendosi conto di aver detto qualcosa che non doveva, Ross si fermò a pensare a dove avesse sentito quella strana parola pronunciata dal bimbo.

Prudie, che di questi problemi non si preoccupava, si voltò verso Daisy, anche lei sporca in maniera imbarazzante. "E tu?".

"Mi sono rotolata nell'erba, così puzzo di prato vero, non del prato finto del sapone della nonna!".

"Ora andiamo a casa e vi faccio un bagno, a tutti e due!" - urlò Prudie mentre Ross, indeciso se esserne divertito o meno, osservava la scenetta. A quanto sembrava, Prudie aveva guadagnato un posto in una grande casa di lusso ma allo stesso tempo aveva trovato chi riusciva a farla lavorare...

Daisy si imbronciò. "Il bagno? Ancora? Col sapone? Con Demian?".

"Sì, il bagno, col sapone, con Demian, ANCORA!" - rispose Prudie.

La bimba scosse il capo. "Nonna non vuole, dice che non devo fare il bagno con Demian che se lo vedo nudo, mi spavento e cresco malata".

Prudie la guardò storto, poi osservò Demian, poi di nuovo lei. "Quello che tua nonna – anima innocente – crede che ti spaventi, non è un problema, ti ci vorrebbe una lente di ingrandimento per vederlo...".

"Hei!" - si lamentò Demian offeso, picchiando il piedino a terra.

Prudie smise di trattare, li prese sbrigativamente per mano e poi gli diede un cenno impercettibile di saluto.

E Ross capì che doveva davvero andare e le sorrise, grato per l'aiuto che gli aveva dato.

Prudie si voltò, spingendo avanti i due gemelli. "A casa, subito!". Poi, prima di seguirli, si voltò verso di lui. "Lei, la signora, non è arrabbiata, non vi odia, statene certo. Non è mai stata capace di odiare... Sta solo cercando di proteggere se stessa e i bambini...".

Ross annuì. "Lo so. Prudie, mi puoi aiutare?".

Daisy tornò indietro, vedendo che Prudie si era fermata di nuovo. La prese per la gonna, la strattonò e poi lanciò a lui un'occhiataccia che poneva fine a ogni discorso con la sua vecchia serva. "Ciao signore che devi leggere il giornale ma non è vero, visto che lo hai rotto tutto!".

Ross si guardò impacciato, notando la rivista appallottolata fra le sue mani, Prudie alzò gli occhi al cielo e poi, dopo aver dato l'ennesima sculacciata sul sedere a Daisy, sparì borbottando per il viale.

E quando furono scomparsi alla sua vista, Ross rimase a lungo ad osservare quel parchetto, a pensare a quanto aveva scoperto e a provare, forse per la prima volta, ad immedesimarsi nel dolore di Demelza, in quello che era stata la sua vita e nelle decisioni che aveva dovuto prendere. Pensò a Hugh, quel fantasma di cui non avrebbe mai visto il volto e che lo avrebbe sempre tormentato, alla serenità che sembrava permeare quella famiglia dove Demelza e i suoi bambini vivevano, all'allegria che comunque regalavano quei due pestiferi gemelli, pensò a tante cose e per la prima volta, non era lui al centro di tutto...


...


Era passata da poco l'ora del pranzo e Demelza era nel salone con Prudie, a piegare dei vestitini che il giorno dopo avrebbe dovuto portare a delle famiglie bisognose. Quella mattina era uscita con sua suocera per una passeggiata e questo aveva rasserenato il suo animo tanto che, quasi senza rendersene conto, si mise a canticchiare.

Jeremy giocava in giardino con Gustav, Clowance era in camera sua a giocare con le bambole assieme a Catherine e i gemelli erano lì, nuovamente puliti dopo il bagno, a giocare e disegnare su dei fogli sotto il tavolo da biliardo dello zio.

Mamma, sai che Prudie c'ha il fidanzato?”.

Demelza si voltò di scatto verso Daisy, a quelle parole. Demian ridacchiò e Prudie divenne rossa come un peperone. “Cosa?” - chiese con aria maliziosa, guardando la sua serva.

Ma... ma non è vero!” - balbettò Prudie.

Incurante del suo imbarazzo e apparentemente concentrata sul suo disegno, Daisy insistette. “Sì che è vero! Lo hai visto ieri e oggi al parco”.

Piccola bestiolina bugiarda!” - sbottò Prudie, guardandola minacciosa.

Demelza scoppiò a ridere e decise che poteva prenderla in giro. “Prudie, è bellissimo! Se ti sposi, ti presto i bambini per il corteo nuziale. Ormai sono esperti”.

Prudie picchiò i pugni sulle ginocchia, guardando Daisy con sguardo omicida. Ma inaspettatamente Demian le venne in soccorso. “Prudie non c'ha il fidanzato!”.

Prudie annuì, indicando con orgoglio il bambino. “Visto?”.

Il piccolo rise. “Sì, è troppo grassa e troppo vecchia per averlo”.

Daisy alzò le spalle, pensierosa. “Vero! Allora ho sbagliato!”.

Prudie ringhiò ma Demelza, di buon umore quel giorno, non lasciò cadere la cosa. “Sarebbe bellissimo, ti appoggio!”.

Pensa ai tuoi di spasimanti, ragazza! Mi pare che tu ne abbia molti e che ti diano problemi” - le rispose, pensando all'incontro con Ross di quella mattina e a come fare per riavvicinare quei due.

Non ne ho”.

Sicura? E Adderly? E quel dolce maestro di tiro con l'arco che ti fa gli sguardi dolci?”. Beh, nominare Ross sarebbe stato troppo ma forse Demelza avrebbe pensato anche a lui, in quella lista...

Demelza rise, divertita, fingendo di non capire appieno le sue allusioni. Ma quando fece per rispondere, Jeremy e Gustav la bloccarono, entrando nel salotto.

Mamma, posso uscire con Gustav in carrozza? Ci porta Bastian”.

Demelza si accigliò. “Con Bastian sì! Ma dove dovete andare? Non dirmi che vuoi di nuovo andare ai giardini di Vauxhall”.

Jeremy scosse la testa. “No, al negozio di spartiti di musica! Devo prendere delle cose per il mio maestro di tedesco”.

Gustav fece un passo avanti, mettendosi in mezzo. “Però signora Armitage, Vauxhall non è brutta! Mio fratello Leopold, che è grande e ha quindici anni, dice che è un posto bellissimo e che di sera, quando ci va con i suoi amici, incontra donne che sono molto istruttive. Non so cosa vuol dire, ma essere istruttivo è una bella cosa, no?”.

Demelza avvampò e Prudie rise sotto i baffi.

Che vuol dire, mamma?” - chiese Jeremy.

Demelza prese a sudare freddo, sventolandosi col ventaglio. “Ecco, è un genere di cose istruttive... per grandi... Ne parleremo fra qualche anno, non pensarci e vai pure al negozio di spartiti”.

Jeremy saltellò, contento, facendo cadere quel discorso imbarazzante. “Sììì! Quando facciamo l'albero di Natale, mamma?”.

Demelza spalancò gli occhi dalla sorpresa. “Tesoro, è estate, aspetta almeno che sia autunno”.

Ma mi piacerebbe, adesso...”.

Questo autunno...” - ribadì Demelza.

Jeremy sospirò ma poi, contento di poter uscire, sparì dalla porta con Gustav e Demelza si accasciò sul divano. “Donne istruttive a Vauxhall... Giuda Prudie, cresce così in fretta e fra poco sarò in un mare di guai a rispondere alle sue domande. Non me la caverò in eterno tanto facilmente. Ci vorrebbe un uomo per queste cose”.

Prudie le strizzò l'occhio. “Trovatene uno, ragazza!”.

Demelza sbuffò. “Finiscila! Chiederò a Lord Falmouth, se sarà necessario!”.

La domestica scoppiò a ridere. “Falmouth? A quello zitello? Non ha mai visto donne in vita sua, quello lì!”.

Demian fece capolino da sotto il tavolo, incuriosito da quel discorso. “Istruttivo vuol dire maestro? Come quello che viene a far la scuola a Jeremy e Clowance?”.

Sì, in un certo senso” - rispose Demelza, in difficoltà.

Il gemellino sospirò, tornando sotto il tavolo a giocare. “Allora non mi piacciono i giardini di Vauxhall”.

Prudie scoppiò a ridere, a quel punto, seriamente divertita dal vedere Demelza tanto imbarazzata. “Oh Demian, fra dieci anni ti piaceranno eccome! E passerai dal petto di tua madre a quello delle donne istruttive di quel posto, senza che tu te ne accorga!”.

Demelza la fulminò. “Prudie! E' il mio bambino quello!” - esclamò, lanciandole scherzosamente un vestitino in testa. Si alzò, sospirando, lanciandole occhiatacce. “Vado a prendere altra stoffa in camera e tu SMETTILA di dire cose del genere al mio piccolo principe!”.

Prudie alzò lo sguardo al cielo, davvero divertita dalla piega che aveva preso quella conversazione. Ma poi la guardò uscire e tornò seria, pensando al dolore scorto in Ross quella mattina per lei. Un dolore vero, sincero, di un uomo disperato che la amava e che senza di lei non riusciva a vivere. Ripensò alle lacrime di Demelza di sette anni prima, a quanto erano stati felici insieme e a quel discorso fra loro prima del matrimonio con Hugh, quando lei aveva paragonato il suo futuro sposo al tepore di un camino e Ross al fuoco totalizzante che ti avvolge e che forse ti brucia, ma che ti entra dentro fino al profondo. E decise...

Se poteva fare qualcosa per loro, che avevano ancora bisogno l'uno dell'altra, lo avrebbe fatto. Demelza era ferita, impaurita e chiusa nel mondo che si era costruita coi bambini, ma tutti loro avevano bisogno di ritrovarsi con Ross, in qualche modo... Lui era cresciuto ed era cambiato e forse qualcosa di bello poteva ancora uscirne.

Poi pensò ad altri piccoli abitanti di quella casa...

Si alzò, si avvicinò al tavolo da biliardo e ci picchiò sopra un pugno. “Bestioline, venite fuori!”.

Da sotto il tavolo, Demian e Daisy risposero. “NONO!”.

Venite fuori che zia Prudie vi spiega un bellissimo concetto: farsi gli affari propri stando zitti!”.

Lo ascoltiamo da qui!” - rispose la vocina di Daisy. “Se esco mi dai ancora le botte!”.

Prudie si appoggiò al tavolo, decisa a farla pagare a quei due per averla accoppiata a Ross davanti alla loro madre, facendole perdere vent'anni di vita al pensiero che Demelza scoprisse il loro incontro. “Starò qui, non ho fretta e ho tutto il tempo del mondo per aspettare che decidiate di uscire”.

Noi di più!” - rispose Demian.

Più cosa?”.

Più tempo! Tu sei vecchia, non dovremo stare qui sotto tanto”.

Prudie divenne rossa in viso. Li avrebbe scorticati vivi, quei due piccoli impudenti...

Anzi, no, c'era un modo migliore per fare le cose! Avrebbe aiutato Ross ma Ross meritava una punizione per ciò che aveva fatto... E quale miglior punizione se non quella di farlo entrare nella vita di Demelza, a contatto diretto coi due piccoli mostri?

Sì, aveva deciso! Lo avrebbe aiutato!



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Capitolo 39
*** Capitolo trentanove ***


Dopo aver parlato con Prudie, per molti giorni Ross aveva rimuginato sul suo passato e i suoi errori e aveva cercato di immaginare visivamente, nelle mente, cosa doveva essere stata la vita di Demelza in quei sette anni.

In questo lasso di tempo lui aveva capito i suoi errori, i passi falsi, ogni dannata decisione sbagliata presa e aveva sentito sulla sua pelle e nel suo cuore quel senso di perdita strisciante e continua che lo aveva portato, giorno dopo giorno, alla più totale disperazione... Aveva distrutto la sua famiglia mattone dopo mattone e spezzato un amore, uno di quegli amori belli e rari, che difficilmente si vivono nella vita e che, se li si possiede, si ha fra le mani un tesoro. Era consapevole di essere stato orribile e di non aver molto da recriminare sulle scelte di Demelza, ma grazie a Prudie aveva iniziato anche ad analizzare non il solo suo dolore ma anche quello di coloro che amava e che aveva ferito.

L'immagine del Jeremy di due anni che lo aspettava lo tormentava, così come immaginare cosa avesse provato Demelza a partorire da sola la piccola Clowance, senza che lui si degnasse di andare da loro nonostante le mille promesse fatte, per codardìa. Perché quello era stato, un codardo! E non era colpa di Elizabeth, la colpa era solo sua, lui era il padre di quella bambina e lui doveva esserci! E invece non era andato e mai, MAI nessuno avrebbe potuto restituirgli la gioia di stringere la propria piccola appena nata e di perdersi in un visino che sicuramente era perfetto già allora e che non avrebbe più conosciuto.

Immaginò la loro vita dopo, la solitudine di Demelza e Hugh, quell'uomo che sempre sarebbe rimasto senza volto ai suoi occhi, che si faceva strada nel suo cuore. L'aveva amata, si era preso cura di lei e dei bambini, era stato molto migliore di lui e lei aveva ricambiato i suoi sentimenti. Prudie era stata chiara su questo punto e faceva male... Avrebbe preferito sapere che si era sposata per disperazione, per dovere, perché era incinta e non aveva altre possibilità, ma la realtà era che Demelza aveva scelto Hugh, lo aveva voluto e aveva cercato tramite lui di ricostruirsi una vita. Demelza non si sarebbe mai sposata per interesse, la conosceva, se aveva sposato Hugh era perché a lui la univano sentimenti forti. E lui era stato per lei il marito che aveva perso, per Jeremy il papà arrivato a soppiantare un padre che lo aveva abbandonato e per Clowance, l'unico padre che avesse mai conosciuto.

Non importava che fosse morto, Demelza era stata felice con lui e insieme avevano costruito una famiglia... E ora viveva nei suoi ricordi e sicuramente lei ne sentiva la mancanza, così come i bambini. I SUOI bambini, non i figli naturali perché di certo i gemelli non potevano ricordarsi di lui. Jeremy e Clowance soffrivano per un padre che avevano perso... Ed era Hugh, non di lui! In fondo, perché lui avrebbe dovuto mancare a tutti loro? Cosa aveva fatto per meritarsi affetto e nostalgia? Come poteva mancare qualcuno che ci aveva fatto solo del male?

Per giorni era stato taciturno e scontroso con tutti, troppo schiacciato dai sensi di colpa, troppo ferito dal sentire sulla sua pelle il dolore provocato, troppo confuso per fare qualsiasi cosa perché per la prima volta sentiva su di se il terrore di sbagliare ancora con loro.

Voleva rivederla, certo, soprattutto ora che aveva scoperto tutto! E allo stesso tempo temeva di disturbarla e di farla irrigidire di più. Non aveva diritto di invadere la sua vita e quella dei suoi figli, non aveva diritto a niente e accettarlo era difficilissimo.

Si tenne lontano da casa sua per alcune settimane, sperando di acquietare il suo animo, sperando che magari lei potesse cercarlo, sperando qualsiasi cosa che risolvesse per lui quella situazione.

E poi un pomeriggio, il destino gli venne inaspettatamente in aiuto. Lord Basset era dovuto rimanere confinato a casa a causa di una influenza e lo aveva incaricato di andare a firmare dei documenti a casa di Lord Falmouth. Documenti importanti, che dovevano essere poi discussi quello stesso pomeriggio in una riunione del circolo politico che tutti loro frequentavano e che inchiodavano Ross a recarsi in quella casa dove, stavolta senza volerlo, avrebbe invaso nuovamente lo spazio privato di Demelza.

Era vero, lei gli aveva detto di recarsi da Falmouth senza problemi se era per lavoro e lui non stava facendo nulla di male, ma si sentiva comunque in colpa... La determinazione dei primi giorni a Londra dopo averla rivista, aveva lasciato spazio a dolore e sensi di colpa e adesso era complicato fare qualsiasi cosa avesse a che fare con lei. Inoltre i gemelli, se lo avessero visto, lo avrebbero potuto riconoscere e collegare a Prudie e da quel poco che aveva capito, quei due mocciosetti erano pericolosi come aveva detto la sua vecchia serva. Non voleva dar problemi a Prudie e non voleva che Demelza si arrabbiasse con lei, oltre che con lui. E non voleva che Falmouth si insospettisse circa i suoi rapporti con Demelza, di cui era all'oscuro.

Andò suo malgrado da Falmouth però, sperando di non vederla. Non aveva scelta! In fondo probabilmente sarebbe andata bene, non aveva mai incrociato Demelza in quella casa e sarebbe stata una visita veloce, il tempo di apporre una firma e poi lui e Lord Falmouth sarebbero usciti insieme in carrozza per andare al circolo.

Quando arrivò, il giardino era deserto e la casa avvolta in un piacevole silenzio. Era il primo pomeriggio e forse i bambini più piccoli dormivano e gli altri studiavano, Demelza doveva essere nelle sue stanze e tutto sarebbe filato via liscio.

Ma così non andrò perché, appena arrivato nello studio di Falmouth e dopo i saluti di rito, prima che riuscisse a sedersi alla scrivania la porta si aprì e lei comparve, inaspettatamente. Il fiato gli si mozzò in gola e Ross maledì la sua sfortuna. E adesso?

Certo, sarebbe potuto succedere, lei viveva lì dopo tutto, ma...

Temette la sua rabbia, sarebbe stato innaturale se non l'avesse provata, temette che potesse pensare di essere seguita, temette il suo disprezzo, temette ogni cosa perché non sapeva cosa aspettarsi in quel momento da lei. Lui era davvero lì solo per lavoro ma Demelza non poteva saperlo e lui non poteva spiegarglielo o giustificarsi, con Falmouth presente.

Lei lo guardò, per un attimo la vide impallidire dalla sorpresa che doveva averla colta impreparata come era stato per lui, ma poi si ricompose senza che Falmouth si accorgesse di niente.

Ross, osservandola, rimase senza fiato. Era bellissima, di una bellezza elaborata e perfetta, coi capelli elegantemente lisciati e tenuti a bada da un nastro, l'abito di seta azzurra che richiamava i suoi occhi e che le ricadeva morbidamente su un fisico perfetto, i gioielli a ornarle il collo nudo e un lieve trucco che sembrava renderla simile, ancora, a una bambola di porcellana. Era splendida, avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo con un solo sguardo ed era evidente che stava per recarsi a qualche ricevimento importante. Era bella, altera e distante... Troppo... Molto simile alla Demelza che aveva visto al matrimonio e ai giardini di Vauxhall e così diversa da quella scorta nelle vie vicino al centro di aiuto dei poveri, quella che davvero preferiva più di tutte, quella che ai suoi occhi era la più autentica.

Con sua somma sorpresa, accanto alla madre, comparve la piccola Clowance, vestita elegantemente anche lei, con un abito lungo di pizzi e seta bianco e rosa che le arrivava alle caviglie e i capelli tirati indietro in un elegante chignon. La sua piccola bambolina... Anche lei bellissima, anche lei distante ed irraggiungibile.

Falmouth, all'oscuro dei loro rapporti, le fece un ampio sorriso. “Demelza, mia cara, stai andando?”.

Lei deglutì, in ansia. “Sì. Ci aspettano a corte per il tè delle cinque ma Clowance voleva per forza passare da quì”.

La bimba avanzo con passo elegante e si avvicinò alla scrivania. “Zio, ti porto ancora i confetti al limone?”.

Ovviamente” - rispose Falmouth, dandole un affettuoso pizzicotto sulla punta del nasino.

Demelza si accigliò. “Confetti?”.

Falmouth rise. “I reali, a corte, hanno sempre questi confetti che adoro. E Clowance è incaricata di portarmene un po' al vostro ritorno. Riempiti le tasche, piccola”.

Demelza alzò gli occhi al cielo, Falmouth strizzò l'occhio alla bambina e Ross si trovò spaesato e incapace quasi di parlare. La sua bimba era lì accanto a lui e non lo degnava di uno sguardo, dolorosamente estranea a lui e al suo vero ruolo...

Lord Falmouth lo osservò, poi guardò Demelza, decidendo di fare le dovute presentazioni. “Signor Poldark, voglio presentarvi la moglie di mio nipote, Lady Demelza Armitage. Avete qualcosa in comune, siete nati nella stessa regione. Demelza, lui è Ross Poldark, un nuovo acquisto di Westminster che sto cercando di portare con la ragione fra le nostre fila, strappandolo a Lord Basset e alle sue malsane idee. O cercando attraverso di lui un accordo per veicolare i voti a nostro favore. E' un giovane uomo molto in gamba”.

Demelza abbozzò un timido sorriso, annuì e finse noncuranza facendo un leggero inchino. “E' un piacere signore. Visti gli argomenti trattati, credo che sarò felice di andare alla mia merenda e di lasciarvi discutere in pace”.

Lord Falmouth scoppiò a ridere. “Discutere? Quì bisogna ammansire, mia cara. Abbiamo davanti un giovane idealista dalla testa dura che pensa di poter cambiare il mondo e le sue regole a modo suo, senza l'appoggio di nessuno”.

Demelza lo guardò freddamente. “Gli accordi, in questo mondo, fanno parte del gioco. Sta al giocatore esperto e furbo trovare i più convenienti. Chi rimane ancorato alle proprie idee senza mettersi in discussione e senza confrontarsi con gli altri, fa poca strada”.

Ross la guardò negli occhi, non riusciva a credere che quella conversazione fosse reale. C'era una strana guerra silenziosa fra loro, una sorta di scambio di battute che, sotto la superficie, era uno stillicidio di nervi. Cosa doveva risponderle? Stare al gioco? Cercare di capire se stesse cercando di dirgli qualcosa o se stesse semplicemente cercando di tenere all'oscuro di tutto Lord Falmouth, portando avanti le sue idee? “Un uomo che tradisce i propri ideali, è un uomo a metà. Un fallito”.

O troppo orgoglioso e testardo per ascoltare gli altri. L'esperienza di chi ne sa più di noi, dovrebbe essere usata con giudizio e con onore. Nessun uomo, da solo, può cambiare regole in vigore da centinaia di anni. Regole che funzionano, tra l'altro” - lo zittì lei, fredda.

Falmouth, con sguardo interessato, la lasciò proseguire mentre Clowance, un po' annoiata, prese a giocare con dei fogli di carta. “Continua mia cara, sai essere forse più convincente di me. Demelza saprebbe mettere a tacere tutto il Parlamento, se alle donne fosse concesso di entrare in politica, ci è nata per questo genere di cose. Peccato che sia donna e che certi posti le siano preclusi per natura”.

Già, sono solo una donna...”. Demelza scosse la testa e lo guardò in viso, come a voler scandagliare la sua anima. “Non voglio convincere nessuno e non voglio entrare in Parlamento, non è mio interesse farlo. Affidatevi a Lord Falmouth, signor Poldark, è molto più bravo di me. E siate meno superbo, accettate l'aiuto di chi vuole offrirvelo o altrimenti vi troverete, un giorno, a leccarvi dolorosamente le ferite dovute ai vostri errori. E lo farete da solo, perché a quel punto nessuno di quelli che avete lasciato indietro, vorrà aiutarvi di nuovo”.

Falmouth insistette. Sembrava rapito da quella strana tensione che si era creata fra loro e cercava di portare avanti le convinzioni espresse da Demelza nella speranza che andassero a segno più delle sue parole. Era una vecchia volpe e aveva captato, nell'aria, una strana energia fra loro, pur non conoscendone i motivi. “Mia cara, avete origini comuni e credo potreste trovare ottimi argomenti di conversazione. E' una brava persona, questo giovanotto testardo”.

Demelza si accigliò. “Non è detto che sia una brava persona solo perché è nato in Cornovaglia, zio. Non è la provenienza che fa dell'uomo un essere rispettabile. Sono animo e cuore a farlo e quelli, ognuno, se li coltiva dentro di se come preferisce, indipendentemente da dove è nato”.

Ross la bloccò. Quella conversazione stava diventando una sfida di nervi e ogni parola di Demelza assumeva significati nascosti e messaggi in codice per lui, che andavano ognuno dolorosamente a segno. Ogni volta che lei apriva bocca gli faceva male perché aveva ragione, SEMPRE. Le sue parole ma anche quel senso di estraneità che avvertiva quando la guardava, erano peggio di una pugnalata per lui, era difficile vedere come una nemica colei che aveva un tempo sempre combattuto al suo fianco. Eppure... Voleva vedere se, dietro a quella donna fredda ed elegante, c'era ancora qualcosa della sua Demelza. “Avete ragione, anche la Cornovaglia ha la sua bella dose di teste calde. Ma ditemi, quali sono le regole che funzionano, mia lady? Illustratemele...”.

Lei gli piantò gli occhi addosso. “Le regole che fanno, del nostro piccolo mondo, un buon posto dove vivere. Regole che, se funzionano per noi, possono essere applicate agli altri. Regole che ti fanno star bene, che mi fanno star bene e che daranno un futuro ai miei figli”.

Si chiamano privilegi, mia signora. E quelli in più di cui godete voi, vengono tolti a chi non ha nulla”.

Demelza si appoggiò con una mano alla scrivania. “E voi cosa proponete, signor Poldark?”.

Il diritto garantito ad ogni uomo di poter esprimere la sua opinione e scegliere, assieme a voi nobili eletti, come gestire il proprio destino. Regole più vivibili, punizioni meno crudeli verso chi delinque per fame, proibizione del lavoro minorile. Leggi uguali per tutti e fatte da tutti, leggi che permetteranno a ogni bambino di Londra di vivere con gli stessi agi dei vostri”.

Demelza sostenne il suo sguardo. “Il potere, in mano di chi non lo sa gestire, diventa un'arma a doppio taglio. Nelle mani di chi lo ha da sempre, se ben amministrato, serve invece a rendere servigio a tutti. Avete belle idee signor Poldark, nobili ma forse ingenue. Il mondo perfetto non esiste, ma se sarete furbo e scenderete a compromessi con persone perbene, potrete attuarne qualcuna, delle vostre proposte”.

Non sporcherò la mia anima scendendo a compromessi con chi persegue interessi personali e farò a modo mio”.

Demelza sorrise freddamente. “Siete testardo e forse un po' arrogante. Vi credete migliore di noi? Di tutti noi?”.

Ross deglutì. La conosceva, lei lo conosceva. Demelza sapeva come colpirlo nell'intimo parlando di cose personali usando una conversazione politica ed era un qualcosa che doveva aver imparato, con molta maestria, in quegli anni. C'era molto di nascosto a lord Falmouth, nelle parole di Demelza, tanti messaggi rabbiosi e delusi rivolti a lui. Lo stava provocando con una facilità spaventosa, come a voler testare fin dove lui voleva spingersi. E ci stava dannatamente riuscendo. “Non mi credo migliore di nessuno”. La guardò, cercando in lei tracce di Demelza, quella Demelza raccontata da Prudie che aveva pianto e sofferto ma che non era mai davvero riuscita ad odiarlo. Ma in quel momento si sentiva talmente schiacciato da non trovare nulla della donna che era stata, sua moglie, quella che con un sorriso lo aspettava a Nampara e gli rimaneva accanto nelle sue battaglie, nel bene e nel male.

Lei gli spezzò nuovamente le gambe. “Perché non lo siete... Trovatevi amici fidati e potenti, attuate delle strategie comuni e imparate a chinare il capo, ogni tanto. Dovete saper anche ascoltare, l'ascolto è una delle migliori virtù delle persone intelligenti... La rivoluzione francese è partita con idee simili alle vostre, finendo poi per annegare in un mare di sangue. Imparate dagli errori altrui, per essere migliore di chi vi ha preceduto”.

Ross la guardò negli occhi, penetrandola con lo sguardo. “Siete scettica su di me, mia lady. E se ci riuscissi? E se invece, da solo, ce la facessi?”.

Demelza sospirò, prendendo Clowance per mano. “Allora sarò la prima a congratularmi con voi, signor Poldark”. E così dicendo, fece alcuni passi indietro, salutando Falmouth con un cenno del capo. “Ora devo andare, mi aspettano a palazzo. Clowance, saluta!”.

Ciao zio!” - disse la piccola. Poi guardò lui e, con la grazia di una farfalla, fece un elegante inchino da perfetta piccola lady. “Buon pomeriggio, signore”.

Un inchino... Clowance gli aveva fatto un inchino. Anche questo faceva male perché una bambina, quando vede suo padre, gli corre incontro e lo abbraccia, non gli fa un inchino. Un inchino si fa a uno sconosciuto. E lui lo era, lo era perché aveva sbagliato tutto. Sorrise alla bambina, cercando di non soffermarsi troppo su di lei per non far innervosire Demelza che, sicuramente, osservava con attenzione ogni sua mossa verso Clowance.

Falmouth però non era ancora disposto a lasciarla andare. “Vedervi battibeccare è stato delizioso! Davvero, credo trovereste entrambi piacevole se anche Demelza partecipasse, di tanto in tanto, ai nostri incontri. Parlo spesso con lei di politica e devo dire che non le manda a dire nemmeno a me. Che ne dici, mia cara? Lo troveresti piacevole?”.

Demelza fece un sorriso di circostanza. “Credo non faccia per me... Ho molte altre cose di cui occuparmi”.

Falmouth annuì. “Sì, ma dovreste conoscervi, voi due. Potresti riuscire a far ragionare questo giovanotto meglio di me! E in fondo presto avrete l'occasione per approfondire la vostra conoscenza”.

Demelza spalancò gli occhi e Ross fece altrettanto, non capendo a cosa lui alludesse. “Cosa?”.

Falmouth sorrise, un sorriso furbo da vecchia canaglia. “Il ballo d'autunno del prossimo mese, che si terrà a casa di Lord Spencer. Demelza non è mai mancata, è il ballo che apre la stagione invernale a Londra. E anche voi Ross siete stato invitato, no?”.

Demelza impallidì. “Io non ho ancora deciso se andarci o meno!” - rispose, con foga, cercando di uscire quanto prima da quel terreno minato.

Ross si morse il labbro, di andare a quel ballo a cui era stato effettivamente invitato non aveva voglia, ma se c'era lei... Forse...

Falmouth richiamò Demelza all'ordine. “Mia cara, cosa sono questi capricci? Devi andarci, siamo fra gli ospiti d'onore e non sei mai mancata. Potrebbe accompagnarti il signor Poldark, che ne dici? Che ne dite, signore? Da quando mio nipote, il marito di Demelza, è venuto a mancare, ci va sempre da sola agli eventi mondani... Sareste un ottimo accompagnatore, ne sono certo, e la vostra presenza al fianco della mia cara nipote acquisita, avrebbe un certo peso in Parlamento! Io purtroppo, coi miei problemi di gotta, non posso partecipare e Demelza mi rappresenta sempre da sola”.

Demelza impallidì, Falmouth aveva inavvertitamente svelato il suo segreto e solo Dio poteva dire a Ross cosa lei stesse provando in quel momento. Ora lui sapeva ufficialmente della morte di Hugh, lei sapeva che ne era a conoscenza e forse non ci era preparata. La vide tremare, cercare il suo sguardo e Ross lo sostenne, scorgendo in lei un attimo di cedimento nelle sue difese. “Se la signora gradisce...” - disse, lentamente. “Deve essere dura per una donna tanto giovane, essere già vedova e recarsi da sola ai ricevimenti”.

Demelza lo fulminò con lo sguardo, se avesse detto sì, se avesse assecondato Lord Falmouth e la sua richiesta, forse lo avrebbe ucciso. “No zio, preferisco andarci da sola. Niente di personale signor Poldark, ma ho dei figli piccoli e ho necessità di essere indipendente negli spostamenti, nel caso sia richiesta urgentemente la mia presenza a casa. Non rientro mai troppo tardi e sicuramente voi invece vorrete fare notte. Ma grazie per la disponibilità” - disse, abbozzando un inchino.

Poi prese per mano Clowance, fin troppo silenziosa e paziente per la sua età. “Ora devo davvero andare o farò tardi”.

Aspetta!” - la chiamò di nuovo, Falmouth.

Che cosa c'è?”.

L'uomo si alzò dalla sedia, sistemando in una valigetta i suoi documenti. “Lo ricordi, vero? Jeremy e Gustav vengono con me! Adorano venire alle riunioni al circolo, soprattutto quando è il Duca di Brassington a sponsorizzare una votazione. Si divertono un sacco a vedere la sua faccia quando immancabilmente perde e non riceve alcun voto favorevole alle sue mozioni. Si divertono un sacco a vedere la sua grassa faccia rossa, diventare ancora più rossa!”.

Demelza si irrigidì, ovviamente contrariata dalla cosa. “E il signor Poldark? Non sarebbe meglio se andaste soli, senza bambini a disturbare?”.

Il signor Poldark verrà ovviamente con noi, in carrozza. E non credo che sarà infastidito dalla presenza dei bambini”.

Ross sussultò, sentendo il cuore gonfiarsi di gioia nonostante tutto. Jeremy sarebbe venuto con loro... Guardò Demelza che sicuramente era meno felice ed eccitata di lui per la cosa e percepì la sua rabbia e la sua impossibilità di opporsi. Non poteva ovviamente farlo perché si sarebbe esposta troppo e lei lo sapeva.

Veramente” - balbettò lei - “Preferirei che i bambini rimanessero qui a giocare in giardino. C'è il sole e credo sarebbe meglio stare all'aperto, per loro. Fra poco il bel tempo finirà e passeranno mesi in casa e...”.

Falmouth si accigliò, bloccandola. “Mia cara, sei strana davvero! Jeremy ha sempre amato venire con me al circolo e non hai mai fatto storie! Che sono questi capricci, oggi?”.

Demelza strinse la manina di Clowance che, come Falmouth, pareva stupita per il suo comportamento. Abbassò lo sguardo, sconfitta, capendo che non poteva spingersi oltre e che non le restava che chinare il capo. “Certo... Va bene, i bambini sono in giardino a giocare nella casetta sull'albero, li troverete lì”. Poi guardò Ross, silenziosamente, lanciandogli un messaggio eloquente: doveva lasciare in pace Jeremy e non dire nulla che potesse turbarlo! Quello sguardo era chiaro e guardandola, si rese conto che sapeva ancora leggerle nei pensieri come una volta. Annuì, desideroso di rassicurarla. Non avrebbe mai fatto nulla per far del male a Jeremy e in silenzio, senza esporsi, avrebbe semplicemente goduto della sua compagnia, un dono dal cielo che non credeva di ricevere e meritare.

Demelza si morse il labbro e non aggiunse altro. Si inchinò di nuovo, nervosamente, uscì dallo studio e sparì alla sua vista.

Falmouth sbuffò. “Le donne a volte sono creature davvero strane! Eppure di solito è così carina e graziosa nei modi, coi miei ospiti... Davvero strano... Ed affascinante, nel vederla raffrontarsi a voi con la grinta di una tigre!”. Si avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla. “Su Poldark, andiamo a prendere i bambini e mettiamoci in marcia! Non vorrei arrivare in ritardo all'ennesima figuraccia di Brassington!”.



Falmouth era andato a prendere i due bambini in giardino e Ross era stato scortato da un maggiordomo fino alla carrozza dove lo avrebbe aspettato.

Il cielo era sereno e sedendosi sulla poltrona del mezzo, poté godere della leggera e fresca brezza del pomeriggio. Era contento, anche se la sua gioia di poter stare un po' con Jeremy e di aver visto Clowance, era smorzata dalle reazioni fredde e così estranee di Demelza nei suoi confronti e soprattutto, non poteva ignorare quanto lei fosse contrariata del fatto che il loro bambino avrebbe passato il pomeriggio con lui.

Eppure, egoisticamente, decise di essere felice per se stesso... Non aveva molte possibilità di vedere i bambini, non ne aveva nessuna di essere il loro padre e quei momenti rubati al caso e al destino erano quanto di più prezioso potesse avere. Non avrebbe importunato Jeremy cercando di fargli capire chi era, non lo avrebbe mai fatto per il suo bene e per quello di sua madre, ma poterlo vedere... Anche le briciole andavano bene, piuttosto che quei sette anni di nulla...

I bambini arrivarono di corsa, con Lord Falmouth, salirono sulla carrozza e lo salutarono frettolosamente, sedendosi sul sedile opposto mentre i due uomini prendevano posto uno accanto all'altro.

Ross osservò Jeremy. Aveva le guance arrossate per la corsa, i lunghi capelli castani spettinati e i riccioli gli ricadevano sul collo e sulla fronte in maniera disordinata e sembrava contento ed eccitato. Lui e Gustav avevano lo stesso abbigliamento – un giorno qualcuno avrebbe dovuto spiegargli perché quei dannati vestiti alla marinara erano considerati tanto carini per i bambini – e ridacchiavano senza sosta.

La carrozza partì e Falmouth iniziò subito a parlare del più e del meno mentre i bambini parlottavano fra loro. Ross li osservò rapito, rivedendo se stesso e Francis tanti anni prima. Jeremy e Gustav sembravano due fratelli e si vedeva che si conoscevano da molto e si volevano bene. Sghignazzavano, si spintonavano scherzosamente e in maniera amichevole, parlottavano fra loro e guardando Jeremy, si rese conto che era un bambino felice.

Ross sorrise. “Si conoscono da molto?” - chiese a Falmouth.

L'uomo osservò i bambini. “Da quando erano molto piccoli, avevano forse tre anni quando si sono conosciuti”.

Gustav prese la parola. “Jeremy è il mio migliore amico!”.

Jeremy ridacchiò, dondolando le gambe nel vuoto. “Sì, sì, anche Gustav! Però è un migliore amico che non fa l'amico, in certe cose”.

Ross alzò un sopracciglio per cercare di capire dove Jeremy volesse andare a parare con quella frase sibillina, detta con tono furbo.

Gustav invece si imbronciò. “In che senso?”.

Fidanzati con Catherine! QUESTO sarebbe un gesto da amico, togliermela di torno!”.

JEREMY!” - lo richiamò Falmouth, mentre a Ross venne da ridere per la furbizia del figlio, unita a una sana simpatia nel modo di fare che lo rendeva assolutamente grazioso e di compagnia. Era decisamente dotato di una sottile furbizia ed era più sveglio di lui nel portare avanti le sue cause, pensò...

E Gustav, altrettanto grazioso nei modi di fare, era destinato a cadere in questi tranelli perché a differenza di Jeremy, sembrava ancora ingenuo.

E infatti... “Ma Jeremy! Io non posso, io amo Clowance!” - disse candidamente, facendo sobbalzare Ross e Falmouth sul sedile.

Jeremy lo bloccò subito. “Sì ma lei non ti vuole!”.

Non è vero, mi ha dato una speranza!” - ribatté Gustav, pieno d'orgoglio.

Falmouth, Ross e Jeremy spalancarono gli occhi. “DAVVERO?”.

Sì sì, ha detto che per sposarmi, basta che divento re d'Inghilterra! Devo solo andare in Cornovaglia e fare come re Artù, trovare una spada nella roccia, estrarla e il gioco è fatto!”.

Lo disse come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo e a Ross venne da sorridere guardandolo. Gli spiaceva in fondo, Clowance gli avrebbe spezzato il cuore...

Falmouth sospirò, alzando gli occhi al cielo ma Jeremy invece, inaspettatamente, piantò gli occhi su Ross, incuriosito. “Signor Poldark?”.

A Ross si gelò il sangue nelle vene. Era la prima volta da sette anni che Jeremy si rivolgeva a lui e anche se non lo riconosceva e usava un tono formale... suo figlio gli stava parlando... Il suo bellissimo bambino a cui aveva pensato ogni dannato giorno e di cui teneva in tasca, come una reliquia, un piccolo cavallino con cui amava giocare da piccolo e che per anni era stato l'unica cosa che gli era rimasta di lui. “Dimmi” - rispose gentilmente, sentendo il cuore in gola.

Voi venite dalla Cornovaglia? Lo zio dice che con Lord Basset la rappresentate”.

Certo, vengo da lì”.

Ci sono spade nella roccia?”.

Sì, ci sono?” - intervenne Gustav, molto preso dal discorso.

Ross deglutì, era una delle conversazioni più surreali e allo stesso tempo belle che avesse avuto da anni. Peccato che per per il piccolo innamorato di Clowance non sarebbe stato altrettanto... “Ecco... Credo che re Artù abbia preso l'ultima... Mi spiace Gustav, in Cornovaglia non abbiamo più spade nelle rocce, sono finite”. Gli spiaceva spezzare i sogni romantici del bambino ma quel bambino aveva sogni romantici sulla sua bambina e quindi togliergli ogni speranza gli donava anche un sottile senso di piacere. Non che Gustav avesse speranze con Clowance ma era meglio essere sicuri...

Jeremy guardò Gustav, dandogli una amichevole pacca sulle spalle. “Sei fregato, allora! Io penserei davvero a Catherine”.

Non mi piace! Devo cercare altre spade e diventare re!”.

Jeremy scosse la testa. “Meglio di no! In Francia al re gli hanno tagliato la testa! Anche alla regina! Mi spiacerebbe vedere mia sorella e il mio migliore amico senza testa, sai?”.

Ma Gustav decise di insistere. “Ma dai, pensaci! Magari tu sai se ci sono altre spade!”.

Come faccio a saperlo?”.

Ci sei mica nato, in Cornovaglia?”.

A quella domanda, Ross spalancò gli occhi e prese a guardare Jeremy tremando, in attesa della sua risposta. Cosa avrebbe detto? Cosa ricordava? Era rimasto qualcosa in lui, di Nampara?

Jeremy però scosse la testa. “Sì, ma che c'entra? Che ne so? Non me la ricordo la Cornovaglia?”.

Niente, niente?” - insistette Gustav.

Jeremy ci pensò su. “Mh... solo una cosa, forse! C'era un sacco d'erba!”.

Ross abbassò lo sguardo sconfitto, Gustav sospirò pensieroso e Jeremy, incurante dei sentimenti di entrambi, tornò all'attacco. “Peeeensa, pensaaaa a Catherine... Lei se no muore zitella!”.

Ross sorrise nonostante tutto, ancora catturato dalla simpatia birichina di Jeremy, guardando fuori dal finestrino per non farsi notare. Era adorabile, un bambino meraviglioso e intelligente, con una parlantina spigliata e un modo di fare che non poteva che conquistare chi lo stava a sentire. Era orgoglioso di lui e si maledisse per non aver capito subito quanto prezioso fosse quel bambino che non aveva voluto e di cui non era riuscito a prendersi cura. Lo guardò, chiedendosi quanto fosse merito di Hugh, quanto avesse influito sulla sua crescita per renderlo così adorabile e simpatico, nonché sveglio ed intelligente.

Falmouth sospirò, picchiando il suo bastone sul fondo della carrozza. “Ora basta bambini, siamo quasi arrivati e voglio che vi comportiate bene! E quando Brassington perderà come sempre, cercate di non ridere troppo forte! Ci vuole stile anche coi perdenti!”.

Ross lo guardò, stupito della sua sicurezza. “Come fate a sapere che non avrà voti?”.

Jeremy e Gustav risero. “Non li ha mai! Perde sempre! E quando succede, si gonfia come un tacchino, la faccia gli diventa rossa come una mela e sembra che gli esca il fumo dalle orecchie! Mi piace tanto vederlo perdere”.

Ross deglutì, stavolta non molto ben impressionato dalle parole di Jeremy. Non gli piaceva quella strana arroganza che Falmouth instillava in lui. “Beh, non sempre si può perdere e non sempre si può vincere. Tuo zio non te l'ha insegnato?”.

Jeremy scosse la testa. “No”.

E Falmouth scoppiò a ridere. “Perché dovrei insegnare al bambino qualcosa che non proverà mai? Dillo Jeremy, dillo al signor Poldark come vanno le cose, qui!”.

Jeremy annuì e in un attimo quel grazioso bambino che aveva visto fino a poco prima come una proiezione di se stesso da piccolo, con la sua stessa vivacità, ridivenne un estraneo. “Noi Boscawen non perdiamo! Mai!”.

Noi Boscawen... Il gelo ripiombò nel cuore di Ross, ricordandogli quanto avesse perso e quanto gli fosse stato strappato da quella potente famiglia che aveva assorbito in se le persone che più amava..

E che non gliele avrebbe restituite indietro.

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Capitolo 40
*** Capitolo quaranta ***


"Assomigli... sembri...".

"Cosa, Margarita?" - chiese Demelza, mentre davanti allo specchio si faceva aiutare da una domestica a prepararsi per il ballo d'autunno. Aveva deciso di andare al ballo con una propria carrozza ma siccome la sua amica e il marito avevano insistito, si erano poi ritrovati tutti a casa sua per prepararsi per la serata e recarsi al ricevimento insieme. Margarita, sempre graziosa e gentile, indossava un vestito color panna che la rendeva simile a una piccola meringa mentre Edward, suo marito, si era preparato nella camera a fianco con Daniel, il loro amico e maestro di tiro con l'arco.

Demelza si osservò nello specchio, guardando quel meraviglioso vestito di seta color verde smeraldo che le ricadeva morbidamente sul corpo, lasciando scoperte quasi interamente le spalle. Lo aveva scelto con Clowance e anche se di solito non avrebbe portato volentieri un abito così scollato sul petto e sulla schiena e smanicato, quella volta si era sentita quasi in dovere di essere seducente, perfetta, inarrivabile e bellissima. Era o non era Lady Boscawen? E mentre si infilava un lungo paio di orecchini tempestati di diamanti e una collana d'oro con un pendaglio di rubino, si chiese perché volesse tutto questo, lei che di solito si sentiva fuori posto e inadeguata ai grandi ricevimenti della capitale. Era per rappresentare al meglio i Boscawen? Oppure per dimostrare a Ross, che sarebbe stato presente al ballo, quanto lei fosse irraggiungibile e diversa da come poteva ricordarla lui? Voleva ferirlo, voleva dimostrargli che senza di lui era andata lontano? Voleva che vedesse la sua potenza? O forse, ma rifiutava l'idea, dentro di se voleva stupirlo e piacergli, come una volta, pur senza dargli la possibilità di toccarla. "E allora, che ti sembro?".

Margarita sorrise maliziosa. "Una che sa di essere bella e vuole dimostrarlo e mostrarlo al mondo! Stasera sarai la regina del ballo. Se Hugh fosse quì, rimarrebbe senza fiato".

Lo sguardo di Demelza si addolcì al ricordo del marito, mentre la domestica le passava il rossetto sulle labbra. "Hugh odiava i balli e la mondanità".

"Anche tu, una volta!" - rispose Margarita. "Ma evidentemente le cose sono cambiate!".

Sospirò. Accidenti, erano cambiate davvero! "Anche tu sembri allegra e non terrorizzata dalla serata".

Margarita si sedette sul letto dove Demian, imbronciato e col muso lungo, se ne stava ad osservarle a gambe incrociate e silenzioso. "E' perché mia madre stasera non c'è! Ha il raffreddore e quindi starà a letto a bere tisane e non al ballo, a riprendermi ad ogni inciampo nel vestito! La vita è una cosa meravigliosa, Demelza".

Non potè non ridere, davanti alla semplicità che mai avrebbe abbandonato Margarita e al tono leggero con cui pronunciò quella frase. "Ti ricordo che sei sposata e che tua madre non ha più così tanto potere sulla tua vita".

"Spiegalo a lei!" - ribattè Margarita.

"Per carità!". Demelza si sedette sul letto, accarezzando i capelli biondi di Demian. "Piccolo principe, cosa c'è?".

Il bimbo singhiozzò. "Vai via?".

"Vado a un ballo, te l'ho spiegato. E' importante che io ci sia, stasera".

"E io? Io sto qua da solo?".

Sospirò, ogni volta era la stessa storia e anche se di fatto Demian doveva imparare a diventare un pò più indipendente anche di sera, lei si sentiva mortalmente in colpa quando doveva uscire e non poteva metterlo a letto. Lui, a differenza dei suoi fratelli, ci soffriva da morire a non averla vicina quando era ora di dormire e spesso, soprattutto ultimamente, ricordava quei tempi lontani in cui era solo una mamma che viveva in una casetta in Cornovaglia e la sera la passava coi suoi bambini, a giocare con loro e a metterli a letto. Era difficile ammetterlo ma quella vita più semplice e il suo essere solo una mamma votata alla cura dei suoi bambini, le mancava molto. A quei tempi c'erano tanti altri problemi ma quanto meno non si sentiva mai in colpa nei confronti dei suoi figli e il passare le serate con loro era quanto di più bello potesse desiderare. Anche adesso lo era, ma non poteva farlo, non sempre... "Demian, non sei da solo! C'è la nonna, c'è lo zio, ci sono Jeremy, Clowance e Daisy con te. E Prudie, Mary e tutti gli altri che lavorano per noi e ti vogliono bene".

"Ma tu no!".

"Ma tornerò, come sono sempre tornata". Lo baciò sulla fronte per cercare di tranquillizzarlo mentre Prudie, entrando nella stanza per annunciare che gli uomini erano pronti e che era ora di andare, si avvicinava loro.

"Amore, ti piace come sono vestita?" - chiese al figlio per distrarlo.

Demian, con gli occhi lucidi, scosse la testa nervosamente. "NO!".

Sospirò, cercando di abbracciarlo, ma il bimbo sgusciò via dalla sua presa, rifugiandosi in lacrime fra le braccia di Prudie. E Demelza, ancora, si sentì in colpa a lasciarlo così. "Demian...".

Prudie la spinse un pò lontana. "Su, andate ragazze benedette! A lui ci penso io, gli passerà e voi avete due bei ragazzi che vi aspettano in corridoio".

Margarita rise, prendendola a braccetto. "Dai Demelza, starà bene! E anche tu! Io ho Edward e tu Daniel. E stasera sarà il tuo accompagnatore e potrà godere della tua presenza, che apprezza molto, senza il timore che o io o te lo infilziamo con una freccia".

Demelza diede un'ultima occhiata a Demian e poi si costrinse ad uscire. Doveva andare e il suo piccolo sarebbe stato bene. Sorrise a Margarita, cercando di non pensare ai suoi sensi di colpa. "Godere della mia compagnia? Daniel? E' terrorizzato dal mio scarso talento nel tiro con l'arco... Mi accompagna per timore di ritorsioni".

"Ti accompagna perché ti adora! E' biondo, giovane e...".

"Appunto, giovane!" - la interruppe Demelza, uscendo dalla porta – "Molto più giovane di me".

"Solo tre anni. E insieme sareste una coppia meravigliosa, anche Hugh vi darebbe il suo consenso se potesse! Fareste dei bambini belli quanto quelli che hai già".

Quell'ipotesi le fece rizzare i capelli in piedi. Altri figli? Un altro uomo? Santo cielo, la sua vita era già complicata di suo senza che ci si mettessero altre cose a complicargliela ulteriormente.

Una domestica le corse dietro, sistemandole i lunghi capelli tenuti a bada da una mezza coda e pieni di boccoli perfettamente pettinati, le mise una mantella sulle spalle e fu pronta.

Si avvicinò al giovane Daniel, si fece prendere sotto braccio e uscì, decisa a dimostrare la potenza di Lady Boscawen ma allo stesso tempo preoccupata per quanto sarebbe successo a casa. Lady Boscawen e Demelza Carne o Poldark erano ancora in conflitto dentro di lei, in quel momento. E forse lo sarebbero state a lungo.


...


Una volta, alle feste ci andava assieme a Demelza e per quanto potessero essere sfarzose, erano nulla in confronto al lusso sfrenato di quel ballo.

Ross conosceva ancora poca gente a Londra, era sempre stato un misantropo nelle occasioni ufficiali e a quel ballo c'era andato di malavoglia anche se, l'idea di rivedere Demelza lo aveva spinto a parteciparvi con più convinzione rispetto al solito.

In realtà non sapeva cosa aspettarsi da lei, non si erano mai incontrati in occasioni ufficiali e per la prima volta avrebbero affrontato una festa insieme non più da marito e moglie.

Alcuni uomini del Parlamento lo avevano salutato cordialmente al suo arrivo, abbozzando un qualche tipo di chiacchiera con lui ma Ross si era intrattenuto lo stretto necessario liquidandoli poi con una scusa e finendo per aggirarsi da solo nella sala da ballo.

Dame elegantissime e cavalieri altrettanto eleganti e all'ultima moda, parlavano e discutevano fra loro delle più svariate faccende che andavano dalla politica al pettegolezzo e Ross li trovava semplicemente odiosi. Tante chiacchiere, pochi fatti e un attaccamento al loro piccolo mondo dorato, li rendevano ai suoi occhi esseri perfettamente inutili.

La stanza era lussuosa come gli invitati, ampia, piena di luci, enormi vetrate, lampadari tempestati di pietre preziose e monili d'oro e... e lui ne era nauseato. E, sperava, anche Demelza...

Improvvisamente, dopo un tempo che gli parve infinito, la vide arrivare e subito gli si mozzò il fiato. Era semplicemente incantevole, elegantissima, inarrivabile, come gli aveva detto qualche tempo prima Lord Basset.

Indossava un abito molto scollato, seducente, che le accarezzava le curve del corpo lasciando poco spazio all'immaginazione e guardando come la osservavano gli uomini presenti nella sala, si trovò ad essere geloso ed irritato. Essere così dannatamente desiderabile era quasi un reato, ai suoi occhi feriti e doloranti... Santo cielo, lei una volta era sua moglie... Ed era bellissima, incantevole e gli abiti di lusso e i gioielli preziosi che indossava, la rendevano non vezzosa come le altre dame ma al contrario, una creatura quasi magica ed eterea. Aveva una grazia naturale, una dolcezza nello sguardo e un sorriso genuino che sempre l'avrebbero distinta da tutto quel ciarpame presente alla festa. Lei era superiore a tutti loro e lui, che aveva avuto a lungo il suo cuore e la sua compagnia, lo sapeva meglio di chiunque altro.

Quando arrivò, non era sola. Con lei c'erano un altro giovane ragazzo biondo che non si staccava dal suo fianco e con il quale Demelza rideva e scherzava assieme a un'altra coppia di amici che era con loro. Ross li osservò meglio e si accorse che erano la coppia di sposi che aveva visto quando, per la prima volta, aveva scorto Demelza a Londra.

Si appoggiò alla parete, forse sperando che Demelza lo notasse, che lo avvicinasse, che andasse da lui anche per un semplice saluto.

Ma lei ovviamente non lo fece anche se, passandogli davanti, lo osservò per un lungo attimo accigliata, proseguendo però poi per la sua strada, coi suoi tre accompagnatori.

Non lo degnò di altri sguardi, né di alcuna parola. La guardò da lontano ridere, scherzare, chiacchierare coi suoi amici con cui doveva avere un rapporto molto profondo e informale e si trovò ancora una volta ad essere geloso. Lui una volta era il suo mondo mentre adesso... Adesso era niente... E lei, che una volta guardava a quelle feste con terrore e imbarazzo non sentendosi all'altezza, ora ne era la regina e vi si trovava perfettamente a suo agio, assieme ai suoi compagni.

La guardò, nella sua infinita eleganza e bellezza. Tutti la ammiravano e tutti sembravano aspettare solo un suo cenno di saluto per essere avvicinati. E per la prima volta da quando era a Londra e l'aveva incontrata, si rese conto di chi era davvero Lady Boscawen, di quale fosse il suo potere e di quanto grande fosse il suo fascino.

Lui aveva tutto questo una volta e lo aveva perso, gettato via senza capirne il valore... A quel ballo, se fosse stato meno idiota, ci sarebbe potuto andare con lei, da marito e moglie. E ne sarebbe stato fiero e orgoglioso e forse avrebbe apprezzato i balli, l'avrebbe stretta a se come un tesoro prezioso da non dividere con nessuno e a fine serata si sarebbero ritirati in una stanza, le avrebbe sfilato di dosso quel meraviglioso e seducente vestito verde e avrebbe fatto l'amore con lei...

Santo cielo, come la desiderava... Ogni gesto, ogni passo, ogni sguardo rivolto a Demelza quella sera, era pieno di desiderio di lei, delle sue labbra, dei suoi baci, dei loro corpi fusi insieme dalla passione...

"C'è una lunga fila prima di voi, Poldark!".

Una voce sgradevole giunse al suo fianco e Ross sussultò, preso alla sprovvista, trovandosi davanti il volto antipatico di Monk Adderly, un uomo le cui gesta aveva già avuto modo di disprezzare nei mesi precedenti. Era un personaggio potente e viscido, squallido, pieno di lussuria e dagli scarsi freni morali, che usava il suo potere per avere ciò che voleva, che fossero donne o denaro... Teoricamente era un membro del Parlamento ma di fatto lo aveva visto ben poche volte ai lavori parlamentari mentre spesso, la sera, invece lo aveva trovato ai giardini di Vauxhall, circondato da donne compiacenti e lascive. E la cosa che più lo innervosiva, era che Demelza sembrava conoscerlo e frequentarlo senza problemi, come aveva appurato alla gara di trotto. "Di cosa parlate?".

"Di come guardate e mangiate con gli occhi Lady Boscawen. Non che non comprenda il vostro desiderio e ammirazione ovviamente, ma... Siete l'ultimo arrivato quì e quella donna è il desiderio di gran parte della popolazione maschile che conta, di Londra. Ed è un mio desiderio personale... E ciò che voglio io non è fruibile agli altri, sorpattutto a un nobiluccio di provincia come voi... E' una bella puledrina ma non potrete appurarlo" – gli disse nell'orecchio, leccandosi le labbra.

Santo cielo, lo avrebbe ucciso! Lo avrebbe fatto provando un infinito piacere! Come osava parlare di lei così? Come poteva anche solo permettersi? Come poteva sperare che Demelza, con lui...? Ma si trattenne stringendo nervosamente i pugni mentre una volta, solo pochi anni prima, lo avrebbe ucciso di botte. Oh, lo avrebbe fatto anche ora ma sapeva che Demelza si sarebbe infuriata e non voleva metterla in imbarazzo. "Siete molto sicuro di voi stesso, Adderly. Ma bisogna vedere se lei è d'accordo".

Adderly sorrise freddamente. "Si è sposata quel poetucolo idiota di Armitage. Se è riuscito a portarsela a letto lui, non vedo come potrei non riuscirci io. E' molto che ci sto lavorando".

Ross si accigliò. Avrebbe voluto avere qualche informazione in più su Hugh ma di certo MAI si sarebbe abbassato a chiederne ad Adderly che però pareva averlo conosciuto. "E' sul molto tempo che ci state mettendo, che io mi concentrerei" – disse, malignamente, rendendosi conto con la coda dell'occhio che Demelza lo stava osservando da lontano, preoccupata di chissà che. Perché improvvisamente si era messo ad osservarlo?

Adderly ridacchiò. "Poldark, la vostra ironia provinciale è davvero divertente! Potrei quasi quasi trovarvi simpatico... come un giullare!". Gli picchiò la mano sul braccio, con un gesto che forse avrebbe potuto sembrare amichevole ma che in realtà nascondeva l'ennesima provocazione. Si stavano sulle scatole a vicenda, era evidente. "E allora, domani? Domani che farete a Westminster? Proverete ancora una volta a far valere le vostre idee provinciali e sognatrici?".

Monk, di nuovo, nascondeva dietro ai suoi modi melliflui l'ennesima provocazione. “E voi...? Voi non venite alla Camera dei Lords a esporre le vostre idee”.

Non ne ho bisogno, io preferisco agire a contatto con le persone e in maniera diretta”.

Intimidatoria, vorrete dire...”. Stavolta non ci riuscì a non rispondere a tono.

Monk fece un sorrisetto finto come la neve di agosto. “Ci sono così tanti modi carini per definire il mio operato, capitano Poldark... Perché volete essere scortese?”.

Diretto, non scortese”.

Monk parve perdere la sua calma ma improvvisamente si impose di ricomporsi. Sfoderò il suo migliore sorriso e si mise ritto in piedi, esibendosi in un elegante inchino. “Lady Boscawen, vedervi è sempre un'immensa gioia per me”.

Ross si voltò, trovandosi davanti Demelza che era giunta alle loro spalle col passo felpato di un gatto. Deglutì, colto totalmente di sorpresa. Era bellissima e ora che la vedeva da vicino, riusciva a vederlo ancora meglio. I suoi capelli erano stati pettinati, lisciati e poi acconciati in eleganti boccoli che le ricadevano sulla schiena, al collo portava un collier d'oro, alle orecchie dei lunghi orecchini tempestati di diamanti, era truccata, altera e sembrava irraggiungibile. Ed era irraggiungibile... “Demelza...”.

La donna lo guardò freddamente, poi sorrise ad Adderly. “Monk, che ci fate qui tutto solo e appartato? Non è da voi essere tanto ritirato. Ci sono un sacco di dame laggiù, che piangono per la vostra assenza ed io e Lady Margarita ci stavamo chiedendo perché non vi uniste al ballo”.

Monk guardò Ross in cagnesco, quasi con aria di sfida. “Il capitano Poldark mi stava illustrando coi fatti quanto la gente di provincia sia scortese e seccante”.

Demelza, ignorando completamente Ross, sospirò ad Adderly. “Il capitano Poldark è nuovo in questi circoli, non dovete prendervela. Abbiate pazienza e magari siate tanto cortese e insegnategli, con la gentilezza che vi contraddistingue, le buone maniere che si usano nella capitale. Sarebbe un bel gesto e noi donne ammiriamo gli uomini gentili”.

Ross si irrigidì. Come poteva farlo? Come poteva flirtare con quel verme davanti ai suoi occhi?

Se me lo chiedete voi” - sussurrò Monk, prendendole la mano e baciandola - “Lo farò con piacere. Servirvi è quanto più mi compiace”. Poi si rimise dritto, tornando a guardare Ross. “Siete nato sotto una buona stella, dovreste ringraziare Lady Boscawen per aver sedato, sul nascere, la nostra innocente disputa. Mi auguro di vedervi più educato e meno provinciale al nostro prossimo incontro”. E poi, con un inchino, si congedò da loro. “Vi aspetto alla sala da ballo, mia Lady?”.

Sarò da voi quanto prima” - rispose Demelza, con finta cortesia.

Quando se ne fu andato, Ross si voltò verso di lei, furente. Come osava trattarlo come se fosse un ragazzino da educare, davanti a Monk Adderly? E che cos'era quella sicurezza, cos'era quell'aria da gran donna che osteggiava senza problemi? Santo cielo, stentava a riconoscerla! Sapeva che era cambiata e che la sua vita e il suo ruolo imponeva un certo tipo di comportamento, ma così era davvero troppo! E poi, che ci faceva lì dopo che per tutta la sera lo aveva ignorato senza problemi?

Demelza lo bloccò subito, prima che lui parlasse. “Sai chi è quell'uomo?”.

Un idiota pallone gonfiato”.

Un uomo pericoloso da non sfidare e da cui stare alla larga” - ribatté lei, sicura, osservando con la coda dell'occhio Adderly che iniziava a ballare con una dama.

Ross le sorrise freddamente. “Stargli alla larga? Non mi pare che tu lo faccia visto il modo informale con cui vi parlate”.

Demelza scosse la testa, decisa a non raccogliere la provocazione. “Io gli sto alla larga e quando è in zona so come trattare con lui. Tutto quì”.

Le si avvicinò di alcuni passi, furente. “Lo so pure io, sta tranquilla LADY BOSCAWEN”.

Sei infantile, Ross!” - mormorò lei, un po' meno altera e un po' più arrabbiata rispetto a poco prima. “Ti stavi per cacciare nei guai, Adderly è famoso per i suoi duelli e ha sulla coscienza parecchi idioti che hanno osato sfidarlo prima di te. Se io non fossi arrivata, ti saresti cacciato in una situazione pericolosa. Pensi che ti abbia trattato come un ragazzino? No, non è così! Ti ho tolto da un pasticcio e allo stesso tempo non ho ferito l'amor proprio di Adderly, facendolo sentire importante e rendendolo quindi innocuo. Devi imparare a rapportarti con queste persone Ross, non sei in Cornovaglia e se vuoi stare qui ed ottenere dei risultati, devi imparare a stare alle regole del gioco. E' quello che, in un certo senso, ho cercato di farti capire anche settimane fa, quando ci siamo parlati a casa mia, nello studio di Falmouth! Ma evidentemente fai davvero fatica a capire e ad accettare dei consigli”.

Io non amo i compromessi, lo ricordi questo?E non sono un codardo, se uno mi sfida, io rispondo senza scappare!”.

Demelza scosse la testa, più esasperata che arrabbiata. “I compromessi sono necessari in questo mondo, Ross. Se vuoi ottenere qualcosa di importante, devi imparare a chinare il capo e a giocare secondo le regole. Sei l'ultimo arrivato qui e vuoi cambiare usi e consuetudini in vigore da secoli? Beh, se vuoi iniziare a farlo allora devi scendere a compromessi con gli appartenenti al vecchio mondo, e da lì partire a crearne uno nuovo. E farsi sfidare a duello non è un buon modo per farlo”.

Ross indietreggiò, gli sembrava di avere davanti un'estranea e il suo orgoglio gli impediva di comprendere la sensatezza delle sue parole. “Una volta la pensavi come me”.

Demelza per un attimo rimase zitta, forse ponderando se rispondergli ed esporsi oppure andarsene via, lasciandolo solo ad arrangiarsi. Ross credeva avrebbe scelto la seconda opzione ma stavolta lei parve volerlo stupire e rimase, aprendogli un piccolo spiraglio ai suoi pensieri. “La penso ancora come te, ma fare a pugni nelle osterie o sfidare Adderly a duello non ti porterà da nessuna parte”.

Sì, aveva senso quello che diceva ed era palese che lei sapesse muoversi e trattare con quell'ambiente meglio di lui. E per la prima volta, da quando si erano rivisti a Londra, Demelza stava parlando con lui in maniera abbastanza civile, anche se stava succedendo a causa di Adderly. “Tu non la pensi come me, non più. Tu parteggi per Lord Falmouth che ha idee totalmente opposte alle mie, ad esempio, come abbiamo già avuto modo di appurare”.

Lord Falmouth è zio di mio marito e dei miei figli”.

Di DUE dei tuoi figli” - puntualizzò lui.

Di tutti i miei figli” - ribatté lei. “Ed è un uomo intelligente e sono certa che, se tu ti ponessi in maniera diversa, sapresti portarlo dalla tua parte. O forse le sue idee non ti sembrerebbero tanto pessime e insieme potreste trovare buoni compromessi”.

Fallo tu, prova a convincerlo...” - la provocò lui. “Se è vero che la pensi come me...”.

Demelza scosse la testa. “Io non mi occupo di politica, Ross. E non voglio entrare nelle tue faccende personali più di quanto non abbia fatto questa sera”.

Ross la osservò di sbieco, concentrandosi sulle sue successive parole. Già, perché era intervenuta nella sua disputa con Adderly? “Come mai mi ha così gentilmente 'difeso' da Monk?”.

Lei sospirò, prendendo a farsi aria col ventaglio che aveva fra le mani. Il suo sguardo tornò duro e freddo e improvvisamente fu di nuovo distante. “Perché sei un idiota che si stava mettendo nei guai. E Adderly ti stava guidando sapientemente in questo, senza nemmeno che tu te ne accorgessi”.

Ma non sarebbero comunque affari tuoi”.

Vero, su questo hai ragione. Ma evidentemente, nonostante tutto, ho ancora il cuore troppo tenero. Questa sera ti ho aiutato ma non succederà più, non sono affari miei e tu me lo hai appena fatto gentilmente notare. Ma vedi di stare attento...”. E poi, senza aggiungere altro, fece per andarsene verso la sala da ballo.

Ma Ross, a quel punto, decise di rischiare il tutto per tutto e la bloccò. Se non ne approfittava ora per parlarle, non avrebbe avuto altre occasioni chissà per quanto. “Aspetta!”.

Lei si voltò lentamente, guardandolo. “Cosa c'è?”.

Ross assunse una strana aria provocatoria, cercando di ottenere da lei una qualche reazione. “Volevo solo farti le condoglianze per tuo marito... L'altra volta, da Lord Falmouth, non ne ho avuto l'occasione. E tu devi aver dimenticato di comunicarmi la sua morte, nei nostri precedenti incontri”.

Lei rimase impassibile, glaciale. “Non l'ho dimenticato, Ross. Semplicemente, non vedevo motivi per parlarti di mio marito e non trovo motivo alcuno di interesse per te, di sapere di lui”.

Io però ti ho raccontato di Elizabeth” - ribatté.

E io non te l'ho chiesto. Sei stato tu a volermene parlare ma non per questo, mi dovrei sentire in obbligo di parlarti della mia vita”.

Ross deglutì, mordendosi il labbro. Di nuovo quel muro di freddezza, fra loro, che lei sapeva ergere con maestria. Era vero, Demelza non aveva obblighi verso di lui, di certo non gli doveva nulla e sicuramente aveva ragione, Hugh non erano affari suoi. Ma una volta... Una volta loro si dicevano tutto e ora invece erano due estranei e lei gli aveva omesso volontariamente una cosa tanto importante. E lo aveva fatto per tenerlo lontano perché Demelza sapeva che ora che lui era al corrente della verità, non le avrebbe dato tregua. “Dimmi una cosa! Sei felice, ora? Così, in questa vita tanto diversa da quella che amavi un tempo”.

Molto” - rispose, sicura.

Davvero?”.

Lei sospirò, forse arrendendosi al fatto che se non avesse dato una risposta adeguata, non le avrebbe lasciato tregua. “Non ho mai avuto una famiglia e ora ne ho una. E mi amano, i bambini sono circondati da persone che li adorano e che vogliono vederli crescere, hanno un futuro e io...”. Alzò le spalle, come a voler cercare le parole migliori per spiegarsi. “E io voglio bene a loro. Non per il denaro, non per la ricchezza, non per il potere o il prestigio. Ma per la fiducia e l'affetto che mi hanno dato e perché non fanno mancare ai miei figli ciò che da bambina... da sempre... è mancato a me: l'amore”.

Ross per un attimo rimase spiazzato per quelle parole dette sicuramente con onestà e che per la prima volta da quando si erano rincontrati, mettevano un po' a nudo l'anima di Demelza che una volta era sua e che ora non riusciva più a toccare. Però, nonostante questo, faceva male sentire quelle parole e come lei si fosse sentita finalmente amata a Londra mentre prima scorgeva il nulla. E non era vero. “Da sempre? E io, io non ti ho forse amata?”.

Lei volse lo sguardo altrove, forse pentendosi di quella confessione. “Non voglio parlare di queste cose, è passato molto tempo, è finita e ho accettato la realtà dei fatti”.

Quale realtà?”.

Lei sorrise, amaramente. “Che i sogni di una bambina che faceva la sguattera non si possono realizzare... Qualsiasi cosa quella bambina farà, qualsiasi sentimento lei proverà, qualsiasi cosa lei dirà... agli occhi di tutti resterà sempre e solo una sguattera da gettare via quando non serve più”. Si allontanò da lui, questa volta intenzionata ad andarsene. “E ora scusa, Adderly mi aspetta per il ballo”.

No, non poteva lasciarla andare, non poteva permetterle di pensare questo. Si era comportato in modo orribile, aveva mancato in mille occasioni e poi aveva cercato di riparare ai suoi errori, commettendo errori ancora più grossi. Ma mai, MAI aveva pensato di lei una cosa simile. E non poteva permettere che lo pensasse, non voleva che lei credesse qualcosa del genere. “Demelza, forse non mi crederai, forse non ho nemmeno il diritto di chiederti di credermi ma... per quel che vale non ti ho mai guardata a quel modo. Ne prima, ne dopo il matrimonio... E non ho mai pensato che tu fossi qualcosa da gettare quando non serviva più. Non credi che dovremmo parlarne?”.

No, non credo...” - disse lei, abbassando il capo.

Perché?”.

Perché non ti credo e perché non voglio stare a sentirti. Non ho motivo di farlo, sono la moglie di un altro adesso e tutto ciò che c'era prima è sparito, non esiste più. Così come non siamo più esistiti ne io ne i bambini per te, dopo quella notte. Non è vendetta, è che la vita va avanti, si deve vivere nonostante tutto e io non sono più la Demelza che ricordi tu. E tu hai fatto delle scelte, hai deciso di chi essere marito e padre e quindi non c'è motivo alcuno per parlarne. Ti ho lasciato fare come volevi, me ne sono andata e per fortuna, qualcuno è riuscito ad amarmi nonostante tutto. E io sono stata felice e ho scoperto che forse al mondo c'era qualcuno che mi credesse speciale e bella e che non ero solo una piccola sguattera da usare a piacimento. Per tanto mi sono creduta solo questo, tu hai fatto in modo che non lo dimenticassi mai e Ross, guardami! Sotto questi vestiti e questi gioielli, c'è ancora quella sguattera che hai scelto di lasciare per una gran Lady. Perché quindi perdi tempo a parlarmi? Di Elizabeth in questa sala, che ai tuoi occhi appariranno splendide, ne troverai tantissime”.

No, no e ancora no! Non poteva permettere che lo pensasse, che lo dicesse, che ne fosse convinta. Voleva solo allungare le braccia e stringerla a se, portarla via, baciarla, amarla e urlare che non era vero niente, che di Lady come Elizabeth lui non ne voleva, che tutto ciò che riusciva a vedere in quella sala era lei e solo lei, non una sguattera ma la donna che aveva rubato il suo cuore e che era la sua ragione di vita, l'unica che avesse mai considerato una moglie, una amica, una confidente preziosa, l'amore, il futuro e la madre dei suoi figli. Era un onore per lui, che lei fosse la mamma dei suoi bambini! Voleva urlarlo davanti a tutti e non poteva farlo, ma in qualche modo doveva dirglielo. Forse non quella sera, forse non lì, forse in un'altra occasione... Ma doveva perché quella certezza faceva sicuramente male al cuore di Demelza quanto faceva male al suo. Non era stato capace di farle capire i suoi sentimenti e a lungo, schiacciato da problemi e dolori, aveva cercato di ritrovare l'utopistica e perfetta gioia dell'amore giovanile senza problemi e aveva sbagliato, era stato orribile e crudele e lo capiva attraverso l'amarezza delle parole di Demelza, quanto male le avesse fatto senza pensarci, senza stare a soffermarsi sulle conseguenze delle sue azioni. Come aveva potuto permettere che sua moglie soffrisse tanto, senza preoccuparsene? Lei, che gli era stata accanto senza chiedere nulla mai, sia nei momenti belli che in quelli duri... Lei, che meritava davvero solo amore e dolcezza...

Guardò la mano di Demelza, portava all'anulare sinistro una fede d'oro con un piccolo diamante che non le aveva messo lui. Del loro anello non c'era traccia, Demelza doveva averlo tolto e messo chissà dove e ora solo il matrimonio con Hugh per lei contava. Portava ancora quella fede, anche se era morto da anni. “Lo amavi?”.

Non risponderò a questa domanda!” - ribatté lei, secca.

Lo amavi...” - rispose lui per lei - “E porti ancora la sua fede al dito. Non la mia”.

Il nostro matrimonio è stato annullato e quindi non è mai esistito. Cosa dovrei portarla a fare?”.

Lui sorrise tristemente. “Non so, credevo che per te contasse comunque ancora qualcosa, come per me”.

La risposta di Demelza però, lo gelò. “Per quanto riguarda Hugh, sì, lo amavo e mi manca, vorrei che fosse qui. E se lui fosse vivo ora sarei a casa, lui odiava i balli. Se fosse vivo non sarei uscita lasciando il mio bambino più piccolo in lacrime ma starei giocando coi nostri figli e starei raccontando loro una fiaba, amavamo fare le cose insieme ai bimbi. INSIEME! Ma Hugh non c'è e io ora devo rappresentare questa famiglia al suo posto e per lui e per il suo ricordo e ciò che conta per me, voglio farlo al meglio, anche se per farlo a volte devo trovare dei compromessi. Per quanto riguarda la fede, l'ho venduta, sette anni fa, per pagarmi il viaggio per Londra”.

Gli si mozzò il fiato, faceva male peggio che cento frustate. “Demelza...”.

Lei lo guardò, gelida e questa volta lui non trovò la forza per fermarla.

Buona serata, Ross...”. E sparì davvero, tornando da Adderly che la aspettava impaziente al centro della sala.

Rimase come un ebete da solo, mentre attorno a lui tutti ridevano e ballavano felici. Per la prima volta, in un certo senso, Demelza si era aperta a lui. E gli aveva fatto toccare con mano il suo passato, il dolore che gli aveva inferto e tutti i suoi errori, quelli commessi senza stare a pensare alle ferite che lasciavano sulla pelle di chi amava e i loro strascichi.

Santo cielo, SANTO CIELO! Per anni aveva sofferto per lei, pensando, credendo che la loro sofferenza fosse simile.

Ma si sbagliava, lei aveva sofferto di più e più a lungo...

Aveva distrutto con le sue mani quell'amore bello, sincero, unico e pulito che avrebbe potuto illuminare la sua vita, aveva distrutto la fede incrollabile di una donna che viveva per lui e lasciato i suoi figli senza nome e senza padre.

Aveva venduto la loro fede, Demelza... Anni prima se n'era liberata per andarsene lontano da lui...

Quell'anello che li aveva uniti, era stato il viatico per dividerli per sempre. L'ironia del destino era davvero crudele e lui quella crudeltà se la meritava tutta.


...


Quando Demelza tornò a casa, il suo cuore era in tumulto e martellava nel suo petto.

Non avrebbe dovuto esporsi così con Ross, non avrebbe mai dannatamente dovuto riaprire quelle pagine sul passato che dovevano invece rimanere chiuse, non avrebbe mai dovuto parlargli dei suoi sentimenti perché questo l'aveva resa vulnerabile ai suoi occhi e lei non voleva. Non voleva, non poteva permetterselo! Non voleva parlare di quelle cose, di quei sentimenti, di quelle sensazioni che non voleva ammettere nemmeno a se stessa e che invece erano scivolati fuori dalle sue labbra senza che lei riuscisse o potesse fermarli.

Avrebbe dovuto far finta di niente e divertirsi coi suoi amici, come da programma!

Ma quando l'aveva visto parlare con Adderly, quando aveva visto il furore negli occhi di Ross, quel furore che spesso, in passato, era stato fonte di guai, non era riuscita a far finta di nulla.

Adderly era un uomo letale e infido e Ross non era in grado ancora di capirne la pericolosità e di avere a che fare con lui.

Si chiese perché si fosse preoccupata, perché fosse andata a dividerli visto che non erano affari suoi, ma per la prima volta non seppe o non volle darsi risposte.

Persa in quei pensieri, percorse i corridoi, salì le scale della sua casa e nel silenzio della notte fonda, andò da Prudie a riprendersi Demian.

Quando entrò, trovò la domestica ancora sveglia e la candela sul comodino ancora accesa. Demian dormiva accanto a lei, rannicchiato contro le sue gambe e Prudie aveva la faccia stravolta. "Che è successo?" - chiese, preoccupata.

Prudie osservò il bambino. "Un disastro, stasera! Ha pianto tutto il tempo, ha pianto mentre vi guardava andare via in carrozza, ha pianto durante la cena e a un certo punto Lord Falmouth si è spazientito e ha alzato la voce per tutti quelli che lui chiama capricci. Demian ha pianto più forte e Daisy – la sua piccola avvocatessa – a quel punto è intervenuta come sempre a difesa del fratello e ha lanciato il suo piatto di minestra calda in testa allo zio".

Demelza sbiancò, era una catastrofe... "COSA?".

Prudie sospirò. "Lo sai ragazza, i gemelli si difendono sempre fra loro, guai a chi prova a contrariare l'altro... Falmouth li ha mandati in castigo in camera senza cena e ora sono in castigo. E ovviamente Jeremy e Clowance son stati preoccupati e silenziosi tutta sera per l'accaduto".

Demelza chiuse gli occhi, in cerca della calma necessaria ad affrontare la cosa. Oltre a Ross, ci mancava pure questo! La sua piccola e selvaggia orsetta aveva difeso suo fratello ma ovviamente non poteva comportarsi così e il giorno dopo l'avrebbe rimproverata a dovere. E Demian... Gli si strinse il cuore al pensiero del suo piccolo principe e di tutte le lacrime che aveva versato.

Si chinò, prendendolo in braccio, e nel sonno il bimbo si avvinghiò a lei. Lo osservò, le sue guance erano ancora rigate di lacrime e lo strinse a se coccolandolo. "Lo porto a letto, grazie Prudie. E domani penseremo a risolvere questo disastro".

Prudie annuì. "Com'è andata al ballo? Lui c'era?".

Demelza sospirò fra i capelli di Demian. "Sì... E preferirei non parlarne ora. Scusa!".

Prudie annuì, capendo il suo turbamento. E Demelza uscì, portando Demian nella loro stanza e cullandolo andando avanti e indietro nella stanza con lui in braccio, proprio come faceva quando era neonato per tranquillizzarlo. "Piccolo principe, ti prometto che per un pò staro con te, la sera. Ma tu non devi far così, d'accordo? O altrimenti succedono disastri" – sussurrò, immaginando con terrore Falmouth con in testa il piatto di minestra di Daisy che gli colava sul viso.

Nel sonno lui annuì, aprendo gli occhietti lievemente per poi richiuderli e abbracciarla più forte.

Demelza lo baciò sulla fronte. "Sistemeremo tutto, tesoro. Il mio passato che è tornato, i miei sentimenti che non capisco e non so tenere a bada e soprattutto... Tuo zio che da domani tornerà alla carica per assumere l'istitutore svizzero" – concluse, alzando gli occhi al cielo.

La vita è una cosa meravigliosa, aveva detto poche ore prima in quella stanza, Margarita. Sarebbe stato bello se fosse stato davvero così...





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Capitolo 41
*** Capitolo quarantuno ***


"Ho trovato molto interessante, la scorsa volta, l'accesa discussione che hai avuto con Ross Poldark e come lo hai rimesso in riga. Ti voglio al nostro prossimo incontro di venerdì pomeriggio, Demelza! Dovrà venire a discutere del prezzo del grano e spero di trovare un buon accordo con lui da portare poi alle votazioni in Parlamento. Puoi aiutarmi a fargli comprendere come ci si deve comportare, cosa sia giusto fare o no e come può portare il suo carisma e la sua intelligenza brillante al servizio di Westminster. E mio. Altrimenti... Credo che domani pomeriggio assumerò in pianta stabile Ser Gotfried Lehmann, brillante e rinomato educatore svizzero, come istitutore dei gemelli".

Demelza stavolta aveva dovuto accettare e chinare il capo davanti al non troppo celato ricatto posto in essere da Falmouth. Non poteva obiettare, non poteva argomentare senza esporsi e dover raccontare il suo passato e soprattutto, dopo quanto combinato da Daisy mentre lei era al ballo d'autunno, sarebbe stato difficile convincerlo che i gemellini erano semplicemente un pò vivaci. Ci voleva disciplina, ci volevano regole, lo sapeva anche lei che Demian doveva imparare a diventare più indipendente e Daisy più educata, così come sapeva che i bambini dovevano iniziare a portare il giusto rispetto agli adulti e che la situazione con loro stava sfuggendo di mano. Ma non voleva un educatore, non riteneva fosse quella la soluzione al problema sorto coi figli più piccoli e benché ormai fosse convinta che bisognasse intervenire, avrebbe lottato strenuamente all'assunzione di un estraneo che si occupasse dei gemellini.

"Va bene, sarò presente al vostro incontro" – disse quindi sconfitta, non potendo fare altro, anche se rivedere Ross le infliggeva continue fitte al cuore e si stava facendo coinvolgere, più di quanto avesse mai voluto, nella sua nuova vita di parlamentare di Londra. E poi... E poi era difficile guardarlo negli occhi dopo quanto si era lasciata scappare dalle labbra durante il ballo. Uno sfogo, un liberare nell'aria sentimenti e dolori a lungo repressi... Forse ne aveva bisogno, ma non avrebbe dovuto farlo davanti a lui! Con lui! Si era resa vulnerabile e ora Ross sarebbe partito al contrattacco!

Falmouth sospirò. "Dirò a Ser Gotfried che può, per ora, ritenersi libero da impegni con noi. Ma per quanto riguarda Daisy...".

Demelza sospirò. "Sì, va punita! Ma ha solo tre anni...".

"Quattro, fra pochi mesi! Troppi per essere così selvaggia!".

Lei abbassò il capo. "Intendevo che la punizione andrebbe rapportata alla sua età".

Falmouth la studiò con gli occhi. "Esattamente! E ne ho già in mente una per quella bambina che mi ha ustionato il cranio, con quella minestra calda".

Demelza deglutì. "Quale?".

"Si eserciterà ogni pomeriggio a scrivere il suo nome e non potrà uscire a giocare all'aperto finché non avrà imparato a farlo correttamente, in bella grafia".

Tirò un sospiro di sollievo, pensava a qualcosa di molto peggio... "D'accordo, mi pare una buona soluzione. E quanto meno imparerà a scrivere il suo nome, Daisy Armitage".

Falmouth fece un sorrisetto un pò maligno. "Oh, non Daisy Armitage! Voglio il nome completo!".

"Cosa?".

L'uomo si avvicinò alla finestra, osservando il parco. "Daisy Alexandra Charlotte Armitage, Lady Boscawen. Appartiene a una famiglia importante, deve imparare a scrivere il suo nome e il suo titolo nobiliare per intero. E' ciò che la rende ciò che è e sarà in futuro".

Demelza lo guardò esasperata. "E' troppo piccola per riuscirci! Non riusciremo a farla stare in casa finché non avrà imparato a farlo. Farà impazzire Prudie e tutte le domestiche che le si affiancheranno. E me!".

Falmouth le si avvicinò, poggiando una mano sulla sua spalla. "Non farà impazzire nessuno! Si eserciterà con me, nel mio studio! Assistendo ai miei incontri politici".

Demelza sbiancò in volto. Santo cielo, era impazzito? Come poteva pensare che Daisy potesse reggere senza fare disastri? E soprattutto... Giuda, la sua bambina sarebbe stata presente anche all'incontro con Ross!? Lei, Falmouth, Ross e Daisy... Era un incubo, doveva esserlo...

Falmouth si concentrò ad osservarla in viso. "Sei pallida, mia cara! Non ti senti bene?".

"N... No, sto benissimo!".

"Bene, allora comunica di persona a Daisy quale sarà la sua punizione". E così dicendo uscì dalla stanza, lasciando Demelza in preda all'ansia e alla frustrazione. In quel momento non sapeva chi volesse strozzare per primo fra Daisy che l'aveva messa in quella situazione, Falmouth che ne aveva approfittato subito e Ross che, suo malgrado stavolta, gli sarebbe comparso nuovamente davanti agli occhi...


...


Era arrivato un pò in anticipo nella grande residenza dei Boscawen e il maggiordomo lo aveva accompagnato allo studio di Lord Falmouth dicendogli che il signore e Lady Armitage sarebbero arrivati nel giro di pochi minuti.

Ross era stato sorpreso di apprendere, il giorno prima da Falmouth stesso, che Demelza sarebbe stata presente al loro incontro. Non che la cosa non gli facesse piacere ma da quando l'aveva saputo, non aveva fatto altro che chiedersi perché. Lei di certo non ne aveva piacere, doveva esserci stata costretta e nella sua mente si erano formate mille ipotesi e suggestioni sulle dinamiche famigliari della nuova famiglia di Demelza. Dinamiche che, poteva scommetterci, la costringevano a stare nell'unico posto al mondo dove non voleva essere: con lui. Doveva essere così e non poteva essere stata una libera scelta di Demelza quella di partecipare, ricordava bene come avesse già declinato un analogo invito di Falmouth, con fermezza, solo poche settimane prima.

Dalla sera del ballo non l'aveva più vista ma mai aveva smesso di pensare a lei e alle parole che gli aveva rivolto. Non rabbiose ma piene di dolore e rassegnazione, sentimenti che doveva aver covato in lei in quegli anni di lontananza ma anche prima, a Nampara, quando era sua moglie. Senza che lui si accorgesse di niente perché troppo preso a essere il principe azzurro di un'altra per rendersi conto che la sua famiglia aveva bisogno di lui e del suo amore.

Santo cielo che pessimo marito era stato... Orrendo, per averla portata alla conclusione di non aver mai contato nulla per lui. Ora, dopo tutto quel tempo, capiva quanto il suo darla per scontata, il suo essere sempre a disposizione per tutti eccetto che per lei perché la considerava troppo forte per aver bisogno d'aiuto, l'avesse pian piano ferita e annientata. Si erano allontanati e Ross sapeva che era per colpa sua, del suo egoismo e della sua arroganza, del suo animo inquieto, della sua lotta alle ingiustizie del mondo che mettevano a rischio anche il benessere della sua famiglia, della sua abnegazione verso Elizabeth che lo aveva portato al baratro...

Aveva perso tutto, per egoismo e incapacità di dimostrare il proprio amore alla donna della sua vita...

L'aveva come dimenticata in quel periodo seguito alle morti di Julia e Francis, si era allontanato da lei inseguendo un giovanile sogno utopistico, aveva dato per scontato l'avere diritto a quel sogno anche se era ormai marito e padre, che lei dovesse capire ed accettare, che dovesse rimanere al suo posto ad aspettare il suo momento, che... che... Come aveva potuto ferirla tanto? Come aveva potuto non dirle che l'amava, non farglielo sentire? Come aveva potuto spingere le persone che erano il suo mondo e che avrebbe dovuto proteggere, a scappare lontano da lui? Come aveva potuto abbandonare Jeremy e Clowance? I suoi bambini, come Julia... Che come Julia meritavano solo un padre che lottasse per rendere il mondo un posto migliore per loro...

Quando entrò nello studio di Falmouth, i suoi pensieri si interruppero bruscamente perché seduta alla scrivania, al posto del Lord, c'era la biondissima gemellina di Demelza, quella piccola peste che aveva fatto dannare Prudie al parco durante il loro incontro. L'esempio vivente del fatto che aveva perso Demelza e che la vita aveva fatto il suo corso, dandole un nuovo amore e altri due figli.

La bambina stava seduta con aria annoiata, con davanti un calamaio e un foglio pieno di scarabocchi. E quando alzò gli occhi su di lui, Ross sbiancò. Se lo riconosceva e lo diceva a Demelza, lui era nei guai! E anche Prudie che aveva voluto aiutarlo... E non osava immaginare la reazione di Falmouth!

Daisy spalancò gli occhi, borbottando qualcosa che spezzò le speranze di Ross di essere stato dimenticato. "Il fidanzato di Prudie..." - disse, guardandolo storto.

A Ross si rizzarono i capelli in piedi davanti a quelle parole. Santo cielo, lui e Prudie fidanzati... Non che non volesse bene alla sua ex domestica ma se c'era un limite al senso dell'orrido, la mocciosetta lo aveva decisamente superato. "No, ti sbagli. Sono un signore di passaggio che lavora con tuo zio".

Daisy non credette ovviamente a una parola. "Sei venuto per chiedere allo zio il permesso di sposare Prudie? La vuoi portare via?".

Ok, era nei guai e lei sembrava arrabbiata! E ora come ne usciva? E soprattutto, che diavolo ci faceva lì Daisy? "No, tranquilla, non sono venuto per Prudie. Sono quì per parlare con tuo zio di lavoro. Non sono il fidanzato di Prudie" – ripeté.

Le si avvicinò, osservando cosa stesse facendo, nella speranza di distrarla. "Cosa fai? Disegni?".

Daisy si imbronciò. "Giuda, no! Sono in castigo e lo zio e la mamma vogliono che scrivo tutto il mio nome intero! Mi hanno dato un sacco di nomi apposta, quei cattivi, per mettermi in castigo meglio! Davvero non sei venuto a trovare Prudie? Non la porti via?".

"No". Si inginocchiò di fianco a lei, doveva cercare di distrarla dal pensiero di Prudie e se tanto gli dava tanto, quella piccola carognetta bionda aveva un modo di ragionare molto simile al suo, da bambino. Doveva usare l'astuzia o lei lo avrebbe fregato. Con le piccole canaglie funzionava così: doveva dimostrarsi più canaglia di lei e ottenerne così ammirazione e attenzione, nonché rispetto. "Senti, ma Prudie ti da molte sculacciate?".

"Giuda, ho il culetto viola!".

A Ross venne da ridere ma si trattenne anche se la trovava davvero strepitosa. Aveva davanti una autentica monella di Cornovaglia, altro che mini-Lady londinese, anche se la bellezza di quella bambina era abbagliante e sprigionava signorilità da ogni poro. Suo padre doveva essere stato un uomo davvero affascinante per generare due bambini come i gemelli... Beh, era meglio non pensarci ora! "Sai, capitava anche a me da piccolo e se vuoi, posso insegnarti un modo per sfuggirle".

Daisy lo guardò sospettosa ma allo stesso tempo interessata. "Quale?".

"Te lo dico, se facciamo un patto!".

"Cos'è?".

"Un accordo. Io do qualcosa a te e tu ne dai una a me. E' una cosa importante, che si fa solo fra vere persone d'onore! Gente che mantiene la parola e di cui fidarsi. Ne sei capace?".

"CERTO!" - rispose lei in tono di ovvietà, alzando le spalle con noncuranza. "Tu mi insegni come non avere il culetto viola e io cosa devo fare?".

"Solo non dire alla mamma e allo zio che ho chiacchierato con Prudie al parco. Deve rimanere un segreto, sei capace a mantenerne uno?".

Daisy ci pensò su. "Ti ho detto di sì! Va bene, sto zitta! Io sono brava lo sai, sono anche la più brava a dire le bugie, giuro! Ma come faccio con le botte?".

Ross fece un sorrisetto furbo, l'aveva in pugno. E che fosse una conta-frottole professionista era indubbio, non c'era bisogno che lei glielo assicurasse anche se si auspicava, non ne stesse raccontando anche a lui in quel momento. Sperò che Prudie lo perdonasse, dopo tutto lo stava facendo anche per lei oltre che per se stesso. "Prudie è anzianotta e grassa, fa fatica a muoversi, giusto? Tu invece sei piccola e veloce e quindi, quando lei vuole darti una sculacciata e sta per prenderti, tu gettati in terra. Lei non riuscirà a prenderti, non è così agile a chinarsi, le farebbe male alla schiena. Se stai stesa in terra o seduta quando lei ti insegue, non riuscirà mai ad averti. E avresti il sederino salvo". Non era corretto, lo sapeva! Ma in fondo era compito di un ex-bambino terribile insegnare ai suoi successori i trucchi del mestiere... "Mi raccomando però, anche questa nostra conversazione deve rimanere un segreto fra noi due".

"Mh... sì!". Daisy, che fino a quel momento lo aveva guardato con sospetto, cambiò espressione e a Ross parve di scorgere nei suoi occhi azzurri, una sorta di ammirazione e rispetto. "Ohhh... Sicuro che funziona? Con le botte!".

"Sicuro! Da piccolo sculacciavano anche me e quando succedeva, io facevo così e riuscivo sempre a cavarmela". Le prese la manina, conferendo al loro patto segreto un tono di solennità. "Accordo fatto?".

Lei sorrise, rispondendo alla stretta. Era un patto fra due persone rispettabili, no? "Sì. Shhh, è un segreto che sei il fidanzato di Prudie!".

"Non sono il fidanzato di Prudie! Ma non importa, non dirai niente, vero?".

Lei scosse la testa. "Niente. Però mi giuri che non la porti via, Prudie?".

Le sorrise, in fondo sotto quella scorza da bambina terribile, doveva aver sviluppato un forte affetto per chi si prendeva cura di lei, anche se lo manifestava in maniera curiosa. "Te lo giuro. Parola d'onore". Certo, era la verità dopo tutto anche se, per il suo bene, decise di tacere che in realtà il suo desiderio era portarsi via la sua mamma...

Daisy annuì. "Grazie signore".

Ross fece per rispondere quando la porta si aprì. E Falmouth e Demelza entrarono nello studio.

Falmouth era impeccabile e distino come sempre mentre Demelza, vestita con un elegante abito giallo e coi capelli raccolti in una treccia, sembrava imbronciata e nervosa.

Ecco, quindi non si era sbagliato, se era lì con loro, doveva essere contro la sua volontà! Ma fece finta di nulla, salutò entrambi con un elegante cenno del capo e poi si mise composto sulla poltrona, ad aspettare che loro facessero altrettanto.

Falmouth si sedette alla scrivania, di fianco a Daisy e Demelza nel piccolo divanetto accanto, silenziosa ed evidentemente a disagio. Si accomodò, accavallò le gambe e poi sospirò, forse per evidenziare il suo scontento.

Daisy guardò lo zio e lui guardò il foglio con gli scarabocchi. “E allora? Vedo che non hai combinato nulla!”.

Ross osservò Demelza che sembrava tesa come una corda di violino per quella situazione che forse, oltre a lui, comprendeva anche un qualcosa che riguardava la bambina, poi osservò la piccola che, imbronciata, riprese il foglio stropicciandolo fra le manine.

NON-SONO-CAPACE!”.

Falmouth non si scompose. “Imparerai! Ma non ora! Adesso assisterai a una conversazione interessante fra me e il signor Poldark sul prezzo del grano! Ti interessa il prezzo del grano? E’ una questione importante”.

Demelza alzò gli occhi al cielo e Daisy guardò suo zio con una faccia talmente buffa che, se non fosse stato per la situazione di gelo con la sua ex moglie, sarebbe scoppiato a ridere molto volentieri.

No, non mi interessa” – rispose la piccola con sincerità, dondolando le gambine che penzolavano dalla sedia.

Non importa, ascolterai lo stesso”.

Daisy sbuffò e Ross si trovò un po’ in difficoltà. “Ecco… Forse questi non sono argomenti adatti a una bambina” – tentò di argomentare, suscitando lo sguardo sorpreso di Demelza che fino a quel momento era rimasta stranamente in silenzio.

Falmouth osservò la sua nipotina. “Daisy è in castigo, ma il castigo può e deve trasformarsi in qualcosa di istruttivo per la giovane mente di una futura Lady. Imparerà a scrivere il suo nome, come funziona la politica e soprattutto si ricorderà come ci si deve comportare e cosa è bene fare e cosa no”.

Ross osservò la piccola che, dall’espressione, era già più che annoiata. “Che… che ha fatto per meritarselo?” – chiese infine, vinto dalla curiosità, guadagnandosi un’occhiataccia da Demelza per quell’intromissione nelle sue faccende personali.

Falmouth scosse la testa, impilando dei fogli che si trovavano davanti a lui. “Non accetta i no, è disubbidiente, bugiarda e aggressiva. L’altra sera mi ha lanciato in testa un piatto di minestra bollente che, oltre ad avermi scottato viso e fronte, è stato un atto di insubordinazione che non posso tollerare”.

Ross guardò Demelza sempre più silenziosa e imbronciata e poi Falmouth e poi la piccola peste. Santo cielo, aveva voglia di ridere di nuovo, mentre immaginava la scena.

Daisy sbottò, picchiando le manine sul tavolo. “Giuda, mica mi sono divertita! Mi sono scottata le manine per prendere il piatto e lanciarlo! E poi lo zio era cattivo e ha fatto piangere Demian! Demian è mio fratello, nessuno deve farlo piangere!”.

Ross la guardò e sentendola parlare, gli tornò in mente il giorno in cui conobbe Demelza e lei si era dimostrata pronta a rinunciare all’occasione di lavorare per lui che gli stava offrendo, per amore di Garrick. Erano simili, anche se agivano in modi diversi. “Beh, forse la causa era nobile ma la reazione sbagliata”.

Ancora Demelza lo guardò, stavolta impressionata ed attenta a quel suo tentativo di salvataggio di Daisy. Decise quindi di proseguire, un po’ per aiutare lei in quella situazione in cui si era trovata a causa della bimba e che ora cominciava ad essergli chiara, un po’ perché in fondo, anche se figlia di Armitage, Daisy gli stava dannatamente simpatica.

Che volete dire?” – chiese Falmouth. “Non c’è nulla di nobile in ciò che Daisy ha fatto”.

Certo, sono d’accordo. Ma ecco, credo che a volte, con certi bambini, non serva a nulla dire no e basta, sperando che ubbidiscano senza capire. Io da piccolo ero molto simile a vostra nipote e se mi davano dei divieti senza darmi la spiegazione del perché, io li infrangevo per il semplice gusto di farlo. Se invece mi si spiegava che, ad esempio, era giusto proteggere mio fratello ma che farlo lanciando del cibo era sbagliato per tutta una serie di motivi, ci pensavo due volte a rifare la stessa cosa. Questo non vuol dire che un bambino diventa ubbidiente totalmente ma che forse lo sarà più spesso e che quanto meno avremo un dialogo con lui”.

Falmouth scosse la testa, non troppo convinto. “Avete idee strane Poldark, nella politica come nella vita. I bambini devono ubbidire e basta, non servono spiegazioni. E devono fidarsi delle scelte degli adulti che li amano, senza recriminare”.

Non sono d’accordo!” – ribatté Ross. “I bambini devono dire la loro e devono fare le loro rimostranze quando non la pensano come noi! Sta agli adulti insegnar loro il modo di farlo. Devono imparare a dire cosa pensano, sempre”.

Sì, ha ragione lui!” – sbottò Daisy, picchiando le manine sulle scrivania e guadagnandosi un’occhiataccia da suo zio.

Daisy, silenzio! E voi Poldark, è la politica che usate con vostro figlio?”.

Ross sospirò, non era un buon padre e non si reputava tale ma sì, sarebbe stato il modo in cui si sarebbe sempre approcciato a Valentine ed era con questo spirito che lo aveva portato a Londra con se, dopo le sue rimostranze al fatto che volesse lasciarlo a Nampara coi Gimlet. “Mio figlio è timido, taciturno e molto delicato di salute, quindi difficilmente ho avuto discussioni con lui ma quando è successo ho cercato di ascoltarlo e capirlo, per quanto possibile” – concluse, trovandosi a disagio a parlare di Valentine davanti a Demelza. Sapeva che questo aspetto della sua vita era una ferita ancora sanguinante e aperta in lei e odiava farle di nuovo del male.

Demelza però non parve particolarmente turbata o, se lo fu, lo dissimulò bene. E anzi, lo guardò con curiosità, tanto che a Ross sembrò sul punto di dire qualcosa.

Falmouth invece sembrava propenso a chiudere la questione sull’educazione dei bambini. “Beh, parliamo di cose serie! Demelza, ora ho bisogno del tuo aiuto”.

Lei sospirò. “Se non conosco la natura del vostro contendere, dubito di potervi aiutare…”.

Ross rimase colpito dal suo modo di parlare tanto forbito mentre Falmouth, forse molto più abituato a trattare con lei, proseguì nella sua invettiva. “Il signor Poldark ha promosso una mozione che verrà votata domani in Parlamento per la riduzione di 12 scellini al sacco, del prezzo del grano. Vorrei mi aiutassi a convincerlo a ritirarla!”.

Non ci penso proprio!” - Ribatté Ross con aria di sfida. “Il grano ha raggiunto prezzi proibitivi per la maggior parte della popolazione e ci stiamo avvicinando all’inverno. E tutti noi sappiamo quanto può essere duro superarlo, se non si ha la pancia piena. Soprattutto per i bambini come la vostra adorabile nipotina”.

Demelza fece correre lo sguardo fra lui e Falmouth, pensierosa. Poi… “Non credo che una riduzione di 12 scellini ci manderà sul lastrico, negli ultimi anni in effetti il prezzo del grano è aumentato molto mentre gli stipendi della popolazione più povera, no!”.

Ross le lanciò uno sguardo di ringraziamento per quell’inaspettato aiuto. In fondo chi meglio di lei poteva conoscere cosa fosse la fame?

Falmouth invece sembrava fermo nelle sue convinzioni. “Se si trattasse di un solo sacco di grano, si potrebbe anche fare! Ma Demelza, hai idea di quanti soldi in meno guadagneremmo noi produttori?”.

Lei rispose a tono. “Ne guadagneremmo comunque meno, se nessuno potrà comprare il grano perché troppo costoso! Resterebbe invenduto nei magazzini, col rischio di venire rubato da chi è disperato e non ha altra scelta”.

Ross, imitato da Daisy, fece scorrere lo sguardo fra lei e Falmouth, rapito da quel botta e risposta fra i due. Si chiese cosa la spingesse ad aiutarlo così. Certo, Demelza aveva sempre avuto a cuore i problemi sociali, ma era solo quello? O stava cercando di irritare Falmouth in modo che non la invitasse più ai loro incontri?

L’uomo digrignò i denti. “Demelza, non è questo il punto! Il signor Poldark non può pretendere che ogni sua mozione venga approvata senza discussione, così, a scatola chiusa! Non scende a compromessi, perché dovrei scendere io a patti con lui, se non viene incontro alle mie esigenze e alle esigenze degli appartenenti alla nostra classe?

Demelza si voltò verso di lui, stavolta parlandogli in modo diretto. “E’ così?”.

Ross sostenne il suo sguardo. “Non scendo a compromessi quando so di essere nel giusto”.

Certo, capisco! Ma anche chi vi ribatte, è convinto di essere nel giusto. Non potete andare in Parlamento e chiedere e pretendere, senza ascoltare nessuno e senza scendere a qualche compromesso che possa aiutarvi a raggiungere i vostri obiettivi. Bisogna saper ascoltare, come avete suggerito poco fa quando parlavate della mia bambina…”.

Ross deglutì. Colpito ed affondato! “Cosa proponete?”.

Un giusto accordo fra voi, che veicoli i voti verso la vostra proposta senza troppi malumori”.

Del tipo?”.

Del tipo che dovreste trovarvi a metà strada. Una riduzione di 12 scellini a sacco sarebbe vista con malumore dai più, non ricevereste voti da nessuno, eccetto forse dai vostri più strenui sostenitori. E chi muore di fame, continuerebbe a morire di fame! Ecco, una via di mezzo che tenga conto di guadagni e benefici anche sociali e di immagine ai più, potrebbe essere meglio accolta”.

Falmouth non sembrava entusiasta. “Una riduzione della metà, sarebbe di sei scellini! Comunque troppi”.

Demelza annuì mentre Ross la ammirava per quella sua innata capacità di conversare, coinvolgere e convincere, come se per tutta la vita non si fosse occupata d’altro che di politica. “Sei scellini nei mesi invernali, i più duri. E una riduzione di quattro nei restanti mesi dell’anno. Non inciderebbe che di poco sui nostri guadagni ma per chi non ha denaro per sfamare i propri figli, sarebbe una grande benedizione che attirerebbe su entrambi il favore popolare”.

Ross, non molto abituato a trattare, si trovò improvvisamente d'accordo con quella soluzione che poteva accontentare entrambi, scorgendo nelle parole di Demelza un rimando a quello che doveva essere stato il suo triste passato di bambina sempre affamata. Falmouth invece fece per obiettare. “Ma…”.

Demelza si alzò, a quel punto, prendendo Daisy per mano. “Volevate la mia opinione e ve l’ho data. Ad entrambi! E ora scusate, ma la bambina deve fare merenda”.

Falmouth guardò storto la piccola Daisy che gli restituì l’occhiataccia. “E’ in castigo!”.

Giuda, ho fame!” – protestò la bambina. “Pensate ai poveri e non a me!”.

Ho detto di no!” – ribatté Falmouth mentre Demelza sembrava innervosirsi.

E a quel punto, Ross captò un movimento veloce della mano della bambina che non avrebbe portato a nulla di buono. La vide puntare la boccetta d’inchiostro e se tanto di gli dava tanto, l’avrebbe presa e tirata in testa allo zio come aveva fatto con la minestra. Per un attimo si chiese se intervenire e distrarla in qualche modo prima che peggiorasse la sua situazione e quella di Demelza, ma non ce ne fu bisogno. Perché anche Demelza, che conosceva la figlia meglio di chiunque altro, captò con l’occhio il gesto della piccola, prendendole la manina appena in tempo prima che Falmouth si accorgesse delle sue intenzioni.

Osservò l’uomo, risoluta e pronta a combattere se necessario. “E’ stanca e affamata e non otterremo nulla da lei, se la teniamo qui a forza. La mandiamo a fare merenda e a riposarsi mezz’ora e poi tornerà qui più tranquilla e pronta per scrivere il suo nome. Giusto, Daisy?” – disse, fulminando la piccola con uno sguardo di rimprovero per ciò che voleva fare con l’inchiostro.

Giusto”.

Ross sorrise. Sapeva trattare, tanto in politica, tanto nelle questioni famigliari. Era cresciuta molto in quegli anni, era maturata e aveva affinato le sue già eccellenti doti di consigliera nelle questioni dove sorgevano discussioni. “Credo… Credo che quanto suggerito da Lady Boscawen sia ragionevole. Per il prezzo del grano, intendo. Se accettate, Lord Falmouth, io riformulerò la mia proposta secondo i nuovi termini suggeriti dalla signora”.

Demelza guardò Falmouth, incuriosita. “E allora?”.

E Falmouth cedette. “E sia, avremo questi sconti per un anno. Poi vedremo… Avrete il mio voto e quello dei miei alleati, signor Poldark. Sei scellini in inverno, quattro nei mesi caldi. Non uno in meno, non uno in più! E mi dovete un voto per la mia nuova strada privata che sorgerà a Norcross!”. E, più di buon umore e in fondo contento per aver ottenuto anche un tornaconto personale che era sicuro di sfruttare a breve, prese per mano la nipotina. “Vado a prendere delle carte nella mia stanza per siglare l’accordo e nel mentre porto la bambina a fare merenda” - esclamò, rimangiandosi quanto detto poco prima sul castigo di Daisy.

Demelza sorrise, Daisy saltellò contenta e Ross e Demelza si guardarono negli occhi con terrore, davanti all’evidenza del fatto che sarebbero rimasti da soli per qualche minuto.

Falmouth li ignorò e uscì dalla stanza con la piccola Daisy che però, prima di uscire, si voltò verso Ross strizzandogli l’occhio in segno d’intesa per il loro patto segreto di poco prima.

Ross sospirò. Non aveva altra scelta se non fidarsi di quel piccolo e poco affidabile soldo di cacio!

Appena rimasti soli, credeva che il gelo sarebbe piombato fra loro ma Demelza lo stupì, di nuovo. Seduta, col viso basso e le mani in grembo, si rivolse a lui in modo del tutto inaspettato. “Grazie”.

Ross spalancò gli occhi. “Per cosa?”.

Lei alzò lo sguardo su di lui, timidamente. “Per prima, per quello che hai detto su Daisy… Lei è… un po’…”.

Oh…”. Ross abbassò lo sguardo, non c’era davvero bisogno che lo ringraziasse per aver detto ciò che pensava. “E’ un po’ vivace, come lo ero io. E’ solo una bambina ma per un lord come Falmouth è difficile da capire e trovare il modo di essere meno rigido nel rapportarsi con lei”.

Lei lo stupì di nuovo, aprendosi a una piccola confessione. “E’ più che vivace! Daisy ci sfida, da quando è nata… Io la adoro ma credo di dover imparare a essere più dura e ferma con lei!”.

Ross sospirò. “Sei sua madre, suppongo che tu sappia cosa fare”. La guardò e in quel momento gli sembrò incredibilmente stanca e lontana dalla donna scaltra e risoluta che si era dimostrata pochi minuti prima. “Dovrei ringraziarti anch’io per prima, per come hai trattato la disputa fra me e Falmouth. Suppongo che trovare accordi e delle vie di mezzo, sia un buon modo per sopravvivere in questo ambiente e fare qualcosa di buono”.

Suppongo di sì” – disse lei. “E credo che questo… Questo…”.

Cosa?”.

Lei alzò gli occhi su di lui. “Ci ho pensato e credo che anche noi due dovremmo trovare delle buone vie di mezzo per vivere qui, a stretto contatto e con infinite possibilità di vederci. Il passato non conta, non più. Cerchiamo di essere civili e di non intralciarci, cerchiamo di vivere il meglio possibile questa cosa o finiremo per farci del male. E io non ho né tempo né voglia di rischiare che succeda. Voglio solo stare in pace. Tu sei quì, io anche, dobbiamo solo accettarlo da persone adulte, senza recriminare sul passato”.

Lui annuì. “Sono d'accordo”.

Lei abbozzò un timido sorriso. “Avrei votato per quei 12 scellini in meno però purtroppo non dipende da me e non funziona così a Westminster. Ma ritieniti fortunato a essere entrato nelle grazie di Lord Falmouth, scende a compromessi solo con chi ritiene meritevole di avere a che fare con lui. E poche persone appartengono a questo gruppo. Fattelo amico, da lui potrai imparare molto, così come ho imparato io negli anni”.

Ross annuì, lei stava dandogli un suggerimento disinteressato e lo stava facendo senza secondi fini. Lo apprezzava perché doveva costarle molto e in questo dimostrava una grande maturità che a lui forse ancora mancava. E sì, si trovò d'accordo con lei, doveva davvero solo imparare ad ascoltare di più e a essere meno cocciuto. “Lo farò, anche se lui ed io siamo molto diversi”.

La porta improvvisamente si aprì e Ross e Demelza si voltarono, pensando fosse Falmouth che era tornato coi documenti.

Ma si sbagliavano perché davanti a loro si materializzarono Jeremy e Gustav.

Ross sorrise, era felice di vedere suo figlio e di tutte quelle occasioni che, la stima di Falmouth, gli regalava per incontrarlo.

I bimbi lo riconobbero e salutarono ma dopo un po’ si concentrarono su Demelza.

Mamma! E l’albero di Natale?” – chiese Jeremy.

Ross si grattò il mento, pensieroso. Cos’era un albero di Natale?

Demelza invece sospirò. “Ancora con questa storia? Manca un sacco di tempo, mesi! E non lo voglio in mezzo ai piedi già da adesso!”.

Jeremy si imbronciò, picchiando un piede a terra come avrebbe fatto Daisy nella medesima situazione. “Ma hai detto in autunno! E adesso è autunno, è settembre! Dai mamma, daiiiii!!! Ci serve!”.

No che non ti serve, aspettiamo ancora un po’!” – disse lei, osservando pensierosa Gustav che, stranamente, continuava a grattarsi le braccia e la pancia. “Gustav, che c’è?”.

Jeremy rise. “Sembra una coccinella, c’ha puntini rossi dappertutto!”.

E mi prudono pure!” – aggiunse Gustav.

Ross si accigliò e Demelza impallidì, alzandosi di scatto e prendendo un braccio di Gustav per osservarlo. “Giuda!” – esclamò.

Gustav la guardò preoccupato. “Che c’è?”.

Lei parve scoraggiata. “Varicella…”.

E’ una malattia, mamma?” – chiese Jeremy.

Sì”.

Gustav divenne pallido come un cencio e prese a tremare. “Grave? Tanto tanto grave?”.

Lei sospirò mentre Ross, decisamente divertito e con l’animo più leggero per quanto si erano detti poco prima, provò di nuovo la voglia di ridere.

Demelza, decisamente meno divertita di lui, prese Gustav per mano, portandolo verso la porta. “No, non è grave ma è infettiva! Corri da Bastian e fatti portare a casa”.

Gustav sospirò. “Infettiva? Che vuol dire?”.

Che potresti infettare anche gli altri!”.

Il bimbo abbassò lo sguardo, mortificato. “Anche la mia amata Clowance?”.

Ross si voltò dall’altra parte per non ridergli in faccia. Non che avesse chissà quali speranze con sua figlia, ma quelle poche che forse, in un altro universo, poteva avere, sarebbero svanite come neve al sole se lei avesse preso la varicella a causa sua. Non sarebbero bastate tutte le spade nella roccia del mondo per ottenere un perdono!

Demelza sospirò, scoraggiata. Aveva quattro figli, quattro potenziali bambini con la varicella e doveva muoversi subito! Lo salutò frettolosamente, ordinò a Jeremy di correre via e portò Gustav, trascinandoselo dietro, dal loro cocchiere, con l’ordine di rispedirlo subito a casa sua.

Rimasto solo Ross sorrise, osservando il bellissimo soffitto affrescato di Falmouth. Era una bella giornata, nonostante tutto… Demelza sembrava meno aggressiva e più propensa ad avere a che fare con lui, il muro che li aveva tenuti divisi a lungo iniziava a scricchiolare, Falmouth pareva apprezzarlo e si era fatto una potente alleata in quella casa, Daisy.

Era decisamente un nuovo inizio, pensò…


...


Era ormai passata l'ora di cena e in casa c'era stato scompiglio anche se, stranamente, dopo la chiacchierata con Ross del pomeriggio, Demelza si sentiva stranamente meno angosciata e più serena.

Aver capito di dover accettare la presenza di Ross a Londra le conferiva una nuova pace d'animo, le aveva fatto capire che non poteva lottare contro l'inevitabile e le aveva dato la forza di voltare pagina, cercando di impedire al passato di influenzare il presente.

L'unico neo della giornata era stato che Prudie era rimasta bloccata con la schiena mentre inseguiva Daisy dopo una marachella e avevano dovuto chiamare Dwight che aveva sentenziato che la sua domestica aveva 'Il colpo della strega' e che doveva stare a riposo dieci giorni.

Non ci voleva, c'era già il rischio varicella che incombeva su tutti loro e Prudie bloccata a letto era una catastrofe.

Salì al piano di sopra diretta alla camera da letto, desiderosa di rilassarsi leggendo un libro, quando notò che Daisy era seduta per terra in mezzo al corridoio, meditabonda. "Orsetta, che ci fai in terra?".

Lei alzò le spalle. "Così, niente! Prudie è a letto?".

Demelza si inginocchiò davanti a lei. "Sì, ha mal di schiena e non può alzarsi. Tu sai perché la sua schiena fa male?".

"Noooo". Daisy picchiettò le dita sul pavimento, pensierosa. "Ci deve stare tanto?".

"Dieci giorni, dice Dwight".

Daisy alzò un sopracciglio. "Dieci giorni e non può andar via?".

"Ovviamente no!".

E a quelle parole, inaspettatamente, Daisy si alzò in piedi e senza spiegazioni, sorridendo soddisfatta per qualcosa, le diede un bacio sulla guancia. "Buona notte mammina, ti voglio bene! Se mi davi meno nomi te ne volevo di più, ma fa niente".

E così dicendo, sollevando il sederino in alto mentre camminava, se ne tornò verso la sua cameretta lasciando Demelza ancora più perplessa. Le stava nascondendo qualcosa, ne era certa... Ed era altrettanto certa che qualunque cosa fosse, Daisy non avrebbe aperto bocca.


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Capitolo 42
*** Capitolo quarantadue ***


La varicella era arrivata dopo dieci giorni in casa Boscawen, colpendo tre dei quattro bimbi che vi vivevano. Solo Demian era stato esentato e miracolosamente, in quei giorni di malattia e serve col mal di schiena, era più visto e chiacchierone del solito.

E arrabbiato...

Perché i suoi fratelli avevano quei bellissimi puntini rossi su tutto il corpo e lui no e li voleva! Lui voleva sempre essere uguale ai suoi fratelli e soprattutto, non accettava che Daisy avesse la varicella e lui no! E Demelza aveva ovviato alla cosa dipingendogli sul faccino, ogni mattina, dei puntini rossi usando i pastelli a cera con cui il bimbo amava disegnare, a patto che la sera si facesse fare il bagno senza storie. E dopo questa operazione, eccitato e contento, Demian correva in camera dai fratelli per farsi vedere, pieno di orgoglio nell'essere come loro!

Per fortuna la varicella non fu presa in maniera violenta e la febbre, a parte una sera in cui divenne piuttosto alta per Daisy, non diede mai particolari preoccupazioni. La cosa più difficile era tenere però impegnati i bambini in quei giorni di immobilità in cui erano costretti a letto.

Demian era stato affidato alle cure di tata-Mary visto che Prudie era ancora convalescente per il problema alla schiena e Lord Falmouth aveva ceduto alle richiesta di farlo disegnare pure fuori dalla sua stanza da letto anche se poi se n'era pentito subito, visto che aveva scoperto il bambino che disegnava sulle pareti del salone da ballo principale, rischiando di finire in castigo a scrivere il suo nome come la sua gemella pochi giorni prima.

Il tempo divenne freddo e piovoso in quei giorni, era ormai autunno e Demelza trascorse le sue giornate cercando di intrattenere i bambini che si ritrovavano tutti in camera di Jeremy per trascorrere il tempo, lui da solo nel suo letto e le bambine insieme nel letto che avrebbe dovuto essere di Demian, se mai avesse deciso di dormire da solo.

Il figlio più grande si contava con orgoglio, ogni giorno, i puntini che aveva su pancia, gambe e braccia, annotando su un quaderno ogni variazione al tema, Clowance piangeva disperata pensando di rimanere sfigurata e maledicendo Gustav ogni due per tre mentre Daisy era come una bestiolina in gabbia che, appena cessata la febbre da cavallo, era difficile tener ferma.

"Mamma... ora che si fa?" - chiese Jeremy mentre lei riponeva un libro che aveva appena letto loro.

"Volete dormire un pò?".

"No, vogliamo fare l'albero di Natale!" - insistette Jeremy, di nuovo, mentre il suo cagnolino Fox gli faceva da eco, abbaiando allegramente mentre saltellava sul letto. "Dai, ti prego! E' autunno per davvero adesso, piove pure e fra poco avremo tanta nebbia! E papà sarebbe contento, amava gli alberi di Natale!".

"Sì dai mamma!" - insistette Clowance mentre accarezzava il pelo bianco di Queen, stesa accanto a lei sulle coperte. "Se vai a comprare gli addobbi nuovi, poi facciamo l'albero insieme. E mentre ti aspettiamo, riposiamo! Giuro!".

Daisy, seduta sulle sue gambe, la tirò la stoffa della manica. "Ce lo hai promesso. Mi hai promesso anche che in autunno andavamo allo zoo a comprare il mio orso!".

Demelza rise, baciandola sulla fronte. Nonostante la varicella, era e rimaneva una piccola e furba canaglia. "Piccola orsetta, non ti ho mai promesso nulla del genere! Ti ho promesso solo che saremmo andati allo zoo a VEDERE gli orsi! Ci andremo, appena sarai guarita".

"E gli addobbi?" - insistette di nuovo Jeremy.

Demelza sorrise, in fondo perché no? Ci tenevano tanto e quel rito che ormai si ripeteva ogni anno, rendeva lei e i bambini uniti nella costruzione di una favola e l'idea di passare le serate successive con loro accanto all'abete addobbato, sorseggiando cioccolata calda e raccontandosi storie davanti al camino, metteva di buon umore anche lei. "Dormirete, mentre esco a comprare gli addobbi?".

I tre bimbi annuirono, eccitati e contenti. "SIIIIIII!!!".

Demelza mise Daisy sul letto, rimboccandole le coperte. "E allora, aspettatemi quì e dormite un pò! Esco, compro una montagna di addobbi bellissimi e poi quando torno, tiriamo fuori dalla soffitta le sfere di vetro colorato e rendiamo questa casa, una vera casa di Natale".

Gli occhi dei bimbi brillarono dalla contentezza. E lei sentì il cuore gonfiarsi di gioia...

Li mise a letto e poi, dopo aver indossato un caldo mantello di lana verde, chiese a un domestico di procurare un grosso abete da mettere nel salone, predispose la servitù affinché preparasse l'occorrente e infine uscì di casa, decisa a fare una passeggiata fino al vicino negozio di addobbi dove si riforniva ogni anno.

Pioveva, ma trovò la passeggiata piacevole e quando giunse alla sua meta, comprò ogni cosa attirasse la sua attenzione e tutto ciò che ai bambini sarebbe piaciuto. Poi, dopo aver pagato e chiesto di recapitare a casa sua gli oggetti più pesanti, con due grosse borse piene di decorazioni, uscì per fare due passi e vedere se trovava qualcos'altro in giro.

E fu allora che, di nuovo, il destino la fece quasi scontrare con Ross. Letteralmente, all'angolo fra due vie, per poco non rischiarono di darsi una sonora testata.

Doveva essere una maledizione quella, pensò sconsolata.

Demelza lo guardò spalancando gli occhi, lui fece altrettanto, evidentemente sorpreso quanto lei di trovarsi in giro in un pomeriggio di pioggia. Il mondo era davvero un posto piccolo... E ancor più lo era il centro di Londra, evidentemente...

"Demelza?".

"Ross?". Demelza lo osservò, accorgendosi subito che era pallido e preoccupato. "Che ci fai quì? Stai venendo a casa mia per vedere Lord Falmouth?". Non era usuale vederlo da quelle parti e di solito l'aveva incontrato lì solo quando si era recato a casa sua per delle visite di lavoro. Ma quel pomeriggio Falmouth era fuori Londra per degli affari e quindi...?

"No... No, sono stato a cercare il dottor Wilson ma purtroppo il suo studio è già chiuso e sto tornando a casa".

Demelza sentì una strana ansia attanagliarle lo stomaco. Ansia che non voleva provare, accidenti! "Stai male?".

Lui sembrò in imbarazzo, davanti a quella domanda. "No, non io" – rispose, frettolosamente, come a voler tagliare quel discorso.

"Un tuo servo?".

Ross sospirò. "No, mio figlio. Ha la febbre e dolori forti alle gambe e continua a piangere. Scusa, non voglio annoiarti con queste cose".

Demelza avvertì in lui una sorta di ritrosia a parlare di Valentine e apprezzò che volesse in un certo senso proteggerla dalla presenza di quel bambino che tanto aveva influito sulla sua vita. Ma si sentì di tranquillizzarlo, almeno su questo. "Mi dispiace. Purtroppo il dottor Wilson fa orari di visita risicati e anche io in questi giorni son stata costretta a rivolgermi a lui per necessità visto che il mio medico di fiducia è fuori città, e ho fatto fatica a trovarlo".

A questo punto anche Ross parve preoccupato. "Sei stata malata?".

Lei sospirò, alzando gli occhi al cielo. "Gustav... E la varicella...".

Ross spalancò gli occhi. "Ha contagiato qualcuno?".

"Jeremy, Clowance e Daisy".

Lui parve andare in ansia a quella notizia. "Jeremy e Clowance?! Come stanno adesso?".

Demelza si irrigidì, non voleva che lui chiedesse di loro. Non era necessario, non ci era abituata e non desiderava che sapesse più del necessario delle loro vite. "Stanno bene, sono in via di guarigione" – disse, frettolosamente. "Scusa, ma non sono abituata a parlare dei bambini con...".

"Con?".

"Con qualcuno che non fa parte della famiglia" – rispose. Sapeva di fargli male ma Ross non aveva mai fatto parte della vita dei bambini e anche a Nampara non si era mai preoccupato per Jeremy, quindi era assolutamente inutile che fingesse di farlo ora per farle piacere.

Ross assunse un'aria colpevole e fu come se percepisse i suoi pensieri. "Scusa, non volevo essere invadente ma loro sono...".

"Sono a casa, accuditi e tranquilli! Va tutto bene" – decise infine di dire, per rassicurarlo ma soprattutto per chiudere il discorso.

Ross cercò di sforzarsi di apparire sereno e di assecondarla. "Pure Daisy? Pure quella piccola peste è ammalata?" - chiese, per smorzare la tensione.

Demelza sorrise dolcemente a quella domanda. "Daisy è tremenda ma, assieme a Jeremy, è per ora la più delicata di salute. Clowance e Demian invece sono due rocce, difficilmente si ammalano e se lo fanno, guariscono prima degli altri".

Ross rispose al sorriso, anche se sul suo viso comparve una smorfia di dolore. "Jeremy ha problemi di salute?".

"No, certo che no! Ma è quello che, semplicemente, si becca più facilmente raffreddori e mal di gola! Niente di grave, crescendo si rinforzerà. Era così anche a Nampara".

Ross abbassò lo sguardo. "Non lo ricordo... Non ricordo che si sia mai ammalato".

E a quel punto, per un attimo, il gelo calò su di loro. E a Demelza venne voglia di fargli del male, ricordando il passato che li aveva divisi. "Non lo ricordi perché non c'eri mai e se c'eri, non lo degnavi di uno sguardo. Non ti importava molto di lui e l'unico bambino che avevi a cuore, non viveva a Nampara".

Come punto sul vivo, Ross alzò lo sguardo su di lei, penetrando i suoi occhi azzurri coi suoi, scuri come la pece. "Non è così... Se solo mi lasciassi spiegare...".

"No, non voglio!" - lo stoppò lei, colpita dal tono doloroso e colpevole della sua voce. "Non ha più importanza ora, scusami per averne parlato". Non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe dovuto cedere alla tentazione di rinfacciargli quanto fosse stato anaffettivo e disinteressato verso Jeremy, non aveva più senso ormai ed erano discorsi pericolosi quelli, fra loro. Da evitare.

Ross annuì, ferito. Abbassò lo sguardo e fissò le borse che portava fra le mani. "Cosa sono? Vuoi una mano a portarle?".

"No, non sono pesanti, son solo addobbi di Natale per i bambini. Non so come tenerli tranquilli e quindi ho ceduto al loro desiderio di decorare la casa per le prossime festività, già adesso".

Ross annuì. "Beh, sono sicuro che vi divertirete e ne uscirà qualcosa di bello anche se, onestamente, non ho idea di cosa abbiate in mente".

Demelza, vedendolo così confuso, rise. Nonostante tutto, riuscì a trovarlo buffo... In effetti in pochi conoscevano le tradizioni natalizie dei regni di Germania che le aveva insegnato Hugh e che erano diventate una tradizione a casa sua ed era normale che Ross non sapesse di cosa stesse parlando. "Ah, ho in mente cose grandiose per questo Natale! Ormai sono diventata un'esperta di questa festa".

Ross le sorrise, capendo che non voleva parlare d'altro che del presente e che forse per ora era meglio così. Non era pronta... "Beh, ti lascio alle tue faccende. Torno a casa e vedo che posso fare per passare in maniera decente la notte".

Demelza lo guardò, pensierosa. Non avrebbe dovuto preoccuparsene, non erano affari suoi, non avrebbe dovuto immischiarsi nella vita di Ross, si era ripromessa di non farlo, non avrebbe dovuto farsi impetosire da un bambino, doveva ricordare a se stessa cosa quel bambino aveva fatto alla sua vita...

Ma il suo cuore di madre cedette, all'idea di un bambino lasciato a piangere dal dolore di notte e di un padre che non sapeva che fare, come pareva evidente. "Piange perché ha male? Cos'ha?".

Ross parve sorpreso da quella domanda e si trovò in difficoltà a rispondere. "Ecco... da piccolo soffriva di rachitismo e anche se ora è in via di miglioramento, ogni tanto ha delle ricadute. Si spaventa, piange soprattutto per quello più che per il dolore a cui comunque è abituato e che è sempre più raro e meno intenso ad ogni attacco, man mano che cresce".

Demelza sospirò, era ancora presto dopo tutto e forse... Dannazione, non voleva farlo ma d'istinto sentì che doveva aiutarlo. Aveva quattro figli e sapeva come i bambini avessero bisogno di essere rassicurati quando stavano male, sapeva quanto questo influisse positivamente sulle loro condizioni e sapeva anche che Ross in queste cose era poco portato... "Vuoi una mano? Vuoi che venga a dare un'occhio al bambino?".

"Cosa?".

Lei alzò le spalle, come giustificandosi innanzitutto verso se stessa. "So come trattare coi bambini, quando sono malati... Magari posso tranquillizzarlo, credo di essere abbastanza brava in questa cosa".

Ross spalancò gli occhi. "Davvero lo faresti?".

"Davvero... Non lo faccio per te, lo faccio per il bambino, sia chiaro".

Ross guardò le borse che teneva fra le mani. "E gli addobbi?".

"Li farò coi bambini, appena arriverò a casa. Ora riposano e mi va bene che lo facciano il più a lungo possibile". E così dicendo gli si affiancò, maledicendosi e allo stesso tempo giustificandosi. Non poteva far finta di nulla, non poteva davvero e dopo tutto, pochi giorni prima, Ross era stato davvero carino e gentile a prendere le difese di Daisy. Doveva restituirgli il favore, DOVEVA. "Su, portami a casa tua".


...


Quando arrivò a casa di Ross ed entrò nel suo appartamento, si sentì spaventata come la prima volta che, tanti anni prima, aveva varcato le porte di Nampara. Ed era così stupido sentirsi così. Non era venuta per restare, sarebbe stata lì pochi minuti e basta, non era per sempre, non era come allora...

Ross le disse che aveva assunto una coppia di domestici, due brave persone che si prendevano cura di lui, del bambino e della casa e Demelza lo ascoltò in silenzio per essere preparata a cosa avrebbe trovato, ma quando la porta si aprì e la serva di Ross li fece entrare, fu colta da un brivido.

Era nella casa di Ross e dopo tanto tempo stava toccando con mano la sua vita...

La signora è un dottore?”.

Demelza guardò di sbieco i due domestici di Ross e poi l'appartamento. Era pulito, ordinato, dal mobilio decoroso anche se meno elegante rispetto a casa sua e della grandezza giusta per un uomo solo con suo figlio e due servitori al seguito. C'erano un salottino, una cucina, una sala da pranzo e tre stanze da letto lungo il corridoio. Nient'altro, a parte un minuscolo giardinetto sul retro.

Non era una casa piccola ma le sembrava tale, da quando si era sposata con Hugh. Tutte le case le sembravano piccole, da allora... E per un attimo si chiese se, in quegli anni, fosse diventata viziata e troppo pretenziosa.

Ross, con lo sguardo cupo, le sfiorò la spalla. “No, ma credo che potrebbe aiutarci. Lei è...”.

Demelza lo fermò, non voleva che lui dicesse il suo nome e nemmeno quale fosse il loro legame! Era lì – e ne era già pentita – per cause di forza maggiore ma non sarebbe successo di nuovo e la sua visita doveva rimanere un segreto. “Sono una sua vecchia conoscenza e la parente di uno degli uomini che lavorano in Parlamento con il signor Poldark. E sono madre di quattro bambini piccoli, ho una certa esperienza in malanni infantili e siccome è pomeriggio tardi e il medico ha già terminato il suo servizio, sono passata per vedere se posso dare una mano”.

La domestica, non molto convinta, li lasciò passare. “Il signorino Valentine è in camera, a letto. Continua a piagnucolare, senza un vero medico sarà una notte difficile”.

Demelza prese un profondo respiro. Un bambino, stava per incontrare un semplice bambino, Valentine era solo questo. Non avrebbe mai voluto incontrarlo, non avrebbe mai voluto vedere il volto di colui che, indirettamente, anni prima aveva distrutto la sua vita ma era una donna e una madre che non sarebbe mai stata capace di rimanere indifferente a un bimbo in difficoltà e dopo tutto Valentine non aveva colpe per quanto successo. Ed era malato per giunta... Su questo doveva concentrarsi ed evitare di pensare che fosse figlio di Ross ed Elizabeth... Lui era un bambino innocente, come i suoi. E non meritava alcun sentimento negativo da parte sua.

Vieni” - le intimò Ross, piuttosto a disagio.

Lei lo seguì in silenzio, chiedendosi perché si fosse proposta di andare in quella casa. Non era un medico, Dwight lo era ed era fuori città con Caroline e la piccola Sophie! Che diavolo ci faceva in casa di Ross, cosa avrebbe potuto fare di utile, lì? Un conto era curare i suoi figli che conosceva ma Valentine...? Era una estranea per lui, come avrebbe potuto tranquillizzarlo e distrarlo? Perché il caso e il destino le avevano fatto incontrare Ross quel pomeriggio? Perché non aveva proseguito per la sua strada, alla ricerca degli addobbi da mettere sull'albero di Natale? Aveva un sacco di pacchi con le decorazioni da portare a casa, avrebbe ritardato e i bambini si sarebbero arrabbiati! E avrebbero avuto ragione!

Stava per dire che non aveva molto tempo e che forse era meglio che se ne andasse, quando Ross le spalancò la porta della camera.

E lei non ebbe scelta se non quella di restare...

Era una bella stanzetta per un bambino, con un letto, una scrivania, un armadio bianco, un tappeto con dei giocattoli e una finestra che dava sul giardinetto. Era tutto ordinato, era molto diverso dal caos che facevano i suoi bambini nella loro stanza dei giochi.

Deglutì, quando lo vide, prendendo poi un profondo respiro per non essere vinta dalla fitta al cuore che la colpì appena lo ebbe davanti. Quel bambino era identico a Ross, il figlio che più gli somigliava. Con una enorme massa di riccioli neri, gli occhi penetranti e profondi, le guance piene e un visino che poteva attirare chiunque. Ispirava simpatia, gliene avrebbe fatta se non fosse che in un certo senso si sentì di aver fallito. Elizabeth aveva dato a Ross un figlio che gli somigliava tantissimo mentre i suoi erano un miscuglio fra loro due. E Ross doveva davvero essere fiero del figlio che gli aveva dato la donna che aveva amato, un figlio tanto uguale a lui...

Tu non sei un dottore, tu sei una donna!” - disse il bimbo, osservandola.

Ross si avvicinò al letto, guardandolo con severità. “Quando parli con una persona che non conosci, devi essere educato”.

Valentine abbassò lo sguardo, mortificato. “Scusate signora, mi sono dimenticato di darvi del voi. Sono capace, ma a volte mi dimentico”.

Demelza sorrise a lui e guardò storto Ross per il tono usato, mentre per Valentine sentì solo una grande tenerezza. Soprattutto perché rapportato a quei terremoti dei suoi figli, Valentine era decisamente più posato ed educato di loro. “Non devi darmi del voi, sei un bambino. Il modo in cui mi hai parlato prima va bene”.

Valentine guardò suo padre in cerca di un cenno di assenso, poi di nuovo lei. “Io ho bisogno di un dottore. Mi fanno male le gambe” - disse, piagnucolando.

Demelza osservò lo sguardo di Ross incupirsi e decise che non andava bene che Valentine lo vedesse così turbato. “Io non sono un dottore ma ho quattro bambini piccoli che a volte si ammalano e quindi un po' me ne intendo di mal di pancia, gambe, testa o di graffi e taglietti. E di raffreddori e febbre. Il dottore a quest'ora non c'è ma conosco tuo padre da molto e mi ha chiesto un aiuto”.

Hai quattro bambini?” - chiese Valentine, stupito.

Sì, due maschi e due femmine”.

Valentine smise di piagnucolare e si sedette, incuriosito. “Come si chiamano?”.

Demelza sorrise. Ci aveva visto giusto, in fondo. Valentine era sicuramente debole a causa del rachitismo ma molti dei sintomi che avvertiva erano dovuti a solitudine e paura. Era lasciato troppo spesso solo con se stesso e benché Ross e i due servi non gli facessero mancare nulla di materiale, era il contatto umano che a lui mancava. Ed era evidente perché era bastato farlo parlare e distrarlo per fargli dimenticare i dolori alle gambe. “Jeremy e Demian i maschi. E le bambine Clowance e Daisy. Demian e Daisy son gemelli”.

Valentine spalancò gli occhi. “Ohhh., forte! Non ho mai visto i gemelli! Come sono?”.

Come gli altri bambini. Anzi, peggio, sono vivaci, disubbidienti e finiscono sempre in castigo”.

Valentine rise, completamente catturato da lei. “Io non vado mai in castigo! Papà dice che non gli somiglio, che lui da piccolo ci si trovava spesso in punizione”.

Demelza guardò Ross di sbieco. “Non ne dubito”.

E poi ho un cane di nome Garrick. E il mio bambino più grande, Jeremy, ne ha uno di nome Fox. Mentre la mia figlia maggiore Clowance ha una lupa bianca di nome Queen”.

Ohhh, quattro bambini, due cani e un lupo. Deve essere bello abitare in casa tua, signora. Qui non abbiamo neanche un animaletto, solo ogni tanto gli scarafaggi che entrano dalla finestra e fanno urlare la signore Gimlet che ha paura. A casa invece nella stalla abbiamo le galline, i polli, una capra e dei maiali. Ma nemmeno un cane”.

Lei gli sorrise, quasi percependo quanto fosse diversa e solitaria la vita di quel bambino rispetto ai suoi. “Sì, lo è. Con quattro bambini, due cani e una lupa, sono sempre stanca e di corsa, c'è sempre rumore in casa e tanta confusione ma a me piace tanto”.

Ross si allontanò, poggiando le mani contro il davanzale della finestra. Demelza leggeva in lui sofferenza e impotenza davanti a quella loro conversazione, ai ricordi, al dolore che provava nel sentire delle vite di persone che una volta erano state la sua famiglia mentre ora non aveva che un figlio a cui non mancava nulla di materiale ma che era affamato di calore famigliare e affetto che non sapeva dargli nel modo giusto. Ma lei non poteva farci nulla, lui aveva scelto e quella era la vita che Ross aveva voluto e doveva imparare a viverla al meglio, come aveva fatto lei quando aveva incontrato Hugh. Allungò una mano a massaggiare il ginocchio di Valentine, piano. “Va meglio?”.

Valentine osservò le sue gambe. “Oh, sì! Mi ero dimenticato che stavo male. Signora, sei magica! Basta parlare con te e tutto passa!”.

No, non sono magica ma grazie ai miei bambini ho imparato che chiacchierare e non pensare al fatto di essere malati, aiuta a stare meglio. E quindi, quando starai male ancora, trovati qualcosa da fare che ti piace e vedrai che ti sentirai più in forma. Puoi farti leggere una storia, puoi giocare a qualcosa, fare un disegno o tante altre cose che ti fanno sentire sereno. E tutto passa!”.

Valentine annuì. “Sì, ma...”. Guardò suo padre, come in una richiesta silenziosa di attenzioni ma Ross voltò il capo e si appoggiò nuovamente al davanzale della finestra. E il bimbo sospirò, abbassando il capo. “Signora, come ti chiami? Non me lo hai ancora detto”.

Demelza”.

Demelza, stai qui con noi a cena?”.

Ross sussultò a quell'invito inaspettato uscito dalla bocca di Valentine, solitamente molto chiuso e timido, mentre Demelza spalancò gli occhi. “Mi dispiace, non posso fermarmi, devo tornare a casa dai miei bambini. Ma sono felice che tu stia meglio, davvero”.

Dai resta” - piagnucolò il bambino, aggrappandosi al suo braccio.

Demelza scosse il capo. Non poteva, non avrebbe mai potuto nemmeno volendolo... E lei non lo voleva, si sentiva orribile ma non se la sentiva di prolungare più del necessario quella visita! Valentine era un bimbo dolce e adorabile ma lei si sentiva come se stesse facendo una violenza su se stessa a stare in quella casa... Ci sarebbe voluto tempo per superare quei sentimenti, forse molto. O forse non ci sarebbe riuscita mai, non sapeva dirlo. “Devo andare via, sono uscita per comprare degli addobbi per i miei bambini per fare l'albero di Natale e ora sono a casa che mi aspettano. Sono già in ritardo”.

Valentine spalancò gli occhi. “Ohhh, l'albero di Natale? Forte, non lo abbiamo mai fatto. Anzi, neanche so cos'è. Cos'è papà?”.

Non ne ho idea...” - rispose Ross, con sincerità disarmante, guardandola in cerca di una spiegazione.

Demelza sorrise, ricordando quando Hugh le aveva parlato di quella tradizione così bella e radicata in Germania, che aveva scoperto alcuni anni prima che loro si conoscessero, durante un suo viaggio nel centro Europa. “Ecco, qui da noi ancora non c'è questa tradizione, che invece è molto famosa in Germania. A Natale, ogni casa si riempie di addobbi e festoni, si mette il vischio sulle porte e si prepara un albero di Natale per accogliere la nascita di Gesù Bambino. Si prende un grande abete, lo si mette nel salone principale della casa e lo si addobba con tanti nastri colorati rossi e dorati, con le candele e con delle piccole palline di vetro soffiato di mille colori. E' un albero magico e i bambini, la mattina di Natale, ci trovano sotto i doni che nella notte ha portato Babbo Natale per loro. Mio marito era un navigatore e un viaggiatore prima che ci conoscessimo e mi ha parlato di questa tradizione e abbiamo deciso di farla diventare una tradizione anche nostra. E l'abbiamo insegnata ai nostri bambini che ogni anno non vedono l'ora che arrivi l'autunno per fare il loro albero di Natale nel salone. In Germania lo chiamano 'Tannenbaum' e quando diverrà tradizione anche qui in Inghilterra, anche noi gli troveremo un nome adatto”.

Valentine l'aveva ascoltata con gli occhi lucidi ed emozionati, come se gli avesse appena raccontato la più magica delle fiabe. “Bello... Papà, noi non facciamo mai niente a Natale. Neanche un nastrino alla porta... Ci proviamo anche noi quest'anno? Così Gesù Bambino nasce più contento e Babbo Natale trova la strada per portarmi i doni”.

A quelle parole, sorpresa dal fatto che per Natale in quella casa non si facesse nulla di speciale anche se c'era un bimbo, Demelza si voltò verso Ross fulminandolo con lo sguardo. Che razza di padre era? Qual'era il suo concetto di famiglia? E di padre? Cosa faceva con Valentine, con quel bambino per cui aveva gettato via il loro matrimonio? Era il bambino che gli aveva donato la donna che più amava e con lui stava ripetendo gli stessi sbagli commessi a suo tempo con lei e Jeremy! Lo sguardo di Ross parve ferito e punto sul vivo davanti alla sua espressione delusa che doveva aver ben interpretato e Demelza si morse il labbro per non urlargli contro cosa pensasse di lui. Sorrise, si sforzò di farlo per Valentine. “Beh, dovresti proprio provare ad addobbare un abete, sai?”.

Sì, dovrei” - rispose il bimbo.

Lei gli strizzò l'occhio. “Beh, quando avrai di nuovo male alle gambe e vorrai distrarti, allora dì al tuo papà di prendere un abete e di addobbarlo insieme. Vedrai che starai meglio”.

Lo sguardo del bimbo si accese di speranza e contentezza. “Sìììì! Allora spero di avere mal di gambe ancora e presto”.

Lo disse con leggerezza ma Ross parve ferito da quelle parole. Esprimevano un grande bisogno e desiderio di averlo vicino e lui sembrava incapace di accontentarlo. Sembrava bloccato e lei non ne capiva il motivo e non si riusciva a capacitare del comportamento scostante di Ross... Demelza non sapeva nulla di loro due, di quali fossero i loro rapporti, di cosa fosse successo in quegli anni ma era abbastanza sicura che lui amasse suo figlio anche se, per qualche motivo, non era capace di esprimerlo. Certo, non era mai stato molto espansivo nei sentimenti e di carattere era chiuso, però... Doveva amarlo, non poteva non amare Valentine! Glielo aveva lasciato Elizabeth, la donna che amava! Quel bambino era nato dall'amore, non come Jeremy e Clowance che lui aveva avuto da una donna che considerava di poco conto e che non aveva voluto né amare né avere accanto.

Avrebbe voluto fargli mille domande ma si impose di stare zitta. Non erano affari suoi e si era intrattenuta anche troppo. Accarezzò i ricciolini neri del bambino, gli sorrise e poi si alzò dal letto su cui era seduta. “Ora devo andare”.

Valentine annuì, un po' corrucciato. “Dai tuoi bambini?”.

Sì”.

Tornerai a trovarmi, Demelza?”.

Lei volse il capo, non era mai stata brava a dire bugie ma non aveva scelta. Valentine ora sembrava sereno e tranquillo e farlo agitare non gli sarebbe stato di nessun supporto. “Certo, quando riuscirò a trovare tempo, verrò a trovarti”. Era una bugia, la più palese delle bugie. Non voleva tornare in quella casa e non voleva avere rapporti con Ross che andassero oltre alla sua conoscenza con lord Falmouth e il suo ingresso in Parlamento e doveva mantenere questo proposito, a tutti i costi.

Ma fu convincente e il bimbo sembrò crederle. “Buon albero di Natale, Demelza”.

Grazie, faremo del nostro meglio per farne uno bellissimo”. Lo salutò con un cenno del capo e Valentine rispose da ometto, stringendole la mano. Dopo di che, Ross la riaccompagnò nel corridoio, verso l'uscita.

Come ci sei riuscita? A farlo calmare intendo”.

Lei lo fulminò con lo sguardo. “Gli ho parlato, l'ho ascoltato, l'ho fatto giocare. Non sono stata lì a guardarlo impalata come fai tu, con quella faccia da funerale. E' un bambino Ross, vuole giocare, vuole essere ascoltato, vuole suo padre vicino. Un padre che ogni tanto gioca e ride con lui... Sembri di ghiaccio, quando hai a che fare con lui e mi auguro che tu non sia così tutto il tempo”.

Ross fece per ribattere ma poi abbassò il capo come se sulle spalle portasse un peso immenso. “Lo so, Valentine è sempre stato... complicato... per me”.

E allora, visto che lo sai, vedi di migliorarti! Ha solo te ed è debole e malato. Fai almeno l'albero di Natale con lui, dannazione!”.

Non sapevo nemmeno che esistessero, questi alberi di Natale!” - rispose, a tono. “Io non sono come il tuo Hugh, non sono capace a trovare e rendere mie delle tradizioni di famiglia... Anche se trovo davvero bello quello che avete ideato per Natale”.

Demelza sospirò. “Ross, non è l'albero di Natale. E' fare qualcosa insieme, qualcosa che sia solo vostro. Anche dei semplici addobbi da mettere alla porta, andrebbero bene. Purché li facciate tu e lui. Io e Hugh non amavamo i grandi balli natalizi londinesi, a noi piacevano le feste in famiglia e abbiamo trovato il nostro modo per renderle speciali e nostre... Con la nostra impronta. E i bambini si sentono parte di un progetto comune nato da noi e che loro portano avanti, di una famiglia e nell'albero hanno il loro punto di riferimento e simbolo per questo periodo dell'anno”.

Lui sospirò. “Capisco cosa vuoi dire e... e lo so, sono stupido a non aver mai dato tanta importanza a cose del genere, cose che fanno di un gruppo di persone una famiglia. Nessuno mi ha mai insegnato nulla del genere, a casa mia ognuno viveva la sua vita quasi zingara, dopo la morte di mia madre. Ma hai ragione, se per me è stato così, non necessariamente deve esserlo per Valentine. Credo di non avere scelta ormai, visto cosa gli hai detto. Probabilmente se lo inventerà il mal di gambe, ora, per avere il suo albero!” - concluse, sorridendo.

Demelza scosse il capo. “E' suo diritto averlo, come è suo diritto avere un padre che gli sta vicino e lo ama”. Aprì la porta, si mise la mantella sulle spalle e si calò il cappuccio in testa, ma poi la sua coscienza la costrinse a fermarsi perché in effetti c'era qualcosa di importante che poteva fare per Valentine, senza che lei venisse coinvolta direttamente. “Vorresti che Dwight lo visitasse? Ti farebbe stare tranquillo?”. Non sapeva quanto Ross sapesse di Dwight, né se fosse a conoscenza della sua vita a Londra e del fatto che l'aveva aiutata appena giunta in città dopo aver lasciato la Cornovaglia, ma lui era un medico, un BRAVO medico e di certo poteva fare per quel bambino molto più che tanti giovani dottorini del quartiere.

Ross spalancò gli occhi e poi divenne meditabondo, probabilmente a causa dei loro dissapori passati e per la sorpresa di sentir pronunciare quel nome. Sapeva o non sapeva che viveva a Londra? L'espressione di Ross non faceva trapelare alcuna risposta a questo quesito...

Lo... vedi?”.

Sì, certo, lui e Caroline. Sono stati la mia salvezza appena arrivata qui, si sono presi cura di me e dei bambini per un anno e ho vissuto da loro prima del matrimonio con Hugh. Gli parlerò di te e di Valentine, se ti fa piacere sentire un suo parere sui problemi del bambino”.

E credi che accetterebbe? Anche se si tratta di me?”.

Demelza sospirò, guardandolo con biasimo. “Ross, Dwight è un medico e mette al primo posto il benessere del paziente! Sai che è così, lo conosci! Sai che non si tirerebbe indietro davanti alla malattia di un paziente, nemmeno se tu ne sei il padre! Non mischia il lavoro... la sua missione... con semplici questioni personali. So che la vostra amicizia si è interrotta anni fa e so che in un certo senso ne sono responsabile, ma se gli chiedo di venire per visitare Valentine, lui verrà”.

Ross deglutì e le mani gli tremarono. “Ora?”.

E' fuori Londra con Caroline e Sophie per una breve vacanza di una settimana... Sophie è la loro seconda figlia, nata la scorsa primavera. La prima, Sarah, purtroppo è morta pochi mesi dopo la nascita, alcune ore prima che morisse Hugh. Fu un giorno terribile, quello...”.

Lui abbassò lo sguardo e gli occhi gli divennero lucidi ma Demelza non seppe dire se fosse per il dolore di sapere quanto era successo al suo vecchio amico o perché la morte di una bimba piccola, in un certo senso riportava entrambi al giorno in cui persero Julia.

Julia... Demelza deglutì, chiedendosi se Ross pensasse a lei ogni tanto, anche se non era la perfetta figlia avuta dal suo perfetto amore Elizabeth. E quel pensiero la ferì e le fece venire voglia di scappare perché chiedersi certe cose, la riportava a un passato che non voleva più affrontare e ricordare. “Devo andare, adesso. Che faccio, con Dwight?” - disse, improvvisamente con tono freddo.

Ross non capì il perché di quel cambiamento di voce ma i Gimlet che facevano avanti e indietro dalla stanza di Valentine, gli impedirono di chiedere. “Sì... Sì, mi faresti un favore”.

Lei annuì. “Glielo dirò appena torna in città, ti farò recapitare un biglietto per farti sapere data e orario di visita”.

Va bene”.

Demelza si voltò, aprì la porta di casa e fece per uscire, ma Ross la fermò, bloccandola per il polso. “Aspetta”.

Che c'è?”.

Volevo ringraziarti per quanto hai fatto per Valentine oggi. Non eri obbligata e so che per te non è facile... vederlo...”.

Lei scosse la testa. “Come non dev'essere facile per te vedere i miei due gemellini. Ma sono bambini, tutti loro. E non hanno colpe, vanno solo amati e aiutati a crescere. Dovresti farlo, anche se la vita con te ed Elizabeth non è stata generosa”.

Ma...”.

Ross fece per obiettare ma Demelza non gli diede tempo di dire o fare qualcosa che avesse attinenza col passato. “Credi che per me sia stato facile? Che dopo quanto successo con te o dopo la morte di Hugh, io avessi voglia di ridere o giocare o rotolarmi su un tappeto coi bambini? No, non lo è stato, mi sono costretta a scendere dal letto per non affogare nelle mie lacrime per tante, tante mattine, Ross! Ma i bambini c'erano, non avevano chiesto di venire al mondo e io avevo il dovere di prendermi cura di loro! Io pretendo che siano felici, che si sentano amati e che siano sereni! Dovresti pretenderlo anche tu, da te stesso”.

Ci proverò! Ma io non sono come te, non ho la tua forza di volontà e...”.

Vedi di trovarla, Ross! Non hai scelta!” - rispose lei, mortalmente seria.

E dopo aver detto ciò, prese le borse con gli addobbi in mano, chiuse la porta dietro di se e se ne andò, lasciando ancora una volta Ross con l'amaro in bocca per non essere riuscito a dirle la verità sui suoi sentimenti per lei.

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Capitolo 43
*** Capitolo quarantatre ***


"Non lo voglio un dottore, sto già meglio, guarda!".

Ross osservò suo figlio che, per convincerlo a non sottoporlo all'ennesima visita, gli dimostrava di essere in forma saltellando per il salotto. Ma purtroppo per Valentine, lui non avrebbe ceduto visto che Demelza gli aveva mandato un biglietto che annunciava di aver parlato con Dwight e che sarebbe venuto nel tardo pomeriggio a visitare il bambino.

Ross non sapeva perché Demelza avesse deciso di aiutarlo, non meritava sicuramente nulla del genere e al pensiero di quanto generosa fosse stata nei suoi confronti, si sentiva piccolo ed insignificante per come l'aveva trattata. Lo aveva saputo da sempre quanto fosse buono il suo cuore eppure c'era stato un tempo in cui era come se l'avesse dimenticato e aveva preferito cercare altro, abbandonando chi aveva accanto e lo amava...

E poi Dwight... Dopo sette anni lo avrebbe rivisto e al pensiero di quell'incontro si sentiva emozionato e allo stesso tempo imbarazzato. Non si erano lasciati nel migliore dei modi e Ross sapeva di aver deluso Dwight forse ancor più di quanto lui avesse deluso se stesso... Cosa aveva pensato di lui in quegli anni? Lo aveva perdonato? Aveva cercato di capire? O ancora, lo biasimava e detestava come si detesta il peggiore fra gli uomini? Doveva essergli apparso davvero meschino e crudele, all'epoca... E lo era stato, ora ne era pienamente consapevole. Aveva perso ogni cosa, il rispetto per se stesso ma anche il rispetto di chi aveva accanto e lo apprezzava.

Lui, che aveva creduto di essere un brav'uomo, si era dimostrato il peggiore di tutti.

Demelza era buona. E anche Dwight!

Non lui, lui non meritava nulla! Ricordava bene la delusione negli occhi di Dwight quel giorno in cui si erano detti addio, le sue parole, la sua rabbia, il suo disprezzo...

E ora, nonostante tutto, stava venendo per aiutarlo...

Era stato gentile da parte di Dwight accettare la richiesta di Demelza di visitare Valentine, avrebbe potuto declinare con una scusa, ma Ross sapeva bene quanto la sua anima di dottore fosse votata ad accorrere da chiunque sapesse in difficoltà. Non era cambiato in quegli anni, era palese...

Dwight era un medico meraviglioso, Ross ricordava quanto aveva fatto per i suoi minatori e quanto la sua partenza fosse stata un duro colpo per tutti loro che non potevano permettersi altre cure decorose per se stessi e per le loro famiglie...

Anche questo, negli anni, aveva distrutto l'animo di Ross... Il sapere di essere la causa di quella perdita tanto importante per la comunità, la conseguenza vivente dei suoi dannatissimi errori che avevano costretto Dwight ad andare lontano.

Era passato molto tempo da allora e Prudie – anche se non poteva farne parola – gli aveva raccontato quanto Dwight avesse vissuto in quel lasso di tempo, compresa la morte della sua prima figlia. Un dolore che Ross conosceva bene e che mai avrebbe augurato al suo migliore amico, all'uomo che aveva votato la sua vita alla cura e alla salvezza degli altri...

Poteva immaginare il suo dolore, poteva toccarlo con mano perché era stato il suo stesso dolore, quel dolore che lo aveva portato alla deriva rendendolo un uomo abietto e traditore, un uomo che aveva distrutto la famiglia che aveva costruito per inseguire un sogno che lo portava con la mente alla gioventù, a un'età dove tutto era perfettamente bello e lineare e non c'erano lutti e problemi da risolvere.

Ma Dwight era stato diverso, era stato capace di soffrire ma poi di rialzarsi, rimanendo fedele a se stesso e a chi amava. Aveva tenuto fede al suo ruolo di marito e aveva saputo accogliere nella sua vita, senza timori, un'altra figlia. Tutte cose che lui non era riuscito a fare con Demelza e Jeremy...

"Papà..." - piagnucolò ancora Valentine, aggrappandosi ai suoi pantaloni.

Sospirò, accarezzandogli i ricciolini neri. "Avanti, non è la prima visita che fai! Pensa a quante volte è venuto a casa nostra il dottor Choake!".

"Appunto!" - ribatté scoraggiato il bimbo, ricordando i metodi di cura arcani di quel macellaio che era rimasto l'unico medico della zona a cui affidarsi.

Ross gli sorrise. "Si, puoi stare tranquillo, io questo nuovo dottore lo conosco e ti assicuro che è molto bravo e che ti piacerà".

"Conoscevi anche il dottor Choake! E non era bravo!".

Jane Gimlet, intenta a spolverare una mensola, ridacchiò cercando di non farsi vedere e anche Ross trovò divertente la battuta di Valentine che, pian piano, sembrava uscire dal bozzolo di timidezza in cui si era sempre rifugiato.

"Valentine, giuro che se non ti piacerà, questo dottore non lo chiameremo più!" - disse, cercando di tranquillizzarlo

Il bambino fece per rispondergli quando Dwight bussò alla porta e quindi arretrò, voltò le spalle a Ross e corse in camera sua, chiudendocisi dentro.

Jane gli andò dietro per recuperarlo e Ross, con un groppo alla gola, aprì.

Faccia a faccia dopo tanti anni, per un attimo i due uomini rimasero in silenzio, guardandosi negli occhi.

Dwight sembrava all'apparenza sempre lo stesso anche se, dopo alcuni istanti, Ross si accorse che attorno agli occhi gli erano comparse delle leggere rughe, segno del tempo passato ma anche di quanto fosse stata impietosa la vita con lui e la sua famiglia.

Lo guardò, chiedendosi se anche lui apparisse invecchiato, dopo quanto successo e quanto patito in quel lasso di tempo... Come lo vedeva Dwight? E Demelza? Era sicuramente un uomo più amaro, più maturo, senza sogni e inaridito dal dolore causato dai suoi errori e questo quanto poteva farlo apparire estraneo agli occhi di coloro che un tempo erano il suo mondo?

Dwight, mantenendo la massima serietà e celandosi dietro a un comportamento strettamente professionale, lo salutò con un cenno del capo. "Ross, Demelza mi ha dato il tuo indirizzo e mi ha chiesto di venire a visitare il bambino. Scusa l'orario ma avevo altre visite oggi, a cui presenziare".

Ross sussultò, colpito dal tono gentile ma che cercava di mantenere le distanze, di Dwight. Era il suo migliore amico, un fratello... E santo cielo, come avrebbe desiderato fosse ancora così! Anche se forse, per Dwight non era così e si era ricostruito vita e nuove amicizie a Londra. "Ti ringrazio per essere venuto. Avanti, accomodati".

Dwight entrò nel salottino, appoggiando sul divano la borsa da lavoro. "Dov'è il bambino? Quali problemi ha di preciso?" - chiese senza perdere tempo, guardandosi in giro.

Ross osservò la porta della stanza di Valentine, udendo il borbottio di Jane che cercava di concincerlo a farsi vedere. "E' in camera e fa resistenza, ma ora la mia domestica ce lo porta quì. Da neonato e nei primi anni, ha sofferto di rachitismo. Era in cura, con scarsi risultati, col dottor Choake, cure che poi ho deciso di interrompere perché per lui erano una tortura e non producevano effetti".

Dwight sollevò il sopracciglio. "Lo hai fatto curare da Choake?".

"Era l'unico medico disponibile" – si giustificò Ross, colpito dal tono di rimprovero di Dwight che mai aveva apprezzato troppo il dottore storico della loro regione d'origine. "Ho fatto a modo mio, dopo, cercando di dargli cibi nutrienti e di farlo stare di più all'aria aperta. Un pò è migliorato, ma ogni tanto ci sono delle ricadute".

In quel momento Jane tornò, tenendo fra le braccia il bambino che cercava di sfuggire alla sua presa.

"Non voglio!" - piagnucolò.

La donna lo mise a terra e Ross lo arpionò, stringendolo per la vita. "Farà un pò resistenza, è intimorito dai dottori" – avvertì.

Dwight guardò il bambino, accorgendosi che aveva gli occhi lucidi. "E così tu sei Valentine?" - chiese, in tono gentile.

"Sì" – rispose il bimbo, tirando su col naso.

Dwight gli si avvicinò, inginocchiandosi davanti a lui. "I dottori non ti stanno simpatici, vero? Nemmeno a me, mi piace curare i pazienti ma se mi ammalo, mi spavento da morire a farmi curare dagli altri".

Valentine smise di piagnucolare. "Davvero?".

"Davvero? Non lo sai che sono proprio i dottori ad essere i pazienti più paurosi del mondo?".

"No, non lo sapevo".

Dwight sorrise e Ross si accorse che coi bambini ci sapeva davvero fare. Doveva essere un padre meraviglioso!

Dwight proseguì, guadagnandosi poco alla volta l'attenzione di Valentine. "Però, come dottore ti giuro che non ho mai torturato nessun bambino! Ne curo tanti, anche i quattro di Lady Boscawen. E lei non manderebbe mai da nessun bambino un cattivo dottore".

Valentine sorrise. "Lady Boscawen è bella! Mi piace! Davvero ha quattro bambini? Anche gemelli? Lei dov'è adesso?".

"Adesso è a casa coi suoi bambini, hanno la varicella! Quattro bambini, pensa un pò... E i gemellini ci sono davvero e li ho fatti nascere io".

Valentine spalancò gli occhi. "Wow! E non avevi paura?".

"Dei gemellini?".

"Sì! Dicono che sono magici".

Anche Dwight rise. "I gemelli non sono magici, sono dei combinaguai! Di questo bisogna avere paura, quando si è con loro".

Valentine rise e, più tranquillo, si mise sul divano, guardando Ross. "Va bene, posso farmi visitare un pochino, papà".

Ross sospirò, sollevato. Era raro che Valentine facesse i capricci ma quando succedeva, diventava irremovibile e testardo come un mulo. "Andate in camera, allora! Lo accompagni tu nella tua stanza? Vuoi che venga anch'io? O Jane?".

Dwight intervenne, a quel punto. "Non serve stare in camera, posso guardarlo quì".

Valentine parve gradire quella soluzione. "Cosa devo fare?".

Dwight gli si inginocchiò davanti, piegandogli i pantaloni sopra le ginocchia per osservare le gambe. Gli sfiorò i muscoli, le ossa delle ginocchia, le caviglie e poi si rialzò, dandogli una mano per aiutarlo ad alzarsi. "Visita finita!" - sentenziò.

Ross spalancò gli occhi dalla sorpresa e Valentine fece altrettanto. "Di già?".

Lui sospirò, sorridendogli e accarezzandogli la testolina. "Solo una cosa... Potresti provare a correre intorno al divano e saltare?".

"Certo!" - rispose il bambino prima di fare quanto gli veniva richiesto, divertito per il tono di quella strana visita.

Dwight lo osservò muoversi con sguardo clinico, accigliato, poi dopo avergli fatto fare un paio di giri del locale, lo fermò. "Direi che ho visto abbastanza! E sono soddisfatto!".

"Non sono malato?" - chiese il piccolo.

"Dwight?" - aggiunse, Ross.

Il medico chiuse la sua borsa da lavoro, spingendo il bambino ad andare verso Jane per fare merenda. "Sei in via di guarigione e non ci vorrà molto per guarire del tutto! Vai a mangiare qualcosa, mentre parlo con tuo padre e gli spiego che fare".

Valentine, sicuramente tranquillizzato da quella visita tanto diversa da quelle a cui l'aveva sottoposto Choake, da bambino ubbidiente annuì, correndo dietro a Jane in cucina.

Ross si alzò in piedi, fronteggiando Dwight. "E allora?".

Dwight annuì. "Hai avuto la giusta intuizione, Ross, togliendolo alle cure arcaiche di Choake. Gli hai dato cibo nutriente e vita all'aria aperta e devo dire che non noto in lui segni di malattia".

"Però ha questi dolori..." - lo bloccò Ross.

Dwight annuì. "I muscoli delle gambe sono ancora deboli, non è un bambino particolarmente attivo e la corsa è piena di inceppature che non dovrebbero più esserci alla sua età. Deve stare all'aria aperta, giocare con gli altri bambini, correre, cadere, rialzarsi e ricadere. Deve rinforzarsi e quando succederà, i muscoli smetteranno di fargli male".

Ross sospirò, pensieroso. Era più facile a dirsi che a farsi... "E' timido e non abituato a stare in compagnia di altri bambini. E' uscito un paio di volte a giocare al parco quì a Londra, ma è terrorizzato dal rapportarsi ai suoi coetanei. Corre da Jane e vuol subito essere portato a casa... E fra poco arriverà l'inverno e farà troppo freddo per farlo uscire. E' delicato...".

Dwight scosse la testa. "Smettetela di trattarlo da bambino malato! Non lo è, non più! Ed è tanto delicato perché lo trattate come se fosse di vetro. Deve imparare a stare con gli altri bambini, va incoraggiato in questo, è importante, non può stare aggrappato alle sottane della tua domestica! E per quanto riguarda l'inverno... coprilo bene, si fortificherà! Fatti passare tutte queste ansie, non fa bene né a te né a lui".

Ross abbassò il capo, Dwight aveva ragione. Santo cielo, quanto gli erano mancati i suoi consigli! E quanto era diventato bravo ed autoritario nel suo lavoro, sicuro nelle diagnosi e meraviglioso nel rapportarsi con dolcezza ai bambini. "Ti ringrazio, farò come dici... Lo costringerò a star fuori, anche se dovesse piangere! Uscirò io stesso con lui per aiutarlo in questo".

"Bene" – rispose Dwight – "Allora io posso andare. Se hai bisogno di altre visite per il bambino, puoi trovarmi a questo indirizzo" – concluse, dandogli il suo biglietto da visita.

Ross deglutì, stava già andandosene, sfuggiva a lui come sfuggiva Demelza. Non volevano avere nulla a che fare con lui, entrambi. Era palese che non lo volessero nella loro vita se non per lo stretto necessario.

Ma Dwight, almeno con lui doveva chiarire. O provarci... "Aspetta".

"Cosa c'è?".

"Non mi hai detto qual'è la tua parcella".

Dwight voltò il capo. "Non ce n'è bisogno, non ho fatto nulla di che".

Ross non era d'accordo, non stavolta. "Non è così e lo sai!" - sussurrò. Aprì la porta, uscendo con lui nell'atrio perché rimanessero soli. "Volevo ringraziarti per essere venuto, è stato un gesto... grande... visto quanto successo fra noi. Siamo estranei ormai e non eri obbligato a venire".

Dwight, come imbarazzato, chinò il capo. "Sono un medico, vado dove posso essere utile e Demelza mi ha chiesto questo favore. Se è riuscita a venire lei quì, non vedo perché non avrei dovuto venirci io".

Demelza... Ross sospirò. "Lei è sempre migliore di tutti quanti noi. Lo ha dimostrato...".

"Sempre!" - concluse Dwight, mortalmente serio.

E Ross si trovò a chinare il capo. "Sempre...".

Dwight gli lanciò un'occhiata seria, inquisitrice e pensierosa. "Le dissi io di partire, di lasciare la Cornovaglia, allora... E non me ne sono mai pentito, si sarebbe ammalata se fosse rimasta e solo Dio sa cosa ne sarebbe stato dei suoi figli se le fosse successo qualcosa. Volevo lo sapessi! Volevo dirtelo da allora che volevo solo portarla via da tutto quel male che le era piovuto addosso e che non meritava! La stava annientando e tu non sembravi interessato a salvarla...".

Ross deglutì, faceva male sentire quelle parole di rimprovero e già attraverso Prudie aveva potuto toccare con mano quanto Demelza fosse stata vicina a spezzarsi, sette anni prima. Era stato un dannato codardo, avrebbe dovuto mantenere le sue promesse e starle vicino quanto più poteva e invece, schiacciato da sensi di colpa e vergogna, se n'era rimasto rintanato a Trenwith a soffrire in silenzio sul SUO dolore, senza forse cercare di immedesimarsi davvero in quello di Demelza, lasciata sola a vivere una esperienza terribile e una gravidanza complicata. Santo cielo, se le fosse successo qualcosa... I suoi pugni si strinsero a quel pensiero! Mai si sarebbe perdonato qualcosa del genere e Dwight l'aveva salvata, l'aveva salvata quando lui non era stato capace di farlo. "Ti devo ringraziare per quello che hai fatto per lei" – disse solo. Non c'era molto da recriminare e sapeva benissimo anche lui che venire a Londra era stato il meglio per Demelza e i bambini.

Dwight parve sorpreso da quelle parole. "Mi ringrazi... per avertela tolta dai piedi?" - chiese, cauto.

Ross sorrise amaramente, rendendosi conto di quanto ormai apparisse come un mostro agli occhi di tutti coloro che un tempo gli erano stati vicini, amandolo e sostenendolo. "Ti ringrazio per averla salvata e per esserti preso cura di lei e dei bambini. Io non ero in grado di farlo, allora... Perderla per me è stato terribile, non una liberazione! Ma lei doveva andar via e ricominciare, per il suo bene e per quello dei bambini! E senza di te non ce l'avrebbe mai fatta".

Era sincero, lo erano le sue parole colme di una profonda malinconia e dolore e Dwight se ne accorse, rimanendone turbato. "Posso chiederti una cosa? Solo una, che mi frulla in testa da anni...".

"Certo".

"Fingevi, allora?".

Ross si accigliò. "A cosa ti riferisci?".

Gli occhi di Dwight divennero lucidi. "Il giorno in cui morì Julia, mentivi? In fondo, era 'solo' la figlia che ti aveva dato Demelza, non la figlia avuta da Elizabeth... E visto come ti sei comportato dopo verso di lei e i figli venuti dopo, mi son chiesto se tu avessi mai amato davvero la piccola Julia. Scusa se sono brutale ma sai, sono padre ora e me lo sono sempre chiesto, ogni volta che ho pensato a te".

Ross spalancò gli occhi. Era davvero, davvero un mostro ai loro occhi, agli occhi di tutti! Di Demelza, di Dwight, probabilmente dei suoi figli... Se Dwight gli aveva chiesto una cosa del genere, doveva ritenerlo davvero un piccolo uomo e sicuramente tale si era dimostrato, col suo comportamento passato. Ma mai avevrebbe pensato che qualcuno mettesse in dubbio l'amore verso Julia, nonostante tutto. Anche Demelza aveva gli stessi pensieri? Si sentì annientato, davanti a quell'evenienza... Pensò a Julia, alla sua piccola e preziosa Julia. Una ferita ancora aperta che mai sarebbe guarita. Sua figlia, che non aveva potuto salvare, sua figlia, la cui bara aveva trasportato a mano fino alla sua destinazione finale... La figlia a cui aveva promesso di rendere il mondo un posto migliore, per amor suo. E Dwight pensava che fingesse, quel giorno, che il suo dolore fosse solo un esercizio di stile da mostrare in pubblico per sostenere il suo ruolo di genitore. "Quel giorno ho perso un pezzo di anima e di cuore, Dwight. Era la mia bambina, l'ho amata e attesa fin dal primo momento in cui ho saputo della sua esistenza. Sono davvero mostruoso ai tuoi occhi, se ti sei chiesto una cosa del genere".

"Scusa". Dwight si appoggiò alla parete dell'atrio mentre da dentro, proveniva il vociare allegro di Valentine e Jane. "E' che... io non capisco, non ho mai capito come hai potuto, dopo...". Si bloccò, deglutendo e tremando, come se stesse rivivendo un grande dolore. Prese un profondo respiro per riuscire a proseguire. "Sai, come ti dicevo, sono padre. Da pochi mesi c'è Sophie nella vita mia e di Caroline, la nostra gioia! Ma non è la mia unica figlia, prima di lei c'è stata Sarah, vissuta solo pochi mesi e volata via troppo presto, come Julia".

Ross abbassò lo sguardo, sapeva di quanto successo, glielo aveva detto Prudie ma non poteva parlarne, non poteva tradire le confidenze della sua vecchia domestica. Lo guardò con gli occhi lucidi, provando un'infinita pietà per Dwight e per quel dolore che aveva provato e che Ross conosceva più che bene, limitandosi a sfiorargli il braccio in un gesto di amicizia. "Mi dispiace" – disse solo. Che altro poteva dirgli, come poteva consolare un uomo la cui missione nella vita era curare chi soffriva per delle malattie e ironicamente era stato impossibilitato dal destino a salvare la propria figlia?

Dwight osservò la mano di Ross sul suo braccio e poi sospirò, senza interrompere quel contatto fra loro. "E... E per questo mi chiedevo... Come dopo tu non sia riuscito ad amare Jeremy e Clowance, ad abbandonarli assieme alla loro madre e a vivere come se nulla fosse. Perché dopo Sarah, Ross, mi sembra impossibile che un uomo possa farlo, che un uomo possa dimenticarsi di essere padre. Quando è arrivata Sophie, per me è stato come tornare a vivere, anche se di fatto nulla sostituirà mai Sarah. Mentre tu, con Jeremy...".

Ross osservò il soffitto, guardando dentro se stesso come molte volte aveva fatto in quegli anni. Spesso si era chiesto come avesse potuto non tanto fare ciò che aveva fatto dopo il tradimento, ma prima... Era prima che aveva compiuto gli atti più orribili verso la sua famiglia, era prima che aveva smesso di prendersene cura, era prima che aveva guardato altrove. Ed era giunto, negli anni, a tante risposte. "Julia, cambiò tutto in me. La sua morte segnò la fine dell'età della spensieratezza, del romanticismo, del mondo bello dove tutto era possibile. Improvvisamente diventai adulto, padre in lutto e tutto smise di avere senso. Non c'erano più ideali e fini da perseguire, tutto mi sembrava misero e senza sensodavanti alla morte di mia figlia. Il mondo era diventato improvvisamente cattivo! E non lo so quanto è iniziato, quando è accaduto, quando ho cominciato ad allontanarmi da Demelza... Volevo tornare indietro, Dwight! Volevo tornare a quel tempo in cui ero un ragazzo con un futuro brillante davanti, in partenza per la guerra con una meravigliosa divisa rossa, innamorato della ragazza più bella della zona, quella che tutti volevano e che mi corrispondeva. Un bel mondo perfetto, un mondo di fantasia, un mondo utopistico che non esisteva ma in cui non esistevano nemmeno lutti, dolori, lotte continue e... dove le bambine non morivano. Elizabeth rappresentava tutto questo e dopo la morte di Francis era come se tutto fosse tornato a portata di mano, come se la vita mi stesse dando davvero un'occasione per tornare a quel tempo dove la vita era bella e perfetta e non complicata e difficile – ma incredibimente vera e ricca nella difficoltà – come quella che avevo con Demelza. Improvvisamente non ero più il Ross tornato dopo tre anni di guerra, sposato e padre. L'uomo che ha smesso di prendersi cura di sua moglie e del suo bambino era il Ross ventenne e scapestrato. Non mi rendevo conto che stavo solo scappando da un dolore troppo grande e che non riuscivo ad affrontare, non mi rendevo conto di quanto male stessi facendo a chi amavo, non mi rendevo conto che il mio mondo perfetto io lo avevo già e che lo stavo buttando via. Dovevo toccare il fondo, dovevo toccare con mano quella vita utopistica per rendermi conto che era tutto finto. Non volevo far del male a Demelza, era come non voler rendermi conto di quanto le mie azioni ricadessero su di lei. Non volevo ascoltare chi mi diceva che stavo sbagliando, non volevo... Ero tornato ad essere il principe azzurro della più bella ragazza di Cornovaglia, era come essere tornato a quei tempi... Ma quando ho toccato quel sogno, mi sono accorto che era un incubo, che tutta quella bellezza non era reale. Ma ormai era troppo tardi, non potevo tornare indietro. Ciò che ho fatto dopo, è stato per cercare di rimediare ai miei errori, al guaio in cui avevo messo Elizabeth... Pensavo di poter tenere sotto controllo tutto, ero un idiota e un pallone gonfiato! Che non è riuscito a fare nulla di buono per nessuno".

Inaspettatamente, Dwight sorrise anche se il suo era un sorriso triste. "Sai, speravo mi rispondessi così".

"Cosa?".

Dwight cercò di spiegarsi meglio. "Se non ci fosse stato Valentine... Tu...?".

Ross sospirò, Valentine c'era e giornalmente lo metteva davanti ai suoi errori e alle sue conseguenze. Lo amava certo, ma spesso si chiedeva cosa sarebbe successo se non ci fosse stato. "Io scelsi, dopo quella notte maledetta. Tornai a casa, da Demelza. Improvvisamente le tenebre che mi avevano catturato si erano diradate ed ero tornato a guardare alla vita come il Ross adulto. Sarebbe finita lì, avrei strisciato per farmi perdonare di tutto quello che avevo fatto, avrei sputato sangue per recuperare il tempo perduto con Jeremy, avrei voluto solo fare la pace con chi amavo, lasciarmi alle spalle quel periodo in cui ero stato orribile e aspettare l'arrivo della mia bambina. Solo questo... Ma il destino non perdona a chi fa del male, il destino chiede sempre il suo conto! Ed è stato salato e io ho perso tutto! E me lo meritavo di perdere tutto ma Demelza no, lei non meritava quel dolore! Per questo ti ho ringraziato per averla portata via, prima. Tu l'hai davvero salvata ma allora non potevo e non riuscivo a capirlo!".

Fu Dwight stavolta a dare a Ross una leggera stretta al braccio. "Le chiamano... lezioni... Servono a farci crescere".

"Queste lezioni però le hanno subite anche gli altri che non le meritavano" – commentò Ross, amaramente.

"Parli anche di Elizabeth?" - azzardò Dwight.

Ross sorrise amaramente. "Fu un inferno, con lei. Dopo quella notte non ci fu più niente se non liti e rabbia. Me ne andai, sai? Da Trenwith... Quel giorno in cui Demelza andò via, io lasciai quella casa dopo aver scoperto alcune cose che mi erano state tenute all'oscuro e ho deciso che dovevo essere uomo e vivere dove e con le persone che avevo nel cuore. Cercai la carrozza che aveva portato via Demelza, ma non la trovai e la persi. E per sette anni io ogni giorno mi son chiesto dove fosse, cosa stesse facendo e come fossero diventati i miei bambini. Non sapevo nemmeno se Clowance fosse maschio o femmina! Non sapevo nulla! Non potevo nemmeno immaginare la mia bambina... L'ho rivista quì, a Londra, ormai grande e col cognome di un altro uomo che le aveva fatto da padre! Ho perso tutto Dwight e me lo merito, mi merito di guardare la donna che amo e i miei figli da lontano, come un estraneo, senza poter allungare una mano per far loro una carezza o abbracciarli".

Dwight scosse la testa. "Sai Ross, in questi anni ho pensato spesso a te. Di nascosto, facendomi tante domande... Me ne andai perché ero arrabbiato con te e mortalmente deluso e non sto dicendo che ho rivalutato il tuo operato, ritengo tu abbia fatto davvero tanti errori e che siano stati orribili. Ma...".

"Ma?".

"Umani. Sei umano, Ross. Io ti credevo diverso, indistruttibile, infallibile. E per questo la delusione è stata ancora più cocente, ma vedi... Vedi in questi anche io ho pensato molto al passato e agli errori che ognuno di noi ha commesso e mi sono ricordato di una cosa a cui non avevo pensato quando sono partito".

"Cosa?".

"Pure io mi ritenevo una brava persona ma pure io ho fatto errori gravi di cui ancora oggi mi vergogno. E tu mi sei stato accanto allora, senza giudicare e senza recriminare. Da amico... Capendo, aiutando, tendendomi una mano in silenzio... E mi sono vergognato di me stesso perché io non ho fatto lo stesso con te".

Ross si accigliò, cercando di capire a cosa si riferisse. "Scusa, ma...".

E Dwight sorrise. "Parlo di quando ho amato Keren, sposata con un bravo uomo di cui ero amico. Ho avuto una relazione che ha macchiato la mia coscienza per sempre e che ha provocato la morte di una giovane ragazza, nonché la disgrazia dell'uomo che l'aveva sposata e amata. E tu non mi hai giudicato, non hai sentenziato, hai solo cercato di dare una mano".

Ross spalancò gli occhi, ricordando quei giorni che onestamente aveva rimosso dai ricordi in quegli anni in cui ogni suo pensiero era stato volto unicamente a Demelza e ai bambini. Sospirò, rispondendo al sorriso triste dell'amico. "Sei una brava persona Dwight, una delle migliori che conosco. E sei umano, hai sbagliato pur senza desiderare che finisse tanto male... Hai sbagliato, come sbagliamo tutti nel corso della vita, chi più, chi meno. Ma se dovessi fare un bilancio di ciò che conosco sulla tua esistenza, il risultato è più che positivo. Un errore non può pregiudicare un'intera e onesta esistenza".

"E tu non hai fatto lo stesso, Ross? Non hai commesso un errore all'interno di una vita spesa ad aiutare gli altri? Ciò che hai detto e che vale per me, non dovrebbe valere per te?".

Ross scosse la testa. "Io ho commesso errori gravi e non merito perdono".

"E io col mio comportamento ho provocato la morte di Keren. Non è altrettanto grave?".

Ross lo guardò, cercando di capire a cosa stesse cercando di arrivare. "E quindi?".

Il sorriso di Dwight si distese. "E quindi forse dovremmo accettare le nostre debolezze, far tesoro del passato e cercare di perdonare noi stessi. I nostri errori li abbiamo pagati entrambi e tu li stati scontando ancora adesso. Forse crescere significa capire di non essere infallibili e farne tesoro".

"Forse sì!" - rispose Ross – "Io non posso che fare ammenda e sopravvivere a ciò che ho fatto. Tu invece puoi vivere davvero, ora! Hai la tua famiglia vicino".

Dwight annuì. "Vero! Ma sai, pure io e Caroline, dopo Sarah, abbiamo rischiato di perderci come è successo a te e Demelza. Io mi ero gettato nel lavoro e Caroline... Beh, lei come te ha cercato la se stessa giovane, la vita che conduceva prima di sposarsi ed essere madre. Ha cercato quel periodo dove feste, balli e vita mondana erano la sua quotidianità, fuggendo dal suo presente di madre in lutto. E' stata dura, era come se ognuno avesse intrapreso strade separate e fossimo estranei. Ma poi ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che quel presente doloroso, ci aveva comunque donato dei mesi indimenticabili con la bambina migliore del mondo. E non volevamo rinunciarci!".

"Sei sempre stato più saggio di me!" - concluse Ross, con un sorriso. "Vorrei essere stato altrettanto saggio... E invece ho perso tutto e ora Demelza ha un marito che piange e che amava e i miei bambini hanno un altro padre a cui pensano e due nuovi fratellini che non sono miei. E fa male... Io li guardo e tutti, tutti loro, vorrei solo fossero ancora miei".

Dwight annuì. "Non devi essere geloso di Hugh".

"Lo conoscevi?".

"Sì, ed era una brava persona. Non l'uomo per la vita per Demelza, erano troppo diversi, come il giorno e la notte in un certo senso. Ma era l'uomo perfetto per lei per QUEL periodo della sua vita. Demelza aveva bisogno di un uomo come Hugh accanto, allora... In quel momento preciso lui era la sua anima gemella. E lei quella di Hugh. E quando erano insieme sapevano essere felici nonostante tutto, sapevano gioire del tempo loro concesso e farne tesoro, senza farsi sopraffare dai problemi che aleggiavano sulle loro vite. Sapevano farli sparire! Fu il destino a decidere, come fu per te con Valentine. Non lo avrebbe sposato se non fosse stato per i gemellini e credo che col tempo ognuno avrebbe preso la sua strada e fra loro sarebbe finita, ma il destino ha deciso altrimenti e lei ora rappresenta degnamente la grande famiglia in cui è entrata, famiglia che la ama e che le è sempre mancata. Demelza è così, rende magica ogni casa e ogni persona che incontra nel suo cammino. E Hugh le ha lasciato in eredità una vita prestigiosa e senza pensieri che lei sa interpretare benissimo, con grazia e generosità, che darà un futuro ai suoi figli oltre che una grossa mano alla comunità bisognosa di Londra, che Demelza aiuta come può".

"Già, ha saputo andare lontano e ha saputo farlo benissimo" – sussurrò Ross, con amarezza. "La vita che non ho saputo darle io, se l'è costruita da sola".

Dwight gli diede un'altra carezza sul braccio. "Ti ha riaperto in parte una porta, Ross. Abbi pazienza con lei... E' confusa dal tuo ritorno e cerca di proteggere i suoi figli, eppure in un certo senso ti sta aiutando. Tacendo il vostro passato per permetterti di lavorare senza scandali a scalfire la tua persona, preoccupandosi della salute di Valentine, facendoti comunque vedere i bimbi da lontano o anche da vicino, se capita. Non avere fretta, non puoi permettertelo. Aspetta e vedi che succede... Hugh era l'uomo giusto per lei anni fa ma quello giusto per la sua vita sei tu e l'ho sempre saputo. Il destino ha portato entrambi quì, ci sarà un perché. Se sei diventato più saggio per davvero in questo periodo, abbi la costanza di saper aspettare. Anni fa io portai via Demelza da te ma oggi, se potrò aiutarti, cercherò di riportarla da te".

E Ross in quel momento capì di aver ritrovato un amico che gli era mancato tantissimo.

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Capitolo 44
*** Capitolo quarantaquattro ***


Sono stanco!”.

Cammina!”.

Ma mi fanno male le gambe!”.

Perché corri troppo poco! Nemmeno cammini quanto dovresti e se non fai come ci ha consigliato Dwight, dovrò richiamare il dottor Choake!”. Ok, era scorretto e non era carino far spaventare Valentine ma era importante che seguisse le prescrizioni di Dwight, era per il suo bene e tutti quei capricci che si ripetevano da una settimana ogni mattina, per una semplice passeggiata nel parco, non avevano motivo di esistere! Ross aveva deciso di essere più presente e un padre migliore per Valentine, un padre più simile a quello che era stato per Julia e il più lontano possibile dal padre che era stato dopo, con tutti i suoi figli. La domanda di Dwight sul suo dolore per Julia lo aveva colpito nel profondo, dandogli la reale visione di come lo vedessero gli altri. Era stato un padre assente e orribile, per ognuno dei suoi bambini venuti dopo di lei, tutti sacrificati al suo orgoglio, al suo dolore e ai suoi fantasmi per le scelte sbagliate fatte. Non voleva essere così, non voleva che suo figlio pensasse di non essere amato e soprattutto non voleva che pagasse per i suoi errori come era stato per Jeremy e Clowance! Amava i suoi figli e anche se non era stato in grado di dimostrarlo, sarebbe stato pronto a dare la vita per ognuno di loro. Per questo si era alzato al mattino presto, aveva preso Valentine e aveva iniziato con lui quella routine di passeggiate nel parco per renderlo più forte. Sapeva che non c’era abituato, che faticava, sapeva che era sempre stato troppo tempo in casa e poco fuori e per questo voleva accompagnarlo in quella nuova avventura, per quanto difficile fosse in quei primi tempi. Dovevano allenarsi, ognuno per un motivo diverso, e insieme migliorarsi e stare meglio.

Nooo, ti prego, il dottor Choake NO!”.

E allora cammina senza lamentarti!”.

Dopo però la facciamo colazione?” – chiese Valentine, con le guance rosse per lo sforzo di camminare tanto velocemente.

Ross lo prese per mano, accelerando il passo. “Certo, ma te la devi guadagnare la colazione! Sai, me lo dicevano sempre quando ero un soldato!”.

Ma io non sono un soldato” – obiettò il bambino.

Fa finta di esserlo”.

Valentine ridacchiò a quella risposta, forse reso di buon umore dal tono leggero in cui Ross l’aveva pronunciata. Fece per rispondere ma poi si fermò, attirato da qualcosa che aveva scorto in lontananza. “Papà, guarda! La bambina col lupo bianco!”.

Ross si bloccò e in lontananza la vide. Clowance, con un nastro rosso fra i lunghi capelli biondi e un vestitino scozzese, giocava in lontananza con Queen e non era sola: c’erano i suoi fratelli con lei e altri due cani.

Ross deglutì, uno lo conosceva. “Garrick” – sussurrò piano, mentre i tanti ricordi legati a quel cane lo investivano con violenza. Quella vecchia canaglia era ancora viva e vivace, da quel che vedeva, e i bimbi, oltre all’amore di Demelza, lo tenevano giovane e attivo!

Valentine lo riportò alla realtà. “La bambina con la lupa e gli altri bambini, devono venire al parco a correre come me? Per questo sono qui a quest’ora?”.

Ross si accigliò, in effetti era molto presto. “Non… Non lo so…” – disse, rapito dal vederli giocare e dal costatare che anche Clowance sembrava spensierata e allegra, mentre si inseguiva coi gemellini che non finivano di tormentare lei e i cani.

L’unico che stranamente sembrava più ombroso era Jeremy, seduto su una panchina col muso lungo, in compagnia di un cagnolino dal pelo rosso e arruffato. Non lo aveva mai visto così e di solito era Clowance quella sempre pensierosa e accigliata.

D’un tratto, la voce di Demelza richiamò i bimbi e Ross la vide uscire dal suo immenso giardino, dal cancelletto privato che separava la sua proprietà da Kensington. Aveva i capelli sciolti ma ben pettinati, indossava un abito rosa e portava sulle spalle un morbido bianco giallo che le conferiva un aspetto dolce e gentile.

Valentine si illuminò. “Papà, lady Boscawen!”. Si staccò dalla sua mano e finalmente, anche se era l’occasione meno adatta, lo vide correre e raggiungerla prima che potesse fermarlo. Quella piccola canaglia, quando voleva correva! Eccome!

Demelza si voltò a guardarlo, stupita nel sentirsi chiamare da lui e nel trovarselo davanti. Anche gli altri bimbi si bloccarono a guardarlo, incuriositi, avvicinandosi a lei. E Ross fu costretto a fare altrettanto e ad avvicinarsi a sua volta per riprendersi Valentine e togliere Demelza da quella situazione che doveva sembrarle davvero imbarazzante e soprattutto inaspettata.

Appena i gemelli lo videro, prima ancora che Demelza potesse dire qualcosa, il piccolo Demian spalancò gli occhi e Ross se la fece quasi sotto. Santo cielo, aveva stretto un accordo di silenzio con Daisy, ma lui...?

Infatti il bimbo, indicandolo, rischiò di farlo finire nei guai in due secondi. "Ma tu sei...".

E a quel punto la sua gemella, che Ross aveva già appurato essere sveglia e scaltra come una volpe, lo salvò, sovrastando la voce del fratello. "Lui è un signore che LAVORA CON LO ZIO!".

Lo disse alzando la voce per risultare incisiva e guardando il fratellino negli occhi, bloccandolo dal parlare e rovinargli l'esistenza. E Demian capì, stranamente tacque e non fece domande. Ross osservò quei due, chiedendosi se davvero fossero vere le leggende sui gemelli e sulle loro capacità quasi magiche di capirsi con un solo sguardo. Daisy poi si voltò verso di lui, gli lanciò un'occhiata di intesa e Ross capì comunque di essere nei guai. La piccola jena gli aveva fatto un favore, ne era consapevole e lui sapeva anche che presto gli avrebbe ricordato questa cosa, chiedendogli un favore di ritorno in cambio. Non lo avrebbe dimenticato, prima o poi avrebbe chiesto il suo compenso e anche se era piccola, era abbastanza canaglia per creargli problemi... Falmouth sarebbe stato orgoglioso di lei, se avesse saputo...

Demelza osservò sua figlia, quella dolce frugoletta col vestitino blu, il golfino rosso e il fiocco fra i capelli dello stesso colore dell'abito, fiutando qualcosa di strano nel suo atteggiamento ma non facendo domande sul momento. Conosceva sua figlia, era palese, così come lo era il fatto che quella strana situazione era appunto... strana...

Anche Clowance guardò i gemelli con aria interdetta e Ross decise che era meglio distogliere l'attenzione di tutti da quanto appena successo. In fondo era un momento bello, no? Era bellissimo, ogni volta, rivedere Demelza soprattutto quando era coi bambini, perfettamente guariti dalla varicella, sani come pesci e vivaci come sempre.

Si inchinò leggermente, doveva interpretare al meglio quella situazione. "Lady Boscawen, buon giorno".

Valentine le prese la mano, eccitato di vederla. "Che bello vederti Demelza" – disse, saltellando.

Demelza gli sorrise, anche se in un modo un pò tirato. "Valentine, che ci fai quì?".

"Devo correre, lo dice il dottore! E papà mi ci porta tutte le mattine in questo parco, a farmi allenare. E tu, perché sei quì? Questi sono i tuoi bambini?".

Ross tossicchiò. "Valentine, basta domande, non è educato e credo che Lady Boscawen abbia molto da fare". Santo cielo, Clowance in quel momento sicuramente stava pensando di avere a che fare con un selvaggio!

Demelza sorrise, indicandogli i figli. "Sì, sono i miei bambini. Jeremy, quello seduto col broncio sulla panca, Clowance e i gemellini Daisy e Demian. Abitiamo quì e stamattina stiamo uscendo per una gita e perciò abbiamo portato i nostri cani a fare un giro prima di uscire".

Ross osservò la bellezza di Queen e il cagnolino che teneva in braccio Jeremy, ancora in disparte e ancora silenzioso, che gli accarezzava il pelo.

Garrick, che Demian bloccava con le mani, invece lo guardò scodinzolando e poi gli andò vicino, saltandogli sulle gambe. Demelza impallidì e Ross deglutì. Lo aveva riconosciuto!

Valentine rise per quella reazione mentre i bambini di Demelza ne sembravano stupiti.

"Gli stai simpatico, signore!" - disse Daisy, ridendo.

"Garrick, buono!". Demelza si chinò subito, prendendolo in braccio. "Dai bambini, è ora di andare. Portiamo i cani in casa e poi andiamo alla carrozza. E' tardi" – ordinò, nervosa pure lei dal fatto che il suo amato cane, quel cane che tanti anni prima li aveva fatti conoscere, lo avesse riconosciuto. Era o non era dopo tutto il suo padrone, una volta?

Valentine si imbronciò. "Vai già via?".

"Sì, sto uscendo" – rispose lei, in tono gentile.

"Mi avevi detto che venivi a trovarmi e non sei venuta... Io ti ho aspettato, sai?".

Demelza impallidì davanti a quell'osservazione e Ross capì che si sentiva in colpa per quella bugia detta a Valentine sicuramente a fin di bene ma, appunto, una bugia... Demelza sapeva che non sarebbe tornata a trovarlo ma Valentine ci aveva creduto e sperato in una sua visita...

Intervenne per sbloccare la situazione, prendendo il figlio per mano. Non voleva che lei si sentisse in colpa, non ce n'era motivo e aveva fatto fin troppo per loro. "Lady Boscawen è molto occupata e sicuramente ha avuto cose importanti da fare. Su, saluta e andiamo, Valentine".

Inaspettatamente, Demelza si inginocchiò davanti a lui. No, lei non era d'accordo a far cadere quel discorso. "Mi dispiace, non volevo che ci rimanessi male ma...".

"Ma mi hai detto una bugia..." - ribattè il bimbo, deluso.

"Scusa" – rispose lei, con la sincera dolcezza che sempre l'aveva contraddistinta. Poi sospirò, guardando i suoi bambini. "Senti, stiamo andando allo zoo, porto la mia bimba più piccola a vedere gli orsi. Ti va di venire con noi? Così posso farmi perdonare per non essere venuta".

Valentine si illuminò, dimenticando il broncio di poco prima. "Sììì! Papà, possiamo?".

Ross, preso allo sprovvista e sorpreso per quella proposta, la guardò con aria smarrita. Era una cosa bellissima quella che Demelza stava facendo per Valentine, una cosa che doveva costarle molto, una proposta fatta col cuore a pezzi e il sorriso sul viso per celare i suoi veri sentimenti. Non era cambiata, non sarebbe mai cambiata da ciò che era stata a Nampara e che lui amava... Ma forse era troppo, forse doveva declinare, forse doveva prendere Valentine e andarsene, lasciandola libera di vivere una giornata piacevole coi bambini. "Non vorremmo disturbare".

Demelza annuì, facendogli capire che poteva andar bene lo stesso. "Non disturbate! Vero bambini?".

Clowance sospirò. "Un maschio? Un altro oltre a Jeremy e Demian?".

Demelza la fulminò con lo sguardo e la piccola tacque.

Il gemellino le fece la linguaccia. "Sì Clowance, bello! Siamo di più e può venire col suo papà. Saremo tantissimi maschi e voi poche femmine! Anche se...". Si avvicinò deciso a Demelza che teneva ancora per mano Valentine, si mise fra i due, spezzò il contatto fra loro e si rannicchiò fra le braccia di sua madre. "Mamma deve tenere per mano me che sono piccolo! Tu dai la mano al tuo papà, se vieni! La mamma è MIA!".

Ross sorrise. Santo cielo, Clowance aveva ragione! Era un mammone ed era assolutamente geloso e possessivo verso sua madre. Aveva già notato in altre occasioni quello strano e simbiotico rapporto fra lui e Demelza e ora aveva la certezza che fosse qualcosa di molto forte e difficile da spezzare.

Daisy, decisamente più indipendente del gemello a prima vista, invece non sembrava turbata. "Sì, vieni pure! Ma l'orso è mio!".

Valentine annuì. "Sì, non lo voglio un orso! Non ci sta in casa".

"In casa mia sì, guarda quanto è grande!" - ribattè la bimba, indicandogli con la mano la loro immensa dimora che si stagliava dietro agli alberi.

Valentine spalancò gli occhi, tutto doveva davvero apparirgli immenso rispetto alla piccola Nampara e alla realtà a cui era abituato.

Demelza invece guardò Jeremy, preoccupata. "Tu sei d'accordo se vengono con noi?".

Il ragazzino alzò le spalle. "Per me va bene, per me possono anche venire al mio posto! Posso stare a casa?".

Demelza scosse la testa. "No!" - rispose, decisa. "Tua sorella ci tiene e voglio fare questa gita tutti insieme, come sempre".

Jeremy non rispose. Stizzito si alzò dalla panca, mise in terra il suo cane e si avviò verso il giardino. "E allora andiamo! Prima facciamo, prima torniamo".

Clowance e Daisy gli andarono dietro e Demelza, con aria preoccupata, lasciò a terra Demian, dando una leggera spinta a Valentine. "Seguì i bimbi e i cani nel giardino, ti porteranno alla nostra carrozza".

Il bambino non se lo fece ripetere e con gli altri piccoli, scomparve all'interno del giardino, correndo.

E a quel punto, rimasti soli, Ross le rivolse la parola. "Non sei obbligata a farlo, Valentine se ne sarebbe fatto una ragione".

Lei scosse la testa. "Ho sbagliato e gli ho mentito! Ed è una cosa che non si fa, non coi bambini... Non è niente di che, solo una gita allo zoo, non essere ansioso".

"Tu non lo sei?".

Lei piantò gli occhi nei suoi, seria e forse tesa. "No, non lo sono". Lo disse ma Ross si accorse che le tremavano le mani.

"Sicura?".

"E' solo una gita e come ti ho detto, il passato è passato. Viviamo il presente...".

Ross sospirò, il discorso per lei era chiuso. "Perché lo zoo?".

Demelza sorrise dolcemente. "La piccola orsa vuole vedere gli orsi... Gli avevo promesso di portarla allo zoo e sto mantenendo la mia promessa. Tutto quì".

Ross sorrise. "Orsa? Daisy?".

"Sì, lei, la chiamo così! La piccola orsa che si è comportata in modo strano prima, quando ti ha visto... Ne sai qualcosa, Ross?".

Lui deglutì, quando mentiva Demelza lo beccava sempre. Ma cercò di fare del suo meglio. "No... La conosco a malapena".

Lei ovviamente non ci credette ma finse, mentre insieme si avviavano verso il giardino. "Sta attento a Daisy, Ross... E' piccola ma molto furba e vivace".

Sì, se n'era accorto, non c'era bisogno che lei glielo spiegasse e sapeva già di suo di essere nei guai... "E Jeremy? Cos'ha?" - chiese cambiando discorso, colpito dallo strano atteggiamento del figlio che al momento lo preoccupava quanto il patto d'acciaio stipulato con la piccola peste.

Demelza abbassò lo sguardo a quella domanda. "Non voleva venire, tutto quì".

"Non ama lo zoo? Piace a tutti i bambini".

Lei strinse nervosamente la stoffa della sua gonna. "Gli ricorda Hugh. Da piccolo, con lui e Clowance, eravamo andati in un parco e Hugh aveva organizzato una giornata con gli animali che preferiva e di cui gli leggevo le fiabe. Non vuole andarci più, non senza Hugh... Ma la vita va avanti, voglio che lo impari e lo superi e voglio che ci sia, che stia accanto a Daisy per cui è un eroe, come Hugh è stato accanto a lui e il suo eroe, allora...".

Quella spiegazione sicuramente sincera, lo ferì. Non erano capricci quelli di Jeremy, era il dolore per la perdita di un padre. E quel padre non era lui, era Hugh. Hugh gli mancava, Hugh lo aveva fatto divertire, Hugh era stato il suo eroe, era Hugh che Jeremy rimpiangeva. Non lui, lui non aveva mai fatto nulla con suo figlio e quando non dai amore a un figlio, a sua volta non puoi pretendere di riceverne... Le parole di Dwight di pochi giorni prima gli tornarono alla mente, dolorosamente. Era stato un padre orrendo e un marito ancor peggiore e ora, ora che cosa recriminava? Cosa pretendeva? Ferito guardò Demelza, chiedendosi se provasse le stesse sensazioni di Jeremy e non riuscì a non domandarglielo. "E tu...?".

"Io cosa?".

"Tu senti le stesse cose di Jeremy ad andare a uno zoo?".

Lei per un attimo vacillò, incerta se rispondergli o meno. Ma poi coraggiosamente parlò. "Io provo le stesse cose molte volte in molte occasioni. Era mio marito, il padre dei miei figli e l'uomo con cui ho condiviso una parte bella ed importante della mia vita. Molte cose me lo ricordano, non solo lo zoo e ogni volta che guardo i miei figli fare qualcosa che a lui sarebbe piaciuto, mi manca... Non solo oggi ma ogni giorno. Però la vita va avanti e dobbiamo viverla al meglio, senza lasciarci condizionare dal passato ma custodendolo, QUANDO NE VALE LA PENA, come un tesoro. E vorrei che questo lo imparasse anche Jeremy. Hugh avrebbe voluto così".

Ross deglutì. Era sincera, spietatamente sincera. Hugh non era ormai che un'ombra ma aveva lasciato una traccia importante in Demelza. Avrebbe voluto che fosse stato un perfido marito, un bastardo come sono tanti nobili che usano a loro piacimento le donne che provengono dal popolo, ma... Aveva amato Demelza, Jeremy e Clowance. E loro erano stati una famiglia felice che ora che lui non c'era, ne sentiva la sua mancanza. Demelza voleva guardare avanti portandosi dietro quel ricordo dolce, non voleva perderlo ma allo stesso tempo lottava per non farsene condizionare! E quando diceva che non voleva farsi condizionare dal passato, non lo diceva solo pensando di vivere al meglio perché Hugh avrebbe voluto così, ma era un messaggio anche per lui: il passato è passato, la famiglia che ho costruito con Hugh il mio presente.

Ross non seppe cosa dire, riuscì solo a chiedersi se lei, qualche volta, pensasse alle cose belle che li avevano uniti con la stessa intensità con cui pensava a Hugh. Ma questo non ebbe il coraggio di chiederglielo... E se anche lo avesse fatto, lei non avrebbe probabilmente risposto.

Daisy corse indietro, richiamandoli all'ordine e spezzando quel momento difficile fra loro. "ALLORA?!".

E Demelza sorrise. "Hai ragione, ora veniamo!".

E insieme si avviarono attraverso i grandi giardini di casa Boscawen, verso la carrozza.


...


Quando arrivarono allo zoo cittadino, dopo un breve viaggio in carrozza silenzioso per i grandi e pieno di chiacchiere per i bambini incuriositi dal nuovo amichetto che si era aggiunto alla combricola, i piccoli si scatenarono.

Demelza aveva spiegato brevemente a Ross che esisteva un altro parco fuori Londra che ospitava animali selvatici in un regime di maggiore libertà, lo stesso parco visitato anni prima con Hugh dove aveva dato il latte alla tigre, ma che aveva optato per quella soluzione cittadina dove delle grandi gabbie avrebbero impedito ai gemelli, turbolenti ed imprevedibili, di avvicinarsi troppo e cacciarsi pericolosamente nei guai.

Ross si sentiva a disagio, di troppo in quella gita. Era un qualcosa che, sentiva, legava ancora Demelza e Hugh e lo sguardo perso di Jeremy che si era un pò lasciato andare a qualche chiacchiera con Valentine, glielo confermava.

Guardò i bambini che correvano per i grandi viali del parco dove, appena dopo l'ingresso, un uomo vendeva acquiloni e faceva accarezzare delle innocue caprette ai piccoli ospiti che man mano giungevano.

Era domenica, vi era un continuo via vai di gente e famiglie venute per una gita e lui... lui era con la sua famiglia, in un certo senso. Guardò Jeremy che osservava assorto e pensieroso gli animali, Clowance che con eleganza passava da una gabbia all'altra e Valentine che, un pò intimidito, li seguiva cercando di conoscerli e di viversi al meglio quell'avventura. Erano i suoi figli, tutti e tre... E per una volta, LA PRIMA VOLTA, erano insieme.

Un nodo gli strinse la gola a quel pensiero perché quella visione era assieme bellissima e terrificante: cose belle ed errori che si mischiavano e che assumevano la forma di tre bellissimi bambini che, ognuno a modo suo, avevano pagato gli errori dei grandi che li circondavano.

Di sbieco guardò Demelza che, con le labbra serrate e vagamente pallida, osservava nella medesima direzione. Anche lei, poteva leggerglielo in viso, stava provando le sue stesse sensazioni, non sarebbe riuscita a non pensarci.

I cinque bambini, dopo aver fatto baccano ed esplorato l'area dell'ingresso, tornarono da loro.

Valentine cercò di attirare l'attenzione di Demelza per vedere un qualche animale e Demian, veloce come uno dei felini chiusi nelle gabbie, si mise fra loro due, dividendoli nuovamente.

Demelza, pazientemente, sorrise ad entrambi. "Che volete vedere?".

"Gli orsi!" - esclamò Daisy, risoluta. Degli altri animali non le interessava nulla e aveva guardato in malo modo il signore con le caprette che le aveva chiesto se volesse accarezzarne una.

"La giraffa!" - propose Clowance.

"Orsi! Orsi!!!". Daisy picchiò il piedino per terra e Demelza le si inginocchiò davanti. "Tesoro, siamo quì per vedere tutti gli animali, non solo gli orsi. Su, facciamo contenta Clowance, andiamo a vedere le giraffe e gli altri animali che sono su questo viale e poi andiamo a vedere i tuoi orsi. Sono in fondo al parco, non c'è fretta".

Daisy si imbronciò ancora di più. "Voglio vederli adesso! Sono a giocare nel bosco?".

"No, sono belli tranquilli e al sicuro nelle loro gabbie. Ti aspettano felici e contenti per conoscerti, ma vogliono vederti brava" – la rimbeccò Demelza, cercando di calmarla.

Jeremy, imbronciato, calciò col piede un sassolino. "Non sono felici e contenti, gli orsi! Nessuno di questi animali lo è e questo posto non mi piace".

Ross si intromise, d'istinto. Jeremy era indubbiamente nervoso e di malumore ma non gli andava che fosse tanto brusco nel rispondere a sua madre, pur comprendendone i motivi che lo spingevano a comportarsi così. "Perché dici questo?".

Jeremy si voltò verso di lui e Ross sentì il sangue gelarsi nelle vene per quello sguardo tanto profondo e pieno di pensieri che tutto sembrava, fuorché quello di un bambino. "Voi signor Poldark, sareste felice di vivere in una gabbia? Nessuno lo sarebbe, nemmeno un orso! SOPRATTUTTO un orso!".

Ross non seppe cosa rispondergli e nemmeno Demelza ci riuscì. I restanti bambini rimasero in silenzio, ammutoliti per quelle parole che, in effetti, nascondevano una grande verità e una dimostrazione della profondità dell'animo di Jeremy. Ross si ritrovò ad essere fiero di lui, era un bambino dall'animo buono e sensibile e come sua madre prima di lui, gli stava dando una lezione su quanto anche gli animali sapessero vivere, amare e soffrire. "Scusa, hai ragione... Ma credo che siano tenuti più che bene quì. Non sono abituati a vivere allo stato selvaggio, sono nati in cattività e non saprebbero sopravvivere all'infuori di questo zoo".

Daisy ci pensò su e poi trovò la sua soluzione. Quella più adatta agli orsi, secondo il suo modo di vedere. Quella più adatta a lei, secondo il modo in cui la vedeva Ross. "Mamma, Jeremy ha ragione! A casa nostra l'orsetto starebbe bene, più meglio che nella gabbia".

Demelza sospirò, riprendendo il polso della situazione. "Non si dice 'più meglio'" – la corresse.

Daisy fece la linguaccia e Ross se la prese per mano. "Su, la porto io dagli orsi! Voi guardate gli altri animali e poi raggiungeteci là".

Demelza lo guardò storto, nuovamente. Era palese che captasse che c'era qualcosa fra lui e la piccola canaglia bionda ma doveva rimanere impassibile e reggere il gioco a Daisy che fingeva indifferenza meglio di lui.

"Se sei d'accordo, ovviamente" – tentò.

Demelza assunse un'aria di sfida. "Non verrà con te! Daisy non si lascia prendere per mano o in braccio tanto facilmente, soprattutto da uno sconosciuto".

Daisy guardò lui e poi sua madre e alla fine strinse forte la manina in quella di Ross, decidendo da sola come porre fine a quella disputa giocata sulla sua persona. "Sì, orsi! Con il signor Poldark! Dopo ci vediamo la".

Demelza sospirò, stupita e con aria sconfitta. "Va... Va bene, ci vediamo dopo. Ma fa la brava". Poi guardò Ross, sospettosa. "Sta attento a lei, mi raccomando! E' imprevedibile". E prendendo con se Demian, Valentine, Clowance e Jeremy, si avviò verso le giraffe.

Ross si incamminò nel viale laterale, a passo spedito, stupito ma anche felice che si fosse fidata a lasciargli la piccola pestifera gemellina. "Sei stata bravissima prima, a bloccare tuo fratello! Oppure per il nostro patto segreto sarebbe stata la fine. Ti devo un favore" – mugugnò, trovandosi a pensare a come diavolo si fosse trovato in quell'assurda situazione con quella mocciosa di nemmeno quattro anni.

Lei annuì, seria. "Vero! Anche a Demian".

Carinissima a puntualizzarlo, davvero! La piccola Boscawen era la vera erede di Falmouth, altro che il suo gemello su cui probabilmente, in quanto maschio, la famiglia puntava di più. Era una jena, Prudie aveva dannatamente ragione. "Cosa vuoi che faccia?".

"Non lo so! Con Demian ci penso e poi te lo dico".

Grandioso! Ross alzò gli occhi al cielo, rendendosi conto che era davvero nei guai. "Fammi sapere".

"Ti devo dire un'altra cosa, signor Poldark!".

"Cosa?".

"Avevi ragione, ha funzionato".

Ross si accigliò, guardando la piccola che ridacchiava in modo furbo. "Cosa?" - chiese, provando uno strano terrore.

"Come salvare il mio culetto dalle botte!".

Ross rise. "Hai battuto Prudie?".

"Sì! Mi sono buttata in terra come hai detto tu e lei si è bloccata tutta. Voleva prendermi ma le è venuto mal di schiena e non riusciva più a muoversi e ora sta a letto".

Ross impallidì, sentendosi mortalmente in colpa. Santo cielo, la mocciosetta aveva davvero messo in pratica il suo consiglio e Prudie, non più giovane come quando badava a lui, ne era rimasta vittima in modo pesante. "E ora... Ora come sta?".

Daisy alzò le spalle con noncuranza. "Oh, Dwight diceva che guariva in dieci giorni. Ma mica era vero! Sta a letto e dice che sta meglio solo se le portano tre volte al giorno il tè con la torta e i biscotti. A letto! Dice che è l'unica medicina per la sua povera schiena... Sta a letto da tanto, sai? Mica lavora più e al parchetto al mattino ci andiamo con Mary e Mary non mi da le sculacciate! Grazie signor Poldark! Anche il mio culetto ti ringrazia".

A Ross venne da ridere. Santo cielo, era fantastica, la miglior terapia contro la depressione! Se avesse potuto l'avrebbe rapita e se la sarebbe portata a casa, era uno spasso quella mocciosetta. Divenne di buon umore, dimenticando i malesseri di Prudie che, dalle parole di Daisy, si deduceva non fosse cambiata. Ancora oggi odiava lavorare e trovava tutte le scuse valide per non farlo... Ce la vedeva a letto, stesa come un pascià, a farsi servire come una gran dama...

Daisy improvvisamente gli sfuggì dalle mani, mettendosi a correre. E Ross, preso dal panico, le andò dietro. Che diavolo le prendeva? "Daisy!".

La piccola corse veloce, rapita da quello che vedeva, fermandosi a pochi centimetri dalla gabbia dove una grossa mamma orsa giocava coi suoi due cuccioli. Dal pelo scuro, maestosa e imponente, sembrava dominare gli altri animali. Daisy ne era rapita e non si spostò di un millimetro nemmeno quando l'animale ruggì contro di lei per essere stato disturbato.

Ross la prese in braccio, in un gesto veloce, spostandola da lì. "Non farlo più!" - le disse, brusco. "E' pericoloso, non si scappa!".

Ma Daisy, rapita dall'animale, parve non sentirlo nemmeno. I suoi occhi brillavano e sembrava un tutt'uno con quelle bestie feroci che adorava e a cui ambiva. Erano esseri simili, pensò Ross, selvagge ed imprevedibili...

La piccola gli cinse le spalle con le braccia, appoggiandosi al suo petto con la testolina. "Signor Poldark... Glielo dici a mamma se dopo andiamo nel negozio che vende gli orsi e ne compriamo uno?".

Ross sospirò. "Daisy, non esistono negozi del genere".

"Perché?".

"Perché gli orsi sono pericolosi, non si possono tenere in casa e quindi nessuno li vende".

"Ma io lo voglio" – mugugnò lei.

Ross ci pensò su e alla fine capì che doveva usare la furbizia e l'intelligenza, nonché l'esperienza, per convincerla. "Sai, tu saresti bravissima a prendertene cura e il tuo orso ti vorrebbe anche bene. Ma vedi, io da giovane ho combattuto in America e di orsi ne ho visti tanti e ho imparato una cosa su di loro".

"Cosa?".

"Che amano e accettano come padrone solo una persona. Te!".

Daisy si eccitò a quelle parole. "Davvero?".

"Davvero... Ma gli altri, la tua mamma e i tuoi fratelli, sarebbero in pericolo... Per un orso sarebbero prede e li attaccherebbe e li mangerebbe. Vuoi davvero che succeda una cosa così? Rimanere sola?".

Daisy spalancò gli occhi, spaventata davanti a quell'eventualità. "Sola? Ma anche senza Demian? Io non posso stare senza Demian, è il mio gemello! Dove c'è lui ci sono anche io e se l'orso se lo mangia, come faccio?".

Ross gli strizzò l'occhio. "Devi scegliere. Lasciare gli orsi quì oppure portarne uno a casa e rimanere senza gemello. Chi vuoi, l'orso o Demian".

Daisy ci pensò su qualche secondo di troppo rispetto a quelli preventivati da Ross, ma poi annuì, sconsolata. "Demian! Lui è sempre con me e sarà sempre con me. Se ci sono io c'è anche lui, se lui non c'è non ci sono più nemmeno io. Per sempre...".

Ross non capì appieno quel concetto ma percepì che questo tipo di legame intercorso fra i gemelli era davvero un qualcosa di unico ma che Demelza avrebbe dovuto spezzare prima o poi. Dovevano imparare a pensare da singolo, da persone separate. Non erano un'unica entità ma due persone diverse che avrebbero dovuto condurre vite diverse. Non che fosse il migliore dei padri o degli educatori ma gli appariva davvero stonato quel modo di pensare di Daisy che, seppur molto indipendente, sembrava faticare nel vedersi separata dal fratello.

La voce di Demelza e dei bambini dietro di loro li fece voltare, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Jeremy sembrava più di buon umore, come Clowance e i due piccoli contendenti di Demelza che, uno preso per mano da un lato e uno dall'altro, si dividevano la loro principessa.

Demelza rimase di stucco vedendo che teneva in braccio Daisy. "Non ha mai amato essere presa in braccio... Come hai fatto?".

Ross strizzò l'occhio alla piccola, rimettendola a terra. "Basta guardarli nel modo giusto e col giusto fascino e cadono come birilli".

Clowance rise, osservandolo incuriosita. "Signor Poldark, voi lavorate davvero con mio zio?".

"Sì, in Parlamento".

"Siete nobile?".

"Un nobile di campagna".

Clowance divenne pensierosa a quella risposta, prima di voltarsi verso sua madre. "Mamma, i nobili di campagna sono nobili come quelli di città?".

Ross sospirò, rispondendo al posto di Demelza. Clowance era una lady e sicuramente lo guardava e giudicava dall'alto in basso e non aveva voglia di dirle qualcosa che la ferisse o contrariasse. Era cresciuta in quell'ambiente e doveva accettarlo e quindi, perché non dirle ciò che voleva sentire? "Ovviamente no! I nobili di città son più nobili di quelli di campagna".

La piccola emise un sospiro di sollievo ma Demelza non fece altrettanto. Lo guardò contrariata da quella risposta che evidentemente non aveva gradito. Ross pensò che fosse sul punto di dire qualcosa, che lo volesse davvero ma vista la presenza dei bambini, alla fine lei si trattenne.

I piccoli si misero a guardare gli orsi e Demian rimase fisso a osservare la madre coi cuccioli. "Bella! Mamma orsa!".

Valentine annuì. "Tutte le mamme sono belle, anche le mamme orse!".

Jeremy rise e Demian si avvinghiò a Demelza. "La mia mamma è la più bellissima di tutte".

Valentine osservò Demelza con aria sognante ma poi aprì bocca, dicendo qualcosa che fece gelare il sangue nelle vene di Ross e, forse, anche di Demelza. "Anche la mia lo era! Papà dice che era la più bella del mondo".

Lo disse con naturalezza, com'era ovvio che fosse per un bambino che idolatrava una madre mai conosciuta, lo disse spinto dai racconti di Ross su di lei perché non poteva dirlgi la verità, non poteva dirgli che era nato per errore e che lui e sua madre avevano finito per odiarsi dopo che da giovani si erano amati, non poteva dirgli che la sua nascita gli aveva rovinato la vita, la sua e quella delle persone presenti in quella gita. Non poteva dire a Valentine la verità e in quegli anni, ogni volta che gli aveva chiesto di Elizabeth, aveva fatto con lui come poco prima con Clowance: aveva detto ciò che Valentine e ogni bambino al mondo desiderano sentirsi dire, ciò di cui suo figlio aveva bisogno.

Demelza però si irrigidì e per un attimo voltò lo sguardo di lato, tanto che Ross non potè vedere la sua espressione per alcuni secondi. Quelle parole l'avevano ferita e colpita, lo sapeva, lo percepiva a pelle e sapeva quanto dolore potevano aver risvegliato in lei. I gemelli e i bambini non si accorsero di nulla, lei rimase zitta ma lui percepì nelle ossa un incredibile gelo e il peso del tanto dolore che lei, a causa di Elizabeth, aveva vissuto sulla sua pelle, il senso di inadeguatezza che lui non aveva mai avuto tempo di curare, le tante parole non dette quando poteva, parole che le avrebbero fatto capire che per lui non esisteva altro che lei.

Avrebbe voluto spiegare, se fossero stati soli lo avrebbe fatto e l'avrebbe costretta ad ascoltare, ma non poteva. E allora sperò semplicemente che lei capisse cosa ci fosse dietro a quelle parole.

Dopo alcuni istanti Demelza prese un profondo respiro, tornando padrona di se. Sorrise, in modo tirato, ma sorrise. "Su, salutate questi famosi orsi!" - disse ai bambini che erano arrivati con lei.

Daisy le si avvicinò, sospirando. "Mamma, non posso tenerlo a casa".

"Come lo hai capito?" - chiese lei, stupita.

"Il signor Poldark mi ha detto che non si può e perché... Non lo voglio l'orso, fa niente, lo lasciamo quì".

Demelza osservò Ross a bocca aperta, chiedendosi come diavolo avesse fatto a convincerla e lui ringraziò Dio e Daisy per averla distratta dal discorso di poco prima.

"Le ho solo detto che è pericoloso..." - disse lui.

Jeremy, seguito da Demian e Valentine, andò avanti e indietro dalla gabbia, osservando l'enorme belva. "Mamma, ma potremmo noleggiarlo?!".

"Per cosa?".

"Per la festa di compleanno di Clowance! Almeno si mangia Catherine e le altre stupide sue amiche".

Demelza lo fulminò con lo sguardo, Clowance gli diede una spinta che fece ridere i gemelli e Valentine ma Ross si trovò gelato, ancora una volta. Il compleanno di Clowance era a novembre, fra poche settimane... E lui li aveva persi tutti... La sua nascita, i suoi primi passi, le prime parole, il calore del suo corpicino fra le sue braccia, come aveva sentito poco prima quello di Daisy, le chiacchiere, tutto... Avrebbe compiuto sette anni, sette anni in cui non c'era mai stato. Ricordò i giorni terribili della sua nascita e tutti gli errori commessi che avrebbe potuto evitare... Aveva perso tutto allora, infranto ogni promessa e si era dimostrato il più piccolo e abietto fra gli uomini. Quanto doveva aver sofferto Demelza? Sola, con due bimbi piccoli e un uomo che non era mai tornato... La guardò, le chiese scusa con lo sguardo ma gli occhi della donna che amava erano nuovamente di ghiaccio. Distolse lo sguardo da lui, avvicinandosi a Clowance. "Su, non ti arrabbiare, Jeremy scherza e dopo il discorso che gli ho fatto prima davanti alla gabbia delle scimmie, sono felice che lo faccia! Anche se fa lo stupidino!".

Jeremy rise mentre Ross, ancora turbato da tante cose, si chiedeva cosa si fossero detti.

Clowance si mise le mani sui fianchi. "Niente maschi e niente orsi alla mia festa! Solo le mie amiche! Vero mamma?".

"Vero, è la tua festa e la fai come vuoi".

Jeremy pareva contento della cosa. "Evviva! Niente festa, niente bambine vestite da stupide, niente bambole, NIENTE CATHERINE! Oggi in fondo è una bella giornata!".

Clowance lo spinse di nuovo e Demelza andò a dividerli. "Su, non serve litigare! Tu avrai la tua festa e di sera andremo insieme, solo io e te, a teatro. Come mi hai chiesto".

Fu la volta di Ross ora, di girare il viso. Avevano organizzato una festa per Clowance e ovviamente lui non era stato invitato. Non ci avrebbe mai nemmeno sperato ma sentirlo dalle sue orecchie, sentire come in nessun modo fosse ritenuto uno di famiglia, uno che doveva esserci al compleanno di sua figlia, faceva male. Guardò il cielo e da padre, decise che l'unica cosa che potesse sperare era che Clowance avesse un bellissimo compleanno, come più voleva e con chi amava.

Valentine però sembrava di nuovo incuriosito. "Festa? Fate una festa?".

Clowance annuì. "Ne avremo un sacco, da ora! La mia a novembre, la festa da bambini piccoli per i gemelli a dicembre e poi...". Lei, Jeremy e i gemelli si guardarono in faccia, divennero rossi dall'eccitazione e poi risero, come se condividessero un grande segreto che li univa più di quanto non fossero già e faceva sentire estranei gli altri.

Anche Demelza rise, intuendo a cosa si riferissero. "Poi c'è la festa della Vigilia di Natale... Ho in mente grandi cose per quest'anno".

"Anche noi!" - ribattè Demian, orgoglioso. "Vedrai mamma, ti faremo una sorpresa bellissimissima quest'anno".

"Shhh" – lo zittì Jeremy.

Il piccolo si mise la manina davanti alla bocca. "Ops".

Valentine a quel punto però era ancora più incuriosito da quel mondo e quelle usanze a lui tanto sconosciute. "Che succede la sera di Natale?".

Demelza gli sorrise. "Beh, noi organizziamo feste di Natale magiche! La nostra casa diventa una specie di villaggio di Natale con tante luci, torce, addobbi di mille colori e candele. E festeggiamo con i nostri amici sorseggiando cioccolata, giocando insieme ed aspettando che Babbo Natale arrivi di notte a portare i dolci e i doni ai bambini buoni".

"Chissà io quanti regali, quest'anno!" - intervenne Daisy, guadagnandosi un'occhiataccia di sua madre e facendo ridere nuovamente Ross.

Valentine però non rise e rimase assorto ad osservarla con gli occhi lucidi. "Oh, dev'essere bellissimo. Sei magica Demelza, mi sa. Io a casa mia mica le faccio queste cose a Natale!".

"Noi sì, sempre!" - intervenne Jeremy. "Vieni anche tu, dai! Col tuo papà, come oggi!".

Demelza spalancò gli occhi e lo stesso fece Ross. I bambini, prima Valentine e ora Jeremy, li stavano mettendo in una situazione difficilissima.

"Ehm, no! Ti ringrazio Jeremy ma non vogliamo disturbare, è una festa di famiglia e fra amici".

"E' una festa di Natale" – puntualizzò Daisy, aggrappandosi alla sua mano. "Dai signor Poldark, vieni! Ti faccio vedere tutte le palline di vetro dell'albero! Tu sei grande, puoi anche toccarle senza romperle, io non posso invece".

Demelza rimase nuovamente stupita dalla reazione di Daisy a cui si aggiunse subito quella di Valentine. "Dai papà, possiamo? Demelza, possiamo?".

E lei capitolò, nuovamente. Non sarebbe mai riuscita a dirgli di no e Ross lo sapeva. E sapeva anche che, di nuovo, la stava mettendo in una situazione difficile. "Non insistere Valentine, non possiamo andare così, come nulla fosse, in casa delle persone a Natale".

Ma Demelza lo bloccò, cercando di fare violenza su se stessa per apparire accogliente e gentile. "Ci farebbe piacere avervi con noi, Valentine. Ci saranno tanti bambini e ti divertirai, ne sono sicura".

Valentine rise e saltò dalla contentezza, alla faccia delle sue gambette ancora deboli. Anche i gemelli e Jeremy sembravano contenti mentre Clowance aveva un pò il muso. "Un altro maschio? Pure a Natale?".

"Clowance!" - la rimbeccò Demelza. "Siete in vantaggio! Ci sarai tu, Emily Basset, Daisy, Catherine, sua sorella Jane... E Sophie Enys, anche se ancora è piccola e non la vuoi contare fra le tue amiche. I maschi sarebbero stati solo in tre: Jeremy, Demian e Gustav. Che male c'è se arriva un bambino in più?".

Valentine sembrava eccitato. "Emily Basset? C'è pure lei?".

Demelza annuì. "Certo, viene a casa nostra ogni anno per Natale, assieme alla sua famiglia".

Valentine abbracciò suo padre per la contentezza, era felice, felice veramente. E Ross sapeva che sarebbe stata una serata che mai avrebbe dimenticato... "Va bene" – fu costretto infine, a dire.

"Evviva!".

Contenti, i bimbi corsero a giocare nuovamente vicino alla gabbia degli orsi, facendo baccano e disturbando il sonno dei due cuccioli.

E rimasti momentaneamente soli, Ross si avvicinò a lei. "Dovevi dire di no, non sei obbligata a sopportarci anche a Natale".

Demelza guardò i cinque piccoli che si rincorrevano. "E' un bambino... E per metà ha lo stesso sangue di Jeremy e Clowance, che dovevo fare? E' una festa, è Natale e a Natale bisognerebbe aprire i nostri cuori. Sento che è la scelta giusta ed è una festa piena di amici, sarà piacevole in fondo. So che con Dwight le cose vanno meglio e conosci sia Lord Basset che Falmouth. Lo troverai piacevole e forse ti piacerà pure, anche se non hai mai amato troppo questo genere di cose".

"Perché lo fai?" - insistette.

"Non me lo chiedere, per favore..." - disse lei, in un soffio.

Ross chinò il capo. "Grazie... E per prima...".

Lo sguardo di Demelza si indurì. "A cosa ti riferisci?".

Lo chiese ma Ross sapeva benissimo che aveva capito. "Le cose che Valentine ha detto di Elizabeth. E' sua madre e io cerco di dirgli...".

Lei lo bloccò, come faceva sempre quando lui cercava di riaprire il passato. "Gli dici quello che ogni uomo dice della donna che ama, la madre dei suoi figli. Anche Hugh diceva cose così su di me, l'amore rende bella ogni cosa amata".

"Non è come pensi!" - cercò di spiegarle.

Ma lei non lo ascoltava già più. Gli voltò le spalle, si allontanò e raggiunse i bambini, decisa a proseguire in modo sereno quella giornata con loro.

E Ross rimase fermo a chiedersi come diavolo avrebbero fatto ad affrontare insieme il Natale, una festa che per loro in passato aveva significato tanto e in cui erano racchiusi i loro ricordi più belli.

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Capitolo 45
*** Capitolo quarantacinque ***


La domestica le portò il suo abito per la sera, di seta rossa, come si conveniva per una festa di Natale. Demelza lo indossò, guardandosi allo specchio in un misto di emozione e nervosismo. Sarebbe stata una grande festa di famiglia fra parenti e amici, assiema a coloro che in quegli anni aveva imparato ad amare e che erano diventati il suo mondo. Ma per la prima volta ci sarebbe stato qualcuno che arrivava dal suo mondo 'di prima', quel mondo che aveva lasciato con dolore e che da qualche parte della sua anima gridava per tornare a vivere in lei e attorno a lei.

Non era contenta della presenza di Ross ma allo stesso tempo sapeva che il fatto che lui ci fosse e che Valentine stesse in compagnia e vivesse una festa vera, fosse la cosa giusta da fare. Era stato così contento quando i suoi figli lo avevano invitato e anche se aveva letto in Ross esitazione e preoccupazione per ciò che avrebbe potuto essere, lei non aveva saputo dire di no. E anche Ross aveva dovuto cedere, alla fine. I loro sentimenti, i loro sensi di colpa e il dolore che si portavano dietro non potevano ricadere sui piccoli innocenti con loro e Demelza non avrebbe mai permesso che succedesse il contrario, né per i suoi figli, né per Valentine. I bambini cercano da sempre la compagnia di altri bambini ed era giusto così. E poi Demelza non riusciva a non pensare a quanto fossero legati, nonostante ne fossero all'oscuro, quei fratelli cresciuti l'uno lontano dagli altri.

In quelle settimane la sua casa era diventata un vero villaggio di Natale, addobbata in armonia coi suoi figli e coi domestici in un clima di attesa e armonia. I bimbi avevano abbellito i corridoi con festoni dorati, argentati e rossi che, sotto alla luce delle candele, donavano a posti solitamente silenziosi e bui, un alone magico dove tante luci si riflettevano sui muri al passaggio, di sera. Un grosso albero di Natale era stato allestito nel salotto, pieno di lanterne e palle di Natale pregiate, di fine vetro soffiato di mille colori che Falmouth ed Alexandra avevano fatto arrivare dalla laguna di Venezia e ovunque, su ogni porta e ad ogni angolo, c'erano altri addobbi colorati che richiamavano il Natale. Nella grande sala da pranzo avevano allestito un enorme Presepe anche se spesso Garrick e Fox si erano divertiti a rubare le statuine e a correre per casa tenendole fra i denti, come in un divertente gioco dove domestici, bambini e famiglia li inseguivano per farseli restituire.

Il camino era stato abbellito con addobbi composti da rami di abete, pigne, lanterne e nastri rossi e quando il fuoco era acceso, la sera, i bimbi ci si mettevano davanti a raccontarsi storie e a giocare prima di andare a letto.

Per la cena di quella sera di Vigilia, si era scelto un menù senza piatti troppo elaborati che i più piccoli non avrebbero gradito, era stata acquistata una montagna di cioccolata da fondere e bere insieme chiacchierando dopo cena e Demelza aveva pagato un uomo anziano del centro dei poveri per arrivare a sorpresa, vestito da Babbo Natale, poco prima di mezzanotte, con un grosso sacco pieno di dolcetti e cioccolatini da distribuire ai bambini presenti. I regali veri sarebbero stati aperti la mattina successiva, ognuno a casa propria, ma la sera di Natale Demelza aveva voluto organizzare comunque qualcosa di magico e speciale per i piccoli, con la complicità di Jeremy che ormai non credeva più a quella fiaba di Natale.

Nel giro di poche ore sarebbero arrivati tutti, pensò Demelza mentre si preparava. Ci sarebbero stati Dwight e Caroline con la piccola Sophie che sarebbe stata, in quanto neonata, la star della festa proprio come lo furono quattro anni prima i gemelli appena nati, Gustav con i suoi genitori, Catherine e la sua sorellina Jane, una piccola pestifera di due anni che, a vivacità, faceva concorrenza a Demian e Daisy, Margarita ed Edward, la famiglia Basset con la piccola Emily e ovviamente Lord Falmouth e nonna Alix. Non sarebbe stata una festa come le altre, sfarzose e fredde, che si celebravano nelle grandi case della Londra-bene attorno a loro, al contrario sarebbe stata una festa gioiosa ed informale, fatta coi bambini e a misura di bambino, tradizione nata da lei e Hugh e proseguita negli anni con successo. Anche Lord Falmouth ormai amava più quello stile di vita rispetto a quello aristocratico e pieno di etichette tenuto fino al suo arrivo e tutti insieme avevano imparato a vivere il Natale come una famiglia e non col blasone del loro casato.

Dal giorno allo zoo, Demelza non aveva più incontrato Ross. Gli aveva fatto recapitare un formale invito per la festa di Natale con una lettera e lui aveva risposto, sempre via lettera, che sarebbe venuto, ma non si erano più visti da allora. Spesso Londra sapeva essere sia troppo piccola che troppo grande, per chi desiderava vedersi o evitarsi...

Ma Demelza aveva deciso di mantenere fede stavolta alla promessa fatta a Valentine e quindi aveva mandato l'invito, scritto assieme ai suoi bambini. E andava bene così...

In quel mese e mezzo erano successe tante cose in casa. Clowance aveva compiuto sette anni e aveva avuto la sua festa con tutte le sue migliori amiche, come la voleva lei. E di sera, insieme, da madre e figlia e anche da amiche come sarebbero state di lì a qualche anno, erano andate a teatro a vedere una commedia per bambini a cui Clowance desiderava assistere.

Anche i gemelli, pochi giorni prima di Natale, avevano compiuto gli anni. Quattro... Crescevano in fretta anche se quell'anno in più e lo spirito del Natale imminente non li avevano resi né più tranquilli né meno combina-guai. Daisy continuava a dire parolacce e bugie, a sfuggire alle regole e a toccare le palle dell'albero di Natale. Nonostante i divieti erano un richiamo irresistibile per lei e ci girava sempre attorno. Ne aveva già rotte alcune e alla fine Prudie le aveva dato delle sculacciate sulle manine che però non avevano sortito effetto alcuno. Anche Demian era attratto dall'albero di Natale, ma in lui prevaleva il suo spirito di scalatore e spesso i domestici avevano dovuto fermarlo dalle sue arrampicate in salotto prima che cadesse e si facesse male, ribaltandosi con l'albero. Anche lui era stato rimproverato più volte e anche lui continuava a non ascoltare, facendo come meglio voleva appena non era guardato a vista.

Però erano adorabili e spesso, coi fratelli più grandi, si chiudevano in soffita a preparare non si sapeva quale sorpresa per lei da darle la notte di Natale. Demelza non aveva idea di cosa avessero organizzato ma doveva essere qualcosa di estremamente impegnativo visto il tempo che ci stavano impiegando per giungere a un risultato. Avevano coinvolto anche Gustav e Catherine e Demelza pensava, sorridendo, a quanta strada Jeremy avesse fatto da quel primo bigliettino di auguri che tanti anni prima le aveva regalato per Natale, fatto con l'aiuto di Hugh.

Hugh e Ross erano stati pensieri costanti in quel periodo di compleanni. Ross ovviamente non poteva partecipare a quello di Clowance e anche se riteneva fosse la naturale conseguenza delle sue azioni e scelte passate, Demelza non poteva non provare tristezza pensando che per i compleanni di sua figlia, lui non c'era mai stato. E mai avrebbe potuto esserci, forse... Le si spezzava il cuore... Per lui e anche per Clowance... Lei non sapeva, non poteva capire... Ma suo padre era lì vicino e avrebbe potuto vivere con lei le tappe più importanti della sua vita, se... se...

E Hugh... Hugh avrebbe amato veder crescere i suoi gemellini, avrebbe adorato e trovato divertene il loro modo di fare e la loro vivacità, il loro essere così biricchini e canaglie, la loro dolcezza, il loro modo unico di scoprire il mondo e guardarlo con quegli occhi magici e incantati di ogni bimbo ancora piccolo che in fondo Hugh non aveva mai perso nemmeno crescendo. Nemmeno lui c'era e per lui non ci sarebbe mai stata possibilità d'appello. Ed era duro da accettare pure quello...

Finì di mettersi il vestito, indossò un ciondolo con un fine corallo rosso ad ornarlo e poi lasciò che per una sera i suoi capelli rimanessero liberi e sciolti come una volta.

Poi guardò i bambini che si stavano a loro volta vestendo, aiutati da Prudie. Clowance e Daisy avevano dei vestitini rossi come il suo, scarpine di vernice rosse, nastro rosso fra i capelli e calzine bianche. Sembravano due bamboline...

Demian una salopette con gli immancabili pantaloni corti, in fantasia scozzese rossa e blu, camicina bianca e golfino grigio mentre Jeremy indossava una camicia bianca e dei pantaloni lunghi fin sotto il ginocchio, rossi e di seta. Erano bellissimi e decisamente eccitati e pronti per il Natale.

Tese loro la mano. "Su, scendiamo! A breve arriveranno i nostri ospiti!".


...


Ross era già stato diverse volte nella grandissima ed elegante dimora dei Boscawen ma sempre nel lato del palazzo di Lord Falmouth. Mai aveva avuto accesso all'ala della casa di proprietà di Demelza e dei bambini e quella sera, quando arrivò per la cena della Vigilia con Valentine, si trovò ad osservare tutto a bocca aperta con la stessa meraviglia con cui suo figlio guardava ciò che lo circondava.

La casa di Demelza era bellissima, elegante, arredata con buon gusto e rispetto alle stanze di Falmouth, più fredde ed austere, sembrava trasudare calore e senso di famiglia. Si percepiva solo respirando che lì vivevano una donna e dei bambini e che la loro quotidianità veniva vissuta in armonia e in modo allegro. Tutto era in ordine e allo stesso tempo informale, tutto era elegante ma lasciava in chi guardava una sorta di buon gusto per le cose semplici e... ed era casa.

Ross deglutì perché entrando in quelle stanze e saloni eleganti a lui tanto sconosciuti, pieni di ornamenti natalizi, si trovò a provare le stesse perdute sensazioni di tanti anni prima quando tornava a casa da Demelza dopo una dura giornata in miniera e veniva accolto dalla... famiglia...

Già, famiglia... Era incredibile pensare che la donna che amava e i suoi bambini vivessero lì, in quel mondo tanto lontano da quello che li aveva visti nascere e che avevano condiviso.

Appena dentro, una domestica prese il suo soprabito e la mantellina di Valentine e Ross si trovò immerso in un caldo ed accogliente salone. Il maggiordomo chiese loro di seguirli verso il salone principale e Ross vi si accodò tenendo un eccitato Valentine per mano.

Percorsero un lungo corridoio pieno di quadri antichi e di valore, camminando su morbidi tappeti di fattura persiana, osservando gli addobbi di Natale che, alla luce delle candele, riflettevano sul muro mille lucine danzanti, entrambi col cuore gonfio per mille ragioni diverse.

"E' una casa magica, papà!" - sussurrò Valentine, con la manina stretta nella sua che tremava dall'emozione.

E Ross si trovò d'accordo, né Nampara né il loro appartamento di Londra avevano mai regalato al bimbo un ambiente del genere.

Si sentiva un pò a disagio, anche se conosceva gran parte degli invitati. Sapeva che non avrebbe dovuto trovarsi lì e che Demelza avrebbe volentieri fatto a meno di lui per quella serata in famiglia e fra amici, ma allo stesso tempo era grato a Valentine che aveva reso possibile tutto ciò. Era un mese e mezzo che non vedeva Demelza e i bambini e sentiva la loro mancanza ancora di più di quanto non l'avesse avvertita in quei sei anni da solo a Nampara.

In lontananza si sentì un allegro vociare proveniente da un grande salone illuminato dove dovevano essere già arrivati gran parte degli ospiti e d'un tratto Dwight, con Caroline, uscirono nel corridoio.

Ross li guardò, felice di vedere una faccia amica in quel momento dove si sentiva estremamente in imbarazzo.

Dwight gli sorrise gentilmente e Caroline, bella ed elegante come Ross la ricordava, per un attimo parve sorpresa ma poi sorrise, come il marito.

"Capitano Poldark, quando Dwight mi ha detto che eravate quì e che avreste partecipato a questa festa, non volevo crederci! Piccolo il mondo" – disse in modo civettuolo, porgendogli la mano per farsela baciare.

Ross fece il baciamano, pensando a quanto lei fosse brava a dissimulare i dolori che la vita le aveva riservato, usando il sarcasmo come arma per difendersi. In fondo non erano molto diversi, lui e lei... "E' un piacere vederti, Caroline".

"Anche per noi" – disse Dwight.

Sentendoli parlare, dalla porta del salone comparve improvvisamente Demelza e come già era capitato altre volte, lasciò Ross a bocca aperta. Indossava un meraviglioso abito di seta rossa che le fasciava il petto e la vita e che scendeva elegantemente sulle sue gambe, valorizzandone il fisico asciutto e perfetto, era seducente, bellissima e la indiscussa regina della casa.

Lei, attorniata da servitori che andavano e venivano dal salone, appena lo vide abbozzò un sorriso di saluto. Un sorriso perfetto, da perfetta padrona di casa, cordiale ma che a Ross parve freddo. Sembrava imbarazzata e non poteva essere diversamente. "Benarrivati" – disse.

"Ciao Demelza". Valentine le corse incontro, salutandola festante e aggrappandosi alla sua mano. "Hai una casa bellissima, è tutto magico!".

Lei gli strizzò l'occhio. "Te l'ho detto che lo sarebbe stata! Merito dei miei bambini che l'hanno decorata e son mesi che ci lavorano". Poi guardò verso il salone, chiamando Jeremy e il bambino in un attimo fu lì, assieme a tutti gli altri.

E Ross e Valentine si trovarono circondati da bambini vestiti con abitini natalizi, urlanti e festanti. C'erano i quattro bimbi di Demelza, vestiti in tinta come lei, Emily Basset che si esibì in un caloroso saluto a Valentine, Gustav, Catherine e una bimbetta dalla faccia pestifera più piccola dei gemelli di un paio d'anni che lui non conosceva.

Jeremy prese Valentine per mano, attirandolo verso di se. "Ti aspettavamo, noi maschi avevamo bisogno di rinforzi!".

"JEREMY" – lo sgridò Demelza.

Ma Jeremy non si fece intimorire. "Troppe femmine e troppo pochi maschi. Vieni Valentine".

Demelza lo richiamò all'ordine, insieme agli altri. "NON-LITIGATE!".

E a quel punto, Catherine sorrise maliziosamente, avvicinandosi a Jeremy che, appoggiato alla parete, non si era accorto di essere finito sotto una delle foglie di vischio messe ad ornamento. "Non vogliamo litigare, Lady Boscawen! Vogliamo volerci bene".

Jeremy la guardò storto, osservò la sua posizione e resosi conto del pericolo, si spostò subito. "Ohhh, non ci pensare proprio!".

Ross, che non ci capiva nulla, osservò il suo bambino in cerca di spiegazioni. "Che succede?".

Nonostante le occhiatacce di Demelza, Jeremy mantenne la sua posizione. "E' pericoloso il vischio, signor Poldark! SOPRATTUTTO A NATALE! Non lo sapete?".

"No...".

Catherine prese Jeremy per mano e poi tentò di abbracciarlo. "Non è pericoloso, è bellissimo a Natale! Quando due si amano, è tradizione darsi un bacio se ci si trova sotto il vischio, signore! E tu sei quì e adesso mi baci, Jeremy".

"Ma neanche morto".

"Dai..." - piagnucolò la bimba.

Demelza sospirò, Clowance picchiò i piedi per l'ennesimo rifiuto occorso alla sua amica e a Ross, agli Enys e agli altri bimbi venne da ridere.

Caroline osservò Catherine. "Sa cosa vuole e sa chiedere ed esigere! Insisti, prima o poi cede".

"NOOOO" – urlò Jeremy.

"Almeno dammi la mano" – implorò Catherine.

"Perché?".

"E' Natale!".

Jeremy si allontanò da lei, una specie di fuga che lo portò a nascondersi dietro a Gustav che forse stava meditando l'ennesimo assalto a Clowance usando la scusa del vischio.

"Jeremy!" - piagnucolò Catherine.

Lui si imbronciò. "E' Natale ma sai camminare da sola pure se è festa!".

Demelza a quel punto intervenne in maniera più incisiva. "Basta, ora da bravi ve ne andate a giocare dove eravate prima. SENZA LITIGARE!".

"E senza baciarci!" - aggiunse Jeremy con aria di sfida, prima di ubbidire e sparire nel salone.

I bimbi grandi corsero via mentre i gemellini e la piccoletta che Ross ancora non conosceva, si attardarono a vedere il nuovo arrivato.

Daisy gli fece un enorme sorriso. "Ciao signor Poldark! Ben arrivato, dopo vieni a vedere il mio albero?".

"Certo".

La piccoletta coi gemelli, a Ross sconosciuta, balzò su Demian, stampandogli un bacio sulla guancia. E Ross scoprì che si trattava della sorellina di due anni di Catherine, Jane, decisamente più svelta e furba della sorella, che prendeva senza chiedere.

Daisy rise come una matta e Demian, schifato come se gli avessero spalmato addosso dello sterco, corse da sua madre e si lavò la guancia strofinandola sul suo vestito rosso. "Che schifo!!!" - piagnucolò, strappando un sorriso a Ross. Santo cielo, ai maschietti di quella casa era il caso di spiegare qualcosa...

Sospirando esasperata, Demelza spinse via tutti e tre in tono perentorio e tornò la pace. "I bambini sono agitatissimi stasera, anche i grandi, dovrai preparati a sentire un pò di baccano e ad assistere a parecchie scene come questa. Quì è la norma, soprattutto a Natale. Su, andiamo nel salone, gli altri son già tutti arrivati".

Caroline sorrise maliziosa, dando un bacio a Dwight sulle labbra. "Adoro questa tradizione del vischio e se pure i piccoletti la seguono, perché noi non dovremmo farlo? A te non piace, Demelza?".

Lei si accorse del tono volutamente frivolo di quella domanda posta davanti a Ross e per un momento arrossì. "No, io sono come Jeremy, non amo le cose fatte per forza, soprattutto i baci" – rispose, in tono fermo e deciso.

Ross, in modo malizioso, diede un'occhiata al vischio e poi lei che cercava di fare la dura e tenere le debite distanze. Avrebbe imparato un sacco di cose quella sera... Come addobbare una casa per Natale, come tener buoni una mandria di bambini scalmanati, com'era un albero addobbato e tante belle ed interessanti tradizioni... Sì, il vischio era una cosa che gli piaceva, decise. E forse un giorno sarebbe piaciuta anche a Jeremy...

Seguì Demelza nel grande salone e si accorse che erano ormai tutti già lì. Le donne stavano sul divano a chiacchierare fra loro, vestite con abiti rossi e dorati oppure verdi, i bambini giocavano nel salottino adiacente adibito a camera dei giochi e facevano baccano mentre Lord Basset e Lord Falmouth discutevano amabilmente seduti a un tavolino, accanto a quello che doveva essere l'albero di Natale. C'erano anche i due sposini il cui matrimonio gli aveva permesso di rivedere Demelza l'estate precedente, seduti su un divanetto a chiacchierare fra loro mangiando cioccolata calda, che furono raggiunti poi da Caroline e Dwight dopo che quest'ultimo era andato a recuperare sua figlia dalle braccia di Lady Basset che se la cullava fra le braccia. Ross sentì il cuore intenerirsi nel vedere quella bimba bellissima come una bambola, bionda come sua madre e perfettamente a suo agio in mezzo a tutte quelle persone, come se la vita mondana facesse parte già di lei, fra le braccia di suo padre. Era felice per Dwight e vedere il suo sguardo innamorato mentre guardava sua figlia e se la stringeva a se, riempiva di serenità Ross e allo stesso tempo feriva il suo cuore. Lui non aveva mai tenuto in braccio a quel modo i suoi figli ed eccetto Julia, aveva perso ogni cosa di loro. Guardò Dwight e per un attimo desiderò essere lui per provare quelle emozioni che si era precluso da solo e che mai nessuno gli avrebbe restituito. Lanciò un'occhiata alla camera di fianco dove giocavano i bambini e per un attimo rimase a guardare Clowance, rendendosi conto che non l'aveva mai nemmeno tenuta per mano e che da idiota non era corso a conoscerla quando era nata e lei aveva bisogno di lui. E poi tornò a guardare Dwight, decisamente un uomo migliore di lui, che non si era rifugiato nel dolore rinnegando se stesso e i suoi affetti ma anzi, aveva lottato per tenere accanto a se chi amava, venendo premiato con quel bellissimo dono chiamato Sophie.

E poi distolse lo sguardo, concentrandosi sul grande abete addobbato davanti a lui. Ross rimase ad osservarlo con la stessa incredulità di un bambino. Non aveva mai visto nulla del genere, mai avrebbe immaginato che un semplice abete potesse diventare magico e abbellire un salotto, diventando il simbolo del Natale.

Demelza si accorse della sua sopresa e stranamente sorrise davanti alla sua espressione incredula. "Tannenbam".

"Cosa?" - chiese, ricordandosi che aveva già sentito dire quella parola in giro e che l'aveva pronunciata anche il piccolo Demian durante il suo incontro segreto con Prudie al parco. Ma non ne conosceva il significato...

Demelza si affrettò a spiegargli, con la cordialità di una perfetta padrona di casa. "Nei regni tedeschi lo chiamano così, Tannenbaum. Albero di Natale... Decorano, da tradizione, un abete nel periodo natalizio. Con candele, luci, addobbi colorati... E attorno ad esso, la famiglia aspetta il Natale. E' una tradizione radicata da loro ma da noi ancora sconosciuta anche se forse chissà, fra qualche anno potrebbe diventare famosa pure quì. Fu Hugh a parlarmene, ne venne a conoscenza durante un suo vecchio viaggio in Baviera prima che ci conoscessimo e l'idea mi piacque talmente tanto che insieme decidemmo di farla diventare una nostra tradizione. I bambini ne furono entusiasti e da allora, ogni anno, in questa casa durante l'Avvento se ne fa uno".

Ross deglutì, non sapendo cosa rispondere. Quando Demelza parlava con lui di Hugh, lo faceva con una naturalezza e una tranquillità che lo ferivano. C'era un tono di affetto nella sua voce, nei suoi ricordi per lui e soprattutto, c'erano racconti di due persone che avevano saputo costruire una famiglia unita e che nel poco tempo a loro disposizione avevano creato delle tradizioni, dei bei momenti e dei ricordi rimasti indelebili in chi era rimasto. Lui non aveva mai fatto nulla del genere, mai si era soffermato a pensare a cose che riteneva futili e di poca importanza ma osservando quell'albero, l'atmosfera gioviale di quella casa, il calore di quella famiglia e di quelle persone amiche riunite attorno ad esso, si rese conto di aver sbagliato. Sarebbe bastato poco, non era necessario un grosso abete decorato con addobbi preziosi ma anche una semplice cena tutti insieme, dei giochi sul pavimento coi bambini che aspettavano la notte più magica dell'anno, fare qualcosa di speciale con la donna che amava... Qualcosa, qualunque cosa. Non aveva mai fatto nulla di davvero speciale con e per la sua famiglia e in fondo la spiegazione che avesse cose più importanti a cui pensare non reggeva. Non più, non ora che Demelza gli stava mostrando che c'erano tanti modi belli di vivere la vita pur nelle difficoltà.

Lord Falmouth e Lord Basset lo invitarono al loro tavolo e Ross dovette, suo malgrado, allontanarsi da Demelza che comunque aveva i suoi ospiti di cui occuparsi.

Era una perfetta padrona di casa e osservandola, Ross si accorse di quanto si sentisse a suo agio in quell'ambiente e accanto alla meravigliosa rete di amicizie che aveva creato attorno a se. Lui aveva sempre odiato quel genere di ambienti ma Demelza gli stava mostrando che anche nelle classi sociali più elevate c'era un cuore, calore, amore e che i veri sentimenti esistevano ovunque la gente desiderasse viverli.

Falmouth e Basset parlavano di politica e Ross finse di ascoltarli ma i suoi occhi erano tutti per lei. Demelza era magnetica quella sera, incatenava ogni sua emozione a se ed era stata gentile ed accogliente con lui, pur mantenendo una certa distanza. Certo, il suo ruolo di padrona di casa le imponeva cordialità ma essere al suo fianco e parlare tranquillamente con lei, anche di un semplice albero di Natale, lo metteva a suo agio più di quanto non lo fosse al suo arrivo. La osservò parlare con Caroline e con la sua giovane amica sposina e si accorse che rideva e scherzava, che era a suo agio e che aveva saputo trasformare quel tipo di ambiente che una volta la terrorizzava, in un rifugio e nella sua casa...

Era bellissima come una gran Lady di Londra doveva essere, impeccabile nell'abbigliamento, nella scelta dei gioielli, nei dettagli che facevano risaltare la sua persona e il suo ruolo nella società ma allo stesso tempo sembrava brillare di una luce a se stante conferitale dalla dolcezza semplice del suo sorriso e dei modi di fare gentili e mai studiati.

La osservò prendere in braccio la piccola Sophie e cullarla e per un attimo la rivide a Nampara a compiere gli stessi gesti con Julia e Jeremy.

La nostalgia lo stava vincendo col rischio di tradirlo davanti agli altri lords, quando una manina tirò la sua giacca. "Signor Poldark?!".

Ross abbassò lo sguardo, incontrando quello di Daisy. "Hei, ciao!" - le disse, trovandola adorabile con quel vestitino rosso e col nastrino del medesimo colore fra i capelli.

"Vieni con me?! Ti voglio far vedere il mio albero".

Falmouth intervenne, deciso. "Daisy, lascia stare i nostri ospiti e torna a giocare".

Ma Ross non era d'accordo. Valentine era nella camera accanto e si stava divertendo, c'era Demelza a pochi passi e onestamente non aveva voglia di passare la serata di Natale a parlar di politica. Si alzò, prendendo la bimba per mano. "Nessun disturbo. E credo di aver bisogno di sgranchire le gambe".

Falmouth sospirò, Basset rise sotto i baffi immaginando la sua noia e Ross ne approfittò per allontanarsi con la bimba.

Attorno a loro tutti chiacchieravano e ridevano, i domestici portavano vassoi di cibo e nessuno badava a loro, apparentemente. "Cosa vuoi farmi vedere?".

Daisy alzò le braccia. "Prendimi!" - ordinò, a pochi passi dal grande abete addobbato.

Ross la sollevò e lei gli indicò le palle di Natale più in alto. "Le hanno messe sopra le più belle, perché dicono che io e Demian le rompiamo! Sai che Prudie mi ha dato le botte sulle mani?".

"Perché?".

"Perché non devo toccare l'albero ma l'ho toccato e ne ho rotte un pò".

Ross rise. "Allora hanno ragione loro".

"Posso accarezzarne una, con te?".

Ross la guardò, scettico. Come lui da piccolo, per Daisy il fascino del proibito era irresistibile. "Se te lo faccio fare, poi sgrideranno e daranno una pacca sulle mani a me!".

Lei lo guardò seria. "Ma mi devi un favore!".

Ross sospirò. Era una dannatissima e furbissima canaglia! "Se te lo faccio fare, piano piano, poi non saremo più in debito?".

"Sì! Solo con Demian!".

Beh, era tanto carina e spietata, nel ricordargli che aveva un gemello... Non dimenticava niente, baby Boscawen! Ed era meno pericoloso avere debiti col fisco, piuttosto che con lei! "Lo ricordo bene, sta tranquilla! Quale pallina vuoi toccare? Questa dorata, da principessa?".

Lei rise. "Non sono una principessa! Clowance è una principessa!".

"E tu cosa sei?".

"Una bestiolina! Lo dice Prudie!".

Non riuscì a trattenere un sorriso, era adorabile e spiazzante nei modi di fare e parlare e aveva un fascino talmente magnetico di cui era inconsapevole che da grande avrebbe fatto innamorare chiunque. "Su, accarezza la pallina che vuoi e poi allontaniamoci da quì prima di finire nei guai".

Daisy allungò la manina ma in quel momento arrivò Demelza a romperle le uova nel paniere. "Giù le mani, orsetta!".

La bimba sbuffò mentre Demelza la prendeva, levandogliela dalle braccia. Daisy tentò di spingerla via ma sua madre fu ferma e decisa e senza badare alle sue proteste, la rimise a terra. "Daisy, basta! Devi lasciare in pace gli ospiti e devi stare lontana dall'albero!".

"Ma..." - sbottò lei picchiando a terra il piedino – "Io non lo volevo toccare! Lui voleva toccare le palline, lo stavo aiutando a non romperle!" - disse, indicando il povero Ross che però, nonostante tutto, si trovò ad ammirare i tempi di reazione di quella piccola peste. Era una dannatissima bugiarda che sapeva mentire senza tentennare, guardando negli occhi il suo interlocutore.

Ma per sua fortuna, Demelza conosceva sua figlia e le sue abilità di bugiarda. "Il signor Poldark è grande abbastanza da saper fare le cose da solo senza bisogno del tuo aiuto! Va a giocare e fai la brava" – disse, accarezzandole i lunghi capelli biondi.

Ma la piccola, stizzita, si allontanò bruscamente da lei, decisa a non farsi sfiorare da lei. E Demelza, sospirando, rinunciò a quel momento di coccole e la spinse verso il salone dove c'erano gli altri bambini senza ulteriori discussioni. Poi sospirò. "Da te si lascia prendere in braccio, da me non vuole nemmeno una carezza! Certe volte mi sembra di starle antipatica" – disse, sovrapensiero, rivolta più a se stessa che a lui.

Ross la guardò e nelle sue parole scorse una nota di amarezza. Non era così, non era come pensava lei e se aveva capito come ragionava Daisy e il suo carattere... "Tu sei l'autorità e lei ama fare come le pare, per questo ti sfida. Con me è semplice, sono solo uno di passaggio quì e lei lo sa... E' fatta così, è sfuggente ma sai, io non ero molto diverso da piccolo. E quelli che sembrano sfuggire all'amore, a volte sono quelli che più ne hanno bisogno".

Demelza a quelle parole lo guardò e per un attimo i loro sguardi si incrociarono. Non seppe cosa dire ma le sue labbra tremarono, per un istante.

E in quel momento, sembrò che tutto e tutti sparissero, attorno a loro... Santo cielo, avrebbe dato tutto per un attimo di pace con lei, per parlarle con calma. Doveva trovare il modo, era a casa sua, era vicina e Demelza sembrava tanto forte e assieme fragile, in quel momento... Voleva dirle tante cose, spiegarle e ascoltarla, sentire cosa la faceva soffrire, gioire, preoccupare... Per un attimo gli sembrò di esserci vicino, che si stesse aprendo a lui proprio come aveva fatto poco prima parlando di Daisy, ma Caroline, Dwight, Margarita e suo marito arrivarono a spezzare l'incanto.

Caroline addentò una focaccina salata, dopo averla inzuppata nella tazza di cioccolata calda che aveva in mano e lo stesso fece Margarita.

Ross le guardò stranito, come Dwight... Santo cielo, che strano intruglio!

"Dolce e salato insieme! Oh Demelza, queste focaccine e questa cioccolata si sposano alla perfezione!" - disse Caroline. "Dwight, vuoi provarle?".

"NO! Smettila di mangiare a quel modo!". Il medico guardò Demelza e, accigliato, gli ridiede per un attimo Sophie fra le braccia. "Cara, non è sano".

Margarita venne in soccorso dell'ereditiera, guadagnandosi a sua volta un'occhiataccia dal marito. "No Dwight davvero, sono splendide! Un sapore unico! Demelza, hai mai avuto voglia di mischiare cibi diversi? Non hai mai sentito questa esigenza improvvisa che poi si trasforma in...".

Demelza alzò un sopracciglio, osservando Sophie fra le sue braccia. "Sì, mi è capitato... Circa quattro volte nel corso della mia vita...".

Dwight spalancò gli occhi, Ross fece altrettanto ed Edward, forse non troppo avvezzo ancora a queste cose, guardò tutti come se fossero impazziti.

Demelza non aggiunse altro e Ross guardò Dwight che, bianco come un cencio, doveva aver realizzato il senso di quelle parole...

Ross sorrise. "Beh, complimenti!".

"Per cosa?" - chiese Caroline, addentando un'altra focaccina col cioccolato.

Demelza, stranamente, gli resse il gioco. "Per qualcosa che io, dopo i gemelli, credo di non desiderare più... Ma voi siete altro... Complimenti!".

Ross sorrise, pensando che non aveva mai notato quanto sapesse essere sottilmente ironica...

Demelza, ridendo, si allontanò da loro, chiamata da Jeremy che, a gran voce, invitava tutti a raggiungerli nella camera dei giochi.

Ross osservò i bambini e con gli altri, si avvicinò loro. Che succedeva?

Valentine gli corse vicino, abbracciandolo, e tutti si misero ad osservare la scena.

I bimbi sembravano tanto seri, ora...

Clowance si sedette alla spinetta mentre i gemellini, Jeremy, Gustav e Catherine si posizionarono uno accanto all'altro all'ingresso del salone.

Jeremy prese la parola. "Quest'anno come regalo abbiamo deciso che eravamo troppo grandi per fare un semplice biglietto di auguri e così, visto che l'albero di Natale è nato in Germania, il nostro maestro di tedesco ci ha insegnato una canzone di quella terra sull'abete addobbato. In questi mesi l'abbiamo imparata, studiata e Clowance ha imparato a suonarla visto che non le andava di saperla a memoria che è una somara...".

"Hei!" - si lamentò Clowance.

Tutti parvero sorpresi e gli occhi di Demelza si illuminarono dalla sorpresa, evidentemente erano stati bravi a fare tutto di nascosto e Ross si trovò a guardare i suoi bambini e a provare un profondo orgoglio per loro.

Osservò Clowance che con grazia suonava la spinetta alla perfezione, come sua madre, notando quanto la sua eleganza e il suo portamento la facessero dolorosamente sembrare più grande e poi gli altri bambini, tutti bravissimi, a cantare quella canzone in lingua tedesca sconosciuta ai più.

Tannenbam... Ora Ross sapeva che significava...

Strinse a se Valentine che guardava quei bambini affascinato, Lord Basset che teneva in braccio Emily e Caroline e Margarita che mangiavano come non ci fosse un domani che presto, se Demelza non si era sbagliata, sarebbero diventate madri. E provò orgolio per quelle persone e per il modo in cui vivevano la loro vita e si prendevano cura di chi amavano, mentre lui...

Clowance continuò a suonare e i bambini cantarono...


"O Tannenbaum, o Tannenbaum!
Du kannst mir sehr gefallen!
Wie oft hat nicht zur Weihnachtszeit
Ein Baum von dir mich hoch erfreut!
O Tannenbaum, o Tannenbaum!
Du kannst mir sehr gefallen!"


Una strana, magica atmosfera che Ross mai aveva sentito in vita sua, invase la casa. Non conosceva quella canzone, non sapeva nemmeno una mezza parola di lingua tedesca ma in quel momento sentì di essere un padre orgoglioso e si rese conto che la punizione massima per i suoi errori la stava vivendo in quel momento. Tutti i genitori dei bimbi andarono ad abbracciare i loro piccoli, quando ebbero finito, tutti orgogliosi ed emozionati per quel dono e l'impegno che ci avevano messo per imparare e lui non poté farlo...

Dwight lo guardò accorgendosi di quanto doveva essere difficile ma ovviamente tacque. Cosa poteva dire, dopo tutto?

Gustav fu baciato da sua madre, Catherine dai genitori che se la sbaciucchiavano assieme alla pestifera sorellina e Demelza strinse a se i suoi piccoli e anche Daisy si lasciò abbracciare, ridendo col suo modo di fare furbetto.

Valentine gli tirò la giacca. "Bello! Papà, voglio imparare il tedesco!".

Ross gli accarezzò i ricciolini neri. "Vedremo... Ma ora su, torna dai tuoi amici a giocare!".

Lui ubbidì e i bimbi ripresero subito a fare baccano e anche Lord Falmouth, dopo la canzone, sembrava più propenso a sopportare, osservando con sguardo orgoglioso i suoi eredi senza lementarsi.

E poi ad un tratto le luci delle candele del corridoio si spensero come per magia e i bambini si bloccarono, attorniati da quella luce che si era fatta fioca e magica grazie alla semi ombra e alle luci riflesse dalle candele sugli addobbi di Natale.

E una seconda magia accadde, in quell'atmosfera così rarefatta e unica...

Un uomo anziano, dalla lunga barba bianca e con uno strano vestito rosso, apparve dalla porta con un enorme sacco sulle spalle e i bambini, compreso Valentine, spalancarono gli occhi per lo stupore.

Anche Ross si trovò emozionato come se fosse stato lui stesso un bambino e capì cosa intendesse Demelza con 'magia di Natale'. E così era lui l'uomo pagato da Demelza per rendere magica quella Vigilia? Era davvero questo, il fantomatico Babbo Natale che porta i doni ai bimbi buoni?

L'uomo rise in modo buffo, chiedendo ai piccoli se fossero stati buoni e loro, prima di tutti Daisy, dissero di sì.

Ross rise quando la gemellina si dichiarò buonissima, soprattutto osservando le facce dei suoi famigliari tutt'altro che d'accordo con questa affermazione.

Ma la bimba li ignorò e quando Babbo Natale invitò tutti ad avvicinarsi, lei corse e assieme agli altri si ritrovò immersa in una montagna di dolcetti e caramelle che Babbo Natale fece cadere in terra, svuotando il suo sacco che ne era pieno.

Valentine, con gli occhi spalancati, tremò accanto a lui e per un attimo parve spaventato. Ma Ross sapeva che era solo un attimo e che quel Natale lo avrebbe ricordato come il più bello della sua infanzia. Mai lui era riuscito a regalargli qualcosa di tanto bello fino a quel momento e se stava vivendo quella magia, era solo Demelza che doveva ringraziare... Lo spinse verso gli altri, per unirsi al gioco dei piccoli. "Sù, va... Babbo Natale ti ha invitato a prendere i suoi dolcetti".

Il piccolo ubbidì un pò incerto e Ross osservò Demelza, grato per quella serata che davvero era magica e che aveva creato lei da sola, con le sue mani. Era meravigliosa e santo cielo, la amava...

Avrebbe fatto follie per riaverla, era e sarebbe sempre stata la sua ragione di vita e si chiese se lei fosse consapevole di cosa lui stesse provando in quel momento... Se percepisse la voglia di abbracciarla, stringerla, baciarla e averla vicina coi loro bambini, come tutte le altre famiglie presenti a quella festa. Se percepisse il dolore lacerante e continuo di averla persa e averle fatto del male, la disperazione della sua assenza giorno per giorno accanto a lui, il vuoto che aveva generato in lui la sua partenza.

Poi il chiassò dei bambini che giocavano e si litigavano cioccolatini e dolcetti, lo riportò alla realtà. Era una festa e per rispetto a Demelza che lo aveva invitato, doveva godersela senza pensare troppo al passato ma vivendo il presente, quel presente che gli aveva consentito di averla vicina quella sera.

Babbo Natale accarezzò sulla testolina i bambini, uno ad uno, intimò loro di essere buoni e non litigare e poi, dopo aver dato appuntamento al prossimo anno, uscì con un impercettibile cenno di saluto a Demelza.

Ross sorrise nel vederlo andar via e nella gioia che aveva generato nei più piccoli.

E la festa proseguì, coi bambini ancora più eccitati e chiassosi, con Caroline e Margarita che mangiavano senza fermarsi, Sophie contesa da tutti, Basset e Falmouth che fumavano una pipa davanti al camino e Demelza che si destreggiava fra tutti loro con maestria, da perfetta padrona di casa.

A un certo punto i bimbi divennero ancora più chiassosi e parvero sul punto di litigare.

Clowance comparve dalla stanzetta dei giochi e con fare stizzito chiamò la madre. "Mamma, vieni a picchiare i gemelli?".

Demelza le si avvicinò. "Che succede?".

"Fanno i dispetti! Non ci lasciano in pace, fanno gli stupidi".

Demelza sospirò e poi, dopo aver dato un'occhiata al salone con gli ospiti, le sorrise. "Li porto fuori in giardino a sfogarsi un pò, così si stancheranno e vi lasceranno in pace! Son troppe ore che son chiusi in casa e lo sai che fanno così quando stan troppo tempo senza uscire. Così ne approfitto per portare fuori anche i cani".

Clowance parve soddisfatta e Ross capì che era arrivato il suo momento, che se non ne avesse approfittato ora, non avrebbe avuto altre occasioni. Demelza sarebbe finalmente stata sola in quel giardino e mentre i gemelli giocavano e si sfogavano correndo fra alberi e vialetti, lui, lei...

Decise, forse per la prima volta senza tentennamenti da quando era arrivato a Londra. E furtivo come un gatto, dopo che lei ebbe preso i gemellini, la seguì senza farsi vedere da nessuno.



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Capitolo 46
*** Capitolo quarantasei ***


Incrociando diversi domestici nei corridoi, Ross seguì il percorso fatto da Demelza coi bambini e i tre cani, che lo condussero nel retro del grande giardino a cui si accedeva, una volta usciti, da una piccola scalinata in pietra.

Demelza era uscita dopo aver indossato un morbido mantello bianco di lana e aver messo addosso ai due bimbi una mantellina blu per coprirli dal freddo pungente della tarda sera. Il clima era gelido, il giardino era avvolto dalla nebbia e per terra c’era ovunque neve ghiacciata caduta nei giorni precedenti.

Faceva freddo tanto quanto in casa si avvertiva tepore e calore, pensò Ross, aggirandosi per i vialetti mentre i sassolini ghiacciati del selciato scricchiolavano sotto i suoi piedi.

E finalmente la vide, appoggiata a un vecchio pozzo ben tenuto, vicino a una grande fontana circondata da piante maestose. Vide i gemellini correre via allegri seguiti dal Queen e Fox mentre Demelza, tranquillamente, prendeva posto sedendosi sul bordo della fontana, con Garrick che le si accoccolava accanto per farsi accarezzare.

La guardò e nonostante la nebbia gli offuscasse la visuale, gli sembrò stranamente assorta in chissà quali pensieri.

Le si avvicinò e il rumore dei suoi passi la fece sussultare, prendendola totalmente alla sprovvista. “Ross?!” – esclamò, spalancando gli occhi per la sorpresa.

Garrick lo vide e ancora una volta, proprio come aveva fatto il giorno in cui erano andati allo zoo, gli corse incontro festante. E stavolta Ross, senza occhi indiscreti attorno, si inginocchiò ad accarezzarlo sulla testolina mentre lui gli faceva mille feste e tentava di leccargli le dita.

Demelza guardò entrambi, pensierosa. “Che ci fai qui? Qualcosa non va?”.

No, va tutto bene. Complimenti, è una bellissima festa e non so come ringraziarti per averci invitato. Valentine ricorderà questa serata tutta la vita”.

Garrick tornò di corsa da Demelza e lei tornò ad accarezzarlo piano. “Non devi ringraziarmi, in fondo non è nulla di così eccezionale. Sei venuto quì fuori al freddo solo per dirmi questo?”.

Ross deglutì. Erano soli, i gemellini sembravano giocare piuttosto lontano e nessuno degli altri ospiti sarebbe uscito a disturbarli, con quel freddo. “No… Ti ho vista uscire e mi sono… beh…”. Santo cielo, si sentiva impacciato come un ragazzino! “Beh ecco… ho pensato che da sola, al buio, qui fuori…”.

Lei ridacchiò, forse divertita dal suo imbarazzo. “Non sono sola, ci sono i gemelli con me. E i cani! E questa è casa mia! Ho portato fuori i bambini per farli correre e sfogare un po’ perché quando è tardi e sono stanchi, diventano nervosi e ingestibili. Tutto qui, ora sono in giardino a giocare e fra un po’ li riporto dentro”.

Ross guardò Garrick. “Lui non è andato con loro?”.

No, essere anziani significa diventare saggi e Garrick lo sa che lo torturerebbero e alla sua età, lui vuole solo pace. Queen e Fox sono giovani e una segue per istinto i bambini e l’altro per puro piacere di giocare. Ma Garrick no, lui sta sempre con me”.

Come una volta…” – osservò Ross.

Come una volta…” – rispose lei. “Dovresti rientrare comunque, qui fuori fa freddo”.

Ross osservò la direzione in cui erano scomparsi i gemelli. “Se riesce a non congelare tuo figlio con quei pantaloncini corti che gli mettete sempre, anche se nevica…” – osservò, con tono sarcastico.

Ci è abituato ed è il più sano fra i bambini” – si giustificò Demelza anche se il suo tono di voce tradiva stupore per quell’osservazione che Ross voleva farle da tanto. “Ed è la moda, pare che qui i bambini debbano vestirsi così e non posso fare la guerra a Falmouth pure su questo”.

Da quando segui le mode?” – chiese lui allora, diretto, guardandola negli occhi.

Lei sostenne il suo sguardo. “Faccio parte di questa famiglia e ne devo osservare le regole proprio come una volta facevo con te, quando sono diventata una Poldark”.

Colpito ed affondato, come darle torto? “Scusa, non volevo essere scortese ma tutto questo mi sembra… strano. Questa festa, essere qui, vedere i bambini fare e muoversi in un ambiente tanto diverso da quello in cui sono nati… Tu forse ti ci sarai abituata negli anni ma io faccio davvero fatica”.

Lei annuì, abbassando lo sguardo. “Lo so e ti ringrazio per la discrezione che usi quando ci sono Jeremy e Clowance. So che per te è difficile ma ho anche capito di potermi fidare”.

Sospirò. “Dovrò mentire e fare così per sempre? Ti rendi conto di come mi sento quando mi chiamano Signor Poldark e Clowance mi fa l’inchino?”.

Sei un estraneo per loro e la buona educazione li spinge a rapportarsi così con te”.

Ross scosse la testa. “E’ così strano che Jeremy non mi ricordi, che non ricordi nulla e che il mio nome di famiglia gli risulti tanto sconosciuto”.

Demelza assunse un’aria severa. “Per fortuna ha dimenticato, pare… Ma non ci eravamo messi d’accordo sul non rivangare il passato?”.

Sai benissimo che dobbiamo parlarne!”.

Lei parve punta sul vivo. “Ora? La notte di Natale?”.

E’ l’unico momento che ho trovato da solo, con te!”.

Demelza si morse il labbro, guardandosi attorno nervosamente. “E’ per questo che mi hai seguita qui?”.

Sì” – disse, in assoluta sincerità.

Lei fece per alzarsi e andarsene ma stavolta Ross fu più veloce. La prese per i polsi, attento a non farle male, la fronteggiò e le impedì di scappare. “Stavolta no, Demelza”.

Lasciami o urlerò!”.

No, non lo farai. Lo so io e lo sai anche tu! Se mi ritenessi pericoloso, non mi avresti invitato qui”.

Demelza si arrese, in fondo lo sapeva anche lei che era inutile lottare quando lui si metteva in testa qualcosa, così come sapeva perfettamente che non avrebbe urlato per farsi aiutare perché perfettamente consapevole di non essere in pericolo. “Cosa vuoi Ross?” – chiese infine, con aria stanca.

Solo parlare…”.

Lo guardò, sospirando. “Senti, so che per te è difficile e io non ho risposte da darti sui bambini. Credi sia facile, per me? Che lo sia stato? Che non mi chieda cosa dovrei fare ogni dannata sera, ora che sei qui?”.

Quelle parole lo colpirono. “Lo fai?”.

Certo, sempre! Ma non trovo risposte”.

Ross sorrise. “Non voglio fare del male ai bambini”.

Come posso crederti?”.

Quella domanda lo colpì, faceva male ma era sacrosanto che lei dubitasse di lui. “Sono i miei figli…”.

Non li ha mai voluti, Ross. Come puoi affermare che sono tuoi? L’unico padre che hanno avuto, il loro punto di riferimento e il centro dei loro ricordi è Hugh, non tu… Di te non è rimasto nulla in loro e mai ho pronunciato il tuo cognome in loro presenza, da quando me ne sono andata. Che senso aveva farlo? Hai deciso che non erano degni di essere Poldark e noi sulla base delle tue decisioni abbiamo dovuto sopravvivere e iniziare una nuova vita”.

Ross deglutì, vinto dal peso del rimorso e dal ricordo doloroso di quei giorni lontani, tanto difficili per lui ma sicuramente più devastanti per lei. “Non feci quella scelta per mancanza di amore verso di voi, la feci cercando di fare la cosa giusta per tutti”.

Lo sguardo di Demelza si indurì. “Per tutti? Togliere il tuo cognome ai tuoi figli fu un giusto gesto d’amore?”.

No, certo che no” – fu costretto ad ammettere. “Fu un gesto idiota di cui non immaginavo le conseguenze. Non volevo farvi del male, non volevo sparire dalla vostra vita e men che meno che voi spariste dalla mia. So che hai fatto la scelta giusta, so che già allora sapevi essere più lucida di me nelle scelte che hai fatto per il bene dei bambini, so tutto quanto. So di essere stato orribile con voi, di meritarmi il tuo odio e il tuo disprezzo, so di non meritare né fiducia né altro per quello che ho fatto quella notte e prima di quella notte. Era come se il Ross che ti aveva sposato e ti aveva amata, fosse stato soppiantato dal Ross ribelle e giovane, partito per la guerra da ragazzo. Ero felice con te, eravamo felici insieme e tu lo sai che non era una menzogna, che ciò che c’era fra noi era vero e forte, più forte di tutto il resto che avrei potuto trovare nel mondo. Ma la morte di Julia mi ha fatto fuggire e desiderare – ora lo so – di tornare indietro a un tempo dove non ero un padre che piangeva la morte di sua figlia. Ed Elizabeth rappresentava quel tempo”.

Gli occhi di Demelza divennero lucidi nel sentire quel nome… “Non voglio parlare di Julia! E nemmeno di Elizabeth, sono affari tuoi!”.

Demelza…”.

Lei lo bloccò. “Che senso ha parlarne, Ross? Ora?! Che senso ha…? E’ passato tanto tempo e tutto quello che riesco a ricordare è che hai sempre scelto lei… Non me, non i bambini… Quando lei appariva i tuoi occhi erano solo per lei, quando parlavi di me con lei, io ero solo la figlia di un minatore che poteva arrangiarsi e lavorare, quando Francis è morto è di lei che ti sei preso cura e hai abbandonato me, Jeremy e Clowance. Quando quella notte mi hai detto di togliermi di mezzo perché dovevi correre da lei, hai scelto ancora una volta Elizabeth così come quando di nascosto hai venduto le quote della Wheal Leisure perché avesse denaro nei due anni che avresti dovuto passare in prigione, lasciando me e Jeremy ad arrangiarci, come sempre! Non ho dimenticato nulla Ross, sono andata avanti ma ricordo ogni cosa. Quindi non venirmi a dire che è per colpa di Julia, che soffrivi troppo, che… che… Scuse Ross, sono solo scuse. Amavi lei, l’ho accettato, l’ho vissuto sulla mia pelle e ne ho pagato le conseguenze. Ma ora basta, non voglio più parlare di quel tempo e sai, credo che tu non ti debba nemmeno giustificare. Non è colpa tua ma mia! Non avrei mai dovuto sposare un uomo che sapevo innamorato di un’altra! E soprattutto non avrei dovuto mettere al mondo dei bambini che sapevo tu non avresti mai amato”.

La ascoltò, rendendosi conto che cercando quel confronto, avrebbe dovuto ascoltare parole che facevano male e che Demelza, forse per voglia di dimenticare o magari semplicemente perché desiderosa di non rivangare, si era tenuta dentro tutti quegli anni. Era doloroso per lui, era terribile leggere nelle sue parole ogni mancanza, ogni errore, ogni torto che aveva dovuto subire a causa della sua arroganza e del suo egoismo e che l’avevano portata lontana e con la convinzione di non essere mai stata amata. Faceva male sentirla dire che non avrebbe dovuto sposarlo e nemmeno avere figli con lui perché lei e i bambini erano stati il più bel dono che il cielo gli avesse mai fatto, erano stati la sua scelta più felice e la parte migliore di lui che aveva perso quando se n’era andata. “Io non pretendo che tu mi creda, forse non lo merito nemmeno. Ma puoi almeno ascoltare ciò che ho da dire? Solo pochi minuti…”.

Cosa c’è da dire, Ross? Che senso ha adesso? Ciò che hai da dirmi non cambierebbe nulla in ciò che è stato”.

Ma forse potrebbe fugare certe certezze che tali non sono…”.

Lei si accigliò. “Che vuoi dire?”.

La guardò negli occhi, intensamente. Non lo avrebbe mai perdonato forse ma sperava almeno che gli credesse e che non vivesse con la continua convinzione di non aver contato nulla per lui. “Me ne sono andato da Trenwith, quel giorno, pochi minuti dopo che tu sei partita”.

Demelza spalancò gli occhi. “Cosa?”.

Le lasciò i polsi per farla sentire più libera e darle fiducia sul fatto che non sarebbe scappata e lei non si mosse. “In questi anni hai creduto che fossi felice con Elizabeth e la famiglia che abbiamo costruito insieme ma non è vero nulla. Non è mai esistita nessuna famiglia, non è mai esistito niente e il periodo che ho trascorso a Trenwith è stato il più duro della mia vita e ha trasformato un sogno giovanile in un incubo. Un puro matrimonio per formalità, non c’era niente, nulla! Non intimità, non condivisione, non felicità ma solo liti, musi lunghi, recriminazioni e alla fine, odio… Non volevo scegliere Trenwith e non dovevo lasciarti ma ho fatto la scelta che sentivo necessaria, sbagliando. Avrei voluto prendermi cura di te ancora, essere una famiglia nonostante tutto perché burocrazia a parte, TU eri la mia famiglia, l’unica con cui volessi stare. Ma fare quella scelta – e tu lo sapevi – avrebbe reso impossibile tutto questo. Stupidamente, me ne sono reso conto solo dopo aver preso quell’assurda decisione. Non sono tornato come avevo promesso perché temevo di non riuscire ad andarmene e mantenere fede all’impegno che avevo preso con la mia coscienza, se fossi venuto anche un solo istante a Nampara, sarei rimasto per sempre. Per questo non venni quando nacque Clowance e i motivi che gravitavano attorno alla gravidanza di Elizabeth erano solo marginali. Non cerco scappatoie, non sono venuto perché avevo paura di guardarti in faccia e vedere il dolore che ti avevo procurato, avevo paura di vedere la mia bambina e scoprire che non avrei potuto amarla come volevo e lei meritava, avevo paura del biasimo sul viso di Jeremy. Per questo scrissi quella lettera che non ti arrivò mai, una lettera dove ti raccontavo cosa stessi provando. Elizabeth la intercettò e la bruciò e tutto rimase sospeso, fra noi… E tu sei giustamente partita!”.

Demelza deglutì. “Hai lasciato Trenwith?”.

Quel giorno stesso! E ti ho cercata ovunque ma la neve aveva nascosto le tracce della carrozza e io… e io da allora ho vissuto da solo a Nampara chiedendomi ogni giorno dove foste, cosa faceste e quale fosse il volto dei miei bambini”.

Gli occhi di Demelza divennero lucidi. "Perché mi stai dicendo queste cose adesso? E come posso crederti, crederci? Non pensavi a noi quando eravamo a Nampara, perché avresti dovuto farlo dopo, quando siamo partiti?".

Lo sguardo di Ross parve perso a quella domanda, era normale che lei non gli credesse, come avrebbe potuto dopo tutto? Era stato il peggiore fra i mariti e pur amandola tantissimo, non era stato capace di dimostrarglielo, non appieno. "Non sono uno da smancerie, da feste, da vita mondana o da serate fra amici, non sono uno che sa scrivere poesie romantiche o organizzare sorprese per mia moglie o i miei figli. E' un mio limite...".

Lei lo bloccò. "Non ti ho mai chiesto nulla del genere!".

"Lo so... Però credevo che sapessi quanto importante fossi per me e che ti amavo. Non ho mentito, non ho mentito mai quando te l'ho detto! E quando sei partita, per me non è stata una liberazione come credi tu, ma l'inizio di un incubo. E' vero, dopo la morte di Francis mi sono perso e ho smarrito la strada, era come se improvvisamente non sapessi più cosa volessi e chi fossi e ti ho trascurata. Non mi rendevo conto di farti del male e stupidamente, ero convinto che fossi così forte da farcela da sola mentre io... pensavo a tutto il resto... A tutti gli altri... Dopo la morte di Francis ero diventato il capo famiglia e spettava a me prendermi cura di chi era rimasto a Trenwith ma hai ragione, non era l'unico motivo per cui correvo lì, mi piaceva essere importante, adoravo essere tornato il principe azzurro che ero stato una volta e mi faceva sentire bene, come se i problemi che gravavano su di me non ci fossero più. Volevo tornare a prima e ti chiedo scusa, sono stato sciocco e infantile perché non si poteva tornare indietro e mai l'ho desiderato davvero. Volevo solo accarezzare per un pò quella vita priva di problemi e indirizzata al bello a cui credevo di avere diritto da giovane, un'utopia, un sogno, un mondo idilliaco e perfetto che nella realtà non esiste, che sai che non esiste ma che vuoi con tutto te stesso quando tutto attorno a te cade, comprese le tue certezze. Ma non ho mai pensato, non coscientemente, di farti del male. Eppure te ne ho fatto ma non me ne rendevo conto e scioccamente pensavo che dopo ogni tempesta, noi ci saremmo sempre ritrovati insieme. Era una mia fede incrollabile, forse l'unica che avevo! Ma ho sbagliato troppo e ho capito troppo tardi che non si poteva tornare indietro e che le mie azioni si stavano spingendo talmente oltre da non poter tornare indietro. Mai avrei voluto farti qualcosa di simile e non mi rendevo conto di aver superato il limite consentito e che ti stavo perdendo, che stavo tradendo tutto ciò che ero, il mio matrimonio e te. Mi sono comportato come mai avrei creduto di fare e ancora oggi non me lo perdono. Quando ho venduto le quote della Leisure, l'ho fatto per ripagare Francis dei soldi che aveva investito e che lui stesso avrebbe donato a te se non fossi sopravvissuto al processo ma è vero, avrei dovuto parlartene, dirtelo... Avrei dovuto farlo perché la situazione era grave e io avrei dovuto pensare anche a te, oltre che ad Elizabeth. Soprattutto a te e a Jeremy! Ma ancora una volta mi ha guidato il mio ego ed ero convinto stupidamente che tu ce l'avresti fatta comunque e forse fu la mia coscienza a farmi stare zitto e a non farne parola con te. Sapevo di sbagliare, dopo tutto, sapevo di fare un torto alla mia famiglia e che era un mio dovere provvedere a voi. Dentro di me lo sapevo dannatamente bene... Forse tutto potrebbe essere riassunto così: ho sottovalutato la gravità delle mie azioni e sopravvalutato la tua forza. Avevi bisogno di me, anche se eri più forte di quanto potrò mai essere io. L'unica cosa che posso dirti è che non è vero, questo posso garantirtelo senza ombra di dubbio, che non ho mai amato i nostri figli. Sono stati la miglior cosa che abbia fatto in una vita piena di fallimenti. Avevo paura, dopo Julia... Ma darei la vita per loro e non potrò mai esprimere a parole quanto sia orgoglioso di ciò che sono diventati. Sei stata brava, ma d'altronde non avevo dubbi in merito".

"Non li ho cresciuti da sola" – puntualizzò lei, con un filo di voce.

Ross abbassò lo sguardo, faceva male vedere quanto Hugh avesse amato ciò che lui si era lasciato scappare dalle mani, capendone l'infinito valore quando lui aveva fallito. Faceva male vedere Demelza che glielo stava ricordando non per vendetta ma perché così era stato. "Hugh...".

Demelza prese un profondo respiro. Se dovevano parlare, se avevano iniziato a farlo, tanto valeva farlo fino in fondo. "Lui... Lui mi ha resa capace di credere all'amore, di nuovo. Non so cosa ci abbia visto in me, diceva che ero una fata e io all'inizio credevo che fosse folle. Era giovane, bello, ricco e poteva avere chiunque. Ma voleva me e ha voluto solo me fino alla fine... Ha curato le mie ferite, ha ridato un futuro alla mia vita e io non volevo un nuovo amore ma ho finito per caderci perché era impossibile resistergli. Avevo bisogno di lui, di uno come lui! E' stato la medicina al buco nero in cui ero precipitata ed è stato unico e perfetto, conosciuto al momento giusto, nel momento in cui più ne avevo bisogno. E ha amato i bambini, senza se e senza ma. Io lo so che è facile quando si hanno soldi e una posizione sociale solida, quando la vita non ti costringe a prenderti responsabilità, quando hai tutto per diritto di nascita. E so che per te è stato difficile, che hai sempre lottato per conquistare ogni cosa e che a volte questo fa smarrire la strada che si è scelto di percorrere. Io le so queste cose Ross, so che non eri tipo da poesie e che non ne avevi nemmeno il tempo, così come so che Hugh non era portato a una vita fatta di responsabilità che lo costringevano a essere ciò che non era e questo avrebbe chiesto il conto, prima o poi. Il destino ci ha lasciato in dono il periodo più bello e poi l'ha portato via quando iniziava forse la vita vera, terrena, giornaliera, quella dove a volte si litiga. Io dicevo che era un elfo e sono contenta che sia potuto rimanere così, un pò magico come voleva essere, per tutta la sua vita, senza snaturare la sua natura. Lo immagino quì, nella nebbia, dove lui diceva che lo avrei ritrovato, come tutte le creature magiche che al sole non si vedono. Ci credeva e alla magia ho imparato a crederci anche io perché sai, su una cosa hai ragione: posso lavorare, essere forte, cavarmela da sola ma una parola amica, l'amore, le attenzioni, vivere per qualche istante senza pensare ai problemi del mondo, aiuta ad affrontare la vita con un sorriso in più. Sapere di avere accanto qualcuno disposto a tenderti una mano e ad aiutarti a rialzarti se cadi, aiuta e fa sentire bene... Non importa se non succederà ma sai che qualcuno che tiene a te, c'è! A volte serve solo quello. Non rinnegherò mai di essere felice per averlo conosciuto, sposato ed essere diventata la madre dei suoi figli. Hugh è e farà sempre parte del mio cuore e sono ciò che sono solo grazie a lui. E Jeremy e Clowance anche, ha lasciato la sua impronta anche su di loro ed è una bella impronta. E per quanto riguarda i gemelli, sono felice che abbia fatto in tempo a conoscerli e a goderseli per un pò. Li ha aspettati tanto, ogni giorno mi chiedeva quanto mancasse al parto... Pensavamo fosse uno e quando ne son nati due di bambini, era ubriaco di gioia. Ed io non ero abituata a tante attenzioni e a tutto questo ed ero felice. Felice solo perché lui c'era mentre tu non c'eri mai stato".

"Scusa". Disse l'unica cosa che poteva dire, non c'erano spiegazioni, recriminazioni, rimostranze da fare... Demelza aveva dolorosamente ragione, l'aveva lasciata sola talmente tante volte per correre dietro a mille cose e prendere parte a mille battaglie che alla fine si era sentita non amata. Chiunque sarebbe arrivato a quella logica conclusione. "Volevo che la Wheal Grace funzionasse e ci desse da mangiare, a noi e a chi lavorava per noi. E seguendo lei, seguendo Elizabeth, ho finito per perdere di vista le cose più importanti".

Demelza scosse la testa. "Non devi chiedermi scusa, era il tuo lavoro, avevi delle responsabilità ed era il tuo sogno".

"Il NOSTRO sogno, Demelza" – puntualizzò.

La donna si morse il labbro. "Non mi sono mai sentita parte di nessuno dei tuoi sogni. Quel posto era occupato da Elizabeth, non da me".

Quelle parole gli spezzarono le gambe e rappresentavano appieno la distanza, le incomprensioni e il muro che il dolore aveva eretto fra di loro. Se solo fosse stato attento ai suoi sentimenti anche solo la metà di come era stato attento ai sentimenti di Elizabeth, forse... "Sai che non è così! Lo sai benissimo dentro di te! Abbiamo combattuto tante battaglie insieme, uno a fianco dell'altra e sei stata oltre che mia moglie, la mia compagna, la mia confidente e la mia alleata più preziosa. Non avrei fatto nulla senza di te! So che ti ho fatto del male ma so anche che mi conosci! Elizabeth non avrebbe mai potuto essere ciò che sei stata per me, non sarebbe mai stata nulla del genere. Era un'illusione e se ti avessi detto queste cose una volta, invece che darle per scontate, forse adesso mi crederesti. Io ed Elizabeth non saremmo mai andati d'accordo insieme e le mie battaglie avrei finito per combatterle da solo, per sentirmi solo e fraintendere a vita come avrebbe dovuto essere l'amore, quello vero. Sai come sarebbe finita se l'avessi sposata al ritorno dalla guerra? Lei mi avrebbe odiato per la vita non agiata che avrebbe condotto con me, non si sarebbe rimboccata le mani, non mi sarebbe stata accanto anche nei momenti difficili e non sarebbe stata la moglie e la madre che tu sei stata per me e per i nostri bambini. E non ti avrebbe restituito il favore, sai...? Se fosse quì, non avrebbe fatto per Jeremy e Clowance quello che tu hai fatto stasera per Valentine". Lo sapeva, Ross lo sapeva benissimo perché ricordava con quanto disprezzo lei avesse parlato dei suoi figli, sette anni prima...

Garrick si stiracchiò e Demelza gli accarezzò la testolina. Il suo sguardo pareva triste... "Non ho invitato quì Valentine stasera, per dimostrarmi migliore di lei".

"Lo so, non c'è bisogno che tu me lo dica" – rispose, avvicinandosi a lei e sfiorandole la vita. La attirò a se e la guardò negli occhi mentre lei, presa alla sprovvista, si irrigidiva per quel contatto ravvicinato ed inaspettato. "Come non dovrebbe esserci bisogno di dirti cose ovvie per me e per te, che sai benissimo! Sai che ti amavo così come sai quanto ho sbagliato! Sai che eri importante per me e sai benissimo che mai avrei voluto perderti! E sai anche che fare la scelta di annullare il matrimonio non è stata dettata dal mio cuore ma dalla mia testa e dai sensi di colpa. Non avrei dovuto farlo, avrei dovuto trovare altre soluzioni ma su una cosa hai ragione: recriminare ora non serve a nulla e non ci ridarà ciò che abbiamo perso".

Demelza deglutì, cercando di mantenere le distanze fra loro. "Io non so più nulla Ross e forse non voglio sapere! Che senso avrebbe, ora? Le nostre vite e le nostre strade si sono separate e rivangare il passato e ciò che è stato o abbiamo creduto che fosse, a cosa potrebbe portarci? Io sono diversa, ho una vita lontana dalla tua e tu hai la tua di esistenza! Ci facciamo del male, ce ne siamo fatti adesso a parlarne! Vivere il presente come conoscenti, è la cosa più indolore che possiamo fare".

"Ma non siamo conoscenti!".

Demelza abbassò lo sguardo. "Dovremmo imparare ad esserlo!".

Ross la attirò a se. "Credi di esserne capace?".

"Non è quello che ho fatto fin'ora?".

"Ci hai provato ma puoi dire di esserci riuscita davvero? Puoi dire di non provare nulla quando ci vediamo? Puoi dire che non è mai esistito nulla fra noi? Stai parlando con me, Demelza, e a me non puoi mentire e lo sai!".

Lei si guardò in giro, forse cercando una via di fuga a lui e al suo corpo sempre più vicino. "Ross, ci sono i bambini...".

"E se non ci fossero? Se nessuno potesse vederci?".

Non seppe cosa rispondere. "Ross...".

No, non l'avrebbe lasciata scappare. "Credi a ciò che ti ho detto? Su di me, si di te, su quanto io ami la nostra famiglia?".

Demelza si morse il labbro, pallida e tremante. "Non lo so... Mi hanno fatto piacere le tue parole, ma io... Io ricordo sulla mia pelle il dolore che mi hai fatto provare e quella sensazione di non essere nulla per te che mi ha accompagnato sempre, non se ne andrà troppo facilmente".

Insistette, le sue difese stavano cedendo e se lei fosse riuscita a parlargli e ad aprirsi come aveva fatto lui, forse la nebbia fra loro un pò si sarebbe diradata. "Parla! Dimmi cosa provi, cos'hai provato, come ti senti! Dimmi pure che mi odi e tutto quello che vuoi, fallo come avrebbe fatto Demelza Carne e dimentica di essere Lady Boscawen perché sai benissimo che non potrai mai esserlo, non del tutto!".

A quelle parole, Demelza voltò il viso di lato. "Non voglio, non posso... Penserò a cosa mi hai detto, lo giuro! Ma non chiedermi questo, non chiedermi di parlare di allora... Vivere il presente e chiudere gli occhi sul passato è l'unica cosa che mi fa stare serena".

Ross scosse la testa, esasperato. Non voleva ferirla, non voleva riaprire vecchie ferite e anzi, voleva solo curare quelle lacerazioni ancora brucianti che aveva prodotto sul suo cuore. Non voleva altro o forse sì ma non sapeva ancora cosa e se quel 'cosa' fosse fattibile. Sapeva che Demelza stava bene, che aveva attorno quella famiglia unita che sempre le era mancata e sapeva anche che i loro bambini erano amati e curati più di quanto non fossero stati con lui a Nampara e mai avrebbe voluto distruggere quella serenità che dovevano aver raggiunto a fatica anche grazie a Hugh, anche se gli faticava ammetterlo. "Non ti sto chiedendo di rinunciare alla tua vita di ora, a ciò che hai costruito, alla famiglia che hai trovato e alla quotidianità che vivi e che ti fa stare bene! Ti chiedo solo di pensare a noi e iniziare a credere che, nonostante me e i miei mille errori, ci sia stato amore vero, un amore di quelli rari da trovare e che per questo è devastante perdere".

Lei chiuse gli occhi dolorosamente. "Ci penserò...".

Era sincera, sapeva che non stava mentendo per chiudere il discorso e sapeva anche che quanto le aveva detto doveva aver scardinato almeno in parte alcune delle convinzioni che con dolore l'avevano accompagnata in quegli anni. E anche se non c'era il vischio, anche se forse non lo avrebbe voluto, si chinò su di lei dandole un bacio leggero sulla fronte a cui Demelza non si sottrasse. La sentì tremare e i loro sguardi presero fuoco. Ross sapeva che lo erano, che insieme erano un incendio e percepiva sotto al suo tocco ai suoi fianchi, un brivido di strano piacere che in quel momento avvertiva in lui quanto in lei. Era così da sempre fra loro, bastava un solo tocco ad accendere il fuoco e quegli anni non avevano cambiato questo aspetto del loro rapporto fatto di passione, dolcezza e fusione totale di cuore e anima. Non aveva idea se lei avesse provato le stesse sensazioni con Hugh, non aveva il coraggio di chiederglielo e di certo Demelza non gli avrebbe risposto ma in quel momento non era importante Hugh ma loro e quelle sensazioni che pensavano morte e che invece si stavano palesando con prepotenza. E anche Demelza lo avvertiva.

Garrick prese improvvisamente ad abbaiare e Demelza, come destata da uno stato di tranche, bruscamente interruppe il contatto con lui.

Da lontano, dalla nebbia, Ross intravide le sagome dei gemellini, di Fox e Queen che arrivavano di corsa e capì che la discussione era finita.

Demelza gli lanciò un'eloquente occhiata di fare silenzio, si schiarì la voce e tornò ad essere padrona di se stessa e del suo ruolo di madre. "Bambini, dove siete finiti?" - chiese, inginocchiandosi per accoglierli fra le sue braccia.

I gemelli la guardarono, poi guardarono interdetti Ross chiedendosi forse perché fosse lì e poi tornarono a prestare attenzione alla madre. "Cercavamo gli elfi di Babbo Natale! C'è la nebbia, si nascondono..." - sussurrò Demian al suo orecchio, col suo sguardo biricchino, mentre Daisy continuava ad osservarlo con occhio fin troppo indagatore che a Ross metteva soggezione.

"E mentre ero quì fuori ad aspettarvi col signor Poldark che mi ha tenuto compagnia, li avete trovati, gli elfi?" - chiese Demelza, cercando di catturare la loro attenzione e allo stesso tempo di spiegare la sua presenza lì.

Demian annuì, soddisfatto. "Sì, un milione di miliardi! Ma si nascondono, tu non li puoi vedere mamma, sono magici!".

Demelza lo baciò sulla fronte. "Lo so!". Poi si rivolse alla figlia. "E tu Daisy, li hai visti?" - chiese, prendendola fra le braccia per baciarla sulla fronte.

Lei scosse la testa. "No, nemmeno uno. Ma ho trovato questa!" - esclamò, togliendosi dalla tasca del vestitino una monetina che qualcuno doveva aver perso in giardino. "Sono ricca?".

E a quel punto, Ross intervenne, notando in quella breve scenetta i caratteri diametralmente opposti dei due: sognatore Demian e decisamente più terrena e pratica Daisy. "Sì, lo sei. Più di quanto non lo eri poco fa! Dovresti metterla in un salvadanaio".

"Cos'è?".

Demelza le sorrise. "Un posto dove conservare i soldini che guadagniamo o troviamo! Te ne troverò uno e quando sarà pieno, sarai la bambina più ricca della casa".

Come se Daisy ne avesse avuto bisogno! Ross guardò la piccola sorridendo, rendendosi conto che l'atmosfera si era rilassata con l'arrivo dei gemellini. Aveva detto tanto a Demela, più di quanto si fosse prefissato, ed ora era giusto lasciarla in pace a godersi i suoi figli e darle tempo per rifletterci.

A Daisy l'idea del salvadanaio piacque. "Sì, lo voglio!".

E Demelza le strizzò l'occhio. "Vedremo se Babbo Natale può lasciartene uno stanotte". Si rialzò, prendendoli per mano. "Su, rientriamo adesso! Fa freddo".

"Ma prima mi posso arrampicare un pochino su un albero a salutare gli elfi?" - chiese Demian, puntando i piedini per terra.

Demelza lo guardò storto. "No, certo che no! C'è ghiaccio ovunque, è buio e sai che non amo che tu lo faccia!".

"Un pochettino-ino-ino" – piagnucolò il bimbo.

Ross osservò il piccolo, rendendosi conto che in certi aspetti pure lui gli ricordava il se stesso bambino. "Anche io so arrampicarmi sugli alberi. Lo faccia da quando avevo la tua età".

Demian lo guardò, scettico. "Non è vero!".

"Sì che lo è!".

Demian scosse la testa. "No, è una bugia e tu sei troppo vecchio!".

Ross lo guardò in cagnesco. Demian non poteva saperlo ma l'aveva in pratica appena sfidato a duello! "Vuoi vedere?".

Il bimbo annuì, mettendosi le mani sui fianchi e mettendo lui alla prova ma Demelza intervenne, lanciando un'occhiataccia a Ross che non lasciava adito a interpretazioni romantiche. "No, Demian non vuole vedere! Ci fidiamo e rimandiamo questa cosa a una giornata calda e di sole, fra tanto tanto tempo". Dopo di che prese Daisy per mano, cercando di trascinarla verso gli scalini, ma la bimba puntò i piedini come il suo gemello. "No, devo dire una cosa al signor Poldark!".

"Ok, digliela ed entriamo".

"Da sola..." - puntualizzò lei, seria. "E' una cosa segreta".

Demelza la guardò con sospetto, poi guardò lui con la stessa espressione e poi, sospirando, prese Demian in braccio. "Un giorno mi spiegherai il perché di tutti questi segreti con lui... Vi aspetto dentro ma fate in fretta. E per quanto riguarda te, Ross...".

"Dimmi".

Demelza guardò nuovamente sua figlia, forse cercando di capire cosa la facesse sentire tanto legata a un uomo che in fondo era uno sconosciuto per lei e poi si rivolse a Ross. "Penserò a cosa hai detto e devi ringraziare Daisy per questo... Se piaci a lei a cui non piace quasi nessuno, allora devo pensarci davvero!".

E così dicendo, entrò in casa con Demian, lasciandolo da solo e vagamente interdetto con la piccola jena che, a quanto sembrava, aveva un grande potere su sua madre, come tutti i suoi fratelli del resto.

Daisy gli tirò la manica della camicia. "Ho sbagliato! Non vuoi sposare Prudie!".

Spalancò gli occhi, finalmente qualcuno aveva capito qualcosa! "Esatto".

Ma Daisy non aveva ancora finito. "Tu vuoi sposare la mia mamma!".

Ross rimase di sasso, gelato sul posto e guardandola si rese conto che lei, con poche semplici parole, aveva reso palese quel suo desiderio tanto nascosto da non avere il coraggio di rivelarlo nemmeno a se stesso. Aveva ragione, non era proprio per questo che cercava sempre Demelza? Non era perché la rivoleva con se, anche se era il desiderio più assurdo ed irrealizzabile del mondo? Si chiese cosa dire, se negare, se cercare con una scusa di fregarla ed evitare quella discussione ma poi guardò Daisy, ne percepì l'intelligenza, la forza, il carisma e quel carattere che da subito gli era sembrato tanto complementare al suo e capì che non poteva farlo. Daisy era sfuggente e selvaggia, una che difficilmente dava confidenza e si apriva alle persone, una piccola anima indipendente che spesso sfuggiva al prossimo e che invece a lui aveva dato fiducia. Non poteva tradirla, non poteva e non voleva perché sapeva che se lo avesse fatto, lei non gli avrebbe dato seconde opportunità. E quindi non parlò, né per negare, né per confermare. Allungò una mano verso di lei, guardandola intensamente e sperando che capisse senza bisogno di parlare e lei la prese, lasciando che lui la stringesse. E quindi, ancora una volta lei aveva capito...

"Signor Poldark, è anche questo un segreto?".

"Sì, certo. Quindi sono ancora una volta in debito con te".

Lei annuì. "Sì...".

Ross sospirò. Non l'avrebbe passata troppo liscia con lei ed era inutile anche solo sperarci. E tenendola per mano, rientrò in casa da Demelza e Demian per poi raggiungere gli altri invitati con loro.


...


Valentine piagnucolò, quando fu ora di andare a casa. Mai si era divertito così, mai era stato ad una festa tanto magica e mai era stato circondato da tanti bambini. Non voleva più venire via e anche se tutti se ne stavano andando, lui sarebbe andato avanti ancora per ore a giocare.

Non aveva avuto modo di parlare ancora con Demelza dopo il colloquio in giardino e l'unica cosa che riuscì a fare, cammuffandola per gesto educato e signorile, fu un baciamano a cui lei non poteva sottrarsi. Gesto un pò scorretto visto che di certo Demelza, un pò sfuggente e turbata dal loro discorso in giardino, ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma posare nuovamente le labbra su di lei fu il suo regalo di Natale dopo il bacio in fronte dato poco prima.

Avrebbe pensato alle sue parole e anche questo era un regalo di Natale...

E Daisy era la sua migliore alleata... Anche questo, benché pericoloso, era un regalo di Natale...

Sulla carrozza che li portava a casa, Valentine sospirò appoggiandosi a lui. "Mi sono divertito tanto! Papà, quando ci torniamo da Lady Boscawen?".

"Quando ci inviterà! SE ci inviterà".

Valentine rise. "E' magica e anche la sua casa. Ed è anche amica di Babbo Natale!".

Ross gli accarezzò i capelli, sollevato che si fosse trovato bene coi suoi coetanei. "Non hai avuto paura di stare con gli altri bambini?".

"No! Jeremy, Gustav e Demian sono simpatici".

Ross sollevò un sopracciglio. "E le femmine?".

Valentine sospirò. "Mi fanno paura e sono strane, però mi piacciono. Soprattutto Emily Basset! Ma non lo dire a Jeremy, Gustav e Demian perché se no non sono più miei amici".

"No, non glielo dirò" – disse Ross, sollevato che ad almeno un figlio piacessero le femmine. Gli sorrise, quella serata magica per Valentine non era ancora finita e un'altra sorpresa attendeva suo figlio a casa, organizzata coi Gimlet. Anche lui voleva dare un Natale a suo figlio e aveva capito che la magia non poteva essere donata solo dalla festa di Demelza. Era LUI a dover qualcosa a quel bambino forse troppo a lungo trascurato ed erano stati proprio i bambini di Demelza, assime a Dwight, a suggerirgli il regalo giusto per lui, da fargli trovare quella sera a casa, un regalo che lo aiutasse nei suoi problemi di salute e di socializzazione.

Quando giunsero in casa, Valentine si stupì di trovare le luci delle candele accese e i Gimlet ancora svegli, nonostante l'ora.

Ross lo spinse in casa e il bimbo, un pò titubante, entrò. Certo, non c'erano le decorazioni e l'atmosfera natalizia di casa Boscawen ma i Gimlet, durante la loro assenza, avevano arredato il salottino con candele rosse, piccoli nastri sulla porta e sopra al camino e la luce ovattata della tarda notte rendeva magica anche la loro piccola casa. E sul tavolo avevano messo delle tazze con della fumante cioccolata calda da gustare tutti e quattro insieme perché Ross, prima di uscire, aveva chiesto loro di preparare quel piccolo rinfresco di famiglia perché loro quattro erano una famiglia e aveva imparato che le famiglie dovevano festeggiare il Natale insieme! Ross sapeva che mancava una parte importante della sua famiglia ma aveva capito che questo non poteva ricadere su Valentine e in fondo, nemmeno su di lui. Doveva godere delle piccole cose, di ciò che aveva, doveva prendersene cura e non permettere che qualcosa, un giorno, lo portasse a mille rimpianti come stava succedendo con Demelza e gli altri suoi due figli.

La porta della cameretta di Valentine, socchiusa, si aprì e ne sgattaiolò fuori un cucciolo dal pelo nero che, vista la giovane età, corse verso di loro in modo scoordinato e allegro, cercando in loro, amici con cui giocare.

Valentine spalancò gli occhi. "Papà!".

Jane sorrise al bimbo. "Babbo Natale è passato di quì e ha lasciato questo per te! Un amico, un cucciolo di cui dovrai prenderti cura e con cui potrai giocare".

"Davvero?!". Valentine, emozionato e contento, si rotolò in terra, raggiungendo il cagnolino che, festante, gli si lanciò sopra, mordicchiandolo in maniera festosa. "E' mio?! Mio davvero?".

Ross annuì, felice di vederlo tanto eccitato. "Sì, è tuo e te ne dovrai prendere cura, dargli da mangiare, tenerlo pulito e soprattutto, portarlo in giro a fare lunghe passeggiate".

Valentine rise ancora. "Mi sa che anche Babbo Natale vuole vedermi con le gambe forti".

"Direi di sì". Ross annuì, divertito. Aveva comprato per Valentine quel cucciolo di Terranova proprio per questo, per invogliarlo a correre e a muoversi di più, ma anche perché avesse un amico col quale, al parco, trovare nuovi amici con cui giocare. Aveva osservato il grande legame fra Jeremy e Fox e fra Clowance e Queen e gli effetti positivi che aveva su di loro e quindi aveva deciso, anche se sarebbe stato impegnativo, che fosse una cosa giusta anche per Valentine. Aveva quasi sette anni ed era grande abbastanza per quella responsabilità. "Devi cercargli un nome" – gli suggerì, sedendosi sul divano coi Gimlet.

Valentine saltò sulle sue ginocchia, imitato dal cucciolo che aveva imparato subito che il divano era un posto comodo dove stare. "Tannen".

"Tannen?" - chiese John Gimlet che ovviamente non sapeva una parola di tedesco.

Valentine annuì. "Sì, Jeremy mi ha detto che vuol dire abete, come quello addobbato a casa sua! E siccome il cane me l'ha portato Babbo Natale, io lo chiamo Tannen!".

Ross sospirò. "E Tannen sia!". E con suo figlio, Tannen e i Gimlet, come una piccola armoniosa famiglia, festeggiò il suo primo vero Natale bevendo in armonia la loro cioccolata calda.




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Capitolo 47
*** Capitolo quarantasette ***


Le luci magiche del Natale avevano lasciato il posto a un gennaio terribile. Un'ondata di gelo e neve si era abbattuta su Londra, piegando ancora di più le misere condizioni di vita della gran parte della popolazione che viveva di stenti.

Per giorni fu come se il giorno avesse lasciato spazio a una notte perenne di tormente e in mezzo a quel gelo era prosperata una pesantissima epidemia di febbre che aveva piagato ancora di più ogni classe sociale.

Anche casa Boscawen non era passata indenne da quel tormento. Per primo si era ammalato Lord Falmouth, costretto a letto oltre che dall'influenza, da un terribile e doloroso attacco di gotta, poi si era ammalata Lady Alexandra e infine i gemellini che, a causa della febbre molto alta, avevano tolto il sonno a Demelza per diverse notti.

Dopo la pausa natalizia, il Parlamento avrebbe dovuto riprendere i lavori ma la neve aveva ritardato la riapertura di Westminster e così la popolazione, che viveva all'ombra di una famiglia reale sorda ai loro bisogni e senza guide politiche che potessero dare direttive per fronteggiare la grave situazione, era abbandonata a se stessa. In quelle prime settimane di gennaio erano stati molti gli assalti ai granai e alle botteghe di alimentari, gli attacchi alle carrozze dei signori più ricchi e le proteste più o meno violente fra le vie della città.

Il Ministro Pitt aveva deciso di intervenire con un discorso pubblico in un sobborgo fra i più poveri di Londra, atto a calmare gli animi e a cercare soluzioni per fronteggiare l'emergenza e aveva invitato gli altri politici a unirsi a lui. Demelza sapeva che Lord Basset e Ross avevano accettato subito l'invito assieme ad altri e alla fine aveva dovuto soccombere, anche se non molto entusiasta, Falmouth che però all'ultimo, causa influenza, aveva dovuto rinunciare.

"Quel dannato Basset penserà che l'ho fatto apposta ad ammalarmi, per non presenziare a questa pagliacciata con cui pensano di risolvere il problema del gelo!" - sbottò, a letto, mentre Demelza sistemava un vaso di fiori sul suo comodino.

Lei alzò gli occhi al cielo, assolutamente in disaccordo con lui. "Non credo che Basset, Pitt e i loro sostenitori vogliano far sciogliere i ghiacci e far tornare il sereno, penso che vogliano cercare soluzioni utili a far passare l'inverno in maniera decente ai poveri della città" – sbottò, faticando a nascondere il tono sarcastico della sua osservazione.

"Lavorare sodo è un buon modo di sopravvivere all'inverno..." - mormorò lui, reso scorbutico dal dolore alla gamba.

Demelza scosse la testa, sentendo un brivido nella schiena e nelle ossa. Non si sentiva bene per niente da quella mattina e aveva la costante sensazione di avere un pò di febbre. I gemellini dovevano averla infettata ma per il momento doveva tenere duro per loro, ancora convalescenti e febbricitanti, e per Falmouth che doveva sostituire in quell'evento. Se doveva sorbirsi l'influenza, non avrebbe avuto tempo per farlo fino a sera! "Di lavoro ce n'è poco per chiunque e Lord Basset non avrà nulla da ridire sulla vostra assenza, tranquillo! Ci sarò io a rappresentare la famiglia".

Falmouth sospirò. "Sì e sei preziosa! Ma per quanto tu sia in gamba, dovrei essere io a pensare a queste cose...". Si massaggiò il ginocchio, col viso che tradiva profonda sofferenza fisica. "Sai, pensavo...".

"Cosa?".

"Ci sarà anche Ross Poldark al discorso e tu sembri andare molto d'accordo con lui".

A quelle parole, per poco non spezzò il gambo di un fiore che stava sistemando, fra le sue mani. Con cautela si girò verso il letto, cercando di capire dove volesse arrivare Falmouth con quel tono sibillino. "Prego?".

Falmouth rise sotto i baffi. "A Natale siete spariti insieme per un bel pò e noto sempre quel qualcosa di... sanguigno... nei vostri sguardi, quando vi vedete".

Demelza arrossì di colpo. E così se n'era accorto di quanto successo a Natale! "Ero fuori a far giocare i gemelli che disturbavano e lui gentilmente mi ha tenuto compagnia perché aveva bisogno di prendere un pò d'aria. Tutto quì, due chiacchiere mentre i bambini giocavano" – rispose, sulla difensiva.

"Perché lo hai invitato?" - insistette lui.

"Perché questa conversazione?" - rispose a tono lei.

Falmouth non si fece scoraggiare. "Ho chiesto prima io...".

Demelza chiuse gli occhi, ripensando forse per la millesima volta al colloquio avuto con Ross quella sera. Aveva avvertito un brivido davanti a quelle parole a cui forse non avrebbe dovuto credere mai ma che le avevano fatto piacere, aveva dovuto iniziare a credere possibile una spiegazione diversa da quella che si era data in quegli anni sul loro matrimonio e sui sentimenti di Ross, aveva sentito il fuoco invadere ogni fibra del suo essere quando lui l'aveva baciata sulla fronte e aveva provato piacere nel sentire il calore della sua voce pacata, gentile e allo stesso tempo così accattivamente e seducente. Non voleva ammetterlo e non voleva che succedesse ma per un attimo quella sera aveva chiuso gli occhi e si era cullata nella beata fantasia che fossero a Nampara, davanti al camino, a parlare e a scherzare come facevano tanti anni prima. Era stato solo un attimo e poi aveva riaperto gli occhi, trovandosi in quel giardino di Londra dove tante volte aveva passeggiato con Hugh, dove aveva portato a spasso con lui i gemelli appena nati, dove era cresciuto il loro rapporto... E Ross era tornato ad essere un fantasma del passato tornato a stravolgere il suo sonnecchioso e sereno presente. Gli aveva promesso di pensare a quanto si erano detti e lo aveva fatto, aveva riflettuto sulle sue parole, su quanto raccontato di Elizabeth, su come aveva vissuto con Valentine in quegli anni a Nampara, sui suoi sentimenti e Demelza aveva deciso che gli credeva – perché da sempre era capace di capire se lui mentisse o meno – ma che questo non poteva influire sulla sua vita, su quella dei suoi figli e sul suo presente. Non sapeva cosa volesse da lei Ross, non sapeva se il suo fosse un semplice desiderio di alleggerirsi la coscienza, non sapeva cosa si aspettasse dal loro rincontrarsi ma decise che non voleva nemmeno scoprirlo! Non ne aveva il coraggio! Non voleva dare spazio a Ross, stravolgere la sua vita e di certo non voleva sconvolgere quella dei suoi bambini e poi... Poi ora era una Boscawen, una donna molto diversa da quella che Ross ricordava e il suo ruolo era quello di madre degli eredi di quel casato e moglie e vedova rispettosa di Hugh. Fine, il resto non aveva senso e per quanto la riguardava, non voleva rivelare nemmeno a se stessa cosa provasse e di certo quindi non ne avrebbe parlato a Ross! O si sarebbe aperta una voragine nel suo cuore e lei ci sarebbe finita dentro, diventando vulnerabile a lui e al richiamo magnetico della sua persona. Doveva stare attenta perché da Ross era attratta ancora, nonostante tutto, e la nostalgia per ciò che erano e i suoi sentimenti potevano spingerla a fare qualcosa che poi non sarebbe riuscita a gestire... "L'hanno invitato i bambini, non io! In realtà hanno invitato suo figlio e non mi sembrava educato rimangiarmi quella proposta".

Falmouth sospirò. "Una buona risposta da una buona politica..." - notò. "Sai perché ti sto parlando in questo modo, Demelza?".

"Non credo di volerlo sapere".

Ma Falmouth non si fece scoraggiare. "Non sono più giovane e i miei acciacchi ovviamente aumentano, col trascorrere degli anni. Tu ora mi sostituisci, oggi andrai a quel dannato discorso al mio posto ma se io fossi impossibilitato a lungo... o per sempre... nei miei compiti...".

Demelza si accigliò. "E' solo influenza ed è solo gotta! Andrete avanti a guidare questa famiglia per anni!".

Falmouth non parve ottimista quanto lei. "Non è detto e lo sai pure tu! E anche se sei in gamba, tu non puoi sostituirmi in tutto e se mi succedesse qualcosa, chi guiderebbe questa famiglia? Non Alix, non ne è in grado... Non i bambini, sono ancora troppo piccoli... Ricadrebbe tutto sulle tue spalle e io sarei più sereno se avessi al tuo fianco qualcuno disposto a portare questo peso con te".

Demelza sospirò, volgendo lo sguardo altrove. Capiva il suo punto di vista ma non amava questo genere di discorsi. "Volete che mi risposi? Avete in mente un matrimonio combinato? Sono e resto la moglie di Hugh!". Stava entrando in panico...

Lui scosse la testa. "Niente matrimonio combinato, so che non accetteresti e non mi piace nessuno degli uomini che ti gravitano attorno, adoranti! Come quell'Adderly, quel dannato viscido Adderly! Ross Poldark mi piace, è giovane, affascinante, carismatico ed intelligente e sembra interessato a te, lo vedo come ti guarda ogni volta che siete insieme...".

"No" – rispose Demelza, secca, mentre sentiva la febbre che aumentava. Doveva chiudere quel discorso, SUBITO!

Falmouth sospirò. "Pensaci... Se non a lui, pensa comunque a tenerti aperta questa possibilità. Sei giovane e hai tutta la vita davanti, ancora! E i bambini hanno bisogno di una guida forte come un padre, soprattutto i gemelli che non avvertono l'autorità di nessuno! E non sarai irrispettosa di Hugh se ti rifai una vita, così come non sarai una vedova più virtuosa se resti ancorata a come sei ora!".

Demelza sollevò lo sguardo, come a cercare una soluzione a quel discorso che non le piaceva per niente. Falmouth non aveva torto e sapeva anche di non fare nessun torto a Hugh se mai avesse deciso di risposarsi visto che Hugh stesso, sul letto di morte, l'aveva incitata a non sentirsi in colpa se avesse voluto tornare addirittura in Cornovaglia, però non era pronta, non si sentiva abbastanza coraggiosa anche solo per pensare di fare un passo simile. Un passo che mai avrebbe fatto se non per amore... E poi Falmouth si sbagliava, era stata abituata a lavorare fin da quando era in fasce e se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe portato avanti da sola quella famiglia e i suoi figli. Non voleva pensare ad altre soluzioni, non voleva ulteriori spinte oltre a quelle che le suggeriva il suo cuore, verso Ross... "Si sta facendo tardi! Vado a dare un occhio ai gemelli e poi con Clowance e Jeremy, andrò all'arringa di Pitt".

Falmouth la guardò storto. "E' proprio necessario portare i bambini in quel posto malfamato e dimenticato da Dio?".

Demelza sostenne fermamente il suo sguardo. "Sì, è necessario per me! Voglio che vedano e capiscano che non tutti hanno la loro ricchezza e fortuna, voglio che facciano loro i problemi della gente comune e voglio che ascoltino i discorsi di fratellanza e solidarietà di Pitt. Hanno troppo e conoscono troppo poco della vita vera e la giornata di oggi sarà assolutamente formativa e istruttiva per loro".

Lord Basset sprofondò sui cuscini, rendendosi conto che non poteva fare nulla per farle cambiare idea. "Sta attenta però! A me questa tua idea di portare i bambini a vedere i poveri, non piace nemmeno un pò! E fa freddo, congeleranno".

"Hanno i loro caldi cappotti, i cappelli, le sciarpe e gli stivali! A differenza dei bambini scalzi di quei quartieri, che restano scalzi anche se nevica...".

E a quella parole a cui non poteva controbattere, Falmouth chiuse gli occhi. "Va, va... Prima che mi venga mal di testa".

Prendendo un profondo respiro e dopo avergli suggerito riposo, Demelza uscì dalla sua stanza per tornare nei suoi appartamenti.

Prudie stava aiutando Jeremy e Clowance a vestirsi e così aveva qualche minuto per se e i gemelli che dormivano nel lettone nella sua stanza.

Entrò di soppiatto per non svegliarli, avevano avuto la febbre altissima e anche se ora stavano meglio, Demelza non era ancora del tutto tranquilla, soprattutto per Daisy che era quella che si ammalava più di tutti e più pesantemente, tanto che Dwight le aveva spesso consigliato di portarla al mare nei mesi estivi, per fortificarla. A quella raccomandazione Demelza sorrideva spesso perché se le cose fossero state diverse, Daisy al mare ci sarebbe cresciuta. Era la sua terra d'origine e Demelza ne provava spesso nostalgia. La spiaggia, la sabbia, le onde che si infrangono sui piedi, il rumore del vento e il canto dei gabbiani... Il mare, la Cornovaglia, casa...

Si avvicinò al letto e guardò i gemellini che vi dormivano insieme. Anche Daisy non aveva protestato ad essere portata in camera sua, segno di quanto fosse ancora debilitata e poco reattiva.

Sospirando si sedette fra di loro, sentendosi in colpa nel lasciarli soli quel pomeriggio, visto che ancora la guarigione era lontana. Accarezzò i capelli biondi di Demian e lui come al solito si rannicchiò sereno contro di lei, mugugnando nel sonno, poi allungò una mano verso la testolina di Daisy e lei aprì gli occhi d'istinto, come se i suoi sensi non dormissero mai e fosse sempre all'erta se qualcuno si avvicinava.

La osservò e Demelza si bloccò, come timorosa che la respingesse, come sempre. Per un lungo attimo rimasero ferme a guardarsi e studiarsi e Demelza si chiese cosa fare, come avvicinarsi a lei e farle sentire il suo affetto senza che Daisy se ne sentisse sopraffatta e alla fine le venne in mente Ross. Ross, che Daisy non conosceva e che eppure era riuscito a fare stranamente breccia in lei, Ross che non la cercava quando erano vicini e lasciava che fosse lei ad avvicinarsi a lui quando ne sentiva la necessità. E forse era questo il segreto con Daisy, aspettare e rispettare i suoi tempi, lasciando a lei la scelta di quando fare il primo passo. Ross lo aveva capito, chissà come...

Fermò la mano a pochi centimetri dalla bimba appoggiandola mollemente sul cuscino e Daisy rimase ferma, nascosta sotto le coperte a guardarla. E poi dopo infiniti secondi, silenziosamente e inaspettatamente, allungò la sua manina stringendo la sua e rannicchiandosi contro di lei alla ricerca di calore. E a quel punto la baciò sulla fronte calda, senza che lei la respingesse, avvertendo il senso di sollievo della sua bambina ad averla vicina. Forse per la prima volta...

Un giorno avrebbe chiesto a Ross come aveva fatto a capire come funzionasse con Daisy...

La porta in quel momento si aprì piano e Jeremy e Clowance, con Prudie, entrarono nella stanza.

"Signora, i bambini sono pronti!".

E Demelza, nonostante si sentisse spossata a sua volta dalla febbre, si alzò mollemente dal letto. I bambini erano imbacuccati e pronti per uscire, dei gemelli si sarebbe occupata Prudie e lei doveva davvero andare. "Sù o faremo tardi".

"Ma non posso stare a casa?" - si lamentò Clowance, non molto entusiasta di quella gita nei sobborghi poveri della città.

Demelza assunse uno sguardo severo, decisa a correggere l'atteggiamento a volte decisamente snob di Clowance. "No, non puoi". E dopo aver rimboccato le coperte ai gemellini e raccomandato a Prudie di mettere loro delle pezze bagnate sulla fronte, la prese per mano e con Jeremy uscì.


...


Il viaggio in carrozza, in una Londra semi-deserta per il freddo, fu avvolto da un gelido nevischio che finiva con l'attutire ogni rumore, anche quello delle ruote sul selciato.

Clowance, nel suo cappottino di pelliccia bianco, si calò il berretto di lana sulla fronte nascondendo le manine nello scaldamani mentre Jeremy si coprì metà del viso con la sciarpa.

Demelza, dal canto suo, strinse le braccia attorno al suo corpo alla ricerca di calore, calore che non riusciva a trovare nemmeno nel suo meraviglioso mantello di calda e morbida lana color crema e nell'ulteriore scialle che aveva messo sulle spalle. Stava congelando e i brividi le percorrevano la schiena in modo fastidioso, segno che la febbre stava salendo.

Man mano che si allontanavano dalle ricche ville del centro, le case divennero meno lussuose ed abbienti, finendo per assumere la forma di baracche e catapecchie tanto simili a quelle dove Demelza era nata e cresciuta. Avrebbe voluto raccontare ai suoi bambini della sua infanzia, di come lei stessa fosse venuta al mondo in mezzo a mille difficoltà e alla povertà più nera, ma non poteva, non ora in quel mondo dove era finita. Raccontare avrebbe significato scoperchiare un vaso di pandora enorme e col ritorno di Ross nella sua vita, le cose da spiegare sarebbero state tante e lei non si sentiva abbastanza forte per farlo. Coi bambini, con Lord Falmouth e Lady Alexandra, con tutti coloro che conosceva... Come poteva spiegare? Come poteva riaprire quel capitolo della sua vita? Per tutti lei era la misteriosa fata amata da Hugh Armitage, arrivata dal nulla e con un passato misterioso alle spalle e avevano imparato ad amarla con quell'idea in mente. Ma cosa avrebbero provato per lei, se avessero saputo la verità? E i bambini? Jeremy e Clowance come avrebbero reagito? Sapevano di non essere i figli di sangue di Hugh e Jeremy sapeva anche di più perché lei qualcosa gli aveva raccontato e i termini in cui aveva descritto Ross a suo figlio non erano certo lusinghieri e adesso, dopo quanto si erano detti la notte di Natale, si pentiva amaramente di essersi lasciata andare a quegli sfoghi col bambino.

Chiuse gli occhi sprofondando nella poltrona, quando la carrozza si fermò.

Clowance si affacciò e sbuffò vistosamente. "E' brutto questo posto, non mi piace!".

Jeremy invece, di natura più curiosa ed accomodante, scese di corsa e Demelza lo seguì tenendo la figlia per mano.

Si guardarono attorno, trovandosi in un piccolo spiazzo che si trovava al centro di uno stretto dedalo di vie sterrate percorse da catapecchie, stalle, ruderi cadenti e piene di persone vestite di stracci accompagnate da bambini scalzi e sporchi che li osservavano come se provenissero dalla luna, in cagnesco e con evidente ostilità. Demelza li capiva, capiva cosa potesse passare nella mente di chi aveva lo stomaco sempre vuoto vedendo persone ricche e ben agghindate che forse il cibo lo buttavano via senza troppi pensieri.

Un piccolo palco di legno era stato costruito a ridosso di una stalla e il Ministro Pitt, assieme ad altri politici fra cui Basset, era già sul posto a controllare su un foglio che il suo discorso fosse perfetto, attorniato da povera gente del posto, curiosa, che andava e veniva dalle proprie case in attesa di sentire cosa avesse da dire.

Appena li vide, Lord Basset andò verso di loro, sorridendo. "Lady Boscawen? Mai mi sarei aspettato una fuga di quella vecchia volpe e la vostra presenza al suo posto!".

Demelza sorrise, lasciandosi baciare la mano. "Lord Falmouth è a letto, bloccato dalla febbre e dalla gotta. E' malato sul serio questa volta e sarò io, con Jeremy e Clowance, a rappresentarlo".

L'uomo guardò i bambini. "Non è posto per loro, di questi tempi i sobborghi di Londra sono pericolosi e la fame rende la gente rabbiosa e violenta".

"Credo che sia giusto che vedano una realtà diversa dalla loro" – rispose Demelza, stringendo a se Clowance che si era aggrappata alla sua vita.

"Come volete voi, mia Lady". Lord Basset, un pò contrariato e sicuramente per nulla d'accordo, accarezzò i capelli biondi di Clowance, salutò Jeremy e poi tornò dagli altri politici e Demelza, coi bambini, si sedette su una specie di vecchia panchetta di legno mezza rotta, fuori da una delle casette che componevano quella piccola piazza.

"Questo posto è brutto, puzza e la gente ci guarda in modo strano!" - piagnucolò Clowance.

Jeremy, seduto sulla panca, dondolò le gambette nel vuoto. "Sì, è tutto un pò sporco e la gente credo abbia fame. Ci guardano come fanno i nostri cani quando ci dimentichiamo di dargli il cibo a pranzo!".

Demelza fulminò con lo sguardo Jeremy per quella che voleva essere una battuta detta senza malizia ma che trovò di pessimo gusto. "Non farlo più! Non paragonare mai una persona a un animale!".

"Ma non volevo offendere! I nostri animali sono belli".

Demelza si morse il labbro, non sapendo bene come affrontare il discorso ma comunque decisa a non far cadere la questione, rendendosi conto che era proprio per frasi del genere che aveva portato lì i bambini. "Jeremy, avere fame e non avere modo di riempirsi lo stomaco, è orribile. Non ci dormi la notte e sai che quando sarà mattina, la cosa non si risolverà! Ti alzerai e avrai ancora fame e forse ne avrai tutto il giorno".

Clowance si accigliò. "E tu come lo sai?".

"Lo so e basta!". E in quel momento di difficoltà – e non credeva che avrebbe mai potuto dirlo – vide arrivare Ross. A piedi, comparendo da uno dei vicoli adiacenti alla piazza, si materializzò davanti a loro e appena li vide, rimase paralizzato dalla sorpresa.

Demelza deglutì, abbassando lo sguardo in imbarazzo. Non si erano più visti dalla notte di Natale e nel vederlo, il ricordo del suo fiato caldo sul viso e delle sue labbra sulla sua fronte le provocarono un brivido ancora peggiore di quelli causati dalla febbre.

Ross, dopo aver salutato i suoi compagni di partito, le si avvicinò. "Lady Boscawen" – salutò educatamente, recitando la sua parte davanti ai bambini – "Cosa ci fate quì?".

Il tono di voce preoccupato di Ross non sfuggì a Demelza. "Rappresento Lord Falmouth a letto con l'influenza".

"Anche mamma ha la febbre!" - la interruppe Jeremy.

E lo sguardo di Ross divenne ancora più cupo, come se le stesse lanciando un muto rimprovero. "Non dovreste essere quì, questi posti sono pericolosi di questi tempi e a maggior ragione se non vi sentite bene".

Demelza distolse lo sguardo per evitare di guardarlo in viso e sentirsi spogliata dai suoi occhi. Odiava quando Ross la guardava a quel modo e allo stesso tempo non sopportava che tutti quel giorno la stessero rimproverando per aver portato con se i bambini. "E' solo un pò di febbre, stasera mi metterò a letto con un pò di latte e miele e domani sarò come nuova".

E Jeremy intervenne di nuovo. "Non è vero, i gemellini sono tre giorni che ce l'hanno e mica sono come nuovi! Anche la nonna e lo zio mica sono come nuovi...".

Ross entrò in allarme. "Sono tutti malati tranne voi?".

Clowance annuì, sospirando. "Sì... Vorrei esserlo anche io, così non starei in questo brutto posto!".

"Sì, è un brutto posto davvero e...".

E Demelza lo bloccò prima che potesse rimproverarla pure lui per aver portato lì i bambini. "Qualche ora quì insegnerà loro qualcosa di utile per il futuro" – tagliò corto.

Ross rimase per un attimo in silenzio, forse d'accordo sul concetto ma decisamente meno sul metodo. "La gente di questi quartieri arriva da settimane durissime e ci vede come nemici che tolgono loro di bocca il poco pane che hanno".

Demelza alzò lo sguardo a fronteggiarlo. "Pensate che non le sappia, queste cose?".

Ross impallidì e Demelza capì che aveva realizzato e forse ricordato da dove lei provenisse. "Sì, so che le sapete...".

Un giovane strillone urlò che il discorso di Pitt stava per iniziare e una piccola folla si radunò attorno al palco.

Ross aiutò Demelza ad alzarsi e coi bambini, si mise in un angolo mentre la gente attorno a loro formava una muraglia umana poco raccomandabile. "Statemi vicino, non ho idea di come la gente reagirà a quanto lui dirà".

"Non dovreste stare con i vostri colleghi, signor Poldark?" - chiese Jeremy.

Lui divenne cupo. "Non devo fare discorsi, sono solo quì come sostegno morale a Pitt e alla popolazione. In mezzo a questa gente farò migliore impressione che su quel palco, in alto".

Demelza avrebbe voluto reagire e dire qualcosa ma la spossatezza della febbre e la constatazione che Ross aveva ragione e che la situazione poteva diventare pericolosa, la bloccarono dal fare qualsiasi rimostranza. Si sentì nuovamente in imbarazzo, chiedendosi cosa lui pensasse dopo Natale, se si aspettasse qualcosa da lei e soprattutto... Guardò i suoi due bambini e si rese conto che dopo tanti anni erano solo loro quattro, la famiglia che avrebbe dovuto essere, la famiglia nata e creata a Nampara che avrebbe dovuto crescere insieme e che invece...

Guardò Jeremy e Clowance e si rese conto che, senza che loro lo sapessero, per la prima volta erano da qualche parte insieme al loro papà e alla loro mamma. Insieme! Non c'erano gli altri, non c'era il mondo di Londra, non c'era quello che era venuto dopo! Erano solo loro, la famiglia Poldark di Nampara...

Gli occhi di Ross, osservandoli, divennero per un attimo lucidi e Demelza capì che stava pensando alla stessa cosa. I bambini erano davanti a loro, le parole di Pitt risuonavano fra la folla urlante e quel chiasso per un attimo li isolò da tutti. Nessuno badava a loro e Ross così allungò la mano, stringendo la sua per un attimo, come a voler cercare in lei la forza per sopravvivere a quei pensieri di ciò che era e poteva essere.

E Demelza non si ritrasse... Era debole, sentiva la febbre che progressivamente si alzava e aveva dannatamente freddo mentre la mano di Ross era così dannatamente calda...

Lui la guardò preoccupato, mentre Pitt parlava dell'inverno duro, dei suoi sforzi per distribuire razioni di grano gratuito alla povera gente o comunque a prezzi calmierati e tutti gridavano la loro rabbia e frustrazione per quella situazione durissima che aveva già mietuto parecchie vittime, soprattutto fra i bambini più poveri. "Sei calda... Dannazione, quanta febbre hai?".

Demelza deglutì. "Non ha importanza... Passerà!".

La gente attorno a loro urlò di più ed iniziò a spingere. Imprecazioni giunsero anche dalle case e una pioggia di sassi e pezzi di legno cominciò a piovere violentemente sugli astanti, lanciata dalle persone appollaiate sui tetti e sui ballatoi.

"Mamma..." - piagnucolò Clowance, aggrappandosi a lei.

Ross si guardò attorno, capendo che la situazione stava degenerando, mentre anche Pitt si fermava, capendo che gli animi si stavano surriscaldando e la gente era pronta ad attaccare con la forza, spinta dalla disperazione. Forse era una situazione programmata dagli abitanti del quartiere o forse qualcosa nato spontaneo, ma Ross capì che la situazione sarebbe divetata pericolosissima e che tutti loro che rappresentavano la Londra più ricca, erano potenziali bersagli da attaccare.

La gente iniziò a spingere e i bambini parvero spaventarsi.

E a quel punto Demelza si arrese, rendendosi conto che forse aveva sbagliato e che aveva portato i bambini in un posto pericoloso. Le urla aumentarono fino a diventare un frastuono e Ross a quel punto prese in mano la situazione. Prese in braccio Clowance, per la prima volta nella sua vita, avvicinò a se Demelza mettendole una mano sulla spalla e ordinò a Jeremy di tenere per mano sua madre, senza lasciarla mai.

E poi, con la forza della disperazione, mentre la gente spingeva per attaccare il palco e sassi piovevano da ogni dove, mentre le guardie cercavano di mantenere inutilmente la calma e Pitt e gli altri tentavano di trovare vie di fuga scortati dalle loro guardie, Ross si fece largo fra la folla urlante, aprendosi un varco e trascinando con se la sua famiglia.

"Cosa faremo?" - urlò Demelza, tentando di tenere Jeremy quanto più vicino a se.

"Dobbiamo uscire da questa dannata piazza, immetterci in un vicolo e trovare un rifugio finché la situazione non si sarà calmata!" - urlò Ross mentre lei, confusa dalla febbre e dalla situazione esplosiva attorno a se, sentiva che le forze le stavano venendo meno e che forse sarebbe svenuta.

Ma un pensiero in quel momento la cullò, dandole la certezza che tutto sarebbe andato per il meglio: c'era Ross con loro e lui non avrebbe mai permesso che succedesse nulla di male a lei e ai loro bambini. E per un attimo si stupì di quel pensiero ma fu solo un momento perché si rese conto che quella certezza era da sempre stata radicata dentro di lei.

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Capitolo 48
*** Capitolo quarantotto ***


Aveva combattuto in guerra, fatto a botte in infinite risse, rischiato il cappio al collo qualche volta di troppo ma mai si era sentito impaurito come in quel momento. Non per se stesso, certe situazioni erano a lui congeniali e servivano a farlo sentire vivo ma in quel momento non era solo lui e non era la sua la pelle da portare a casa ma quella della sua famiglia...

Sentì il corpo di Demelza, che sorreggeva, farsi per un attimo pesante e capì che non si sentiva bene e che quella gente che urlava, spingeva e la pressava da ogni parte, non facevano altro che peggiorare la situazione. La scosse, cercando la sua attenzione. "Non svenire, non ora!".

Lei boccheggiò, pallida come un fantasma. "Non è una cosa che si decide, succede e basta".

Ross si rese conto che quel dialogo era piuttoto surreale. "Beh, falla succedere dopo!" - le ordinò, pretendendo che collaborasse e lo facesse, mentre Clowance fra le sue braccia si aggrappava spaventata a lui. Solo in quel momento realizzò che quella bimba mai riconosciuta e mai conosciuta prima d'ora, quella bimba che era sua ma non lo era più per legge e che aveva lasciato ancor prima che nascesse, per la prima volta era fra le sue braccia. Sua figlia... Hugh Armitage poteva aver sposato Demelza e averle dato il suo cognome ma Clowance rimaneva sua e nelle sue vene scorreva il sangue fiero dei Poldark. Hugh era stato un padre per lei ma mai sarebbe stato l'UNICO! Forse era arrogante pensarlo ma dentro di lui mai avrebbe rinunciato a quella certezza: erano i suoi due bambini, quelli...

Jeremy osservò Demelza preoccupato, rendendosi conto che stava male e quando fece per chiamarla, uno dei manifestanti si avventò su di lui urlando frasi minacciose.

"Dannato moccioso aristocratico! La ghigliottina ci vorrebbe, come in Francia!".

Jeremy spalancò gli occhi con terrore, Demelza sussultò spaventata e Clowance pianse affondando il viso nel suo collo. E a quel punto a Ross del politicamente-corretto, non interessò più nulla. Per un attimo lasciò libero il braccio con cui sosteneva Demelza e con la mano, assestò un violento pugno in faccia all'assalitore di suo figlio, facendolo stramazzare a terra col naso sanguinante.

Demelza alzò lo sguardo su di lui e a Ross parve sinceramente impressionata. "Certe cose non cambiano mai..." - mormorò vicino al suo orecchio, in modo che nessuno potesse sentirla in mezzo a quel frastuono. E il fiato sul suo collo, la voce della donna che amava e che in quel momento si rivolgeva a lui solo, in uno strano momento di intimità e cameratismo, gli fecero venire la pelle d'oca. Santo cielo quanto la voleva, quanto la RIVOLEVA...

Jeremy guardò l'uomo appena colpito che rotolava per terra, poi guardò lui e poi di nuovo il suo assalitore. "Wow Signor Poldark! Questa la devo davvero raccontare a Gustav! Dove avete...?".

Ross riprese Demelza e ricominciò a spingere per farsi strada nella folla, trascinandoli con se. "Dove ho imparato? Nelle peggiori locande che un uomo potrebbe frequentare, Jeremy! Posti che tu probabilmente non vedrai mai".

"Ohhh" – rispose il bimbo, sinceramente ben impressionato.

Clowance non disse nulla e probabilmente nella sua piccola mente aristocratica, stava pensando che lui fosse un troglodita selvaggio ma per il momento andava bene così. Il pericolo era scampato e stavano tutti bene...

Spingendo – e dando qualche calcio un pò scorretto negli stinchi dei manifestanti – Ross continuò a farsi largo nella folla, allontanandosi dal palco del comizio. Pitt e gli altri, sicuramente, si erano messi in salvo aiutati dalle loro guardie e ora toccava a lui trovare un posto sicuro dove aspettare la fine degli scontri. Il suo obiettivo era uscire dalla piazza e trovare un qualche magazzino o stalla vuota dove rifugiarsi e sicuramente quei viottoli fatiscenti offrivano molti posti del genere ai fuggitivi. Nevicava, la gente era in tumulto e Ross ne capiva appieno i motivi ma doveva salvare la sua famiglia e al momento questa era la sua priorità!

Finalmente riuscirono a raggiungere un piccolo vicolo che portava chissà dove ma non era importante. Ross lo imboccò, trascinandosi dietro Demelza ormai esausta e i bambini, correndo nel senso opposto alla piazza e lasciandosi i tumulti alle spalle anche se la loro eco sembrava non voler lasciare le sue orecchie.

L'acciotolato lasciò il posto a una pavimentazione sconnessa e poi a uno sterrato sporco e pieno di pozzanghere e sporcizia e le case, man mano che si allontanavano dalla piazza, parevano sempre più baracche che stavano in piedi per grazia di Dio ma che potevano volare via con un soffio di vento un pò più forte degli altri. Sentì Demelza che rallentava il passo e si accorse che non ce la faceva più e visto che ormai sembravano piuttosto lontani dai tumulti, si fermò per farle riprendere fiato. Mise a terra Clowance con immenso dolore perché sapeva che non gli sarebbe capitato tanto presto di rifarlo e poi si concentrò su Demelza. "Come va?".

Lei, col fiato corto, lo guardò. Il suo sguardo pareva annebbiato e le sue guance erano diventate paonazze, segno che doveva avere una febbre altissima. "Gira tutto...".

E poi si accasciò, rischiando di finire a terra se non fosse stato per i riflessi pronti di Ross che la prese al volo.

"MAMMA!" - urlarono i bambini, terrorizzati.

Ross cercò di tranquillizzarli. "Non è nulla, ha la febbre ed è svenuta. Le passerà, dobbiamo solo trovare un rifugio caldo dove stare finché gli scontri non saranno finiti. Un posto dove potrà riposare... E anche voi!".

Clowance si guardò attorno, sconfortata e spaventata da quell'ambiente che doveva apparirle orribile rispetto a quelli a cui era abituata. "Ma dove? Quì non c'è niente!".

Jeremy la prese per mano, deciso. "Basta cercare! E accontentarsi".

Ross provò un'immenso orgoglio verso Jeremy. Era cresciuto negli stessi ambienti di sua sorella ma non era stato abbagliato da etichette e lusso ed anzi, pareva aver ereditato lo spirito pratico e l'animo semplice e gentile di sua madre. Era un bambino in gamba e sarebbe diventato un uomo infinitamente migliore rispetto al padre che l'aveva messo al mondo. "Giusto! Cerchiamo!" - disse infine, stringendo Demelza a se. Stava malissimo e nonostante quanto detto per tranquillizzare i bambini, era davvero molto preoccupato per lei.

Il vicolo, piccolo e maleodorante, era deserto e solo poche persone, mendicanti e mocciosi sporchi e scalzi che li guardavano con sospetto, incrociarono il loro cammino. Li osservavano, li studiavano e poi, come bestioline selvatiche, scappavano via per la loro strada. Di certo fra quelle povere case erano nascoste persone che li guardavano di nascosto da dietro tende e infissi, ma a Ross non importava poi molto. Sapeva come trattare con loro in caso di necessità e proprio fra i più poveri aveva trovato i suoi migliori amici e... Strinse a se Demelza, rendendosi conto che quel povero mondo, molto simile a quello dove lei era nata e cresciuta, gli aveva anche donato l'amore...

"Signor Poldark! Quello può andar bene?" - chiese Jeremy, indicando una specie di piccola stalla incastonata fra magazzini e casupole, dalla porta rotta che sbatteva furiosamente per il vento che la scuoteva.

Ross annuì. "Perfetto! Bravo Jeremy".

Clowance si bloccò, con gli occhi lucidi. "Lì? No, io non ci vengo!".

Ross la guardò, spazientito. Non era decisamente ora per i capricci e anche se capiva quanto fosse spaventata, non avrebbe accettato quel suo comportamento proprio ora che sua madre aveva più che mai bisogno di riposo e riparo. "E invece verrai! Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando!".

Il suo tono severo, le fece spalancare gli occhi. "Nessuno mi ha mai parlato così!".

Ross per un attimo non seppe che fare, ma decise che anche se lei forse lo avrebbe disprezzato, avrebbe proseguito nei suoi intenti. "Beh, doveva capitarti prima o poi... Decidi! O resti quì in strada sotto la neve, da sola, oppure vieni con noi!".

Il suo tono era perentorio e Clowance capì che non aveva molta scelta e forse per la prima volta nella sua vita, fu lei quella costretta a piegarsi agli ordini di qualcuno. "E' brutto, è sporco... Mi sporcherò tutta".

"Tua madre sta male! E' più importante non sporcare il tuo cappotto o portarla al sicuro e al caldo?".

Clowance abbassò lo sguardo, nervosa. "Quando andiamo a casa?".

"Appena sarà possibile...".

Jeremy si avvicinò alla sorella, prendendola per mano. "Dai, lui ha ragione! Dobbiamo pensare a mamma come mamma ha sempre pensato a noi. E' per poco, solo finché la strada tornerà calma. Poi andremo a casa".

E per la seconda volta, Ross fu orgoglioso di lui. Quanta strada aveva fatto quel bimbo che giocava sulle sue ginocchia col suo cavallino di legno...

Entrarono nella stalla, un luogo effettivamente sporco e spoglio, illuminato solo da una piccola finestrella scheggiata che dava sul vicolo e con arredo, solo un pò di paglia contro la parete e delle assi di legno sconnesse qua a la. Beh, era abbastanza per arginare l'emergenza! Con delicatezza mise Demelza sulla paglia e poi, dopo esserselo tolto, la coprì col suo cappotto. Era ancora priva di sensi e pareva indifesa e piccola, così...

Con la coda dell'occhio vide che Jeremy e Clowance tentavano senza successo di chiudere la porta e Ross andò in loro aiuto. "La serratura non c'è! Dobbiamo arrangiarci con quello che abbiamo per chiuderla".

Jeremy annuì, guardandosi attorno. "Le assi di legno! Possiamo sbarrarla con quelle!".

"Bravo!" - rispose Ross. "Clowance, va dalla mamma e tienile compagnia mentre noi sistemiamo la porta" – le disse, in ton più gentile rispetto a poco prima.

La bimba ubbidì e Ross, con Jeremy, sbarrò la porta con le poche assi a loro disposizione, dopo aver costruito una specie di marchingegno di fortuna per fissarle ideato dal bambino. Faceva freddo lì dentro ma quanto meno sarebbero stati riparati dalla neve e con la porta sbarrata, sarebbero stati anche al sicuro da ipotetici attacchi. Potevano stare lì nascosti e appena urla e tumulti si fossero calmati, col buio della sera ne avrebbe approfittato per riportare Demelza e i bambini a casa.

"E' sicura?" - chiese Jeremy, osservando la fine del loro lavoro.

Decisamente di buon umore, nonostante tutto, Ross osservò soddisfatto quel lavoro, il primo lavoro della sua vita, fatto fianco a fianco di suo figlio. Ed era stato bello e allo stesso tempo doloroso perché pensare a quante cose si era perso in quegli anni era ormai una tortura. "Direi di sì! A te che te ne pare?".

Il bimbo sorrise. "Boh, meglio di prima lo è sicuramente! Mi piace costruire le cose".

"E sei pure bravo!" - osservò Ross, orgoglioso per la terza volta di lui. Aveva davvero un buon occhio per la meccanica e sicuramente avrebbe fatto grandi cose da grande.

Jeremy arrossì. "Grazie!".

Ross rispose al suo sorriso. "Pensavo ti piacesse unicamente stare a sentire tuo zio parlare di politica per diventare come lui".

Jeremy alzò le spalle. "Mi piace, sì! Anche giocare a scacchi con lui... Ma non so se voglio proprio diventare come lui... A me piace costruire le cose, invetare e fare a mano, col legno".

Ross parve stupito da quella risposta. Quindi i Boscawen non gli avevano fatto proprio del tutto il lavaggio del cervello. "Non vuoi essere un politico?".

"Non lo so".

Ross gli sfiorò la spalla. "Beh, hai tempo per pensarci. Anche se, temo, nella tua famiglia sia il destino di tutti fare politica".

Jeremy scosse la testa. "Non di tutti! Papà era un poeta".

Ross deglutì e volse lo sguardo altrove perché Jeremy, dolorosamente, aveva con poche inconsapevoli parole palesato la realtà delle cose, il senso di perdita e la sua appartenenza a un altra famiglia. Chiacchierare con lui così, per la prima volta, per un attimo gli aveva fatto dimenticare che per Jeremy lui era solo il Signor Poldark mentre suo padre era un altro... E ancora una volta il senso di colpa e il dolore per quanto aveva perso per i suoi errori divennero reali davanti a lui. Ma non volle che Jeremy lo percepisse e quindi, con una leggera spinta alla sua spalla, lo fece riavvicinare a sua madre.

Entrambi tornarono da Demelza che, pallida, sembrava immersa in un sonno profondo. Tremava vistosamente e Ross sapeva che aveva bisogno di ben altri ambienti per stare meglio ma quello era il meglio che potesse offrirle in quel momento. Per un attimo gli tornarono in mente i giorni della malattia sua e di Julia ma Ross scacciò quel pensiero. Era una malattia totalmente diversa e Demelza sarebbe stata bene in pochi giorni, appena tornata alle cure della sua casa. Avrebbe voluto fare tante cose per lei e per farla stare meglio, stendersi accanto a lei e stringerla a se per scaldarla ma si rese conto che coi bambini presenti, non avrebbe potuto fare nulla.

"La mamma ha freddo" – sussurrò Clowance, seduta accanto a lei. "Il mio scaldamani può aiutarla?".

Ross annuì. "Sì, certo!". Glielo prese e poi vi avvolse le mani ghiacciate di Demelza, sperando che trovasse conforto. Poi sorrise a Clowance. Era viziata e a volte indisponente ma in fondo anche lei era una brava bambina e voleva bene a sua madre. "Mi spiace per prima, non volevo sgridarti. E per quanto riguarda il tuo cappotto, anche se si sporca, che problema c'è?".

Clowance parve punta sul vivo. "Io non mi sporco mai! I gemelli si sporcano, non io!".

Jeremy sbuffò, forse abituato ai modi di fare della sorella, ma Ross decise di non farsi sopraffare da lei. "E allora? Anche se ti sporchi, avrai chi ti lava e lava i tuoi vestiti! Non andrai a letto sporca, farai un bagno profumato e caldo e sarai come nuova prima di mettere la testa sul cuscino. No?".

Lei spalancò gli occhi ma non perché inorridita ma perché forse nessuno le aveva mai posto la questione in quei termini così semplicistici. Era lodata per la sua grazia e la sua leggiadria ma era una bambina ed era così triste che si ponesse tanti limiti e costrizioni per apparire perfetta. Doveva giocare, vivere con leggerezza la sua età, sporcarsi e fare baccano. Avrebbe avuto tutta la vita per essere una lady ma ora non era il momento. Non ancora... "Forse avete ragione, signor Poldark!" - ammise, con una certa fatica.

Ross sorrise. "Grazie!". Non dovevano essere parole che Clowance diceva troppo spesso. Non che ora lo apprezzasse più di prima e probabilmente continuava a considerarlo un selvaggio provinciale, ma gli sembrava di aver fatto un piccolo passetto avanti con lei.

"Mamma quando si sveglia?" - chiese Jeremy.

Ross osservò Demelza e poi le sfiorò la guancia, scuotendole delicatamente il capo. Aveva perso conoscenza da un pò e voleva che aprisse gli occhi per verificare che tutto, a parte la febbre, andasse bene. "Demelza..." - sussurrò, dimenticandosi per un attimo l'etichetta e il ruolo di quella donna che era stata sua moglie.

Ma Clowance, decisamente meno smemorata di lui, lo guardò con aria di disprezzo e rimprovero. "Mia madre è una Lady e se voi siete un gentiluomo, dovete rivolgervi a lei come tale! Non potete chiamarla per nome, solo mio padre poteva!".

Ross deglutì e anche le parole di Clowance ebbero su di lui l'effetto di uno schiaffo.

'Solo mio padre, poteva'...

Santo cielo, LUI era suo padre e lo avrebbe volentieri urlato forte! Era suo padre ed era stato il marito di Demelza e ora non poteva nemmeno chiamarla per nome senza venir ripreso per questo! Era orribile tutto ciò e anche se era la giusta punizione che meritava appieno per quanto aveva fatto, cominciava a pensare di non avere la forza necessaria per sopportare tutto questo e il senso di estraneità che faceva capolino fra lui e i suoi figli con una cadenza disarmante. "Non volevo mancare di rispetto a tua madre, Clowance" – disse, stringendo i pugni per la frustrazione – "Ma quì siamo solo noi, siamo sfuggiti a un pericolo e forse per oggi potremmo dimenticarci etichetta e buone maniere".

Jeremy annuì, anche se pure lui pareva un pò sorpreso per quella libertà che si era preso con sua madre. "Clowance, il Signor Poldark ha ragione! Forse per ora va bene così".

Ross prese la palla al balzo. "Pure voi potete chiamarmi per nome".

"No!" - sbottò Clowance. "Io sono e resto educata! Anche quì".

E lui si accorse di quanto alto fosse il muro da scalare per raggiungere sua figlia. L'aveva lasciata prima che nascesse e aveva ritrovato una bambina nobile, elegante, educata, impeccabile nelle maniere e nei modi di fare e così fredda e distante da ricordargli, nella sua austera perfezione, Elizabeth. Non voleva che Clowance diventasse così, non voleva davvero che buttasse via la sua vita inseguendo l'utopia della ricchezza che soffoca la nobiltà d'animo e la bellezza dei sentimenti. Ma si rendeva pure conto che non poteva essere lui ad insegnargli queste cose.

Demelza, fra loro, mugugnò, dimostrando di essere sveglia. "Clowance, va bene così...".

"Mamma!!!".

I bimbi le si gettarono addosso e lei con fatica li abbracciò, cercando di tranquillizzarli. Li strinse a se ma poi lasciò che Ross, con modi gentili, li allontanasse per farla respirare. "Sto bene, è solo un pò di febbre. Dove siamo?" - chiese, guardandosi in giro con fare smarrito.

"In una stalla abbandonata. L'abbiamo sprangata io e il signor Poldark e ora staremo quì nascosti finché i disordini non si saranno risolti" – rispose Jeremy.

Ross annuì e la guardò preoccupato e al suo sguardo, lei rispose con un'espressione di riconoscenza silenziosa ed eloquente.

"Grazie...".

"Di nulla, dovere".

Clowance si gettò fra le braccia di Demelza, coricandosi accanto a lei infreddolita e bisognosa di rassicurazione mentre Jeremy si mise dall'altro lato, fra la madre e Ross, seduto con la schiena contro la parete.

"Credo... Credo che dovremo uscire di quì solo quando inizierà a fare buio" – propose Ross, rendendosi conto che la luce del giorno li avrebbe messi troppo in vista.

Demelza parve agitarsi. "Ross, non posso! Quando sapranno degli scontri, non vedendomi tornare saranno tutti preoccupatissimi a casa e io devo tornare dai gemelli! Hanno la febbre e non sanno dove sono! Devo... Devo...".

Ross tentò di calmarla, costringendola a ricoricarsi dopo che si era messa a sedere. "Demelza, aspetteranno! Tu per ora riposa e non pensare a nulla, farò tutto io! I gemelli hanno chi si prende cura di loro e tu con questa febbre, devi stare tranquilla e al riparo, soprattutto dalla neve".

Jeremy parve turbato quanto la madre. "Ma signor Poldark, se mamma non è a casa per quando farà buio, Demian piangerà! Lui piange sempre se la mamma non è con lui quando è ora di andare a dormire e ora ha pure la febbre!".

Ross si stupì. Che significava? Demian dormiva ancora con Demelza? Da quando lei concedeva un tale vizio a un figlio? Non conosceva le abitudini di casa Boscawen ma di certo considerava errato dare a un bambino che aveva già quattro anni tali concessioni che di certo non lo rendevano grande ed indipendente. E poi, Jeremy... Era così maturo e anche se Ross si sentiva orgoglioso di lui per come si preoccupava e prendeva cura di sua madre e dei suoi fratelli, di contro provava pena e dispiacere per la mole di responsabilità che suo figlio sentiva gravare sulle sue giovani spalle a causa sua e dell'assenza di una figura paterna. D'istinto gli accarezzò i capelli, come a volerlo proteggere da quelle preoccupazioni che non dovevano appartenergli, non alla sua età. "Tutti abbiamo pianto da bambini e tutti siamo diventati grandi! Succederà anche a Demian".

"Non credo!" - intervenne Clowance – "Demian sarà mammone per sempre! Quando piange... Quando lui e Daisy piangono, tremano i vetri della casa! Strillano proprio! Quando sono nati, abbiamo smesso di dormire tutti quanti! Daisy piangeva tutto il tempo e io lo avevo detto a mamma e papà di buttarli via i gemelli, ma loro non mi hanno dato retta e così ora ce li dobbiamo tenere per sempre".

Quelle parole fecero sorridere Ross. Perché c'era tanto di infantile e molto poco di signorile, in quelle frasi dette da Clowance dove c'erano tutti i suoi sette anni di bambina, senza il condizionamento delle regole che si era imposta. Una normale bimba gelosa dei fratelli di cui parlava come parlano... beh, le bambine. Cercò di immaginare, tramite le parole dei suoi figli, come doveva essere stata la loro vita famigliare in quegli anni che pian piano, attraverso i loro racconti, venivano alla luce, e attraverso i loro racconti ne veniva fuori una famiglia unita e serena, che Hugh e Demelza avevano costruito assieme con passione e amore. Faceva male ma il punto importante era un altro: aveva fatto bene a loro e lui doveva accettarlo ed esserne felice.

"Io devo andare a casa" – borbottò Demelza, senza forze, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.

Ma Ross si dimostrò irremovibile. Era stata già fin troppo incosciente in quella giornata e ora era il caso che si affidasse agli altri. "E' pericoloso, per tutti voi! Staremo quì, qualche ora di ritardo non farà la differenza".

Clowance si rannicchiò contro di lei. "Sono stanca... Se dobbiamo stare quì, posso dormire un pò, mamma?".

"Sì, puoi!" - rispose Ross, subito, chiudendo ogni discussione.

Demelza lo guardò storto ma non osò replicare, forse rendendosi conto essa stessa di non poter fare molto se non affidarsi a lui.

E così calò un silenzio profondo mentre fuori urla e disordini la facevano da padroni, facendo arrivare a tutti loro l'eco della battaglia. Anche Jeremy, dopo infiniti minuti in cui aveva cercato di combattere con il sonno, si era addormentato e Ross rimase in silenzio ad osservare il nulla, perso in mille indistinti pensieri. Sentiva il placido respiro dei bambini che dormivano e questo gli bastava a tranquillizzarlo e anche Demelza sembrava abbastanza combattiva, nonostante la febbre.

Quando credeva che si fosse riaddormentata anche lei, la sua voce sommessa raggiunse le sue orecchie. "Ross...".

"Sei sveglia?" - disse piano, per paura di destare i bimbi.

"Sì... Volevo ringraziarti per averci salvato. Se non ci fossi stato tu...".

La interruppe, non c'era bisogno di ringraziamenti. "Beh, ringrazio anche te per non essere svenuta in piazza ma aver aspettato a farlo! Avrei avuto problemi enormi a portarti fuori di lì".

"Ce l'avresti fatta lo stesso, ne ero sicura".

Quelle parole lo fecero sussultare e lo stupirono per il loro intrinseco senso di fiducia che Demelza sembrava accordargli. "Davvero?".

"Davvero. Sapevo che ci avresti portato fuori di lì, tutti quanti".

Ross si sentì improvvisamente col cuore leggero. "Grazie... Era da molto che non mi dicevi qualcosa di carino". Si stese accanto a loro, sulla paglia, guardandola in viso. "E' vero, non avrei mai permesso che vi succedesse qualcosa di male. Ma che tu lo credessi... mi fa piacere".

"L'ho sempre saputo... Me ne sono accorta in piazza! L'ho sempre saputo che in mezzo a qualsiasi pericolo, tu ci avresti salvato! Il pericolo in fondo è sempre stato il tuo elemento naturale".

Il tono di Demelza era leggero. Non voleva sbilanciarsi, non si era lanciata in un accorato discorso sul suo amore per la famiglia ma nascosta, fra le sue parole relative alla sua antica passione per le risse che da sempre lo contraddistingueva, Ross poteva leggere una profonda ed immutata fiducia. Ed era un onore per lui, un onore che forse non meritava dopo quanto successo. "Ci hai pensato?".

"A cosa ci siamo detti a Natale?".

Ross scosse la testa, rendendosi conto che non poteva pretendere risposte alle sue parole di quella sera. "No, intendevo... Prima! Ci hai pensato che eravamo insieme, solo noi quattro, dopo tanto? Anzi, che non eravamo MAI stati insieme solo noi...".

Demelza abbassò lo sguardo. "Sì, ci ho pensato".

Rimase stupito dal fatto che non lo negasse. "E?".

Demelza guardò attorno a loro, osservando i miseri dettagli di quella stalla dimenticata da Dio, cadente e in rovina. "E questo posto, se chiudo gli occhi, posso immaginare... Potrebbe essere Nampara, senza lussi, senza fronzoli... La casa dove avremmo dovuto stare e dove avremmo cresciuto insieme i nostri figli. Se non fosse successo nulla, forse ora saremmo lì, a letto, a riposare coi nostri bambini e a chiacchierare. Poi riapro gli occhi e capisco di essere a Londra, che non sono più tua moglie e che a casa ho i due gemelli che sono nati dal mio secondo matrimonio con un altro uomo. E che sono Lady Boscawen e non Demelza Poldark di Nampara. E niente, immaginare è una cosa davvero stupida e non dovrei farlo".

Non sapeva cosa dirle, non sapeva se quel piccolo sfogo fosse dovuto alla spossatezza della febbre o ad altro, ma sentirla parlare così, con quel tono aperto e allo stesso tempo confidenziale, lo rendeva felice. Parlare con lei era sempre stato tanto benefico per la sua anima tormentata e aveva sempre trovato estremamente affascinante il suo modo di guardare alla vita. "Invece immaginare è bello! Ti fa vedere tutte le strade che si potevano e si potrebbero percorrere. Non ti piacerebbe tornare indietro? Essere ciò che eravamo ma in un modo nuovo e diverso, partendo da zero?".

Lo sguardo di Demelza si perse nel vuoto a quella domanda che forse le faceva paura. Rimase in silenzio, non rispose e Ross non ebbe il coraggio di porle quella domanda una seconda volta. Avrebbe pagato tutto l'oro del mondo per sapere cosa stesse pensando ma non aveva alcun diritto di chiederglielo.

Calò uno strano silenzio fra loro che fu rotto proprio da Demelza. "I gemelli... Non erano così terribili come diceva prima Clowance. Daisy soffriva di coliche e Demian amava dormire solo in braccio... Ma non erano terribili, erano adorabili".

E a quelle parole, Ross trovò il coraggio di parlarle di cosa aveva visto e cosa lo aveva stranito nel suo rapporto coi suoi figli più piccoli. "A proposito dei gemelli... Demian dorme con te? E Daisy no?".

"Vorrei dormissero con me tutti e due... Ma Daisy non mi vuole! E' così stranamente diversa da Demian... Lui ha bisogno di me di notte, sempre! Lei non ne ha mai avuto!".

Ross scosse la testa. "Pensi che dovrebbero comportarsi allo stesso modo?".

"Beh, sono gemelli".

"Sono due persone con due teste, due cuori e due caratteri diversi. Non devono comportarsi allo stesso modo solo perché son nati lo stesso giorno! Li chiamate spesso 'i gemelli' ma dovresti sforzarti di chiamarli per nome e dare ad ognuno ciò di cui hanno bisogno! Rispetto per la fierezza e l'indipendenza di Daisy e autonomia a Demian! A quattro anni un bambino dovrebbe dormire da solo e non fai il suo bene a non renderlo indipendente! Se lui piange ogni volta che non sei a casa la sera, gli fai del male! E non la risolvi murandoti fra quattro mura con lui ma facendogli vivere serenamente la serata con gli altri membri della vostra famiglia!".

Lei lo guardò storto, forse non troppo felice per quella strana predica. "Da quando sei tanto bravo a fare il padre?".

Ross sospirò. "E' più facile notare gli errori negli altri che i propri! Salta all'occhio, sai? Daisy ti adora ma si irrigidisce perché sei sempre portata ad avvicinarsi più a Demian che a lei. Non vuole smancerie, vuole essere amata a suo modo senza sentirsi soffocata ma tu pretendi da lei che sia come Demian! E' come se, morendo Hugh, tu abbia affidato a tuo figlio il compito di sostituirlo ed è sbagliato! Daisy, ma anche Jeremy e Clowance che sembra gelosa, se ne accorgono di questa cosa! Scusa se te lo faccio notare, scusa se mi intrometto in affari non miei ma sei sempre stata una buona madre e forse correggere qualche piccolo passo falso non lederà questo tuo ruolo ma ti aiuterà a costruire un bel rapporto coi tuoi figli. Tu mi hai insegnato molto con Valentine e sentivo di doverti restituire il favore! So che non è facile essere un genitore solo, ormai lo so bene pure io e negarlo non ti renderà eroica".

Demelza si rannicchiò sotto il suo cappotto, in silenzio. Non sbottò, non si dimostrò offesa e questo faceva parte di lei e del suo carattere dolce e intelligente che sapeva anche accettare le critiche se le riteneva giuste.

Rimase zitta, forse pensando a cosa lui aveva detto e facendosi un esame di coscienza... Si guardarono negli occhi e Ross allungò una mano ad accarezzarle la guancia calda. "Scotti, di nuovo...".

"Ho la febbre" – gli ricordò lei. "Lo avevi dimenticato?".

Ross sorrise per il tono canzonatorio usato in quella domanda. "No... Da piccolo mia madre diceva che tutto passa con un bacio".

Demelza lo guardò con aria di sfida. "Non provarci..." - disse, divertita.

"No, non lo farò. Non oggi almeno...".

"Che vuoi dire?".

Ross fece per rispondere ma Jeremy mugugnò nel sonno, facendoli allontanare di colpo. E ci pensò... Già, che voleva dire? Stava semplicemente scherzando con lei o aveva reso palese un suo desiderio nascosto? Voleva dannatamente baciarla, fare l'amore con lei e, come aveva detto Daisy, sposarla. Di nuovo, anche mille volte se la vita gliene avesse dato l'occasione!

Ma i bimbi si svegliarono e quel discorso rimase come congelato fra loro, per l'ennesima volta.

E fu costretto ancora una volta a zittirsi.

Attesero in silenzio che il buio calmasse gli animi, stretti gli uni agli altri per scaldarsi. E quando la neve e il tramonto fecero piombare la città nelle tenebre e tutto divenne silenzioso, uscirono nelle strade deserte e ricoperte da una fitta nevicata.

Ross tenne stretta Demelza nel suo cappotto, incurante del freddo che lo faceva balbettare. E i bimbi, spauriti ma forse anche eccitati da quella strana giornata, camminarono davanti a loro senza fare storie per stanchezza e freddo.

Demelza camminò a lungo, riuscendo a resistere fino a quando non furono fuori da quel quartiere malmesso, arrivando sulle rive del Tamigi che costeggiavano i quartieri più abbienti. Poi le gambe le cedettero e Ross fu costretto a riprenderla in braccio.

La strinse a se godendo del calore del suo corpo, desiderando portarla nella sua casa per essere lui a prendersene cura, assieme ai loro bambini, come avrebbe dovuto essere da sempre. Ma non poteva e allora affondò il viso fra i suoi capelli rossi per ispirarne il profumo, godette della sua vicinanza e del suo respiro sul suo collo e impresse in lui il suono delle voci dei loro due bambini.

Quando giunsero davanti alla grande casa dei Boscawen, Prudie, il maggiordomo e una schiera di servitori spaventati e preoccupati gli andò incontro, di corsa. Gli strapparono quasi dalle mani Demelza, presero i bambini per accertarsi che stessero bene e poi sparirono, con la sua famiglia, senza quasi dargli il tempo di salutarli.

A fatica Falmouth lo raggiunse all'ingresso, dopo essere stato informato dell'accaduto e del loro ritorno. Ma Ross sentì a malapena i suoi ringraziamenti e le mille domande del Lord su quella disastrosa giornata. Ma non sentiva nulla, Ross... Il suo sguardo era perso e vuoto e non si spostava dalla grande scalinata dove la servitù era sparita portandosi via la sua famiglia. In quel momento si era sentito un marito inerme che è costretto ad assistere al rapimento dei suoi cari senza poter fare niente.

Così si sentiva, defraudato... Doveva essere lui a prendersi cura della sua famiglia! Lui, lui e ancora lui!

E invece doveva stare in silenzio ad osservare che fossero gli altri a svolgere quel compito al suo posto.

Quando uscì di casa, il freddo lo investì di nuovo e si rese conto che il suo cappotto era rimasto addosso a Demelza. Beh, non importava, il freddo avrebbe forse congelato le sue emozioni.

Si incamminò sul viale davanti a casa Boscawen, quello che portava al parco dove giocavano i suoi figli ma improvvisamente una vocina lo chiamò da una delle finestre.

"Signor Poldark!".

Ross alzò gli occhi e vide Jeremy che, aperta una finestra, lo guardava da una delle stanze al primo piano. "Jeremy...".

Il bimbo alzò una mano in segno di saluto. "Buona serata! E grazie di tutto!".

Ross gli sorrise, rispondendo al saluto. E anche se si sentiva solo come un cane, quel saluto di Jeremy bastò a scaldargli il cuore. Quanto avrebbe voluto essere stato lui a metterlo a letto in quei sette anni, quel suo meraviglioso bambino...

E con questo pensiero, in una Londra coperta dalla neve, da solo si incamminò verso casa.


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Capitolo 49
*** Capitolo quarantanove ***


Sprofondata fra i cuscini, Demelza aveva passato tre giorni a letto con la febbre altissima e con Dwight costretto a fare avanti e indietro più volte, chiamato da un preoccupatissimo Lord Falmouth e una apprensiva Lady Alexandra. Entrambi erano ancora convalescenti, ma la preoccupazione per le condizioni di Demelza aveva preso il sopravvento dopo lo spavento per quanto successo al discorso di Pitt.

Al quarto giorno la febbre si era un pò abbassata anche se l'aveva lasciata stanca e spossata. I gemellini stavano per fortuna meglio e l'unico strascico preoccupante che l'influenza aveva lasciato su di loro era una fastidiosa tosse e il poco appetito. Per il resto però erano tornati attivi e vivaci, giocavano e correvano per tutta casa facendo baccano e Demelza aveva potuto così riposare da sola a letto mentre sbolliva la febbre.

Prudie le portava da mangiare a letto e Lady Alexandra passava molte ore da lei, per vedere come stava. Era bello e in un certo senso, Demelza si sentiva per la prima volta una figlia, in quei giorni. Una figlia accudita, rimproverata – perché Falmouth l'aveva ripresa piuttosto accoratamente per il rischio corso nonostante i suoi consigli – amata...

Sapeva di essere stata incosciente, sapeva di aver sottovalutato tanti rischi e si malediceva per il pericolo che aveva inconsapevolmente fatto correre ai suoi bambini. Per fortuna c'era stato Ross... Con un nodo alla gola, mentre Alix le parlava di alcuni abiti che voleva acquistare, si voltò verso la poltrona dove i domestici avevano appoggiato il cappotto con cui lui l'aveva coperta e che le era rimasto addosso quando erano tornati a casa. Si era sentita calda in quel cappotto, protetta... Aveva sentito l'odore di Ross, quell'odore della sua pelle a lei tanto famigliare che risvegliava nella sua mente mille ricordi, molti dei quali assolutamente piacevoli. L'uomo che era stato suo marito e il padre dei suoi primi tre figli l'aveva salvata, aveva salvato i bambini e aveva impedito che succedesse loro qualcosa di irreparabile. E poi l'aveva riportata a casa e lei ricordava solo che, mentre stava fra le sue braccia, aveva sperato che il tragitto durasse per sempre. Non aveva mai avuto coraggio e spavalderia per sperare una cosa del genere ma la febbre alta, evidentemente, aveva rotto ogni indugio in lei. Ma la strada del ritorno non era durata per sempre e così, quando lui l'aveva lasciata fra le braccia del maggiordomo, aveva solo sentito freddo e si era ricordata che la sua casa non era quella di Ross e che lui sarebbe andato altrove e lei sarebbe rimasta lì, dove doveva essere.

"Demelza, mi stai ascoltando?".

La voce di Alix la fece sussultare e lentamente tornò a volgere alla suocera la sua attenzione. Si rannicchiò fra le coperte con un fastidioso mal di testa che cominciava a diventare forte e poi sospirò. "Sì... Sì, certo. L'abito azzurro andrà benissimo per il tè dai Basset".

Alix sospirò, prendendole la mano. "Stai male? Sei pallida, ti sta salendo di nuovo la febbre? Vuoi che chiami di nuovo il dottor Enys?".

Santo cielo, no! Il povero Dwight si stava meritando un posto in Paradiso in quei giorni, col numero di volte che i Boscawen l'avevano chiamato al suo capezzale. "Non è il caso e Dwight non può venire quì tre volte al giorno. Ha altri pazienti oltre me, è periodo di influenza e io devo solo riposare, come ci ha raccomandato ad ogni sua visita. Sto meglio, sto guarendo e sono solo un pò fiacca".

"Sicura?".

"Sicura". Demelza le sorrise, intenerita dal suo stato tanto apprensivo. "Dovreste essere a letto pure voi, Alix. Non state ancora bene e io sono più che accudita dalla mia servitù".

Ma sua suocera non sembrava tranquilla. "Io entro sempre in crisi quando qualcuno sta male. Anche i piccoli malanni dei bambini mi terrorizzano... Dopo la morte di Hugh anche un graffietto mi sembra un pericolo mortale".

Demelza abbassò lo sguardo, pensando a cosa dirle e trovando tanto di se stessa nelle sue parole. Avrebbe voluto raccontarle di Julia e dirle che la capiva, avrebbe voluto dirle mille cose che forse potevano avvicinarle di più e abbattere i muri che ancora rimanevano fra loro per i tanti segreti mai svelati, avrebbe voluto fare tante cose per lei ma non era capace di farne nessuna in quel momento. "Hugh non lo vorrebbe... Lui desidererebbe solo che fossimo felici e che ci godessimo il bello della vita, senza pensare a tutte le sue incognite".

Alix, forse schiacciata anche dal peso degli anni oltre che dalla morte del figlio, sospirò. "Hai ragione, lui vorrebbe così... Ma io ho perso un figlio e in te ho ritrovato una figlia. E se ti ammali, io ho paura e dovrai accettarlo, temo".

Fece un sorrisetto nervoso e Demelza le strinse le mani. "Grazie... Essere figlia di qualcuno che mi ami, è sempre stato il mio unico sogno. E vorrei solo che entrambe vivessimo il rapporto madre-figlia con serenità perché sapete, credo che ce lo meritiamo entrambe!". Sì, se lo meritavano tutte e due perché entrambe avevano sofferto e vissuto l'inferno in terra ed entrambe, ognuna a modo suo, erano due sopravvissute.

"Essere figlia significa anche saper ascoltare i consigli, sai Demelza?" - la rimbeccò Alix, con aria furba di chi prende la palla al balzo, ma allo stesso tempo commossa.

Demelza deglutì. Ecco, arrivava la nuova paternale. "Mi dispiace di essere stata così testarda e sconsiderata. Non mi sarei mai perdonata, se fosse successo qualcosa di male ai bambini".

Alix annuì. "Devi stare attenta, non puoi girare come vuoi in certe zone. C'è gente strana, violenta, crudele. E vede noi come la causa di tutti i loro mali".

Quella frase, detta senza cattiveria, irrigidì però Demelza perché rappresentava appieno il grande divario che mai si sarebbe appianato, fra lei e i Boscawen. Per loro i poveri erano i cattivi, i violenti, gli altri... Per lei erano persone esasperate e disperate che non sapevano come dar da mangiare ai propri figli. "Non è così, non lo penso".

"Cosa?".

"La gente della periferia non è cattiva, è disperata! Alix, quando uno lavora duramente per pochi spiccioli, spaccandosi la schiena, e la sera non ha denaro per comprare cibo per i suoi figli, diventa esasperato. E l'esasperazione porta a cercare un colpevole e noi siamo i colpevoli, in un certo senso, avendo molto più di quello che ci serve. E quel di più lo togliamo agli altri...".

Alix spalancò gli occhi, sorpresa. "Difendi quelle persone? Volevano linciarvi, Demelza! E' stato un miracolo che tu e i bambini, assieme ai politici presenti, ne siate usciti senza danni. Pitt era molto scosso, da quel che mi hanno raccontato. E tutto per delle persone che lui voleva aiutare e che evidentemente non se lo meritavano quell'aiuto".

Inspirò profondamente, dicendo qualcosa che in quella casa non aveva mai detto. "Io so cos'è la fame, Alix! So cosa vuol dire e come ti fa sentire, la sensazione di andare a letto con lo stomaco vuoto che ti si contorce senza soluzione. E per fame, non intendo il languorino che ci prende prima di cena o prima di fare colazione, la vera fame è altra e vi auguro di non provarla mai".

Alix impallidì e la osservò piuttosto accigliata, come facendosi mille domande. Ma non le fece e dopo un attimo di smarrimento, le ristrinse la mano. "Demelza, mi spiace per ciò che hai passato e mi impegnerò affinché non ti capiti più. Sei mia figlia ora ed è mio dovere di madre prendermi cura di te... Il resto non conta, non è mai contato e non voglio che ti senta in obbligo di raccontarmi qualcosa che Hugh non avrebbe voluto. Mi fidavo di lui come mi fido di te. Forse non potrò mai capire gli altri, quelli che vivono diversamente da me, forse la loro rabbia sarà sempre per me incomprensibile ma rispetto ad alcuni anni fa, proprio grazie a te, so molte più cose del mondo che c'è fuori a questa grande casa".

Demelza le sorrise dolcemente, restituendole la stretta sulla mano. "Grazie". Sapeva che non poteva chiedere di più ad Alix perché come era normale che lei capisse cosa fosse la fame a causa delle sue origini, era altrettanto normale che sua suocera non la capisse per lo stesso motivo.

E in quel momento, tutta trafelata, entrò Prudie con della camomilla calda.

Alix si alzò dal letto per lasciarla tranquilla. "Torno nella mia stanza. Bevi la camomilla e poi riposa. Io farò lo stesso".

Prudie, con una smorfia, appoggiò il vassoio sul comodino. "Riposare? Col baccano che fanno i bambini, è un'impresa epica".

Demelza si accigliò. "Hanno pranzato, Prudie?".

"Miss Clowance e Master Jeremy, sì. Le bestioline hanno strillato e basta, hanno giocato col cibo e non hanno ingurgitato niente. Nemmeno la torta al cioccolato!".

Demelza sospirò. L'inappetenza dei gemelli era sempre stata una dura battaglia da combattere e il fatto che nemmeno i dolci li attirassero, significava che non avevano davvero fame e non si trattava di capricci. "Stasera cenerò con loro. Forse non sono abituati a mangiare da soli e a causa dell'influenza, è da giorni che pranzano e cenano senza nessuno della famiglia. Magari la mia presenza potrà aiutare, devono mangiare!".

Alexandra e Prudie scossero la testa. "No, tu stai a letto!" - ordinò sua suocera. "Demelza, non sei ancora guarita e i bambini non possono averla vinta su tutto! Ai miei tempi, venivamo educati dagli istitutori e i genitori venivano di rado a vederci, per verificare la nostra crescita. I nostri piccoli sono amati e accuditi e devono imparare a fare anche senza di noi, se ce n'è necessità! Starai a letto e non accetto repliche! Ricordi il nostro discorso di prima? Una figlia deve ubbidire!".

Demelza abbassò lo sguardo, cullata forse da quella presa di posizione tanto forte e tutelante di sua suocera e allo stesso tempo perplessa perché mai nessuno si era imposto a lei in quel modo, per il suo bene. In effetti era bello sentire di avere una madre ma a questa cosa dell'ubbidienza, non aveva mai pensato... In quel momento si sentì di capire cosa provassero i suoi figli quando, contro la loro volontà, gli imponeva qualcosa. "Va bene, PER STASERA resto quì".

"Ottimo!" - disse Lady Alexandra. E poi dopo averla salutata, fiaccamente tornò nei suoi appartamenti.

Prudie guardò Demelza di sbieco. "Che cos'è questa cosa? Madre? Di chi?".

"Discorso lungo...".

La serva le porse la tazza di camomilla e poi si sedette sul letto accanto a lei. "Stai meglio, ragazza?".

"Non sono più moribonda... E nonostante quello che dice mia suocera, non posso stare a letto troppo a lungo se i bambini fanno disperare col cibo".

Prudie sospirò. "Le bestioline fanno disperare su qualsiasi cosa! Non fartene un cruccio e riposa come ha detto la tua Miss-Madre".

Demelza abbassò lo sguardo, ripensando alle parole di Alix. "Però lei ha ragione, sono stata così avventata e per la mia testa dura, ho fatto correre un grave pericolo ai miei figli. E' difficile ammetterlo ed accettarlo, è difficile capire di non essere più parte del mondo in cui sono nata".

"Tu ne fai ancora parte, hai il cuore nobile e gentile. Anche se indossi abiti e gioielli, tu sei ancora la ragazza di Nampara" – cercò di consolarla Prudie. "Era mio compito impedirti di cambiare, ricordi? E non lo sei".

Demelza le sorrise, grata. Anche Prudie, come Alix, era una madre per lei. "Se non fosse stato per Ross, non so come sarebbe finita".

Prudie fece un sorrisetto sarcastico. "Il Lord della casa lo considera un eroe. E tu?".

Lei alzò le spalle. "Io so che ero tranquilla perché c'era lui e anche se fra noi è successo quello che è successo, ho sentito da subito di potermi fidare".

"E' venuto a trovarti?" - chiese Prudie.

E a quella domanda, Demelza si irrigidì. "No, ovviamente... Credo sia mio dovere scrivergli una lettera di ringraziamento".

"Da quando sei tanto formale, ragazza?".

"Cosa dovrei fare?".

"Cosa vuoi fare?".

Demelza si sentì messa a nudo da quel batti-ribatti con Prudie che, meglio di tutti, conosceva la sua anima e con poche frasi sapeva sempre dove colpirla. Ma nonostante questo, era difficile lasciar andare sentimenti e parole su Ross, difficile capire ed accettare ciò che provava davvero e non riusciva ad ammettere nemmeno a se stessa. Già, cosa voleva? Cosa avrebbe fatto Demelza Carne in quella situazione? E Lady Boscawen? Forse essere Lady Boscawen era la strada più sicura per lei, quella che dietro ad etichette e regole della buona società, era la più tutelante... "Se n'è andato al freddo lasciandomi il suo cappotto. Dovrei farglielo recapitare, questo voglio fare! E scrivere una lettera per ringraziarlo! E' giusto così".

Prudie, poco avvezza però a girar attorno alle questioni, la bloccò subito. "Sì, Lady Boscawen questo dovrebbe fare! Un bel biglietto chiuso con la cera marchiata dallo stemma di famiglia, in cui ringrazia dei servizi resi. Ma tu, ragazza, cosa vuoi?".

"Cosa dovrei volere?" - si spazientì lei, messa con le spalle al muro.

"Non lo so... Che venisse quì per accertarsi delle tue condizioni? L'ha fatto?".

Demelza strinse i pugni sotto le coperte, frustrata. No, non lo aveva fatto e forse era dannatamente difficile ammettere a se stessa che magari le avrebbe fatto piacere. "Sarebbe davvero sconveniente se Ross venisse quì a trovarmi. O se cercasse informazioni su di me! Questa è la camera da letto di una signora".

"Di sua moglie..." - la corresse Prudie.

"Non lo sono più. E gliel'ho ricordato una volta, dicendogli che lo avrei fatto arrestare se avesse provato a venire quì senza invito".

Prudie ridacchiò a quelle parole. "E pensi che il signor Ross si farebbe fermare da una piccola minacciuccia del genere? Avanti ragazza, lo conosci meglio di me".

Demelza alzò le spalle fingendo noncuranza per impedire alla tristezza di prendere il sopravvento. "Evidentemente... ha imparato qual'è il suo posto nel mondo e cosa può o non può fare".

"Si, certo..." - borbottò Prudie alzando gli occhi al cielo. "Lo vorresti quì?" - chiese poi, di nuovo.

Ma Demelza non rispose. Non voleva mentire e non voleva ammettere cosa il suo cuore desiderasse di più. "Vorrei dormire, ora..." - disse solo.

Prudie annuì, accarezzandole la spalla. "Io pure ho bisogno di riposo. Posso prendere qualche ora di permesso per fare una passeggiata LONTANO dai gemelli, questo pomeriggio?".

Demelza le sorrise. "Sono così terribili?".

"Persino il collegio svizzero scapperebbe da loro...".

E a quel punto cedette. "Prenditi pure il pomeriggio di riposo, Prudie. Ci penserà Mary ai bambini".

La serva non se lo fece ripetere due volte. Uscì di corsa e Demelza rimase da sola coi suoi pensieri. Si alzò dal letto e si avvicinò alla poltrona dove era appoggiato il cappotto di Ross che prese in mano e strinse fra le braccia. Vi affondò il viso, inspirò il suo odore e per un attimo sperò che arrivasse. Anche se l'etichetta lo vietava, sperava che lui venisse, che tornasse per vedere se lei stava bene e se i bambini si erano ripresi. Che sfidasse le regole come una volta e se ne fregasse delle conseguenze, per lei... Avrebbe finto di arrabbiarsi se lo avesse fatto, ovviamente! Ma forse non sarebbe stata abbastanza convincente da fregarlo... In fin dei conti però non era venuto in quei giorni e forse era meglio così, per entambi.

In quel momento la porta si aprì di nuovo e Clowance, stavolta, entrò nella stanza. Da quando c'erano stati gli scontri, spesso aveva fatto capolino da lei per cercare coccole e sicuramente era ancora scossa. Appoggiò il cappotto e allargò le braccia per accoglierla.

La bimba si strinse a lei. "Mamma, che fai?".

"Stavo... Stavo piegando il cappotto del Signor Poldark. E' rimasto quì e non voglio che si spiegazzi tutto".

Clowance annuì e insieme alla madre, tornarono a sedersi sul letto. "E' stato gentile a salvarci" – disse la bambina. "Gentile, anche se un pò selvaggio. Non conosce molto le buone maniere, sai?".

Demelza le accarezzò i capelli. "Tesoro, per fortuna lui è così o non sarebbe riuscito a portarci in salvo. Con le buone maniere, in mezzo a una sommossa, si va poco lontano, te lo assicuro".

"Sì, ma da i pugni! Mamma, a Jeremy piace ma non si fa!" - la rimbrottò la piccola.

"Certe volte si fa!" - rispose Demelza, strizzandole l'occhio e attirandola fra le sue braccia fra le coperte. "Vuoi stare quì con me?".

"Sì... Ma se arriva Demian si arrabbierà! Non vuole che prenda il suo posto!".

Demelza la strinse a se. "Non è il posto di Demian, questo letto è il posto di tutti! Suo, tuo e di chiunque vorrà stare un pò con me".

"Demian non la pensa così".

"Lo capirà" – rispose Demelza, ripensando alle parole di Ross sui bambini e rendendosi conto che su molti aspetti, aveva ragione. L'occhio imparziale di un estraneo spesso sapeva vedere meglio di chi in mezzo alle situazioni ci viveva ogni giorno.

"Mamma" – la chiamò Clowance – "Non voglio più andare in quel posto dove c'era Pitt! Ho paura dei poveri".

"Non ti porterò più in quel posto, tranquilla! Ma non devi avere paura delle persone. Poveri o ricchi, non fa differenza. E' l'esasperazione che rende la gente arrabbiata e quelle persone avevano fame e freddo e non siamo stati capaci di aiutarle... Non erano cattivi, Clowance, te lo giuro!".

La piccola tremò. "Sì ma non voglio più tornarci lo stesso".

Demelza la capiva, era normale che reagisse così dopo quanto successo. "Sai che potremmo fare?".

"Cosa?".

"Potresti venire con me e la nonna al centro dei poveri, quando portiamo cibo e vestiti. E' un luogo sicuro, vicino al parco dove giochi e potrai vedere coi tuoi occhi che esistono persone bellissime ovunque. Il bello lo puoi trovare spesso in chi ha meno e se saprai tendere la mano per aiutare, chi non ha nulla ti vorrà bene e ti sarà grato per sempre, col cuore. La gratitudine e l'amicizia sincera spesso arrivano proprio da chi ha meno, ricordatelo".

Clowance non parve molto convinta. "Venire al centro dei poveri? Ma mamma, non so se voglio".

Demelza non si fece scoraggiare perché era soprattutto Clowance quella che doveva capire e far suo tutto il mondo e non solo la sua piccola oasi di ricchezza che si era costruita attorno da quando erano diventati parte del casato dei Boscawen. "Puoi aiutarmi, sai? A cucire i vestiti, a trovare le persone a cui stanno meglio... Hai così tanto gusto e potrai insegnare alle bambine che vengono al centro, come abbinare i vestiti".

"Davvero?" - chiese Clowance, improvvisamente interessata.

Demelza sorrise, soddisfatta. Forse darle un compito che le piaceva e farla sentire importante in quel progetto, poteva aiutarla a vivere quella nuova esperienza senza ansie, facendole imparare qualcosa e allo stesso tempo aprirle nuovi orizzonti. Forse aveva trovato la strada giusta... "Vuoi essere la nuova socia mia e della nonna?".

Clowance sorrise, rannicchiandosi fra le sue braccia. "Sì, voglio! Se è per aiutarvi coi vestiti, voglio! I poveri si vestono così male, hanno bisogno di chi insegni loro come abbinare i colori!".

Beh, era un inizio, no? E con questo pensiero, Demelza sprofondò soddisfatta fra le coperte, sentendosi più leggera.


...


Ross e Valentine stavano inseguendo per tutta casa Tannen che, desideroso di giocare, aveva rubato i loro vestiti appena lavati e piegati da Jane Gimlet, quando qualcuno bussò alla porta della loro casa.

John andò ad aprire e poco dopo dopo, in mezzo a quel baccano, comparve a sorpresa la grossa sagoma di Prudie. "Avete ospiti, signore" – mormorò il signor Gimlet, gentilmente.

Ross, steso per terra per recuperare il cane che si era rannicchiato sotto un mobile, si alzò di scatto mentre Valentine rideva. "Prudie?". Il suo sguardo divenne preoccupato perché di certo la sua visita lì non prometteva niente di buono. "Che ci fai quì? E' successo qualcosa? Come mi hai trovato?".

"Ho chiesto il vostro indirizzo al dottor Enys e poi sono venuta a fare visita".

Valentine la salutò, allegramente. "La domestica di Lady Boscawen? Come sta la vostra signora?".

"Bene, in via di guarigione. Sono venuta a parlare con il tuo papà" – rispose Prudie, sbrigativamente, stufa di avere attorno bambini ovunque andasse.

Ross si accigliò, facendo segno ai Gimlet di portare via cane e bambino. E quando furono soli, la invitò a sedersi sul divano. "E' successo qualcosa?".

Prudie osservò il corridoio dove era sparito Valentine coi domestici. "Carino, edcato e simpatico. Non un pestifero come le bestioline! Voi avete fortune che non meritate mentre la povera Prudie ha sfortune che non merita affatto".

Ma Ross era poco in vena di chiacchiere. "Perché sei quì? Che è successo? Demelza e i bambini stanno ancora male?".

Prudie, come al suo solito, andò subito al sodo. "La signora ha ancora la febbre... Perché il signor-zuccone non è venuto a trovarla? Abbiamo il vostro cappotto, come scusa per venire era ottima!".

Ross abbassò lo sguardo, impacciato. Avrebbe tanto voluto andare da lei e dai suoi figli per vedere come stavano ma sapeva anche che forse questo gesto avrebbe potuto mettere in difficoltà Demelza coi Boscawen. Come avrebbero interpretato quella confidenza? In nulla di buono, per lei... E allora era rimasto a casa, cullato dall'idea che erano tutti accuditi al meglio e che fare il loro bene significava stare lontano. "Prudie, sai che non posso... E lei non vorrebbe".

Prudie parve spazientirsi. "Oh, la signora dice una cosa e ne vuole cento altre! E voi, monello della Cornovaglia? Da quando siete diventato senza spina dorsale da star qua a rimuginare invece di fare ciò che volete? Il Ross Poldark che conoscevo io, se voleva fare qualcosa, la faceva! Non stava chiuso in casa ad inseguire un cane dispettoso".

"Il Ross Poldark che conoscevi tu ha fatto del male a molte persone e ora pensa, prima di agire!".

Prudie lo fissò, scettica! "Certo, certo... Come se fosse vero! Alzate il sedere e andate da lei! Avete pensato abbasatanza e lo avete fatto MALE! Quindi agite, anche se fate disastri, ne fate comunque meno di quando state fermo a pensare!".

Ross la guardò storto ma allo stesso tempo divertito. Quanto gli erano mancati i modi sbrigativi e poco ortodossi di Prudie? "Ma lei si arrabbierebbe...".

"Forse. Ma ha la febbre e non è in forze per mordere" – rispose, sarcastica.

Ross sembrava ancora titubante però. "Lord Falmouth non ne sarà contento".

Prudie si alzò in piedi, spazientita. "Avanti, non lo saprà! E' ancora a letto con la gotta e ci sono entrate nascoste al palazzo, da dove intrufolarsi senza essere visti. Farà buio fra un pò e la brava Prudie che ha tutte le chiavi, potrà farvi entrare senza che vi notino".

"Ma...".

"Ma, niente! Volevate il mio aiuto! Ve lo sto dando, Giuda! Usare cuore e coraggio e farsi guidare dalle chiavi magiche di Prudie che aprono tutte le porte, è un ottimo aiuto! Alzate il sedere da quel divano e andate dove DOVRESTE ESSERE! Dalla donna che volete e accanto ai vostri figli. Lei forse si arrabbierà di facciata, ma ne sarà contenta".

Ross scosse la testa, mascherando un sorriso. "Mi caccerò nei guai".

"Forse. E' mai stato un problema?".

E a quel punto Ross decise che essere un codardo e un filosofo non faceva per lui. E di ascoltare i consigli sinceri di Prudie come avrebbe dovuto fare già anni prima quando gli aveva detto senza mezzi termini che stava sbagliando. "No, hai ragione, non lo è stato mai! Andiamo!" - ordinò, col cipiglio deciso di una volta, alzandosi in piedi di scatto.

E dopo aver avvertito i Gimlet che sarebbe uscito, Ross seguì Prudie. La sua serva aveva ragione, il Ross di Nampara sarebbe corso dalla sua donna e avrebbe buttato giù a calci le porte per raggiungerla. E lui voleva essere quel Ross, forse con un pò di maturità in più. Ma basta star fermo, era ora di agire e combattere per avere accanto di nuovo la donna che amava. E se per averla doveva scardinare le porte del suo cuore e la grande dimora dei Boscawen, lo avrebbe fatto! Con ogni mezzo!

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Capitolo 50
*** Capitolo cinquanta ***


Per quanto Prudie stesse prendendo decisamente il sopravvento, Ross alla fine si era imposto e aveva deciso di evitare di entrare come un ladro, di nascosto, nella grande residenza dei Boscawen usando le entrate segrete del giardino. Certo, era sera, Londra era avvolta dal gelo e dalla nebbia e non c'era in giro anima viva ma se fosse entrato in casa di nascosto e fosse stato trovato in camera di Lady Boscawen da qualche domestica, il tutto si sarebbe tramutato in un grandissimo scandalo difficile da gestire soprattutto per Demelza. Meglio entrare dalla porta principale con Prudie, raccontare con la sua complicità una qualche scusa a quella visita serale se fosse stato visto e essere oggetto di pettegolezzi per qualche giorno, al più, piuttosto che dar vita a un evento scandalistico che avrebbe potuto mettere nei guai Demelza e far scoprire al mondo il loro legame e le sue origini che Falmouth ancora non conosceva.

Quando entrarono, il grande orologio a pendolo del salone principale batteva le sette. La casa era avvolta dalla penombra e solo i camini accesi per scaldare gli ambienti, gettavano ombre sui locali deserti. Infreddolito, a Ross sembrò di rinascere appena sentito quel tepore e quel senso di pace.

Senso di pace che fu però interrotto perché, appena imboccato il corridoio, lui e Prudie furono investiti da schiamazzi e pianti di bambini. Le stanze da ricevimento e i grandi saloni del piano terra erano chiusi e non vi era luce eccetto che nella camera da pranzo dove avevano cenato la sera di Natale.

Prudie sbuffò. "Santo cielo, siamo arrivati all'ora sbagliata! Ritardavamo un attimo e questo strazio se lo sarebbe dovuta sorbire solo Mary, stasera...".

"Che succede?".

Prudie alzò gli occhi al cielo, ciabattando nervosamente verso la sala da pranzo. "Le bestioline sono demoniache! E ora che sono state malate, sono pure peggio! Non mangiano, piangono e fanno mille capricci solo per il gusto di far ammattire me e tutti quelli che hanno a che fare con loro all'ora di mangiare!".

Ross parve divertito dalla cosa, soprattutto perché i gemellini forse erano gli unici esseri viventi al mondo capaci di far lavorare Prudie come si deve. Incuriosito, si avvicinò alla stanza da pranzo e vi trovò tutti e quattro i bambini seduti a tavola, Jeremy e Clowance da un lato, Demian a capotavola e Daisy all'altro lato. E la povera Mary che, indaffarata, cercava inutilmente con la forza di far aprire la bocca a Demian che di tutta risposta si era coperto le labbra con le manine.

La stanza era invasa da un invitante profumo di brodo, un servitore andava e veniva dalla cucina portando diverse pietanze e sulla tavola c'erano pane, salumi, dell'arrosto e un grosso piatto con una torta.

Appena Jeremy e Clowance lo videro, parvero sorpresi. "Signor Poldark?".

Prudie intervenne subito per cercare di spiegare la situazione a loro e agli increduli domestici. "L'ho incontrato per strada mentre tornavo a casa da sola, nella nebbia. Si è offerto di accompagnarmi e ne approfitto per restituirgli il suo cappotto che è rimasto addosso a vostra madre quando vi ha riportati a casa dal discorso di Pitt".

"Mamma dorme, ha la febbre" – disse subito Clowance.

Ross annuì. "Beh, tanto che sono quì, mi farebbe piacere farle un saluto".

La bimba spalancò gli occhi. "In camera? Non si può, non si fa, non è giusto".

E Ross per poco non scoppiò a ridere perché nonostante i tanti muri fra loro e l'indiscussa aristocraticità di Clowance, lei in quel momento gli ricordava incredibilmente Jud. "Solo un breve saluto, dal corridoio, mentre Prudie mi prende il cappotto. Poi andrò via subito".

Jeremy, un pò pensieroso, annuì. Non era molto convinto della cosa, la trovava sicuramente strana ma educatamente decise di tacere e di lasciare la questione in mano agli adulti. "Mamma voleva scrivervi una lettera di ringraziamenti. Ora potrà così ringraziarvi di persona".

Prudie sospirò sollevata, la situazione si stava rivelando meno difficoltosa del previsto, ma ci pensò Daisy ad animare il momento, spingendo via Mary che tentava di forzarla a mandar giù un cucchiaio di brodo. "Noooo".

Ross le si avvicinò, la sua piccola socia in affari loschi sembrava davvero contrariata e imbronciata quella sera. "Che succede?".

"Non ho fame e questa qua vuole che mangio e se mangio mi viene mal di pancia e se mi viene mal di pancia mi viene la febbre e quindi Mary è cattiva!".

Ross osservò di sbieco la povera Mary che, più che cattiva, gli pareva infinitamente stanca ed esaurita. Poi osservò quell'invitante brodo che dal profumo doveva essere stato fatto con carne di prima scelta di cui alcuni pezzi vi galleggiavano dentro assieme a dadini di patate e carote. "Sembra buono e il brodo non fa venire la febbre, la cura".

"Questo ci fa ammalare!" - esclamò Demian, perorando la causa della gemella.

E Daisy in tutta risposta, innervosita dalle insistenze di Mary, prese il piatto fissandola con astio, pronta a lanciarlo. Ma Prudie la bloccò, dimostrando di conoscere bene le sue mosse e saperle prevedere. "Provaci e ti sculaccio tutta sera!".

"Ma uffa! Prudie tu dovevi stare in vacanza tutta sera, lo ha detto la mamma!".

Dopo quello sfogo, Daisy le fece la linguaccia e si voltò dandole le spalle e Ross decise di intervenire, forse rapito da quell'aria di casa, di quotidianità e di calore che si respirava in quella stanza nonostante – o forse soprattutto – grazie ai capricci dei bambini. Quindi strizzò l'occhio a Prudie e poi fece lo stesso con Jeremy e Clowance che ridacchiavano. "Non è vero che il brodo fa ammalare e non è necessario lanciare piatti addosso alle persone. Sapete, è il brodo più invitante che ho visto in tutta la mia vita. Quando ero piccolo, avevo una governante orribile che non sapeva cucinare e il brodo non me lo faceva mica con cose buone come queste, lo faceva con broccoli e spinaci ed era verde e dall'odore che faceva contorcere il mio stomaco".

Mentre Prudie lo guardava con la faccia tipica di quando, da piccolo, voleva prenderlo a sculacciate, Demian parve colpito da quel triste racconto della sua infanzia. Gli spinse vicino il suo piatto, in un atto APPARENTEMENTE molto gentile e disinteressato, ma soprattutto furbo. "Tieni signor Poldark, puoi bere il mio".

Ross osservò il bambino-bambolotto che, sotto i suoi lunghi capelli biondi, il visino paffuto e i vestitini da ehm... bambolotto, nascondeva un temperamento da canaglia come la sua degna gemella. "Ti ringrazio ma ho già cenato. Credo dovresti mangiarlo tu, come io una volta mangiavo il mio di brodo".

"Non ho fame!".

"Nemmeno io avevo fame, ma lo mangiavo lo stesso. I veri uomini e le vere donne che poi diventano eroi, devono saper fare tutto, anche mangiare quando non hanno appetito. E' una cosa... eroica".

Daisy si accigliò. "Che vuol dire? Cos'è un eroe eroico?".

Jeremy ridacchiò perché aveva ben capito che li aveva in pugno e aveva catturato la loro attenzione con astuzia, senza che se ne rendessero conto.

"Un eroe è una persona forte, ammirata da tutti, che sa fare sempre tutto. Ma per esserlo, bisogna saper fare anche quello che non ci piace".

"Tu sei un eroe?" - chiese Daisy.

"Certo, ovvio!".

La bimba prese un profondo respiro, afferrò il suo cucchiaio e dopo averlo riempito con del brodo e un pezzo di patata, lo mando giù, facendo poi cadere il cucchiaio nel piatto. "Fatto! Ora sono anche io un eroe!".

Ross la guardò con aria di sfida che lei ricambiò. "Tutto quì quello che sai fare?".

Prudie fissò entrambi in un misto fra stupore ed ammirazione. Nessuno aveva mai agito così coi gemelli, ottenendo senza urlare o sbraitare o sculacciare.

Daisy, raccogliendo la sfida, mandò giù altre cucchiaiate di cibo, facendo fatica a causa del scarso appetito, ma senza lamentarsi. E guardando la sorella e desideroso di non essere da meno, Demian fece altrettanto. In pochi minuti i loro piatti furono vuoti e tutti, a parte lui che si godeva il suo momento di trionfo, li guardarono con stupore.

"Ora sono un eroe anche io?" - chiese Demian.

"Certo! Se mangiassi anche la torta, ora, saresti un super-eroe".

Daisy si imbronciò, dondolando le gambette a penzoloni dalla sedia. "No, basta! Non ho fame".

Ross osservò quella invitante torta al cioccolato, rendendosi conto che lui l'avrebbe mangiata volentieri. Ma se i gemelli non la volevamo, probabilmente erano davvero inappetenti e soprattutto, poco golosi. O più semplicemente consapevoli di avere a disposizione cibi del genere ogni giorno e quindi di potersi permettere di rifiutarli, se non erano più che affamati. Pensò ai figli dei suoi minatori, che cibi del genere li sognavano di notte e li avrebbero mangiati anche con lo stomaco in cancrena, se li avessero avuti a disposizione sulla loro tavola. Ma era ingiusto fare quel genere di paragoni con quei bambini che aveva davanti, la loro ricchezza non era una loro colpa e per fortuna i suoi figli avevano avuto ogni giorno della loro vita cibo e cure a disposizione, tutti per loro. E di questo doveva essere grato, senza filosofeggiarci su.

Prudie gli poggiò la mano sulla spalla. "Andiamo dalla signora? Si sta facendo tardi".

Ross annuì e salutò i bambini che, ancora a tavola, giocavano e parlottavano fra loro mentre i domestici iniziavano a sparecchiare. E poi si incamminò nel corridoio con Prudie, verso la grande scalinata che portava al piano superiore, dove c'erano le stanze da letto.

"Sono capricciosi e non hanno mai fame. Specialmente dopo l'influenza. E poi sono abituati a mangiare con la nonna, lo zio e la signora, ma sono tutti a letto con la febbre e i bambini, da soli, fanno dannare come il demonio" – si lamentò Prudie.

Ross sospirò. "Beh, è anche ora che capiscano che non sempre tutti possono essere a loro disposizione... E che si comportino bene anche quando la situazione a loro non piace. Cenare insieme è sicuramente bello ma devono anche saper accettare che non sempre si può".

Prudie annuì. "Siete stato bravo prima, con le bestioline! Nonostante i commenti al mio brodo che vi guariva da ogni malanno!".

"Quel brodo era orribile, Prudie... Sono un sopravvissuto".

Prudie lo guardò malissimo, scuotendo il capo. "Comunque, hanno mangiato e Dio solo sa come ci siate riuscito! Non è facile fregare i gemelli e voi sembrate riuscirci senza problemi. Fra canaglie ci si intende e loro sembrano piacervi".

Ross sorrise. "Beh, mi piacciono, sono bambini... particolari".

"Sono i figli del tenente Armitage..." - rispose Prudie, sibillina.

Ross alzò le spalle. "Beh, non è colpa loro" – esclamò, con la sua migliore faccia da canaglia.

Prudie ridacchiò a quella risposta. Salirono le scale e Ross si guardò attorno in quell'ambiente elegante, in quel corridoio percorso da fini tappeti persiani e pieno di antichi quadri di valore e per un attimo si sentì spaesato e immeritevole di essere lì. Hugh aveva dato tantissimo in termini materiali a Demelza, come poteva lui reggere il paragone? Non che Demelza ambisse alla ricchezza, sapeva che per lei erano altre le cose importanti, ma comunque lui dal paragone con Hugh ne usciva decisamente perdente.

"Siamo arrivati". Prudie si fermò davanti a una grande porta bianca, bussò e la voce di Demelza la invitò ad entrare.

Ross deglutì, nervoso. Finalmente era da lei e santo cielo, quanto l'aveva desiderato! Era lì, così vicino, in quelle stanze sicuramente a lui precluse e ora... ora l'avrebbe rivista.

Prudie gli lanciò uno sguardo eloquente che voleva essere di affetto, raccomandazione ed incoraggiamento e poi si congedò, dicendo che avrebbe affrontato la lavata di capo della sua padrona la mattina successiva.

Ross aprì lentamente la porta ed entrò in quella elegante stanza che in quei mesi spesso aveva cercato di immaginare, senza successo. Rimase a bocca aperta per la sua ampiezza, l'eleganza raffinata ma di buon gusto dei mobili, le pareti color pastello, i grandi e morbidi tappeti per terra, la toeletta a lato, la spinetta a un altro angolo, gli armadi di fine fattura, le grandi finestre ornate da tende di seta e il letto grande, morbido e sicuramente comodo al centro della parete che dava sul giardino.

Appena Demelza lo vide, si mise ritta a sedere, con gli occhi sbarrati per la sorpresa. “Come hai fatto ad entrare qui?”.

Ross la osservò in un misto di sollievo e preoccupazione per il pallore evidente del suo viso. La sua voce era flebile e debole, il suo viso stanco e in quel letto grande e lussuoso all'interno di quella camera tanto grande ed imponente, sembrava ancora più piccola e indifesa. Prudie gli aveva detto che stava ancora male ma non immaginava che le sue condizioni fossero ancora tanto critiche. Non era da Demelza metterci tanto per guarire... “Chiedilo a Prudie, è stata lei a cercarmi e a chiedermi di venire qui a farti visita”.

Lei scosse la testa, esasperata. “Mi aveva chiesto mezza giornata di riposo e ora capisco perché... Dovrò parlarci per bene, con Prudie! Non dovevi venire qui, non in questa casa, non in questa stanza e non di sera senza un invito ufficiale! Non scherzavo quando te l'ho detto!” - disse, sprofondando stancamente nel cuscino. “Ma avrei dovuto comunque scriverti per ringraziarti, hai salvato la vita a me e ai bambini... Almeno potrò farlo di persona” - concluse, forse arrendendosi all'idea che la sua presenza lì era reale e che non poteva farci molto.

Ross sussultò. Sembrava così fredda, distante... Immaginava che non l'avrebbe accolto a braccia aperte ma quell'atteggiamento che spesso Demelza usava quando si incontravano e lei si trovava in difficoltà ad avere a che fare con lui, riusciva ancora a spiazzarlo e ferirlo, nonostante ne capisse le motivazioni. E si chiese se Prudie non si fosse sbagliata e se davvero Demelza non lo volesse avere fra i piedi più del necessario. “Non devi ringraziarmi, sei mia moglie e...”.

Non sono tua moglie e non lo sono mai stata nemmeno in passato, visto che hai deciso di annullare il nostro matrimonio”.

Colpito da quel tono freddo che Demelza sfoderava sempre quando si trovavano a parlare del loro matrimonio, Ross deglutì. “Ciò che dice la legge e ciò che un uomo ha nel cuore, sono cose molto differenti. Eri in pericolo e lo erano i nostri bambini e qualsiasi padre e marito avrebbe fatto quello che ho fatto io”.

Demelza scosse la testa. “Ciò che dice la legge è ciò che conta agli occhi del mondo, Ross. Per i bambini e la loro posizione, almeno... Li hai resi orfani, senza padre, figli di nessuno. E sei sparito, non sei nemmeno venuto a conoscere Clowance, quando è nata. Per la legge non sono mai stata tua moglie e i bambini non sono i tuoi figli. Sono stata la moglie di Hugh Armitage e ora sono la sua vedova. E questa è la nostra stanza da letto e tu non dovresti essere quì”.

Come poteva controbattere? Non poteva perché lei in effetti aveva ragione su tutta la linea e anche se ultimamente i rapporti fra loro erano migliorati, il passato che li aveva lacerati e divisi esisteva e non poteva essere cambiato, coi suoi devastanti effetti. “Li conosco i miei errori, tutti quanti. E so che non dovrei essere qui ma siccome mi conosci meglio di chiunque altro, sai anche che spesso sono testardo, agisco d'impulso e amo cacciarmi nei guai. Sono stato un agnellino troppo tempo e Prudie mi ha dato la spinta per uscire dal letargo. Non prendertela con lei, non c'entra. Ero preoccupato per te e non avevo il coraggio di disturbarti e di venire qui, ma era una cosa che desideravo comunque fare”.

Demelza sospirò, apparentemente stanca e meno rabbiosa. “Sei qui a Londra per un fine ben preciso e io voglio sperare che tu ti sappia comportare al meglio per perseguirlo. Venire qui non è stato un gesto intelligente e spero non ne consegua nulla, ma forse non è poi così grave perché tu a Lord Falmouth piaci e – accidenti a lui – troverebbe la tua visita qui interessante, se lo sapesse. Ora che sei qui comunque, posso ringraziarti di persona senza scriverti un formale biglietto e assicurarti che sono accudita, amata, che ho chi si prende cura di me e che presto sarò guarita dalla febbre. Ricordo cosa mi hai detto a Natale e ho deciso di credere che per te sia stato difficile ma più di questo, non posso dirti, non posso darti. Posso solo...”. Prese un profondo respiro, come se parlare di quelle cose per lei fosse infinitamente difficile. “Ross, li hai salvati, ci hai salvati, MI hai salvata. Ti sei preso cura dei bambini e anche se solo per poche ore, ci sei stato. Come un padre dovrebbe esserci sempre, hai ragione. Accontentati di quel momento che abbiamo passato insieme come faccio io, accontentati del mio grazie perché io non posso darti altro e non sentirti in obbligo verso di noi perché non ne hai motivo. Vivi e lavora al meglio per i motivi che ti hanno spinto qui e fa come se non esistessimo, non metterti nei guai per me e per noi perché stiamo bene, siamo a casa e siamo circondati dalla nostra famiglia”.

Questa non è la tua casa. E lo sai anche tu!” - la bloccò, deciso.

Lei scosse la testa. “Non lo era ma lo è, adesso. Piena di ricordi, piena d'amore, con la famiglia che legittimamente mi ha accolta. E' il luogo dove i bambini stanno crescendo e stanno diventando uomini e donne, dove stanno formando la loro personalità e le loro abitudini e dove tutti noi abbiamo le nostre certezze. E' la casa dove sono nati Demian e Daisy, proprio qui, in questa stanza... Io sono a casa ora, forse la prima vera casa davvero mia da quando sono nata”.

Ross deglutì perché faceva male sentirle dire quelle cose di certo vere ma a cui non credeva, non del tutto. Stava mentendo, a lui e soprattutto a se stessa. “E Nampara?”.

Lo sguardo di Demelza si fece triste. “Nampara è la casa dei Poldark, tua e di Valentine. Non la mia, non di Jeremy e non di Clowance”.

Tu sei una Poldark! E lo sono anche i bambini” - rispose, deciso a tallonarla per farla cedere. “Quel giorno, quando abbiamo firmato quel dannato documento, io non riuscivo a capire davvero cosa stessi facendo e gli effetti che quell'atto avrebbe avuto su tutti noi. E' vero, tu hai ragione, quello che dice la legge è quello che conta agli occhi della società. Ma per me, MAI, è stato così. Mai quell'atto vi ha resi estranei per me. Ai miei occhi siete stati sempre Poldark e sempre lo sarete. E Nampara era la nostra casa, tua e mia e lo sarebbe stata per sempre perché se tu non te ne fossi andata, io non avrei mai permesso che qualcosa o qualcuno vi portasse via da lì. Non puoi dire che non fosse casa tua, era la casa dove abbiamo riso insieme, dove ci siamo amati, dove abbiamo anche litigato e dove sono nati i nostri tre figli: Julia, Jeremy e Clowance. La tua casa... Tua quanto lo è ora questa. E lo sai!”.

Demelza abbassò lo sguardo, stringendo nervosamente le coperte. “Cosa vuoi da me, Ross? Perché sei qui? Perché mi tormenti così parlando di un passato che non esiste più? Sono cambiata, non sono più quella persona che viveva a Nampara e io ora vivo qui e faccio parte di questa famiglia... E non ci rinuncerò, non rinuncerò a tutto questo... E non parlo della ricchezza e del denaro, dei gioielli e dei bei vestiti. Parlo della famiglia, dell'affetto e del sostegno costante, del fare le cose insieme, dell'armonia, del gestire i bambini con qualcuno, del ridere dei loro disastri e gioire delle loro conquiste. Jeremy e Clowance qui hanno trovato un padre che li ha amati, uno zio che li adora e che per loro a volte rinuncia ai suoi incontri politici se c'è qualcosa di importante che li riguarda, di una nonna che vive solo per vederli e di due fratellini arrivati a far loro compagnia e ad essere compagni e sostegni nella loro vita futura”.

Ross si morse il labbro, avvertendo chiaramente un rimprovero non troppo velato per le sue tante mancanze di marito e padre. “So che spesso non c'ero, so che ti lasciavo sola per inseguire mille cose e so che forse non sono stato capace di dimostrarti appieno quanto ti amavo. Ma non farei mai del male a te e ai bambini, se fossimo insieme cercherei di fare del mio meglio per voi e forse non sarò mai bravo quanto questi Boscawen ma... pur con tante cose da fare, con tanti problemi da risolvere, io cercherei di fare il possibile per esserci e non ripetere i miei errori del passato. Sai, ho sempre un po' odiato queste nobili ed antiche famiglie londinesi ma a Natale mi avete insegnato, tu e loro, che vivere l'amore di una famiglia è quanto di più bello esista per un uomo. Io non ho mai avuto nulla del genere, nulla di lontanamente paragonabile alla magia di quella sera, che hai saputo creare qui coi bambini. Siete una bella famiglia ed è doloroso sapere di non farne più parte”.

Demelza gli sorrise. “Ti ringrazio. Mi fa piacere che Natale sia servito a questo e sono sicura che sei un padre molto migliore di quanto tu non lo sia stato in passato. E per il resto, starò bene, sta tranquillo. Sono circondata da servitori, ho la mia famiglia vicino, i miei bambini. Sono coccolata e viziata e come puoi vedere, ho tutto quello che mi serve, guarirò presto. Del resto non ha senso parlarne, non ne ho la forza”.

So che starai bene e so che stanno bene anche Jeremy e Clowance. Li ho visti poco fa, quando sono arrivato, mentre cenavano”.

Demelza spalancò gli occhi. “Loro ti hanno visto?”.

Sì. I gemellini stavano facendo baccano e non volevano mangiare, ma sono riuscito a farli cenare e a far svuotare loro il piatto di zuppa!”.

Demelza sembrò sorpresa. “Cosa? Come hai fatto? Quando non vogliono mangiare e dicono NO, non riesce nessuno a fargli cambiare idea. Nemmeno io, è una battaglia persa con loro”.

Ross ridacchiò. “Io ci sono riuscito”.

E inaspettatamente lei rise, apparentemente più rilassata per la piega che aveva preso la loro conversazione. “Incredibile... Ti ringrazio anche per questo, allora!”.

Ross si trovò ad arrossire senza capirne il motivo, per quel ringraziamento. Poi si guardò attorno, notando qualcosa che a una prima occhiata gli era sfuggita. “E quelli?” - chiese, indicando un disordinato mucchio di giochi ammassati sotto a una delle finestre. “Credevo che i bambini vivessero con le regole della buona educazione di principi e principessine. E che Lady Boscawen ci tenesse a fargliele rispettare”.

Demelza guardò i giocattoli, arrossendo a sua volta. “I bambini sono liberi di giocare e fare baccano. Qui, nelle loro stanze e nei corridoi. L'importante è che siano educati e rispettosi di chi lavora per noi. Fuori voglio che seguano l'etichetta e si comportino bene ma in casa non ho regole così diverse da quelle che avevo a Nampara. E in questa stanza, con me, dorme Demian, molti di questi giocattoli sono suoi. Fra poco, dopo che gli avranno fatto il bagno, arriverà qui per dormire”.

Ross alzò un sopracciglio, deciso a tormentarla un po' con sarcasmo. “Ancora?”.

Lei, punta sul vivo, lo guardò con aria di sfida. “Ho la febbre e l'ha avuta anche lui. Non è decisamente il momento di affrontare questo discorso”.

Ross sospirò. “E quando sarai guarita? Che scusa troverai?”.

Demelza, colpita sul viso e decisamente affondata, sorrise, arrendendosi dolcemente. “Demian dorme con me da quando è nato. Dal primo vagito mi si è aggrappato addosso e non sono ancora riuscita a staccarlo. Hugh mi disse di farlo fare, di tenerlo vicino finché lui ne avesse avuto bisogno e da quando è morto... Demian ha preso il suo posto, in un certo senso hai ragione tu. E' il mio piccolo principe e la mia più grande debolezza...”.

Ross si accigliò, giudicava sbagliato quell'atteggiamento che non avrebbe aiutato Demian a rendersi indipendente e soprattutto provocava crisi di gelosia nei suoi fratelli, per quel rapporto esclusivo con la madre. Clowance ne soffriva e probabilmente anche Daisy, anche se lo dava a vedere in modo più sottile e meno evidente della sorella. Ma non disse più nulla sull'argomento perché sapeva che Demelza ci avrebbe riflettuto e ne sarebbe venuta a capo da sola e inoltre, non poteva intromettersi più di tanto nel suo rapporto coi figli. “Capisco”.

Mi fa piacere” - disse lei con dolcezza e con un sorriso, finalmente sincero e caldo, sul viso.

Nonostante tutto, nonostante avesse il cuore a pezzi, Ross non poté non sorridere a sua volta. Santo cielo, avrebbe dato tutto ciò che aveva per riaverla con se. La sua famiglia, LEI era la sua famiglia. “Posso farti una domanda? Una sola e poi me ne andrò”.

Dimmi”.

Hai detto che Hugh Armitage ti amava e io ti credo. Ma tu... tu lo amavi?”.

A quella domanda, Demelza spalancò gli occhi e si irrigidì. “Non credo che siano affari tuoi e parlarne non è nei piani per la serata. Scusa, ma parlare CON TE, di LUI, in questa stanza, è troppo per me. E non sono affari tuoi! Se ti chiedi se l'ho sposato per disperazione e per il suo denaro comunque, sappi che sei fuori strada. Molti, conoscendo le mie origini, potrebbero pensarlo ma spero non sia il tuo caso”.

Non penserei mai nulla del genere e lo sai benissimo. Non te lo chiedo per questo. Ma vedi, a volte scambiamo per amore dei sentimenti simili ma che con l'amore non c'entrano nulla... Nessuno lo sa meglio di me”.

Esistono tanti tipi di amore Ross, tutti ugualmente importanti”.

Non hai risposto alla mia domanda, però”.

Demelza si morse il labbro, indecisa su come rispondere. Avrebbe potuto chiamare le sue guardie e farlo sbattere fuori casa senza troppe cerimonie, avrebbe potuto schiaffeggiarlo, avrebbe potuto urlargli di andarsene. Eppure, stranamente, rispose. “Prudie, una volta, mi ha fatto la stessa domanda, sai? Il giorno del mio matrimonio con Hugh”.

E che le hai risposto?”.

E inaspettatamente, lei rispose. “Tu sei stato come il fuoco, totalizzante, che ti cattura e rende tutto il resto troppo piccolo e insignificante. E come il fuoco, tu hai saputo bruciare e far male. Hugh è stato il tepore piacevole di un camino che riscalda la tua stanza in una notte d'inverno. Un calore che non brucia, che non ti cattura come il fuoco ma che ti fa star bene. Io sono stata felice con lui, mi sono sentita amata e al sicuro, si è preso cura di tutti noi e ci ha voluto bene senza riserve. E' arrivato in un momento difficilissimo della mia vita e finché siamo stati insieme, è stato il principe azzurro perfetto per quel momento così particolare della mia esistenza. Io con lui ho riso, mi sono divertita, sono stata la ragazza spensierata che non ho mai potuto essere, quella che viveva con leggerezza perché non c'erano problemi incombenti su di me ad ogni ora di ogni giorno. Anche la sua malattia, benché ne fossimo tutti consapevoli, lui era riuscito a tenerla lontana da noi e dalla serenità che eravamo riusciti a costruire insieme. E' stato bello, una favola e lui farà sempre parte di me perché in quel momento della mia vita io avevo bisogno di lui e lui si è impresso nel mio cuore e nella mia mente. E' stato mio marito, il padre dei miei figli, il mio compagno di viaggi ed avventure, di cavalcate e di presenze forzate a balli a cui non volevamo partecipare, l'uomo che mi ha donato un tigrotto da accarezzare e con cui passeggiavo al parco di notte quando i nostri bimbi non volevano dormire. E' stato tante cose e non era te, non era come il fuoco ma io sono stata felice con lui. E a volte mi sento in colpa perché credo di non essere mai riuscita a restituirgli quanto lui ha dato a me”.

Lo colpì. Quella risposta lo colpì e in un certo senso fece sentire più leggero il suo cuore. Era stata una risposta sincera e a suo modo delicata e dolce. Ciò che lei aveva detto su Hugh era forte, profondo, una parte importante di lei e sicuramente una dichiarazione d'amore per qualcuno che era stato importante nella sua vita. Ma la cosa bella era che lo era stato anche lui. Fuoco che brucia... Un bellissimo modo, a suo vedere, di descrivere l'essenza del vero amore fra un uomo e una donna. E il fuoco era lui, non Hugh. “L'amore è paragonabile al fuoco, non al tepore di un camino... L'amore è qualcosa di totalizzante, che ti brucia e può far male ma che ti rende completo. Tutto il resto è amicizia, affetto, BISOGNO d'amore... Ma non è amore, non quello con la A maiuscola, almeno”.

Lei abbassò lo sguardo, stanca e forse desiderosa di interrompere quella conversazione che stava diventando complicata da gestire. “Ross, va a casa, ti prego”.

Era debole e non aggressiva come era sempre stata e forse – ma forse anche no però doveva provare – gli stava aprendo uno spiraglio. Si sedette sul letto accanto a lei, le prese la mano e la strinse nella sua, accarezzandola e intrecciando le loro dita. E prima che potesse ribellarsi, le toccò la nuca e la attirò a se. E le loro labbra si toccarono e poi si fusero in un caldo bacio ed intenso bacio. Era fuoco, no? E al fuoco non poteva resistere e non poteva resistere nemmeno lei che non si ribellò, non lo respinse e gli si arrese. Ross non chiese quel bacio, i baci non si chiedono, i baci si danno quando si sente che è arrivato il momento giusto per loro! Non erano mai servite parole fra lui e lei, quando sentivano il bisogno di toccarsi, di baciarsi, di amarsi... Non erano servite allora e non servivano nemmeno adesso.

Fu un bacio lungo, passionale, pieno di quel desiderio che aveva represso per quasi sette anni... Quando abbandonò le sue labbra, il suo sguardo si piantò in quegli occhi color del mare, ancora bellissimi e trasparenti. “Il fuoco... Hai ragione! Questo è il fuoco, lo senti? Lo senti sulle labbra? Tutto il resto non è la stessa cosa, non è vero?”.

Ross...” - mormorò lei, forse troppo debole per stenderlo con un pugno e troppo confusa per trovare motivazioni adatte a negare l'evidenza di quanto c'era fra loro. Erano sette anni che non si baciavano e dannazione, era felice di averlo fatto, di averla baciata e di averla stretta fra le braccia. E avrebbe voluto restare, insistere e magari farla cedere. Ma non ci sarebbe riuscito, non in quella stanza dove era successo pure troppo fra loro e non era il luogo adatto. Nampara lo sarebbe stato. O qualsiasi altro posto! Ma non lì, quello era stato il regno di Demelza e Hugh e Ross decise che doveva rispettarlo per rispetto ad entrambi.

Non avresti dovuto, non qui, Ross” - disse lei, con un filo di voce.

Lo so... Ma non sono riuscito a resistere e d'altronde il fuoco non rispetta, quando invade una stanza, la proprietà altrui. Ma non succederà più... Non quì”. Si alzò dal letto, era arrivato il momento di andarsene e lasciarla sola coi suoi pensieri e anche se apparentemente sembrava una fuga, non lo era. Le stava dando tempo, ne stava dando ad entrambi e per la prima volta da quando la conosceva, stava agendo per il suo bene mettendosi da parte. “Ora se vuoi, puoi pure chiamare le tue guardie, se ti aggrada. E se mi prendessero a calci nel sedere, me lo sarei anche meritato. Ma non puoi impedirmi di essere felice. E non puoi impedirlo nemmeno a te stessa, quando ci avrai pensato su. Sei una Poldark e lo sai. Lo sei molto più di quanto sarai mai una Boscawen”.

Fece per andarsene, ma Demelza lo bloccò. “Ross”.

Dimmi”.

Credi che sia una bella cosa, l'amore? Una cosa che può farti male, che brucia, come puoi definirla bella? Come può una persona desiderare di correre il rischio di bruciarsi ancora? Dove può trovare il coraggio?”.

Si voltò verso di lei, appoggiando la testa contro la porta d'ingresso della stanza. “Io ho già deciso che ne vale la pena, a me il rischio piace e tu lo sai bene. Le motivazioni che potrebbero spingerti a fare altrettanto, le potresti trovare solo tu. Non posso dartele io, io posso solo farti sentire com'è il fuoco vero. Ma poi sta a te e hai ragione, forse sarebbe complicato ma tutto si può fare, nella vita. Si sbaglia, ci si rialza e si ricomincia a camminare e magari da quell'errore, possono nascere tante cose buone. E' l'equilibrio che conta, non eri tu a dirmelo? E' la somma delle cose che facciamo che vale davvero, alla fine. E un'azione sbagliata non è più importante di tante azioni giuste e io ne voglio fare tante, di azioni giuste, imparando dai miei errori del passato. Per te è difficile perdonare e per me è stato difficile perdonarmi e forse non ci sono ancora riuscito del tutto e per farlo, ho bisogno di te. Ci vuole coraggio, ad entrambi! Sta a te e a me decidere se ne vale la pena e io ho scelto”.

Io no, non ho scelto... E forse quel coraggio non ce l'ho” - rispose Demelza, in un leggero sussurro che nascondeva tante incertezze.

Ross le sorrise dolcemente. “Ce l'hai, lo so, nessuno ti conosce meglio di me. Devi solo trovarlo”.

Demelza non rispose ma accennò a ricambiare il sorriso. “Buona notte, Ross”.

Buona notte!”. D'istinto sentì che le barriere fra loro si erano spezzate e si avvicinò di nuovo, dandole un bacio stavolta sulla fronte. E poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.

Si sentiva leggero, felice, stordito come un ragazzino al primo bacio. Le labbra gli formicolavano ancora al ricordo di quelle di Demelza premute sulle sue e per un attimo desiderò immaginare di essere ancora a Nampara, solo loro, coi bimbi che dormivano nella loro stanza, un camino acceso e una coppia felice che voleva solo amarsi e stare insieme.

Si incamminò nei corridoi rendendosi conto che si era soffermato troppo e che era tardi e fu quasi travolto dalla piccola Daisy che, in mutandine, era sfuggita a Mary che voleva farle il bagno.

La bloccò, prendendola fra le braccia. “Hei! Dove scappi, piccola peste?”.

Lei cercò di divincolarsi ma poi lo fissò, stupita di trovarlo ancora lì. “Signor Poldark!?”.

Io, in carne ed ossa! Che succede?”.

Lei divenne seria seria, come se la questione fosse di vitale importanza. “Scappo dal sapone che puzza di prato della nonna! Non mi piace!”.

Oh, capisco” - rispose Ross, mettendola a terra.

Lei si aggrappò ai suoi pantaloni. “Signor Poldark, davvero hai salvato la mia mamma?”.

Così dicono...”.

Daisy divenne pensierosa. “Allora se la hai salvata, non sei più in debito con me?”.

Si inginocchiò davanti a lei per essere alla sua altezza, accarezzandole i lunghi ed arruffati capelli biondi. Era così adorabile, quella piccola. Una bambina vivacissima che nascondeva, dietro ai suoi modi un po' selvaggi, schietti e sfuggenti, una sensibilità fortissima tutta da interpretare e scoprire. “Ho salvato tua madre, non te. Quindi il mio debito nei tuoi confronti esiste ancora e aspetto che tu mi dica cosa vuoi da me per esaudire il tuo desiderio”.

Lei parve illuminarsi da quella risposta. “Vieni a mangiare con noi allora! Se vieni, io faccio la brava e mangio tutto”.

Lo sguardo di Ross si addolcì e avrebbe voluto accontentarla all'istante, se avesse potuto. Ma forse, non adesso, un giorno... “Tu devi cenare con la tua famiglia e io non sono della famiglia”.

Lei scosse la testa. “Se vuoi sposare mamma, allora anche tu poi sei della famiglia”.

E se succederà, mangerò con te! Ma ci vuole tempo, sai aspettare, mantenendo il nostro segreto?”.

Daisy annuì, aggrappandosi a lui per farsi prendere in braccio. “Sì” - sussurrò, abbracciandolo e dandogli un bacino sulla guancia. “Io ti aspetto, è!”.

Era bello sentirglielo dire, almeno a lei. “Bene! Ma dovrai fare la brava anche ora che non ci sono, mi raccomando. Mangerai tutto”.

Daisy rise. “E sarò un eroe”.

Ross le accarezzò nuovamente la testolina ma poi arrivò tutta trafelata Mary a riprendersela.

Signore?”.

Ross gli porse la bimba, rendendosi conto dello stupore della donna a trovarlo ancora lì. “Ecco... Stavo andando...”.

La domestica lo guardò in cagnesco. “E il cappotto?”.

Ross si guardò le mani, impallidì e capì di essere nei guai. Santo cielo, lo aveva dimenticato! “Ecco... La signora ha insistito per tenerlo e ridarmelo dopo averlo fatto lavare”.

Capisco...”. Mary continuò a guardarlo sospettosa ma poi, rendendosi conto che Daisy stava prendendo freddo, lo salutò e riportò la bimba nel bagno. E lui si capitolò giù dalle scale, rendendosi conto che si stava cacciando nei guai ad attardarsi tanto in quella casa.

Scese al piano di sotto, ormai quasi buio e deserto, quello dei saloni dei ricevimenti e dei pranzi, delle biblioteche e dei salotti da conversazione. E nei corridoi, che scivolava nell'oscurità come un ladro, vide Jeremy.

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Capitolo 51
*** Capitolo cinquantuno ***


"Signor Poldark? Siete ancora quì?".

Jeremy, con un paio di libri in mano, lo osservò piuttosto perplesso nella semi-oscurità del corridoio. La servitù era tornata in cucina, le luci della sala da pranzo erano spente e tutto era avvolto dalla penombra e dal silenzio, eccetto che per una stanza in fondo al corridoio da cui proveniva della luce.

"Stavo andando via" – tentò di giusfiticarsi Ross, rendendosi conto che si era soffermato molto e che parlare e... baciare... Demelza, gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo. "E tu, che stai facendo quì, tutto solo, al buio?" - gli chiese, per sviarlo da tutte le domande che sicuramente si stava facendo in quel momento. Non era normale che lui fosse lì a quell'ora e anche se Jeremy era un bambino, lo sapeva pure lui che non avrebbe dovuto trovarsi più in quella casa da un bel pò!.

Jeremy guardò i libri che aveva in mano. "Oh, sto andando in biblioteca a sistemare questi. Li ho letti oggi pomeriggio ai gemellini e loro li hanno lasciati in giro. Li ho visti sul divano e li rimetto a posto".

Ross gli sorrise, era davvero un bambino buono, giudizioso e maturo per la sua età. "Che libri sono?".

"Libri di fiabe. E' mio compito leggerglieli!".

Ross si accigliò. "Davvero? Come mai?".

Jeremy abbassò leggermente il capo, stringendo i libri fra le braccia. "E' la mia eredità. Papà leggeva per me da piccolo e quando è morto, mi ha chiesto di fare altrettanto con Clowance, Demian e Daisy. Al suo posto... E io lo faccio, ogni sera dopo cena e ogni volta che me lo chiedono".

Ross deglutì, trovandosi ancora una volta davanti quel baratro di sette anni in cui un altro uomo aveva preso il suo posto non solo nel cuore di Demelza ma anche in quello dei suoi figli. Un papà, per loro, con cui erano cresciuti, che gli aveva dato dei ricordi e una eredità da portare avanti... Il loro modello di riferimento, un uomo tanto diverso da lui e probabilmente infinitamente migliore di quanto lui sarebbe mai stato. Un uomo che aveva lasciato un'impronta positiva nella vita di Demelza e soprattutto nella formazione di Jeremy. Un uomo che aveva fatto quello che lui non era stato capace di portare a termine: essere un padre che insegna ad un figlio a diventare una brava persona, un adulto di cui andare fieri! Era bello quello che faceva Jeremy per i suoi fratellini, era bello che Hugh lo avesse insignito di un tale compito, un compito che un poeta come lui doveva aver amato molto, ma si chiese se non fosse troppo. Jeremy era un bambino e doveva rimanere tale, non prendere il posto di un uomo che era morto! Certo, Hugh doveva avergli conferito quello che per lui era un onore, di certo amava i libri e affidarli a Jeremy era stato un atto d'amore e immensa fiducia, ma... Ma forse era semplicemente, immensamente geloso e si stava facendo tante congetture mentali senza senso davanti a quel lascito di Hugh che esprimeva amore, un amore che lui non aveva mai saputo donare ed esprimere a Jeremy. Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri foschi che non voleva avere, non in quel momento col sapore dolce delle labbra di Demelza ancora impresso sulle sue, di labbra. "Vuoi che ti accompagni?".

"Dove, in biblioteca?".

"Sì. Non ho mai visto la biblioteca di questa casa".

Jeremy, un pò perplesso, non se la sentì di negargli quella richiesta e gli indicò la stanza illuminata. "E' laggiù, venite".

Ross lo seguì, incuriosito da quella stanza che doveva essere stata il fulcro del rapporto che aveva unito Jeremy a Hugh. Vi entrò con lui e rimase a bocca aperta per l'ampiezza di quel locale, per le migliaia di libri in esso contenuti, tutti disposti ordinatamente sugli scaffali e probabilmente divisi per contenuto e autore. Camminò sul morbido tappeto, catturato da un ritrato appeso alla parete. Raffigurava un giovane uomo in divisa da ufficiale, dai capelli chiari, dallo sguardo penetrante e dall'indiscusso fascino. Lo guardò e per un attimo gli parve di scorgere, in lui, i tratti di Demian e Daisy. E impallidì, sentendosi tremare le gambe... Non lo aveva mai visto, non era mai riuscito a dargli un volto e spesso aveva cercato di immaginarselo e ora... Ora forse aveva davanti... "Lui chi è?" - chiese, con un filo di voce.

Jeremy gli andò vicino, dopo aver sistemato i libri. "Mio padre".

Mio padre... Quel quadro e quelle parole di Jeremy furono violenti come schiaffi sul suo volto. Era lui il padre, per Jeremy, lui, Hugh Armitage! Quell'uomo che aveva amato e si era fatto amare da Demelza e dai suoi bambini, quell'uomo che aveva dato vita alla famiglia che lui aveva ritrovato anni dopo a Londra e di cui non faceva parte. Quell'uomo che Jeremy chiamava papà al posto suo, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere e l'amore per i libri e la cultura. L'uomo che aveva ridato il sorriso a Demelza, che l'aveva fatta sua e con cui lei aveva avuto altri figli. Eccolo, incredibilmente giovane, elegante, raffinato, che sembrava scrutarlo e giudicarlo anche da lì, da quel quadro immobile appeso al muro. Quell'uomo, l'uomo di cui, con dolcezza, gli aveva parlato Demelza poco prima. Ora era reale davanti a lui e non più una fantasia senza volto. Improvvisamente provò una incredibile rabbia, seguita dal forte desiderio che l'uomo dipinto su quel quadro prendesse vita per ucciderlo con le sue stesse mani. Ma fu solo un attimo e quello successivo, gli vennero in mente i visini di Demian e Daisy. E si rese conto che c'era qualcosa che lo accomunava a Hugh, suo malgrado: entrambi erano stati condannati a non veder crescere i propri figli e se per Hugh questa era stata una realtà imposta dal destino, per quanto lo riguardava, per lui non era che la conseguenza dei suoi errori. Hugh non gli aveva portato via nulla, Hugh aveva semplicemente amato ciò che lui, un tempo, non era stato capace di proteggere. E se n'era andato senza possibilità di ritorno, senza seconde opportunità... Che invece lui aveva, anche se di certo non le meritava. Non quanto quell'uomo dipinto sul quadro. E la rabbia, pian piano, divenne sgomento e pietà. Che diritto aveva di odiare Hugh? Nessuno, l'unico diritto che aveva era odiare se stesso e provare pena per un uomo che invece non aveva potuto vedere la meraviglia che erano diventati i suoi due gemellini.

Jeremy gli tirò la giacca, forse smarrito da quel suo atteggiamento che ai suoi occhi doveva apparire incomprensibile. "Vi sentite male? Siete diventato muto di colpo, signor Poldark!".

"Ehm... no! Scusa, ma mi stavo solo chiedendo come mai sei ancora quì, da solo. E' un pò lugubre questa biblioteca, di sera, con questa luce così fioca, in mezzo al silenzio e ai libri". Ok, come scusa era pessima, ma doveva cercare di sviare il discorso e lo sconcerto che aveva generato il suo mutismo in Jeremy.

Il bambino ridacchiò. "Dopo cena e la favola, i miei fratellini vengono portati su dalle tate a fare il bagno e io resto giù un pò a farmi gli affari miei e le cose che mi piacciono, prima di andare a letto".

Ross parve incuriosito da quel piccolo mondo che Jeremy si era costruito e che pian piano stava scoprendo, rendendogli suo figlio un pò meno estraneo. "E tu non fai il bagno?".

Jeremy rise ancora. "Certo, più tardi e da solo! Ho dieci anni, non ho bisogno di essere lavato come Daisy e Demian. O Clowance, che dopo il bagno vuole essere spazzolata cinquanta volte per avere i capelli che luccicano".

Già, aveva dieci anni, era grande per il bagnetto con la tata. Santo cielo, quanto era cresciuto da quel bimbo abbandonato quasi otto anni prima a Nampara. "E che cosa fai quì, da solo?".

"Sistemo i libri, leggo... E altre cose".

"Che libri ti piacciono?".

Jeremy fece un sorrisetto furbo. Con la mano indicò la parte destra della biblioteca dove sugli scaffali c'erano libri dalle copertine colorate e poi la sinistra dove, all'apparenza, c'erano letture più seriose. "La parte destra è stata adibita da papà ai libri per noi bambini. L'ha riempita tutta di libri per noi, divisi per età. Ha cercato in tutta Londra TUTTI i libri adatti ai bambini e ormai credo di averli letti quasi tutti in questi anni. La parte di biblioteca a sinistra invece, ha i libri per i grandi".

Ross si guardò attorno, colpito da come Hugh avesse predisposto tutto affinché ogni cosa fosse a posto dopo la sua morte, soprattutto la sua biblioteca. "E tu... tu da che parte stai? Leggi i libri a destra o i libri che stanno a sinistra?". Il fatto che non gli avesse risposto ancora, gli faceva pensare che spesso si avvicinasse a letture non proprio adatte alla sua età.

E infatti... "Ai gemelli e a Clowance, leggo i libri che stanno sulla destra. A volte li leggo anche da solo. Ma ogni tanto, di sera, leggo anche quelli che stanno sulla sinistra".

Ross alzò un sopracciglio. Era affascinato da lui e da come parlava e avrebbe voluto passare ore a chiacchierarci assieme per scoprire suo figlio e quel suo mondo ancora tanto sconosciuto ai suoi occhi ma che lo affascinava e lo faceva sentire un pò di più suo padre. "Tua madre lo sa?".

"No".

"Che libro da grandi ti piace di più?". Era una conversazione piacevole ma in quel momento subentrò in Ross anche una sana preoccupazione di padre che voleva capire se suo figlio stesse facendo qualcosa di potenzialmente dannoso per la sua crescita. Non aveva idea di che libri da adulti Jeremy leggesse e visto che nessuno sembrava sapere questa cosa, era meglio indagare.

"Il Decamerone".

"Oh...". Ross si grattò il mento, pensieroso, cercando di far mente locale nei suoi nebulosi ricordi di studente... "E' un libro divertente, in certe parti. Ma in altre, poco adatto a te".

Jeremy alzò le spalle. "Certe cose non le capisco! Ho provato a chiedere a Gustav ma non le capisce nemmeno lui. E allora ho saltato delle parti. Mi sa che l'autore era un pò matto!".

"Ottimo, ottimo..." - rispose Ross, ridendo fra se e se e sospirando per il sollievo. Per fortuna pareva ancora innocente e poco attratto da certe tematiche, per ora...

Jeremy lo osservò, pensieroso. "Signor Poldark, e il vostro cappotto? Prudie non ve lo ha ridato?".

Ross impallidì. Accidenti a quel dannato cappotto!!! "Ecco, tua madre ha insistito per tenerlo e lavarlo. Vuole restituirmelo pulito. Per questo ci ho messo tanto, ho tentato di convincerla a ridarmelo anche così ma non c'è stato verso". Chiese mentalmente scusa a Demelza per quella bugia, ma in quel momento non gli vennero in mente scuse migliori. E sperò che, pur all'oscuro di tutto, se Jeremy fosse andato sul discorso, gli avrebbe retto il gioco.

Jeremy però parve credergli. "Ohhh... Beh, mamma è molto testarda".

Ross gli sorrise. "Sì, non è facile farle cambiare idea".

"Lo so". Ridacchiando per quella considearzione su sua madre, Jeremy si avvicinò a una sedia, prendendo una mantellina blu che si mise sulle spalle.

"Dove vai?".

Il bambino spense una delle candele alla parete. "Quì ho finito e per stasera non ho voglia di leggere. Esco fuori un pò, a fare delle cose".

Ross entrò in allarme. "Fuori? Ma è buio, fa freddo e tu non dovresti...".

"Oh, non preoccupatevi! Ho il mio posto sicuro, in giardino. Mamma lo sa che ci vado, non è pericoloso".

Ross però non sembrava convinto. "Posso accompagnarti?".

Jeremy sembrò sorpreso e forse Ross non poteva dargli torto. Era inusuale che un estraneo si preoccupasse tanto per cose del genere e soprattutto che passasse tanto tempo in quella casa, di sera, a parlare con lui con tutta quella famigliarità. Ross si chiese se quel comportamento non avrebbe finito per mettere in allarme Jeremy e fargli sorgere dei dubbi sulla sua vera identità, ma non se la sentiva lo stesso di lasciarlo andare fuori da solo. Dopo tutto era suo padre e niente al mondo poteva impedirgli di preoccuparsi per lui!

"Va bene..." - rispose il bambino, titubante e sinceramente sopreso. Ma rimase ancora zitto senza protestare davanti a questo atteggiamento, Ross si rese conto di quanto poco somigliasse invece a Clowance che tutto quello che aveva sulla punta della lingua, quando era stizzita, lo diceva senza mezzi termini. Lui e Clowance erano simili di carattere mentre in Jeremy, Ross scorgeva con dolore la pacatezza e la buona educazione che gli erano stati trasmessi dal ricordo e dall'esempio di Hugh. Faceva male perché quel bravo ed educato bambino era il prodotto di un altro padre, non il suo! Non aveva mai insegnato nulla di buono a Jeremy, lui! Nemmeno quando erano stati insieme a Nampara perché allora, troppo preso da altro, in fuga da mille fantasmi e alla ricerca di fantasie perdute, non lo aveva mai di uno sguardo.

Silenziosamente, lo aiutò a spegnere le candele e poi con lui uscì dal retro della casa, da una delle porte che portava al grandissimo giardino che confinava con il parco di Kensington.

Camminarono nella nebbia, col ghiaccio che scricchiolava sotto i loro piedi, e si fermarono davanti a un grande albero sul cui tronco era inchiodata una piccola scaletta di legno. Ross guardò su e si accorse che tra i rami era stata costruita una casetta sull'albero, di legno. "E' questo il tuo posto segreto e sicuro?" - chiese a Jeremy che, agilmente, si era già arrampicato su e lo guardava dal ballatoio.

"Sì, la mia casa sull'albero!".

Posso salire?”.

Jeremy, dalla casetta, guardò giù. “No. E' una casetta sull'albero dove possono entrarci solo i bambini. E il mio papà che l'ha costruita, con me, quando ero piccolo. Ma lui è morto e allora non ci può più venire nessun adulto”.

Ross deglutì. Ogni volta che sentiva Jeremy dire la parola 'papà' parlando di Hugh, gli si strozzava lo stomaco, così come sentire di quante cose avevano fatto insieme. “Non ci sono mai stato in una casa sull'albero, sai? Da piccolo credo di averne voluta una”. Con quelle parole insistette per salire e non sapeva nemmeno il perché volesse farlo. Quella casetta era stata il regno di Hugh e Jeremy, perché voleva farsi male salendoci?

Jeremy si appoggiò alla staccionata che fungeva da barriera, osservandolo. Poi sospirò. “Ma si dai, salite Signor Poldark. Tanto qualche adulto qui ci è venuto”.

Tua madre?”.

No, le bambinaie quando devono recuperare Demian. Lui si rifugia sempre qui quando sa che lo devono mettere in castigo. E poi Prudie! Una volta ha tentato di salire ma è caduta giù. Però non si è fatta niente, è caduta sul sedere e ha il sedere grosso”.

Mentre si arrampicava sulle scalette, nella sua mente comparve l'immagine di Prudie che faceva altrettanto e per poco non cadde in terra pure lui dal ridere. Gli piaceva il modo noncurante e allo stesso tempo diretto e sibillino in cui Jeremy parlava, il suo essere ironico senza accorgersene e soprattutto il suo spirito di osservazione. Appena arrivato su, osservò l'enorme parco del palazzo che arrivava fino all'ingresso dei giardini di Kensington, rendendosi conto della maestosità di quel giardino avvolto dalla nebbia. “Sono stato bravo, agile come un bambino! Visto?”.

Jeremy ridacchiò. “Demian è più svelto di voi. Lui non usa nemmeno gli scalini, si arrampica e basta sulla corteccia”.

Ross, ora che ci pensava, aveva già notato la notte di Natale quanto piacesse, al piccolo, arrampicarsi ovunque. “Perché lo fa?”.

Non lo so, non lo sa nessuno. Lo fa e basta”.

Ross si guardò attorno. La casetta era di per se piccola, solo un paio di metri di grandezza per lato, però la balconata che la circondava era davvero bella e ben fatta e da essa si poteva vedere tutto il parco. Il pavimento era disseminato di giocattoli in legno, cubi per costruzioni per lo più, ma anche animaletti intagliati. “Che belli” - disse, prendendo una forma di coniglio.

Jeremy arrossì. “Li ho fatti io”.

Davvero?” - gli chiese, stupito, ricordandosi di quanto Jeremy avesse amato quel genere di giochi da piccolo e di quel cavallino che lui aveva sempre tenuto con se in quegli anni, in suo ricordo.

Jeremy annuì, togliendo un coltellino dalla tasca dei suoi pantaloni. “Non ditelo a mamma, non vuole che gioco coi coltelli. Ma mi piace intagliare il legno e lo faccio solo se i gemelli e Clowance non sono in giro, quando sono da solo ed è sicuro farlo”.

Era ammirato, orgoglioso. Lo aveva lasciato che a malapena sapeva parlare e ora si trovava davanti un piccolo ometto in miniatura che si prendeva cura di sua madre e dei suoi fratellini. Era maturo, forse più di quanto lo fosse mai stato lui. E di certo non era così per merito suo. “Sei davvero molto bravo”.

Grazie!”.

Venite spesso a giocare qui?”.

Non spesso, le tate hanno paura. Pure la mamma... Di solito ci vengo da solo o con Demian, quando è in fuga da qualcosa. Le mie sorelle invece preferiscono giocare in giardino, Clowance con le bambole e Daisy... beh, lei si fa i fatti suoi! Non ci vengono mai. Solo una volta ci è salita Clowance con Chaterine per far finta di essere le regine della casa”.

Ross rise. “Chaterine, quella che vuole essere la tua fidanzata?”.

Jeremy sospirò. “Sì, lei. Quando è salita quassù, volevo smontare la scala e lasciarla qui sopra per sempre”.

Ross sentì una goccia di sudore freddo rigargli il viso. “Non è una cosa carina quella che hai detto”.

Non è carina nemmeno Chaterine che mi segue tutte le volte che mi vede al parco perché vuole darmi un bacio. Non l'avete vista a Natale? Non avete visto come fa?”.

Però tu non dovresti scappare da una donna, non è virile!”.

Che vuol dire virile, signor Poldark?”.

Ora era in difficoltà e ci si era messo da solo. E se Demelza avesse saputo della natura di quel loro dialogo, forse si sarebbe arrabbiata... Che diavolo doveva dirgli? E gli venne in mente la risposta più ovvia che, poteva scommetterci, davano la maggior parte dei padri del mondo. “Chiedilo a tua madre”. E in silenzio, chiese nuovamente scusa a Demelza anche per questo...

Il bimbo alzò le spalle, assolutamente all'oscuro del suo essere in difficoltà. “Va bene”.

Ross sospirò, era decisamente meglio cambiare argomento. “Questa casetta l'ha costruita tuo padre, quindi?”.

Sì. Quando ero piccolo, l'abbiamo inaugurata che mamma aveva nella pancia i gemelli. L'ho aiutato, sapete? E quando l'abbiamo finita, mi portava qua e mi leggeva le fiabe. E qui mi ha insegnato a leggere”.

Ross, facendo violenza a se stesso, decise che Hugh era stato bravo in questo. “Era bravo a costruire le cose, vedo”.

A quell'affermazione, Jeremy rise. “No, lui amava i libri. Per costruire la casetta, si è letto un sacco di manuali per imparare come fare. Si martellava sempre il dito col martello quando metteva i chiodi e aveva le mani piene di tagli. E spesso montava le assi al contrario, doveva smontare tutto e poi rifare da capo... Io ridero, era un po' imbranato! Però ci è riuscito alla fine!”.

Ross si guardò attorno, maledicendosi per non averla costruita lui, per i suoi figli, una casetta sull'albero. E per non averli messi a letto per anni, per non esserseli presi sulle spalle, per non avergli letto dei libri, per non averci giocato insieme e per non averli aiutati a rialzarsi quando cadevano. Si sentì irritato verso se stesso e nuovamente verso Hugh che aveva fatto tutto questo al suo posto e meglio di lui. “Era un uomo gentile con te, anche se non era il tuo vero padre” - disse, quasi a voler ristabilire il suo ruolo, senza però pensare alle conseguenze.

A quelle parole infatti Jeremy sussultò, adombrandosi. “Chi ve lo ha detto?”.

Cosa?”.

Che non era il mio vero padre”.

Ross deglutì, rendendosi conto che si era avventurato in un sentiero pericoloso e aveva detto una cosa non gradita al bambino. Una cosa grossa e da non dire, di cui non aveva valutato l'entità e le sue ripercussioni. “Tua madre. O forse l'ho sentito dire in giro, non ricordo...”.

Jeremy si avvicinò di alcuni passi. “Impossibile, mia madre non potrebbe mai avervelo detto. E nessuno oserebbe spettegolare di noi Boscawen in giro!”.

Eppure è così” - rispose, sostenendo il suo sguardo, rendendosi conto però che Jeremy stava diventando rabbioso e soprattutto, sospettoso. E che mentirgli non sarebbe stato per nulla facile.

Jeremy si morse il labbro, nervoso e con gli occhi lucidi. “Non è vero quello che avete detto! La mamma mi ha sempre insegnato che un papà è quello che ti ama e ti cresce, non quello da cui nasci. E che Hugh era il mio papà perché aveva fatto tutto questo! Non può avervelo detto lei”.

Ross deglutì. E ora come ne usciva? Santo cielo, aveva fatto un disastro! “Credo... credo che intendesse solo dire che non sei nato da lui” - tentò di argomentare.

Gli occhi di Jeremy divennero rabbiosi e si piantarono su di lui con ferocia. “Purtroppo no, né io né Clowance. Quello che ci ha fatto nascere, io lo odio. Non ci ha voluti e ha fatto piangere tanto la mamma quando ero piccolo. Io non lo ricordo, ricordo solo una cosa di lui: mi aveva promesso di insegnarmi una cosa e non è mai venuto per farlo e io ho imparato da solo! E da allora non mi piacciono le persone che non mantengono le promesse, sono dei vigliacchi! Soprattutto se le promesse le fanno a un bambino che ci crede!”. Si avvicinò alla scaletta, deciso a scendere. “Io sono stanco, vado a letto signor Poldark. E' tardi, dovreste andarvene pure voi” - disse risoluto, scendendo velocemente come a voler fuggire da lui.

Rimase di sasso davanti a quel fiume di parole... C'era qualcosa di lui, che Jeremy ricordava.


Quando la tua manina sarà grossa la metà della mia, allora ti insegnerò ad andare a cavallo”.


Jeremy non aveva scordato quelle parole, ci aveva creduto e lo doveva aver aspettato a lungo. Prima di Hugh, nonostante Hugh... E lui non era mai tornato da lui...

Osservò suo figlio che scendeva la scaletta, in modo nuovo. Non più il gioioso piccolo Boscawen che amava i libri, che aveva tanti amici, che scherzava e aveva sempre la risposta pronta ma un bimbo che dentro di se portava molte ferite che era bravo a nascondere ma che esistevano e facevano ancora male. Ferite che gli aveva inferto lui! In quel momento aveva davanti Jeremy Poldark, non Jeremy Armitage. Dopo quasi otto anni era davvero suo figlio quello con cui stava parlando, un figlio che gli stava chiedendo il conto dei suoi errori e delle sue azioni!

Ross scese velocemente dall'albero e gli corse dietro, ferito da quelle parole che meritava ma deciso a riprenderlo. “Jeremy, aspetta! Scusa, non volevo farti arrabbiare”.

Quando fu davanti all'uscio di casa, Jeremy finalmente si fermò. “Non sono arrabbiato. Ho solo sonno”.

Non è vero!” - disse, parandosi davanti a lui.

Il bambino lo guardò storto. “Forse! Ma non voglio più parlare, mi è permesso andarmene, signore? Anzi no, non devo chiedervelo, sono a casa mia e faccio come mi pare. Giusto? Siete voi l'estraneo!”.

Ross sussultò. C'era una strana aria di sfida nel tono di voce di Jeremy e non ci era abituato, non lo aveva mai visto sotto quell'aspetto. Si sentì come se suo figlio lo stesse mettendo alla prova e lo stesse studiando attraverso quelle parole provocatorie e non ci era preparato. “Giusto. Forse è davvero ora che vada anch'io”.

Jeremy non rispose, fece alcuni passi per andarsene ma poi parve ripensarci e si fermò. Si voltò verso di lui e per un lungo istante lo guardò. “Voi chi siete davvero?”.

Beh, lo sai. Un parlamentare come tuo zio. Lavoro con lui a Westminster”.

E poi?” - insistette Jeremy. “A volte mi sembrate uno che dice bugie, ora che ci penso. Al discorso di Pitt avete chiamato per nome mia madre e non si fa! E siete venuto qui di sera, tardi, senza invito! E siete stato da mia madre tantissimo tempo, nella sua stanza! Nemmeno questo si fa! E Prudie... Come la conoscete?”.

Ross divenne di ghiaccio. Quelle domande, quel modo di guardarlo... Santo cielo, se avesse sospettato? Se avesse capito? Certo, Jeremy non ne poteva avere la certezza ma già il dubbio, di per se, metteva tutti in una posizione pericolosissima. Demelza lo avrebbe ucciso, si sarebbe arrabbiata tantissimo e ne avrebbe avuto ragione. Ma ora non era quello l'importante ma Jeremy, la sua rabbia e i suoi sentimenti. Voleva abbracciarlo, calmarlo, cercare di spiegargli l'inspiegabile. Ma come poteva riuscirci? Non era preparato a questo, non era un'opzione che Demelza gli aveva dato e parlare avrebbe potuto peggiorare la situazione. Non era mai stato bravo, lui, a risolvere i problemi a parole! “Jeremy, ascolta...”.

Lui indietreggiò, sospettoso. “Gli adulti che iniziamo una frase così, si preparano a raccontare un sacco di bugie”. Queste cose le chiederò alla mamma! Anche se, quando ci siete voi, mi sembra che le bugie le racconti anche lei”. Gli voltò le spalle e si avvicinò all'uscio. “Mio zio dorme, la mamma pure e quindi in questo momento sono io il signore di questa casa. Vi invito ad andarvene, SIGNOR POLDARK! E' tardi e non dovreste essere quì”.

E poi se ne andò, sbattendo la porta.

Ross rimase solo, nel gelo e nella nebbia del giardino. Smarrito, ferito forse ancor più di quanto non lo fosse stato quando era stata Demelza a urlargli il suo dolore. Quello di Jeremy era ancora più profondo, forte, annientante. Era il suo bambino, sangue del suo sangue. E lo aveva tradito. Tradire una donna era stata una cosa orribile ma tradire il proprio figlio era una cosa imperdonabile... Lui stesso non avrebbe perdonato suo padre nella medesima situazione!

E ora che poteva fare? Il dolce bacio di Demelza era scivolato via, con le belle sensazioni che gli aveva lasciato in corpo e ora era avvolto di nuovo dal gelo, un gelo che aveva generato lui stesso, con la sua arroganza e la sua voglia di ristabilire il suo ruolo di padre a tutti i costi.

Si guardò attorno, nella nebbia. Demelza gli aveva raccontato che Hugh era lì, ad ascoltarla e a proteggerla, nelle notti di nebbia. E anche se non credeva a questo genere di cose, si chiese se non fosse vero e se Hugh, come lui, in quel momento fosse preoccupato per quel loro bambino di cui entrambi, in modi diversi, erano padri.


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Capitolo 52
*** Capitolo cinquantadue ***


Demelza, coperta da un pesante scialle, si dondolava avanti e indietro sulla comoda sedia a dondolo in camera sua, che aveva fatto posizionare davanti a una delle grandi finestre che davano sul parco, giocando nervosamente con una lettera che teneva fra le mani e che aveva letto e riletto più volte nel corso della mattinata.

Da alcuni giorni non aveva più la febbre ma sua suocera l'aveva costretta a stare piantonata in camera e ora si sentiva come un uccellino in gabbia. Amava tutte quelle premure, ma certe volte le sembravano eccessive. Era guarita e anche se si sentiva un pò debole, era ora di riprendere la sua vita!

Guardò fuori dalla finestra e si accorse che il suo grande giardino era coperto da un leggero nevischio che aveva preso a cadere dopo l'alba, che gli dava l'aspetto di un dipinto fiabesco.

Sua suocera era guarita e da una settimana aveva ripreso a partecipare ai suoi tè e ai suoi eventi mondani mentre Falmouth, ripresosi a sua volta dall'attacco di gotta e dall'influenza, era dovuto partire tre giorni prima per un viaggio di lavoro in Portogallo che lo avrebbe tenuto lontano da Londra quasi due mesi.

E poi c'erano i bambini, che desiderava tornare a sentire vicino. Quella febbre l'aveva tenuta lontana da loro fin troppo e non desiderava che di tornare a prendersene cura, soprattutto dopo lo spavento occorso a Jeremy e Clowance dopo il discorso di Pitt.

La piccola Clowance, incuriosita dal suo ruolo di stilista per bambine povere, si era lanciata in lunghe discussioni e ore di lavoro con la nonna, per cucire nuovi abitini usando la stoffa dei suoi di vestiti, che non metteva più dopo averli indossati una sola volta, e sembrava serena e tranquilla, dopo quanto successo. Inoltre si era offerta di insegnare alle bimbe del centro di aiuto a fare l'inchino, cose che, secondo lei, i poveri non sapevano assolutamente fare e questo la rendeva eccitata e ansiosa di iniziare con lei quell'avventura, una volta guarita. In quei giorni decise di assecondarla per non farle perdere l'entusiasmo, di lasciarla fare come se stesse prendendo parte a un gioco, convinta che comunque prima o poi sarebbe riuscita a insegnarle davvero il valore di dare un aiuto a chi era in difficoltà. Oltre ai vestiti e all'inchino, Clowance avrebbe visto di persona la faccia cattiva di povertà e miseria e ne avrebbe tratto grandi insegnamenti per la vita, ne era certa. Era una bambina viziata e capricciosa a volte ma era sua figlia, sua e di Ross! E di certo da loro aveva ereditato la sensibilità per chi era in difficoltà...

Jeremy invece era cambiato, era diventato taciturno e a volte aggressivo e pungente quando parlava con lei, quasi a volerla sfidare. Demelza era preoccupata e non capiva se quel cambiamento fosse dovuto alla shock per quanto successo durante i disordini o a qualcos'altro. Aveva provato a chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma lui si era chiuso in un profondo ed inusuale mutismo e non le aveva dato alcuna risposta. Jeremy le toglieva il sonno perché faticava a riconoscere il suo dolce bambino gentile e sensibile, in quegli ultimi giorni. Era come se, dal giorno alla notte, qualcuno lo avesse rapito e gli avesse dato in cambio un bambino dalle medesime fattezze, ma sconosciuto. Si era chiesta cosa fosse successo, si era fatta mille domande ma non era riuscita a dare una spiegazione all'astio che sembrava percepire in lui verso di lei.

E poi c'era Ross...

Deglutendo, guardò la lettera che stringeva fra le mani, che lui le aveva fatto recapitare attraverso Prudie due giorni prima e a cui aveva risposto la sera precedente, sempre avvalendosi del prezioso aiuto della sua domestica. Ross le aveva scritto che le doveva parlare di una cosa urgente e seria, che forse si sarebbe arrabbiata con lui e che magari sapeva già il perché e questo la metteva in ansia in quanto non aveva idea di cosa potesse essere. Sapeva solo che lei e Ross si erano parlati in quella stessa stanza, che si erano baciati e che lei gli aveva permesso di farlo. E che era irritata non tanto verso di lui ma quanto verso se stessa per non essere irritata con la sua coscienza per avergli permesso di farlo! Era complicatissimo, un rompicapo e lei non ci capiva nulla... Ross l'aveva lasciata, aveva lasciato i bambini, aveva scelto Elizabeth e lei non doveva e non poteva permettersi di farlo rientrare nella sua vita! Ma dannazione, perché mente e cuore, in quel momento, non andavano nelle medesima direzione? Perché Demelza Carne sembrava più forte della ricca e controllata Lady Boscawen? Perché, nonostante tutto, Ross la riusciva ancora a confondere e a farle sentire le farfalle nello stomaco? Come poteva desiderarlo, ancora? Come poteva, dopo essere stata tanto serena e felice con Hugh? Come poteva non averlo dimenticato?

Eppure poteva, eppure stava succedendo ed era la cosa più irrazionale e stupida che potesse provare... Avrebbe voluto essere vecchia e decrepita per non provare più sensazioni del genere e invece era ancora molto giovane, sola da tanto e... E probabilmente aveva ignorato troppo a lungo i desideri di cuore e mente, desideri che Ross in qualche modo aveva saputo risvegliare e portare alla luce.

Sapeva solo che se chiudeva gli occhi, sentiva il calore delle labbra di Ross sulle sue, la sua voce calda accanto al suo orecchio, il tono pacato delle sue parole e la dolcezza dei suoi gesti. E che lo aveva desiderato, dannazione! Aveva voluto che venisse in visita, aveva voluto che fosse lì e forse aveva voluto anche quel bacio! E si sentiva in colpa per questo, verso Hugh, verso i suoi figli, verso la sua famiglia...

Verso Lady Boscawen...

Ripensò nuovamente a quel bacio. Lei e Ross durante il loro matrimonio se n'erano scambiati tanti ma era come se, presente e immutabile, ci fosse sempre stato il fantasma di Elizabeth. Ora non lo aveva avvertito, ora non c'erano fantasmi e mentre la baciava, i ricordi brutti del suo ultimo periodo a Nampara erano spariti per lasciar spazio a quelli belli, alle risate, alle loro chiacchierate davanti al camino, alla passione e all'amore che esplodeva in camera da letto. Per tanti anni aveva finto e si era convinta che i ricordi belli fossero solo un parto della sua mente, che in Ross non c'era mai stata vera felicità con lei, ma ora... Le sue parole nella notte di Natale, il bacio... Era stato devastante quanto successo anni prima ma forse, sotto la cenere, un amore vero era esistito.

Si dondolò nervosamente scacciando quei pensieri e pensando ancora al contenuto della lettera. Ross non sembrava voler parlare del bacio e di loro ma anzi, pareva piuttosto preoccupato e la cosa grave a cui si riferiva, doveva essere grave per forza se no non gli avrebbe scritto. E per questo la sera prima gli aveva dato un appuntamento in un piccolo cottage di sua proprietà fuori Londra, dove spesso andava a chiacchierare coi suoi amici dopo la lezione di tiro con l'arco, il mercoledì pomeriggio. Era un luogo solo suo, uno dei tanti cottage inutilizzati dei Boscawen che aveva ricevuto in eredità da Hugh e che aveva sistemato pian piano fino a renderlo un suo piccolo nido e rifugio, che veniva ora usato per svagarsi nell'unico pomeriggio della settimana che si era ritagliata solo per se, dove con Margarita, Edward e Daniel, andava a chiacchierare, rilassarsi, fare merenda e divertirsi insieme. Per vedere Ross, senza occhi indiscreti, sarebbe andato benissimo! E vista l'ora, si stava pure facendo tardi e doveva iniziare a prepararsi.

Fu in quel momento che Jeremy bussò alla sua porta ed entrò.

"Amore, sei venuto a trovarmi?".

Il bambino osservò i suoi abiti sul letto. "Esci?".

"Sì, ho delle commissioni da fare".

"La nonna non vuole, vuole che ti riposi ancora".

Demelza gli sorrise. "Tua nonna mi ha murata viva in casa e sto cercando di evadere. Ma non ti preoccupare, non sto andando in nessun posto pericoloso e sarò a casa prima che faccia buio".

Jeremy annuì, pensieroso, scrutandola attraverso i suoi occhi scuri e attenti, cosa che aveva fatto spesso in quegli ultimi giorni, come se la stesse studiando per qualche strano motivo. "Dove vai?".

"Te l'ho detto, a fare una commissione".

"Manda un domestico!".

Demelza si accigliò. Che cos'era quell'insistenza affinché non uscisse? "Devo andarci di persona".

"Cosa devi fare?".

"Cose da adulti". Odiava rispondergli così, non lo aveva mai fatto ma suo figlio la stava mettendo in difficoltà.

Jeremy si rabbuiò e poi, fingendo di passeggiare nella stanza, si avvicinò alla poltrona dove ancora riposava il cappotto che Ross le aveva lasciato addosso. "Il signor Poldark era venuto a riprenderselo...".

Demelza deglutì. "Sì... Ma, ecco...".

Il bimbo si voltò verso di lei, serio. "Come mai allora è rimasto quì?" - chiese, con tono indagatore.

Si trovò in difficoltà perché odiava mentire ma non poteva fare altro, non poteva dire a Jeremy che lei e Ross, troppo presi dai loro sentimenti, lo avevano dimenticato. "Ci siamo messi a chiacchierare e alla fine... ci è scappato di mente. Glielo farò recapitare a breve".

Lo sguardo di Jeremy si indurì, come a volerla rimproverare, come se avesse intuito che stesse mentendo.

Demelza si trovò a disagio e per un attimo non seppe cosa dire o cosa fare. Jeremy era strano, indecifrabile in quel momento. Per la prima volta da quando era nato, non capiva il suo comportamento e aveva paura. Stava crescendo in fretta, era intelligente e forse... E se avesse notato qualcosa di Ross che lo aveva messo in allarme? E se avesse capito o ricordato? Aveva dei sospetti? "Jeremy, va tutto bene?" - chiese, per l'ennesima volta in quei giorni.

"Sì, perché?".

"Sei strano...".

Jeremy la fissò, serio. "Pure il signor Poldark è strano. Clowance dice che è un selvaggio e che non conosce le buone maniere. In fondo ha ragione, non è educato andare a casa di una Lady di sera tardi, senza invito. E andare a trovarla in camera sua".

Demelza rimase ammutolita perché Jeremy, dal suo punto di vista, aveva ragione. E lei stupidamente non aveva pensato a questo, a come doveva apparire strano agli occhi dei suoi figli, il comportamento di Ross nei suoi confronti, la sua confidenza e le libertà che lei, pur non volendo all'inizio, gli aveva concesso. Jeremy non ricordava Ross ma se non stava attenta, presto avrebbe iniziato a farsi delle domande e a insospettirsi. "Ci ha salvato la vita e quindi direi che l'etichetta, per una volta, può essere dimenticata".

Jeremy alzò le spalle. "Se lo dici tu..." - disse, in tono sibillino. "Ora esci e gli riporti il cappotto?".

"No" – gli rispose, ponderando bene le parole, con cautela.

Jeremy si avvicinò alla porta. "Prima di ridarglielo, dovresti farlo lavare. Credo gli farebbe piacere".

Jeremy aveva parlato lentamente, in un modo strano, come studiando l'effetto che le sue parole avevano su di lei. Demelza deglutì. "Credo di sì, è una buona idea".

"Già! Dovresti averla avuta già tu, mamma!" - sbottò Jeremy, come se si fosse improvvisamente arrabbiato per qualcosa. Poi uscì, chiudendo violentemente la porta dietro di lui.

E Demelza rimase ammutolita, spersa, smarrita. Cosa stava succedendo al suo bambino? Cosa aveva sbagliato? Come doveva comportarsi nel caso che...? Nervosamente si vestì, piena di dubbi e domande. Pensò a Ross e a cosa avrebbe fatto se fosse stato lì e si rese conto che era sola. Era sempre sola, quando doveva affrontare qualcosa coi suoi bambini, bella o brutta che fosse. E che era stanca e che avrebbe voluto qualcuno vicino, qualcuno pronto a supportarla, con cui confrontarsi, a cui affidarsi. Non era facile, non lo sarebbe mai stato, essere madre era un mestiere difficile e nella sua posizione lo era ancora di più.

Decise che, ancora una volta, doveva agire da sola. Quel pomeriggio, al suo ritorno, avrebbe affrontato Jeremy e non gli avrebbe lasciato alcuna via di fuga. Gli avrebbe fatto svuotare il sacco, avrebbe scoperto cosa lo tormentava e in un modo o nell'altro, come sempre, lo avrebbe affrontato.

Ma ora doveva uscire. Si mise un pesante mantello, prese la sua borsa e poi lasciò la sua stanza. Il cocchiere l'aspettava già davanti al cancello.


...


Stretta nel suo mantello, Demelza osservò dalla carrozza la città avvolta dalla neve. Era arrivato ormai febbraio ma l'inverno non sembrava voler mollare la presa su Londra, rendendo esasperante la vita delle classi sociali più basse.

Faceva freddo e sperava ardentemente che l'incontro con Ross durasse poco per tornare a casa. Da Jeremy ma anche dai gemellini che quel giorno stavano facendo impazzire Prudie che era incaricata di far bere loro lo sciroppo per la tosse prescritto da Dwight, che trovavano orribile. Per fortuna Clowance era tranquilla, almeno lei... O sarebbe impazzita!

Aveva scritto a Ross l'indirizzo del cottage scelto per il loro incontro e quando arrivò, lui era già arrivato a cavallo e l'aspettava sull'acciotolato. Scese dalla carrozza, ordinò al cocchiere di tornare a riprenderla fra un'ora e poi andò da lui, col cuore che le balzava nel petto. Era il suo tormento, l'uomo che l'aveva fatta soffrire, che aveva cercato di lasciarsi alle spalle e che l'aveva baciata poche sere prima in un modo tale da lasciarla confusa e stordita per giorni. Ross sarebbe sempre stato la sua dannata maledizione, una maledizione che non le si sarebbe mai tolta di dosso.

Appena la vide, Ross le si avvicinò. La strada di campagna che costeggiava i cottages e che portava nella brughiera era deserta, le altre abitazioni della via sembravano vuote e disabitate e la fila di alberi del viale faceva cadere sulle loro teste la troppa neve che non riuscivano a trattenere sui loro rami. Era un posto incantevole, coloratissimo dei colori della natura in primavera e sonnecchioso e tranquillo in inverno. Tanto vicino alla caotica Londra ma che nel suo piccolo, pareva un mondo lontano e a se stante. Adorava quel luogo, un posto solo suo pieno di ricordi piacevoli e leggeri con i suoi migliori amici, un posto perfetto dove vedere di nascosto Ross.

Lui, appena le fu davanti, le sorrise. "Grazie per avermi dato l'opportunità di parlarti. E' importante, non ti avrei disturbata altrimenti, so che non stai ancora bene".

Demelza tagliò corto, odiava i convenevoli, temeva che i suoi sentimenti e la confusione che aveva in testa la tradissero e aveva poco tempo a disposizione. "Sto bene, sono guarita ormai. Su, entriamo in casa, potremo parlare con più tranquillità".

Ross annuì e poi le si accodò mentre gli faceva strada per il vialetto che portava all'ingresso.

Quando entrarono, lui si guardò attorno. Era un grazioso e piccolo cottage di campagna con un giardinetto davanti, un salotto, una piccola cucina e una camera da letto sul retro. Nulla più... Arredato con grazia, senza nulla di costoso o elaborato e con le tendine bianche alle finestre, quel luogo sembrava dare il benvenuto, col suo fascino discreto, a ogni visitatore che vi metteva piede. "Questo posto è tuo?".

Demelza annuì mentre, inginocchiata, cercava di accendere il piccolo camino. "Sì. Ne ho altri di cottage, fuori Londra, piuttosto cadenti e in disuso. Ma questo l'ho adorato, mi sono innamorata della sua facciata bianca e delle persiane azzurre fin dalla prima volta che Lord Falmouth mi ha portata quì a vederlo e così l'ho fatto sistemare e l'ho reso un piccolo mondo solo mio, dove venire quando voglio rilassarmi, stare sola o con i miei amici".

Lui alzò un sopracciglio, ironico. "Lady Boscawen è una donna piuttosto viziata".

Davanti a quel tono canzonatorio e rilassato, lei decise di stare al gioco. "Sì, certe volte Lady Boscawen è una donna piuttosto viziata".

Ross la guardò sorpreso, ammirato, forse non aspettandosi che lei riuscisse ad evadere di tanto in tanto dal suo ruolo ufficiale, ritagliandosi un mondo che fosse solo suo. "I bambini non vengono quì? Non ci sono giochi in giro".

"No, non ci sono mai venuti. Come ti dicevo, questo posto è solo mio... Ci vengo più o meno una volta a settimana con i miei amici del circolo di tiro con l'arco, dopo la lezione del mercoledì pomeriggio. Chiacchieriamo, beviamo il tè, giochiamo a carte o dadi e ridiamo. E poi torniamo a casa, alle nostre vite. Purtroppo a causa dell'influenza e del freddo, sono settimane che non ci rimetto piede e Margarita, che viene spesso quì con me, è piantonata a casa per via della gravidanza. Col bel tempo questo posto riprenderà vita".

Ross rimase per un attimo in silenzio, affascinato da quella donna tanto in gamba. Era una Lady, una mamma, un personaggio pubblico, ma anche una semplice ragazza bisognosa del suo tempo, dei suoi spazi, di una sua intimità e di un posto che fosse solo suo. "Ti ringrazio per avermi fatto venire quì. Sicuramente sarai gelosa di questo cottage".

"Lo sono, infatti. Ma non trovavo un altro posto adatto dove incontrarti".

Ross si inginocchiò accanto a lei, aiutandola ad accendere il camino. "Lascia, faccio io" – si propose, prendendole dalle mani l'acciarino e un pezzo di legno. "Non è un lavoro da Lady, questo".

Demelza sorrise, trovando ancora una volta irresistibile quella famigliarità che provava ogni volta che si trovava accanto a lui. Forse era normale, erano stati una famiglia una volta, ma che riuscisse ancora a provare certe cose, la lasciava a bocca apera. "Lo faccio spesso, quì. Accendo il camino come lo accendevo a Nampara, sistemo, pulisco. Amo questo posto proprio per questo, quì non sono Lady Boscawen, quì sono solo Demelza".

Ross sorrise. "Lo so, lo vedo".

Demelza prese un profondo respiro mentre il fuoco si accendeva e regalava un piacevole tepore all'ambiente. Era tutto troppo piacevole ed era il caso di portare la conversazione su vie più serie e meno sentimentali. "Cosa dovevi dirmi di tanto urgente?" - chiese.

E Ross si rabbuiò. "Ecco... Devo parlarti di Jeremy".

A quella frase, una strana inquietudine prese possesso di Demelza. Jeremy? Cosa doveva dirle, Ross? E ciò che doveva dirle, c'entrava per caso con lo strano comportamento tenuto dal bambino negli ultimi giorni? "Jeremy...?" - chiese, lentamente. "E' successo qualcosa con lui, Ross?". Il suo tono di voce si alzò e pur cercando di mantenere la calma, si percepiva perfettamente, in esso, una irritazione crescente. Si era in un certo senso fidata di lui, gli aveva permesso di avvicinarsi a lei e ai bambini e se Ross... Santo cielo, se era successo qualcosa fra lui e suo figlio, qualcosa che aveva turbato la serenità di Jeremy, non se lo sarebbe mai perdonata! E non avrebbe perdonato Ross!

Lui prese un profondo respiro e abbassò il capo, come in un moto di vergogna. "L'altra sera, quando ho lasciato la tua camera, l'ho incontrato giù, al piano di sotto. Era da solo e mi sono fermato a chiacchierare con lui. E' stato piacevole, mi ha mostrato la vostra biblioteca e fuori, mi ha fatto salire sulla sua casetta sull'albero".

Demelza si accigliò, trovando molto strano che Jeremy avesse portato Ross in quei posti di cui era geloso e che considerava suoi più di qualunque altra stanza della casa. Molto probabile che Ross si fosse imposto e che questo lo avesse indispettito, pur non osando controbattere per educazione. "E?... Ross, Jeremy in questi ultimi giorni è molto strano, non è sereno e non capisco cos'abbia! Giuda, dimmi che non c'entri, dimmi che non hai fatto o detto qualcosa che...".

Lui la bloccò. "Non gli ho detto la verità, non farei mai una cosa del genere a meno che tu non me ne dia il permesso. Ma credo di averlo offeso o di aver detto qualcosa che l'ha ferito".

Demelza sospirò, ringraziando silenziosamente il cielo e le parole di Ross che avevano scongiurato ai suoi occhi la peggiore delle ipotesi. "Cos'hai detto?".

"Beh, in realtà nulla di così grave, ho solo detto che Hugh aveva fatto davvero molto per lui, pur non essendo suo padre. E si è arrabbiato molto...".

Demelza si morse il labbro, cercando di tenere ferme le mani per non prenderlo a sberle. Come poteva essere tanto insensibile da non capire, Ross? "Certo che si è arrabbiato! Giuda Ross, è come se avessi insultato, ai suoi occhi la memoria di Hugh, come si gli avessi detto che lui e l'uomo che ritiene suo padre, non si fossero mai appartenuti! E' come se tu avessi messo in discussione l'amore di Hugh per lui, un amore che per Jeremy è il fondamento su cui si basa la sua vita e su cui fonda le sue certezze!".

Ross si rabbuiò e il suo sguardo sembrò un misto fra senso di colpa e rabbia. Strinse i pugni, la fissò in viso e poi scosse la testa. "Ma Hugh non era il suo vero padre! Non volevo offendere Jeremy e non volevo offendere la memoria del tuo amatissimo marito! Ho solo fatto una considerazione, ho detto semplicemente qualcosa che Jeremy sapeva già, benissimo!".

Demelza sentì l'irrefrenabile voglia di colpirlo in testa con qualcosa di molto pesante. Come poteva non capire? Come poteva essere tanto egoista da non sapersi mettere da parte? Come poteva ripetere, ancora, i medesimi errori dettati dall'orgoglio che aveva già commesso in passato? Conosceva Jeremy e conosceva Ross e capiva bene cosa spingesse entrambi a comportarsi come stavano facendo. "Cos'è un padre, Ross? Cosa pensi abbia detto ai bambini circa questa figura, in questi anni?".

"Non ne ho idea...".

"Ho detto loro che un padre è colui che ci ama, colui per il quale siamo il primo pensiero, colui che darebbe tutto, anche la sua vita per i suoi figli. E quel qualcuno per loro è Hugh perché è stato Hugh a fare tutte queste cose. Non tu! Con che diritto hai detto a Jeremy che Hugh non era il suo vero padre? Con che diritto pensi di esserlo TU, a tua volta? Perché lo hai fatto?".

Ross impallidì e i tanti sensi di colpa e fantasmi che lo inseguivano da anni, lo raggiunsero di nuovo in quel momento. "Ho solo detto qualcosa che non credevo così importante... Non volevo ferire Jeremy".

Demelza lo bloccò, adirata. "No Ross, non hai detto una cosa così, giusto per dire! Era il tuo orgoglio, la tua voglia di ristabilire il primato in ruolo che credi tuo, a farti parlare così. Non hai pensato a Jeremy, non hai pensato al suo cuore, hai pensato solo a te stesso. Come sempre, come hai sempre fatto anche allora. Pensavo fossi cambiato, ma non è così... In fondo, di cosa mi stupisco? Tu sei sempre venuto prima di tutto e soprattutto verso Jeremy, non hai mai avuto mezzo pensiero... Non lo hai mai desiderato, quando è nato non lo hai praticamente degnato di uno sguardo e poi lo hai abbandonato, appena hai potuto. Io ho creduto a quanto mi hai detto a Natale, ma la sostanza non cambia. Non hai mai voluto essere suo padre, né suo né di Clowance. Accetta che quel ruolo se lo sia preso qualcun altro e sta zitto. E lontano da noi! Non dovevo farti avvicinare, non dovevo farlo dannazione! Sapevo che sarebbe successo qualcosa del genere e non dovevo permetterlo!".

Ross le prese le mani, le strinse nelle sue e il suo sguardo sembro sperso e disperato. "No... Demelza, ti prego, no! Ho sbagliato, di nuovo! Ma non voglio che tu pensi di nuovo, ANCORA, che abbia solo voluto liberarmi di voi. Non è così e non vorrei mai fare del male, di proposito, ai miei figli. E' vero, il mio orgoglio mi spinge spesso ad agire come un idiota, ma... Ma puoi davvero biasimarmi se vorrei avere accanto le persone che amo? Davvero non credi che stia facendo del mio meglio per essere invisibile agli occhi dei miei figli? Davvero pensi che tutto questo non mi distrugga pian piano? Jeremy e Clowance sono i miei bambini, tu sei la loro madre e non posso chiamarvi per nome, non posso abbracciarvi, non posso fare nulla. Devo stare zitto, vedere il ritratto di un uomo che mio figlio chiama papà, devo vedere coi miei occhi tutto quello che quell'uomo ha fatto con e per i miei bambini e io sono geloso. Da morire, odio Hugh! E allo stesso tempo gli sono grato per quanto ha fatto per voi... E non so cosa fare, non so cosa dire! So solo che sono stato preoccupato per Jeremy per tutti questi giorni ed è per questo che ti ho scritto. Se davvero non mi importasse di lui, non ci avrei perso il sonno".

Demelza, come sfinita da una lunga giornata di lavoro, si appoggiò contro la parete. "E ora come la risolviamo?".

Lo sguardo di Ross si fece grave. "C'è dell'altro, non è finita... Credo...".

Lei spalancò gli occhi, seriamente preoccupata. "Cosa?".

"Jeremy e anche Clowance, credo abbiano notato qualcosa di strano fra noi. Durante il discorso di Pitt, nel mio venirti a trovare a casa, nel nostro modo di parlare. Cerchiamo di starci attenti, ma i bambini si sono accorti che fingiamo, che mentiamo su qualcosa. E Jeremy me lo ha detto chiaramente. Mi ha chiesto chi sono davvero e io non so cosa rispondergli".

Demelza si mise le mani fra i capelli, frustrata, spaventata e incapace di trovare una soluzione. Non era certo tutta colpa di Ross se i bambini avevano captato qualcosa e dentro di lei in fondo sapeva anche che questo problema si sarebbe presentato prima o poi. E ora avrebbe dovuto affrontarlo, non solo coi bambini ma anche con tutti coloro che le gravitavano intorno. "Cosa gli hai detto?".

"Che vengo spesso perché lavoro con suo zio. Ma non ci ha creduto... Mi ha chiesto come faccio a conoscere Prudie, mi ha rimproverato per averti chiamata per nome durante i disordini al discorso di Pitt e io... Demelza, non so cosa fare, cosa dire, non so davvero cosa potermi inventare ora, se lo incontrassi".

Demelza alzò lo sguardo guardando il soffitto ed oltre ad esso, come a voler trovare nel cielo una risposta. "Sono arrabbiata con te ma fartelo notare e prenderti a schiaffi ora, non risolverebbe nulla... Abbiamo messo al mondo due figli e ora, dopo tanto, INSIEME, dobbiamo decidere cosa è meglio per loro".

Ross spalancò gli occhi, stupito per quello spiraglio inaspettato ed immeritato che lei gli stava offrendo, nonostante fosse tanto arrabbiata con lui. "Parli sul serio?".

Demelza annuì. "Sì. Sei stato a lungo lontano e il tuo ruolo lo ha ricoperto un altro uomo. Dici che ne soffri, dici che ami i bambini e allora Ross, adesso, tu da padre decidi con ME cosa fare. E una volta scelto, assieme, ci daremo man forte. Per il bene dei bambini!".

"Da padre...". Ross le sorrise, accarezzandole la guancia e pronunciando lentamente quella parola... padre... con una dolcezza nel tono di voce che Demelza non gli aveva mai sentito usare. "Credevo che non avresti più voluto vedermi, dopo quanto ho combinato con Jeremy!".

Lei lo fulminò con lo sguardo. "Io non volevo rivederti mai più già dall'inizio. E non pensare che non ti picchierei, adesso! Giuda, vorrei farlo più di ogni altra cosa ma a che servirebbe? Nel bene e nel male tu non cambierai mai e in fondo, se Jeremy ha dei dubbi su di noi, non è completamente colpa tua ma anche mia. Dovevo rimanere fedele ai miei propositi fin dall'inizio e non farti rientrare nelle nostre vite. L'ho fatto ed ora è giusto che ne affronti le conseguenze".

"Cosa vuoi fare?" - chiese lui, con un filo di voce. "Conosci i bambini meglio di me e sicuramente...".

"Cosa voglio fare?". Demelza scosse la testa, pensando allo sguardo smarrito, rabbioso e triste di Jeremy, alla lontananza fra loro e al desiderio che suo figlio tornasse ad avere fiducia in lei, fiducia che forse aveva perso per i troppi segreti nati in quegli ultimi mesi. "Credo che sia ora di dire la verità, Ross. A Jeremy, almeno... Farà male, si arrabbierà, urlerà, piangerà e mi odierà. Ma poi spero che possa capire, che sia abbastanza grande per farlo. Non voglio mentirgli, io a Jeremy non ho mentito mai! E lui è stato il mio punto fermo, le fondamenta che hanno sorretto la mia vita impedendomi di crollare. Glielo devo... Jeremy è sempre stato un figlio meraviglioso e non si merita le mie bugie".

Ross deglutì. "La verità? Non era quella che non volevi assolutamente che sapesse?".

"Non è invece ciò che tu vuoi disperatamente che lui sappia?" - chiese Demelza, diretta e sibillina.

Ross impallidì davanti a quella domanda tanto diretta e in fondo accusatoria. "Voglio ciò che è meglio per lui, non per me".

Demelza abbassò lo sguardo. "Il meglio per lui è non mentirgli, non più. O perderò la sua fiducia. Non che non corra questo rischio anche adesso, ma credo che la verità, in questo caso, sia la strada giusta. Non sto dicendo che con questo, lo spingerò a cercarti e ad avere un rapporto con te, Jeremy sa la verità sul tuo conto già da anni, sa il motivo per cui non sei con noi, l'unica cosa che non sa è che quel padre che l'ha abbandonato sei tu. Non vorrà avere a che fare con te, questo te lo posso anticipare. E dovrai accettarlo Ross, non hai altra scelta. Lascerò a lui la decisione ma Jeremy nel suo cuore ha già scelto anni fa chi è per lui suo padre. Non so se questo sia giusto, non so cosa sia meglio fare ma per ora non voglio forzarlo a fare niente, non finché io non avrò fatto chiarezza su tante cose. Voglio solo che possa fidarsi di me, che possa parlare con me di tutto e che sappia che ci sarò sempre, che non lo giudicherò e che rispetterò ogni sua decisione".

Ross era impallidito davanti a quelle parole, forse rendendosi conto che ciò che aveva sempre sperato, che i suoi figli sapessero la verità, non li avrebbe ricondotti fra le sue braccia ma anzi, al contrario, li avrebbe allontanati di nuovo. Era atterrito, spaventato e Demelza non poteva dargli torto. Ma era spaventata anche lei e purtroppo ora arrivava per entrambi la parte più difficile.

"Cosa sa Jeremy, di me?" - chiese Ross, con voce spezzata.

Demelza sospirò, ricordandosi lo sfogo avuto con il figlio durante la gravidanza dei gemelli e alla morte di Hugh. Era scossa, era fragile allora, ma spesso si era chiesta se fosse stato giusto lasciarsi andare così con suo figlio, senza pensare alle conseguenze. Soprattutto ora, soprattutto da quando Ross era rientrato nelle loro vite. "Sa la verità che era davanti ai nostri occhi: che amavi un'altra donna, che hai scelto lei e il bambino avuto da lei, che non eravamo abbastanza per te. Non io, non lui, non Clowance...".

Il viso di Ross sembrò una maschera trasfigurata dal dolore. "Tu hai detto questo? A Jeremy?".

"Forse non avrei dovuto, Ross. Ma era l'unica verità che allora conoscessi e volevo che smettesse di aspettarti. E in fondo, ho mentito? O ho solo detto la verità più ovvia?".

Gli occhi di Ross divennero lucidi. "Io ho sbagliato tanto, vi ho fatto del male ma questo non credo di meritarlo. Non puoi avergli detto che non eravate abbastanza per me, non ho mai pensato nulla del genere".

"Eppure, era così, allora! Esistevano solo Elizabeth e Jeoffrey Charles, la tua perfetta Lady e il suo perfetto bambino. Io, Jeremy, Clowance e il nostro bisogno di te erano ininfluenti ai tuoi occhi. Ero solo la figlia di un minatore, erano solo bambini come tanti altri, per te. E dovevamo arrangiarci da soli".

Ross le strinse il polso, convulsamente. "Demelza, non puoi averlo pensato davvero? Eri mia moglie, erano i NOSTRI figli! Non eravate chiunque!".

"E allora perché ti comportavi come se non esistessimo? Cosa dovevo dire a Jeremy, di te? Che lo amavi? Che pensavi sempre a lui? Giuda Ross, non lo hai mai degnato di uno sguardo!".

Ross rimase muto e non seppe rispondere, sulle prime. Abbassò lo sguardo, strinse i pugni e capì che era arrivato il momento di pagare i conti col suo passato. "Ho sbagliato tutto... E ora questo è il prezzo, giusto? L'odio tuo e di nostro figlio, per sempre... Amo Jeremy, amo Clowance ma forse hai ragione tu, a questo punto delle nostre vite questo non conta più per loro. Forse dovrei solo andarmene, tornare in Cornovaglia e permettervi di tornare alla vostra vita serena com'era prima della scorsa estate".

"No!".

Ross sussultò, davanti a quel diniego secco e deciso che di certo non si aspettava. "Cosa?".

"Ora ci sei, Ross! Ci sei e resti! Non scappi, non permetterò che tu lo faccia anche questa volta, non permetterò che Jeremy e Clowance possano pensare che li hai abbandonati ancora una volta, quando il gioco diventava troppo difficile. Come ti dicevo prima, DA GENITORE, tu ora resti e lavori con me per sistemare questo disastro".

"Perché?".

Demelza fece un sorriso triste. "Perché è quì che devi stare, perché se c'è la remota possibilità di salvare qualcosa e di essere qualcosa per i nostri figli in futuro, tu devi dimostrare di volerla e di essere pronto a lottare. Perché la gente di Londra e della Cornovaglia ha bisogno di uno come te a Westminster. Non puoi andartene Ross, è troppo tardi per tornare indietro".

Ross le prese la mano, accarezzandola piano con la sua che tremava. "Ma ho complicato la tua vita".

Demelza alzò le spalle. "La mia vita è sempre stata complicata, ci sono abituata. Lascia fare a me, andrò a casa e parlerò con Jeremy. E poi, pian piano, deciderò il da farsi con il resto della famiglia... Ormai devo dire tutto e per fortuna Falmouth starà via due mesi e questo mi darà tempo di pensare e riflettere sul da farsi. Per gli altri, chiederò a Jeremy di tenere il segreto per un pò e spero che ce la faccia".

"Mi dispiace" – sussurrò Ross.

Demelza lasciò la sua mano, alzandosi di scatto e tornando ad essere la donna pratica che era sempre stata. "Piangere sul latte versato non serve a nulla. Non ho idea di come sarà il futuro, ma devo agire in fretta affinché il presente sia vivibile. Posso contare su di te? Posso sperare che ogni cosa che faremo d'ora in poi e che riguarda i bambini, la faremo insieme, come una squadra?".

"Certo".

Si avvicinò alla sedia dove aveva appoggiato la sua mantella, se la mise addosso e si coprì. "Il mio cocchiere arriverà a minuti e voglio essere a casa il prima possibile. Devo andare...".

Ross annuì e poi, come spinto da una forza impossibile da vincere, le si avvicinò e la abbracciò, affondando il viso nel suo collo. Demelza pensò che volesse piangere ma se anche così era, lui fu bravo a trattenersi. D'istinto, nonostante quello che si erano detti, rispose all'abbraccio perché capiva bene quanto soffrisse, quanto fosse tutto difficile per lui e quanto il futuro potesse apparirgli nero e senza speranza. Anche lei, sette anni prima, si era sentita nel medesimo modo. "Hai un figlio, Ross, non sei solo. Vivi per lui e lui solo, Jeremy e Clowance non sono più tuoi e il solo legame di sangue non può bastare. Non so dirti cosa succederà in futuro, non so se le cose potranno migliorare e forse il tuo bene è accettare di averli persi e di impegnarti ad esserci se mai, un giorno, avessero voglia di avere a che fare con te. Non è detto che succederà ma se succederà, tu dovrai far vedere loro che li hai aspettati, che li hai sempre amati e che sei stato al tuo posto per il loro bene, senza aspettarti nulla in cambio".

Ross non rispose e Demelza potè percepire il suo dolore e il suo turbamento. La resa era difficile da sempre per uno come Ross e accettare che Hugh sarebbe stato sempre nel cuore di Jeremy e Clowance come il loro unico padre, doveva essere la cosa più lacerante della sua vita. Ma lo avrebbe fatto perché nonostante i suoi difetti e il suo orgoglio che ancora lo portava ad agire avventatamente, era cambiato e cresciuto e lo sapeva bene anche lei, ormai.

"Ross, devo andare. Posso contare su di te, allora?".

"Certo".

Demelza si separò da lui e gli indicò l'uscita che presero entrambi, tornando fuori, al freddo e sotto la neve che aveva preso a cadere più copiosa.

Ross la guardò per un lungo istante, smarrito e a pezzi. E a Demelza sembrò invecchiato improvvisamente di dieci anni...

"Buona fortuna. A casa, intendo...".

Demelza sospirò. "La parte più difficile forse stavolta spetta a te, non a me".

"Vuoi che sia presente con Jeremy, quando gli parlerai? Vuoi che venga a casa con te?".

Demelza scosse la testa. "No, sarebbe un disastro. Devi stare lontano da casa mia quanto più puoi, ora. Approfitta del fatto che Falmouth è via e cerca di evitare incontri con noi. Il tempo forse guarirà ogni ferita e la rabbia di Jeremy".

"Va bene" – rispose Ross, chinando il capo in segno di resa ed affidandosi a ogni sua decisione.

La sua carrozza arrivò dopo pochi minuti e appena lui la vide, salì sul cavallo e se ne andò al galoppo prima che qualcuno potesse collegare a lui la presenza di Demelza in quel posto.

Demelza, in silenzio, lo guardò andare via. E nonostante il suo cuore fosse a pezzi e la sofferenza che Ross le aveva procurato negli anni l'avesse logorata e spezzata a lungo, si trovò a dispiacersi per lui e a essere preoccupata. "Cerca di essere forte Ross... Cadere e farsi male è doloroso, rialzarsi è difficile ma se ci sono riuscita io con Hugh, allora puoi farlo anche tu, inventandoti una vita nuova".

E con quel pensiero, salì sulla carrozza e tornò a casa sua.


...


Quando arrivò, trovò la dimora dei Boscawen insolitamente silenziosa per essere pomeriggio.

Un leggero chiacchiericcio delle cuoche proveniva dalla cucina, qualche domestica sistemava il salone ma i bambini parevano silenziosi e nascosti chissà dove.

Accigliata, decise di andare in camera per cambiarsi, prima di cercare Jeremy per parlargli. Voleva riprendere fiato prima di affrontare quella prova tanto difficile e dagli esiti tanto incerti e quindi si diresse verso la sua camera per mettersi quanto meno addosso abiti più comodi.

Quando entrò, il camino era già stato acceso e la stanza era avvolta da un dolce tepore. E non era vuota...

Si avvicinò al cavallino a dondolo di Demian e al suo piccolo principe che, steso in terra di fianco al gioco, armeggiava con qualcosa. "Che cosa stai facendo?".

Preso alla sprovvista, Demian saltò su come un grillo. "Mamma!" - esclamò, nascondendo qualcosa dietro la schiena.

"Che cos'hai in mano?" - chiese lei, sospettosa.

Il bimbo sospirò, mostrandole riluttante dei pastelli a cera. "Questi... Volevo colorare il cavallino, è tutto color legno, non c'ha neanche gli occhietti e la bocca. Posso?".

Demelza osservò quei pastelli, riconoscendoli al volo. "Quelli te li ha confiscati lo zio mesi fa, dopo che hai pasticciato il ritratto di Edgarda! Dove li hai trovati?".

Demian rimase zitto, dondolando il piedino per terra.

"DEMIAN!".

E il bimbo cedette. "Io e Daisy siamo scappati perché non volevamo lo sciroppo della tosse. Prudie è proprio cattiva, più cattiva del gusto dello sciroppo! Anche Dwight è cattivo ad avercelo dato".

"DEMIAN, DOVE HAI TROVATO I PASTELLI?". Demelza sbottò, non aveva tempo da perdere.

"Nello studio dello zio. Io e Daisy siamo corsi lì e ci siamo nascosti nel suo baule per scappare da Prudie. E i pastelli stavano lì, sotto a un sacco di fogli di carta".

Demelza sospirò, i gemelli erano peggio di due cani da caccia, di due seguci. Avevano una casa immensa e trovare quei pastelli era come trovare un ago in un pagliaio. E ci erano riusciti! "Dimmi che non hai scarabocchiato nulla nello studio dello zio!" - chiese, con terrore.

"No, nulla. Ma posso colorare il mio cavallino?".

Demelza sospirò, inginocchiandosi davanti a lui ed accarezzandogli i capelli. Forse non era una cattiva idea lasciarglielo fare, lo avrebbe tenuto tranquillo mentre lei parlava con Jeremy e in fondo se lui stava lì, non avrebbe fatto guai da altre parti. "Va bene, ma solo il cavallino. Dov'è ora Daisy?".

"Nascosta!".

"Da Prudie?".

"Sì".

Demelza scosse la testa. "Avete preso lo sciroppo?".

"No".

Santo cielo, perché era tutto così difficile?! Dopo Jeremy, avrebbe dovuto risolvere anche quel problema. "Clowance dov'è?".

"In camera sua a giocare con le bambole".

"E... Jeremy?".

"In biblioteca. Sta tutto zitto, non vuole parlare neanche un pò. E' arrabbiato con me, mamma?".

Lo strinse a se a quella domanda, colpita come accadeva spesso dalla sensibilità del suo bimbo più piccolo. "No, non con te, tranquillo. Vado io da Jeremy a farlo parlare un pò, mentre tu colori il cavallino. Tu però mi fai un favore, quando hai finito?".

"Cosa?".

"Cerchi Daisy e la porti quì con te?".

Demian si imbronciò. "Vuoi darci lo sciroppo? Anche tu?".

"Sì, ma conosco un modo per bere lo sciroppo senza sentirne il sapore!" - rispose Demelza, strizzandogli l'occhio ed alzandosi in piedi. Sarebbe stata una grossa sfida anche quella coi gemelli... Ma ora c'era Jeremy a cui pensare, prima di tutto. E Ross e il loro passato da affrontare.

Sarebbe stata in mezzo a due fuochi, a una tempesta. E doveva essere forte perché il momento che tanto temeva fin da quando aveva lasciato Nampara, era arrivato.



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Capitolo 53
*** Capitolo cinquantatre ***


Si sentiva il cuore in gola per la paura, mentre camminava lungo i corridoi di quella che aveva imparato a considerare la sua casa, il suo rifugio, la sua nuova vita che l’avrebbe difesa dalla vita vecchia che aveva dolorosamente lasciato. E invece quel fortino apparentemente inespugnabile era caduto miseramente, senza nemmeno troppa fatica, con la semplice e discreta presenza di Ross.

In quei mesi si era comportato egregiamente ma il loro rapporto pregresso e la confidenza che si avvertiva quando erano insieme, non sarebbero potuti passare troppo a lungo inosservati. Falmouth se n’era accorto e, ancor peggio, se n’erano accorti i bambini. Non che non fosse arrabbiata con Ross e la sua voglia di primeggiare agli occhi di Jeremy nel confronto con Hugh, ma Demelza sapeva che quel momento sarebbe comunque arrivato prima o poi.

Pensò ai suoi bambini da piccoli, a Jeremy continuamente trascurato da Ross, a Clowance che non aveva mai conosciuto suo padre e alla partenza dalla Cornovaglia, in un giorno di neve, con sua figlia neonata fra le braccia, l’altro figlio che parlava a malapena e un destino incerto tutto da scrivere.

Ora non era più la donna spezzata di quel giorno ma una persona potente, che avrebbe potuto tranquillamente schiacciare Ross e rovinargli la vita, se solo avesse voluto. Ma la vendetta non faceva parte di lei e soprattutto, non ci sarebbe mai riuscita. Era il padre di due dei suoi figli, l’uomo che aveva amato totalmente e senza riserve per anni e anche se l’aveva fatta soffrire come nessuno mai, non poteva negare a se stessa che quando l’aveva vicino, quando le parlava, quando la sfiorava, un brivido le percorreva la schiena.

Il passato era tornato, ora… In quella casa, nella grande ed inespugnabile reggia dei Boscawen. L’aveva raggiunta e ora sapeva che non avrebbe mai potuto sfuggirgli per sempre. Né lei, né i suoi figli. Tutto sarebbe cambiato perché dopo i bambini, avrebbe dovuto dare tante spiegazioni anche alle altre persone che erano entrate a far parte del suo mondo e chissà se avrebbero continuato a guardarla con gli stessi occhi, saputa la verità… Stava mentendo alla sua famiglia da mesi, su Ross, e non aveva idea di come questo sarebbe stato giudicato. Ma per fortuna Falmouth sarebbe stato via due mesi dandole modo di pensare e Lady Alexandra avrebbe potuto rimanere all’oscuro ancora un po’, con la complicità dei bambini.

Quando arrivò in biblioteca alla ricerca di Jeremy, ci trovò pure Clowance che, probabilmente stanca di stare a giocare da sola in camera, aveva raggiunto il fratello e ora, seduta in terra accanto a lui, leggiucchiava un libro di fiabe.

Demelza entrò, considerando se fosse un bene parlare a tutti e due in contemporanea o se fosse meglio farlo separatamente ma visto che non poteva cacciare via Clowance con nessuna scusa plausibile, decise di affrontare subito entrambi, con tatto, sincerità, amore. E insieme, i bambini si sarebbero fatti forza l’un l’altro…

Jeremy alzò gli occhi dal suo libro. “Sei già a casa?”.

Chiudendo la porta dietro di se, Demelza annuì. “Sì, te lo avevo detto no, che sarei tornata prima che facesse buio? Non ci credevi?”.

Jeremy alzò le spalle con noncuranza e Demelza si rese conto che no, forse non le aveva creduto. Guardò quel suo bambino tanto dolce e maturo, chiedendosi cosa fare, cosa dire e soprattutto cosa passasse nella sua testolina e le risposte che si era dato circa Ross. E sperò di saper raggiungere il suo cuore, che si fidasse di lei come aveva sempre fatto e la perdonasse per avergli taciuto in quei mesi una cosa tanto importante. Sperò che capisse che mentire, in quel caso, non era un voler prendere in giro ma un desiderio di madre di proteggere il proprio cucciolo.

Si avvicinò, sedendosi per terra davanti a loro. “Daisy è qui nascosta da qualche parte?” – chiese. In quel colloquio che stavano per avere, non dovevano esserci distrazioni o altro, voleva fossero soli. E non era il caso che la piccolina, che non poteva capire, sentisse…

Clowance rise a quella domanda. “E’ in fuga da Prudie e non sarebbe tanto stupida da nascondersi qui, sa che la troverebbero subito”.

E dov’è?”.

Clowance rise ancora. “Chi lo sa? Lei e Demian hanno i loro nascondigli segreti e non li dicono a nessuno”.

Demelza sospirò. “Quindi se Demian mi ha detto che dopo la va a cercare, dite che la troverà”.

Jeremy scosse la testa. “Demian non deve cercarla, lui sa già dove trovarla”.

Lui questo non me l’ha detto”.

Suo figlio la guardò storto. “Non te lo direbbe mai. Demian ti adora ma non tradirebbe Daisy e i loro segreti per nessuno, neanche per te! Loro, le loro cose, le tengono nascoste a tutti quanti. Non ti dirà mai dove si è nascosta ma andrà a dirle che la cerchi e te la farà trovare”.

Demelza abbassò lo sguardo, rendendosi conto che erano tante le cose che, fra tutto il resto, le sfuggivano del mondo dei suoi bambini. Non si era accorta dei turbamenti di Jeremy, non si era accorta, se non in parte, del sodalizio un po’ magico fra i gemelli e delle dinamiche che intercorrevano fra i suoi figli e si sentì in colpa. Come poteva non aver notato cose che Ross, invece, aveva avuto subito evidenti davanti agli occhi? “Beh… quanto meno quando la riacciufferò, potrò darle lo sciroppo”.

Clowance le si rannicchiò sulle gambe, poggiandosi a lei. “Sei venuta a leggerci una storia?”.

Deglutì. “No, in realtà volevo parlarvi di una cosa importante”.

Cosa?” – chiese la bimba, curiosa, mentre Jeremy le piantava addosso due occhi penetranti ed indagatori.

Demelza prese un profondo respiro, stava per fare una delle cose più difficili della sua vita. “Del signor Poldark”.

A quelle parole Jeremy si alzò di scatto, divenne cupo e parve desideroso di chiudere lì la conversazione. Ma Demelza lo acciuffò per la manica della camicia, costringendolo a stare al suo posto. “Scappare davanti alle cose che non vogliamo sentire, non risolverà i nostri problemi, Jeremy”.

Non sto scappando, non voglio solo stare a sentire mentre parli di quello lì!” – rispose il ragazzino, a tono.

Clowance guardò interrogativamente entrambi, non capendo un accidenti di quello che stava succedendo.

Sei andata da lui, oggi?” – chiese Jeremy.

Sì, doveva parlarmi”.

Di cosa?” – insistette il bambino.

Demelza gli sfiorò i capelli, cercando di tranquillizzarlo. “Di te. Mi ha raccontato che l’altra sera, voi due… Ecco… Avete avuto un incontro che non si è concluso bene”.

Jeremy la guardò, serio. “Non lo voglio rivedere! Chiunque lui sia, è un bugiardo! E fa diventare bugiarda anche te”.

Jeremy…” – tentò di calmarlo per il suo bene e anche per quello della sorella che, vedendolo così agitato, si stava spaventando. “Siediti e lasciami parlare, per favore. Ti sei sempre fidato di me e vorrei lo facessi anche ora… Ascoltami, fa che ti spieghi e poi potrai decidere se essere arrabbiato o se fidarti ancora di me”.

Jeremy la guardò, torvo, ma poi si risedette, a testa bassa. “Cosa devi dirmi? Che conosci il signor Poldark da tanto? Credo di averlo capito da solo, da come fa con te! Questo mi dovevi dire? Chi è? Arriva dalla Cornovaglia, come noi! E ti chiama per nome e viene qui di sera senza invito, dice cose di papà come se fosse suo diritto farlo e sa cose di noi che non dovrebbe sapere. Chi è?” – chiese, secco, iroso, provocatorio.

Clowance la guardò interrogativamente, in attesa anche lei di una risposta. E Demelza sospirò, prese coraggio e strinse le loro mani. “Chi credi che sia, Jeremy?”.

Non lo voglio sapere, chi è!” – ribatté lui.

Non voler sapere la verità, fa di te un ragazzino non molto coraggioso. Le cose le possiamo affrontare, insieme, come sempre, senza paura, appoggiandoci l’uno all’altro come abbiamo fatto finora”.

Clowance, stanca, sbottò. “Chi è questo signor Poldark?”.

Jeremy la fissò, serio. “Secondo me è nostro padre… Quello che ci ha fatto nascere… Vero, mamma?”.

Non era una domanda, era un’accusa! Jeremy disse quelle parole guardandola negli occhi, rabbioso, spaventato e forse anche per provocare una sua reazione. “Lo è…” – gli rispose, in un sibilo.

Clowance spalancò gli occhi, Jeremy divenne di ghiaccio perché quella che per lui in quel momento era stata solo una fantasia e un’ipotesi, si era trasformata definitivamente in realtà. Una realtà che doveva fargli moltissima paura.

Mamma…” – sussurrò Clowance tremando…

Demelza la strinse a se. “Shhh, non c’è da aver paura”.

Jeremy, scuro in volto, osservò la sorella. “Sì, non c’è da aver paura! E’ solo uno che ha fatto piangere la mamma perché non la voleva, che l’ha lasciata sola, che ci ha abbandonati perché non voleva essere nostro padre ma il padre di un altro bambino, che quando siamo andati via ha fatto una festa e si è dimenticato subito di noi! Giusto mamma, Clowance non deve avere paura di queste cose? Oppure deve averne, visto con chi abbiamo a che fare? Io ne ho, ad esempio... Le persone cattive mi fanno paura e lui certamente lo è!”.

Demelza impallidì davanti a quelle parole e a quel sarcasmo rabbioso, rendendosi conto forse per la prima volta dell’odio che Jeremy si portava dentro, nascosto, celato, forse inconsapevole alla sua parte razionale, ma che c’era. E che forse era stato aumentato dalle sue parole di diversi anni prima quando, in un momento di crisi, si era lasciata andare a uno sfogo con lui che avrebbe dovuto evitare. Jeremy era sempre stato un bambino tranquillo, dolce, gentile e sereno e pensava che aver incontrato Hugh avesse cancellato in lui i segni dell’abbandono di Ross. Ma non era così, ora se ne rendeva pienamente conto. “Posso spiegarti alcune cose, Jeremy? A tutti e due?”.

Del signor Poldark? No, non voglio sapere niente, non lo voglio rivedere e basta! E neanche quel suo bambino stupido che non sa neanche correre bene! Sì, Valentine! Se sapevo chi era, col cavolo che lo volevo allo zoo e alla nostra festa di Natale!”.

JEREMY!”. Lo richiamò all’ordine, non ammetteva che si comportasse così, anche se era sconvolto. Capiva cosa provasse per Valentine, ma Jeremy doveva comprendere che lui non aveva colpe. “Valentine non c’entra con questa storia e tu lo sai! Non posso dire, non posso importi di essere suo amico ma non voglio che, se lo incontri, tu lo tratti male. E’ solo un bambino, più piccolo di te per giunta. E non sa nulla di questa faccenda esattamente come tu e Clowance fino a poco fa”.

E quindi?” – chiese Jeremy, rabbioso. “Cosa dovrei fare?”.

Solo ascoltarmi” – rispose, in tono stanco – “Sentire la nostra storia e poi scegliere insieme come comportarci”.

Il bambino si appoggiò con la schiena alla libreria. “Perché è qui? Ci cercava? Lo hai chiamato tu? Cosa vuole?”.

"Jeremy...".

"E cosa vuoi, tu?" - insistette Jeremy, alzando la voce.

Lo sguardo di Demelza si indurì. Ci stava la rabbia di Jeremy, ci stava che si sfogasse e tirasse fuori tutto ciò che aveva dentro ma non voleva che oltrepassasse il limite. Per lui, per se stessa e per Clowance. La rabbia è un sentimento che corrode e per Jeremy sarebbe stata solo deleteria. "Voglio che tu non tratti male Valentine, per prima cosa...".

Trattenendo a fatica la rabbia, il bambino tornò a sedersi. "No, non lo farò... Anche perché, sai una cosa? Mi spiace per lui, non ha la mamma come me e quando SUO padre si stancherà come si è stancato di noi e troverà qualcuno che gli piace di più, lo lascerà solo e Valentine morirà di fame e di freddo! Senza neanche una mamma che si preoccuperà per lui. Con un papà come quello, se fossi in Valentine mi preoccuperei molto...".

Demelza rimase spiazzata da quelle parole sicuramente piene di fiducia verso di lei nonostante la rabbia, un inno d'amore per quanto avevano vissuto insieme e un riconoscimento per il suo ruolo di madre, ma allo stesso tempo incredibilmente e amaramente dure verso Ross. Jeremy lo vedeva e immaginava come un mostro e... come poteva spiegargli che no, Ross non avrebbe mai fatto del male a suo figlio quando invece, anni prima, ne aveva fatto a loro? Come poteva spiegare a due bambini l'inspiegabile, qualcosa che nemmeno lei ancora aveva compreso fino in fondo? "Tuo padre...".

"Il signor Poldark!!! NON mio padre!!!" - la interruppe Jeremy. "E lo chiamo 'signore' solo perché voi grandi volete che sia educato".

Demelza prese un profondo respiro, colpita da quella rabbia che Jeremy aveva sempre celato benissimo e che ora usciva con violenza. Beh, forse aveva ragione lui, non poteva definirlo 'padre', non in quel momento almeno. "Il signor Poldark... non metterebbe mai suo figlio in pericolo... Così come non aveva voluto far del male a voi. E di questo, se ti fidi di me, devi esserne certo. E' una persona che ha fatto molti errori, lo sa e ne è consapevole. Ma non è cattivo, non lui".

"Conosco i papà di tutti i miei amici e anche se non sono forse perfetti e magari sbagliano qualcosa, NESSUNO di loro ha mai abbandonato i suoi bambini. I papà dei miei amici hanno tutti voluto essere i loro papà, non hanno buttato via i loro bambini".

Clowance, stranamente silenziosa, non apriva bocca e guardava per terra, giocando con la manina con la moquette. Ma Jeremy non aveva davvero voglia di tacere e proseguì. "Perché è quì? Vuole qualcosa da noi? Da te? E tu vuoi dargliela?".

"Lasciami spiegare..." - sussurrò Demelza con voce rotta, sentendosi impotente davanti alle reazioni di Jeremy e alle sue recriminazioni, tutte giustissime ma forse anche in parte ingiuste verso Ross. Strinse a se una silenziosa Clowance e iniziò a raccontare, cercando le parole adatte per far capire a due bambini ancora piccoli il senso di quella loro difficilissima storia. "Ross Poldark... è un uomo pieno di ombre, Jeremy. Sa essere coraggioso ed indomito e fare cose grandi e allo stesso tempo sa commettere errori altrettanto grandi. Forse è così che succede, alle persone fuori dal comune, sono capaci di fare tanto sia nel bene che nel male. Eravamo sposati, noi, e voi siete nati da quel matrimonio. Ci voleva bene, ci amava, ma nella sua testa era rimasta la sua prima ragazza, il primo amore. E i primi amori – lo capirete quando sarete grandi – sono quelli più perfetti, magici, idilliaci. Appartengono alla sfera dei sogni dove tutto è bello e non ci sono problemi come nella vita reale. Vostro padre stava attraversando un momento difficile dove tutto andava male e ha cercato quel suo sogno di quando era giovane, forse illudendosi di trovare la perfetta felicità che sembrava aver perso. Non era consapevole di farci del male ma hai ragione, ce ne ha fatto e lo sa anche lui. E quando lo ha capito era troppo tardi, non poteva tornare indietro e per tutto questo tempo ha pensato a noi, al male che ci aveva fatto e a dove potessimo essere. E' venuto a Londra per questioni di politica, non per cercarci e chiederci qualcosa, e per caso ci siamo incontrati. E ha scoperto dove avevamo vissuto e com'era stata la nostra vita in questi anni. Non volevo mentirvi e non volevo che lui si avvicinasse a voi, volevo che sparisse ma è stato mio marito e vostro padre e ho capito che sarebbe stato impossibile che succedesse, che se ne andasse dopo che ci eravamo rincontrati. Non vi ho detto chi era e ho chiesto a lui di fare altrettanto per non turbarvi e per farvi stare sereni e senza pensieri, non per prendervi in giro. Vi amo, non vi ho mai nascosto nulla e se ho omesso in passato qualcosa è perché una madre ama i suoi figli e sa valutare cosa sia meglio e cosa no per loro. Vostro padre ci ha cercati ma io non gli avevo detto dove saremmo andati quando sono partita e così a un certo punto ha dovuto arrendersi. Il mondo è infinito quando si cerca qualcuno che si è perso...".

"Ma tu hai detto...".

Demelza capì a cosa si stava riferendo Jeremy. "Quando quella sera ti ho detto quelle parole su Ross Poldark e tu eri piccolo e io aspettavo i gemelli, ero sconvolta, arrabbiata e ferita. E in quello stato si dicono cose che non si dovrebbero dire, dettate dalla rabbia. Non ti ho mentito, ho espresso quello che era il mio punto di vista e tu mi hai creduto. Ma sai, ho imparato una cosa, Jeremy".

"Cosa?".

"Che per farti davvero un'idea su qualcosa, devi sentire entrambe le parti. L'ho imparato anche io, parlando in questi mesi con Ross Poldark... col signor Poldark, quando ho potuto farlo. E ho capito che a volte, da soli, ci facciamo idee e immaginiamo cose che magari nella realtà non sono davvero così. Tuo padre ci ha abbandonati e per anni ho maledetto ciò che aveva fatto e l'avevo giudicato il peggiore degli uomini, mentre ora... Ora sono ancora arrabbiata con lui per tante cose ma ho capito che non è il peggiore ma solo un uomo, nel bene ma anche nel male. Che fa del suo meglio ma che può anche sbagliare clamorosamente... Questo non significa che dimenticherò cosa ha fatto, né che tornerò a frequentarlo, né altro. Ma ho imparato, grazie a lui, a capire quanto noi esseri umani sappiamo essere fragili. E che la cosa importante è l'equilibrio finale, capire i nostri errori, ammetterli e fare ammenda per non commetterli di nuovo. Ed è questo e il saperlo fare, che fa la differenza in un uomo".

Jeremy abbassò il capo. "Non ha capito niente, LUI!".

"Perché ne sei tanto convinto?".

Jeremy scosse la testa mentre i suoi occhi diventavano lucidi. "Chi abbandona i suoi figli, è cattivo e basta! Non cambia, un cattivo nasce cattivo e muore cattivo! E non voglio vederlo mai più!".

Demelza lo strinse a se come a volerlo proteggere dai suoi sentimenti, dalla paura e dal senso di smarrimento che probabilmente stava provando e che doveva essere molto simile al suo, quando aveva rivisto Ross la prima volta. Clowance forse non poteva capire ma lei e Jeremy invece sì, entrambi avevano vissuto coscientemente sulla loro pelle quell'abbandono e entrambi ne portavano le cicatrici. "Non devi avere paura, ci sono io. Come sempre...".

"E tu cosa vuoi fare?" - chiese Jeremy, in lacrime.

Demelza gli sorrise dolcemente. "Non lo so, non lo so ancora. Tutte le mie decisioni hanno finito per stravolgersi e ora vivo alla giornata. Non so cosa sia giusto o sbagliato, cosa debba o non debba fare ma so che dovevo dirvi la verità".

Jeremy guardò Clowance in viso e poi ancora lei, asciugandosi le lacrime con la mano. "Io non lo voglio vedere! Ti prego, non farmelo incontrare, non lo voglio! Lui ha scelto, quando ero piccolo, che non mi voleva e preferiva qualcos'altro. Ora scelgo io, anche io voglio qualcos'altro. Tutto, ma non LUI!".

Lei rimase spiazzata per un attimo perché non sapeva cosa fare e cosa fosse più opportuno. Non era giusto imporre Ross ai bambini dopo quelle scelte scellerate e quegli anni di lontananza che li avevano resi i figli di un altro e allo stesso tempo le sembrava anche, in qualche modo, ingiusto ciò che Jeremy aveva detto di Ross. Non sapeva davvero che pesci pigliare e brancolando nel buio, scelse la soluzione più ovvia, quella che al momento avrebbe tranquillizzato Jeremy in attesa che lei, da madre, capisse cosa fosse meglio per tutti. "Nessuno ti obbliga a frequentarlo, Jeremy. Se non vuoi, sei libero di non vederlo. Anche tu, Clowance".

La bambina, silenziosa e pallida, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, annuì. "Non lo voglio vedere! Non è mai esistito, quindi per me non esiste neanche adesso".

Stranita da quella reazione apparentemente fredda e distaccata, Demelza le accarezzò i lunghi capelli biondi. Clowance era come Ross, un vulcano in ebollizione che spesso rimuginava a lungo senza rendere gli altri partecipi delle loro emozioni e dei loro pensieri. "Non hai domande da farmi?".

"No!" - rispose lei, che di domande su Ross, dopo tutto, non ne aveva mai fatte.

"Sicura?".

"Sicura".

La strinse a se, come Jeremy. Sapeva che anche lei, nonostante quell'atteggiamento, si sentiva smarrita. "Va bene, se non hai voglia di parlare, lo rispetterò. Ma sai vero, che quando vorrai, potrai venire da me in qualsiasi momento?".

"Sì, lo so!".

Jeremy si soffiò il naso, finendo di asciugarsi le lacrime cristallizzate sul suo viso. "Io voglio fare come Clowance, mamma. Non voglio vedere il signor Poldark e non voglio parlare con lui. Ho un padre, si chiama Hugh Armitage e mi ha voluto bene senza mai pensare di abbandonarmi. Tu una volta mi hai detto che chiamare un uomo 'papà' è un onore e io questo onore lo do solo a chi mi ha amato, non a chi non mi ha voluto".

"Non ci ha voluto!" - disse improvvisamente Clowance, facendo sussultare entrambi. "Io piaccio a tutti e lui doveva essere quello a cui piacevo di più! Invece nemmeno è venuto a conoscermi quando sono nata, quindi lui non lo voglio! Che se ne torni nella sua Cornovaglia, in campagna! Noi siamo Boscawen, non Poldark! Mandalo via!".

Demelza, atterrita, li strinse a se. Quanta rabbia mai espressa c'era in loro, quanta delusione, quanto dolore che forse avrebbe covato a lungo sotto le ceneri per esplodere in chissà quali modi quando fossero stati adulti, se non fosse arrivato Ross a riaprire quelle ferite adesso, quando magari era ancora possibile curarle. Non sapeva come, ci avrebbe sbattuto la testa al muro per capirlo ma doveva trovare un modo per dare a tutti un senso di pace. "Il vostro cognome è Armitage e Hugh vi ha adottati, quindi siete i suoi figli. Ma non siete nati da lui e lo sapete e il signor Poldark farà sempre parte della vostra vita, che lo vogliate o no. Se non desiderate vederlo, nessuno vi obbligherà a farlo ma non posso mandarlo via da Londra. E' quì per fare qualcosa di importante e lui è uno dei pochi che può riuscirci. Credetemi, io lo conosco meglio di voi".

"Cosa?" - chiese Jeremy. "Cosa deve fare di importante?".

"E' un uomo dai tanti valori ed ideali, Jeremy. Anche se ti risulta difficile crederlo... Non è a Londra, a Westminster, per diventare ricco e importante ma per aiutare chi ha meno di noi e rendere migliori le vite dei più bisognosi".

Jeremy sospirò. "Aiutare i poveri facendo leggi per loro?".

"Sì, ha sempre lottato per queste cose" – rispose Demelza, sperando di suscitare in Jeremy almeno un minimo di ammirazione verso Ross.

Ma il bambino la gelò. "Allora è uno a cui piace fare l'eroe, a cui piace sentirsi dire che è bravo. Aiuta i poveri e i bambini degli altri e poi abbandona la sua famiglia e i suoi, di bambini".

Demelza scosse la testa. "Non è così, Jeremy. Per quanto male mi abbia fatto, lui non è così. Non ha mai cercato né gloria né fama e tutto quello che ha sempre fatto, lo ha fatto con generosità, solo per desiderio di aiutare gli altri".

Il ragazzino alzò le spalle. "Se lo dici tu...".

"Se lo dico io, se riesco a dirlo io, tu devi credermi".

Jeremy alzò lo sguardo, guardandola negli occhi. "Vuoi vederlo? Resti la moglie di Hugh, di mio padre!".

Era una domanda difficile quella, nemmeno lei sapeva bene cosa provasse per Ross. Era consapevole però di provare molto più di quanto avrebbe voluto e che quando era con lui, cadevano ogni sua barriera e ogni sua difesa... "Non lo so. Deciderò, come te. Ma quello che decido io per me, non toccherà quello che hai deciso tu per te. Lo prometto. E prometto che nel mio cuore, MAI mancherò di rispetto a Hugh, a vostro padre".

A quelle parole, Jeremy parve rasserenarsi un pò. Si sporse in avanti e la abbracciò, forte. "Cosa dobbiamo fare, allora?".

Gli accarezzò la schiena e con l'altra mano strinse a se Clowance. "Quando me ne sono andata dalla Cornovaglia, tu eri piccolino e Clowance era una neonata e me la tenevo in braccio, avvolta da una coperta di lana. E mentre su quella carrozza vi guardavo, ho capito che noi tre saremmo sempre stati una squadra unita e che avremmo combattuto ogni battaglia insieme. Solo una cosa vi chiedo, ora, e spero me la concediate".

"Cosa?".

"Che taciate la vera identità di Ross Podark con tutti, anche con la nonna e lo zio. Voglio essere io a parlar loro di lui, è una cosa da grandi e vorrei che voi facciate finta di niente. Se vostro zio sapesse qualcosa, potrebbe trovare il modo di farlo cacciare dal Parlamento e tante persone che contavano sul signor Poldark, non avrebbero più nessuno a difenderle. E' importante e so che, anche se siete bambini e vi chiedo molto, saprete mantenere questo segreto. Per il bene di tutti!".

Jeremy, da sempre maturo, annuì. E stranamente annuì subito, senza fare storie, anche Clowance, notoriamente più pettegola. "Va bene, mamma".

Li baciò sulla fronte. "Sapete che per ogni cosa, io ci sarò, vero? Verrete da me, ogni volta che ne avrete bisogno, che avrete paura o domande da farmi?".

Jeremy le sorrise. "Sì, come sempre".

Demelza si alzò da terra, sistemandosi la gonna. "Dovremo mantenere il segreto anche coi gemelli, non devono sapere nulla. Son troppo piccoli e non capirebbero...".

Jeremy, a dispetto di tutta la situazione, ridacchiò. "Come facciamo a dirglielo? Si nascondono come ladri!".

A quelle parole, Demelza sussultò. Lo sciroppo, dannazione! C'era anche quella faccenda da risolvere...

Guardò i suoi due bambini, li riabbracciò forte e li strinse a se per dar loro coraggio. Per quanto avessero cercato di apparire forti e decisi, non erano che due bimbi ancora piccoli, schiacciati da una vicenda più grande di loro. Sarebbero crollati, ci sarebbero stati pianti e recriminazioni e un giorno, sicuramente, un faccia a faccia con Ross. Ma per ora andava bene così, essere stata sincera e aver fatto capire loro che li amava e che rispettava i loro sentimenti. "Temo...".

"Di dover andare dai gemelli?" - chiese Clowance.

Demelza annuì. "Venite con me?".

Jeremy si risedette per terra. "Preferirei restare quì".

"Anche io, per un pò" – aggiunse la sorellina.

Li baciò sulla fronte, comprendendo che forse volevano stare un pò da soli. Anche Jeremy e Clowance in fondo, come i gemelli, avevano un loro fortissimo ed esclusivo rapporto che non volevano condividere con gli altri. "Come volete. Io sono in camera, se avrete bisogno...".

Loro annuirono, apparentemente più calmi. E Demelza andò, prima in cucina a recuperare lo sciroppo e poi di sopra, col cuore che le martellava in gola. Se la situazione fra lei e loro sembrava essersi rasserenata, la posizione dei bambini verso Ross rimaneva durissima e avrebbe dovuto trovare qualche soluzione quanto prima. Era vero, Ross aveva sbagliato... Ma era pur vero che era il padre di Jeremy e Clowance e loro avevano bisogno di lui. L'indifferenza avrebbe potuto significare che non provavano nulla per lui ma la rabbia no, la rabbia era qualcosa di vero e tangibile che esprimeva sentimenti che, da negativi, forse potevano diventare positivi. Vero, Hugh era il loro padre, nel loro cuore sarebbe sempre stato così. Ma era morto e nella loro vita, Jeremy e Clowance avrebbero avuto bisogno di un'altra guida e in cuor suo sapeva che Ross poteva esserlo, che era disposto ad aspettarli, a sentirsi addosso il loro odio e a stare all'angolo fino al giorno in cui, forse, loro sarebbero stati pronti per andare da lui. Jeremy da piccolo aveva aspettato a lungo Ross a una finestra e ora Ross era disposto a fare altrettanto... E quel pensiero li rese agli occhi di Demelza molto più simili di quanto loro si fossero mai accorti, un padre e un figlio... Ed era una realtà incontrovertibile.

Entrò in camera e anche se non li vide, avvertì chiaramente la presenza dei due figli più piccoli che dovevano essersi nascosti da qualche parte. Iniziava un'altra battaglia, probabilmente non meno dura... "Uscite allo scoperto!" - ordinò.

La vocina di Daisy la raggiunse da chissà dove. "Sei Prudie?".

Sbuffò. "Ti sembro Prudie!".

"No, ma magari sei lei che ha imparato a cambiar voce".

"NON-SONO-PRUDIE!" - sbottò.

"Sei sola?" - chiese Demian.

"Sì...".

E a quel punto i due bimbi sbucarono come ladri, da sotto il letto, facendo capolino dalla coperta che cadeva ai lati dello stesso.

Demelza si mise le mani sui fianchi. "Fuori da lì!".

Daisy guardò in cagnesco la bottiglietta che aveva fra le mani. "Non lo voglio!".

Con infinita pazienza Demelza si avvicinò loro, sedendosi sul letto. "Conosco un trucco per bere lo sciroppo senza sentirne il sapore".

"Davvero?" - chiese Demian.

"Giuro! Sono una mamma e le mamme sanno tutto, non lo sai?" - gli chiese, pensando amaramente che avrebbe voluto davvero sapere tutto ma non era possibile.

Daisy, scettica, la guardò storto. "Quale modo?".

Sorrise loro. "Tappatevi il nasino, aprite la bocca e mandate giù lo sciroppo. Una volta che lo avrete nel pancino, lasciate la presa sul naso e vedrete che non sentirete alcun sapore".

Daisy dondolò il piedino, ancora scettica. "Io ti credo! Ma se è una bugia, io lo sciroppo non lo prendo più! Gli dico a Prudie e Dwight di tapparselo loro il naso e di berselo tutto!".

Sospirando, Demelza riempì i due cucchiai che aveva portato con se. "Avanti, nasini tappati!".

Demian fiducioso e Daisy un pò meno, ubbidirono, dimostrando che come Jeremy e Clowance, sapevano affidarsi a lei e alle sue parole. E con un gesto veloce, prima che cambiassero idea, Demelza mise loro in bocca i cucchiai, facendo scivolare nelle loro bocche la medicina.

I bimbi deglutirono, lasciarono la presa sul naso e poi la guardarono ad occhi spalancati. "E' vero!" - esclamarono, contenti e increduli.

Lei rise. "Visto? Avete fatto correre Prudie tutto il pomeriggio per niente!".

Daisy le fece la linguaccia. "Così diventa magra! E' diventata più grassa di Babbo Natale quando ci ha portato i doni a Natale!".

Demelza rise e la strinse a se, assieme a Demian. Il suo principe e la sua orsetta che la facevano dannare ma anche ridere di cuore... E poi Jeremy e Clowance, le loro lacrime, la loro rabbia e la fiducia che, nonostante tutto, le avevano accordato ancora. Era a casa e non importava dove fosse. Essere coi suoi figli e sentirli vicini era casa, in qualsiasi parte del mondo. E per il momento questo le bastava... Anche se questo pensiero, paradossalmente, le faceva sentire più vicino Ross. Lei aveva i bambini, lui no ed era consapevole che forse mai avrebbe potuto abbracciarli come faceva lei. E a quel pensiero le vennero una profonda tristezza e una infinita pena che le fecero sentire i sentimenti di Ross più vicini e vivi. Un pò suoi. Perché sapeva che quanto detto da Jeremy sull'animo di Ross, non corrispondeva a verità.


...


In biblioteca era calato il silenzio e Jeremy e Clowance, vicini, si erano seduti con la schiena appoggiata alla libreria per bambini.

La piccola Clowance, con la testolina sulla spalla del fratello, stropicciò le pagine di un libro che aveva fra le mani. "Cosa pensi?".

"Di cosa?".

"Di quello che ha detto mamma".

Jeremy sospirò. "L'ho detto cosa penso, prima. Sei tu che sei rimasta zitta".

Clowance si tirò su, fronteggiandolo. "Io non lo voglio! L'ho detto, non esiste! Non pensiamoci più, Jeremy! Siamo Boscawen, Hugh è nostro padre, un giorno tu sarai Lord e io una Lady. Il signor Poldark è un selvaggio, un piccolo nobile di campagna che non c'entra nulla con noi. E' inglese ed è più selvaggio degli scozzesi in gonnella che un giorno saranno conquistati da Demian e Daisy! Io sto bene senza di lui, son sempre stata bene senza di lui. Non lo voglio, non voglio nemmeno parlarne!".

Jeremy la occhieggiò. "Infatti non devi parlarne, hai sentito che ha detto mamma? Saprai stare zitta e tenere il segreto?".

Clowance lo guardò, decisa. "Certo! Figurati se lo dico in giro che quel... quel selvaggio che da i pugni... è mio padre! Mi vergognerei tantissimo. E tu, saprai non dirlo?".

"Certo..." - rispose Jeremy, anche se dubitava che le sue motivazioni fossero le stesse di Clowance. "Hai paura?".

"No, non esiste, LUI non esiste!" - insistette la bambina.

"Come vuoi...".

Jeremy tornò silenzioso e Clowance non disse nulla per alcuni istanti. Poi però gli sfiorò con la mano il braccio, chiamandolo. "Jeremy?".

"Sì?".

"Anche se non esiste e non ho paura, posso abbracciarti un pò?".

Jeremy annuì, voltandosi verso di lei. E come aveva sempre fatto da quando era nata, da bravo fratello maggiore che deve sopperire all'assenza di un padre la strinse a se, in silenzio, rendendosi conto che Clowance non voleva parlare ma solo sentirlo vicino, proprio come lui aveva desiderato sentire vicina sua madre poco prima e in quegli ultimi confusi giorni.


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Capitolo 54
*** Capitolo cinquantaquattro ***


Demelza gli aveva scritto alcune lettere, dopo il giorno del loro incontro segreto al suo cottage. Era stato in ansia a lungo circa l'esito del suo colloquio coi loro bambini da cui dipendeva forse tutta la sua vita e il suo futuro con la famiglia che amava e lei, anche se teoricamente non era tenuta a farlo, l'aveva informato di quanto avvenuto.

Era stata dolce, attenta e gentile verso tutti, Demelza, lui compreso. Anche se probabilmente non se lo meritava ed aveva finito, un'altra volta, per metterla nei guai e in una posizione difficile. Quando avrebbe imparato ad amarla e basta e a renderla felice ad ogni ora del giorno? Quando avrebbe imparato ad essere un pò più simile a quel Hugh Armitage che aveva conquistato il suo cuore e quello dei loro bambini? Non che volesse snaturare se stesso ma aveva capito, in quei mesi, che da quell'uomo che un pò odiava, doveva anche imparare, lasciando da parte la gelosia.

La lettera di Demelza gli aveva spezzato il cuore. Non che si aspettasse che Jeremy e Clowance corressero da lui a braccia aperte, chiamandolo papà in lacrime per la commozione, ma... Ma forse ci aveva segretamente sperato un pò. O semplicemente, avrebbe sperato in una reazione meno dura. Demelza gli aveva scritto, con tatto, ma chiarezza, di un netto rifiuto in entrambi i bambini verso di lui e in una grande rabbia espressa soprattutto da Jeremy che probabilmente mai aveva dimenticato davvero e del tutto quel padre sparito per farsi gli affari suoi, lasciandolo a crescere da solo con sua madre e sua sorella. Era stato un padre orribile con Jeremy e non poteva nascondere a se stesso di aver avuto paura di amarlo, quando era nato. Quella paura lo aveva portato lontano da lui, l'aveva portato ad ignorarlo e a prenderne le distanze. Da suo figlio, da un bimbo che allungava sempre le manine per farsi prendere in braccio da lui ogni volta che era in casa, un figlio che una volta, in lui, vedeva il suo grande eroe. Santo cielo, cosa aveva fatto? Come aveva potuto? Se quella sera fosse rimasto a casa a farlo giocare, a godere delle sue parole stentate e dei suoi sorrisi, nulla sarebbe successo... Se avesse stretto fra le braccia Demelza ed accarezzato il suo pancione dove cresceva Clowance invece che correre a letto da Elizabeth, nulla sarebbe successo...

E ora, che pretendeva? Che i suoi figli lo amassero e lo considerassero un padre? Come avrebbero potuto farlo quando, di fatto, lui un padre per loro non lo era mai stato, né materialmente, né spiritualmente o affettivamente?

Faceva male sapere dell'odio di Jeremy e dell'apparente freddezza ed indifferenza di Clowance ma non era forse quello che si meritava? Non era forse quello che averebbe fatto anche lui a suo padre, se si fosse comportato allo stesso modo, lasciandolo solo, senza un nome e senza una guida?

Demelza gli aveva raccontato che per ora era meglio che stesse lontano e lo avrebbe fatto per rispettare i patti presi con lei e per il bene dei bambini, ma poi? Come evitarli? Ed era giusto evitarli e, di fatto, abbandonarli di nuovo? O doveva iniziare a lottare per loro e per il loro amore, dimostrandogli che c'era e che li amava? Ma come? Cosa fare col cuore a pezzi e le gambe spezzate dal dolore che lui stesso aveva fatto provare ai suoi figli e che loro gli stavano restituendo in pari modo? E una volta che Falmouth avesse saputo la verità, cosa sarebbe successo? Cosa avrebbe fatto Demelza, come sarebbe sopravvissuta a quel terremoto che avrebbe colpito lei e tutto il casato dei Boscawen? Demelza era stata chiara nella sua lettera, avrebbe parlato con Falmouth al suo ritorno dal Portogallo e questo avrebbe gettato nuove luci e nuove ombre sul suo ruolo di Lady Boscawen e sulla posizione dei suoi figli in quel casato. Il suo ritorno aveva distrutto la pace e la serenità che lei si era riconquistata a fatica e anche questo lo faceva sentire in colpa. E lui, dopo tutto questo? Sarebbe ancora stato accolto in quella casa? O cacciato, come il peggiore dei criminali?

Dalla prima lettera di Demelza erano passate alcune settimane di completo silenzio, prima che lei gli scrivesse ancora. In quel lasso di tempo lui aveva cercato di evitare casa Boscawen ed incontri fortuiti con lei ma friggeva a non sapere più nulla. E finalmente la sua pazienza, quella mattina, era stata premiata con un'altra lettera in cui lei lo rassicurava sul fatto che i bambini stavano bene, sembravano sereni e anche se non facevano domande su di lui, sembravano aver ritrovato fiducia in lei e spesso, quando erano pensierosi, le andavano vicino alla ricerca di un abbraccio. Questo lo rincuorava, era importante che avessero almeno un punto di riferimento in quel periodo difficile anche se Demelza gli aveva scritto che probabilmente, pur non parlandone ancora nemmeno con lei, i bimbi stavano pensando molto a quello che si erano detti e che dovevano pazientare affinché si sentissero pronti ad affrontare l'argomento.

E lui avrebbe aspettato, finché fosse stato necessario...

Finì di vestirsi, sistemandosi il colletto della camicia. I lavori in Parlamento erano stati fermi dieci giorni e riprendevano quel pomeriggio per delle questioni che richiedevano la sua presenza per delle firme.

Ross fece per mettersi il tricorno quando Valentine, seguito da Tannen, corse da lui. "Papà, guarda!" - esclamò il bimbo, con un foglio in mano.

Ross lo prese. "VALLENTINE... Hai scritto il tuo nome, bravo!" - esclamò, scompigliandogli i ricciolini neri. "Ma perché hai scritto Valentine con due L?" - chiese, incuriosito dall'approccio di suo figlio coi primi rudimenti di studio.

Il piccolo alzò le spalle. "Meglio in più che in meno! Lo dice Jane Gimlet quando cucina o quando andiamo a fare la spesa!".

Ross scoppiò a ridere, rendendosi conto che parlare con Valentine era divertente e che avere quel figlio accanto era per lui un premio che, in un certo senso, a lungo non aveva voluto ritirare ma che ora stava assumendo contorni definiti che ne rendevano palese il grande valore che aveva per lui. Lo aveva trascurato a lungo senza rendersi conto di quanto entrambi avessero bisogno l'uno dell'altro e che quel bambino, come Jeremy e Clowance, aveva il diritto a pretendere amore. Lo prese in braccio, osservando il foglio che teneva nella mano libera. "Bella scrittura, elegante, bravo! Ma Jane Gimlet, quando dice quello che mi hai raccontato, si riferisce al cibo! Non puoi aggiungere lettere al tuo nome, ne cambieresti il significato".

"Ma non ho neanche una lettera doppia nel mio nome! Tu ce l'hai! Pure Tannen ce l'ha! E io?".

Ross, ridendo, lo rimise a terra. "Noi abbiamo nomi corti e banali, per questo ci servono lettere doppie! Tu hai un nome lungo ed importante, non ne hai bisogno".

"Ohhh". Valentine spalancò la bocca, sorpreso e impressionato da quelle parole. "Importante? Io?".

Ross annuì, mettendosi il tricorno in testa. "Sei mio figlio, certo che sei una persona importante! E ora, a più tardi! Sono quasi in ritardo".

"Vai a lavorare?".

"Purtroppo sì! Tu fa il bravo e se ti riesce, porta fuori il cane a correre un pò".

Valentine sbuffò, questa cosa del correre non gli era ancora entrata nel sangue. "Va bene..." - borbottò.

"E' compito tuo, lo ricordi? E ricordi che ha detto Dwight?".

Il piccolo alzò gli occhi al cielo. "Devo correre... Anche Tannen deve correre, Jane dice che sta diventando grasso!".

"Già" – constatò Ross osservando il cucciolo. E dopo aver dato a Valentine un'altra carezza sui capelli, uscì di casa diretto a Westminster. In fondo, pur non avendone voglia, quel luogo lo avrebbe distratto dai suoi pensieri. Ne aveva tanti, di pensieri... La nostalgia e la voglia di Demelza, Jeremy e Clowance che probabilmente lo avrebbero odiato per sempre e sì, anche il futuro di Valentine. Come avrebbe voluto che tutti insieme, tutti loro, fossero una famiglia felice. Ma come poteva desiderare una cosa così? Come poteva chiedere tanto a Demelza e al destino, dopo tutto il male che aveva fatto? Come poteva riuscire in quell'impresa così difficile e a tratti impossibile? Come poteva anche solo pensare di meritarselo?


...


Era stato piacevole rincontrare Pitt, Basset e gli altri parlamentari che erano stati presenti durante i moti che lo avevano visto coinvolto due mesi prima assieme a Demelza, nei sobborghi poveri di Parigi. Non li aveva più rivisti da allora e ritrovarsi in un luogo sicuro, da sopravvissuti, era stata di fatto una piacevole rimpatriata.

Il pomeriggio in Parlamento era scivolato via veloce e l'esprienza pericolosa vissuta insieme aveva finito col far sentire ancora più vicini e coesi quegli uomini guidati dagli stessi princìpi ma a volte separati da caratteri inconciliabili che li portavano a discutere per ore senza trovare punti di caduta.

Uscendo all'aperto, alla fine della seduta, Ross si sentì l'animo più leggero dopo quelle settimane passate in casa a rimuginare sulle lettere di Demelza. Quel pomeriggio aveva potuto quanto meno fare qualcosa di utile per la popolazione inglese, erano state siglate leggi atte ad abbassare il prezzo di grano e segale e aveva adempiuto all'incarico che si era assunto quando era stato eletto ed aveva lasciato la Cornovaglia.

Peccato che la sua pace fosse destinata a durare poco...

Era appena uscito in strada, diretto verso casa, quando una voce sgradevole lo raggiunse alle spalle.

"Signor Poldark... E' molto che non ci si vede! Dalla sera del ballo d'autunno, mi pare...".

Ross alzò gli occhi al cielo e poi si girò lentamente. "Adderly..." - mugugnò, fra i denti, rendendosi conto ad ogni loro incontro, di quanto lo trovasse sgradevole. Sperava di evitarlo quel giorno, come aveva fatto per tutto il pomeriggio all'interno della sala. Ma evidentemente non era così fortunato...

Col sorriso più falso del mondo, Monk gli si avvicinò. "Dicono grandi cose di voi, da gennaio... Pare siate entrato nelle grazie del Ministro Pitt e che vi siate eretto a eroe delle dolci e ricche donzelle londinesi".

Ross sbuffò. Adderly era un serpente viscido, non parlava per il semplice piacere di fare conversazione e ogni volta che lo aveva incontrato, aveva avuto il netto presentimento che cercasse di provocarlo. "Ne dicono tante di cose, in giro... E voi, alla vostra età e con la vostra esperienza, dovreste sapere che la maggior parte non corrisponde al vero" - rispose.

Monk incassò senza reazioni. "La gente mormora e nel mentre, gli eroi si nascondono. Non vi vedo nei salotti che contano, da mesi. Vi sentite superiore a noi?".

"No, semplicemente non amo passare le mie serate in quei salotti. Vi sono mancato?".

Monk sorrise freddamente. "A volte c'è gente tanto noiosa a quelle feste. Voi, dicono, ai tempi eravate un vero attaccabrighe e un agitatore di folle".

Ross, spazientito, si calò il tricorno sulla testa. "Un tempo ero giovane, stupido e facile all'ira. Ora sono vecchio, sono padre e non ho tempo per questo genere di sciocchezze. Frequentate meno quei salotti, Adderly! E concentratevi su quanto succede nelle strade e fra la gente di Londra... Quella che non frequenta Vauxhall, intendo... Vi annoiereste meno e dareste un più alto valore alla vostra vita".

La mascella di Adderly si contrasse davanti a quella provocazione evidente ma ben celata dal tono mellifluo usato da Ross. "Amo annoiarmi... E stare accanto a chi vale la pena avere come amico. O possedere... In fondo non siamo tanto diversi".

Ross si oscurò. "In che senso?".

Monk gli si avvicinò, arrivando muso a muso con lui. "Ricordate cosa vi dissi la sera del ballo d'autunno, su Lady Boscawen? Che non era cosa per voi e di starle alla larga... Invece scopro che siete stato suo ospite a Natale e che...".

Ross lo bloccò. Iniziava ad innervosirsi... "Ciò che faccio, non vi riguarda! E nemmeno chi Lady Boscawen vuole alla sua cena di Natale, credo".

"Oh, si che mi riguarda" – sussurrò Adderly andandogli ancora più vicino. "Mi riguarda eccome! Cosa credete, Ross Poldark? Come potete anche solo sperare di entrare nelle sue grazie? Cosa sperate di ottenere? Potere, denaro e una donna calda e passionale nel vostro letto? Lady Boscawen non è un oggetto per voi, non valete tanto e qualsiasi idea vi siate fatto salvando lei e i suoi due mocciosi dagli scontri, toglietevela dalla testa! Uno come voi, al massimo, può pulire lo sterco dei suoi cavalli dalle sue stalle! La puledrina dai capelli rossi vale tanto oro quanto pesa e l'ho puntata fin da quando quell'idiota di Armitage la portava in giro come un trofeo dopo averla sposata... La puntavo pure quando son nati quei due dannati gemelli che l'hanno allontanata dai circoli sociali, a lungo... Ma ho aspettato e ora, solo perché vi siete eretto per puro caso a eroe suo e dei due piccoli bastardi che Armitage ha adottato, non provate nemmeno a sperare di avere l'esclusiva su di lei che resta comunque inarrivabile per un povero idiota di provincia come voi".

Ross non ci vide più e per i suoi gusti lo aveva fatto parlare pure troppo. Era invecchiato, maturato, più ponderato, certo... Ma NESSUNO poteva permettersi di parlare in quel modo di Demelza. E tanto meno dei suoi figli...

I due piccoli bastardi...

Non era tanto Adderly e l'affermazione in se, per quanto grave fosse. Ma quella parola orribile, detta su Jeremy e Clowance, lo annientò. Lui li aveva resi tali agli occhi del mondo e chissà quante altre persone pensavano la stessa cosa, pur non osando dirlo. "State zitto..." - sbiascicò, fra i denti.

"Altrimenti?" - rispose Adderly, quasi poggiando la fronte contro la sua.

"Chiedete scusa!" - ribatté Ross, la cui voce sembrava il sibilo rabbioso di un serpente. "Rimangiatevi quando detto di Lady Boscawen e dei suoi figli, oppure...".

Monk sorrise freddamente, come se arrivare a quel punto fosse il suo piano fin dall'inizio. "Altrimenti? Altrimenti, cosa? Giocherete nuovamente a fare l'eroe per difendere l'onore della nostra Lady dai capelli rossi? Io non mi rimangio nulla! Sarà mia, non vostra! E quando me la porterò a letto, la farò urlare di piacere, cosa che voi non avete nemmeno idea di cosa significhi! Io avrò ciò che voglio e che mi spetta per diritto di nascita e a conti fatti, anche la cara Lady sarà soddisfatta... Dietro a quei modi gentili e affettuosi, sono sicuro si nasconde una che a letto sa far impazzire un uomo meglio delle donnine a pagamento di Vauxhall". Si leccò le labbra, in un gesto volgare. "Aspetto da anni di averla, GRATIS, nel mio letto. O nel suo, dopo aver mandato i suoi mocciosi dove dovrebbero essere, in un buon collegio".

Fu troppo. Non doveva osare parlare così di nessuna donna, tanto meno della SUA Demelza. E nemmeno dei bambini, di nessuno dei QUATTRO bimbi di Dmelza! E in mezzo a tutti, in mezzo ai parlamentari che uscivano da Westminster, Ross per un attimo tornò ventenne, quel ventenne che non pensava minimamente alle conseguenze delle sua azioni. Non aveva mai desiderato tanto uccidere qualcuno come in quel momento e anche se sapeva che le provocazioni di Adderly erano state preparate a tavolino per portarlo a quel punto e spingerlo a reagire, non gliene importò nulla di non dargli soddisfazione... La sua mano si strinse in un pugno e prima ancora che Adderly potesse accorgersene, gli piantò un violento colpo in faccia che gli fece sanguinare il naso e lo fece cadere a terra.

Alcuni parlamentari si fermarono a occhi sgranati ma poi, vedendo l'identità dei due litiganti, decisero che era meglio allontanarsi in fretta e senza dire nulla.

Adderly, colto di sorpresa, lo guardò con odio profondo, asciugandosi il sangue con la manica della camicia. "Come avete osato?".

"Vi avevo avvertito..." - ribatté Ross.

Monk si alzò, sputando sangue a terra. "Volete farmi vedere quanto siete uomo?".

"Non ho bisogno di dimostrarvi nulla, se non insegnarvi cos'è l'educazione e cosa significa essere gentiluomo".

Monk gli si riavvicinò. "Ve la insegno io, l'educazione! Fra quindici giorni, alle sei del mattino, ad Hyde Park. Solo io, voi e due pistole".

Ross spalancò gli occhi, questa non se la aspettava proprio. Ma perfetto, se era quello che Monk voleva, se era una pallottola piantata in quella sua testa da idiota che desiderava, chi era lui per non esaudire questo suo desiderio? "Sarà un vero piacere... Per me, per l'onore di Lady Boscawen e per i miei occhi che non vedono l'ora di vedervi a terra, esanime". Odiava i duelli, erano proibiti dalla legge ed era una legge che lui riteneva giusta perché non concepiva che un uomo togliesse la vita ad un altro, ma Adderly... Adderly aveva mancato di rispetto a Demelza e ai suoi bambini e questo per lui era un affronto impossibile da perdonare. C'era Valentine, se qualcosa fosse andato male, lui sarebbe rimasto solo ma in fondo, che perdita sarebbe stata, per suo figlio? Lui, che non era mai stato capace di essere un buon padre... Jane e John Gimlet sarebbero stati una grave perdita per il bambino, loro che ne erano stati di fatto i suoi genitori fin da quando era nato e che se ne erano presi cura sempre, con amore. Non lui! Valentine lo avrebbe forse odiato ma gli avrebbe lasciato un futuro roseo, una miniera attiva e delle proprietà. E due servi che gli avrebbero fatto da genitori meglio di avrebbe mai potuto fare lui! E Demelza... La sua amata Demelza si era ricostruita una bellissima vita, non voleva giustamente che lui ne facesse parte e i loro figli... Gli si contorse lo stomaco pensando a Jeremy e Clowance... I loro figli lo odiavano, com'era giusto che fosse. E allora, perché non accettare quel duello? Cosa aveva da perdere? Se avesse vinto, avrebbe vendicato l'onore di Demelza e dei bambini. Se avesse perso, chi avrebbe pianto per lui? "Fra due settimane, ad Hyde Park..." - disse di nuovo, come a voler rimarcare ad Adderly che accettava il duello.

Monk annuì, sorridendo freddamente, da gatto sornione e tentatore. "Sarà un piacere aggiungervi alla mia lista".

"Quale lista?".

"La lista di quelli che son stati tanto stupidi da accettare un duello con me, credendosi migliori. Ne troverete una lunga fila al cimitero, se vorrete farci due chiacchiere" – rispose Monk, prima di voltargli le spalle e andarsene.


...


Camminò a lungo per le strade del centro di Londra, osservando cose e persone come se le stesse vedendo per l'ultima volta.

Passata la rabbia a caldo, in Ross cresceva il peso della coscienza e della ragione. Aveva accettato un duello pericoloso con una persona ancor più pericolosa e anche se lo stava facendo per quanto di grave Monk aveva detto su Demelza e i suoi bambini, accettare quel duello significava di fatto andar contro a tutti i princìpi che lo avevano guidato fino a quel momento.

E poi c'era Valentine... Certo, a caldo aveva banalmente pensato che avrebbero potuto crescerlo i Gimlett, ma ora... Ora l'idea di non veder crescere suo figlio, quel figlio che aveva tanto a lungo trascurato e con cui iniziava a costruire finalmente un rapporto, lo annientava. Se fosse morto, di fatto sarebbe stato come abbandonare anche lui. Come aveva già fatto con Jeremy e Clowance... E anche Valentine, forse, avrebbe finito con l'odiarlo, crescendo, per quella scelta scellerata e dettata dall'orgoglio che ancora una volta metteva i suoi figli in secondo piano rispetto alle sue azioni. Aveva accettato un duello che poteva rendere suo figlio di sette anni, orfano. Per sempre... Lo spaventava quell'ipotesi, tanto, ma non abbastanza da farlo tornare indietro. In fondo Valentine non sarebbe rimasto solo, tentò di convincersi nuovamente...

Ormai non poteva rifiutare, nessun uomo scappa davanti a un duello che ha accettato. Non poteva, non poteva davvero... E non perché gli importasse di passare per codardo ma perché non c'erano appigli e speranze per il futuro, vedeva il baratro davanti a se e non aveva nulla per cui lottare, nulla che lo facesse rinunciare...

Perso in quei pensieri, arrivò senza accorgersene ai giardini di Kensington, finalmente pieni di vita e di bambini giocosi, dopo i freddi mesi invernali che lo avevano reso deserto e silenzioso.

Erano ovunque, che giocavano e si inseguivano. Attorno a lui era un tripudio di risate infantili e Ross, forse bisognoso di tutto questo, entrò, passeggiando nei vialetti. Avrebbe allungato la strada verso casa ma gli avrebbe fatto bene, forse. Quella passeggiata avrebbe acquietato il suo animo e forse schiarito le idee. Si era cacciato in un grosso guaio e man mano che proseguiva, se ne rendeva sempre più conto.

Forse doveva scrivere ad Adderly che era stato un idiota, abbozzare delle scuse. Forse, semplicemente, non doveva presentarsi al duello, Adderly non lo avrebbe certo denunciato visto che i duelli erano vietati.

Forse, forse...

E in mezzo a quei mille forse, si bloccò. Senza accorgersi, si era pericolosamente avvicinato alla dimora dei Boscawen e davanti a lui, diretti verso casa, sullo stesso vialetto e che provenivano dalla direzione opposta, vide i quattro piccoli Armitage.

E niente, il destino era davvero beffardo e lui era stato incauto ad entrare in quel parco!

Jeremy, Clowance e i gemellini, coi visini arrossati per i giochi e le corse, stavano tornando a casa e quando lo videro si bloccarono, rimanendo gelati. Jeremy e Clowance quanto meno perché invece i due gemellini gli corsero incontro salutandolo festosamente, come sempre. Erano sporchi d'erba dalla testa ai piedi, spettinati e incredibilmente soddisfatti dal pomeriggio all'aperto.

"Ciao signor Poldark!" - lo salutarono.

Ross annuì, ma la sua attenzione era tutta sui due più grandi. Lo guardavano e stavolta con la consapevolezza di chi lui fosse. Non il signor Poldark che lavorava in Parlamento con il loro zio ma il loro padre, quel padre che li aveva abbandonati quando erano piccolissimi, quel padre che aveva fatto piangere la loro mamma.

I loro occhi erano gelidi e pieni di rancore, le loro mascelle contratte e stavolta per lui non ci furono né saluti, né inchini.

Protettivamente Jeremy strinse la manina di Clowance e poi, a passo spedito, si avvicinò per riprendersi i gemelli. "Andiamo a casa!" - ordinò loro, senza degnarlo di uno sguardo.

"Ma Jeremy!" - ribattè Demian – "Non saluti? E' il signor Poldark!".

Jeremy lo guardò in viso, con odio, mentre Clowance si nascondeva come impaurita dietro di lui. "No, non saluto! Non mi va e non è il caso!".

Ross deglutì. "Beh, posso almeno salutarvi io?" - chiese, con voce rotta.

"NO!" - ribattè il bambino, secco.

Guardò Clowance, pallida e di ghiaccio, nascosta dietro al fratello. "E lei? Posso salutarla?".

"NO!" - ribadì Jeremy. "A lei penso io, come da quando è nata. E non vuole salutarvi. Vero, Clowance?".

La bimba annuì. "Vero..." - disse, in un soffio.

E Ross si trovò a pensare che in quel momento gli mancavano persino i suoi formali inchini e che Jeremy aveva ragione, lo aveva sostituito con Clowance da sempre, costringendolo a prendere il posto di un padre che aveva preferito altro. Era tutto finito, anche quel piccolo rapporto formale che si era creato fra loro in quei mesi non esisteva più. Li aveva persi, per sempre... I suoi bambini che mai, come in quel momento, avrebbe voluto solo abbracciare e che forse non avrebbe rivisto più, con quel duello che incombeva su di lui. "Capisco...".

Daisy invece non capiva, non capiva affatto. Guardò i fratelli come se fossero impazziti, picchiò il piedino a terra e li sgridò, come se la sorella maggiore fosse lei. "Ma siete matti?".

"Sì, matti proprio!" - aggiunse Demian che probabilmente, come la sua gemella, doveva considerare incomprensibile quel comportamento.

Jeremy assunse uno sguardo severo. "Andiamo a casa! Subito!".

Daisy scosse la testa. "NNNNOOOO! Dovete salutare, il signor Poldark è nostro amico e ha salvato la mamma!".

E a quel punto Jeremy disse qualcosa che lo gelò, qualcosa che in poche parole spiegava bene cosa pensasse di lui. "Mamma una volta mi ha detto che una cattiva azione non cancella tutte le buone azioni che uno ha fatto. Ma vale anche il contrario... Una azione buona, non ne cancella mille cattive. I cattivi, nascono cattivi e muoiono cattivi! E io non saluto persone così! Andiamo a casa, Daisy".

Lei lo guardò con aria di sfida, mettendosi le manine sui fianchi. “NO! Tu non fai mai quello che dico io e allora io non faccio quello che dici tu e faccio solo quello che voglio io!”.

Jeremy sostenne il suo sguardo e poi, senza degnare Ross di uno sguardo, prese per mano Clowance. “Beh, allora torni a casa da sola!”.

Tanto so la strada!” - ribatté la piccola picchiando il piedino a terra mentre Ross si chiedeva, insistentemente, se dovesse o meno intervenire in quel battibecco causato dalla sua presenza.

Jeremy voltò loro le spalle, con Clowance. “Tu Demian, che fai?”.

Il gemellino guardò i fratelli maggiori e poi Daisy, facendo scorrere il suo faccino smarrito fra le due fazioni. Si vedeva che non stava capendo nulla di quanto aveva davanti agli occhi e che fosse confuso dal comportamento dei fratelli maggiori, ma poi alla fine scelse la cosa più naturale, la cosa che più Ross si sarebbe aspettato da lui. Scelse Daisy, come sempre...

Si avvicinò alla sorellina e a quel punto, piccato, Jeremy andò via con Clowance a passi spediti verso l'ingresso che dai giardini portava al loro parco privato.

Ross li guardò andare via con il cuore spezzato, rendendosi conto che quegli sguardi freddi, quell'odio, quel non voler nemmeno concedere lui una parola, se li meritava, tutti... Anche lui non aveva dispensato carezze, parole ed amore a loro, tanti anni prima, e ora i suoi figli gli stavano restituendo lo stesso trattamento facendogli sentire sulla pelle quanto male faceva sentirsi rifiutati. Perdere Demelza era stato lancinante ma l'odio dei suoi due bambini era qualcosa di atroce, corrosivo... Erano parte di lui, una parte di cui aveva bisogno per vivere e lo stesso era lui per loro... E si erano persi, a vicenda, perché non era stato capace di superare il dolore per la perdita di un'altra figlia, perché si era rifugiato in fantasie da ragazzino che lo avevano portato a fare cose orribili e aveva condannato alla solitudine la famiglia che lo amava. E così facendo, invece di una figlia, ne aveva persi tre di bambini...

Daisy gli tirò il mantello. “Perché fanno così? Non si fa, non si sta zitti! Clowance oggi non è stata mica tanto una lady, glielo devo dire”.

Ross si inginocchiò davanti a loro. “Dovreste seguire i vostri fratelli e tornare a casa”.

Ma perché erano arrabbiati?” - chiese Demian.

Ross sospirò. “Beh, è una storia lunga, un po' difficile e che forse non dovreste chiedere a me”.

Daisy sospirò, divenne pensierosa ma poi sorrise. “So farla anche io la lady, lo sai signor Poldark? Io ti saluto, al posto di Clowance, da brava!”.

Ross le accarezzò i lunghi capelli biondi, pensando che non l'avrebbe voluta una lady o diversa da com'era per nulla al mondo. “Lo so che sei brava, sei adorabile”.

Daisy proseguì, forse cercando di darsi un tono per sostituire la sorella. “Vuoi vedere come faccio l'inchino? Son capace, lo sai?”.

Oh non ne dubito”.

Daisy fece la faccia seria da una che si impegna a fondo e poi, pur rischiando di inciampare sui suoi piedini, si esibì in un inchino che di certo non era aggraziato e perfetto come quello della sorella ma che trasmetteva calore e il naturale e piacevole, a vedersi, impaccio di movimento dei bambini.

Ross le sorrise, era una medicina alla tristezza quella bambina. Non capiva davvero come Prudie non ne apprezzasse la compagnia. “Sei stata davvero una perfetta lady” - le sussurrò all'orecchio, facendola inaspettatamente arrossire, cosa che mai avrebbe creduto possibile da lei.

La piccola scosse la testa. “Clowance la fa meglio, lei è la Lady. Io sono la bestiolina di Prudie! Anche Demian. E le bestioline non sanno fare bene l'inchino”.

Ross alzò gli occhi al cielo. Non aveva mai apprezzato i nomignoli che aveva sentito affibbiare a quei due bambini. “Non siete due bestioline! E non saper fare bene l'inchino non è poi così importante, nemmeno io ho mai imparato a farlo bene, non amo inchinarmi. Davanti a nessuno!”.

Mamma non mi chiama bestiolina, però, dice che sono la sua orsetta!” - insistette Daisy.

E tu, tu come vorresti essere chiamata? Qual'è il nome che ti piace di più?”.

Daisy sorrise e i suoi lunghi capelli biondi si mossero al vento. “Come mi chiami tu, signor Poldark”.

Rimase stupito da quella risposta. “Io ti chiamo semplicemente col tuo nome, Daisy”.

E a me piace così” - sussurrò lei, di rimando, giocando col lembo del suo mantello che teneva fra le mani.

Demian, un po' in disparte, gli afferrò a sua volta il mantello. “Quando vieni a trovarci? Come a Natale e allo zoo! Devi ancora farmi vedere, signor Poldark, che non sei vecchio e ti sai arrampicare sugli alberi!”.

Ross accarezzò le testoline di entrambi, provando una infinita nostalgia per i momenti trascorsi non solo con Demelza, Jeremy e Clowance ma anche con loro. Momenti che, forse, non sarebbero più tornati perché i suoi figli non ne volevano sapere niente di lui e probabilmente non sarebbe uscito vivo dal duello con Adderly. “E' vero e spero di mostrartelo presto, Demian, anche se sicuramente tu sarai più bravo e veloce di me. Ma per un... bel po'... non potrò venire a casa vostra”. Poi osservò Daisy, stranamente seria e assorta. “So che sono ancora in debito con te e tuo fratello e ti giuro che, visto il ritardo, ti rimborserò i favori che ti devo, con gli interessi”.

Cosa vuol dire?” - chiese la bimba.

Che quando uno paga in ritardo i suoi debiti, restituisce di più di quello che ha preso”.

Demian ci pensò su, poi prese due sassolini da terra, uno più grosso e uno più piccolo. “Quindi se il sassolino piccolo è il favore che ti abbiamo fatto, visto che ci farai un favore in ritardo, il favore sarà come il sasso più grosso?”.

Ross annuì, sorpreso e colpito dall'intelligenza del piccolo bambolotto. Erano differenti in tante cose ma a modo loro, pur agendo diversamente, identici per acume. “Sì, bravo! Pensate bene però a cosa volete da me”.

Daisy gli strinse la mano con le sue, con lo sguardo stranamente serio. “Io ho già scelto”.

E cosa hai scelto?”.

Te lo dico quando vieni e resti un po' con noi”.

Farò del mio meglio, allora” - rispose Ross, che avvertiva le parole della piccola come una carezza, una medicina al suo cuore ferito dal risentimento di Jeremy e Clowance. Chissà se li avrebbe rivisti quei bambini, tutti e quattro?

Daisy guardò verso casa, poi prese Demian per mano. “Signor Poldark, io vado che se no Prudie mi da le botte sul culetto! Tu non preoccuparti!”.

Di cosa?”.

La piccola sorrise. “Di Jeremy e Clowance! Quando gli passa, torneranno tuoi amici come prima! Ogni tanto si arrabbiano anche con noi, ma poi si disarrabbiano! Non restano arrabbiati tutta la vita”.

Ross rispose al suo sorriso, desiderando perdersi dentro quel ottimismo infantile. Santo cielo, come avrebbe voluto che fosse così... “Su, filate a casa prima di cacciarvi nei guai”.

I bimbi ubbidirono e corsero via ma dopo pochi passi si voltarono, salutandolo con la manina.

E Ross rimase ad osservarli mentre correvano sul vialetto, attento a tenerli d'occhio finché non avessero varcato il cancello del loro giardino. E una volta accertato che erano a casa sani e salvi, mestamente, anche lui tornò alla sua, di casa.




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Capitolo 55
*** Capitolo cinquantacinque ***


Quando Demelza aveva visto rientrare Jeremy e Clowance senza i gemelli e saputo che avevano litigato dopo un incontro casuale con Ross, prima di qualsiasi cosa si era precipitata in giardino a recuperare i suoi due bambini più piccoli. Col cuore in gola, arrabbiata con gli altri due figli per averli lasciati soli ma consapevole che i rimproveri sarebbero potuti arrivare solo dopo aver ritrovato sani e salvi i gemellini, Demelza era corsa fuori, terrorizzata all'idea che fosse successo qualcosa.

La sua ansia però durò poco perché ancor prima di arrivare ai giardini di Kensington, ritrovò i gemellini che, serafici, avevano già oltrepassato il cancello e si dirigevano verso casa mano nella mano. Sembravano i bimbi più tranquilli del mondo, accidenti a loro! E accidenti anche a Ross che di certo non aveva colpa per quell'incontro fortuito, ma... Ma perché lei doveva essere sempre tanto sfortunata da dover essere costretta ogni dannato giorno della sua vita a combattere per qualcosa?

Corse loro incontro e di primo acchito li abbracciò, baciandoli e sgridandoli allo stesso tempo. Stavano bene, erano vivi e senza un graffio e l'unica ad essere spaventata sembrava lei... Quindi era tutto nella norma!

Li prese per mano e li riportò in casa, in camera sua, dove li stavano aspettando Jeremy e Clowance. Chiuse la porta dietro di se, fece sedere sul suo letto tutti e quattro e poi, con le mani sui fianchi, decise che era il momento di ristabilire regole e gerarchie. "E allora?".

Daisy dondolò le gambette. "E allora io oggi sono stata bravissima! Jeremy e Clowance no, tocca a loro beccare le botte sul culetto da Prudie! Io ho salutato e ho fatto la brava, sai mamma che ho fatto anche l'inchino al posto di Clowance?".

Demelza sospirò, aveva una dannata faccia di tolla. "Daisy, tu non devi rimanere da sola al parco, senza i tuoi fratelli. Né tu, né Demian. Siete ancora troppo piccoli".

Demian prese la parola. "Ma non eravamo da soli, c'era il signor Poldark! Sai mamma che noi lo abbiamo salutato e Jeremy e Clowance, no?".

"Jeremy e Clowance sono diventati matti!" - aggiunse Daisy, beccandosi un cuscino in testa, lanciato da Jeremy.

Demelza, con un gesto stizzito, lo raccolse, rimproverando con lo sguardo il figlio più grande. "I cuscini non si lanciano e tutti, oggi, avete disubbidito! Jeremy, Clowance, se siete soli, MAI dovete perdervi di vista quando siete al parco! Demian e Daisy, voi dovete sempre seguire i vostri fratelli ed ubbidire quando vi dicono qualcosa".

I gemelli si imbronciarono, come i due più grandi. Jeremy scosse la testa, arrabbiato. "Io gliel'ho detto di venire via e di non parlare con quello lì, ma non hanno voluto ascoltare. Dopo due volte che gliel'ho ripetuto, sono andato via con Clowance. Nemmeno Clowance voleva restare. Vero?".

"Vero!" - disse la bambina, fino a quel momento chiusa in un ostinato mutismo.

Daisy intervenne. "Ma noi dobbiamo salutare i grandi! Ce lo hai detto tu e io ho salutato. Anche Demian! Jeremy e Clowance, no!".

Demelza guardò con aria severa i figli grandi. "Io pretendo da voi educazione, sempre e con qualsiasi adulto! Vi ho garantito che non avreste frequentato il signor Poldark ma MAI vi ho detto che potevate essere maleducati con lui nel caso lo aveste incontrato. Vive quì vicino a noi, succederà ancora che lo vediate e non voglio si ripeta mai più una cosa del genere. Se lo vedrete, lo saluterete e poi riprenderete la vostra strada" – ordinò, pensando a cosa avesse potuto provare Ross davanti a quell'atteggiamento.

"Io non lo saluto, quello!" - sbottò Jeremy.

Daisy lo guardò, arrabbiata. "Perché? Lui ha salvato mamma! E anche te! Ed è mio amico".

"Tu non sai niente!" - le urlò Jeremy.

E a quel punto la piccola prese un altro cuscino sul letto, lanciandolo a sua volta. "Neanche tu!".

"BASTA!!!" - urlò Demelza, facendo sussultare tutti e quattro. "Voglio che siate educati! E che non litighiate fra voi!".

Demian abbassò il faccino. "Sì, ma... Ma perché Jeremy fa così? E anche Clowance? Io mica ho capito".

Demelza strinse i pugni per la tensione. Come poteva spiegarglielo? Era giusto farlo? Avrebbero capito? Sarebbero riusciti a mantenere il segreto per un pò? Osservò i gemellini e ricordò quanto detto qualche settimana prima a Jeremy e Clowance: loro erano una squadra, tutti e cinque. Ed era giusto che a modo loro, anche Demian e Daisy sapessero quanto stava succedendo ai loro fratelli e il perché del loro strano modo di fare che, probabilmente, doveva confonderli molto.

Jeremy e Clowance la guardarono, seri. "Diglielo tu, mamma! Digli perché".

Non era un invito gentile e in quella richiesta c'era il rabbioso desiderio che lei districasse ogni nodo di quella difficile situazione.

Demelza, sospirando, si avvicinò, sedendosi sul letto fra loro. "Sapete mantenere un segreto? Saprete tenere solo per noi cinque quello che vi dirò, senza dirlo a nessuno?".

Daisy fece un sorriso furbetto, come se per lei quello non fosse che un gioco da ragazzi. "Certo! Sono bravissima coi segreti, io! Anche Demian!"

Demelza le sorrise, decidendo che fidarsi era l'unica strada che aveva davanti. "Non è facile da spiegare, bambini...".

"Spiegare cosa? Perché Clowance oggi non ha più voluto essere una lady?" - chiese Daisy.

Clowance la fulminò con lo sguardo. "IO-SONO-UNA-LADY! Oggi è diverso...".

Accarezzò la testolina di entrambe, per riportare la pace. "Voi lo sapete vero, che Jeremy e Clowance hanno anche un altro papà, oltre a papà-Hugh, vero? Il papà che li ha fatti nascere".

Era un discorso che, in maniera semplicistica, era stato già affrontato in passato anche se i gemelli, vista l'età, non ci avevano fatto troppo caso e mai avevano chiesto, finendo presto nel dimenticatoio come era giusto che fosse.

Daisy annuì. "Sì! Il mio papà ha fatto nascere me e Demian e ha fatto il papà di tutti! Jeremy e Clowance avevano un altro papà, prima. Poi è arrivato il mio papà, tutto nuovo e di tutti".

Demelza le sorrise. "Jeremy e Clowance non AVEVANO un altro papà che poi è scomparso. Esiste ancora e rimane comunque il papà che li ha fatti nascere, anche se poi non è rimasto con loro".

Demian si grattò la fronte, confuso. "Ma non ho capito perché non hanno salutato il signor Poldark".

Jeremy guardò il fratellino con freddezza e rabbia, una rabbia trattenuta a stento. "Il signor Poldark è il papà che ci ha fatto nascere, quello che non ci ha voluti e ci ha lascati da soli con la mamma! Per questo non lo saluto, per questo non voglio vederlo! E' la persona più cattiva del mondo!".

Daisy spalancò gli occhi, lo guardò come fosse impazzito e poi guardò Demelza in cerca di risposte. "Davvero...?".

"Davvero" – le rispose – "Anche se le cose sono un pò più complicate di come dice Jeremy. Il signor Poldark e io abbiamo avuto due bambini, i vostri fratelli. Anzi...". Si bloccò, pensando a Julia e chiedendosi se dovesse raccontare di lei e di cosa la sua morte avesse portato nei loro cuori e nelle loro anime, ma non sapeva se fosse giusto.

Daisy guardò Jeremy. "Ma lui è gentile, non è cattivo! E ti ha salvato!".

"Tu non capisci niente!" - le ribadì Jeremy.

"Non è vero!" - urlò Daisy, pronta a lanciare l'ennesimo cuscino, bloccata al volo da Demelza. "Io capisco TUTTO! Tu hai due papà, io uno... Il mio nemmeno c'è, ma mica mi arrabbio come te! E il mio papà mica torna a trovarmi".

Jeremy sostenne il suo sguardo. "Tu non hai il papà perché è morto, non perché ti ha abbandonata. Per questo non viene da te, i morti non possono venire! Vedi che sei stupida?".

"JEREMY!". Stavolta Demelza intervenne con forza. Mai avrebbe accettato che i suoi figli si comportassero così fra loro. "Chiedi scusa a tua sorella!".

"Non è colpa mia se è stupida!" - rispose il bambino.

E a quel punto, anche se non l'aveva mai fatto, Demelza gli diede uno scappellotto sul coppino. Sapeva che stava vivendo un momento difficile ma non voleva che la rabbia offuscasse il buon cuore di Jeremy. "E' piccola ed è tua sorella. E ti adora... So che sei arrabbiato, ma lei non c'entra".

Jeremy abbassò lo sguardo, si strofinò gli occhi lucidi e poi allungò la mano, a stringere quella di Daisy. "Scusa...".

Era sincero, Demelza sapeva che lo era e che era già pentito per il modo in cui aveva trattato Daisy. Jeremy era così, irruento ma dal cuore d'oro. In fondo in lui c'era molto di Ross, in quel momento.

La piccolina, un pò scossa da quella reazione rabbiosa, deglutì. "Va bene... Ma a me il signor Poldark piace... E se è tornato, è una cosa bella. Tu hai due papà e uno è venuto da te. Io ne ho uno solo e non può venire da me... Perché sei arrabbiato tu e non sono arrabbiata io?".

Jeremy sussultò e anche Demelza fece altrettanto perché nella sua semplicità e forse senza nemmeno saperlo, Daisy stava ricordando loro che a volte ci si incaponiva talmente tanto nella vita, da non saper riconoscere ed apprezzare le cose belle e le seconde opportunità che la proprio la vita stessa ci riservava. Aveva ragione... Invece che rimuginare sul passato, perché non prendere il bello che quell'inaspettato presente stava regalando loro? Il ritorno di Ross nelle loro vite era davvero solo deleterio? O una seconda occasione per tutti loro? D'istinto, Demelza abbracciò la sua piccola orsetta saggia, che forse dall'alto dei suoi quattro anni vissuti senza pregiudizi e preconcetti, aveva saputo imparare a guardare più lontano di tutti loro. Certo, non era semplice, soprattutto per Jeremy e Clowance. Ma non sarebbe stato forse meglio costruire qualcosa tutti insieme, anziché distruggerlo rinfacciandosi un passato che non potevano cambiare?

Jeremy rimase zitto, smarrito, forse senza sapere nemmeno lui cosa rispondere. Anche Clowance, ancora silenziosa, rimase a rimuginare in silenzio... Fu solo Demian a trovare il coraggio di parlare. "Dice che si sa arrampicare sugli alberi! Lo dice davvero, è! Mica è una bugia!".

Daisy scosse la testa. "No, il signor Poldark non dice bugie".

Demelza le sorrise, chiedendosi come e quando Daisy si fosse 'innamorata' di lui. Avevano avuto, da subito, un rapporto speciale e ai suoi occhi incomprensibile che non voleva che perdessero perché era vero, Daisy non aveva mai avuto un padre e in un certo senso, in Ross, aveva trovato un punto di riferimento che difendeva a spada tratta, come aveva sempre fatto con le persone a cui voleva bene. E decise che era il momento di dire la verità e di parlare di Julia. Forse così avrebbero capito cosa era successo e quale grande dolore avesse spinto Ross a perdersi e a perdere tutti loro. Non che lo giustificasse, non che non provasse rabbia per quanto lei aveva subìto coi bambini, non che volesse spingerli a frequentarlo se non si sentivano pronto per farlo, ma... Ma Ross era umano, non era un mostro! E voleva che lo capissero pure loro, nei suoi punti di forza ma soprattutto nelle sue fragilità. "Non era da lui, non sarebbe mai stato da lui lasciare i suoi figli. Per tanto tempo l'ho creduto anche io, era più facile così, più semplice, perché quella certezza mi impediva di guardarmi indietro con nostalgia. Ma nella vita succedono cose che annebbiano la nostra anima e il nostro cuore e ci spingono a scappare dove ci sembra di poter stare meglio, perché abbiamo paura del nostro presente. Questo ci è successo tanti anni fa, a me e a lui".

"Di cosa avevi paura, mamma?" - chiese Demian.

Li guardò, tutti e quattro, ringraziando Dio per averglieli dati e non averglieli tolti. Li aveva lì, tutti vicini e per quanto avesse sofferto, loro erano lì a ripagarla di tutto mentre a Ross non sarebbe forse mai stata data quell'opportunità e nonostante l'enormità dei suoi errori, era forse una punizione davvero difficile da espiare, per tutta la vita. "Voi non lo sapete, ma avete avuto un'altra sorella, una volta. Più grande di tutti voi, che sarebbe stata una sorella maggiore meravigliosa proprio come lo è sempre stato Jeremy. Si chiamava Julia e se fosse quì con noi, ora avrebbe tredici anni e sarebbe una bellissima signorina". Si bloccò per un attimo mentre la voce le si spezzava al ricordo di sua figlia, la sua amatissima prima figlia morta quando ancora non era riuscita ad assaporare la bellezza del mondo. Non aveva mai parlato di lei, il dolore di non poterla andare a trovare l'aveva accompagnata tutti quegli anni e non era passato giorno che non pensasse silenziosamente a lei e a ciò che sarebbe diventata. Era difficile parlarne, durissima. Lo era stato con Ross e lo era ancora adesso, coi suoi quattro figli che la guardavano a bocca aperta.

Daisy deglutì, guardando i suoi fratelli e poi lei. "E adesso dov'è?".

"E' morta, quando era molto piccola, prima della nascita di Jeremy. Nessuno di voi l'ha conosciuta e lei è stata la mia prima figlia, la prima che ho avuto dal signor Poldark".

Demian le sfiorò la mano. "Morta? Morta come il papà? Che sta sotto un sasso al cimitero?".

Gli occhi di Demelza divennero lucidi. "Sì".

"Non mi piace!" - sbottò il bambino mentre Clowance, sempre silenziosa, si rannicchiava fra le braccia di Jeremy.

Demelza sorrise tristemente. "Nemmeno a me. E quando a una coppia succede una cosa così, a volte capita che la sofferenza allontani e si abbia paura di amare per non rischiare di soffrire ancora. Jeremy, Clowance, vostro padre non ha mai desiderato farvi del male e volervi bene credo sia sempre stato il suo più grande desiderio, allora come adesso. Ma ha avuto paura, è scappato dall'amore perché con Julia ha imparato che se si ama, a volte si soffre...". Era difficile da spiegare, loro erano troppo piccoli e lei ancora troppo confusa circa quel passato che l'aveva allontanata da Ross e quel presente in cui non aveva ancora capito cosa volesse e come comportarsi. Era quasi impossibile spiegare a dei bambini l'enormità della morte di un altro bambino e cosa può portare all'animo e al cuore di chi la vive.

Jeremy non disse nulla, forse colpito e perso in mille pensieri dettati da quella verità a lui fin'ora sconosciuta, ma Clowance ruppe il suo mutismo, invece. "Ha avuto paura di noi? O non gli siamo piaciuti e questa Julia gli piaceva di più?".

"Nessuna di queste due cose. Ha solo avuto paura del destino e lo so, ha sbagliato, ma sbagliare è umano e lui ha fatto errori enormi e difficilmente perdonabili ma accanto ad essi, ha saputo fare da solo cose grandiose e coraggiose, per chi amava... Per questo ho tanta fiducia in lui e nel suo ruolo in Parlamento, è una persona che più di tutte sa fare grandi cose. Una persona va giudicata in toto, anche se è difficile farlo. Non voglio che lo perdoniate se sentite che non volete farlo, vorrei però che non pensaste che lui sia un mostro, ma...".

"Ma...?" - chiese Jeremy.

"E' una persona, Jeremy" – rispose Demelza. "Una bella persona che ha fatto una cosa orribile".

Il ragazzino sospirò. "E tu? Tu eri la mamma di Julia ma non hai avuto paura! Lui sì, lui è scappato ma tu sei rimasta con noi. Lui è scappato e i papà non dovrebbero scappare mai e se scappa è un codardo!".

Demelza annuì. "Lui non è un codardo ma hai ragione, un papà non dovrebbe scappare ma capita. Più spesso di quanto tu creda, Jeremy. E capita anche, nonostante si sia grandi, di avere paura e di non saperla fronteggiare subito, questa paura. Per una mamma è diverso, credo. O almeno lo è stato per me perché rispetto a lui, io in un certo senso ho vissuto quella morte da lontano. Lui ha visto Julia morire, io no. Ero malata, come vostra sorella e... e lui da solo, l'ha accudita fino alla fine... Ha perso lei, l'ha visto coi suoi occhi ed ha sofferto. E poi ha perso voi e ha sofferto di nuovo".

Daisy le si accoccolò fra le braccia, prendendo a succhiarsi il pollice come quando era più piccola e si svegliava per un brutto sogno. Demelza la conosceva, per quanto sicuramente non potesse capire appieno quanto le aveva detto, sapeva che per carattere lei lottava e soffriva quando qualcuno a cui era affezionato era in difficoltà e di certo ora, dopo quel racconto, quel suo misterioso attaccamento a Ross sarebbe aumentato, invece che diminuire per quanto successo con Jeremy e Clowance.

Guardò i suoi figli, tutti e quattro, accarezzando i capelli lunghi e biondissimi della sua orsetta. "Non voglio che litighiate, siete ognuno il tesoro degli altri, un pezzo unico e insostituibile di una bella squadra che si farà compagnia per sempre. Avere dei fratelli e delle sorelle ed essere uniti, è il più grande tesoro che la vita da e non va sprecato recriminando o bisticciando. Sono sempre stata orgogliosa di voi quattro, di avervi messo al mondo e dei bravi bambini che siete diventati. Capitano i momenti brutti ma mai devono intaccare l'amore e l'unione che c'è tra voi. E' importante, lo diceva il vostro papà...".

"Il signor Poldark?" - chiese Clowance, rabbuiandosi.

Demelza scosse la testa, rimarcando che niente e nessuno avrebbe comunque potuto prendere il posto che era stato occupato da Hugh. "No, non lui". Accarezzò la testolina di Jeremy che, capendo a chi alludesse, sorrise. "Papà Hugh...".

Jeremy le si avvicinò, abbracciandola per darle coraggio. Se c'erano state divisioni fra loro, probabilmente il conoscere quanto il passato fosse stato carico di sofferenze per lei e di come le aveva affrontate, gliele aveva fatte superare e con quell'abbraccio voleva darle coraggio, forza e farle sentire che come sempre, lui era con lei. Come Daisy, come Demian, come Clowance, anche se non era molto loquace. "Su, ora... Promettetemi che sarete sempre uniti ed educati. Con tutti! Compreso il signor Poldark".

Jeremy e i gemellini annuirono, anche se Jeremy pareva ancora un pò titubante e sicuramente aveva bisogno di riflettere e decidere se, come Ross, fosse meglio scappare oppure affrontare lui e le sue paure per riscrivere un futuro nuovo e forse meno rancoroso. Clowance invece rimase un pò in disparte, come sempre. "Tu non vuoi dirmi niente?" - le chiese.

"No, adesso no" – disse la bambina. Era così difficile capire cosa le passasse per la testa...

Ma non voleva forzarla, Clowance aveva bisogno dei suoi tempi e anche lei, come Jeremy, in tanti tratti di carattere era una Poldark fatta e finita, testarda ed orgogliosa. "Va bene, quando vorrai, io sarò quì... E ora su, ora che avete fatto la pace, filate a fare il bagno e a prepararvi per la cena con la nonna. E...".

I quattro si guardarono, annuendo. "Tranquilla mamma, è il nostro segreto".

Demelza sorrise. Erano tornati una squadra forte e coesa, tutti loro.


...


La cena era stata stranamente piacevole anche se più silenziosa del solito. I gemelli non avevano fatto capricci per mangiare ed erano stati composti, Jeremy e Clowance erano stati tranquilli e pensierosi e nonna Alexandra si era illusa che per magia, tutti fossero diventati di colpo perfetti Lord e perfette ladies.

Se solo avesse saputo, pensò Demelza mentre in camera, si slacciava il corsetto del vestito e Demian saltava sul letto, incontenibile come sempre quando si trattava di andare a letto.

Ora sembrava sereno e quanto detto poco prima, sembrava essere stato accettato e acquisito con la sua consueta vivacità e semplicità.

Jeremy si era ritirato in camera sua dopo averla abbracciata più forte del solito, Daisy era corsa a letto senza fare storie e Clowance, pensierosa e silenziosa, aveva fatto altrettanto.

Tutto era silenzioso, a parte Demian che faceva lo sciocchino e pareva voler giocare dopo tutta la serietà vissuta in quel pomeriggio, forse desideroso di riacquistare la sua normalità.

Improvvisamente la porta di camera sua si aprì e Clowance entrò, facendo capolino. Indossava già la camicia da notte e il suo faccino pareva smarrito e confuso. Demelza le sorrise, allargando le braccia per accoglierla. Era sempre stata silenziosa e sulle sue ma magari, ora... "Tesoro, vieni. Hai voglia di parlarmi?".

La bambina osservò Demian che giocava a fare capriole sul letto, incurante di quei discorsi. E poi sbottò. “Io non voglio che sia mio padre!”.

Demelza si accigliò, tentando di capire cosa le passasse nella testa, le sue paure, i suoi pensieri e i suoi sentimenti su quella situazione difficilissima che stava vivendo e a cui non era preparata. Clowance era testarda, orgogliosa e decisa nelle sue idee e in questo era la figlia che più le ricordava Ross anche se, all'apparenza, sembrava la più diversa da lui. “Lo dici perché lo dice Jeremy? Lui ha dei buoni motivi, forse, per rifiutarlo... In un certo senso lui si è sentito tradito. Tu non lo conosci e oggi ti ho spiegato cosa è successo. Non vuoi pensarci nemmeno un po'?”.

Non lo dico perché lo dice Jeremy, lo dico perché non lo voglio e basta!”.

Va bene e lo accetto, ne hai il diritto” - cercò di rassicurarla anche se quella reazione tanto perentoria e chiusa, le faceva ancora più paura di quella avuta inizialmente da Jeremy. Era sempre stata chiusa su Ross, Clowance, e fino a quel momento Demelza non aveva ancora capito cosa pensasse e come si sentisse. E ora...

Clowance parve stupita da quella sua reazione. “Non può esserlo...” - disse, tentennando.

Cosa?”.

Mio padre” - tentennò.

Ma lo è, di fatto!”.

Clowance divenne rossa in viso, accaldandosi per il nervosismo. “Ma mamma, io non ho il suo cognome, il mio cognome è Armitage e sono una lady! Anche tu sei una lady, lo è anche Daisy e Jeremy e Demian saranno lord, da grandi!”.

Demelza osservò sua figlia e una strana ansia le prese lo stomaco. Che stava cercando di dire? “Clowance, tu porti il cognome Armitage perché Hugh ti ha adottata. E se lo consideri tuo padre, per me va bene, Hugh è stato un padre per te. Ma questo che c'entra col resto?”.

Clowance si fece seria. “Non è alla nostra altezza, mamma”.

Cosa?”.

Arriva da un posto sperduto ed è un nobile di provincia. Lo zio dice che è una persona intelligente e piena di idee ma che è inferiore, come classe sociale a noi. Non può essere mio padre, non lo voglio, io sono una lady e appartengo ai Boscawen! Non voglio essere la figlia di uno che lavora nelle miniere!”.

E' inferiore... Quelle parole pronunciate dalla sua bambina, le fecero vedere nero. Mai, MAI, da quando era mamma, si era sentita fallibile in quel ruolo. Era questo, che lei pensava davvero? Era questo che muoveva le azioni della sua bambina? Era diventata quel genere di persona che si crede superiore agli altri per il semplice fatto di possedere un titolo nobiliare? Era diventata come le persone che lei e Ross avevano combattuto? Poteva accettare la rabbia dell'abbandono, la scelta di non vedere un padre che per lei era sconosciuto e l'orgoglio che le impediva di dare seconde opportunità ma quello che Clowance aveva appena detto, NO! Senza accorgersene, alzò la mano e le diede un forte schiaffo in viso. Si sentiva in colpa, fallita... Se Clowance la pensava così, lei aveva fallito come madre. Provò vergogna per se stessa e per lei, in quel momento, chiedendosi se avesse fatto bene a far crescere i suoi bambini in quell'ambiente a lei tanto estraneo.

Demian sussultò spaventato, smettendo di giocare. Anche lui aveva capito che quello schiaffo aveva un sapore diverso dalle sculacciate che Prudie dava sul sedere a lui e a Daisy, che era qualcosa di grave.

Clowance spalancò gli occhi e trattenne il fiato. Era senza parole, nessuno aveva mai osato picchiarla e non riusciva nemmeno a reagire. La guardò con gli occhi lucidi, spaesati... “Mamma”.

Vai in camera tua!” - le disse, freddamente.

Mamma...”.

Demelza la osservò mentre già iniziava a sentire i sensi di colpa per averla colpita. Era sconvolta e forse, presa dalla rabbia, non aveva saputo aspettare di capire cosa ci fosse dietro alle parole di sua figlia... Ma ormai il dado era tratto e se quel giorno era stata sincera su Julia, c'era dell'altro da raccontare che Clowance ancora non conosceva. “Sai dove sono nata?” - le chiese, freddamente.

No...”.

In un posto chiamato Illugan, in Cornovaglia. Da bambina ero povera, non avevo cibo, avevo un padre sempre ubriaco che mi picchiava ogni giorno, non sapevo leggere e a malapena avevo un vestito o due, ovviamente sempre sporchi e stracciati. Ero la più povera dei poveri, non sapevo nemmeno cosa fossero le lady. Mio padre, TUO nonno, quando non era ubriaco lavorava nelle miniere. Spaccava pietre e poi, coi soldi che guadagnava, andava a bere birra. Non c'era mai nulla per me e i miei fratelli, solo botte e miseria. Nessuno ha mai teso una mano per aiutarmi, eccetto una persona: Ross Poldark... Tuo padre mi ha salvata, mi ha preso a lavorare con lui e mi ha resa ciò che sono ora. Fra di noi non è finita bene, accetto che tu non voglia averlo come padre perché ci ha abbandonati ma NON accetterò mai che i miei figli si sentano superiori a un'altra persona. Tuo padre, Ross Poldark, è sempre stato un uomo forte e combattivo, ha lottato per il bene dei suoi amici e lo ha fatto non volendo nulla in cambio da chi aveva meno di lui. E' stato povero con me, abbiamo venduto tutto quello che avevamo per saldare dei debiti e non ce ne siamo mai vergognati. Se tu ti vergogni di questo, allora devi vergognarti anche di me... Non sono una lady, non lo sono nemmeno ora che Hugh mi ha sposata e ne sono la vedova. Vivo qui con voi e per voi ma vorrei essere altrove. Questo non è il mio mondo e mi spiace se per questo ti vergognerai di me. Hai una madre che è stata povera ed è fiera del suo passato e di non aver fatto male mai a nessuno. Se questo ti disturba allora, oltre al signor Poldark, dovresti disprezzare pure me e cercarti un'altra mamma più alla tua altezza... Io non lo sono”.

Clowance, senza fiatare, era rimasta immobile ed impietrita. “Mamma...”.

Mamma” - ripeté Demian, spaventato.

Demelza si voltò verso di lui. “Mettiti la camicia da notte! SUBITO!”. Poi, guardando Clowance, scosse la testa. “E tu tornatene in camera tua, non voglio vederti per un pò”. Era stata dura, ma voleva che lei capisse. Doveva farle male ma di certo lei stava peggio di sua figlia, in quel momento...

La bimba, con le guance rigate di lacrime, abbassò lo sguardo e, mestamente, lasciò la stanza.

E Demelza, esausta come se avesse spaccato pietre tutto il giorno, si sedette sul letto mettendosi le mani nei capelli. Sembrava che ogni cosa nella sua vita le sfuggisse senza controllo dalle mani e non sapeva più cosa fare. Forse era impossibile trovare una soluzione a tutta quella confusione, forse doveva solo tirare avanti facendo del suo meglio in quella vita che aveva travolto lei e i suoi figli, donandogli alcune certezze ma togliendogliene molte altre.

Mamma”.

Si voltò verso Demian ed era ancora vestito. “Non è la serata adatta per disubbidire, o ti prepari per andare a letto o ti do una sculacciata come fa Prudie”.

Il bimbo sbuffò ma, saggiamente, decise che era meglio non sfidare la sorte. Si portò la mano alla vita sciogliendo il fiocco che teneva legato il nastro azzurro che gli sorreggeva i pantaloncini e poi, goffamente, tentò di slacciarsi i bottoni della camicina bianca che indossava.

Demelza sorrise nonostante tutto, chiedendosi quando avrebbe imparato a vestirsi e svestirsi da solo senza fatica. “Vieni quì” - sussurrò, aiutandolo. Poi però si bloccò, distratta dall'ombra delle piante del giardino che, dalla finestra, disegnavano figure strane sulle pareti della stanza.

Gli alberi di quel giardino erano bellissimi, maestosi e quella sera, forse grazie alla triste conversazione con Clowance e ai racconti del suo passato, le erano tornate in mente immagini di se stessa bambina, scalza, senza freni, che correva nella brughiera e si arrampicava su ogni pianta che trovava nei paraggi. Proprio come faceva Demian. Provò uno strano senso di nostalgia, nonostante la sua infanzia fosse stata durissima... “Aspetta Demian, rivestiti!”.

Il bimbo la guardò storto. “Ma hai detto...”.

Beh, ho cambiato idea! Ho bisogno di uscire e fare qualcosa di piacevole. Qualcosa che piacerà anche a te”. E senza che il bambino potesse replicare, gli legò il nastro in vita, gli mise le scarpine e gli sistemò nuovamente la camicia. E poi con lui, di soppiatto, uscì nel corridoio ormai buio e silenzioso.

Si sentiva stranamente leggera in quel momento, come una bambina. Per un attimo decise di accantonare tutto, i sentimenti per Ross, Clowance, la rabbia, il dolore, la solitudine... Per dieci minuti decise che voleva tornare a non avere alcun pensiero e fare qualcosa solo per se stessa.

Uscirono nel giardino e poi si guardò intorno, prima di rivolgersi a Demian che teneva per mano. “Tesoro, qual'è l'albero più alto?”.

Timmy”.

Timmy?”. Santo cielo, non sapeva che suo figlio avesse dato un nome alle piante del giardino!

Il bimbo annuì. “Sì, l'ho chiamato così”. Gli sfuggì di mano e si mise a correre e gli toccò seguirlo.

Demian la condusse davanti al salice dietro alla fontana le cui fronde erano visibili anche da lontano, dai giardini di Kensington. Era una pianta secolare, meravigliosa, in effetti la più bella del giardino e spesso in estate, mentre osservava i bambini giocare nella fontana, si era seduta sotto la sua ombra con un libro in mano. Sorrise. “Demian, lo sai che da piccola anche io amavo arrampicarmi sugli alberi come te?”.

Demian spalancò gli occhi. “Davvero?”.

Sì. Vorrei rifarlo ora, vieni con me?”.

Ti piaceva andare in alto? Come me?”.

Demelza sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Più che altro, scappavo da tuo nonno...”.

Demian fece un sorrisetto furbo e la guardò con rinnovato interesse. “Se lo sa Prudie, ti da anche a te una sculacciata sul culetto, mamma!”.

Rise. “Rischieremo”.

Il piccolo annuì e in un attimo, con l'agilità di uno scoiattolo, sgattaiolò sul tronco, salendo in alto agilmente e senza alcuna difficoltà.

Demelza inspirò, prese coraggio e con un po' più di fatica gli andò dietro. Era fuori esercizio, il giorno dopo le avrebbe fatto terribilmente male la schiena ma quel gesto che sapeva di antico, pur faticoso, sembrava ciò che ci voleva per darle pace.

Arrivarono sul ramo più alto e Demelza, soddisfatta, si appoggiò al tronco mentre Demian, agile come un gatto, gli saltò in braccio rannicchiandosi fra le sue braccia.

Si guardò attorno, non si era mai accorta di quanto fosse grande il suo giardino e di quanto possente e immenso fosse il grande palazzo dove vivevano. Era tutto perfettamente in ordine, pulito, bello, aristocratico e nobile, ogni cosa era al suo posto e sembrava voler urlare al mondo la potenza della famiglia che vi abitava. E forse era questo che l'avrebbe fatta sempre sentire fuori posto, quel vivere in un mondo non suo ed essere vista dagli altri come ciò che non era e mai sarebbe stata.

Ma lì in alto, su quel ramo, assieme a Demian, era solo Demelza, la Demelza bambina senza niente da mangiare e libera come l'aria. “Lo sai, hai ragione a volerti sempre arrampicare sugli alberi. Quassù è bellissimo”.

Demian dondolò le gambette nel vuoto e le sorrise. “Sì”. Le indicò la luna che quella sera era piena e splendente. In cielo non c'era una nuvola... “E' più vicina...” - disse il bimbo.

Sì tesoro, da quassù è più vicina. E' per questo che ti piace arrampicarti? Per essere vicino alla luna?”.

Demian la guardò con serietà, cosa inusuale per lui. I suoi lunghi e lisci capelli biondi, ormai arrivati alle spalle, ondularono nel vento leggero della sera. “Io voglio andarci”.

Dove?”.

Sulla luna!” - rispose lui, sempre serio.

Demelza sorrise, baciandolo sulla fronte. “Ma tesoro, è impossibile. Non si può, nessuno riuscirebbe a farlo”.

Lui scosse la testa. “No, non è vero! Non è che non si può, è che bisogna imparare come si fa!”.

Che vuoi dire?”. Demelza ci pensò su e poi spalancò gli occhi, colpita da quelle parole infantili che però nascondevano una grande verità, dette col candore e l'innocenza dei quattro anni di Demian. “Intendi che riteniamo impossibile ciò che non sappiamo ancora fare?”.

Sì” - disse lui, alzando le spalle.

Lo strinse a se, ragionandoci su. Aveva ragione, era un genio! In fondo la gente riteneva impossibili cose o obiettivi che ancora non aveva imparato a raggiungere. Non era impossibile andare sulla luna, semplicemente non c'era ancora nessuno che aveva capito come arrivarci! Non era impossibile conciliare il ritorno di Ross nelle loro vite... doveva solo trovare un modo, anche lì... “Demian, se sarai tu a trovare il modo di andare sulla luna, mi porterai con te a vederla?”.

Certo” - rispose lui, come se fosse la cosa più facile del mondo. “Però mamma, voglio fare anche un'altra cosa da grande”.

Cosa?”.

Quello che faceva il tuo papà, che hai detto prima a Clowance”.

Demelza si accigliò. “Mio padre era un minatore. Spaccava le pietre in miniera”.

Col piccone?”.

Sì”.

Demian rise, con la sua faccia da monello. “Bello! Anche io voglio farlo”.

Gli accarezzò i capelli, scompigliandoglieli. “Tesoro mio, non dirlo a tuo zio e alla nonna! Non credo che ne sarebbero troppo contenti”.

Il bambino rise di nuovo e lei lo strinse a se, forte. Era una peste ma era anche un sognatore, come Hugh... Per lui nulla era impossibile, avrebbe potuto raggiungere la luna o trovare gli elfi nel giardino, un giorno. “Sai, tu mi ricordi tanto tuo padre...” - sussurrò sotto voce, senza che lui la sentisse.

Mamma? Scendiamo?” - chiese Demian, incurante dei suoi pensieri e stanco di quella prolungata immobilità.

Annuì, era tardissimo ed era ora di tornare alla realtà, alla sua vita, ai suoi problemi con Ross, a Clowance.

Scesero dall'albero, riprese suo figlio per mano e come due ladri rientrarono in casa senza svegliare nessuno, come due monelli che ritornano dopo una marachella.

Rientrarono nella stanza e stavolta Demian si fece togliere i vestiti e indossò la camicina da notte senza fare storie anche se, una volta pronto per dormire, decise che era meglio fare le capriole sul letto, di nuovo.

Demian, è tardi, basta!”.

No dai, giochiamo ancora, mamma!”.

Sospirò, mettendosi le mani sui fianchi per sembrare più perentoria. “Allora, se vuoi giocare, inizierai a dormire in camera tua nel tuo letto da adesso”.

Domani!” - rispose lui, come al solito.

E in quel momento la porta si aprì, facendo sobbalzare entrambi. Demelza si voltò e si trovò di nuovo davanti Clowance, con la camicia da notte, gli occhi arrossati e un orsacchiotto stretto al petto. La vide per ciò che era, piccola, triste e indifesa e provò l'immensa voglia di abbracciarla nonostante tutto. Ma prima di farlo, voleva sentire che cosa avesse da dire. Era inusuale che Clowance venisse in camera sua di sera e visto quanto successo, voleva accertarsi che avesse compreso cosa le aveva detto. Sarebbe comunque andata a controllarla appena messo a letto Demian ma il fatto che fosse lì, che fosse tornata nonostante la sgridata di prima e il suo orgoglio che avrebbe potuto spingerla e rintanarsi in camera sua, era già un successo. “Hai bisogno di qualcosa?”.

La bimba abbassò lo sguardo. “Posso dormire anche io con te?”.

No!” - rispose per lei Demian, dal letto, prima che Demelza lo fulminasse con lo sguardo e lo azzittisse.

Demelza le si avvicinò, inginocchiandosi davanti a lei e accarezzandole la guancia dove l'aveva colpita. “Come mai?”.

Clowance iniziò a singhiozzare e poi si rifugiò fra le sue braccia, rannicchiandosi contro il suo petto. “Mamma, non mi interessa se eri povera e se vuoi ancora esserlo. Ma ti prego, continua a essere la mia mamma, non mi lasciare con una mamma nuova perché non mi vuoi più. Già non sono piaciuta a papà, se poi non piaccio più nemmeno a te, io che faccio da sola? Se vuoi andiamo a vivere a... a... in quel posto dove sei nata... ma tienimi con te...”.

Le si strinse il cuore e la abbracciò con forza, accarezzandole i lunghi boccoli biondi che le ricadevano sulla schiena. Il fatto che pensasse che volesse abbandonarla le spezzava il cuore ma la rincuorava sentirla dire che averla vicina era più importante di tutte le altre cose. “Davvero non ti interessa che io non sia una lady brava come te?”.

No, non mi interessa... Però mi vuoi ancora bene?”.

Certo! Sciocchina, come puoi pensare che non potrei amarti? Clowance, tu potrai farmi arrabbiare, farmi infuriare ma mai smetterei di amarti. E sono certa che nemmeno tuo padre potrebbe... So che per te è difficile capire cosa ti ho raccontato oggi, comprendere come un animo umano può essere portato a sbagliare ma metterei la mano sul fuoco sull'amore di Ross per te. Ho poche certezze nella vita e questa è una di queste. Ti ama e ti salverebbe mille altre volte come ha fatto a gennaio, darebbe la vita per te se fosse necessario. Tu sei sempre piaciuta a tutti, NESSUNO escluso... E non averti avuta vicina, per lui, è stata già una punizione più che sufficiente” - le sussurrò, col viso affondato nei suoi capelli.

Mamma, io non so se il signor Poldark mi sta simpatico, a Jeremy non piace e lui, anche se ha avuto paura, doveva restare con me, credo. Posso pensarci?”.

Demelza sospirò, annuendo. “Clowance, tu non sei obbligata a vederlo se non vuoi. Porti il cognome di Hugh e se ti va bene così, va bene anche a me”. Non era certa che Jeremy e Clowance avessero l'età adatta per decidere e stava ancora meditando se scegliere lei per loro, magari imponendosi, ma quella non era la sera adatta per affrontare quel discorso. “Potrai essere una lady se questo ti farà felice, tu potrai fare quello che vuoi della tua vita. L'unica cosa che voglio è che usi ciò che hai per aiutare chi ha bisogno, che tu ti senta parte del mondo e della gente che lo abita e non una persona superiore. La gente è tutta uguale, i titoli nobiliari sono solo... parole... La gente davvero nobile è quella che ha un buon cuore, che è gentile e buona. Non quella che ha tanto denaro che usa solo per se. Conoscerai tante persone nella vita, alcune diverse da te e magari sarà fra loro che troverai chi ti ama davvero. Segui il cuore Clowance, sarà quello che ti guiderà sempre nel modo giusto”.

Va bene”. Clowance finalmente sorrise, asciugandosi le lacrime con la mano. “Posso dormire con te lo stesso?” - chiese ancora, incerta.

Demelza la prese in braccio, osservando di sbieco Demian che le guardava col muso lungo. “Tesoro, è un letto grande, per una sera ci dormiremo in tre”.

Va bene” - rispose il piccolo di famiglia - “Ma non dormiamo subito! Voglio giocare!”.

Demelza rise, sollevò in aria Clowance e scherzosamente la lanciò sul letto. Era ora di tornare a vivere con un po' di leggerezza...

La bambina scoppiò a ridere prima che Demian decidesse che voleva fare la lotta con lei coi cuscini. Demelza li fece fare, voleva che Clowance fosse principalmente una bambina e giocasse e basta, senza pensare ad altro. Soprattutto con Demian con cui andava poco d'accordo a volte e che risvegliava spesso in lei una forte gelosia...

Si mise a letto e, dopo aver preso anche lei un cuscino, si unì ai giochi dei suoi due bambini.

Smisero solo quando la mezzanotte era passata da un pezzo e lei si trovò molto più serena di poche ore prima, con Demian rannicchiato sul suo fianco sinistro, Clowance su quello destro e un orsacchiotto gigante sulla sua testa.

Guardò fuori dalla finestra e si soffermò ad ammirare quella bellissima luna piena che illuminava Londra. Chiedendosi se prima o poi qualcuno sarebbe arrivato davvero a toccarla con mano...





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Capitolo 56
*** Capitolo cinquantasei ***


Credeva che Clowance si sarebbe chiusa a riccio a pensare a quanto aveva scoperto su di lei, invece l'aveva stupita. Dalla sera della sgridata e dello schiaffo, sua figlia si era attaccata ancora più a lei, la cercava in continuazione ed era come se, conoscendo quel suo passato a lei sconosciuto, fosse aumentato l'apprezzamento e l'attaccamento che nutriva da sempre, anche se mascherato dalle tante buone maniere che si era imposta e che le avevano insegnato negli anni. Ora sembrava più... libera... Di esprimersi, di mostrare i suoi sentimenti, di parlare e chiedere... Era come se aver saputo quali erano le sue origini, avesse spezzato quella specie di legame classista che la rendeva unicamente una Boscawen ma non una discendente di una fiera famiglia della Cornovaglia. Ora la sua natura più intima e vera, quella di una bambina di certo elegante e raffinata ma anche curiosa e vivace, stesse venendo allo scoperto nella sua interezza. Non le facevano paura le sue origini, come aveva inizialmente temuto Demelza, ma anzi, ne era incuriosita. Doveva sembrarle tanto strano che la sua elegante ed elegantissima mamma non fosse stata fin dalla nascita una lady ma anzi, una appartenente a quel mondo dei poveri che lei aveva sempre snobbato e allontanato come la peste. Ora sapeva che quel mondo, in un certo senso, era anche il suo anche se per fortuna poteva guardarlo da lontano.

Di certo, a sette anni, Clowance non conosceva la dura vita di campagna e dei minatori. Non poteva immaginare cosa fosse la fame, per fortuna non l'aveva mai vissuta, non aveva mai provato cosa significasse avere un solo e logoro vestito e l'idea che aveva dei bisognosi era ancora molto confusa e legata a ciò che sentiva dire da suo zio e da sua nonna, ma a Demelza sembrava vagamente diversa, da quella sera. Era come se, dopo un lungo periodo in cui la sua bambina gli era stata un pò lontana ed estranea, fosse tornata ad essere sua simile, il suo specchio, la piccola che aveva partorito a Nampara e portato via avvolta in una copertina logora in una nevosa giornata invernale di sette anni prima. Clowance, la Clowance sua e di Ross e non la principessina di Hugh, aveva fatto timidamente capolino nella sua vita proprio come aveva fatto Ross pian piano e quel passato da cui era fuggita, era di nuovo tornato ad essere il suo presente.

Non aveva ancora idea di cosa sarebbe successo e a cosa avrebbe portato tutto ciò nella sua vita perché sì, i bambini sembravano essere più tranquilli ora ma lei non lo era affatto. Troppe battaglie i cui echi non voleva sentire, si combattevano nel suo cuore. E ciò che provava – e forse desiderava – era troppo complicato da ammettere e dire ed era più facile fingere di ignorare quella voce della sua coscienza che le urlava che presto avrebbe dovuto prendere una decisione su Ross, su di loro e sui bambini.

Ma per ora si godeva quel poco di pace che si era riconquistata: Jeremy aveva ripreso a studiare con impegno e anche se non voleva sentir parlare di Ross, il suo animo si era fatto meno rabbioso e sicuramente rimuginava e pensava al da farsi... Come Clowance, anche lui aveva bisogno di tempo per tirar fuori i suoi sentimenti e domandare, chiedere e cercare di capire. Clowance, quando erano sole, le faceva delle domande sulla sua infanzia, le chiedeva con cosa giocasse, si stupiva che non avesse bambole e che esistessero papà cattivi che picchiano le loro bambine e non regalano abiti nuovi. E la accompagnava spesso e più volentieri al centro dei poveri dove portava aiuto ormai da anni, osservando silenziosamente le bimbe che vi transitavano, forse chiedendosi se fossero come sua madre da piccola. Era un mondo nuovo per Clowance, da sempre lontano e improvvisamente vicino. Nemmeno lei parlava di Ross e forse in questo si appoggiava alle scelte di Jeremy ed andava bene così, era giusto che fosse così e per Demelza era una consolazione scorgere in questo il risultato di un legame fra fratelli da sempre fortissimo. In due si sarebbero fatti forza e coraggio e avrebbero affrontato insieme la situazione. Chi invece chiedeva di Ross erano i gemelli. Erano incredibilmente bravi a mantenere il segreto e nulla era sfuggito dalle loro bocche quando c'erano nei paraggi Alexandra o altre persone della servitù, ma quando erano soli erano inarrestabili nel voler sapere. Di Ross, della Cornovaglia, di cosa faceva da piccola, di Julia... E Daisy soprattutto, sembrava preoccupata e chiedeva se Ross sarebbe tornato a trovarli qualche altra volta. Non sapeva cosa risponderle, le diceva che lo avrebbero di certo incontrato in giro e che poteva salutarlo e parlarci come sempre ma che per il momento era meglio non fargli inviti e questo sembrava tranquillizzare un pò la piccola. Ma solo un pò... Daisy, la piccola orsa, sembrava davvero aver trovato in lui un affetto e un punto di riferimento e Demelza si chiedeva come diavolo fosse successo, consapevole che forse mai avrebbe avuto una risposta e che le cause di quella alchimia fra sua figlia e Ross, come tante cose che succedono nella vita, le sarebbero rimaste sconosciute.

Quella mattina era uscita presto per portare dei nuovi abiti al centro dei poveri e ci era andata da sola. Clowance aveva lezione con l'istitutore, Lady Alexandra era stata invitata da una amica per la colazione e quindi, dopo aver mangiato coi bambini, ne aveva approfittato per fare due passi all'aria aperta, resa frizzante dalla primavera.

Lasciato il centro, si diresse verso Hyde Park per una camminata nel verde, quando dalla direzione opposta, dopo una notte di bagordi e di eccessi come di sua consuetudine, vide arrivare Monk Adderly, probabilmente diretto a casa sua per dormire.

Aveva una vita strana, lui, strana e sgradevole ai suoi occhi. Viveva quando tutti dormivano e dormiva quando tutti vivevano, pensava solo a se stesso e alla sua soddisfazione personale e aveva un atteggiamento che metteva la metteva a disagio. Con lo sguardo sembrava spogliarla, i suoi occhi le trasmettevano lussuria ed aveva ben capito, nel corso degli anni, che genere di persona pericolosa e potente lui fosse. Nemmeno a Hugh piaceva, Falmouth le ricordava che dovevano guardarsi le spalle se lui era nei paraggi e che, se costretti dalle circostanze, dovevano parlargli con gentilezza ma senza dare eccessiva confidenza. E lei così aveva fatto, sempre. Quindi sorrise, di circostanza. "Buongiorno".

Adderly la squadrò con gli occhi, rispose sornione al sorriso ed abbozzò un inchino. "Mia Lady, siete mattiniera oggi".

"Con quattro figli piccoli, è difficile non esserlo" – rispose lei, neutra.

Adderly sospirò. "I mocciosi sono una così grande scocciatura... Belli è, per carità, avete quattro splendidi eredi ma credo sareste più lieta e comoda se fossero affidati a un buon istitutore. Portano via tempo ed energie e una donna giovane e bella come voi dovrebbe solo godersi la vita e i divertimenti che essa offre".

Demelza alzò un sopracciglio, sarcastica, immaginando bene a quali divertimenti lui alludesse. "Voi sembrate esperto nei vostri divertimenti... Io lo sono nei miei, adoro la compagnia dei miei figli".

Lui annuì. "Lo so... Pare che la adoriate talmente tanto da esserveli portati dietro in una situazione pericolosa, a gennaio. Povertà e sobborghi londinesi non fanno per voi e nemmeno per i vostri piccoli Lord e Lady".

Demelza deglutì, ricordando con orrore quanto successo al discorso di Pitt e decisa a riprendere il suo cammino per terminare quella sgradevole conversazione. Parlare di quel giorno con Monk non era decisamente nei suoi programmi."Beh, ho imparato la lezione, ve lo assicuro... Vi ringrazio per i vostri consigli, ma credo di dover andare a casa".

Adderly però non sembrava disposto a lasciarla andare. "Aspettate!".

"Sì?".

Lui le si avvicinò, viso a viso. "E' solo un consiglio, il mio... Andare incontro a pericoli, vi mette a contatto con pericoli maggiori".

"Cioè?".

"Cioè, darete a perfetti arrivisti venuti dalla campagna, la possibilità di ergersi a paladini di donne e giustizia, obbligandovi poi a ricambiare favori che certa gente, per i servizi resi, esigerebbe... Non diamo a chi non lo merita, la possibilità di mettersi in mostra e chiedere. Lasciamo che certa gente nata nell'ombra, ci muoia nell'ombra".

Demelza deglutì, rendendosi conto che stava parlando di Ross, anche se non aveva pronunciato il suo nome. Fra i due non correva buon sangue, glielo aveva raccontato Lord Falmouth e se n'era accorta al ballo d'autunno quando era intervenuta per sedare le scintille fra i due. Conosceva Ross... E purtroppo conosceva anche Adderly... "Se parlate del Signor Poldark, è stato gentile, coraggioso e impeccabile, nel dare un aiuto a me e ai miei figli. E non ha chiesto nulla in cambio. Gli devo la vita e non me ne dimenticherò".

Monk scosse la testa. "Ross Poldark è un dannato, iroso ed arrogante provinciale, uno che arriva dal nulla e ha la presunzione di venire quì ad insegnarci come deve girare il mondo. Non sa stare al suo posto, non conosce le regole, non ha morale...".

A Demelza venne quasi da ridergli in faccia. Morale? Adderly parlava di morale? Santo cielo, non aveva mai sentito nulla di più ironico in vita sua! "Il signor Poldark, da quello che mi risulta, discende da una nobile e facoltosa famiglia della Cornovaglia".

"Caduta in disgrazia!" - la bloccò lui.

"Ma pur sempre nobile..." - rispose lei – "E se parlate a me di regole e di come gira da sempre il mondo, dovreste sapere anche voi che il passato sulle casate nobiliari, conta molto anche se il presente è poco florido".

Adderly parve punto sul vivo da quel suo rispondergli a tono e assunse un'espressione di sfida e di malcelato disappunto. "Un arrogante resta arrogante, soprattutto quando si trova a contatto con mondi e persone non di sua competenza. E ho intenzione di rimetterlo al suo posto, domattina..." - concluse, lisciandosi i guanti di pelle che aveva sulle mani.

"Cosa?". Demelza parve colta da panico...

Adderly si stiracchiò, con la placidità di uno che sta parlando del mercato del bestiame. "Abbiamo avuto un piccolo diverbio su... su alcune cose o persone... E lo risolveremo a modo nostro, come la dovrebbero risolvere sempre gli uomini d'onore".

La invase l'orrore, non c'era bisogno di altre spiegazioni perché aveva già capito a cosa lui alludesse. Un duello... Erano proibiti dalla legge ma tutti sapevano quanto spesso, di nascosto, le contese fossero sanate con quel mezzo, tutti sapevano che boschi e parchi al mattino presto, lontano da occhi indiscreti, erano luogo di scontri fra contendenti, tutti sapevano quanto Adderly li amasse e quanto fossero letali. Ma la cosa che la lasciava a bocca aperta era Ross... Ross non era uno da duelli, non era uno che decideva di togliere la vita a qualcun altro, non era come Monk. Come poteva aver accettato una cosa simile? Cos'era successo? Come poteva essere tanto idiota e incosciente? Aveva un figlio... dei figli... E una vita davanti, una miniera che dipendeva da lui, un futuro tutto nuovo da costruire e forse, in fondo alla lista, aveva anche lei da tenere in conto. "E lui ha accettato?" - chiese, con voce metallica.

"Un uomo accetta sempre, mia Lady. Quanto meno non è un codardo".

Demelza lo guardò con odio mentre dentro di se il terrore la corrodeva. "I duelli sono proibiti dalla legge. Ripensateci".

Adderly ridacchiò. "Avanti, sapete bene come gira il mondo e sono sicuro che questa piacevole conversazione fra noi, resterà appunto, fra noi... E' un modo veloce e poco oneroso di sistemare le dispute senza disturbare i giudici, ricordatevelo Lady Boscawen".

Si morse il labbro, atterrita. "Poco oneroso? Una vita persa è qualcosa di POCO oneroso, per voi?".

Adderly alzò le spalle. "Dipende da quale vita viene persa. Alcune vite perse valgono tragedie, altre sono una liberazione per il mondo. Tutto relativo, mia cara Lady Boscawen".

"Ripensateci!" - chiese, implorò, quasi ordinò dall'alto della sua classe sociale, superiore a quella di Adderly. Avrebbe avuto mille modi nelle sua mani per fermare quella follia, avrebbe potuto denunciare alle autorità competenti i due duellanti e salvarli, avrebbe potuto fare mille cose e le avrebbe fatte se si fosse trattato solo di mettere nei guai Monk. Ma c'era anche Ross in quella storia e di conseguenza, avrebbe compromesso la serenità dei suoi figli e di Valentine se avesse denunciato il duello e quindi non poteva far nulla. Aveva le mani legate... A meno che... "Devo andare, ora!" - disse, improvvisamente ansiosa di allontanarsi da lì.

Adderly annuì. "Sarò nelle vostre preghiere, stanotte?".

"Perché dovreste?".

"Perché bisogna sempre essere misericordiosi e sensibili nei confronti di un uomo che domani potrebbe essere morto".

Lo guardò negli occhi, lanciando scintille. "Potreste essere felicemente vivo, domani, a quest'ora, se rinunciaste a questa follia! Vivetevi la serata e la nottata come vostro solito, divertitevi, tornate a casa all'alba e non pensate ai duelli... Come dicevate prima, questa vita offre talmente tanti divertimenti, che sarebbe uno spreco gettarla via per una questione d'onore".

Adderly serrò la mascella. "Domani sarò vivo, Lady Boscawen, state serena. Forse è qualcun altro che dovrete ricordare nelle vostre preghiere misericordiose. E la cosa, purtroppo, sembra non dispiacervi affatto. Imparate da che parte stare, nella vostra posizione non potete permettervi sbagli".

Demelza non rispose, di essere gentile ed accomodante non aveva proprio voglia, così come non aveva voglia di dargli la soddisfazione di rispondergli ancora. "Buona giornata, Adderly" – disse, freddamente.

"A voi, mia Lady".

Demelza non aggiunse altro. Si voltò e a grandi falcate uscì dal parco. Era terrorizzata ed arrabbiata e purtroppo esisteva un solo modo per fermare quella follia senza far intervenire terzi e creare uno scandalo. E così, velocemente, si avviò verso Westminster. Le sedute del mattino iniziavano alle dieci, conosceva bene quegli orari che erano la consuetudine di Falmouth. E lì avrebbe trovato Ross. Se non era riuscita a convincere Monk, almeno poteva tentare con lui. Ross non era uno da duelli e anche se orgoglioso e testardo, forse l'avrebbe ascoltata e si sarebbe fatto guidare da lei e dal suo buon senso. Non poteva farlo, dannazione! C'erano Valentine, Jeremy e Clowance in gioco, non era solo una questione di orgoglio ferito da sanare o di leggi da rispettare! Ross doveva capirlo e sapeva che il suo cuore lo avrebbe recepito, se lei gli avesse posto la questione nei giusti termini. E se non lo avesse capito... forse lo avrebbe preso a schiaffi!


...


Quando vide Ross, la maggior parte dei parlamentari era già entrata in Parlamento e lui sembrava piuttosto frettoloso e decisamente in ritardo.

Lo aspettò a pochi metri dall'ingresso di Westminste, appoggiata a una pianta, lo vide attraversare la strada senza quasi guardare se arrivassero carrozze e quando lui si accorse della sua presenza, si bloccò spalancando gli occhi. "Demelza?".

Lei annuì, salutandolo seria e con un impercettibile cenno del capo. Sembrava stupito di vederla, non si incontravano da parecchie settimane, da quando gli aveva dato appuntamento al suo cottage per parlare dei bambini e ora doveva essere un pò confuso dal fatto che lei si trovasse lì. "Sei in ritardo" – gli disse, gelida.

Ross la guardò con circospezione, forse indeciso su cosa dire e come dirlo. "Ecco... Stamattina Valentine e i Gimlet son partiti per passare alcuni giorni fuori città, in campagna. E ho ritardato per salutarli e aiutare a caricare in carrozza i bagagli".

Demelza annuì. Ottimo, quel cretino aveva organizzato tutto affinché fosse solo e senza intoppi per partecipare al duello. Lo avrebbe strozzato in quel momento! "E tu? Come mai non vai con loro?".

Ross guardò il Parlamento. "Devo lavorare".

"Mancare a una seduta non manderà in malora il sistema".

"Ma volevo esserci... Oggi".

Demelza gli si avvicinò di alcuni passi, lo prese per il braccio e senza dire nulla, come una furia, lo costrinse a seguirla e lo trascinò in un vicolo appartato per parlargli senza essere osservati da occhi indiscreti. "Oggi? Oggi o domattina, DEVI essere quì?".

Ross per un attimo la fissò un pò smarrito ma poi si oscurò, come capendo a cosa alludesse. "Come lo sai?" - chiese, senza girarci troppo attorno.

"La colpa è tua, ti scegli degli sfidanti con la lingua troppo lunga, che amano pavoneggiarsi in giro con la presunzione di non venir puniti dalla legge, anche se la infrangono".

Ross serrò la mascella, nervoso. "Non sono affari tuoi, stanne fuori!".

Era troppo, se Ross voleva essere picchiato, picchiato FORTE, quello era un buon modo per ottenere quel trattamento. "Ross, non fare stupidaggini! Un duello? Con Adderly? E' dannatamente proibito dalla legge e lo sai! E da quando ami cose del genere? Sei sempre stato contrario ai duelli, da quando hai cambiato idea?".

Ross voltò impercettibilmente il viso. "Sono ancora contrario ma certe cose... Certe cose non possono essere perdonate!".

"Quali cose? Cos'avrà mai fatto Adderly di tanto grave? E' odioso, un pallone gonfiato arrogante, un viscido, un verme... Te lo avevo già detto, ti avevo avvertito di stargli lontano e di non raccogliere le sue provocazioni, ma tu non ascolti! Non ascolti mai quando qualcuno ti da un consiglio! Dannazione Ross, quando cambierai?".

Ross sussultò a quelle parole e poi abbassò il capo, sintomo che erano andate a segno. "Forse mai, sono nato arrogante e morirò arrogante... Sono così e in fondo una volta mi amavi anche per questo".

Demelza sospirò. Santo cielo, non voleva dire nulla più del dovuto, non voleva lasciarsi andare ai sentimenti, non voleva esporsi e non era pronta per farlo, voleva solo che rinunciasse a quella follia! "Ross, sai che apprezzo molti lati del tuo carattere anche ora... Anche quando sei dannatamente arrogante, se ce n'è motivo".

"C'è motivo, per questo!".

"Quale? Cosa ti ha fatto Adderly?".

Ross volse il capo. "Ha detto cose... difficilmente perdonabili...".

"Su di te? Su Valentine?".

"No".

Lo guardò, cercò di capire cosa ci fosse sotto, cosa lo avesse fatto arrabbiare tanto ma non trovò nessuna risposta. Politica? No, Ross non avrebbe accettato un duello per divergenza di idee... Affari comuni? No, non ne avevano... E quindi? Ci pensò su e quel silenzio, unito alle allusioni di poco prima di Adderly su quanto successo al discorso di Pitt, le fecero gelare il sangue. E se la causa del contendere fosse stata lei? Sapeva bene quali fossero le mire di Monk su di lei e sapeva anche che al ballo d'autunno era stata causa di controversia fra i due, ma era convinta che quel testone avesse imparato a non farsi provocare di nuovo, sul medesimo argomento. "Ross... Se è per me, per qualcosa che Adderly ha detto di me, per quanto sgradevole possa essere, tu non devi farlo".

Lui spalancò gli occhi, sorpreso da quelle parole. "Ti ho detto che questa faccenda non ti riguarda! Torna a casa!".

Colpito e affondato! Se Ross reagiva così, se era così evasivo, era perché lei aveva fatto centro. "Ross, NON ti perdonerò MAI se partecipi a un duello per me! E ti odierò per sempre se morirai per questo".

Ross impallidì, davanti alla rabbia e alla serietà di quelle parole. "Tu non hai idea di che persona lui sia...".

Lei scosse la testa, esasperata. Perché la sottovalutava? Perché non voleva capire che lei conosceva quel mondo e chi lo popolava, meglio di lui? "Io non lo conosco? Adderly? Giuda Ross, persino Hugh non poteva sopportarlo, lui che era la persona più pacifica del mondo e vedeva il bello in tutto e tutti! So chi è Adderly, so cosa dice di me e a cosa mira e conosco anche piuttosto bene i poco lusinghieri termini che usa di solito quando parla di una donna. E' volgare, non ha morale, non ha rispetto per nessuno eccetto che per se stesso... Conosco Monk, so come tenerlo a bada e so quanto sia pericoloso! Ha molte persone sulla coscienza, è letale nei duelli e tutti lo sanno! Ciò che dice su di me cade nel vuoto, Ross. Io sono lontana da lui e dal suo mondo, se ci ho a che fare so come difendermi e non ho bisogno che tu mi protegga! Me la so cavare benissimo da sola".

Ross picchiò nervosamente un sassolino col piede, facendolo rimbalzare contro il muro di una casa. "Lo so che sai cavartela ma resta il fatto che certe cose, io non posso tollerarle!".

"DEVI tollerarle! Ross, hai pensato alle conseguenze di un duello? Se ti va male, che ne sarà di Valentine?".

Lui sospirò. "Ci sono i Gimlet. Sono stati per lui genitori migliori di quanto potrò mai essere io. Starà bene. Gli lascio una casa, una miniera attiva, denaro e una posizione sociale a Londra. Avrà un futuro spianato davanti, molto meno tortuoso di quello che ho avuto io".

Avvertì la nota di incertezza e preoccupazione per il figlio nella sua voce, ma anche la determinazione a proseguire in quel folle intento. Demelza lo prese per le braccia, lo scosse, tentò di farlo ragionare. "Ross, sei tu suo padre! Non ha più una madre, sarebbe solo al mondo con dei servi! Ha bisogno di te e ti odierà se morirai a causa di uno stupido duello, appena sarà abbastanza grande per capire! Giuda, vuoi essere padre, vuoi esserlo per Jeremy e Clowance ma come posso crederti? Come posso farlo se per tuo figlio, il tuo UNICO figlio legittimo, non sei disposto a lasciar da parte il tuo orgoglio?".

Gli occhi di Ross divennero lucidi ed era evidente che quelle parole lo stavano ferendo nel suo intimo più profondo. "Jeremy e Clowance non ne vogliono sapere di me. E Valentine starà molto meglio coi Gimlet rispetto a com'è stato fin'ora assieme a me".

"CHE DIAVOLO DICI?". Giuda, lo avrebbe picchiato davvero! Non poteva pensarlo, non poteva permettergli di pensare una cosa del genere! Non Ross! Ross era testardo, irascibile, sconsiderato a volte! Ma mai si era sentito inutile per le persone che amava e sempre aveva lottato per il bene degli altri. Era un narcisista a volte ed era pure irritante se ci si metteva! Ed ora quel lato del suo carattere che forse aveva mitigato con gli anni, assieme a tante sue certezze che erano cadute, sarebbe stato dannatamente utile per farlo desistere e fargli riacquistare fiducia in se stesso e nel futuro! Non poteva permettere che quel momento buio lo spingesse a gettare via la sua vita tanto stupidamente. "Ross, Valentine ti adora! L'ho visto a Natale, com'è contento quando gli dai retta. E Jeremy e Clowance hanno bisogno di tempo, forse molto, ma ora sanno che ci sei e che quando saranno pronti per te, SE saranno pronti, potranno trovarti e ritrovare in te un padre. Se li ami, devi dimostrar loro che saprai aspettarli anche per sempre, senza fuggire e senza aspettarti nulla in cambio. Hai sconvolto le nostre vite tornando, hai fatto in modo che i miei gemellini si affezionassero a te e ora vuoi di nuovo mettere davanti a tutto TE STESSO? Non puoi rinunciare, per loro, per Valentine...". Non disse il suo nome, non voleva esporsi ma sperava che Ross capisse che si stava riferendo anche a se stessa. Non voleva che gli succedesse qualcosa di grave, anche se era arrabbiata da morire in quel momento, con lui! Non voleva e non era capace di dirglielo... E i bambini erano già di per se una motivazione più che sufficiente per rinunciare a quella follia.

Lui parve infinitamente stanco davanti a quelle parole che lo avevano investito come un fiume in piena. Si distaccò dall'atteggiamento fiero di poco prima e con un sospiro, si appoggiò al muro con la schiena. "Sai come funziona, no? Se uno ti lancia un duello e tu sei un uomo, lo accetti. Come hai detto prima, conosci bene questo folle ambiente dove viviamo".

"Hai paura di essere ritenuto un codardo? E' questo che temi?".

"Sai che non è questo che mi importa...".

Lo riprese per le spalle. "E allora, rinuncia!".

"Non posso...".

Scosse la testa, esasperata. "Ross, ti supplico...".

Le sorrise, dolcemente, accarezzandole i capelli. "Torna a casa, dai bambini. Gioca con loro, ridi con loro e non pensare a questa faccenda. Hai la tua vita, la vivrai serenamente e se un giorno i bambini ti chiedessero di me, digli che ho fatto molti sbagli ma che li ho amati. Li ho amati come nessun altro potrà mai fare. E se...".

"Se?".

"Se non dovessimo rivederci... Chiedi scusa per me a Daisy per non essere stato di parola".

Lo guardò senza capire, atterrita da quello che sembrava un addio. "Di che parli?".

"Daisy lo sa...".

Le sue mani si strinsero attorno ai polsi di quell'uomo che dannazione, era e sarebbe sempre stato il suo tormento! "Ross, c'è qualcosa che possa farti cambiare idea?".

Lui non seppe rispondere. "Quel qualcosa non posso osare chiederlo". Poi si chinò, dandole un leggero bacio sulla fronte. "Devo andare, ora! E anche tu! Non pensare a me e a domani, pensa solo ai tuoi figli e al vostro futuro".

Poi si staccò da lei, le lanciò un ultimo sguardo gentile e poi tornò sulla strada principale, diretto a Westminster. Lasciandola atterrita e spaventata in quel vicolo, alla disperata ricerca di una soluzione che non era certa di poter trovare.

Non poteva essere un addio quello, non poteva! Ma come poteva impedirlo?

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Capitolo 57
*** Capitolo cinquantasette ***


Camminò a lungo per Londra persa nei suoi pensieri e senza la cognizione del tempo. Si sentiva sospesa, impaurita, terrorizzata e col cuore in gola e tutto attorno era come offuscato, opacizzato ed evanescente. Aveva solo un pensiero in testa, quel dannatissimo duello che, nel giro di poche ore, avrebbe potuto privare Ross della vita e Valentine di un padre. E anche Jeremy e Clowance... E lei... Era difficile ammetterlo anche solo a se stessa ma tutti loro avrebbero perso qualcosa di importante e una fetta del proprio futuro, in quel dannatissimo duello. Tutti, anche lei... Anche se non sapeva cosa volesse, anche se non era ancora capace di ammettere i suoi sentimenti e quanto il dolore passato l'avesse lacerata, si sentiva persa davanti all'idea di non rivedere mai più Ross.

Non aveva voluto rincontrarlo e riaverlo nella sua vita ma il destino aveva di nuovo unito le loro due strade e quindi ora che senso aveva perdersi di nuovo in modo tanto stupido? Certo, sapeva come vivere senza di lui, lo aveva fatto per anni ed era anche stata capace di essere serena e felice ma dentro di se, sempre, aveva cullato la certezza che lui c'era, esisteva e viveva, anche se lontano da tutti loro. E anche se non aveva mai voluto ammetterlo, quel pensiero era stato una consolazione per lei. Ma ora era diverso, sarebbe scomparso dalla sua vita per non tornare più... Dalla morte non si torna, nessuno può farlo e l'idea che lui fosse tanto folle da accettare un duello per orgoglio, tanto testardo da perseguire quell'idea e tanto giù di morale da non ritenere così grave un esito negativo, la annientava e la rendeva furiosa.

Non voleva che lui morisse! Non voleva un mondo senza Ross da qualche parte! Ma come poteva fare? Cosa poteva dire? Qual'era la strada giusta per fermare quella follia?

Camminò ancora e poi ancora, non sentì nemmeno le campane del mezzogiorno e quando si rese conto che era ormai pomeriggio, stanca ed affamata, decise che era inutile vagare come come una folle stupida per le vie di Londra e si incamminò verso casa alla ricerca di una pace che forse avrebbe potuto suggerirle una soluzione. Inoltre era uscita da molte ore e tutti sarebbero stati preoccupati...

E invece...

Quando arrivò, nessuno si era praticamente accorto della sua assenza e in casa era in corso una specie di dramma generale dove Prudie sbuffava fumo dalle orecchie, Alexandra pure, Jeremy ridacchiava, Clowance piangeva e i gemellini fingevano indifferenza seduti sul divano.

Appena entrò nel salotto, Clowance le corse incontro in lacrime, abbracciandola disperata. "Mammaaaaaa".

Preoccupata e per un attimo distolta dalla faccenda-Ross, Demelza si inginocchiò a guardare sua figlia in viso. "Tesoro, cosa c'è?".

"Mi distruggeranno la vita!" - sbottò la piccola in modo teatrale, come sempre.

"Chi?".

"I gemelli!".

Demelza guardò i due bimbi più piccoli che dondolavano le gambette dal divano, poi Jeremy che fingeva di guardare dalla finestra e infine Prudie sulla soglia, con le mani sui fianchi e Alexandra seduta al tavolo, pallida e nervosa, che picchiettava sulle sue gambe accavallate il ventaglio che teneva fra le mani. "Che è successo?".

Sua suocera lanciò un'occhiataccia ai piccoli e poi a lei. "Oggi, dopo la lezione col maestro, i bambini sono andati al parco a giocare con Demian e Daisy che erano già la assieme a Prudie. C'erano i loro amichetti e i gemellini hanno fatto un sacco di disastri e dispetti! E di nuovo, una mamma è venuta quì a casa a lamentarsi dei nostri due piccoli selvaggi! Sono mortificata e sono morta di vergogna! Non mi è mai capitato di sentirmi tanto in imbarazzo in vita mia!".

Demelza fulminò con lo sguardo i gemellini, arrabbiata. Santo cielo, solo una settimana prima era arrivata a lamentarsi con lei la mamma della piccola contessina Anastasja Stelmann, dicendo che sua figlia aveva imparato delle parolacce da Daisy. E ora che era successo di nuovo? "Daisy? Demian?".

I due monelli si guardarono negli occhi e con uno sguardo d'intesa decisero che era Daisy che doveva parlare. "Io e Demian abbiamo solo aiutato Jeremy! Siam stati bravissimi, non monelli!".

A quelle parole Prudie ringhiò, sua suocera si alzò dalla sedia e ciabattando nervosamente, raggiunse la porta. "Io ho la testa che mi scoppia, vado a letto e ci resto fino a domattina. Mi farò servire la cena in camera, non aspettatemi!". E detto questo, uscì dalla stanza borbottando qualcosa di incomprensibile fra se e se.

Demelza sospirò, chiedendosi perché la sua vita dovesse essere tanto complicata. Alexandra era una donna mite e fine e capiva appieno quanto dovesse sentirsi frustrata per la vivacità dei gemellini e per tutti i disastri che combinavano, a cui dovevano comunque mettere un freno. "Cosa vuoi dire? Che significa che avete aiutato Jeremy?" - chiese di nuovo, a Daisy, evitando per il momento di soffermarsi su quanto avessero ferito l'orgoglio della nonna.

E Jeremy, che fino a quel momento sembrava divertito più che preoccupato per le lacrime di Clowance e la rabbia di Alexandra, ridacchiò. "C'era Lady Catherine! Ed era scatenata, voleva baciarmi davvero oggi! Mi seguiva ovunque e allora...".

Daisy lo interruppe. "E allora io e Demian abbiamo fatto delle palle di fango e gliele abbiamo tirate! L'abbiamo colpita benissimo, sempre, su tutto il vestito! Sai mamma che c'ho più mira di te quando fai tiro con l'arco e colpisci i piccioni invece che il bersaglio? Non ho sbagliato neanche un lancio. Neanche Demian! Così poi Catherine ha lasciato in pace Jeremy! Siamo stati bravi, mamma?".

Clowance pianse più forte fra le sue braccia. "Non avrò più nessuna amica per colpa loro!".

Se la figlia piangeva, il maschio se la rideva e Demelza era vicinissima ad esplodere. "JE-RE-MY!!!".

"Cosa?" - chiese il bimbo, sussultando.

Punto primo, da chiarire. "Hai dieci anni e mezzo e non hai bisogno che i gemelli ti difendano! Se non vuoi la compagnia di Catherine, glielo devi dire chiaramente! Con gentilezza ma fermezza! E avresti dovuto impedire ai bimbi di lanciare palle di fango!".

"Ma mamma! Mica gliel'ho chiesto io! Però sono stati utili..." - concluse Jeremy, ironicamente e sempre più divertito.

"Allora è colpa di Jeremy?" - chiese Demian, con la sua migliore faccia di tolla.

E Demelza si voltò verso di lui e la sua gemella. Punto secondo da chiarire, ce n'era OVVIAMENTE anche per loro. "Bambini, voi dovete imparare a fare i bravi e a non lanciare NIENTE! Niente minestre, niente palle di fango, niente soprammobili! NIENTE! E siete in castigo, niente parco per due settimane, starete in casa ed aiuterete i domestici a sistemare la casa e le vostre stanze!".

"Ma non ho fatto niente!" - rispose Daisy, a tono.

"Lanciare palle di fango non è NIENTE! Devi essere gentile e buona con le altre persone".

Daisy la guardò con aria di sfida. "Ma mamma, io sono buona e gentile! Sono buona e gentile con quelli che devono restare e lancio le palle di fango a chi deve andare via!".

Demian balzò in piedi, come colto da una improvvisa ispirazione. "Sì, vero! Noi difendiamo quelli che hanno bisogno! Jeremy aveva bisogno e noi facciamo così ad aiutarlo. Voleva baciarlo, mamma! Che schifo!".

Lo fissò, indecisa se ridere o essere arrabbiata. "Tu mi dai un sacco di baci di sera. E non ti fa schifo e non ne fa a me. Mi fa piacere" – gli fece osservare.

Il piccolo annuì. "Certo! Ma io sono bello!" - obiettò, con la sua proverbiale ed incredibile faccia tosta.

"Demian...". Demelza guardò suo figlio, quel bambino consapevole di essere bellissimo e che poteva essere il più dolce del mondo e il più pestifero dell'universo. "Tiri palle di fango? Questa è la tua soluzione ai problemi?" - chiese, domandandosi anche se poco prima, parlando di chi deve restare e chi deve andare, Daisy si stesse riferendo anche a Ross. Giuda, doveva fermare quel dannato duello e tutto le era contro!

All'oscuro dei suoi pensieri, Demian annuì. "Sì! E se arriva uno cattivo, cattivo...".

"Cosa fai?".

Lui si mise la manine sui fianchi. "Lo sfido a duello!" - esclamò, imitando poi col braccio il movimento di affondo che si fa con la spada.

E no, era troppo! Cos'era, una congiura? E dopo quelle parole, Demelza tornò alla causa di tutte le sue preoccupazioni, Ross, a cui Demian aveva aggiunto il carico da novanta! Probabilmente si erano tutti messi d'accordo per farla impazzire, non c'era altra spiegazione! O usciva di lì o dava fuori di matto, stavolta ci era vicinissima! Si alzò di scatto, accarezzò i capelli di Clowance per consolarla, lanciò un'occhiataccia a Jeremy e ai gemelli e poi uscì, oltrepassando Prudie e sbattendo la porta. "Mi metto un pò a letto pure io! Credo di avere mal di testa a questo punto. Prudie, pensaci tu...".

La serva la guardò preoccupata ma non disse nulla, limitandosi ad annuire. Però la conosceva e dal suo sguardo era evidente che aveva capito che qualcosa di ben più grave stava attentando alla stabilità dei nervi della sua padrona. Annuì, chiuse la porta e allontanandosi, Demelza la sentì fare una ramanzina colossale ai suoi figli, condita da parecchie parolacce corniche. Fantastico, c'erano parole nuove che Daisy poteva insegnare ai bambini al parco e tutto questo si sarebbe tradotto in ulteriori guai. Sarebbero stati banditi da Kensington prima o poi, se lo sentiva.

E con quel pensiero poco felice raggiunse la sua stanza sprofondando nel letto e maledicendo l'orgoglio di Ross, i duelli, Adderly e chi l'aveva messo al mondo, Chaterine che poteva innamorarsi di qualcun altro e le palle di fango.


...


Nella camera regnava il silenzio, rotto solo dal pendolo dell'orologio che batteva incessante lo scorrere dei secondi. Toc, toc... Il tempo correva veloce e l'alba sarebbe arrivata fin troppo presto senza che lei trovasse una soluzione a quell'imminente disastro.

Si sentiva stanca, infinitamente. La sua mente era vuota o forse era troppo piena di pensieri per essere coerente. Cosa doveva fare? Come doveva muoversi? E perché si sentiva così sfinita?

Quasi senza accorgersene e inconsapevole del motivo, una lacrima le scivolò giù dalla guancia. E dopo quella lacrima, ne giunsero tante altre e lei si trovò nel letto a singhiozzare e a bagnare il suo cuscino, abbracciata a Garrick che le leccava il viso proprio come faceva quando era bambina e frignava per le cinghiate ricevute da suo padre.

Santo cielo, era disperata! Ma per cosa? Per i gemellini, che forse davvero avevano bisogno di un tutore svizzero? Per il fatto che presto avrebbe dovuto chiedere scusa per qualcosa a tutte le mamme dei bambini che frequentavano il parco dietro casa? O forse era per Ross e quel dannato duello? Giuda, perché doveva sentire tutto quel peso sulle sue spalle, sempre da sola? Perché Ross non capiva che non era una cosa che riguardava solo lui? Perché non capiva che la sua presenza, nonostante tutto, sarebbe stata importante per Jeremy e Clowance? Perché? Perché?

La porta si aprì e qualcuno entrò e quando si accorse di non essere sola, balzò sul letto asciugandosi il viso. E con sorpresa si trovò davanti Prudie, giunta stranamente col passo felpato di un gatto. "Cosa ci fai quì?".

La serva la guardò con preoccupazione, poi si sedette accanto a lei sul letto. "Ero preoccupata, ragazza. Cosa c'è? Quando tu piangi, io mi preoccupo".

Lei voltò lo sguardo. "I bambini... Mi faranno impazzire".

"Non piangi per i bambini. Non raccontare frottole alla vecchia Prudie che ti conosce da quando eri tu stessa una mocciosa selvaggia e piena di pidocchi in testa!".

Demelza singhiozzò. "Io non avevo i pidocchi!".

"Come no...". Prudie la guardò storto. "Che succede? Davvero, intendo".

Demelza sospirò, chiedendosi perché tergiversasse tanto. Prudie era forse l'unica che potesse capirla e con cui potesse parlare con sincerità di quello che stava succedendo. Lei era stata da sempre la più fedele confidente circa quel dannatissimo idiota di suo marito, che entrambe conoscevano come le proprie tasche. "Si tratta di Ross".

La serva sbuffò rumorosamente, aprendo le braccia in segno di stizza. "Che ha combinato di nuovo?".

Deglutì. "Domattina, all'alba, avrà un duello all'ultimo sangue con Adderly. Fra poche ore potrebbe essere morto".

Prudie la guardò con orrore. "Giuda! Ma è davvero tanto cretino?".

"Probabilmente... Anche se credo che le motivazioni che lo spingono a farlo, siano un tantino più complesse. Ma il risultato non cambia, sta per andare a farsi ammazzare".

Prudie le prese le mani, stringendole convulsamente. Era spaventata ed era evidente quanto fosse sconvolta anche lei, che Ross lo aveva visto crescere. "Devi fermarlo!".

"Credi che non ci abbia provato?".

"Ritenta!".

Demelza scosse la testa, esasperata. "Gli ho detto qualsiasi cosa utile a farlo desistere. Che ha un figlio che lascerebbe solo, che è proibito dalla legge, che Adderly è famoso per i duelli vinti, che non ne vale la pena e che Jeremy e Clowance si sentiranno abbandonati di nuovo da lui, se muore. Ma vuole farlo lo stesso e io credo che nulla possa fargli cambiare idea" – disse con foga e voce rotta.

Prudie impallidì, poi inaspettatamente le sorrise, accarezzandole la guancia. "Ragazza, deve esserci un modo e solo tu puoi averlo fra le mani. Se gli hai detto quelle cose, hai detto il giusto! Dovrebbe rinunciare anche solo per amore di quella povera creatura che è nata da quella notte maledetta. Ma non basta, non a lui... Lui vuole una speranza. Forse se ne avesse una, amerebbe di più la vita e meno il suo dannatissimo orgoglio".

Demelza abbassò lo sguardo. "Speranza? Di cosa parli?".

"Lo sai bene...".

"Io non posso dargli nessuna speranza, Prudie... Non so nemmeno cosa voglio per me stessa, non so gestire nulla, non so cosa desidero e non so nemmeno insegnare ai miei figli a non lanciare palle di fango al parco! Che speranza potrei dargli?".

Prudie sospirò, accarezzandole la mano. "La stessa speranza che vuoi anche tu".

"Come puoi sapere cosa voglio, se non lo so nemmeno io?".

Prudie si alzò dal letto, accarezzandole frettolosamente i capelli. "Non si diventa vecchi senza imparare niente! Segui di più il tuo cuore e di meno la tua mente. Cosa vuole il tuo cuore?".

"Non lo so... Non voglio nemmeno saperlo, forse. Resto e rimarrò sempre e comunque la moglie di Hugh e qualsiasi cosa possa desiderare, la devo accantonare".

Prudie sbuffò, alzando gli occhi al cielo. "Hugh è morto da quattro anni! E dubito che desiderasse che tu vivessi da suora per tutta la vita in suo ricordo".

Demelza la guardò, mordendosi il labbro. "Prudie, nella mia posizione, quello che mi suggerisci di fare non è realizzabile. C'è la famiglia Boscawen, ci sono i bambini e c'è il passato mio e di Ross che mi ha quasi uccisa, coi miei figli. Come puoi desiderare che io... che Ross... Dannazione era colei che più voleva il matrimonio fra me e Hugh!".

Prudie scosse la testa. "Lo volevo, sì! Allora era la cosa giusta da fare per tutti! Ma ragazza, se il duello è domani, è tempo che tu superi le tue paure e accetti che le cose sono cambiate, che voi siete cambiati e che la vita deve andare avanti. Decidi cosa vuoi, decidilo in fretta e agisci! Oppure aspetta e preparati ad affrontare le consueguenze del duello, quali esse siano! Decidi se vuoi tentare tutto per lui o se hai troppo paura di esporti... Tu puoi salvare Ross, solo tu! E sempre e solo tu, col tuo silenzio, puoi spingerlo ad armare la sua mano".

"Prudie...".

La donna sbuffò, decisa a non dire altro. "Torno dai mocciosi! Li ho messi a lucidare l'argenteria della sala degli arazzi! Ne avranno per mesi".

"Prudie...".

La serva non rispose, lasciandola sola coi suoi pensieri ancora più confusi di poco prima. Uscì dalla stanza, chiuse la porta e Demelza sprofondò fra i cuscini, tornando ad abbracciare Garrick come quando era una bambina. Prudie aveva ragione, per tanto aveva rimosso e occultato cosa sentiva. Cosa voleva... Ma ora non c'era tempo e davvero, forse, avrebbe dovuto trovare il coraggio per dire a Ross le parole che non era riuscita a dire poco prima, a Westminster. Era vero, gli aveva dato tanti buoni motivi per vivere. Ma non quello che lui voleva sentirsi dire!


...


Non chiuse occhio quella notte, mentre ancora e poi ancora l'orologio batteva i suoi tocchi inesorabilmente. Come avrebbe potuto dormire, dopo tutto? Come poteva quando ogni cosa avrebbe potuto cambiare e finire, per l'ennesima volta?

Fuori un forte vento primaverile scuoteva le piante del giardino e a letto non trovava pace. La sera prima aveva detto a Demian, per castigo, che avrebbe dovuto dormire dall'altro lato del materasso senza toccarla ma lui, dopo aver fatto finta di farlo, pian piano nel sonno – e probabilmente anche da sveglio, ma non aveva voluto indagare – era rotolato fino a lei. E ora dormiva rannicchiato contro il suo ventre come un koala e lei non aveva animo di allontanarlo.

Lo guardò nella penombra, soffermandosi sui suoi capelli biondi come il grano sparsi sul cuscino. E ricordò Hugh, altrettanto bello ed affascinante, quando dormiva accanto a lei cingendole la vita con le braccia, disegnando coi suoi capelli biondi disegni sul cuscino proprio come ora faceva Demian.

La figura di Demian e quella di Hugh si fondevano davanti ai suoi occhi, in quel momento. E quei capelli sparsi sul cuscino erano tanto simili a quelli di Hugh da sembrarle un tutt'uno nel buio della notte. Si somigliavano... Demian da grande le avrebbe ricordato incredibilmente Hugh e a lei sarebbe battuto forte il cuore ad ogni sguardo su di lui.

Da quando era morto, lei era sempre stata la fedele moglie di Hugh. Mai aveva pensato ad altri uomini, mai si era fatta tentare dai numerosi corteggiatori più o meno innamorati di lei o del suo patrimonio, che avevano bussato alla sua porta... Ma ora...? Ora era diverso, ora era ad un bivio e forse Prudie aveva ragione, doveva scegliere. Hugh era morto e mai gli aveva chiesto di vivere il resto della sua vita votata al suo ricordo, anzi, le aveva domandato come ultimo desiderio, di essere felice coi bambini. E se continuava a rimanare lì a rimuginare, l'alba sarebbe inesorabilmente arrivata, col suo carico di tragedia! E lei sarebbe stata tutt'altro che felice, decisamente!

Doveva scegliere, doveva decidere se era disposta a fare qualsiasi cosa per fermare Ross da quella follia o se rimanere ferma ad aspettare, per poi accettare il verdetto deciso dal duello e dal destino. Non era una sciocca, conosceva Ross e sapeva bene cosa lui volesse! E forse non sarebbero bastate mille sagge parole a fermarlo... Forse ci sarebbe voluto dell'altro e doveva trovare il coraggio di darglielo. Non era pronta a fare promesse, a riaprirgli il suo cuore, non poteva dargli TUTTO quello che lui desiderava, non ancora almeno. Era una resa ai suoi sentimenti solo a metà... C'erano troppe cose da sistemare, capire, accettare e discutere, ancora. Ma qualcosa doveva dargli e se quel qualcosa era una speranza che spingesse entrambi a credere nel futuro, doveva tentare. Ci voleva coraggio, era un nuovo salto nel vuoto quello, ma doveva farlo!

Si rese conto che in quel momento, si sentiva proprio come la Demelza di tanti anni prima, quella che con indosso l'abito azzurro della madre di Ross, era andata a sedurlo nella sua stanza per non perderlo per sempre. Ora era nella medesima situazione e si sentiva allo stesso modo! Ora era come quella sera lontana a Nampara, con la differenza che era la vita di Ross ad essere in pericolo, non la sua! E come allora, decise che doveva e voleva essere coraggiosa e che quanto c'era in ballo era importante e valeva la pena lottare per salvarlo.

Accarezzò piano il cuscino dove un tempo dormiva Hugh, baciò la fede che teneva al dito e poi per un attimo si nascose sotto le coperte, stringendosi a Demian. Aveva bisogno di un attimo di coraggio e di un momento per perdonare se stessa e la moglie di Hugh che era stata... Doveva abbandonare quel ruolo, quella notte! Ed essere solo Demelza Poldark, quella Demelza Poldark capace di parlare col cuore, capire e farsi ascoltare da quel testardo di Ross. Prudie aveva ragione, solo lei poteva farlo. "Perdonami Hugh... Perdonami se dovrò... dovrò fare... quello che probabilmente sarà inevitabile. Perdonami per questo e per il fatto che, dannazione, credo anche di desiderarlo...".

E poi si alzò dal letto, decisa.

Silenziosamente si mise un semplice abito verde, si coprì col cappotto di Ross che ancora non aveva restituito e poi, dopo aver avvolto Demian in una coperta e averlo preso in braccio, si diresse da Prudie col bambino.

Bussò e quando la serva, mezza assonnata, comparve sull'uscio, senza dire troppo gli mise Demian fra le braccia. "Devo uscire, tienilo con te".

Prudie non chiese spiegazioni, annuì e basta prendendo il piccolo. "Hai deciso, allora...".

"Sì, ho deciso. Non credo di tornare per colazione, non so nemmeno quanto starò fuori. Dì a tutti che avevo un impegno urgente e che sono dovuta uscire presto, inventati una scusa e non spiegare troppo".

Prudie annuì. "Spero che ritarderai quanto serve. Se torni tardi, significa che è andata bene".

Demelza non era ancora così ottimista, non lo era affatto. Ross non avrebbe rinunciato per lei a un duello ma sperava che per amor proprio, potesse capire che avrebbe potuto continuare a vivere per se stesso, per lui e poi si, anche per i bambini. E per lei... Era pronta a mettere anche se stessa in quella lista di buoni motivi per andare avanti. Doveva solo dirglielo...

E con un bacio alla testolina di Demian, si congedò da loro e dalla casa.

Uscì, nel freddo primaverile del primo mattino, col maggiordomo di casa che la guardava accigliato senza osare chiedere dove andasse. Non diede spiegazioni, non ne doveva a nessuno se non a se stessa.

E a passo spedito si diresse verso la casa di Ross col cuore in gola e la paura di non fare in tempo.


...


Bussò, con forza, facendo rimbombare il tocco delle sue nocche sul legno della porta. Aveva il terrore che fosse già uscito e di essere arrivata troppo tardi e grande su il sospiro di sollievo che fece quando Ross, già vestito, venne ad aprire la porta, rimanendo poi impalato a guardarla, sorpreso. “Che ci fai qui? E' l'alba, è successo qualcosa ai bambini?”.

Lo sguardo sconcertato e il tono di voce sospettoso di Ross la irritarono. Beh, forse era normale e probabilmente era l'ultima persona al mondo che pensava di trovare davanti a casa sua alle cinque del mattino e presentarsi a casa sua a sorpresa, spezzando la tensione di un duello imminente, poteva effettivamente essere irritante, ma andare da lui era stata la scelta più irrazionale e allo stesso tempo sensata che avesse mai preso. “Se fosse successo qualcosa ai bambini, non verrei a dirlo a te. Se stessero male, lo direi a Dwight”.

E allora che ci fai qui?”.

Demelza lo fissò, era già vestito e pronto per andare a quel dannato duello. “Dov'è Valentine? E' ancora in campagna?”.

Certo. Ci starà un paio di giorni coi Gimlet. Giusto il tempo di sbrigare questa scocciatura con Adderly”.

L'irritazione la travolse e con un gesto secco lo spinse all'indietro, rimandandolo oltre la porta. Stava facendo il duro e lo sprezzante, stava cercando di apparire gelido perché lei non lo mettesse all'angolo ma Demelza sapeva che aveva paura e che era pieno di dubbi e aveva poco tempo per approfittarne. “Dobbiamo parlare, Ross”.

No, non dobbiamo, non su questo! Non lo abbiamo già fatto ieri?”.

Santo cielo, era esasperata, perché doveva essere sempre tutto così difficile con lui? Ross era rabbioso, astioso, sfuggente. Talvolta aggressivo ma in certi frangenti dolce e malinconico, ferito. E tenero, come quando l'aveva baciata a casa sua, dopo averle salvato la vita... Se in quel momento si fosse comportato dolcemente come quella sera, sarebbe stato tutto molto più semplice ma Ross non era un uomo semplice e forse lui aveva ragione, se n'era innamorata anche per questo. “Non voglio che tu ti batta con Monk. Non per orgoglio e non per me!”.

Lui la guardò di sfuggita, avvicinandosi alla porta e chiudendola con un tonfo. “Sta serena, non mi batto per te! Mi batto per ME, lo odio! Così va meglio?”.

No, non andava meglio e stava mentendo! Non sapeva cosa lo avesse fatto infuriare tanto, non sapeva cosa Monk potesse aver detto di tanto grave, ma qualunque cosa fosse, non avrebbe MAI giustificato un duello. “Monk Adderly ha già ucciso parecchie persone a duello, Ross!”.

Lui, freddamente, la guardò negli occhi. “Non sono cose che ti riguardano! O forse ti interessa di Adderly? Non so che dirti a parte una cosa: fatti gli affari tuoi!”.

Demelza sentì gli occhi inumidirsi. Come poteva essere tanto glaciale da ferirla? Come poteva non capire? Cosa voleva sentirsi dire, per costringerlo a fermarsi? “Ross, a me di Adderly non importa nulla e lo sai ma forse vuoi sentirtelo dire! Sono qui per TE! Non voglio che tu combatta con lui”.

Perché?”.

Perché no! Perché è stupido, perché hai un figlio e se ti succedesse qualcosa, lo lasceresti solo. Per i mille buoni motivi che ti ho elencato ieri!”.

Lui sorrise, senza traccia di gioia sul viso ma forse sollevato dal sentirle dire che era lì per lui. “Sai bene, in quanto Lady di Londra, come funzionano i duelli e conosci benissimo pure tu le regole del gioco! Sei o non sei Lady Boscawen? Le dovresti sapere queste cose, sai che non si può tornare indietro... E comunque sta tranquilla, non ho alcuna intenzione di lasciare orfano Valentine”.

Demelza strinse i pugni, nervosa. Certo, sapeva che non ci si poteva tirare indietro da un duello, sapeva che una cosa del genere poteva compromettere per sempre la reputazione di qualcuno eppure giudicava Ross superiore a questo genere di cose e sapeva che lui, se lo avesse voluto, si sarebbe potuto tirare indietro senza alcun rimorso. “Ross, ti prego...”.

Perché sei qui, Demelza? Che ti importa di cosa faccio?”.

Già, bella domanda! Di che gli importava? Eppure era lì, non sapeva perché ma non aveva chiuso occhio e l'istinto l'aveva spinta a correre da lui. Istinto... O le parole di Prudie... O la consapevolezza che non poteva più nascondere a se stessa i suoi sentimenti... “Non rovinarti la vita per Monk... Non ne vale la pena, Ross”.

Perché sei qui?” - chiese lui, di nuovo.

Lei si morse il labbro, mentre le sue braccia tremavano. “Non lo so... Sono qui e basta, non riesco a risponderti adesso. Voglio solo che tu non vada da Monk. Per te stesso, per Valentine, per i bambini. Anche per i gemelli, sì! Dannazione Ross, hai fatto in modo che i miei gemellini si affezionassero a te e ora non puoi sparire così, in modo tanto stupido, dalle loro vite. Pensa a Daisy... Ho sempre avuto tanti problemi con lei ma tu mi hai aiutata a capirla meglio. L'ho sempre considerata la più pestifera e tremenda fra i miei figli e invece tu mi hai aiutato a capire che è sempre stata la più generosa e la più altruista verso chi ama. Ha bisogno d'amore come gli altri, a modo suo, ma se n'è sempre stata in disparte per lasciarmi ai suoi fratelli che avevano più bisogno di me. Non ha mai chiesto nulla per se stessa, si è sempre arrangiata da sola. Tu sei l'unico, il primo, che lei ha avuto. E ha voluto solo per se... Mi chiede sempre quando verrai, soprattutto ora che sa la verità su chi sei... Ti aspetta lo stesso, ti ha scelto e anche se non so il perché, a me va bene”.

Ross le sorrise dolcemente. “Hai quattro bambini fantastici e Daisy è uno splendido, piccolo esemplare indipendente e libero di essere umano. I tuoi gemellini diventeranno delle belle persone da grandi, proprio come Jeremy e Clowance. Non hai bisogno di me per crescerli, sai farlo benissimo e lo hai sempre dimostrato nonostante me e i miei errori”.

Demelza deglutì. “Jeremy e Clowance penserebbero che li stai abbandonando di nuovo, in questo momento...”.

Le sfiorò la vita, la attirò a se. “Jeremy e Clowance non vogliono saperne di me e in fondo hanno ragione. E poi, sai che cosa direbbero di me, se non mi presentassi al duello?”.

Sì. E so anche che non te ne importerebbe niente”.

Lui sorrise, finalmente una luce nei suoi occhi. “Certo, forse non me ne importerebbe. Se ne avessi un buon motivo, non mi interesserebbe niente...”.

Un buon motivo?” - sussurrò lei, viso a viso con lui. “Valentine non lo è?”.

Chi lo sa cosa è meglio per Valentine?”. Ross si chinò su di lei, poggiando la fronte contro la sua. “Dammi tu un buon motivo, Demelza. Dammelo e io non andrò...”.

Lo guardò negli occhi, ora non erano più rabbiosi e freddi ma tristi e smarriti. Come lo erano stati i suoi, a lungo. Conosceva quegli occhi, conosceva ogni angolo dell'anima di Ross e anche se non erano più sposati, sapeva leggere nel suo sguardo come una volta, come quando era la signora Poldark. Si rese conto che lo desiderava, si rese conto che il volerlo e cedergli era l'unico modo per tenerlo lì, al sicuro. Si rese conto che quel desiderio che fino a poco prima avrebbe rifiutato con tutte le sue forze, ora gli appariva come qualcosa di dolce e invitante. E la sua unica speranza. La LORO unica speranza... “Sei in casa da solo, quindi?” - sussurrò, contro le sue labbra, mentre Ross la fissava confuso.

Sì, te l'ho detto”.

E Demelza decise e cedette. Lasciò scivolare il cappotto di Ross a terra, lo baciò e sapeva che non si sarebbe fermata a quel bacio, questa volta. Lo baciò con disperazione, passione, desiderio. Lo baciò per tenerlo stretto a se e non lasciarselo sfuggire ancora dalle mani. Lo baciò sapendo che era irrazionale, stupido e pericoloso e che avrebbe sconvolto la sua vita. Eppure stavolta decise di farlo, di essere folle come era stata un tempo Demelza Poldark. Quella follia che Demelza Armitage aveva forse dimenticato... Quella follia che la faceva sentire viva e che sarebbe servita a fermarlo dal gesto che si apprestava a compiere. “Io potrei essere un motivo sufficiente?”.

Ross rispose con passione a quella domanda, baciandola con furore. Le sue mani bloccarono la sua vita, la spinse contro di se e la tenne stretta e poi, con tenerezza, gli accarezzò i capelli, il collo, i fianchi. Probabilmente non si aspettava un epilogo simile ma appena si sfiorarono, si accese come fuoco, come un incendio che fece dimenticare tutto il resto.

Raggiunsero la camera da letto quasi senza accorgersene, con l'urgenza di togliersi i vestiti e di amarsi come non facevano da sette lunghi anni. “Ross” - disse lei, contro le sue labbra, mentre le mani di lui la spogliavano dei vestiti - “Questo è un buon motivo?” - chiese ancora.

Lui le sorrise. “Questo lo è. E ho deciso che vale più di mille duelli”.

Non ho molto tempo prima che i bambini si sveglino e si accorgano che non ci sono. Ho avvertito che forse non tornerò per colazione, ma...”.

Lui la spinse sul materasso, stendendosi sopra di lei. “Credo che per questa mattina, dovranno fare a meno di te. Ci penserà Prudie a dar loro la colazione. O una delle tue mille tate...”.

Santo cielo, che stava facendo? Demelza Armitage doveva alzarsi da quel letto e andarsene ma Demelza Poldark non sarebbe mai riuscita a farlo, Demelza Poldark non era abbastanza forte per respingere Ross. Aveva voluto cancellare Demelza Poldark dalla faccia della terra ma in quel letto, fra le sue braccia, realizzò di non esserci mai riuscita. Era sempre esistita, nascosta dentro di lei... Decise di essere egoista per una volta e di seguire solo il suo cuore. I suoi bambini sarebbero stati bene, non erano soli e abbandonati a se stessi. E lei voleva fare l'amore con lui non solo per via del duello ma perché sapeva come riusciva a farla sentire Ross e sapeva anche che tutto questo gli mancava. Non lo aveva mai voluto ammettere a se stessa ma il corpo di Ross, solo il suo, era quello che la completava perfettamente e veramente. Chiuse gli occhi, con gesti che conosceva a memoria gli slacciò la camicia mentre lui le toglieva gli ultimi indumenti. Per un attimo si chiese come sarebbe stato e consapevolmente, immaginava che non ci sarebbe stato spazio per la tenerezza dopo tutto quel tempo di nulla. E non la voleva la tenerezza, non in quel momento. Voleva qualcosa di inebriante, ubriacante, forte, veloce. Qualcosa in grado di azzittire tutte le sue paure, tutto il resto, tutto il male fatto e subito e quel passato che doveva prima o poi essere archiviato.

E con quei pensieri, si abbandonò all'amore con lui. Al piacere unito al dolore di due corpi che per troppo erano rimasti senza carezze, alla passione, al desiderio. Per anni era stata solo una mamma e in quel momento, con Ross, tornava ad essere donna.

Al resto ci avrebbe pensato dopo...




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Capitolo 58
*** Capitolo cinquantotto ***


"E' tutta colpa tua...".

A quelle parole, pronunciate da Demelza mentre il campanile rintoccava le undici del mattino, si voltò verso di lei. Era la prima volta che apriva bocca da...? Da quando era arrivata oltre sei ore prima ed erano finiti in quel letto a fare l'amore più volte. Non si erano parlati, non ne avevano sentito il bisogno ed era stata la passione e il disperato bisogno di essere uno dell'altra a guidare ogni loro azione. I loro corpi si erano capiti, fusi e ritrovati come se quei sette anni di lonatanza non fossero mai esistiti, le loro carezze e il modo in cui sapevano darsi piacere non era mai scemato dalle loro menti e la completa unione fra corpo ed anima era stata appunto... completa. Come solo fra loro poteva e sapeva essere. Ed ora, dopo una passione talmente intensa da risultare disarmante e un piacere intenso che avrebbero voluto durasse per sempre, se ne stavano stesi a guardare il soffitto mentre da fuori giungevano i rumori della Londra laboriosa che proseguiva con la sua vita frenetica. "Che vuoi dire?".

"Che se non fosse per te e la tua innata capacità di metterti nei guai, io ora sarei a casa a fare l'uncinetto con mia suocera o nel salone degli arazzi a controllare che i gemelli lucidino, per castigo, tutto il lucidabile".

Ross la osservò guardingo, chiedendosi se fosse arrabbiata oppure no. E alla fine optò per la seconda scelta perché il tono di Demelza non era né rabbioso né astioso ma anzi, vagamente sarcastico e pungente. "Castigo?".

"Loro sono sempre in castigo, per un motivo o per l'altro...".

Ross sorrise, immaginando Daisy con in mano straccio e lucido, che lavorava sotto stretta sorveglianza di Prudie... "Sottovalutate i gemelli... Non vanno puniti, vanno sostenuti nella loro geniale e innata indipendenza".

Demelza lo guardò storto, mentre il lenzuolo le scivolava dal petto, scoprendole un seno. "Resta il fatto che è colpa tua".

"Non eri obbligata a venire quì, io non te l'ho certo chiesto".

"Ma non mi hai mandata via!" - ribatté lei.

Ross scosse la testa, in un certo senso incredibilmente divertito. "Non sono così scemo!".

Forse stanca, forse rendendosi conto che ora non poteva più tornare indietro e che con la risoluzione del problema-Adderly se ne aprivano altri mille di problemi, Demelza sprofondò nel cuscino. "Non dovrei essere quì. Non avrei mai dovuto essere quì e tu lo sai!".

Ross la guardò e poi le accarezzò una guancia. "Chi può dire cosa sia giusto o cosa sia sbagliato? O dove dovremmo essere adesso? Ci sono... C'erano infinite possibilità, come dicevi poco fa! Tu a quest'ora potevi essere a casa a fare l'uncinetto o a schiavizzare quei due angelici gemellini e io potevo essere morto in un parco. Ti sarebbe piaciuto di più?".

Demelza sbuffò, ora un pò più seria di quanto non fosse poco prima. "Certo che no... Ma questa era l'ultima cosa che volevo".

Ross la bloccò. "Non è vero! La volevi, se sei quì LA VOLEVI! Non hai mai fatto nulla per forza, ti conosco bene".

Demelza abbassò lo sguardo, arrossendo impercettibilmente. "Non sempre l'istinto va seguito".

"Era istinto? L'istinto ti ha portata quì?".

Lei sospirò, rannicchiandosi sotto le lenzuola. "Chi lo sa cos'era... I sentimenti, in fondo, non fanno parte dell'istinto? Nascono e maturano senza che noi facciamo nulla...".

Ross sospirò, stiracchiandosi nel letto. "Non ce la faccio a parlar di filosofia di prima mattina, dopo aver fatto l'amore per tre volte nelle ultime ore, dopo anni di nulla".

Demelza si accigliò. "Anni di nulla? Davvero?".

Ross la guardò negli occhi, profondamente. "Non ci credi?".

Lei sospirò, sorridendo impercettibilmente. "Forse... Potrei crederti...".

Calò il silenzio a quelle parole e per un attimo uno strano senso di pace invase entrambi, soprattutto Ross. Fu Demelza, nuovamente, a spezzarlo. "Saresti andato davvero a quel duello, se non fossi arrivata?".

"Sì, ci sarei andato".

"Ed è bastato solo che venissi quì, per farti cambiare idea? Era a questo che puntavi, a quanto successo fra noi?".

A quella domanda, si voltò verso di lei, attirandola a se e abbracciandola. Affondò il viso fra i suoi capelli e rimase così per alcuni istanti, senza che Demelza protestasse, come desideroso di farle capire cosa provasse solo con quel semplice gesto una volta tanto usuale fra loro. "Non puntavo a nulla... Nemmeno immaginavo che saresti venuta. Non mi aspetto nulla di buono dalla vita da molto, ma tu...".

"Io?".

"Tu sei arrivata ed è come se improvvisamente... vedendo te... avessi rivisto il bello di vivere e respirare. Una speranza che tutto non fosse finito nemmeno per una canaglia come me".

Demelza lo guardò teneramente a quelle parole, forse desiderosa di dargli di più ma impossibilitata, quanto meno al momento. "Ross, io non posso darti speranze. Non posso darti più di questo, più di quanto successo stamattina... Non ora! Per me non è semplice come per te, ci sono tante cose che devo... dovrei... sistemare... E ho una famiglia a cui rendere conto, a cui ho mentito su di te da sempre e che ora, quando spiegherò la verità, potrebbe reagire in qualsiasi modo. E avevo un marito che mi avrebbe regalato il mondo e che mi ha dato due figli".

Ross, fingendo di ignorare la parte del discorso su Hugh, spalancò gli occhi. "Dirai la verità su di me?".

"Non lo so, non ora... Ma poi, quando capirò COME... Non posso chiedere ai bambini di tenere questo segreto con il loro zio e con la nonna troppo a lungo, non è giusto. Ho dovuto raccontare la verità anche ai gemelli e santo cielo, han solo quattro anni! Quanto riusciranno a non dire nulla? Devo spiegare, spiegarmi... E togliere ai bambini il peso di questo segreto".

Ross annuì, sapeva che per lei tutto era molto più complicato che per lui e si rendeva conto che aver coinvolto i bimbi era un qualcosa di troppo grande per loro e che andavano protetti. C'erano tante cose in gioco. C'erano i Boscawen, la posizione di Demelza all'interno della famiglia, il rifiuto di Jeremy e Clowance ad avere a che fare con lui e i gemellini, figli di un altro uomo ed eredi di una grande dinastia, che di certo Falmouth non avrebbe affidato a chiunque. E poi c'era il loro passato, ancora tanto duro, ancora tanto presente fra loro e di cui tanto c'era da parlare, discutere e chiarire. Ma se per quest'ultima cosa, nessuno a parte loro poteva metterci becco, per la prima parte del problema, voleva essere accanto a lei. "Parleremo insieme con Falmouth, quando deciderai che è il momento".

"Non so se è una buona idea".

"Perché?".

"Perché è orgoglioso, si sentirebbe messo davanti a un dato di fatto e a una sorta di congiura. Lo conosco, sa essere più testardo ed orgoglioso di te. Preferirei farlo da sola, quando deciderò... decideremo... che è giusto farlo".

Ross annuì, non troppo entusiasta ma oggettivamente costretto a sottostare a quella richiesta. "D'accordo" – disse, fiaccamente.

"Davvero?".

"Mi lasci scelta?".

Demelza scosse la testa. "No, come non me ne hai lasciata tu stanotte".

Ross sospirò, guardando il soffitto mentre le accarezzava i capelli. "E ora?" - chiese, domandando la cosa che più lo terrorizzava. E ora? Ora sarebbe tutto finito e quella notte sarebbe stata solo una parentesi? O era l'inizio di una nuova speranza? Un nuovo inizio per loro?

Demelza prese un profondo respiro. "E ora non lo so... Come ti ho detto quasi un anno fa, viviamo giorno per giorno".

Ross la strinse a se. "Non è questo che voglio sapere! Voglio che tu mi dica ciò che dovremo essere io e te da oggi! Far finta di essere estranei, tornare a parlarci con frasi di circostanza, lontani e insieme solo quando il caso lo decide? Tornerà tutto come prima? Non posso sopportarlo ancora, non dopo questa notte. Tu sei quì, sei rimasta, ci siamo amati e niente potrà essere come era ieri. Non per me".

Lei si morse il labbro, spersa come lui, desiderosa di condividere i suoi stessi desideri e intimorita dalle conseguenze che avrebbero potuto venire. Aveva paura ma Ross sapeva anche che Demelza non era una persona che davanti alle paure scappa ma anzi, resta e combatte per affrontarle. "No, non può essere come prima" – sussurrò, col viso contro il suo petto.

Il cuore di Ross accelerò. "Davvero?".

"Davvero. Non potrei tornare indietro nemmeno se lo volessi... Venire quì, stare con te, ritrovarci a letto e... questo... Lo avrei dovuto evitare! Ma come hai detto tu...". Sollevò il viso a guardarlo, determinata e seria... "Come hai detto tu se sono quì, è perché dentro di me volevo venire".

"Per il duello?" - chiese Ross, quasi intimorito dalla risposta.

"Volevo venire e basta" – rispose lei a chiusura del discorso, lasciando sottointeso che il duello in fondo non era stata la causa ma la spinta finale a un desiderio nascosto che non voleva vedere la luce.

Ross deglutì. "E quindi?".

Demelza prese un profondo respiro. "E quindi non posso dirti che ciò che avevamo tornerà perché è impossibile. Siamo diversi, entrambi, siamo cambiati e cresciuti e abbiamo vite separate e per certi versi inconciliabili. Non posso dirti che tutto questo porterà a qualcosa di buono o che passeggeremo in giro per Londra mano nella mano... Io resto Lady Boscawen e tu sei Ross Poldark, nuova leva del Parlamento. Io non so cosa tu ti aspetti ma io, ORA, posso darti solo ciò che ti ho dato stamattina. Passione, attimi solo per noi strappati alle nostre vite, di nascosto dal mondo. Non si può tornare indietro a ieri e si deve guardare avanti metro per metro, senza commettere l'errore di guardare troppo in la. Poi si vedrà...".

Ross spalancò gli occhi, stupito da quelle parole così inaspettate che mai si sarebbe aspettato da lei e indeciso se essere felice oppure no. Credeva che la faccenda sarebbe finita così oppure che sarebbe stato un nuovo romantico inizio perché la Demelza di un tempo queste due opzioni gli avrebbe dato. Non vie di mezzo, non storie segrete fra amanti che non sanno come andare avanti. Per un attimo, facendo l'amore con lei, si era illuso di aver fra le braccia Demelza Poldark e in un certo senso era così. Ma ora in lei viveva anche Lady Boscawen, più attenta, accorta, che conosceva meglio di lui le regole della vita mondana di Londra e sapeva muovercisi bene. Demelza era attenta, guardinga, non poteva permettersi errori e capiva perché si comportasse così. Aveva una famiglia a cui rendere conto e non sapeva ancora come e quindi, per ora, tutto quello che poteva offrirgli era qualche attimo di amore rubato e clandestino... Non era una proposta orribile e anzi, aveva un lato romantico ed eccitante ma Ross, in cuor suo, aveva il grande timore che tutto si sarebbe dovuto fermare a quello, per sempre. E che andare avanti per costruire qualcosa di più grande, sarebbe stato impossibile. Non che lo meritasse e il fatto che Demelza fosse lì era già un grande regalo per lui, ma la speranza, quella speranza che lo aveva fatto desistere dal duello, aveva ragione di esistere? "Cosa hai in mente?" - chiese, con voce rotta.

Con un gesto gentile, come capendo le sue paure e i suoi pensieri, lei gli accarezzò i capelli. "Il mio cottage, lo ricordi?".

"Sì".

"Ti farò avere le chiavi... La mattina del lunedì il Parlamento apre dopo le undici, giusto? Farò colazione coi bambini, li lascerò alle cure di tate e maestri e ti raggiungerò lì per le nove. Avremo due ore per noi, ogni settimana, nascosti al mondo, tranquilli e senza rischio di turbare nessuno".

Ross spalancò gli occhi. Ok, aveva capito bene, allora... "Davvero è quello che vuoi? Ti accontenteresti di questo?".

"Non mi sto accontentando, Ross. Sto cercando una soluzione giusta per noi due e per tutti... Io non capisco me stessa, non so come uscirne e non so cosa fare con tante persone. Questo, ora, è il più grosso favore che potrei fare a me stessa. E anche a te se vorrai...".

La baciò sulla fronte, con tenerezza. "Certo che lo voglio... Ma tu, sei sicura?".

"Non me lo chiedere Ross, non me lo chiedere..." - sussurrò lei, scuotendo il capo, quasi incredula essa stessa di avergli fatto quella proposta. "Non farmi pensare a cosa stiamo per fare, a chi sono, a cosa rischio... Non voglio pensare a niente per un pò. Il resto verrà da se".

Lui rimase in silenzio, rendendosi conto che per il bene di Demelza, non doveva costringerla a parlare oltre. Era difficile per lei ammettere di aver bisogno di lui, farlo rientrare nella sua vita, pensare al suo ruolo, ai bambini e al ricordo di Hugh. Era un passo complesso per Demelza, quello. Stava dando una possibilità all'uomo che le aveva fatto del male e lasciando andare al mondo dei ricordi un marito che l'aveva adorata come una dea... Doveva essere una grande lotta, per la sua coscienza. E Ross decise, fra se, che mai l'avrebbe fatta pentire di quel passo e che tutto ciò che ne sarebbe venuto, l'avrebbero affrontato insieme per quanto difficile potesse essere. Era ora di dimostrarle che era cambiato e che per lui, lei era la vita. Che non si sarebbe pentita di avergli dato una seconda chances e che era pronto a lottare con lei, come avrebbe voluto lei... "Sì, il resto verrà da se Demelza. Verrà, quando ci sentiremo pronti ad affrontarlo e a parlarne".

Lei sorrise, con la testa appoggiata al cuscino. "In fondo quindi, a conti fatti, rinunciare al duello non sarà stata una cattiva idea per te".

"A conti fatti, no! Certo, Adderly penserà che sono un codardo ma in fondo, che mi importa di cosa pensa di me?".

Demelza sbuffò. "Nulla! E comunque, il duello resterà una faccenda segreta fra voi che di certo non potrà raccontare in giro né denunciare, essendo i duelli illegali. Ma per il resto...".

L'espressione di Demelza divenne improvvisamente cupa e decisa e Ross entrò in allarme. Conosceva quello sguardo, aveva in mente qualcosa e se quel qualcosa riguardava Adderly, lui l'avrebbe fermata. "Demelza, che hai in mente?".

Lei finse indifferenza. "Nulla di nulla...".

"Demelza!".

La donna alzò le spalle. "Niente. Stavo solo pensando a cosa Adderly trova tanto attraente in me".

Ross spalancò gli occhi. "Potrei spiegartelo ma diventerei volgare e non voglio esserlo".

Demelza parve divertita a quelle parole. "Non parlavo di questioni intime! Intendevo che ama il potere rappresentato da mio nome... A quello punta, essendo di famiglia nobile ma meno nobile dei Boscawen. Forse presto gli farò notare questa cosa e che se voglio qualcosa da lui, anche un semplice silenzio, lui deve stare zitto".

"Demelza, stagli lontana!".

Lei sembrò non ascoltarlo nemmeno. "Stasera porterò i bambini ai giardini di Vauxhall per farli giocare! Credo che potrei incrociarlo assieme alle sue amiche...".

"DE-ME-LZA!".

Lei lo fronteggiò. "Non credo che tu possa impedirmelo".

Ross rispose al suo sguardo di sfida, prendendola per la vita e bloccandola col suo corpo sul materasso. La baciò sulle labbra e poi sul collo, con passione, cercando di distrarla dalla sua malsana idea. "Tu mi hai convinto così..." - sussurrò, col fiato corto. "E ha funzionato".

Colta sul vivo, Demelza gli morse la punta di un dito. "La questione è diversa! Io parlo di conversazione, tu volevi un duello con armi vere".

"Indipendentemente dal motivo, ciò che ha bloccato me dal battermi, potrebbe bloccare te dal parlare con quell'essere!".

Lei, rossa in viso, cercò di allontanarlo ma senza eccessiva convinzione. E alla fine si abbandonò ai suoi baci, rispondendo col medesimo ardore di lui. "Non servirà... Ma per questa mattina va bene lo stesso".

"E stasera?" - chiese lui, sfiorandole il seno.

"Stasera tu sarai a casa e io ai giardini. Portare fuori a giocare i miei bimbi non è un delitto..." - disse, ansimando, mentre lui le accarezzava i seni e i fianchi. Poi però qualcosa di famigliare poggiato sul comodino la distrasse momentaneamente. Allungò il braccio, prese un piccolo foglio decorato che vi era riposto sopra e lo lesse. "Ross?".

"Cosa?".

"Hanno invitato anche te e Valentine al party in giardino dai Duchi Thompson, fra due settimane?".

Ross alzò il viso. "Sì, perché? Valentine è talmente eccitato dall'idea di andare a una festa dove ci saranno molti bambini".

Demelza sospirò, improvvisamente preoccupata. "Sono stata invitata pure io, coi bambini. E' un party esclusivo per famiglie e i Thompson hanno un grande parco dove organizzano tanti giochi per i più piccoli mentre noi ceniamo in giardino... Sarà la prima volta che rivedrai i bambini, tutti e quattro, dopo la mia chiacchierata con loro... Cosa succederà?".

Ross impallidì. "Santo cielo... Come reagiranno con me, lo posso immaginare. Ma Valentine?".

Demelza deglutì. "Devi spiegarglielo, come ho fatto io coi miei quattro figli".

"Capirà?" - chiese, in panico, sapendo quanto poco fosse capace in questo genere di cose.

"Sì, se troverai le parole giuste".

Ross le sorrise dolcemente, baciandola sulla guancia. I timori non erano certo passati ma lei era tanto brava a rasserenare il suo animo. "E' difficile, vero? Essere solo noi e tralasciare il resto... Non potremo farcela, non troppo a lungo". Lo ammise, era la verità ed era inutile nasconderselo. E quel semplice party pareva urlarlo loro in faccia!

Lei annuì, poi lo riattirò a se, desiderosa di zittire i suoi pensieri. "Quì, adesso, possiamo non pensarci. Per il resto, si vedrà". E tornò a baciarlo, desiderosa di essere ancora sua prima di essere costretta a rivestirsi per tornare a casa. Era una malattia Ross, che ti entra nel sangue e non ti abbandona più. Pensava di essere guarita ma era bastato un tocco, un bacio e ci era ricascata. E ora solo un cottage disperso nella periferia londinese, avrebbe potuto salvarla...

Lo baciò con più passione mentre Ross scivolava sopra di lei, in lei... E fecero l'amore di nuovo...


...


Era stato un giorno strano per Demelza, quello. Per anni era stata la vedova di Hugh Armitage, Lady Boscawen, madre degli eredi del casato. Mamma, per tanto tempo solo questa figura aveva risucchiato ogni sua energia e aveva scordato di essere anche altro: una donna... O quanto meno, aveva creduto di poter soffocare quel lato di se in nome di qualcosa di superiore. Il bene della famiglia, il ricordo di Hugh, la serenità dei suoi figli...

Eppure era bastato un attimo quella mattina, per far cadere quella sua certezza. Non era importante il motivo che l'aveva spinta da Ross, dentro di se la sua natura aveva a lungo desiderato farlo e se non fosse stato per Monk, qualcos'altro l'avrebbe condotta nel suo letto. Avevano sofferto per anni a lungo, credevano di essersi persi per sempre eppure aveva fatto più volte l'amore con lui con la stessa naturalezza di un tempo, come se quei sette anni non fossero passati, senza reticenze, tentennamenti o altro ma anzi, con passione. Aveva sentito il fuoco sulla sua pelle, in ogni centimetro che Ross aveva baciato, aveva sentito il fuoco dentro di se quando si erano fusi ed ora che era tornata ad essere Lady Boscawen e la sera non sarebbe stato come a Nampara, insieme, si sentiva vuota. Non aveva idea di come sarebbe andata a finire, stava davvero giocando col fuoco con lui, non sapeva nemmeno se voleva dargli un'altra occasione ma... sapeva di volerlo. Dannazione, perché era tanto debole?

Era tornata a casa per il pranzo e a parte Demian che come sempre l'aveva rimproverata per essere andata via senza di lui, gli altri non avevano fatto caso alla sua assenza, abituati al fatto che al mattino spesso tanti impegni la costringevano ad uscire anche presto.

Prudie l'aveva sbirciata di nascosto lanciandole occhiate eloquenti ma lei non le aveva detto nulla, non voleva condividere quanto successo con nessuno per il momento.

Di pomeriggio si era rifugiata in camera sua a pensare e ripensare, con l'odore della pelle di Ross sul suo corpo e la sera, dopo aver cenato presto, aveva preso i bambini per portarli a Vauxhall. Jeremy si era dimostrato felicissimo per quell'uscita e anche gli altri avevano trovato divertente andare in quel parco che a lei non piaceva particolarmente ma che sapeva offrire svago anche ai più piccoli, soprattutto in una serena e tiepida serata primaverile.

Appena arrivati, i bambini erano corsi via a vedere i cigni nel laghetto antistante mentre lei, pensierosa, aveva cercato con lo sguardo Monk.

Sapeva che Ross non gradiva quanto stava per fare ma in fondo lui in questo non c'entrava. Era stata lei a impedire il duello e a lei toccava gestirne le conseguenze. A Ross non interessava cosa pensasse Monk di lui ma Demelza voleva evitare ogni tipo di ripercussione fra loro.

Finalmente lo vide, come sempre attorniato di donne compiacenti e scollate, apparentemente divertito. In realtà non sapeva come avesse preso il mancato arrivo di Ross al duello, se fosse arrabbiato o divertito da un atto che doveva essergli apparso estremamente codardo, ma era il caso di chidere subito la questione.

Gli si avvicinò, gli sorrise affabilmente e Monk la squadrò, sorpreso di trovarsela lì davanti. "Lady Boscawen... Che onore vedervi quì!".

Demelza sostenne il suo sguardo. "Ho portato i bambini a giocare un pò all'aperto".

"Oh, niente vita dissoluta e mondana, quindi?".

"No, non fa per me".

Adderly spostò una sedia, per farla accomodare. Poi fece cenno alle due donne con lui di allontanarsi e di lasciarlo solo. "Cosa vi porta da me, mia Lady? Cosa vi tiene lontana dai vostri adorabili bimbetti?".

Demelza sorrise amabilmente, trovando in fondo stimolante quella conversazione sul filo del rasoio con quell'uomo odioso. "Il piacere di una buona chiacchierata...".

"L'abbiamo fatta ieri, mi pare, no?".

"Ed è stata talmente stimolante".

Lo sguardo di Adderly si indurì, forse irritato da quel giochetto che lei stava mettendo in atto con lui e che aveva ben percepito, dietro ai suoi modi educati. Si guardò attorno e poi, con un gesto veloce le prese il polso, bloccandolo contro il tavolo. "Lady Boscawen, pochi convenevoli! Siete quì per un motivo preciso, per lo stesso motivo che ci ha portati a discutere ieri! Niente giochetti e giri di parole, non fanno per me! Andiamo al sodo... Dimenticate quel codardo, non perdeteci tempo... Un uomo che non si presenta a un duello è un...".

"Una persona saggia! E timorosa della legge" – lo bloccò lei, cercando di liberarsi dalla sua stretta. "E lasciatemi il polso!".

Adderly finse di non sentirla. "Un codardo, un uomo senza spina dorsale! Uno zimbello a confronto di tanti uomini... Chi non sa morire con onore, merita una vita miserabile".

Demelza sostenne il suo sguardo, adirata per come lui parlava e per cosa lui diceva. "Farsi uccidere per una questione d'onore è stupido, non è da uomini! Vivere col coraggio di aver saputo dire di no, è ESSERE uomini".

Monk si morse il labbro. "Siete una donna, non potete capire...".

"Dicono che le donne siano più sagge ed accorte".

"Le donne sono solo donne... A una cosa servite, solo a una! Ricordatevelo, mia Lady".

Demelza, nauseata, con uno strattone si liberò da lui. Si alzò in piedi, desiderosa di andarsene via, lontana da quel dannato verme maschilista, per tornare dai suoi bambini. "Chi sono io, signor Adderly?".

Lui parve divertito dalla domanda. "Lady Boscawen".

"Esatto, Lady Boscawen... Di casato nobile, superiore al vostro e persona a cui voi non dovreste nemmeno rivolgere la parola, senza il mio permesso. E tanto meno potete afferrare il mio polso contro la mia volontà... Se io ad esempio ora chiamassi una guardia, a chi crederebbe? Chi difenderebbe per questa impudenza?".

Monk impallidì. "Non osereste...".

"Oh, si che oserei..." - rispose, in tono di sfida – "Oserei come avete osato voi. Volete mettermi alla prova?".

Monk si alzò, fronteggiandola. "Cosa volete, mia Lady?" - chiese, con una punta di malcelato disprezzo nella voce.

Lei sorrise freddamente, aveva raggiunto il suo scopo. "Il vostro silenzio".

"Su cosa?".

"Su quanto avrebbe dovuto succedere stanotte e non è successo".

Monk fece per replicare ma l'arrivo di Clowance e Demian, corsi a cercare la mamma, lo bloccò. E Demelza proseguì nel suo attacco, accarezzando le testoline bionde dei suoi due bambini. "Come dicevo... Silenzio su ciò che saggiamente non è stato, su quanto avrebbe dovuto essere e discrezione. Facciamo finta che nulla sia mai accaduto, che voi e qualcun altro non abbiate discusso e viviamo tutti in pace, facendoci ognuno gli affari propri".

Monk guardò i bambini, poi lei. "E io cosa ottengo?".

"Silenzio. Il mio... Che vale molto più del vostro" – rispose Demelza, cercando di apparire sicura davanti a quel Lord che una volta, da sguattera, avrebbe temuto.

"Perché ci tenete tanto?" - chiese Monk, mentre i bambini ascoltavano senza capire.

Demelza scosse la testa. "Non sono tenuta a darvi spiegazioni".

Monk annuì, capendo che non poteva fare nulla. Si inchinò leggermente, guardò di sbieco e poi salutò frettolosamente, decidendo che era più saggio raggiungere le sue due donnine allegre.

E Demelza sorrise, l'orgoglio di Ross era salvo.

Clowance la guardò incuriosita. "Mamma, ma di che parlavate? Che stavi facendo con questo signore?".

Demelza prese per mano lei e Demian, avviandosi soddisfatta verso il laghetto. "Cosa stavo facendo? La Lady, suppongo...".

Clowance rise. "Ti riesce bene".

"Lo so...".

Raggiunsero il laghetto dove tanti bambini giocavano con la sabbia, a rincorrersi o stavano a guardare incantati i cigni.

Demelza si sedette sulla riva, con Demian da una parte e Clowance dall'altra, sentendosi stranamente in pace col mondo e con se stessa. Serena...

Jeremy e Daisy giocavano nell'acqua, ridendo e inseguendosi. Avevano tolto le scarpe, le avevano lasciate sull'erba e ridevano, con Jeremy che cercava di scappare e Daisy che, testardamente, lo inseguiva tentando di prenderlo per mano come spesso amava fare con lui.

Ecco, questo era il suo mondo, ciò che lei voleva... Guardare i suoi bambini ridere e giocare insieme, vederli crescere e dargli una solida famiglia alle spalle. E nel mentre, crescere con loro, vivendo a sua volta una vita piena di madre ma anche di donna. Non sapeva come, non sapeva ancora che strada seguire ma in quel momento si rese conto che non rimpiangeva nessuna delle cose che le erano successe in quella giornata.

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Capitolo 59
*** Capitolo cinquantanove ***


La mano di Valentine, stretta nella sua mentre passeggiavano sulla riva del Tamigi, gli dava un senso di pace. In realtà era come se vivesse su una nuvoletta privilegiata da dieci giorni, da quando il mancato duello con Adderly aveva cambiato la sua vita e cancellato le previsioni fosche del suo futuro e da allora era come se ogni cosa riuscisse a dargli piacere. Forse era diventato un dannato ottimista sognatore, pensò ironicamente! Tutto era cambiato da allora e gli rodeva un pò ammettere a se stesso che forse, beffardamente, avrebbe dovuto ringraziare proprio quell'idiota di Monk per tutto questo. Oh, lo avrebbe fatto e lo avrebbe fatto tramazzare a terra se questo non fosse stato un atto infantile e soprattutto, poco rispettoso di Demelza... Ma aveva scelto di essere uomo, quel giorno, e questo proponimento aveva intenzione di portarlo avanti per sempre.

E se quella mattina il dono era stato amare ripetutamente Demelza, il lunedì dopo era stato pura passione, due ore di assoluta armonia, desiderio e amore fisico e spirituale. Aveva atteso quel giorno come un bambino che aspetta di scartare i doni di Natale la mattina del 25 dicembre, con la stessa impazienza e trepidazione. Due ore alla settimana erano poche ma conferivano a quegli incontri donati e concessogli da Demelza, eccitanti, speciali ed emozionanti.

Si erano ritrovati nel cottage al mattino, all'ora prestabilita, e appena avevano chiuso la porta dietro di loro non si erano detti parola ma si erano limitati a baciarsi furiosamente mentre le loro mani lottavano con gli abiti dell'altro e i loro corpi si eccitavano al pensiero di quanto sarebbe accaduto di lì a breve. Era l'attesa, il desiderio, il sogno a rendere tutto più speciale ed eccitante. L'aspettarsi, il volersi, il sognarsi... Erano solo loro, amanti clandestini nascosti al mondo, che si ritagliavano il loro spazio solo per se stessi all'interno di vite lontane, diverse, piene e costellate di responsabilità. Solo loro, l'essere uomo e donna che per tanto si erano preclusi, la passione, il desiderio bruciante, il fare l'amore instancabilmente dal primo all'ultimo minuto che si erano concessi.

Quel lunedì erano bastati pochi minuti per spogliarsi mentre si baciavano furiosamente e disseminavano il pavimento dei loro indumenti, per raggiungere il letto. E da lì in poi, nient'altro era più esistito. Solo loro, unione di corpi e anima, il piacere, i sospiri e il resto del mondo che per due ore perdeva consistenza e andava avanti per i fatti suoi.

Non si erano parlati, se non per poche fugaci parole strappate alla passione. Non era ancora il momento per discorsi seri, anche dolorosi, profondi e difficili. Inconsciamente, senza mettersi nemmeno d'accordo, avevano scelto di ricominciare da lì, dal lato del loro rapporto che mai aveva avuto problemi: la passione e l'attrazione reciproca che da sempre era esistita fra loro. E forse da quel punto, quando il desiderio del corpo avrebbe lasciato spazio anche a quelli della mente, avrebbero potuto iniziare un altro percorso insieme, forse meno piacevole ma necessario e che avrebbe portato i suoi frutti.

Ma per ora, in quel momento, avevano scelto di ritrovarsi così, come novelli amanti quasi estranei ma che conoscevano ogni centimetro del corpo dell'altro. Questo erano... Prima di sentirsi pronti per essere altro.

Anche se in quel momento mentre Ross passeggiava lungo il fiume alla luce del tramonto con Valentine, sognando il lunedì successivo ma anche proiettato al giorno prima di quel nuovo incontro con Demelza, alla domenica dove tutti si sarebbero ritrovati alla festa nel parco dei Duchi Thompson, era arrivato al pettine uno dei nodi più difficili da sciogliere e che non poteva più aspettare di essere affrontato: dire la verità a Valentine.

Ci aveva rimuginato su a lungo, su cosa dire e come dirlo. Demelza sicuramente coi suoi quattro bimbi era stata più brava di lui con le parole per spiegare quella situazione difficile e forse avrebbe potuto chiederle aiuto, ma si rendeva conto che doveva farcela da solo. Valentine era suo figlio, in teoria era colui che lo conosceva meglio di tutti e se voleva essere un buon padre per tutti i suoi bambini, da lui doveva cominciare prima di pensare a Jeremy e Clowance. "Sai perché ti ho portato fuori stasera?".

Valentine, che gli saltellava di fianco tenendo il guinzaglio di Tannen che trotterellava accanto a lui, si imbronciò. "Noooo!".

"No cosa?".

"Mi vuoi portare ancora al parco a correre?".

A Ross venne da ridere. Se le gambe di suo figlio erano migliorate, lo stesso non poteva dirsi della sua pigrizia. "Non sarebbe una cattiva idea ma no, non siamo usciti per questo".

Valentine tirò un sospiro di sollievo. "Ohh... Meno male! E allora perché?".

Ross guardò il cielo terso e rosato che li sovrastava. C'era un clima piacevole e un via vai calmo di persone che andavano verso casa dopo una giornata di lavoro sicuramente dura e faticosa per i più. "Dovevo parlarti di una cosa importante e volevo essere da solo con te".

"Una cosa importante? Quale, papà?".

Ross si fermò, lo prese in braccio e con lui scavalcò una staccionata che divideva la strada dal fiume, invitandolo poi a sedersi nell'erba. "Della festa di domani dai Thompson".

Valentine si imbronciò, di nuovo. "Hai cambiato idea e non posso venire?".

Ross gli diede un buffetto sulla testa. "No, che ti salta in mente? E' un'altra la cosa che ti devo dire, una cosa del passato che mi riguarda, che non sai ma che per domani dovrai conoscere per forza".

Valentine parve eccitato dalla cosa. "Oh, un segreto? Un segreto segretissimo?".

Ross prese un profondo respiro. Ci voleva coraggio e soprattutto capacità di parlare. E di quest'ultima non era molto provvisto... Con le parole non era mai stato molto bravo e soprattutto non aveva mai affrontato un dicorso davvero complesso con Valentine. "Ecco... Devo dirti che tu... tu...". Deglutì, grattandosi la nuca in cerca delle paroline magiche adatte a spiegare a un bambino di appena sette anni una situazione complicatissima che nemmeno lui che era adulto, era stato capace ancora di districare del tutto. Si sentiva vagamente idiota in quel momento. "Tu... Valentine...".

"Sì, papà?".

"Ecco, non sei figlio unico! E' giusto che tu lo sappia" – esclamò, con aria solenne.

Valentine lo guardò come se fosse impazzito, chiedendosi probabilmente se lo stesse prendendo in giro. Poi scoppiò a ridere. "Ma papà, lo so!".

Ross spalancò gli occhi. "Come, lo sai?".

"C'è Jeoffrey Charles! E' mio fratello, ti sei dimenticato?" - chiese il piccolo, col candore dell'infanzia.

E Ross si sentì idiota sul serio. Come aveva fatto a non pensarci? Certo, c'era Jeoffrey Charles anche se di fatto era come se non ci fosse perché i rapporti fra loro erano molto radi e tesi e le poche volte che era tornato a casa in Cornovaglia, aveva preferito alloggiare da zia Agatha a Trenwith finché era stata in vita e poi a casa di Verity. Erano stati radi i contatti fra Valentine e Jeoffrey Charles e sapeva anche che suo figlio soffriva di questa assenza e dell'astio del fratello maggiore verso di lui, astio che non riusciva ovviamente a capire... Mai gli aveva spiegato cosa ci fosse sotto, perché Jeoffrey Charles fosse tanto arrabbiato e perché non tornasse mai per stare con loro a Nampara. Inizialmente perché Valentine era troppo piccolo per capire e successivamente perché non voleva aprire capitoli troppo dolorosi e magari inutili, che avrebbero potuto turbare il suo figlio. Si sentiva ancora in colpa per quanto successo anni prima con Jeoffrey Charles, per le liti fra lui ed Elizabeth alle quali aveva assistito spaventato e in lacrime e per il dolore che aveva provato alla morte di sua madre quando aveva partorito. Aveva addebitato a lui ogni colpa per quanto succeso e Ross in cuor suo sapeva anche che aveva ragione. Da allora MAI i rapporti fra loro si erano ricuciti e ora Jeoffrey Charles era un giovanotto a cui lui pagava gli studi e l'addestramento nell'esercito e a parte questo, non esisteva altro tipo di rapporto. Con Valentine, nelle poche volte che si erano visti, era stato gentile e cordiale come lo si è coi bambini piccoli, ma per il resto, era forse stupito che in quel momento suo figlio avesse pensato a quel fratello lontano e quasi sconosciuto di cui raramente si discuteva. "Non parlavo di Jeoffrey Charles ma in realtà hai ragione, non sei figlio unico e lui è tuo fratello" – sussurrò accarezzandogli i capelli, sentendosi in colpa verso Francis e la promessa mancata di prendersi cura della sua famiglia.

"E allora di chi parlavi?" - chiese Valentine, curioso.

Ecco, ora arrivava la parte difficile. Come spiegare a un bambino, l'inspiegabile? "Ti ricordi di Lady Boscawen?".

Valentine annuì, sorridendo. "Certo! E anche della sua festa di Natale magica!".

Lo sguardo di Ross si addolcì, era magica davvero Demelza e di certo nella sua situazione sarebbe stata meno impacciata di lui. Aveva fatto molto per Valentine da quando si erano incontrati a Londra e forse non l'aveva mai davvero ringraziata abbastanza per questo. Non era tenuta ad essere gentile con suo figlio e di certo non era stato facile averli a casa loro la notte di Natale. "Ecco, io la conoscevo da molto prima di incontrarla a Londra. Prima di sposare tua madre ed avere te, ero sposato con lei". Poche, semplici parole. Non c'era modo di girarci attorno, non c'era strada migliore per dire la verità a Valentine. Diretto, veloce, senza giri di parole inutili per entrambi.

Il piccolo spalancò gli occhi. "Cosa?".

Cercò di spiegargli, per quanto riuscisse. "Lei era mia moglie e io l'amavo moltissimo. Ma ho commesso tanti errori e l'ho persa... E lei è venuta quì con i nostri due bambini per iniziare una nuova vita mentre io, a Nampara, aspettavo che tua madre desse la vita a te. Lady Boscawen, Demelza, ha sofferto molto a causa mia perché...".

Valentine lo bloccò, improvvisamente serio. "Mamma, la MIA mamma, la conosceva, Lady Boscawen?".

Ross si stupì di quella domanda che forse non aveva attinenza con quel discorso o forse sì... Forse i bambini non avevano bisogno di spiegazioni troppo ampie per capire il complicato mondo degli adulti e Valentine aveva intuito ciò che lui non riusciva ad esprimere chiaramente a voce. "Sì, la conosceva. Sapeva che io l'amavo e il guaio era che lei amava me. Quando un uomo è sposato, non può amare ed essere amato da due donne, succede un macello quando ci si trova in una situazione così. Ho fatto molti errori Valentine, con entrambe. Con tua madre di certo e soprattutto, con Lady Boscawen e i nostri bambini. Perché io pur amando Demelza, ammiravo anche tua madre e ho tradito il mio matrimonio, facendo del male a chi non lo meritava... E ho perso tutto ciò che amavo...".

Valentine per un attimo rimase in silenzio, poi prese un sassolino da terra e lo lanciò nel Tamigi. "E io?".

"E tu sei nato da tutta quella complicatissima confusione. Dopo aver annullato il matrimonio con Lady Boscawen e aver sposato tua madre".

"Allora eri triste, quando sono nato?" - chiese Valentine, con una naturalezza disarmante.

Ross si sentì in colpa per quella domanda perché era vero, a suo figlio non aveva donato la gioia e il diritto di un padre emozionato di tenere fra le braccia il suo bambino appena venuto al mondo. "Era un giorno difficile, tua madre era morta e io ero a pezzi. Ma ti ho preso in braccio e ti ho avvolto in una coperta, appena ti ho visto... E ti ho portato con me, a Nampara, come figlio e come mio tesoro più grande".

Valentine abbassò il capo e poi si rannicchiò fra le sue braccia, pensieroso. "E lady Boscawen? Lei è andata via per colpa mia allora?".

"No, per colpa mia. Non tua..." - cercò di tranquillizzarlo.

Valentine lo guardò, timoroso. "Non è arrabbiata con me?".

"No, certo che no... Lei è magica, come hai detto tu. E non potrebbe mai essere arrabbiata con un bambino innocente. Hai visto no, com'era contenta quando ti ha invitato a casa sua per Natale?".

"Sì, lo era. Ma per davvero?".

Ross annuì. "Certo! Non vi abbiamo detto la verità per non preoccuparvi, ma non è mai stata arrabbiata con te. Lo era con me, ma ora va molto meglio".

Valentine sospirò sollevato, poi si ritirò su, sedendosi composto. "Ma prima, di che parlavi? Io ho altri fratelli allora?". Spalancò gli occhi, guardandolo mentre le mani gli tremavano, facendo il ragionamento più logico alla conclusione di quel lungo discorso. "I bambini di Lady Boscawen? Sono miei fratelli? Ho QUATTRO fratelli?".

Santo cielo, non si era mai accorto di quanto fosse intelligente! Di quanto i bambini, TUTTI i bambini, fossero perspicaci... Gliel'aveva insegnato Jeremy quella sera nella casetta sull'albero, glielo aveva ribadito in più occasioni la piccola Daisy e Valentine gliene stava dando la conferma ulteriore. "Jeremy e Clowance, lo sono... Sono figli miei e di Demelza. I gemellini, sono i figli nati dal matrimonio di Lady Boscawen col suo secondo marito, Hugh Armitage. Loro sanno la verità su me e te e ora ne sei a conoscenza pure tu".

Valentine, che pensava turbato da questa scoperta, spalancò la bocca e poi rise. "Ho dei fratelli della mia età? E posso giocare con loro?". Era eccitato, non più spaventato adesso.

Lo sguardo di Ross si incupì, non era tutto così facile per Jeremy e Clowance e suo figlio per ora aveva ben poco di cui gioire. Non era semplice per loro, non era come per Valentine... Erano stati abbandonati e di avere un altro fratello non erano certo entusiasti. "Sì, li vedrai domani alla festa dove andremo".

"Dai Duchi Thompson? Ci saranno pure loro?".

Ross annuì, accarezzandogli nuovamente i capelli. "Sì, loro e Lady Boscawen... Però Valentine ecco, loro a differenza di te, ora che sanno la verità... Ecco, potrebbero non essere molto amichevoli con te come lo sono stati a Natale e allo zoo, quando ancora non sapevano".

"Perché? Se sono miei fratelli, dovrebbero essere miei amici!".

Ross si rese conto che era difficile da capire, che era la parte più complicata di tutte questa, per Valentine. "Vedi, Jeremy e Clowance sono arrabbiati con me perché per rimanere con te e tua madre, ho abbandonato loro... Sono scomparso dalle loro vite e li ho lasciati a lungo da soli e hanno trovato un altro padre nel frattempo, che li ha amati e protetti al mio posto" – ammise, con tanta amarezza nel cuore e una punta di rabbia verso se stesso e le sue mille mancanze come padre.

"Ohhh". Valentine si imbronciò, forse rendendosi conto, quanto meno a spanne, dell'entità di quanto stava sentendo. "E saranno arrabbiati per sempre?".

"Spero di no... Ma magari domani non vorranno giocare con te e tu non dovrai rimanerci male".

"Posso almeno chiederglielo?".

Ross annuì. "Puoi, certo! Puoi chiedere loro di giocare come a Natale ma quello che ti ho appena detto, è un segreto fra noi e basta. Non devi dirlo a nessuno, lo sappiamo solo tu, io, Lady Boscawen, Jeremy, Clowance e i gemellini. Per ora nessuno deve saperlo all'infuori di noi e spero che tu, come loro, saprai mantenere il silenzio. In questo dobbiamo essere una squadra unita".

Valentine parve emozionarsi dall'idea di un segreto comune fra loro, come succede spesso in una famiglia unita. "Solo noi? Noi? Noi? Noi e basta? Neanche a Jane e John Gimlet devo dirlo?".

"Neanche a loro. Saprai farlo?" - chiese Ross.

"Sì, ma poi? Poi un giorno vorranno essere miei fratelli?".

Non si sentì di spezzare quella speranza di Valentine che, si rendeva conto, era anche la sua. "Ci sto lavorando... Con Lady Boscawen! Ma abbiamo bisogno di tempo per sistemare le tante cose brutte successe fra noi una volta".

Valentine ridacchiò. "Speriamo che ce la fai! Lady Boscawen è bella!".

"Lo so, lo so..." - sussurrò, rendendosi conto che era andata meglio del previsto.


...


Demelza chiamò i quattro figli in camera sua, prima che andassero a letto. Il giorno dopo ci sarebbe stato il party all'aperto dai Thompson ed era ora che mettesse le cose in chiaro con i piccoli. Sapeva che Ross avrebbe fatto altrettanto con Valentine ed era anche angosciata dal risultato di quella conversazione che, avendola vissuta coi suoi bambini alcuni mesi prima, sapeva essere difficilissima. Ma non era il momento di pensarci troppo, non ora che non poteva farci nulla.

Guardò i suoi figli, accanto a lei sul letto. Clowance e Daisy avevano già indosso la camicia da notte mentre Jeremy era ancora vestito e probabilmente aveva in mente di uscire a giocare un pò nella casetta sull'albero prima di andare a dormire. Demian invece, già a suo agio sotto le coperte, aspettava impaziente che lei parlasse. "Devo dirvi di domani!".

Jeremy sospirò. "Tranquilla mamma, giuro che impedirò ai gemelli di lanciare il fango a Catherine".

Demelza gli lanciò un'occhiataccia. "Non era ciò di cui volevo parlare ma mi fa piacere sentirtelo dire! Ma meglio ricordarvi che, niente fango, niente arrampicate, niente litigi, niente spintoni, niente parolacce! Capito?" - chiese, guardando in cagnesco tutti e quattro.

"Capito!" - risposero i bimbi, in coro.

"E allora, cosa dovevi dirci?" - chiese Clowance.

Demelza prese un profondo respiro, arrivavano le note dolenti, ora. Da molto non parlavano di Ross e non aveva idea di come avrebbero potuto reagire i bimbi adesso. "Domani ci saranno anche il signor Poldark e Valentine, al party. E vorrei che voi vi comportaste bene".

Daisy si illuminò in viso e poi, eccitata, prese a saltare sul letto. "Davvero? Evviva, evviva! Ci viene davvero?".

"Certo amore" - le rispose, divertita da quella reazione. Era così inusuale che la piccola orsa dimostrasse attaccamento per qualcuno e con Ross era pura magia, quando erano vicini. Cominciava ad essere un pò gelosa...

Meno entusiasti, Jeremy e Clowance si guardarono in viso. "Davvero?" - chiesero, in tono meno gioioso della sorellina.

"Davvero?" - chiese pure Demian, indeciso se parteggiare per la gemella o per i fratelli più grandi.

Garrick, accanto a loro, si stiracchiò mentre Demelza prendeva un profondo respiro. "Davvero! E vorrei ricordaste il nostro patto. E cosa mi avevate promesso".

"Cosa?" - chiese Jeremy, duramente.

Demelza lo guardò fissa e seria negli occhi, non aveva voglia di apparire morbida in quel momento. "Di essere educati e gentili con tutti. Dovete salutare se lo incontrate e vorrei che trattaste Valentine in modo amichevole, come avete fatto a Natale".

"Ci saranno tanti bambini, perché Valentine deve giocare per forza con noi?" - sbottò Jeremy, in modo diretto e provocatorio.

Demelza sostenne il suo sguardo. "Non ho detto che dovrà giocare per forza con voi, ma se ve lo chiederà, vorrei non lo mandaste via. E vorrei che non gli facciate dispetti. Puoi giurarmi che sarai un bravo bambino come sempre?".

Jeremy sbuffò, giocando con la coperta con le mani. "Lo prometto. Saluterò e sarò amichevole. Tu però ti ricordi cosa hai detto a noi?".

"Di che parli?".

Anche Jeremy divenne serio mentre Clowance si stringeva a lui, pronta a sostenerlo in qualunque sua scelta. "Che non eravamo obbligati ad avere rapporti col signor Poldark. Che oltre al saluto, non siamo obbligati a dirgli niente se non vogliamo".

Demelza impallidì. Era accaduto tanto da allora, da quando aveva dato ai suoi figli quella rassicurazione... Era ancora indecisa su quale fosse la cosa migliore da fare e non voleva che quanto stava succedendo fra lei e Ross offuscasse in maniera egoista le scelte fatte per il bene dei bambini, ma... Ma la situazione andava sbloccata prima o poi, per il bene di tutti. "Lo ricordo e non voglio obbligarvi a nulla. Voglio solo che siate educati e buoni... E che ci pensiate un pò... A Ross Poldark, intendo".

"A cosa dovremmo pensare?" - chiese Jeremy.

Demelza sorrise dolcemente, accarezzando le testoline dei due bimbi più grandi. "Al fatto che forse dovreste dargli... DARVI una possibilità. Un padre è un bene prezioso, anche se ha fatto tanti errori. Ora lui è quì e non volete parlargli ma magari un giorno non potrà più esserci e voi vi potreste pentire di non averlo voluto ascoltare nemmeno una volta".

"Non credo..." - esclamò Clowance, a testa bassa.

"Ma ci penserai?" - insistette Demelza.

"Un pò, se vuoi" – rispose la bimba, lasciandole uno strano senso di amaro in bocca.

Demian a quel punto si sollevò dal suo comodo cuscino, guardò Daisy e poi lei e poi i fratelli più grandi e infine disse ciò che nessuno aveva ancora osato affermare a voce alta. "Ma se... Se tu mamma sei la mamma di Jeremy e Clowance e il signor Poldark è il loro papà ma è anche il papà di Valentine... Allora Valentine è nostro fratello?".

Jeremy impallidì, Clowance entrò in panico e Daisy la fissò un pò sconcertata. E Demelza annuì, anche se quel pensiero fin'ora taciuto ma che ben conosceva, sapeva ancora farle male. "Sì, lo è. Di Jeremy e Clowance". Lo disse, rendendosi conto di quanto quella realtà le apparisse strana e allo stesso tempo ormai famigliare, come se si fosse pian piano sedimentata in lei silenziosamente, in quei mesi.

"E noi? Io e Demian?" - chiese Daisy. "Anche io voglio essere di qualcuno!".

Jeremy la guardò storto, alzandosi dal materasso e mettendosi in piedi. "Tu sei di qualcuno! Sei del padre migliore! E sei fortunata a non dover vivere tutto questo!".

"Jeremy...". Demelza avrebbe voluto alzarsi ed abbracciarlo perché sapeva leggere il dolore di Jeremy nascosto dietro alla durezza di quelle parole, ma conosceva suo figlio e sapeva che in quel momento voleva rimanere solo. "Non è così e lo sai bene che di fortuna, i gemellini ne hanno avuta anche meno di te. Appartenere a qualcuno è una grande cosa e vorrei che anche tu, come Daisy, lo capissi".

Jeremy sospirò, le si avvicinò e le diede un bacio frettoloso sulla guancia, desideroso di uscire dalla stanza per rimanere solo. "Ci penserò, mamma. Forse un giorno come Clowance, ci penserò. Adesso non voglio".

Demelza si chiese se fosse sincero o se lo stesse dicendo solo per farla contenta, ma in quel momento non se la sentì di insistere. Jeremy e Clowance erano ancora molto turbati dalla presenza di Ross e quando si parlava di lui si chiudevano a riccio. Avevano promesso di essere educati e gentili e questo per ora bastava, per il resto ci voleva tempo e gliene avrebbe dato quanto necessario. "Va bene...".

"Posso andare?" - chiese Jeremy.

"Certo".

"E io?".

Demelza sorrise anche a Clowance. "Certo! Hai scelto il vestitino per domani?".

La piccola, a quel tema che tanto amava, sorrise un pò più serena. "Ovviamente! Con la nonna!".

"Sarai bellissima...".

Anche Jeremy parve tornare scherzoso a quelle parole. "Bellissima e smorfiosa...".

"Forza, filate via!". Demelza li spinse scherzosamente lontani dal letto per cercare di rasserenare il clima, sollevata dal fatto che nonostante tutto sapessero anche combattere le situazioni difficili che stavano vivendo, con un sorriso. Poi, una volta rimasta sola coi gemelli, osservò incuriosita Daisy. "Tu? Resti con noi? Ci dai l'onore della tua presenza stanotte?".

La piccolina la prese per mano, costringendola ad alzarsi. "Mamma, mi insegni a ballare?".

"Cosa?".

"Sì, a ballare" – insistette Daisy, saltellando.

Demelza le si inginocchiò davanti mentre Demian, sul letto, rideva. "Vuoi ballare con un bimbo che ti piace, domani?".

Daisy la guardò, serissima. "Non è un bimbo, è grande. Mi voglio mettere un vestito bellissimo come quello di Clowance. Giuro che non mi sporco e faccio la brava".

Demelza le strizzò l'occhio, stando al gioco. Era per Ross che voleva essere bella? Voleva ballare con lui? Quel modo di fare di Daisy la intenerì, chi lo avrebbe mai detto che fra i suoi figli, sarebbe stata la prima a prendersi una cotta per qualcuno? O forse era altro...? E se Daisy avesse scelto come desiderio, di appartenere a Ross, come Jeremy e Clowance? Se volesse piacergli come dovevano piacergli i suoi figli? Forse era normale che lo desiderasse, che sognasse qualcuno che la proteggesse e la facesse sentire figlia e basta, come sembrava riuscire a fare Ross. Era strano, ironico e forse avrebbe dovuto spiegarle che a Ross lei piaceva già, che era pazzo di lei e che era la sua vera rivale. Già, quella piccola biondissima bambina era la rivale più temibile che avesse mai avuto. E non ne era gelosa! "Vuoi il vestitino rosa? Quello col nastro dello stesso colore da mettere fra i capelli?".

"Sì".

"O quello bianco, da principessa?".

Daisy ci pensò su, poi rise senza darle una risposta, lasciando la scelta definitiva al giorno successivo. E Demelza le prese le manine, invitandola a mettere i piedini sui suoi. "Coraggio, impariamo a ballare come una vera lady" – esclamò, mentre sul letto Demian continuava a ridere.

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Capitolo 60
*** Capitolo sessanta ***


"Non mi toccare che mi sporchi il vestitino!".

Mentre entravano nel grande parco dei Duchi Thompson, a Demelza venne da ridere nel sentire Daisy dire quelle parole a Demian che cercava di attirare la sua attenzione prendendola per il braccio. Santo cielo, che stava succedendo alla sua stupendamente selvaggia orsetta? Si stava trasformando in una Lady come Clowance? O quel cambiamento che avrebbe fatto la gioia di Falmouth ed Alix sarebbe durato un battito di ciglia?

Era una giornata dal sole limpido, faceva abbastanza caldo per essere ad aprile e il grande parco che circondava la villa dei Thompson era pieno di alberi rigogliosi e in fiore, di vialetti ben curati, panche di legno ridipinte di bianco lo ornavano come se si fosse trattato di un quadro e i tavoli del rinfresco riccamente adornati di ogni prelibatezza, messi all'esterno sotto i portici del palazzo, erano il giusto completamento all'ambiente.

Demelza amava quella famiglia facoltosa ma gentile, dai modi affabili che credeva che per concludere buoni affari in società e in politica, fosse necessario condividere spazi amicali il più spesso possibile, coinvolgendo anche i bambini che consideravano il futuro di Londra e della nazione. Era bello partecipare a una festa elegante ma informale come lo era stata la sua di Natale, in un clima amichevole da poter condividere anche coi suoi figli per una volta.

Jeremy e Demian indossavano un completo alla marinara bianco e azzurro mentre le sue due principesse avevano optato per dei vestitini rosa che le rendevano adorabili coi loro lunghi capelli biondi che ne valorizzavano la figura. Clowance stava sbocciando ed era ogni giorno che passava sempre più bella ed elegante mentre Daisy era... Daisy... Una bambina meravigliosa dai lineamenti di una fatina e dalla vivacità di uno scoiattolino.

Appena arrivati e ricevuti con un caloroso saluto dai proprietari di casa, Demelza prese a passeggiare per il giardino dove vide Caroline e il suo pancione, Dwight con la piccola Sophie che tentava di camminare e sfuggire alla sua presa e Margarita con suo marito, anche lei decisamente incinta e intenta a svuotare il ricco buffet di dolci allestito per l'occasione.

Si fermò a salutarli ma poi, vinta dall'insistenza dei bambini che volevano addentrarsi nel parco per raggiungere i loro amici, li salutò con la promessa di unirsi a loro più tardi per il pranzo. Per i più piccoli erano stati allestiti dei tavolini imbanditi nel piccolo bosco della tenuta e delle tate avrebbero pensato al loro pranzo. Il tempo di portarli laggiù e poi sarebbe tornata nel mondo degli adulti.

"Mamma, quì ci sono piante bellissimissime! Bisogna dargli un nome e salirci sopra per fare amicizia!".

Demelza guardò Demian di sbieco, seria. "Demian, che ti ho detto ieri sera e anche stamattina?".

"Niente palle di fango, tanta educazione e niente salire sugli alberi. Ma neanche su uno piccolino?".

"Neanche su uno piccolino!" - disse, sistemandosi la gonna che, col la leggera arietta che si era alzata, si era stropicciata. Aveva indossato un abito dal color verde acqua elegante ma semplice, con ornamento un nastro blu in vita e nient'altro. Era un pranzo informale, no? E lei voleva essere un pò meno lady e un pò più comoda. Ricordò il ballo d'autunno dove, forse per far ingelosire Ross ed attirare la sua attenzione, si era vestita in modo talmente elegante e seducente da non riuscire quasi a riconoscersi allo specchio e si rese conto che ora non ne sentiva più la necessità. Erano cambiate molte cose da allora e Ross aveva dimostrato in più modi quanto lei gli piacesse e quanto fosse attratto e anche se avevano ancora una montagna di cose irrisolte da affrontare, si sentiva serena e un pò più innamorata anche di se stessa.

Clowance interruppe i suoi pensieri, tirandole la manica. "Mamma, ma perché Daisy fa così?".

Demelza osservò la piccola orsetta che, impettita, camminava davanti a loro sulla ghiaia, attenta a non toccare l'erba e a non macchiarsi il vestitino. Le venne da sorridere alla scena di poche ore prima, quando l'aveva scoperta ad incipriarsi il visino e tentare di truccarsi coi suoi trucchi, pasticciandosi la faccia come un pagliaccio. Aveva dovuto faticare per convincerla a lavarsi la faccia... Era tenera, aveva dei modi di fare così scoordinati ancora, ma sembrava decisa ad essere davvero una piccola Lady per quel giorno. Le si strinse il cuore al pensiero che lo facesse per Ross, all'idea dell'affetto che nutriva per lui forse ricambiato ma che ancora e forse mai, avrebbe potuto davvero sbocciare. Daisy era forte, indipendente e fiera ma con Ross, tramite Ross, aveva capito che in realtà sua figlia era alla ricerca di qualcosa, di qualcuno che potesse sopperire all'assenza di Hugh. E Daisy lo aveva trovato quel qualcuno, da sola e senza bisogno d'aiuto... Era stata forte ed indipendente anche in quello e lei non sapeva se esserne contenta o preoccupata...

"Mamma?" - insistette Clowance.

Demelza sospirò, decidendo di omettere a sua figlia che la causa di quel cambiamento era stata Ross. "Non volevi ammaestrarla? Oggi ha deciso che vuole essere bella come te, missione compiuta!".

"Ohhh". Clowance guardò la sorellina, annuì soddisfatta e poi, con un gesto elegante e studiato, si sistemò una ciocca di capelli. "Bene... Ma durerà per sempre?".

"Ne dubito...".

Jeremy sbuffò. "Speriamo di no! Ci manca solo di avere DUE Clowance in casa! Vado a vivere dallo zio se succede. O a casa di Gustav. O anche il collegio svizzero sarebbe meno terribile...".

Clowance si imbronciò e Demelza rise. Jeremy, quando voleva, sapeva essere sarcastico e pungente e non riusciva a capire da chi avesse preso questo lato del suo carattere...

Improvvisamente però, a Jeremy passò la voglia di ridere e divenne serio e teso come la corda di un violino. E a Demelza non ci volle molto per capire perché. Dall'altro lato del viale, con Valentine per mano, vide sopraggiungere Ross che probabilmente, come lei, aveva accompagnato il figlio a cercare altri bimbi con cui giocare prima di tornare ai tavoli del banchetto.

Demelza deglutì, sapeva che sarebbe successo e aveva preparato i bambini. Ora toccava a loro dimostrare ciò che valevano e cosa volevano essere.

Clowance prese Jeremy per mano, Demelza annuì in un cenno di saluto, Demian alzò la manina e Daisy, dopo aver fatto un enorme sorriso, gli corse incontro. "Ciao Signor Poldark!!!".

Ross li salutò con un cenno del capo, in maniera informale ma non troppo confidenziale, come avevano concordato, mentre Daisy si aggrappava felice alle sue gambe. Demelza finse indifferenza e galante coridalità. Sapeva che i bambini avrebbero captato anche il più piccolo segnale di intesa fra loro e per adesso non voleva assolutamente che percepissero che fra lei e Ross ci fosse in atto qualcosa. Non era ancora il momento, era troppo presto.

Valentine, appena la vide, fece come Daisy e le corse incontro. Aveva in mano tre mazzolini di margherite e appena fu loro davanti, li porse loro. "Per voi, Lady Boscawen! E per Clowance e Daisy!" - disse, mollando poco aggraziatamente i fiori nelle loro mani.

A Demelza venne da sorridere, per il galateo c'era sempre tempo. Ma lo trovò dolcissimo e impacciato e mentre lo guardava, si rese conto che la figura di Elizabeth che tanto male le aveva fatto in passato, non esisteva più. Non il lui, quanto meno. Era solo Valentine, un bambino di sette anni incredibilmente gentile e affamato d'affetto ed attenzioni. "Grazie, sei davvero un galantuomo. Raramente mi regalano fiori e io li amo tantissimo".

Valentine arrossì, dondolandosi con le manine dietro la schiena. "Prego. Ho chiesto io a papà di andare al parco a coglierli, prima di venire quì. Lui mica ci aveva pensato!".

Demelza occhieggiò Ross... Santo cielo, ci avrebbe scommesso che non avrebbe pensato a qualcosa del genere! Era Ross che aveva davanti e per quanto fosse cambiato, la galanteria non era e mai sarebbe stata nelle sue corde. "Immagino..." - disse, con una punta di sarcasmo.

Clowance occhieggiò i fiori fra le sue mani e anche Daisy fece lo stesso. La gemellina ringraziò, tutta divertita per quel regalo che probabilmente riteneva inutile e alla fine anche Clowance fece altrettanto, seguendo quelle che erano le buone maniere che aveva imparato negli anni.

Ross guardò i bambini, soprattutto Jeremy e Clowance. Demelza avvertiva il suo imbarazzo e la voglia, unita alla paura, di avvicinarli. "Come state?" - chiese infine, un pò impacciato.

"Bene" – rispose Jeremy, secco. "Mamma vuole che siamo educati e che vi salutiamo, signor Poldark. Quindi, buona giornata, divertitevi al party e fate buone conversazioni". Il suo tono era formale ed educato ma Demelza scorse molta freddezza unita a imbarazzo, in lui.

Clowance fece altrettanto, salutandolo con un 'buongiorno' ed esibendosi in un perfetto inchino.

Demelza sospirò. Certo, erano stati educati ed impeccabili ma talmente freddi che poteva leggere il dolore scolpito negli occhi scuri di Ross. E si sentiva impotente, non poteva farci niente! E alla fine, decise che era meglio per tutti dare un taglio drastico a quella spiacente e pesante situazione che avrebbe potuto solo degenerare e ferire tutti loro, bambini compresi. "Su, andate a giocare! Credo che più in fondo ci siano i vostri amici. Mi pare di aver scorto Gustav e deve esserci anche Chaterine assieme ad Emily Basset".

Valentine si illuminò in viso. "Emily?".

Ross annuì. "Sì, ci sono anche i Basset oggi".

Valentine parve incerto, guardò Ross e poi i bambini. "Posso giocare con voi?".

Clowance lo guardò storto. "Con noi femmine? Vuoi giocare a fare la mamma?".

"Mh, no... Magari posso giocare coi maschi" – azzardò Valentine, osservando Jeremy in cerca di sostegno.

Jeremy abbassò il capo, scalciando un sassolino. "Non credo!".

Demelza lo fissò severamente, non aveva capito nulla del discorso della sera prima? "JE-RE-MY!".

Ma il bambino ne uscì da signore. "Lo dico per lui... Correremo molto, molto e velocemente. E lui so che fa fatica. Magari si stanca e poi ha male alle gambe. Lo dico per il suo bene".

Demelza sostenne il suo sguardo. Se Jeremy cercava di farla fessa fingendo interesse per le sorti di Valentine, doveva aver chiaro che con lei non attaccava. "Jeremy...".

Ma Valentine fu a sua volta più furbo. "Sono diventato bravo a correre, Jeremy. Velocissimo... Ho un cane e a furia di portarlo al parco tutti i giorni, sono diventato un campione".

"Certo..." - mormorò Jeremy, scettico.

"Posso allora, giocare con voi?".

E Jeremy cedette, vinto anche dalle occhiatacce di sua madre. "Va bene, se vuoi... Ma se non riesci a starci dietro, che fai?".

Valentine sorrise, fregandolo nuovamente. "Vado a giocare con le femmine! A me giocare con Emily Basset piace".

Clowance sbuffò davanti a quell'evenienza, Jeremy fu preso in contropiede e non seppe cosa rispondere e alla fine annuì. "Vieni" – ordinò, senza troppo entusiasmo. Poi, dopo un altro formale saluto a Ross, corse via seguito da Valentine e Clowance, impazienti di scappare da lì.

Rimasero i gemellini. "E voi?" - chiese Demelza.

Daisy, che si era aggrappata alla mano di Ross, lo guardò sognante. "Tu non giochi?".

Ross le sorrise. "No, credo di essere un pò troppo grande".

"Vecchio..." - lo correse Demian. "Vuoi esplorare? Ai signori vecchi piace esplorare... Lo zio esplora i giornali al mattino, dice che deve scoprire gli affari migliori".

Ross accarezzò la sua testolina bionda, mascherando un sorriso nonostante tutto. "Magari più tardi. Vado a vedere cosa c'è nel buffet prima. Noi vecchi, abbiamo spesso fame".

Demelza capì che dietro a quelle parole e a quel desiderio di allontanarsi, c'era una profonda delusione per il comportamento di Jeremy e Clowance e decise di intervenire ancora. "Su, andate ad esplorare il parco voi due. Poi, quando vorrà, il signor Poldark verrà a fare una passeggiata con voi".

"Davvero?" - chiese Daisy.

Ross annuì. "Davvero! Io prometto e mantengo sempre! Lo sai, no? Non direi mai una bugia a una bella principessina come te".

Anche Daisy, come Valentine poco prima, arrossì. "Vero! Ti aspetto allora". E poi, dopo avergli dato un ultimo sguardo, corse via col gemellino, lasciando Demelza e Ross finalmente soli.

Demelza gli toccò il braccio. "Mi dispiace... Ma da loro non potevo ottenere di più".

Ross abbassò lo sguardo, con occhi lucidi che Demelza non gli aveva mai visto. "Una volta quando Jeremy mi guardava, gli si illuminava il viso. E io lo davo per scontato e non capivo quanto importante fosse il suo affetto".

"E' ferito, Ross. E ha bisogno di tempo, è ancora un bambino. Ma per lo meno ti ha salutato e ha dato un'opportunità a Valentine, anche se non era entusiasta di farlo".

Ross la fissò tristemente. "Buone maniere, si sono sforzati di essere educati come è stato insegnato loro. Anche Clowance... Davvero non può fare a meno di farlo?".

"Cosa?".

"L'inchino. Non lo sopporto! Sono suo padre, non un Lord o un...".

Demelza deglutì. Doveva essere terribile per Ross, ma si sentiva impotente. Non poteva aiutarlo e non poteva imporlo ai bambini. Lui non c'era mai stato per loro, in una notte maledetta aveva tradito la famiglia che erano stati e ora ci sarebbe voluto tempo, fatica, dolore e impegno... O forse non si sarebbe risolta mai la frattura fra loro, tanto profonda e ancora così sanguinante e l'unica cosa che potevano fare era aspettare con pazienza e provare e riprovare, finché non avessero trovato un punto di contatto. "Lo so che sei suo padre ma per lei non lo sei mai stato. E' difficile e Clowance si nasconde dietro le formalità e le buone maniere per difendersi da te e dalla verità".

Ross annuì. Non aveva la forza di replicare, era consapevole che lei avesse ragione e sapeva anche che non poteva chiedere nulla di più ai bambini. Alzò la mano ad accarezzarle il viso, in cerca di calore in lei. "Demelza...".

Ma la donna si ritrasse, guardandosi attorno guardinga. "Ross! NO! Non quì, se qualcuno ci vedesse sarebbe una catastrofe".

Lui non si fece scoraggiare, afferrandola per la vita e spingendola dietro un grosso tronco. "Ho bisogno di te. Solo un attimo...".

Rossa in viso e bloccata fra lui e il tronco, Demelza deglutì. Santo cielo, come era difficile far combaciare la ragione che urlava di andarsene, con cuore e corpo che le gridavano di restare e fargli fare tutto ciò che lui voleva. "Ross... Cosa stai... stiamo... facendo?".

Ross scosse la testa. "Non lo so, forse solo cercando di vivere e di ritrovare la NOSTRA strada".

Sorrise a quelle parole, in fondo lui non aveva ragione? Si erano smarriti, lo erano ancora e insieme, attraverso mille oscuri labirinti, stavano cercando di tornare a casa. Ovunque fosse... Si sporse verso di lui e in un attimo sue labbra furono premute su quelle di Ross in un passionale e lungo bacio. Non poteva farne a meno. Non poteva fare altro... Poi si allontanò. "Non siamo nel nostro cottage... Potresti accontentarti di questo, oggi?".

Ross sorrise, accarezzandole la guancia e scostandole una ciocca di capelli ribelli che le era sfuggita sulla fronte. "Credo che potrei accontentarmi, per oggi".

Demelza rise, maliziosamente. Ma non raccolse la provocazione... "Vieni con me? Possiamo pranzare con Dwight e Caroline e a nessuno sembrerebbe strano. Ci sono anche i miei due amici Margarita ed Edward... Li hai conosciuti a Natale e anche se so che sei allergico ai nobili, ti assicuro che sono persone meravigliose".

Ross sospirò, guardando distrattamente il cielo azzurro al di la delle fronde dei grossi alberi del parco. "Lo so... Quella tua amica, Margarita, mi piace. E' così...".

"Carina?".

"Anche... Ma soprattutto... Un pò... goffa... Ma sembra davvero una brava persona. Una ragazza deliziosa".

Demelza si trovò d'accordo con lui. Margarita era un pò goffa in effetti. Ma era deliziosa... Era questo che aveva pensato la prima volta che, anni prima, aveva incontrato quella ragazzina sognatrice e un pò imbranata a casa di Caroline, che si divertiva a vederla cambiare il pannolino a Clowance. "Allora, vieni?".

"Più tardi. Ho una promessa da mantenere" – rispose Ross.

A quelle parole, a Demelza venne da ridere. "I gemelli? Staranno giocando da qualche parte, non devi sentirti in obbligo con loro".

Ma Ross non era d'accordo. "Una promessa è una promessa e loro si fidano di me. Andrò ad esplorare il parco e poi più tardi vi raggiungo. In fondo non credo di avere fame...".

Demelza abbassò il capo. Non aveva fame e sapeva bene chi gli aveva fatto passare l'appetito. "Andrà meglio. Un giorno, non so quando, andrà meglio".

"Lo pensi davvero?".

"Sì Ross. Io e te FAREMO in modo che vada meglio. Loro ne hanno bisongo...".

Era una strana intesa, quella. Una speranza... E Ross voleva credere a quella speranza e alle parole di Demelza. Avrebbe dato la vita per un solo istante coi suoi figli fra le braccia... "Lo faremo... Lo farò".

Demelza gli diede un altro veloce bacio sulla guancia e poi lo lasciò andare. "Ti aspetto al buffet, allora...".

"Certo".

La donna si allontanò piena di pensieri e con la speranza che i gemellini, come spesso avevano saputo fare con lei, riuscissero a strappare a Ross un vero sorriso.


...


Camminò fra gli alberi di quel parco immenso. Santo cielo, quei Duchi avevano un giardino che sembrava più grande dell'intera Londra!

In lontananza sentiva le risate dei bambini che giocavano e si rincorrevano e sopra di lui, sulla sua testa, una miriade di uccelli cantavano uno strano inno a quella rigogliosa primavera.

Improvvisamente, da dietro il tronco di una grossa quercia, sbucò la testolina bionda di Daisy che lo guardava sorniona. E dopo alcuni istanti sbucò anche Demian.

"Eccovi!".

I gemellini gli corsero incontro, travolgendolo col loro entusiasmo. Ross cadde a terra e in un attimo i due bimbi gli salirono sul petto. "Sei arrivato allora!" - gridarono, entusiasti e felici che avesse mantenuto la sua parola.

Ross se li tolse di dosso ridendo, mettendosi a sedere nell'erba con loro due davanti. "Ho deciso che non sono vecchio e che quindi non ho bisogno del buffet come gli anziani. Ma mi piace esplorare".

Daisy gli saltò sulle gambe, sedendosi in braccio a lui, Demian si mise da parte ed entrambi lo guardarono divertiti. E Ross ricambiò lo sguardo, notando che Daisy aveva ancora ben pulito il suo vestitino ma che ai piedi non indossava più le sue scarpette di vernice. "Come mai sei scalza?" - le chiese, ricordandosi di aver già visto una scena simile quasi un anno prima, alla gara di trotto dove per la prima volta aveva avuto il coraggio di mostrarsi faccia a faccia a Demelza.

La bimba dondolò i piedini nudi. "Li ho regalati a una bambina povera!".

Anche questo l'aveva già visto e doveva un pò variare il suo campionario di bugie, Daisy! Ma in fondo la capiva, anche lui da bambino aveva amato correre scalzo nell'erba e sulla spiaggia, in Cornovaglia, e lei non era diversa. Gli venne da ridere ma si impose di essere serio. "Quì non ci sono bambini poveri!" - le fece notare.

"Sì che ci sono, infatti per questo non ho le scarpe!".

"Si nascondono" – aggiunse Demian, in soccorso della sorella. Poi il piccolo gli tirò la manica della camicia. "Signor Poldark?".

"Sì?".

"Devi ancora farmi vedere quanto sei bravo a salire sugli alberi".

Mh, era vero! E quel piccolo soldo di cacio aveva un'ottima memoria! "Ma oggi, a questa festa, non si può".

Demian parve deluso. "Oh... Mamma lo ha proibito pure a te?".

Ross annuì. Demelza, inaspettatamente, gli stava venendo ancora in aiuto. "ESATTO! E noi sappiamo bene che è meglio non disubbidire alla tua mamma!".

"Sì, vero" – rispose il piccolo, serio. "Se disubbidisci anche tu, ti mette con noi a lucidare l'argenteria dello zio e della nonna!".

Ross fece violenza a se stesso per non ridere. Erano fantastici!

Anche Daisy gli tirò la camicia, per attirare la sua attenzione. "Signor Poldark, mamma ci ha detto che sei il papà di Jeremy e Clowance. Forte! Ma allora, sei anche un pò il nostro papà?".

Ross sussultò a quella domanda che non si aspettava ma che in un certo senso gli faceva piacere. Non sapeva perché ma era così! Gli faceva piacere o gli sarebbe piaciuto e adorava il modo speranzoso in cui Daisy lo guardava, aspettando la sua risposta che però non poteva farla contenta, non ancora, non del tutto. "Mh, è difficile da spiegare. Tu e Demian avete un papà, giusto?".

Demian annuì. "Sì, che vive nella nebbia. Si nasconde lì, lo ha detto la mamma. E glielo ha detto lui prima di andare in cielo e dormire sotto un sasso".

Rimase colpito da quelle parole che accendevano in lui una strana curiosità verso la figura di Hugh Armitage che ancora non aveva ben chiara in testa. Forse un giorno avrebbe trovato il coraggio di chiedere di lui a Demelza ma ora, attraverso quei due bimbi, gli sembrava di conoscerlo un pò di più. "Beh, che bella cosa avere un papà magico! Tu lo vedi nella nebbia?".

Demian lo fissò con ovvietà. "Sì, certo! Vedo papà e poi anche gli gnomi e i folletti del nostro giardino. C'abbiamo anche un gigante ma si nasconde bene, lo riesco a trovare solo io".

Ross rimase incantato. Demian aveva una grandissima fantasia, vedeva cose che nessuno vedeva e anche se magari erano frutto unicamente di una mente fervida, ricca e senza limiti, era davvero affascinante quello che diceva e come vedeva il mondo, con quel velo d'incanto che lui non aveva mai avuto. Demelza una volta gli aveva detto che Demian assomigliava molto a Hugh nel carattere e ora che parlava con quel bambino, si rendeva conto che questo non lo disturbava. Il mondo aveva bisogno anche di persone così, che sapessero vederlo con incanto, trovando il bello in ogni cosa che le circondava. In fondo nessuno diceva che per vivere appieno si dovesse fare come faceva lui, che vedeva più spesso scuro che chiaro e che era sempre in guerra con tutti. "Credo Demian, che tu sia davvero un grandissimo e fortunatissimo bambino, se riesci a vedere tutte queste cose magiche" – sussurrò, accarezzandogli la testolina. Poi si rivolse a Daisy. "E tu? Tu lo vedi il tuo papà, nella nebbia?".

Ma lei, a differenza di Demian, scosse il capo. "No, mai! E poi, io non lo voglio un papà che vive nella nebbia... Io ne voglio uno che vedo sempre, che mi prende in braccio e che mi parla. Non riesco a trovare il mio papà in giardino come Demian".

Se Demian era più simile a Hugh e probabilmente a Demelza, Daisy invece era più simile a lui. Disincantata, pratica, combattiva e decisamente attaccata alla realtà. Erano molto somiglianti e Ross si era già accorto di questa affinità fra loro ma più la conosceva, più anche Daisy lo affascinava coi suoi modi vivaci e pratici. "Anche la mia mamma e il mio papà sono morti, sai? E nemmeno io li ho mai visti nella nebbia, come te Daisy. Ma so che ci sono e che mi guardano. E che a volte son contenti di me, a volte meno... Ma mi vogliono bene, ovunque siano".

La piccola sorrise. "Sì, vero! Lo so che papà c'è e mi vuole bene ma ne voglio due anche io di papà. Come Jeremy e Clowance. Signor Poldark, sai che devi fare?".

"Cosa?".

"Fargli capire!" - disse la bimba. "Io il mio papà gliel'ho prestato e loro devono prestarmi te un pochino! Così siamo pari e tutti siamo con due papà che è meglio di uno solo che si nasconde nella nebbia. Giusto?".

Ross non seppe che rispondere ma annuì, non trovando voce o pensiero coerente davanti a quelle parole che nascondevano un desiderio profondo e una grande voglia di appartenenza a qualcuno, di quella picccola ed indipendente bimba. E si sentiva onorato che avesse scelto lui...

La bimba fece un faccino furbo da chi la sa lunga, davanti al suo viso sperso. "Tu gli chiedi scusa e loro non sono più arrabbiati con te. Così diventi ancora il loro papà e anche il nostro. E vieni a mangiare e dormire da noi, ti arrampichi sull'albero con Demian e giochi con me!".

Entusiasta, Demian balzò in piedi. "Sì, mamma sarebbe contenta! Lei è contenta quando ti vede! Mangi da noi e poi ti faccio preparare la camera degli ospiti più bella e fai la nanna a casa nostra che diventa anche tua!".

Ross lo occhieggiò, divertito. Camera degli ospiti? Il piccoletto non aveva ancora ben compreso il genere di legame che unisce una mamma e un papà... E nemmeno che nella camera degli ospiti avrebbe dovuto finirci lui, perché il lettone di mamma non era territorio per bambini ma per papà... Ma al momento non gli andava di spezzare quel momento incantato e di farselo nemico.

Da lontano, la musica della piccola orchestra che suonava al ricevimento, li raggiunse bloccando la loro conversazione. Daisy balzò in piedi e allungò la manina verso di lui. "Balli con me, signor Poldark?".

Ross si tirò su, pulendosi i pantaloni dall'erba, con le mani. "Certo, mia piccola Lady" – rispose, con aria solenne.

La piccola, emozionata, gli prese le mani e per qualche istante, seria seria, cercò di esibirsi in perfetti passi di danza mentre lui faceva del suo meglio per agevolarle la cosa e seguirla. Era impacciata ma pareva decisa a riuscire nel suo intento. "Ti piace ballare?" - chiese, mentre Demian li guardava ridendo.

Daisy sbuffò. "Mhhh... E' un pò noioso". E dopo un'altra manciata di secondi smise di essere seria, prenendo a saltare tenendolo per le mani e ridendo felice.

E anche Ross rise, contagiato dalla sua allegria. Eccola la sua piccola pestifera amica! La preferiva così, vivace e saltellante, selvaggia e incurante delle buone maniere, che perfetta piccola Lady in miniatura. Quel ruolo lo ricopriva egregiamente Clowance ma Daisy era altro! Erano diversissime ma estremamente meravigliose nella loro unicità, entrambe, ai suoi occhi.

La fece giocare e saltare e poi, come promesso a Demian, con loro esplorò il parco, incantato dai ragionamenti sconclusionati del piccolo che ad ogni albero gli raccontava di come voleva chiamarlo, degli elfi che vi vivevano dentro e di come lui li vedesse. Forse un giorno sarebbe diventato un mago, pensò Ross. O comunque qualcosa di molto lontano dai desideri di Lord Falmouth.

I gemellini furono la sua medicina, quel giorno, al dispiacere di vedere Jeremy e Clowance tanto lontani. Per un attimo dimenticò anche il banchetto, catturato dal vociare allegro dei due bimbi. In fondo non tutto andava tanto male, no? In fondo la chiave era guardare al mondo come faceva Demian e vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. Valentine sembrava sparito e sperso nei suoi giochi, segno che si stava divertendo, Demelza lo aveva coraggiosamente baciato nel parco e lui aveva trovato una compagnia meravigliosa che aveva alleviato le sue pene. Perché essere triste se qualcosa di bello era successo?

Dopo la camminata, si risedette coi bimbi sotto una grossa pianta, all'ombra. Daisy gli saltò ancora in braccio, Demian gli si sedette accanto continuando a parlare, parlare e ancora parlare di elfi senza mai stancarsi e lui lo lasciò fare, perdendo il senso del tempo, cullato dal suono vivace della sua vocina e dal calore del corpicino della piccola orsetta che, stranamente, aveva finito con l'addormentarsi fra le sue braccia.

Fu solo quando Demelza lo raggiunse preoccupata, dopo averlo cercato a lungo del parco, che si accorse che era tardi. Se la trovò davanti all'improvviso, tanto che sobbalzò. "Oh... E' ora di pranzo?".

Demelza lo guardò prima con severità ma poi, notati i due bimbi accanto a lui, si addolcì. "Pranzo? Han già servito il dolce e tu hai snobbato tutti gli adulti presenti a questa festa. Politicamente, non è una mossa furba".

Ross sorrise. "Ho trovato una bella compagnia e mi sembrava brutto lasciarla".

Guardando Daisy che dormiva, Demelza si inginocchiò davanti a loro. "Si è addormentata? Sta bene?".

"Benissimo. Sta solo dormendo".

Demelza non sembrava convinta. Toccò la fronte della piccola per vedere se avesse la febbre ma poi, constatato quanto fosse fresca, sospirò. "Non è da lei dormire così. E arrivare al pomeriggio col vestitino pulito. Prudie sarà commossa quando torneremo a casa".

Demian intervenne, saltandole al collo. "Siamo stati bravi oggi. Niente alberi e niente palle di fango".

Ross indicò i piedini nudi di Daisy. "Non so però dove siano finite le sue scarpe".

Demelza sbuffò, ma poi parve rasserenarsi subito. Rise... "Siamo alle solite! Lei è una piccola monella della Cornovaglia per metà, dopo tutto! E ama correre scalza" – sussurrò, prendendo la piccola in braccio e baciandole la testolina. "Grazie per esserti preso cura di loro. Volevano tanto vederti, sai?".

"Davvero?".

"Davvero e qualunque cosa tu gli abbia fatto per farti amare, io ti ringrazio e ancora ti ringrazio! Sono felici quando tu sei nei paraggi".

"Sono io che devo dire grazie a te" – rispose Ross, come se si sentisse in dovere di essere lui a dover ringraziare lei per quei due bimbi. "Come hai fatto?" - chiese, guardandoli.

"A far cosa?" - domandò Demelza.

Ross occhieggiò i piccoli, prendendo Demian per mano. "A mettere al mondo due capolavori simili... QUATTRO capolavori simili! Santo cielo, sono diversi, due di loro mi odiano ma tutti quanti sono... unici!".

Demelza arrossì, colpita da quelle parole dette col cuore ed estrema sincerità. "Li ho amati, da sempre. Solo questo... Non ho fatto che questo".

Ross le cinse le spalle e lei, incurante che qualcuno potesse vederli, lo lasciò fare. "Ti è riuscito bene, fare SOLO questo".

Demelza gli fece uno splendido sorriso. "Lo faremo insieme, un giorno. Ne sono sicura...".

E anche quelle parole gli diedero nuova speranza perché mai prima di quel momento, Demelza si era lasciata andare a pensieri davvero positivi sul loro futuro. In quel momento Jeremy, Clowance e Valentine giocavano lontani, i primi due non ne volevano sapere di lui ma Ross sentì comunque di aver accanto la sua famiglia. Tutta, allargata, strana, inconsueta. Ma sentiva tutti loro, suoi...



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Capitolo 61
*** Capitolo sessantuno ***


Non era lunedì ma mercoledì. E Lady Alexandra si era straordinariamente offerta di portare i gemelli a una festa di compleanno mentre Jeremy e Clowance studiavano col precettore prima del pomeriggio, che avrebbero trascorso nei giardini di Kensington a giocare. E il Parlamento era chiuso per dei lavori interni di ristrutturazione dopo una perdita del soffitto che aveva allagato il salone principale.

Non era lunedì ma entrambi liberi e per tutto il giorno, Demelza e Ross si erano rifugiati nel cottage, senza limiti di tempo in cui concedersi l'uno all'altra.

Avevano fatto l'amore, ancora, anche se qualcosa era cambiato rispetto ai loro primi incontri. La fame di contatto e l'urgenza di possedersi si erano trasformati in qualcosa di più dolce, romantico, gentile... La passione era la stessa ma i loro gesti e le loro carezze erano più tenere e meno disperate e frettolose. C'era anche spazio per momenti di dolcezza e coccole, per riscoprirsi, per essere qualcos'altro che soli amanti...

Demelza dormicchiava a pancia in giù, col lenzuolo che le copriva a malapena le gambe e le natiche. Si era addormentata dopo aver fatto l'amore con lui e ora nel dormiveglia, la brezza che proveniva dalla finestra aperta sul giardino le accarezzava la schiena nuda, facendola sentire in pace col mondo.

Ross le sfiorò il collo, prima di coprire la linea della sua colonna vertebrale con una serie di piccoli baci che la fecero rabbrividire e svegliare del tutto. "Ross!".

Lui fece un sorriso furbo. "Scusa, non volevo svegliarti" – disse, mentre le cingeva la vita con le braccia e prendeva a baciarla sul collo.

Lei rise, cercando di spingerlo via. "Sì che volevi svegliarmi! Dannazione, ci sei anche riuscito!". Si mise di lato, poggiando il viso contro la mano. "Visto che sono sveglia e non ho idea di quanto abbia dormito, mi dici che ore sono?".

"Credo sia passato da poco il mezzogiorno".

Demelza si stiracchiò, a quelle parole, sprofondando nel cuscino. "Ho ancora tempo. Abbiamo tempo...".

"Tutto il giorno!".

Lei sospirò, guardandolo. "No, non tutto. Ho promesso ai bambini di andare a prenderli al parco alle sei. E prima di andare a Kensington, devo andare dal restauratore a recuperare un piccolo quadro di Lord Falmouth finito nelle manine artistiche di Demian... Fra dieci giorni tornerà dal Portogallo e saranno guai se si accorge che mio figlio ha disegnato di nuovo sopra ad una delle sue opere d'arte. Ho sborsato una fortuna per far sistemare il dipinto per tempo e oggi vado a ritirarlo".

Ross si addolcì. "Lo avevo già visto, Demian, che 'abbelliva' i dipinti di Falmouth".

Demelza sospirò. "Non me ne parlare! Non la smetterà mai di combinare guai!".

"Però lui e Daisy sono bambini molto particolari e unici nel loro genere. Alla festa sono stati un'ottima compagnia... Non sembrano nemmeno figli di...".

Demelza si accigliò, guardandolo con una strana curiosità per ciò che aveva quasi detto. Ross aveva usato un tono leggero ma la conversazione, iniziata in modo allegro, poteva incamminarsi su sentieri sconnessi se non stava attenta. "Non sembrano figli di Hugh? Volevi dire questo? In realtà Demian lo sembra eccome, ha il suo stesso amore per l'arte! E Falmouth si danna per questo, come si dannava con Hugh quando alla politica, preferiva le poesie". Con un sospiro decise di tagliar corto, però, anche se la voglia di controbattere la spinse ad andare oltre quanto avrebbe voluto. "Pure Valentine è talmente galante e carino da non sembrare figlio...".

Ross la bloccò. "Mio?".

E a quella domanda, Demelza per un secondo tremò. No, non si stava riferendo a lui ma qualcosa in lei la stava spingendo, senza quasi che se ne accorgesse, a pronunciare il nome di una persona che non voleva ricordare e che per anni l'aveva fatta sentire una nullità e assolutamente inadeguata. Faceva male, ancora. Avrebbe sempre fatto male, anche se lei era morta! Che senso aveva ora, parlarne? "Lascia perdere..." - sussurrò, adombrandosi.

Ross la fissò preoccupato, captando benissimo il cambio del suo tono di voce e comprendendone il motivo. "Elizabeth? Stai parlando di lei?".

"Non sto parlando di niente" – rispose Demelza, secca, comprendosi col lenzuolo.

"Demelza...".

"No Ross, NO! Fa finta che non abbia detto niente".

Ross stavolta però non era d'accordo. Erano tornati a parlare e a scherzare ma fra loro c'era e sempre ci sarebbe stata una lastra sottile a dividerli, creatasi col la frattura del loro matrimonio, il tradimento e lo scioglimento di ogni loro legame. Mai avevano affrontato quell'argomento ed era ora di farlo. Ora erano pronti e anche se avvertiva le reticenze di Demelza e la sua paura, sapeva anche che dovevano affrontare insieme quel passato da cui lei fuggiva, abbracciati e stretti, pronti a urlarsi in faccia il loro dolore e poi il loro amore. Tante cose non erano state dette e ciò che fin'ora era stato taciuto, era la causa vera e propria dell'impossibilità ad iniziare una vita vera anche fuori da quel cottage. "Demelza guardami!".

Lei tremò ancora, spaventata. E forse arresa al fatto di non poter scappare. Perché, PERCHE' aveva nominato Valentine? "Ross, davvero... Lascia perdere".

"No!".

Lo guardò, smarrita e arresa. Se Ross si metteva in testa qualcosa, sapeva essere più testardo di lei. Non avrebbe arretrato, stavolta non poteva sfuggirgli e in cuor suo sapeva anche che lui aveva ragione, ma... Ma come aprire il suo cuore all'inferno, a quell'inferno da cui era scappata sette anni prima, in una vita che non sembrava nemmeno più sua? "Cosa vuoi, Ross? Cosa vuoi che ti dica?".

"Parla! Guardami negli occhi e parlami! Di qualsiasi cosa tu voglia! Di Nampara, del nostro matrimonio, dei bambini, di Elizabeth. Di noi e di ciò che eravamo. Io l'ho fatto, io ti ho parlato di cosa ho provato allora ma tu no, non hai mai voluto! Fallo, FALLO Demelza! Picchiami se vuoi, urla, dimmi come ti sei sentita allora e come ti senti adesso quando ci pensi. Sei quì, una parte di te mi ama in questo cottage. Ma è come se mancasse una tua parte, la parte che ti tiene lontana e ti impedisce di fare altri passi verso di me. Verso noi...".

Demelza deglutì. "Lady Boscawen non ha necessità di dire ciò che è stato quando era un'altra!" - rispose, nascondendosi dietro al suo nuovo nome, in un ultimo tentativo di fuga da lui.

Ross la guardò, penetrò il suo sguardo con i suoi occhi scuri. Le prese i polsi, li strinse e poi lasciò che le sue mani le accarezzassero i palmi. "Parla, Demelza. Lady Boscawen ora non c'entra, non ha nulla da dire. Ma Demelza Poldark sì, giusto?".

Demelza sentì gli occhi pungerle. Anche a Demelza Poldark era successo spesso mentre a Lady Boscawen non capitava quasi mai... Si arrese, avvicinandosi a lui e picchiando i pugni sopra il suo petto. Fu come se una valanga di emozioni a lungo represse la seppellisse... Le lacrime presero a scenderle come una cascata, proprio come era successo quando era nata Clowance e le aveva trattenute a lungo, per poi esplodere in un pianto a dirotto davanti a Prudie e ai bimbi, per fortuna troppo piccoli allora, per accorgersi di quanto stava succedendo. "Solo una cosa, Ross".

"Cosa?".

Picchiò ancora il pugno contro il suo petto. "Perché? Perché quel giorno mi hai spinta a farlo? Me lo sono sempre chiesta, più di ogni altra cosa".

Ross la osservò senza capire. Erano successe cose orribile allora, a cosa si stava riferendo in particolare? "Parli di quella notte?".

Demelza scosse la testa, esasperata, continuando a versare quelle lacrime tanto a lungo trattenute. Erano così salate, mentre le scorrevano sulle guance... Santo cielo, faceva così male! Perché Ross voleva parlarne? E perché, nonostante tutto, sentiva che era giusto così? "Non parlo di quella notte... Sapevo che sarebbe successo, prima o poi".

Ross impallidì. "Era così evidente...? Io non ho mai voluto, consciamente, che succedesse qualcosa del genere".

Lei sorrise, nonostante tutto. "Una parte di te, quella che era ancora legata ad Elizabeth e mai era riuscita ad averla, la ESIGEVA ancora! Non il Ross che mi aveva sposato, il Ross padre di Julia e Jeremy. Ma il Ross che era partito per la guerra con la speranza di sposarsi al suo ritorno, la voleva ancora! Esisteva ancora quel Ross che amava Elizabeth quando ancora io non ero che una bambina".

"Mi dispiace" – sussurrò lui, in un soffio. "Non volevo farti del male... Volevo essere un buon marito anche se sapevo di non poter essere perfetto. Non ho mai pensato che cercando di ritrovare ciò che sembravo esigere, facevo del male a te. Era come se esistessero due Ross, quello che ti aveva sposato e quello che come dici tu, aveva ancora vent'anni e sognava una vita idilliaca accanto a una donna che vedeva come illusoriamente perfetta. Non ho capito, finché non te ne sei andata, che il mondo non aveva posto per due Ross Poldark. E di certo non c'era posto nel nostro matrimonio".

"Me lo hai già detto, le so queste cose..." - rispose lei. "Non parlavo di quella notte..." - ripeté, ancora.

"E di cosa parlavi?".

Le lacrime presero ancora a scorrerle con forza, dopo che per un attimo si erano attenuate. Era un ricordo che sempre l'aveva corrosa di nascosto in quegli anni, era la cosa più difficile che aveva affrontato allora. "Dal notaio, quel giorno... Perché non ti sei fermato?". Picchiò ancora contro il suo petto, singhiozzando. "Perché NON MI HAI FERMATA? Perché avevi fretta che firmassi? Perché non vedevi l'ora di correre da lei? Perché... Perché hai poggiato la mano sulla mia, illudendomi che volessi portarmi via da quell'incubo?". Ecco, quello era il ricordo più bruciante per lei! La freddezza di quello studio, di quella firma, delle parole che si erano rivolti fra loro. La fine di tutto, di ogni sua ragione di vita, del suo domani. Ed era avvenuto con un semplice autografo su un foglio di carta, veloce e senza appello.

Ross la strinse a se, tentando di calmarla.

Demelza lo fece fare e lui pian piano le accarezzò i capelli. "Demelza, non è così. Non avevo fretta, non ho sfiorato la tua mano per spingerti a firmare. Avevo bisogno di sentirti, di toccare la tua pelle... Di coraggio! Ero spaventato quanto te e forse per la prima volta stavo accorgendomi che non c'era via di ritorno!".

Lei sollevò lo sguardo, i suoi occhi rossi e disperati come allora. "Lo avrei fatto, sai?".

"Cosa?".

"Quel giorno... Ti avrei seguito, ovunque. Se tu mi avessi chiesto di andarcene lontano, ovunque, solo noi e i nostri bambini... Io lo avrei fatto, avrei scelto di darti ancora fiducia e sarei scappata con te lontano da quell'incubo. Non mi importava del dove... E lo avremmo superato, saremmo stati capaci insieme, di ripartire da zero. Solo noi e i nostri bambini. Ogni angolo remoto del mondo sarebbe andato bene... Lo avrei fatto, Ross! Ma tu non me l'hai chiesto".

Ross strinse con forza il lenzuolo fra le mani, annientato, schiacciato dal peso di quelle parole e dal dolore dei ricordi. Poi la abbracciò ancora più forte, provando esso stesso il desiderio di piangere, pur sapendo di non averne il diritto. "Anche io lo avrei fatto. Se solo quel giorno avessi avuto il coraggio di essere ancora una volta egoista e fare ciò che volevo per me, io lo avrei fatto. Ma ero così...".

"Cosa?".

Lui scosse la testa, schiacciato dai sensi di colpa. "Avevo distrutto la vita di Elizabeth, Valentine sarebbe nato e l'avrebbe trascinata nell'inferno e io non potevo andarmene e far finta di niente, vivendo felice e contento accanto alla donna che avevo capito di amare. Non potevo più permettermi di essere felice! L'unica possibilità che avevo era fare ammenda, facendo quello che meno avrei desiderato: privarmi di te e prendermi le mie responsabilità... E facendo questo, ti ho condannata e assieme a te, ho condannato i nostri figli. E ora sono quì e non me lo merito. E mi merito l'odio di Clowance e Jeremy. Non c'erano strade accettabili da percorrere, per me. Ma per quanto ti riguarda, anche se all'inizio ero arrabbiato e confuso nel vedere che ti eri ricostruita una vita, sono felice che tu abbia trovato poi una tua strada per tornare a vivere e che assieme a te, l'abbiano fatto anche i nostri bambini. Anche se lontano da me, come meritavo che succedesse... Amati da un altro, come voi meritavate che fosse. Per anni ho pensato a voi, a te e Jeremy. E a Clowance, non riuscendo a darle un volto e un nome perché da vigliacco, non ero venuto a conoscerla. Ma una cosa mi consolava perché voi avevate voi stessi e il vostro amore, che vi donavate l'un l'altro. Sapevo che tu avresti fatto in modo che tutto andasse bene. E io sapevo che per me, tutto era giusto così. Vivere per sempre senza sapere nulla di te e dei miei figli ed essere condannato per sempre a non avere alcun ricordo della nascita di Clowance, dei suoi primi passi, delle sue prime parole, del piacere di passeggiare tenendola per mano... In fondo è giusto così, forse è una consolazione sapere che questa è la mia punizione, che mi accompagnerà per sempre: essermi perso sei anni di vita di mia figlia, dei miei figli. Tu li hai avuti, io non li recupererò mai".

Demelza non disse nulla, lo abbracciò, affondò il viso nel suo petto e poi pianse ancora, a lungo. Fra le sue braccia, spinta dal dolore che aveva dovuto tirar fuori e dalla consapevolezza che lo amava e che non poteva fare a meno di lui, avvertì anche il suo di dolore, profondo e lacerante. Era vero, lui era rimasto solo, lei no... Aveva fatto tanto male allora, dal notaio. E per tanto aveva creduto che Ross quel giorno non vedesse l'ora di correre, finalmente libero, fra le braccia di Elizabeth. Ma ora sapere che non era stato così, rendersi conto che gli credeva e che il dolore che aveva provato lei era stato anche il suo, rendeva quanto meno dolce-amaro quel ricordo. Ross aveva ragione, a quel tempo non aveva molte altre strade da percorrere rispetto a quella presa e in fondo lei lo aveva capito ben prima di lasciare Nampara.

Nampara...

La sua Nampara... "Ross...?".

La baciò dolcemente, sulla nuca. "Dimmi".

"I miei fiori... Esistono ancora, in giardino?".

Ross sorrise. "Certo. E' uno dei compiti più importanti della signora Gimlet occuparsene. E ora che siamo quì, questo compito l'ho lasciato alla morte di Zachy, dietro lauto compenso".

Demelza alzò lo sguardo, esibendo finalmente un timido sorriso. "Davvero?".

"Davvero. Ho sempre sperato che tu tornassi e sapevo che se lo avessi fatto, quella sarebbe stata la prima cosa che saresti andata a vedere".

"Davvero avevi la speranza che sarei tornata?".

Ross si rabbuiò. "No, non l'avevo. Ma fingere che esisteva quella possibilità, mi ha aiutato ad andare avanti in questi anni. Quando te ne sei andata coi bambini, avevo perso tutto ciò che per me significava vivere. E da stupido, l'ho compreso solo dopo aver rovinato tutto".

Demelza lo baciò, sulle labbra. Dolcemente, a lungo, nonostante e oltre il dolore affrontato e quanto si erano detti. Era strano ma averne parlato, aver urlato il suo dolore di quel giorno che mai aveva raccontato a qualcuno, la faceva sentire incredibilmente leggera. "In fondo noi siamo la dimostrazione che nulla è mai davvero perduto, finché si vive. Hai ragione, siamo quì e forse non lo meriti. Ma siamo quì ed io l'ho voluto".

Ross annuì, accarezzandole piano il viso. "Se tornassi indietro, farei tutto diversamente. Ma non si può e in fondo, da quanto successo, quanto meno tu puoi trovare motivi di gioia".

Lei parve confusa da quelle parole. "A che ti riferisci?".

"Ai gemellini. Non esisterebbero se io... se noi...".

Demelza spalancò gli occhi, rendendosi conto che Ross aveva ragione e che non ci aveva mai pensato. Trovò dolce che lui lo avesse detto... "E' vero. Ma può essere per te, motivo di consolazione come per me?".

Ross prese un profondo respiro. "Quanto è successo, ha donato a me Valentine e a te i gemelli. Potresti vivere in un mondo senza di loro?".

Demelza sorrise, mentre le lacrime si cristallizzavano sul suo viso. "Credo di no. No! Non potrei, non ora che sono la loro mamma!".

Ross assunse un'espressione seria, come se quella conversazione non fosse finita e mancasse ancora un tassello da mettere al giusto posto. "Posso chiederti di parlarmi di un'altra cosa. Credo di essere pronto ad affrontarla, ora".

"A cosa ti riferisci?".

"Parlami di Hugh!" - rispose, tutto d'un fiato.

Non lo aveva mai chiesto e Demelza spalancò gli occhi e per un attimo tremò. Parlare del notaio era stato difficile ma questo poteva esserlo ancora di più, per un tipo orgoglioso e dal carattere forte come Ross. Ma era giusto, forse. Se dovevano parlare di quanto successo, Hugh era un tassello fondamentale. "Non mi hai mai chiesto di lui. Non così direttamente, almeno".

"Tu Demelza hai vissuto a lungo coi tuoi fantasmi e Hugh è il mio. E se oggi sei stata tanto coraggiosa da parlarmi di noi e di cosa hai provato quel giorno dal notaio, devo e voglio essere altrettanto forte. Così, forse, il passato sarebbe superato e farebbe meno male. Sono orgoglioso, lo sai, ma...". Ross strinse convulsamente un lembo di lenzuolo nella mano. Era difficile per lui ma era qualcosa che doveva affrontare e la pace di quel momento e di quel giorno rubato alle loro vite, gli sembrava aver dato il coraggio per chiedere. “Ora voglio mettere da parte il mio orgoglio per cercare di capire chi è questo fantasma che si agita nella mia testa. Jeremy, da come ne parla... Quando parlava con me, ovviamente... Questo Hugh sembrava tanto perfetto... Come posso competere?”.

Demelza sospirò, colpita dal fatto che avesse parlato di orgoglio. Orgoglio ferito, sicuramente gelosia, dolore anche. Ma Ross fino a quel momento aveva saputo star rispettosamente al suo posto e se ora voleva delle risposte, era giusto dargliele e raccontare. Forse sarebbe stato difficile, tante volte era sfuggita a quel momento ma non poteva farlo in eterno. Sentì un groppo alla gola ma si impose di non farsene sopraffare e di essere finalmente forte per aprire del tutto quei dolorosi capitoli sul loro passato. “Non devi competere, tu sei tu e lui era lui. Troppo diversi per fare paragoni”. Si fermò un attimo a pensare a come fare, a come cercare le parole adatte per raccontargli di lui. Ross era orgoglioso, lo aveva appena detto, uno spirito caldo e sapeva che, anche se lui non aveva diritto di replica, quella conversazione poteva tradursi in qualcosa di molto sgradevole per entrambi. “Era un poeta, vedeva il bello in ogni cosa. Un sognatore, un idealista... Troppo giovane, troppo ricco, troppo abituato ad ogni comodità per capire le brutture della vita ma questo non lo rendeva indifferente ma solo molto ingenuo e sognatore. Una brava persona. Era dolce, mi amava sopra ogni cosa e amava i bambini. Ha insegnato a Jeremy la bellezza della lettura e Clowance era la sua principessa da viziare. Coi gemelli, quando sono nati, era impacciato, come in molte cose pratiche che si trovava ad affrontare per la prima volta. Loro erano piccoli, lui non aveva mai avuto a che fare coi neonati e spesso era divertente osservarlo mentre cercava di occuparsene... Li amava, li amava tutti i bambini. Era... E'... il mio elfo della nebbia”.

Elfo della nebbia? Ci credi pure tu come Demian? E' una fiaba”.

Hugh mi ha insegnato a credere nelle fiabe e di questo lo ringrazierò sempre. Serve anche questo, nella vita. La nebbia aveva un grande significato per noi... E' grazie ad essa che ci siamo conosciuti. E ad essa ci lega una promessa...” - sussurrò, ricordando quanto le aveva detto prima di morire, di cercarlo nella nebbia ogni volta che ne avesse avuto bisogno.

Ross impallidì e Demelza capì che doveva fargli molto male sentirla parlare di Hugh in quel modo. Ma non poteva evitarglielo, esattamente come lei non era potuta sfuggire a quel dolore dell'annullamento del matrimonio e a quanto ne era conseguito. Faceva tutto parte della medesima storia, cause ed effetti che si rincorrevano da anni. Demelza era stata sua moglie e un mondo nascosto a tutti e conosciuto solo a loro, li univa anche adesso. E ora Ross capiva che un altro mondo, stavolta a lui celato, l'aveva unita a Hugh. E mai lui ne avrebbe fatto parte. “Tu lo amavi?”.

La voce di Ross tremò, nel fare quella domanda. Demelza deglutì e tremò, come quando fu Hugh a porle lo stesso quesito. “E' così difficile da spiegare a parole, Ross. Pure lui mi ha fatto questa domanda, dopo la nascita dei gemelli. E all'epoca non ero riuscita a rispondergli e spiegargli appieno i miei sentimenti. Era tutto così difficile allora, in me e attorno a me. Mi ha toccato il cuore come nessuno mai, ci è riuscito perché avevo bisogno di sentirmi amata. Ha saputo conquistarmi e onestamente non ho ancora capito come abbia fatto perché non ero assolutamente alla ricerca di qualcosa del genere. Semplicemente ci sono caduta e una mattina ho capito che non volevo perderlo, che avevo bisogno di lui e che ormai faceva parte della mia vita di allora. Sapevo che non era come con te ma ho ceduto, lui pian piano mi ha fatta cedere sempre più con dolcezza, pazienza, calore. Mi ha dato un tipo di attenzioni di cui avevo disperatamente bisogno e che non avevo mai ricevuto da nessuno, mi ha sorretta quando non riuscivo a fare altro che piangere, mi ha sedotta quasi senza che io me ne accorgessi... Gli ho voluto bene, avrei dato tutto per salvarlo dalla sua malattia ma...”.

Ma?”.

Ma io non ho mai saputo restituirgli l'amore che lui dava a me. Non interamente, non come meritava... Il mio cuore, nonostante tutto, apparteneva ancora a te. Sono stata felice con Hugh, lui mi ha dato amore, una casa, una famiglia, dei figli e tante risate e serenità ma... Ma non mi sentivo completa e sapevo che quello non doveva essere il mio posto. E' difficile da spiegare ed era difficile da gestire. Lui lo sapeva, lo sapeva e non se ne è mai lamentato! Siamo stati felici, era il mio principe azzurro perfetto per quel tratto della mia vita, ma sapevo anche che alla lunga, finita la magia, finito il sogno, finita la favola... iniziata la vita vera, né io né lui ci saremmo sentiti a nostro agio davanti alla prospettiva di vivere un'intera esistenza che non era nelle nostre corde. E' stato qualcosa di magico con Hugh, magico forse perché limitato nel tempo e destinato ad essere breve, che ha raggiunto il culmine in una sera invernale nei giardini dove ora giocano i miei bambini. Su una panchina, tutti insieme, per la prima volta ho sentito che eravamo una famiglia vera. Che non era quella che avevamo noi a Nampara dove forse mai, io te e i bambini abbiamo trovato tempo solo per noi. E qui in questa città, qualcosa che avrei voluto a Nampara e che a Londra non avevo cercato, era diventata la mia ragione di vita. Ero una sopravvissuta che sentiva di avercela fatta.in quel parco, con le nostre mani tutte una sopra l'altra, la mia, la sua, quelle dei bambini e quelle minuscole dei gemellini che quella sera non volevano dormire, forse per la prima volta ho sentito che dovevo considerare quella, la mia nuova casa”.

Ross abbassò lo sguardo, con gli occhi arrossati. “Fa male sentirti dire queste cose. Ma suppongo di doverne essere felice per te e di doverle accettare come inevitabili, dopo quanto ho fatto”.

Demelza gli strinse la mano. “Avresti preferito una bugia? Che ti dicessi che lo avevo sposato per bisogno o perché costretta dalla gravidanza? Io volevo bene a Hugh, Ross... Come avevo detto a lui, esistono tanti modi di amare e ognuno in fondo sa essere meraviglioso. Ma non eri tu, Hugh non sarebbe mai stato come te ed entrambi lo sapevamo. Ma ciò che avevamo, ci bastava per essere comunque felici”.

Credo di capire cosa intendi”. Ross alzò la mano e le accarezzò la guancia, fronteggiandola. “Sapere di essere sempre stato altro ai tuoi occhi, di essere il tuo rimpianto, in fondo è una consolazione. E nemmeno questo merito. E' difficile comprendere che lo hai amato, che ha saputo farsi amare da te. Era perfetto a paragone con me che sono una persona pessima”.

Demelza sorrise. “Abbastanza pessima, sì” - disse, in tono leggero. “Ma l'ho sempre saputo” - concluse, dolcemente.

Era un poeta, giusto? Ti scriveva poesie?”.

Demelza annuì. “Sì, lo faceva”.

Me le faresti leggere?”.

Qualcuna, non tutte”.

Ross si accigliò. “Perché?”.

Lei arrossì, impercettibilmente. “Perché alcune sono piuttosto intime e private”.

A quelle parole anche Ross arrossì, sentendosi in imbarazzo. Eccolo quel mondo e quella parte di Demelza che sarebbe sempre stata solo di Hugh. E doveva rispettarlo e saperne stare fuori. Come Hugh probabilmente aveva accettato la sua presenza nel cuore di Demelza, nonostante tutto. “Scusa... Anche se, ora, forse dovrei sentirmi geloso”.

Demelza sorrise, ancora. “Potresti scrivermi delle poesie pure tu! E non le farei leggere a nessuno” - disse, prendendo un cuscino e tirandoglielo in faccia. Sentì di non aver più voglia di piangere, ora.

Ross scoppiò a ridere, lanciando il cuscino di lato. “Vuoi davvero che lo faccia?”.

Anche Demelza rise, di gusto. “No, non credo di volerlo”.

Per fortuna... Mi ci vedresti a scrivere poesie?”.

No, assolutamente! Al pensiero, sento che mi terrorizzerebbero i risultati”.

Ross la guardò e improvvisamente tornò serio, spezzando quel momento leggero. Si avvicinò, poggiò la fronte contro la sua e la sua espressione tornò ad essere ferita. “E ora che si fa? Vederti qui è molto più di quello che avrei sperato ma... non mi basta. Non più”.

Lei si morse il labbro, provava le medesime cose. Essere amanti clandestini aveva dato loro un brivido e una leggerezza che non gli apparteneva da tanto, ma poi...? Poi erano soli e ad ognuno mancava una parte dell'altro. “Non posso darti di più e lo sai. Ci sono i bambini, Jeremy non ne vuole sapere di te e io devo mettere loro al primo posto”.

C'è una via d'uscita? Si può tornare indietro?”.

Demelza lo baciò. “Non si può tornare indietro ma forse si può andare avanti. Dobbiamo solo capire come...”. Non era un no, era una speranza quella che gli stava dando, un riaprirgli la porta come aveva già fatto altre volte in quei mesi. Ma non sapeva come fare e sperava che, insieme, avrebbero trovato una soluzione. Si rese conto che una soluzione la voleva, anche lei. La voleva sempre più...

Lo faremo, come mi hai promesso al rinfresco dei Thompson.” - disse lui, baciandola sulle labbra. “Insieme, come sempre”.

Come sempre...” - mormorò lei, contro le sue labbra. “Ross?”.

Sì?”.

Abbiamo sempre saputo guardare avanti, noi due, quando c'erano problemi. Non abbiamo mai avuto paura di farlo, insieme...”.

Ross la baciò sulle labbra. “E' vero...”.

Ecco, ora poteva spiegare appieno la differenza fra lui e Hugh, ora aveva le parole giuste sulla punta della lingua. Parole che non sminuivano nessuno dei due, rispettandone le variegate peculiarità caratteriali. “Ed è questo che differisce, fra te e Hugh. Proprio quello che hai appena detto! Lui mi sarebbe stato accanto mentre combattevo IO le mie battaglie, tu le hai sempre combattute con me invece...”.

Ross spalancò gli occhi, rendendosi conto che in quella frase c'era tutto. Di lei, di lui, di loro e della loro storia... La baciò, con passione, catturato dalla sua presenza e dalle sue labbra. “Demelza...”.

Lei sorrise. “Non voglio più parlare, ora. Ho ancora tempo prima di tornare a casa e desidero solo... fare l'amore con te. Poi andrò dal restauratore, al parco a riprendere i bambini, sarò lady Armitage e penserò... a come uscire da tutto questo, con te”.

Ross la baciò, impedendole di parlare. Si stese su di lei e mentre la brezza dell'aria quasi estiva accarezzava i loro corpi entrando dalla finestra aperta, fecero di nuovo l'amore.



Il sole stava calando quando arrivò ai giardini di Kensington, pieni di tate affaccendate e bambini schiamazzanti. Si sentiva stranamente leggera e allo stesso tempo stanca, quel pomeriggio. Ma mentre camminava, si rendeva conto anche che quelli erano forse i primi veri passi verso una nuova vita. Ora sapeva cosa voleva, lo sapeva davvero! Anche se trovare il modo per ottenerlo, sarebbe stato complicato.

Col quadretto restaurato in mano che era appena andata a recuperare dal restauratore, si avvicinò al laghetto dove stavano giocando Clowance e Jeremy, intenti a lanciare dei chicchi di grano ai cigni.

Mamma!”.

I bimbi le corsero incontro appena la videro e lei sorrise loro, accogliendoli fra le sue braccia. “Allora, come è andato il pomeriggio?”.

Jeremy sospirò, come preoccupato da qualcosa. “E' successa una cosa strana! Catherine ha detto che ora vuol fidanzarsi con Lukas Smith. Non mi ama più, ha detto”.

Demelza alzò un sopracciglio, divertita. “Dovresti esserne contento, no?”.

Jeremy però, stranamente, sembrava contrariato. “Sì! Però non si fa così! Prima dice che ama me e poi solo perché io non la guardo, cambia idea! E' poco serio, no?”.

Lei rise, abbracciandolo e scompigliandogli i capelli. Era decisamente orgoglioso e contorto, come Ross, nei sentimenti. “Sarà stata stanca di sentirsi rifiutata! E tu non puoi pretendere che la gente ti segua in eterno come un cagnolino. E che questo ti sia da lezione”.

Clowance sfiorò il quadretto che teneva fra le mani. “E' il quadro pasticciato da Demian?”.

Sì, tornato come nuovo! Non dite nulla allo zio, quando torna”.

Clowance e Jeremy risero guardandosi negli occhi, divertiti da tutti quei segreti fra loro. “Posso vederlo?” - chiese la bambina.

Demelza annuì, levando il piccolo involucro di stoffa che lo proteggeva. Era un quadretto piccolo, rappresentante delle scogliere sul mare. “Eccolo”.

Il mare?!” - chiese Jeremy.

Gli sorrise. “Sì. Questo posto somiglia molto a dove siamo nati noi, sapete?”.

Clowance osservò il quadro, assorta. “E' così grande, il mare? Più grande di questo laghetto nel parco?”.

Infinitamente più grande, non se ne vede la fine”.

Jeremy e Clowance si guardarono negli occhi e per la prima volta, Demelza scorse in loro un po' di curiosità per le loro origini. Li prese per mano e li invitò a sedersi con lei, nell'erba. Era il momento, forse, di parlare con loro, anche se di certo doveva prendere l'argomento molto alla larga per non farli chiudere in se stessi. Doveva approfittare di quel momento nel modo giusto, pensò. “Se fossimo rimasti a vivere lì, vi avrei portati al mare ogni giorno. Avremmo camminato nell'acqua e sareste stati felici di correre sulla sabbia, avreste visto i mille colori dei pesci che popolano il mare e avreste imparato a riconoscerne le diverse specie”.

Ti piaceva il mare, mamma?” - chiese Jeremy.

Certo. E amavo anche pescare! Ero brava, sai? Tanto brava che quando stavi per nascere tu, ero in barca con la canna da pesca in mano”.

Jeremy e Clowance spalancarono gli occhi. “Tu mamma, pescavi? Col pancione?”.

Demelza annuì, ricordando quel giorno in cui aveva disubbidito a Ross, si era messa nei guai e lui l'aveva salvata, portandola a casa per partorire mentre per strada litigavano furiosamente. “Certo che lo facevo! E sapevo andare in barca più che bene! Ma quel giorno ho esagerato e ho messo in pericolo me e te, mio povero piccolo Jeremy... Tuo padre, ci ha salvati... E' corso in acqua, in mezzo alle onde molto alte, mi ha tirata a forza fuori dalla barca e mi ha portata a casa, dove Dwight ti ha fatto nascere”.

Al sentire parlare di Ross, Jeremy abbassò lo sguardo ma non si ritrasse come le volte precedenti. La curiosità parve vincerlo. “Lui è venuto a salvarci? Davvero?”.

Lo accarezzò sul viso. Quel giorno aveva ricordato fatti orribili ma ora i suoi figli le stavano facendo rivivere anche momenti bellissimi e purtroppo lontani, che a lungo aveva rimosso da mente e cuore. “Davvero... Eravamo bagnati come pulcini, entrambi. E lui era arrabbiato per il fatto che fossi uscita... Mi disse che avremmo continuato a litigare dopo la tua nascita”.

Jeremy si accigliò. “E lo avete fatto?”.

No. Quando sei nato siamo stati ore ad osservarti, innamorati di te. E ci siamo dimenticati che dovevamo litigare”.

A quel racconto Clowance si alzò, prendendo un sassolino che poi lanciò nel laghetto. “Allora solo io non ho avuto il papà vicino, quando son nata. Era pure inverno e nemmeno è venuto a vedere se avevo freddo e doveva accendere il camino”.

Jeremy abbassò lo sguardo, forse sentendosi in colpa per non poterla aiutare e consolare. Era confuso in quel momento, si vedeva che il racconto della sua nascita lo aveva colpito e comprendeva anche lui che per Clowance doveva essere difficile sapere di non avere avuto il medesimo trattamento. E Demelza sentì di dover agire, ricordandosi proprio delle parole di Ross di poche ore prima. Si avvicinò alla sua bimba, la abbracciò e poi la baciò sulla fronte. “Ti avrebbe amata, si sarebbe innamorato di te all'istante. Non ha potuto esserci ma sai che vuol dire, per lui?”.

Cosa?”

Che ti ha lasciata con chi sapeva che ti avrebbe voluto bene. E che per sempre si è privato di ogni tuo ricordo di quando eri piccola. Soffrirà per tutta la sua vita per questo, te lo assicuro. Io lo conosco e so che non aver potuto amarti e starti vicino sarà una condanna eterna per lui, che lo farà star male sempre”.

Clowance non rispose subito, ma lasciò che la abbracciasse. “Era meglio se decideva di soffrire meno e veniva. No?” - sussurrò.

Certo. Ma non si può tornare indietro e lui è un uomo con tanti pregi ma che sbaglia, come tutti. Ma lo ha capito, sai? E questa è una gran cosa, molti non sanno capire i propri errori. Sa che ha sbagliato molto e che noi abbiamo pagato per lui... Ma so che ti avrebbe regalato il mondo se avesse potuto, Clowance. Lo so per certo”.

La piccola non rispose più. Si rannicchiò fra le sue braccia, coprì con la stoffa il quadro che raffigurava il mare e poi chiese di tornare a casa.

E Demelza in cuor suo sperò di aver scalfito, almeno in parte, qualche crepa nel suo animo.




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Capitolo 62
*** Capitolo sessantadue ***


Ho una sorpresa!”.

A capo tavola Lord Falmouth si alzò in piedi, pieno di orgoglio per qualcosa che aveva fatto o deciso, catturando l’attenzione di Demelza, Alexandra e dei bambini. Era tornato da poche ore dal suo lungo viaggio in Portogallo, giusto in tempo per fare un bagno ristoratore e prepararsi per il grande pranzo che era stato fatto preparare in suo onore, con tutte le sue portate preferite.

Demelza aveva vissuto il ritorno dell’uomo in maniera contrastante. Aveva voglia di riaverlo a casa e di lasciare a lui, esperto e carismatico, la guida della famiglia, ma allo stesso tempo in quei mesi tante cose erano cambiate ed era ora, dopo anni, di dire la verità. Sarebbe stato un terremoto all’interno del clan dei Boscawen ma non poteva più rimandare. Aveva promesso a Ross di compiere quel passo, lo aveva implorato di lasciarglielo fare da sola e ora non poteva più tirarsi indietro, anche e soprattutto per il bene dei bambini che non potevano continuare a vivere tenendo nascosti quei tanti segreti che dovevano appartenere solo al mondo degli adulti. Demelza non aveva idea di cosa questo avrebbe generato, aveva paura, timore delle conseguenze e di perdere la famiglia unita che erano diventati e che tanto amava, ma non aveva scelta. Non voleva avere scelta, era giusto che il segreto che l’aveva unita solo a Hugh e che per tanto era stato celato, venisse allo scoperto.

Guardò l’uomo, incuriosita e decisa a parlargli dopo pranzo, assieme ad Alexandra, una volta rimasti soli. “Sorpresa?”.

Falmouth con un gesto gentile della mano, la invitò a mettersi composta, facendo poi altrettanto sulla sua sedia. “Certo, una sorpresa! Per tutti e che renderà te felice e i bambini eccitati!”.

Cosa, zio?” – domandò Jeremy, improvvisamente molto interessato.

L’uomo sorrise, tronfio di strano orgoglio. “Come sapete, il mio viaggio in Portogallo si è prolungato di quasi un mese, rispetto alle aspettative. Ma ho concluso ottimi affari e ho acquistato dei meravigliosi purosangue che arricchiranno le nostre stalle e la nostra competitività nelle corse. Ma soprattutto, ho conosciuto altri lord inglesi in Portogallo per affari, che hanno attività economiche in espansione all’estero, soprattutto nella nostra amata Scozia” – disse, osservando i gemellini che lo guardavano un po’ annoiati.

Demelza osservò i bimbi con preoccupazione, poi Falmouth. Che aveva in mente? “Quindi?”.

Falmouth annuì, sempre più orgoglioso. “Quindi, la Scozia è un nostro protettorato ancora pressoché selvaggio, da colonizzare e ammodernare”.

Dobbiamo conquistarla!” – esclamò Demian, divertito.

Falmouth lo indicò col dito, pieno di orgoglio. “Esatto, bravo bambino!”.

Demelza e Alexandra si guardarono in viso, incapaci di capire dove volesse arrivare. “In fondo, la Scozia è già nostra da decenni” – azzardò Demelza, con cautela, timorosa di dire qualche sciocchezza.

Falmouth sbuffò. “Nostra sulla carta, ma ancora di fatto ancora impregnata di quel selvaggio e vecchio modo di vivere dei suoi abitanti in gonnella. Va inglesizzata e civilizzata, ovviamente. E’ nostro dovere farlo, un dovere materiale e morale!”.

Demelza lo guardò, scettica. Che a Falmouth importasse dei doveri morali verso gli scozzesi, ci credeva poco… Se si muoveva in tal senso ed era tanto interessato alla Scozia, qualche interesse più ‘materiale’ ci doveva essere. “Quale sarebbe la sorpresa? E cosa c’entra coi nostri doveri morali verso gli scozzesi?” – tagliò corto.

Lui annuì come aspettandosi già quella domanda, sistemandosi poi il tovagliolo sulle gambe. “Terre selvagge, territori ancora vergini dove espandere i nostri commerci e i nostri affari, nuove esperienze e nuove proprietà. In Portogallo ho conosciuto Lord Wetmore, appassionato di stalloni purosangue come me. Vive qui a Londra, Demelza ne hai sentito parlare?”.

No”.

No, ovviamente. E’ anziano, non fa parte di Westminster, ma ha molta influenza a corte. Beh, ecco…”.

Daisy sbuffò, Demian appoggiò la testa al tavolo, Clowance prese a giocare con una ciocca di capelli e Jeremy sbadigliò, riuscendo a mettere la mano davanti alla bocca all’ultimo, prima di guadagnarsi un’occhiataccia dallo zio e Demelza capì che stavano morendo di noia. E non gli dava torto! “La Scozia e Lord Wetmore che c’entrano con noi?”.

Nulla… per ora! Ma Wetmore fu lungimirante qualche decennio fa, stabilendo una sua seconda dimora in Scozia. Ha avviato fiorenti traffici commerciali con le terre a nord e credo sarebbe opportuno che anche i Boscawen facciano altrettanto. Per il bene della Scozia ovviamente, del commercio, del re e della nostra nazione, l’Inghilterra…”.

E nostro…” – concluse Daisy sibillina, mettendosi davanti alla bocca le manine per non ridere.

Anche a Demelza venne da ridere. Santo cielo, orsetta conosceva benissimo suo zio e questa storia della conquista della Scozia, che sentiva da quando era nata, doveva averla portata ad ovvie conclusioni. “Per il bene della Scozia e di riflesso, dei Boscawen” – sussurrò sotto voce, decisamente divertita ma anche preoccupata. Che voleva fare, Falmouth?

L’uomo occhieggiò la nipotina, accigliato e decisamente incerto se arrabbiarsi per la sua faccia tosta o complimentarsi per la sua franchezza. Tossicchiò. “Il bene comune è un fine da perseguire sempre! E qui arriva la sorpresa per voi!”.

Anche Alexandra intervenne. “Quale?”.

Falmouth sorrise, si alzò, prese un profondo respiro e poi fece il suo trionfale annuncio. “Sarebbe bello, oltre che redditizio, passare un periodo in Scozia per una vacanza. Voi ne approfitterete per svagarvi in un luogo che amate e che per questa famiglia è stato fondamentale” – disse, guardando profondamente Demelza che arrossì e i gemelli – “E io… Io ne approfitterò per acquistare un castello come seconda dimora per noi, dove mandare emissari che portino avanti i miei affari in quelle terre e dove andare a svagarci un po’ quando ne abbiamo voglia! Hanno castelli fantastici da quelle parti, possederne uno aumenterà il prestigio del nostro casato e ci renderà potenti in quelle terre”.

Clowance e Jeremy si guardarono, eccitati. “Un castello?! Come i re? In Scozia, come quando ci eravamo andati con papà ed eravamo piccoli?”.

Falmouth annuì. “Esattamente! Sostituiremo gli antichi principi di Scozia e daremo lustro a quella terra selvaggia come novelli principi d’Inghilterra!”.

Clowance divenne rossa dall’emozione. “Io… come una principessa…” – sussurrò.

Alexandra sbiancò, per nulla contagiata dall’entusiasmo del fratello. “Dovrei venire pure io? Dai selvaggi in gonnella?”.

Demelza scosse la testa, guardandola. Per lei, troppo Lady e troppo legata a Londra, quella era una prova di coraggio impossibile da superare e la Scozia, nella sua immaginazione, doveva apparire come un luogo pieno di insidie e primitivo, anche se in realtà lei aveva scoperto tramite Hugh che non era così. Prati infiniti, boschi magici, atmosfere incantate e ovunque, il rimando a secoli addietro dove castelli, cavalieri e dame la facevano da padroni in un mondo duro ma pieno di fascino. La Scozia era stata la prima vacanza della sua vita, la scoperta di paesaggi nuovi rispetto all’Inghilterra, il romanticismo condiviso con Hugh, la gioia dei suoi bambini che giocavano a fare i cavalieri e la principessa coi costumini a tema fatti fare per loro proprio da Hugh e soprattutto la nascita di due nuove vite che avevano preso la forma dei suoi vivacissimi gemellini… Era una terra magica ed era stata per lei l’inizio di una nuova vita e della costruzione di una nuova famiglia con Hugh. Strinse i pugni sotto il tavolo, incerta se essere emozionata per il fatto di tornare a far visita a luoghi che in lei avevano lasciato bellissimi ricordi e nostalgia o preoccupata per quello che avrebbe potuto pensare Ross. “Quando dovremmo partire?”.

Falmouth sorrise amabilmente. “Ad inizio giugno, fra un mese e mezzo. Alix, sarai dei nostri? Sarà un viaggio che occuperà forse metà estate, ti piacerà!”.

La dama lo guardò, con occhi spalancati. “In Scozia? Santo cielo, per quanto abbia amato Hugh ed ami i bambini, non ho mai capito l’amore che ha sempre risvegliato quella terra inospitale agli appartenenti di questa famiglia! No, non credo di riuscirci… Tornerei malata da un posto del genere!”.

Clowance si imbronciò. “Dai, nonna!” – la implorò.

La donna le accarezzò i capelli. “Tesoro, io sono da tè in giardino, da uncinetto, da ricevimenti pomeridiani. Non potrei sopravvivere a luoghi tanto selvaggi, a castelli tetri e a uomini primitivi che girano in gonna”.

Alix parve in difficoltà davanti a quella che era la sua nipote prediletta, a cui mai diceva di no e che coinvolgeva in molte delle sue attività quotidiane. Ma Demelza sapeva che la Scozia per lei sarebbe stata troppo e che nonostante l'amore per Clowance, ne sarebbe uscita distrutta. Era una donna esile, logorata da una vita piena di lutti difficili e non più giovane e se non se la sentiva di partire, tutti dovevano rispettare questo suo desiderio. E quindi si alzò, andando vicino a sua figlia. "Clowance, sai che non è bello insistere, no? Se la nonna non se la sente e vuole aspettarci quì tranquilla, noi dobbiamo rispettare il suo desiderio".

"Ma...".

Demelza assunse un'espressione più ferma, con lei e coi fratelli. "Basta storie, al viaggio manca tempo e ancora non so se riusciremo a partire tutti. E...".

E a quel punto Falmouth la bloccò. "Certo che partiremo tutti! Che storie sono? I bambini adoreranno tornare a vedere quelle terre inesplorate" – disse, come se avesse in programma di portarli in capo al mondo – "E i gemelli vedranno i luoghi che hanno dato loro la vita e che un giorno conquisteranno".

Demelza sbuffò al sentire nuovamente quella storia. "I gemelli non conquisteranno la Scozia, è già nostra".

Falmouth raccolse il suo sguardo di sfida. "Metteranno il marchio sul nostro dominio laggiù!".

"Non ora, però...". Si sentì frustrata e capì che davvero, anche per quello, doveva parlare al più presto a Falmouth di Ross. "Ne parleremo più tardi da soli. C'è qualcosa che dovrei dire e preferirei farlo quanto prima. Qualcosa di importante".

Il tono grave che aveva usato fece preoccupare Falmouth. "Tutto bene?".

"Sì, ma devo parlarvi dopo pranzo, quando i bimbi usciranno a giocare e potremo farlo tranquillamente".

Jeremy sussultò e poi la guardò preoccupato, forse capendo di cosa volesse parlare. Anche Clowance tremò lievemente mentre i gemelli, incuranti di tutto, giocavano col cibo che avevano nel piatto, decisi a non mangiare nulla come al solito.

"Di cosa devi parlarci, cara?" - chiese Alix.

E Demelza si sentì in colpa. Sarebbe stato un dolore per lei sapere di Ross e la verità sul suo passato e in cuor suo sperò che capisse e che continuasse ad amarla come prima senza avvertire il peso del tradimento alla memoria di Hugh. Osservò i bimbi, davvero provati da quella conversazione, e decise che era ora che per loro il pranzo finisse dato che non sembravano nemmeno avere più appetito. "Su, direi che potete alzarvi" – disse. E a quelle parole i quattro, come se non avessero aspettato altro, balzarono in piedi pronti a fuggire in giardino a giocare. "Ma prima...".

"Prima?" - chiese Demian.

Demelza osservò i doni che Falmouth aveva portato ai bambini dal Portogallo: una nuova sella per Jeremy, una bellissima bambola di porcellana per Clowance, dei soldatini di piombo dipinti a mano per Demian e un orsacchiotto bianco per Daisy. Tutti giochi e regali di ottima fattura, sicuramente costosissimi e per i quali i bambini non avevano ancora ringraziato come si conveniva. "Dovete dire grazie allo zio per i regali!".

Falmouth annuì, trovandosi d'accordo. "Vi piacciono?".

Jeremy sorrise, guardando con avidità ma anche un pizzico di preoccupazione per l'imminente colloquio fra grandi, quella sella. "Sì, tanto! Grazie zio!".

"Grazie zio!" - esclamò Clowance, correndo a baciarlo sulla guancia. "Mi piace tanto, soprattutto il vestito rosso e i nastri fra i capelli. E' la bambola più bella di tutte quelle che ho!".

Falmouth sorrise e si voltò verso i gemelli, rimasti in silenzio. "E voi? Non gradite i vostri doni?".

Demelza occhieggiò i piccoli e Daisy sospirò, scendendo dalla sedia ed avvicinandosi all'orsetto che era stato lasciato sul sofà. "Sì. Ma io lo volevo vero, una volta, l'orso. Ora non lo voglio più vero che se no vi mangia tutti e questo è finto e non è la stessa cosa!".

"DAISY!" - la richiamò Demelza.

La piccola sbuffò, rimettendo il giocattolo sul sofà. "Grazie zio..." - disse fiaccamente. "Ma la prossima volta mi porti uno scoiattolo? Adesso mi piacciono quelli!".

Falmouth divenne paonazzo per la faccia tosta della piccola, sicuramente sincera ma decisamente poco diplomatica. Poi si rivolse a Demian, decidendo di soprassedere. "E tu? Adori i soldatini? Servono per insegnarti come conquistare la Scozia! Sono tutti dipinti a mano, li ho fatti fare apposta per te".

Demian, ancor meno entusiasta di Daisy, sospirò. "No! Io volevo i pastelli!".

Demelza lo raggiunse e lo afferrò prima che lo facesse Falmouth. Santo cielo, era una buona cosa che non mentisse ma non era bello quel comportamento. Molti bambini avrebbero pagato per avere quei giochi che lui non sapeva apprezzare perché forse ne aveva fin troppi e arrivati a lui senza fatica e questo le dava la spiacevole sensazione che i suoi figli fossero viziati. E la cosa non le piaceva affatto! Capiva che i soldatini non erano nell'indole di Demian e che Falmouth insisteva per renderlo un qualcosa che lui non sarebbe mai stato, ma il punto era un altro. Si doveva esser sempre grati a chi aveva un pensiero gentile per noi e Demian e Daisy dovevano impararlo anche se l'arte della diplomazia era un concetto ancora difficile per bambini di soli quattro anni. "Chiedi scusa allo zio e ringrazialo!".

Il piccolo la guardò senza capire dove avesse sbagliato. "Scusa zio... Ma a me piacciono i pastelli, la prossima volta mi compri quelli? A me non piacciono i soldatini!".

Demelza guardò Falmouth sempre più rosso in viso e capì che era il caso di spedire al più presto fuori i bambini. I pastelli erano stati banditi da Falmouth nel palazzo e Demian li usava di nascosto quando lui non c'era, prendendoli dal cassetto dove lei li aveva custoditi per farglieli usare di tanto in tanto, anche se poi finiva per combinare guai. Falmouth, se avesse potuto, li avrebbe fatti bandire dall'intera Inghilterra! "Demian, ringrazia!".

"Grazie..." - disse infine il piccolo, mogiamente.

Jeremy e Clowance, in silenzio, osservarono la scena vagamente preoccupati. Daisy invece, spazientita, decise di dire la sua. "Giuda zio! Se gli piacciono i pastelli, deve avere i pastelli! Mica ci ha mai giocato Demian, coi soldatini! Lui vuole andare sulla luna, mica fare la guerra! E poi mamma dice che i pastelli piacevano anche al papà! Sono uguali" – concluse trionfalmente, facendo singhiozzare Alix e rendendo Falmouth ancora più nervoso.

"Appunto..." - disse l'uomo infatti, che mai aveva apprezzato lo scarso impegno politico e il grande amore per l'arte di Hugh.

Demelza si avvicinò a Jeremy, chiedendogli di portare fuori i fratelli. Era decisamente ora di far prendere loro un pò d'aria o Falmouth li avrebbe spediti a suon di sculacciate a conquistare ogni angolo conquistabile del mondo.

Il ragazzino ubbidì e poi, dopo aver preso i gemellini per mano e essersi accodato a Clowance, uscì fuori con la sua piccola truppa al seguito.

Falmouth, torvo in viso, li guardò uscire. "La Svizzera! La ricordi, Demelza?".

Lei alzò gli occhi al cielo. "Hanno solo quattro anni... Impareranno ad essere riconoscenti".

"Svizzera! TUTORE-SVIZZERO!" - ripeté l'uomo.

"No!".

Falmouth sospirò, mettendosi a sedere con viso stanco. "Demelza, a quei bambini serve una guida. Qualcuno di carismatico in cui riconoscersi e da cui imparare. Una figura forte! Te ne rendi conto anche tu, vero? Ne abbiamo già parlato mesi fa mi pare e man mano che i bambini crescono, ne sono sempre più convinto... Sei una madre meravigliosa ma il ruolo che loro richiedono non spetta né a te né a me".

Alix, captando dove volesse andare a parare, fece per protestare. Ma Falmouth, con un'occhiataccia, la zittì. "E' per il suo bene e quello dei bambini, Alexandra! Hugh è morto da anni e anche lui vorrebbe così".

La fissò in viso, aspettandosi l'ennesimo rifiuto da parte sua. Ma Demelza stavolta lo stupì. "La cosa che dovevo dirvi riguarda proprio questo, in un certo senso..." - esclamò, ricordando quando lui le aveva proposto uno sviluppo romantico della sua relazione con Ross e lei aveva rifiutato con sdegno e turbamento. Quante cose erano cambiate, da allora...

Lo sguardo di Falmouth si fece improvvisamente vigile. "Davvero? Ci sono novità? HAI novità?".

"Demelza!?" - esclamò Alexandra, stupita.

E lei annuì, mettendosi a sedere. Le mani le tremavano, il cuore le pulsava in gola e lo stomaco pareva contorcersi dall'ansia. Ma era giusto, era il momento e forse avrebbe dovuto farlo molto prima. "Ecco, c'è qualcosa che non vi ho detto e che non avrei dovuto tenervi nascosto... Ma non pensavo ci fosse bisogno di parlarne, pensavo di poter tenere lontano ciò che è poi successo".

Alix le posò gentilmente la mano sul braccio, percependo il suo turbamento. "Demelza, che è successo?".

"Di che si tratta?" - chiese Falmouth.

Prese un profondo respiro, cercò in lei tutto il coraggio che aveva a disposizione e poi parlò. "Si tratta di Ross Poldark".

"Poldark!". Falmouth assunse un'espressione maliziosa e le sue labbra si schiusero in un sorriso furbo. "Oh... Quel fuoco che avevo notato a Natale, vuoi dirmi che non me l'ero immaginato?".

"E' un pò più complicato di così, temo".

Falmouth si alzò dalla sedia e le si avvicinò, poggiandole le mani sulle spalle. "Demelza, dimmi che è quello che penso e spero! Dimmelo perché quel dannato uomo cornish più testardo di un caprone, mi ha colpito da subito e lo vorrei vedere non solo fra le mie fila in Parlamento ma anche come presenza costante quì! Dimmelo! Fammi felice e non dirmi che è complicato! Voi donne rendete complicate le cose facili, cose che per noi uomini sono così semplici e lineari da risutare quasi banali!".

Demelza abbassò lo sguardo, torturando con le mani la stoffa della sua gonna. Santo cielo, come avrebbe desiderato ragionare come un uomo... "Vi farebbe felice sapere che io Ross Poldark lo conoscevo da molto prima di voi? Vi farebbe felice se vi dicessi che a lungo ho tenuto questo segreto? Vi farebbe felice sapere che quando venni a Londra, era da lui che cercavo di scappare, per rifarmi una vita? Vi farebbe felice sapere che Ross Poldark fu il più grande fantasma con cui abbia combattuto Hugh?".

Falmouth impallidì, tanto che Demelza temette di vederlo svenire. Non aveva detto nulla dopo tutto, nulla di eclatante. Ma quelle semplici parole, per una vecchia volpe come lui, erano più che eloquenti. "Demelza... Cosa stai cercando di dirci?" - chiese, cercando con lo sguardo la complicità di Alexandra.

Gli occhi le divennero lucidi, era la Demelza Poldark di Nampara che ora loro avrebbero conosciuto, la Demelza Poldark che pensava di non voler più essere. "Fu mio marito, prima che decidesse di annullare il nostro matrimonio. Ed è il padre di Jeremy e Clowance...".

A quella rivelazione, Falmouth dovette cercare convulsamente una sedia per sedercisi sopra prima di svenire. "Cosa?".

"Fu mio marito, l'uomo con cui volevo passare la vita! Ci sposammo e non andò bene, il matrimonio potè essere annullato per un cavillo legale e lui si risposò col suo primo amore, lasciando sola me coi bambini. E tante cose ci hanno tenuti lontani, entrambi ne abbiamo sofferto e questa storia sembra terribile e lo è ma non è come sembra in superficie. E lui è tornato e volevo solo tenerlo lontano ma poi non ci sono riuscita... Ross fa parte di me e io di lui e le cose che ci hanno divisi, sono state quelle che ci hanno fatto capire chi siamo, cosa vogliamo e qual'è il nostro posto. E' ciò che ci ha fatto crescere, assieme ai nostri errori che per anni hanno lacerato entrambi... I bambini sanno la sua identità e lo detestano, i gemelli invece lo adorano e io ho dovuto gestire tutto questo in silenzio per mesi, da sola. Solo Hugh sapeva la verità, la accettò con sofferenza e mi amò lo stesso, proteggendomi col silenzio da ciò che la gente avrebbe detto e pensato di me. E io sono quì e sono questa che vedete, la donna che conoscete, con la mia storia che invece ai vostri occhi è tutta nuova... Lady Boscawen non è altro che una povera ragazza figlia di minatori della Cornovaglia, scappata di casa a quattordici anni, accolta da un giovane nobile che l'ha fatta crescere e le ha insegnato a vivere. E l'ho amato quel giovane, anche se tante cose allora ci tenevano divisi... E ho amato Hugh, arrivato a salvarmi dal baratro, che mi ha ridato una nuova vita e una famiglia. E non avrei voluto mentire, non avrei voluto...". Parlò come un fiume in piena mentre le lacrime le rigavano il viso, singhiozzando come una bimba.

Falmouth la guardò, grave. "Questo che mi dici, va contro ogni mia più fervida immaginazione... Sta calma ragazza, sta calma e raccontami! E dopo deciderò se farlo sbattere in prigione o apprezzarlo come sembri apprezzarlo nuovamente tu".

"Ma... Io... E i bambini... Ora che ne sarà di ciò che siamo stati?".

Alix, scossa, la accarezzò sulla nuca. "Tesoro, tu sei tu e i bambini sono i bambini che abbiamo sempre amato! Niente cambierà tutto questo... Ross Poldark è un altro discorso, ora ci dirai tutto e poi giudicheremo!".

"Non avrei dovuto mentire...".

Falmouth sospirò, fissandola severamente. "Ma lo hai fatto come del resto lo ha fatto il signor Poldark e piangere sul latte versato non serve a nulla! Sai come la penso, no? Raccontami tutto... Non per giudicare te che conosco ma per decidere cosa lui sia davvero! Racconta a noi cosa hai raccontato a Hugh, rendici partecipi di questo mistero e poi insieme, come una famiglia, decideremo!".

E Demelza raccontò... Della Cornovaglia e delle sue origini, di suo padre e sua madre e dei suoi tanti fratelli, della ragazza selvaggia che era e di come Ross fosse entrato nella sua vita. Del ruolo di Elizabeth, del disastro che era successo al suo matrimonio e di come se ne fosse andata dalla Cornovaglia dopo l'annullamento delle nozze con Ross. E poi di Londra, dei loro primi incontri, di come si fossero scoperti diversi, dei sentimenti di Jeremy e Clowance e dell'attaccamento a Ross dei gemelli. E infine, pur non citando Adderly e senza entrare troppo nei particolari, di come lei e Ross fossero tornati una coppia, anche se nascosta e clandestina...

Raccontò. E per la prima volta da quando si erano incontrati anni prima, fu come se Falmouth e Alix la conoscessero davvero. E con lei, Ross.

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Capitolo 63
*** Capitolo sessantatre ***


Era talmente stanca dopo quel lungo racconto condito da infinite lacrime, che le sembrava di non esserlo mai stata tanto nemmeno dopo aver partorito i suoi figli. Era sfinita e preoccupata perché pur sapendo quando i Boscawen amassero e apprezzassero lei e i bambini, non aveva idea di quali conseguenze sarebbero occorse ora che sapevano la sua provenienza, perché era venuta a Londra e quali legami passati l'avessero unita a Ross. Lui era il padre di Clowance e Jeremy e questo non avrebbe potuto essere ignorato. Era stato suo marito e l'aveva abbandonata dopo un periodo infernale coi bambini e nemmeno questo avrebbe potuto essere ignorato! I gemellini adoravano Ross e di nuovo, questo non poteva essere ignorato. E lei era tornata a frequentarlo, il primo uomo dopo la morte di Hugh e ovviamente, nemmeno questo poteva essere ignorato.

Cosa pensavano ora Falmouth e Alix delle tante bugie degli ultimi mesi, dei silenzi e di quella nuova Demelza che forse conoscevano davvero in toto per la prima volta? Hugh non aveva voluto che loro indagassero sul suo passato e che la conoscessero per ciò che era senza pregiudizi, ma perché aveva tanto insistito su questo punto? Per proteggerla da eventuali ritorsioni della famiglia contro una donna sola e ripudiata che portava in grembo i suoi eredi o perché davvero, semplicemente, la vedessero come la vedeva lui?

Era il momento della verità adesso ed era sola. Non aveva voluto che Ross fosse presente a quell'incontro e Hugh non era con lei per proteggerla da anni, ormai... Alzo lo sguardo, asciugandosi il viso col fazzoletto. Fuori i bambini giocavano in giardino coi cani, facendo un baccano assurdo che arrivava alle loro orecchie dalle finestre aperte, si sentiva Prudie che strillava contro di loro e tata-Mary che li richiamava, senza ovviamente avere risposta. "E ora sapete tutto" – sussurrò, rendendosi contro che la pace e la serenità vissute in quella casa, forse erano perse per sempre.

Falmouth la fissò con quei suoi occhietti grigi ed indagatori che spesso sapevano mettere a nudo l'anima dei suoi interlocutori. La sua espressione era indecifrabile come quella di una statua di pietra ed era impossibile per Demelza capire se fosse sorpreso, arrabbiato o solo shoccato. "Dimmi una cosa, mia cara".

"Cosa?".

Dopo aver lanciato uno sguardo ad una pallida Alix, Falmouth prese un profondo respiro. "Da bambina ti capitava di vedere persone... Persone come quelle di cui fai parte ora?".

A quella domanda, Demelza abbozzò un sorriso. Era evidente che Falmouth non avesse idea di cosa fosse Illugan e di quali persone lo frequentassero. "Dove sono nata e cresciuta io, non venivano certo Lords o principi. Solo minatori e al massimo, proprietari di miniera. Per vedere qualche signorotto locale, bisognava allontanarsi e arrivare a Truro o alle grandi fiere di paese come quella di Redruth, dove ho conosciuto Ross".

Falmouth annuì. "E quando andavi ad esempio a Redruth e vedevi un nobile, che pensavi? Lo invidiavi?".

Non capeva perché Falmouth le facesse quelle domande ma era giusto rispondere a tutto ciò che chiedeva. Doveva essere difficile per lui quanto lo era per lei, quel momento. "No. Eccetto una volta... Avevo forse otto anni, mia madre era appena morta e avevo accompagnato mio padre a comprare del carbone per la stufa. Faceva freddo, c'era un vento gelido che spezzava le gambe e io indossavo un abito di lana logora, ero scalza e terribilmente affamata. Mio padre entrò in un negozio e io, mentre lo aspettavo fuori, vidi arrivare una bellissima carrozza che si fermò davanti a uno spaccio di pizzi e stoffe. Scese un nobile e poi dopo di lui, sua moglie e sua figlia. Erano tutti bellissimi, eleganti, con abiti caldi e raffinati e la bambina, che aveva la mia età, teneva per mano sua madre che le sistemava i lunghi capelli biondi sotto il cappuccio del mantello, per proteggerla dal vento. Ecco, in quel momento ho invidiato quella bambina. Avrei voluto essere lei, avere il suo mantello caldo e una madre che mi prendeva per mano e mi sistemava i capelli. In quel momento ho giurato a me stessa che da grande, se fossi diventata madre a mia volta, mai avrei permesso che i miei figli sentissero quel desiderio e quell'invidia per quella bambina, che stavo provando io. Promisi a me stessa che ci sarei stata e che mai si sarebbero sentiti soli ad affrontare fame, freddo o tutto quello che la vita può riservare. Ed è con questo principio che li sto cresciendo ora".

Colpito da quel racconto assolutamente sincero e sviscerato con una punta di emozione, Falmouth le strinse le mani nelle sue. "Cara, tu non hai e non avrai mai più questi problemi. E nemmeno i bambini, questo è fuori discussione".

Anche Alix poggiò le sue mani fredde sulle sue. "Sei quì e se avrai bisogno che ti sistemi i capelli, lo farò io come tu lo fai coi bambini. E avrai sempre tutto il resto che hai invidiato quel giorno a quella bambina, così come Jeremy, Clowance e i gemellini".

Falmouth annuì. "Era altro che ti stavo chiedendo, Demelza. Un altro tipo di invidia che spesso i poveri sentono verso di noi. Credono che siamo liberi di fare tutto, che tutto ci sia concesso e che non abbiamo regole da seguire. Lo credevi pure tu?".

Ci pensò. Era vero, ciò che lui diceva corrispondeva alla visione di molte delle persone che aveva conosciuto nei suoi primi anni di vita e probabilmente lo aveva pensato anche lei da bambina, ma poi vivendo con Ross aveva capito che in realtà non era così che funzionava. Certo, i nobili e le persone abbienti avevano libertà di scelta e più possibilità degli altri ma avevano anche loro delle regole, spesso decisamente rigide, a cui sottostare. E infinite responsabilità che ai meno abbienti non toccavano. "Una volta lo credevo. Ora non più... E' molto difficile nascere e vivere dove sono nata io ma se volevo uscire di casa e correre nei campi scalza, potevo farlo. Ora no, non io e non i bambini... Nessuno al mondo può fare davvero tutto ciò che vuole, nemmeno un re".

Alix guardò verso la finesta. "Tutti eccetto i gemelli... Loro fanno TUTTO ciò che vogliono e corrono pure scalzi per il giardino e per Londra".

Falmouth finse di ignorarla, tossicchiando. "Il punto a cui volevo portati Demelza, è proprio questo. Tu ora sei Lady Boscawen e non sei più Demelza Carne di Illugan. E nemmeno la moglie di Ross Poldark. Ora sei da esempio per tanti e le tue azioni diventano anche le nostre azioni... Ora diventa tutto più difficile e se una volta eravate solo tu e Ross Poldark a decidere per voi e per le vostre vite, ora non è ovviamente più così".

Ecco, ora arrivava la parte difficile, se lo sentiva. "Lo so...".

"E non si tratta solo dei bambini e di te. Ma anche di noi..." - proseguì Falmouth.

"Lo so... Non volevo mentirvi, non volevo fare qualcosa di nascosto e per tanto ho cercato di tenere Ross lontano. Ma non ci sono riuscita e ora... ora sento...".

Il tono di Demelza, disperato e preoccupato, nonché spaventato, fece sorridere Falmouth. "Demelza, Hugh ti amava e so che tu amavi lui. Fu un matrimonio riuscito il vostro e anche se io all'inizio avevo molte riserve su di te, sono felice che Hugh mi abbia chiesto di non far ricerche sul tuo conto. E di aver rispettato quel giuramento. Lui voleva che ti conoscessi senza pregiudizi per ciò che sei e oggi so che tu sei preziosa per noi, che ci hai resi una vera famiglia e che non solo sei la madre dei nostri eredi ma anche il collante che ci tiene uniti dopo la perdita di Hugh. Sei una donna giovane e libera adesso e spesso io stesso ti ho rimproverata per il tuo ostinarti a vivere il lutto a oltranza... A Londra la tua condizione è fra le più invidiabili: giovane, ricca, libera e indipendente. Qualunque cosa tu faccia, purché nel rispetto del pudore e della decenza, non darà mai adito a scandali. Io stesso ti chiesi di pensare a Ross in altri termini perché avevo visto che c'era qualcosa di forte fra voi... Allora non sapevo la verità e ora capisco il tuo astio iniziale verso i lui ma adesso il punto è un altro: tu lo frequenti, Jeremy e Clowance conoscono la verità e i gemelli lo adorano. Ma io ed Alix, come possiamo fidarci di lui senza pregiudizi? Lui che ha lasciato te e i suoi figli inseguendo il sogno effimero del primo amore, può essere degno della nostra fiducia e dell'affetto dei bambini? Questo è il problema, adesso. Quei pregiudizi che grazie alla richiesta di Hugh non abbiamo avuto su di te non conoscendo la tua storia, permettendoci di conoscerti per ciò che sei davvero, come potranno adesso non influenzare il nostro giudizio?".

Era il fulcro del discorso in effetti e Demelza lo sapeva bene perché per tanti anni era vissuta basando le sue convinzioni su pregiudizi, fatti e parole mai spiegati che magari, se esplicati a tempo debito, avrebbero potuto influenzare il suo modo di agire e pensare. Falmouth ed Alix avevano ragione, ora come potevano fidarsi di Ross? Come potevano se nemmeno lei, a lungo e forse non ancora del tutto, ci era riuscita? Come potevano pensare di affidare eventualmente il casato e la serenità dei loro piccoli eredi a un uomo che già una volta aveva tradito ed abbandonato la sua famiglia? Lei stessa si faceva queste domande e ancora non era nemmeno convinta di cosa volesse davvero, soprattutto considerando quanto Jeremy e Clowance ancora rifiutassero l'idea di avere rapporti con Ross. Era difficile, sapeva che lo sarebbe stato ed ora ognuno doveva fare le proprie scelte. "Io non posso dirvi cosa fare, cosa pensare e cosa consigliarmi. E nemmeno posso obbligarvi a pensar bene di lui. Forse dovremmo imparare da Hugh in questo e lasciare da parte i pregiudizi per dar spazio a una persona di farsi conoscere. Io so chi è Ross, conosco i suoi pregi e i suoi difetti, il suo carattere a volte pessimo, la passione con cui porta avanti le sue lotte, ogni sua caduta e ogni alto valore che lui porta avanti. E' un uomo complesso, spesso chiuso, terribilmente orgoglioso ma... infinitamente buono. Questa è la più grande certezza che ho su di lui e ce l'ho nonostante quanto successo. Ed è il motivo per cui non ho detto niente di lui quando l'ho incontrato. Volevo rimanesse a Londra a fare il lavoro che si era prefissato in Parlamento e che gli sarebbe stato impossibile portare a termine, se si fosse scoperto il suo passato. So che può far bene per tanti e so che se è quì non è certo per suo interesse personale".

Falmouth sospirò. "Ha un modo di far politica particolare ma affascinante. Non posso dire di approvare tutte le sue idee ma mi piace la passione con cui le porta avanti. Su questo hai ragione, è un uomo molto capace e per questo da subito mi è piaciuto perché come fu per Basset, vedevo finalmente in lui un antagonista, qualcuno in grado di tenermi testa e di insegnarmi qualcosa. E di imparare qualcosa, da me, se fossi riuscito a farmi ascoltare!". Si bloccò, guardandola intensamente. "Demelza, una unione fra te e lui a me avrebbe fatto comodo, politicamente! Avere Poldark nel seno della mia famiglia lo poteva rendere più duttile al mio tipo di politica e trovavo comunque stuzzicante il confronto anche acceso con lui, fra le mura della mia stessa casa. Ma ora è diverso, ora c'è altro in ballo! Lo vedi, giusto?".

Demelza arrossì. "Sì, lo vedo...".

Alix, imbarazzata, fissò il pavimento. Falmouth invece, molto più pratico, digrignò i denti. "Eravate sposati un tempo e ovviamente non devi chiedermi il permesso di fare come e cosa preferisci. Mi affido al tuo giudizio e al rispetto del tuo ruolo. Ogni cosa può essere fatta a Londra, da una donna come te, purché non sia completamente alla luce del sole ma rimanga... in penombra... Come hai fatto fin'ora, mi pare. Non voglio sapere i retroscena, cosa ti hanno portata di nuovo a lui ma voglio solo giudizio! Ti parlo come si parla a una figlia e anche se sei adulta e sei stata la moglie di Poldark, ora è un altro il ruolo che ricopri e ci rappresenti. Non dimenticarlo!".

Demelza si sentì un brivido che le percorreva la schiena. "Lo so... So che sono una donna adulta, una Boscawen e una madre. Mai farei qualcosa che metta in imbarazzo voi! E tanto meno i bambini".

Alix rilasciò il fiato che aveva trattenuto a lungo. Per lei forse quella situazione rasentava lo scandalo e magari non la capiva appieno, come era giusto che fosse per una donna sempre ligia alle regole. "I bambini, appunto... Hai detto che i gemellini adorano il signor Poldark e di questo ce ne siamo accorti a Natale, ma Jeremy e Clowance?".

Strinse i pugni, sentendosi impotente davanti a quella domanda. "Jeremy e Clowance non ne vogliono sapere di lui. Ho detto loro che rispetterò ogni scelta che intenderanno fare ma al momento non so se sia giusto o sbagliato. Sono piccoli per decidere una cosa simile e se non superano l'odio per lui e non gli danno una possibilità, perdereanno un altro padre, il LORO padre, ancora una volta. E non voglio che un giorno debbano pentirsene".

Falmouth, pensieroso, picchiettò le dita sulla sedia. "No!".

"No, cosa?" - domandarono in contemporanea Alix e Demelza.

L'uomo si alzò in piedi, passeggiando per la stanza. "No, non sta a loro decidere, non hanno l'età per capire cosa è giusto e cosa è sbagliato fare a lungo termine. I bambini hanno facoltà di scegliere la merenda, l'abito da mettere e il dolcetto da mangiare dopo pranzo ma non quella di decidere se estromettere o no un padre ritrovato dalla loro vita! Siamo noi a dover scegliere per loro e per il loro bene e sta sempre a noi far accettare loro le nostre decisioni".

Demelza impallidì. Che voleva dire? "Jeremy e Clowance sono... dannatamente orgogliosi! Come tutti i Poldark! E si sentono traditi da lui, non possiamo imporre loro Ross o otterremo l'effetto di farli scappare".

Falmouth non sembrò d'accordo. "Sono piccoli e orgogliosi, certo! Ma bambini! Tu li conosci meglio di chiunque altro e sono sicuro che in cuor tuo sai cosa sarebbe meglio per loro".

Non capiva... Falmouth aveva scelto di appoggiare Ross nonostante tutto? O aveva in mente altro? "Non sono sicura di saperlo".

"Nemmeno io!" - rispose Falmouth, stupendola. "Ma ho intenzione di scoprirlo!".

"Come?".

L'uomo si avvicinò alla finestra, guardando in giardino dal davanzale su cui aveva poggiato le mani. "Ross Poldark è un uomo che ha sbagliato molto e sono certo che conosce i suoi errori e che ne ha sofferto. Di certo è dura ridargli fiducia, chi ha sbagliato una volta può sbagliare ancora eppure tu, nonostante abbia tanto sofferto, alla fine gli hai ceduto. E non sei una donna stupida, tutt'altro! E nemmeno leggera! Sai Demelza, io conosco un sacco di pessimi uomini, della peggior specie. Si annidano ovunque, in Parlamento come nelle strade di periferia e non c'è distinzione di classe in questo, l'essere umano è spesso la creatura vivente più spregevole che Dio abbia creato. Ma nonostante quello che mi hai detto, non riesco a mettere Ross Poldark in questa categoria! Di solito il mio istinto non sbaglia ma questa volta voglio vederci chiaro ed indagare... Ci sono di mezzo quattro bambini, cinque col figlio di Ross... E i gemelli soprattutto, hanno bisogno di una figura di riferimento come lui perché l'alternativa non è il tutore svizzero ma il collegio in Svizzera vero e proprio, se vanno avanti così! Loro adorano Ross Poldark e paiono, forse per la prima volta nella loro esistenza, sentirne il carisma. Lo rispettano e lui ha saputo entrare in contato con loro nel modo giusto... Lo ammiro e lo rispetto, nessuno ci riesce con quelle due pesti! E Jeremy e Clowance sono arrabbiati, terrorizzati... Giusto, chiunque lo sarebbe al loro posto! Sono cresciuti ricordando la figura paterna di Hugh e di Poldark non conoscono né il mondo né il carattere. Sanno solo che è un padre sconosciuto che li ha lasciati soli. Ciò che forse non sanno è che magari, se è vero ciò che dici, lui ne abbia sofferto e che come ogni padre, ogni giorno si sia dannato l'animo al loro pensiero. O almeno credo... Ed è quello che voglio scoprire!".

Demelza spalancò gli occhi. "Cosa?".

"Se davvero è meritevole di fiducia! O se merita solo un calcio nel didietro con cui spedirlo a casa sua in Cornovaglia, col veto di non farsi più rivedere quì. Condizione che otterrei con ogni mezzo, se lo ritenessi necessario! Non sto dicendoti, Demelza, che approvo che sia rientrato nella tua vita! E nemmeno che per questo hai o non hai la mia benedizione! Da donna adulta puoi incontrarlo e viverti dei momenti con lui ma se ci sarà un DOPO più profondo, vorrei sceglierlo con te".

Demelza lo guardò, confusa. Che voleva dire? Cosa aveva in mente? "Come potremmo sceglierlo insieme?". Santo cielo era assurdo perché di fatto quella era una questione personale e intima e stava diventando un affare di famiglia in cui non sapeva muoversi. Eppure lei sapeva che era così che doveva essere e che i Boscawen si stavano muovendo unicamente per il suo bene ma in questo caso tutto ciò le appariva soffocante. Quanto le mancava Nampara in quel momento, quella casa dove erano solo lei e Ross a fare le loro scelte, giuste o sbagliate che fossero, senza l'intromissione di nessuno...

Falmouth annuì, capendo le sue riluttanze ma ignorandole. "Voglio vederlo e parlargli a quattr'occhi, da uomo ad uomo! Capire le sue intenzioni, la sua serietà, cosa prova per te e i bambini e come giudica la presenza dei gemelli. Fanno parte della tua famiglia, sono tuoi figli quanto i primi due e se lui vuole te, deve volere anche loro esattamente come ai tempi fece Hugh con Jeremy e Clowance!".

Demelza deglutì. Era vero, nessuno ne aveva mai parlato apertamente e lei aveva rifiutato di pensarci ma Ross non aveva obblighi verso i gemelli. Se avesse voluto riavere nella sua vita solo lei e i loro figli, cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasta a casa Boscawen ovviamente, MAI avrebbe lasciato un suo figlio per preferirgli un uomo e a quel punto forse Ross si sarebbe sentito in dovere di prendere tutti i bambini con se. Ma lei non voleva questo, non voleva una scelta dettata dal dovere. Ne voleva solo una dettata dal cuore e dei bambini, di tutti e quattro... cinque... non ne avevano mai parlato. C'erano i gemelli e c'era Valentine e il discorso fatto su Ross, valeva anche per lei. Voleva davvero essere la madre di Valentine? Era il bambino la cui nascita aveva distrutto la sua vita, il figlio di Elizabeth! Era pronta? Ne sarebbe stata capace? Nemmeno a queste domande aveva mai saputo darsi risposte..

"Demelza!".

Falmouth la riportò alla realtà e lei sussultò. "Sì?".

"Voglio che tu vada da lui e lo inviti quì. Digli che voglio parlargli e che non accetto rifiuti... Poi vedremo...".

Andò in panico a quella proposta. "Come? Ma lui... Giuda, è complicato parlare con Ross, voi non lo conoscete ma lui si chiude molto nelle discussioni che riguardano la sua sfera personale. Diventa un pò... arrogante, a volte".

Falmouth le lanciò, sempre coi suoi occhietti furbi, un altro sguardo allusivo. "Ci sarai anche tu, ovviamente! Vi voglio tutti e due quì, insieme! Voglio vedervi agire insieme, vedere come lui ti ascolta e si rapporta a te e sapere dalla sua voce perché ha fatto ciò che ha fatto. E poi deciderò se è o meno sincero e se merita una seconda possibilità".

Tirò un sospiro di sollievo. Beh, con lei presente forse il tutto non si sarebbe trasformato in una tragedia greca. "Quando?".

Falmouth sorrise sibillino. "Sai dove abita, no? Su, oggi è domenica e a quest'ora sarà a casa! Tu sarai felice di andare da lui e lui di vedere te... Va da lui e portagli il mio invito. E digli che ho fretta e che non amo aspettare, soprattutto negli affari importanti".

Le sue parole non erano una richiesta ma un ordine. E quando Falmouth faceva così, era difficile disubbidire. "Ora?".

"Ora... Hai da fare?".

Giuda, stava succedendo troppo in fretta! Tremò lievemente ma poi il sorriso gentile di Alix che la incitava a fare come lui chiedeva, la tranquillizzò. Nessuno la stava giudicando, stavano tutti semplicemente tentando di aiutarla. Si alzò dalla sedia, prese un profondo respiro e guardò quelle due persone non più giovani che avevano accolto in casa una ragazza-madre sconosciuta, l'avevano sorretta e l'avevano stretta in seno alla loro famiglia senza giudicarla mai e proteggendola dai giudizi degli altri. Grazie a Hugh, certo... Ma anche e soprattutto grazie al loro buon cuore e alla loro intelligenza. "Siete delusi da me, ora che sapete la verità?".

Alix le strinse la mano. "Mai... Siamo simili noi e tu sei e sarai sempre la figlia femmina che non ho avuto".

Demelza sentì gli occhi inumidirsi. Simili, certo. E in quel momento, ora che sapeva la verità, Demelza capì che Alix si stava riferendo anche a Julia. Erano entrambe madri che avevano perso un figlio...

"Stupito, non deluso! Ma in fondo immaginavo tu non avessi avuto una vita facile" – rispose Falmouth. "Ed ora, basta segreti".

"Basta segreti...".

L'uomo annuì, ridendo sotto i baffi. "Sicura non ce ne siano altri? SICURE?".

Le donne si guardarono negli occhi senza capire. "Sicure... Perché?".

Falmouth sospirò, osservando un quadro appeso nella stanza. "Ho notato che il mio delizioso quadretto sulle scogliere di Dover che tengo nel mio studio ha... acquisito... colore... L'ho lasciato sbiadito e lo ritrovo brillante e fresco come se fosse stato appena fatto! Sembra quasi che un restauratore ci abbia messo su le mani".

Demelza sudò freddo. Accidenti a Demian e alla sua mania di colorare! Se n'era accorto Falmouth-la volpe, che c'era qualcosa che non andava! "Oh... Forse l'aria di primavera lo ha rinvigorito. I colori, intendo...".

Alix, in disparte, faceva finta di essere interessata ai colori della parete e faceva di tutto per non ridere. Falmouth invece sembrava maledettamente serio. "L'aria, sì! La primavera e le correnti... Correnti gemellari immagino... Hanno effetti miracolosi sui quadri da sempre... Giusto?".

"Giusto!".

L'uomo si poggiò alla parete, sorridendo. "Va a chiamare Ross Poldark. Ti conviene andare subito, mia cara... Nel frattempo sguinzaglierò la servitù nella casa, per scovare ogni pastello sfuggito al mio precedente rastrellamento".

"Certo". E con una contingente fretta, Demelza uscì dalla stanza dopo aver lanciato uno sguardo di intesa ad Alix.

Ma Falmouth la richiamò. "Demelza?".

"Sì?".

"Per ora, non dire nulla ai bambini! Quando Poldark sarà andato via, allora parlerai con loro di cosa è successo oggi fra noi e con lui. E di come ci muoveremo".

Demelza deglutì. Aveva ragione, era davvero ora di giocare a carte scoperte, almeno in casa. "Sì, suppongo sia giusto".

"E ora vai!" - ordinò Falmouth, che mai era stato capace di portare troppa pazienza negli affari.

E Demelza, col peso e l'emozione insieme dell'ennesimo imminente scossone alla sua vita, che però stavolta si era scelta, andò.

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Capitolo 64
*** Capitolo sessantaquattro ***


Quando aveva visto arrivare Demelza a casa sua, era stato felice. Ma era duranto un solo istante, il tempo di baciarla sull'uscio, per accorgersi della sua espressione preoccupata. E così, dopo aver salutato i Gimlet e il piccolo Valentine che le era corso incontro per salutarla, Ross era uscito con lei per capire cosa fosse successo, preoccupato per i bambini o per qualsiasi cosa la stesse turbando in quel momento.

Non era stato felice di sapere che Falmouth lo voleva, SUBITO, a casa sua! Sapeva che Demelza voleva parlargli e dirgli la verità e avrebbe voluto che lo facessero insieme anche se poi la donna aveva insistito per farlo da sola e ora l'idea che l'uomo esigesse la sua presenza, lo irritava. Gli sembrava di essere un ragazzino ripreso per aver fatto una marachella e quel genere di atteggiamenti tanto autoritari da sempre lo avevano mandato fuori di testa. Non che non lo capisse, sapeva quanto Falmouth amasse Demelza e i bambini e quanto probabilmente si stava preoccupando per loro ora, era la situazione in se che lo esasperava. Una volta esistevano solo lui, Demelza e una casa e tutto veniva deciso fra loro, senza terzi che ci mettevano il becco. Adesso invece aveva perso quell'appannaggio esclusivo e dover accettare che altri fossero entrati nella sua vita e in quella di Demelza, gli risultava intollerabile. Per carattere e orgoglio, era difficile da accettare per lui! Eppure doveva cedere, sapeva di doverlo fare perché aveva perso l'onore di essere il marito di Demelza e la sua unica famiglia, assieme al diritto di fare da padre ai suoi figli senza l'appannaggio e l'intromissione di terzi. Aveva gettato via tutto e ora si sentiva svuotato del suo ruolo...

Demelza aveva notato il suo cambiamento d'espressione e per tutto il tragitto fino a casa Boscawen, che suo malgrado Ross aveva scelto di compiere, aveva camminato accanto a lui in silenzio, proponendo solo di entrare dall'ingresso secondario che portava direttamente agli appartamenti di Falmouth, evitando la parte di giardino dove giocavano i bambini. Solo quando furono entrati nel corridoio, deserto, aveva trovato il coraggio di rivolgergli la parola. "Sei arrabbiato?".

E a quel punto capì che non poteva commettere gli stessi errori del passato, facendo ricadere su di lei le sue frustrazioni. Allungò una mano e le accarezzò dolcemente una guancia, abbozzando un sorriso. "No, non con te almeno. E nemmeno con Falmouth, forse... L'unico con cui sono arrabbiato, è stesso".

Demelza spalancò gli occhi. "Ross...".

La zittì, sfiorandole delicatamente le labbra con l'indice della mano destra. "Avevo una famiglia e non ho saputo prendermene cura e ora se ci sono altri... devo accettarlo".

Demelza scosse la testa. "Non ho idea di cosa dirà Falmouth ma ti prego, per l'affetto che provo per lui, cerca di non litigarci. E' lo zio dei bambini e per me è come un padre... Si è preso cura di noi e...".

Ross la bloccò, baciandola questa volta. "Rispetto i vostri sentimenti per lui e i suoi per voi. Gli sono grato per quanto ha fatto per voi in questi anni e non voglio litigare, ma...".

"Ma?".

"Ma voglio fargli capire che apprezzo il suo interessamento e accetterò ogni suo giudizio e consiglio. Ma siamo io e te Demelza, siamo adulti e siamo genitori e in questo, ogni scelta, ogni decisione, spetta solo a noi. Rispetto il ruolo di Falmouth all'interno di questo casato ma nelle cose nostre, le più intime e profonde, non voglio che ci metta becco. E questo, con educazione, glielo farò capire. Non sono un bambino da rimproverare e guidare, Demelza. Sono un uomo e tu una donna, non una ragazzina. Ci servono forse consigli ma non guide. La vita ha già insegnato molto ad entrambi e sappiamo cavarcela anche da soli, come abbiamo sempre fatto fin'ora".

Demelza fece per rispondergli ma il maggiordomo che le diceva che Falmouth li attendeva nel suo studio, la interruppe. E assieme a Ross, in silenzio, andò da lui.

Ross le sfiorò la mano per darle coraggio, cercando di farle capire che era dalla sua parte e che non voleva né deluderla, né crearle guai. Falmouth era un uomo potente e soprattutto il capo del casato di cui ora faceva parte Demelza. Avrebbe potuto distruggerlo se avesse voluto o impedirgli per sempre di rivedere Demelza e i bambini e c'era troppo in ballo per rischiare di irritarlo. Doveva essere accorto e gentile, sforzarsi quanto più possibile per andarci d'accordo e ottenere di nuovo la sua fiducia che sicuramente era stata in parte persa ora che conosceva la verità. E soprattutto, da padre, per il bene dei suoi bambini che adoravano questo zio acquisito che li aveva cresciuti, doveva sforzarsi di non creare fratture che prima di tutti, avrebbero ferito loro. Essere padre, ora lo sapeva, significava pure questo...

Quando entrarono nello studio, Ross vi trovò Falmouth nella medesima posizione, alla sua scrivania, in cui l'aveva visto la prima volta che era entrato in quella casa. Demelza lo affiancò, gli sfiorò la mano e il maggiordomo chiuse la porta dietro di loro, lasciandoli soli.

"Ebbene, Poldark..." - sussurrò Falmouth, appoggiando il viso sulle sue mani intrecciate sotto il mento. "Non ero tanto certo che sareste venuto, nonostante vi abbia mandato Demelza a chiamarvi".

Ross rispose a tono. "Nemmeno io ero certo di venire".

"Codardìa?".

Ross sostenne il suo sguardo, era una guerra di nervi quella e per quanto trovasse stuzzicante combatterla, non voleva che Demelza ne soffrisse. "Questione di utilità. Non ne vedevo il motivo ma poi, ripensandoci, ho capito che ve lo dovevo, a voi e a Demelza. Avete fatto molto, per lei e i bambini e ora che sapete la verità, posso quanto meno ringraziarvi. Avrei voluto essere presente quando Demelza vi ha raccontato del nostro passato, per non lasciarla sola, ma lei ha insistito per parlarvi senza di me. E quindi, ora che sapete, grazie per ciò che avete fatto per lei e i miei figli. In pochi sarebbero stati generosi quanto lo siete stati voi".

Falmouth annuì. "Non voglio ringraziamenti, Ross! Voglio sincerità e le circostanze, fin'ora, ci hanno impedito di farci fregio di tutto questo".

Gli occhi di Falmouth erano sottili ed indagatori, come se volessero metterlo a nudo. Forse anche Demelza era stata guardata e studiata a quel modo quando Hugh l'aveva portata in quella casa per la prima volta e Ross in quel momento si chiese cosa avesse provato lei allora, se avesse avvertito il suo stesso disagio. Falmouth aveva questo potere, sapeva mettere soggezione alle persone, soprattutto a quelle consapevoli della sua furbizia. "Sono quì per parlare con voi e per rispondere ad ogni vostra domanda su di me e su quanto la situazione attuale influisca su di voi".

Falmouth lo bloccò. "Cosa pensate di voi stesso, Ross? Vi ritenete una brava persona?".

Quella domanda lo spiazzò e anche Demelza, accanto a lui, spalancò gli occhi. Ross prese un profondo respiro, quella domanda era lecita e meritava forse una risposta, per quanto dolorosa fosse. "Una volta credevo di esserlo. Ora non ne sono più tanto convinto... Probabilmente, non lo sono".

Demelza parve stupida da quelle sue parole e forse era normale che lei lo fosse, lei che lo aveva conosciuto e visto sempre sicuro di se stesso e delle sue azioni. "Ross...".

Falmouth, imperturbabile, rimase fermo e immobile alla scrivania. "Ci vuole coraggio ad ammetterlo. Conosco infiniti e potenziali inquilini delle nostre reali prigioni, che hanno commesso i crimini più abominevoli, che non lo ammetterebbero nemmeno sotto tortura".

Ross alzò le spalle. "La domanda l'avete fatta a me, non a loro...".

Falmouth mascherò un sorriso a quella risposta un pò irriverente e poi sospirò, invitando entrambi a sedersi davanti a lui alla scrivania. "Signor Poldark, non posso fingere che quanto ho scoperto oggi non mi abbia turbato. Sapevo che Demelza aveva avuto un altro uomo prima di Hugh e anche se all'epoca promisi di non indagare sul suo passato, spesso mi sono chiesto da dove lei provenisse. Ora lo so e ovviamente questo, per me che conosco Demelza da anni, non cambia la mia opinione su di lei ma anzi, avvalora il mio desiderio di protezione. Per me e mia sorella, Demelza è come una figlia... Purtroppo questo non si può dire per voi. Mi siete sempre piaciuto signor Poldark e ovviamente, sapere quanto male avete fatto a Demelza e del vostro abbandono a danno dei vostri figli, mi ha colpito, rimettendo in discussione tutto quello che fin'ora ho pensato sulla vostra persona. Quale uomo farebbe ciò che avete fatto voi?".

Demelza tremò a quelle sottili e neppur troppo velate accuse e Ross abbassò lo sguardo, vinto da una miriade di sensi di colpa. Sempre sarebbero tornati a tormentarlo, ogni volta che avesse ripensato a quel periodo orribile in cui aveva distrutto la sua famiglia. "Come avevo detto prima, un pessimo uomo lo farebbe. Lo sono stato e a lungo la mia punizione è stata non sapere più niente della mia famiglia e dei miei bambini. Non so perché Dio mi abbia dato la grazia di avere una seconda possibilità e nemmeno perché me l'abbia data Demelza. So solo di essere un uomo profondamente diverso da ciò che sono stato, un pò più amareggiato, un pò meno sicuro e sicuramente spezzato nel cuore e nell'animo".

Falmouth annuì, come soddisfatto da quella risposta. "E tu, Demelza? Non dici nulla?".

Lei cercò la mano di Ross, sotto la scrivania. "Conosco Ross... Come vi ho detto prima, conosco ogni suo pregio e ogni suo difetto. Forse meglio di quanto li conosca lui stesso...".

"Lo giudichi una cattiva persona?" - chiese Falmouth.

Lei tentennò un attimo, come in cerca delle parole giuste, più che per confusione. "No, anche se a lungo ho voluto crederlo perché era l'unico modo che avevo per sopravvivere a quanto mi era succeso... Ora so che è un uomo che ha sbagliato, come tutti. E' un uomo che mi ha sposata senza amarmi e in questo abbiamo sbagliato in due. E' un uomo complicato, che ha sempre cercato di fare del suo meglio per aiutare gli altri, anche a discapito di se stesso. Forse è stato proprio questo il suo errore, la grande disponibilità verso chiunque, anche verso coloro che hanno saputo approfittare di un suo momento di debolezza. Un nostro momento di debolezza...".

In maniera pacata ma piuttosto sibillina e diretta, Ross colse il riferimento ad Elizabeth. Demelza aveva ragione, lui non aveva capito o non aveva voluto vedere quanto lei, il suo perfetto e puro amore adolescenziale, lo stesse irretendo, quando lo stesse confondendo e quanto lo stesse allontanando dalla sua famiglia. Con calcolo! Non che fosse tutta colpa di Elizabeth, quanto successo era stata soprattutto colpa sua, ma quell'accenno di Demelza, che come sempre aveva saputo capire la situazione meglio di lui, lo colpì. Prese coraggio, era difficile parlare di certe cose con Falmouth presente e si sentiva estremamente a disagio, ancor più di quanto lo fosse poco prima. "Potremmo arrivare al sodo? Non amo girare troppo attorno alle questioni, Lord Falmouth. E di fatto non amo nemmeno parlare con terzi di faccende personali".

"E allora perché siete venuto? Era di una faccenda personale, che dovevamo parlare" – commentò laconico il lord. "Perché pensate vi abbia fatto chiamare?".

Ross guardò Demelza e poi lui, guardingo. "Spero non lo abbiate fatto per imporre il vostro volere. Io e Demelza siamo adulti e delle nostre questioni personali sappiamo questionare da soli. Forse sbagliando, forse facendo il giusto, questo non lo so! Ma sono affari nostri, ciò che c'è fra noi! Sono venuto perché vi siete preso cura della mia famiglia e di questo vi ringrazio, sono venuto perché vi ritengo un uomo saggio e maturo da cui trarre insegnamento e forse ottenere buoni consigli. Ma per il resto...".

Falmouth, prendendo in contropiede entrambi, annuì. Si alzò dalla sedia e poi, avvicinatosi alla finestra, osservò il giardino. "Sono d'accordo, certe faccende personali sono solo di vostro appannaggio! In realtà vi ho chiamato solo per vedere quanto infallibile voi vi crediate nella vita. In politica avete idee precise che è difficile togliervi di testa ma nella vostra sfera personale, la vita vi ha insegnato che nulla va mai dato per scontato e questo mi piace. Non conosco ciò che voi due eravate una volta e forse i motivi che vi hanno spinto a sposarvi con tanta fretta, sono stati le basi per il disastro successivo. Ci voleva tempo e voi non ve lo siete preso. Per il resto, tanti mariti tradiscono e tante mogli lo accettano in silenzio. Demelza no, non è quel genere di donna e a me piace per questo e per la grande dignità che dimostra sempre e che ha dimostrato anche in passato, lasciando la vostra terra natìa per ricominciare a vivere in un luogo a lei sconosciuto". Si voltò verso di lui, guardandolo intensamente. "Io credo che siate un uomo che ha sbagliato molto ma che non siate cattivo. Non lo penso io e soprattutto non lo pensa Demelza e io mi fido del suo raziocinio e della sua saggezza. Se lei vi ha dato una seconda opportunità, sicuramente con fatica e lottando contro se stessa, io non posso a mia volta negare a voi un tentativo di ripartire da zero. Vedete Ross, tutti gli uomini sbagliano ma ben in pochi sanno imparare dai propri errori. Voi sembrate esserci riuscito e ora unite in voi l'umiltà di ammettere la vostra infallibilità con quella strana forza ed orgoglio che vi spingono a difendere l'inimità ritrovata con Demelza. Apprezzo anche il tatto usato coi bambini, immagino che per voi non debba essere facile farvi da parte e vivere sulla pelle il loro rancore. Ma sono bambini, capiranno, cresceranno e gli passerà...".

Demelza spalancò gli occhi e anche Ross, piacevolmente sorpreso, fece altrettanto. Non stava ponendo paletti, non imponeva scelte ma, semplicemente, voleva capire che persona lui fosse davvero. E forse non avrebbe mai compreso quale parte del loro dialogo a Falmouth fosse piaciuta tanto ma quel che importava era che, a modo suo, era dalla loro parte. Era un padre che gli stava di fatto affidando una figlia e anche se non c'erano legami di sangue fra loro, l'affetto che nutriva per Demelza era sincero. "Non so cosa dire".

Falmouth si risedette alla scrivania. "Potete dire solo che volete prendervi cura al meglio di Demelza. E dei bambini. Di TUTTI i bambini... Vi ricordo che Demelza è una Boscawen ora e che i suoi figli sono miei eredi. Voglio che promettiate di trovare un punto di congiunzione fra i vostri pensieri e i miei, a metà strada. I vostri valori e i nostri spesso non coincidono e questo è un aspetto che prevederà infinite discussioni e punti di caduta per entrambi. Imparate e fate in modo che non si debba litigare più del dovuto e del lecito! Il futuro e la prosperità di questa casata e dei bambini dipendono da me e forse un giorno dipenderanno anche da voi! Ricordatevelo! Demelza ha saputo far sue le nostre tradizioni e mi auspico che vi impegniate a fare lo stesso, se sarà necessario. Io, dal mio punto di vista, cercherà di fare mia qualcuna delle vostre idee...".

Ross si accigliò. "Parlate come se io facessi parte di questa famiglia..." - notò, mentre Demelza sotto il tavolo gli schiacciava il piede per la sua impudenza.

Falmouth, molto serio, lo fulminò con lo sguardo. "Ross, io stesso mi sono sempre auspicato che Demelza si rifacesse una vita dopo Hugh. Quando l'ho conosciuta lei non mi piaceva ma per amore di Hugh l'ho accettata ed è stata la scelta migliore mai fatta in vita mia. Ha dato nuova vita a questo casato antico e potente che senza di lei non avrebbe avuto futuro e ha regalato a me e a mia sorella la gioia di quattro nipotini da amare e in cui trovare un obiettivo per andare avanti. Ma i Boscawen sono anche altro, sono una famiglia onorevole e per quanto io per ora apprezzi la vostra... discrezione... il vostro... voler tener segreto il rapporto che vi lega, non potrà essere così a lungo. Non voglio scandali e non voglio matrimoni riparatori come successe con Hugh! Intesi? Facciamo le cose come devono essere fatte, dopo aver sistemato la triste situazione che vi divide dai bambini che già ci sono...".

Demelza avvampò a quelle parole che non erano un consiglio ma un ordine e pure Ross arrossì... Dannazione, in effetti il rischio c'era e come sempre, lui e Demelza non ci avevano pensato. "Ecco...".

Falmouth proseguì, imperterrito. "I bambini hanno bisogno di un padre e ritengo che siano troppo piccoli per scegliere da soli. Rispetto la loro rabbia ma ritengo che si debba andare oltre, Ross... Per il bene di tutti, anche di vostro figlio e dei gemelli che spero, saranno presi in considerazione con lo stesso amore che nutriamo tutti per Jeremy e Clowance. Solo Dio sa quanto i miei nipotini più piccoli abbiano bisogno di una guida e voi sembrate fare al caso nostro, per come vi si accodano con fiducia".

"Ma...". Demelza intervenne, forse preoccupata per i bambini. "Ritengo che Clowance e Jeremy per ora non debbano essere forzati. Preferirei fare le cose con calma, come ho già discusso a suo tempo con Ross".

Ross annuì, era d'accordo anche se quella situazione di stasi era dolorosa e logorante per lui. "Voglio il bene dei bambini, di tutti. Adoro i gemelli Lord Falmouth, sono stupendi e sono figli di Demelza. Tutto ciò che è di Demelza è importante per me e i vostri nipotini, Boscawen fino all'osso direi, sono uno spasso. Amo passare del tempo con loro e sono stati proprio Demian e Daisy, nei miei momenti più difficili, a darmi speranza e fiducia che non tutto fosse perso".

Falmouth fece un sorrisetto furbo a quelle parole, alzandosi poi in piedi in tono trionfale. "E lo passerete del tempo con loro! Andremo in Scozia a fine mese prossimo, lo sapete?".

Demelza lo guardò storto. "Non abbiamo ancora deciso...".

"Sì che lo abbiamo fatto!" - rispose a tono Falmouth. "Devo comprare un castello e civilizzare gli uomini in gonnella. E i gemelli hanno un legame speciale con quella terra, sono nati per sottometterla ed è giusto che inizino a conoscerla. Una bella gita che durerà diverse settimane! Un viaggio di affari con altri lords, che sicuramente gradirete fare assieme a noi per stare con Demelza e i bambini e che di certo entusiasmerà vostro figlio".

Ross deglutì. COSA??? "Scozia?". Guardò Demelza, confuso e sperso. Che stava dicendo, Falmouth?

Il lord non gli diede nemmeno tempo per pensare. "Non ve lo sto chiedendo, Ross Poldark, vi sto dicendo che partirete con noi! Sarete felice di stare con Demelza, no? Potrò osservarvi meglio e soprattutto avrete tanti momenti coi bambini, in modo che possano conoscervi. Iniziate a dire ai vostri servi di pensare alle valigie".

Ross guardò Demelza, immaginando che non poteva rifiutare. Certo, era una idea di viaggio assurda ma Falmouth aveva ragione. Avrebbe potuto stare con Demelza e coi bambini e soprattutto, avrebbe potuto conoscere meglio i Boscawen e il loro mondo. Era vero, i Boscawen erano quanto di più lontano potesse esistere da lui e le idee che lui e Falmouth portavano avanti erano quanto di più incongruente esistesse al mondo, ma... Era lo zio dei suoi figli e per Demelza, lo aveva detto lei stessa, era come un padre. Doveva sforzarsi di conoscere meglio Falmouth, iniziare a ingoiare qualche rospo ma soprattutto lottare attivamente per riprendersi la sua famiglia. E Valentine avrebbe adorato quell'avventura. "Che posso dire?".

Falmouth gli indicò la porta. "Che vi impegnerete a scegliere con me un buon castello. Per i bambini, ovviamente... E' per il loro futuro. E che la vostra priorità ORA è il bene di Demelza e di OGNI bambino che chiama entrambi o mamma o papà".

Ross sorrise suo malgrado. Le preoccupazioni di Falmouth erano giuste e fondate e di fatto gli stava dando un'occasione per stare con le persone che amava e che per lui rappresentavano un futuro. Le stava dando a LUI, un uomo che era stato capace di distruggere la famiglia che amava e per fare questo, ci voleva coraggio. E Falmouth ne aveva. "Vogliamo le stesse cose, Lord Falmouth".

L'uomo lo occhieggiò. "Vorrei sentirvi dire le stesse parole quando tratteremo di politica, Poldark... Ma per ora, pensiamo alla Scozia".

"Certo..." - borbottò Demelza, arresa ormai all'idea di quel viaggio ma in un certo senso rasserenata dalla piega dell'incontro.

Falmouth sorrise, soddisfatto come un bambino. "Su, andate. Abbiamo finito e io ho raggiunto tutti i miei scopi. Ora devo uscire per un appuntamento con Lord Keller e sto già facendo tardi".

Ross guardò Demelza, stupito. Era già finito tutto? Davvero Falmouth non voleva altro? Oppure, da gatto sornione, avrebbe approfittato della Scozia per studiarlo ancora?

"E' tutto?" - chiese Demelza. "Davvero finisce così?".

"Ovvio!" - la redarguì Falmouth. "Come diceva prima Poldark, non siete due ragazzini che necessitano di regole o costrizioni. Ho sentito ciò che dovevo e ho capito quel che dovevo capire... Per me va bene così! Il resto spetta a voi".

Demelza si alzò dalla sedia, spaesata. "Allora... Buon pomeriggio, zio".

"Buon pomeriggio, Lord Falomouth" – aggiunse Ross, ancora incredulo per la piega che avevano preso gli eventi ma in fondo piacevolmente colpito dal modo di fare intelligente, deciso ma anche rispettoso di quel lord.

Falmouth sorrise loro, soffermandosi con lo sguardo sul loro tenersi a braccetto. "Adorabili..." - disse, fra i denti, prima di andarsene. "Buon pomeriggio".

Appena uscito, senza troppi preamboli come era nella sua natura, Demelza si avvicinò a Ross e forse vinta dall'emozione lo abbracciò, affondando il viso nel suo collo. "Ross...".

La strinse a se, inspirando il profumo dei suoi capelli. "E' andata bene... Credo...".

"Sì. Posso dire di essere orgogliosa di entrambi. Anche se...".

"Anche se?".

Demelza alzò lo sguardo a fronteggiarlo. "Lo credi davvero? Di te stesso, intendo... Credi davvero di non essere una brava persona?".

Il suo tono di voce tentennante e preoccupato, lo intenerì. "Le brave persone non fanno errori tanto grossi e tu hai un buon metro di giudizio, ora, per giudicare. Hugh era perfetto, io non lo sono stato".

Demelza sospirò. "Hugh non era perfetto, come non lo è nessun essere umano. La verità è che coloro che sbagliano di più, sono anche quelli che più non amano stare con le mani in mano. E quando si fa tanto, si rischia di sbagliare tanto. Hugh era un brav'uomo, un sognatore. Non ha mai fatto del male a nessuno ma è anche vero che lui viveva unicamente nel suo piccolo mondo e mai ha avuto interesse a vedere cosa c'era all'infuori della sua ristretta cerchia di interessi e conoscenze. Così è facile non sbagliare. Molti dicono che Demian gli somigli molto per carattere e in tante sfaccettature è vero. Ma Demian è diverso in molti altri aspetti. Spesso lo sgrido quando si arrampica sugli alberi ma dentro di me sono contenta che lui voglia vedere cosa c'è oltre al suo piccolo mondo, che voglia vedere più in la, che sia fuori dal suo giardino o magari sulla luna".

Ross le accarezzò la guancia, prima di baciarla sulle labbra. Era forse questo che più gli era mancato in quegli anni di lontananza, quel tono pacato di voce, quelle parole sempre dette al momento giusto che Demelza sapeva pronunciare acquietando la sua anima inquieta. Elizabeth non era mai stata capace di nulla di simile e ci aveva messo troppo a capirlo... "Eppure ho comunqe sbagliato troppo".

Lei alzò le spalle. "Eppure, non dicevamo che era l'equilibrio finale che contava? Una azione sbagliata non cancella tante azioni giuste e tu ed io non possiamo rimanere legati al passato. Dobbiamo accettarlo e andare avanti".

Ross le sorrise. "In Scozia? Non sapevo che avessi in programma un viaggio...".

Lei alzò gli occhi al cielo. "Nemmeno io! Ma quando Falmouth decide e si mette di traverso, devi solo ubbidire. La Scozia è una terra meravigliosa".

"La terra che hai conosciuto con Hugh" – le fece notare, con una fitta di dolore alla tempia.

Demelza annuì. "Forse non è la terra mia e di Hugh ma la terra delle svolte. Successe allora e nessuno dice che non potrà succedere qualcosa di simile di nuovo".

"Sei tornata incinta di due gemelli, allora... Vuoi ripetere l'esperienza?".

Demelza rise. "Giuda, no, NON PARLAVO DI QUESTO! Stiamoci attenti!".

Ross rispose con una risata e poi la ribaciò sulle labbra, stringendola a se. "Devo andare, ora! Valentine voleva uscire a fare una passeggiata oggi pomeriggio e non mi va di farlo aspettare troppo".

Demelza annuì, prendendolo per mano. "Prima di andare, credo che dovresti passare dalla biblioteca a salutare Jeremy e Clowance".

"Non credo che ne sarebbero contenti".

"Credo invece Ross, che se sapessero che sei stato quì e non sei passato a salutarli, ci rimarrebbero male. Non lo ammetterebbero mai, ovvio! Ma so che è così".

Ross ci pensò su alcuni istanti e decise di affidarsi a lei come sempre, in quell'aspetto del loro rapporto. Era ora di essere più intraprendenti e meno titubanti verso i bambini e Falmouth aveva ragione, dovevano riaccettarlo nella loro vita. "Va bene".

Si lasciò condurre da Demelza nei lunghi corridoi del palazzo, eleganti e silenziosi in quelle prime ore del pomeriggio. Solo qualche cameriera li incrociò nel loro vagare e a parte il cinguettio degli uccellini che giungeva dal giardino, nessun altro rumore giunse al suo orecchio. Nemmeno il baccano che spesso facevano i due gemelli. "Dove sono tutti?" - chiese, mentre scendevano le scale che portavano ai saloni al piano terra e alla biblioteca.

"Jeremy e Clowance a quest'ora stanno in biblioteca a fare i compiti. I gemelli sono in camera".

"Fanno il riposino? Alla loro età?" - chiese Ross, stupito.

Demelza rise ancora. "Prudie li mette a letto e so che loro fingono di dormire per togliersela di torno. Poi si alzano e giocano in silenzio fra loro".

Ross sorrise, erano talmente uniti quei due soldi di cacio! Santo cielo, era affascinante quel mondo unico ed esclusivo che i gemelli avevano costruito e che ancora, a differenza di Jeremy e Clowance, non faceva sentir loro il bisogno di amicizie esterne alla famiglia.

Giunsero alla biblioteca, con Ross perso in quei pensieri. E quando vi entrarono, ripensò alla prima volta che ci era stato, la sera in cui inavvertitamente aveva ferito Jeremy, spezzando il tenue legame costruito con lui. La prima cosa che vide appena entrato, fu il ritratto di Hugh. Ma stavolta, si accorse, faceva meno male vederlo, di allora... Aveva imparato ad accettare che lui c'era stato e che in fondo aveva lasciato un'impronta positiva nella vita delle persone che amava e questo doveva farselo andar bene. E in un certo senso, prenderne il testimone.

Jeremy e Clowance erano lì, seduti per terra sugli eleganti tappeti che abbellivano il locale, lui con un libro in mano e lei con delle bambole attorno a se. Appena li videro, entrambi spalancarono gli occhi. "Mamma... Signor Poldark!".

Ross li salutò con un cenno del capo a cui i bambini non risposero e fu Demelza a spezzare il silenzio creatosi. "E' venuto quì su invito dello zio. Doveva parlargli del nostro segreto. E ora, prima di andare a casa, è passato per salutarvi".

Jeremy impallidì. "Segreto? QUEL segreto? E lo zio?".

"Lo zio sta bene, va tutto bene e loro hanno parlato serenamente di come risolvere le cose" – rispose Demelza.

Jeremy sospirò, abbassando lo sguardo. "Se lo zio dice che va bene, allora va bene".

Ross si abbassò, inginocchiandosi davanti a lui, e in uno slancio di coraggio, provò a parlargli e a cercare in lui tracce di quel bimbo che un tempo lo chiamava papà e allargava le braccia per farsi prendere. Un onore che forse all'epoca non era mai riuscito ad apprezzare in pieno. "Cosa leggi?".

"Un libro di tedesco" – rispose il bimbo, occhieggiandolo di nascosto dal tomo che teneva in mano.

"Oh, tedesco. Posso vederlo? Sai, è una lingua che non conosco".

A quella domanda Jeremy chiuse il libro, stringendoselo al petto. "No! E' mio! Ed era del mio papà, voi non potete toccarlo!".

"JEREMY!" - lo richiamò Demelza. "Che modi sono?".

Lui abbassò il capo, mortificato. "Scusate... Ma i libri, soprattutto questi, sono personali. Non voglio che li tocchi nessuno" – concluse, con un filo di voce.

Ross sussultò. Non era rabbioso, Jeremy sembrava smarrito più che arrabbiato come le volte precedenti, come se in lui fosse in atto una guerra fra l'aprirsi e magari riscoprirsi e il desiderio di tenerlo il più lontano possibile. "Hai ragione, scusa. I libri sono cose personali, come la pipa...".

A quella battuta, Jeremy lo guardò incuriosito. "La pipa?".

Ross annuì. "Sì. Io non farei mai fumare a nessuno la mia pipa, come tu non fai leggere a nessuno i tuoi libri".

Incredibilmente, Jeremy annuì. "Sì, è uguale" – rispose, con fare piuttosto incuriosito da quel discorso.

Clowance invece, rimasta in disparte, si avvicinò a Demelza, abbracciandola. "Mamma?".

"Cosa?".

"Adesso che la nonna e lo zio sanno chi siamo, ci vogliono bene ancora? Non ci mandano via?".

Demelza le sorrise dolcemente, abbracciandola e rassicurandola dell'amore indistruttibile che entrambi provavano per lei e Ross si trovò malinconicamente a pensare che era normale che Clowance non lo guardasse e che invece fosse preoccupata di perdere le persone che l'avevano aiutata a crescere con amore e che per lei erano la vera famiglia. Si avvicinò ad entrambe, cercando un modo di approcciarsi, seppur con cautela, a quella piccola principessa che mai aveva potuto amare e conoscere. Ma la reazione di Clowance fu di chiusura e la vide tremare, quando fece per sfiorarle la spalla. "Non volevo spaventarti. Scusa".

Clowance non rispose, rannicchiandosi ancor più fra le braccia di sua madre, col suo libro e la sua bambola stretti a se. "Mamma...".

Demelza le accarezzò i lunghi capelli biondi. "Tesoro, non puoi fare così per sempre. Anche perché lo zio vuole che il signor Poldark venga con noi per la vacanza in Scozia e non potrai nasconderti da lui per sempre".

"Cosa?" - esclamò Jeremy.

"E' così e sai che quando lo zio decide, non non possiamo disubbidire" – rispose Demelza, chiudendo il discorso.

"Nemmeno il signor Poldark può disubbidire?" - domandò Clowance, titubante.

Rsos sospirò. Quanto meno gli stava rivolgendo la parola... "Nemmeno io. E, anche se so che non ti piaccio, vorrei che almeno non avessi paura di me. Non faccio del male ai bambini".

La piccola lo guardò con quei suoi occhi azzurri come il mare e poi, con una sincerità disarmante, riuscì a parlargli a quattr'occhi, gelandolo sul posto. "No, vuoi non fate male ai bambini. Li abbandonate e basta. O almeno, così avete fatto SOLO con me! Più che con Jeremy".

Quelle poche parole gli spezzarono il cuore perché era vero e sentirselo dire da Clowance era il dolore massimo che avesse mai provato. Nonostante tutte le rassicurazioni di Demelza, questo era quello che non si era mai perdonato! Aver abbandonato senza nemmeno conoscerla, sua figlia... E Clowance lo sapeva e nel suo sguardo leggeva dolore ma anche smarrimento per ciò che sarebbe stato da lì in futuro. "Non volevo farlo..." - disse, con voce spezzata.

La piccola, come diventata di colpo coraggiosa, guardò Jeremy. "Lui lo avete salvato in acqua. Per me non avete fatto niente e io non voglio vedervi". Poi scoppiò a piangere, nascondendo il visino nel grembo di Demelza. E Jeremy, preoccupato ma decisamente incerto sul da farsi, cercò con lo sguardo sua madre in cerca di aiuto.

Demelza prese un profondo respiro. "Clowance, a volte le persone sbagliano. Persino quelle migliori. Ma se sanno chiedere scusa col cuore, non dovremmo dar loro un'altra possibilità?".

Jeremy sembrò prendere in considerazione quelle parole ma Clowance continuò a piangere disperata e smarrita e Ross capì che era il momento di andarsene. Il suo cuore gli urlava di prendere in braccio sua figlia per consolarla e farle sentire quanto la amava ma la ragione gli suggeriva che una buona resa era una scelta saggia in quel momento. "Credo che i bambini abbiano bisogno di pace e io sono in ritardo" – disse, sfiorando la mano di Demelza, gesto che Jeremy intercettò subito ma che non commentò.

"Ti accompagno alla porta?".

Ross guardò la piccola Clowance. "La strada la conosco, sta con lei".

"Va bene".

Fece per andarsene ma Clowance, miracolosamente, lo richiamò. "Lo fareste?".

"Cosa?".

"Per me! Nuotare nel mare per salvarmi come avete fatto con Jeremy quando è nato?".

Ross spalancò gli occhi, capendo che Demelza doveva aver raccontato loro qualche anedotto del passato. Ricordò con nostalgia il giorno della nascita di Jeremy, il suo orgoglio nel tenerlo in braccio e poi guardò quella sua piccola e bellissima bambina, a cui avrebbe donato il mondo se solo fosse servito per farla sorridere di nuovo. "Certo. Nel mare, in alta montagna, mi tufferei ovunque per te e spero che un giorno tu possa credermi".

Clowance lo guardò di sfuggita e poi, singhiozzando, tornò a rifugiarsi nelle braccia di sua madre senza dire altro.

Demelza gli sorrise in segno di gratitudine e Ross, dopo aver dato un ultimo saluto a Jeremy che educatamente rispose, uscì dalla biblioteca e poi, dai corridoi e dai saloni, si ritrovò in giardino.

Percorse il vialetto coi ciotoli bianchi che scricchiolavano sotto i suoi stivali, col cuore a pezzi per le lacrime e le parole dette da Clowance e una piccola speranza data dal modo di fare meno rabbioso di Jeremy, quando due vocine lo chiamarono e Ross, voltandosi, vide i gemellini correre a piedi nudi verso di lui. "E voi che combinate? Non dovreste essere a fare il riposino?".

Daisy, vestita con un abitino rosso che la rendeva adorabile, lo guardò storto. "Ti ho visto dalla finestra Signor Poldark! Sei venuto quì e stavi andando via senza salutarmi, non si fa!".

"Ohhh". Si inginocchiò davanti a loro, due piccoli soldi di cacio che pesavano niente ma che avevano il potere di rivoluzionare il mondo di tutti quelli che incontravano con la forte dirompenza dei Boscawen. "Hai ragione, scusa. Dovevo parlare con vostro zio e la mamma e, pensando che dormiste, stavo andando via senza disturbarvi".

Demian scosse la testa. "Facciamo finta di dormire che Prudie è contenta ma siamo grandi per il riposino".

"Lo immagino...".

Daisy lo fissò, preoccupata. "Perché dovevi parlare con lo zio? Dovevi dirgli i segreti nostri, tuoi e di mamma?".

Ross sorrise davanti all'arguzia di quella piccola peste bionda. La guardò e poi la strinse a se, rendendosi conto che Daisy riusciva a dargli il calore e la dolcezza che gli erano state negate con Julia e Clowance. Ciò che aveva perso con loro, in un certo senso lo stava recuperando con lei mentre il tempo cercava di indicargli la strada per raggiungere anche gli altri suoi due figli. "Sì. Ora non ci sono più segreti".

"Ohhhh". Daisy parve delusa. "Peccato, a me piaceva avere segreti! Era bello".

Ross la accarezzò la testolina. "Beh, ce ne potremmo trovare di nuovi, no?".

Demian rise, da furbetto. "Sìììì! Ad esempio, se adesso mi fai vedere che sai salire sugli alberi, io non lo dico a nessuno. Nemmeno a mamma! E questo è un segreto".

Ross sospirò, non si sarebbe mai dimenticato di quella promessa che gli aveva fatto. Si alzò, arrotolandosi le maniche della camicia sulle braccia, decidendo che era arrivato il momento di mantenere la parola data. "Quale albero vuoi?" - chiese, in tono di sfida.

Il piccolo corse vicino a una vecchia quercia. "Sigismond! E' mio amico, sai?" - disse, indicandogli la pianta.

Ross ricordò che Demian amava dare un nome a ogni pianta che incontrasse lungo il suo cammino e anche se era una cosa estranea al suo modo di fare, decise che il suo saper usare la fantasia riconoscendo un amico in ogni cosa, era bellissimo. "E Sigismond sia! Ma ricordate, è un...".

"SEGRETO!!!" - dissero i bambini, in coro.

E stupendoli, agile come uno scoiattolino, si arrampicò.


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Capitolo 65
*** Capitolo sessantacinque ***


"Resta quì ancora...".

La voce calda di Ross, con le sue labbra premute sul suo collo, la fece rabbrividire di piacere. Nuda nel letto, in un piovoso lunedì mattina, si girò verso di lui e lo baciò. Il cottage era avvolto nel silenzio e solo il rumore della pioggia, che donava pace ai sensi, raggiungeva le loro orecchie. "Non posso... Devo tornare a casa presto oggi".

Ross la baciò sul collo. "Abbiamo la benedizione di Lord Falmouth, no? Possiamo anche concederci di più dell'essere amanti clandestini".

Demelza rise. "Certo, abbiamo la benedizione, CON RISERVA, di Falmouth. Ma ti ricordo che TU, oggi, dovresti presenziare in Parlamento, che Falmouth ti terrà d'occhio e che saltare la seduta non ti renderà molto amabile ai suoi occhi".

Ross sbuffò. "Rischierò! Si parla di aumento di tasse e credo che farò come quando a scuola si faceva qualcosa che a me non piaceva: me ne starò lontano".

"Ross, non sei più un bambino!" - lo rimbeccò lei, come spesso faceva una volta quando erano marito e moglie a Nampara.

Ross si stiracchiò, stringendola ed attirandola a se. "A proposito di bambini... L'altro giorno, in quella biblioteca, vedere Jeremy e Clowance così turbati... Potrò mai avere il diritto di sperare che non sarà così per sempre?".

Demelza lo accarezzò, sentendo sulla pelle la paura e l'angoscia di Ross. "In realtà non è andata così male. Soprattutto Jeremy... Ecco, io credo che nella sua testa desideri fare tante domande ma che ancora, per orgoglio, taccia. Clowance è ancora piccola e tu stai sconvolgendo il suo mondo e ha paura di te, del futuro, di quello che sarà e di perdere ciò che è stato. Dai loro tempo, Ross... Lascia che ti conoscano e che capiscano, lascia che arrivi da solo il momento, per loro, di lasciar cadere quel dannato orgoglio da Poldark che vi fa diventare tutti quanti testardi come muli".

Ross spalancò gli occhi. "Orgoglio Poldark?".

Demelza gli strizzò l'occhio. "Una sorta di maledizione di famiglia, a modo vostro ognuno di voi è orgoglioso. I gemelli non sono così, sono furbi ad accaparrarsi ogni cosa buona che la vita gli dona, sono astuti come ogni Boscawen. A loro non importa dell'orgoglio, a loro interessa solo avere ciò che desiderano".

Ross la baciò sulla tempia. "Grazie... Sei sempre stata brava a consolarmi e tutto questo mi è mancato come l'aria per anni, tanti anni... Per tanto tempo nessuno è mai riuscito a farmi vedere le cose in modo meno nero di quanto mi apparissero, solo tu ci riesci. Resta quì ancora un pò, non scappare, non adesso. Vederti ogni tanto non mi basta più e al diavolo la legge, per me sei e sei sempre stata mia moglie e voglio averti vicino!".

Demelza, colpita da quelle parole, gli accarezzò la guancia con commozione. Davvero la considerava ancora una moglie, nonostante tutto? Davvero era questo, per lui? "Il viaggio in Scozia ci aiuterà in questo, potremo stare insieme davvero e non solo come amanti ma come coppia. E come genitori, coi bambini con noi. Non avranno scampo lì, nessuno di loro".

"Non hai paura?".

Demelza sorrise. "Conosco la Scozia e non mi fa paura. E' una terra magica dove nascono magie... La amo, amo i suoi castelli, amo i suoi boschi, amo i suoi immensi prati, amo le sue case di pietra, amo il loro strano modo di parlare, amo persino quegli uomini vestiti in gonnella che Lord Falmouth odia come la peste. Amo una terra che nel mio caso, SEMPRE, rappresenta un nuovo inizio. Me lo sento che andrà bene e non ho paura. Valentine come ha preso la notizia del viaggio?".

Lui rise. "Santo cielo, ha iniziato a saltare per tutta casa e a fare baccano. Una volta era tanto silenzioso e tranquillo, ora è un terremoto e quando ci si mette pure il cane, poi passiamo ore a sistemare i loro disastri". Si interruppe improvvisamente, guardandola poi preoccupato. "Tu sei sicura che Valentine per te non sia un problema?".

Gli strinse la mano, per confortarlo. Da molto aveva deciso e capito che Valentine era e sempre sarebbe stato per lei solo un bambino senza madre e incredibilmente solo. Ed inoltre era il fratello dei suoi figli e questo dava anche a lei delle responsabilità verso di lui. "No, non è mai stato un problema per me, Valentine. E tu, i gemelli saranno un problema?".

Ross alzò gli occhi al cielo, trattenendosi a stento dal ridere. "Quei due sanno risolvermeli i problemi! Santo cielo, se tutti i gemelli sono così, credo di volerne un paio ancora".

Lei lo guardò storto. "SCORDATELO!".

"Come hai fatto a farli?".

Demelza rise, voltandogli la schiena. "Credo che a questa domanda non risponderò MAI!".

"E allora, dovrai restare per pagare pegno" – disse lui, ricatturandola fra le sue braccia e baciandola sul collo e sulla schiena.

Demelza tentò di resistere ma un gemito le sfuggì dalle labbra. "Ross...".

"Shhh, non dire niente".

Lei, facendo violenza a se stessa, riuscì a sgusciare fuori dal suo abbraccio. "Ross, davvero! Devo andare".

"Perché?".

Controvoglia, lei si mise a sedere nel letto coprendosi il petto con le lenzuola. Nonostante la pioggia c'era dannatamente troppa luce! "Oggi pomeriggio voglio passarlo coi bambini. Stasera non sarò presente per cena e devo prepararli e far loro un lungo discorso, soprattutto ai gemelli! Quando cenano con Falmouth e Alexandra senza di me, di solito succedono disastri e ogni volta rischio di trovarmi per casa tutori svizzeri".

Ross si accigliò. "Perché non sarai a cena a casa, stasera?".

Lei sorrise, maliziosa. "Devo uscire, ho un impegno".

Scherzosamente, Ross le prese i polsi. "Donna, dove vai da sola la sera?!" - chiese, vagamente stupito.

Demelza si sistemò i capelli con un gesto lento e sensuale. "Vado a una festa...".

"Cosa?".

Lei alzò le spalle. Capiva quanto a Ross dovesse apparire strano e difficile da accettare, capiva che l'indipendenza che lei aveva raggiunto lo spaventava ma era giusto che vedesse la donna che era diventata, che capisse che aveva impegni ed amicizie e che era diversa dalla Demelza che aveva conosciuto anni prima. "Niente di che, un piccolo rinfresco al circolo dove faccio tiro con l'arco, con Margarita ed Edward e altri nostri amici. Lei a breve partorirà ed è una delle ultime occasioni che avremo di stare assieme di sera, per un pò. Ogni anno, in primavera, il circolo organizza un piccolo rinfresco all'aperto e ho sempre amato andarci".

Lui rimase per un attimo in silenzio, poi prese un profondo respiro ed infine le accarezzò la guancia. "La Demelza di un tempo mi manca ma so che esiste ancora, la Demelza di adesso mi lascia senza fiato ed entrambe, sommate, rendete la mia vita degna di essere vissuta di nuovo".

Stupita, forse pronta a una reazione meno comprensiva, sentì il cuore accelerarle in petto. E provò il desiderio di abbracciarlo per l'uomo che era e che era riuscito a diventare. Ross continuava ad incolparsi per gli errori del passato e non capiva quanto invece fosse andato avanti, quanto fosse degno di rispetto e quanto fascino sapeva esercitare su di lei. Non lo capiva lui che non riusciva a perdonarsi e non lo capivano i bambini che non riuscivano a perdonarlo. Era tutto lì, davvero lì il loro problema: l'orgoglio. Era questo, più che quel loro passato tanto doloroso e difficile, che rendeva tutto complicato. Lo baciò, lentamente, appoggiando la fronte contro la sua. "Vieni con me, stasera".

"Cosa?" - chiese lui, spalancando gli occhi.

"Ti sto chiedendo un appuntamento, signor Poldark! E' così che si fa, no?" - ribatté lei, maliziosamente.

Lui rispose al sorriso. "Me lo stai chiedendo sul serio!?".

"Sì! Anche se so che ti annoierai da morire e che ti sentirai un pesce fuor d'acqua, te lo sto chiedendo sul serio! Vieni con me, ora puoi, ora possiamo! Così conoscerai il mio mondo e capirai che questo modo di vivere a Londra, in fondo, non è poi così spaventoso".

Ross deglutì. "Davvero...?".

"Davvero, dico sul serio. Vieni, mi farebbe piacere".

Le sorrise, baciandola teneramente sulla fronte. "Verrò".

Demelza lo baciò di nuovo e poi, mollemente, si alzò dal letto. Appena in piedi però, una strana nausea la colse d'improvviso ma fu solo un attimo. "Giuda!" - esclamò, toccandosi lo stomaco. Era la seconda volta che le capitava, quel giorno.

Ross parve entrare in panico. "Cosa c'è?".

Lei sospirò. "I bambini devono avermi passato qualche dannato malanno. E' da stamattina che lo stomaco mi fa brutti scherzi".

A quelle parole Ross si alzò, prendendola fra le sue braccia. "Stai male?".

"Solo un malessere. Farò un riposino oggi pomeriggio e stasera sarò come nuova".

"Sicura?".

"Sicura! Verrai davvero con me?".

Ross le sorrise, dolcemente. "Se davvero lo vuoi, sarò felice di accompagnarti. Ci saranno anche i bambini?".

"Giuda, no! I gemelli smonterebbero il circolo e Jeremy e Clowance...". Arrossì, fermandosi un attimo incerta, arrossendo... "Ecco, loro... Non amano troppo quel posto".

"Perché?".

Imbarazzata, Demelza proseguì. "Quando erano piccoli, durante una delle prime lezioni, li portai con me. E per errore, con una freccia, uccisi un piccione... Hanno pianto tantissimo e da quel giorno non son più voluti venire".

A quel racconto, Ross scoppiò a ridere a crepapelle e di gusto come raramente succedeva "Avrei voluto esserci!". Lo disse con leggerezza ma poi il sorriso gli morì sulle labbra. "Come in tante altre occasioni...".

Demelza lo strinse a se, con forza, cercando di fargli coraggio. "Ci sarai adesso e per quanto riguarda il tiro con l'arco, non ti sei perso nulla! Non sono per niente brava, raramente miro il bersaglio e invece molto più spesso... colpisco altro. E per favore, basta, non parlare più del passato e pensiamo a stasera!".

Ross annuì, baciandola sulla fronte. "Sì, stasera. E cerca di riposare e di star bene".

E massaggiandosi lo stomaco, lei sorrise. "Sta tranquillo, non è nulla di grave. Passa a prendermi verso le otto, ti aspetterò al cancello principale".

Ridacchiando, Ross le passò i vestiti che erano stati appoggiati sulla sedia. "Sarò puntuale... all'appuntamento con mia moglie".

Demelza non rispose ma quelle parole, poche e semplici, sembrarono scaldarle il cuore.


...


Appena arrivata a casa e dopo aver salutato i bambini ancora impegnati col precettore e i gemelli che scorazzavano come animali in gabbia in casa a causa della pioggia, facendo impazzire Prudie e Mary, Demelza andò in camera sua per riposare. Si sentiva stranamente stanca e spossata e nonostante la mattina di passione con Ross, le sembrava bizzarro sentirsi così.

Quando entrò nella stanza, trovò le finestre aperte. Charlotte, la sua domestica personale, sapeva quanto lei amasse sentire il profumo del giardino bagnato dalla pioggia e quindi spesso, sperando di farle cosa gradita, lasciava aperte le imposte quando il tempo era brutto ma non freddo, in modo da riempire la camera di quell'aroma di bosco che lei tanto adorava.

Ma appena Demelza entrò, quel profumo che tanto amava le fece tornare di colpo la nausea e fece appena in tempo a raggiungere la toeletta per vomitare.

Si accasciò per terra cercando di riprendere fiato e per un attimo si chiese che diavolo le prendesse ma prima che potesse formulare un pensiero coerente, stette male di nuovo. E poi, improvvisamente, sembrò rinascere e il malessere sparì.

Si alzò, si appoggiò alla parete e dopo aver preso un profondo respiro, si massaggiò lo stomaco. Che diavolo le prendeva? Forse i bambini le avevano passato qualche virus ma nessuno si era ammalato in quelle ultime settimane, nemmeno Daisy che era l'untrice ufficiale di famiglia, che beccava sempre di tutto e poi infettava gli altri. Aveva allora, forse, preso freddo? Non le sembrava, nonostante la pioggia il clima era caldo e primaverile... Aveva mangiato qualcosa di strano? No, affatto, Falmouth era sempre molto attento ai cibi che venivano serviti in tavola. E poi, perché star così male per un semplice odore che di natura lei adorava? Solo un'altra volta le era successo...

"Julia...".

Improvvisamente, al pensiero della sua prima figlia, sembrò mancarle il fiato. Quando era incinta di Julia, stava male per gli odori! Spesso, ad inizio gravidanza... E le era capitato anche con Jeremy e coi gemelli, talvolta.

Si appoggiò alla parete, come investita da una valanga che portava con se mille pensieri incoerenti ma che finivano tutti nella medesima direzione.

Il fiato le mancò e per un attimo, la camera sembrò ruotarle attorno. "Giuda, non può essere..." - mormorò, toccandosi d'istinto il ventre. Quando realizzò, sentì una grande paura e allo stesso momento, una grande agitazione. Certo che poteva essere, dannazione! E lei e Ross non erano mai stati né troppo previdenti né troppo attenti e dopo mesi di passione, che potesse succedere avrebbe dovuto metterlo in conto anche se, stranamente spinta da una leggerezza che non le apparteneva da tanto, non ci aveva pensato. Santo cielo, non ne aveva la certezza ma alla quinta gravidanza, i sintomi erano inequivocabili! E quella notizia avrebbe sconvolto il suo mondo e tutte le persone che amava, tutto sarebbe cambiato! E Falmouth si sarebbe arrabbiato da morire!

Si toccò il ventre, massaggiandolo delicatamente. "Ross, piccoletto, che abbiamo combinato noi tre?" - chiese parlando al vento, dolcemente. C'era un piccolo bimbo dentro di lei, il bimbo suo e di Ross, un bimbo nato da un amore che era resuscitato dalle ceneri e che mai avrebbe creduto di rivivere di nuovo. Un piccolo dolce miracolo, piccolissimo ma che avrebbe scatenato un terremoto di dimensioni epocali. In lei, in Ross, nei bambini, nei Boscawen, fra i loro amici. Nessuno era pronto a questo eppure, se il bimbo c'era, aveva bisogno di amore e pace, lui quanto lei.

Lo avrebbe protetto...

E in virtù di questo, decise...

Che aveva bisogno di tempo per metabolizzare, che aveva bisogno di tempo per preparare gli altri a questo terremoto, che dopo la gravidanza di Clowance, passata in un momento infernale, lei voleva e meritava pace e dei momenti solo per se stessa e per fare amicizia con questo bimbo e con le emozioni contrastanti di paura e gioia che suscitava in lei. Voleva un piccolo segreto da cullarsi per un pò da sola, senza condividerlo con nessuno. Nemmeno con Ross perché se lo avesse saputo, avrebbe scalpitato e preteso di accelerare i tempi per stare con lei e non se la sentiva di sconvolgere troppo i bambini anche se pure lei desiderava stare con lui con tutta se stessa. Ross avrebbe capito... Aveva solo bisogno di tempo, per lei e per il piccolo. Tutti avevano bisogno di tempo e a tutti ne avrebbe dato. Forse era un pensiero un pò egoistico ma sentiva di aver bisogno di tenere tutto questo, per un pò, solo per se stessa. Un piccolo segreto!

Prese un profondo respiro, sistemò quanto aveva sporcato poco prima quando era stata male e poi mollemente, raggiunse il letto, coricandocisi sopra. Non avrebbe mai pensato di ridiventare madre ma la vita, nel suo caso, non le aveva lasciato libertà di scelta. O forse sì, gliel'aveva lasciata e lei aveva scelto di amare, rischiare e viversi le conseguenze. No, non era stato il destino a scegliere, era stata lei. Lei con Ross... E stavolta sarebbe stato tutto diverso, pensò, pregando silenziosamente che il piccolo in arrivo non avrebbe vissuto quello che avevano passato i suoi fratelli. Voleva per lui o lei solo amore. E una famiglia unita, grande, allargata, attorno. E quel piccolino, forse più di ogni grande discorso o decisione presa dai grandi di famiglia, avrebbe unito tutti loro.

Ross stavolta sarebbe stato commosso, felice, lui che rimpiangeva ogni giorno i figli avuti da lei e persi, avrebbe avuto una nuova occasione per dimostrare, soprattutto a se stesso, di essere un uomo da ammirare.

Sì, decise che poteva essere contenta e che tutto poteva essere superato. E con quel pensiero, si addormentò.


...


Aveva indossato un vestito color malva sbracciato, decidendo di coprirsi le spalle con una leggera mantella bianca e di seta che le aveva donato qualche anno prima Alexandra.

Nel pomeriggio aveva riposato e al suo risveglio, il sole era tornato splendente su Londra. Aveva giocato coi bambini, fatto merenda con loro, aveva fatto ai gemelli una ramanzina colossale su cosa fare e non fare durante la cena con lo zio e la nonna e dopo mille promesse che avrebbero fatto i bravi, si era preparata per uscire con Ross.

Jeremy l'aveva raggiunta in camera e gli aveva chiesto se sarebbe stata alla festa col signor Poldark e lei non se l'era sentita di mentire e gli aveva detto di sì. Sapeva che suo figlio aveva capito che si incontravano e sapeva anche di non voler più tradire la fiducia che riponeva in lei. Presto la vita di tutti sarebbe cambiata e doveva iniziare a porne le basi, soprattutto con lui.

Alla sua risposta affermativa, Jeremy era rimasto per un attimo silenzioso e poi l'aveva sorpresa con una domanda che non si sarebbe mai aspettata. "Ma perché lo vedi?".

E sinceramente, lei aveva risposto. "Perché mi rende felice farlo".

Lui non si era arrabbiato, l'aveva guardata intensamente, le aveva sfiorato la mano e poi, inaspettatamente, aveva abbozzato un sorriso incerto. "Posso stare a casa, vero? Non dobbiamo venire con te e lui?".

"Certo, voi stasera sarete quì e io non tornerò tardi".

"E in Scozia?".

Lo aveva abbracciato, forte. "In Scozia ci andremo tutti insieme, lo sai bene. E so che in fondo, un pò sei curioso di cosa ne verrà fuori".

Jeremy non le aveva risposto. Aveva preso la mantella bianca, gliel'aveva appoggiata sulle spalle e poi, dopo un frettoloso saluto era scappato via, lasciandole la sensazione che qualcosa si fosse aperto in lui, che in fondo a Ross ci stava pensando e che la rabbia aveva lasciato posto a tante domande di cui voleva risposte e a una curiosità che forse un giorno avrebbe avuto voglia di sanare assieme a suo padre.

Ross l'aveva aspettata davanti al cancello e questo l'aveva fatta ridere. Sembrava davvero un primo appuntamento di due fidanzatini sedicenni e anche se nella sua testa frullavano mille pensieri, decise che voleva dimenticarli per qualche istante e vivere quell'esperienza che ad entrambi era mancata quando si erano conosciuti. Farsi corteggiare... Santo cielo, come aveva bisogno di vivere tutto questo, con Ross!

"Ci saranno anche Caroline e Dwight?" - chiese lui, arrivando al cancello del circolo di tiro con l'arco dopo una breve passeggiata lungo il Tamigi.

"No, Caroline non ha mai frequentato questo posto e poi Sophie è ancora piccola per essere lasciata da sola con le tate, la sera. E poi è incinta, sta facendo diventare matto Dwight nell'acquisto del corredino per il bambino".

Ross rise. "Santo cielo, quì a Londra la gente si perde dietro a mille cose inutili. Che ci vuole a comprare qualche abito da neonato?".

Demelza, di nascosto, si massaggiò il ventre. "Beh, se può farti agitare ancora di più, sappi che quando aspettavo i gemelli, casa Boscawen era una specie di cantiere in costruzione. Un mondo fatto e disegnato per i bambini... Era tutta una corsa a fare il corredino più bello, a trovare la culla migliore, avevo persino una carrozzina che Daisy adorava quando la portavo a passeggio".

Ross spalancò gli occhi. "Carrozzina? Parli di quello strano trabicolo che usano le donne di quì per portare in giro i neonati? Un lettino con rotelle?".

Demelza alzò le spalle. "In realtà è comodo, sai?".

Ross non sembrò molto convinto della cosa. "E' una delle invenzioni più assurde che abbia mai visto. I neonati amano stare in braccio".

Sorrise, certe cose di Londra a una persona pratica come Ross dovevano apparire davvero bizzarre e la divertiva il modo stupito e un pò sperso in cui lui si approcciava ad esse, con lo stesso sguardo di meraviglia che aveva Demiam quando scopriva qualcosa di nuovo che non conosceva.

Margarita ed Edward li raggiunsero appena varcati i cancelli. Il pancione di lei era evidente ormai, anche se mancavano ancora tre mesi alla nascita del bambino e l'abitino di mussola bianca che indossava, lo rendeva ancora più visibile. "Demelza e...". La ragazza si bloccò, guardando Ross stupita. "Signor Poldark...?". Guardò lui, guardò lei e poi di nuovo lui e poi sorrise divertita. "Ohhh".

Edward li raggiunse, salutando e stringendo la mano a Ross. "E' un piacere rivedervi, ci siamo incontrati a Natale se non mi sbaglio, alla festa di Lady Boscawen".

"Esattamente. E' un piacere anche per me, rivedervi" – rispose Ross.

Margarita prese per mano Demelza. "Hai un accompagnatore e non mi hai detto niente?".

"Ho un accompagnatore e non ti ho detto niente..." - le rispose, civettuola, accarezzandole il pancione. "Come va?" - domandò, immaginando che pure lei, a breve, sarebbe stata nelle medesime condizioni.

Margarita sospirò. "Mi sento grassa come un elefante e felice come una gazzella libera di volare in cielo. E affamata come un bisonte... Santo cielo, mia madre dice che a furia di compare cibo per me, Edward andrà in rovina e sarà tutta colpa mia!".

Demelza e Ross si scambiarono uno sguardo divertito. "Sempre carina e gentile tua madre, è?".

Margarita ci pensò su, mentre tutti e quattro si avvicinavano a dei tavolini imbanditi con vino e cibo, sistemati sotto a un porticato circondato da piante. Il parco era immenso e verdeggiante, i vialetti sterrati erano stati puliti da foglie e rami secchi caduti a causa della pioggia e tante persone che frequentavano il centro per allenarsi, passeggiavano con famigliari ed amici.

"Mia madre, gentile? No, non gentile! Mi è utile, Demelza!" - esclamò Margarita. "Grazie a lei, capisco come devo essere madre! Mi sta insegnando".

Edward e Demelza, che conoscevano bene Lady Constanze, spalancarono gli occhi mentre Ross, un pò in disparte, osservava la conversazione con aria divertita.

"Margarita, sei impazzita?!" - chiese Demelza. "Ciò che è tua madre, è ciò che NON devi essere tu coi tuoi figli!".

Margarita annuì, con ovvietà. "Appunto! Io guardo lei, ascolto lei, imparo da lei e capisco che tutto quel che dice e fa è ciò che io non dovrò dire e fare!".

Demelza rise, Edward tirò un sospiro di sollievo e Margarita guardò Ross che forse non ci stava capendo un accidenti. "Sapete signor Poldark, mia madre è una specie di megera. Siete fortunato a non conoscerla, saprebbe far sentire inadatto anche un uomo dal carattere forte e deciso come voi".

Ross le sorrise timidamente. "Il mondo è pieno di genitori così. Avevo uno zio che era quel tipo di padre che somiglia a vostra madre e purtroppo è stato la rovina del figlio. Ma voi mi sembrate una persona in gamba e forte, nonché una piacevole compagnia".

Margarita scosse la testa, prendendo la mano di Edward. "Oh, non in gamba, io non so fare niente! Dico davvero! A volte vorrei rendermi utile ma sono goffa e alla fine ho deciso che il mio posto è a casa, a curare il mio giardino, a preparare cioccolata calda di sera per me ed Edward e a preparare l'occorrente per il mio bambino".

Ross rimase sconcertato da quella incredibile sincerità e assenza di malizia. "Ognuno ha il suo posto nel mondo e se voi avete trovato il vostro e vivete serena, allora va bene. Siete una brava persona, due brave persone e non fate del male a nessuno. Questo è l'importante".

Edward si intromise nel discorso. "Io in realtà provo anche a fare politica ma per ora, con scarsi risultati. Mio padre dice che la mia fortuna è essere nato in una famiglia ricca, altrimenti sarei morto di fame".

Ross sospirò. "Gli scarsi risultati in politica, sono male comune. Non che io combini molto...".

Demelza, rimasta in silenzio, osservò Ross. Sembrava tanto rilassato e tranquillo in quella conversazione e conoscendolo, le era così chiaro vedere quanto apprezzasse la compagnia discreta dei suoi due amici aristocratici ma tanto lontani dall'idea negativa che Ross aveva sempre avuto della nobiltà.

Chiacchierarono per un pò e poi Margarita, di nuovo affamata, andò con Edward al buffet e Demelza ne approfittò per chiedere a Ross di fare due passi.

Lui la prese sotto braccio e lei lo portò nel parco per fargli vedere dove ci si esercitava con l'arco. "Non è poi così spaventoso, no?".

"No" – rispose lui, tranquillo. "Mi piacciono quei due, sono...".

"Gentili?".

"Semplici... Brave persone che non vogliono apparire più di ciò che sono. E questo è uno dei maggiori pregi che possa avere un essere umano".

Demelza sorrise. "Sai, Margarita è stata la prima amica che ho trovato a Londra dopo Caroline. L'ho adorata subito e da allora faccio tante cose insieme a lei".

"Sua madre è così terribile?".

Avvicinandosi a una delle postazioni di tiro, Demelza prese in mano un arco e una freccia. "Oh, potrebbe ricordarti la signora Teague".

"Che Dio ce ne liberi!". Poi le si avvicinò, osservando l'arco che Demelza teneva in mano. Lo sfiorò con le dita, catturato dalla lucentezza del legno. "Non ne ho mai usato uno. E' complicato?".

"Forse sì, forse no. Dipende se uno ci è portato. Io e Margarita abbiamo sbagliato passatempo, noi siamo disastrose".

Ross le sfiorò la vita e la attirò a se, facendole appoggiare la schiena contro il suo petto. Le mise l'arco in mano e poi prese una freccia, aiutandola a tendere l'arco. "Non ho mai tirato con l'arco ma sai, a volte una cosa difficile appare più facile se la si guarda da prospettive diverse".

"Che vuoi dire?".

Ross osservò attentamente la lunga freccia che teneva fra le mani. "Credo che la freccia, sia da considerare un prolungamento della mano. La punta delle tue dita. Tendi il braccio, non fare troppa attenzione al bersaglio ma guarda la tua mano e immagina che la freccia ne sia una parte, l'ultima. Poi, solo alla fine guarda il bersaglio e fa finta di volerlo toccare col dito. E poi scocca".

Demelza si voltò verso di lui a bocca aperta. "Non è così facile, c'è il vento da tenere in considerazione, la distanza, la forza per tendere l'arco... Mille variabili".

"Prova!" - insistette lui.

"Prova con me, allora". Demelza tese l'arco, con la mano di Ross a coprire la sua per aiutarla a dare forza, osservò la punta della freccia e decise di non pensare al vento e alle mille altre cose che le avevano detto di tenere in considerazione. E poi, col calore della mano libera che Ross aveva posato sul suo fianco, immaginando quanto il loro bambino fosse vicino ad essa, scoccò la freccia.

Non fecero centro ma colpirono quanto meno il bersaglio. E Demelza rise. "Nessun piccione morto!".

Anche Ross rise. "E' già di per se una vittoria! Potrei pure diventare bravo in questo sport, se mi ci mettessi d'impegno!".

Lo abbracciò, forte, affondando il viso nel suo petto. Si sentiva incredibilmente serena in quel momento, come non le capitava da tanto. Posò la mano ancora una volta sul suo ventre piatto, cercando di dare calore al suo bimbo e fargli sentire che accanto a lui o lei, c'erano la sua mamma e il suo papà. Insieme!

Ross non capì, non poteva capire come si sentisse in quel momento ma la abbracciò, vivendo con lei l'attimo. "Se qualcuno ci vedesse?".

Lei sorrise. "Credo che non me ne importerebbe. Solo una cosa conta, ora. Io, te, la nostra storia. Ciò che siamo adesso, quì, è il risultato di essa, errori compresi. E non dovremmo demonizzare più, né io né te, quegli errori ma essere fieri di aver imparato da essi. E ringraziarli perché ci hanno dato tutto ciò che abbiamo ora".

Ross le accarezzò i capelli, piano. "Manca ancora qualcosa, però... I bambini...".

Lei gli prese la mano, stringendola nelle sue. "I bambini... arriveranno..." - sussurrò. Si, decisamente sarebbero arrivati. Più di quelli che Ross immaginava. Una leggera e fresca brezza si alzò in quel momento, scompigliandole i capelli e facendola rabbrividire. "Si sta facendo tardi, torniamo a casa?".

Lui annuì. "Sì, direi che è ora. E poi oggi non sei stata nemmeno troppo bene e sta diventando freddo".

"Ora sto bene, sono solo preoccupata per i bambini. Hanno promesso di fare i bravi ma mi fido poco dei gemelli".

Ross, da gentiluomo, la prese sottobraccio. "Su, allora andiamo a salutare i tuoi amici e torniamo a casa". Poi si voltò, guardando il parco accigliato. "Sai una cosa?".

"Cosa?".

"Sarà pure uno sport da ricchi, ma il tiro con l'arco mi piace".

"Vuoi fare uno sport da ricchi?".

Ross ci pensò su, ridendo. "Naaaa, forse sto straparlando e ho bevuto troppo vino! Ti porto a casa prima di dire altre sciocchezze che comprometterebbero il mio essere sempre il bastian contrario della situazione".

"Hai paura di diventare... amabile?".

Lui annuì, serio ma anche divertito. "Che prospettiva orribile, no?".

Rise, di gusto, stringendosi a lui. "Terribilmente orribile".

Ross la baciò sulla tempia, dolcemente. "Su, allora andiamo a casa, mia lady".


...


Quando rientrò a casa, prima di lasciare Ross gli diede sul portone un lungo bacio, incurante che il maggiordomo venuto ad aprire, vedesse. Poi, come nel finale di ogni appuntamento che si rispetti, salutò promettendo di rivedersi presto, entrò in casa e raggiunse la sua camera.

C'era silenzio, i bimbi già dormivano e quando arrivò alla sua stanza, trovò ad accoglierla un piacevole tepore dato dalle candele accese alle pareti e Demian, steso sul letto che giocava con dei pupazzetti. "Mamma!" - esclamò il piccolo, saltando per terra e correndole incontro con indosso la sua camiciola da notte bianca.

Demelza allargò le braccia, stringendolo a se. "Amore... Ma sei ancora sveglio?".

"Sì, ti aspettavo!".

Lo portò fino al letto, facendolo sedere e poi facendo altrettanto. "Hai fatto il bravo?".

"Sì".

"Davvero?".

"Davvero! Non ho neanche pianto" – rispose lui, mettendosi a pancia in giù sul letto.

Demelza gli accarezzò la testolina. "Oh, allora sei quasi pronto per dormire da solo, sei un ometto ormai!".

Demian, a quella proposta non troppo gradita, si voltò verso di lei piccato. "Oh, se dici così, la prossima volta piango!".

Di tutta risposta, gli diede una pacca sul sederino, facendolo ridere e agitare le gambette. "Tua sorella ha lanciato qualcosa in testa allo zio?".

"Quale sorella?" - chiese il piccolo, prendendola in giro.

"Quella che lancia le cose!".

"Oh no. Siamo stati bravi fino all'ora del bagnetto! Poi però Daisy non ce l'ha fatta più ed è scappata dalla vasca da bagno tutta nuda e col sapone perché Prudie e Mary volevano usare quello che puzza di prato della nonna e a lei non piace. Lei è scappata veloce ma poi l'hanno ripresa e rimessa in acqua e allora Daisy le ha bagnate tutte e Prudie adesso c'ha il raffreddore! Ma per il resto, siam stati proprio bravissimi".

Demelza sospirò, che faccia tosta! "Demian!".

"Hai detto che dovevamo fare i bravi con lo zio e la nonna, non con Prudie e Mary..." - si giustificò il piccolo.

"Demian!!!".

Incurante delle sue occhiatacce, il piccolo le saltò sulle ginocchia. "Mamma, ho un amico nuovo. Anzi, un'amica!".

Cosa? Demelza osservò il suo piccolo principe! Come osava fare impazzire le tate e trovare un'amica che non fosse lei? "Chi sarebbe?".

"Hannah! Il signor Thomas che ci mette le piante in giardino, l'ha piantata stamattina e io l'ho chiamata Hannah e adesso siamo amici".

Sospirò, stranamente rinfrancata. Beh, stava parlando di una pianta, non di una persona... Il suo unico amore, per ora, rimaneva lei... "Hannah... Come sai che è una femmina".

"Perché fa i fiori rosa e allora è una femmina".

Ok, come spiegazione poteva funzionare. Gli stropicciò i capelli con una carezza e poi gli sorrise. Era incantata da lui, lo sarebbe stata sempre. "Me lo fai un favore, piccolo principe?".

"Certo".

"Resta sempre così, anche quando sarai grande! Continua ad essere amico di ogni cosa e sarai un grande uomo".

Demian annuì, come se per lui fosse cosa ovvia. "Certo!". Poi però la osservò meglio, pensieroso, scandagliandola in viso come spesso sapeva fare, trovando in lei l'accesso ai suoi pensieri più profondi. "Sei arrabbiata?".

"No, assolutamente. Sono molto fiera di te, sei un bambino davvero magico".

Demian sorrise, soddisfatto. "Lo so!".

"Davvero?".

"Sì certo. Magico e adesso che ci sono io, quando son nato sei diventata magica anche tu".

Rise a quella spiegazione. "Di solito sono i figli che somigliano ai genitori".

Lui non parve d'accordo. "Ma nooo! Tu somigli a me, siamo magici. Tu sei la mia mamma e sei magica da quando sono arrivato io. E anche un pò arrabbiata anche se dici di no. Oppure sei preoccupata".

Sussultò. Santo cielo, a Demian non sarebbe mai sfuggito nulla su di lei. Si accarezzò il ventre, facendosi mille domande su quel bambino, su come sarebbe stato accolto, sul terremoto che avrebbe generato in tutti e decise che aspettare un pò sarebbe stata la cosa giusta. Voleva pace e finché poteva, ne avrebbe goduto. Appena la cosa fosse stata di dominio pubblico, non sarebbe più stato un suo segreto, un qualcosa solo per se stessa. E lei aveva bisogno di quella pace e sì, di sentirsi magica come diceva Demian. "Non sono preoccupata, ma come dici tu mi sento magica".

Lui si illuminò in viso. "Davvero?".

"Davvero!".

"E' la prima volta?".

"Che mi sento magica?".

"Sì".

Demelza scosse la testa. "No, non la prima. La quinta...".


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Capitolo 66
*** Capitolo sessantasei ***


La partenza per la Scozia era avvenuta in una fresca alba di fine maggio da una Londra ancora deserta e sonnecchiosa.

Erano in tutto tre carrozze: in una viaggiavano Ross, Lord Falmouth e Dwight, unitosi all'ultimo su insistenza di Caroline che voleva un purosangue scozzese come dono per la gravidanza e – come aveva confidato a Demelza – un pò di pace dalle ansie del marito troppo apprensivo per il bimbo in arrivo. Riluttante, Dwight aveva deciso di partire. Mancavano ancora tre mesi al parto e con la promessa di tornare appena concluso l'acquisto del cavallo, si era messo in viaggio con loro. Nella seconda carrozza, la più grossa, viaggiavano Demelza e i bambini. Valentine aveva insistito per stare con loro e lei non se l'era sentita di dirgli di no. In fondo per il bambino, l'alternativa sarebbe stata viaggiare in una carrozza con tre uomini adulti che avrebbero parlato di affari e politica tutto il tempo ed era più giusto che lui stese con Jeremy e Clowance per conoscerli meglio. E con tutti loro, Fox e Queen, i cani di Jeremy e Clowance, i quali avevano insistito per portarli con se. Garrick, troppo anziano per un viaggio del genere, era stato lasciato a casa e affidato alle cure di Lady Alexandra che non era voluta partire mentre Tannen, ancora cucciolo, era stato lasciato coi Gimlet. Nella terza carrozza viaggiavano Prudie, Mary e due servitori addetti ai bagagli e ai bisogni di Falmouth.

E così, salutati tutti, erano partiti per quel lungo viaggio.

Demelza stava bene e nonostante il suo segreto e i timori per la gravidanza, era partita tranquilla. A parte i primi iniziali malesseri, poi non aveva avuto altri malori e anzi, le sembrava di non essere mai stata meglio tanto che nessuno, nemmeno Ross, aveva avuto dei sospetti per quel segreto che, complice la sua perfetta forma fisica, sarebbe potuto rimanere tale ancora un pò. Anche se la voglia di dirlo, soprattutto a Ross, pian piano stava prendendo il sopravvento...

Ma era presto, i bimbi erano ancora distanti dal padre e lei avrebbe usato quel viaggio, forse capitato al momento giusto, per avvicinarli a lui e smussare quanto meno gli angoli dei loro caratteri e dei loro rancori. E poi forse, avrebbe detto la verità a loro e al mondo...

Durante il viaggio, con Valentine era andata bene. Il bimbo era educato e tranquillo e nonostante la naturale riluttanza iniziale, alla fine Jeremy e Clowance avevano trovato in lui un compagno di giochi e chiacchiere e alla fine erano riusciti a fare quello che ai bambini riesce meglio, dimenticare i problemi ed essere semplicemente amici. Demian invece era rimasto al finestrino tutto il tempo, incantato dalla miriade di paesaggi sconosciuti che sfilavano davanti ai suoi occhi. Era curioso, aveva un animo sensibile ed attento e riusciva a vedere cose che agli occhi dei più sfuggivano. Faceva mille domande su quali alberi avessero visto, sugli uccelli che sfrecciavano sulle loro teste, sulle persone che incontravano, sui mulini della campagna e non si stancava mai di chiedere, come se la sua mente fosse affamata di immagini e nozioni nuove. Daisy invece era stata meno brava e mansueta. Tenerla ferma per quel lungo viaggio, chiusa in una carrozza, per lei era troppo. Demelza sapeva che avrebbe creato problemi e fatto capricci e già prima di uscire da Londra con la carrozza, la piccola aveva chiesto quanto mancasse alla loro destinazione finale. Aveva tentato di coinvolgerla in alcuni giochi e lo stesso avevano fatto Jeremy, Clowance e Valentine ma la piccola, irrequieta, era diventata capricciosa e intrattabile. Aveva fatto capricci per il cibo, per la carrozza, perché voleva dormire e non riusciva, perché i cani non giocavano con lei e per ogni cosa... Durante le soste, Prudie e Mary avevano tentato di farla sfogare ma lei sgusciava via alla loro presa, stizzita e stanca. Demelza era consapevole che a quattro anni quel comportamento fosse probabilmente normale in un viaggio tanto lungo. Falmouth invece ne era meno consapevole e dalle sue occhiate alla piccola, era evidente che nella sua mente fosse tornato in auge il tutore svizzero.

Solo Ross, da cui i bambini più grandi cercavano di tenere le distanze, riusciva a farla calmare. E durante le soste, lei gli saltava in braccio, gli cingeva il collo e piagnucolava un pò finché lui riusciva a farle tornare il buon umore.

"Voglio venire in carrozza con te, signor Poldark!".

A quella proposta, a Dwight e Falmouth si erano rizzati i capelli in piedi, Demelza era entrata in allarme, Prudie si era fatta il segno della croce e Ross... Ross aveva acconsentito senza battere ciglio.

Falmouth l'aveva guardato come fosse impazzito ma poi aveva dovuto cedere davanti alle teste dure di Ross e Daisy e alla fine, dopo aver giurato alla bimba che al primo capriccio l'avrebbe rispedita nella carrozza di sua madre, il viaggio era ripreso.

E da quel momento, con gran stupore di tutti, Daisy aveva fatto la brava. Seduta sulle ginocchia di Ross, aveva guardato fuori dal finestrino, fatto domande come il suo gemello, ascoltato i discorsi dei grandi e dormito quando era troppo stanca per stare sveglia.

Demelza era stupita e forse un pò invidiosa, avrebbe voluto essere lei a viaggiare con Ross anche se Falmouth aveva detto che la cosa sarebbe stata sconveniente per il casato e soprattutto per i bambini e che per ragioni di decoro, le carrozze per il viaggio dovevano essere separate. Ma era anche fiera, sia della bravura di Ross con un osso duro come Daisy, sia della sua orsetta che con con lui aveva trovato pace ed era riuscita a fare la brava.

Al nono giorno di viaggio, dopo infinite soste durante il tragitto, giunsero nella verdeggiane e selvaggia Scozia. C'era ancora della strada da fare ma erano ormai a buon punto.

Era come Demelza la ricordava: magica, verde, piena di infiniti prati e misteriosi castelli, punteggiata di villaggi che parevano usciti da un libro di fiabe e a quella vista, con un pizzico di malinconia, ricordò le leggende che Hugh le aveva narrato su quei luoghi quando con lui ci era venuta la prima volta. Sapeva che Ross forse ne avrebbe sofferto ma era impossibile non pensare all'animo romantico e poetico di Hugh per quella terra per lo più ancora da scoprire ed esplorare, quella terra che lui aveva guardato con la stessa meraviglia che ora rivedeva negli occhi curiosi del piccolo Demian.

Era impossibile non pensare al passato ed era altrettanto impossibile non pensare al futuro e a ciò che la aspettava con Ross. Demelza approfittava delle soste per i pranzi per stare un pò con lui, chiacchierare, domandare come andasse con Falmouth e Daisy, condividere insieme dei brevi istanti di coccole. Era strano essere con Ross in terra di Scozia, era strano pensare che lì c'era stata con Hugh e Ross dal canto suo doveva sentirsi a disagio a quei pensieri, anche se cercava di non darlo a vedere e di non farglielo pesare. E così, di nascosto dal mondo, quando tutti mangiavano e non badavano a loro, si rintanavano per alcuni istanti in qualche posto un pò isolato per ritrovarsi e guardarsi negli occhi in quel loro modo unico e silenzioso in cui sapevano dirsi senza parole che tutto andava e sarebbe andato bene. Demelza avrebbe voluto che anche i bambini si avvicinassero un pò più a Ross e avrebbe cercato il modo affinché questo avvenisse anche perché ora, anche se gli stavano alla larga, percepiva soprattutto in Jeremy timore e paura più che rabbia verso di lui. E anche Clowance, anche se distante da suo padre, ogni tanto lo osservava di nascosto, pur senza rivolgergli la parola. Ross ne soffriva e lei lo vedeva, anche se lui non diceva nulla. E in cuor suo Demelza desiderava per lui, per loro, per il piccolo in arrivo, che tutto si sistemasse al meglio. Ross aveva bisogno dei suoi figli e i bambini avevano bisogno di lui. E su questo, Falmouth aveva ragione. Sarebbe stato bello, anche se temeva di sperarlo, se un giorno tutti loro insieme, fossero stati una vera e grande famiglia. Lo sperava e sognava per tutti coloro che amava, grandi, piccoli e non ancora nati. Accarezzava il suo pancino ancora invisibile, immaginava la gioia che avrebbe provato Ross e il visino di quella bimba che aspettava. Sì, se lo sentiva nel sangue, sarebbe stata una femminuccia e in lei Ross avrebbe trovato tutto ciò che aveva perso con le sue due prime bimbe che non aveva potuto amare. Anche per questo era contenta che Daisy gli fosse tanto attaccata: per lei, che mai aveva avuto braccia paterne a stringerla e a farla sentire sicura e per lui, a cui la piccola donava sensazioni e momenti che Ross non aveva potuto vivere a causa del destino avverso con Julia e dei suoi errori con Clowance.


...


Avevano fatto una sosta per il pranzo e per far prendere fiato ai cavalli in una piccola locanda scozzese in mezzo a una foresta. Intorno solo natura rigogliosa, una strada sterrata, piante altissime, muschio, il canto degli uccelli e un cielo grigio e carico di umidità che prometteva pioggia.

I bimbi avevano mangiato in piedi, giocando e sgranchendosi le gambe dopo tutte le ore passate in carrozza mentre gli adulti si erano seduti a chiacchierare del più e del meno.

I gemelli si erano messi a giocare vicino al tavolo, come sempre non troppo entusiasti di mangiare, Falmouth aveva tentato di intavolare un discorso politico sulla superiorità degli inglesi con l'oste scozzese e per poco non provocava uno strappo politico a cui Ross, con l'aiuto di Dwight, aveva posto rimedio all'ultimo, prima che la situazione degenerasse.

Demelza si era intrattenuta al tavolo a fianco con Prudie e gli altri servitori che erano partiti con loro e anche se, a malincuore, aveva dovuto mangiare separata da Ross, spesso i due si erano lanciati sguardi allusivi e di intesa.

Dopo un pò Jeremy aveva ottenuto il permesso di andare a far correre Fox nel bosco lì vicino e Valentine si era accodato a lui mentre Clowance, non troppo desiderosa di stare coi maschi, aveva chiesto il permesso di fare due passi in direzione opposta con Queen, fino a un piccolo laghetto ad alcune decine di metri di distanza dalla locanda.

Demelza, dopo mille raccomandazioni ma rinfrancata dalla presenza della lupa albina, l'aveva fatta andare e poi, dopo aver inseguito i gemelli e averli costretti a mangiare della carne, si era allontanata a sua volta per sgranchirsi le gambe.

Prima di andare però, aveva lanciato uno sguardo d'intesa a Ross e lui l'aveva captato al volo. E mentre Dwight cercava di spiegare a Falmouth che in terra di Scozia non era carino insultare le usanze locali, ne approfittò per inseguirla nel bosco.

Appena la raggiunse, mentre passeggiava tranquilla fra gli alberi, le cinse da dietro la vita, baciandola sul collo. "Catturata!".

Lei si voltò, ridendo, decisamente poco sorpresa dalla sua apparizione. "Giuda, ce ne hai messo di tempo ad arrivare! L'altra notte sei stato più veloce e spericolato".

Ross ripensò a due giorni prima quando, approfittando del fatto che tutti stavano dormendo nella loro stanza nella locanda che li aveva ospitati, era sgusciato in piena notte di nascosto nella camera dove dormiva Demelza. Era stato silenzioso come un gatto e lei aveva riso quando l'aveva visto arrivare, facendogli notare che se Demian, che dormiva nel lettone con lei, si fosse svegliato, sarebbero stati guai.

Impudentemente l'aveva baciata di soppiatto sulle labbra e sul collo, aveva rimarcato il fatto che Demian doveva imparare a dormire PRESTO da solo e poi era ritornato nella sua stanza da Valentine, soddisfatto della sua sortita. Avrebbe desiderato di più ma col gemellino nel letto, sarebbe stato difficile...

"La notte mi rende ardito! Anche il tuo cottage a Londra mi rende tale ma ora, strada facendo, in locande piccole e con Falmouth e mille bambini attorno che ci guardano, è tutto più complicato".

Lei gli accarezzò la guancia. "Falmouth ha intenzione, finché non troveremo un castello che gli piaccia, di affittare una grande villa di campagna per il periodo che ci fermeremo quì. Lì sarà più facile vedersi".

Ross prese un profondo respiro, guardandosi attorno. La natura era rigogliosa e selvaggia e per quanto diversa dall'Inghilterra, in un certo senso ne era affascinato. "E' un bel posto e dopo tutto, spero non venga colonizzato dal tuo zio acquisito".

Demelza lo imitò, guardandosi attorno ed appoggiandosi con la schiena al tronco di un albero. "E' vero! Ho amato la Scozia fin dal primo sguardo che ho posato su di essa...".

"Quando ci sei venuta con Hugh?" - chiese, interrompendola, con una nota di gelosia nel tono di voce.

Demelza se ne accorse. "L'ho amata per la terra che è, non perché c'ero venuta con Hugh!".

"Pensi a lui, ora?".

"Quì?".

"Sì, quì".

Demelza si oscurò. Ross non voleva essere geloso ma in un certo senso era normale che il pensiero di quanto avessero condiviso lei e il poeta in quelle terre, lo turbasse. "Sì, penso a lui. Quì, adesso! Anche se in questo bosco non ci siamo stati e allora, abbiamo seguito un tragitto diverso. Penso a lui con dispiacere perché era una persona giovane e avrebbe amato fare questo viaggio. Penso a lui quando guardo Demian che scruta con curiosità tutto ciò che di nuovo scopre, con lo stesso stupore che aveva lui".

Ross abbassò lo sguardo, a disagio sia per la sua gelosia che non voleva provare, che per la franchezza di Demelza. Non voleva che lei mentisse ma in un certo senso faceva male anche la verità. "E tu... Per quanto ti riguarda, per quanto concerne TE, lo pensi?".

Demelza lo guardò storto. "Non nel senso in cui credi tu! Lo penso, come ognuno di noi pensa a chi ha incrociato la sua vita con la nostra e se n'è andato, lasciando un segno in noi. Ma ora, io, sono felice. Di essere quì, con te! Ed è un nuovo viaggio questo, che abbiamo intrapreso insieme ben prima di partire per la Scozia. Io, te e se saremo uniti, i bambini...".

La strinse a se, attirò il suo viso contro il suo petto e affondò le labbra fra quei capelli rosso fuoco che lo stregavano. Non doveva essere geloso, non di lei! MAI! Demelza non lo meritava e lui non ne aveva il diritto. "Scusa... E' che a volte, essere quì e magari sognare di essere da qualche altra parte solo io, te e i bambini, mi fa diventare pessimo".

Demelza fece un sorriso dolce e rassicurante, incrociando lo sguardo col suo. "Dove vorresti essere?".

"Si può sognare?" - chiese lui.

"Certo che sì".

Ci pensò su un attimo. "In una di quelle isole tropicali e calde che ho incrociato tanti anni fa mentre tornavo dalla Virginia. Palme, sole, spiagge, mare e nessuno che ti disturbi. Vorrei essere lì, in una capanna fatta di bambù, tutto il giorno a letto con te e i bambini liberi che giocano, fuori, senza freni o limiti".

Demelza rise, di gusto. "Sembra un bel sogno, eccetto per una cosa: io e te tutto il giorno a letto sarebbe bello ma in questa ipotetica isola deserta, chi ci procurerebbe il cibo per sopravvivere?".

Ross sospirò, diventando per un attimo malinconico, rendendosi conto che per quel momento, quello era davvero solo un sogno. "Con tutti i bambini che ci gravitano attorno, potremmo far lavorare loro e non fare nulla tutto il giorno noi". Certo, sarebbe stato bello se Clowance e Jeremy lo avessero voluto con loro e amato...

Demelza, per consolarlo, gli diede una pacca amichevole sul braccio, poi si rannicchiò contro di lui. "Quali bambini?" - chiese.

E Ross capì che anche lei aveva paura, cje voleva certezze e rassicurazioni e che una frase detta proprio da Lord Falmouth quando avevano parlato con lui a Londra, faceva al caso suo. La baciò sulla nuca, poi raggiunse il suo orecchio con le labbra. "Tutti quelli che ci chiamano o mamma o papà... Che ne dici?".

Gli occhi di Demelza brillarono e il suo viso assunse un'espressione nuova, di speranza. "Dico che è una bellissima idea. Quelli che ci chiamano a quel modo, sono tanti".

"Succederà?" - le domandò, sentendo che era il suo turno di avere rassicurazioni.

"Io sono sicura di sì".

Un urlò di Falmouth che proveniva dalla locanda ed era indirizzato a uno dei gemelli che ne aveva appena combinata una delle sue, fece sussultare Demelza, spezzando il loro momento romantico ed intimo. "Giuda, che sarà successo?".

"Vuoi che vada io?" - si propose Ross.

Demelza gli diede una pacca sulla schiena. "No! Fai già troppo e sai far filare dritta Daisy persino meglio di me. Ora devo riprendere il comando sui miei bambini".

"Gelosa?".

Demelza, incamminandosi sul sentiero, si voltò verso di lui. "Ovvio! Demian mi adora ma Daisy sta tutto il tempo a parlar fitto con te e fa persino la brava in carrozza, dopo che per giorni ci ha fatto ammattire tutti! Di che parlate?".

Ross guardò il bosco, pensando alle tante sconclusionate parole scambiate con la piccola. "Vuole sapere se quì ci vivono degli orsi. Credo non abbia abbandonato del tutto l'idea... E mi chiede spesso come sia il mare ed è affascinata dai racconti sui pirati".

"Non parlarle di pirati! O vorrà diventarlo!" - lo rimproverò Demelza. "Hugh diceva che quella sarebbe stata la sua strada e lo asseriva quando lei non era che una neonata".

Ross rise. "E temo avesse ragione...".

Demelza lo fulminò con lo sguardo. "Vado dai bambini, tu prosegui pure la tua passeggiata e lascia che recuperi il polso della situazione coi miei gemellini".

Divertito, Ross annuì. E dopo averla baciata sulle labbra e lasciata andare, proseguì nella sua passeggiata. Aveva voglia di sgranchire le gambe, da morire.

Camminò nel bosco per alcuni minuti, finché da lontano, in mezzo alle piante di una radura, vide Jeremy che giocava con Valentine e il piccolo Fox.

Il cagnolino, dal pelo rosso come quello di una volpe, correva felice da un bimbo all'altro, riportando i pezzetti di legno che i due gli lanciavano. I bambini ridevano, sembravano andare d'accordo e aver superato le divisioni fra loro nate per colpa sua. Due amici... due fratellini che giocavano... Si vergognò di se stesso per la situazione che aveva generato e si sentì orgoglioso di come i suoi figli avevano saputo risolverla. Erano migliori di lui, entrambi... Avrebbe voluto raggiungerli e giocare con loro come ogni padre avrebbe fatto, avrebbe voluto prenderli per mano e riportarli dalla loro madre ma capì che in quel momento sarebbe stato di troppo e avrebbe creato solo tensioni.

E si accontentò di vedere il ragazzino che il suo Jeremy era diventato, tanto lontano da quel piccolo bimbo che giocava col suo cavallino di legno a Nampara e Valentine, ormai in piena salute e vivace.

E così, dopo averli osservati di nascosto per un pò ed essersi impresso nella mente il loro giocare e ridere, proseguì fino al laghetto.

Clowance era lì da sola e anche se non aveva voglia di parlare con lui e lo temeva, da padre sentiva di dover dare un occhio anche a lei. Per anni non era stato che un'ombra oscura nella vita di sua figlia e non voleva più esserlo. Era la sua bimba, la bimba venuta dopo Julia. L'avrebbe adorata se tutti fossero rimasti a Nampara, sarebbe stata la sua cocca, ce l'avrebbe avuta sempre in braccio e ora... Ora non poteva che guardarla da lontano, mentre cresceva come un'estranea ai suoi occhi.

Giunse al laghetto, camminò fra l'erba alta e infine la vide.

Con Queen giocava sulla riva del lago e anche se l'acqua era fredda, si era tolta le scarpe e camminava sul bagnasciuga, seguita dalla sua fedele lupa.

Rimase per un attimo senza fiato ad osservarle. Erano identiche! Entrambe maestose, bellissime, regali e fiere nel loro incedere, sembravano davvero due regine. Queen era una lupa albina stupenda, che incuteva rispetto e timore solo dallo sguardo. E Clowance era il suo alter-ego per bellezza e regalità e guardandole insieme, a Ross parve di percepire la mano del destino nell'incontro fra quelle due anime tanto simili, sfuggenti e destinate a vivere in simbiosi. I capelli biondi e pieni di boccoli di sua figlia ondeggiavano nel vento come il lungo pelo di Queen, il suo vestitino bianco la rendeva simile a una bambolina e i suoi occhi così incredibilmente azzurri, erano visibili anche a quella distanza. Lui e Demelza avevano dato vita a un capolavoro e da stupido, non era stato in grado di proteggere quel dono che la vita e la donna che amava gli avevano fatto.

Sorrise vedendo Clowance a piedi nudi, non era da lei e di certo l'aveva fatto perché sapeva di essere sola e non vista. In quel momento, anche se elegante e aggraziata, era una bambina che voleva giocare e sperimentare e non era diversa da Daisy che in quel luogo, avrebbe fatto le medesime cose.

Osservò Clowance che si chinava a raccogliere uno strano fiore rosso, la vide farlo annusare a Queen che paziente la lasciava fare e poi la osservò metterselo fra i capelli, ridendo mentre ammirava il suo riflesso nell'acqua.

Improvvisamente però, mentre camminavano, Queen si bloccò, mettendosi a guaire dal dolore e rannicchiandosi per terra.

L'incato si interruppe e Clowance si fermò, terrorizzata, inginocchiandosi di fianco all'animale per vedere cosa avesse.

Ross entrò in allarme e capì che doveva andare da loro per vedere cosa fosse successo. Queen piangeva dal dolore leccandosi una zampa, gli altri erano troppo lontani per sentire e la piccola Clowance piangeva spaventata.

"Che succede?" - disse, comparendo dal nulla fra i rovi, davanti alla bambina e alla lupa.

Alla sua vista, Clowance spalancò gli occhi guardandosi attorno come in cerca di aiuto o qualcuno dietro al quale nascondersi, come faceva sempre quando lo vedeva nei paraggi. "Che... Che ci fate quì?".

Ross, cercando di ignorare il dolore che la paura di sua figlia suscitava in lui, si inginocchiò davanti a Queen. "Passeggiavo, come te. Che cos'ha Queen?".

La piccola lo osservò mentre toccava le zampe del cane in cerca della soluzione a quel malessere. "Non la toccate! E' una lupa e si lascia avvicinare solo da me".

"Beh, credo che stavolta Queen dovrà scendere a patti con me".

Clowance si tirò in piedi, quasi volesse scappare. "Vado a chiamare lo zio".

Ross alzò lo sguardo su di lei e in quel momento decise che doveva prendere in mano la situazione e fare il padre. "Scapperesti lasciando quì Queen da sola, con me? Una vera amica non lo farebbe, Queen non ti lascerebbe sola. E con tutto rispetto, tuo zio non saprebbe aiutarla".

Clowance deglutì. "Ma... Ma io voglio cercare aiuto".

"IO sono un aiuto, adesso!" - ribadì Ross. "Fidati, ho a che fare con gli animali da quando sono piccolo e di solito, quando un animale piange improvvisamente come Queen mentre cammina..." - Toccò la zampa posteriore sinistra della lupa, rendendosi conto al tacco che vi era conficcata una lunga spina – "Ecco, non è nulla di grave!" - disse, togliendola dalla zampa dell'animale e mostrandogliela.

Queen lo lasciò fare, capendo che voleva solo aiutarla e Clowance osservò la sua mano aperta. "Cos'è?".

"Una spina, tutto quì".

La piccola si inginocchiò davanti all'animale, prendendole il muso fra le mani per accarezzarlo. "E' grave?".

"No, è praticamente già guarita".

Di tutta risposta l'animale si tirò su, azzardando alcuni passi. E dopo aver constatato di non avere più dolore prese a scodinzolare, strofinandosi contro la sua gamba e leccando il visino di Clowance.

La bambina parve sorpresa da quella dimostrazione d'affetto verso entrambi. "Non vi ha morso!".

"Sapeva che volevo aiutarla, gli animali sono intelligenti".

Clowance abbassò lo sguardo, a disagio. "Ma non siete comunque il suo padrone, non pensateci nemmeno!".

"Lo so, la sua padrona sei tu! Anche se volevi scappare" – concluse, cercando di provocarla per vederne la reazione.

Colta sul vivo, Clowance divenne rossa in viso. "Non volevo scappare!" - sbottò, smascherando il suo orgoglio.

"Certo, certo...". Ross le sorrise, in lei c'era davvero così tanto dei Poldark e su questo Demelza aveva ragione. Avrebbe voluto chinarsi a prenderla in braccio quella sua bambina testarda e perduta ma sapeva che era presto e che lei non l'avrebbe presa bene. E allora, le tese la mano. "Vuoi tornare alla locanda con me?".

Clowance osservò la sua mano, incerta, dando l'impressione che forse, forse... Ma poi indietreggiò di alcuni passi. "So camminare senza essere tenuta per mano, non sono piccola come i gemelli".

Ross annuì, capendo che voleva comunque mantenere le distanze. "E' vero, scusa".

"Ma posso... Posso comunque farmi accompagnare da voi fino alla locanda, una Lady con la sua lupa non possono camminare troppo da sole in un bosco, senza un accompagnatore, signor Poldark".

Ross rimase per un attimo senza parole. Faceva male quel modo formale in cui lei si rivolgeva a lui, faceva male non sentirla dire la parola 'papà', faceva male sapere di non aver vissuto tante cose di lei. Ma Clowance gli stava dando una possibilità, con grazia ed intelligenza, mantenendo al contempo il suo ruolo da lady che la faceva sentire tanto sicura. Era fiero di lei, come lo era stato poco prima di Jeremy e Valentine. "Hai ragione. Quello è il tuo ruolo e il mio è accompagnare le piccole Lady a casa, al sicuro".

"Sì" – rispose la piccola, prima di incamminarsi con lui e Queen nel sentiero che portava alla locanda.



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Capitolo 67
*** Capitolo sessantasette ***


Erano giunti a destinazione nel tardo pomeriggio, dopo giorni di incessante viaggio attraverso boschi, paesaggi selvaggi, piccoli villaggi spersi in mezzo al nulla e sotto a un cielo plumbeo che ben poco aveva a che fare con la tarda primavera.

Falmouth aveva affittato un antico maniero a ridosso di una foresta rigogliosa. Era un caseggiato austero, antico, completamente costruito in pietra e delimitato da un fossato che si poteva passare unicamente con un ponte levatoio. Il maniero aveva forma quadrata, con un cortile interno costellato di portici e ballatoi al piano superiore e un pozzo al centro di esso.

Sembrava di essere tornati in pieno medioevo, pensò Ross mentre con Falmouth, i gemelli e Valentine percorreva il ballatoio del primo piano sbirciando dai tornelli il paesaggio circostante e il cortile dove dei servitori scozzesi assunti all'ultimo e decisamente poco felici di lavorare per degli inglesi, facevano avanti e indietro per rendere gradevole il loro soggiorno. Demelza, Jeremy, Clowance e Dwight erano coi servitori giunti da Londra a predisporre le stanze dove avrebbero dormito e il salone da pranzo dove avrebbero mangiato mentre Falmouth, orgoglioso della sua trovata e desideroso di espandere da subito la sua influenza in quelle terre, non faceva che parlare delle sue prossime mosse.

Col bastone da passeggio, indicò ai gemelli il rigoglioso paesaggio che li circondava. "Lo vedete, lo vedi Demian? Un giorno tutto questo sarà tuo!".

Il piccolo si mise in punta di piedi per arrivare al parapetto e sbirciare fuori. "Tutti questi alberi?" - chiese, diventando rosso sulle gote per l'emozione. Ogni albero per lui era un amico da esplorare e quella prospettiva datagli dallo zio doveva sembrargli una specie di enorme regalo di Natale.

Ma Falmouth spense subito i suoi sogni. "Non gli alberi, la Scozia!".

"Ohhh" – mormorò Demian. "Ma io non voglio la Scozia! Io voglio andare sulla luna!".

Ross credeva che Falmouth avrebbe dato fuori di matto per tutta quella disarmante sincerità ma il lord lo stupì, annuendo pensieroso. "La luna è fuori dalla nostra portata, per ora. Ma tu sei un Boscawen e fai bene a non porti limiti, il nostro casato conquista da sempre tutto quello che vuole. Ma per ora, accontentati della Scozia e di civilizzare con le tue sorelle e tuo fratello questi selvaggi che la popolano".

Daisy sbuffò, Demian lo osservò senza capire di che diavolo stesse blaterando e Valentine, probabilmente divertito da quel bizzarro modo di fare, si mise la manina sulla bocca per non scoppiare a ridere.

Falmouth finse di ignorarli, prendendo a camminare. "Vado a vedere lo stato della mia stanza. Gli standard di pulizia di questi selvaggi sono molto inferiori ai nostri e il personale va istruito. A dopo, signor Poldark!".

Ross lo guardò andarsene e infine sospirò sollevato, dando un buffetto sulla testolina a Valentine. "Non si ride in faccia alla gente adulta!".

"Ma ho messo la mano davanti alla bocca!".

"Lo so, ma non si fa lo stesso".

"Ma parla in modo strano, dice cose strane quel signore!" - si giustificò il bambino.

I gemelli si guardarono in faccia, ridacchiando, evidentemente per nulla offesi da quelle parole sul loro zio. Ross li prese in braccio, mettendoli a sedere sul davanzale affinché vedessero di sotto e Valentine si arrampicò per fare altrettanto.

Nel cortile i servitori correvano avanti e indietro e l'aria era pregna dell'odore della pioggia. Il tempo era pessimo e in quel momento Ross provò nostalgia per la ventosa e serena estate della Cornovaglia, passata in spiaggia a camminare fra le onde del mare.

La vocina di Demian, stupita, lo riportò alla realtà facendolo sobbalzare. "Guardate! Un signore maschio con la gonna!".

Daisy rise, Valentine si sporse per vedere meglio e Ross si affacciò. Un omone grande e grosso dalla lunga e folta barba rossa, la stazza imponente e un'espressione sul viso decisamente poco amichevole, entrò in cortile con indosso il tipico abbigliamento scozzese che Falmouth tanto odiava. Ross rimase per un attimo spiazzato. Allora gli uomini in gonna non erano una leggenda! E per quanto fosse aperto di idee, quello strano abbigliamento lo metteva decisamente in difficoltà e in imbarazzo. Come poteva un uomo, mettersi una gonna?! Santo cielo, Falmouth aveva ragione, era indecente e per nulla virile!

"Se lo vede lo zio, lo fa frustare!" - mormorò Daisy.

Ross la guardò incuriosito. "Davvero?".

La piccola alzò le spalle. "Sì. Lo zio dice che abbiamo vinto la guerra e che loro non possono più vestirsi come femminucce e che chi lo fa, viene frustato".

Valentine guardò suo padre preoccupato e Ross gli accarezzò la testa per tranquillizzarlo. Poi sorrise ai gemelli, pensando al figurino di Falmouth rapportato al mastodontico uomo in gonna in cortile. "Oh, nessuno frusterà nessuno. Vostro zio è intelligente e sa benissimo che se facesse qualcosa a quell'uomo, passerebbe la serata con Dwight a farsi ricucire le ferite".

Demian annuì. "Sì, poi magari non è nemmeno colpa di quel signore! Magari la sua mamma si è dimenticata di dirgli che è un maschietto e lui non lo sa".

Ross rise, di gusto. Santo cielo, gli sproloqui dei bambini erano una cura contro la tristezza. "Chissà... Ma tu non dirglielo, è giusto sia sua madre a spiegargli come essere uomo e virile".

I tre bimbi lo guardarono accigliati. "Virile? Che vuol dire?".

Ross sudò freddo. Aveva usato quel termine già con Jeremy e si era cacciato in un vicolo cieco e ora ci era ricascato. Come glielo spiegava? "Ecco... Virile vuol dire essere quel tipo d'uomo forte e vigoroso che piace tanto alle donne".

Daisy guardò lo scozzese in cortile. "Quello mi sembra già forte, anche con la gonna".

"E io quando divento virile?" - domandò Demian.

Ross prese la palla al balzo. "Quando sarai tanto forte e coraggioso da dormire da solo, nella tua stanza, senza la mamma".

Valentine rise ancora a quelle parole, imitato da Daisy. Demian invece si imbronciò. "Allora non voglio essere virile! E non voglio neanche la Scozia! Io voglio solo la mia mamma".

Ross sospirò. Sarebbe stata una lotta difficilissima quella e fra Demian che dormiva con Demelza e Falmouth che spiava ogni suo passo, sarebbe stato complicatissimo ritagliarsi dei momenti di intimità con la donna che amava.

Quasi si fosse materializzata dai suoi pensieri, la voce di Demelza lo raggiunse sul ballatoio. Ross e i bambini si voltarono, vedendola arrivare con Prudie, Jeremy, Clowance e i cani.

Queen si avvicinò a lui con cautela, seguita da un trotterellante Fox, annusandogli la mano e leccandogliela e gli altri fecero altrettanto.

Demelza tirò già dal parapetto i gemelli e poi, incuriosita, guardò a sua volta in cortile. "Bambini, la vostra stanza è pronta, che ne dite di andare con Prudie a vedere se va bene come ve l'abbiamo sistemata?".

Valentine le corse vicino, prendendola per il vestito. "Posso davvero dormire con Jeremy?".

Il ragazzino, rimasto silenzioso accanto a Prudie, annuì. Ross sapeva che Valentine aveva insistito per dormire con lui e sapeva anche che Jeremy era troppo ben educato per rifiutare. Ma in cuor suo vedeva i suoi figli maschi interagire e giocare insieme con piacere e quindi la speranza era che avesse accettato anche e soprattutto perché ne aveva piacere.

Demelza sorrise. "Certo, voi dormirete insieme, come Clowance e Daisy dormiranno insieme nella stanza accanto. C'è anche un altro lettino in camera dei maschi, nel caso Demian volesse unirsi a voi...".

A quelle parole, il piccolo picchiò i piedi per terra. Era la seconda volta nel giro di pochi minuti che qualcuno sollevava con lui quella discussione e la cosa pareva contrariarlo parecchio. "Nooooo!!! - piagnucolò, arrampicandosi in braccio a Demelza. "Non voglio essere un missile forte, voglio stare con te!".

Demelza si accigliò. "Missile?".

"Sì, ha detto prima quella parola il signor Poldark".

Ross ci mise un attimo a capire cosa stesse dicendo, ma poi una luce si accese nella sua testa. "Oh, virile, non missile!".

Demelza, guardandolo storto, mise in terra il bambino. "Ne parleremo dopo! E ora su, con Prudie tutti quanti a vedere le vostre stanze".

Jeremy prese in braccio Fox, annuì e salutò educatamente con un cenno del capo, i gemelli corsero via con Valentine e Clowance attirò a se Queen, riprendendone il controllo. Squadrò Ross dalla testa ai piedi, seria, forse ripensando al salvataggio alla sua lupa di alcuni giorni prima e poi si rivolse alla madre. "Che guardavano Demian e Daisy dal parapetto?".

Ross prese la parola. "Cosa c'è in cortile e la fuori. Demian ama gli alberi".

Clowance, che spesso si era dimostrata piuttosto brusca col fratellino, alzò le spalle. "Gli alberi sono tutti uguali, non so cosa ci trovi di bello" – borbottò, rivolta alla madre e indirettamente a lui.

Ross accettò la provocazione, era evidente che lei stesse facendo la saccente per vedere la sua reazione. "Ti sbagli e dovresti saperlo. A seconda nel luogo, del clima e della piovosità, si trovano piante differenti. Non te lo ha insegnato il tuo maestro?".

Clowance alzò le spalle, senza rispondere.

Ross proseguì e Demelza lo fece fare. "Dovresti ascoltare le lezioni che ti fa il tuo maestro, impareresti molte cose anche sugli alberi".

Clowance alzò lo sguardo su di lui, piccata. "Io ascolto! Non tutto! Solo le cose che sono importanti da ricordare. Il resto no, non si può sapere tutto e non è nemmeno necessario. Uno deve scegliere!". E detto questo, impettita, chiamò Queen, salutò di nuovo e poi sparì dietro ai fratelli sul ballatoio, lasciando soli finalmente lui e Demelza.

Ross la osservò andare via elegante e fiera, seguita fedelmente da Queen. "Non posso dire di non condividere la sua filosofia di vita. Vorrei solo che la esprimesse in toni meno duri, quando parla con me...".

"Ti ha parlato, questo in fondo è già un successo" – gli fece notare Demelza – "E lei odia studiare, non è come Jeremy. E quando gli si parla di studi, diventa aggressiva con chiunque".

Ross sorrise, osservando ancora verso il cortile. "In fondo mi somiglia così tanto ed è incredibile come il sangue che scorre in lei, anche se è cresciuta lontana da me, sia marchiato a fuoco dal temperamento dei Poldark". Poi si accorse che l'omone in gonna era ricomparso di sotto, portando dei grossi ceppi di legna sulle spalle. "Oh, sai che mi fa sentire strano vedere un uomo in gonna! In fondo Lord Falmouth non ha torto quando dice che non è normale".

Demelza lo occhieggiò, mascherando un sorriso. "Passi troppo tempo con lui, Ross! Attento o finirai per difendere gli interessi del re invece che quelli dei poveri".

Ross indicò con la mano lo scozzese. "Ma dai Demelza, la gonna è femminile! Come può un omone del genere...? E poi Daisy dice che è vietato indossarla, è vero?". Era strano, si sentiva smarrito come un bambino a cui bisognava spiegare tutto, in quella terra sconosciuta.

Demelza sospirò. "Ross, quell'uomo non ha un animo femminile, te lo assicuro! Quel genere di abbigliamento, se proprio vuoi saperlo, era tipico dei fieri guerrieri scozzesi. Ed è vero, dopo la sconfitta della Scozia nella battaglia di Culloden, gli abiti tradizionali son stati vietati dal governo inglese ma evidentemente la gente del posto, sapendo che quì ci sono degli inglesi, tenta di provocare sapendo che siamo in minoranza. E' la loro cultura Ross, la loro storia. E mi sembra tanto crudele vietare a questa gente di vivere come hanno sempre fatto da generazioni".

Era d'accordo con lei, su questo di certo. Mai avrebbe vietato a qualcuno di essere ciò che sentiva e se questo includeva una strana gonna indossata da un uomo, doveva farselo piacere anche se gli appariva bizzarro pensare a guerrieri in gonna anziché in divisa. "Sai molte cose!".

"Me le raccontò Hugh, lui amava la Scozia".

Ross deglutì, abbassando lo sguardo. Faceva sempre dannatamente male. "E... Ed è vero che se Falmouth lo vede con indosso quella roba, farà frustare quell'uomo?" - chiese, decidendo di cambiare argomento.

Demelza fece un sorrisetto sarcastico. "Non se è furbo. Quello scozzese è grosso tre volte lui e tu e Dwight non fate parte del contendere. Starà zitto, borbotterà e ideerà come conquistare tutto e tutti dall'alto del più grande castello della zona".

Il tono leggero della voce di Demelza gli ridiede buon umore e in un impeto di coraggio, tentò di baciarla. Ma la vocina dei gemellini che li chiamavano, lo bloccò a pochi centimetri dalle labbra di lei.

I due bimbi corsero verso di loro, seguiti da Valentine. "Venite, ci sono le fate di dietro, nel bosco! Le abbiamo viste dalle nostre stanze".

Ross e Demelza si guardarono increduli. "Fate?".

Demian, tutto eccitato, prese Demelza per mano. "Sì vieni, mille lucine nel bosco che volano! Sono fate, sono elfi!".

Demelza e Ross, interdetti, seguirono i bambini. Scesero le anguste scale di pietra esterne, sorpassarono nel cortile l'uomo in gonna e altri membri della servitù, percorsero il ponte levatoio e si ritrovarono a ridosso del bosco dove Jeremy e Clowance, coi loro cani, li stavano aspettando già.

Ross si guardò attorno, cercando di capire a cosa si riferissero i bambini. Stava imbrunendo e alla fine comprese la natura di quella magia. Nel bosco, fitto e come addormentato sotto strati di umidità e rugiada, volavano sciami di lucciole. Tante, tantissime, che danzavano nell'aria inseguendosi in voli sinuosi e lenti, senza prendersi mai. E anche se raramente qualcosa lo lasciava a bocca aperta, quello spettacolo riuscì in un certo senso a fargli credere alle medesime cose in cui credeva Demian. La magia esisteva davvero e bastava cercarla nelle piccole cose per trovarla... Era meraviglioso, un connubio fra natura, flora e fauna, erba, piante ed esseri viventi che in quelle terre vivevano e si fondevano alla perfezione gli uni con gli altri.

D'istinto prese per mano Demelza, a bocca aperta quanto lui. E con lei si diresse a piccoli passi verso quello spettacolo della natura, nella passeggiata più romantica che avessero mai fatto insieme.

Jeremy e Clowance, coi cani, ignorarono la sua presenza e corsero in avanti cercando di afferrare quelle lucine evanescenti. Valentine, incantato, si muoveva fra gli arbusti a bocca aperta, quasi senza respirare per l'emozione, imitato da Demian che era forse nel suo ambiente naturale, quello di elfi e fate. Quella visione avrebbe popolato i suoi sogni a lungo, ne era certo. E infine Daisy, sciolse la stretta della sua mano su quella di Demelza. La piccola si mise fra loro, prese entrambi per mano e iniziò a saltellare eccitata. "Voglio volare, mi fate volare come le lucine?".

Demelza, ridendo, guardò lei e poi lui, lanciandogli un segno di assenso. E insieme la sollevarono, tenendola ognuno per una manina e facendola dondolare. Daisy rise, mentre le lucciole volavano attorno a loro, chiedendo di farla volare ancora e ancora. E Ross si chiese dove Falmouth la vedesse tanto terribile. Era una bambina gioiosa, in fondo desiderosa di attenzioni e di essere presa e accudita. Voleva amore e considerazione, come tutti... E la chiedeva a modo suo.

Vedendoli giocare con Daisy, anche Demian e Valentine corsero da loro, pretendendo lo stesso trattamento. E li accontentarono anche se Ross avrebbe voluto che anche Jeremy e Clowance facessero lo stesso.

Era tutto bello, forse uno di quei momenti magici che capitano di rado nella vita e che poi ti ricordi per sempre, ma mancavano loro e questo lo riportava a quella realtà molto meno magica in cui lui aveva lasciato la donna che amava coi loro figli, senza possibilità di appello...

Guardò i bambini che, incerti, li fissavano di soppiatto da lontano. Ora non sembravano rabbiosi ma confusi, come era stato lui a lungo prima di compiere l'errore più grande della sua vita. Erano spaventati e forse desiderosi di una mano tesa che desse loro coraggio, che gli spiegasse che magari ciò che era rinato fra loro non era tanto spaventoso e che qualcosa di bello poteva ancora accadere. E prese coraggio, avvicinandosi a loro, lasciando Demelza con Valentine e i gemellini. "Volete venire a giocare anche voi con noi?".

Jeremy, sempre educato, scosse la testa. "No... Sono grande e pesante, non riuscireste a sollevarmi".

"Una lady non gioca così" – aggiunse Clowance, incerta e forse desiderosa di comportarsi per una volta come Daisy ma incapace di ammetterlo.

Ross annuì. "Possiamo trovare altri giochi da fare insieme, giochi adatti a bambini più grandi e Lady raffinate".

I bimbi si guardarono negli occhi, mettendosi vicini. Poi si concentrarono sui cani, sperando di spezzare e mettere fine a quel momento di imbarazzo. Cercavano una via di fuga ed era evidente agli occhi di Ross.

"I cani devono correre prima di cena o ci faranno diventare matti" – sussurrò Jeremy. "Magari giocheremo un'altra volta".

Scapparono via senza dargli tempo di rispondere e Demelza lo raggiunse, coi gemellini. "Ci hai provato e loro erano incerti. Hanno paura, Ross..." - sussurrò, poggiando la mano sul suo braccio.

"Paura di che? Del signor Poldark?" - chiese Daisy. "Giuda, son proprio due stupidi!".

"DAISYYY! - la sgridò Demelza. "Non si dice!".

"Non lo dico, ma tanto lo sono" – rispose a tono la piccola, arrampicandosi in braccio a Ross per farsi proteggere da lui.

Ross accarezzò la testolina della piccola, rimettendola a terra. "Mamma ha ragione, però. Su, andate coi vostri fratelli a far giocare i cani! Noi vi aspetteremo quì".

I gemellini e Valentine annuirono e di corsa, in mezzo alle lucciole che continuavano a danzare attorno a loro, sparirono.

E Ross si voltò, prendendo Demelza per la vita ed attirandola a se. Poggiò la fronte su quella di lei, inspirò il profumo dei suoi capelli e poi la baciò in cerca di conforto e calore. "E' un delitto desiderare la propria famiglia, come sembrano suggerirmi Jeremy e Clowance?".

"No..." - rispose lei, dolcemente.

Ross guardò nella direzione in cui erano fuggiti i bimbi. "Smetteranno mai di aver paura di me?".

"Sconfiggi il loro orgoglio Ross, e saranno tuoi" – sussurrò Demelza, contro le sue labbra. "Gli orgogliosi spesso hanno paura! E' il loro vero nemico, la paura!".

"Paura, è?". E anche se i bambini erano vicini ed in effetti aveva paura di mille cose che non era disposto ad ammettere, si chinò su di lei, baciandola con passione. Era tutto il pomeriggio che desiderava farlo. La baciò a lungo, attorniato da una miriade di lucciole e con nelle orecchie le risate dei bambini in lontananza. Erano un embrione di famiglia, ancora... Eppure Ross in quel momento, anche in terra straniera, si sentiva a casa. Demelza aveva questo potere, lì e ovunque si trovasse con lei. "Se un giorno loro... mi accetteranno..." - chiese, fra un bacio e l'altro – "Avremo un altro problema da affrontare".

"Quale?".

"L'esserino biondo che ha preso il mio posto nel tuo letto. Quello coi capelli lunghi che andrebbero tagliati, che ama arrampicarsi ovunque e che fa amicizia con gli alberi. Abbiamo un problema" – ammise, cercando di acquistare un tono di voce leggero come quello di lei.

Demelza si schernì, dandogli una scherzosa pacca sul petto. "Lui non taglierà i capelli, scordatelo!".

"Sembra un bambolotto!".

"LUI-NON-TAGLIERA'-I-CAPELLI!!! Per il resto sì, abbiamo un problema... Lui, io perché mi mancherà e tu, che potresti dormire sul divano a lungo".

C'era buon umore e voglia di leggerezza nelle parole di Demelza. E Ross non se la sentì di pensare ai problemi e al posto nel letto che non aveva. Ancora... La ribaciò, anche se i bambini erano vicinissimi. Non gliene importava nulla, la amava e starle lontano non era qualcosa che poteva ormai più tollerare.


...


Era ormai sera tardi, la prima cena scozzese era conclusa e Clowance non riusciva a dormire in quella stanza grande, grossa e austera, con quelle pareti in pietra che le davano una sensazione di freddo come se fossero state di ghiaccio.

Daisy si era addormentata subito, contenta e stanca come sempre. Ma lei no, lei non ci riusciva. A cena era stata silenziosa ed educata, aveva ripensato alle lucciole e al pomeriggio trascorso con i suoi fratelli, la mamma e il signor Poldark ma anche un'altra immagine era ormai fissa nei suoi pensieri. Ritornando verso casa e verso gli adulti dopo aver giocato con Queen, aveva scorto da lontano la sua mamma, la sua bellissima e dolce mamma che baciava il signor Poldark. Sulle labbra, come facevano le persone innamorate.

Ed aveva avuto paura...

Ed aveva provato rabbia...

E si era sentita tradita...

E non aveva detto niente, tremando silenziosamente dentro di se, cercando da sola risposte che non sapeva darsi. Sapeva che la sua mamma usciva e vedeva il signor Poldark e sapeva anche che erano stati marito e moglie e avevano avuto dei figli. Ma ora rivederla così, dopo che in ogni suo ricordo era stata sola e Hugh era una figura ormai sbiadita nella sua mente, la faceva sentire sola e spaventata.

Uscì nel ballatoio, in camicia da notte, seguita da Queen. Voleva andare dalla mamma a farsi consolare ma dopo quanto visto poche ore prima, non se la sentiva più. Nessuno poteva consolarla, ormai, era sola! E tutti dormivano, ognuno sognando qualcosa, chi le fate, chi i castelli, chi i cavalli da portare a Londra. E lei, lei cosa voleva? Ricordò il signor Poldark che la salvava dalla sommossa durante il discorso di Pitt e che curava la zampa di Queen e sì, era stato gentile. Ma era anche il papà che l'aveva abbandonata e questo non era stato gentile, per niente. E quindi, lei cosa doveva fare? E se la sua mamma se ne fosse andata, di lei che ne sarebbe stato?

Dal fondo del ballatoio, vide correrle incontro il piccolo Fox e dietro di lui, Jeremy. Anche suo fratello era in camicia da notte e anche lui non riusciva a dormire, evidentemente. E in fondo non ne era stupita, erano orfani che avevano ritrovato un papà creduto a lungo un fantasma inconsistente e ora non sapevano che fare e come comportarsi.

Il ragazzino le corse vicino, preoccupato. "Clowance, che c'è? Che ci fai in giro a quest'ora in camicia da notte?".

"Quello che fai tu! Non riesco a dormire".

"Stai male?".

Clowance accarezzò Queen. "No... Sì... Sto pensando troppo e se penso, non riesco a dormire".

"A cosa pensi?".

Clowance ci rimuginò su alcuni istanti, chiedendosi se fosse giusto parlarne. Come l'avrebbe presa Jeremy? Avrebbe tenuto il segreto o avrebbe dato di matto, svegliando tutti? Poi pensò che no, Jeremy non dava mai di matto come il loro zio e allora poteva dirglielo perché la cosa era importante anche per lui. "Oggi nel bosco delle lucciole, sono tornata da mamma prima di voi. E lei e il signor Poldark si stavano baciando. Li ho visti da lontano, mi sono nascosta dietro un albero e loro non sanno che li ho visti. Ma li ho visti!!!".

Jeremy impallidì. "Baciando? Cioè... Un bacio vero?".

"Sì, verissimo! Come quelli che a Natale Margarita dava ad Edward e Caroline a Dwight".

Jeremy abbassò lo sguardo, pensieroso, stringendo i pugni per il nervoso. "E papà? Mamma ha dimenticato papà-Hugh?".

"Non lo so. E noi, Jeremy? Ha dimenticato noi?".

A quella domanda però, lui negò deciso. "No, quello mai! Mamma non ci dimenticherebbe mai".

"Sì ma, se vuol stare col signor Poldark, lei ci porta via!" - mugugnò Clowance, mentre le lacrime le scendevano sulle guance. "Ci porta via e dobbiamo andare con un papà che non ci ha voluto. E la nonna? E lo zio? Io non voglio perdere la nonna e lo zio, la mia casa, la mia stanza, il parco e i miei amici! Mamma vuole stare con lui e ci porta in campagna e noi rimaniamo senza nessuno di quelli a cui vogliamo bene! Anche senza maestro".

Jeremy, benché turbato, rise. "Tu non vuoi bene al nostro maestro".

Lei, piccata, alzò le spalle. "Ma lo conosco e magari mi manca se andiamo via. Bisogna essere previdenti se si lasciano le persone".

Queen, preoccupata, le leccò la mano. E anche Fox le si accoccolò sui piedi, cercando di calmarla facendo piroette e smorfie.

Jeremy sospirò. "Che si fa?".

"Col signor Poldark?".

"Sì, è comunque nostro padre di sangue" – ribadì Jeremy. "E se mamma lo vuole, anche se noi non lo vogliamo...".

"Ce lo dobbiamo tenere!" - concluse la piccola. Poi ricominciò a piangere. "Voglio andare via dalla Scozia, scappare lontano. Voglio tornare a casa dalla nonna e da Catherine! E andare al parco a giocare, portare le bambole a prendere aria in giardino col mio carrettino rosso! Torniamo a casa Jeremy, solo noi due! Andiamo via dalla Scozia, non voglio stare quì dove mamma ha dimenticato papà e bacia il signor Poldark e magari ci porta via per sempre con lui".

Jeremy impallidì. "Non possiamo scappare! Siamo lontani, come torniamo a Londra?".

"Aspettiamo, senza dire niente, il momento giusto! E andiamo via, dalla nonna, a piedi... Vieni con me?".

Jeremy annuì. Non aveva mai perdonato quel padre che gli aveva promesso di insegnargli ad andare a cavallo ed era sparito, lasciando soli lui, la sua mamma e sua sorella appena nata. Non gli aveva mai perdonato che fosse stato un maestro ad insegnargli come si galoppa... Non gli aveva ancora perdonato che avesse permesso a un altro padre di essere chiamato papà. Una volta la mamma gli aveva detto che era un onore chiamare qualcuno papà e lui quell'onore non lo aveva voluto. "Sì, il momento giusto! Solo io, te, Queen e Fox. E andiamo a casa".

Clowance gli prese la mano, come a suggellare quel patto segreto fra loro. "Sì, a casa. Solo noi...". E mentre lo diceva, si chiese se quel giorno suo padre sarebbe venuto a cercarla...

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Capitolo 68
*** Capitolo sessantotto ***


Clowance aveva deciso di scappare dalla Scozia e di tornare a casa e Jeremy ne aveva compreso i motivi e li aveva fatti suoi, accettando di compiere quell'impresa insieme a lei.

In realtà, essendo più grande, aveva anche mille paure in più di sua sorella: erano lontani da Londra, sarebbero stati due bambini spersi in terra straniera, senza soldi e cibo e avrebbero gettato la loro mamma nella disperazione più nera. Ma di contro, non doveva essere un addio quello ma un far capire proprio alla mamma che non erano disposti a rinunciare alla famiglia che amavano solo perché un padre che un tempo non li aveva voluti, era tornato per reclamare qualcosa che riteneva di sua proprietà.

Jeremy sapeva che sua madre vedeva il signor Ross Poldark e sapeva anche che i rapporti fra uomini e donne adulti erano particolari, complicati e intimi, anche se di fatto non ne capiva ancora tutte le sfaccettature. Non sapeva se essere o meno arrabbiato con lei per il fatto di aver riallacciato i rapporti con quell'uomo che tanto l'aveva fatta piangere, Jeremy rispettava da sempre le scelte di sua madre e sapeva anche che era una donna adulta ed intelligente che sceglieva sempre per il meglio. E che ciò che la univa a Poldark erano faccende 'da grandi', non certo cose da raccontare a un bambino quale lui ancora era.

E poi c'era il signor Poldark... Suo padre, quello di sangue quanto meno. Jeremy ricordava poco di lui del periodo in cui vivevano insieme in Cornovaglia, forse perché non c'era mai e se c'era, non passava troppo tempo con lui e la sua mamma. Solo una cosa ricordava e a quel ricordo ci si era aggrappato per tanti anni, finché non aveva capito che era stata solo una crudele bugia.


"Quando la tua manina sarà grossa la metà della mia, ti insegnerò ad andare a cavallo".


Ci aveva creduto allora, ci aveva continuato a credere anche quando la sua mamma gli aveva detto che suo padre non sarebbe tornato e li aveva abbandonati, ci aveva creduto di nascosto anche quando aveva iniziato a chiamare Hugh 'papà'. Un uomo che fa una promessa a un bambino che è suo figlio, potrebbe mentire? No, per tanto aveva ritenuto impossibile che fosse una bugia.

Poi però la sua mano era cresciuta davvero e lui non era arrivato, quindi aveva capito e aveva deciso. Ed era stato un maestro ad insegnargli ad andare a cavallo, al galoppo, a saltare gli ostacoli e a rialzarsi dopo ogni caduta. Da quel momento Jeremy aveva smesso di credere che i padri amano sempre i propri figli e non dicono bugie e aveva deciso di non aspettarlo più.

Aveva odiato a lungo suo padre e lo aveva fatto anche quando lo aveva rincontrato a Londra. Ora non sapeva cosa provasse, i racconti di sua madre sulla sua nascita e sulla vita in Cornovaglia lo avevano incuriosito ma non abbastanza da spingerlo ad indagare e a parlare con quell'uomo che all'inizio aveva rifiutato con ogni fibra del suo essere ma che poi aveva dovuto accettare come presenza costante nei rapporti che intercorrevano fra lui e i Boscawen. Non sapeva cosa provasse ora, guardava di sottecchi Ross Poldark e gli sembrava una brava persona. E le brave persone non lasciano i loro figli... E la sua mamma sembrava serena e felice e lui voleva che lei lo fosse ma desiderava esserlo altrettanto, quindi cosa pensare? Forse tanti dubbi sarebbero potuti scomparire se avesse avuto meno paura e orgoglio per parlare con lui, ma non ce la faceva. E scappare era più facile. In un certo senso, almeno...

Doveva trovare denaro ed organizzarsi e ovviamente Clowance non aveva pensato a queste cose, né a tutte le difficoltà che avrebbero affrontato. Soprattutto lei, abituata a vivere da principessa, come avrebbe affrontato notti nei boschi e giornate polverose sulla strada?

C'era una cosa che doveva fare, prima di tutto: trovare denaro!

E siccome era un bambino buono che aiutava e faceva tanti lavoretti, perché non farsi dare delle mance? Era una buona idea e tanti suoi amici a Londra, chiedevano monetine per dei lavoretti!

Scese le scale di soppiatto, quando mancavano una manciata di minuti all'ora di cena. Suo zio era stato fuori tutto il pomeriggio a visionare castelli da acquistare, assieme a Ross Poldark e a Dwight e Jeremy aveva deciso di aspettarli all'ingresso per salutare ed eventualmente aiutare lo zio a togliersi gli stivali.

Sua madre, coi suoi fratelli, era già al piano di sotto, a predisporre per la cena con Prudie e le cuoche scozzesi.

Quando arrivò all'atrio lanciò un'occhiata di intesa a Clowance, a cui aveva confidato i suoi piani, che faceva avanti e indietro dalla sala da pranzo all'ingresso e poi, da bravo bambino, si appoggiò a lato della porta in attesa.

Non dovette rimanere lì molto, in pochi minuti il portone si spalancò e i tre uomini fecero il loro ingresso, bagnati come pulcini a causa dell'ennesimo acquazzone.

Jeremy corse loro incontro mentre nel salone da pranzo i gemelli facevano baccano inseguiti da Prudie e Clowance che cercavano di calmarli. "Buonasera!" - disse, cercando di essere formale, a Dwight e Ross. "Ciao zio!" - aggiunse poi in modo più caloroso. "Hai trovato un castello?".

L'uomo sbuffò, alzando gli occhi al cielo. "Sono tutti in rovina! Cadono a pezzi Jeremy, questi selvaggi non hanno effettuato la giusta e dovuta manutenzione. Ma ovviamente che ci si può aspettare da gente che veste con le gonne e suona le cornamusa tutto il giorno?".

Jeremy non rispose, in realtà a lui piaceva il suono della cornamusa che da quando erano arrivati lì, qualche sconosciuto suonava in campagna di sera, facendo giungere la melodia fino alla finestra della sua stanza. Ma questo era meglio non dirlo allo zio. "Cercherai ancora, quindi?".

"Certo, piccolo! Troveremo il nostro maniero e ne diverremo i padroni!" - rispose Falmouth, accarezzandogli i capelli.

L'uomo mise a terra un borsone pieno di pergamene e mappe, chiamando un servo per farselo portare in camera. Ma Jeremy intervenne. "Se vuoi, te lo porto io!".

Dwight e Ross, in disparte, si guardarono accigliati, così come Demelza, appena giunta a salutarli.

Falmouth sorrise. "Bravo bambino! Così si fa o si dovrebbe fare! Rendersi utili, ecco cosa dobbiamo insegnare agli scozzesi!".

Jeremy si mise le mani dietro la schiena, ciondolando soddisfatto. "Devo portarti in camera altro?".

"Sì, se vuoi. La mia giacca è fradicia, ti darebbe fastidio portarla di sopra?" - propose, levandosi l'indumento ormai fradicio.

Jeremy scosse la testa. Forse era maleducato chiedere solo allo zio se avesse bisogno, ma Dwight se non c'era Caroline era meno ricco di quando era a Londra, col signor Poldark non parlava molto e suo zio lo adorava ed era generoso. "Se ti porto su due cose invece che una... mi dai due scellini?".

Falmouth spalancò gli occhi e Demelza intervenne subito. "JEREMY!" - lo richiamò nervosamente, cercando con lo sguardo Ross che, a quella domanda del bambino, era rimasto spiazzato ed interdetto.

Jeremy non si fece scoraggiare. "La mancia, mamma! Tutti ne hanno una, quando lavorano!".

Falmouth per un attimo si chiuse in un mutismo perplesso ma poi, sorprendendo lo stesso Jeremy che credeva si stesse arrabbiando, si aprì a un caldo sorriso. Gli picchiò le mani sulle spalle ridendo rumorosamente e poi si tolse dalle tasche delle monete. "Vedete! E' un Boscawen, ragiona come io voglio che ragioni! QUESTE sono le basi degli affari e della finanza, dell'economia e della politica! Tu fai un lavoro per qualcuno e quel qualcuno deve ricompensarti! Era ora che Jeremy capisse che le cose vanno così, al mondo!".

"Non sono d'accordo e ora Jeremy chiederà scusa!" - lo bloccò Demelza, guardando poi suo figlio con aria severa.

Ma Jeremy la ignorò. "Grazie zio...".

"JEREMY" – lo richiamò Demelza.

Ma il bambino non si fece intimidire. "Mamma, sono le basi per il mio futuro. Mio e dei miei figli..." - concluse, con una fenomenale faccia tosta nel rimanere serio.

"Giusto, giusto e saggio!". Falmouth gli diede un'altra pacca sulla spalla, mettendogli poi in mano una montagna di monetine. "Altro che due scellini, per quello che hai fatto e capito oggi, ne meriti di più! Prendili tutti e tienili da parte! E avrai a breve un tesoretto".

"Ohhh". Jeremy guardò la sua mano piena di monete, tanti scellini che gli sarebbero tornati utili nella fuga. Sorrise soddisfatto, ignorando le occhiatacce di sua madre e lo strano sguardo severo e di disappunto che Ross aveva piantato su di lui. Che voleva ora, quell'uomo? Se voleva vedere sua madre e lei glielo permetteva, andava bene! Ma lui non gli aveva certo dato il permesso di essere suo padre e giudicarlo! Se la sua mamma aveva potuto scegliere, poteva farlo anche lui! Ed era strano stare a pensarci perché in fondo avrebbe dovuto importargli poco nulla di quel che Ross Poldark pensava mentre invece, in quel momento, si rese conto che gli stava piacendo provocarlo e vederne le reazioni. Chissà perché, poi?

Facendo finta di nulla, il piccolo prese la giacca dello zio e la sacca con le pergamene, correndo poi di sopra per riporle in camera. Gliel'avrebbe anche piegata e messa vicino al camino, la giacca, in modo che al mattino avrebbe potuto rimetterla bella asciutta e calda. Sì, era stato pagato bene e avrebbe lavorato bene.

Mentre andava di sopra incrociò lo sguardo di Daisy che, facendo capolino dalla sala da pranzo, lo guardava pensierosa. Ignorò anche lei che sapeva essere furba quanto lo zio anche se era ancora piccola, nessuno doveva capire il perché di quella richiesta di mance a parte Clowance.

E mentre saliva, al suo orecchio, giunsero le lamentele di sua madre e... forse di Ross Poldark... indirizzate allo zio che aveva ceduto alla richiesta di mancia. Beh, il fine valeva i mezzi. Non che si sentisse un bravo bambino e di solito gli faceva piacere aiutare gratis chi amava, ma ora aveva bisogno di soldi e quindi doveva imparare a sviluppare un buon senso degli affari. Lo faceva per il bene di Clowance e per farla stare bene durante la loro fuga e sua madre ne sarebbe stata contenta, se avesse saputo la verità. E anche lo zio sembrava contento! E se erano tutti contenti, tutto era giusto e stava andando bene!

E con quel pensiero, tornò a sentirsi un bravo bambino!


...


Dopo cena, sua madre l'aveva preso da parte e gli aveva fatto una sonora ramanzina, ricordandogli che aiutare chi ci ama va fatto con cuore e non per lucro. Tutte cose che Jeremy sapeva, ma se in quel momento aveva bisogno di soldi e Clowance non si spicciava a trovare un modo per guadagnarli pure lei, che ci poteva fare?

Aveva annuito senza controbattere, quando sua madre ci si metteva era difficile tenerle testa, e allo stesso tempo aveva capito che doveva trovare altri modi per guadagnare denaro. Oppure agire da furbo, in combutta con lo zio, e prendere le mance di nascosto.

Mentre sistemava i suoi abiti e si metteva la camicia da notte per andare a dormire, la porta della sua stanza si aprì e Daisy vi sgattaiolò dentro di soppiatto, con in braccio il suo orsacchiotto bianco. "Che fai?" - chiese la piccola, chiudendo l'uscio dentro di se.

Jeremy non parve sorpreso di vederla. Sua sorella aveva visto come si era guadagnato dei soldi e di certo la cosa doveva averle riempito la testolina di domande. Daisy non era come Demian, era un'osservatrice, credeva poco alle fiabe e ancor meno alle balle delle persone. Certe volte sembrava lei la sorella maggiore di tutti e difficilmente le si poteva tener nascosto qualcosa. "Vado a letto, cosa che dovresti fare anche tu!".

"Mamma ti ha sgridato prima, per aver chiesto i soldini allo zio!" - rispose lei, senza dar cenno di volergli dare retta.

Jeremy si sedette sul letto, indicando il suo salvadanaio. "Sì, ma intanto son più ricco di stamattina".

"A che ti servono i soldi?" - domandò la bimba, osservando il salvadanaio.

"Da spendere!".

"Ma mica li devi guadagnare, se ti serve qualcosa basta chiedere e mamma o lo zio o la nonna, te lo comprano".

Jeremy sospirò. Che doveva inventarsi, ora? Daisy aveva capito che stava nascondendo qualcosa e allo stesso tempo lui sapeva anche che forse rivelargliela, sarebbe stata la strada migliore per tenerla buona. In fondo, a differenza di Demian, lei era da sempre stata bravissima a mantenere i segreti. "Non posso chiedere alla mamma ciò di cui ho bisogno. E' un segreto".

Daisy sorrise con la sua migliore aria da monella. "Me lo dici? Io son brava a tenere i segreti! Ne conosco tanti, di tante persone!".

"Se te lo dico, non lo dici a nessuno?".

"Nessuno, nessuno!".

Jeremy la invitò a sedersi sul letto accanto a lui. Forse Clowance l'avrebbe ucciso se avesse saputo, ma con Daisy bisognava giocare d'astuzia e magari avrebbe anche potuto tornargli utile che lei sapesse. "Io e Clowance ce ne andiamo, torniamo a casa dalla nonna a Londra".

Daisy spalancò gli occhi. "Ma è lontano!? Tornate con Dwight e i cavalli che compra?".

"No, torniamo da soli, scappiamo dalla Scozia di nascosto e torniamo a casa".

Daisy impallidì. "Scappate? Perché?".

Jeremy dondolò le gambette nel vuoto. "Perché abbiamo paura che ora che mamma vuol stare col signor Poldark, ci porti via lontano dalla nonna e dallo zio e dalla nostra casa per tornare in campagna. Se scappiamo e torniamo a Londra, capirà che noi non vogliamo perdere i nostri amici e la nostra famiglia".

Daisy tremò. "Ma... Ma mamma mica vuole portarci via dalla nonna e dallo zio. E neanche il signor Poldark. Basta che glielo chiedi, invece di scappare".

"No, non è così semplice! Lei vuole stare con quell'uomo, lo bacia pure, li ha visti Clowance".

Daisy rise. "Bello!".

"Bello un corno!" - borbottò, indispettito che sua sorella non si scandalizzasse della cosa. "Lui non lo voglio".

"Ma lui è il tuo papà" – rispose Daisy, con una sincerità dolorosa e disarmante che Jeremy non voleva sentire.

"Mi ha lasciato, me, la mamma e Clowance! E tu non puoi capire".

"Perché?".

Jeremy alzò gli occhi al cielo. Era così complicato spiegare le cose a una di quattro anni! "A te nessun papà ti ha mai lasciata".

E Daisy rispose ancora con parole che sapevano metterlo in difficoltà. "E allora chi è quello che andiamo a trovare di domenica al cimitero, che sta sotto il sasso grande?".

Era esasperante, per Jeremy, non riuscire a trovare le parole giuste per farle smettere di dire cose che non voleva sentire. "Lui è morto, non ti ha lasciata".

"E' lo stesso! Poteva guarire e non morire ed essere mio papà! Si che mi ha lasciata".

Jeremy per un attimo rimase in silenzio, incerto su cosa dirle. Daisy aveva a volte dei modi di ragionare strani ed era difficile starle dietro e anche se spesso sembrava illogica, alla fine si rivelava la più saggia di tutti. "Non è che poteva scegliere... Ross Poldark sì! E non ha scelto noi!".

"Ohhh". Daisy ci pensò un pò su, grattandosi il mento. "Ma se tu non lo vuoi come papà, posso prendermelo io se mamma vuole? E se lui vuole? A me piace!".

Jeremy la guardò storto, non sapendo bene che dire. Voleva Ross Poldark lontano? O non voleva condividerlo con nessuno? Non ne aveva davvero idea, era tutto coì confuso quando pensava a lui. "Se... Se ti va! Ma perché ci tieni tanto?".

Daisy si imbronciò, forse esasperata quanto lui per il fatto di non riuscirsi a spiegare. "Tu hai avuto due papà! DUE! Io non ho mai chiamato 'papà' nessuno! Voglio vedere com'è! E poi mi piace quando mi parla e mi prende in braccio, piacerebbe anche a te".

Jeremy le diede una piccola spinta scherzosa, facendola cadere sul materasso di schiena, assieme al suo orsacchiotto. "A te non è mai piaciuto essere presa in braccio. Solo da me te lo facevi fare! Poi è arrivato lui e mi hai abbandonato".

Daisy si tirò su, offesa. "No, non è vero! Mi piaci ancora tu! Ma lui mi fa volare più in alto e mi tiene più forte".

"Solo perché è più alto di me!" - le fece notare Jeremy. "Davvero ti piaccio ancora?". Da sempre si era sentito onorato di essere il preferito di Daisy che non voleva mai nessuno ma che quando faceva i capricci cercava lui, facendolo sentire importante. E da quando Ross Poldark era entrato nelle loro vite, aveva preso un pò dell'affetto della sua sorellina che in lui aveva trovato un nuovo eroe.

Daisy annuì. "Certo che mi piaci! Tu e Clowance, anche se non volete, siete di Ross Poldark! Demian è di mamma, ma io? Io non sono di nessuno a parte te. E Prudie".

Il cuore di Jeremy prese a battere più forte. Davvero era lui il suo punto di riferimento? Lei, che era la principessina della casa e l'erede più grande di Falmouth per diritto di sangue, lei che sarebbe stata l'amore più grande di Hugh se fosse stato vivo, preferiva lui? Si sentiva onorato e lusingato e spinto da questi sentimenti, la abbracciò. "Grazie! Ma anche tu sei di mamma, come noi".

"No, Demian è di mamma!".

Si sentì di dover essere maturo e spiegarle, non voleva che pensasse qualcosa del genere perché pur con tutti i dubbi del mondo, Jeremy sapeva che le cose non stavano come pensava lei. "Demian sta sempre attaccato a mamma, per questo lei ce l'ha sempre vicino. Stalle attaccata pure tu e sarà lo stesso che con lui".

Lei scosse la testa. "Io non voglio stare attaccata alle persone, mi da fastidio!".

La guardò storto. "E allora non ti lamentare, mamma semplicemente rispetta ciò che vuoi".

Daisy non sembrava ancora convinta. "Ma se scappo io e se scappa Demian, mamma piange più per Demian secondo me!".

"No, piangerebbe uguale per tutti e due! E quando vi riprende, vi fa il sedere viola uguale a tutti e due!". Fu conciso e fermo, nel dire quelle parole. Se per caso Daisy stava pensando di scappare con lui, era meglio che si togliesse di testa SUBITO quel pensiero.

Daisy rise davanti a quella velata minaccia. "E allora anche tu e Clowance le prendete, se scappate".

"Sì, ma noi siamo obbligati".

La piccola sospirò. "Ma poi se vai via, io resto sola! Ci rivediamo a Londra?".

La abbracciò di nuovo, per tranquillizzarla e per farle capire che sarebbe stato per sempre il suo fratello maggiore e il suo punto di riferimento. "Certo, te lo prometto".

Rinfrancata, Daisy saltò giù dal letto, avvicinandosi alla scrivania e prendendo in mano il salvadanaio. "Son pochi soldini, Clowance costa cara da portare in giro!".

"Non sono pochi!".

Daisy insistette. "Sì che sono pochi, con questi non arrivi nemmeno alla fine del bosco, con Clowance!".

Le si parò davanti, con le mani sui fianchi. "Non sai nemmeno contare, ancora! Come fai a sapere che sono pochi?".

Daisy alzò le spalle. "Lo zio dice che i Boscawen sanno riconoscere il valore dei soldi, sempre!".

"Ma resta il fatto che non sai contare!" - la rimbeccò lui.

"Ma resta il fatto che sono una Boscawen!" - ribattè lei. "E tu sei povero! Ma io posso aiutarti! Quando faccio la brava e mangio tutto, Mary mi da sempre di nascosto un soldino di premio!".

Jeremy si illuminò in viso. "E vuoi darli a me?".

"Sì, certo, basta che poi ci rivediamo!".

Era commosso da tanta generosità, adorava Daisy. "Davvero? Grazie!".

Daisy fece un sorriso furbo. "Grazie a te! Lo zio mi ha spiegato che se dai soldi a qualcuno, poi te ne devono restituire di più di quelli che gli hai dato! Io ti presto i soldi e poi divento ricca!".

Jeremy deglutì davanti a cotanta faccia tosta ma santo cielo, aveva bisogno dell'aiuto di tutti! E lei era una Boscawen fatta e finita, che ancora non sapeva leggere e scrivere ma già conosceva le basi dell'economia che a lui aveva spiegato il maestro. "D'accordo, ti ridarò gli interessi. Ma tu non dire niente a mamma e a nessuno! E' un segreto!".

Daisy annuì. "Sì, ma... Quando vai?".

"Quando si presenta l'occasione giusta!".

"Sicuro? Magari nessuno ti vuol portare via e il signor Poldark ti vuole tanto bene".

Jeremy sospirò, ancora incerto se sperarlo o averne paura. "Avrà te! Mica vuoi chiamarlo papà?".

Daisy alzò le spalle. "Sì, ma lui vuole essere chiamato così da te! Vuole te e Clowance, vuole voi più di me".

Jeremy, come successo poco prima, si sentì di consolarla. Era brutto non sentirsi di nessuno e a lungo lui aveva provato, seppur in circostanze diverse, i sentimenti che ora viveva Daisy. E non voleva che la sua sorellina si sentisse così! Hugh sarebbe stato orgoglioso di lui, ne era certo, era stato proprio lui ad insegnargli che l'amore vero esiste in tante forme ed era stato sempre lui ad affidargli il difficile compito di fratello maggiore e protettore dei più piccoli della casa. "Quando mamma e papà-Hugh si sono sposati, lui ha voluto bene a me e Clowance come poi ne ha voluto a te e Demian quando siete nati. Quando un adulto vuol bene a un bambino, gli vuol bene e basta. E tu al signor Poldark piaci! Non vuole te più di me!".

Daisy lo abbracciò, forte, anche se forse non era convinta del tutto dalle sue parole. "Grazie... E sta attento quando vai in giro con Clowance per tornare a casa da nonna!".

Jeremy annuì. "E tu, ricordati di mantenere il segreto!".

"Sì, lo farò!" - rispose lei, cercando conforto nell'abbraccio al suo orsacchiotto. "Però...".

"Però?".

"Posso venire con voi?" - azzardò.

Jeremy sbuffò, se lo aspettava... "Non ne hai motivo, lo hai detto proprio tu che ora potresti avere un padre!".

Incerta, Daisy strinse a se l'orsetto. "Sì ma voglio anche stare con te! Dai, portami! Sono brava, ho già quattro anni quasi e mezzo, cammino veloce e mangio anche poco".

Jeremy le accarezzò la testolina. "Non puoi! Solo chi ne ha motivo può scappare e tu non ne hai! Chi è come te, a casa, ci torna in carrozza, mica a piedi per boschi e paludi".

Daisy sbuffò rumorosamente, per nulla spaventata dall'eventualità di un viaggio complicato e pieno di insidie. "Sembra bello".

Jeremy le sorrise, sapendo quanto in lei fosse radicato uno strano spirito d'avventura e scoperta. "Sembra bello? Con Clowance?".

Daisy ridacchiò. "No, con Clowance no!" - dovette ammettere.

"E allora, resta con mamma!".

"Va bene".


...


Era calata la notte e dal ballatoio del maniero, con indosso uno scialle di lana verde, Demelza osservava il selvaggio paesaggio che li circondava, cullata dal soave suono di una cornamusa che qualche pastore stava suonando nei boschi lì accanto. Si accarezzò il ventre, forse non più così piatto anche se ancora nessuno se n'era accorto, chiedendosi per quanto avrebbe potuto mantenere quel segreto. Era ormai, a occhio e croce, al terzo mese di gravidanza e nel giro di poco anche un cieco si sarebbe accorto che era incinta.

Ma quella sera aveva ben altri pensieri per la testa e tutti rivolti ai figli che già erano nati. Era indispettita con Jeremy e col suo strano comportamento e non capiva perché suo figlio fosse diventato improvvisamente tanto interessato ai soldi. Non era da Jeremy chiedere denaro in cambio di un gesto gentile o una mano tesa a chi aveva bisogno e se conosceva suo figlio come credeva, sicuramente c'era qualcosa sotto ma non aveva idea di cosa fosse! Se lui voleva mantenere un segreto, era pressocché impossibile cavargli una mezza parola di bocca e nemmeno tutte le sgridate del mondo gli avrebbero fatto cambiare idea. Guardò il cielo e le stelle, chiedendosi se e dove avesse sbagliato e se quella vita che stavano conducendo, fosse effettivamente quella più giusta per lei e i bambini. Troppo aveva lasciato correre, in passato, tante volte aveva taciuto quando Falmouth aveva inculcato nella testa dei bambini idee sul suo stile di vita ideale che lei invece non approvava e ora questa educazione forse iniziava a chiedere il conto.

Di soppiatto sentì dei passi farsi vicino e voltandosi, si trovò Ross alle spalle.

"Prenderai freddo, se te ne stai fuori a quest'ora, con indosso solo quello scialle" – le sussurrò, baciandola sulla nuca e stringedola a se.

"Il freddo e il silenzio mi aiutano a pensare!".

"A cosa devi pensare?".

"A cosa passa nella testa di Jeremy! Lo hai visto anche tu, oggi".

Ross si oscurò. "Sì e non mi piace. Ma non posso dire niente, non posso fare paternali e sono contento che tu gli abbia fatto una ramanzina dopo cena. Funzionerà?".

Demelza scosse la testa, scettica. "Con Falmouth dalla sua parte?".

Ross le accarezzò il viso, cercando di darle conforto. "Eppure Jeremy non mi sembra un bambino avido ma al contrario, un ragazzino gentile e sensibile".

"Lo è, infatti. Oh Ross, ho così paura che stia architettando qualcosa".

Lui la strinse a se ancora più forte. "Cosa potrebbe architettare con qualche scellino? Su, sta tranquilla! Forse desidera qualche giocattolo o farti una sorpresa e sta racimolando i soldi per portare a termine ciò che si è prefissato".

Si sentì sciocca ad essere tanto apprensiva e forse non lo sarebbe stata se i suoi figli fossero cresciuti dove avrebbero dovuto. "Lo spero. Anche se a volte, spesso, vorrei essere meno ricca, più libera e povera e crescere i bambini dove sono nati, nella loro terra".

Ross la baciò, sulle labbra stavolta. "Nampara?".

Demelza deglutì. Nampara... Da quanto tempo non sentiva pronunciare quel nome? Quella casa che era diventata la sua casa, a cui erano legati i ricordi più belli della sua vita ma anche i più terribili, degli ultimi mesi che vi aveva trascorso. "Ricordo il giorno che ho chiuso quella porta dietro di me, con Clowance in braccio e Jeremy per mano. Nevicava, faceva freddo e Prudie aveva con se una piccola borsa con le poche cose che avevamo. E' stata dura dire addio a Nampara e per tanto l'ho sognata. Anche quando ho partorito i gemelli, la desideravo".

Con un gesto gentile, Ross le accarezzò le guance. "Non era un addio, faremo in modo che non lo sia! Tu non hai idea di come vorrei tornarci, manco da oltre un anno dalla Cornovaglia e prima o poi dovrò tornarci per andare a dare un occhio alla mia miniera e salutare coloro che lavorano per me e la mandano avanti al mio posto. Vieni con me".

"A Nampara?".

"Sì, tu, io e i bambini".

Demelza sorrise tristemente. Faceva quasi paura sentir dire a Ross quelle parole e credere che fosse possibile tutto quello che lui diceva. "Falmouth non ne sarebbe contento e nemmeno i bambini".

Ross le prese le mani nelle sue, la attirò a se e la baciò a lungo sulle labbra, accarezzandole i capelli rossi che le ricadevano sulla schiena. "Falmouth non comanda le nostre vite. Siamo io e te! E i bambini! Solo loro dobbiamo portare dalla nostra parte, gli altri non c'entrano e lo sai anche tu. Sei la loro madre e la tua autorità vale più di quella di chiunque altro, anche per quel che riguarda i gemellini".

"Sì, tutto questo è vero, ma ti assicuro che in questo caso, anche gli altri c'entrano! Ora faccio parte dei Boscawen e ci sono delle regole! E andare a convivere, anche solo per una breve vacanza, in Cornovaglia, non fa parte delle libertà che mi vengono concesse".

Ross si fece serio e la sua voce tremò mentre con un gesto gentile, si portava alle labbra la sua mano destra. "Non parlavo di convivere! Parlavo della Chiesa di Sawle e di tornare a casa da marito e moglie! Sposarti fu la scelta migliore della mia vita, annullare quel matrimonio la peggiore! E se posso rimediare, non mi lascerò scappare l'opportunità che la vita mi ha dato".

A Demelza mancò il fiato e dovette appoggiarsi al parapetto del ballatoio per non cadere. Stava... Stava chiedendoglielo davvero? Stava chiedendole di sposarlo? Come quel giorno, seppur per motivi diversi, su quel sentiero di campagna? "Ross...".

E lui si inginocchiò, come non aveva fatto allora, tanti anni prima, dove ogni cosa era avvenuta con praticità ma senza romanticismo. "Sposami".

Le gambe le cedettero, si inginocchiò davanti a lui e lo abbracciò. Felice! E non solo per quello che gli aveva chiesto, forse lo avrebbe comunque fatto una volta scoperta la gravidanza. Ma il punto era proprio quello, Ross non sapeva della bimba che aspettava!!! La cornamusa sembrò portare più nitidamente il suo suono alle loro orecchie, come volesse accompagnare con la sua musica quel momento speciale fra loro e lei decise che era il momento giusto per dare una risposta e riprendersi in mano la sua VERA vita. "Sì! Sì che ti sposo, Ross Poldark!".

Lui la strinse a se, commosso, felice, affondando il viso nel suo collo e riempendola di baci gentili. "Ti amo..." - sussurrò al suo orecchio. "E forse non te l'ho nemmeno detto troppo spesso".

Demelza lo fronteggiò, appoggiando la fronte contro la sua. "Anche io ti amo! Sempre, da sempre... E nulla, mai nulla per quanto buono, gentile e romantico era nel mio destino, a parte te". Non era un addio ai sentimenti provati per Hugh, non era un rinnegarlo perché insieme erano stati felici e avevano saputo costruire un matrimonio sereno, arricchito dall'arrivo di bambini senza i quali non avrebbe più saputo vivere, ma un ammettere che niente e nessuno avrebbe potuto essere ai suoi occhi quel che era Ross. Ross era nel suo destino e per quanto la vita e gli errori passati li avessero divisi, erano destinati a ritrovarsi. Ora era felice, come non succedeva da tanto! Hugh avrebbe sempre e per sempre avuto un posto speciale nel suo cuore, un posto solo suo. Ma era il momento di andare avanti e riprendersi in mano la sua vita, quella a cui era destinata da sempre!

Ross la ribaciò con passione e infine, senza fiato, la aiutò a rialzarsi, sistemandole poi lo scialle sulle spalle. "Copriti, non vorrai ammalarti nella sera più importante della nostra vita!".

Demelza rise, stringendosi a lui e lasciandolo cingerle le spalle per riaccompagnarla in camera. Era così bello vivere quel lato romantico e pieno di premure che nel loro rapporto era sempre un pò mancato.

Rientrarono nel silenzio generale, tutti ormai erano a dormire e doveva essere tardissimo. Salirono al piano superiore e quando lei fu davanti alla sua camera, dalla stanza delle bimbe sgattaiolò fuori Daisy. "Mamma!".

Lei e Ross la guardarono, sorpresi che fosse ancora sveglia. Demian lo era di certo, non si addormentava senza di lei, ma l'orsetta?

Demelza le si avvicinò, preoccupata. "Tesoro, stai male?".

"No, volevo chiedere una cosa?".

"Cosa?".

"Se Demian sparisce, tu piangi?".

Demelza guardò Ross in cerca di spiegazioni a quella strana domanda e poi ancora Daisy. "Certo" – rispose, incerta.

"E se sparisco io? Piangi?".

"Certo tesoro".

"Come piangi per Demian?".

Demelza sospirò, forse capendo quale fosse il problema. Non si era mai accorta che Daisy fosse gelosa... "Certo! Ma non succederà! Mamma col cavolo che permette a qualcosa o qualcuno di farvi sparire! Nessuno deve toccare NESSUNO dei miei bambini!".

Ross intervenne, inginocchiandosi accanto a loro. "E io l'aiuterò in questo, te lo giuro!".

Daisy lo occhieggiò. "Speriamo! Perché magari serve il tuo aiuto, signor Poldark!".

Ross le sorrise, scompigliandole i capelli. "Mi sa che la gente che lavora quì, vi racconta troppe leggende sugli elfi scozzesi delle campagne e ti sei un pò spaventata. Per questo eri preoccupata?".

Daisy ci pensò su. "Mhhh... Sì, per questo!".

Demelza sorrise, era tenero che Ross pensasse che Daisy si lasciasse spaventare da qualche favoletta, ma lei aveva capito bene quale fosse il vero problema. Demian era molto legato a lei e di fatto, anche se cercava di dividersi equamente fra tutti i suoi figli, lui assorbiva gran parte delle sue energie e del suo tempo. Afferrò velocemente la bimba prima che scappasse, la strinse a se e la prese in braccio. Lei tentò di divincolarsi come sempre ma non la lasciò andare, voleva che Daisy sentisse la forza del suo abbraccio e quanto la amasse e rispettasse la sua indipendenza. "Catturata! Da me e nessun altro!" - esclamò, ridendo.

Daisy tentò una debole difesa ma poi si abbandonò a quella stretta e la abbracciò, cingendole le spalle con le sue braccia esili.

Ross sorrise, accarezzando i capelli di entrambe. "Vuoi dormire anche tu con la mamma?".

"Noooo! Mica sono Demian!" - rispose lei, piccata.

Ross le strizzò l'occhio. "Pure Demian fra un pò dovrà imparare a dormire da solo come te. Non credi sia ora?".

Daisy sospirò. "Sì, io sì! Lui e mamma, no!".

Demelza le fece il solletico sul pancino, rimettendola a terra. Grande verità e grosso problema e in effetti era ora di risolverlo. Per tanti motivi... "Su, prenderai freddo, fila a dormire!".

Soddisfatta, Daisy le ubbidì. Le diede un bacio sulla guancia e poi, inaspettatamente, lo diede anche a Ross. E poi di corsa, sparì in camera sua.

Demelza sospirò. "Dobbiamo andarcene dalla Scozia, rende i miei figli strani! Prima Jeremy e ora Daisy...".

Ross le prese la mano, baciandola. "Abbiamo una meta da raggiungere in caso di fuga, no?".

E lei sorrise, un sorriso caldo e gentile. "Sì, l'abbiamo decisa poco fa!".



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Capitolo 69
*** Capitolo sessantanove ***


"Io questo NON lo mangio!". Daisy picchiò la forchetta sul tavolo, incrociò le braccia, dondolò le gambine dalla sedia e si imbronciò, decisa a portare a termine quel suo proponimento.

Falmouth sospirò, Ross osservò in silenzio la scena, i bambini restarono concentrati a guardare come andava a finire e Demelza sudò freddo, osservando ciò che aveva nel piatto. In effetti quello strano polpettone dall'indubbia farcitura, non attirava nessuno di loro. E i gemelli, con cui bisognava faticare anche per il dolce, di certo non ne avrebbero messo in bocca nemmeno un pezzetto. La cucina scozzese era stata decisamente bocciata dal clan Boscawen e a giudicare dalle facce di Ross e Dwight, anche dai Poldark e dagli Enys!

L'addetta alle cucine, una donna scozzese sulla sessantina dai capelli biondi ormai tendendi al bianco, la pelle chiara e cosparsa di lentiggini e il viso pieno di chi apprezza il cibo locale, guardò storto la bambina. "Haggis... Una delle prelibatezze della regione! Ci sono bambini che ruberebbero, per poterlo mangiare".

"Regalalo a loro!" - ribattè Daisy, spostando di lato il piatto.

Falmouth, che di solito interveniva quando si verificavano quei capricci, stavolta rimase silenzioso. Quel piatto non attirava nemmeno lui... "Haggis... E di cosa sarebbe fatto questo... cibo...?".

La cuoca annuì, orgogliosa della sua opera. "E' lo stomaco di pecora ripieno di frattaglie, appunto, della pecora: interiora, cuore, polmoni, fegato, cipolla, farina d'avena e spezie!".

Clowance, a quella spiegazione, impallidì ed imitò la sorella, spostando il piatto. "Nemmeno io lo voglio!".

E ancora, nessuno osò darle torto.

Falmouth tossicchiò mentre anche Demelza e Ross, dopo essersi guardati negli occhi, decidevano che per quella sera era meglio digiunare. In fondo Demelza non si sentiva così affamata, aveva un pochino di nausea e difficilmente questo 'Haggis' gliel'avrebbe fatta passare.

Demian si alzò dal tavolo, avvicinandosi a Dwight. "Vero che se mangio questa cosa, poi mi viene mal di pancia? Vero che se mi danno il pasticcio di patate è meglio?".

Dwight sudò freddo, facendo correre lo sguardo fra il bambino, Falmouth e infine Demelza, in cerca d'aiuto. "Ecco...".

Prudie, seduta in disparte accanto ai bambini, annuì. "Stavolta sono d'accordo con le bestioline!" - borbottò, mentre la cuoca scozzese se ne usciva dalla stanza indispettita.

L'unico fino a quel momento rimasto in silenzio, si fece sentire. Valentine tagliò un pezzo di Haggis, se lo portò alla bocca, lo masticò mentre Ross lo guardava disgustato e poi sorrise. "E' buono! Dai papà, provalo!".

"NO!" - ribattè Ross secco e stizzito quanto Daisy poco prima, provocando una risata di Demelza.

E Jeremy colse la palla al balzo, passandogli il suo piatto. "Sei esile Valentine, ti regalo anche il mio!".

Demelza lo fulminò con lo sguardo, non aveva ancora dimenticato lo scherzetto delle mance e non apprezzava nemmeno quando Jeremy faceva il furbo, anche se era per una giusta causa. "Jeremy".

"Non lo voglio, mamma!" - ribattè il bambino.

Falmouth si alzò in piedi, picchiando le mani sul tavolo per attirare l'attenzione. "Su, un pò di dieta non farà male a nessuno e purtroppo dovremo adattarci! Difficilmente questa gente sarà in grado di fare piatti per popolazioni civilizzate e non è nemmeno giusto chiederglielo! Non ne sono in grado!".

"E il pasticcio di patate?" - chiese Demian.

"Lo mangerai a Londra!" - rispose Falmouth. "Ma ora, ho cose più serie di cui discutere! Ho organizzato una battuta di caccia per domani, con tanto di pranzo al sacco! Panini imbottiti, da Prudie e Mary per fortuna nostra! Sarà una bella giornata di svago per tutti".

Demelza guardò fuori dalla finestra, pensierosa. Il tempo era orribile e difficilmente sembrava votato al miglioramento. "Sta piovendo e pioverà, dice la gente del posto!".

"Dove dovremmo andare per questa battuta di caccia?" - chiese Dwight.

"Sui monti Cullin! Luogo isolato, impervio, pieno di grotte e anfratti e perfetto per stanare cervi, volpi e caggiagione di qualità" – rispose Falmouth – "E...".

Demelza sbuffò. C'era altro sotto, lo sospettava fortemente. "E?".

Falmouth sorrise, sornione. "E in quella zona c'è un castello che potrebbe fare al caso nostro! Sorge su una piccola isola collegata alla terra ferma da un ponte, è grande e maestoso, antico quanto basta ma in buono stato. Incute timore in chi lo guarda ed esprime la potenza di chi lo possiede! Il castello di Eilean Donan, costruito nel tredicesimo secolo da Alessandro II di Scozia per fronteggiare le invasioni vichinghe, è perfetto per insediare i Boscawen in queste terre!".

"Forte! Chi sono i vichinghi?" - chiese Valentine.

"Gente più selvaggia persino degli scozzesi, ragazzo!" - ribattè Falmouth.

"Ohhh! Papà, tu li conosci?".

Ross sospirò, non sapendo se ridere o piangere per la piega che aveva assunto la cena. In realtà era strano, non erano cose a cui era abituato e che forse aveva sempre un pò evitato anche quando il suo casato era grande e si riuniva a Trenwith, ma quella strana convivialità e condivisione di momenti 'di famiglia', iniziava a piacergli. Ed immaginava anche di capire perché piacesse a Demelza, nonostante le idee astruse ed antiquate di Falmouth: lei non aveva mai avuto nulla da piccola, non pranzi insieme, non chiacchiere davanti al camino, non momenti di condivisione. E nemmeno lui in fondo, sempre alla ricerca di soluzioni ai problemi del mondo, le aveva mai dato nulla del genere se non in rare occasioni. Ora ne era coinvolto, ne sarebbe sempre stato coinvolto e... poteva dire di non disprezzare la cosa. Valentine poteva mangiare circondato da chiacchiere invece che dal silenzio, c'erano tanti bambini che donavano allegria alla tavola e l'atmosfera era calda e piacevole anche per gli adulti. "No, non conosco i vichinghi ma ne ho sentito parlare. Guerrieri valorosi e imbattibili. E con una società di certo non antiquata ma anzi, guidata da idee moderne e eque, da quanto dicono".

"Idee selvagge ed incivili!" - lo rimbeccò Falmouth.

Demelza gli diede un calcetto sulla gamba sotto il tavolo, consigliandogli di non contraddire Falmouth oltre. Certi argomenti erano out a tavola e Ross doveva cercare di sopravvivere a certe cose. Lei conosceva Falmouth, percepiva a fiuto quando stava per inalberarsi ed addentrarsi in un'infinita disquisizione sulla politica e sulla superiorità degli inglesi e aveva, col tempo, imparato ad evitare con astuzia situazioni del genere. Ed era meglio che imparasse anche Ross, per il suo bene!

Lui si voltò verso di lei, sorridendole impercettibilmente e strizzandole l'occhio. Aveva recepito il messaggio!

Jeremy si tirò su, osservando il suo piatto ancora pieno. "Visto che non si mangia, io e Clowance possiamo andare in camera nostra?".

Demelza sospirò. "Dovreste aspettare che ci alziamo tutti...".

Il ragazzino si imbronciò. "Ti preeeego! Se mi fai andare, faccio fare i compiti a Clowance!".

La sorella, lo guardò con malcelata voglia di picchiarlo. "E'?".

"Devi fare i compiti, sei una somara!" - la rimbeccò il bambino con fare da saputello.

Falmouth sospirò e Demelza, con un sonoro sospiro stanco, annuì. "Andate! Non voglio sentirvi litigare! E i compiti fateli sul serio, ENTRAMBI!".

Jeremy sorrise, soddisfatto. E poi sparì di corsa dalla sala da pranzo, seguito dalla sorella, prima che gli adulti cambiassero idea.

Demian, imbronciato, si avvicinò a Valentine. "Giochi con me?".

"Sì. Papà, posso?".

Ross annuì. "D'accordo, ma rimanete al chiuso, fuori diluvia".

Falmouth, a sua volta, si alzò. "E diluvierà anche domani! Ma la pioggia non fermerà il nostro spirito d'avventura, la caccia e l'acquisto di un castello". E con quelle parole uscì, seguito a ruota da Demian e Valentine.

Dwight sospirò. "Temo che domani sera dovrò curare il raffreddore di tutti".

Demelza, alzatasi, si avvicinò a Daisy che, stranamente, si era ammutolita ed imbronciata dopo che i fratelli se n'erano andati. "Speriamo di no" – sussurrò, preoccupata per la sua gravidanza e per qualsiasi ipotetico malanno.

Dwight si alzò dalla sedia. "In fondo non possiamo obiettare, no? Se Falmouth ordina, noi si esegue! E' come la legge militare in guerra!".

"Direi di sì" – rispose Ross. "Hai voglia di bere del buon Scotch Whisky, Dwight? Gli scozzesi non sanno cucinare ma a livello liquori, sono notevoli".

"Perché no?".

Ross si rivolse a Demelza. "Ti unisci a noi?".

Lei sospirò. Dannazione, faceva freddo e ne avrebbe anche avuto voglia, ma la gravidanza gli sconsigliava di farlo. "La prossima volta! Ora io e Daisy ci facciamo un giro per il maniero. Ti va, piccola?".

"Non lo so!".

Ross le si avvicinò, accarezzandole la testolina. "Sei arrabbiata? Stanca? O molto affamata?".

Lei rimase in silenzio, poggiando la testolina sul tavolo, come se fosse percossa da mille pensieri. "Non ho niente".

"Daisy..." - la supplicò Demelza. "Non stai bene? Tesoro, dimmi cosa c'è!".

Lei si voltò piuttosto contrariata, spingendola via. "Non ho niente! E non voglio fare un giro!" - urlò, stranamente rabbiosa.

Demelza e Ross si guardarono e anche Dwight si accigliò. Daisy era spesso capricciosa ed irritabile ma mai eccessiva e instabile nelle reazioni. C'era qualcosa che non andava o la preoccupava.

"Daisy..." - la implorò Demelza, cercando di prenderla per mano.

Ma la piccola le sfuggì dalla presa, con gli occhi lucidi. "Voglio andare da Jeremy e Clowance! Da nessun'altra parte!".

"Va bene, va da Jeremy e Clowance" – le rispose Demelza. Jeremy era sempre stato bravissimo a calmarla e a trovare un modo per comunicare con lei. Se Daisy aveva qualcosa e non voleva parlarne con lei, sicuramente sarebbe stata capace di parlarne con lui. Si sentiva un pò un fallimento come madre, quando Daisy faceva così, rendendosi conto che non riusciva mai ad infrangere del tutto quel muro che la bimba a volte ergeva fra loro.

Dwight tentò un ulteriore approccio. "Non vuoi venire con me e Ross?".

"NO!".

Ross tentò a sua volta di avvicinarla, capendo quanto fosse stranamente turbata. "Con me? Non vuoi farmi compagnia?".

Ma stavolta, anche lui si vide rifiutato. "No! Voglio andare da Jeremy e Clowance".

E risoluta, lasciò mestaemente la sala da pranzo.

Ross si avvicinò a Demelza, abbracciandola da dietro e cingendole la vita. "E' solo di cattivo umore, le passerà!".

Ma Demelza non si sentiva tranquilla. "Non riesco mai ed essere io quella che sa farla stare meglio. O ci riesci tu o ci riesce Prudie o ci riesce Jeremy. Io non vado mai bene".

"Non essere sciocca, Demelza" – intervenne Dwight. "E' piccola e se la prende con chi la ama di più e la perdonerà sempre. Siamo in un paese straniero, in ambienti che non conosce, è costretta a seguire ogni giorno le idee bislacche di Falmouth, non dorme nella sua casa e nel suo letto e questo influisce molto sull'umore di una bambina tanto piccola. E' stanca".

Demelza sospirò, cercando di far sue le parole consolatorie di Dwight. "Non saremmo mai dovuti venire quì e ho un cattivo presentimento".

Ross la baciò sulla nuca, dolcemente. "Non ci pensare".

Ma non pensarci, per lei era impossibile.


...


Appena giunti in camera, Jeremy chiuse la porta e attirò a se Clowance prendendola per mano. "Domani, domani è il giorno giusto per il nostro piano!".

Clowance, che fino a quel momento era stata la promotrice ufficiale dell'impresa, spalancò i suoi occhi azzurri, con un'ombra di terrore sul viso. "Domani? Pioverà!".

"Viviamo in un posto dove piove spesso, la pioggia sarà nostra compagna di gran parte di viaggio. E della nostra vita".

Ma Clowance non pareva comunque troppo tranquilla. "Perché domani?".

Jeremy alzò gli occhi al cielo, non era molto acuta nelle faccende pratiche. "Saremo in pochi, in un luogo isolato, lo zio e gli altri uomini saranno a caccia e con la scusa di giocare, potremo allontanarci senza essere visti. Prepariamo gli zaini, dichiamo a mamma che ci portiamo abiti di cambio per la pioggia, qualcosa da mangiare nascosto fra i vestiti e poi via, verso Londra. O domani, o mai più!".

Clowance sospirò. "Solo qualche abito di cambio? E il mio baule?".

Jeremy scosse la testa, sarebbe stata una compagna di viaggio pessima, lamentosa e poco utile. "Stai scappando, non stai facendo una vacanza. Niente baule, niente nastri per i capelli, niente bambole! Dormiremo nei prati, nei boschi, mangeremo ciò che capita e avremo dei passaggi solo se qualcuno sarà tanto gentile da darceli col suo carretto, ci laveremo nei ruscelli e non potrai cambiarti i vestiti ogni giorno. Sarai un pò sporca, per un pò".

Gli occhi di Clowance divennero lucidi. "Sono una lady..." - sussurrò, spaventata.

"Stai cambiando idea? Resti quì e lasci che mamma e il signor Poldark...".

Ma lei lo bloccò, nuovamente risoluta. "NO! Hai ragione, nelle avventure ci si sporca, ci si deve sporcare! Domani, domani!!!".

In quel momento la porta si aprì ed entrambi saltarono per aria come punti da uno spillo e con la paura che qualcuno, origliando, li avesse scoperti. Chi diavolo...?

Jeremy sbirciò dall'uscio che pian piano si apriva e tirò un sospiro di sollievo quando vide di chi si trattava. "Daisy!".

La gemellina entrò di soppiatto e poi chiuse la porta dietro di se. Sembrava cupa e nervosa e il suo visino di solito giocoso, pareva sparito. "Domani, Jeremy?" - chiese subito, senza giri di parole.

"Domani" – ribattè lui senza voglia di negare, stupendosi ancora di quanto fosse acuta nel capire le cose. Se Clowance fosse stata acuta anche solo la metà, quel viaggio forse sarebbe stato meno duro.

Clowance, dal canto suo, si imbronciò. "Lei che ne sa? Gliel'hai detto? Sei matto?! Lo dirà alla mamma!".

Jeremy scosse la testa. "No, non lo dirà, lei sa mantenere i segreti, non è come Demian".

Daisy prese un lungo respiro. "Sì, li mantengo! Però questo segreto non mi piace, mi fa venire paura". Si toccò lo stomaco, singhiozzò e poi guardò implorante suo fratello. "Ecco, quando ho paura e sono preoccupata, mi fa male quì".

Jeremy le diede un buffetto sulla guancia. "Ti fa male lì perché hai fame! Non abbiamo mangiato niente!".

"No, mi fa male perché ho paura" – insistette la bimba. "Jeremy, non andare via, resta con me!".

"Devo andare via, dobbiamo!" - rispose il ragazzino, dando un'occhiata a Clowance in richiesta d'aiuto.

"Già, dobbiamo andare!" - aggiunse Clowance – "E' per fare andare meglio le cose dopo! E' per il bene di tutti".

"No, non è vero!" - ribattè Daisy, picchiando in terra il piedino. "Scappate, fate spaventare tutti, mi fate venire mal di pancia, fate piangere la mamma e il signor Poldark e se invece chiedete e dite di cosa avete paura, sì che tutti starebbero bene. Anche il mio pancino!".

Jeremy sbuffò. Gli spiaceva ferire Daisy e capiva che tanto piccola com'era, doveva essere spaventata. Chissà come doveva apparirgli spaventosa quella loro fuga nell'ignoto...? Aveva paura anche lui dopo tutto, ma che doveva fare? Forse non sarebbero riusciti nemmeno ad andare troppo lontano, forse li avrebbero ritrovati subito e quindi non c'era di che preoccuparsi. Forse lo sperava anche perché con quei pochi soldi che avevano, con Clowance che avrebbe frignato tutto il tempo, con la pioggia e tutto il resto, difficilmente avrebbero portato a termine il piano. Ma dovevano quanto meno provarci e far capire alla loro madre e sì, anche a quel padre ricomparso dal nulla, cosa provavano. Non riuscivano a dirlo a parole e a volte le azioni spiegavano meglio di mille discorsi. Accarezzò la testolina di Daisy, la prese per mano e la condusse alla sua scrivania, mostrandole una piantina della Scozia che aveva trovato nella biblioteca del maniero. "Vedi, siamo organizzati! Abbiamo anche una mappa per non perderci!".

Ma Daisy non sembrava ugualmente convinta. "Non mi piace lo stesso!".

Clowance si avvicinò loro, prendendo in mano la situazione. "Ma devi stare zitta comunque, è un segreto, Jeremy te lo ha detto e tu devi mantenere la parola data. Anche se ti fa male la pancia!".

Daisy abbassò lo sguardo, spaventata. E senza trovare parole per ribattere, cosa stranissima per lei, mestamente lasciò la stanza...

Jeremy diede una botta in testa a Clowance, appena furono soli. "Non la dovevi trattare così, ora piangerà e forse la mamma...".

"No, non piange! Daisy non piange mai!".

Jeremy osservò nella direzione in cui era sparita la sorellina. Era preoccupato pure per lei, ora. E forse quel segreto era troppo per una di soli quattro anni. "Ha paura, è piccola".

"E allora dovevi pensarci prima!" - rispose Clowance, risoluta.

"Ma non ti spiace per lei?" - insistette Jeremy.

La bimba abbassò lo sguardo. "Sì, certo! Ma se scappiamo, è pure per lei! E' nostra sorella e magari mamma, per stare col signor Poldark, la lascia a Londra con Demian e noi non li rivediamo più".

Jeremy sussultò. Non ci aveva mai pensato ma in effetti era vero, Daisy e Demian erano figli di Hugh e non del signor Poldark. Perché avrebbe dovuto volerli con lui? E la determinazione, a quel pensiero, tornò in lui. Hugh aveva accolto con amore lui e Clowance, anni prima, ma nessuno poteva garantire che il signor Poldark avrebbe fatto lo stesso coi gemelli e di certo non era obbligato. "Hai ragione, non dobbiamo ripensarci, dobbiamo andare".

"Sì, dobbiamo andare!" - rispose Clowance, chiudendo il discorso.


...


Demelza si era stesa, turbata da mille pensieri e preoccupazioni. I bambini erano strani, era incinta e ancora nessuno lo sapeva e Daisy sembrava così irritabile e turbata...

Eppure quei giorni erano, per l'assurdo, fra i più belli della sua vita! La proposta di matrimonio di Ross così dolce e romantica, l'essersi ritrovati, aver superato un passato difficilissimo, l'amore senza ombre e un futuro finalmente roseo davanti, avrebbero dovuto solo scaldarle il cuore. Ma c'erano tante variabili che gravitavano attorno a loro e i bambini ne erano parte fondamentale. Sarebbero stati una grande famiglia allargata, forse... Avrebbero davvero, lei e Ross, gestito tutto? Avrebbero davvero potuto dare e ricevere amore da tutti quei bambini?

Coricata sul letto, col rumore della pioggia battente che scuoteva le finestre, si rannicchiò sotto la coperta per scaldarsi. Aveva uno strano gelo dentro le ossa e di certo la battuta di caccia con quel tempo infame non avrebbe aiutato a scaldarla.

Demian, dopo aver giocato con Valentine, era tornato alla chetichella in camera alla sua ricerca e si era messo seduto sul letto accanto a lei a disegnare e chiacchierare coi suoi pastelli a cera, riuscendo a strapparle più di un sorriso coi suoi discorsi sconclusionati e la sua fantasia.

C'era sempre bisogno di Demian e della sua visione incantata delle cose, in momenti del genere...

D'un tratto la porta di aprì e Daisy sgattaiolò in camera, sorprendendola. Mai veniva da lei di pomeriggio e raramente succedeva di sera quando di solito Daisy e Clowance la aspettavano in camera loro per la buonanotte.

Demelza osservò la sua piccola, nervosa orsetta. La piccola sembrava meno arrabbiata di poco prima e il suo faccino pareva più che altro stanco e turbato, come se sulle sue spalle portasse chissà quale peso.

Preoccupata si alzò dal letto, andando da lei. “Daisy, tesoro...”.

Lei dondolò il piedino a terra. “Posso stare con te un pochino?”.

NOOOO!” - urlò Demian dal letto. “Devi andare nella tua stanza, questa è mia e della mamma!”.

Demelza sospirò, con Demian era sempre la stessa storia e forse era davvero arrivato il momento di fargli capire che pure lui aveva una stanza sua e non era quella dove abitualmente dormiva. “Certo che puoi”.

Daisy sollevò il visino, guardandola con quei suoi occhi azzurri e trasparenti. “Posso stare in braccio?” - chiese, sorprendendola.

In altri momenti quella richiesta tanto rara e preziosa, l'avrebbe riempita di gioia. Ma ora Daisy sembrava talmente smarrita e prostrata, che non riuscì a non preoccuparsi. Si inginocchiò e la prese in braccio, stringendola a se. “Certo amore, certo che puoi stare in braccio!” - le sussurrò, facendole poggiare la testolina sulla sua spalla. “Cosa c'è Daisy?”.

Niente”.

Non è vero, c'è qualcosa che ti preoccupa e si vede. E non puoi nasconderlo alla mamma, le mamme queste cose le vedono subito”.

Demian saltò giù dal letto per pretendere a sua volta attenzioni ma Demelza questa volta tenne duro. Lui aveva già gran parte del suo tempo e della sua attenzione e se una volta Daisy chiedeva apertamente altrettanto, sarebbe stata solo sua. Demian era sereno, Daisy no! E in quel momento era lei che aveva bisogno. “Su, continua a disegnare, tesoro! Fa un disegno bellissimo per me e tua sorella”.

Ma...”.

Demian!!!”.

E davanti al suo richiamo risoluto, il piccolo annuì. “Va bene”.

Demelza tornò a guardare Daisy, dondolandola fra le braccia. La piccola si era messa il pollice in bocca, come faceva quando qualcosa non andava ed era nervosa, quindi qualcosa che la turbava c'era! Non aveva idea di cosa fosse, probabilmente aveva ragione Dwight e la bimba aveva semplicemente bisogno di tornare a casa, ma era comunque meglio indagare. “Mi dici che cosa c'è?”.

Mi fa male il pancino”.

Demelza, sorridendole, glielo massaggiò. “Va meglio?”.

Un pochino...”.

Passeggiando con la piccola per la stanza, con la pioggia che picchiava sui vetri, Demelza ricordò i suoi primi mesi di vita quando le coliche la facevano da padrone e lei piangeva disperata, tenendo tutti svegli. C'era Hugh allora, c'erano le passeggiate notturne nel parco e sembravano passati secoli per quante cose erano cambiate in soli quattro anni. “Sai che quando sei nata, avevi spesso mal di pancia? E io ti prendevo in braccio così, ti coccolavo, ti massaggiavo il pancino e passeggiavo con te nei corridoi o nel parco finché non ti addormentavi. Tu, papà, io e i tuoi fratelli. Tutti svegli! E grazie a te abbiamo passato delle serate tutti insieme al parco”.

Daisy sollevò la testolina, sospirando, non molto in vena di racconti e ricordi romantici . “Era un mal di pancia diverso, mi sa”.

Vuoi che chiami Dwight?”.

No, non sono malata, c'ho un po' paura, per questo mi fa male la pancia”.

Demelza, preoccupata sul serio ora, la sfiorò il mento. “Paura? Di cosa?”.

Ma Daisy volse il capo. “Non posso dirtelo!”.

E' successo qualcosa di brutto?” - insistette Demelza, entrando in allarme.

No, voglio tornare a casa però!”.

Quella frase riuscì in parte a tranquillizzarla. Allora era davvero solo questo il problema?! E aveva ragione Dwight? Non avrebbe dovuto portare i bambini in quel luogo tanto sconosciuto e lontano e anche se a Clowance e Jeremy, quando ci erano venuti con Hugh, era piaciuto, i gemelli erano diversi e quel cambiamento li rendeva suscettibili e agitati. “Ma sai, se aspetti un po', magari qui ti piace e ne esce una bella vacanza”.

No, voglio andare a casa! Quando andiamo?”.

Demelza sospirò, scoraggiata. Ma anche piuttosto risoluta, visto quanto quel viaggio sembrava influire negativamente sui suoi bambini. “Magari cerco di convincere lo zio che per noi è meglio tornare prima con Dwight e i suoi cavalli, che ne dici? Questo ti farebbe stare più tranquilla e senza male al pancino?”.

Daisy annuì. “Sì, a casa veloce veloce!”.

La baciò sulla fronte, dolcemente, cullandola. “Veloce veloce, sì. Ora va meglio?” - chiese, togliendole il dito di bocca, vizio che a Demelza non era mai piaciuto troppo.

Daisy si accoccolò addosso a lei, anche questo stranissimo per il suo carattere. “Mamma...?”.

Dimmi”.

Scusa per prima, se ho fatto la cattiva”.

La strinse forte, era tremenda se voleva ma sapeva anche farsi perdonare in modo magistrale. Daisy non era una ruffiana come Demian o Clowance e nel bene e nel male era sincera, sempre. Soprattutto se chiedeva scusa, erano scuse sincere! “Non importa, è passato e sei qui. E se sei qui con me e vuoi stare con me, allora sono contenta”.

Sei contenta adesso?”.

Certo”.

Voglio che sei contenta anche domani, però!” - ribatté la bimba, seria.

Demelza rise, non capendo il senso di quella frase detta con una strana gravità, come se Daisy temesse che non sarebbe stato così. La ribaciò sulla fronte, visto che era in vena di coccole, poi la dondolò più vigorosamente per farla ridere. “Sarò contenta anche domani, giuro!”.

Daisy sospirò e in quel momento Demian corse da loro, stanco di essere lasciato in disparte. “Mamma, basta, ora tocca a me stare in braccio!”.

Demelza sospirò, il piccolo principe cercava di tornare ad essere il suo unico re ed era stato fin troppo tranquillo per i suoi standard. Santo cielo, tutti e due in braccio non ce la faceva, ora che era incinta. “Demian...” - lo implorò, decisa a non mollare Daisy.

Mammaaaaa” - piagnucolò il bimbo.

E in quel momento una figura entrò nella stanza, di soppiatto, prendendo il bambino in braccio e mettendoselo sulle spalle.

Demelza, colta di sorpresa, fulminò il nuovo arrivato con lo sguardo. “Giuda Ross! Mi stava venendo un infarto!” - borbottò, anche se era contenta di vederlo lì.

Lui, con la sua faccia da malandrino, rise. “Ma ti ho salvata e sono arrivato al momento giusto” - ribatté, osservando Daisy accoccolata fra le sue braccia. Accarezzò i capelli della bimba e poi si rivolse a Demian. “Per oggi, dovrai accontentarti di me! Lascia la mamma anche agli altri!”.

Credeva che Demian avrebbe piagnucolato e invece, resosi conto di quanto fosse in alto, rise. “Se mi tiri un po' più su, alla luna ci arrivo davvero!”.

Ci alleneremo per questo!” - rispose Ross, divertito. “E tu?” - chiese, osservando Daisy. “Va meglio?”.

Daisy guardò sua madre e anche se sembrava ancora turbata da chissà quali pensieri, annuì. “Sì, un pochino”.

Demelza la strinse a se, cercando di darle calore e conforto. Le mancava la sua orsetta vivace e furba, con la risposta sempre pronta! E anche se potersela coccolare la rendeva felice, lo era meno se pensava al fatto che qualcosa in lei non andasse e stesse soffrendo. “Vuoi fare una passeggiata? Solo io e te?”.

Sì!”.

E dopo cena, vuoi dormire con me?” - azzardò.

E Daisy la sorprese ancora. “Sì, voglio dormire con te” - mormorò, affondando il viso nel suo collo.

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Capitolo 70
*** Capitolo settanta ***


Il tempo era pessimo, sembrava tardo autunno più che primavera inoltrata e diluviava. E Ross non smetteva di lanciare occhiatacce a Lord Falmouth che li aveva condotti in quel luogo lontano da Dio e dalla civiltà per una battuta di caccia.

Demelza, in compagnia dei bambini e di Prudie che non aveva smesso un attimo di borbottare, si era rifugiata in una piccola tenda fatta costruire da Falmouth per lei e i piccoli, da alcuni servitori scozzesi che si era portato dietro, ma questo non bastava per dare agio a una giornata che si preannunciava pessima. I bambini erano nervosi, Prudie borbottava come un pentolone di fagioli, il cielo era scuro e minaccioso e la pioggia era sempre più battente.

Dwight aveva provato ad argomentare che per la gotta del vecchio lord uscire con quel tempo sarebbe stato malsano, ma lui non aveva voluto sentire ragioni e alla fine tutti avevano dovuto arrendersi.

Jeremy e Clowance avevano protestato vivamente per la decisione di lasciare al maniero Fox e Queen ma Falmouth era stato irremovibile: aveva portato con se dei cani da caccia prestati da un signorotto locale con cui aveva stretto qualche accordo commerciale e quindi, per evitare zuffe fra gli animali, i migliori amici e protettori dei suoi nipoti acquisiti erano dovuti rimanere a casa. Demian voleva esplorare le colline circostanti e vedere da vicino le piante che le ricoprivano ma pioveva troppo e Demelza aveva dovuto dirgli un secco no e quindi si era imbronciato pure lui. Daisy invece, dopo una notte irrequieta come gli aveva raccontato Demelza, si era svegliata di cattivo umore e capricciosa e aveva piagnucolato per tutto il tragitto senza dire il perché.

Ross sbuffò, stringendosi nel mantello. Santo cielo, nemmeno la amava la caccia...

Eppure, a parte il tempo, quel luogo attorno a loro era maestoso e misterioso insieme. L'antico ed imponente castello, al centro di un lago e raggiungibile solo attraverso un ponte di pietra, dominava la valle circostante. La zona era pressocché disabitata eccetto per qualche fattoria sparuta in mezzo alle campagne e i monti, non molto alti ma rigogliosi e pieni di flora, fauna e grotte misteriose, davano al paesaggio una nota ancora più magica. Se il tempo fosse stato clemente, i bimbi avrebbero potuto farci una piccola escursione ma così sarebbe stato inutile e pericoloso...

"Con questo tempo, nessun animale sano di mente girerebbe da queste parti per farsi ammazzare da noi" – disse in tono sarcastico Ross, guardando Falmouth in cagnesco.

Falmouth però non sembrava dello stesso avviso. Si sistemò i guanti, controllò il fucile e poi gli fece cenno di seguirlo assieme a Dwight che era fin troppo gentile ed educato per supportarlo in quella lotta senza speranza per tornare subito a casa. "Signor Poldark, non siamo scozzesi!".

"E quindi?".

Falmouth allargò le braccia. "Siamo inglesi, santo cielo! E gli inglesi sono imbattibili a caccia, sia col bel tempo, sia con gelo o pioggia o neve. E gli animali lo sanno!".

Dwight sbuffò, trovando una momentanea scusa per andare verso la tenda. "Vado a vedere perché Daisy piange. Magari si sta prendendo un malanno" – disse, mentre i singhiozzi della bambina giungevano alle loro orecchie.

Ross scosse la testa, preoccupato. Se c'era una bimba decisa, tenace e mai piagnucolosa per niente, quella era Daisy. Eppure da alcuni giorni sembrava cambiata totalmente e pareva smarrita, spaventata e inconsolabile. Demelza iniziava ad essere seriamente angosciata anche perché la piccola non apriva bocca e non diceva cosa la turbasse e Ross iniziava a temere che le fosse successo qualcosa di brutto, che qualcuno in quel luogo dimenticato del mondo l'avesse spaventata o le avesse fatto del male, o chissà che...

Falmouth, decisamente meno catastrofico, sbuffò. "La mia capricciosa nipotina, è ancora più capricciosa, oggi".

Ross lo guardò di sbieco. Falmouth era un brav'uomo, adorava i suoi nipoti ma era poco empatico sul mondo dei bambini e sui modi in cui chiedevano aiuto. "Ma lei non è capricciosa" – fece notare.

Falmouth rimase di sasso per quella malcelata schiettezza, poi si grattò il mento pensieroso. "No, vero. Quelli che piangono per niente di solito sono Clowance e Demian. Daisy affronta le frustrazioni con metodi... spicci... Lancia le cose, soprattutto addosso a me! E dice parolacce e risponde a tono! Non che la cosa mi dispiaccia, è una Boscawen e così deve essere, farsi rispettare è fondamentale! Eppure, come vedete, oggi non fa che piangere e questo me la rende capricciosa e molesta!".

Ross sospirò. "Non pensate che magari qualcosa la turba? O che non stia bene? E' un viaggio impegnativo per una bambina tanto piccola, questo".

"Lo hanno fatto anche Clowance e Jeremy a suo tempo, con Hugh e Demelza. E Clowance non aveva che due anni".

Ross tentò di ignorare la vocina della sua coscienza che gli ricordava quanto quella terra scozzese avesse dato a Demelza e Hugh in termini d'amore e famiglia e tentò di rimanere concentrato sulla questione in quel momento più importante: Daisy. "Non tutti i bambini sono uguali e lei sembra vivere tutto questo molto male".

"Le passerà" – rispose Falmouth. "Avete il cuore tenero, Poldark. Cosa che a volte in un uomo non apprezzo ma che in questo caso mi fa tirare un sospiro di sollievo. Tenete ai gemelli e ai vostri figli e vi ho osservato, accanto a Demelza. Siete attento e premuroso, rispettoso e gentile. E lei pare contenta".

Ross distolse lo sguardo. A mentire non era molto bravo ma c'erano cose che Falmouth che credeva di sapere tutto, ancora non sapeva e che voleva dire solo insieme a Demelza, al momento giusto. C'era amore, c'era stata una proposta di matrimonio, c'era un progetto di grande famiglia da costruire desiderato da entrambi, che coinvolgeva anche i piccoli gemelli nipoti dell'uomo. Tutto sarebbe cambiato col tempo e ognuno doveva esserci adeguatamente preparato. Guardò Demelza che sotto a una pesante mantella, fuori dalla tenda, cercava di intrattenere Daisy con Dwight e rimase incantato nell'osservare il suo viso dolce, i capelli rossi che sfuggivano dal cappuccio e la sua figura elegante e sinuosa. Era bellissima e c'era sempre troppa gente attorno a loro per dimostrarle quanto la amasse non solo a parole ma anche coi fatti. Santo cielo, come gli mancava quel cottage di Londra...

"E' bella, vero?".

La voce di Falmouth alle sue spalle lo fece sussultare e tornare alla realtà. Arrossì impercettibilmente e poi annuì. "Sì, lo è".

Falmouth si avvicinò al suo orecchio, parlando con tono fermo e graffiante. "E la sua bellezza, ai vostri occhi, non dovrà mai essere paragonabile alla bellezza di nessun'altra. Capito, Poldark?".

Preso alla sprovvista, Ross si voltò verso di lui. Falmouth aveva abbandonato il suo sguardo sornione ed ora lo fissava con occhi penetranti e decisi. Il messaggio era chiaro e gli stava dicendo, ORDINANDO, di amare solo lei ed avere cura solo di lei. Per la vita... Comprendeva le sue preoccupazioni, aveva fatto soffrire così tanto Demelza in passato... E la loro vita insieme si era persa ed era andata distrutta per fatti e decisioni errate prese da lui e lui solamente. Era passato tanto tempo da allora e la vita e le conseguenze di quelle scelte gli avevano aperto gli occhi su tante cose e il dolore gli aveva insegnato ciò che per lui era davvero importante: Demelza, i bambini... E nient'altro... Non voleva nient'altro! C'era stato un tempo in cui aveva tutto e non ne aveva capito il valore, c'era stato un tempo in cui quel suo 'tutto' era andato perso ed ora che lo aveva ritrovato, non se lo sarebbe più lasciato sfuggire dalle mani. Falmouth era preoccupato e lo capiva e comprendeva ma ora ciò che lui e Demelza erano tornati ad essere dopo tante lacrime, tanto dolore e tanti momenti di confronto difficile, erano solo affari loro. "Certo che ho capito... E non dovete temere".

Falmouth rimase fisso su di lui. "Lo voglio ben sperare, c'è di mezzo la vita di chi amo di più e se distruggerete quella ragazza e i suoi bambini, lei è abbastanza forte da distruggere voi. E se sarà troppo buona per volerlo fare, lo farò io. E io sono meno buono".

Ross contraccambiò lo sguardo. "Se farò qualcosa di male, voi avrete ogni diritto di farne a me".

Falmouth annuì, occhieggiandolo. "Mi fido di voi dall'inizio, si è rifidata Demelza e per me va bene così. E soprattutto, so che i bambini hanno bisogno di una guida e un padre. Vi spio Poldark, studio come vi rapportate a loro e mi piace come...".

"Cosa?".

"Come i gemelli pendano dalle vostre labbra. Loro, che da quando son nati son spiriti liberi. Mi aspetto che li rimettiate in riga".

Ross scosse la testa. Due cose non gli erano piaciute di quel discorso e di certo non se le sarebbe tenute per se. "Io e Demelza siamo adulti e non abbiamo bisogno di essere 'tenuti d'occhio'. Siamo stati sposati, siamo stati amanti, abbiamo avuto dei figli e tirato con fatica avanti una famiglia e una miniera in mezzo a mille difficoltà. Sappiamo cavarcela anche da soli senza nessuno che vegli su di noi più del necessario. Seconda cosa, io non rimetterò in riga proprio nessuno! I vostri nipoti sono degli splendidi, indipendenti e liberi esemplari di essere umano e io non sono nessuno per tenerli a freno e cambiare ciò che madre natura ha creato così perfetto. Nessuno dei miei figli dovrà mai essere ciò che gli altri si aspettano da lui, ognuno di loro sarà solo ciò che vorrà essere. E su questo, io e Demelza concordiamo in pieno". Non voleva essere scortese ma chiaro! Sarebbero stati una famiglia un giorno, avrebbe sempre rispettato il ruolo di Falmouth ma non voleva interferenze non necessarie nella sua famiglia. Era lo zio dei bambini ed un parente di sangue dei gemellini, ma sapeva anche che Demelza – e Hugh del resto - non avevano mai voluto sue ingerenze eccessive nella gestione dei bambini e Ross desiderava che fosse ancora così. Avrebbe sputato sangue e dato la vita per i bambini, li avrebbe amati tutti e se ne sarebbe preso cura e Falmouth doveva fidarsi di lui come diceva di fare, a parole.

Falmouth sogghignò, sornione. "Sicuro?! Lascerete SEMPRE che i bambini si esprimano come vogliono? Uno di loro occupa il posto che, CREDO, vorreste voi nel letto di Demelza. Lo lascerete fare anche in questo caso?".

Ross raccolse la sfida, ridendo a denti stretti. "Ovviamente aiutare i bambini a crescere e farsi indipendenti, sarà anche un mio compito. Compreso l'imparare a dormire da solo che non è non rispettare Demian ma dargli una piccola spinta a diventare grande".

Colpito e affondato, non poteva replicare! Falmouth per un attimo soppesò i suoi pensieri, poi parlò. "Devo dire che nemmeno a me piace che quel bambino stia così attaccato a sua madre! Dannazione, non è una femminuccia, ma Demelza non mi ha mai dato corda con Demian! Ma ora la ringrazio, sapete?".

"Perché?".

Falmouth assunse la sua classica espressione da cacciatore con la volpe nel sacco. "Perché con voi in zona, il bambino nel lettone vi terrà lontano da atti impuri che possano portare a piccole, graziose, urlanti conseguenze. Conseguenze adorabili, per carità. Ma a tempo debito!".

Ross rimase di sasso, come al solito alle conseguenze, quelle piccole ed urlanti, non ci aveva pensato... Ma in quel momento capì che anche quello era affar suo e di Demelza e che non gli importava di nessuna conseguenza! Non ne aveva paura ma anzi, come in ogni cosa da mesi a quella parte, si sentiva elettrizzato al solo pensiero. Anche se in effetti, anche se la camera di Demelza era molto affollata in quel periodo e di intimità grazie a Demian ce n'era poca, a Londra il cottage era sempre deserto e Falmouth questo non lo aveva previsto... "Credete che non sappiamo trovarci spazi per noi? Ci sottovalutate tanto?" - chiese, in tono di sfida.

Falmouth non si scompose. "So come gira il mondo, Poldark! Ma se si deve rischiare, preferisco che si rischi poco, piuttosto che ogni notte. Questione di percentuali, Ross...". Si bloccò, guardandolo pensieroso, mentre la pioggia diventava ancora più battente. "A proposito...".

"Sì?".

"Ricordate quella piccola faccenda sull'esproprio delle mie terre nel Sussex? Voterete perché ne rientri in possesso per espandere la mia proprietà? Per il bene della famiglia a cui magari presto apparterrete pure voi, ovviamente...".

Ross sospirò, calciando con la punta dello stivale un sassolino. Falmouth poteva parlare di politica ed interessi personali ovunque, anche sotto la pioggia battente del nord della Scozia, davanti al castello che voleva acquistare. "Non avete bisogno di terre nel Sussex e da che so, Pitt e i suoi vogliono costruirci un orfanotrofio, da quelle parti".

Falmouth si imbronciò e in quel momento a Ross parve similissimo a Daisy quando picchiava il piedino per ottenere qualcosa. "Devo costruirci una nuova stalla e un nuovo allevamento, Poldark! Per purosangue da vendere!".

"Avete terre vostre pure in Cornovaglia, da quel che so. Sono disabitate, usate quelle!".

"Il Sussex lo preferisco!".

Ross guardò al cielo, plumbeo e tetro. Non amava i giochetti di Westminster ma aveva imparato ad esserne un abile giocatore lui stesso. Come diceva Demelza, non poteva abbattere consuetudini che reggevano da secoli il sistema ma aveva imparato ad utilizzarle per raggiungere i suoi scopi in maniera furba, anche se più tortuosa e meno nobile. "Darò il mio voto a voi per le terre nel Sussex, se...".

"Se?".

Ross sorrise, lo aveva in pugno. "Se utilizzerete quelle terre in Cornovaglia per l'orfanotrofio. Grosso il doppio di quello che vuole costruire Pitt, con all'interno una scuola e una piccola infermeria. La Cornovaglia e i suoi abitanti hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura dei suoi piccoli sfortunati bambini, che spesso crescono con nulla e si ammalano senza possibilità di cura".

Falmouth scoppiò a ridere. "Da quando avete fatto vostro, il voto di scambio? Credevo odiaste questi mezzucci!".

"Infatti li odio! Ma ho imparato ad usarli a mio favore".

Falmouth lo guardò ammirato, come un maestro guarda il suo allievo prediletto che sta imparando la lezione. Non era una proposta così malvagia, dopo tutto... Voleva le terre nel Sussex e in fondo dei suoi possedimenti in Cornovaglia gli importava poco e la manodopera laggiù era a basso costo. "E sia... Farò l'orfanotrofio, a nome dei bambini. Sarà una bella donazione per la terra d'origine di due di loro". Gli porse la mano. "Affare fatto?".

Ross gliela strinse. "Affare fatto".

Pieno di soddisfazione, Falmouth imbracciò il fucile. "Andiamo?".

Sospirando e per niente felice di andare a caccia sotto al diluvio ma orgoglioso del risultato raggiunto, Ross andò verso Dwight e Demelza. "Vado a dire che andiamo e a richiamare il nostro amico dottore all'ordine!". Santo cielo, se soffriva lui e Dwight era ancora suo amico, dovevano condividere quell'inutile ed umida tortura insieme.

Si avvicinò trovando Daisy in braccio a Demelza, con gli occhi rossi e il visino rigato di lacrime. Sembrava inconsolabile e Demelza piuttosto esausta e sconfortata. Accarezzò la piccola che nemmeno Dwight era riuscito a calmare e capì che davvero c'era qualcosa che non andava. Ed era palese che lo avesse capito anche Demelza, i cui occhi erano colmi di preoccupazione. Non era malata, Dwight li aveva rassicurati entrambi circa quell'eventualità, ma di certo Daisy non era serena.

La prese in braccio mentre anche Falmouth si avvicinava. "Che c'è? Ce lo vuoi dire?" - le chiese dolcemente.

Daisy alzò il visino, guardandolo silenziosamente. Non disse nulla ma Ross, nel suo sguardo, intravide una infinita quantità di ombre e ansie. Come se nel silenzio, lei cercasse di dirgli qualcosa, di farglielo capire... Come se quell'azzurro intenso dei suoi occhi diventato improvvisamente cupo, stesse cercando di gridargli qualcosa che lei non poteva dire a voce. "Daisy...".

"Non andare via!" - lo implorò la piccola, aggrappandosi a lui. "Non andare, resta qua e curaci".

Ross sorrise, accarezzandole la piccola schiena. "Starò via poco, piove e vedrai che non ti accorgerai nemmeno della mia assenza. E poi ci sono la mamma, Prudie e i tuoi fratelli, non sei sola.".

"No, resta quì"- pianse lei.

Ross, dopo aver lanciato un'occhiata di intesa a Demelza e Dwight ed ignorando Falmouth, si allontanò di alcuni passi con la piccola, nascondendola sotto il suo mantello per ripararla dalla pioggia. Avevano da sempre un rapporto speciale loro due e forse, da soli, Daisy si sarebbe aperta con lui, dicendogli cosa la turbava tanto. E quando furono abbastanza lontani, avvicinò le labbra al suo orecchio, cercò di essere quanto più accomodante possibile e sperò di ottenere la sua fiducia, come era sempre stato da quando si erano conosciuti. "Hei, Daisy...".

La piccola, rannicchiata contro il suo petto, non rispose.

E Ross proseguì. "Torno presto, te lo giuro. E quando vengo, che ne dici di costruirci insieme un altro segreto?".

A quella proposta, a quel gioco solo loro che a Daisy piaceva tanto, la piccola alzò il visino di scatto, smettendo di piangere. "Segreto?".

"Sì, un segreto solo nostro. Solo mio e tuo, come sempre".

E finalmente, vide un timido sorriso sulle sue labbra. "Quale?".

"Quando torno, mi dici perché sei tanto triste e piangi così. Solo a me, un segreto nuovo nuovo come gli altri. Se me lo dirai, io magari potrò aiutarti a tornare ad essere contenta".

Daisy trattenne il fiato, come emozionata per quella proposta, ma allo stesso tempo frenata da chissà che. Non rispose con il solito entusiasmo ma anzi, abbassò il visino e poi lo guardò nel profondo degli occhi, appoggiando la fronte sulla sua. "Vieni presto..." - disse solo, come in una muta supplica.

"Vengo presto" – sussurrò Ross, sperando gli parlasse e con una strana ed incomprensibile ansia che prendeva possesso di lui, come se qualcosa gli gridasse che un pericolo era imminente e che i capricci di Daisy... Non erano capricci.

Durò un attimo. La voce di Falmouth lo richiamò all'ordine e dovette tornare e consegnare la bambina a Demelza. Diede un bacio ad entrambe, accarezzò loro i capelli e salutò gli altri bambini i cui visini avevano fatto capolino dalla tenda. Valentine agitò la manina, Jeremy e Clowance finsero di non sentirlo e lo ignorarono. Ross non disse nulla, c'erano giorni in cui con loro sembrava andare meglio, certi altri in cui sembrava di essere tornati ai primi difficilissimi giorni a Londra. E quel giorno era uno di quelli. Anche loro, come Daisy, sembravano strani e diversi, più distanti e nervosi del solito...

Un giorno sarebbe passata, come diceva Demelza presto sarebbe forse tornato un pò di sole sul rapporto coi suoi figli...

Presto...

Eppure quella strana sensazione negativa risvegliata in lui dalle lacrime di Daisy, non presagiva nulla di buono.


...


Gli uomini erano spariti per la caccia da un paio d'ore e la pioggia battente si era trasformata in una fastidiosa pioggerellina fine.

Nella tenda fatta costruire per le donne e i bambini di quella spedizione di cui tutti – a parte Falmouth – avrebbero fatto tutti volentieri a meno, Demelza e Prudie avevano fatto del loro meglio per intrattenere i bambini in quello spazio angusto.

Alla fine Daisy era crollata addormentata in braccio a sua madre, dopo infiniti pianti. E anche Valentine si era addormentato, cullato dal rumore della pioggia e con la testa appoggiata alle gambe di Prudie che ogni tanto, mentre lo guardava, borbottava quanto gli ricordasse il Ross bambino.

Demian si era steso accanto a Demelza, disegnando su un vecchio e sgualcito foglio con dei pastelli che erano stati portati da sua madre per tenerlo buono e solo Jeremy e Clowance, svegli ed allerta, sembravano completamente vigili in quella mattinata diventata improvvisamente sonnecchiosa e silenziosa.

Jeremy lanciò un'occhiata a sua sorella. Se c'era un buon momento per mettere in atto il loro piano, era quello! La pioggia era debole, gli uomini non sarebbero rientrati prima di alcune ore, sua madre e Prudie stavano dormicchiando coi bambini più piccoli e Demian... beh, lui se c'era in giro la mamma non si allontanava da lei!

Clowance fissò il fratello, aspettando che fosse lui a trovare una scusa per uscire. Era spaventata, tremava lievemente ed era palese in lei il desiderio di affidarsi al fratello maggiore, il suo punto di riferimento da sempre in mancanza del padre.

E Jeremy annì impercettibilmente, senza farsi vedere. "Mamma?".

Assopita, Demelza, sobbalzò. "Dimmi!".

Sospirando, Jeremy si alzò in piedi mettendosi la sua sacca in spalla. "Posso uscire a fare due passi con Clowance? Ci stiamo annoiando".

Demelza, stancamente, guardò verso l'uscita dalla tenda. "Sta piovendo, tesoro".

"Ma molto meno di prima! Ti prego mamma, stiamo morendo dalla noia! Che ci siamo venuti a fare fin quì? Per star fermi sotto una tenda!?".

Demelza sospirò, accarezzando i capelli biondi di Daisy che dormiva, esausta. "Dove volete andare?".

"A fare due passi, a cercare... funghi!" - rispose il bambino, dicendo la prima cosa che gli veniva in mente.

Demelza sorrise, guardando Clowance. Che sua figlia cercasse funghi, le sembrava davvero bizzarro. Non era stagione e i suoi due figli di certo non erano esperti. "Crescono in autunno, tesoro!" - gli fece notare.

Jeremy sospirò. "Con tutta questa pioggia, è peggio che autunno!".

La madre gli sorrise, annuendo e comprendendo il loro bisogno di prendere un pò d'aria. "Hai ragione, dev'essere davvero noioso stare quì! Giuro che impedirò a vostro zio di portare a termine altre idee del genere, in futuro! E comunque va bene, andate pure a fare un giro! Ma state attenti!".

Jeremy guardò sua madre, chiedendosi quando l'avrebbe rivista. Erano sempre stati insieme loro, nonostante tutto, sempre vicini nelle difficoltà, l'aveva sempre riparato nel suo abbraccio ed ora stava per arrecarle un grande dolore che lei di certo non meritava. E forse non era nemmeno giusto scappare, non era giusto non affrontare le sue paure. Ma si rendeva conto che non era ancora un uomo maturo per saperlo fare, che era solo un bambino spaventato che aveva sempre cercato di essere più grande della sua età e che ora che era arrivato qualcuno che desiderava essere 'l'uomo di famiglia', aveva paura del futuro, un futuro diverso da quello che era sempre stato il suo passato. Avrebbe ancora dovuto proteggere sua madre? Pensare a lei se era triste? Avrebbe potuto fidarsi di Ross Poldark? Avrebbe potuto, col tempo, dare ad altri l'affetto che aveva sempre nutrito per Hugh? Ed era un bene, era giusto nei confronti di quello che era sempre stato il suo unico e vero padre nel suo cuore? Hugh lo aveva amato tanto, gli aveva dato fiducia e una casa, lo aveva stretto a se quando invece suo padre lo aveva abbandonato senza stare a pensarci su, e ora...? Ora non era un tradimento dimenticarlo e tornare dal padre che lo aveva messo al mondo? Andare avanti quando Hugh era rimasto indietro, non era sbagliato? Cosa avrebbe voluto Hugh per lui, per Clowance, per i gemelli e per la loro mamma?

Jeremy a tutte queste domande, non sapeva rispondere...

Sapeva solo una cosa: voleva bene alla sua mamma e avrebbe passato la vita intera a farsi perdonare per quello che stava per fare.

Le si avvicinò e, attento a non svegliare Daisy che conosceva tutti i suoi piani e poteva fregarlo, la baciò ed abbracciò. "Grazie mamma".

Anche Clowance corse da lei, abbracciandola. "Grazie mamma".

C'era molto in quel grazie, anche se lei non poteva saperlo...

Stranita da quel ringraziamento tanto sentito ma in fondo inutile per una concessione tanto piccola, Demelza ricambiò il loro abbraccio. "Non allontanatevi troppo! E se trovate funghi, non metteteveli in bocca!".

Jeremy e Clowance annuirono e poi, di corsa, uscirono dalla tenda senza voltarsi mai. Se lo avessero fatto, non sarebbero riusciti ad andarsene.

Jeremy prese per mano Clowance e corsero costeggiando il lago, con indosso le loro mantelline. "Dobbiamo sbrigarci ed andare verso sud, verso la direzione da cui siamo arrivati stamattina" – disse alla sorellina.

Clowance, già col fiato corto, annuì. "Londra è lontana?".

"Lontanissima! Sarà un lungo viaggio... forse" – rispose Jeremy, impaurito e speranzoso che forse qualcuno li avrebbe trovati, fugando ogni suo dubbio e dandogli le risposte a tutte le domande che non riusciva a fare.

Clowance si coprì i capelli alla meglio col cappuccio. "Ci verrà il raffreddore! Che strada dobbiamo fare?".

Jeremy non rispose subito ma appena furono abbastanza lontani, si guardò attorno. Le colline erano alte e rigogliose e la vegetazione fitta. Non c'era in giro anima viva e l'unico rumore era quello della pioggia e dei loro passi nella fanghiglia. Faceva un pò paura tutta quella desolazione e quel silenzio, pensò. Sebbene più difficoltoso che seguire il sentiero, sarebbe stato più sicuro passare per le montagne per non farsi scoprire e nascondere le proprie tracce. "Credo... che dovremo faticare un pò" – disse alla sorellina, indicando la strada in salita.

Clowance sospirò. "Fa un pò paura...".

Annuì, lei aveva ragione e i loro sentimenti erano assolutamente simili in quel momento. E in cuor suo, anche sei mai sarebbe riuscito ad ammetterlo, sperò di essere salvato e trovato. Da sua madre e da suo padre... Già, ma da quale padre? Quello che aveva perso e che rimpiangeva o quello che era tornato e che ancora non gli aveva dimostrato appieno quanto valesse e quanto tenesse a lui?

Non seppe darsi una risposta e stretta ancora più forte la mano della sorella, corse verso i monti. Chiedendo silenziosamente scusa alla sua mamma e a Daisy che, involontariamente, aveva reso partecipe di un segreto forse troppo grande per una bimba della sua età.

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Capitolo 71
*** Capitolo settantuno ***


Quanto meno la teoria enunciata da Falmouth con tanta enfasi, era stata smentita: no, nemmeno per un inglese gli animali uscivano con pioggia e freddo, felici e contenti di farsi uccidere in una battuta di caccia!

Dopo quattro ore, bagnati come pulcini e con le pive nel sacco, Ross, Dwight e Falmouth tornarono alla tenda dove Demelza, Prudie e i bambini li aspettavano. Bottino: ZERO!!!

Appena arrivarono in prossimità della loro meta però, con la pioggia che tornava ad essere battente, Ross si accorse subito che qualcosa non andava. Prudie si aggirava attorno alla tenda con aria preoccupata, i gemelli e Valentine avevano un'espressione terrea e Demelza pareva disperata.

Appena lo vide, la donna gli corse incontro. "Ross, Ross!" - urlò, rifugiandosi nel suo abbraccio. "I bambini sono scomparsi!".

Falmouth spalancò gli occhi, Dwight si guardò attorno senza capire e Ross la prese per le spalle, cercando di farla calmare e capirci di più. "Cosa?". Si guardò attorno, Valentine e i gemellini erano lì e quindi... "Jeremy? E Clowance? Che è successo?" - chiese, con urgenza.

Anche Falmouth entrò in allarme. "Demelza?".

La donna cercò di riprendere fiato. I suoi capelli erano bagnati e spettinati, gli occhi avevano cerchi scuri sotto ad essi e sembrava terrorizzata. "Sono usciti qualche ora fa, quando la pioggia era calata. Erano stanchi di stare chiusi in tenda e hanno chiesto il permesso di fare un giro qua attorno per cercare funghi. Non mi sembrava pericoloso ed erano annoiati, così gli ho raccomandato di non allontanarsi e gli ho dato il permesso. Ma non si sono più visti da allora! Sembrano spariti nel nulla e magari sono caduti nel lago, magari si sono feriti da qualche parte, magari qualcuno...".

Stava andando in panico e Ross odiava vederla così, soprattutto in un momento dove le crisi isteriche non sarebbero state di alcun aiuto. Cercò di rimanere lucido e di non farsi prendere dal terrore, la scosse, tentò di calmarla e di ottenere la sua attenzione e poi parlò. "In che direzione sono andati?".

"Non lo so".

Falmouth, rosso in viso, intervenne. "Come hai potuto farli uscire? Non conoscono questi luoghi e...".

Dwight lo bloccò, incolpare Demelza non era davvero il caso. "I bambini non avrebbero dovuto venire quì, non è luogo adatto a loro! E mi pare che siano abbastanza grandi e già abituati ad uscire da soli a Londra!".

Grato per quanto detto, Ross lo guardò con stima. Dwight aveva fatto molto per la sua famiglia e a lungo aveva vegliato su tutti loro mentre lui era lontano ed era felice che continuasse a farlo. Era un vero amico e averlo ritrovato era per lui motivo di gioia e conforto. "Già! Demelza, sta tranquilla, li ritroveremo" – le sussurrò, accarezzandole il viso. Se c'era una madre amorevole ed attenta, quella era Demelza! E nessuno doveva osare dirle alcunché su come si prendeva cura dei suoi figli. "Litigare fra noi non serve! Cerchiamo i bambini, piuttosto! Non possono essersi allontanati molto".

Falmouth, spaventato, tentò ancora di argomentare. "I bambini escono da soli a Londra, al parco dietro casa! Ma quì...".

Con gli occhi rossi, a quelle parole Demelza si rifugiò nell'abbraccio di Ross. "Perdonami...".

La strinse a se, baciandola sulla nuca. Voleva che capisse che MAI le avrebbe dato la colpa di quello, non ne aveva il diritto e ai suoi occhi Demelza era la più meritevole fra le madri. "Tranquilla, andrà tutto bene".

I bambini si avvicinarono per sentire cosa stessero dicendo, ma Falmouth ordinò loro di tornare nella tenda, con Prudie. "Dentro, non è il momento di bighellonare!".

Ross osservò i bimbi. I maschietti erano preoccupati e Daisy piangeva sommessamente, ancora. Sembrava la più spaventata di tutti mentre di solito, di carattere, avrebbe battuto il piedino a terra, dato degli stupidi ai fratelli e si sarebbe lanciata a cercarli. E se...?

La bimba lo fissò, si avvicinò a lui e si rannicchiò nel suo petto. "Il nostro segreto nuovo?" - mormorò.

Ross sospirò, accarezzandole i capelli biondi ormai zuppi di pioggia. "Non è il momento, ora" – le disse dolcemente.

Spazientito e terribilmente in ansia, Falmouth tentò di prendere la bambina. "Daisy, ai giochi ci pensiamo dopo! Lo hai capito o no che i tuoi fratelli sono spariti?".

Demelza tentò di andare in soccorso della figlia, sconvolta quanto lei e che di certo non necessitava di sgridate. "Daisy, vieni quì!".

Ma Ross la bloccò. Osservò gli occhioni della bimba e capì che quel loro nuovo segreto doveva essere svelato subito e che forse sarebbe stato la chiave per capire e risolvere la situazione. Daisy non piangeva mai e se in quel periodo lo faceva spesso, un motivo ci doveva essere! E quel cambiamento iniziato in concomitanza al cambiamento di Jeremy e alla sua richiesta di mance lo faceva decisamente propendere per ascoltare ciò che la piccola aveva da dire. "Lo dirai solo a me, Daisy?".

"Sì".

Demelza annuì, forse capendo che Daisy andava davvero ascoltata. E silenziosamente gli fece cenno di allontanarsi da solo con la bambina. La ammirò in quel momento perché si stava facendo da parte per il bene dei suoi figli, senza gelosia per quella fiducia che Daisy preferiva dare a lui piuttosto che a lei. In fondo senza tentennamenti e gelosie, stavano già agendo come una squadra come una volta. "Andiamo" – disse alla piccola, allontanandosi di alcuni passi.

Con Daisy in braccio, si avvicinò al lago. "Daisy, io credo che questo segreto che devi dirmi, sia il più importante di sempre".

Lei tacque, incerta.

E Ross proseguì. "Ti fidi di me?" - le chiese, dolcemente.

Lei annuì, scossa, spaventata, smarrita. Poi si appoggiò a lui, cingendogli il collo con le piccole braccia. "Se andiamo a casa in fretta, loro...".

"Loro? Jeremy e Clowance?" - la imbeccò. "Sai dove sono?".

"Vogliono andare a casa" – sussurrò lei, contro il suo collo.

Per un attimo Ross tirò un sospiro di sollievo. Se erano andati a casa perché annoiati, il tutto si sarebbe risolto con una grande ramanzina. "Quì, al nostro maniero?".

Daisy alzò il visino, seria e piuttosto arrabbiata. "No, non quì!" - sbottò, arrabbiata che non capisse al volo.

E Ross entrò in panico. Se per casa, lei non intendeva il maniero... "L... Londra?".

Daisy rimase zitta ma Ross a quel punto capì che doveva ottenere da lei qualsiasi informazione. "Daisy!" - le disse, in tono più brusco di quello che avrebbe voluto, facendo chiudere la bimba in se.

Si pentì subito. Era spaventato e preoccupato ma non poteva farlo pesare a lei che di certo si trovava in condizioni simili e da più tempo. "Daisy, scusa... Non voglio sgridarti o spaventarti ma vedi... Piove, fa freddo e se non corro a cercare i tuoi fratelli, finiranno col cacciarsi nei guai. Dove sono andati? Lo sai?".

Lei giocò con la sua camicia, pensierosa, quasi in lotta con se stessa. "Se te lo dico, divento cattiva? Non sono più una brava coi segreti?".

Ross le accarezzò le testa, Daisy aveva bisogno di sentirsi brava ed importante e forse era normale cercare di emergere in una famiglia tanto grande e competitiva e con così tanti bambini. "Daisy, certi segreti non possono rimanere tali, se diventano pericolosi. Certi segreti, se rivelati al momento giusto, ci fanno diventare solo molto coraggiosi ed eroici".

Lei sorrise, impercettibilmente. "Coraggiosa? Come i pirati delle tue spiagge?".

"Anche di più!".

"E se Jeremy e Clowance si arrabbiano?".

"Non lo faranno!" - tentò di tranquillizzarla – "Non lo faranno perché ti vogliono bene e sanno che fai ciò che fai, per loro".

Daisy a quel punto prese un profondo respiro, richiamò a se tutto il suo coraggio e alla fine parlò. "Vogliono andare da nonna, a Londra. Jeremy ha messo via tanti soldini e io l'ho scoperto e mi ha detto di tenere il suo segreto! Non mi piace come segreto però, non è un segreto bello come i nostri. Mi ha fatto venire mal di pancia e i sogni brutti".

L'ansia lo assalì. Era chiaro, i suoi figli avevano elaborato un piano per scappare e non ne sapeva ancora il motivo anche se immaginava di esserne una parte in causa, ma in quel momento tentò solo di tranquillizzare la piccola Daisy. Tanta, troppa ansia avevano portato le sue piccole spalle per lunghe giornate interminabili ed ora comprendeva i suoi silenzi, i suoi pianti, il suo cambiamento. Era una bimba troppo piccola per un dolore tanto grande come quello di perdere i suoi fratelli maggiori che, senza padre, erano il suo punto di riferimento da sempre e per quanto in gamba, era normale che fosse entrata in crisi. Sospirò, convincendosi che in fondo non potevano essere andati troppo lontano e che se si metteva d'impegno, li avrebbe raggiunti in breve tempo. "Sai perché sono andati via? Sono scappati?".

"Sì, loro hanno paura di te!".

La voce disarmante di Daisy e quella frase ancor più disarmante e dolorosa, lo ferirono. Anche se in fondo dentro di se, se lo aspettava... "Di me?".

Daisy annuì. "Dicono che li vuoi portare via dalla nonna e dagli zii. E da me e Demian e dalla nostra casa... E che farai piangere ancora la mamma. Davvero li vuoi portare via? Io gli ho detto che sbagliavano ma son voluti scappare lo stesso!".

Era doloroso sentire quanto lo temessero Jeremy e Clowance, quanto avessero paura di soffrire ancora a causa sua e quanto volessero proteggere la loro mamma. Faceva male constatare quanto male pensassero di lui, che lo vedessero come un mostro che voleva distruggere il loro mondo e portarli via dai loro affetti e capì... Che la chiave per diventare migliore e tranquillizzarli, era accettare la loro vita e il loro passato con Hugh. Non sostituirsi ma continuare il percorso che loro avevano fatto con lui, quel percorso iniziato a Londra tanti anni prima che aveva creato una nuova famiglia e nuove vite. Era lui che doveva entrare in punta di piedi, ora lo sapeva. Ross fece per rispondere a Daisy per tranquillizzarla, ma si bloccò. Demelza, a piccoli passi, si era avvicinata loro ed ora li guardava con espressione terrorizzata. "Ross..." - mormorò, con voce spezzata. Il suo viso era una maschera di dolore e senso di colpa e in quel momento doveva sentirsi piccola e spersa quanto Daisy. E lui. Santo cielo, erano stati di nuovo felici loro due e avevano pensato che col tempo, lo sarebbero stati anche i bambini. Ma non erano stati capaci di affrontare le loro paure e ora ne avrebbero pagato le conseguenze.

Daisy si voltò, osservandola. "Mamma...".

Ross la portò da lei. "Io non porterò mai nessuno via. E nessuno lascerà nessuno" – sussurrò, dando la piccola a Demelza.

Daisy sorrise, aggrappandosi a sua madre. "Io lo so, ma loro non mi volevano credere".

Ross le sorrise, nonostante il suo cuore fosse in tumulto e il senso di colpa per il male fatto ai suoi figli e il loro volerlo adesso lontano, tornava a colpirlo violentemente. Santo cielo, come aveva potuto arrivare a quel punto? Sentì nella tasca il peso improvvisamente insopportabile di quel cavallino che si portava dietro da quasi otto anni, simbolo di tante promesse infrante e di tanto tempo sprecato e pensò a quel suo bimbo che un tempo lo adorava e che ora rimpiangeva un altro padre, a quella sua bimba bella ed aristocratica che adorava una lupa albina e capì che doveva lottare, ora! Che li rivoleva perché li amava e che non c'era più tempo da perdere. Ne aveva perso troppo, di tempo! Quando Jeremy era nato, lui aveva avuto paura di amarlo e nonostante questo, suo figlio lo aveva adorato e gli era sempre corso incontro ogni sera, al suo ritorno a Nampara. Ma non sempre lo aveva accolto fra le sue braccia, c'era altro nella sua mente allora e amare un figlio per poi perderlo come Julia, aveva in un certo senso reso Jeremy invisibile ai suoi occhi. E Clowance? Era mai stata nei suoi pensieri quando Demelza era incinta? La risposta a quella domanda era molto dolorosa perché a quei tempi la sua mente era votata unicamente ad Elizabeth e a quella vita utopistica ed imperfetta che non aveva potuto avere con lei. Aveva dovuto perderli i suoi figli, per capire quanto avesse bisogno di loro, di amarli e di essere riamato, aveva dovuto perdere TUTTO per capire la sua idiozia e ritrovare se stesso. Li amava e fin'ora non era stato davvero capace di dimostrargli quanto.

"Andrà tutto bene, sta tranquilla". Sfiorò il volto di Demelza, la baciò sulle labbra incurante che tutti lo vedessero. La amava e dimostrarlo al mondo era l'unica cosa che voleva! Amava tutti loro, i suoi figli, i gemellini, quella strana e grande famiglia allargata. Non avrebbe mai potuto far a meno di nessuno di loro! "Sta tranquilla amore mio, non sono andati lontano!".

Daisy lo fissò, come riponendo ogni speranza in lui. "Sono andati sulla montagna... Jeremy aveva un disegno con la strada da fare. E mi piace come chiami la mamma! Amore mio, è bello!".

Ross le sorrise, era la sua alleata più preziosa. Santo cielo, senza saperlo Daisy gli stava indicando la strada... Si chinò, baciandola sulla testolina ed abbracciando entrambe. "Sono in debito con te, Daisy. Lo sarò per tutta la vita per quello che mi hai detto oggi! Pensa a come posso sdebitarmi".

Lei lo fissò seria. "Sta con me tutta la vita, allora!" - disse, con una semplicità disarmante.

Ross annuì. Non avrebbe MAI infranto quella promessa, non ne avrebbe mai infranta più nessuna. "Va bene, lo farò".

Falmouth, Dwight, Valentine e Demian si avvicinarono. "E allora?" - chiese il lord.

Ross si avvicinò a Valentine, spaventato e silenzioso accanto a Dwight che lo teneva per mano. "Credo siano qua attorno, su queste montagne. Stanno cercando di tornare a Londra, ci sono un pò di cose che li preoccupano e li hanno fatti scappare e sta a me sistemare le cose".

"Scappare? Ma come hanno potuto???" - sbottò Falmouth.

"ROSS!".

La voce di Demelza, terrorizzata, gli fece ignorare l'esclamazione di Falmouth e gli fece comprendere che doveva metterla al sicuro e agire quanto prima. La pioggia si era fatta battente, tutti erano bagnati come pulcini e cercarli insieme, con tre bambini piccoli, avrebbe solo rallentato il tutto. "Sta tranquilla, al massimo si buscheranno un brutto raffreddore e avranno un pessimo ricordo di questa giornata. Vado a cercarli, voi tornate al maniero all'asciutto e aspettatemi lì. Andrà tutto bene". Guardò poi Dwight, l'amico di cui si fidava più di tutti, come un fratello. "Portali a casa, Dwight. Io vi raggiungerò appena possibile. Prendo un cavallo di quelli della carrozza e appena li recupero, sarò da voi".

Dwight annuì, capendo che non poteva controbattere. "Ok".

Demelza fece per protestare ma la voce di Valentine soffocò la sua. "Papà, non andare! Ho paura, non conosco questo posto e non voglio stare da solo! E se ti perdi e non torni?" - chiese, spaventato.

Ross gli sorrise, accarezzandogli la testolina. Nemmeno con lui era stato un buon padre e a lungo aveva ignorato il suo silenzioso grido di ricerca di amore ed attenzioni. Era un bambino delicato, fragile, sensibile e solitario e solo con l'arrivo a Londra era rifiorito, insieme a lui. Amava Valentine e anche se il processo per arrivare a questo era stato lungo e tortuoso per tanti motivi, anche se per molto aveva ingiustamente raffrontato la sua nascita ai peggiori disastri della vita di molti, voleva che capisse che per lui era importante e fondamentale. Non glielo aveva mai detto... Si tolse il tricorno mettendoglielo in testa e il cappello, troppo grande per il bambino, gli scivolò sugli occhi facendolo ridere. "Papà!".

Ross glielo sistemò meglio. "E' il cappello del comando! Per bambini speciali a cui chiedere di fare cose speciali". Osservò i gemellini, Daisy in braccio a Demelza e Demian rannicchiato alla gamba di suo zio e decise che anche quella triste situazione poteva diventare per tutti un piccolo mattoncino per le fondamenta della famiglia che sarebbe stata dove ognuno si sarebbe ritagliato un suo ruolo e nessuno sarebbe stato più escluso. "Valentine, Jeremy e Clowance ora non sono quì e sai, loro son sempre stati bravi fratelli maggiori e si sono sempre presi cura dei gemellini e della loro mamma. Posso chiedere a te di fare altrettanto, mentre sono via? E' una cosa speciale e posso solo chiederla a qualcuno di speciale di cui mi fido".

Valentine tremò dall'emozione, spalancando i suoi grandi occhi neri. Non aveva mai avuto responsabilità in vita sua e sapeva quanto suo padre tenesse a Demelza e ai piccoli Boscawen. E se li aveva affidati a lui... Arrossì, deglutendo. "Sì, certo" – disse, con voce spezzata, mettendosi serio e sull'attenti come se fosse un soldatino.

"Bravo bambino, sono fiero di te". Ross gli sorrise, tornando a guardare poi Demelza. Le accarezzò il viso, le sorrise e poi la strinse a se con Daisy. "Tranquilla, torno presto! Con loro!".

Lei nascose il viso contro il suo petto. "E' colpa mia?".

La strinse ancora più forte. "No, tutto questo non è MAI stato colpa tua. Ma mia! E devo riparare agli errori fatti".

Falmouth annuì. "Esatto! Siete padre e volete o no guadagnarvi questo diritto agli occhi del mondo?".

Ross alzò le spalle. "Non agli occhi del mondo, mi basta esserlo agli occhi dei miei figli!".

"E allora andate! Vi aspetteremo al maniero" – rispose Falmouth, prendendo Demelza sotto braccio.

Dwight gli diede una pacca sulla spalla. "Li porto al sicuro e poi vengo a darti una mano! Quattro occhi sono meglio di due!".

"D'accordo!" - rispose Ross, prima di andare a prendere uno dei cavalli.

"Buona fortuna, signore" – sussurrò Prudie, rimasta in disparte con espressione terrea. "Riportateli a casa... Riportateci a casa... Tutti!".

Casa... C'era molto più di una semplice parola, in quell'espressione. Molto più di quello che Prudie, lui o Demelza potessero dire ad alta voce, molto più di quello che Lord Falmouth potesse capire, c'era il futuro di tutti loro in gioco, in quelle semplici quattro lettere. Casa... Sì, li avrebbe riportati tutti a casa.

Baciò nuovamente Demelza, le accarezzò i capelli e poi partì, lasciando che loro tornassero al maniero, al sicuro.


...


Il cuore di Demelza era spezzato, in tumulto e pieno di terrore e preoccupazioni. Santo cielo, come aveva potuto non accorgersi del piano di Jeremy e Clowance? Come aveva potuto essere tanto egoista da pensare solo alla sua felicità a discapito dei suoi bambini? Come aveva potuto??? Se n'era accorta Daisy di quanto stava succedendo e non lei! Dannazione, dannazione!!! Si sentiva orribile come quando, tanti anni prima, aveva scoperto di non essere stata accanto a Julia nei suoi ultimi istanti di vita.

Ripensò a sua madre, alla sua breve vita piena di dolore e miseria, che sempre aveva avuto un pensiero per tutti i suoi figli. A lei mai era sfuggito qualcosa! Ed era povera, senza istruzione, sempre senza soldi e cibo, con un marito orribile, eppure... Eppure si era presa cura di lei e dei suoi fratelli con amore! E invece la grande ed ammirata Lady Boscawen, coi suoi gioielli, il suo denaro, i suoi bei vestiti e i suoi tanti servitori? Come aveva potuto non comprendere il disagio di due dei suoi figli, quelli che aveva giurato di proteggere da tutto e tutti in un giorno nevoso di tanti anni prima, quando col cuore a pezzi aveva lasciato la Cornovaglia?

Appena furono in casa all'asciutto, nell'atrio, decise che non poteva restare con le mani in mano mentre Ross faceva tutto. Lui era stato dolce, l'aveva rassicurata e non giudicata, si era preso tutta la responsabilità per quanto successo ma non era giusto! Entrambi avevano sbagliato e lei sarebbe impazzita a star lì, ferma e in attesa, mentre i suoi figli correvano rischi e pericoli in terra straniera, sotto la pioggia battente e col cuore a pezzi e pieno di paure.

Si inginocchiò davanti ai gemelli e Valentine, accarezzando i capelli di tutti e tre. "Valentine, farai ciò che ti ha chiesto il papà?".

Lui annuì. "Sì, farò il fratello maggiore al posto di Jeremy e Clowance! Sarò bravo, curerò bene tutti!".

"Bene, e allora mi fido di te! Sarò tranquilla nel sapere i gemelli nelle tue mani, mentre sarò via".

Demian le si aggrappò alla gonna e Falmouth e Dwight entrarono in allarme. "Mamma, dove vai anche tu?".

"Demelza!!!" - tuonò Falmouth, per nulla d'accordo sul fatto che lei uscisse.

Lei guardò Dwight che la conosceva da anni e sapeva benissimo che non se ne sarebbe stata buona buona come un uccellino in gabbia, senza far niente. Dwight la conosceva! Non Lady Boscawen ma la fiera figlia di un minatore che era stata e che ancora era! "Vengo con te, facciamo sellare due cavalli!".

"No!" - ordinò Falmouth. "Piove e una signora...".

"Sono una madre soprattutto, non una signora! E i miei figli sono la fuori, chissà dove, bisognosi di me!" - rispose, a tono. Spesso lei e Falmouth si erano scontrati su questioni riguardanti i bambini e a volte l'aveva avuta vinta lui, a volte lei. Ma stavolta non avrebbe ceduto! Era vero, era pericoloso ed era anche incinta. Amava la piccolina che aspettava tanto quanto ogni suo figlio, la gravidanza non dava problemi e tutto si sarebbe risolto entro sera. Non avrebbe lasciato da soli i bambini, così come non avrebbe lasciato solo Ross in quella ricerca disperata.

Dwight annuì. "Lord Falmouth, farle cambiare idea è impossibile. E' una madre, soprattutto questo! Lasciatela fare, mi prenderò io cura di lei".

Prudie sospirò. "Se la signora si mette in testa qualcosa e c'è in gioco la vita dei suoi figli, sfiderebbe il diavolo in persona! Giuda, lasciatela andare!".

Demelza sorrise ad entrambi, Dwight e Prudie la conoscevano davvero come le loro tasche e ogni loro parola e gesto verso di lei la riportava alla Cornovaglia, a ciò che era stata e che ancora era. "Grazie". Guardò i gemellini, li strinse a se e li baciò. "Fate i bravi, sia con Prudie che con lo zio e Valentine. Io tornerò presto. E tu..." - sussurrò, rivolta a Daisy – "Basta piangere! Ora ci pensano i grandi a risolvere tutto! Puoi tornare ad essere un'orsetta dispettosa!".

Daisy, nonostante la preoccupazione, sorrise. "Sì... Amore mio" – rispose scherzosa, imitando la voce di Ross.

Anche Demelza rise, nonostante tutto. Santo cielo, per fortuna sembrava stare meglio ed avere abbastanza fiducia in tutti loro per tornare ad essere birichina ed irriverente.

Si avvicinò a Dwight e improvvisamente, le venne in mente qualcosa... qualcuno... che avrebbero potuto aiutarla. Perché aveva permesso a Jeremy e Clowance di adottare Fox e Queen? Perché grazie a Garrick conosceva l'amore e la fedeltà di un cane, ovvio! Perché voleva che avessero due amici fidati che mai li avrebbero traditi! Perché voleva che li proteggessero! E chi meglio di un cane, sa fiutare la traccia del suo padrone disperso? "Dwight!".

"Sì!".

"Fox e Queen! Portiamoli con noi!".

Dwight spalancò gli occhi, incredulo di non averci pensato prima! "Giusto! I cani sono l'arma migliore che una persona ha a disposizione, quando si è in cerca di qualcuno!".

Demelza si rivolse a Prudie. "Portali quì!".

La serva annuì, correndo via con insolita solerzia. E quando tornò col piccolo Fox e la fiera Queen, Demelza li abbracciò, accarezzando il loro morbido pelo. "I vostri padroni si sono persi, ci aiutate a ritrovarli?".

Fox saltellò, Queen le poggiò il viso contro la guancia, con la sua classica espressione grave e seria. E Demelza capì che come Garrick si era preso sempre cura di lei, anche loro avrebbero fatto altrettanto per Jeremy e Clowance. Erano i suoi migliori alleati! "Andiamo!" - disse infine, risoluta.

E con i cani e Dwight, uscì sfidando la pioggia, il freddo e il clima ostile della Cornovaglia.

Tutti sarebbero tornati a casa, TUTTI!

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Capitolo 72
*** Capitolo settantadue ***


Jeremy non ricordava di essere mai stato tanto bagnato in vita sua.

La pioggia era scrosciante, l’umidità gli stava penetrando nelle ossa e il terreno dei sentieri di montagna, reso denso e scivoloso dal fango, lo faceva incespicare e cadere ogni due passi. E la compagnia di Clowance che si lamentava per il freddo, per i capelli bagnati e il vestito non più fresco e lindo, non aiutava il suo umore.

Era difficile scappare, era stato difficile deciderlo e sembrava ora impossibile portare a termine quel piano. La strada era impervia e sconosciuta, il terreno fangoso e insidioso e il pensiero di cosa stesse provando sua madre in quel momento gli toglievano il fiato.

Jeremy sapeva che sua madre, che sorrideva sempre, in realtà nella vita aveva affrontato tante prove difficili e dolorose e di certo MAI avrebbe voluto essere lui ad infliggerle un nuovo dispiacere, ma che doveva fare? Aveva sempre cercato di essere buono, ubbidiente e responsabile soprattutto per lei ma ora si rendeva conto di non essere che un bambino spaventato che, come ogni bimbo in difficoltà, scappa e si sente smarrito.

Jeremy aveva osservato a lungo in quei giorni Ross Poldark, cercando nella sua mente immagini che lo riportassero alla sua prima infanzia in Cornovaglia. Ma di lui, eccetto qualche sfuocato ricordo, non aveva nulla. Se pensava a un padre gli veniva in mente Hugh che gli insegnava a leggere e a fare lavoretti da dare in dono alla mamma, a Hugh che con lui aveva costruito la casetta sull’albero, a Hugh che portava tutti di notte ai giardini di Kensington per far dormire i gemelli, a Hugh che inventava storie di fate e folletti per lui e Clowance…

Non aveva ricordi di Ross Poldark eccetto uno, molto sfuocato, di una promessa mai mantenuta. Se avessero mai fatto cose insieme, se avesse giocato con lui, se gli fosse stato vicino in Cornovaglia, Jeremy non sapeva nulla.

Era difficile capire chi lui fosse eppure sua madre, nonostante tutto, sembrava felice di riaverlo vicino. Gli aveva dato un’altra occasione e anche se Jeremy sapeva che sua madre aveva un cuore grande e sapeva perdonare, era anche consapevole di quanto fosse acuta ed intelligente. E una persona intelligente fa sempre passi pensati e precisi, non fa errori di valutazione. Quindi se sua madre si fidava, perché lui e Clowance non riuscivano a fare altrettanto? Semplice, perché non lo conoscevano e lui non si era fatto conoscere e quel poco che aveva fatto, spesso a Jeremy non era piaciuto. Non voleva, non sopportava che Ross Poldark si mettesse in competizione col ricordo di Hugh e con ciò che era stato, mai avrebbe permesso a qualcuno di offuscarne l’immagine! In lui e in chi Hugh aveva amato! E Ross Poldark questo, sembrava voler fare!

Sembrava diverso da Hugh ed era difficile per lui capire come sua madre avesse potuto amare due uomini tanto differenti fra loro! Ross Poldark era forte, a volte invadente, dai modi decisi e poco incline alle buone maniere e alle mezze misure. Era un uomo… di comando… Un leader, avrebbe detto suo zio! Era una buona cosa essere leader? Nemmeno questo, Jeremy sapeva. Lui ricordava Hugh e in lui aveva trovato un modello da seguire e a cui ispirarsi, anche se sua madre ultimamente, gli aveva più volte detto che aveva la testa dura dei Poldark e non l'animo poetico e giudizioso degli Armitage. Ma non voleva essere testone, voleva essere davvero un bravo e tranquillo bambino. A lui piaceva costruire le cose dal nulla come la casetta sull'albero, piaceva leggere e raccontare storie ai suoi fratelli e cercava di essere il modello di uomo educato, elegante e che mai esce dalle righe che era stato Hugh. Così voleva essere, da grande! Non come Ross Poldark, lui aveva fatto cose orribili a lui, a sua sorella e soprattutto alla sua mamma. Non voleva diventare un uomo che tradisce sua moglie, che abbandona i suoi figli e poi si fa per anni i fatti suoi. Sua madre diceva che Ross Poldark soffriva per i suoi errori passati, che li aveva ammessi tutti e aveva fatto ammenda, che li amava e che avrebbe dato la vita per loro ma Jeremy non gli credeva. Dare la vita per un bambino che nemmeno porta il tuo cognome? Sarebbe stata la più folle delle decisioni!

Con questa marea di pensieri che gli annebbiavano l'animo, accelerò il passo, cadendo nuovamente nel fango. "Al diavolo! Che si porti via questa dannata pioggia!".

Clowance, col fiato corto, le gote rosse dalla sforzo e il vestito chiazzato di terra, gli corse vicino, cadendo pure lei. "Jeremy! Non si cade e se lo fai, non si impreca! Anche io sono caduta senza imprecare!".

Jeremy alzò gli occhi al cielo. Santo cielo, non era proprio il caso di fare la Lady in quel posto dimenticato da Dio in Scozia, in montagna e sotto una pioggia incessante. Però in effetti aveva ragione, aveva imprecato! Hugh non lo avrebbe fatto, forse Ross Poldark sì! Uffa, non voleva somigliare a lui, c'era già Daisy che diceva parolacce che la rendevano poco Boscawen! "Scusa, ma sono stanco di cadere! Alla fine uno le parolacce le dice!".

"Non un Lord!" - rispose Clowance, allungando la manina per aiutarlo a rialzarsi.

Il bambino si tirò su, cercando di pulirsi i pantaloni con le mani, anche se con scarsi risultati. "Cado e mi sporco, mi alzo e la pioggia mi lava e poi ricado e mi risporco. E sarà così fino a Londra".

Terrorizzata da quelle previsioni catastrofiche, Clowance si guardò attorno, sconsolata. "Manca molto?".

"A cosa?".

"Londra".

Jeremy le diede una leggera spinta scherzosa. Il fatto che fosse una somara negli studi le rendeva impossibile capire le distanze. "Mancano dieci passi meno di prima, quando me l'hai chiesto di nuovo!".

Clowance si imbronciò, prendendolo per mano in cerca di coraggio e supporto. "Forse scappare così non è stata proprio un'idea perfetta. Forse dovevamo parlare con mamma, dirle di cosa avevamo paura...".

Era d'accordo – in parte – anche se... "E il signor Poldark? Dove ce lo metti?".

"E' un orco cattivo, secondo te? Ha salvato Queen" – tentò di argomentare la bambina.

"Non era moribonda, Clowance! Queen aveva solo una spina nella zampa e anche a Fox è successo molte volte".

"Ma Queen è una lupa di razza e i cani di razza sono delicati! Non come il tuo stupido cane NON di razza! Non lo sai, somaro?".

Jeremy si imbronciò, guai a chi gli toccava il suo Fox che gli mancava da morire e avrebbe voluto con se. Ma poi capì che non era il momento di litigare. "Non so se lui è un orco. Il signor Poldark, intendo... Una volta lo è stato, il più cattivo di tutti. Mamma dice che lo sa...".

"E ora?" - chiese Clowance.

Jeremy alzò le spalle. "Ora piace a tutti! A mamma, allo zio, ai gemelli e anche a Prudie! A noi no, però! Bisogna capire chi ha ragione e chi sbaglia".

Clowance ci pensò su mentre a tentoni, procedevano nella boscaglia più fitta. "E' quì il problema! Ma tu ce lo vedi a farci da padre?".

Jeremy scosse la testa, mentre un groppone gli si formava in gola. "No... Io solo un padre vorrei, Hugh! Non uno che vuole cancellarlo! Sembra che tutti vogliano cancellarlo! Anche la mamma! E i gemelli!!! Loro sono i peggio di tutti, era il loro padre vero e ora se Daisy piange perché è preoccupata, gli sta bene! E' una traditrice!".

Clowance calciò un sassolino, nervosamente. "No, dai! I gemelli non sono traditori, non Daisy! Demian forse, che per stare attaccato a mamma venderebbe tutti i suoi giochi e pure noi, ma non Daisy! Loro non lo hanno conosciuto il loro papà vero. E...".

Clowance si bloccò e Jeremy la guardò incuriosito. "E?".

La piccola sospirò. "E nemmeno noi... Forse non è che uno che è papà, non deve sbagliare per forza! Magari anche le mamme e i papà a volte sbagliano".

Jeremy si alterò! Accidenti a lei, era stata un'idea sua la fuga e ora già ci stava ripensando, quando tornare sarebbe comunque stato difficile. "Lo dici solo perché ti sei accorta che si fa fatica a scappare".

Lei, punta sul vivo, picchiò il piede in terra. "No, lo dico perché ci ho pensato!".

Jeremy scostò il viso da lei, guardando per terra come se il fango fosse stato improvvisamente molto interessante da osservare. Forse Clowance non sbagliava, non del tutto, forse se lasciava da parte dolore e rancore poteva vedere un uomo che aveva sbagliato e che stava cercando di porre rimedio ai suoi errori e di avere vicino le persone che amava... Forse... Scosse la testa, non voleva pensarci. "Andiamo!" - disse, risoluto, prendendola per mano.

"A Londra?".

"Per ora, mi basta uscire da questo bosco e superare queste montagne!" - rispose lui, nervoso e spaventato. Come avrebbero potuto farcela? Ora che stava vivendo quell'avventura, Jeremy si rese conto dell'enormità di quanto avevano deciso lui e Clowance. C'era una terra straniera ed insopitale da attraversare, pioggia, fame e mille altri pericoli sulla strada che portava alla bella residenza dei Boscawen a Londra. Tanto, troppo per due bambini soli...

Pensò a quanto detto da Clowance e in silenzio, in cuor suo, sperò che avesse ragione e che non esistesse nessun orco ma solo un uomo che aveva sbagliato e ora voleva fare ammenda con la famiglia che aveva lasciato. Ci sperò, sperò di essere lui a sbagliare, quella volta. E non sentì di tradire la memoria di Hugh nel fare questo, Hugh sarebbe sempre rimasto nel suo cuore. Ma la voglia di essere salvato e di 'appartenere' a qualcuno, fu più forte di tutto il resto. E meno speditamente, forse nella speranza di essere trovato, proseguì nel suo cammino. Anche se c'era ancora una questione da risolvere, ora che ci pensava... "Clowance?".

"Sì?".

"Fox non è uno stupido cane NON di razza!".

"Ma non è di razza" – gli fece notare lei, col fiato corto.

"Sì, vero! Ma questo non importa, non è stupido ed è fedele quanto Queen! E se fosse quì ci sarebbe più d'aiuto di una lupa".

Clowance lo fissò, con aria di sfida. "Una lupa ci procurerebbe cibo, cacciandolo... Fox giocherebbe tutto il tempo e correrebbe come uno smidollato avanti e indietro con un bastone in bocca, nella speranza che tu lo prenda e glielo lanci. E questo non ci riempirebbe la pancia" - osservò con fare furbo.

Jeremy rise, non la faceva tanto pratica e temeraria. Era un lato di lei che non conosceva e che di certo non poteva aver sviluppato a Londra, fra lustrini, case delle bambole e fiocchi. E se sua madre avesse ragione? Se in loro fosse presente un lato che ancora non conoscevano, che derivava dalle loro origini Poldark? Decise di metterla alla prova... "Urleresti e piangeresti in modo isterico se vedessi Queen attaccare ed uccidere qualche coniglio. Quando i lupi attaccano, scorre molto sangue... E a te fa impressione".

Clowance alzò le spalle, dimostrandosi ancora una volta molto pratica e molto poco Boscawen. "Non se ho fame! Se ho fame, nessun cibo e nessun modo in cui mi viene portato, mi fa impressione".

A bocca aperta Jeremy la osservò, trovando finalmente divertente quella loro fuga, durante quello scambio di opinioni e botta e risposta che mai potevano avere a tu per tu a Londra, con tanta gente e amici attorno a loro. "E i tuoi vestiti sporchi?".

Clowance si guardò, sconsolata. "Questi sì, questi sì che mi fanno impressione" – concluse, definendo perentoriamente quali fossero le sue priorità, nonostante tutto. "E comunque Jeremy, no... Fox non è stupido. Ma un pò ordinario...".

"A me piacciono le cose ordinarie, sono le più semplici da amare".

Clowance sospirò, non trovando modo di ribattere.

E silenziosamente proseguirono il loro difficile cammino fatto di momenti difficili in cui pensieri complessi prendevano possesso di loro e momenti più semplici, dove essere solo bambini che litigavano per chi avesse il cane migliore.


...


Forse tanta pioggia così l’aveva presa solo a vent’anni, quand’era soldato in Virginia. Anche allora correva sotto la pioggia per qualcosa di fondamentale, spesso per salvarsi la vita. E ora, ora non correva come un forsennato, percorrendo quei sentieri impervi e fangosi, per qualcosa di forse più importante? Non la sua vita, stava correndo per la vita dei suoi figli. E questo gli dava l’energia di scalare ogni montagna del mondo, se fosse stato necessario.

Ross lo sapeva benissimo di non essere mai stato un buon padre per Jeremy e Clowance. Dopo la morte di Julia aveva rifiutato non solo la paternità ma anche gli intrinsechi valori di un matrimonio, quei valori in cui credeva ciecamente ma che, con la morte di un figlio, ti fanno capire che oltre alle gioie, amare significa a volte anche soffrire. Era sfuggito da quella sofferenza, cercando il mondo perfetto dei vent’anni, degli amori idealizzati e senza crepe, illusori come ogni chimera. E così facendo aveva perso non solo il rispetto verso se stesso ma anche la donna che davvero amava e che con lui, come promesso il giorno del loro sì, aveva sempre condiviso gioie e dolori. Aveva perso Jeremy e forse non l’aveva mai avuto perché di fatto, onestamente, non poteva dire di essersene mai preso cura. Hugh Armitage l’aveva fatto, non lui. MAI! Mai, nemmeno quando Jeremy era nato e viveva a Nampara. Poteva dirsi, raccontarsi di aver avuto paura ma questo si era tradotto nel peggiore dei peccati per un genitore, aver abbandonato a se stesso un figlio che quando la sera tornava a casa sempre gli correva incontro, ma lui non era mai stato capace di prenderlo davvero e stringerlo a se. Correva da Elizabeth, ogni sua fibra e risorsa erano per lei e Jeoffrey Charles perché così era più facile, bello, ideale e perfetto. Non si rendeva conto del male che faceva a Demelza e a Jeremy, egoisticamente aveva sempre pensato a se stesso in quel momento fosco della sua vita. A se stesso, a Trenwith, alla miniera, ai minatori, a qualsiasi cosa che non fosse famiglia perché la famiglia lo aveva lacerato, ferito, sconfitto e gli aveva lasciato una grossa scia di dolore nel cuore e lui quel dolore lo voleva lontano, voleva sfuggirgli e lo aveva fatto, con ogni mezzo a sua disposizione. E si era perso tutto, non solo la sofferenza e la brutalità che poteva avere il destino sull’esistenza delle persone a lui legate, ma anche e soprattutto il bello e la vera essenza del vivere con chi ci ama e amiamo davvero.

Demelza era fuggita, con Jeremy e con una piccola bimba che nemmeno aveva avuto il coraggio di andare a conoscere perché troppo aveva sbagliato per tornare indietro e vedere Clowance e ritrovare in lei tracce di Julia, l’avrebbero reso incapace di proseguire nel cammino di espiazione delle sue colpe che si era imposto.

E così aveva ritrovato sei anni, per puro caso dopo che a lungo li aveva creduti persi per sempre, una Demelza diversa, una grande Lady di una grande città, a capo di uno dei casati più nobili e potenti di Londra, Jeremy ormai quasi ragazzino che non lo ricordava più e che aveva scelto un altro come padre e poi Clowance, piccola fiera, testarda principessa che aveva ottenuto persino il rispetto e l’obbedienza di una selvaggia e sfuggente lupa albina.

La sua famiglia e allo stesso tempo, a lungo, tre estranei…

E ora doveva riconquistarli. Non solo Demelza, che in fondo lo aveva sempre conosciuto con i suoi pregi e le sue ombre, ma i suoi figli. Loro no, non lo conoscevano e forse mai avrebbero voluto farlo ma doveva tentarci. E essere capace di accettare la sconfitta nel caso, ma solo dopo una battaglia all’ultimo sangue per loro. Perché per quanto avesse avuto paura li aveva sempre amati fin dall’inizio e nonostante il buio della sua mente e i suoi errori, loro erano stati la luce che aveva illuminato la sua vita e voleva che lo sapessero.

Si arrampicò sui sentieri sterrati, stretti e scivolosi, invasi da una vegetazione sempre più fitta e minacciosa. Aveva preso l’unico sentiero che portava alla montagna, il più vicino quanto meno, e aveva camminato a grandi falcate seguendo il consiglio di Daisy che gli aveva indicato quella via da seguire.

Il fiato gli si fece più corto a causa del freddo e dello sforzo. No, non aveva decisamente più la stessa resistenza dei suoi vent’anni… Ma aveva dalla sua che i due fuggitivi erano ancora piccoli, con le gambe corte e probabilmente lenti. O almeno, lo sperava!

Un improvviso tuono lo fece sobbalzare e alcune lepri, nascoste fra la vegetazione, gli saltellarono veloci davanti agli occhi in cerca di riparo. Ecco dove si era rifugiata la preziosa cacciagione di Falmouth…

Sorrise, quasi rasserenato dal vedere quegli esseri veloci, liberi ed indipendenti che saltellavano via, lontani da fucili e pericoli. Ma poi tornò serio. I suoi figli, doveva recuperarli!

Allungò il passo e arrivò a un piccolo altipiano fra alberi e grotte, dove il dislivello era quasi nullo. Le piante erano alte e rigogliose e impedivano alla poca luce di arrivare a terra, rendendo tutto ancora più cupo e freddo. Ma quanto meno riparavano dalla pioggia e in parte rendevano il terreno meno scivoloso.

Ross si guardò attorno, attento a fiutare ogni minimo movimento e alla fine, a terra, vide quattro piccole impronte infantili che proseguivano nella direzione che lui stava percorrendo. Erano loro, era sulla strada giusta! Nessuno poteva essere passato di lì se non Clowance e Jeremy! E le impronte parevano fresche, segno che i due bambini erano transitati di lì da poco.

Si sentì stranamente orgoglioso di loro, nonostante la pioggia e le scarpette di vernice di Clowance, ne avevano percorsa di strada. Pure lui da piccolo, forse a sette anni, era scappato, ma era arrivato solo alla spiaggia e suo padre lo aveva riacciuffato subito, facendogli diventare il sedere viola a suon di sculacciate.

Ma se erano tanto veloci da essere arrivati fin lì, lui doveva sbrigarsi. La giornata era talmente cupa che presto sarebbe diventato buio e non voleva assolutamente pensare all'ipotesi che i suoi figli trascorressero da soli la notte in quel luogo. Per quanto svegli, sarebbe stata una sfida troppo grossa per loro e Demelza sarebbe morta di preoccupazione. Aveva promesso di riportarli a casa subito e lo avrebbe fatto!

Accelerò il passo e percorse a grandi falcate il falsopiano, arrivando poi nei pressi di un nuovo fitto bosco. La vegetazione era più selvaggia e il sentiero lasciò il posto e un piccolo acciotolato sconnesso che si inerpicava su per la montagna.

Ross prese a salire, di nuovo, mentre il freddo gli penetrava nelle ossa. Santo cielo, che luogo orribile che era la Scozia! L'unica cosa buona nata in quel posto erano i gemelli, per il resto era un luogo che avrebbe volentieri cancellato da ogni mappa!

Stringendo i denti salì ancora, costretto talvolta a sorreggersi agli spuntoni di roccia per non cadere giù. Se il sentiero era stato fonte di guai con il fango, quì rischiava di cadere a causa delle rocce bagnate che non davano ai suoi piedi un appoggio fermo.

Improvvisamente un urlo ruppe lo strano stato di quiete dell'aria. Ross si guardò attorno preoccupato, mentre il sangue gli gelava nelle vene. Era la voce di Clowance, poteva giurarci! E se aveva urlato, voleva dire che era vicina ed in pericolo!

Salì ancora più rapidamente, chiamandola a gran voce. "CLOWANCE, JEREMY! Sto arrivando, non muovetevi!". Certo, era sciocco, se lo avessero sentito avvicinarsi sarebbero scappati ma doveva almeno provarci.

Spinto dalla disperazione salì rapidamente verso la direzione da cui aveva sentito provenire l'urlo e finalmente li vide.

Infreddoliti, bagnati e sporchi, camminavano con passo poco convinto fra gli alberi, aiutandosi a far presa con le mani dove la salita era più ripida.

Tirò un sospiro di sollievo, sembrava stessero bene... "Jeremy, Clowance!" - li richiamò, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse difficile essere genitore e fare la cosa giusta.

I bimbi si voltarono, spalancando gli occhi. Della sua presenza, si erano resi conto solo in quell'istante.

Ross si bloccò per non spaventarli. Clowance aveva un ginocchio sbucciato, poteva vederlo bene e anche se non sembrava nulla di grave, doveva essere per quello che aveva urlato. "Bambini, state fermi, ora vengo a prendervi".

Jeremy guardò Clowance poi lui, con sguardo duro. "No, state lontano! Non vi vogliamo quì, noi stiamo andando via per i fatti nostri!".

Ross si morse il labbro. Fino a quel momento era stato arrendevole e si era attenuto ai consigli dati da Demelza ma adesso basta fare la pecora silenziosa, ora doveva fare il padre e un padre prende in mano la situazione nel modo che ritiene più giusto, anche andando contro ai suoi figli se è per il loro bene. "Jeremy, sta piovendo, siete in un luogo isolato e sconosciuto, siete senza cibo e soldi e presto sarà buio".

"Non sono affari vostri!" - tuonò il ragazzino, senza muoversi di una virgola. "Chi vi ha detto che eravamo quì? Daisy la spia?".

Ross non si fece scoraggiare e decise che difendere Daisy era la cosa primaria in quel momento, per il bene della piccola e anche perché i suoi fratelli capissero quanto lei li amasse. "Daisy non è una spia, Daisy vi vuole bene ed è più assennata di voi due!".

"Noi siamo assennati!" - borbottò Clowance, massaggiandosi il ginocchio.

Jeremy annuì. "Esatto! Abbiamo soldi e cibo, non siamo due bambini scemi!".

Ross si avvicinò di alcuni passi. "Lo so che non siete scemi e proprio per questo Jeremy, sei grande abbastanza da capirlo da solo! Con poche monete non arriverai a Londra e non basterà un tozzo di pane a tenervi in piedi. Vostra madre è preoccupata, su torniamo a casa!".

Clowance divenne rossa in viso, come se la rabbia stesse esplodendo in lei tutta in una volta. "Noi stiamo tornando a casa! La NOSTRA! A Londra! La casa che ci volete far perdere!".

Ross sospirò, allargando le braccia. La pioggia si era fatta ancora più battente ma era come se non la avvertisse, tanto era concentrato sui suoi figli. "Perdere! Io non voglio farvi perdere proprio niente e se veniste quì e ne parlassimo, ci chiariremmo meglio!".

"No!" - rispose Jeremy, voltandosi e correndo via.

Ross entrò in panico ma la sua reazione fu veloce. Con un balzò corse verso di loro e anche se Jeremy fu abbastanza veloce da sfuggirgli, Clowance non lo fu altrettanto, con le sue scarpette di vernice e il ginocchio sbucciato. La raggiunse, la afferrò per la vita e la prese in braccio, bloccandola.

"Lasciami!" - gridò la bambina, divincolandosi.

Jeremy si bloccò, voltandosi. Sembrava spaventato ora, e decisamente meno capace di controbattere e prendere decisioni. "Clowance!" - sussurrò. "Lasciatela signor Poldark!".

"Solo se vieni quì" – rispose. Non avrebbe lasciato Clowance, era la sua arma per riavvicinare Jeremy e in braccio a lui sarebbe stata più al sicuro che in qualsiasi altro posto.

Arresosi all'evidenza di essere il meno forte fra i due, Jeremy si avvicinò di alcuni passi, appoggiandosi al tronco di un grosso albero. "Voi non potete dirci cosa fare e non fare. Se vogliamo andare a Londra, ci andiamo".

Lo sguardo di Ross si indurì. Era testardo Jeremy e se per questo faceva degli errori, lui doveva aiutarlo a capirli, anche senza mezze misure. "Io posso dirvi cosa fare e non fare, che ti piaccia o no sono tuo padre!".

"Il mio cognome è Armitage, non Poldark" – rispose in bambino, a tono, mentre Clowance silenziosa assisteva al battibecco fra i due.

Quella frase ferì Ross, lo ferì mortalmente. Ma non poteva farsi sconfiggere. "Jeremy, a me di quello che dicono la legge e i documenti, importa meno di zero. Sei mio figlio e mai ho pensato a te in termini diversi. Ho fatto degli errori enormi ma questo non ha mai intaccato l'amore per voi e l'orgoglio di essere vostro padre".

Jeremy tremò lievemente a quelle parole, ma poi si ricompose subito. "Non vi credo. Hugh è stato mio padre, voi mi avete abbandonato! Senza nome, senza casa, da solo con mamma, Clowance e Prudie! Se mi amavate, restavate con me!".

Ross sospirò, stringendo ancora più a se Clowance. Jeremy aveva ragione e giustificarsi sarebbe stato inutile e controproducente perché non era quello che suo figlio si aspettava di sentirgli dire. Forse doveva solo essere sincero, chiedere scusa, cospargersi il capo di cenere e soprattutto dire la cosa più importante, che lo amava, che lo aveva sempre amato e lo avrebbe fatto per sempre, anche se nel suo cuore avrebbe dovuto convivere col ricordo di un altro padre. "E' vero, Hugh è stato tuo padre e io lo rispetto e lo ringrazio per questo. Nessuno ti toglierà mai i ricordi con lui e quello che ti ha insegnato... E' altrettanto vero che ho fatto un errore orribile e anche se i motivi che mi hanno portato a commetterlo erano umani e forse evitabili o forse no, io ho sbagliato. Ho sbagliato e ho cercato di porre rimedio ai miei errori e ai miei rimorsi commettendo altri errori. Non mi rendevo conto di quello che facevo, non mi rendevo conto delle conseguenze. Tua madre sì, lei ci arriva sempre per prima alle cose, sicuramente prima di me. E tu lo sai bene, giusto?".

"Giusto" – rispose Jeremy. "Ma ora è troppo tardi. Voi siete un Poldark e io un Boscawen. E mi piace esserlo! Io non voglio essere come voi, io da grande voglio essere come Hugh! O simile... Mi piacciono le cose che piacevano a lui, mi piace come faceva e parlava, mi piace ricordare come trattava la mamma".

"Papà Hugh amava la mamma, non la lasciava mai" – mormorò Clowance.

Faceva male sentire quelle cose e di certo le meritava, faceva male non essere un modello di riferimento per suo figlio ma in fondo niente e nessuno poteva garantirgli che Jeremy, anche se fosse cresciuto con lui, avrebbe potuto provare interesse per le cose che interessavano a lui. Avevano temperamenti diversi e questo Ross lo aveva comunque capito fin da quando Jeremy era molto piccolo e quindi non doveva prenderlo come un affronto personale ma rispettare la sua personalità che forse un temperamento pacato come quello di Hugh aveva aiutato a sviluppare. "Nemmeno a me piacevano le cose che piacevano a mio padre... Tuo nonno Joshua era molto diverso da me, non c'è alcun male in questo. E puoi diventare l'uomo che vuoi, non sarò certo io ad impedirtelo ma vorrei aiutarti ad esserlo".

"Davvero?" - chiese Jeremy, in tono di sfida.

"Davvero, te lo prometto".

Il bambino fece uno strano sorrisetto, freddo e sarcastico. "Voi siete bravo a promettere, ma poi non mantenete la vostra parola".

"A cosa ti riferisci?" - chiese Ross, un pò confuso.

Jeremy strinse i pugni, rabbioso, mentre la voce gli tremava. Sembrava davvero sofferente ora, più che arrabbiato. "Vi ho aspettato, a lungo! Che arrivaste e mi insegnaste a cavalcare! Io non ricordo niente, solo una cosa...". Allungò la mano, mostrandogliela. "Ricordate?".

Ross impallidì. "Di cosa parli?".

Jeremy si voltò, dandogli le spalle. "Quando la mia mano diventava grande la metà della vostra, mi dovevate insegnare a cavalcare. Mi ha insegnato un maestro, solo i maestri mi hanno insegnato qualcosa, non voi! Voi non mi avete insegnato niente!".

Lo urlò, rabbioso, poi scappò via fra la vegetazione. Fu talmente veloce che Ross fu preso alla sprovvista e ci mise un attimo a reagire.

Clowance ne approfittò per mordergli il braccio e liberarsi della sua presa, cadde a terra ma si rialzò subito, agile come una gatta. O una lupa... "Tutti mi amano, un papà doveva amarmi per forza!" - urlò, ferita quanto Jeremy, prima di correre via.

Scappò in mezzo agli arbusti, in quel dedalo di vegetazione fitta, rocce e scarpate. Pioveva forte, era pericoloso, loro non conoscevano la strada, erano turbati e potevano farsi male.

Gli corse dietro, chiamandoli a gran voce. Ma la loro stazza minuta li aiutava a divincolarsi da quell'intricata foresta piena di rovi e pericoli mentre lui incespicava sui suoi passi. "Fermatevi!" - urlò loro.

I bambini però correvano, forse senza nemmeno sapere dove. Il sentiero principale era sempre più lontano, il terreno sempre più zuppo d'acqua e sdruciolevole e rimanere in piedi era ormai un'impresa quasi impossibile.

Improvvisamente un rumore sordo sopra le loro teste fece fermare tutti e tre. Alcune pietre iniziarono a rotolare dalla montagna, sempre più grandi e sempre più numerose.

A Ross si gelò il sangue. Tutta quella pioggia stava creando uno smottamento e loro ci erano proprio sotto. E finire sotto una valanga in quel posto isolato e dimenticato poteva equivalere alla morte.

Corse veloce, verso i bambini che si erano fermati spaventati. E appena li ebbe raggiunti, li afferrò forte e loro si lasciarono prendere. "Dobbiamo andarcene da quì!" - urlò loro.

"Cosa succede?" - domandò Clowance, terrorizzata.

Ross li strinse a se. "Siamo un pò nei guai, questo succede!". Si guardò attorno con urgenza per cercare riparo mentre la pioggia di pietre si faceva sempre più minacciosa e alla fine intravide una piccola grotta a una decina di metri da loro, nascosta fra i rovi. Mise i bambini a terra, gli diede una spinta e la indicò loro. "Correte! Veloci più che potete!" - ordinò, disperato.

I bambini ubbidirono e Ross fu subito dietro di loro, a proteggergli le spalle.

Corsero ma a un certo punto i suoi stivali lo tradirono e scivolò.

Jeremy si bloccò e fece per tornare indietro ad aiutarlo e nonostante questo gesto istintivo ed inaspettato lo rendesse felice, suo figlio non doveva farlo. "No, va avanti, va alla grotta con tua sorella!" - urlò disperato, cercando di alzarsi. Ma ricadde a terra, con la caviglia dolorante.

Jeremy rimase fermo, terrorizzato e immobile, fra lui e la grotta. Clowance lo chiamò, tentò di raggiungere il fratello ma Ross urlò di nuovo! "VIA, VIAAAA! Andate in quella dannata grotta!!!".

Jeremy decise di non ascoltarlo, mentre le schegge e le pietre cadevano ormai come in una cascata su di loro. Si chinò, lo prese per il polso e tentò di farlo rialzare ma il dolore alla caviglia era troppo e non c'era più tempo. Non importava, la cosa fondamentale era la salvezza dei bambini, non la sua! Avrebbe voluto abbracciare Jeremy ma l'unico atto d'amore verso di lui in quel momento non poteva che essere una spinta. Lo spinse indietro con tutta la forza che aveva, lontano, facendolo indietreggiare. "VATTENE!" - ordinò fra i denti, mentre Clowance piangeva. "Va da lei in quella grotta!". Poi non vide più nulla...

Un pioggia di grossi detriti lo colpì senza pietà annebbiandogli la vista e i sensi. E tutto divenne nero e polveroso, inconsistente e lontano...

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Capitolo 73
*** Capitolo settantatre ***


Jeremy non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. La montagna era franata con un frastuono spaventoso ed assordante e rocce, massi, detriti e rami erano venuti giù con una furia inarrestabile, travolgendo senza pietà qualunque cosa trovassero sul loro percorso.

Alla fine aveva ubbidito nonostante il suo istinto lo avesse fermato mentre fuggiva, quando si era accorto dell'infortunio e della caduta di Ross Poldark. Sua madre gli aveva sempre insegnato che si devono aiutare le persone che vediamo in difficoltà e Jeremy voleva farlo, per sua madre certo, ma anche perché dentro di se sapeva di voler essere inseguito e non voleva che questo finisse, non prima del necessario quanto meno... Era stato più forte di lui, non era riuscito a voltargli le spalle, non era riuscito ad ignorarlo, non era riuscito a far finta che non esistesse, come diceva a parole...

Con Clowance, di corsa, avevano raggiunto la piccola grotta che in realtà non era che una minuscola rientranza, riparandosi dalla pioggia di detriti appena in tempo. Clowance, piangendo, lo aveva abbracciato terrorizzata e in lacrime e insieme a lei, riparandola dalla polvere con le sue braccia, aveva atteso che tutto finisse.

Dopo fu silenzio, un silenzio che a Jeremy fece più paura della valanga stessa. Era come se ogni cosa, ogni forma di vita fosse stata sepolta e ora la natura stesse osservando rispettosamente dei minuti di silenzio in onore di ciò che era stato ed era andato perduto.

Jeremy deglutì, LUI era la fuori, in difficoltà, forse ferito, forse seppellito sotto detriti pesantissimi da spostare, forse... forse ancora peggio ma aveva troppa paura a pensarci. "Clowance...".

La piccola si asciugò le lacrime col braccio, non staccandosi da lui. "Non dire niente".

"Va bene... Ma non possiamo stare quì, non c'è tempo".

"Lo so...".

Jeremy fissò l'orizzonte, ancora polveroso. Tutto attorno era un disastro, pietre, sassi e rocce avevano travolto ogni arbusto e ogni pianta e il paesaggio pareva decisamente diverso rispetto a quello che era stato fino a poco prima. Erano sporchi, spaventati, bagnati e nei guai. Non erano feriti ma colui che era venuto a salvarli lo era, era in pericolo e loro non erano che due bambini che non sapevano cosa fare. "Se ci fosse Fox...".

"Se ci fosse Queen..." - sussurrò Clowance. "Lei saprebbe cosa fare. Anche Garrick...".

Jeremy strinse i pugni. I cani in quel momento sarebbero stati utilissimi, lo sapeva pure lui. Ma non c'erano e dovevano arrangiarsi da soli. E dovevano farlo in fretta. Si alzò di scatto, voltandosi verso la sorella. "Dobbiamo cercarlo! E portarlo quì, al riparo".

Clowance scosse la testa. "Lo so... Ma ho paura".

"La valanga è finita!".

La piccola scosse la testa. "Non ho paura della valanga, ho paura di cercarlo, trovarlo e vedere che non lo abbiamo trovato affatto, che non lo troveremo mai più! E mamma? Se è così, mamma che dirà? E' colpa nostra, Jeremy?".

Quella domanda lo colpì, era un'ipotesi orribile che avrebbe portato a un eterno ed insopportabile senso di colpa. Era stata colpa loro, della loro stupida fuga e del loro ostinato chiudersi in se stessi? Pensò a lui, a Ross Poldark, a quello che si erano appena detti, al fatto che con quel tempo infame era venuto a cercarli quando avrebbero potuto mandare dei servi scozzesi dello zio, decisamente più esperti della zona. Invece era venuto lui, subito. E lo aveva spinto via per salvarlo... Sua madre amava Ross Poldark, aveva avuto tre figli da lui e anche se aveva sofferto a causa sua, lo giudicava talmente un grande uomo da averlo riaccolto nella sua vita, dandogli di nuovo fiducia. Quella fiducia che lui non riusciva ancora a dargli ma che ora, ora che lui era in pericolo e ora che gli aveva gridato contro la sua rabbia, non sembrava più così complicata da accordare. Se solo...

Pensò alla promessa di cavalcare insieme e a quel padre che mai l'aveva mantenuta e aveva preso la porta per non tornare più. Il primo abbandono...

Pensò a Hugh, al giorno in cui era morto. Il secondo abbandono...

Pensò alla valanga. E al fatto che essere abbandonato ancora, per la TERZA volta, sarebbe stato troppo! Questa volta non ci stava!!!

Prese con decisione la mano della sorella, non era il momento né di frignare, né di avere paura. "Se stiamo quì a parlare, sicuramente sarà così!".

Clowance, sporca, stanca, sconvolta, tremò. "Jeremy!".

Lui le sorrise, cercando di apparire rassicurante. "Ci sono io, come sempre! Ma ho bisogno del tuo aiuto! Dobbiamo scavare, come farebbero Fox e Queen!".

Clowance deglutì, poi però annuì. In fondo sapeva essere combattiva anche lei e Jeremy sapeva che per carattere, se c'era qualcosa che andava fatto, lei non si tirava indietro.

Si alzarono in contemporanea, usendo dal loro nascondiglio di fortuna. Pioveva ancora molto forte e acqua e polvere insieme, rendevano la visibilità molto scarsa e facevano lacrimare i loro occhi.

Jeremy si guardò attorno, alla ricerca di Ross Poldark. Era a pochi metri dalla grotta ma ora il terreno e il punto in cui prima c'era il sentiero erano ricoperti da rocce e detriti e orientarsi era difficile.

Contò i passi, lo aveva fatto anche mentre scappava fino alla grotta ed erano nove. Era l'unico modo per cercare di capire dove lui fosse ed era un trucco che gli aveva insegnato lo zio quando, portandolo a una battuta di caccia, gli aveva suggerito di contare sempre i passi fatti fra il sentiero e una ipotetica preda magari lontana, per non perdersi durante il ritorno. Non aveva mai amato la caccia ma quel suggerimento in quel momento gli stava tornando decisamente utile. "Clowance, vieni!" - le ordinò, prendendola per mano e correndo. E contando...

Uno, due, cinque, nove... "Scava, quì!" - disse, cominciando a spostare il cumulo di massi più o meno grossi che coprivano la superficie sotto la quale, sperava, lo avrebbero ritrovato. Sempre che non fosse caduto giù con le rocce, nel dirupo scosceso... Ma a quell'ipotesi, Jeremy non voleva nemmeno pensare. Era lì, DOVEVA essere lì!

Perplessa dalla sua sicurezza, Clowance iniziò a muovere disperatamente le rocce, lavorando e piangendo. Era spaventatissima, ogni tanto implorava l'arrivo di sua madre ma coraggiosamente, continuò a lavorare.

Finché videro una manica spuntare dai detriti, consunta e logora.

Tirarono un sospiro di sollievo, era lì! Lui era lì, non era precipitato!

Jeremy prese a rimuovere le rocce ancora più forte, con la spinta che gli dava la disperazione. Nemmeno avvertiva più il freddo e la pioggia, lavorava come un pazzo con le mani che si riempivano di graffi e le braccia che prendevano a far male. Lavorò perché sua madre avrebbe voluto così, perché come poco prima non voleva che gli succedesse qualcosa di male e perché... Perché sapeva che Ross Poldark avrebbe fatto altrettanto per lui. Era strano ma ne era certo. E forse quella certezza era sempre stata insita in lui ma solo il fato, il destino e la disperazione l'avevano portata a galla.

"Signor Poldark, signor Poldark!!!" - urlò, liberandogli il viso.

Aveva dei graffi e sembrava senza conoscienza ma non pareva troppo malridotto. Ai suoi richiami non rispondeva, un rivolo di sangue gli scendeva dalla fronte completamene annerita dalla polvere ma a parte questo, sembrava avere la pelle dura, anche se era senza conoscenza.

Lo prese per le spalle, lo scosse e a quel punto sentì un lamento.

Clowance lo guardò. "E' vivo!?".

Col fiato corto, Jeremy annuì sollevato. Forse era ferito, forse pure gravemente, ma era vivo. "Sì, direi, ma dobbiamo portarlo al sicuro. Trasciniamolo fino alla grotta!".

Clowance non rispose ma con grinta e con le ultime forze che le restavano, rimosse le ultime pietre che bloccavano il corpo.

E quando fu completamente libero, prima di spostarlo, Jeremy lo analizzò come forse avrebbe fatto Dwight. Glielo aveva visto fare molto spesso coi gemelli quando erano malati e forse poteva capirci qualcosa. Doveva farlo visto che Ross Poldark era senza conoscenza e non poteva dire dove e se avesse male! Gli sfiorò la spalla che poco prima gli aveva strappato un gemito e si accorse che la sentiva strana, come fuori posto. Lui sussultò ancora e Jeremy a quel punto capì che qualunque cosa lui avesse, doveva immobilizzarla. Chiese a Clowance il nastro che le teneva legato il vestito in vita, fasciò la spalla e poi sfiorò il suo 'paziente' sul petto, sulle braccia e sulle gambe. La caviglia sinistra doveva essere slogata, doveva avere ematomi ovunque ma quando appoggiò l'orecchio contro il suo petto, si accorse che respirava senza affanno e che quindi era solo svenuto. "Signor Poldark!" - lo chiamò, forte. Poi ripeté quel nome ancora e ancora, sempre più forte, imitato da Clowance. "Signor Poldark, signor Poldark!!!" - gridò, riuscendo a sovrastare persino il rumore della pioggia. E mentre lo chiamava, ripensò di nuovo a tutti gli abbandoni della sua vita e a quell'uomo che il destino gli aveva rimesso vicino dando a lui una seconda possibilità ma anche... Era una seconda possibilità solo di Ross Poldark o lo era per tutti? Jeremy prese a singhiozzare, in fondo era difficile distinguere le lacrime dalla pioggia che gli bagnava il viso e Clowance magari non se ne sarebbe accorta e non si sarebbe spaventata nel vederlo meno coraggioso del solito. Lei aveva bisogno di saperlo forte e saldo e lo era sempre stato anche se adesso avrebbe voluto non esserlo, avrebbe voluto che lui aprisse gli occhi e lo proteggesse. Ecco, lo aveva detto, voleva essere protetto e non più il protettore dei suoi fratelli. Voleva avere paura e voleva avere qualcuno che da quella paura lo difendesse, voleva cadere ed essere aiutato a rialzarsi, voleva piangere e magari anche fare capricci e avere qualcuno che lo riprendesse e lo sgridasse... "Papà..." - sussurrò, piano, prendendolo per la camicia e scuotendolo. "Papà...".

"Lo hai chiamato papà!?" - sussurrò Clowance con gli occhi spalancati dalla sorpresa.

Jeremy si morse il labbro, maledicendosi per quel momento di debolezza che non poteva permettersi. Gli girò la testa, era da così tanto tempo che non chiamava qualcuno a quel modo e mai avrebbe pensato di poterlo rifare. "Gli direi anche che è il re, purché si svegli!" - rispose lui sforzandosi di essere sarcastico, ma con gli occhi ancora lucidi.

Clowance, perplessa, spaventata e consapevole che tutto stava cambiando in tutti anche se era difficile ammetterlo e faceva paura, rimase in silenzio. Comprese bene che non era stato un errore, che quella parola, 'papà', proveniva dalla parte più remota della mente del fratello e non fece domande. "Portiamolo alla grotta! Quì non si sveglia, ha bisogno di meno pioggia e di stare in un posto più tranquillo. Dwight direbbe così" – propose.

Jeremy si trovò d'accordo, in quelle ultime ore Clowance era diventata molto saggia e sembrava fatta di ferro, una che non si piega e che sa tenere il polso della situazione anche nei momenti difficili. Anche lei aveva pianto, anche lei aveva paura ma a differenza sua non si era lasciata andare a momenti di prostrazione come lui poco prima. O se lo aveva fatto, era stata più brava di lui a mascherarlo. In fondo era così che lo zio e nonna Alix le avevano insegnato: "Piangi in silenzio e dentro di te ma non farlo vedere fuori, non far vedere mai quando sei spezzata. Bisogna fare così...". Questo avevano insegnato a sua sorella e a tutti loro e anche se la loro mamma non era mai stata d'accordo, la nipote migliore di nonna Alix, quella che più di tutti la ascoltava, era sempre stata Clowance e ora se ne vedevano i risultati.

"Tiriamolo su" – disse solo. Stringendo i denti sollevò Ross Poldark dalle spalle mentre Clowance faceva lo stesso dalle caviglie. E a fatica, rischiando di scivolare giù nel dirupo, lentamente, raggiunsero la grotta.

Non avevano idea di come ci fossero riusciti, il terreno era scivoloso, la pioggia forte, lui un uomo adulto e loro due bambini. Eppure forse la disperazione fa fare cose che mai avremmo creduto possibili. Come in quel caso...

Una volta al riparo, Jeremy tolse il cappotto di Ross, mettendolo fra le rocce interne della grotta ad asciugare. Poi con Clowance si avvicinò a lui, inginocchiandoglisi di fianco. "O noi siamo molto forti o voi siete molto fortunato. Ma ora che siamo quì, aprite gli occhi...". Avrebbe voluto chiamarlo ancora papà ma la sua lingua in quel momento si rifiutò di ubbidire. Forse lo avrebbe fatto dopo o magari in un giorno futuro. Assieme a Clowance... Forse lo desiderava anche, avere due papà come diceva Daisy. Uno in cielo e uno in terra, tornato da un passato difficile e pronto a riscattarsi se lui gliene avesse dato l'opportunità come aveva fatto la sua mamma. Magari lo desiderava anche sua sorella, magari anche Clowance voleva 'appartenere' a qualcuno, soprattutto se a quel qualcuno assomigli nel fisico o nel carattere. Era difficile ammetterlo a voce alta, Jeremy aveva ancora paura. Ma i padri non servono proprio a questo, a farti passare la paura?

E in cuor suo Jeremy pregò che non fosse troppo tardi.

"Non era meglio una volta?" - chiese improvvisamente Clowance, spezzando quel forzato silenzio.

"Di che parli?".

"Di quando eravamo piccoli e la mamma ci leggeva la fiaba di Sveva la zebra. Tutto era più facile quando eravamo piccoli, bastava una fiaba per mandar via i pensieri brutti".

Jeremy sorrise tristemente, pensando a quel periodo lontano dove in effetti per lui tutto sembrava una fiaba. Ma ora che era più grande capiva che quella fiaba l'aveva creata per loro Hugh con sua madre e che per lei niente era semplice in quel periodo. Ma nonostante questo lei aveva sempre sorriso con lui e Clowance, anche se forse non avrebbe avuto voglia che di piangere. E ora chissà com'era preoccupata per loro ma anche per Ross... Lo scosse ancora, disperato. "Svegliatevi!" - lo implorò, continuando a scuoterlo.

Anche Clowance provò a scuoterlo e alla fine, esasperata, decise di usare le maniere forti. E con la mano destra diede un forte colpo sulla spalla di Ross che suo fratello aveva fasciato. A mali estremi, estremi rimedi...

Jeremy spalancò gli occhi. "Clowance!".

Lei fece la faccia da dura ma non fece in tempo a rispondere.

Ross nel sonno si lamentò, digrignò i denti e poi, a fatica, aprì gli occhi.

I metodi poco ortodossi di Clowance avevano funzionato...


...


La luce, nonostante fosse fioca, gli ferì gli occhi.

Non aveva nemmeno un osso che non gli facesse male e la spalla e una caviglia, soprattutto, sembravano lacerargli la carne dal dolore. La sua gola era secca come se avesse inghiottito chili di polvere, sentiva freddo e per un attimo non seppe dove fosse.

Ma la sua mente tornò subito lucida, assieme ai ricordi di quella giornata terribile coi suoi figli che scappavano da lui e gli urlavano il loro dolore e poi per finire la frana, che avrebbe potuto cancellare tutti loro.

E a quel pensiero, aprì gli occhi. Era vivo, dunque? E i bambini? Santo cielo, i suoi bambini dov'erano?

"Signor Poldark...".

Mai era stato tanto felice di sentire la voce di qualcuno come in quel momento! La vocina di Jeremy lo fece voltare e finalmente lo vide, davanti a lui, inginocchiato al suo fianco, con Clowance. Erano bagnati, impolverati e sporchi ma sembravano stare bene. Grazie al cielo, GRAZIE AL CIELO!

Ovunque fossero, solo questo importava! "State bene?" - chiese tossendo, con un filo di voce.

"Sì, noi sì" – rispose Clowance titubante.

"A differenza vostra..." - aggiunse Jeremy.

Ross chiuse gli occhi, stringendo i pugni. Non c'era bisogno che qualcuno gli dicesse che era malridotto, quei dolori che aveva ovunque erano inequivocabili. "Dove siamo?".

"Nella grotta dove ci siamo rifugiati. La valanga è finita e vi abbiamo portato fin quì! Eravate sotto un pò di rocce, è stato faticoso tirarvi fuori da la sotto".

Fu Clowance a dargli quella spiegazione, rimarcandogli sia la fatica, sia la difficoltà nell'aiutarlo. Era una bambina molto diretta, che non faceva giri di parole e non aveva mezze misure. Era una mini-Poldark fatta e finita!

Tentò di voltarsi verso di lei ma la spalla gli lanciò una fitta terribile che lo lasciò senza fiato. Quasi urlò, prima di ricadere senza forze sulla dura roccia.

Jeremy sospirò. "State fermo, avete la spalla slogata! L'ho fasciata ma finché non va a posto, dovrete tenerla immobile".

Ross lo guardò, accigliato. Aveva conoscenze mediche? "Come lo sai?".

Jeremy distolse lo sguardo, come se dare quella spiegazione gli costasse molta fatica. "Quando avevo sei anni e prendevo lezioni di equitazione insieme a Gustav col maestro... per imparare ad andare a cavallo... una volta Gustav è caduto dal pony. Dopo piangeva, aveva la spalla tutta strana come la vostra ed è corso Dwight a curarlo. Disse che era slogata, gli mosse e tirò il braccio in modo strano e Gustav guarì subito".

Ross alzò gli occhi al cielo. Ci mancava solo questa! "E tu hai visto ciò che ha fatto Dwight? Sapresti rifarlo?". Aveva bisogno di star bene e uscire da quell'inferno e con la spalla fasciata non poteva andare lontano.

Jeremy alzò gli occhi al cielo. "No! Sono un bambino, mica un dottore!".

In effetti non aveva torto e lui si sentiva scemo ad averglielo chiesto. Guardò i suoi figli che gli avevano urlato fino a poco prima il loro risentimento e si accorse che erano lì, che erano rimasti e che lo avevano salvato. Non erano scappati, non lo avevano lasciato solo senza voltarsi indietro ma anzi, avevano lottato per metterlo in salvo. Nonostante tutto, nonostante lui a suo tempo non fosse stato tanto gentile nei loro confronti... Lui non era tornato indietro, non era tornato a Nampara dove la sua famiglia lo aspettava. Loro sì, loro erano tornati da lui... Questo lo di sensi di colpa ma anche di una forte speranza e desiderio di parlar loro, ora con più calma. Aveva sbagliato tanto in passato e ora non chiedeva che di vivere una vita votata all'espiazione di quegli errori e all'amore di chi per lui contava più di tutto.

Ma Jeremy non gli diede modo di fare grandi discorsi. "Dove vi fa male?".

"Ovunque, ma credo siano solo lividi".

Jeremy guardò fuori dalla grotta. "Sì, credo anche io. A parte la spalla e la caviglia. Ci siete caduto sopra, prima".

Ross, a quelle parole, gli toccò il braccio, costringendolo a voltarsi verso di lui. "Non avresti dovuto tornare indietro, dovevi scappare e basta".

Jeremy impallidì. "Ma eravate caduto... Non si lascia solo chi cade".

Ross gli sorrise. "Sei saggio".

"Lo è mamma, ce lo ha insegnato lei" – si intromise Clowance, stringendosi fra le braccia per il freddo.

Ross annuì. "Vostra madre vi ha insegnato un sacco di cose. Lei è sempre stata molto saggia".

"Anche Hugh ci ha insegnato un sacco di cose" – rispose Jeremy, con tono più duro di poco prima.

Ross si sentì sotto esame di nuovo, come sempre succedeva quando Hugh veniva nominato. Ma stavolta non sentì la competizione con quel fantasma che da sempre aleggiava su di lui da un anno a quella parte ma al contrario, avvertì uno strano spirito di squadra con quell'uomo che non aveva conosciuto ma che era stato parte fondamentale della crescita dei suoi figli. "Lo so e gliene sono grato" – rispose, con un filo di voce.

Jeremy prese un profondo respiro. "Lui mi ha insegnato a leggere e scrivere. E a fare tanti regalini alla mamma con le mie mani, perché sapeva che gli avrebbero fatto piacere".

Clowance annuì. "E la sorpresa di Natale, come la recita e la canzone 'Oh Tannenbaum' che abbiamo preparato quest'anno. Lui ci ha dato questa abitudine, di fare qualche sorpresa di nascosto a mamma da darle la notte di Natale. Da piccoli facevamo disegni, bigliettini o imparavamo filastrocche. Ma quest'anno abbiamo voluto fare qualche regalo speciale e più complicato. Un regalo più da grandi".

Nonostante un improvviso mal di testa unito a spossatezza, Ross ripensò alla magia della notte di Natale, ai bambini che cantavano quella difficile canzone tedesca con armonia nel vero spirito di quella ricorrenza festosa e come allora, si sentì orgoglioso. E grato che Hugh avesse insegnato ai bambini a fare qualcosa che avrebbe reso felice Demelza. "Io non sarei mai riuscito ad insegnarvi niente del genere. Non ho quel tipo di cultura e conoscenza. O idee".

Clowance alzò le spalle. "Ognuno è quello che è. Anche questo ce lo ha insegnato la mamma".

Ross annuì. "E' vero, ma avrei voluto essere qualcosa di meglio. Per vostra madre e per voi" – disse, con un filo di voce. Santo cielo, i colpi presi iniziavano a fare effetto sul suo fisico provato. Aveva freddo e forse le ferite gli stavano facendo venire la febbre. Improvvisamente si sentì incredibilmente stanco...

"Signor Poldark..." - lo chiamò Jeremy.

"Dopo... Dopo che avrò dormito un pò... Penseremo a come uscire da questo disastro. Mi avete salvato, grazie... Ma ora, credo di voler dormire".

A quelle parole, Jeremy fu preso dal panico. "Noooo! No, non dovete dormire! State sveglio, state sveglio per favore".

Clowance fu presa dal panico quanto il fratello. "Se dormite, poi non vi svegliate più! I feriti non devono dormire MAI, ce lo ha detto Dwight! Dovete stare sveglissimo!".

Avrebbe voluto assecondarli ma era davvero difficile. Solo cinque minuti, solo cinque minuti di sonno sarebbero stati sufficienti... "Vi prego...".

Jeremy, disperato, lo scosse. "No, no!!! Sapete cosa ho pensato, quando vi ho visto cadere e sono tornato indietro?".

"A cosa?".

"A voi! A quanto mi avete lasciato da solo ed ero piccolo! A Hugh, a quando è morto e mi ha lasciato pure lui! E ora...". Le manine di Jeremy tremarono, mentre gli afferrava il colletto della camicia per stringerlo. "E ora...".

Ross si accorse che suo figlio aveva gli occhi lucidi e capì che doveva aiutarlo, che non poteva dormire e che quello era forse il momento più importante della vita di tutti. Al diavolo stanchezza, febbre e ferite! "Jeremy".

Il bambino singhiozzò. "Ed ora... Ora se dormite e non vi svegliate, mi abbandonerete di nuovo! E questa volta non vi perdonerei MAI! Capito? Mai è mai, vuol dire per sempre!".

Clowance tremò ancora, stavolta per la tensione, stringendosi al fratello. E Ross, raccogliendo le forze esigue, capì che era il suo momento, che doveva essere il loro padre e rassicurarli. Proteggerli. Per la prima volta entrambi gli avevano aperto uno spiraglio e doveva afferrare le loro manine per non lascarli andare più. Gli stavano chiedendo aiuto, gli stavano chiedendo di restare, di non lasciarli, di rimanere lì con gli occhi aperti a parlare con loro. Li strinse a se e anche se gli faceva male dappertutto, capì che non gli importava niente. Soprattutto perché i bambini, in lacrime, glielo fecero fare.

Jeremy sprofondò il viso nel suo collo, piangendo. "Non dormite... Non dormire papà... Sta sveglio, ti aiuto io a farlo, ti racconto tutte le barzellette che so. O le poesie... Quello che vuoi ma sta sveglio!".

"Per favore..." - aggiunse Clowance, unendosi alla richiesta del fratello. "Per favore, papà...".

Ross spalancò gli occhi. Erano i deliri della febbre? O loro lo avevano davvero chiamato...? Ricordò Julia, lei non aveva fatto in tempo ad imparare a parlare. E Jeremy, che quando aveva iniziato a chiamarlo papà, non l'aveva quasi notato. E Clowance, che aveva conosciuto quando sarebbe stata capace di recitare la Divina Commedia se qualcuno glielo avesse chiesto. Infine Valentine, che quando l'aveva chiamato papà per la prima volta, aveva la mente troppo avvelenata per goderne appieno... Ma ora quella parola assumeva una dolcezza che mai aveva conosciuto... "Cosa avete detto?".

Clowance deglutì. "Le barzellette! Non le voglio, quelle che raccontano lui e Gustav sono bruttissime!".

Ross rise, stringendola a se. Aveva uno strano e sarcarstico senso dell'umorismo. "No, non intendevo quello! Come mi avete chiamato?".

Jeremy si strinse ancora più a luic capendo a cosa alludesse. "Papà... Non è così che dovremmo chiamarvi?".

Ross li strinse a se. "Certo, certo...". Forse in quel momento fu come se loro fossero nati la seconda volta e lui finalmente fosse nel posto giusto. Fu come rinascere, per loro e per lui. C'erano tante cose ancora a dividerli ma forse loro desideravano avere qualcuno da chiamare papà e lui desiderava che tutti i suoi figli lo chiamassero in quel modo.

Col viso nascosto contro il suo petto, Jeremy strinse le mani a pugno. "Ma io avrò sempre anche un altro papà... E uno zio e una nonna. E due fratelli gemelli...".

"Anche io" – mise in chiaro, Clowance.

Ross li strinse a se, capendo le loro paure. Era normale, erano stati amati ed avevano trovato una famiglia nei Boscawen e mai li avrebbe privati di tutto questo. Lo aveva desiderato all'inizio, quando li aveva ritrovati aveva prevalso il suo egoismo e la voglia di riavere indietro, come se nulla fosse, ciò che si era lasciato sfuggire dalle mani stupidamente. Ma poi aveva capito, aveva compreso che la sua famiglia aveva vissuto in quegli anni di separazione, i suoi figli erano cambiati e Demelza con loro si era costruita una nuova vita che lui doveva rispettare non solo perché non aveva altra scelta ma perché li amava e voleva solo il loro bene. Hugh, chiunque lui fosse stato, era ancora amato e pensato e doveva rispettarlo. I gemelli erano nati e facevano parte di quella grande famiglia allargata, come Valentine del resto. Falmouth e Alexandra erano zio e nonna a tutti gli effetti dei bambini. Tante cose erano cambiate ma in fondo l'amore fra lui e Demelza mai era mutato davvero nonostante le tante tempeste vissute e quindi tutto ciò che si era aggiunto fra loro negli anni non doveva essere visto come un ostacolo ma come un semplice arricchimento. Anche per lui che in fondo mai aveva avuto attorno il calore di una famiglia vera e tanto grande. E gli piaceva, doveva ammetterlo... "Voi siete scappati perché pensavate che io volessi portarvi via da tutto ciò che amate?" - chiese. Era inutile girarci attorno.

I bambini non risposero.

Ross proseguì, capendo le loro paure ed accarezzandogli i capelli. "Credete davvero che vostra madre mi avrebbe permesso di farlo? Di portarvi via dallo zio e dai vostri fratelli? Dalla nonna e dalla vostra casa? Credete davvero che avrebbe potuto voler bene a un uomo che le chiedeva ciò?".

Jeremy e Clowance sussultarono a quelle parole e a quella realtà forse sempre davanti ai loro occhi ma che per rabbia e timore non avevano voluto vedere. "Ma nessuno ce l'ha mai detto...".

Ross sospirò. La maledizione dei Poldark era proprio questa, il silenzio dettato dall'orgoglio. "Già. Ora ve lo sto dicendo io, vi basta?".

"Credo di sì" – ammise Jeremy, forse più fiducioso del buon cuore di sua madre che nel suo, ma a Ross in quel momento andava bene anche così.

Ross li guardò negli occhi, serio e risoluto. Era stato zitto tanto, troppo a lungo. Ed era ora di essere franco e sincero e ripartire da zero da lì. "Io ho fatto molti errori, errori orribili che mi hanno fatto perdere tutto. Ma non ho mai pensato di non volervi, mai ho desiderato essere da qualche altra parte se non con voi e vostra madre. Ho avuto un periodo duro e confuso, mi sono smarrito come a volte succede nella vita ad ognuno di noi e ho fatto sbagli di cui non mi rendevo conto. Ma non è una scusa e il torto rimane. Ma credo mi siano anche serviti per imparare molto da me stesso. Io non sono come Hugh, non amo i libri e nemmeno le poesie. Amo la vita all'aria aperta, amo veder star bene le persone che lavorano per me e chi ho vicino, amo le mie miniere e la Cornovaglia".

Clowance lo boccò. "Ci porterete lì?".

Ross sospirò. "E' il posto da dove veniamo e io e la mamma vorremmo portarvi a vederlo questa estate. Ma poi torneremo a Londra, lì c'è anche la vostra altra casa, lì ho un lavoro e credo che passarci l'inverno e i mesi freddi sia la condizione ideale mentre in estate potremmo andare in Cornovaglia, al mare, a riposare. Come fanno molti...".

Quella proposta sembrò piacere ai due bambini. "In fondo non fa tanta paura, raccontata così" – sussurrò Jeremy.

"E di cos'altro hai paura?" - chiese Ross. Perché sapeva che c'era dell'altro ed ora non si doveva più sfuggire ai fantasmi che intercorrevano fra loro!

Il bimbo abbassò il capo. "Di fidarmi ancora e poi, ancora, rimanere solo. Di altre promesse a cui credere e poi...".

Ross lo bloccò. "Fruga nella mia tasca sinistra" – ordinò.

"Perché?".

"Fallo!".

Jeremy fece quanto gli veniva chiesto e con titubanza, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni di suo padre un cavallino di legno. QUEL cavallino di legno.

Stranito lo osservò, senza riconoscerlo inizialmente. Ma poi spalancò gli occhi, guardandolo con le labbra tremanti. "Questo era mio. Lo ricordo... Ci giocavo sempre da piccolo".

Ross gli accarezzò i capelli. "L'ho conservato con me tutti questi anni ed è diventato il mio portafortuna, in attesa di potertelo restituire. Non ti ho mai dimenticato e non ho mai dimenticato la promessa che ti feci allora e se si potesse tornare indietro, sarei felice di mantenerla. Non ti ho insegnato a cavalcare, ma posso insegnarti tante altre cose, se me ne darai l'opportunità".

"Anche a me?" - chiese Clowance.

Ross le sorrise, era una bambolina bellissima ed era orgoglioso di esserne il padre. "Anche a te".

Jeremy accarezzò il cavallino e Ross pensò che se lo sarebbe messo in tasca. Ma poi, inaspettatamente, glielo rimise nella sua di tasca, da dove lo aveva preso poco prima. "Se è un portafortuna, devi tenerlo tu. Ora è tuo e visto come sei ridotto, ne hai più bisogno di me! E poi non gioco più coi cavallini di legno, ma forse...".

"Cosa?" - chiese Ross.

Jeremy sorrise, finalmente più disteso e rilassato. "Forse è vero che puoi insegnarci altre cose che io e Clowance non sappiamo ancora fare. Un pò ce le ha insegnate Hugh, un pò lo farai tu ".

Ross rispose al sorriso. "Cosa vorresti che ti insegnassi?".

Il ragazzino alzò le spalle, pensieroso. "Potresti insegnarmi a fumare la pipa! Quello, ancora, non lo so fare".

Ross rise. Era decisamente furbo. "Tua madre mi ha perdonato molte cose ma questa, questa non me la perdonerebbe mai. Ma troveremo qualcos'altro".

Anche Jeremy rise, con l'espressione di uno colto con le mani nel vasetto di marmellata. "Una cosa me l'hai già insegnata: vedere com'è Clowance quando è costretta a lavorare ed è tutta sporca".

Ross si voltò verso la bambina, silenziosa più del fratello. La piccola fece la linguaccia e poi, piccata, si rannicchiò contro suo padre. "Tanto dopo posso fare il bagno, no?".

Ross rimase colpito da quella risposta. Lui le aveva insegnato questa cosa, il non temere lo sporco che tanto poi esiste il sapone. Era successo durante le sommosse al discorso di Pitt e non immaginava che Clowance se lo ricordasse ancora. "Esatto... Non lo hai dimenticato".

Lei annuì, seria. "Come ti ho detto, io dimentico le cose non importanti e ricordo solo quelle da ricordare. Dovresti spiegarlo al mio maestro che non lo capisce...".

Chiara, limpida, cristallina e furba come Jeremy. Era e sempre sarebbe stata una principessa ma in lei ardeva la vera essenza ribelle dei Poldark. "E' una buona filosofia di vita, lo dirò sicuramente al tuo maestro".

"Se andiamo in Cornovaglia, mi metterai a pulire la cacca dei maiali?" - chiese lei, preoccupata. "Mamma dice che hai una fattoria".

Ross sorrise. "No... A meno che tu non voglia farlo".

"Non credo di volerlo fare" – rispose lei, seria.

"D'accordo". Ross strinse a se i bambini, coprendoli poi con il suo cappotto. "Dormite un pò, ora. Poi penseremo a un piano per uscire da questo guaio".

Jeremy sorrise. "Come una squadra?".

"Saremo una squadra!".

Il bambino, pur eccitato dalla cosa, si guardò attorno sconsolato. "Ma uscire da questo guaio... come si fa?".

Ross gli strizzò l'occhio, facendogli segno di aspettare. E Jeremy ubbidì.

Pian piano Clowance si addormentò al caldo del cappotto di suo padre mentre lui le accarezzava i capelli e quando dormì profondamente, Ross riprese la parola. "Jeremy, io non posso camminare e tornare indietro con tua sorella, sarebbe troppo complicato per te. Ti rallenterebbe il passo e devi essere veloce con questa pioggia. Non posso venire ma so che sei grande ed in gamba per fare quello che ti chiedo".

Jeremy impallidì. "Cosa, papà?".

"Domattina devi uscire dalla grotta e tornare indietro. Vai sempre dritto e trova il sentiero per tornare al lago e al castello da cui siete scappati. E lì cerca aiuto. So che ti chiedo tanto e non vorrei mandarti da solo, ma non posso, non posso davvero fare altro e lo vedi pure tu".

Spaventato, Jeremy tremò. Ma oltre alla paura, in lui crebbe l'orgoglio per la fiducia che suo padre stava riponendo in lui, la fiducia per un bambino grande ed in gamba a cui chiedere una cosa difficile. "Tu non dormirai, nel frattempo?".

"No, te lo giuro. Starò sveglio e baderò a Clowance". Era in ansia e preoccupato, era terribile dovergli chiedere qualcosa di tanto pericoloso ma non aveva scelta, se voleva riportare vivi da Demelza i due bambini.

"Le vuoi sentire le mie barzellette?".

Ross lo strinse a se. "Sai cosa preferirei?".

"Cosa?".

"Che invece delle barzellette, mi raccontassi cosa hai fatto in tutti questi anni".

"Con o senza Hugh?".

Ross sorrise. "Quello che vuoi, quello che ti va. Voglio sentire tutto".

E tranquillizzato, Jeremy iniziò a raccontare, riempiendo di parole quella lunga notte che avrebbe fatto da preludio a un giorno tutto nuovo, luminoso e pieno di speranze.

Il passato, col suo carico di dolori e gioie, poteva essere solo raccontato. Il futuro poteva invece essere totalmente scritto da loro, insieme.



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Capitolo 74
*** Capitolo settantaquattro ***


La pioggia si era fatta più leggera e stava diventando buio.

La spalla gli faceva un male cane ma il calore dei corpicini dei suoi figli, abbracciati a lui, donava calore alle sue membra intirizzite.

Alla fine si era addormentato anche Jeremy, ma solo dopo avergli fatto promettere che non avrebbe dormito. Suo figlio aveva parlato a lungo per tenerlo sveglio, raccontandogli un sacco di cose del suo passato: gli aveva detto di quando aveva perso il primo dente e ne era orgoglioso perché era successo prima che a Gustav, di quando lo aveva perso Clowance ed era rimasta a piangere chiusa in camera una settimana dicendo che avrebbe finito per assomigliare alla vecchia e sdentata Miss Marple che chiedeva sempre l'elemosina al parco, di quando Lady Catherine aveva deciso che si sarebbero sposati da grandi, di quando erano nati i gemelli e Clowance aveva suggerito di buttarli via, di quando faceva le feste di compleanno e coi suoi amici giocava ai corsari e ai pirati nella casa sull'albero, di quando aveva imparato a cavalcare e di quando aveva dovuto vestirsi da paggetto scemo per il matrimonio di Margarita.

Aveva parlato molto, raccontando molti anedotti di quando era più piccolo. Solo su Hugh aveva glissato... E Ross non capiva se lo avesse fatto per una cortesia nei suoi confronti o perché parlarne lo faceva ancora soffrire. Beh, nel primo caso, pian piano, gli avrebbe fatto comprendere che poteva parlarne, con lui e con chiunque, che non c'erano problemi e che se anche la cosa poteva risultargli difficile da sentire, aveva imparato ad accettarlo e a portare rispetto alla sua memoria.

Si sentiva orgoglioso di Jeremy. Aveva un modo divertente di parlare, spigliato, allegro, condito da una strana e sottile ironia sponanea che di certo suo figlio non aveva ereditato da lui ed era palese quanto fosse seguito ed istruito nei suoi studi. Il suo linguaggio era ricco, conosceva perfettamente, oltre all'inglese, sia la lingua francese che quella tedesca che studiava da quando aveva cinque anni perché Hugh la adorava e lo aveva contagiato con questa passione. Era un bambino molto diverso da quello che ricordava a Nampara o forse no, non era diverso ma lui non si era mai soffermato troppo ad osservarlo.

Lo aveva chiamato papà un paio di volte durante quel racconto, in maniera timida ed impacciata come se fosse spaventato dal pronunciare quella parola che doveva davvero apparirgli difficilissima. Per tutta la sua vita – o quasi – la parola papà era sempre stata indirizzata nei pensieri a Hugh e anche se Jeremy sapeva che il suo vero padre era un altro, mai avrebbe creduto di poter chiamare quell'altro, papà. Capiva che avesse paura, che forse si sentisse pure in colpa verso Hugh e che dovesse apparirgli folle avere un rapporto con lui... Lo capiva e rispettava i suoi sentimenti e mai si sarebbe imposto per cancellare ciò che era stato e faceva parte di Jeremy e sperava che lui, col tempo, lo capisse. Che poteva fidarsi, che poteva essere ciò che era sempre stato anche con lui. E che lo capisse appieno anche Clowance, fiera e testarda come ogni buon Poldark che si rispetti.

Col braccio sano tento di sistemare meglio il suo cappotto addosso ai due bambini che gli dormivano uno da un lato e una dall'altro. Era un bene che Jeremy si fosse addormentato, doveva arrivare riposato al mattino successivo e anche se era preoccupato e si sentiva in colpa per la missione che gli aveva affidato, era anche consapevole di non avere altra scelta. Avrebbe potuto mandare Clowance con lui ma lo avrebbe rallentato e Jeremy era abbastanza grande e sveglio da riuscire a portare a termine da solo quell'incarico. Sua figlia era ancora troppo piccola, era stanca ed affamata e non avrebbe fatto altro che creare a Jeremy più problemi di quanti ne avrebbe potuti incontrare da solo.

Ross baciò la testolina dei due bambini, concentrandosi sul rumore della pioggia che, in circostanze normali, lo avrebbe rilassato fino a condurlo al sonno. Ma ora no, ora aveva promesso! E il male alla spalla era talmente intenso da riuscire a tenerlo sveglio ad oltranza, insieme al pensiero di Valentine e di Demelza e di quanto lei stesse passando in quel momento.

"Sta tranquilla, amore mio... Abbiamo messo al mondo un bambino in gamba e lui riporterà tutti noi da te".


...


Era stanca, bagnata, preoccupata e disperata ma per fortuna la sua piccolina che cresceva dentro di lei faceva la brava, donandole una gravidanza da sogno senza quasi sintomi. E di star bene aveva estremamente bisogno in quel momento, soprattutto da quando avevano lasciato a valle i cavalli ed avevano proseguito a piedi sui viottoli scoscesi e sdruciolevoli.

Doveva ritrovare Jeremy e Clowance! E Ross! Santo cielo, come aveva potuto non accorgersi del dolore dei suoi figli e della loro decisione di scappare? Da quando era diventata tanto egoista da pensare solo a se stessa e alla sua felicità invece che ai suoi bambini? Amava Ross, lo amava alla follia e la vita aveva donato loro un altro figlio e una nuova possibilità ma forse... forse non avrebbero dovuto...

Una madre non deve forse sacrificarsi per i suoi figli? Lo aveva sempre fatto, certo! Eccetto per una volta, una volta in cui aveva agito solo per se stessa ed era stata punita per questo! Niente succedeva mai per caso e il destino le stava dando una dura lezione proprio ora che non era possibile tornare indietro. Oppure il destino beffardo e astuto, stava indicandole qualcos'altro? Non lo sapeva, non avrebbe potuto saperlo finché non avesse ritrovato i suoi bambini. Voleva riabbracciarli, sgridarli, baciarli, gridargli che li amava e parlare con loro. Solo questo, nient'altro.

Dwight la fissò preoccupato mentre a tentoni, procedevano fra la boscaglia sempre più fitta ed insidiosa. "Demelza, vuoi fermarti? Mi sembri affaticata e pallida. Provata...".

Scosse la testa. Al diavolo, nemmeno il demonio in persona avrebbe potuto fermarla e di certo non lo avrebbero fatto un pò di stanchezza, di pioggia e il buio incombente. "Se Sophie fosse scappata di casa e tu fossi alla sua ricerca, saresti provato e pallido allo stesso modo".

Dwight la prese per il braccio. "Forse Ross li ha già ritrovati e li sta portando a casa sani e salvi. Ma anche in caso contrario, fermarci qualche minuto non cambierà lo stato delle cose".

Demelza alzò lo sguardo ad osservare il sentiero davanti a se, imbevuto di pioggia e pieno di fango. "Se Ross li avesse trovati, lo avremmo già incontrato sulla strada del ritorno. Questo è il sentiero che ci ha indicato Daisy ed è da quì che lui è passato. Non ci siamo incrociati e quindi o non li ha trovati oppure qualcosa gli impedisce di tornare indietro".

Dwight, scuotendo la testa, accelerò il passo. Era evidente anche a lui che farle cambiare idea in quel momento, sarebbe stato impossibile. "Se ti ammali, Ross se la prenderà con me!" - borbottò.

"E io ti difenderò" – gli rispose, a tono. "Mi ascolta molto di più di una volta".

Dwight, a quelle parole, la fissò sorpreso e allo stesso tempo incuriosito. Nessuno meglio di lui sapeva quanto lei avesse sofferto, nessuno aveva raccolto le sue lacrime quanto lui, Caroline e Prudie, nessuno era rimasto scottato e aveva sentito il tradimento di un amico quanto lo aveva sentito lui. "Ross è cambiato... In questi anni mi sono spesso chiesto che cosa facesse, come vivesse, come guardasse a quanto era accaduto e se fossi stato troppo implacabile nel giudicarlo... Quando ho commesso a mia volta degli errori, mai lui mi ha voltato le spalle e mai mi ha giudicato. E così, spesso, mi sono anche domandato se lo avrei potuto perdonare, nel caso le nostre strade si fossero incrociate di nuovo".

Demelza si bloccò, nell'udire quello sfogo. Sapeva a cosa Dwight alludesse, sapeva quanto la storia di Keren pesasse ancora sulla sua coscienza e che non se lo sarebbe mai perdonato e non voleva che lui riaprisse quel capitolo della sua vita che lo faceva ancora soffrire. "E...?".

"E, cosa?".

"Lo hai poi perdonato?".

Dwight sospirò. "Lo hai fatto tu, l'ho fatto io. Perché entrambi sappiamo che è testardo, orgoglioso, indomito e non ama ascoltare i consigli, finendo nei guai. Ma è altrettanto vero che nessuno come Ross sa pagare le conseguenze di quegli errori portandone il peso da solo sulle proprie spalle, e poi... E' un brav'uomo. Che ha sbagliato e forse sbaglierà ancora. Ma mai con l'intenzione di nuocere davvero a qualcuno. Alla fine i suoi errori fanno male più che agli altri, soprattutto a lui stesso. E non si piange addosso e in questo lo ammiro, proprio come te. Hai sofferto e ti ha fatto del male ma se gli hai dato un'altra possibilità, è perché riconosci in lui il grande uomo che è. Coi suoi difetti... Hugh e la sua dolcezza appartengono a un tempo in cui avevi ferite da curare ed eri una creatura fragile, ma tu non sei fragile ed ora è tempo che tu segua la tua natura, con l'uomo che ne sa godere appieno".

Demelza fece un sorriso amaro. "Ma la scelta di amare l'uomo che il destino ha scelto per me, mi sta costando cara. E i miei figli ne stanno facendo le spese...".

Dwight le appoggiò amichevolmente la mano sulla spalla, prima di prenderle la mano per aiutarla a proseguire. "Demelza, sei sempre stata una madre attenta e meravigliosa, non hai mai smesso di esserlo nemmeno quando il mondo ti è crollato addosso. Ma tu non sei crollata, non lo hai fatto per i tuoi bambini e non hai nulla di cui rimproverarti. Sai, con Sophie ma anche con Sarah seppur per poco tempo, ho imparato che essere genitori significa essere pieni di buoni propositi e nonostante questo, alla fine si sbaglia sempre qualcosa. Ma tu non hai sbagliato e Jeremy e Clowance sono due piccoli e testardi Poldark che prima di risolvere un problema, amano generarne uno più grande. Sono come Ross, decisamente... E tu non sei egoista, non hai lottato solo per ritrovare l'amore per te stessa ma anche un padre per Jeremy e Clowance. E sai bene quanto ne abbiano bisogno anche i gemelli, così come Valentine, che ha pagato colpe non sue, ha bisogno di una madre".

Le parole di Dwight le scaldarono il cuore e furono un balsamo per le sue pene e per i suoi sensi di colpa. Era sempre stato un amico prezioso, per lei e per Ross. E ne aveva sofferto sapendoli lontani per anni, a causa di qualcosa che riguardava anche lei.

Improvvisamente, mentre procedevano, sia Queen che Fox si fermarono. Fino a quel momento avevano proceduto al loro fianco senza rallentare il passo o allontanarsi ma ora le loro orecchie erano ritte, l'olfatto attivo e lo sguardo serio e scrutatore.

Demelza si avvicinò al cane e alla lupa dei suoi figli, li accarezzò sulle testoline e poi li guardò supplichevole. "Avete sentito qualcosa? Siete la nostra unica speranza di trovarli tutti, vi prego aiutateci...".

Attorno a loro pioveva ancora a dirotto e le ombre della sera si facevano sempre più lunghe, catturando ogni cosa.

Dwight si guardò attorno, guardingo, cercando di scorgere il più piccolo movimento fra la vegetazione. Una parte della vallata era franata, il fango era ovunque, così come la distruzione che la valanga si era portata con se. Era teso e preoccupato. Se Ross o i bambini si fossero trovati lì al momento del crollo? Non voleva nemmeno pensarci e non poteva nemmeno ventilare ad alta voce un'ipotesi del genere. "Demelza, dobbiamo allontanarci in fretta da quì. E' pericoloso".

Ma Demelza scosse la testa. "No, i cani stanno fiutando qualcosa!".

Il giovane medico si avvicinò a Queen, incerto se essere felice che avessero fiutato una traccia o spaventato per il fatto che questo fosse successo in un posto dove era appena avvenuta una valanga. Guardò i due cani, il meglio che potessero avere a disposizione in una situazione del genere. Entrambi gli animali avevano un olfatto molto sviluppato ma le sue speranze maggiori erano riposte tutte nella fiera e regale lupa di Clowance. Era un animale estremamente vigile, attento ed intelligente ed aveva un rapporto di simbiosi con la sua piccola padrona. Se Clowance e Jeremy – e magari anche Ross – erano nelle vicinanze, lei l'avrebbe capito di sicuro. "Queen!".

La lupa lo osservò con quei suoi occhi sfuggenti ed indagatori che sembravano a volte di ghiaccio e a volte dalle tonalità vagamente rosse come il fuoco, poi poggiò il muso contro la gamba di Demelza che conosceva di più. Ed infine, con un balzo, si allontanò di alcuni metri, prendendo ad ululare.

Il suono di quell'ululato forte e potente si sparse per tutta la valle, coprendo con la sua eco il rumore della pioggia. Dopo pochi istanti anche Fox fece altrettanto, mettendosi ad ululare in modo meno solenne e più buffo. Ma il messaggio era ugualmente chiaro, dovevano seguirli!

I due animali presero a correre fra i detriti di rocce ed alberi, fra il fango, saltando agevolmente ogni ostacolo che incontravano sul loro cammino.

E Demelza capì. "Li hanno fiutati, sanno dove sono e ci stanno guidando da loro! Dwight, forse questo incubo finirà" – esclamò, in un misto fra speranza e paura. Che c'era appena stata una valanga, lo vedeva anche lei. Ma non voleva pensare al peggio, non poteva permetterselo.

E nemmeno Dwight. La prese per mano e insieme corsero nella scia che avevano lasciato dietro di loro Fox e Queen.

"Ross, Jeremy, Clowance!!!" - urlarono entrambi mentre correvano fra mille pericoli con a destra una montagna che poteva di nuovo franare e a sinistra un pericoloso strapiombo che non avrebbe lasciato loro scampo, se fossero caduti.

Ma la forza del coraggio e della disperazione furono più forti della paura e dei pensieri foschi. Chiamarono, urlarono e non persero mai di vista i due cani. Loro li avrebbero condotti dai loro padroncini.


...


Nonostante l'eco della pioggia che nella grotta sembrava amplificato, Ross avvertì chiaramente l'ululato di un cane. O di un lupo...

Potevano essere lupi selvatici ma dubitava che vagassero per la montagna con quel tempo e con quella pioggia, soprattutto dopo una valanga. E Dwight aveva promesso di venire ad aiutarlo nelle richerche appena tutti fossero stati al sicuro al maniero.

Poteva essere Dwight e Dwight era intelligente abbastanza da capire che il cane di Jeremy e la lupa di Clowance potevano aiutarlo nelle ricerche. Non gli aveva chiesto di raggiungerlo coi cani, non ci aveva pensato sul momento ma Dwight che era più pragmatico e razionale di lui, di certo poteva averlo fatto.

Guardò Jeremy che ancora dormiva e anche se era pericoloso, sentì che doveva svegliarlo. "Jeremy".

Il piccolo aprì gli occhi, strofinandoseli con le mani. Lo guardò per un attimo tramortito, deglutì e poi azzardò un timido 'papà', come ricordandosi poco per volta che ora poteva chiamarlo così. "E' già mattina? Devo andare a cercare aiuto?".

Ross gli sorrise. "No, non è mattina, non è ancora nemmeno venuta la sera. Ma senti..." - gli disse, indicandogli l'orecchio.

Jeremy si mise a sedere, concentrato ed attento.

E dopo pochi istanti, un nuovo ululato giunse fino a loro.

Il ragazzino spalancò gli occhi e poi si voltò a guardarlo, sorpreso ed incredulo. "Questo è Fox, lo riconosco, so come abbaia! E c'è pure Queen".

Ross annuì. "Sei sicuro che siano loro?". Non poteva permettersi di mandarlo fuori da solo se c'era il rischio che ad ululare fossero lupi selvatici, invece che i cani dei bambini.

Lui si imbronciò a quella domanda. "E' il mio cane, CERTO che sono sicuro! Sta venendo, sta venendo a salvarmi!" - esclamò ad alta voce, eccitato, finendo per svegliare Clowance.

La piccola si guardò attorno assonnata, ma poi divenne subito vigile. "Queen!".

Ross annuì, se i bambini erano entrambi sicuri, poteva stare tranquillo. "Dev'essere Dwight, sarebbe venuto a cercarci. Correte fuori, chiamatelo e fatevi raggiungere dai vostri cani. Siamo salvi!". Si sentiva sollevato, come se un grosso peso fosse stato levato dal suo stomaco. Jeremy non avrebbe dovuto andare da solo da nessuna parte all'indomani, Dwight stava arrivando e tutto sarebbe finito per il meglio.

I due bambini corsero fuori, con Jeremy che teneva Clowance per mano per evitare che scivolasse sul fango. Chiamarono forte il nome dei loro cani e quello di Dwight e finalmente in lontananza, sporchi ma veloci come lepri, videro Fox e Queen che correvano verso di loro.

Jeremy scoppiò a ridere, grato di rivedere il suo piccolo e bistrattato Fox che correva con la lingua all'infuori per lo sforzo, ma veloce quanto e più di una lepre. Gli andò incontro e il cagnolino, più piccolo ed agile dell'altera ed elegante Queen, gli saltò addosso leccandolo sulla faccia.

Anche Queen, di solito linda e pulita nel suo pelo candido ma ora sporca di fango quanto la sua padrona, arrivò e, meno irruenta di Fox, si limitò ad appoggiare il muso alla spalla di Clowance e a leccarla sulla guancia. "Queen, lo sapevo che venivi a salvarmi!" - esclamò, contenta e dimentica della paura provata fino a poco prima.

"Ma è arrivato prima Fox" – la rimbeccò con fierezza Jeremy, col suo cagnolino in braccio.

La bimba lo guardò storto. "Gli manca l'eleganza e la bellezza e compensa con la velocità" – rispose, a tono.

Jeremy fece per ribattere ma capì che non era il momento. Delle voci li chiamavano e una sì, era di Dwight. Ma l'altra... Spalancò gli occhi. "Mamma... Clowance, c'è la mamma!" - esclamò il bambino, tremando per l'emozione.

La piccola, prima vinta dalla sopresa e poi agitata, emozionata e contenta, prese a correre nella direzione da cui provenivano i richiami. "Mamma, mammaaaaa!" - urlò, dimentica per una volta delle buone maniere e del fatto che le signorine ben educate non devono mai alzare la voce.

Jeremy la seguì e finalmente li videro, in mezzo ad arbusti e massi, che arrivavano verso di loro. Gli corsero incontro e Demelza fu talmente veloce da saltare ogni ostacolo che le si parava davanti con la stessa agilità dimostrata da Fox, per la fretta di raggiungerli. E appena li ebbe vicini, li strinse in un abbraccio talmente forte che avrebbe potuto stritolarli.

Calde lacrime scesero dai suoi occhi. Giuda, non aveva mai avuto tanta paura in vita sua e ora ritrovare i suoi figli sani, salvi, sporchi ma apparentemente indenni, era il più bel dono che la vita gli avesse riservato. Aveva perso Julia e mai avrebbe voluto rivivere un dolore del genere e anche se era arrabbiata con loro e li avrebbe sgridati e magari messi in castigo, per ora voleva solo stringerli a se per far sentire loro che li amava, che non dovevano temere nulla del futuro e che insieme avrebbero superato ogni problema, come sempre. "State bene..." - mormorò loro baciandoli sulle guance, mentre anche Dwight li raggiungeva.

Jeremy annuì. "Sì... Sei arrabbiata?".

"Da morire, ma ci penseremo dopo".

Clowance abbassò lo sguardo, rannicchiandosi contro di lei. "Scusa mamma...".

"Scusa mamma" – ripetè Jeremy.

Demelza sorrise loro. "Vi scuso... E vi chiedo scusa per non aver capito... Abbiamo tante cose di cui parlare ma per ora, siamo pari?".

"Siamo pari" – rispose Jeremy. "Niente castigo, quindi?".

Santo cielo, che faccia tosta! Lo avrebbe riempito di baci e sculacciate nello stesso istante, quel piccolo furbo monello. "Ci penseremo poi... Non ora" – rispose, stanca ma sollevata nel vedere che lo spirito dei suoi figli non era stato piegato da quella difficile avventura.

Dwight, sorridendo, accarezzò i bambini sulla testa. "State bene? Ora è questo l'importante".

Clowance sospirò. "Noi sì. Ma...".

La bimba guardò il fratello e Jeremy si sentì investito da quella responsabilità. Dovevano condurre Dwight e la mamma alla grotta e non dal signor Poldark, come lo avevano sempre chiamato fino a quel momento, ma dal loro papà. "Noi sì, ma papà ha qualche problema".

Demelza spalancò gli occhi. Papà? Jeremy aveva detto 'papà'? "Cosa hai detto?".

Jeremy si voltò verso la grotta e, forse non cogliendo la sorpresa e lo sgomento della madre per ciò che aveva appena sentito, la indicò ai due adulti con la mano. "C'è stata una frana, papà ci ha spinto via e ci ha salvati. Ma a lui qualche pietra addosso è caduta e ha male alla spalla e alla caviglia. Credo abbia la stessa cosa che ha avuto Gustav quando è caduto da cavallo".

L'ansia per Ross prese ad attanagliare Demelza, ma in mezzo a tutta quell'apprensione, una cosa la rincuorava. Ecco un'altro degli strani giochi del destino che l'aveva costretta a vivere una grande paura, necessaria però a far riavvicinare Clowance e Jeremy al loro vero padre. Se tutto aveva un prezzo, ognuno di loro aveva saldato il proprio debito con la vita e il fato. E anche se Ross era ferito, aveva la forza necessaria e la pelle abbastanza dura per uscirne in fretta.

Dwight, senza dire nulla, si mise a grandi falcate a dirigersi verso la grotta. "Tranquilli, ora sistemeremo tutto. Anche Ross... E' stata una fortuna che lui fosse nei paraggi quando c'è stata la valanga e ancora più fortunati siete stati a trovare un rifugio".

Demelza prese i bambini per mano e coi cani, seguì Dwight.

Appena arrivarono alla grotta, trovarono Ross vigile, sveglio e malconcio, coperto col suo cappotto.

Demelza gli si inginocchiò di fianco e, dimentica di tutti i segreti che avevano accompagnato la sua relazione con Ross negli ultimi mesi e finalmente libera di dimostrare al mondo cosa provava per lui, lo abbracciò convulsamente come aveva fatto coi suoi figli poco prima. "Ross, amore mio...".

"Demelza?". Lui la guardò sorridendo, sorpreso (ma non troppo) che lei fosse lì. "Non ti avevo detto di rimanere al caldo e al sicuro al maniero? Che ci fai quì?".

Lei sorrise. "Sai che finisco sempre col fare di testa mia" – sussurrò, baciandolo a fior di labbra. "Così come sapevi benissimo che non me ne sarei stata con le mani in mano mentre i miei figli erano dispersi fra questi dannati monti scozzesi".

Ross le accarezzò la guancia, rendendosi conto che se la vecchia Demelza di Nampara non amava ascoltare, di certo non poteva pretendere che lo facesse la potente ed indipendente Lady Boscawen. Era bellissima, la guardò e la trovò irresistibile anche bagnata e sporca ed anche se era arrabbiato per il fatto che avesse corso dei rischi per arrivare fin lì, non poteva non ammettere a se stesso di essere immensamente felice di averla vicino. Poi guardò i loro figli e Demelza li strinse a se, assieme a lui. E per la prima volta dopo tanti anni di dolore e separazione, si abbracciarono, solo loro quattro, come non erano mai riusciti a fare. Erano davvero una famiglia, adesso e se qualche capitolo col passato era rimasto in sospeso, ora era definitivamente chiuso.

Dwight li lasciò fare rimanendo in disparte, ma poi tossicchiò. "Ross...".

"Dimmi".

Il medico guardò i due bambini. "Questa scena commuovente e strappalacrime fa tanto bene al cuore, ma tu sei ferito e io avrei da lavorare. I tuoi figli mi han detto che hai bisogno della revisione di un medico. Fammi dare un'occhiata alla tua spalla".

Jeremy intervenne. "Gliel'ho fasciata al collo come fai tu, per tenergliela ferma" – disse, con una nota di orgoglio nel tono di voce.

Dwight gli sorrise e Demelza lo strinse a se, orgogliosa. "Sei stato bravo, davvero bravo Jeremy" – disse il medico. "E tu Ross dovresti essere davvero fiero di lui".

Ross guardò il bambino, trovandosi perfettamente d'accordo col suo amico. "Lo sono Dwight, lo sono...".

Dwight gli si avvicinò, tolse la fascia e allentò la camicia, tastandogli la spalla. "E' lussata, slogata. La cosa positiva è che basta una semplice e veloce manovra per sistemarla".

Ross sospirò. "Se c'è una cosa positiva, di solito poi ce n'è una negativa".

Dwight ridacchiò. "Sì, ovviamente! La cosa negativa è che questa manovra farà un pò male ma tu non sei un bambino e sono certo che non farai storie".

Ross alzò gli occhi al cielo. "Fa quel che devi!". Via il dente, via il dolore, dopo tutto...

Dwight gli si avvicinò, lo immobilizzò fra se e la parete per evitare che si muovesse e poi gli tirò il braccio, ruotandolo in esterno per far rientrare l'osso in sede.

Ross strinse i denti, si sentì sudare freddo e provò la voglia poco virile e maschia di urlare. Ma non lo fece, non davanti a Demelza! MAI davanti a lei o ai bambini.

Ma quando Dwight ebbe finito, si sentì improvvisamente rinascere. La spalla smise immediatamente di fargli male e le forze tornarono all'istante. "Ma...?".

"Non è un miracolo, si tratta di anatomia delle ossa". E dopo aver detto questo, Dwight spense subito i suoi ardori, rifasciandolo. "La devi comunque tenere a riposo per un paio di settimane, non sei guarito e non lo sarai, se non starai fermo. Ma ora il punto è se riesci a camminare".

Ross annuì. "Mi fa male la caviglia, credo di aver preso una botta ma è una cosa sopportabile".

Dwight tastò la caviglia, notò che era gonfia ma non rotta e dopo una forte bendatura per sostenerla, lo aiutò a rialzarsi. "Dovrai stringere i denti, potrai sostenerti a me ma credo che dovresti riuscire a camminare senza troppi problemi. Quanto meno fino ai cavalli, a valle".

Ross annuì e Demelza tirò un sospiro di sollievo, abbracciata ai bambini e ai cani. "E allora su, sta diventando buio! Sbrighiamoci e torniamo a casa!". Con la fasciatura la caviglia sembrava reggere il suo peso e anche se dolorante, riusciva a camminare. E la spalla, senza i dolori lancinanti avvertiti fino a poco prima, lasciava spazio alla sua determinazione e alla sua energia. Doveva tornare a casa, doveva farlo e riportare sani e salvi al sicuro i suoi cari.


...


Stanchi di aspettare e di vedere lo zio fare avanti e indietro nel corridoio borbottando, i gemelli sgattaiolarono fino alla grande porta d'ingresso che dava sul ponte levatoio. La mamma, il signor Poldark, Dwight e i loro fratelli erano la fuori e qualcuno doveva andare ad aiutarli.

Nel trambusto generale, il grande ed imponente servitore dai capelli rossi che tutti guardavano storto perché portava la gonna, dalla corporatura massiccia e dalla forza mostruosa, passò davanti a loro squadrandoli con lo sguardo e ringhiando qualcosa in una lingua che i bimbi non riuscirono a comprendere.

Ma Daisy non si fece scoraggiare. L'aveva visto portare sulle spalle un manzo intero appena macellato, aveva la forza di un signore di nome Maciste di cui Jeremy gli leggeva le gesta e poteva fare tanto per loro. Anche se aveva la gonna e allo zio questa cosa non piaceva, quell'uomo era tutto fuorché una femminuccia. "Signore!".

Lo scozzese la guardò come un gigante guarda una formica. "Sì?".

"Devi andare a cercare la mia mamma, i miei fratelli, il signor Poldark e Dwight".

"E chi lo ordina?" - ringhiò l'uomo, dai modi decisamente poco gentili e poco avvezzi ai bambini.

Demian si mise la manine sui fianchi, per nulla spaventato. "Noi!".

"E voi chi sareste, nani? Io eseguo solo gli ordini del padrone".

Daisy alzò il musetto verso di lui, per nulla intimorita. "Lo zio è il padrone, io sono sua nipote e quindi sono padrona anche io. E mio fratello pure!".

L'uomo scoppiò a ridere per la faccia tosta di quei due moscerini londinesi. "Padroni minuscoli, ordini minuscoli".

Daisy gli fece la linguaccia, ma poi capì che forse un approccio più gentile poteva tornarle utile. "Per favore, anche se sono una padrona minuscola, vai a cercare la mia mamma?". Chi meglio di lui che conosceva quei posti?

L'uomo, alla parola 'per favore' a cui evidentemente non era abituato, cambiò atteggiamento. "Padrona minuscola, modi gentili e anche un 'per favore'. Il mondo e gli invasori inglesi sono improvvisamente impazziti! E la montagna con la pioggia mi piace di certo di più di un padrone che porta i pantaloni".

Daisy sorrise. "Andrai?".

"Andrò!".

Demian lo osservò incuriosito. "Con la gonna?".

E lo scozzese ringhiò di nuovo. "Con la gonna, sì". E poi uscì, chiudendosi pesantemente alle spalle il massiccio portone di legno.


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Capitolo 75
*** Capitolo settantacinque ***


Era stato difficoltoso scendere dalla montagna con una spalla fasciata e una caviglia dolorante, per di più sotto una pioggia non più scrosciante ma comunque continua, che rendeva scivoloso il terreno.

Ross aveva stretto i denti, rassicurato Demelza e i bambini sulle sue condizioni e con l'aiuto di Dwight era riuscito ad arrivare ai cavalli. I due cani, uno a fianco dell'altro e senza mai cercare di andare sorpassarsi a vicenda per detenere sull'altro una sorta di predominanza, li avevano scortati per i sentieri meno insidiosi e infine, una volta saliti in sella, si erano accodati dietro di loro nella strada verso casa.

Ross era salito sul cavallo con Dwight che aveva abbastanza forza per sostenerlo mentre i bambini e Demelza avevano preso l'altro.

Col cuore leggero, anche se stanchi ed infreddoliti, si erano messi in cammino, contenti che l'avventura si fosse conclusa al meglio e sereni perché sapevano che da lì in poi sarebbe iniziata per tutti una nuova vita.

A metà strada, con loro grande sorpresa, avevano incrociato il gigantesco servitore scozzese alto come una montagna, dai capelli rossi e sempre vestito con abiti tradizionali, che veniva loro incontro. Mugugnando sotto voce come al solito, Raghnall – questo il suo nome – aveva detto di essere stato mandato in loro aiuto dai 'padroni' e benché nessuno avesse capito a chi si riferisse oltre a Falmouth, era stato di grande aiuto per sostenere Ross dalle stalle all'ingresso principale, una volta giunti a destinazione. Ed era stato un sollievo averlo in aiuto, perché era davvero sfinito.

All'ingresso Falmouth corse loro incontro, con un'espressione in bilico fra il sollievo e la rabbia. Guardò i due piccoli fuggiaschi bagnati e sfiniti, osservò i tre salvatori e i cani e poi ancora i bambini, prese un lungo respiro e poi sbottò. "Voi siete nei guai, avete idea di cosa ci avete fatto passare oggi?".

Il suo tono era severo ed era chiaro che avesse avuto paura per loro e fosse preoccupato, così com'era altrettanto chiaro che i bambini comunque dovessero essere sgridati per quanto avevano fatto, non per una rivalsa ma perché capissero quanta preoccupazione avevano generato in tutti. Ma non in quel momento e soprattutto, non era compito di Falmouth farlo.

Ross lo guardò in modo fermo e cercò di parlare in modo quanto più gentile possibile per spiegare che ora c'erano due genitori, che Demelza non era più sola e che ci avrebbero pensato loro a questo genere di cose. "I bambini sanno di aver sbagliato e abbiamo parlato a lungo di quanto hanno fatto e dei rischi che hanno corso. Sono dispiaciuti, ora sono stanchi e bagnati e io e Demelza, appena ci saremo ripresi da questa avventura, penseremo a cosa fare per evitare che succedano ancora cose del genere in futuro".

Falmouth fece per replicare, ma Jeremy lo interruppe mettendosi coraggiosamente davanti a lui. "Scusa zio, so che sei arrabbiato e so che non dovevamo farlo. Ma avevamo paura di tante cose che non riuscivamo a spiegare e se vuoi sgridarci, hai ragione. Ma dopo, ora papà ha bisogno di Dwight perché è ferito".

Falmouth spalancò gli occhi. "Papà...?". Guardò Ross e Demelza, poi i bambini e poi di nuovo Ross con espressione incredula, infine emise un nuovo sospiro. "A quanto pare non tutte le marachelle e i mali portano a cattive conseguenze. Ne parleremo dopo, sì...".

Ross sorrise con fierezza a Jeremy, sostenendosi a Dwight. "Grazie".

"Grazie" – aggiunse anche Demelza.

Falmouth, scuotendo la testa, osservò Ross. "Che vi siete fatto?".

"Niente di grave, ho solo la spalla e una caviglia ammaccate ma con un pò di riposo, sarò come nuovo".

"Riposo che deve partire da subito" – aggiunse Dwight. "Lo accompagno in camera. Demelza, puoi aiutarmi a sistemarlo per metterlo a letto?".

La donna annuì, attirando a se i due bambini. "Certo".

Falmouth guardò Jeremy e Clowance di nuovo, prima di accomiatarsi. "Oggi per voi inizia una vita nuova, lo sapete? E non dovete averne paura, lo avete capito?".

"Sì" – risposero i bimbi.

"Bravi...".

L'uomo fece per accarezzare le loro testoline, ma Clowance si ritrasse. "Zio, no! Sono sporca, se mi tocchi ti sporchi anche tu!".

Falmouth scoppiò a ridere di gusto davanti a quella preoccupazione tanto tipica di Clowance e in tutta risposta, la attirò a se con un abbraccio. "Mi laverò! Tua nonna mi ha riempito la borsa di quel suo sapone maledetto che odia anche Daisy e visto quanto siamo tutti bisognosi di un bagno, stasera almeno finiremo la scorta e potremo tornare a lavarci con qualcosa di DAVVERO profumato!".

E ridendo, se ne andò.

Anche se Ross e Demelza sapevano bene che con lui la faccenda non era ancora chiusa e che sarebbe tornato sul discorso, rivendicando ancora un ruolo sull'educazione dei bambini che aveva seguito con amore e cura in tutti quegli anni. Ed entrambi non intendevano negargliela, ma ognuno doveva imparare a ritagliarsi nuovi spazi e nuovi ruoli, da lì in poi.

"Sù, saliamo di sopra" – disse Dwight.

"Saliamo".

Ma furono interrotti di nuovo.

Dalla scala che stavano per prendere, scesero Prudie coi gemelli e Valentine.

Appena li videro, i bambini corsero giù eccitati, i gemelli verso i due fratelli fuggiaschi e Valentine verso suo padre.

"Papà, sei tornato! SIETE TORNATI! Ma cos'hai?" - chiese Valentine, notando che era ferito.

Demelza si inginocchiò, posandogli dolcemente la mano sulla spalla. "Niente di grave, ha solo qualche bernoccolo qua e la e deve riposare. Tuo padre ha la pelle dura".

Daisy e Demian, festanti, trotterellarono attorno alla madre e ai fratelli. "Altro che Londra! Nemmeno fuori dalla Scozia siete riusciti ad andare!" - esclamò Daisy.

E Demian rincarò la dose, aggrappandosi alle gambe di Demelza. "Certo! Senza mamma dove volevano andare?".

Ross sorrise guardandoli. Ripensò al silenzio angosciante che lui e Valentine avevano respirato a Nampara per anni e a come quei due bambini avrebbero spezzato con allegria quell'aria opprimente che li stava pian piano distruggendo. Era una grande responsabilità amarli e aiutarli a crescere ma si sentiva pronto a farlo assieme a Demelza. E sperò in cuor suo che loro lo accettassero come avevano fatto Jeremy e Clowance. E che Valentine facesse altrettanto con Demelza, affidandosi a lei da figlio.

Daisy gli si avvicinò, quasi con fare timido. "Ci sei riuscito".

Ross le sorrise. "Te lo avevo promesso. Ora potrai farti passare il mal di pancia".

"Sì. Ma tu sei tutto rotto, adesso".

"Dwight mi ha aggiustato, te lo garantisco".

Daisy non sembrava molto convinta dalle sue rassicurazioni, però. Si mise le manine dietro la schiena, si dondolò sulle gambette e prese ad osservarlo in maniera seria e attenta. "Sicuro?".

"Sicuro".

"Ti fa male il piede?" - chiese la bimba.

"Sì, ma Dwight, la mamma e un gigante scozzese grandissimo, mi hanno aiutato a tornare a casa".

A quelle parole, Daisy rise. "Il nostro amico!".

Demelza spalancò gli occhi. "Chi?".

"Raghnall!" - si insinuò Demian.

Daisy annuì, fiera di se stessa. "Raghnall, sì. Lo abbiamo mandato a cercavi, io e Demian. Siamo amici adesso, ma siamo anche i suoi padroni, gli abbiamo chiesto 'Per favore' e lui è venuto a cercarvi".

Ross rise di nuovo, di gusto, seguito da Jeremy e Clowance. Se Falmouth fosse stato ancora nei paraggi, gli sarebbe venuto un colpo a sentirli parlare. Ecco chi erano 'I PADRONI' che avevano ordinato al servitore scozzese in gonnella di venire in loro soccorso! Non Falmouth, non Prudie, non un adulto ma quelle due mezze tacche dei gemelli! "Siete stati grandiosi, grazie".

"Prego" – rispose Daisy, con ancor più fierezza.

"Già, grazie" – aggiunse anche Dwight, ridendo sotto i baffi. "Ma ora tutti noi abbiamo bisogno di salire, lavarci e riposare. Soprattutto Ross".

Demelza si complimentò ed abbracciò i suoi gemellini e Valentine che li aveva curati durante la sua assenza, prima di affidarli nuovamente a Prudie. "Pensaci tu, finché non ci saremo sistemati".

"Sìssignora" – rispose la serva, osservando Ross e sospirando. "Si è fatto male, ora il suo carattere sarà ancora peggio... Che posto infame, questa Scozia" – borbottò, allontanandosi coi tre bambini.

Ross rise. Santo cielo, la sua vecchia vita che tanto amava stava tornando pienamente in suo possesso. Prudie compresa! Era felice!

Si lasciò accompagnare di sopra, salutò Jeremy e Clowance prima di lasciarli perché andassero a lavarsi e poi si affidò a Demelza e Dwight.

Si lavò, si mise una camicia pulita e appena toccò il materasso e sentì sulla pelle il tepore del camino acceso, cullato dal rumore della pioggia si addormentò come un bambino nella culla. Era felice, era padre, i suoi figli erano sani e salvi e tutto sarebbe andato bene per lui e Demelza. Si era ripreso la sua vita con dei meravigliosi, piccoli e svegli interessi, i gemellini. Non poteva chiedere di più. Cosa poteva esserci di più?



...


Si era addormentato di sasso e solo un profumo di sapone e di pulito, un profumo che sapeva di casa e di famiglia, lo riportò nel mondo dei vivi dopo un sonno forse breve, ma decisamente ristoratore.

Ross aprì gli occhi e anche se si sentiva fasciato come un salame e questo lo avrebbe reso scalpitante ed intrattabile, vedere Demelza, in vestaglia accanto a lui, bastò a ridargli il buon umore. "Amore mio..." - sussurrò, stiracchiandosi.

"Bentornato fra noi, hai dormito per ben ore. Ti sei addormentato prima che Dwight finisse di farti la fasciatura".

Ross sospirò, guardandosi la spalla bloccata. "La odio...".

"Ma la cosa è ininfluente e la terrai per il tempo che serve" – rispose lei, con lo stesso tono che usava coi gemelli quando non volevano prendere lo sciroppo della tosse, aggiungendoci però poi un dolce bacio sulle labbra.

E i bambini?” - chiese Ross.

Demelza si sedette accanto a lui, controllando che la fasciatura al braccio che gli aveva appena fatto Dwight, fosse ancora a posto. “Stanno facendo il bagno e preparandosi per andare a dormire, sono tutti sfiniti dopo la giornata di oggi. E, buona notizia, finalmente Demian si è deciso – specificando che è solo per questa notte – a dormire con Jeremy e Valentine. Gli ho spiegato che tu hai bisogno che ti stia vicino nel caso ti venga la febbre e lui ha capito, anche se ho dovuto giurargli che potrà venire qui, se sente la mia mancanza”.

Ross sorrise impercettibilmente. “E Clowance? Sta bene anche lei?”.

Certo. Ha chiesto di avere la sua camicia da notte preferita di seta rosa e sta facendo il bagno con il mio sapone alla violetta”.

Ross sorrise di nuovo. “Lei è una vera lady, anche quando fa il bagno. E Daisy e Valentine?”.

Demelza sospirò. “Lei non ha più mal di pancia e ha detto che da stanotte tornerà a dormire da sola, che le do di nuovo fastidio nel letto e quindi direi che è guarita. Valentine, una volta rassicurato che tu stavi bene e non avevi nulla di grave, si è tranquillizzato”.

Ross stavolta rise, di gusto, notevolmente più tranquillo rispetto a poche ore prima. “Quindi Daisy non farà nemmeno per me uno strappo alla regola per dormire nel lettone?”.

Demelza lo guardò storto. “Ringrazia il cielo che sia così! Dorme come uno scoiattolino, non sta ferma un attimo e ti prende a calci ogni due secondi mentre si gira e rigira. E' vivace anche nel sonno, lei”.

Ross le prese la mano, baciandola. “Mi ricorda te quando ci siamo conosciuti. Bellissima e selvaggia”.

Demelza rise, rendendosi conto che lui aveva perfettamente ragione e che in fondo non le importava troppo che la sua gemellina fosse tutto all'infuori che una signorina a modo. “Voglio che sia come vuole, come la rende felice. E se Daisy sarà felice di cavalcare come un uomo, di guidare una banda di monelli e di rispondere a tono come un maschiaccio, beh, che lo faccia. Quanto meno saprà sempre farsi rispettare. A me basta solo che sia una bambina buona d'animo”.

Tutti i bambini presenti in questa casa sono buoni d'animo, ognuno a modo suo, ognuno col suo carattere”.

Anche Daisy, così pestifera? E Clowance, così vanitosa?”.

Ross le accarezzò il viso. “Sono assolutamente perfette, non cambierei nulla in loro”.

Demelza deglutì. Era stata così spaventata e preoccupata per Ross, che non era ancora riuscita a dirglielo, a dirgli quel piccolo segreto che custodiva gelosamente da quasi due mesi e che inizialmente l'aveva spaventata tanto. Ma ora lui era qui, al sicuro. E anche i bambini... E Jeremy e Clowance lo avevano chiamato papà... Adesso era il momento e anche se aveva paura anche solo di sperare di essere felice, sentiva che doveva dirglielo. Ora lo avrebbero affrontato insieme, ora avrebbero gridato al mondo e alle sue stupide regole, insieme, che si amavano e aspettavano un figlio che sarebbe nato in una famiglia piena di amore, poco convenzionale ma dove nessuno sarebbe mai più stato lasciato indietro. Erano stati capaci di costruire un miracolo insieme, lei e Ross, e quella piccolina sarebbe stata solo la ciliegina sulla torta per quel percorso tortuoso e duro che avevano percorso a lungo e con dolore e fatica. “E il carattere dell'altra bambina?”. Non trovò altro modo per dirglielo se non quello.

Ross si accigliò. “Quale altra bambina?”.

Lei lo guardò in viso, perdendosi in quegli occhi scuri, sperando che la piccolina gli somigliasse. “Quella che aspetto” - disse, in un soffio.

Ross spalancò gli occhi, impallidì, rimase attonito e silenzioso per un attimo e lei ebbe paura che svenisse, che si arrabbiasse per non averglielo detto prima, che... che...

Ross deglutì. “De... Demelza? Stai dicendo che...?”.

Lei annuì, torcendosi le mani. “Ne sei stupito? Dopo tutti i pomeriggi passati al cottage insieme...”.

E Ross scoppiò a ridere, di nuovo, come se fosse ubriaco, reagendo in un modo che mai Demelza si sarebbe aspettata. Le sfiorò il viso con la mano e la baciò. A lungo, avidamente, prima di posare la sua mano dolcemente sul suo ventre. “Avremo un bambino? Una bambina?”.

Sì. Sei felice?”.

E glielo chiedeva pure? Santo cielo, come poteva un uomo non essere felice per un miracolo? Perché essere insieme lo era, essere amato dai suoi figli lo era, diventare di nuovo padre dopo quanto successo lo era! E non lo meritava ma al diavolo, quella gioia l'avrebbe goduta appieno. “Certo” - le rispose, dolcemente. La baciò di nuovo, felice come un bambino a cui avevano appena regalato un giocattolo nuovo. “Come fai a sapere che è una femmina? Quando nascerà? Da quanto lo sai? E' da una vita che io e te...”.

Demelza alzò le spalle, preparandosi a rispondere a quella sfilza di domande. “A parte per i gemelli, ho sempre avvertito quale sarebbe stato il sesso del bambino che aspettavo. Per Julia e Clowance, sapevo che erano femmine. Per Jeremy sapevo che era un maschio. Non so come facessi, istinto, credo... Con Demian e Daisy era strano, un giorno immaginavo un maschio e un giorno una femmina e poi, quando sono nati, ho capito perché il mio istinto sembrava avermi abbandonata”. Si toccò il ventre ancora piatto. “Ma lei... lei è una lei... Lo so come so che mi chiamo Demelza”.

Ross la abbracciò, la abbracciò talmente forte da lasciarla senza fiato. Aveva gli occhi lucidi e Demelza sapeva cosa provava perché erano le stesse emozioni che muovevano ogni suo respiro in quel momento. Sollievo, gioia, dolcezza, amore. Ma anche consapevolezza dei propri errori, di ciò che era stato e dell'impegno che avrebbero dovuto metterci in quello che sarebbe venuto.

I bambini lo sanno?” - chiese lui, col viso affondato fra i suoi capelli.

No, non lo sa nessuno a parte te. Ho pensato che tu avessi la precedenza”.

Ross la guardò in viso, studiando il suo volto. Le baciò la punta del naso, le accarezzò la guancia e poi divenne serio, guardandola storto. “E tu, oggi, sei venuta in montagna, in mezzo a una tempesta, correndo mille rischi, sapendo di aspettare un bambino? La MIA bambina?”.

Demelza ridacchiò, cercando di rispondere a tono perché sapeva bene quanto Ross potesse diventare apprensivo. “Non sarei riuscita ad aspettare a casa nemmeno se mi avessero legato a una sedia. Eri disperso, con Jeremy e Clowance e NIENTE mi avrebbe tenuta lontana da voi”.

Lo sguardo di Ross si addolcì. “Jeremy e Clowance erano con me e non avrei mai permesso che gli succedesse qualcosa di male”.

Lei sorrise, lo sapeva ma... “Ross, sono la loro madre. E stavo bene, sto bene! Sapevo di poter affrontare quella camminata sotto la pioggia... Sapevo che era pericoloso ma DOVEVO trovarvi o sarei impazzita. E per fortuna l'ho fatto e io e Dwight vi abbiamo trovato. Ora ti sei ripreso ma avevi la febbre prima, a causa della ferita al braccio. E io, Dwight e i cani abbiamo fatto squadra, portandoti a casa quanto prima”.

Lui la baciò sulle labbra, dolcemente. “Ti ringrazio per essere corsa da me ma non farlo mai più. Aspetti la nostra bambina, voglio che tu stia tranquilla e al sicuro”.

E tu farai altrettanto?” - chiese lei, sibillina. “Pure tenendo quella fascia al braccio?”.

Colpito, affondato e con le spalle al muro. “Te lo prometto. Se...”.

Se?”.

Lui fece un sorriso irriverente. “Se resterai così, coi capelli sciolti come li hai ora, simili a quelli che avevi quando ci hai raggiunto in quella grotta. Con quel vestito sporco di fango, spiegazzato, bagnato e le guance rosse per la corsa, ho rivisto la Demelza di Nampara, quella che io preferisco”.

Lei scoppiò a ridere. “Vorresti vedermi bagnata e sporca per i prossimi mesi?”.

Ross le strizzò l'occhio. “Mi basterà vederti coi capelli sciolti e ricci. E con abiti più... normali...”.

Clowance mi odierà per questo. Lord Falmouth mi odierà. Pure mia suocera mi odierà, Ross...” - sbottò, divertita

Lui insistette. “Lo farai?”.

Lo farò”.

In quel momento qualcuno bussò alla porta e la voce di Prudie inondò la stanza. “I bambini vogliono vedervi per la buona notte!” - urlò, dal corridoio.

Accompagnati da Prudie, i bambini entrarono in camera. Lavati, pettinati e con indosso già la camicia da notte, erano tutti lindi e perfetti e pronti per andare a dormire. Ma prima avevano voluto tutti andare a fargli visita e Ross, a fatica, si mise seduto sul letto con Demelza accanto, mentre Prudie usciva per lasciarli soli.

Demian saltò in braccio a Demelza mentre gli altri si avvicinarono al letto con meno irruenza.

Ti fa ancora male la spalla?” – gli domandò Jeremy.

Ross sospirò, osservando quella dannata fasciatura che lo aveva già stancato. "No, non la spalla. E’ tenere addosso tutte queste bende che mi da fastidio. Suppongo che Dwight, quando parlava di tenerle per tre settimane, scherzasse…”.

Ne dubito…” – mormorò Demelza, vaga, guardando distrattamente verso il soffitto trattenendo un sorriso. La trovò bellissima in quel momento, affascinante e seducente come non mai con quei capelli lunghi e lucenti come il fuoco, le labbra rosse e le forme del corpo addolcite da quella gravidanza di cui non si era accorto prima ma che, se l’avesse potuta osservare meglio e più intimamente, si sarebbe accorto senza che lei lo dicesse. Santo cielo, era incinta e non aveva ancora realizzato appieno quel grandissimo miracolo che lo rendeva ebbro di gioia. Una bimba, una nuova bimba che avrebbe chiuso ogni debito col passato, che avrebbe atteso e abbracciato per primo, prima di tutti. Come non aveva fatto con gli altri, come si era precluso anni prima. Mai più avrebbe negato un abbraccio a un suo figlio.

Tornando alla realtà, Ross fece per replicare ma poi la sua attenzione fu catturata dalla figura di Clowance, dai suoi capelli lunghissimi e biondi che le ricadevano sulla schiena e dal suo visino perfetto e bellissimo. Ora era di nuovo pulita, in ordine e anche se in camicia da notte, emetteva nobiltà da ogni poro della sua pelle. “Hai visto, bastava fare un bagno!”.

La bimba sorrise, con fare complice. “Sì, papà”.

Daisy e Valentine osservarono la bambina, stupiti. “Papà?” – mormorò Valentine, indeciso se esserne contento o meno.

Jeremy e Clowance guardarono la madre un po’ incerti sul da farsi e in cerca di aiuto e Demelza fu più veloce di Ross a spiegare come si erano evoluti i rapporti fra di loro. “Valentine, tu lo sai vero che il tuo papà è anche il loro papà?”.

Il bambino annuì. “Sì, ma loro prima non lo volevano! Ora lo vogliono?”.

Jeremy guardò Ross, poi sorrise. “Sì, credo che ora lo vogliamo”.

Demelza trattenne il fiato, credendo che questo mandasse in crisi Valentine. Ma il bambino la stupì, mettendosi a ridere a crepapelle. “Ho dei fratelli, quindi?”.

Demelza gli accarezzò i ricciolini neri e in questo Ross scorse in lei la grandezza d’animo, la ricchezza interiore e la sua grande maturità. La vedeva felice di vedere Valentine felice e non c’era altro sentimento in lei. Non doveva essere facile per Demelza, non lo era stato in passato e di certo aveva lottato contro se stessa per raggiungere quell’equilibrio. Ma ci era riuscita, rendendo possibile l’impossibile. “Mettiamola così, bambini. Ci siamo noi, una mamma e un papà. E ci siete voi che anche se in maniera un po’ diversa dalle altre famiglie, siete fratelli o con l’uno o con l’altra. Insieme si può essere una grande ed unica famiglia, di certo diversa dal resto del mondo ma per questo più ricca. Vuoi accoglierci Valentine? Anche se siamo numerosi e rumorosi?”.

Rosso dall’emozione e con la voce ridotta a un sibilo, il piccolo annuì. “Una famiglia grande con un papà e anche una mamma? Anche per me?”.

Certo”.

Valentine la abbracciò, tremando. Era sempre stato solo e forse si era rassegnato ad esserlo e di certo questo per lui era un grande cambiamento ma soprattutto, una grande emozione. Pian piano avrebbe preso confidenza con lei, si sarebbe aperto e con gli altri bambini avrebbe dimenticato la solitudine e appreso cosa si prova a non essere più da soli. “Mamma-Demelza” – sussurrò, quasi incredulo.


Lei gli sorrise. “Sì, se vuoi”.

E a quel punto, Demian intervenne. “Sì, va bene! Ma tu dove vai a dormire?” – chiese, a Valentine.

Lui alzò le spalle. “Nel mio letto”.

Tuo-tuo? SOLO tuo?” – insistette Demian con sguardo indagatore.

Valentine guardò Demelza in cerca di aiuto, non capendo dove si trovasse il problema. “Certo, solo suo” – disse la donna, mentre Ross si trovò a pensare a come risolvere quella faccenda per il bene suo, di Demelza, di Demian e della bimba in arrivo.

Poi Ross guardò i figli maggiori, appena ritrovati e che ora dovevano condividerlo con altri bambini. “Per voi va bene?”.

Jeremy e Clowance si guardarono, poi annuirono. “Sì, ma ho un problema, adesso!” – disse il ragazzino, osservando Daisy. “Devo restituire i soldi a lei, con gli interessi. E se adesso siamo una grande famiglia con una mamma e un papà…”.

Daisy, silenziosa e attenta alla discussione fino a quel momento, lo guardò assorta. “Devi darmi i soldini e i soldini in più. Gli interessi… Ci sono pure quelli per avermi fatto venire il mal di pancia”.

Jeremy ci pensò su, poi il suo viso si illuminò di un’espressione furba. “Se tu non mi fai pagare gli interessi, io ti do il permesso di chiamare il mio papà ‘papà’. Ci stai?”.

E a quel punto, Demelza intervenne. “JEREMY!”.

Ma mamma!” – obiettò il ragazzino – “Mi fa diventare povero per tutta la vita, DEVO difendermi”.

Ross lo guardò, mascherando un sorriso. La maledizione dei Poldark, sempre senza soldi. E il potere dei Boscawen, che ci guadagnavano sempre… Sarebbe stato divertente far convivere quei due mondi.

Ma Demelza sembrava meno divertita di lui. Si mise fra i due bambini, dividendoli. “Tu Jeremy, restituirai i soldi a Daisy SENZA interessi. Tu Daisy non chiederai nulla in più a tuo fratello”.

La gemellina però, più che alla madre, sembrava interessata al fratello. “Davvero?”.

Cosa?” – chiese Jeremy.

Davvero mi dai il permesso?”.

Jeremy annuì. “Sì…”.

E a quel punto la bimba si voltò verso Ross. “Posso?”.

Ross allungò la mano sana, prendendola per il polso ed attirandola a se. “Hai fatto la domanda sbagliata. Quella giusta è se lo vuoi”.

Lei prese un profondo respiro, poi si appoggiò coi gomiti al letto. “Non so se sono capace, non ho mai chiamato papà nessuno. Papà-Ross… Così? Va bene?”.

Ross le scompigliò i capelli, era forte ed indomabile ma allo stesso tempo piccola, sensibile e fragile. “Togli il nome, solo ‘papà’ andrà benissimo”.

E Daisy sorrise, finalmente in modo disteso. “Va bene. Se posso farlo, allora non voglio nemmeno i soldi”.

Jeremy prese la palla al balzo. “L’avete sentita tutti? Lo ha detto!”.

Ross rise, chiedendosi quante scene di famiglia così si era perso in tutti quegli anni, ma deciso a non farsi sopraffare dal dolore ma di concentrarsi sul futuro. Il passato era passato, irrecuperabile. Ma per il resto, c’era sempre speranza. Guardò Demelza, più brava di lui a sbrigliare le faccende dei bambini e lei, sospirando, guardò Jeremy e poi Daisy.

Da dove arriva tutta questa bontà, orsetta?”.

Lei, con la sua faccia da monella, alzò le spalle con noncuranza. “Tanto lo zio ha detto che da grande, di soldini me ne da tanti. E me li darà ancora anche Mary, quando mangio tutto. O li troverò per terra nel parco”.

Demelza, sospirando vistosamente e ricredendosi sull’improvviso moto di altruismo della figlia, scosse la testa. “Jeremy ti ridarà comunque le tue monete e tu potrai chiamare Ross papà. Avere un papà sarà una cosa bellissima, avrai un’altra persona grande che ti starà vicino, ti amerà e ti proteggerà da tutto”.

Daisy, a quelle parole, guardò Demian. E il piccolo, come in un muto dialogo fra loro, si accodò a lei. “Daisy dice che va bene, quindi va bene! Papà-Ross” – concluse, trionfalmente.

E Daisy guardò Ross, sorridendo come spesso faceva quando stringeva con lui un patto segreto fatto di soli sguardi.

Clowance si sedette sul letto, lasciando che Ross le cingesse la vita. “Ma così in tanti, che siamo nati in modi diversi, così diversi, come si fa?”.

Demelza guardò Ross, gli sorrise, poi cinse a se, in un abbraccio, i bambini, perché stessero stretti fra lei e il padre. “In fondo non è difficile farla funzionare. Se si sceglie di far vincere l’amore, niente è impossibile”.

E noi abbiamo scelto?” – chiese Valentine.

Sì, noi abbiamo scelto. E ci sarà dato un aiuto che ci renderà tutti uniti ed inseparabili”. Demelza guardò Ross, annuì e lui capì che era arrivato il momento.

Bambini, io e la mamma dobbiamo dirvi una cosa”.

Cosa?”.

Prese la mano di Demelza, la strinse e la portò alle labbra per baciarla. “Presto arriverà qualcuno che unirà tutti in modo che possa essere per sempre”.

Un prete che vi sposa ancora?” – chiese Jeremy. “La Cornovaglia?”.

Demelza e Ross si guardarono negli occhi e lei prese la parola. "La Cornovaglia... Vorremmo tornarci per qualche tempo con tutti voi, per vedere da dove veniamo e scoprire le vostre origini, per andare a trovare vostra sorella Julia e farvi scoprire il mare. Vi piacerà e lo zio e la nonna – ci parlerò io – spero si uniranno a noi dimenticando l'idea del castello in Scozia. Tutti insieme, come la famiglia che siamo sempre stati! Londra sarà ancora la nostra casa, ora ne avremo una in più. Ma io e papà non stavamo parlando di questo, la Cornovaglia ci unirà ma c'è qualcosa che lo farà ancor meglio".

"Cosa?" - chiesero i bimbi, in coro.

"Una sorellina che arriverà ad inizio anno e che per ora sta qua nella mia pancia" – disse, senza girarci troppo attorno.

Ross e Demelza guardarono i piccoli, spaventati da una loro reazione magari negativa. Per un attimo i bambini rimasero attoniti ma poi scoppiarono a ridere e tutti si lanciarono verso di lei a toccarle il ventre, investendola di mille domande. C'erano Clowance e Daisy contente di ristabilire la parità col numero di maschi, momentaneamente in vantaggio per l'arrivo di Valentine, i maschietti più grandi che già temevano l'invasione di bambole e infine...

Con le mani sui fianchi, Demian si parò davanti a loro. "E dove dorme?" - chiese, serio e imbronciato.

Ross lo prese, attirandolo a se. "Nella sua culla, ovviamente".

"Sua, solo SUA?" - chiese il piccolo, con le stesse modalità con cui aveva chiesto di Valentine poco prima.

Demelza lo baciò sulla fronte. "Solo sua... Ognuno avrà un suo letto" – disse, vaga ma andando a segno della questione.

"Allora se LEI dorme nella SUA culla, va bene" – borbottò il piccolo, a cui era andata a genio solo una parte del discorso.

Ross e Demelza si guardarono negli occhi, felici che tutto fosse andato tanto bene e che la notizia fosse stata appresa con gioia.

Fu Jeremy a spezzare il loro entusiasmo. "Ma lo zio, lo sa?".

"No..." - risposero, tornando alla realtà.

Il ragazzino allora sorrise, malizioso. "E allora siete nei guai!".



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Capitolo 76
*** Capitolo settantasei ***


"Cosa?".

No, Lord Falmouth non l'aveva presa decisamente bene...

Demelza, dopo una notte insonne in cui aveva vegliato su Ross controllando che non gli venisse la febbre, aveva lasciato la stanza appena sentiti dei movimenti al piano di sotto. Falmouth era mattiniero, era sempre il primo ad alzarsi e quello era il momento giusto per dirgli della gravidanza, senza nessuno attorno. Ci voleva tatto, ci voleva diplomazia e ci voleva soprattutto tutta la tranquillità del mondo per parlarne, prima che lo scoprisse dai bambini che di certo non sarebbero stati capaci di tenere per se quel segreto che tanto li aveva eccitati la sera prima.

Ross, finalmente addormentato dopo una notte tormentata dal dolore a causa delle botte subite nella valanga, preferiva lasciarlo fuori da quell'incontro, al momento. Per quanto Falmouth lo apprezzasse, ancora non erano capaci di misurare a vicenda parole e gesti e Demelza sapeva che una situazione del genere, che nel vecchio lord avrebbe generato sconcerto e tensione, doveva essere affrontata con furbizia ma soprattutto affetto e sincerità, quella sincerità che da sempre li univa e che aveva reso possibile che si apprezzassero a vicenda e imparassero a volersi bene come una vera famiglia dovrebbe fare. E non era così scontato che ci riuscissero. Lei, umile ragazza madre dal passato misterioso e lui, austero e potente Lord di Londra... Era un miracolo, era stata una bella storia di famiglia e Demelza voleva che continuasse. Per i bambini, per lui, per Lady Alexandra ma anche per lei e per Ross che da troppo tempo e forse da sempre non avevano avuto attorno una famiglia vera e propria che vegliasse su di loro con discrezione, affetto e sì, anche con la saggezza di persone più grandi di loro.

La donna prese un profondo respiro, ci volevano dolcezza, diplomazia e fermezza. "Sono incinta".

Falmouth, vicino al camino del salone principale al piano terra, strinse i pugni poggiati sulla spalliera del sofa. "Da quanto lo sai?".

"Da qualche mese".

"E me lo dici solo ora? Tu e Ross Poldark mi avete preso in giro per tutto questo tempo?".

Era arrabbiato, deluso e Demelza poteva scorgere tutto il suo sconcerto dal tono di voce. Aveva tradito, anche se mai avrebbe voluto farlo, la sua fiducia e questo la feriva terribilmente, facendola sentire in colpa anche se dentro di se sapeva di non doversi sentire così e che la bambina in arrivo era una faccenda privata solo sua e di Ross. Ma non riusciva a ragionare razionalmente, non ci riusciva il suo cuore che voleva un bene dell'anima a quel lord a volte scorbutico ma dal cuore gentile e buono. "Ross non lo sapeva, non l'ha saputo che ieri sera, assieme ai bambini, quando siamo tornati quì. Non volevo tenerlo nascosto, volevo solo del tempo per metabolizzare questa... cosa... Volevo pace, per me e per la bimba che dovrà nascere. E sapevo che non ne avrei avuta se lo avessi detto. Se dovete prendervela con qualcuno, prendetevela con me. Non con Ross".

Falmouth picchiò la mano sul muro con un pugno. "Me la prendo con entrambi! Cosa vi avevo raccomandato? Di stare attenti, di agire nell'ombra ma con le giuste precauzioni, con... riservatezza...".

Demelza prese un profondo respiro, rendendosi conto che quella discussione sembrava quella fra un padre e una figlia adolescente che aveva appena combinato un grosso guaio. "Io e Ross eravamo sposati, non potevamo agire come amanti clandestini, non ne siamo capaci, non ci saremmo mai riusciti. Ci siamo amati, lo abbiamo fatto senza pensare al domani e alle conseguenze, come succedeva quando eravamo marito e moglie in Cornovaglia".

Falmouth scosse la testa, cercando di riguadagnare la giusta tranquillità per portare avanti quella discussione. "Non è più come allora, non sei Demelza Poldark, piccola nobile di campagna della Cornovaglia. Non sei la ex cameriera sposata col rampollo di una antica e prestigiosa famiglia in rovina, sei Lady Boscawen, ora. Rappresenti un casato nobiliare importantissimo, sei colei a cui tutti guardano con riverenza e che ha lavorato anni per mantenere il prestigio della nostra famiglia, sei una delle donne più potenti ed ammirate di Londra e sei la madre dei miei piccoli eredi. E nessuno ti ha mai detto di non avere un amante, nessuno ti ha mai impedito, come fanno molte donne non solo vedove ma con tanto di marito vivente e figli, di trovare dei diversivi al matrimonio. Ma dovevi evitare conseguenze come questa. Demelza, ti rendi conto di cosa significa? Dello scandalo, del chiacchiericcio della gente? Successe la stessa cosa con Hugh e io fui tollerante, allora. Si trattava di mio nipote, era malato e in te aveva trovato un motivo per vivere e tu in cambio ci stavi donando degli eredi che credevamo impossibile avere. Ma ora ci sono i bambini, hai pensato al tuo ruolo nei loro confronti? Hai pensato a cosa perderanno e a che decisioni difficili dovrai arrivare, ora che c'è questo intoppo?".

Il percorso che stava prendendo il discorso, non le piaceva per niente. E capì che doveva mettere in chiaro alcune cose e soprattutto, come detto la sera prima, che i bambini erano affare esclusivo suo e di Ross. Ma questo valeva per Jeremy e Clowance, forse. Ma i gemelli? Per un attimo tremò, ma poi pensò che mai Falmouth avrebbe potuto fare qualcosa per allontanarla da loro, tanto più che lui stesso aveva sponsorizzato per primo un matrimonio fra lei e Ross. "Io forse sono una mente semplice, forse non riesco a vedere tutti i problemi che vedete voi, io so solo che aspetto una bambina e l'avrò dall'uomo che amo. Con accanto l'uomo che amo. E che è tutto quello che ho sempre sognato. Forse è arrivata troppo presto, forse avrei dovuto avere prima al dito quell'anello che anche voi volevate vedermi indossare, forse sono stata irresponsabile. Ma sono felice, Ross è felice e i bambini lo sono altrettanto. E a me questo basta... Cosa pensa il resto del mondo, è affare del mondo, non mio. So solo che la mia bambina avrà tanti fratelli che la adoreranno e lei in cambiò ci renderà tutti uniti. Saremo la sua famiglia e questo renderà NOI una famiglia. Il resto non ha importanza. Conosco i miei doveri, so chi sono e mai mi sono sottratta e mai lo farò. E ogni mia azione sarà volta al bene della mia famiglia e dei miei figli, compresi i gemelli. E' per loro che vi preoccupate?".

Falmouth, con un sospiro, le si avvicinò. Le mise una mano sulla spalla, la osservò e poi, con gli occhi lucidi, iniziò a parlare lentamente, imponendosi di rimanere calmo. "Sono lo zio di quattro bambini, non solo dei gemelli. E mi preoccupo per il buon nome della famiglia che loro rappresenteranno. Tutti e quattro! Fu Hugh a volerlo ma da allora è passato molto tempo e non è quel pezzo di carta in cui lui legittimava Clowance e Jeremy come suoi figli, a renderli importanti per me. Voglio loro molto bene e ora tu e Poldark formerete una famiglia di cui i piccoli faranno parte e saranno felici, ma noi? Il passato che abbiamo condiviso? Il futuro della mia famiglia? Che è anche la loro, per scelta di Hugh che tu hai accettato...".

Anche gli occhi di Demelza divennero lucidi, capendo in quelle parole quali fossero le vere paure di Falmouth. Non lo scandalo, quelli passano e la gente se ne dimentica, non il buon nome della famiglia ma perdere i bambini... E lei voleva che lui sapesse che non sarebbe stato così, mai avrebbe permesso che fosse così. "Ricordate cosa vi dissi allora, quando imponeste a me e Hugh di sposarci a causa della gravidanza di Daisy e Demian?".

"Ci siamo detti molte cose, quel giorno, Demelza".

Lei sorrise. "Vi chiesi solo una cosa, solo una condizione: una famiglia per i miei bambini, uno zio e una nonna che pranzassero e cenassero con loro, che li guardassero giocare, che li portassero mano nella mano a passeggio. Non titoli, non denaro, nulla di nulla. Solo una famiglia e amore. E voi ci avete dato tutto questo e io sono stata felice. SONO felice e la mia famiglia non è e non sarà mai più solo quella formata con Ross. Voi, Alexandra e tutte le persone che lavorano e vivono con noi fanno parte del mio mondo, VOI siete una parte importante della mia famiglia e non ci voglio rinunciare. Non lo vogliono i bambini e di certo non me lo chiederebbe Ross".

Falmouth spalancò gli occhi. "Che vuoi dire? Che vuoi fare?".

Demelza sorrise. "Quello che mi avete sempre chiesto di fare da quando avete conosciuto Ross e non sapevate chi fosse. Renderlo parte della nostra famiglia, averlo sotto mano per parlare con voi di politica durante il pranzo o la cena, lavorare insieme e trovare con lui soluzioni ai tanti problemi di questo nostro bellissimo ma problematico paese. Siete diversi, testardi e con idee agli antipodi eppure so che insieme potreste fare cose grandiose. Dopo averne discusso e litigato per ore, si intende... Ma anche questa è famiglia e io voglio che i bambini vi vedano insieme, voglio che abbiano il loro zio e la loro nonna, voglio tutto ciò che hanno sempre avuto, con qualcosa in più per tutti, un nuovo padre e una sorellina. Voglio tutto questo per loro ma anche per Valentine e per la bambina che verrà. In fondo noi abbiamo sempre saputo dimostrare al mondo che l'amore e i legami di sangue non sempre sono complementari. Si ama e basta, si è una famiglia e basta con chi amiamo e con chi ci fa star bene. Non smetterò di essere Lady Boscawen, non lo farò mai perché fa parte di me esserlo, fa parte della mia vita e della mia famiglia ed è un atto d'amore e rispetto che devo a Hugh, oltre che a voi e Alexandra".

Falmouth spalancò gli occhi. "Vorresti che facessi da zio anche al bambino che aspetti e al tuo figlioccio acquisito?".

"Sì, sperando che sia un desiderio condiviso".

Falmouth sospirò, forse desideroso di vedere la faccenda in modo semplice come riusciva a fare lei e di certo lieto di immaginarsi circondato di bambini, dopo che aveva rischiato di finire la sua vita completamente solo. "Sono un uomo non più giovane, vedo le cose a modo mio Demelza, ma so che sei una brava madre e so anche che i miei nipoti, in mano tua e al signor Poldark, saranno cresciuti al meglio e avranno tutto ciò di cui hanno bisogno. Ma far combaciare tutto, organizzare tutto in modo nuovo, unire il tuo legittimo desiderio di far ritorno alla tua terra al tuo ruolo a Londra e alla famiglia che hai creato con noi... Come fare?".

Demelza gli poggiò gentilmente una mano sul braccio, guardandosi attorno. Le alte mura di quel piccolo maniero, le finestre alte e austere in stile medievale, la pioggia e la paura che avevano appena vissuto, avevano reso la Scozia un posto che voleva lasciare al più presto, tenendo per se solo i ricordi che l'avevano unita a quei luoghi assieme a Hugh. Ma la Scozia non faceva parte della sua storia con Ross, lei e Ross erano e sarebbero sempre appartenuti alla terra di Cornovaglia, ventosa, implacabile, selvaggia e che aveva dato i natali a re Artù. Ognuno aveva la sua storia e ognuno aveva un filo invisibile legato ad un dito, che lo avrebbe sempre collegato al suo luogo di appartenenza. "In fondo, non ci serve un castello in Scozia...".

Falmouth la bloccò. "E' necessario, questa gente deve avere una gui...".

Demelza lo bloccò con altrettanta fermezza. "Questa gente sa stare al mondo benissimo, da secoli, senza che noi veniamo quì con la presunzione di volerglielo insegnare. La nostra casa è l'Inghilterra e se invece che un castello in Scozia, comprassimo un grosso maniero in Cornovaglia...".

Falmouth si accigliò. "Arriva al punto...".

Gli sorrise. "Ross è un parlamentare, io sono Lady Boscawen e il nostro posto, nei mesi invernali, è Londra. Ma in estate è in Cornovaglia che vogliamo stare coi bambini, io e Ross. E vorremmo che voi vi uniste a noi. Un grande maniero, Nampara, due case vicine dove i bambini potranno spaziare liberamente giocando e sfogandosi all'aperto. In fondo, mi pare, avete promesso a Ross di costruire delle opere laggiù, per aiutare l'infanzia difficile dei figli dei minatori. Non volete seguire di persona la vita delle opere che finanziate a vostro nome? A nome dei bambini?".

Falmouth sospirò, sconfitto. "E la Scozia?".

"Lasciamola agli scozzesi, sapranno averne cura meglio di noi" – gli sussurrò, sfiorandogli le mani.

Falmouth la osservò, il suo sguardo era clinico e attento. "Quando hai detto che nascerà il bambino?".

"La bambina" – ribatté lei.

Lui la guardò storto. "Come lo sai?".

"Lo so e basta. E dovrebbe nascere ad inizio gennaio o forse a fine anno...".

E a quel punto Falmouth riprese in mano la situazione, da capo famiglia e uomo pratico qual'era. "Va bene, torneremo a Londra dove preparerete i bagagli per la Cornovaglia. Ma vista la situazione meglio evitare scandali, quindi prolungherete un pò la vostra permanenza laggiù per questa volta. Il tempo necessario per sposarvi e per mettere al mondo la bambina, lontani dal gossip di Londra. Dopo, col nuovo anno, tornerete come famiglia ufficiale nella nostra residenza e la gente la prenderà come un dato di fatto, facendosi qualche domanda a cui noi non risponderemo. A proposito... Tu e Ross avete pensato anche a questo? All'alloggio? Vi voglio ancora vicini, ma se voleste trasferirvi in una casa vostra, lo capirei..." - concluse, in tono triste.

Demelza sorrise, pronta a tranquillizzarlo. Sì, avevano deciso anche questo lei e Ross e la soluzione trovata da Falmouth di lunghi mesi in Cornovaglia, la rendeva felice e propensa a trovare una buona riuscita a tutti i problemi che avrebbero potuto incontrare. "Rimarremo a vivere con voi ma non nell'ala del palazzo che occupo ora. Sarebbe difficile per me, per Ross e per voi, vederci vivere dove un tempo vivevo con Hugh. Posso sistemare il cottage che abbiamo in giardino? Quello dietro al roseto?".

Falmouth spalancò gli occhi. "E' piccolo!".

"E' grande quanto basta. Ci sono tre stanze, una per noi, una per le bimbe e una per i maschietti. Un piccolo salotto e una natura rigogliosa attorno. Ci passeremo solo la notte e anche senza servitù, sappiamo gestire da soli i bambini nell'ora di metterli a letto. Per il resto nulla cambierà, attraverseremo il giardino e faremo colazione, pranzeremo e ceneremo insieme. E i bambini potranno venire avanti e indietro a loro piacimento, come sempre".

Falmouth le accarezzò la guancia. "E questo ti renderebbe felice?".

"Sì. E la casa in Cornovaglia?".

Falmouth le strizzò l'occhio. "Ci sono castelli meravigliosi pure lì! Si può fare e l'aria di mare migliorerà la mia gotta e l'umore di Alix. E in effetti, anche il mio prestigio e i miei affari...".

Pratico, deciso, come sempre. Demelza fece per ribattere quando la porta si aprì e come un uragano, di corsa, entrarono i gemellini. E a Falmouth per poco non venne un colpo.

Ma non solo a lui, anche Demelza dovette appoggiarsi alla sedia per non cadere a terra, vinta dalla sorpresa di ciò che aveva davanti. I suoi splendidi, inglesissimi e biondissimi bambini indossavano entrambi abiti tradizionali scozzesi rossi e verdi, trovati chissà dove e dati loro chissà da chi e parevano trovarcisi decisamente a loro agio, tanto che Demian saltellava eccitato per la stanza mostrando la gonnellina che indossava.

"CHE COS'E' QUESTO???" - urlò Falmouth, pallido come un cencio.

Anche Demelza, sotto shock, si avvicinò ai bambini per ottenere spiegazioni. "Bambini, chi vi ha dato questi vestiti?".

Demian, felice e divertito, roteò su se stesso facendo impallidire ancora di più suo zio. "Il nostro amico Raghnall, ha detto che è un regalo e di mettere questi vestitini che lo zio sarebbe stato contento. Sei contento, zio?".

Ovviamente, no! Falmouth, col terrore negli occhi come se avesse appena visto un mostro, guardò Demelza in cerca di aiuto. "La tua gravidanza è l'ultimo dei problemi... Quel dannato vichingo me la pagherà, mi ha contaminato i bambini... Dov'è?".

"Chi?" - chiese Daisy.

"Il selvaggio vichingo che vi ha dato quegli obrobri!!!".

Demelza cercò di farlo calmare, ma Falmouth era in preda a una crisi isterica. "Dov'è?" - chiese ai bambini. "Lo scozzese, dov'è?".

"In cortile, sta lavorando" – rispose Demian.

Falmouth prese il bambino in braccio, si avvicinò alla finestra, la spalancò e sollevò il nipotino perché fosse visto da quelli di fuori. "Cos'è questo? Che significa, Raghnall?" - urlò all'uomo che, in abiti tradizionali come sempre e al centro del cortile, stava portando sulle spalle un grosso bue da sezionare e tagliare per la cena.

Appena lo vide, lo scozzese dai capelli rossi scoppiò a ridere in tono sguaiato, appena ebbe visto coi suoi occhi l'effetto della sua trovata, dimostrandosi un politico sanguigno e pronto ad ogni mossa sleale come e più di Falmouth. "Caro lord, che significa?!" - chiese, col suo vocione impastato da una buona bevuta di vino. "Semplice, volevate conquistare la Scozia e invece la Scozia ha conquistato l'Inghilterra!".

Falmouth, da bianco, divenne rosso come il fuoco e Demelza corse in corridoio a chiamare Prudie prima che la situazione esplodesse. Poi prese i bambini, tenendoli stretti a se. Vedere lo zio così alterato e isterico non li aveva spaventati ma anzi, i due piccoli pestiferi se la ridevano impunemente davanti a lui.

Prudie arrivò, guardò Falmouth rosso come un peperone e poi divenne rossa pure lei, appena visti i bambini. "Giuda, il demonio li ha posseduti!".

Falmouth indicò col dito i bambini. "Non il demonio, la Scozia! Portali via, leva loro di dosso quella roba e poi BRUCIALA, poi lavali a fondo, dalla testa ai piedi".

Daisy picchiò il piedino per terra, per niente contenta. "No, non voglio fare il bagno!".

Ma lo sguardo furente di Falmouth per un attimo la zittì e Demelza ne approfittò per prendere i bambini e portarli fuori, seguita da Prudie.

Arrivarono alla porta ma Daisy protestò ancora e alle rimostranze di Falmouth, Prudie la fulminò con lo sguardo. "Roba scozzese, è infetta! Il bagno durerà ore, finché non sarai tornata inglese dalla testa ai piedi, bestiolina!".

Falmouth la guardò, annuendo. "Brava, la vedi nel modo giusto!". Poi si voltò verso Demelza, occhieggiando la serva. "Ottima scelta, ottima bambinaia. Te l'ho mai detto, Demelza quanto apprezzi questa scelta?".

A quella domanda, lei alzò gli occhi al cielo. Giuda, a Falmouth la selvaggia Prudie non era mai piaciuta... Rozza, senza titoli o raccomandazioni che diceva le parolacce e spettinata. Lo guardò, la guardò e per un attimo si trovò divertita a pensare a quella strana ed inaspettata alchimia e a cosa avrebbe potuto portare se il destino avesse avuto un'ampia fantasia. Poi però decise di non fare la stupida e di approfittare del fatto che Falmouth si fosse calmato, per andare via coi bambini. "Li porto a fare il bagno" – sussurrò, strizzando l'occhio all'uomo. "E per la gravidanza...?".

Prudie spalancò gli occhi. "Giuda, quale gravidanza?" - chiese, guardando con terrore lei e poi i gemelli.

Demelza sorrise, era ora che lo sapesse anche lei. "La mia...".

Prudie la guardò, imprecò qualcosa fra i denti, alzò gli occhi al cielo e poi prese i bambini per mano. "Il signor Ross... Ti pareva che non colpiva pure stavolta...".

Falmouth si avvicinò loro. "La gravidanza? E' l'ultimo dei problemi, i bambini in versione Hilander sono la nostra catastrofe! Abbiamo concordato, no, per il bambino in arrivo? Non avremo problemi. Tu partirai subito, andrai a Londra a prendere le tue cose e poi coi bambini parti spedita assieme a Ross in Cornovaglia. IMMEDIATAMENTE! Portiamo via subito i gemelli da questo covo di selvaggi vichinghi scozzesi, prima che li rovinino per sempre".

"A me mi piace questo vestito, però" – si lamentò Demian, guardando la gonnellina rossa che indossava.

Daisy invece, come incupita dalle parole dello zio, mise il muso e iniziò a piangere. Così, all'improvviso, disperata. "Non vogliooooo".

"Cosa? Cose c'è, amore?" - chiese Demelza, inginocchiandosi davanti a lei per calmarla.

"E... E... Noi in Cornovaglia? E io non voglio, senza...".

Singhiozzava e nessuno capiva cosa avesse. Ma poi Falmouth parve percorso da un lampo di genio. "Piangi per me? Hai paura che non mi vedrai più? No, no! Compreremo una grande casa vicino alla vostra e saremo insieme, sta tranquilla".

Ma Daisy lo gelò. "Non piango per te".

"Per la nonna?" - chiese Demelza.

"No...".

"E per chi? Non sei contenta di partire tutti insieme, con papà Ross?".

La piccola si voltò verso Prudie, singhiozzando. "Sì. Ma solo noi? Se Prudie non viene, io non voglio!".

Demelza sussultò e anche Prudie fece altrettanto, stupita da quelle parole. E, miracolosamente, parve commuoversi. "Ohhhh, la bestiolina ha un cuore e mi vuole bene".

Demelza, perplessa, la prese in braccio. "Certo che Prudie viene con noi, che ti salta in mente? Non la lasciamo di certo a Londra".

"Davvero?".

Prudie diede un buffetto alla piccola. "Davvero! Solo io sono capace a sopportarti, bestiolina!".

Daisy le sorrise e, rinfrancata, si divincolò dalla stretta della madre e scese a terra, scappando nel corridoio con Demian di nuovo vivace e contenta.

Falmouth, deluso che non avesse pianto per lui, invece sospirò. "Bagno! SUBITO!".

Demelza annuì, più serena per tante cose e meno serena per altre. Prese Prudie sotto braccio, seguendo i gemelli nel corridoio. "Certe volte, Daisy è più tua che mia. Per me non avrebbe mai pianto così..." - disse, forse con un velo di tristezza per quella figlia a volte sfuggente.

Prudie diede un buffetto pure a lei. "Certo, per te non lo farebbe, ragazza. E sai perchè?".

"Non credo di volerlo sapere".

"E invece dovresti! Non si piange per chi sappiamo che non ci abbandonerà mai. Sei la sua certezza, sa che non la lasceresti per niente al mondo. Su di me, ha qualche dubbio".

Demelza la abbracciò perché come al solito quella donna cornish senza istruzione sapeva dirle con saggezza le parole giuste al momento giusto. "Grazie Prudie. Per quello che fai per me e per il bene che vuoi ai miei bambini".

Prudie guardò storto il suo ventre. "E fra poco ne avremo uno in più... Dimmi che è SOLO uno!".

"E' uno solo, tranquilla..." - le rispose, abbracciandola. "Niente bestioline demoniache!".

Prudie guardò i bambini che si allontanavano. "Bestioline Poldark, che è forse peggio! Vado a recuperare i due mini-scozzesi e li faccio tornare inglesi. A dopo".

"A dopo, Prudie..." - mormorò, guardandola allontanarsi inveendo contro i bambini che erano scappati. Poi, accarezzandosi il ventre, tornò al piano di sopra, da Ross, a controllare che stesse bene.

Lo trovò sveglio, seduto sul letto ed intento ad armeggiare con la fasciatura alla spalla. Entrò in camera sbattendo la porta e poi lo guardò accigliata e con le mani sui fianchi. "Che diavolo stai facendo, Ross Poldark?".

Lui, come un bambino colto con le mani nel vasetto di marmellata, borbottò. "Dwight sicuramente scherzava, quando parlava di tre settimane".

Era proprio Ross, già scalpitante ed impaziente di tornare alla vita attiva. Avvicinandosi al letto, lo occhieggiò divertita, imponendosi però di essere ferma. "Ne dubito" – disse, spingendolo sul materasso.

"Demelza!" - la implorò.

"Ross, NO! O la spalla non guarirà".

Sbuffando sconfitto, la osservò. "Dove sei stata?".

"Da Falmouth. Gli ho detto tutto...".

Ross si fece serio. "Avresti dovuto dirmelo, sarei venuto con te".

Gli sorrise. Era l'ultima cosa che faceva qualcosa senza di lui ma ora, per il bene di tutti, era giusto che fosse sola. "Non lo conosci ancora abbastanza bene e la faccenda era seria e grossa. Avremmo peggiorato la situazione in due e in fondo, quello che conta è il risultato!".

"E il risultato è soddisfacente?" - le chiese, preoccupato.

"Lo è" – rispose, sorridendogli. "E sappi che è l'ultima volta che ti risparmio un incontro con lui, da oggi ogni cosa la diremo insieme!". E poi gli raccontò di cosa avevano parlato, di come si era sentito inizialmente tradito e degli accordi che avevano raggiunto. E che sarebbero stati davvero, tutti insieme, una grande famiglia, a Londra nel loro piccolo cottage come in Cornovaglia, a Nampara. E niente castello scozzese, Falmouth si sarebbe accontentato di quello di re Artù, probabilmente!

"Sei stata brava" – le sussurrò, accarezzandole il viso. Era bellissima, riusciva a sistemare ogni cosa, era forte, fiera ed indipendente e quella mattina sembrava addirittura radiosa. "E siamo soli da chissà quanto tempo, senza bambini attorno, senza lord attorno, senza scozzesi attorno! E voglio fare l'amore con te".

Demelza tremò sentendo la sua voce calda, spalancando gli occhi. Santo cielo, lo desiderava da morire anche lei, era tanto che non si sfioravano e in effetti era ancora mattina presto e avrebbero avuto ancora un'ora buona di solitudine e tranquillità. Ma... "Sei ferito".

"Solo alla spalla e leggermente alla caviglia" – rispose lui, facendole intendere che tutto il resto era a posto.

Demelza rise, sfiorandosi il ventre. Presto si sarebbe sentita grassa e brutta ma per ora, si trovava ancora piuttosto desiderabile... E decise che in fondo si poteva fare...

Silenziosamente, si alzò dal letto. Andò alla porta, la chiuse a chiave e poi, lentamente tornò da lui, togliendosi uno ad uno gli indumenti in gesti lenti. Voleva sedurlo e anche se forse si sarebbero messi a ridere entrambi, voleva davvero essere una donna desiderabile per una mattina.

Ogni nube era svanita sul suo destino e non dovevano forse goderne appieno, di quella pace ritrovata?

Quando arrivò al letto, lo sguardo di Ross era solo per lei. Assorto, profondo, pieno di desiderio e tenerezza. Le sfiorò il fianco, la attirò a se e la baciò sulle labbra, profondamente e con passione. Poi le prese la mano, guidandola a togliersi gli ultimi indumenti che aveva addosso. E, ormai nuda, Demelza lo aiutò a fare altrettanto. Infine si stese sopra di lui, sfiorandogli il petto e il collo con movimenti lenti che lo facevano impazzire. "Non muoverti... Per una volta, lascia fare a me..." - sussurrò al suo orecchio.

Ross annuì, non poteva che chiedere questo, le avrebbe obbedito come un cagnolino in quel momento. "D'accordo" – disse, docile, prima di ricatturarle le labbra.

E Demelza, stendendosi sopra di lui e facendo aderire i loro corpi, rispose al bacio. E poi fecero l'amore...

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Capitolo 77
*** Capitolo settantasette ***


Alexandra aveva pianto quando, tornati a Londra dopo un lungo viaggio dalla Scozia, le avevano comunicato tutte le novità venute a galla in quella terra lontana popolata da selvaggi in gonnella con cui Falmouth non voleva più avere nulla a che fare.

La donna aveva pianto per la paura di perdere i bambini, aveva pianto vedendo la gioia di Demelza per la sua maternità e per il legame con Ross, aveva pianto pensando a Hugh e al fatto che sarebbe stato un altro padre a crescere i suoi figli, aveva pianto perché era triste e allo stesso tempo felice perché sapeva che era giusto così, che era la cosa migliore per tutti...

Demelza, con dolcezza, l'aveva consolata e tranquillizzata. Mai si sarebbero perse di vista, mai avrebbero smesso di essere una famiglia, mai l'avrebbe allontanata dai bambini e soprattutto, mai avrebbe permesso che qualcosa spezzasse il legame fra di loro. La voleva come nonna dei suoi figli, compresa la piccola in arrivo, la voleva nelle calde estati in Cornovaglia e in inverno a Londra, tutti insieme come sempre. E voleva che la aiutasse a cucire il suo abito da sposa, cosa che aveva commosso molto Alexandra che, pur col dolore nel cuore per il ricordo di Hugh che se n'era andato troppo presto, aveva la consapevolezza che suo figlio le aveva lasciato un futuro pieno, senza solitudine e con una famiglia inaspettata, allargata e nuova con cui rinascere a nuova vita.

E così, mentre Falmouth e Alexandra programmavano il viaggio in Cornovaglia e l'acquisto di un qualche castello in quelle terre, Ross e Demelza avevano fatto i bagagli e, con estrema emozione, si erano preparati per quel ritorno tanto inaspettato e foriero di sentimenti fortissimi, in quella che entrambi avevano sempre considerato la loro vera casa.

Avevano preso le loro cose, i cani, organizzato due grandi carrozze e poi lei, Ross, i bambini, Prudie e i Gimlett si erano messi in viaggio.

In una carrozza viaggiavano lei, Ross, Demian, Clowance e Jeremy mentre nell'altra Prudie, i Gimlett, Daisy, Valentine e i cani. Valentine aveva insistito per fare il viaggio coi servitori che da sempre si prendevano cura di lui e con cui si sentiva più a suo agio mentre Daisy non aveva voluto mollare Prudie perché, come aveva spiegato seria seria a Ross dopo i racconti che gli aveva fatto della Cornovaglia, in una fattoria si deve lavorare tanto e a Prudie non piace. E lei voleva vegliare e controllare che non tentasse la fuga.

Il viaggio da Londra verso la Cornovaglia era stato piuttosto tranquillo e Ross e i bambini durante il tragitto avevano potuto cominciare davvero a vivere insieme la giornata, dal mattino alla sera, come una vera famiglia.

Jeremy e Clowance erano ancora piuttosto timidi negli approcci con Ross, quasi timorosi di crederci, di aprirsi, di essere felici del suo ritorno. Ma silenziosamente lo cercavano con lo sguardo, arrossendo gli porgevano delle domande e soprattutto Clowance tentava a volte di avere dei contatti con lui. Per lei quel mondo era tutto nuovo e diversissimo da quello a cui era abituata eppure, nonostante i timori di Demelza, non ne aveva paura ma anzi, ne era soprattutto incuriosita. Con la nonna aveva comprato abiti adatti alla Cornovaglia e con un guardaroba meno pretenzioso di quelli del passato ma tutto nuovo e con abitini più comodi per muoversi e giocare liberamente, sembrava euforica. Anche Valentine era felice e basta, come se avere attorno tante persone fosse tutto ciò di cui aveva bisogno e che aveva sempre desiderato. Per quanto riguardava i gemelli, Demian aveva iniziato a capire che sarebbe arrivata una sorellina, che sarebbero stati in tanti, che aveva guadagnato un papà ma che avrebbe dovuto imparare a dividere la mamma con più persone e che questo, anche se adesso gli appariva impossibile, col tempo gli sarebbe anche piaciuto. Col tempo ovviamente... E poi Daisy, tornata vivace, felice, inarrestabile come sempre. Demelza la osservava chiacchierare con Ross e si rendeva conto che parevano anime affini e gemelle e che la sua piccola orsa non era mai stata tanto loquace con nessuno, fino all'incontro con lui. Lei parlava, faceva mille domande ed era meno monella e dispettosa del solito, si emozionava nel sentire parlare del mare e Ross le rispondeva con pacatezza, senza dare segni di stanchezza, in un modo che sapeva conquistarla. Le lacrime e la tristezza scozzesi erano un ricordo per la bimba e questo faceva star bene Demelza.

Di contro, lei era invece un miscuglio di sentimenti contrastanti. Era stranamente impaurita dal ritorno a Nampara e allo stesso tempo non vedeva l'ora di spalancare nuovamente quella porta, la porta della sua casa... Ma aveva il sordo terrore di tornare al passato, ai ricordi più dolorosi della sua esistenza e di non riuscire a superarli, frapponendo un muro fra lei e Ross che avrebbe potuto minare nuovamente il suo rapporto. Lui non ne parlava, sembrava serafico e imperscrutabile come sempre ed era difficile comprendere se si sentisse agitato quanto lei, se avesse dei timori, se si facesse delle domande... E non riusciva a fargli domande su questo, come se si sentisse sciocca ed infantile in mezzo a tutti quei timori quando invece avrebbe dovuto essere semplicemente felice.

Mentre la carrozza procedeva sonnecchiosa, Demelza si massaggiò il ventre. Nelle ultime settimane era letteralmente esploso dopo mesi in cui era stato pressocché invisibile, come se la bimba che aspettava avesse voluto venirle in aiuto rimanendo celata al mondo finché ce ne fosse stata necessità. Ma ora che tutti sapevano, era come se la piccolina volesse farsi conoscere, gridare a tutti che c'era e adesso, guardandola, nessuno avrebbe potuto non notare che era incinta.

Demelza sorrise a quei pensieri, appoggiandosi con la testa sulla spalla di Ross. Demian dormiva al suo fianco, steso sul sedile, Jeremy faceva altrettanto sul sedile opposto e Clowance, seduta fra i due genitori, imitava l'attività dei fratelli in tutto e per tutto. Prima di addormentarsi aveva cercato timidamente la mano di Ross con la sua e lui l'aveva stretta, delicatamente, baciandole le dita. E lei non aveva lasciato quella stretta e, come tranquillizzata dalla sua presenza, si era addormentata così, con la testolina appoggiata al petto del padre.

Ross sorrise. "Con Valentine e Daisy, dubito che l'altra carrozza possa essere altrettanto silenziosa. Forse saranno i Gimlett a tentare la fuga, non ci sono abituati".

Demelza non rispose ma, cercando pace per il suo animo, si appoggiò ancora più intensamente contro di lui. Era pomeriggio tardi e l'ombra della sera stava coprendo tutto il panorama circostante. Di tanto in tanto guardava fuori dal finestrino e man mano che procedevano riconosceva luoghi e panorami noti, distese sconfinate di prati e torrenti, casupole abbandonate in mezzo alla brughiera e sentieri sterrati che facevano sobbalzare la carrozza, a cui non era più abituata dopo tanti anni a Londra. La piccola nel suo ventre si mosse, uno dei primi calcetti che riusciva ad avvertire e che erano diventati una piacevole compagnia negli ultimi giorni. "Credo sia agitata anche lei" – esclamò, per stemperare la tensione.

Ross le poggiò la mano sul ventre e lei si gustò quella sensazione di calore che tanto le era mancata quando era incinta di Clowance. Guardò la bambina addormentata fra loro, le baciò la fronte e dentro di se pensò a quanto, quasi otti anni prima, avesse desiderato quel genere di gesti da parte di Ross.

Lui, accorgendosi del suo turbamento, la strinse a se. Era palese cosa stesse provando Demelza e spesso, pur avvertendolo, era rimasto silenzioso per paura di dire qualcosa di inappropriato o sbagliato dopo tutto il dolore che le aveva procurato e le sue mille mancanze. "Stavolta sarà diverso..." - disse solo.

Demelza lo baciò gentilmente sulla guancia. "Lo so...".

La mano di Ross si mosse sul suo ventre con delicatezza, cercando di dare conforto a madre e figlia. "Come hai deciso di chiamarla?".

Lei rise. "Dammi tu qualche idea!".

"I patti non erano che avresti scelto tu i nomi delle femmine e io quelli dei maschi?".

Demelza si voltò verso di lui, divertita dal fatto che se ne ricordasse. "Quindi, restano validi quei patti presi tanti anni fa?".

"Assolutamente".

E in virtù di ciò, ricordando quanto pattuito fra loro qunado era incinta di Julia, la donna prese un profondo respiro e decise. "E così sia... Lei si chiamerà Isabella-Rose Poldark" – esclamò, improvvisamente entusiasta, trovando dolce ed appropriato il suono di quel nome e di quel cognome che da giorni le frullavano nella testa, che avrebbero dato un'identità alla sua bambina.

Ross chiuse gli occhi, assaporando quel suono. "Isabella-Rose... Mi piace... MI PIACE!" - disse forte, baciandola d'impeto sulle labbra e finendo per svegliare i bambini.

"Ross!" - lo rimproverò Demelza.

Strofinandosi gli occhi Jeremy, Clowance e Demian li guardarono stralunati. "Che succede?".

Ross rise, di gusto, guardando i bambini e poi fuori dal finestrino. "Vostra sorella ha un nome".

Clowance spalancò gli occhi. "Quale?".

"Isabella-Rose" – rispose Demelza.

Demian, non così eccitato come gli altri, si alzò dal sedile e si avvicinò a Ross. "Anche se ha un nome, è sempre vero quello che mi hai detto ieri sera?" - domandò, mortalmente serio.

Demelza, incuriosita, guardò Ross. "Che gli hai detto?".

Ross alzò le spalle, scompigliando con la mano i lunghi capelli biondi – che avrebbe voluto un pò più corti – del figlio appena acquisito. "Che la sua posizione di figlio più piccolo sarebbe rimasta tale".

"Ma lui non sarà più il più piccolo!" - obiettarono Demelza e Jeremy.

"E invece sì!" - insistette Demian, picchiando il piedino. "Papà Ross, diglielo tu!".

E Ross, strizzando l'occhio a Demelza, si affrettò a spiegare. "Beh, Isabella-Rose è una femminuccia, leverà a Daisy il titolo di 'bambina più piccola'. Ma per quanto riguarda i maschietti...".

Demian rise, lanciandosi contro di lui in un abbraccio. Daisy sarebbe stata felice di non essere più la più piccola, Demian sarebbe stato contento di continuare ad esserlo, con tutti i privilegi annessi.

Demelza rise, grata a Ross per aver escogitato quello stratagemma in grado di rasserenare Demian e davvero colpita per la capacità che aveva di comprendere i gemelli.

Ross le strinse la mano e poi, dopo aver dato ancora un occhio fuori dal finestrino, batté un colpo sul tettuccio, incitando il cocchiere a fermarsi. "Siamo vicini, che ne dite di proseguire a piedi? Recuperiamo Daisy e Valentine sull'altra carrozza e ce ne andiamo a casa passeggiando sulla spiaggia".

"C'è il mare, papà?" - domandò Jeremy eccitato, correndo al finestrino e sedendosi sulle sue ginocchia.

Ross indicò la brughiera con la mano. "Lo raggiungeremo dopo una passeggiata di dieci minuti su quel sentiero".

Clowance, che pareva incerta, fissò Demelza. "E i bagagli? E i nostri vestiti?".

Ross la tranquillizzò. "Faremo proseguire le carrozze fino a casa, con Prudie e i Gimlett. Ci penseranno loro a scaricare i bagagli e a portarli al sicuro a Nampara".

"E allora va bene" – disse la piccola.

Demelza annuì, prese Demian per mano e aspettò che Ross aprisse il portellino. E poi scesero, raggiungendo la carrozza con Daisy, Valentine e i loro servi, ferma dietro alla loro.

Daisy si affacciò con Valentine al finestrino. "Che succede?".

Ross la prese, facendola passare attraverso la piccola finestrella e mettendola a terra. "Si va a piedi, coraggio. Avete o no voglia di vedere il mare?".

Dopo tanta prolungata immobilità dovuta al viaggio, Daisy prese a saltellare eccitata, Valentine scese agilmente giù dalla carrozza e i cani fecero altrettanto. Erano davvero un grande branco, ora che Demelza ci pensava, formato da una miriade di bambini chiassosi e cani fedeli. Non doveva avere paura di tornare, non era sola come quando era partita e probabilmente non sarebbe stata sola mai più.

Prudie e i Gimlett, provati da tante ore in compagnia di Daisy e di Valentine, che con l'influenza della gemellina era diventato tremendo anche lui, furono ben felici di proseguire da soli e di godere di qualche attimo di pace.

E guardandoli andare via, Demelza si trovò a chiedersi se non avessero tentato davvero la fuga. Ma fu un pensiero fugace perché appena le carrozze furono sparite alla sua vista, si guardò attorno con un brivido che le percorse la schiena e le fece venire la pelle d'oca sulle braccia.

Era a casa, quei prati, quel cielo, quel rumore in lontananza del mare erano i tratti distintivi della sua terra, quella terra selvaggia che l'aveva vista nascere e crescere, diventare moglie e madre e poi scappare col cuore a pezzi e la certezza che tutto fosse finito.

Stava tornando, da donna rinata e nuova, con un futuro roseo davanti tutto da costruire. Inspirò il profumo di prato e salsedine, tutte cose che le erano mancate e che le pareva di non ricordare ma che ora, ora che le inebriavano tutti i sensi, si accorgeva aver sempre fatto parte di lei in un angolo segreto del suo cuore che conteneva tutti i suoi ricordi più preziosi. Era la sua terra, la terra dove sarebbero cresciuti i suoi figli, dove sarebbe diventata di nuovo madre, la terra che ora, da Lady Boscawen, poteva contribuire a rendere un pò migliore.

Ross la prese sotto braccio mentre bambini e cani, eccitati, correvano verso il mare. "Tutto bene?".

Lo guardò, mentre il vento le scompigliava furiosamente i lunghi capelli rossi. Anche questo le era mancato... "Tutto bene". Sì, era tutto meraviglioso. Il sole, il mare, il rumore del vento, la brughiera deserta dove si sentivano solo le voci allegre dei loro bambini, il futuro che poteva ancora immaginare in quelle terre. Si avvicinò a Ross, gli accarezzò le labbra e lo baciò. Voleva sentirlo, sentirlo contro di lei, sentirlo suo, sentire ancora e ancora in se la consapevolezza che finalmente erano di nuovo insieme.

Ross ricambiò il bacio e poi la abbracciò. "Forse dovremmo sbrigarci oppure dovremo scandagliare la spiaggia per capire dove sono andati a finire i bambini".

"Oh Ross, ci avresti mai creduto fino a un anno fa?".

Lui si guardò attorno e il suo sguardo si fece malinconico. "Me ne sono andato da questi posti senza alcuna speranza per il futuro, dopo anni di vuoto e di nulla... No, non ci avrei mai potuto credere, eppure il destino pare avere più fantasia di noi".

"Direi di sì".

Si presero per mano e, in silenzio, attraverso i prati si diressero verso le scogliere e da lì alla spiaggia. Quando vi arrivarono scoppiarono a ridere, i bambini parevano impazziti. Demian, Jeremy e Valentine assieme ai cani correvano a riva, bagnandosi e schizzandosi fra le onde del bagnasciuga, Clowance tentava con grazia di avvicinarsi loro, preferendo però cercare le conchiglie sulla riva con Queen mentre Daisy, stranamente in disparte, osservava rapita lo spettacolo che aveva davanti agli occhi.

Indossava un leggero vestitino rosa, i suoi lunghi capelli biondi sembravano ancora più biondi alla luce del sole calante della Cornovaglia e l'azzurro trasparente dei suoi occhi si rispecchiava e fondeva con l'azzurro del mare. Sembravano un tutt'uno e Demelza, stranita, le si avvicinò con Ross. "Orsetta! Credevo ti saresti scatenata più di tutti" – le sussurrò.

Daisy, seria, guardò Ross. "E' grande davvero! E sembra tanto forte".

Lui le si inginocchiò di fianco, osservando quel mare di cui aveva tanto sentito la nostalgia. "E' vero, è immenso, il mare arriva fino ai confini del mondo. Ed è forte e selvaggio, oltre che bellissimo".

Daisy spalancò gli occhi. "Fino ai confini del mondo? E' tanto fin laggiù! Demian diceva che non poteva essere più grande del laghetto del parco a Londra".

Demelza rise e Ross le strizzò l'occhio. "Demian si sbagliava. Come vedi, il mare è qualcosa di grande e selvaggio, come queste terre. Bisogna rispettarlo, amarlo e imparare a conoscerlo. E anche averne un pò paura, bisogna sempre avere paura e rispetto delle cose grandi e forti. E il mare ti ricambierà con la sua amicizia".

Daisy annuì. "E grande, sì... E io lo voglio vedere tutto".

Ross le accarezzò la testolina. "E così sarà, ne sono certo". Sì, lo avrebbe fatto e Daisy, che più di tutti stava guardando il mare con il rispetto e l'ammirazione che si devono a un re, lo avrebbe domato e l'avrebbe navigato in lungo e in largo. Come una piratessa, quale sarebbe stata... Si appartenevano, lei e il mare. Anche se era nata a Londra e suo padre non aveva legami con la Cornovaglia".

Ma Daisy, con la sua vocina, lo riportò a quella nuova realtà a cui tutti dovevano ancora abituarsi del tutto. "Papà Ross?". Già, era anche lui il suo papà, adesso...

"Dimmi".

"Posso andare anche io a giocare? Se salto nelle onde, non gli faccio male al mare?".

Demelza le sorrise, stringendola a se e baciandola sulla guancia. "No, nessun male! Su, corri dai tuoi fratelli!".

E come se non avesse aspettato che questo, Daisy corse via.

Ross sorrise guardandola correre via per unirsi ai giochi coi suoi fratelli. C'era un senso di pace in quelle risate infantili e in quei cani che correvano dietro ai bambini, godendosi appieno l'aria di mare, il fragore delle onde contro le gambe e il profumo di quella che sarebbe stata anche la loro casa. Di tutti loro.

Sembravano felici, tutti, compresa la bambina che più sembrava essere stata rapita da Londra alla sua vera natura.

Sai Demelza, è incredibile”.

Cosa?”.

Ross osservò Clowance che, tranquillamente, raccoglieva conchiglie sulla spiaggia. I gemelli correvano scatenati avanti e indietro fra le onde, Jeremy e Valentine giocavano con Garrick e sua figlia...

Credeva che lo avrebbe odiato per averla portata in un posto tanto selvaggio e tanto diverso dai suoi gusti e invece... E invece pareva essere riuscita a trovare una sua dimensione anche in Cornovaglia, più bambina, più semplice eppure con uno stile elegante e raffinato ma che sapeva adattarsi benissimo anche a quella vita di provincia grazie agli abitini comprati con la nonna a Londra, che univano il suo amore per l'eleganza con la vita più pratica della campagna, senza che nessuna di queste due caratteristiche snaturasse l'altra. Indossava un abitino azzurro a quadri e fra i capelli aveva un fiocco del medesimo colore che le teneva a bada i lunghi capelli biondi mossi dal vento e anche gli stivaletti che aveva ai piedi, di pelle, sembravano perfettamente coordinati a quell'abbigliamento. “Nostra figlia... Sa essere elegante anche con vestiti semplici”.

Demelza sorrise mentre il vento della spiaggia le scompigliava nuovamente i capelli. “Lei è nata per essere elegante in qualunque posto e con indosso qualsiasi tipo di vestito. Ce l'ha nel sangue e gli abiti che indossa sono solo un tocco in più, saperebbe essere elegante anche vestita un sacco di juta. Sa abbinare i colori, sistemarsi i capelli e trovare il giusto modo per essere raffinata in ogni occasione in cui si trova. Imparerai a conoscerla, sotto ogni aspetto. E ti sorprenderà perché ha una grazia che né io né te possediamo ma anche il sangue indomito e testardo dei Poldark. Non si piega, mai. E' nata per essere una leader, esattamente come suo padre. E per essere una principessa come vogliono i Boscawen. A Londra, quando partecipavo ai balli, spesso decidevo con Clowance come vestirmi. E lei non sbagliava mai sui consigli circa il mio abbigliamento”.

Ross osservò sua figlia pieno di orgoglio. “Se non somiglia a noi, a chi somiglia?”.

A Caroline”.

Lui scoppiò a ridere. “Buono a sapersi. E gli altri? Se lei è nata per essere elegante, qual'è e quale sarà il ruolo degli altri bambini?”.

Jeremy è nato per essere il mio uomo ideale”.

Credevo di essere io”.

Demelza lo guardò storto. “Credo tu non possa competere con lui...” - rispose, in tono leggero.

E i gemelli?”.

Lei alzò le spalle. “Loro sono nati per farmi impazzire e rivoluzionarmi la vita! Ma sono contenta, sai?”.

Di cosa?”.

Daisy non dice parolacce da tre giorni, è tornata ad essere contenta e la mia adorabile monella. E Demian ha dormito coi fratelli un paio di notti in Scozia e forse... forse... lo farà anche in Cornovaglia, lasciandoci la nostra stanza”.

Ross la fissò con sguardo sornione. “Su quest'ultimo punto, dubito tu sia troppo contenta”.

Infatti non lo sono. Non molto almeno...”.

Ma hai me, adesso”.

Però lui è il mio principe”.

Ross la stinse a se. “E continuerà ad esserlo anche se crescerà e imparerà a diventare più indipendente. Farà bene a lui, farà bene a te e... pure a me. Può rimanere il tuo principe anche se dorme nella stanza accanto”.

Demelza si voltò verso di lui e i suoi capelli rossi, al vento, divennero selvaggi come la Cornovaglia. Sorrise. “Vita nuova, è”.

Ross ci pensò su. “Sì e no. Questa è sempre stata casa nostra, dopo tutto”.

Già”. Un sorriso dolce comparve sul viso di Demelza, mentre la sera catturava la spiaggia e il buio prendeva il posto della luce. “Sta facendosi tardi e presto non si vedrà più niente. Andiamo a casa?”.

Ross deglutì, rabbrividendo. Casa... Ora era palese che tornarci, insieme, faceva paura anche a lui. “Sì, direi che è ora”.

Chiamarono i bambini e percorsero tutti insieme la spiaggia. Demelza ripensò a quante volte, tanti anni prima, avesse percorso quel tragitto dopo aver cercato legna da ardere nel camino o al ritorno da una battuta di pesca. Era così incredibile essere tornata lì e forse quell'ansia, quel terrore sarebbero svaniti appena rimesso piede a Nampara.

Nampara...

Quel nome la spinse a cercare la mano di Ross e a stringerla nella sua. I bambini facevano mille domande su dove avrebbero dormito, su cosa avrebbero fatto i Gimlett e Prudie, su dove avrebbero sistemato i cani, su cosa avrebbero fatto al mattino con gli animali della stalla e quando sarebbero arrivati lo zio e la nonna. Erano irrequieti, per loro tutto era un'avventura e Demelza sorrideva perché era bello vederli eccitati e per nulla impauriti.

Anche Jeremy sembrava contento e più di una volta, durante il tragitto, azzeccò il giusto sentiero per arrivare a Nampara, senza che nessuno gli dicesse niente.

A quanto pare non hai dimenticato proprio tutto!” - esclamò infine Ross, notandolo.

Jeremy si bloccò, quasi rendendosi conto in quel momento che quei luoghi, quei sentieri, quei percorsi avevano sempre fatto parte di lui, nascosti in un angolo della sua mente. “Forse...” - ammise, quasi stupito da se stesso. Poi si avvicinò, titubante, con le mani dietro la schiena. “Papà...?”.

Dimmi”.

Gustav potrà venirmi a trovare?”

Ross gli accarezzò la testa, immaginando gli innumerevoli guai in cui si sarebbero cacciati quei due. “Certamente”.

E Catherine?” - si insinuò Clowance.

Jeremy, per nulla felice di avere la sua spasimante attaccata al suo collo pure in Cornovaglia, la guardò storto mentre i gemellini ridevano, imitati da Valentine che, ovviamente, chiese lo stesso trattamento per la sua adorata Emily Basset.

Potranno venire tutti i vostri amici!” - tagliò corto Demelza.

I gemelli si guardarono, pensierosi. “Ma noi non abbiamo amici, eccetto gli alberi del nostro giardino”.

Ne troverete qui, anche in carne ed ossa” - li rassicurò Ross, immaginandoli già a capo di tutti i monelli della Cornovaglia.

Demian sorrise e Daisy si voltò ad osservare il mare, immaginandosi come compagna di giochi dei pirati e così, chiacchierando, arrivarono...

Nampara si stagliava lì, davanti a loro, ormai quasi avvolta dall'oscurità. Zachy se n'era preso cura a dovere e i Gimlett e Prudie avevano già portato dentro le valigie e acceso il camino e le candele che, col loro chiarore, illuminavano i vetri delle finestre dando una sensazione di calore a chi arrivava.

Ross poggiò la mano sulla spalla di Clowance, forse quella che più poteva essere rimasta delusa da quella vista. “E' una bella casa, accogliente. Anche se non è elegante come quella di Londra, sono sicuro che ti piacerà”.

Dormirò solo con Daisy, vero?” - chiese la piccola. “Non coi maschi?”.

Ross le sorrise, se quello era il suo unico pensiero, le cose stavano andando fin troppo bene. “Ci sono tre stanze al piano di sopra, una per me e la mamma, una per le bambine e un'altra per i bambini. E Prudie e i Gimlett avranno i loro spazi al piano di sotto”.

Clowance tirò un sospiro di sollievo, poi lo abbracciò. “E allora mi piace”.

Valentine, eccitato di essere tornato a casa e galvanizzato dall'idea di fare da Cicerone ai fratelli e di essere lui, per una volta, quello che ne sapeva di più, corse verso la porta. “Venite, vi faccio vedere tutto quanto! La cucina, la sala, le camere, il camino e anche la stalla!”.

Bello!”.

I bambini, eccitati, corsero dietro di lui, lasciando momentaneamente soli i genitori.

Demelza si appoggiò alla staccionata, come bloccata, con le gambe che le tremavano.

Guardò quella porta e ricordò il giorno in cui Ross l'aveva oltrepassata lasciandola sola. Guardò ancora quella porta e ricordò quando lei fece altrettanto, in un giorno nevoso, col cuore a pezzi e due bambini da crescere. Pensò alla sua vita da allora, all'amicizia con Margarita, a Dwight e Caroline, all'amore per Hugh, alla nascita dei gemelli e alla famiglia che aveva trovato nei Boscawen. Pensò a lei, a come tutti a Londra la guardavano come modello, come la Lady che ogni donna voleva essere... E pensò che lei una Lady non ci si era mai sentita e che era Nampara la sua casa ed esserne la padrona e la moglie di Ross era l'unica cosa che aveva sempre desiderato. E allo stesso tempo pensò che la donna che era stata non c'era più e che forse non era un male perché si sentiva cresciuta, arricchita dall'esperienza e dalla vita e ormai sicura dell'amore di Ross, un amore ritrovato fortuitamente, cresciuto, adulto, che aveva affrontato la più terribile delle tempeste uscendone più forte di prima. Era ancora incredula, ora che ci pensava...

Ross...”.

Lui la guardò, la strinse a se sentendo la stessa tempesta nel suo cuore, la abbracciò e la baciò. “Andrà tutto bene”.

Saremo davvero una famiglia? Non hai ripensamenti? Non sarà troppo per te, prenderci tutti?”. Demelza aveva paura... A caldo, col cuore, Ross aveva scelto. Ma ora, a Nampara, si rendeva conto di quale grande sfida sarebbe stata quella.

Ross le accarezzò il viso, prendendoglielo fra le mani. “Parli dei gemelli?”.

Sì”.

Li adoro e lo sai”.

Lo so, ma esserne padre è diverso”.

Ross, a quelle parole, guardò verso la porta dietro cui erano scomparsi i bambini. “Mettiamola così: Hugh ha cresciuto con amore i miei due bambini e io sento di dovergli restituire il favore. Non per senso del dovere, non solo per quello, almeno... Jeremy e Clowance hanno dato a lui un motivo per vivere e diventare migliore e hanno arricchito il suo cuore. E i gemelli hanno fatto lo stesso con me e non so se sia un potere insito nei bambini, ma io li amo come lui ha amato i miei figli. E non c'è gelosia in questo, non più. Solo gratitudine... E amo te e quindi non posso fare a meno di farlo con tutto ciò che ti riguarda”.

Calde lacrime, di gioia e sollievo, presero a scendere dal viso di Demelza. La voce di Ross era profonda, gentile, inebriante... E terribilmente sincera. “Sei reale, Ross?”.

Lui rise. “Certo, sono qui davanti a te”.

Gli strinse la camicia, forte, come se avesse avuto paura che lui se ne andasse di nuovo. “Non scomparirai?”.

Ross la strinse a se. “Mai più Demelza, mai più...”.

Giuralo!”.

La baciò, sulle labbra, lentamente. “Lo giuro... E se un giorno qualcuno mi chiedesse cos'è l'amore, allora gli racconterò di te. Non esiste spiegazione migliore e non esiste uomo così folle da poterne fare a meno”.

Non aveva mai conosciuto Ross in versione così romantica e anche se non era un poeta, sapeva dire cose infinitamente belle quando si presentavano il momento giusto, l'occasione giusta, la giusta atmosfera. Non ogni giorno, di tanto in tanto... E quando succedeva, inaspettatamente, tutto diventava speciale. E a quelle parole, si sentì finalmente forte. “E allora sono pronta”.

Per cosa?”.

Per entrare nella nostra casa”.

Anche io”.

E prendendola per mano, fianco a fianco, insieme varcarono la porta di Nampara.


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Capitolo 78
*** Capitolo settantotto ***


Erano tornati solo da pochi giorni a Nampara ma già, come per magia e come se tutto questo avesse sempre fatto parte di tutti, ognuno aveva ripreso antichi ritmi, antiche abitudini e antiche usanze.

Ross aveva preso ad alzarsi presto al mattino, lasciando che Demelza continuasse a dormire tranquilla ancora un pò. Era ormai a metà gravidanza e tutto ciò che desiderava era che lei stesse a riposo, il più possibile serena. Certo, era difficile farla stare ferma di giorno quando, a causa della sua vitalità e dei bambini, si dimostrava agile come una gazzella. Ma Ross le ricordava spesso, assieme ai Gimlett che non erano abituati a tanta vitalità, che era incinta e che scavalcare le staccionate o correre nell'aia erano cose sconsigliate. Tutto questo mentre Prudie, alle loro spalle, borbottava cose incomprensibili facendo il bucato. E poi c'erano i preparativi al matrimonio, l'ansia, mille cose da organizzare che i Boscawen, attesi a breve dopo che avevano comprato un antico palazzo di campagna, sicuramente avrebbero rimarcato. Certo, andava bene un matrimonio semplice ma non TROPPO semplice... Lord Falmouth era stato chiaro, una cerimonia in famiglia e con solo gli amici stretti ma con la giusta dose di buon gusto ed eleganza...

Stiracchiandosi, Ross si avviò verso la staccionata seguito dai gemellini che, a differenza dei tre fratelli più grandi, erano decisamente molto più mattinieri e desiderosi di scoprire quel mondo che a loro pareva infinito e tutto da esplorare. Demian stava abituandosi ad addormentarsi nella stessa stanza di Jeremy e Valentine e anche se la sera piagnucolava sempre un pò e pretendeva la presenza di Demelza fino a che non si fosse addormentato, poi rimaneva nel suo letto fino al mattino e sgattaiolava da loro solo all'alba. Gli avevano insegnato che doveva bussare prima di entrare in una stanza da letto, che era una cosa educata da fare quando si entrava in camera di altre persone e Ross, con Demelza, aveva promesso di fare altrettanto con lui e coi fratelli, quando fosse venuto in camera loro. Demian si era sentito importante, come gli altri bambini a cui aveva riconosciuto il diritto alla privacy, e aveva imparato subito quella piccola regola. Certo, non avere più il contatto diretto con la sua mamma tutta la notte era difficile per lui tanto per Demelza, ma Ross sapeva che presto ognuno si sarebbe abituato a quella realtà più giusta ed adeguata per tutti. E poi Nampara era piccola e a Demian era stato spiegato che gli sarebbero occorsi solo pochi passi per raggiungere la mamma e che quindi non c'era nulla di cui avere paura.

Passeggiando coi bambini, giunse fino alla spiaggia. Quella era diventata la sua nuova attività mattutina, passeggiare godendosi il mare e le belle giornate. La miniera lo vedeva nuovamente coinvolto nelle ore centrali della giornata ma la mattina presto e il pomeriggio tardi erano dedicati solo a quella sua famiglia tanto amata e che gli era stata strappata troppo a lungo.

Era felice... Era come rinascere e avere nuovamente accanto Demelza, poterci parlare, ridere, scherzare, poterla amare e addormentarsi con lei erano come la realizzazione di sogni ritenuti impossibili fino a poco prima.

"Stamattina che si fa?" - chiese Daisy, togliendosi le scarpine e lanciandole nella sabbia, come suo solito.

Ross le indicò il mare. "Si fa come sempre, ci si impegna per tenerlo pulito".

I bimbi si voltarono e per un attimo rimasero in silenzio ad osservare quella grande distesa blu baciata dal sole nascente.

I gemelli sembravano affascinati dal mare. Demian ancora non si capacitava che fosse più grande del laghetto del parco di Kensington e Daisy voleva sempre sgattaiolare in spiaggia alla ricerca di pirati.
Da quando Ross aveva spiegato a Demian che con un bastone, sulla battigia, si poteva disegnare senza sporcar nulla tracciando segni sulla sabbia, ogni mattino il piccolo voleva accompagnarlo nella sua perlustrazione. Ross amava tenere pulita la sua spiaggia e spesso all'alba, dopo una nuotata, si era fermato a raccogliere detriti e sporcizia che la mare notturna aveva portato a riva. Lo trovava rilassante...

Ma Daisy no, invece! "Lo dobbiamo sgridare!".
"Chi?".
Con la mano nella sua, la bimba alzò le spalle. "Il mare! Sporca sempre tutto!!!" - sbottò, prendendo un pezzo di legno marcio che galleggiava a riva.
Ross rise mentre Demian, a poca distanza, disegnava elfi e folletti sulla sabbia. "E sì, dovremmo...".
"Mare, fai il bravoooooo!!!" - urlò Daisy, alle onde.
Ross osservò il pezzo di legno raccolto. Doveva appartenere a qualche imbarcazione affondata e forse poteva servire a rendere un pò più interessante la loro missione. "Questo è un legno speciale, apparteneva a una barca. E sai chi la guidava, prima di affondare?".
Daisy ci pensò su, poi divenne rossa dall'emozione. "I pirati?!".
"Credo proprio di sì!".
Daisy saltellò. "Sono vicini?".
"Sì. O lo erano..".
"E ci stanno spiando di nascosto?".
Ross sorrise, accarezzandole la testolina. "Può darsi".
Daisy, eccitata, si guardò attorno. "Demiannnn, ci sono i pirati!".
Il bimbo la guardò incuriosito, poi con noncuranza tornò a tracciare linee nella sabbia. "Basta che non mi rovinano il disegno".

Ross rise del pragmatismo del bambino, che in quel tratto di carattere somigliava incredibilmente a suo zio. Ma poi lo osservò disegnare e si rese conto della passione e della concentrazione che ci metteva e in questo, anche se non lo aveva conosciuto di persona, ci vedeva Hugh. Anche Demelza vedeva la stessa cosa in lui e Ross ogni volta che lei lo diceva, si trovava a provare una fitta al cuore. Ma non gelosia per ciò che era stato e per i ricordi che Hugh aveva lasciato in chi aveva incrociato il suo cammino, ma a causa del destino avverso a quell'uomo che di certo non meritava di non veder crescere i suoi figli ma al contrario, meritava di essere lì al suo posto a vedere Demian che, come lui, amava l'arte e il disegn. E questo lo avrebbe reso orgoglioso, Ross lo poteva immaginare perché essendo a sua volta padre, si sentiva fiero ogni volta che i suoi figli raggiungevano un nuovo traguardo davanti ai suoi occhi. Nel pensare a Hugh rivedeva il se stesso che per lungo tempo si era precluso ogni cosa dei suoi figli, perdendosi tante piccole conquiste di cui altri avevano goduto. Ora, guardando Demian che disegnava o Daisy che era una piccola adorabile piratessa in erba, provava le medesime cose pensando a Hugh e al fatto che sarebbe stato giusto che ci fosse lui lì, in quel momento...

La piccola Daisy, che gli tirava la stoffa dei pantaloni, lo destò dai suoi pensieri. "Papà Ross, mi fai provare?".

"A far cosa?".

"La pirata!".

Ross sospirò, prendendola in braccio. Sapeva a cosa stava alludendo ed era da quando gli aveva raccontato della sua piccola barca ancorata in un grotta, che Daisy glielo chiedeva. E quel giorno il mare era abbastanza calmo per accontentarla... "Vuoi fare un giro sulla barca, nel mare?".

"Sììììì!" - urlò lei, entusiasta.

Ross le strizzò l'occhio. "Ma magari mamma si arrabbia, che ne dici?".

Daisy allargò le braccia con ovvietà, alzando poi le spalle. "Basta non dirglielo! Facciamo un segreto nuovo?".

Ross sospirò, rendendosi conto che mai sarebbe riuscito a dire di no alle piccole donne della sua famiglia: Clowance, Daisy e presto anche Isabella-Rose l'avrebbero avuto in loro perenne potere. "E fa bene, aggiungiamo un altro segreto alla nostra lunga lista".

Si voltò verso Demian per chiamarlo quando, dal fondo della baia, vide scendere dal sentiero i suoi tre figli più dormiglioni che, come ogni mattina, lo raggiungevano con comodo dopo aver fatto colazione.

"Papà!" - urlarono Valentine, Jeremy e Clowance correndo verso di lui.

Ross guardò Daisy e decise che sì, poteva accontentarla e quello era il momento giusto per farlo. Tutti i suoi bambini erano lì e forse per la prima volta poteva fare qualcosa da solo con loro, da padre, senza l'aiuto di Demelza a filtrare i rapporti. "Siete arrivati appena in tempo!" - esclamò ai bambini, appena li ebbe davanti.

"Per cosa?" - chiese Jeremy.

Daisy si mise fra loro. "Per fare i pirati!".


...


Mezz'ora dopo, dopo aver raggiunto la grotta ed essersi fatto aiutare da Jeremy e Valentine a spingere la barca fino al mare, navigavano sotto costa.

Con vigorose remate, Ross mostrò ai bambini la visuale della terraferma vista dal mare, raccontando loro tutte le leggende che conosceva su quei luoghi, dai pirati a Re Artù.

Mentre Jeremy e Valentine furono da subito attenti e curiosi, gli altri reagirono ognuno in modo diverso a quella nuova avventura: un pò impaurita, Clowance gli si rannicchiò sulle gambe mentre Demian, a prua, chiacchierava coi pesci che vedeva sfilare, chiamandoli coi nomi che gli venivano in mente al momento.

E Daisy...

La piccola piratessa, eccitata e felice come se si fosse trovata nel suo elemento naturale, non stava ferma un attimo. Saltellava qua e la facendo dondolare l'imbarcazione e qualche volta Ross fu costretto ad afferrarla per il vestitino perché non cadesse in acqua. E alla fine, per tenerla buona, la nominò Capitana Piratessa della nave, mettendole in testa il suo tricorno che, ogni due per tre, le cadeva davanti agli occhi perché troppo grande. E lei, ridendo, dava ordini come solitamente faceva suo zio coi suoi sottoposti, esigendo che tutti le ubbidissero e che lui andasse di qua e di la.

Ross la assecondò, facendo l'occhiolino a Clowance che, dopo la paura iniziale, sembrava ormai solo divertita, mentre i maschietti la prendevano in giro facendole mille domande sul mare a cui Daisy ovviamente non sapeva rispondere. E allora la bimba si arrabbiava, picchiava il piedino e inventava una risposta, il più delle volte astrusa, dandosi il tono del lupo di mare navigato.

Fu rilassante portare i bambini in barca, una specie di ritorno al passato di quando era bambino o sposino e, con Demelza, a volte faceva lo stesso tragitto di sera, alla luce delle stelle, guardandola di sottecchi e stupendosi di essersene innamorato. Anche per i bambini fu bello e trovarsi con loro insieme, in armonia, raccontando le storie di quella terra che col tempo sarebbe diventata un pò anche loro, li fece sentire più vicini.

Dopo due ore di remate però, complice il dolore alla spalla appena guarita, propose loro di tornare a riva per una nuova avventura: la miniera!

Demelza lo avrebbe ucciso se avesse saputo che li aveva portati fin laggiù ma anche quello sarebbe stato un loro piccolo segreto, un segreto che poteva avvicinarli ancora di più. Anche le miniere, come il mare, facevano parte di quel mondo che i bambini stavano scoprendo, Jeremy e i gemelli gli facevano spesso molte domande su cunicoli e rame e aveva comunque il sospetto che se non avesse mostrato loro di che si trattava, prima o poi Daisy e Demian avrebbero tentato di scoprirlo da soli, cacciandosi nei guai o mettendosi in pericolo... O scoprendo da soli nuovi e ricchi filoni... Da quei due poteva aspettarsi di tutto e quindi, per la sicurezza dei bambini, se miniera doveva essere, che l'esplorazione avvenisse con lui a vigilare.

Era domenica, la Wheal Grace era deserta e quindi, dopo essersi fatto promettere cieca ubbidienza e di fare i bravi, li portò nel suo studio e da lì aprì la botola che portava al primo livello.

Clowance non sembrava molto convinta ma alla fine, spinta dagli incoraggiamenti di Jeremy, decise di far parte del gruppo.

Per primo scese Ross, con Daisy e Demian aggrappati al suo collo. Poi scese Clowance, seguita da Valentine e infine Jeremy, che in superficie aveva vigilato sui fratellini e aveva scelto di essere l'ultimo a scendere.

Appena di sotto Ross accese una candela e, tenendosi tutti per mano, avanzarono lentamente nei corridoi.

"Fa freddo qua sotto" – mormorò Clowance.

"Molto freddo" – aggiunse Daisy. "Avranno freddo anche i pirati! Ci vengono quì?".

"Sì, a volte" – borbottò Ross – "E anche se hanno freddo, mi rubano il rame!".

"Perché gli serve!" - ribatté la bimba, già desiderosa di difendere la categoria piratesca a cui voleva appartenere.

"Papà, è vero che nelle miniere ci lavorano anche i bambini piccoli?" - chiese Jeremy, guardandosi attorno un pò spaventato ma anche estremamente incuriosito.

Ross scosse la testa davanti a quella piaga che, in Parlamento, stava cercando di estirpare con ogni sua forza. "Non nella mia! Da me, fino ai quattordici anni, non si scende in miniera a lavorare! Ma in altre miniere purtroppo sì, ci lavorano bambini anche molto piccoli. E si ammalano e molti muoiono... E io, sperando nell'aiuto di vostro zio e in quello di chi la pensa come noi, cerchiamo di evitare con nuove leggi che questo possa ancora accadere".

Clowance gli strinse la mano. "Lo chiederò allo zio, gli dirò di fare subito le leggi e di aiutarti, allora! Lui lo ascoltano in tanti, lo sai? Quì è buio e sporco, non ci dovrebbero stare i bambini. Nemmeno quel tonto di Gustav! Se venisse quì, finirebbe in un buco, cadrebbe di sotto e nessuno lo vedrebbe mai più. Che non sarebbe una brutta cosa, ma magari sua mamma potrebbe piangere per sempre...".

Mascherando un sorriso di compatimento per il povero cuore innamorato e per nulla corrisposto di Gustav, Ross le accarezzò la testolina, orgoglioso di lei. In fondo, benché principessina nei modi, aveva un cuore grande e generoso come ogni Poldark che si rispetti. "Beh, speriamo che lo zio ti ascolti".

"Papà Ross?" - chiamò Demian. "Cos'è la striscia rossa nella pietra? Un disegno? Chi lo ha fatto?" - chiese.

Ross scoppiò a ridere, il piccolo segugio era già all'opera. "E' una piccola vena di rame, quella. E' ciò che cerchiamo e che da lavoro ai miei uomini. E una paga".

Il piccolo osservò meglio, percorrendo il segno con il dito. "Ohhh, dillo ai tuoi uomini! Questo l'ho trovato io".

"D'accordo!".

Valentine gli si avvicinò, cingendogli la vita. "Papà!".

"Cosa c'è?".

"Grazie per avermi portato quì! Non c'ero mai venuto".

Ross si sentì in colpa di nuovo verso di lui, per come per tanto lo avesse volutamente tenuto fuori dalla sua vita di tutti i giorni. "Faremo ancora tante cose insieme, Valentine! Magari all'aria aperta, che è un luogo più adatto a voi..." - disse fra i denti, correndo a riprendere Daisy che si era messa a giocare codecisamente ora di risalire, il tempo di ubbidienza dei gemelli era limitato e quasi scaduto. "Coraggio, ora! Risaliamo e andiamo dalla mamma! E' quasi ora di pranzo!".

"Sìììì!" - urlarono tutti, affamati.

E riprendendosi tutti per mano, risalirono dalla scaletta.


...

Stava cucendo a mano una copertina di lana per Isabella-Rose, quando bussarono alla porta.

Jane Gimlett andò ad aprire e con somma sorpresa di Demelza, si trovò davanti Lord Falmouth ed Alexandra che, a dire il vero, non sarebbero dovuti arrivare prima di dieci giorni.

Evidentemente avevano accelerato i tempi, pensò…

Dopo varie ricerche e arrendendosi al fatto che i tempi erano cambiati e che non esistevano più castelli abbastanza sfarzosi per i Boscawen, Falmouth aveva comprato una elegante villa a poche miglia da Nampara, Tregothnan, dove passare i mesi estivi coi bambini, in attesa del ritorno autunnale a Londra.

Demelza osservò i due arrivati, sorridendo ed alzandosi dal divano. Li abbracciò felice di vederli, spiegò loro che i bambini e Ross erano fuori dal mattino presto e poi li invitò a sedersi per un tè. Quella situazione così nuova a Nampara ma di fatto tanto famigliare, si rese conto che la faceva stare bene e che era bello averli finalmente lì con loro. Le erano mancati, ai bambini erano mancati e facevano parte della famiglia.

E’ cresciuta la tua piccolina, vedo!” – osservò Alix notando il suo ventre ormai decisamente non più piatto.

Già, cresce e non sta ferma un secondo!”. La gravidanza iniziava a pesare, la piccola diventava grande ed ora era ben visibile e a giudicare da quanto scalciava, sarebbe stata più vivace persino dei gemellini.

Ti trovo benissimo, mia cara” – le sussurrò Alix, mettendole accanto un pacco.

Demelza, accarezzandosi il ventre, osservò incuriosita. “Cos’è?”.

La suocera le sorrise. “Il tessuto per il tuo abito da sposa. So che mi hai detto di fare con comodo ma mio fratello dice che di cose da fare con comodo non ce ne sono in questa faccenda e quindi abbiamo anticipato la partenza ed eccoci qui… Io e te in una settimana possiamo cucire un abito meraviglioso, tu ti sposerai e mio fratello smetterà di vivere nell’ansia dello scandalo”.

Santo cielo, una settimana! Il cuore le accelerò al pensiero che dopo quegli anni di incubo e tanto dolore, presto sarebbe tornata ad essere ciò che era nel suo destino, la signora Poldark. “Anche se in fondo è una formalità, fa un po’ paura…” – ammise.

Falmouth tossicchiò, guardandola storto. “Una gravidanza senza un anello al dito non è una formalità. Nemmeno Lady Boscawen può permettersi un tale stato di cose…”.

Alix e Demelza risero davanti alle occhiatacce dell’uomo. “Agli ordini! Appena Ross torna, lo mando a Sawle per le pubblicazioni!”.

Falmouth si guardò in giro mentre Prudie, trotterellando con passo pesante, portava il tè. “A proposito, Poldark dov’è?”.

Non lo so esattamente ma credo sia impegnato a far scoprire ai bambini le meraviglie della Cornovaglia”.

Come stanno i piccoli?” – chiese Alix.

Demelza sorrise, i bambini erano un fiore e sembravano rinati in spirito e forze da quando si trovavano lì. “Bene! Sono vivaci, un po’ zingari, chiassosi e spesso affamati. Persino Daisy non fa capricci e a tavola mangia tutto!”.

Alix si illuminò in viso. “Daisy? La nostra Daisy?”. Sembrava incredula… “E non si è nemmeno ammalata con tutto questo vento?”.

Demelza scosse la testa. “No, sana come un pesciolino e combattiva come un pirata”.

La donna tirò un sospiro di sollievo, Falmouth annuì orgoglioso e poi, guardandosi attorno, studiò la casa. “E’ semplice e piccola, molto diversa da quella a cui sei abituata a Londra”.

Anche la casa di Londra era molto diversa da quella a cui ero abituata qui. Nampara va benissimo per noi e ci stiamo bene, è grande abbastanza per tutti e i bambini sono contenti” – rispose Demelza, di rimando, rendendosi conto di quanti cambiamenti fossero occorsi negli ultimi anni nella sua vita.

Falmouth la fissò intensamente, a quelle parole. "E tu, tu sei felice?".

Lei annuì, dandogli la più sincera delle risposte. "Sì, lo sono".

E in quel momento la porta si spalancò e i cinque piccoli, come cicloni, fecero irruzione nel salottino.

Appena videro i nuovi arrivati, i quattro piccoli Boscawen corsero verso di loro. "Nonna, zio!!!".

Fecero per travolgerli con un abbraccio ma Prudie, a braccia conserte, si mise fra i bambini e il lord. "Siete sporchi come topolini, non toccate niente e nessuno. Soprattutto il lord!".

I bambini guardarono Demelza accigliati e lei, abbastanza divertita, osservò Ross. "Dove li hai portati? Son pieni di polvere".

"E' il mare, mamma!" - intervenne Daisy, la conta-frottole di più fruttuosa esperienza. "Sposta la sabbia e ci viene addosso e noi ci sporchiamo!".

Demelza captò l'occhiolino di Ross alla piccola orsa mentre Alix rise e, incurante della polvere dispettosa, abbracciò la nipotina più piccola. "Ciao principessa, mi sei mancata!".

Ma Daisy si imbronciò. "Non principessa! Sono una pirata, lo sai nonna? Conquisterò tutti i mari del mondo, anche quello della Scozia se vuoi, zio".

Falmouth rise sotto i baffi, Alix sospirò e gli altri bambini, con più cautela, si avvicinarono a salutare.

"Quanto starete?" - chiese Jeremy alla nonna.

"Io fino a quando la vostra mamma non avrà partorito. Lo zio cercherà di fermarsi fino a ottobre, se il Parlamento glielo permette. E poi tornerà quì a Natale e festeggieremo insieme come lo scorso anno. E quando la vostra sorellina sarà nata, torneremo a Londra tutti insieme per un pò, fino alla bella stagione".

Jeremy sorrise, contento di quel programma.

Clowance invece la abbracciò, eccitata che la sua migliore compagna di shopping, la nonna, l'avesse raggiunta. Poi la sua attenzione si focalizzò sul pacco di stoffa che aveva portato. "Cos'è?".

Demelza prese il pacco, nascondendolo alla vista di Ross. "La stoffa con cui faremo il mio vestito da sposa, Clowance?".

La bambina divenne rossa dall'emozione. "E io farò la damigella! Vero, mamma? Vero, papà? Vero, zio? Vero, nonna? Io sono bravissima, ho fatto tante volte la damigella e sono la migliore damigella di tutta l'Inghilterra. E anche della Scozia, ci scommetterei!" - disse, con cipiglio sicuro, rivolta allo zio che a quelle parole si gonfiò di orgoglio.

"Ovviamente, Clowance, non c'è nemmeno da metterlo in dubbio!". Falmouth accarezzò i capelli così insolitamente spettinati della bambina e poi, mettendosi il cappello in testa, prese sotto braccio Alix. "Questa è solo una breve visita ma ora, credo sia tempo di andare per noi, devo badare ad ogni mossa dei miei servi che non sanno nemmeno come fare un trasloco senza la supervisione di qualcuno con del cervello! Mi fanno impazzire! Ma bambini, quando tutto sarà a posto, potrete venire a dormire da noi quando vorrete, così lasciate un pò in pace i vostri genitori".

Valentine, intimidito, si avvicinò. "Posso venire pure io?".

"Certo che puoi!".

"Grazie!" - esclamò il bambino.

Falmouth annuì, lo aveva sempre trovato estremamente gradevole ed educato, il piccolo Valentine... L'unica sua pecca era la strana passione che nutriva per la graziosa figlia di Lord Basset, il suo rivale. "E ora su, devo davvero andare. E voi fate i bravi, a giorni ci sarà un matrimonio".

Ross guardò Demelza. "A giorni?".

Lei gli sorrise, baciandolo sulla guancia. "Il tempo necessario, mio caro, a cucirmi il vestito".

Ross sudò freddo, poi prese a ridere come se fosse ubriaco. "Ma tu sei velocissima a cucire vestiti!".

"Appunto... Dovresti andare dal Reverendo Odgers quanto prima per le pubblicazioni" – lo occhieggiò Demelza, facendogli capire con lo sguardo che subito era meglio che domani.

Falmouth ed Alexandra sorrisero e, dopo aver salutato, si congedarono.

Rimasti soli coi bambini, Demelza e Ross furono investiti da mille domande sul matrimonio e su cosa sarebbe successo nei giorni successivi.

Solo Jeremy rimase in disparte, con sguardo torvo.

Ross se ne accorse e, timoroso che il figlio non fosse ancora pronto, gli si avvicinò. "Jeremy, va tutto bene?".

Il ragazzino guardò lui e poi, con sguardo mortalmente serio, la madre. "Giura!".

"Cosa?" - chiese Demelza.

"Che non mi costringerai a vestirmi da paggetto scemo come hai fatto per il matrimonio di Margarita ed Edward! IO-NON-LO-FACCIO-PIU'!!!".

Demelza scoppiò a ridere e anche Ross, capita la natura del problema, fece altrettanto. "Lo giuriamo, nessuno sarà costretto a fare niente che non gli va, in quel giorno. Sarà la nostra festa, di tutti noi, non solo mia e della mamma. Vi vogliamo solo vicini e se Clowance vuole fare la damigella e tu non vuoi fare il paggetto, andrà benissimo! Io ho sempre odiato, da piccolo, fare il paggetto. E per fortuna nessuno mi ha mai costretto a farlo..." - disse, tirando una frecciatina a Demelza che raccolse la sfida.

"Poteva essere educativo, amore mio...".

Ross le si avvicinò divertito, dandole un veloce bacio sulle labbra. "Temo, AMORE MIO, che non lo sapremo mai, ormai l'età per fare il paggetto l'ho superata da un pezzo".

Jeremy scoppiò a ridere davanti a quel battibecco e anche gli altri fecero altrettanto.

Valentine si avvicinò al padre e a Demelza e, timidamente, chiese di essere ascoltato. "Papà, io il paggetto non l'ho mai fatto, posso farlo anche se a te non piace?".

Fu Demelza a rispondere, al posto di Ross, desiderosa che Valentine capisse che poteva essere ciò che desiderava, nella loro famiglia. E che sarebbe sempre e comunque stato amato, anche se nutriva gusti o passioni differenti dagli altri. "Certo tesoro, sarà un onore averti come paggetto. E voi?" - chiese, ai gemelli.

Demian alzò le spalle, con noncuranza. "Se mi fai dormire un pochino ancora con te mamma, ti faccio il paggetto tutti i giorni di tutta la mia vita" – tentò di argomentare.

Ma Ross lo stoppò subito mentre Prudie, alle sue spalle, se la rideva della grossa. "Ne faremo a meno, Demian. Ma ti ringraziamo per la tua offerta".

Demian si imbronciò, rannicchiandosi contro le gambe di Demelza, e Ross si rivolse a Daisy. "E tu? Vuoi fare la damigella?".

Lei ci pensò su. "Posso fare la damigella vestita da pirata?".

"No, non credo che lo zio apprezzerebbe..." - rispose Demelza.

E Daisy scosse la testa. "E allora no, non lo faccio".

"Neanche per me?" - chiese Ross, illudendosi di essere il suo preferito.

Daisy fece un sorriso furbo. "Se mi dai altri dieci segreti belli e solo nostri, allora sì!".

Demelza occhieggiò Ross in cagnesco. "Questa cosa dei segreti, prima o poi dovrete spiegarmela".

Ma Ross tenne duro. "Un segreto è un segreto e mai andrebbe svelato! E' una questione d'onore!".

Prudie si avvicinò, prendendo i gemelli per mano mentre Jane Gimlet faceva lo stesso con Clowance e Valentine. "Sono d'accordo e per la tua salute, ragazza, sta fuori dai segreti di questi due. E voi, bestioline, ora vi porto a fare un bagno. Non pranzerete così sporchi!".

Ross fissò Prudie a occhi spalancati. Prudie che parlava di pulizia, che INNEGGIAVA alla pulizia...?! Santo cielo, il mondo si era capovolto per davvero! Ma si astenne dal commentare, che portasse via i bambini per un pò poteva anche fargli comodo perché c'erano delle cose di cui voleva parlare con Demelza.

Borbottando, i piccoli seguirono le due domestiche e Ross ne approfittò per avvicinarsi alla sua futura moglie. "Pochi giorni? Ho capito bene?" - le chiese emozionato, cingendole la vita.

"Pochi giorni per cambiare idea e scappare, Ross Poldark...".

Ridendo, la baciò sulle labbra. "Potrei rifletterci mentre vado, dopo pranzo, dal Reverendo Odgers".

Ridendo, Demelza gli restituì il bacio. "Sì, potresti" – mormorò, contro le sue labbra.

Lo sguardo di Ross si addolcì, mentre la abbracciava più forte. "Sei felice?".

"Sei la seconda persona che me lo chiede, oggi. Sì, sono felice... Tu?".

Ross la baciò sulla fronte, appoggiandoci poi la sua, di fronte. "Sì, felice. E rinato... Guardo questa casa e penso al male che ti ho fatto e al silenzio che l'ha devastata per anni... E ora sono brutti ricordi e sì... Rinascere per me, è il verbo giusto. Sono felice, amo questa nostra nuova vita e non vedo l'ora di conoscere Isabella-Rose perché ne sia ancora più piena. E per la prima volta non ho paura di cosa riserverà il futuro a tutti noi, per la prima volta so che insieme siamo abbastanza forti da poter affrontare tutto. Tu, io, i bambini, Isabella-Rose...".

Con un gesto gentile, Demelza gli prese la mano, poggiandola sul suo ventre. "La senti?" - disse, mentre la piccola scalciava con vigore. "Oggi è scatenata".

Gli occhi di Ross si fecero lucidi. "E' davvero lei?" - chiese, sentendo sotto i palmi della mano i calcetti della piccolina.

La donna rise. "Certo! E mi stupisco che ti commuova sentirla! Non è il nostro primo figlio".

"In un certo senso sì, in un certo senso lo è davvero" – sussurrò Ross, contro le sue labbra.

Demelza chiuse gli occhi, abbandonandosi a quell'abbraccio di cui aveva bisogno. Nonostante cercasse di mantenersi forte e salda, era in preda a mille emozioni come e più di Ross. Quel giorno terribile di quasi otto anni prima, da quel notaio, sarebbe diventato solo uno sbiadito ricordo senza più nessuna importanza. Faceva paura ed era allo stesso tempo inebriante pensare che a breve, passeggiando, sarebbe stata per tutti, di nuovo, la signora Poldark.


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Capitolo 79
*** Capitolo settantanove ***


Il colletto della camicia sembrava volerlo strozzare, le sue mani erano sudate ed umidicce e in quella dannata cappella faceva un caldo atroce. Oppure non c'era niente di tutto questo ma solo una grande, immensa emozione che lo faceva diventare scalpitante e ansioso...

Stava per sposarsi... O meglio, stava per risposare colei che non aveva mai smesso di considerare sua moglie, l'unica, quella che il destino e il suo cuore avevano scelto per lui e che stupidamente si era fatto scappare a lungo, corrodendo il cuore di entrambi con errori orribili e scelte sbagliate prese per rimediare all'irreparabile.

Era tutto passato, tutto superato e quel dolore sarebbe diventato esperienza e insegnamento per i loro figli...

Ross la stava aspettando e presto lei sarebbe arrivata dalla navata, bellissima e con quel suo sorriso dolce e quei capelli rosso fuoco che lo facevano impazzire, dicendo quel sì.

Era tutto così diverso dal loro primo, semplice e sorprendente matrimonio, dove sia gli sposi che i due unici testimoni, Jud e Prudie, si guardavano in viso quasi increduli che stesse succedendo, in un'atmosfera irreale e tesa dove nessuno osava sorridere ed essere felice. Anche ora era incredulo ma non per il fatto di sposarla ma per avere avuto una seconda opportunità che di certo non meritava e che era stata donata unicamente da un destino benevolo...

Ed era tutto diverso da allora e dalla canonica, piccola e angusta, poteva sentire il chiacchiericcio nella navata. C'erano tutti le persone a loro più care, pochi ospiti, tutti amatissimi, tutti importanti e tutti parte della loro famiglia. C'erano Prudie e i Gimlett, Zachy Martin, Dwight e Caroline con le loro bimbe, la piccola Sophie e la neonata Melliora, Lord Falmouth e Lady Alexandra, Lord Basset con sua moglie e la piccola Emily, Margarita ed Edward con la loro piccolina appena nata, di cui non avevano voluto ancora comunicare ufficialmente il nome, e infine le famiglie di Gustav e Catherine, i migliori amichetti di Jeremy e Clowance che i bimbi avevano invitato in Cornovaglia per l'evento. Non tante persone e nessuna festa sfarzosa ma una cerimonia e dei festeggiamenti in famiglia, nel salone della nuova casa che Falmouth aveva acquistato in Cornovaglia.

"Papà, se vai avanti così ti strapperai il collo della camicia!" - gli fece notare Jeremy, vedendo quanto stava tormentando la stoffa dei suoi abiti.

Valentine rise e Demian fece altrettanto.

I tre bambini erano con lui, insieme ad aspettare la sposa, mentre le bimbe avrebbero accompagnato Demelza. I piccoli sembravano raggianti e anche se Demian ancora non aveva compreso appieno cosa stesse succedendo, pareva curioso e finalmente propenso a dormire coi fratelli. Erano notti che non faceva storie ed era anche capitato che al mattino avesse dormito fino a tardi, senza fare capolino nella camera matrimoniale. E questo rendeva Ross contento, MOLTO contento. "Siete felici?".

"Sì!" - rispose Valentine. "Ma tu? Che hai, ti manca il respiro?".

Ross ridacchiò, imbarazzato. "Sì ma non penso di essere malato. Passerà dopo che tutto questo sarà finito!". Santo cielo, era emozione pura quella che provava, come se si stesse sposando per la prima volta. O forse, per la prima volta ne capiva appieno il vero significato. Di quel sì, dell'amore, del vivere alla luce del sole urlando al vento che Demelza si chiamava Demelza Poldark ed era sua moglie! SUA-MOGLIE!!! Santo cielo, come aveva potuto permettere che non lo fosse più?

Jeremy, inconsapevole dei suoi sentimenti e decisamente rasserenato di poter essere di nuovo solo un ragazzino e non più l'ometto di casa, gli sorrise. "Sì, sono contento! Che ho potuto mettermi vestiti normali e non abiti da paggetto!".

Ross lo ochieggiò, fiero del suo abbigliamento da ragazzo e non più da bimbetto di città. "E io sono felice che i tuoi abiti normali non siano abiti alla marinaretta ma VERI vestiti da maschio!".

"A me piacevano i vestiti alla marinara!" - obiettò il figlio.

Ross fece un sorrisetto malefico, ripensando al patto che avevano stuipulato pochi giorni prima all'insaputa di Demelza: lui non si sarebbe vestito mai più da paggetto se in cambio evitava quei dannati abitini alla marinara da bambolotto di città che purtroppo invece la facevano ancora da padrone con Demian. Con Jeremy l'aveva spuntata e magari prima o poi avrebbe trovato anche il modo per convincere Demian a cambiare abbigliamento e a tagliarsi un pò i suoi lunghi capelli biondi che Demelza amava tanto ma che lo facevano sembrare una femminuccia.

Valentine gli si parò davanti serio serio e terribilmente orgoglioso dei vestiti da paggetto che invece aveva molto desiderato e che Lady Alexandra era stata contenta di scegliere per lui. "A me piace fare il paggetto!" - ribadì. "Anche Emily ha detto che sono bello! Anzi, affascinante!".

Ross alzò gli occhi al cielo, non sapendo bene come gestire la cotta di suo figlio unita al desiderio di fare il paggetto, passione che non avrebbero mai condiviso. "Se tu sei contento... Io sono contento" – disse, con grande fatica. No, Valentine non aveva preso da lui...

Jeremy ridacchiò e Ross gli fece l'occhiolino. Non era il momento di stare a sindacare su certe cose, dopo tutto...

Poi si avvicinò a Demian, accarezzandogli i lunghi capelli biondi. In un certo senso, quello era un vero passaggio di testimone perché in fondo non poteva non ammettere a se stesso che era stato quel piccolo e minuto bimbo a prendersi cura di Demelza in quegli anni. Ne aveva condiviso il letto, gli stati d'animo, le risate e i momenti tristi e ora lui stava prendendo il suo posto e sperava di cuore di essere bravo quanto Demian a capire e a sorreggere Demelza. "Sei pronto ad affidarmi la mamma? La curerò bene, te lo giuro!".

Il piccolo alzò le spalle. "Lei dice che tu vai bene! Ma io ti guardo, è!".

Ross annuì, serio. "Fai bene! Tu guardami sempre e quando ti sembra che sbaglio, dimmelo!".

"Certo! E se ti insegno bene, magari diventi bravo quasi come me" – rispose il piccolo, sicuro e fiero del suo insuperabile operato di custode della mamma.

Ross lo abbracciò, d'istinto. Era un bravo bambino Demian, un bambolotto per davvero per aspetto e modi di fare, come lo aveva soprannominato fin dal primo momento in cui l'aveva visto. Il perfetto connubio fra la dolcezza di Demelza e l'animo artistico e gentile di Hugh. E questo non lo feriva più ma anzi, lo rendeva scalpitante di vederlo crescere ed aiutarlo a farlo, di vedere come quel bambino tanto diverso da lui avrebbe influito sulla sua vita. Demian aveva un cuore d'oro e un animo puro e dubitava che crescendo sarebbe cambiato. Sarebbe sempre stato il piccolo principe di sua madre e niente avrebbe mai spezzato quel legame speciale che lui e Demelza avevano costruito insieme negli anni. Demian aveva ragione, doveva imparare molto da lui e forse un giorno sarebbe stato altrettanto bravo. O quasi...

Jeremy, col suo completo grigio e i pantaloni finalmente lunghi, prese Demian per mano. "Noi andiamo fuori, mamma sta per arrivare e il paggetto è Valentine! Lui resta con te e ti da gli anelli. E Clowance segue mamma! E io prendo al volto Daisy prima che faccia macello!".

"Ottima idea!" - rispose Ross, orgoglioso della meticolosa organizzazione di suo figlio.

"Papà!".

"Dimmi, Jeremy!".

"Rilassati o sverrai quando arriva la mamma..." - borbottò Jeremy con faccia impertinente.

Ross arrossì, dandogli un buffetto sulla testa, felice di riuscire a scherzare con lui, di riuscire a farlo e di come Jeremy pian piano gli stesse mostrando il suo lato più sbarazzino e scherzoso. "Ti conviene filar via con tuo fratello o mi farai innervosire davvero, piccolo saputello!".

"Certo, papà!".

I due bambini, ridendo, uscirono per unirsi agli altri invitati e Ross, emozionato, rimase solo con Valentine. Il cuore gli batteva forte in gola ed era felice.

Valentine se ne accorse. "Sei davvero strano quando sei contento, papà".

Ross non rispose, non ce n'era bisogno. Ma lo strinse a se, forte, orgoglioso anche di lui per come era riuscito a crescere, nonostante tutto... Nonostante l'assenza di una madre, un padre spesso orrendo, l'abito da paggetto e la precoce passione per le bambine, era un bravo bambino e lo amava. Come era riuscito ad amarlo Demelza, come lui stesso era riuscito ad amare i gemelli. E visto che l'amore c'era, ora mancava un sì, solo un sì per essere di nuovo una famiglia. Una nuova famiglia.

E prendendo Valentine per mano, uscì nella navata per aspettare la sua sposa.


...


Quando arrivò a pochi passi dalla Chiesetta di Sawle, dopo essere scesa dalla carrozza, per un attimo le tremarono le gambe. Non le era mai successo quando, a diciassette anni, aveva sposato Ross e non era che una ragazzina inesperta e impreparata a ciò che la aspettava mentre ora, donna adulta, madre e Lady, aveva paura e tremava come una foglia.

Era emozione, emozione pura, certo. E consapevolezza della grandezza del passo che lei e Ross stavano per fare. Sarebbe stato tutto lineare, perfetto, inattaccabile questa volta. Sarebbe stato per sempre!

Quel sì avrebbe cancellato il giorno orribile dal notaio, il dolore e gli anni di separazione, avrebbe dato inizio a una vita nuova e il male che si erano fatti a vicenda lei e Ross non sarebbe diventato altro che una durissima lezione di vita da cui attingere per migliorarsi.

Aveva voluto essere sola durante il tragitto da Nampara alla Chiesa, sola con le sue due bambine. Anzi, tre, le ricordò Isabella-Rose con un calcio ben assestato...

Le prese per mano, Clowance alla sua destra e la piccola Daisy alla sua sinistra. La più grande, vestita con un abitino bianco da damigella, stretto in vita da un nastrino blu, con la sua aria austera e i suoi lunghi capelli bondi legati in una coda di cavallo, era decisamente più affascinante di quanto sarebbe mai riuscita ad essere lei. E Daisy... La sua piccola orsetta, che sembrava divertita e le saltellava a fianco raggiungendo l'ingresso, sembrava una bambolina in miniatura con le sue due treccine, gli occhi azzurri che in Cornovaglia erano diventati ancora più chiari quasi volessero imitare il colore del mare e il suo vestitino rosa...

Era talmente orgogliosa delle sue due principessine... E grata che esistessero e che fossero al suo fianco...

Demelza prese un profondo respiro, guardandosi e chiedendosi se Ross l'avrebbe trovata bella anche col pancione. Non voleva un abito eccessivamente elegante ma Alix l'aveva costretta a scegliere fra modelli raffinati e alla fine, complice la sua gravidanza e una pancetta ormai evidente, aveva optato per uno di quegli abiti in stile impero tanto di moda a Londra, a vita alta, bordato sui fianchi da un nastro incastonato di perle e con delle spalline quasi trasparenti che le ricadevano sulle braccia morbidamente. "Sono bella?" - chiese a Clowance, l'esperta in materia.

La piccola sorrise. "Sì. Sempre!".

Demelza le strinse la mano, felice che Clowance fosse serena e di come aveva voluto prepararsi con lei per il matrimonio. Nessun muso lungo ma gioia, eccitazione, voglia di essere elegante ma soprattutto, di ritrovare davvero e per sempre il suo papà. E questa per lei era una vera vittoria, l'unica che contasse.

Guardò le sue figlie, soprattutto Clowance. Per tutta la sua vita, davanti alla legge, non era mai stata la figlia di Ross. Mai, anche se nelle loro vene correva lo stesso sangue, anche se era una Poldark, non aveva mai potuto fregiarsi del suo vero cognome. Un cognome che a Jeremy era stato strappato, uno strappo che solo Hugh in parte era riuscito a ricucire. Ma il legame di sangue con Ross aveva sempre chiamato all'appello tutti loro e il destino aveva riunito ciò che mai avrebbe dovuto essere sciolto. Ora tutto sarebbe tornato a girare per il verso giusto.

E con quei pensieri, prese un profondo respiro ed entrò in Chiesa...

Appena Ross la vide, i suoi occhi si illuminarono e rimase semplicemente lì, a bocca aperta, mentre Clowance l'aiutava a sorreggere il velo e Daisy, eccitata, correva verso l'altare, bloccata all'ultimo da Falmouth e Jeremy che la prese al volo in braccio, costringendola a sedersi su una panca.

C'erano tutti, i suoi più cari amici erano lì attorno a loro ma Demelza in quel momento riusciva solo a vedere Ross. E Ross solo lei...

I loro sguardi si incatenarono, si fusero e alla fine la paura e il tremore cessarono. E Demelza decise solo di essere felice. E sposa...

A passi lenti avanzò verso di lui e quando furono vicini, col sole che entrava dalle finestre ed inondava di calore la piccola Chiesa, Ross le prese la mano. La strinse, le loro dita si intrecciarono e il Reverendo Odgers, ancora incredulo di doverli sposare di nuovo, iniziò la sua orazione.

Demelza sentiva la voce dell'uomo ovattata, lontana. Tutto era lontano e solo gli occhi di Ross che non avevano mai abbandonato il suo volto, la tenevano ancorata alla realtà.

"Sei bellissima...".

Glielo aveva sussurrato appena l'aveva raggiunto e lei non aveva desiderato sentire altro da lui. Essere bellissima ai suoi occhi, avere il suo amore, era tutto quello che lei aveva sempre desiderato.

Pensò allo smarrimento provato durante il matrimonio di Hugh, una persona che aveva adorato e che sempre avrebbe portato nel cuore, ma l'amore, quello vero, quello per sempre, era ciò che stava provando in quel momento. Era totalizzante, paralizzante, inebriante... E non poteva essere sostituito con niente e nessuno. E dentro di se Demelza aveva la consapevolezza che Hugh l'aveva compreso, che lo aveva sempre saputo ed accettato, che lo aveva capito ancor prima di lei che non avrebbe mai avuto davvero del tutto il suo cuore, ma nonostante il dolore che forse aveva provato, in punto di morte l'aveva spinta a darsi un'altra possibilità in terra di Cornovaglia, sapendo che lì avrebbe ritrovato la sua strada. E ora, ovunque lui fosse, era felice per lei e per i loro bambini e poteva riposare in pace.

Disse sì, con convinzione e senza rimpianti. Disse sì per sempre...

E Ross fece altrettanto, mettendole al dito l'anello che Valentine teneva sul cuscino...

E furono marito e moglie, di nuovo, mentre dietro di loro qualcuno singhiozzava dall'emozione, qualcuno come Daisy ridacchiava, qualcuno come Falmouth rimproverava i gemelli che non stavano fermi, qualche neonato piagnucolava ma tutti, tutti, erano felici per lei.

Dissero sì e si baciarono, un bacio lungo e passionale come solo loro sapevano darsi. E anche se magari potevano trattenersi ed essere più discreti, non volevano esserlo. I coniugi Poldark non avevano mai badato alle etichette, MAI! Erano unici, lo erano sempre stati! E avrebbero continuato ad esserlo! Ross la strinse a se, forte, non lasciandola, come volesse lui stesso assicurarsi che fosse vero, come volesse farle comprendere che non l'avrebbe più lasciata andare.

E dopo il bacio furono travolti dai loro bambini, che li abbracciarono. Finalmente erano la famiglia Poldark!

Clowance e Jeremy sembravano commossi, Valentine incredulo, Daisy aveva lo sguardo furbo e soddisfatto di chi aveva lavorato a lungo nell'ombra perché questo accadesse e Demian, il suo piccolo principe, le saltò al collo, stringendosi a lei. Lo abbracciò, capiva quanto dovesse sentirsi frastornato. E Ross cinse entrambi con le braccia. "Tienimi d'occhio, d'accordo?!" - sussurrò al piccolo.

Demelza non capì ma Demian sì e serio serio, repicò. "Per adesso sei stato bravo ma non baciare così tanto la mamma. Un pochino meno e lei è contenta lo stesso".

Ross rise e Demelza non osò contraddirlo. Risero entrambi e giurarono di baciarsi con moderazione... O almeno, di farlo davanti a lui.

E poi vennero gli altri, amici, conoscenti, parenti nuovi o già acquisiti ma tutti, tutti, la loro grande famiglia. Una famiglia diversa dai canoni, allargata, piena di persone diverse che si erano arricchite a vicenda delle esperienze altrui, una famiglia che Ross e Demelza avevano scelto di tenersi stretta per loro ma soprattutto per il bene dei loro bambini che in essa avrebbero trovato amore, sostegno, forza e unione. Non potevano, non volevano chiedere di più. Non c'era altro da chiedere.


...


Lord Falmouth aveva organizzato un ricco rinfresco pieno di ogni prelibatezza, nel salone della sua nuova abitazione. Lussuoso abbastanza per rendere onore al casato dei Boscawen ma non eccessivamente pomposo per rispettare le volontà degli sposi.

I bambini correvano come matti qua e la giocando e ridendo, seguiti dalla piccola Sophie Enys che, con passi malfermi, cercava di star loro dietro e di essere coinvolta nei giochi dei 'grandi', le altre due neonate dormicchiavano fra le braccia delle madri, Catherine aveva capito che il suo fidanzatino londinese non era affascinante quanto Jeremy ed era tornata a tormentarlo e il povero Gustav ci aveva riprovato con Clowance, ricevendo un sonoro due di picche, tanto che Ross si era trovato a provare compassione per lui e aveva chiesto a Demelza quanto ci avrebbe messo a riguadagnare dignità e a rinunciarci.

Lei lo aveva guardato civettuola, seduta sul divano con accanto Margarita e sua figlia. "Non deve rinunciarci, in amore non si dovrebbe mai farlo finché c'è speranza. Come abbiamo fatto noi?".

Era vero, in fondo né lui né Demelza ci avevano mai rinunciato davvero, quindi perché doveva farlo Gustav?

Chiamato per un brindisi da Falmouth, Dwight e dagli altri uomini presenti, Ross si allontanò per andare al tavolo dei liquori mentre Demelza, incuriosita dalla piccolina di Margarita, si chinò a sfiorarle la guancia paffuta. Era una adorabile, grassottella bimba bionda dalle guance piene e rosee. "E allora!? Riuscirà ad avere un nome prima di sposarsi?".

Margarita, che negli anni aveva mantenuto la sua naturalezza e semplicità ma era riuscita a crescere e diventare forte ed indipendente, rise. "Ah, ma lei un nome ce l'ha! Un nome splendido, che ho avuto in mente fin dal primo giorno in cui ho scoperto di essere incinta! Non potevo scegliere nome migliore e ho aspettato questo giorno per dirlo, perché voglio sia una dei tuoi regali di nozze".

Curiosa, Demelza la fissò senza capire mentre anche Caroline si avvicinò, con Melliora fra le braccia. "Uno dei miei regali di nozze?".

Margarita fece un sorriso dolce. "Se c'è qualcuno a cui vorrei lei somigliasse da grande, quella sei tu Demelza. E lei si chiama così, Demelza. Io ed Edward siamo stati d'accordo da subito su questa scelta. Se noi esistiamo, è perché tu e Hugh ci avete aiutati ad essere 'NOI'. E Hugh ti amava e io ti adoro ed entrambi, lui di la e io quì, sappiamo di doverti molto. Dare a mia figlia il tuo nome, è il meno che potrei fare".

Spalancò gli occhi, commossa, incredula e felice. Santo cielo, nessuno aveva mai pensato di dare il suo nome a una bambina ed era così bello, eccitante e incredibilmente elettrizzante pensare di essere stata da modello per qualcuno... "Come me? Ma... non ho un nome nobile e sicuramente Demelza non fa parte dei nomi dei tuoi avi e tua madre...".

Margarita, con un gesto veloce, mise la piccola Demelza in braccio alla Demelza grande. "Ha un nome suo, solo suo nella famiglia. E mia madre è sua nonna, indipendentemente da come lei si chiama. Ci è rimasta male ma ho giocato d'astuzia, ho imparato a farlo negli anni, ricordandole che il nome scelto appartiene a Lady Boscawen e che tu sei superiore a noi, nella società. Forse non è ancora contenta del tutto ma ha visto la cosa come un voler aumentare il prestigio di mia figlia e con questo pensiero, ci si è consolata".

"Hai giocato sporco!?" - le fece notare divertita, Demelza. "Ma ti ringrazio, è un onore per me".

"Lo è anche per lei..." - rispose Margarita, sfiorando la mano della piccola.

Misero Demelza e Melliora sul divano e le neonate si sfiorarono le manine, mentre le tre donne ridevano, osservandole con gli occhi lucidi. Il futuro era davvero lì, davanti a loro.

"Manca solo Isabella-Rose" – fece notare Caroline. "Magari farà parte della compagnia a Natale, come fecero i gemelli nascendo due settimane prima per partecipare all'evento e ricevere i regali".

Demelza si accarezzò il ventre. "Dovrebbe nascere ad inizio gennaio, dubito succederà prima. Non aspetto due gemelli stavolta".

Margarita e Caroline si guardarono in viso, ridendo. "Vedremo, vedremo, i bambini adorano i regali...".

Demelza fece per ribattere ma Ross, arrivato alle sue spalle, la cinse per la vita, attirandola a se. "Posso requisire mia moglie?".

Mia moglie... Quelle parole le fecero venire un brivido di gioia... "Dove vuoi portarmi, Ross?".

Lui guardò fuori dalla finestra. Si stava facendo buio ed era ora che, da bravi sposini, si dirigessero a casa per avere un pò di pace e tranquillità solo per loro. "Lord Falmouth e Lady Alexandra si sono offerti di tenerci i bambini per questa notte e direi di approfittarne intanto che Demian ritiene divertente la cosa, prima che cambi idea".

Caroline strizzò l'occhio ad entrambi. "Scappa Demelza, il piccolo principe cambia idea subito su certe cose".

Lei sorrise, arrossendo, immaginando e desiderando la SUA notte di nozze, sola, con Ross, con tutto il mondo fuori dalla loro casa per qualche ora. "Vado ragazze, grazie di tutto!" - sussurrò, abbracciandole commossa.

Margarita rise. "Sbrigati e sparisci! Io e Caroline per ora siamo tipo due mucche che producono latte a tutte le ore del giorno ma tu, per qualche mese, potrai ancora sentirti donna".

"Esatto" – borbottò Caroline, sbuffando e fingendo cinismo verso le sue due biondissime e stressantissime bambine.

Demelza salutò tutti loro e poi gli altri ospiti, abbracciò i suoi bambini con la promessa di andare a riprenderli il giorno dopo per pranzo, lasciò i servi da Falmouth per aiutarli nella gestione dei piccoli e poi, dopo aver abbracciato Alix forte, come una figlia abbraccia una madre, si avviò a braccetto con Ross verso la porta.

I bambini li rincorsero, sull'uscio.

"Buona notte mamma, buona notte papà" – esclamarono, per la prima volta tutti uguali, tutti parte di una vera e legale famiglia.

"Buona notte e domani vieni subito!" - ordinò Demian alla madre. "Io ti aspetto!".

"Certo amore" – gli disse, baciandolo sulla fronte.

Clowance ridacchiò, guardando Jeremy con aria maliziosa. "Si sbaciucchieranno tutta sera?" - chiese nell'orecchio del fratello, a voce abbastanza alta perché tutti la sentissero e i due interessati arrossissero.

Jeremy non rispose e fischiettò con indifferenza, Valentine lo guardò senza capire ma non osando chiedere e Daisy, che aveva altri pensieri, si avvicinò seria. "Papà Ross, adesso che sei mio papà davvero tutto quanto, dai capelli ai piedi, dobbiamo fare un segreto nuovo ogni giorno! Domani che si fa di nascosto da mamma?".

Demelza guardò Ross divertita, fingendo di stare al gioco. Si mise le mani sui fianchi e, con sguardo fintamente severo, lo guardò. "Già, che si fa domani di nascosto dalla mamma?".

Ross la baciò brevemente sulle labbra. "Se è di nascosto, tu non devi saperlo, mi pare logico!".

Daisy parve soddisfatta e dopo averlo abbracciato, lo lasciò andare con la sua mamma.

I bimbi li salutarono e poi Prudie e Jane corsero a riprenderli per portarli dentro casa. La festa per loro continuava nella dimora dei Boscawen, per gli sposini a Nampara...


...


Era romantica Nampara, silenziosa e intima.

Da quanti anni non si trovavano lì, da soli? Completamente soli?

Durante il tragitto di ritorno non avevano parlato molto, forse ancora frastornati da quanto successo o forse desiderosi di trovare in quel silenzio la pace e la serenità data da quel sì e dall'assenza delle parole sostituite dalla stretta delle loro mani, che li stava dolcemente cullando ad ogni passo.

Erano tornati a piedi, col vento che faceva svolazzare il suo abito da sposa. Avevano incontrato alcuni minatori strada facendo, che li avevano salutati con un cenno della mano e sguardi incuriositi e poi, come in un tacito accordo, avevano percorso l'ultimo tratto di strada scendendo nella loro spiaggia.

Si erano tolti le scarpe e, a piedi scalzi, avevano camminato sulla riva, con l'acqua che sfiorava loro le caviglie e i gabbiani che svolazzavano in alto nel cielo, sulle loro teste.

Arrivati sulla soglia, senza dirle nulla, Ross l'aveva presa in braccio e lei aveva riso per quel gesto romantico da romanzo a cui non era abituata, spezzando quel lungo silenzio.

Avevano riso insieme come per tanto, troppo tempo, non avevano saputo più fare e poi si erano guardati negli occhi e si erano baciati, a lungo, talmente a lungo che a Demian non sarebbe piaciuto affatto, se li avesse visti...

"Bentornata a casa, signora Poldark..." - le aveva sussurrato Ross, labbra contro labbra.

E lei sentì di nuovo quel brivido lungo la schiena, di emozione e d'attesa per ciò che sarebbe stato di lì a pochi minuti. Loro, Nampara, la loro stanza e tempo, tempo da concedersi unicamente per vivere l'amore.

Ross l'aveva portata in camera e con estrema dolcezza, come se fosse stata di cristallo, l'aveva appoggiata sul letto, guardandola con desiderio e amore. "Sei bellissima, davvero".

Lei si rigirò nel letto, annusando il profumo di sapone di lavanda delle lenzuola. "Una sposa con un abito bianco che forse non merita, incinta e col pancione... Devi davvero amarmi molto, per vedermi bellissima... O sai mentire bene".

Ross si sedette accanto a lei, scompigliandole schersosamente i capelli. "Se fossi bravo a mentire, avrei Westminster ai miei piedi. Invece ho la cattiva abitudine di dire sempre ciò che penso".

Demelza sorrise, maliziosa, torcendosi una ciocca di capelli fra le dita. "Già, testardo, risoluto e che non sa accettare compromessi... E io amo tutto questo e non lo cambierei mai. MAI ti cambierei, Ross".

"E io non cambierei nulla di te, mai ho desiderato farlo!".

Ross si chinò su di lei e i loro visi, a pochi centimetri, si sfiorarono. "Demelza...".

"Cosa?".

"Dimmi che è tutto vero! Che non stiamo sognando... Ho bisogno di sentirtelo dire".

Lei sorrise dolcemente, facendo scivolare l'indice della mano sulla sua cicatrice, piano, in una delicata carezza. "E' tutto vero, siamo davvero quì. E siamo Ross e Demelza Poldark. Ancora, per sempre... E nella vita non ho mai desiderato altro e non esserlo, anche se mi sono successe tante cose meravigliose a cui non rinuncerei mai, è stato come vivere a metà".

Lui annuì. Vivere a metà era il termine esatto, ciò che aveva provato lui stesso sulla sua pelle. Anzi, non aveva vissuto affatto e ora voleva tornare a farlo. Si chinò su di lei, la baciò con passione e le sue mani fecero scivolare dalle sue spalle il vestito.

Voleva vivere, amare, amarla.

E avrebbe iniziato subito a farlo.

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Capitolo 80
*** Capitolo ottanta ***


Nevicava, faceva un freddo tremendo ed era un'Anti-Vigilia di Natale dal cielo cupo e grigio. Ma dentro a Nampara, quella mattina, regnavano allegria e calore, condite dal baccano di cinque bimbi, tre cani e tre servi in preda a mille preparativi per passare fuori la giornata e la notte. Sarebbero stati a casa di Falmouth per tutto il giorno, avrebbero dormito da lui e fatto ritorno a Nampara solo il pomeriggio della Vigilia, con la nonna, lo zio e gli Enys, per festeggiare insieme la notte di Natale. I bambini avevano in mente un regalo segreto che, come sempre, dovevano preparare di nascosto dalla mamma e quest'anno anche dal papà e Nampara era troppo piccola per fare qualsiasi cosa che dovesse passare inosservata.

Ross e Demelza li avevano lasciati fare, divertiti ed incuriositi di cosa avrebbero organizzato quest'anno, includendo anche Valentine. L'anno prima avevano imparato in tedesco la canzone 'Oh Tannenbaum', cantata e suonata durante la festa di Natale a Londra, e ora? Cosa avevano in mente le cinque piccole pesti di Nampara, che erano state più criptiche di una spia? Nemmeno Demian che di solito si faceva scappare qualche indizio, aveva aperto bocca... Stava diventando grande, lui e Daisy avevano festeggiato alcuni giorni prima, il 20 dicembre, il loro quinto compleanno e il suo piccolo principe aveva imparato a mantenere i segreti. E qualcos'altro di segreto si era tenuto gelosamente per lui, una sorpresa per la mamma e per la nonna da dar loro a Natale, preparata in gran segreto con Ross a cui aveva chiesto aiuto. Ed anche Ross aveva tenuto la bocca cucita...

Demelza era felice, i bambini si erano affezionati a Ross e ogni ombra sembrava sparita. Ora erano semplicemente una famiglia anche se nel loro caso e nella loro storia, di semplice c'era stato ben poco e forse proprio per questo tutto quello che vivevano, lo percepivano come un tesoro inestimabile da trattare con cura. Si rideva spesso a Nampara, mancavano quasi sempre momenti di silenzio, i pranzi e le cene erano caotiche e rumorosi ma era tutto così meraviglioso che non avrebbero potuto chiedere di più. Aveva i suoi bambini, una in arrivo, il suo amore accanto, la sua vera casa a proteggerla e dei servi affezionati e fedeli che facevano parte, assieme ai loro tre cani, di quella grande famiglia allargata dove tutti, compresi Falmouth e Alix, avevano il loro posto d'onore.

Stesa nel letto e avvolta in una calda coperta, riscaldata anche dal camino che Ross aveva acceso, Demelza controllò i cinque bimbi che, belli imbacuccati, avevano fatto capolino nella stanza. Erano ben coperti, con sciarpe e cappellini al posto giusto, svegli, frizzanti e pronti a partire. Cercò di alzarsi per baciarli sulla fronte ma il pancione ormai enorme la impacciò nei movimenti e Ross la riattirò sotto le coperte, incitando i bambini ad andare da lei.

I bimbi la salutarono con un abbraccio e un bacio, fecero altrettanto con Ross e poi corsero giù, con la promessa di fare i bravi e di essere di ritorno il giorno dopo senza che Falmouth avesse recriminazioni da fare sul loro comportamento. E loro due, in cambio, avrebbero fatto trovare loro in tavola i cibi che preferivano e che avrebbero preparato durante quella giornata in cui finalmente avrebbero avuto la casa per loro.

Rimasti soli coi domestici, Jane si preoccupò di mettere altra legna nel camino. "Siete sicuri di non avere bisogno di noi? Voi, signora... Nelle vostre condizioni dovete riposare e Prudie potrà farcela da sola, con John, a badare ai piccoli".

Ross intervenne. Adorava i bambini ed amava averli attorno ma l'idea una giornata da solo con Demelza, in una Nampara solo loro, lo elettrizzava. Lui e sua moglie avevano programmato ogni cosa e per una giornata, sarebbero stati capaci di cavarsela da soli. "Sta tranquilla e andate. Noi ce la caveremo, a Demelza ci penso io e saranno Falmouth ed Alix ad avere bisogno di voi".

"E per il cibo da preparare per la cena di domani sera?" - chiese Prudie, non così felice di andare a sgobbare dietro ai bambini da Falmouth.

Demelza le sorrise. "Faremo noi, tranquilla... Ho tutto sotto controllo!".

La serva sbuffò vistosamente e quando fece per replicare, Daisy tornò a fare capolino nella stanza. "SBRIGATEVIIIII!!! C'è giù la carrozza per andare dallo zio! E io non ho tempo da perdere!".

Prudie la fulminò con lo sguardo. "Bestiolina, non si urla e non si fa la tiranna così, di prima mattina!".

"E allora sbrigati!" - ordinò la piccola despota, col suo cappottino azzurro e le manine sui fianchi.

Jane rise, prendendola per mano. "E allora a domani, signori".

"A domani..." - ribadì Prudie, uscendo sulle scale dove John, coi bagagli in mano, le stava aspettando.

Appena sentita la porta d'ingresso chiudersi di sotto, Ross si gettò sui cuscini, attirando a se Demelza. "Amore mio, ci credi? Siamo soli!" - le disse, baciandola sul collo.

"Ne sei contento?".

"Ogni tanto...".

Lei lo guardò con aria di sfida. "Soli e con un sacco di lavoro da fare! Non pensare di poltrire a letto tutto il giorno".

Ross si voltò di lato, con la sua migliore aria da mascalzone in viso. "Non avevo in mente di poltrire..." - sussurrò, in tono suadente.

E lei rise ancora di più. "Scordatelo! Mi sento più grassa di Prudie e per niente attraente. Ripassa fra due o tre mesi con certe idee...".

Incurante di quanto detto, lui la prese per i fianchi e la attirò a se. Il pancione era grande, la piccola sarebbe nata di lì a poche settimane, in quei primi mesi di matrimonio erano stati felici come non credevano fosse possibile esserlo ed era tutto leggero, divertente, bello. Pieno d'amore... E desiderio per lei, lei che le era stata negata per anni e di cui non si sarebbe mai saziato. La vedeva splendida, con o senza pancione, soprattutto in quel momento in camicia da notte, con quei lunghi capelli rossi sciolti che le ricadevano sulle spalle. "Nemmeno se spegnessi le candele?".

Lei lo guardò storto, tirandogli scherzosamente un cuscino in faccia. "Dovevi chiedermelo lo scorso Natale, mi sentivo decisamente più affascinante...".

"Lo scorso Natale mi avresti fatto sbattere fuori da casa tua, se lo avessi proposto anche solo per scherzare..." - le rispose, a tono, ricordando la notte della Vigilia di un anno prima dove lui e Valentine, pieni di meraviglia e un pò tramortiti, erano stati invitati quasi inaspettatamente alla facoltosa festa natalizia dei Boscawen. Quante cose erano successe da allora...

Quasi leggendogli nella mente, Demelza si rannicchiò fra le sue braccia, ripensando alla stessa cosa. "Un anno fa avevo organizzato un grande banchetto, adornato ogni angolo della casa e avevo indosso un bellissimo abito da sera rosso e una collana di diamanti. Ed ero una delle Lady più facoltose di Londra...".

Lui la baciò sulla tempia. "Lo sei e lo sarai ancora... Ti manca tutto questo?". Lo chiese in tono leggero ma con una punta di apprensione. Demelza aveva condotto una vita da regina a Londra e non era così scontato che potesse ancora apprezzare la semplice vita di Nampara.

Lei sorrise, dolcemente. "Un anno fa non avevo te, ero sola, i miei bambini non avevano un padre e...". Si accarezzò delicatamente il pancione, con gli occhi lucidi. "Non avevo lei, non AVEVAMO lei... Che mi prende continuamente a calci e voglio che lo faccia anche se mi fa male, certe volte. Non ho perso nulla e non mi manca nulla, sono solo un pò più ricca di allora perché ho tutto quello che un anno fa mi mancava, in aggiunta a tutto il resto. Ho ancora la mia dimora londinese e quel vestito rosso nell'armadio, dopo tutto... E quest'anno, semplicemente, ho cambiato posto dove festeggiare il Natale".

Una risposta così, era proprio da Demelza, la Demelza che sapeva essere felice con poco e che trovava del bello in ogni cosa. La baciò a lungo dopo quelle parole, grato che non fosse cambiata, grato per averla ritrovata, grato perché era rimasta la sua Demelza. "Una vera lady non dovrebbe indossare per due volte lo stesso abito..." - le fece notare, scherzoso, labbra contro labbra, riferendosi all'abito rosso.

"Lo adatterò e sembrerà nuovo..." - gli rispose, sbarazzina.

Aveva un sorriso disarmante in quel momento, dolce e gentile. E lui non seppe resisterle. La attirò a se, baciandola con passione e con delicatezza, la aiutò a distendersi sul materasso e si stese accanto a lei, attento a non farle del male e a non schiacciare la piccolina in arrivo. E lei, dopo un momento di esitazione, fece scorrere le braccia attorno alle sue spalle, attirandolo a se. E Ross seppe di aver vinto, ancora...

Lui la trovò bella come sempre e la fece sentire bella. E anche se le candele erano accese, non ebbe più importanza. E fecero l'amore...


...


L'aver poltrito tutta la mattina a letto, facendosi effusioni, non aveva aiutato molto nella preparazione della cena per la sera successiva.

E così, mentre Ross, in maniche di camicia, accendeva il forno per cuocere pane e focacce per i bambini, Demelza impastava e modellava torte dolci e salate, pagnotte e ogni altra cosa i bimbi avessero desiderato.

Valentine e Clowance amavano il cioccolato, Jeremy adorava le focacce salate con le olive, Demian voleva la torta di limone e Daisy, mai troppo interessata al cibo, aveva chiesto un dolce al ruhm come amavano i pirati ma le era stato detto di no e quindi aveva optato, con scarso entusiasmo, per dei biscotti al burro. E poi c'erano i regali veri e propri che loro, la nonna e lo zio e i vari amici di famiglia, avevano fatto recapitare a casa in quei giorni, che ormai avevano invaso la cantina e che sarebbero stati tirati fuori solo la mezzanotte succesiva.

"Il fuoco è acceso, che ne dici di infornare le prime torte?" - chiese Ross, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. Non era mai stato troppo festaiolo ma l'idea di una nuova tradizione natalizia da festeggiare come famiglia Poldark, esattamente come l'avevano istituita Demelza e Hugh a Londra, lo eccitava, non perché volesse copiare il poeta ma perché aveva capito che le tradizioni sarebbero state fonte di bei ricordi per tutti e avrebbero arricchito la storia della loro famiglia. Era sempre stato un vagabondo e in fondo mai avrebbe smesso di esserlo ma la sua meta e il suo angolo di pace, per sempre, sarebbero stati Nampara, Demelza e i bambini. E lì e con loro avrebbe costruito la sua famiglia, partendo proprio dalla preparazione delle piccole cose che li avrebbero uniti di più. Come il pranzo di Natale da imbastire insieme a Demelza, fianco a fianco. "Prima i dolci o prima il pane?".

Demelza fece per rispondere quando, all'improvviso, emise un gemito. Si appoggiò al tavolo con entrambe le mani, sbiascicò fra i denti un 'Giuda' e poi, impallidendo, si massaggiò il ventre.

Ross, in un attimo, fu al suo fianco. Succedeva spesso da alcuni giorni a quella parte e Dwight aveva spiegato loro che era normale in prossimità del parto e di andare a chiamarlo solo in caso di fitte ravvicinate. E lo aveva rassicurato e consigliato di affidarsi a Demelza che di certo se ne intendeva più di lui su come nascevano i bambini. Ma questo non lo aveva comunque reso più tranquillo, nulla lo rendeva tale quando Demelza era incinta e il fatto che Dwight avesse scelto, come loro, di vivere a fasi alterne fra Londra e Cornovaglia e che fosse in zona, non era comunque di aiuto se vedeva sua moglie star male. "Amore mio..." - sussurrò, sostenendola e accarezzandole la schiena. Di solito questo la aiutava...

Demelza ispirò profondamente. "Giuda... Tua figlia è scatenata, un demonio".

"E' passata? Stai meglio?" - le chiese, apprensivo.

"Non molto, ma ora non ho tempo per pensarci. Abbiamo un sacco di lavoro da fare per la cena di domani...".

Ross la vide stringere i denti, cercare di calmare il respiro e la sua ansia aumentò. "Al diavolo la cena. Se stai male, ti porto a letto e corro a chiamare Dwight".

Demelza scosse la testa, esasperata. "Ross, mancano dieci giorni al parto. Se non di più... E' una fitta, come le altre che ho avuto i giorni scorsi. E non ho tempo di partorire, ADESSO!".

Ross guardò il pancione, scettico e allo stesso tempo pieno di sensi di colpa. E se il fatto di aver insistito per fare l'amore poche ore prima, le avesse fatto male? "Credi che ad Isabella-Rose importi di cos'hai da fare, se ha intenzione di nascere?".

"Isabella-Rose deve capire subito chi comanda! E non è lei! Quindi, qualsiasi cosa abbia in mente, che la rimandi a gennaio" - rispose lei, nervosa.

Ross le strinse la mano, cercando di calmarla e calmarsi. Era ancora sofferente e i dolori quindi non erano cessati come succedeva di solito. "E' colpa mia?".

Lei prese un profondo respiro. "Tua, di Londra e del cottage frequentato quasi nove mesi fa" – rispose, sarcastica.

Ross alzò gli occhi al cielo, indeciso se ridere o disperarsi. "Intendo... Per prima... Forse non avremmo dovuto...".

Era impacciato e lei se ne accorse. Cercò di riguadagnare la calma e di apparire accomodante per non turbarlo e, stringendogli la mano, tentò di calmarlo. "Ross... Se non avessi voluto, ti assicuro che non te lo avrei permesso... Come hai detto prima, non sei tu a scegliere. E nemmeno io... E' tutto nelle mani di questa piccola peste".

La baciò brevemente sulle labbra, nervosamente, dopo quelle parole. "Stai meglio?".

Facendo un grande sforzo, lei cercò di sorridere. "No... Non credo". Con fare esasperato lanciò della pasta sul tavolo, cercando un modo per far terminare i dolori. "Giuda, anche i gemelli erano nati due settimane prima, ma per i gemelli è normale... Non voglio, non adesso!".

Si agitò e un'altra fitta, più forte della precedente, la fece piegare in due. Le gambe le cedettero e finì a terra, tenendosi il ventre. "Giuda, Ross...".

Lui guardò il camino, il tavolo pieno di impasti e sua moglie. E decise che della cena di Natale non gli importava nulla! La prese in braccio, incurante delle sue proteste, la portò di sopra in camera con la stessa foga con cui, undici anni prima, l'aveva portata fuori dall'acqua mentre era in travaglio per Jeremy e poi la adagiò sul letto. "Demelza, cena o no, credo che la nostra piccola abbia fretta di nascere".

"No, non ora!" - tentò di argomentare lei, con un filo di voce. "I bambini saranno così delusi se non troveranno le cose che ci hanno chiesto".

Le sorrise, la baciò sulla fronte e le accarezzò il viso. "Amore io, i bambini avranno la loro sorellina e non riesco ad immaginare alcun regalo migliore di questo. Una festa di Natale migliore di questa...".

Un'altra fitta le mozzò il fiato, talmente ravvicinata a quella precedente che Demelza dovette stringere le lenzuola con le mani per non urlare. E si arrese al fatto che la piccola aveva deciso e che nulla le avrebbe fatto cambiare idea. "Ross..." - gemette.

"Corro a chiamare Dwight e torno subito da te".

Demelza spalancò gli occhi a quella proposta, terrorizzata. Si alzò di scatto, gli strinse la camicia e si rannicchiò contro di lui singhiozzando. "No... No, non voglio".

"Demelza, abbiamo bisogno di Dwight!" - le rispose lui, allarmato e terrorizzato.

La donna scosse la testa. "No, non ne abbiamo bisogno... Basti tu, basto io, basta la nostra bambina, dei panni puliti e dell'acqua calda".

Lo sguardo di Ross si riempì di puro terrore. "Amore... Amore io, non stai dicendo sul serio, vero?".

Lei non rispose ma il suo sguardo diceva tutto. No, non stava scherzando... "Demelza...".

Gli occhi di sua moglie si velarono di lacrime, se per il dolore o per la paura, lui non seppe dirlo. "Ross... Ero sola quando è nata Clowance... Ero in una casa che non sentivo mia quando son nati i gemellini ma adesso sono a Nampara, tu sei quì, io sono quì e c'è la nostra bambina che vuole nascere. Non ho bisogno d'altro, non ci serve altro... Voglio noi, solo noi. Dopo quello che abbiamo passato, non ci meritiamo che questo sia un momento solo nostro, da non dividere con nessuno?".

Quelle parole fecero riemergere in lui tanti sensi di colpa ma capì subito che quello non era l'intento di Demelza, Demelza voleva altro, voleva donargli e donare a se stessa un ricordo prezioso che fosse solo loro. Lei aveva ragione e anche se la logica e le sue mille ansie lo spingevano a correre a chiamare Dwight, si rese conto che era vero, ne avevano passate tante e chiunque sarebbe stato di troppo in quel loro piccolo miracolo. Era terrorizzato, non sapeva come fare ma Demelza aveva ragione, gli stava semplicemente dicendo che quello era il loro momento, solo il loro e che come sempre, come la grande squadra che erano tornati ad essere, lo avrebbero superato insieme. "Dimmi cosa devo fare e fai in modo che tutto vada bene e non me ne debba pentire".

Lei gli strinse le mani, dolcemente, mentre una fitta di dolore le attraversava il viso. "Sta quì, tieni acceso il fuoco, prepara dell'acqua calda, prendi delle coperte, dei panni puliti e aspetta".

"Non posso prometterti che non sverrò" – le sussurrò in tono leggero, baciandola sulla nuca ed aiutandola a togliersi gli abiti da cucina per indossare una più comoda camicia da notte.

Cercando una posizione per stare comoda, Demelza si rannicchiò contro il suo petto cercando di ritrovare una respirazione normale. Le contrazioni, come per i gemelli, erano partite subito ravvicinate e sembrava abbastanza certa di partorire in fretta. "Che diranno i bambini?".

"Credo... Spero lo considerino un bel regalo di Natale".

Demelza sorrise, nonostante tutto. "Quando nacquero i gemelli, Clowance aveva proposto di abbandonarli da qualche parte".

Ross tentò di immaginare la sua piccola Clowance a tre anni, biondissima e sicuramente bellissima, mentre proponeva qualcosa del genere. "Ti avviso che anche Demian potrebbe suggerirci una soluzione simile".

"Sicuramente lo farà" – dovette ammettere Demelza che ben conosceva il suo piccolo e geloso principe, prima che una contrazione più forte la lasciasse senza fiato.

Si aggrappò alla camicia di Ross, la strinse con forza e gemette dal dolore, non riuscendo a trattenere una lacrima per il dolore. "Giuda...".

"Demelza...".

"Non dire niente... Adesso non dire nulla, ti prego" – lo implorò, a fatica.

E Ross capì che era finito il tempo per chiacchierare e che doveva, da quel momento in poi, essere il suo silenzioso angelo custode che doveva capire di cosa avesse bisogno senza che lei lo dicesse, assecondarla e tranquillizzarla con la sua presenza ferma e costante. Era spaventato ma non poteva permettersi di esserlo. Nessun uomo si era mai trovato in una situazione del genere ma di fatto, anche se Demelza non gli avesse chiesto nulla, non avrebbe comunque avuto troppe alternative. Fuori c'era una vera e propria bufera di neve, ci avrebbe messo troppo per andare a chiamare Dwight e Demelza sembrava essere preda di un travaglio veloce. Destino o desiderio che fosse, doveva essere lui a far nascere la bimba.

Le successive due ore furono convulse, mentre fuori la neve continuava a scendere incessante e non giungeva alcun rumore se non quello del vento impetuoso che sbatteva contro le finestre. Demelza visse un travaglio veloce, convulso, doloroso ma sopportò tutto senza lamentarsi eccessivamente e Ross si rese conto che si stava sforzando di apparire forte per non spaventarlo. La aiutò a passeggiare per la stanza, sorreggendola, quando lei sentiva di doverlo fare, la sorresse quando i dolori erano talmente forti da mozzarle il fiato, le strinse la mano quando le contrazioni le mozzavano il respiro e le riempivano di lacrime gli occhi e aspettò che tutto finisse. Era terribile per lui vederla così. Sapeva bene che partorire era doloroso ma assistervi di persona, veder soffrire la donna amata sentendosi impotente, era per lui qualcosa di orribile. Ma Demelza spesso gli aveva ricordato che ne valeva la pena, che era solo questione di poche ore e che amava essere madre e quindi doveva concentrarsi solo sul dopo, quel dopo che lo avrebbe reso pazzo di gioia come nessun altro al mondo. Aveva sempre ammirato la forza e il coraggio di Demelza ma mai come in quel momento. Aveva passato quell'inferno altre volte, spesso portandone il peso da sola mentre lui combatteva coi suoi demoni invece di starle accanto e ora le era grato. Per quanto spaventoso, ora Demelza gli aveva dato l'occasione di pagare i debiti col suo passato e di esserci. Non avrebbe avuto più nulla da rimproverarsi, non per Isabella-Rose almeno... A differenza di Jeremy e Clowance, lui era lì stavolta.

La piccola nacque alle sei del pomeriggio in punto, dopo un travaglio di quattro ore. Non seppe nemmeno lui come fosse riuscito a non svenire, seppe solo che l'istinto lo spinse a sorreggere Demelza mentre spingeva e poi a prendere la bambina fra le braccia, nell'esatto istante in cui venne al mondo. Demelza non gli suggerì nulla, gli venne tutto naturale come se fosse qualcosa che avesse già fatto. O forse, semplicemente, era puro istinto paterno, quell'istinto che ti spinge a muoverti sempre nella direzione giusta per il bene dei tuoi figli.

Isabella-Rose nacque strillando forte, ribadendo al mondo che ora c'era anche lei. Una piccola, vera Poldark...

Ross la avvolse subito nella copertina bianca che aveva preparato e poi, con mani tremanti, la poggiò sul petto di Demelza che dopo lo sforzo, era sprofondata fra i cuscini. "Ce l'hai fatta, amore mio...".

Lei aprì gli occhi, con una mano strinse il fagottino sul suo petto e con l'altra la sua mano, attirandolo a se in un abbraccio. "Ce l'abbiamo fatta, amore mio...".

Isabella-Rose, fra loro, strillò forte ed entrambi abbassarono lo sguardo, concedendosi finalmente di guardarla, conoscerla, scoprirla... Era una meravigliosa, paffuta morettina come suo padre, che aveva ereditato gli occhi azzurro-verdi della madre. Uno splendore, sana, vispa e con uno sguardo biricchino e vivace.

"E' bellissima... Amore mio, è splendida... Ha i tuoi occhi" - sussurrò Ross con voce rotta, baciando entrambe.

La donna accarezzò il mento della bimba. "E i tuoi capelli e, a giudicare da come strilla, il carattere indomito dei Poldark e dei Carne".

Ross annuì. "Già, è la nostra miglior sintesi, la nostra migliore rappresentazione" – disse, fiero e già innamorato di sua figlia.

Piangendo, Demelza strinse a se la piccolina, cullandola perché si calmasse. "Ross... Lei è davvero il nostro miracolo... Dicevano che lo erano i gemelli perché difficilmente Hugh poteva avere figli ma non era vero. Isabella-Rose, lei... lei è nata nonostante tutto... Nonostante l'inferno che abbiamo superato, il dolore, la lontananza... E' davvero un miracolo, il nostro miracolo, il segno che se c'è amore, tutto è possibile".

Già... Non c'era niente in più da dire, niente in più da recriminare. Demelza aveva ragione, Isabella-Rose era il simbolo dell'amore, quello vero che sa vincere su tutto e tutti. Ross guardò la sua piccolina, in un misto di amore e orgoglio. Era splendida, perfetta e lui l'aveva vista nascere! E non era stato spaventoso, era stato meraviglioso... "Grazie..." - sussurrò solo, a Demelza.

Lei si rannicchiò contro il suo petto mentre la neonata cercava il suo seno, come se sapesse già benissimo cosa dovesse fare. "Grazie a te... Sei stato coraggioso".

Ross rise, guardando il soffitto. "Ora forse sverrò, ora posso farlo se mi dirai che stai bene".

"Sto bene, ma vorresti perderti la sua prima poppata? Svieni più tardi, se ce la fai a resistere..." - gli rispose, ridendo.

Ross annuì, aveva ancora ragione. Si chinò sulla testolina della piccola, baciandola dolcemente. "E' vero, scusa Isabella-Rose. Non credo di voler perdere più niente della vita dei miei figli".

Demelza gli sorrise e gli apparve bella come non mai, anche col viso segnato dalla stanchezza, i lunghi capelli rossi che le scendevano sul viso disordinati e l'aria stanca. Era splendida, splendida come non gli sembrava di averla mai vista. "Ti amo, amore mio" – le disse, ancora.

"Ti amo anch'io".

Calò il silenzio, rotto solo dai vagiti della piccola Isabella-Rose che reclamava il suo latte. Nevicava, faceva freddo ma il camino, il respiro dolce di una bambina che si era affacciata alla vita e la promessa di un futuro radioso, resero quell'anti-Vigilia indimenticabile e calorosa per tutti loro.

E Isabella-Rose, da grande, avrebbe avuto una bella storia da sentir raccontare davanti al focolare, mentre preparava la sorpresa di Natale coi suoi tanti fratelli e sorelle.





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Capitolo 81
*** Capitolo ottantuno ***


Quella sera e quella notte fra anti-Vigilia e Vigilia di Natale erano state strane, cariche di emozioni, piene di dolcezza e un misto di sensazioni e sentimenti fortissimi, racchiusi nello scrigno di Nampara che aveva custodito una mamma, un papà e una bimba appena nata, arrivata per dimostrare al mondo che i miracoli esistono.

Ross non aveva chiuso occhio e lui e Demelza erano rimasti a lungo abbracciati a letto in silenzio, scaldati dal camino, con la piccola Isabella-Rose fra loro. Aveva ammirato commosso sua figlia, l'aveva accarezzata, baciata, aveva imparato a conoscerla e si era impresso nella mente ogni aspetto di lei, neonata. Tante cose si era perso con gli altri bambini ed ora ne era pentito perché osservare la propria figlia appena nata, era qualcosa di grandioso da condividere con la donna amata e che ti ha reso padre.

Demelza era stanca ma la sua espressione era felice e serena. Col capo appoggiato contro il suo petto avevano chiacchierato, si erano coccolati, si erano presi quel tempo solo per loro che si erano negati troppo a lungo quando erano nati gli altri figli e quando si erano separati e il fatto che la piccola avesse scelto quel preciso momento in cui erano soli a casa per venire al mondo, era stato vissuto come un dono e una benedizione da entrambi. Passata la paura, passato il dolore, passata la tensione, avevano assaporato quei primi preziosi momenti senza disturbi, senza chiasso, circondati solo da pace. E solo Dio sapeva quanto ne avessero bisogno e quanto negli anni il ricordo di quel momento sarebbe stato dolce e carico di commozione.

Isabella-Rose aveva dimostrato da subito un caratterino fiero, degno delle sue sorelle maggiori ma soprattutto, degno di una Poldark. Reclamava attenzioni, reclamava coccole e strillava se non si sentiva al centro dell'attenzione. Avevano riso nel guardarla, avevano scherzato sul fatto che coi gemelli avrebbero fondato una gang di briganti e immaginato mille e mille cose sul suo futuro. La piccola si era addormentata solo dopo mezzanotte, alla fine dell'ennesima poppata, fra le braccia di Demelza ormai esausta. E a quel punto Ross aveva insistito perché dormisse anche lei.

Si erano coricati insieme, l'aveva tenuta stretta a se con la piccola e dopo infiniti minuti in cui le aveva accarezzato capelli e spalle, aveva ceduto al sonno anche lei, come la bambina.

Ross invece era rimasto sveglio fino all'alba, attento che non finisse la legna nel camino, con l'orecchio teso al rumore del vento e della neve che sbattevano contro le finestre e gli occhi che non si staccavano mai da Demelza e dalla loro bambina. Non riusciva a smettere di guardarle, entrambe bellissime, preziose per lui e infinitamente amate. Era felice, totalmente. E per natura lui non lo era mai davvero del tutto e perciò era ancora più sensazionale quello stato di cose. E si sentiva orgoglioso, della piccola e di tutta la sua famiglia: di Demelza, non avrebbe mai potuto vivere amore più grande o scegliere una moglie e una mamma migliore di lei, per i suoi figli. Di Jeremy e dell'ometto in gamba e sorridente che era diventato, di Clowance che riusciva ad essere elegante ed eterea anche in mezzo alla campagna e si era abituata subito alla sua nuova vita, di Valentine che era diventato sorridente e forte nonostante tutto, di Daisy, piccola piratessa coraggiosa in erba, dal cuore grande e generoso e di Demian, diversissimo da lui, un'anima delicata e gentile destinata ad essere un artista un giorno ma che per adesso era riuscito nell'impresa di imparare, più o meno, a dormire da solo. E anche della piccola Isabella-Rose che con determinazione aveva scalpitato per nascere prima di Natale, in modo da poter festeggiare con tutti loro.

Non vedeva l'ora che i bambini vedessero la loro sorellina, di divertirsi nel guardare le loro reazioni e di tornare tutti sotto lo stesso tetto. Era grato di quel giorno e quella notte solo con Demelza e di tutto ciò che aveva portato ma con le prime luci del giorno sentì che mancava un grande pezzo di famiglia per rendere completa la sua gioia.

Di soppiatto si alzò dal letto, raggiunse il camino per aggiungervi legna e poi prese delle coperte che poggiò sul letto, nel caso Demelza avesse sentito freddo svegliandosi.

La piccola, disturbata dai suoi movimenti, si svegliò e dopo alcuni istanti Demelza fece lo stesso. "E' già mattina?" - chiese, stiracchiandosi.

Ross le si sedette accanto, porgendole dei biscotti e una tazza di tè che aveva appena preparato per lei. "Sì, ma vorrei che stessi a letto per oggi. Finché puoi, almeno".

Lei si rannicchiò sotto la coperta, stringendo a se la neonata. "Ci sono un sacco di cose da preparare per stasera. Non abbiamo combinato nulla...".

Ross ridacchiò, guardando Isabella-Rose. "Non sono d'accordo... E tu hai bisogno di riposo e io di sapere che sei a letto tranquilla".

"E la cena di stasera?" - chiese lei.

Chinandosi a baciarla sulle labbra, le scompigliò scherzosamente i capelli. "Ci arrangeremo, anche con poco. Per ora vado a prendere i bambini e avverto che hai partorito, al massimo Lady Alexandra farà preparare del cibo ai suoi cuochi e lo farà portare quì. La cosa importante in fondo è stare insieme, non importa la cena".

Demelza sorrise, prendendogli la mano e baciandogliela. "Vai subito? Ho voglia di vedere tutti i miei bambini".

"Subito! Saranno stupiti di vedermi arrivare a quest'ora, ma appena sapranno cos'è successo, scalpiteranno per correre a casa".

Demelza guardò fuori dalla finestra, accigliata. "Copriti bene e COPRILI bene, fa freddo".

Ross rise, diede un bacio a lei e uno alla bimba e poi, col tricorno in testa, si diresse verso la porta. "Agli ordini! E tu non muoverti dal letto! Strada facendo passo da Dwight e gli chiedo di venire a darti un occhio, comunque".

"Non è necessario, sto bene e lo vedremo stasera".

"E' necessario!" - ribadì Ross. E senza darle tempo di rispondere, sparì di corsa dietro alla porta.


...


Dopo aver allattato Isabella-Rose, Demelza si era addormentata profondamente, cullata dal silenzio tranquillo della casa. Anche la piccola pareva assonnata e anche se c'erano tante cose da fare, per una volta Demelza decise di coccolarsi, di essere ragionevole e di rimanere a letto come le aveva chiesto Ross. Si addormentò domandandosi come i bambini avessero appreso la notizia della nascita della sorellina ed immaginò Ross alle prese con le loro mille domande e la loro eccitazione.

Si addormentò col sorriso sulle labbra e non seppe nemmeno lei quanto dormì. Ma quando un trambusto e un grande chiasso che proveniva dal piano di sotto invase la casa, si svegliò di soprassalto. Il momento di pace era finito a quanto sembrava, anche se Isabella-Rose non ne pareva affatto turbata e continuava a dormire dalla grossa.

La porta si spalancò di corsa e cinque bambini, imbaccuccati come eschimesi e con i cappellini di lana ancora pieni di fiocchi di neve, irruppero eccitati. "Mammaaaaaa!".

Ross, trafelato, li raggiunse col fiatone. "Vi avevo detto di fare con calma e in silenzio! Sembrate la calata degli Unni!".

Valentine lo fissò accigliato. "Chi?".

"Lascia perdere, tesoro...". Ross gli accarezzò i capelli e poi osservò sua moglie, sorridendogli. "Scusa, ho cercato di tenerli tranquilli ma ho fallito miseramente. Stavano facendo colazione quando mi hanno visto arrivare e siccome non ero atteso se non nel pomeriggio, hanno subito capito perché fossi lì. Da quel momento è stato il caos totale! Mi han fatto mille domande, mille richieste, saltavano e correvano ovunque. Lord Falmouth è diventato bianco come un cencio, Lady Alexandra si è messa a piangere e Prudie e i Gimlett si sono allarmati e hanno chiesto di tornare subito a casa. Sono di sotto, stanno sistemando le cose dei bambini e predisponendo per preparare qualcosa per stasera visto che sei comunque decisa a far la festa di Natale, quì. Ho detto loro che non c'è nulla di pronto e fra Lady Alexandra che ha allertato il suo cuoco e i nostri servi, forse stasera non rimarremo a stomaco vuoto".

Ross aveva parlato senza prendere fiato, quasi a volersi giustificare per quella rumorosa invasione. La divertiva vederlo tanto affannato, vederlo preso dai bambini e perso in pensieri meno foschi di quelli che per anni gli avevano annebbiato l'anima. Era adorabile, era l'uomo di cui si era innamorata, forte e passionale ma finalmente anche sorridente e sereno. E poteva definirsi serena pure lei, visto che Prudie e i Gimlett avrebbero salvato il salvabile per la cena assieme ad Alexandra. "Venite quì!" - sussurrò ai bambini, allargando le braccia.

I cinque piccoli, ora più guardinghi e calmi, le si avvicinarono a piccoli passi.

Il primo ad abbracciarla fu Jeremy, il suo ometto che si preoccupava sempre per lei. "Mamma... Stai bene, vero?".

Lo strinse a se, baciandolo sulla fronte e mostrandogli la sorellina che aveva aperto gli occhi e ora sbirciava dalla copertina dentro cui era avvolta. "Io sì. E anche lei, visto?" - disse in tono leggero, per tranquillizzarlo.

Jeremy fece un sorriso biricchino. "Un'altra femmina! Sono morto!".

Anche Valentine sbirciò, incuriosito da questa esperienza che per lui era totalmente nuova. "Ooooh, papà! Ha i capelli neri come i miei! E i tuoi!". Ne sembrava felice, come se questo lo facesse sentire più partecipe della famiglia. Doveva essere bello per lui avere finalmente una sorella con cui condividere la sua appartenenza a quella casa e ai Poldark.

Demelza gli sorrise, ormai la somiglianza fra Valentine e Ross non faceva più male ma anzi, sommata ai tratti di Isabella-Rose, rendeva tutti loro una famiglia unita. "Sì, hai ragione! Ti piace?".

Valentine ci pensò su. "Boh, non avevo mai visto una bambina così piccola. E' strana, così minuscola e così rossa in faccia".

Come offesa da quei commenti poco lusinghieri, Isabella-Rose fece un versetto stizzito, facendo ridere tutti. "Stessi capelli dei Poldark, stesso carattere intransigente..." - rise Ross, osservando ancora una volta il caratterino fiero della sua figlia più piccola.

Clowance guardò suo padre, piena di ammirazione. "Davvero hai aiutato tu la mamma a farla nascere, papà?".

Ross ridacchiò, imbarazzato. "Non ho avuto scelta, te lo assicuro".

Clowance e Jeremy risero. "Lo zio ha detto che non ha mai sentito nulla del genere, che il mondo sta andando a rotoli e che non devono mai essere gli uomini a far nascere i bambini! La nonna è quasi svenuta quando papà glielo ha detto, lo sai mamma?".

Demelza rise, immaginandosi la scena. "Santo cielo, avranno gli incubi per anni. Per sempre, forse".

"Gli passerà" – rispose Ross, sedendosi accanto a lei e prendendo Isabella-Rose fra le braccia perché i fratelli potessero vederla meglio. "Volevo andare anche a chiamare Dwight per farti fare una visita ma poi ho pensato che non aveva le chiavi per entrare e ti saresti dovuta alzare dal letto per andare ad aprirgli la porta. E ti preferivo al caldo e addormentata. Andrò ora, dopo aver sistemato i bambini".

"Non ce n'è bisogno, Ross".

Lui sbuffò. "Ne abbiamo già parlato...".

Daisy si avvicinò alla neonata, studiandola attentamente. "Ohhh, grazie!".

"Chi ringrazi?" - le chiese Jeremy.

La gemellina alzò le spalle. "Tutti! Mamma e papà perché mi han fatto la sorellina e Isabella-Rose che è nata e adesso non sono più la più piccola. E visto che sono grande e ho anche cinque anni da qualche giorno, posso avere la mia torta al ruhm come i pirati, stasera?".

"NOOOOO!!!" - risposero Demelza e Ross all'unisono, davanti a quell'ennesima richiesta.

"Ma uffa!" - sbottò la piccola, picchiando il piedino per terra. "Io devo far pratica!".

Clowance e Valentine ridacchiarono, ancora. "Mamma" – disse la bambina più grande – "Pure per questo la nonna stava per svenire! Quando Daisy le ha detto di voler diventare una piratessa, per poco non è caduta dalla sedia. Miss Rose, la sua domestica personale, ha dovuto portarle i sali".

"La nonna è un pò esagerata" – borbottò Daisy, avvicinandosi alla sorellina appena nata. La guardò, mettendosi in punta di piedi, le toccò la guancia con un dito e poi sospirò. "Io sono più bella!" - sentenziò.

Non lo chiese, lo affermò con assoluta sicurezza e Ross sorrise. "Certo, ovviamente!".

"E io?" - chiese Clowance.

Ross la abbracciò, Clowance era uno splendore, una piccola dea che avrebbe fatto innamorare, nel giro di pochi anni, qualsiasi uomo avesse incrociato il suo cammino. "Anche tu, anche tu ovviamente".

Demian, rimasto imbronciato e in disparte a fianco del letto, guardò sua madre con gli occhi lucidi. Demelza se ne accorse e capì subito cosa ci fosse che non andava. La piccola usurpatrice di mamma e attenzioni era finalmente arrivata e lui era tutt'altro che felice di dividere tutto questo con lei. "Piccolo principe, vieni quì" – gli disse, dolcemente.

"No...".

"Dai...".

"NNNOOO!!!".

Ross si avvicinò al bimbo mentre Clowance sghignazzava. "Su, vai! La mamma aveva davvero voglia di vederti".

"Anche se c'è quella lì?" – chiese imbronciato, indicando con la manina la piccola Isabella-Rose fra le braccia del padre.

Ross sospirò. "Come vedi la tengo io, non la mamma. Potrai tenerla in braccio anche tu, è tua sorella e non è venuta a rubarti niente e nessuno. Soprattutto la mamma!".

Demian sospirò e poi, dopo un'occhiata in cagnesco alla sorellina, si avvicinò alla madre. "Sono ancora il tuo principe?".

Demelza allungò le braccia, stringendolo a se e mettendoselo sul letto, seduto sulle sue gambe. "Amore, sempre..." - sussurrò, baciandolo sulla guancia. "Hai già dei fratelli e delle sorelle, Isabella-Rose è una in più, tutto quì. Sei abituato ad essere in tanti".

Jeremy intervenne. "Esatto! Pensa a me e a quante volte mi è capitato di trovarmi un fratellino nuovo! O una sorellina... Vedi che mamma mi vuole ancora bene anche se siete arrivati voi?".

Tranquillizzato – almeno in parte dalle rassicurazioni del fratello – Demian tornò a guardare la piccola Isabella-Rose. "Ma lei deve rimanere a vivere quì con noi?".

Clowance rise. "Certo!".

"Per quanto tempo?".

"Finché non si sposa!".

Demian apprese la notizia con sgomento, intrecciando le braccia. "E' Natale, sai mamma? Come Gesù Bambino... Lei è nata come Gesù Bambino e allora, come lui, deve dormire nella stalla. Se la mettiamo lì, sarà contenta di far la nanna come lui, con il nostro asinello e le nostre mucche. Magari le diamo anche le caprette e gli agnellini per tenerla calda!".

E Clowance rise, di nuovo, imitata da tutti gli altri. "Non ci sperare! Ci ho provato pure io, quando siete nati tu e Daisy, ma non ha funzionato, abbiamo dovuto tenervi".

"Hei!" - borbottò la piccola piratessa, dando una pacca sul braccio alla sorella.

Jeremy soggignò. "Strillavi sempre, Daisy!".

"Non è vero!".

"Sì che è vero!".

"Papààààà". In cerca di sostegno, la piccola gemellina si gettò fra le braccia di Ross che fu costretto a prenderla al volo col braccio che aveva libero. A fatica diede Isabella-Rose a Demelza perché la mostrasse bene a Demian e poi si mise Daisy sulle spalle per farla giocare ed impedirle di picchiare Clowance.

Demian spiò la piccola e poi gli fece la linguaccia. E Isabella-Rose di tutta risposta, allungò la manina a tirargli i capelli. "Haiaaaaa!" - piagnucolò – "Vedi mamma, deve stare nella stalla, tira i capelli!".

Ross prese la palla al balzo. "Vedi che li devi tagliare, i capelli!".

"Ross...". Demelza gli lanciò un'occhiataccia per quell'ennesimo tentativo, mentre allontanava la neonata dai capelli del suo biondo principino. Poi sorrise, guardando i suoi piccoli capolavori, la cosa migliore che avesse mai creato nella sua vita. Era orgogliosa, di loro, di tutti loro. Erano una grande famiglia, quei bambini si portavano dietro, chi più chi meno, storie diverse e a tratti difficili, eppure sorridevano, erano contenti e si sentivano tutti fratelli. E lei sentiva il cuore scoppiarle di gioia. "Bimbi, che ne dite ora di andare a dare una mano ai Gimlett e a Prudie per la cena di stasera? Purtroppo non c'è pronto nulla e temo che tante cose che desideravate, non ci saranno".

Jeremy annuì, prima di avvicinarsi e abbracciarla. "Fa niente mamma, a me basta che stai bene e che stia bene anche la sorellina".

Anche Clowance e Valentine annuirono, d'accordo, mentre Demian si rannicchiava fra le sue braccia, facendole capire che voleva stare con lei.

Daisy, sulle spalle di Ross, annuì. "E' giusto così, io non posso avere la torta col ruhm e loro non possono avere i loro dolci! Grazie ancora, Isabella-Rose!".

Ross rise per l'ennesima dimostrazione del suo modo di fare sfacciato, rimettendola a terra. "Su, avete sentito la mamma? Andate di sotto ad aiutare!".

Clowance gli si aggrappò a un braccio, tirandolo. "Dai, vieni anche tu!".

"Io?".

"Sì! Dai papà, è il primo Natale che fai da mio papà vero, mi aiuti a fare i dolci? E le focaccine?".

Ross la guardò e capì che non poteva dirle di no. Che mai ci sarebbe riuscito, era una lotta impari e senza speranza. Clowance era sua e lo incantava solo con uno sguardo... E lei ormai lo aveva capito. "Hai bisogno di qualcosa?" - chiese a Demelza, tentennando.

No, non lo avrebbe trattenuto da quell'impegno con sua figlia nemmeno se avesse avuto bisogno della luna. "No, va con loro! Io, Demian e Isabella-Rose staremo quì a riposare insieme".

"Va bene. Tu non vieni, piccolo scansafatiche?" - chiese a Demian prima di uscire con gli altri bimbi.

"No, voglio rifare la nanna! Con la mamma, NEL SUO LETTO! Anche se c'è anche quella lì..." - borbottò, riferendosi a Isabella-Rose.

Demelza sorrise, stringendolo a se. E Ross e gli altri scesero di sotto, dopo aver baciato la sorellina appena nata e litigato su chi dovesse prenderla in braccio per primo. Vinse Jeremy, il più grande e di seguito gli altri. Un giorno forse anche Demian avrebbe voluto farlo, sperò Demelza...

Rimase sola, con il figlio e la figlia più piccoli. Cantando loro una canzone che Isabella-Rose parve apprezzare e coccolando Demian che era quello che più di tutti necessitava di attenzioni e amore...

E dopo pochi istanti, come successe per i gemelli, Prudie fece capolino nella stanza. "Ci risiamo, è!" - borbottò, osservando la neonata. "Ne è arrivata un'altra. Una bestiolina Poldark, stavolta... Tutta suo padre! E come i gemelli, questa qua non mi frega mica!".

Demelza rise, seguita a ruota da Demian che non poteva trovarsi più che d'accordo con lei.

"E la adorerai, come adori le altre bestioline" – la punzecchiò Demelza.

"Vedremo, vedremo... Tu goditi questa mocciosa finché puoi, finché mantiene questo aspetto angelico, finché non si trasformerà in un uragano..." - ribadì Prudie, pensierosa, accarezzandole con fare materno i lunghi capelli rossi. "Sono felice, sai? Ci voleva proprio questa lezione, per il signor Ross?"

"Quale lezione?".

"Costringerlo a un faccia a faccia diretto con le conseguenze delle sue azioni. Farlo assistere al parto è stata un'idea grandiosa e una perfetta vendetta!".

Demelza rise. "Mica è stato per scelta!".

Prudie le strizzò l'occhio. "L'importante è il risultato! E tu, bestiolina bionda? Batti la fiacca?" - chiese poi, rivolta a Demian. "Mollala tua madre e il suo letto e scendi a dare una mano con gli altri".

Demian le fece una pernacchia e Prudie rispose facendogli la sua migliore faccia brutta. "Bestiolina, ti ritrovi il culetto rosso entro sera, se prosegui così". Sospirò, riavvicinandosi alla porta mentre sbiascicava che Demelza era troppo buona e il piccoletto troppo furbo. "Salirà anche l'angelo del focolare, a vedere la piccola, ti avverto ragazza. Lei si farà fregare dalla creaturina, scoppierà a piangere dall'emozione...".

L'angelo del focolare... Demelza ridacchiò, pensando che quel nomignolo Prudie lo aveva affibiato alla perfetta signora Gimlett, sempre gentile, discreta e sensibile. "Prudie...".

"Ohhhhh, lei è ingenua, si farà fregare dalla visione di quel fagottino! Non è come Prudie che fiuta i guai a distanza. Ti inonderà la stanza di lacrime, ti avverto ragazza!".

Demelza e Demian risero. E Prudie, ciabattando grossolanamente, scese la scale per andare a lavorare. C'era la cena della Vigilia di Natale da preparare e mancavano solo poche ore...

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Capitolo 82
*** Capitolo ottantadue ***


I Gimlett e Prudie, con l'aiuto dei bambini e di Ross, erano riusciti a portare a termine un autentico miracolo e in poche ore avevano preparato un buffet abbastanza ricco per essere rappresentativo del Natale. Focaccine, una torta salata ripiena di patate e carne, salsicce, biscotti di pastafrolla, delle buone bottiglie di porto e del budino al cioccolato. Forse non il banchetto sontuoso che si erano prefissati prima che Isabella-Rose scompigliasse i loro piani e di certo nulla che potesse essere paragonato al ricco banchetto londinese di un anno prima, ma i festoni alle finestre e l'albero addobbato in salotto, accanto al camino acceso, facevano comunque Natale. Un Natale speciale, intimo, composto da persone che arrivavano da strade e passati diversi e che per caso e con tanta cocciutaggine, erano riusciti a diventare una grande famiglia.

Demelza aveva riposato quanto più possibile tutto il giorno, in camera, nel letto assieme alla sua bimba più piccola, svegliata ogni tanto dai rumori che provenivano dal piano di sotto, dalle risate dei bimbi, dalle loro liti, dai loro canti e dalle sgridate di Prudie che cercava di mantenere l'ordine. Avrebbe voluto scendere anche lei a dare una mano come sempre, ma sapeva anche che aveva davvero bisogno di riposo e che se voleva essere presentabile e abbastanza in forze per la cena, doveva stare a letto quanto più possibile. In fondo i Gimlett, Prudie e Ross potevano farcela e la cena sarebbe stata solo per pochi intimi: loro, i loro fidati servi, Falmouth, Alix, Dwight, Caroline e le loro bambine e Zachy. Poche persone, tanti bambini e il piacere di stare insieme in quel loro primo Natale.

Fuori continuava a nevicare, anche se più dolcemente, e i cani ne avevano approfittato per correre e giocare all'aperto tutto il pomeriggio. Tutti eccetto Garrick, ormai anziano e decisamente più affezionato al suo cuscino, al caldo e alla sua presenza. Da quando era nata Isabella-Rose non l'aveva mai lasciata un attimo, rimandendo a sonnecchiare nel suo cesto a fianco del letto. Anche Demian era rimasto per un pò ma poi, sentite le urla e le risate dei fratelli, aveva optato per raggiungerli e giocare con loro. Demelza lo aveva lasciato fare, guardandolo mentre usciva dalla porta con un moto d'orgoglio unito a tristezza: stava crescendo e pian piano avrebbe preso la sua strada, preso le distanze e sarebbe diventato grande e autonomo. E forse non l'avrebbe più cercata così spesso e di certo non l'avrebbe più ritenuta così indispensabile. Era normale che accadesse, era giusto così ma faceva male lo stesso, anche se per lei la cosa più importante era che non perdesse quel suo candore e quella sua fantasia che gli facevano scorgere ovunque magie e mondi fatati e che da grande rimanesse quel buono, dolce e gentile bambino che era adesso.

La piccola, fra le coperte, si mosse e prese a succhiarsi la manina stretta a pugno. E Demelza si fermò ad osservarla, pensando a quanto fosse bello essere madre, pensando che non aveva mai voluto altro che questo, essere mamma, a Nampara, mamma dei figli di Ross. Non voleva vestiti di velluto, potere o gioielli, voleva solo l'amore del suo uomo e i suoi figli vicini. Non rimpiangeva nulla di quanto vissuto, di cosa aveva fatto e di chi aveva amato, era tutto parte di un grande percorso che doveva portarla fin lì, in quella Vigilia di Natale, nel suo letto, con accanto la figlia più miracolosa che potesse esistere. E per questo doveva ringraziare Ross per averci creduto, se stessa per avergli permesso di farlo ed insistere, i suoi bambini che erano stati la sua forza, i Boscawen che le avevano dato una famiglia e Hugh, che col suo amore l'aveva accompagnata e sorretta nel periodo più buio della sua vita. Gli aveva lasciato denaro, ricchezza, una casa e una famiglia ma soprattutto i ricordi belli e puliti di un giovane che viveva l'amore in modo pulito e romantico, disisteressato e autentico e che era espresso in tutte quelle poesie che lei gelosamente avrebbe conservato per sempre. E due bambini... Già, la sua vita non sarebbe stata così ricca senza i suoi gemellini e ora, anche senza Valentine... La loro famiglia era perfetta così, grande, omogenea, felice e confusionaria. Sarebbero tornati i giorni londinesi con la loro eleganza, sarebbe tornata ad essere l'altera ed irraggiungibile Lady Boscawen ma anche se vestita di pizzi e ornata di gioielli, dentro di se non avrebbe fatto altro che aspettare il momento del ritorno a casa, a rotolarsi su un tappeto coi suoi figli...

Allungò la mano, sfiorò quella della piccola e Isabella-Rose le strinse le dita con la sua manina minuscola ma paffuta. Si chinò, la baciò e poi chiuse gli occhi, in cerca di riposo e sicura di fare solo bei sogni.


...


I bambini stavano facendo un baccano assurdo, correndo qua e la con delle coperte e spostando sedie. C'era fracasso, un fracasso allegro di chi aspetta il Natale con la sua magia e i suoi doni.

I piccoli, nei giorni precedenti, avevano adornato Nampara con coccarde, addobbando un abete nel salone principale, appendendo fiocchi rossi alle finestre e riempiendo ogni stanza di candele rosse e dorate. Sembrava una casa magica proprio come quella di Londra di un anno prima e soprattutto Valentine, che in quel luogo non aveva respirato che silenzi e solitudine, sembrava il più euforico. Era un bambino, finalmente poteva comportarsi come un bambino e ridere come un bambino e questo riempiva Ross di gioia perché attraverso il suo buon umore, si sentiva in pace con se stesso. Era nato nel peggiore dei modi per un perverso gioco del destino che aveva voluto punire lui ed Elizabeth, ma questo non era importante, lui c'era e finalmente, grazie a Demelza, Ross era riuscito a perdonare se stesso per le sue tante mancanze verso la donna che amava, i suoi figli e lui. E questo lo faceva sentire in pace anche verso Elizabeth perché essere padre di Valentine e avergli dato una famiglia felice era tutto quello che poteva davvero fare per alleviare l'oscurità di quella notte che lo aveva generato. Questo era il modo giusto di saldare il debito con lei, non un matrimonio imposto, non mille folli recriminazioni... Ma essere uomo, prendersi le proprie responsabilità e saper amare di nuovo, anche quando era stato difficile farlo, nel caso di Valentine. Morendo, lei gli aveva chiesto di amare quel bambino e lo stava facendo, senza riserve. Ora lui si sentiva in pace, con se stesso, con Elizabeth e con la sua coscienza...

Qualcuno bussò alla porta e John Gimlett andò ad aprire. E dopo pochi istanti, Jeremy corse a chiamarlo. "Papà, sono arrivati!".

Ross gli poggiò la mano sulla spalla e con lui andò a dare il benvenuto agli ospiti. Erano le sei del pomeriggio ed erano arrivati tutti perfettamente puntuali per iniziare coi festeggiamenti che avrebbero portato alla mezzanotte di Natale.

Alexandra e Falmouth, accompagnati da due servi che portavano un'oca ripiena e altre pietanze cucinate in casa durante la giornata, entrarono, seguiti dagli Enys con le loro bambine e da Zachy.

Il faccino di Daisy spuntò dalla porta del salotto. "Zio, nonna! E i regali dove sono? Avete portato solo l'oca?".

"I regali li porta Gesù Bambino" – le rispose Alix, andando verso di lei per salutarla.

La bimba scosse la testa. "No, non solo! Quelli vengono portati ai bimbi bravi ma siccome non sono sicura di essere stata bravissima, a quel punto i nonni e gli zii devono fare fare i sostituti. Funziona così!".

Ross sospirò, andando a salvare la situazione prima che Falmouth esplodesse e Caroline si strozzasse dalle risate. "Niente ragali fino a mezzanotte! E lo sai, CHE FUNZIONA COSI'!".

Daisy sbuffò e corse via, seguita da Demian e gli altri bimbi, più grandi e composti, salutarono i nuovi arrivati.

"Lei come sta?" - chiese Caroline parlando di Demelza, con la piccola Melliora fra le braccia.

"Sta riposando, non posso garantire che riuscirà a stare con noi tutta la sera e finché sta a letto, preferirei non andare a svegliarla".

Prudie prese le mantelle e poi con Jane, aiutata da Clowance, finì di imbandire la tavola mentre i gemelli e Valentine giocavano e correvano ovunque, facendo baccano e facendo sospirare Falmouth.

"E allora, Poldark? A quando il rientro a Londra? Posso sperare di vedervi fra i banchi di Westminster per le sessioni di primavera? Ho grandi progetti, per me e per voi. E siccome siamo ormai sulla stessa barca, dopo il matrimonio, do per scontato il vostro voto alle mie proposte...".

Ross, con accanto Dwight che sorseggiava un bicchiere di vino, alzò gli occhi al cielo, pensando che si era cacciato davvero in un grosso guaio e che i pranzi e le cene a Londra, coi Boscawen, sarebbero stati accompagnati da lunghe disquisizioni e discussioni. "Vedremo, vedremo... Comunque partiremo appena la piccola sarà in grado di viaggiare, come promesso".

"Ottimo, ottimo..." - rispose Falmouth.

Seduta sul divano con accanto Caroline, Alix batté le mani. "Io e Demelza dobbiamo ristrutturare il vostro cottage., quello in giardino che avete scelto come vostro nido. Abbiamo sviluppato idee grandiose in questi mesi, quì!".

Falmouth poggiò famigliarmente una mano sul braccio di Ross. "Volevate una casetta intima? Ne uscirà una piccola reggia, se ci mette le mani mia sorella".

"Correrò il rischio" – rispose Ross, prendendo al volo Valentine prima che inciampasse e finisse la sua corsa forsennata con la testa nella credenza. "Attento!" - lo rimbeccò.

"Grazie papà!" - rispose il piccolo tutto trafelato, prima di correre di nuovo via a velocità folle, inseguito da Tannen e dagli altri cani che a loro volta erano inseguiti dalla piccola Sophie Enys che, con i suoi gridolini e sui suoi primi passi malfermi, dimostrava di divertirsi molto.

Falmouth lo guardò storto. "E' sempre così? Lo ricordavo calmo e questo lo rendeva molto gradito ai miei occhi...".

"E' in gran forma, come non è mai stato in passato! E' Natale, Valentine e gli altri bambini sono felici e hanno appena avuto una sorellina! Hanno mille ottime ragioni per essere eccitati!".

Falmouth sorrise. "Com'è la mia nuova nipote acquisita?".

Ross, gonfio d'orgoglio, sorseggiò un altro bicchiere di vino. "Bella, fiera, con lo sguardo intelligente e vispo e decisamente testarda. Strilla, se non si fa ciò che vuole lei, strilla come una che vuole mettere il mondo ai suoi piedi".

"Ottima cosa, ci vuole tempra nella vita" – rispose Falmouth mentre Dwight e Zachy ridevano sotto i baffi.

Zachy alzò il calice per un brindisi. "Questa terra ha visto nascere, lottare e prosperare generazioni di Poldark testardi. A Isabella-Rose, che abbia una vita lunga e felice".

"Il primo brindisi della propria vita la notte di Natale, è qualcosa di speciale. Grazie Zachy".

Si voltarono tutti e Demelza, lentamente, scese le scale con la piccola fra le braccia. Aveva fatto una treccia per tenere a bada i capelli e indossava un semplice abito rosso, uno scialle bianco sulle spalle e nella sua semplicità, era bellissima e radiosa.

"Amore mio!". Preoccupato, Ross corse ad aiutarla. "Ti sei alzata, alla fine? Sei sicura di farcela?".

Demelza annuì, sorrise e guardò i suoi ospiti, stringendosi a Ross con la piccolina fra le braccia. "E' Natale e non avrei mai mancato a questa festa per nessun motivo. E nemmeno lei" – disse, osservando la neonata.

"Mammaaaaa!!!".

I bambini le corsero vicino, contenti di vederla. E lo stessero fecero Caroline e Alix.

"Tesoro, stai bene?" - le chiese la suocera, abbracciandola e fermandosi a rimirare la piccola. "Mi sono così spaventata stamattina, quando Ross è arrivato a prendere i bambini e ci ha raccontato cosa era accaduto. Ma ora vedo che stai bene e che lei è splendida".

Demelza accarezzò il braccio di quella donna che considerava come una madre ormai. "Certo, ho solo avuto una figlia, non sono malata come sembra pensare Ross. Io sto bene e anche la piccola".

Dwight le si avvicinò, baciandola sulla guancia. "Ma ti consiglio comunque riposo".

"Agli ordini, starò buona sul divano a parlare di latte e pannolini con Caroline e Alix, siamo tutte e tre piuttosto esperte in materia".

Ross le sorrise e poi la accompagnò al divano, aiutandola a sedersi. Era felice che fosse lì, che fosse accanto a lui e la sua spalla, come sempre. Ma non riusciva a non smettere di sentirsi ansioso per la sua salute. "Stasera ti farai servire e non muoverai un dito, capito donna?" - ordinò, scherzosamente.

"Capito!" - rispose lei, ridendo, mentre i bimbi la circondavano e Demian faceva la linguaccia alla piccola intrusa.

"Demian!" - lo sgridò la nonna.

"Anche questa quì tira fuori la lingua! E mi tira i capelli e non sa nemmeno fare la pipì da sola, mamma deve metterle il pannolino! Deve andare a dormire nella stalla, tutti quelli che nascono a Natale devono dormire lì".

Demelza e Alix si guardarono in viso, ridacchiando. "Abbiamo un bambino geloso...".

"Non sono geloso, sono più bello e bravo di lei e quindi non posso essere geloso".

Ross, mentre tutti attorno chiacchieravano e brindavano, accarezzò i lunghi capelli biondi del piccolo. "Forse un pò è geloso ma è anche molto generoso e volenteroso. Ora che la mamma e la nonna sono quì, che ne dici di dar loro il regalo che hai preparato?".

"Mi hai fatto un regalo, Demian?" - chiese Demelza, con occhi lucenti di orgoglio.

"Sì, mi ha aiutato il papà".

Ross si avvicinò alla credenza, prendendo due piccole buste colorate che porse a Demelza e a Lady Alexandra. "Ci abbiamo lavorato un pò, ma ci teneva a fare questi bigliettini per voi. Dice che era un'abitudine anche del suo primo padre, Hugh".

Demelza lo guardò a bocca aperta, come Alix del resto. Non c'era traccia in Ross né di imbarazzo né di gelosia ma la volontà di tener vivo in Demian il ricordo del padre, di non soffocarlo e di convivere con la sua figura tanto importante per molte persone presenti a quella festa. Era giusto che Demian e gli altri non lo dimenticassero e Ross ormai lo aveva capito ed accettato.

Alix prese Demian sulle gambe, aprendo il bigliettino, mentre Ross, dopo una stretta e un bacio alla mano di Demelza, si allontanò per tornare a parlare con gli altri uomini e lasciarle sole con i loro ricordi e il loro bambino.

"Tesoro...". Gli occhi di Alix divennero lucidi mentre abbracciava il nipotino. Nel bigliettino c'era un disegno, una specie di ritratto che Demian aveva fatto di lei e nell'angolo del foglio c'era scritto 'Buon Natale, nonna'. Una scrittura infantile, forse stentata ma con una nota di eleganza che nessun altro dei bambini, nemmeno Jeremy che era il più grande, possedeva. La mano di un futuro artista, la mano di qualcuno che è nato per tenere in mano una penna...

Anche Demelza aprì la sua busta, trovando un suo ritratto e la stessa scritta 'Buon Natale, mamma'. Stesso tratto elegante e pulito, stesso disegno con tratti infantili ma già ben definiti, una cura per i dettagli inusuale per un bambino tanto piccolo e nell'angolo sotto, anche un abbozzo di firma. E quel disegno, quel tipo di tratto, quella scelta di colori e lo stile delle lettere... Demelza aveva già visto qualcosa di simile, lo riconosceva e, anche se il tratto era ancora infantile, in camera aveva qualcosa di molto simile a quello che Demian sarebbe stato di lì a qualche anno. "Amore, lo hai fatto tu? Da solo?".

"Il disegno sì! Però gli auguri, no, mi ha aiutato il papà! Mi ha insegnato come scriverli".

Incuriosito, mentre girovagava in giro durante i suoi giochi, Jeremy si avvicinò per sbirciare. "Forte! Come papà-Hugh aveva fatto con me quando avevo cinque anni! Ti ricordi, mamma? Anche lui mi aveva aiutato a scrivere un bigliettino per te!".

"Sì, lo ricordo..." - sussurrò Demelza in un soffio, emozionata, mentre Alix si asciugava le lacrime e Jeremy correva via, chiamato da Valentine e Clowance.

"Ti piace mamma? E a te, nonna?" - chiese Demian, incerto nel vedere le sue lacrime.

"Certo, amore" – le sussurrò Alix, stringendolo a se.

"E allora perché piangi?".

"Perché i grandi a volte piangono se sono felici".

"I grandi sono strani!" - ribatté il bimbo.

Demelza, col braccio che Isabella-Rose aveva lasciato libero, lo prese fra le braccia, stringendolo a se. "E' un regalo bellissimo, piccolo principe. E la nonna si è commossa perché il tuo modo di scrivere e disegnare ci ricorda tanto il tuo papà Hugh. Sei il suo erede e lui vive in te e in quello che fai, soprattutto quando scrivi e disegni. E' a questa festa, insieme a noi, tramite te".

Demian divenne rosso dall'emozione. "Ohhh, allora sono importante".

"Certo, amore...".

"Più di lei?" - rispose il piccolo, indicando la sorellina neonata.

Demelza lo baciò, ridendo sotto i baffi. "Sicuramente sai fare molte più cose, avrai tanto da insegnarle".

Contento della risposta e dell'effetto del suo regalo, Demian corse via a giocare con gli altri bambini.

Rimaste sole, Demelza strinse la mano di Alix che ancora non smetteva di asciugarsi gli occhi col fazzoletto. "Avrei voluto che lui li conoscesse meglio, avrebbe adorato l'indipendenza di Daisy e il talento di Demian. Avrei voluto che potesse sentire le loro voci che lo chiamavano 'papà', avrei voluto tanto e tanto altro per lui...".

Alix annuì. "Anche io. Ma come hai detto prima, lui vive. Attraverso i suoi figli e te, che li hai messi al mondo. Se non ci fossi stata, Hugh sarebbe semplicemente morto. Ma adesso esiste, esisterà sempre e lo ritroveremo nei disegni di Demian e nel sorriso biricchino di Daisy. Fa male sentirli chiamare 'papà' un altro uomo ma vederli felici, vedere che qualcuno li ama e li protegge e ne è padre a tutti gli effetti, è quanto di meglio potessi sperare per loro. E per te, che quest'uomo lo hai sempre rimpianto e mai dimenticato. Avete sofferto molto ma avete ricostruito una famiglia meravigliosa e io sono felice di poterne fare parte. So che il tuo cuore è quì e so che tornare a Londra ti peserà, ma spero che continuerai a considerare Londra casa tua come lo è stata per anni".

Demelza le sorrise, dolcemente. "Londra è la mia casa, al pari di Nampara. Il mio cuore è quì e lì. Isabella-Rose è nata in Cornovaglia ma io e Ross abbiamo deciso di farla battezzare a Londra. Un pò quì, un pò la, è un compromesso e siamo felici di aver scelto così".

"Oh mia cara...".

In pace con se stessa, Demelza guardò di nuovo il suo ritratto, orgogliosa di suo figlio e colpita nel vedere, forse per la prima volta, quanto stesse crescendo in fretta e diventando autonomo, capace e in grado di fare i primi passi in quelle che erano le sue passioni, da solo. Strinse la mano ad Alix e poi si alzò, andando verso Ross. Si avvicinò, lo abbracciò e lui le mise un braccio attorno alle spalle.

"Ti è piaciuto il regalo?".

"Sì. E Demian mi ha detto che che lo hai aiutato a scrivere, lui non lo sa ancora fare... E scrive quasi meglio di te, sai?".

Ross e Falmouth risero. "Non che ci voglia molto, ma il bimbo ha comunque talento".

Con la coda dell'occhio, Ross notò Daisy che passava, tenendo per mano la piccola Sophie. "Abbiamo provato anche a coinvolgere Daisy, ma lei a differenza del fratello non ama proprio né stare seduta, né tenere dei pennarelli in mano.

Falmouth chiamò la nipotina. "Tu batti la fiacca? Non fai i regali alla mamma?".

Daisy, seria seria, si bloccò e picchiò il piedino per terra. "Io voglio fare la pirata, non scrivere bigliettini!".

Falmouth la fissò, pensieroso, poi un sorriso furbo comparve sul suo viso. "Lo sai che io ho molte navi che viaggiano per il mondo per portare a termine i miei affari e vendere la mia merce?".

"No, non lo so" – rispose la bambina, mentre Demelza e Ross lo guardavano senza capire dove volesse andare a parare.

Falmouth proseguì. "Ora quelle navi le guidano dei miei uomini di fiducia. Ma per quanto di fiducia, non sono come un nipote... Da grande potresti comandarle tu e andare in giro per il mondo per fare affari per la tua famiglia, ti va?".

"No!" - rispose Daisy. "Io voglio fare il pirata!".

Falmouth non indietreggiò, dimostrando che aveva in mente un piano già ben elaborato. "I pirati vogliono fare soldi, denaro, trovare oro! Anche io, non c'è molta differenza".

Daisy lo guardò e poi spalancò la bocca, stupita. "Zio... Ma allora sei un pirata anche tu?".

"E della peggior specie..." - borbottò Ross rivolto a Dwight, sotto voce.

Falmouth tossicchiò, allargandosi il colletto della manica. "In un certo senso...".

"E se guido le tue navi, posso mettere il fazzoletto nero in testa, col teschio?".

"Se lo vorrai... Vedi, prima parlavi di regali di Natale, no? Lo zio ti sta regalando un'intera flotta, basta che dici di sì!".

Daisy ci pensò su e poi, seria seria, gli si avvicinò e con fare trionfale allungò il braccio, stringendo formalmente la mano allo zio come aveva visto spesso fare gli adulti dopo aver siglato un accordo importante. "Va bene, affare fatto!". Era Natale e a cinque anni si era appena costruita una carriera. E decisamente contenta corse via, tornando ai suoi giochi con all'attivo un regalo di Natale che valeva diversi milioni di ghinee...

Ross e Demelza guardarono Falmouth, anche loro a bocca aperta. "Abbiamo capito bene?".

"Ovvio!".

"Eravate serio?" - chiese Ross, sicuro delle capacità di Daisy ma convinto che Falmouth avrebbe un giorno affidato tutto al maschietto, Demian.

Come intuendo le sue perplessità, Falmouth si affrettò a precisare. "Demian è come suo padre, un sognatore, un sensibile, un artista. Gente buona, per carità. Ma perfettamente inutile quando si tratta di affari. Daisy è un segugio, non conosce vergogna e ha la mia stessa faccia tosta. Se devo affidare a qualcuno i miei affari, chi meglio di lei potrebbe portarli a compimento? Potrebbe vendere ghiaccio al Polo Nord, se ce la mandassi, con quella faccia tosta e quel visino angelico. Sono un Boscawen e so fiutare da lontano gli affari, lei è una Boscawen ed è nata per questo e vuole navigare per mare. Facciamola contenta!".

Demelza prese un profondo respiro, consolandosi col pensiero che sarebbero dovuti passare molti anni prima che Daisy fosse abbastanza grande per partire per mare e che forse, nel frattempo, avrebbe potuto cambiare idea... Forse...

Ross, le cinse le spalle, accarezzando la manina di Isabella-Rose che si era svegliata. "Su, non parliamo di affari, stasera. E' Natale e si deve festeggiare".

"E' Natale e si deve festeggiare..." - rispose Demelza, con un sorriso. E festeggiarono...


...


Era passata ormai la mezzanotte e gli ospiti se n'erano andati da un bel pezzo. La casa era avvolta dal silenzio e dalla pace.

La festa era stata allegra, condita da grandi chiacchiere e mangiate, da risate e da piani per il futuro, i bambini avevano inscenato nel salotto una specie di presepe vivente coinvolgendo anche Isabella-Rose, sequestata da Clowance e messa fra lei e Jeremy ad interpretare Gesù Bambino. Daisy e Demian erano stati scelti per fare l'asinello e il bue e Valentine e Sophie Enys avevano interpretato i pastorelli e la scena era stata divertente e aveva fatto scaturire un sacco di risate fra i presenti, soprattutto quando i gemelli avevano tentato di imitare i versi degli animali che interpretavano.

Poi, dopo che gli ospiti se n'erano andati e tutto era stato sistemato dai Gimlett e da Prudie, Demelza e Ross si erano messi in salotto, illuminati solo dalla luce del camino, con tutti i bambini e i loro cani vicino. I piccoli avevano insistito per una fiaba di Natale da inventare e raccontarsi davanti al fuoco, come una nuova tradizione da ripetere poi ogni anno e alla fine erano finiti a chiedere ai genitori come si fossero conosciuti e Ross e Demelza avevano raccontato la loro storia, partendo da quella famosa fiera di Redruth di tanti anni prima...

Era stato bello, tutto condito da risate e domande anche buffe e alla fine erano rimasti davanti al camino senza andare a letto, avvolti dalle coperte, a dormicchiare su divani e tappeti.

Riscaldati da una calda coperta di lana bianca, Ross e Demelza osservavano dal divano i loro bambini addormentati, Clowance sul divanetto antistante, Demian, Valentine e Jeremy sul tappeto e Daisy che ancora non dormiva e girovagava per casa con legata in testa una fascia nera, da piratessa, che le avevano regalato quella sera Dwight e Caroline. Mai nessuna bimba era stata così felice per un fazzoletto come dono di Natale, pensarono ironicamente...

"Sono felice..." - sussurrò Demelza, rannicchiandosi contro il petto di Ross con la piccola Isabella-Rose perfettamente addormentata.

"Pure io".

Lei alzò il viso, a guardarlo negli occhi, come desiderosa di spiegarsi meglio. "Voglio dire... Sono felice di questo, di essere quì, con te e coi bambini, davanti al fuoco. Non ho mai voluto altro, solo questo. Tutto questo! E ho TUTTO! E certe volte ci penso, in questi giorni...".

Ross si accigliò. "A cosa?".

"Che nessuno ha mai davvero TUTTO quello che desidera. Io sì! E mi chiedo cosa abbia mai fatto di speciale per meritarlo".

Lo sguardo di Ross si riempì di dolcezza e tenerezza, era proprio da lei sottovalutarsi e non capire il suo grande valore e quanto fosse speciale. "Io credo che al mondo non esista nessuna persona che meriti TUTTO quanto lo meriti tu. Fai molto di speciale, lo fai ogni giorno, lo hai fatto sempre anche mentre passavi l'inferno. Non hai mai vacillato per il bene di chi amavi e sì, tu meriti TUTTO. E se il tuo tutto siamo noi, io sono felice!".

Gli occhi di Demelza si velarono di lacrime, era commossa da quelle parole e dal modo dolce in cui lui le aveva pronunciate. "Oh Ross...".

Lui le accarezzò il viso, baciandola sulle labbra. "Io sono meno perfetto, merito di non avere TUTTO e forse non merito nemmeno niente. Ma ho tutto, da te e tramite te, INSIEME a te e mi sento dannatamente e immeritatamente fortunato per questo" – concluse, baciandola sulle labbra. "Tu sei la donna migliore del mondo, paragonabile a nessun altra ai miei occhi. E io sono l'uomo decisamente più fortunato del mondo e ne sono consapevole".

"Davvero non cambieresti nulla?" - chiese Demelza. "Di ciò che è stato e siamo?". C'era una sorta di ritrosìa in quella domanda.

Capendo quanto lei alludesse al passato e a quanto entrambi avevano vissuto con altri, Ross si sentì di tranquillizzarla. "Nulla, ogni cosa amore mio, ci ha portati quì, al nostro TUTTO. A questo divano, a questo camino, a questa bambina appena nata e a tutti quelli che abbiamo attorno, alla cena di stasera e agli ospiti che abbiamo avuto alla nostra tavola. Non cambierei nulla... Non voglio nulla di diverso. E tu?".

Demelza sorrise, baciandolo ancora sulle labbra. "Nemmeno io. Ho tutto, siamo TUTTO. E non abbiamo altro da chiedere, non ho altro da chiedere... Io sono quì, tu sei quì e ci sono i bambini. Respiriamo, viviamo, amiamo e non ci serve altro. Non c'è altro da chiedere, nessun passato da recriminare e un futuro da costruire. Ma domani... Oggi, adesso, siamo quì e siamo insieme. Solo questo conta...".

Ross annuì, completamente d'accordo, catturato dalla sua voce e dal suo volto tanto vicino. "Sì, solo questo conta" – disse, perso nei suoi occhi.

"Questo e i pirati!" - sussurrò la vocina di Daisy, che faceva capolino dalle scale col suo fazzoletto nero in testa, simbolo di un futuro che avrebbero costruito tutti insieme, mattone dopo mattone.

Ross e Demelza sorrisero e poi, allargando le braccia, l'accolsero con loro sul divano, in un caldo abbraccio.

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Capitolo 83
*** Epilogo ***


E siamo arrivati all'epilogo di questa lunghissima storia, un epilogo che però lascia la porta aperta a un seguito, che scriverò nel futuro perché... non tutto è ancora sistemato... Ma per ora ho in mente una nuova fanfiction, nuova di zecca, sui Romelza. E quindi per ora, dopo più di 80 capitoli, questa trama riposerà per un pò in attesa che la mia mente elabori ben bene le avventure future di questa grande famiglia allargata creata dai Romelza.

Grazie a tutti quelli che mi hanno seguita e incitata con le loro bellissime recensioni, a chi ha seguito in silenzio, alla mia pagina facebook su Poldark e davvero, a tutti quelli che hanno fatto parte di questa grande avventura fin dall'inizio, quando scrivevo le bozze delle prime scene sparpagliate che mi venivano in mente. Grazie, di cuore, vivere questa avventura con voi è stato fantastico!


Ross era partito per Londra a metà febbraio, costretto dai lavori del Parlamento a cui si era sottratto fin troppo a lungo.

Aveva lasciato Nampara a malincuore, benché Demelza fosse in forma e Isabella-Rose sana e forte, era stato difficile lo stesso partire, nonostante le rassicurazioni di sua moglie e la consapevolezza che la lontananza sarebbe stata breve. Demelza aveva promesso che, appena il tempo fosse stato clemente e meno freddo, lo avrebbe raggiunto subito e di certo non si sarebbe trattenuta in Cornovaglia oltre l'inizio di marzo. Lei lo aveva promesso e lui sapeva che avrebbe mantenuto la parola data, anche se lasciare per così tanti giorni la sua figlia più piccola lo riempiva di sensi di colpa perché non voleva ripetere gli errori fatti in passato con gli altri suoi figli e anche se la ragione gli suggeriva che quello sarebbe stato un caso unico, si sentiva uno schifo lo stesso.

Ross però per fortuna era partito in buona compagnia: Jeremy e Clowance avevano insistito per tornare con lui nella capitale, desiderosi di stare con il loro padre che non avevano visto per lunghi anni e anche bisognosi di ritrovare quella che consideravano la loro 'altra' casa, coi suoi ricordi, coi loro giochi, con le loro abitudini. E soprattutto vicina a tutti coloro che erano i loro amici del cuore, di cui ovviamente sentivano la mancanza. Jeremy non vedeva l'ora di rivedere Gustav e Clowance di riabbracciare Catherine. Demelza aveva accettato che partissero e anzi, era fiera e sollevata dal fatto che volessero stare con il loro padre dopo gli inizi tutt'altro che facili fra loro e anche Ross era stato felice della cosa. Anche Valentine era voluto partire, un pò perché ancora non così in confidenza con Demelza da rimanere da solo con lei a lungo, un pò perché desideroso di giocare coi fratelli più grandi e i loro amici e anche questo era stato accordato. E infine aveva deciso di far parte del gruppetto anche Daisy, che da subito aveva avuto una forte affinità con Ross e non aveva voluto lasciare andar via il suo nuovo papà e maestro dell'arte della pirateria. Si sarebbero allenati a conquistare i sette mari nel parchetto dietro casa a Londra, probabilmente...

Demelza era rimasta a Nampara con Isabella-Rose e Demian che non aveva voluto lasciarla e anzi, aveva capito che avrebbe avuto la mamma quasi tutta per se visto che quattro dei suoi cinque fratelli sarebbero stati lontani e la piccola intrusa appena nata poteva essere relegata nella cesta e nella culla durante i suoi lunghi sonni... E con loro Prudie, che non era partita e le era rimasta accanto ad occuparsi dei due piccoli mentre i Gimlett, a Londra, avrebbero aiutato Ross con gli altri. Le due donne rimasero da sole coi bambini per quasi tre settimane, settimane in cui Demelza aveva tentato di riassaporare la sua vecchia vita di una volta ed era voluta tornare a vedere la miniera, aveva spiegato a Demian come funzionasse la faccenda del rame e aveva passato le notti nel lettone, con la figlia appena nata e l'altro figlio, a cui aveva riconcesso quell'onore in cambio della promessa che una volta raggiunti gli altri a Londra, sarebbe tornato a dormire in camera coi fratelli, nel suo letto.

Demian aveva promesso solennemente, con il tono serio di un piccolo ed impeccabile Boscawen e sebbene Demelza fosse titubante e abbastanza sicura che si sarebbe pentita di quella piccola concessione una volta giunti a Londra, lo aveva accontentato. E aveva accontentato se stessa perché indubbiamente, senza Ross, avere ancora il suo piccolo principe nel letto era per lei un autentico piacere e non poteva negarlo...

E così era stato, fino al cinque marzo. Poi era partita alla volta di Londra coi suoi bagagli, i suoi figli più piccoli, Prudie e Garrick, in un caldo giorno di sole di inizio primavera. Lasciare la Cornovaglia era difficile, era un pezzo del suo cuore ma ora si rendeva conto, mentre la carrozza viaggiava e sobbalzava sul selciato, di essere anche felice di tornare e che sì, Ross e Falmouth avevano ragione, era diventata una creatura complessa, da un lato semplice figlia di un minatore della Cornovaglia ma dall'altro la miglior Lady che i Boscawen potessero trovare. Sarebbe tornata a vestire abiti eleganti e a lavorare per il bene della famiglia e per quello di tutti coloro che poteva aiutare sfruttando la sua posizione. Era troppo che mancava e troppe persone a Londra agognavano la sua venuta e l'aiuto che negli anni non aveva mai negato a nessuno di quella capitale tanto bella quanto povera e disperata per i più che la abitavano. E poi... Suo marito e i bambini la aspettavano e soprattutto, c'era un evento a cui era attesa: il Battesimo di Isabella-Rose!


...


Il Battesimo si svolse nella grande Cattedrale di Westminster e le neonate battezzate furono tre: Isabella-Rose, Melliora e Demelza.

Erano stati i genitori 'ad aspettarsi' per festeggiare insieme quella giornata e anche se la madre di Margarita si era lamentata tutto il tempo del fatto che quella degenere di figlia, ancora un pò che aspettava, avrebbe battezzato la sua nipotina il giorno del suo matrimonio, la giornata si era rivelata piacevole e serena per genitori e bimbi, tutti riuniti nel grande giardino dei Boscawen a festeggiare insieme con brindisi e abbuffate. Complice la giornata serena e piuttosto calda, i bambini avevano giocato tutto il giorno in giardino e nel parco e Ross, guardandosi attorno, si accorse che in quel posto si sentiva a suo agio e che sì, si sentiva a casa e circondato dalla sua famiglia.

Era stato felice di riabbracciare Demelza quando era giunta a Londra e ancor più, con Clowance, di mostrarle come avevano iniziato a sistemare il loro cottage nel giardino che a breve sarebbe diventato il loro nido. In quelle settimane senza sua moglie, Falmouth gli aveva fatto preparare una stanza accanto a quelle dei bambini e mai aveva varcato la soglia di quella che era stata la camera di Demelza e Hugh per una questione di rispetto e perché si sentiva di dover rispettare quel lato della vita di Demelza che apparteneva solo a lei.

Con la coda dell'occhio guardò i suoi figli assieme ai loro amici che, tutti intenti in chissà quale discussione, se ne stavano impalati davanti alle culle delle bimbe.

Incuriosito dai loro discorsi, si avvicinò, lasciando il tavolo del banchetto e Falmouth, intento a fare proclami politici ai suoi ospiti.

Gustav, tutto assorto, osservava Isabella-Rose che se la dormiva della grossa nella culla dopo che, per tutta la cerimonia, non aveva fatto altro che strillare stizzita per quel trambusto che si muoveva attorno a lei. "Mh, sai Jeremy, ho capito che con Clowance non ho speranze! Posso provare a fidanzarmi con Isabella-Rose, non trovi?".

Ross per poco, a quelle parole non si strozzò col vino che stava ingurgitando mentre invece Jeremy, più serafico, lo guardò storto. "E' una femmina Poldark, come Clowance... Rassegnati!".

Gustav sbuffò sconsolato e Catherine, di fianco a loro con Clowance, non sembrava meno triste di lui. "E io? Che dovrei dire, io? Jeremy non mi vuole e se non mi sposa, non posso diventare la nuova sorella di Clowance! È una disgrazia, ma magari potrei sposare Demian! In fondo è bello... e pure un pò tanto ricco!".

Jeremy e Clowance si guardarono in faccia e poi scoppiarono a ridere. "Scordatelo, Demian è di mamma, sposerebbe solo lei!".

La piccola si imbronciò. "Che disgrazia essere già destinata a soli otto anni a rimanere zitella a vita!".

Jeremy ci pensò su e con la sua mirabile faccia tosta che tirava fuori nei momenti che più gli convenivano, si lanciò in un gesto generoso verso il suo nuovo fratello minore, silenzioso accanto a loro fino a quel momento. "C'è Valentine! Potresti sposare lui!".

Ma anche Valentine parve titubante. "No, io voglio sposare Emily Basset! Non posso sposare due femmine, non credo che si possa fare! Devo chiedere a papà, se dice che posso va bene, meglio due mogli che nessuna, ma mi sa che la legge dice che ne puoi avere solo una!".

Davanti all'espressione sempre più disperata di Catherine e cercando di non scoppiare a ridere davanti a quelle grandi problematiche di vita che i piccoli stavano affrontando, Ross si allontanò nel parco, sedendosi su una panca di pietra mentre attorno a lui la festa proseguiva nel suo allegro baccano. Ripensò alla sua vita, a quanto affrontato e vissuto, alle tante strade che si stavano aprendo davanti a lui e ai suoi figli, ai suoi tanti figli che stavano crescendo e che doveva aiutare a prendere la propria strada. Figli diversissimi, di indole e carattere, ma di cui andava fiero.

Ripensò ai primi giorni a Londra da solo coi bambini e a quanto vissuto con Clowance che, una sera, gli aveva confessato di essere gelosa che tutti lo avessero avuto vicino al loro Battesimo a parte lei e allora, di nascosto, in un segreto solo loro, erano andati dal Vicario a farsi fare una benedizione speciale solo per lei e lui. Entrambi ne avevano bisogno e Clowance aveva ragione, era sempre stato presente a tutti i Battesimi eccetto che al suo... E forse questo non riparava interamente lo strappo ma di certo entrambi avrebbero ricordato con emozione quella piccola benedizione solo per loro, quel piccolo segreto, quel momento di intimità che si erano ritagliati e avevano voluto con tutte le loro forze.

"Sfuggi ai doveri? O alla nobiltà?" - chiese improvvisamente una voce alle sue spalle.

Ross si voltò e si trovò alle spalle Demelza, vestita con uno splendido ed elegante abito verde, con in braccio la piccola Isabella-Rose che si era appena svegliata.

La prese per mano, facendola sedere accanto a lui. "A entrambe le cose...".

Demelza rise. "Amore mio, in fondo nei mesi scorsi hai scoperto che non è poi così male, no? Ti ricordi quando, da 'fidanzati', siamo andati al circolo di tiro con l'arco con Margarita ed Edward? Allora avevi scoperto che questi nobili amici non sono così mostruosi...".

Ross, mascherando un sorriso mentre prendeva Isabella-Rose fra le braccia, fece spallucce. "Amore mio, se lo ammettessi pubblicamente troppo spesso, perderei la mia aurea e la mia fama da orso".

"Quindi fingerai di lamentarti e ti sforzerai sempre di trovare un motivo per farlo?".

"Oh, non credere che farò fatica a trovarne, mia cara! Questo è un mondo di squali e di truffaldini interessati solo al loro tornaconto".

Demelza lanciò un occhio al parco dove in solitaria, Daisy giocava fra gli alberi. "La tua cara, piccola prediletta Daisy vuole diventare una piratessa! In nome dei Boscawen! Eppure non ti lamenti ma anzi, la stai aiutando in questa folle idea di Falmouth che la farà diventare ciò che tu ora combatti. E abbiamo la casa piena di corde legate nei modi più strani...".

Ross ridacchiò, ripensando all'altra cosa fatta mentre Demelza era ancora in Cornovaglia. "Un bravo pirata deve sapere fare i nodi e quando Daisy l'ha scoperto, mi ha costretto a comprare tutte le corde e le funi di un negozietto sul Tamigi. Quell'uomo, vista la cifra spesa, ci ha steso una specie di tappeto rosso quando ce ne siamo andati. E' bello rendere felici le persone ed è bello rendere felice Daisy. Sarà una navigante fantastica, i pirati stessi le stenderanno un tappeto al suo passaggio, dopo che lei li avrà derubati di tutti i loro tesori. E no, lei NON sarà mai come coloro che io combatto!".

Demelza lo guardò accigliata. "Navigante? Sarà una tiranna!".

Ross la guardò negli occhi, divertito. "Una tiranna con un meraviglioso faccino d'angelo e un carisma inarrivabile. Il mondo dovrebbe essere pieno di tiranni così".

Demelza fece per rispondergli quando fu interrotta dalla vocina ecciatata di Valentine che li chiamava.

"Papà, guarda chi c'è!".

Entrambi si voltarono e Ross, appena vide il nuovo arrivato, impallidì. Demelza invece ci mise un attimo a mettere a fuoco la figura del giovane ragazzo appena giunto, uno sconosciuto sulle prime, ma poi... "Ross, quel ragazzo... E' Jeoffrey Charles?".

Alzandosi lentamente dalla panca, Ross annuì stupito. Di tutti quelli che si aspettava di vedere, di certo non credeva che lui... che lui... "Sì, è Geoffrey Charles". Era stupito, strabiliato di vederlo. Dalla morte di Elizabeth il ragazzo aveva rifiutato ogni contatto con lui che non fosse strettamente necessario ed aveva voluto rimanere a Trenwith con zia Agatha, finché era stata viva, e poi aveva chiesto ed ottenuto di andare in un collegio militare. E da allora erano state poche le volte in cui era tornato a casa. Valentine lo adorava, lo aveva sempre guardato con l'ammirazione che si da alle cose viste poco, da lontano e che paiono perfette e inarrivabili. Un pò come lui, un tempo, aveva guardato ad Elizabeth... Dolorosi ricordi si affacciarono alla sua mente ma decise di scacciarli, non oggi, non nel giorno del Battesimo di sua figlia! "Jeoffrey Charles..." - disse al ragazzo, ormai diciottenne e più alto di lui, nella sua uniforme militare rossa.

Demelza andò incontro al ragazzo con lui, incredula. Ross non le aveva raccontato molto né di quanto accaduto con Elizabeth dopo la sua partenza, né del perché i rapporti con il nipote si fossero deteriorati così tanto. Guardando quel ragazzo si rese conto del tempo che era passato: lo ricordava bambino, dolce e timido, ed ora aveva davanti praticamente un giovane ed affascinante uomo biondo che tanto ricordava suo padre Francis nelle movenze e nell'aspetto. Aveva sempre voluto bene a quel bambino, nonostante tutto ciò che aveva passato grazie ad Elizabeth ai suoi occhi suo figlio era sempre stato altro e mai aveva avuto pensieri negativi su di lui. Non sapeva perché fosse lì ma non lo avrebbe fatto sentire fuori posto o in imbarazzo. "Jeoffrey Charles... E' una sorpresa vederti quì".

Nel frattempo il giovane, circondato dai bambini incuriositi e stretto a Valentine che gli si era aggrappato alla gamba tutto contento ed eccitato, fece un breve inchino, togliendosi il cappello. "Zia Demelza... E' molto che non ci vediamo ed essendo in città e saputo che eri quì con... con la tua famiglia...".

Si bloccò, impacciato, e Demelza gli andò in aiuto. "Hai fatto bene a passare e spero che il nostro maggiordomo non ti abbia fatto problemi ad entrare".

"Gli ho detto che ero un parente di Valentine" – rispose lui, omettendo Ross dal discorso.

Demelza se ne accorse, così come si accorse dell'atmosfera che stava diventando decisamente frizzante. "Vuoi sederti a tavola con noi? Dobbiamo tagliare la torta per festeggiare le bambine e potremo approfittarne per chiacchierare un pò".

"N... No, grazie! Volevo solo passare a dare un saluto a mio fratello, visto che ho scoperto che eravate a Londra e casualmente mi trovavo a passare di quì" – disse, accarezzando i ricciolini di Valentine.

"Vorrei che restassi".

La voce e la richiesta di Ross, rimasto in silenzio fino a quel momento, fece sussultare tutti. Il suo tono era neutro e pareva abbastanza freddo sulle prime, ma Demelza scorse in lui solo tensione e rimorsi che non riusciva ad affrontare. Come Jeoffrey Charles del resto. "Anche io" – aggiunse quindi, in tono più gentile del marito.

Demian e Daisy, arrivata incuriosita a ricongiungersi con gli altri, lo guardarono come se stessero fissando un alieno. "Fratello? Di Valentine? Un altro fratello, mamma?".

Demelza sudò freddo e Ross pure. "E' difficile da spiegare, bambini".

Jeoffrey Charles sorrise ai gemelli. "No, è semplice. Sono fratello di Valentine".

Jeremy intervenne. "Ma Valentine è nostro fratello, ora! E tu? Non lo sei anche tu, allora?".

Jeoffrey Charles sorrise. "Jeremy, ti ricordavo piccolissimo, sei cresciuto molto! Mi fa piacere rivederti e per rispondere alla tua domanda, credo che tu debba considerarmi un cugino".

"Oh..." - rispose il ragazzino, confuso.

Daisy si avvicinò a Jeoffrey Charles. "Sei un soldato?".

"Sì".

"Giri tutto il mondo?".

"Giro abbastanza".

"Hai visto gli orsi?".

"No, non mi pare di aver avuto l'onore".

"E i pirati? Sei amico dei pirati?".

Jeoffrey Charles la guardò storto. "No, ma nel caso sono pronto a combatterli".

Daisy si imbronciò. "Nooo, i pirati sono i migliori! Non devi combatterli".

"I pirati sono briganti!" - insistette lui.

"I pirati sono ricchi! Tu sei ricco?".

"No".

"Vedi, è perché non sei loro amico".

"Tu hai le idee poco chiare sulla vita, piccoletta" – rispose lui, a tono.

Daisy picchiò il piedino e poi, con le mani sui fianchi, si preparò alla sua predica. "Sei un soldato, sei grande, c'hai il muso lungo, sei povero, non hai visto mai nemmeno un orso e non capisci niente di pirati! Che vita inutile che hai!".

"DAISY!!!" - la sgridò Demelza.

Jeremy e Clowance ridacchiarono e Ross si oscurò. "E' una bambina molto diretta e senza filtri, dice sempre ciò che pensa".

Jeoffrey Charles gli rispose con un sorriso freddo e sprezzante. "Ciò che serviva a te! Spero sia diretta allo stesso modo con chi lo merita, zio...".

"Jeoffrey Charles..." - intervenne Demelza, vedendo Ross gelato su due piedi e capendo che era meglio cambiare discorso. "Siamo una famiglia, vorremmo – e so che lo vuole anche Ross – che ne facessi parte. Il passato non si cambia ma il futuro lo si può costruire insieme. E la nostra casa è la tua casa".

Jeoffrey Charles le sorrise in modo più gentile, le si avvicinò e le baciò la mano, dopo averla presa nelle sue. "Zia Demelza, ho dei bellissimi ricordi di te e mi fa piacere rivederti e vedere che stai bene. Sono passato solo per salutare Valentine e vedere se tutto quello che si racconta in giro era vero. Tutto quì. Ti ringrazio dell'invito ma devo andare, non me la sento né di parlare di passato, né di affrontare il futuro. Buon proseguimento a tutti voi, che la vita sorrida sempre a queste bambine battezzate oggi".

"No, resta un pò" – insistette Valentine.

Jeoffrey Charles gli si inginocchiò davanti. "Fa il bravo, fratellino. Verrò ancora a trovarti, te lo giuro".

"Va bene".

Ross si avvicinò ai due, serio. "Lo farai davvero?".

"Per Valentine, certo. E' tutto ciò che resta di mia madre".

Ross deglutì. "Va bene, anche se è solo ed unicamente per vedere Valentine, vorrei che tornassi di tanto in tanto".

"Tornerò. Ed appena avrò un lavoro e uno stipendio zio, ti restituirò i soldi che hai speso per i miei studi in accademia".

Ross si oscurò. "Non è necessario".

"Lo è, per la mia coscienza lo è. Odio avere debiti nei tuoi confronti". E così dicendo, con una carezza sui ricciolini scuri di Valentine, Jeoffrey Charles se ne andò senza dare tempo a Ross di ribattere. E nessuno poté fare nulla per fermarlo.

Ross si inginocchiò accanto a Valentine che ci era rimasto un pò male. "E' venuto a trovarti, devi essere contento di questo. E c'è la torta che vi aspetta, fra poco la taglieremo e festeggeremo tutte queste femminucce che fra qualche anno vi faranno impazzire" – gli sussurrò, stringendolo a se.

Valentine annuì, poco convinto, ma Jeremy da bravo fratello maggiore capì che come aveva fatto spesso in passato per i fratelli minori, doveva intervenire anche se non ci stava capendo molto. "Dobbiamo andare a consolare Catherine per la sua zitellaggine perenne. Ora sa che è per sempre. Starà ancora piangendo in qualche angolo del giardino, lei si che ha un grosso problema, non tu".

A quelle parole, Valentine tornò a sorridere come era giusto che fosse. "Magari posso consolarla. Magari le dico che sposo Emily e tengo lei come fidanzata di scorta".

"Giuda" – sbottò Demelza.

Clowance sbuffò davanti a quei maschi che non capivano nulla e poi i bimbi corsero via, alla ricerca dei loro amichetti, il turbamento alle loro spalle. I bambini sapevano riprendersi presto dalle sorprese e dai turbamenti...

Rimasti soli, Demelza si avvicinò a Ross, prendendolo a braccetto. Percepiva a pelle il suo scoramento e il suo dolore e anche se si era ripromessa di rispettare e non chiedere nulla circa quel periodo della sua vita con Elizabeth, forse era il caso che si aprissero a vicenda il cuore, per quanto doloroso potesse essere. "Ross, è passato a salutare. E' un passo avanti, no?".

Lui abbassò il capo. "Avevo promesso a Francis di prendermi cura di lui, nel caso...".

"E lo hai fatto, pur in mezzo a mille difficoltà".

Lo sguardo di Ross si riempì di amarezza e sentì il bisogno di riprendere in braccio Isabella-Rose per trovare in lei la cura al gelo che lo aveva invaso. "No, non del tutto. Ha vissuto l'inferno a causa mia e con lui, sua madre. Non sono molto fiero di me stesso, quando ripenso a quel periodo".

Demelza deglutì. "Fu così terribile? Fra voi, intendo?".

Lo sguardo di Ross si perse nel parco circostante e alla festa che continuava serenamente a svolgersi attorno a loro. "Sì, lo fu... E Jeoffrey Charles ha assistito a liti violentissime, ha udito parole che non dovevano essere dette e per fortuna c'era Agatha allora, a proteggerlo in parte da tutto questo, da due adulti che non riuscivano a far altro che ferirsi a vicenda e rinfacciarsi lo sfacelo a cui eravano arrivati. Io poi me ne sono andato ma Elizabeth è rimasta e lui l'ha vista sola ed incinta, a raccogliere i cocci di quello che io avevo distrutto". Sospirò. "E l'ha vista morire, mentre metteva al mondo mio figlio. Mi odia, mi reputa responsabile e io non so dire se davvero, lui non abbia ragione".

Demelza chiuse gli occhi, cercando le parole giuste da dire. "Ross... Non sei responsabile per la sua morte. Succede, a tante donne purtroppo e sarebbe successo anche se il vostro fosse stato il più felice dei matrimoni. Dwight può confermartelo e darti dati più certi".

"Ma ho rovinato la sua vita, assieme alla tua! Questo potrebbe avere inciso..." - ribatté lui.

"No, Ross succede e basta! Una donna lo mette in conto...". Con un gesto gentile, Demelza lo fece sedere sulla panca. "Ross, lui è passato e come ho detto prima, abbiamo tutto il futuro per sistemare le cose. Geoffrey Charles è...".

"E'?".

Lei sorrise dolcemente, baciandolo sulla guancia. "E' un dannato, testardo Poldark. Fisicamente simile a Francis ma di carattere, orgoglioso come te! Testardo quanto te!".

Lui si accigliò. "Che vuoi dire?".

"Che è giovane, che è l'orgoglio che lo guida e che si muove come ti muovesti tu tanti anni fa!".

Incerto su cosa intendesse, Ross la guardò con grande interesse. Lei era sempre stata capace di leggere dentro di lui e soprattutto a capirlo e a consigliargli la strada giusta da seguire. Era più giovane di dieci anni ma infinitamente più saggia di quanto lui avrebbe mai potuto essere. "A cosa ti riferisci?".

Lei annuì. "A quando sei tornato dalla guerra ed Elizabeth era fidanzata con Francis. Non erano sposati e cosa ti impedì, allora, di abbassare la testa per lottare e riprendertela? L'orgoglio, solo il tuo orgoglio ferito! E Geoffrey Charles è tale e quale a te, al Ross di allora. Crescerà e con infinita pazienza capirà, comprenderà e forse perdonerà. E' venuto quì perché sa che siamo la sua famiglia, l'unica che gli sia rimasta. Col muso lungo, come ha detto Daisy, ma ha varcato le soglie di questa casa per venire da noi e ti assicuro che la prima volta fa un pò paura questo grande palazzo, lo so bene... Non dobbiamo forzarlo, dobbiamo solo esserci e fare in modo che lui lo capisca. Quando vorrà rivarcare quella porta o quella di Nampara, lo dovremo fare sentire il benvenuto. Perché lo è! E pian piano capirà che i grandi sbagliano, che lo hai fatto tu ma che lo ha fatto anche sua madre. Ed io. E lui... E quando vorrà ascoltarti, capirà e allora forse soffrirà per sua madre ma comprenderà che quell'inferno non lo hai costruito solo tu ma lo avete fatto insieme".

Ross avvicinò il viso a quello di lei, quella donna da cui dipendeva la sua intera esistenza e senza la quale sarebbe stato morto. "Lo sai che ti amo?".

"Lo so...".

"E lo sai chi mi ha migliorato, chi ha permesso che quel giovane e testardo Ross diventasse l'uomo che hai davanti? Quello che ha dato un calcio all'orgoglio e ha lottato come un matto per riaverti?".

"Chi?".

"Tu, amore mio, solo tu". La baciò, sulle labbra, perdendosi nel loro dolce sapore. "Mi hai perdonato, sei riuscita a farlo nonostante fosse quasi impossibile farlo e forse davvero ci vorrà pazienza, forse davvero non è tutto perso con Geoffrey Charles".

"Nulla è mai perso Ross, se ci si da una seconda possibilità. Noi ne siamo un esempio, no?".

"Direi di sì, amore mio".

"Mamma, papà! C'è da tagliare la torta!!!".

La voce squillante di Jeremy che li richiamava all'ordine, quel 'mamma e papà' che alle orecchie di Ross rappresentava la sua più grande conquista, gli fecero tornare il sorriso e la voglia di combattere per il suo futuro. Suo e quello della sua grandissima famiglia. "Amore mio, andiamo?".

Lei gli prese la mano che lui le porgeva mentre Isabella-Rose, fra le braccia di Ross, emetteva dei simpatici vagiti. "Sì, andiamo, è davvero ora adesso...".

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