The Sound of Dream

di Celtica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Sound of Dream ***
Capitolo 2: *** Chiuso ***
Capitolo 3: *** Nei miei Sogni ***
Capitolo 4: *** Giocare con il Fuoco ***
Capitolo 5: *** Ancora un Sogno ***



Capitolo 1
*** The Sound of Dream ***


The sound of silence

Questa storia partecipa a Ottobre Challenge: Trick or Treat? Indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Prompt: odore di pioggia.
 

Prompt di Relie:
A lavora in un bar. B è cliente.
Ad A piace B, ma non trova il coraggio di avvicinarsi. Quando finalmente si decide ad andare a parlare con B, entra C e si siede accanto a B.

  

Sandor ha 36 anni e Sansa 21.

 

 

 

The Sound of Dream

 

 

 

Sansa era seduta al solito posto, a leggere il solito libro.
La tazza di tè sul tavolo davanti a lei aveva smesso di fumare da almeno un quarto d’ora. Sandor aveva seguito ogni scia di vapore da dietro il bancone, finché non era stato chiamato da un altro cliente.

«Ehi, Mastino, portami da bere. Il mio bicchiere è vuoto.»

«Lo sai che detesto quel nome» ringhiò lui, servendo altro vino a Joffrey.
«Ma è quello che sei, no?» Il sorriso di Joffrey si allargò su quel volto da ragazzino. «Un cane. Con quella faccia… dimmi, Mastino, che effetto fa suscitare ribrezzo in ogni donna? Che effetto fa trovartele davanti tutti i giorni e sapere di non poter…»

«Sentimi bene, ragazzino.» La mano di Sandor picchiò forte sul tavolo. «Sopporto la tua presenza qui solo perché devo un favore alla tua famiglia. Altrimenti…»

«Altrimenti cosa, Cane?» Joffrey si appoggiò allo schienale della sedia. «Come hai detto, hai un debito con i Lannister. Quindi mi servirai buon vino ogni giorno, gratis, e sorriderai ogni volta che ti chiamerò Mastino. Perché è questo che voglio, capito, Mastino
Sandor nascose il ringhio dietro un sorriso. «Buon vino, certo.»

«Bene. Ora che hai capito, portamene un’altra caraffa. Stavolta di bianco.» Poi Joffrey lanciò uno sguardo lascivo in direzione di Sansa. «Mi va di cambiare.»
«Corro.» Sandor sollevò le labbra a scoprire i denti. Passò davanti al tavolo da biliardo, raggiunse il bancone e riempì un quartino con vino bianco, il migliore che aveva.
Si accorse di Sansa, che aveva seguito la scenetta con Joffrey e continuava a lanciare occhiate nella direzione di entrambi. Il giovane Lannister intercettò il suo sguardo e sorrise seducente.
Lei strinse gli occhi e si chinò sul suo libro.

«Ecco qui.» Sandor sbatté la caraffa sul tavolo, richiamando l’attenzione di Joffrey. «Il miglior bianco della città.»
«Bene. Dirò a mia madre che mi hai servito bene.»

«Ma il bianco migliore non vale niente senza il suo ingrediente speciale» aggiunse Sandor, chinandosi in avanti.
«E quale sarebbe questo ingrediente speciale, Mastino? Non ti ho mai visto servire niente di speciale qui dentro.»
«Lo riservo solo ai clienti migliori.» Sorrise.
«Mmm, sì, lo capisco.» Joffrey si stava annoiando. «E sia, aggiungi questo ingrediente e, se sarà speciale come dici, riferirò a mia madre. Vedrò di farti abbassare un po’ il debito.»

Sandor afferrò il quartino con due mani. «Troppo gentile.» Poi ci sputò dentro.

Appoggiò la caraffa di fronte al volto sconvolto di Joffrey, tra l’ilarità generale. «Ecco fatto. Servizio speciale per un ragazzo speciale.»
Joffrey schizzò in piedi, gli occhi fuori dalle orbite e l’indice puntato verso Sandor. Se fosse stato più vicino – se solo gli avesse sfiorato il petto con quel dito – glielo avrebbe spezzato.

«Lo dirò a mia madre!» prese a farneticare, tremando. «Nessuno metterà più piede qui dentro, nessuno! Ti farò chiudere, hai capito, Mastino? Chiudere!»
Poi se ne andò facendo sbattere la porta.

Gli altri clienti ridevano ancora, quando Sandor si avvicinò al bancone e gridò: «Questo giro lo offro io!»
I bicchieri si alzarono nella sua direzione, chi per brindare e chi aspettando di vedersi riempire il calice fino al bordo.
Li servì tutti, uno dopo l’altro, tenendo lei per ultima. Sansa non si era unita alle risate generali, e Sandor avrebbe voluto vederle spuntare in volto almeno un sorriso.
Quando si avvicinò, stringendo una tazza di tè tra le mani, non la vide nemmeno sollevare lo sguardo. Sentì solo la sua vocina sottile che saliva al suo orecchio.

«No, grazie.»

«Che hai detto?»
Sansa incontrò i suoi occhi per un istante brevissimo, e tornò subito a concentrarsi sul libro che stava leggendo. «Ho detto: no, grazie.»
«Che c’è? La scena ha divertito tutti tranne te?»

Il campanello della porta suonò di nuovo, ma Sandor non ci fece caso.
Una mano bianca e sottile salì a sfiorare la tazza di tè, ancora intonsa sul tavolo. Sandor riuscì solo a pensare che era proprio lì che lui l’aveva toccata.
«Ho ancora la mia tazza di tè. Non riuscirei comunque a berne un altro.» Poi, vedendo che lui non se ne andava, alzò di nuovo lo sguardo. «Comunque grazie.»

Il brusio della sala lo intontì. Fece per prendere la tazza nuova e fumante sul tavolo – era di un nuovo servizio arrivato giusto la settimana prima, che Sandor stava conservando per lei – quando qualcuno gli rubò il tè da davanti al naso.

«Grazie» disse una voce bassa, roca – maschile – che fece subito sollevare i begli occhi azzurri di Sansa. «Lasciala pure. La bevo io.» L’altra mano accarezzò la sedia più vicina alla ragazza. «Posso?»

Solo allora Sandor si ridestò dal torpore, osservando l’uomo che gli stava rubando la tazza dalle mani – e la ragazza nel suo locale.
Corse a riprendersi la tazza, e Sansa lo guardò spaventata.

«Questa era offerta dalla casa per la ragazzina.» A quella parola, la paura svanì dagli occhi di Sansa e lasciò il posto a un cipiglio arrabbiato. «Tutti quelli che hanno riso a una certa cosa, avvenuta prima che ti presentassi qui, ne hanno diritto. Tu no.»
L’uomo sorrise solo con le labbra. «Allora credo che ne ordinerò una tazza tutta per me. Che ne dici? Può andare?» Poi tornò a rivolgersi a Sansa. «Quel libro è affascinante. L’ho letto tre volte, e il finale continua a stupirmi…»
Sansa sembrò dimenticarsi completamente della sua presenza. Si sporse in avanti, verso l’uomo in piedi, facendogli segno di sedersi.

«È un bel libro» disse con la sua vocina da ragazzina. Quella che faceva impazzire Sandor. «Non l’avevo mai letto.»

Sandor sarebbe rimasto ad ascoltarla per ore. Certi giorni le portava latte, zucchero e caffè solo per sentirsi dire di riportarli indietro. Un pomeriggio in cui si era sentito particolarmente audace, si era presentato al suo tavolo con diversi pasticcini – e lui non serviva pasticcini nel suo locale, ma quelli li aveva ordinati apposta per lei – e due bicchieri di limonata. Aveva insistito tanto solo per sentirle dire quelle due parole – limonata e pasticcini – scelte perché abbastanza lunghe da fargli ascoltare bene la sua voce.
Ma ora, mentre lo sconosciuto sedeva al tavolo – il suo tavolo, dove avrebbe dovuto accomodarsi lui, offrendole una tazza di tè e spingendola a parlare ancora – capì che il suo errore era stato quello di non interessarsi mai alle sue letture.
Sansa si presentava sempre con un libro in borsa. E non se ne andava se non erano le sei in punto e non aveva terminato il capitolo.

«L’ho… l’ho letto anch’io» sussurrò, per non farsi sentire dagli altri clienti.
Sansa e l’uomo – comodo, seduto accanto a lei, il braccio proteso verso il suo libro, le dita a sfiorare le pagine – lo guardarono come se avesse interrotto qualcosa. Poi l’educazione di lei le impose di rispondere.

«Come?»

Sandor cercò di controllare la voce. «Ho detto… che l’ho letto anch’io.»
Lo sconosciuto sorrise sotto i baffi, e lui capì che lo stava deridendo. Frenò l’impulso di prenderlo per il bavero della giacca e sbatterlo fuori dal suo locale, in mezzo alle prime foglie cadute della stagione.

«Potrei avere il tè che ho ordinato, per piacere?»

Sandor avrebbe voluto rispondere tante cose, farne altrettante, ma Sansa lo stava osservando.
Grugnì in risposta e si allontanò con la tazza tra le mani, senza perdere d’occhio quei due. L’estraneo aveva aspettato di avere campo libero per spingersi in avanti e appoggiarsi alla sedia di Sansa con l’altro braccio. Sandor schiumò di rabbia vedendola arrossire.
A quella distanza, con le voci degli altri clienti, non riusciva a sentire cosa stesse dicendo. Ma quando la vide sorridere non ce la fece più. Si ripresentò al tavolo con la stessa tazza di tè che aveva portato via, e un bicchiere di vino per sé.

«Già fatto?» chiese lo sconosciuto, inarcando le sopracciglia. «Che servizio velocissimo… e che adorabile tazza. Sembra proprio quella di prima, vero, cara?»
La cosa che più irritava Sandor era che non smetteva mai di sorridere.

Sansa ridacchiò. «Oh, Petyr…»
Oh, Petyr. Oh Petyr! Ma chi era Petyr? E cosa diavolo aveva da ridacchiare? Sandor strinse i pugni, prese una sedia e sedette insieme a loro.

«Non pensavo che avrei incontrato qualcuno che conoscesse questo libro.» Poi si accorse di lui, alla sua destra, e il suo sorriso si spense.

«Come dicevo» ringhiò Sandor, stringendosi sulla sedia troppo piccola, «l’ho letto anch’io.»
Petyr-come-diavolo-si-chiamava rivolse le sue attenzioni su di lui. «Ma davvero? E qual è la parte che hai gradito di più?»
Sansa infilò il segnalibro tra le pagine e chiuse il libro, accarezzandone il dorso. Sandor sentì una stretta allo stomaco. Deglutì e cercò di concentrarsi sull’immagine di copertina.

«Il faro. Quando vanno tutti al faro» buttò lì.
Gli occhi di Sansa si abbassarono, pieni di imbarazzo, mentre Petyr si sporse in avanti.
«Ma non mi dire… e cosa fanno precisamente al faro?»
«Ora basta, Petyr.» La voce di Sansa si fece più matura, e Sandor percepì una certa durezza nel suo tono. «Non mi sembra il caso.»
«Hai ragione, mia cara. Non è il caso. Ma giusto perché tu lo sappia, amico mio, non c’è nessun faro nel libro.»

Forse fu l’imbarazzo di Sansa a farlo reagire. Forse il fatto di non incontrare mai il suo sguardo. Fatto sta che Sandor si erse in tutta la sua altezza, e afferrò Petyr-il-diavolo per il collo. Gli bastò una mano sola per sollevarlo da terra.
Lo sentì scalciare contro il tavolo.

«Se lo rovini, lo paghi» ringhiò Sandor, mostrando i denti.

Lo trascinò alla porta così, sollevato da terra, con due mani intrecciate al suo braccio, mentre Petyr cercava di non soffocare. Era divertente vedere come tentasse di gridare, senza riuscirci.
Con la mano libera, Sandor aprì la porta e uscì in strada. L’aria era gelida e il cielo preannunciava tempesta. Il cumulo di foglie secche che aveva raccolto quella mattina stava raschiando la strada. Troppo tardi si era accorto di non avere sacchi in cui metterle… e ora osservava il suo lavoro rotolare sul marciapiede, di fronte al parco dove Joffrey e i suoi amici andavano a fare baldoria.
«Met-ti…metti-mi… giù» sibilò quel diavolo che stringeva tra le dita.

«Come vuoi.»

Sganciò la mano dal suo collo, e Petyr ruzzolò a terra, sotto lo sguardo impietrito dei clienti del locale. Non c’erano altri testimoni per strada. C’era odore di pioggia e faceva troppo freddo.
Petyr gattonò lontano da lui il più in fretta possibile. E quando girò l’angolo, Sandor si pulì le mani nel grembiule e tornò dentro.
Si trovò davanti Sansa, in piedi davanti alla porta, con il libro stretto al petto. Aveva un tale fuoco negli occhi che Sandor avrebbe voluto prenderla e portarla sul retro.
«Che hai da guardare?» disse, facendo un passo verso di lei, pensando di vederla indietreggiare. «Non hai mai visto gettare via la spazzatura?»
Ma Sansa rimase muta e immobile. Non la smetteva di fissarlo.

Sandor fece un altro passo avanti. «Allora, ragazzina? Hai perso la voce?»

«Sei un bruto.» Solo allora Sansa fece un passo indietro. Sandor avanzò ancora.
Nel locale scese il silenzio. Troppi occhi erano puntati su di loro. Troppe orecchie pronte ad ascoltare e riferire. Qualche bocca avrebbe interferito, di questo era certo.
Così, senza staccare gli occhi da quelli di lei, Sandor alzò le braccia.

«Fuori» disse.
E stavolta nessuno interpretò male le sue parole. Sciamarono tutti verso la porta, lasciandoli soli. Nessuna interferenza, quel giorno.

 n

 

N.d.A.:

Ho il prompt di Relie da parte da circa un anno e mezzo. L’ho trovato per caso, e ho pensato subito che fosse perfetto per una piccola long! Fatemi sapere cosa ne pensate!
Celtica

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Capitolo 2
*** Chiuso ***


2. Chiuso

Questa storia partecipa a Ottobre Challenge: Trick or Treat? Indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Prompt: coprire le spalle di qualcuno.

 

 

Chiuso

 

 

 
Non c’era più nessuno nel locale, solo loro. E Sandor sapeva di non aver bisogno di girare il cartello su “Chiuso”, che la voce si sarebbe sparsa in fretta e nessun individuo si sarebbe avventurato lì dentro. Non quel giorno.
Sansa fece un altro passo indietro. «Mi fai paura. Voglio andare via.»

«Tutto ti fa paura. Allora vattene, uccelletto.»

«Uccelletto?» bisbigliò lei, indietreggiando. «Vorrei andarmene, ma ci sei tu tra me e la porta.»
«Fai il giro.» Sandor avanzò di nuovo.
Sentiva il cerchio stringersi intorno a loro e, nonostante il gelo fuori dal locale, percepiva anche il calore furente dentro di sé. E dentro di lei.

«Spostati, per favore.»

Lui non si mosse. La vide arretrare ancora. Poi si bloccò sentendo il tavolo alle sue spalle, gli occhi sgranati, in trappola.

«Non volevi andare via, ragazzina?»
«Ci sei tu in mezzo!»

Gli occhi di Sansa correvano da una parte all’altra del locale, come se stesse cercando una via di fuga. Forse si domandava se sul retro c’era un’altra uscita, una che avrebbe potuto imboccare in quel momento.
«Non mi sposto.» Sandor incrociò le braccia al petto. «Sono un bruto, hai detto.»

«Mi dispiace… Ora lasciami andare.»

«Non sei prigioniera, uccellino.» Iniziava a trovare la cosa divertente. «Puoi andartene quando vuoi.»
Sansa deglutì, poi si lanciò di lato, superandolo di corsa. Lui intercettò il suo polso – così sottile che avrebbe potuto spezzarlo senza nessuno sforzo – e la voltò verso di sé.
Ora iniziava a essere arrabbiato. Sul serio.

«Davvero credevi che ti avrei fatto del male?» Trattenne a stento un ringhio. «Volevi andartene? Allora vattene! Va’ via! E non tornare più qui dentro, hai capito, ragazzina?»

Poi la sospinse verso la porta e aspettò che uscisse.
Sansa rimase interdetta tra lui e l’uscita, indecisa se andare o restare. Se fosse fuggita via, lui non le avrebbe permesso di tornare. Sembrava rendersi conto di questo, di non poter più sedere a quel tavolo, leggendo tutto il pomeriggio dopo aver ordinato la solita tazza di tè.

Sandor si chiese cosa stesse aspettando. Lui si era stancato di aspettare lei. Lo faceva impazzire. A tratti così dolce e gentile, e altri così insopportabile, così spaventata.
Ma se aveva così paura di lui, perché tornava?
C’erano un’infinità di locali in cui poter ordinare il suo solito tè. Eppure Sansa si presentava lì ogni giorno.

«Allora?» le gridò. «Ti decidi ad andartene? Così posso chiudere e tornarmene a casa.»

Sansa si guardò le punte dei piedi. I capelli scivolarono a coprirle il volto, mentre fuori scendevano le prime gocce di pioggia.
Sandor emise un profondo sospiro, cercando di calmarsi. Sentiva la solita tempia – quella a cui ormai aveva dato il nome di Joffrey – scoppiare.

«È meglio se ti sbrighi, ragazzina. O tornerai a casa con le tue belle piume tutte bagnate.»
Lei si intirizzì, proprio come un uccellino. «Potresti smetterla di chiamarmi ragazzina?»

«Perché? Non lo sei?»
«No, non lo sono.»
«Tu mi hai chiamato bruto.»
«Ti ho chiesto scusa.» Sansa arrossì, restando dritta tra lui e la porta. Pronta a scappare.

«Ma lo pensi.»

«Che cosa?»
Sandor le diede le spalle, camminando verso il bancone. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Dalla prima volta che Sansa aveva messo piede lì dentro, lui aveva desiderato un momento come quello. Loro due soli, il locale vuoto.

«Che sono un bruto.»

Prese un calice da vino e lo riempì di whiskey fino all’orlo. Niente ghiaccio, niente che potesse ammorbidirglielo un po’. Fissò il liquido ambrato come si fissa una bella donna, e passò la lingua sulle labbra, pregustandone il sapore. Era l’intorpidimento che bramava più di tutto, quel senso di pace, quel cerchio alla testa.
Si portò il calice alla bocca, quando sentì una vocina alla sua sinistra.

«Non è troppo?»

Le lanciò solo un’occhiata, poi scolò mezzo bicchiere in una volta sola. Si pulì sul dorso della mano, prendendosi un momento per guardare Sansa.
«Non dovresti essere già a casa?»
Lei scrollò le spalle. «Sta piovendo.»

Era solo una scusa, lo sapevano entrambi. Sandor rise, poi finì il whiskey.
«Quante canzoncine canti, uccelletto. Anche un sordo si accorgerebbe che stai mentendo.»

«Io non dico bugie.»

«Che c’è? Te l’ha detto la maestra a scuola che non devi dirle?»
«Non le dico e basta.»

Sandor prese un altro calice e lo riempì a metà. Non riusciva quasi a sentire l’odore del whiskey, solo il sapore che aveva ancora sulle labbra.
«Non starai esagerando?» disse ancora Sansa.

«Questo non è per me.» Sandor spinse il calice davanti a lei. «È per te.»

Sansa si tirò indietro. «Io non bevo alcolici, e nemmeno superalcolici.»
«Che c’è? Non hai l’età per bere?»
«Certo che ce l’ho» si risentì lei. «È che non mi va. Non mi piacciono.»

«Non si bevono per il sapore, uccellino.»

Sandor riempì il suo calice un’altra volta e lo ingollò davanti a lei.
«Se non lo bevi, lo prendo io.»
Allungò una mano verso il bicchiere, ma Sansa lo afferrò prima di lui. Sentì la sua pelle sotto le dita, liscia e fredda, come se fosse rimasta sotto la pioggia fino a quel momento.

«Ti scalderà» le sussurrò.

Sansa si portò il whiskey alle labbra, ne assaggiò solo un sorso e sembrò trattenere un colpo di tosse.
«È orribile» disse, mentre lui non riusciva a smettere di guardarla.

«Solo il primo goccio.»

Lei ci riprovò, un sorso dopo l’altro, mentre una goccia le scivolava lenta sul mento, lungo la linea sottile del collo, fin dentro la camicetta inamidata.
«Hai ragione» mormorò, appoggiandosi al bancone. «È meglio se continui a bere.»
D’impulso, Sandor le strappò il calice dalle mani, posandolo dalla parte del barista. «Sì, ma direi che per essere la prima volta hai bevuto abbastanza.»

«Non puoi deciderlo tu.»

Lui la sospinse verso la porta, accorgendosi che fuori aveva smesso di piovere.
«Dovresti andare a casa. È ora.»
«Sono già le sei?» disse, poi sembrò rendersi conto di qualcosa. «Un momento. Come sai che me ne vado alle sei?»

Sandor non rispose, si limitò ad afferrare la sua giacca e a mettergliela sulle spalle. Sentì la mano di Sansa, fredda e piccola e morbida, come se un uccellino si fosse posato su di lui. Continuò a stringere il bavero per non interrompere quel contatto.
Che fosse lei a togliere la mano, se proprio voleva. Lui sarebbe rimasto lì tutta la notte e anche il giorno dopo, cercando il coraggio di prenderle le mani e scaldarle tra le sue.

«Grazie» la sentì sussurrare.

La vide girarsi verso di lui, sollevare gli occhi fino a incontrare i suoi. Si perse nell’azzurro. Mentre fuori il cielo era grigio e terso, lui volava nel cielo limpido, nuotava in un lago estivo e intrecciava una corona di fiori per Sansa.
Solo guardandola, ebbe visione di un tempo lontano in cui non era stato, di una vita che non aveva vissuto. Di una fanciulla che non aveva amato.
E al posto della sua giacca scura, immaginò una cappa bianca, e le stesse piccole mani che ora stringevano lui.

«Tornerò domani» bisbigliò Sansa, come se la stanza fosse stata piena di gente e lei avesse voluto farsi sentire solo da lui.

Ti aspetterò, pensò Sandor. Ma non lo disse ad alta voce.

n
 

 
N.d.A.:

Rieccoci! Avrei voluto aggiornare prima, ma ho scritto così tante drabble per il fandom di Death Note da non riuscire ad aspettare qualche giorno prima di pubblicarne qualcuna. E “La voce dell’Inverno” arriverà in questi giorni.
Solo una cosa: questa storia è breve, e nel prossimo capitolo capirete il perché della “Soulmate!AU!”.
Fatevi sentire!

Celtica

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Capitolo 3
*** Nei miei Sogni ***


3. Nei miei sogni

 

Nei miei Sogni

 

 

 
Il tempo non era migliorato. Gli alberi di fronte al locale erano sempre più spogli, mentre i cumuli di foglie secche da raccogliere aumentavano. Ma nessuno si era avventurato in strada per pulire, non quel giorno.
Il vento era fortissimo. Polare. Come se qualcuno da lassù avesse mutato il ghiaccio in aria.
Sandor era rimasto a dormire nel locale, contro le sue previsioni. Non era la prima volta, ma ora era strano pensare di essere intrappolato lì dentro. Aveva trascorso la serata a bere, poi aveva rimesso a posto il locale.
Fuori, il vento era affilato come un rasoio.
Capì che quel giorno non avrebbe ricevuto molti clienti. Capì che non avrebbe ricevuto lei.
E infatti, finché il vento non si placò, alcuni giorni dopo, Sansa non rimise piede lì dentro.

  n

Le notti nel locale furono due, e furono strane. Sandor fece sogni che non aveva mai fatto, se non la prima volta che Sansa si era fermata davanti alla vetrina, a sbirciare dentro il bar. Ricordava ancora il senso di smarrimento quando aveva incontrato i suoi occhi. Come se li avesse già visti.
Ma Sansa non aveva dato segni di averlo riconosciuto.
Quella prima notte sognò un bosco, una grande carrozza e cavalieri in armatura. Sognò di rincorrere un lupo enorme tra gli alberi. Sentì persino l’odore della terra e delle foglie marce, la puzza degli escrementi del suo cavallo.
E nel sogno c’era anche lei, solo che era poco più di una bambina. Vestiva d’azzurro e aveva parte dei capelli intrecciati. Negli occhi le leggeva una gran paura.
Non ricordava molto altro. Ed era un’immagine che si ripeteva spesso durante le sue notti, quando lei si presentava al bar.

Quando dormì nel locale, Sandor rivide Sansa nei suoi sogni. Stava dicendo qualcosa, ma lui non riusciva a capire cosa. Poi si allontanava al braccio di Joffrey.
Sandor si ritrovava allora da solo in una radura, con dame e cavalieri sempre più lontani, e uno strano elmo a forma di cane tra le mani. Cercava di raggiungere gli altri, ma era troppo lento, e loro sempre più distanti.
Poi trovava il suo cavallo. Era nero e possente, e si sentì mentre lo chiamava per nome.

«Andiamo, Straniero.»

Il bosco mutò intorno a lui, trasformandosi nei vicoli di una città medievale. Ovunque vedeva solo pietra, straccioni e sporcizia. Nel naso aveva l’olezzo della povertà, dei catini svuotati per strada e di topi arrostiti agli angoli dei palazzi.

Poi udì le urla. Poi la vide.

Gente sudicia che la trascinava via, lontano da lui. E anche se sapeva di essere in un sogno, non poteva fare a meno di lanciarsi a salvarla.
Sentiva il cuoio delle briglie tra le mani, gli stivali che lasciavano le staffe. Volteggiò da cavallo e li seguì in un portone malmesso. Il pavimento era ricoperto di sporco e di fieno. Ora distingueva bene la sua voce.

«No!» continuava a gridare.

Sandor nemmeno si accorse di avere una spada tra le mani. Il sangue non gli faceva nessun effetto. Si rese conto di averli uccisi solo quando la trovò a terra, i vestiti strappati, tremante come un uccellino.

«Va tutto bene, uccellino.»

La prese tra le braccia e il contatto con la sua pelle lo svegliò.
Aprì gli occhi sulla brandina nel retro del locale, dove si fermava a dormicchiare qualche volta. E il pensiero di non vederla gli provocò una fitta allo stomaco.

La seconda notte aspettò di addormentarsi, sicuro di rifare quel sogno. Ma non era preparato a quanto vide e a quanto sentì.
Fiamme verdi lambivano le acque, affondavano le navi, e la puzza dei corpi bruciati arrivava fin sulle mura, dov’era lui.
Un nano gli dava ordini, ma lui aveva negli occhi solo il fuoco… Non capì nulla di quanto diceva, se non che intendeva farlo tornare . E là era tra le fiamme.

«In culo il Re.»

Si ritrovò a vagare in una fortezza, senza sapere dove portasse ogni corridoio, o cosa ci fosse dietro ogni porta. Aveva una sola certezza: lei era in una di quelle stanze. E lui doveva trovarla.
Sentiva l’alcol scorrergli nelle vene, dargli alla testa. Aveva voglia di lei. Voleva prenderla, e non importava cosa sarebbe accaduto dopo. Sapeva solo quello.

Quando si stancò di girare come una trottola, colpì una torcia, mandandola a terra. Imprecò ad alta voce. Poi qualcosa lo attirò in un’altra ala del castello. C’era come una scia, qualcosa che lo guidava in quella direzione. E finalmente trovò una porta – la porta – e la riconobbe. Era quella del bar.

Sapeva cosa c’era lì dietro. O meglio: chi.

Posò la mano sulla maniglia, deciso a varcarla e a prendere la ragazza, ma una grande luce lo investì, e Sandor si risvegliò nel retro del locale, sulla sua brandina.
La terza notte, a casa sua, sognò una grotta. Sansa non c’era, anche se lui la cercava tra i volti che aveva intorno. Poi qualcuno lo sospinse verso il fuoco – il fuoco! – e gli lanciò una spada.

«Dimostra la tua innocenza» disse una voce.

Sandor osservò l’impugnatura e la lama scintillante che rifletteva il bagliore delle fiamme. Se solo Sansa fosse stata lì, avrebbe potuto dimostrarle di poterla proteggere.
E quando un uomo con una benda sull’occhio si fece avanti, alla luce, Sandor si svegliò di nuovo.

Il giorno dopo, con il vento più calmo, la gente tornò nel bar. E tornò anche Sansa.
Si ignorarono, come avevano sempre fatto, come Sandor non sopportava più di fare. Ma quando furono quasi le sei – quando lui aveva ormai perso la speranza di parlarle – Joffrey entrò nel locale con due uomini e Petyr al seguito.
Sansa alzò gli occhi dal libro per seguire la scena.

«Buonasera, Mastino.» Joffrey aveva un’espressione così soddisfatta, che Sandor sentì la rabbia salirgli al cervello. «Ho parlato con mia madre dopo il nostro ultimo incontro. Sai, nemmeno lei è troppo contenta del trattamento che riservi ai tuoi clienti…»

Petyr, con il solito ghigno, si fece avanti. «Ha mandato me per questo.»

«E chi cazzo sei?»

«Il nostro avvocato» rispose Joffrey, scambiando uno sguardo d’intesa con Petyr. «Ora è meglio se dici alla tua gente di andarsene, prima che si metta male.»

Molti clienti, avendo seguito la conversazione, lasciarono il locale in fretta e furia. Gli altri erano troppo occupati a giocare a carte per accorgersi di qualcosa.
Con disappunto, Sandor si accorse che Sansa era esattamente dove l’aveva lasciata. Al solito tavolo, a leggere il solito libro, la tazza di tè ormai freddo ancora intatta.

«Fuori tutti» ringhiò Sandor a tutti gli altri. Poi si avvicinò a lei, posando una mano sulle pagine. «È meglio se te ne vai, ragazzina.»

Sansa chiuse il libro e lo ripose nella borsa. Poi prese la tazza di tè con due mani e se la portò alle labbra. «Non ho finito il mio tè.»
Joffrey rise e si avvicinò. «Lasciala stare, Mastino. Non ha finito il suo tè…» Accarezzò la sedia dov’era seduta e abbassò la testa, guardandolo di sotto in su. «Magari vuole vederti cadere… Vuoi vederlo cadere?»

Sansa lanciò un’occhiata a Sandor per dirgli di non intervenire. «Voglio solo finire il mio tè.»

Quando gli ultimi clienti lasciarono il locale, bastò un cenno di Joffrey perché un suo uomo corresse a chiudere a chiave l’entrata, e a voltare il cartello su “Chiuso”. L’altro abbassò tutte le tapparelle.
Poi il ragazzo fece girare il dito a indicare il bar. «Sai, mia madre pensava che avresti speso meglio i suoi soldi. Invece li hai investiti in questa baracca.» Sorrise, la schiena ben dritta, come se stesse reggendo una corona. D’istinto, Sandor strinse i pugni. «Ma non preoccuparti… Non ce l’ho con te per il pessimo servizio – che tra l’altro non è mai stato minimamente accettabile, nemmeno per una bettola come questa. Sono qui per aiutarti a rimodernare un po’. Vero, ragazzi?»
I due che erano con lui afferrarono alcune sedie, scagliandole contro le mensole. Ogni cosa che c’era sopra cadde a terra. Poi, mentre uno sfondava il vetro del frigo dov’erano contenute le birre, l’altro mandò in frantumi lo specchio dietro il bancone, lasciando che le bottiglie si sfracellassero al suolo.

«Come avvocato del signor Lannister…» si fece avanti Petyr, perdendosi lo sguardo incuriosito di Sansa, «devo avvertirti che hai una settimana per restituire il prestito, o ci vedremo costretti a chiamare la polizia…»

«Perché non la chiamate adesso?» si intromise Sansa.

Il sorriso sul volto di Joffrey scomparve. Era rabbioso. «Sei davvero una stupida.»

«Perché?» chiese Sansa con innocenza. Non sembrava offesa. «Volete che la chiami io?»

Senza aspettare una risposta, prese il cellulare dalla borsa e iniziò a digitare un numero. Joffrey sollevò una mano per colpirla, e Sandor gli afferrò il polso e glielo torse. Mentre il ragazzo gridava, Petyr si appropriò del telefono e chiuse la chiamata.

«Scusa, mia cara, ma è meglio se resti in disparte. Lo dico per il tuo bene.»

Sandor sollevò Joffrey di peso e lo scagliò contro un tavolo, attirando l’attenzione dei due che erano con lui. Gli sembrava di averli già visti. Non portavano un’armatura? Un lungo mantello bianco, elmi dorati e spade alla cintura.

I due lasciarono perdere il frigo e i liquori, e si lanciarono su di lui. Uno lo colpì alla schiena con una sedia, mentre l’altro tentava di accoltellarlo.
Udì il grido di Sansa e voltò la testa, vedendo Petyr stringerla in un abbraccio da dietro. «Sta’ calma. Non guardare.»

Quella distrazione gli costò cara.

Quello con il coltello – che Sandor aveva appena atterrato con un pugno – gli conficcò la lama nella gamba, facendolo gemere di dolore. Gli sferrò un calcio in testa, mentre l’altro gli ficcò la stecca del biliardo tra le costole.
Si voltò di scatto, sferrandogli un manrovescio, e Joffrey saltò in piedi su un tavolo e cominciò a gridare: «Uccidetelo! Fatelo a pezzi! Lo voglio morto! Addosso! Addosso!»
Sandor corse verso di lui, ma un attimo prima che riuscisse a raggiungerlo, qualcuno lo colpì alla testa.

«No!» gridò Sansa.

Lui sentì gli occhi che si chiudevano. Si sforzò per tenerli aperti.
«Se eri già brutto prima, guardati ora» sussurrò Petyr, chino al suo fianco. Poi si alzò in piedi, rivolgendosi a Joffrey. «Tua madre ha detto di dargli una lezione, ed è quello che ha ricevuto. Ora lasciatelo lì. Non toccatelo.»

«Mi ha colpito!» gridò Joffrey, saltando. «Ha colpito me! Un Lannister!»

«Ed è stato punito per questo. Ora andiamo via, prima che qualcuno chiami davvero la polizia.»

Sentì la porta che si apriva e che si chiudeva, le grida di Sansa che veniva trascinata fuori. Si aggrappò alle gambe di un tavolo per tirarsi in piedi, e sentì la testa che gli doleva. Avrebbe dovuto inseguirli. Sì.
Fece per raggiungere l’entrata, ma la gamba ferita non resse il suo peso e Sandor cascò giù, di nuovo sul pavimento sporco.

Il campanellino della porta suonò ancora, e lui riuscì a dire soltanto: «Siamo chiusi.»
Pensò che Joffrey dovesse essersi liberato di Petyr per poter tornare lì con gli altri due.

Una mano gli frugò nelle tasche, poi lo afferrò per un braccio. «Ce la fai ad alzarti?»

Era Sansa. Sandor avrebbe voluto piangere quando riconobbe la sua voce. Voltò la testa per guardarla. «Che ci fai qui?»
«Volevo chiamare la polizia, ma mi hanno preso la borsa.» Abbassò gli occhi. «C’è tutta la mia vita lì dentro. Non solo il cellulare. Ora sanno tutto di me.»
Quella notizia gli diede una forza nuova. Si lasciò aiutare a tirarsi in piedi, poi prese una sedia e si sedette.

«È meglio se torni a casa.»

Sansa sgranò gli occhi, spaventata. «Sanno dove vivo! Hanno detto che se chiami la polizia… che se uno di noi chiama la polizia… che se proveremo a raccontare a qualcuno questa storia, mi uccideranno.»

«È stato Petyr?»

Sansa scosse la testa. «Joffrey. Ha detto che dovrò dimostrargli la mia fedeltà, che non devo tradirlo. No, Petyr ha cercato… in qualche modo ha cercato di difendermi. Ha detto a Joffrey di lasciarmi andare, che non avrei parlato.»
Sandor avrebbe voluto mollare tutto e lasciare la città, portando Sansa con sé. Avrebbe voluto dare fuoco al locale, fare un salutino a Joffrey e poi andarsene per sempre.

Sansa gli guardava il volto tumefatto. «Hai dei medicinali? Delle bende?»

Lui scrollò le spalle. Non aveva mai avuto bisogno di una cassetta del pronto soccorso. La vide correre dietro il bancone, frugare tra le sue cose. Entrò nel bagno – che Sandor sapeva essere lurido – e quando tornò, stringeva un flacone e degli strofinacci.

Lui non disse niente quando la vide prendere una sedia e sistemargliela di fronte. Non disse niente nemmeno quando Sansa inzuppò uno straccio con quel flacone trasparente, e glielo strofinò sul viso.
Sentì il corpo in fiamme ad averla così vicina, a vedere così bene dentro i suoi occhi.
Come nei suoi sogni.

«In genere sono io che salvo te, uccelletto.»

Sansa sorrise, e sembrò stupirsi lei stessa di quel sorriso. «Dove mi avresti salvata? Non ricordo.»
Nei miei sogni, ma non poteva dire ad alta voce nemmeno quello.

 n

N.d.A.:

Questa storia è una minilong, quindi mancano due soli capitoli alla fine!
Grazie per aver letto fin qui, e a chi ha recensito o inserito la storia tra preferite/seguite. E poi vorrei ringraziare fenice64 (che non manca mai!) e Anonima Italiana per aver recensito i primi due capitoli!

Celtica

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Capitolo 4
*** Giocare con il Fuoco ***


4. Giocare con il fuoco

 

 

Giocare con il Fuoco

 

 

 

 

Restarono chiusi nel bar tutta la sera. Sansa era terrorizzata all’idea di tornare a casa e persino di andare a dormire da qualche amica.

«Hanno i miei contatti… i messaggi, tutto. Potrebbero trovarmi ovunque.»
Sandor capì che il luogo più sicuro per lei poteva essere soltanto il suo bar. Nessuno si sarebbe aspettato di trovarla ancora lì dentro, sola con lui. E poi c’era sempre il suo posto segreto… e in caso di problemi avrebbe potuto nasconderla lì.
«Cosa possiamo fare?» domandò Sansa, mentre lui si riempiva un bicchiere di vino. «Forse dovrei andarmene… Tornare nel nord.»

«Perché non lo fai?»

«Lasciare tutto? Sto ancora studiando. I miei amici sono qui. E prima di oggi non ho mai preso in considerazione l’idea di tornare a casa.»
Sandor portò due bicchieri e una bottiglia superstite di vino, zoppicando fino al tavolo dov’era seduta Sansa. Lei posò gli occhi sulla sua gamba.

«Dovresti andare in ospedale.»

«Per dire cosa? Che mi sono ferito a una gamba mentre affettavo un limone?» Rise e la sua risata sembrò ferro che strideva. «Tywin Lannister è primario. Saprebbero subito dove sono. No, preferisco rimettermi da solo. Non mi fido degli infermieri.»
Versò da bere a Sansa, e stavolta lei lo prese senza fare obiezioni, bevendone una lunga sorsata.

«Non avrai paura degli aghi?»

Solo del fuoco, da quando faccio quei sogni.

«I fottuti aghi non mi spaventano.»
«Allora, se ne hai, dovremmo provare a ricucirti.»

«È il vino a parlare per te, uccelletto.»
Vide che aveva il bicchiere quasi vuoto, e una strana luce negli occhi. L’alcol rendeva coraggiosi, pensò. O stupidi.

«Non abbiamo dato nemmeno un’occhiata alla ferita alla gamba» proseguì Sansa. «Dovremmo almeno…»
«Ho controllato io. E la ferita resta così.»
Sansa sembrò farsi improvvisamente lucida. «Hai paura di me.»

«Non dire cazzate.»

Poi lei abbassò gli occhi sulla bottiglia, la prese e si versò da bere. Lo guardò un momento, soffermandosi sul suo viso, e quello che vide la spinse a riempirgli il bicchiere fino all’orlo.
«Grazie per avermi lasciato stare qui.»

Sandor non rispose. Cosa poteva dirle? Dei suoi sogni? Della prima volta che l’aveva vista? Dell’idea di fuggire insieme?
No.
Ingollò l’intero bicchiere di vino e se ne versò un altro.

«Sei stato coraggioso ad affrontare Joffrey.»
Lui rise, una risata cattiva. «Coraggioso? Joffrey è uno scarafaggio. I cani nemmeno si sprecano a ucciderli, gli scarafaggi.»
«Perché devi essere sempre tanto odioso?» Sansa incrociò le braccia al petto. «E poi perché ti consideri un cane? E perché mi chiami sempre uccelletto? Dimmelo.»

«Preferisci che ti chiami ragazzina?»
«Preferisco Sansa.»

Si guardarono. Sandor sentì un brivido di terrore riconoscendo quello sguardo: era lo stesso che Sansa aveva nei suoi sogni. E se il solo vederla seduta lontano da lui era sufficiente per sognarla, cosa sarebbe successo quella notte? Sarebbe riuscito ad aprire quella porta? L’avrebbe trovata? L’avrebbe presa?

Sansa allungò una mano sul tavolo e la posò sulla sua. Abbassò la voce. «Dimmi perché. Ti prego.»
Lui non riuscì a frenare le parole. «Ho fatto un sogno.» La vide sgranare gli occhi, ma la mano rimase sopra la sua. «E nel sogno ti chiamavo così.»

«Cosa succedeva nel sogno?»

«Oh, non fare quella faccia, uccelletto! Niente di quello che pensi.» Voltò la mano, palmo contro palmo. Per un istante credette che Sansa avrebbe ritirato di corsa la sua, ma non lo fece. «Era come un corteo in costume. Eravamo tutti vestiti strani.»

«Tutti?» Sansa sembrava aver capito, glielo leggeva negli occhi. «Tutti chi?»
Sandor non riusciva a smettere di guardarla.
«Tutti quelli che erano qui stasera.»
Sansa scostò indietro la sedia, perdendo il contatto con lui. Aveva la stessa espressione di animale in fuga che le aveva visto un paio di notti prima.

«Era solo un sogno, uccellino.»
«Perché la gente ti chiama Mastino?»

«Secondo te perché?»
Sansa posò gli occhi sul lato del viso dove aveva la cicatrice, ma non disse nulla.

«Per questa?» Lui non aveva più voglia di giocare. «Non riuscivi nemmeno a guardarla, prima.»
La vide abbassare lo sguardo, torturarsi le mani.
«No, non è per questa. È per quegli stramaledetti sogni. Una notte ho lasciato che un tizio ubriaco dormisse qui. E al mattino ha detto a tutti che continuavo a ripetere quella parola. Mastino.»

«Cosa succedeva in quei sogni?»

Lui afferrò la bottiglia quasi vuota e se la portò alle labbra. Afferrò il tappo con i denti e lo sputò lontano.
«Bevevo.»

Sansa si appoggiò al tavolo, posando la testa sulle braccia incrociate. Non la smetteva di fissarlo.
«Io cosa facevo nel tuo sogno? A parte camminare con abiti ridicoli.»

«Non stavi mai zitta, come adesso.»

Sansa gli lanciò un’occhiata offesa e voltò la testa dall’altra parte. Lo lasciò a contemplare i suoi capelli rossi che le accarezzavano la schiena e le braccia, fino a sfiorarle le gambe fasciate nei jeans.
Era così tentato di toccarli che allungò una mano per farlo, ma lei si girò di nuovo verso di lui. Osservò le sue dita stese sul tavolo e si tirò su.

«Che stai facendo?»
«Niente, ragazzina. Che cosa dovrei fare?»
Sansa non rispose. Lasciò vagare le mani sul tavolo come su un pianoforte, fermandole accanto alla sua.

«Starò zitta se mi racconterai i tuoi sogni.»

«Perché ti interessa?»
Sansa scrollò le spalle. «Non mi sembra ci sia molto altro da fare.»
Lui sapeva cosa rispondere, ma non lo fece.

«Nei tuoi sogni…» continuò Sansa, vedendo che lui non diceva niente, «dove sei?»
«Che cazzo ne so di dove sono?»

«Sei qui? Sei in qualche città, qualche posto che conosci?»
Lui fece cenno di no con la testa. La vide chinarsi in avanti.
«C’è un bosco. E un castello. E a volte le strade di una città, ma è tutto di pietra.»

«E io dove sono? In quale di questi posti?»
Sandor la guardò dritto negli occhi. «In tutti.»

La vide deglutire. Riconobbe il tremito delle palpebre e osservò la bocca schiudersi. Non l’aveva mai vista così tesa. Lui non si era mai sentito così teso.
«Quanti sogni hai fatto su di me?» la udì sussurrare.
«Tutti.» Aveva bisogno di altro vino, ma non voleva alzarsi. Era ipnotizzato dalle mani di lei, così vicine alla sua. Strinse il pugno per impedirsi di toccarla. «Sei in ogni fottuto sogno in costume.»

Tranne l’ultimo, pensò. Lì ti stavo cercando.

Le dita di Sansa scivolarono accanto alla sua. Sandor sentì il contatto freddo con la sua pelle.
«Da quanto tempo va avanti?» Lei si piegò verso di lui. «Da quanto tempo fai questi sogni?»

Lui deglutì. Non voleva rispondere.
«Da quando ti ho vista la prima volta. Eri ferma davanti a quella vetrina, e sbirciavi all’interno.»

Il mignolo di Sansa si infilò sotto la sua mano. Sandor sentì l’unghia contro il palmo.
«Perché non me l’hai detto?»

Non sapeva cosa dire. Era così logico il perché non l’avesse fatto… Sospettava che la domanda di Sansa fosse solo un tentativo di non perdere quel momento.
E quando lei prese a disegnare dei cerchi sul suo palmo, lui non poté più tacere.

«Stai giocando con il fuoco, ragazzina.»

«Forse è quello che voglio» mormorò, ma aveva le lacrime agli occhi.
Sandor avrebbe tanto voluto ignorare quello che vedeva e abbandonarsi a quella frase. Crederle. Pensare che fosse qualcosa di più della paura a spingerla tra le sue braccia. Ma non poteva farlo. Non dopo essersi guardato ogni mattina allo specchio dopo l’incidente.
«È l’alcol a parlare» disse, aspro. Poi si alzò in piedi e le indicò la porta che dava sul retro. «Va’ a dormire, uccelletto. Domani andrà meglio.»

Sansa lasciò la sedia e scoppiò a piangere.
Non lo seguì, né si mosse.
«Avanti, è solo che hai bevuto troppo. Va’.»
«N-no…» Scosse la testa singhiozzando più forte. «Non è il vino… È che non posso più tornare a casa. Né qui, né al nord. Non ho più nessuno!»

Sandor la guardò inginocchiarsi a terra, poi la prese tra le braccia.
«Basta, uccelletto. Si risolverà tutto, vedrai.»

Sentì le sue braccia intorno, una mano sulla spalla e l’altra sulla schiena, il suo viso nell’incavo del collo. Odorava di sapone e magnolia, e il suo corpo era bollente, come se avesse la febbre. Si chiese se fosse colpa del vino. Poi Sansa smise di piangere.
Era leggerissima, ma con la gamba conciata in quel modo aveva l’idea di portare un peso enorme. Aprì la porta socchiusa con una spallata, posando Sansa sulla brandina dove aveva dormito tutte quelle notti.
Chi l’avrebbe mai detto che l’avrebbe avuta lì, nel suo letto?

Fece per tirarsi su, ma Sansa continuava a stringerlo.
«Aspetta» continuava a ripetere. «Aspetta, ti prego.»

«Lasciami, uccellino» mormorò piano.
Lei abbandonò la sua schiena per deporre le mani sul suo viso. Lo guardava negli occhi, vicinissimo, e forse era tutta quell’oscurità a non farle battere mai le palpebre. Posò le labbra sulle sue, e Sandor non riuscì a tirarsi indietro.

«Ti prego» la udì sussurrare.
«No.» Le afferrò i polsi e se li allontanò dal viso. «Non adesso. Non così.»
«Perché?»

«Ti odieresti domani» disse. «E odieresti me ancora di più.»

«Non è vero.»
«Lo dici adesso.»

La aiutò a stendersi, poi le tolse le scarpe. Avrebbe voluto mordersi la lingua piuttosto che continuare a parlare, ma non riuscì a frenarsi.

«Se domani la penserai ancora così, allora ne riparleremo.»

 n

N.d.A.:

Scusate il ritardo! Il prossimo capitolo (l’ultimo) arriverà la prossima settimana.
Il finale di questo è ispirato a un’altra mia storia: “Domani”, nel fandom di Lady Oscar.
Grazie a chi continua a seguire e a lasciarmi un parere!

Celtica

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Capitolo 5
*** Ancora un Sogno ***


5. Ancora un sogno

 

 

Ancora un Sogno

 

 
Sandor sognò di nuovo il fuoco verde. Stavolta lo vedeva da una finestra del castello, dentro una stanza immersa nel buio. Trovò comunque il letto e una bambola e, senza sapere come, capì che era sua.
Si sdraiò e la attese.

Quando sentì la porta aprirsi, si alzò e la raggiunse.
Le coprì la bocca con la mano soffocando un urlo, e strinse il suo corpo di bambina a sé.
C’era qualcosa che non tornava però. Lui sapeva che Sansa non era davvero una bambina. Sapeva di averla vista bere alcol e di aver assaggiato le sue labbra.
Parlarono, ma al risveglio Sandor non riuscì a ricordare di cosa. E mentre Sansa usciva dallo stanzino sbadigliando, lui ricordò altri dettagli del sogno.

Se urli ti uccido.

Aveva in testa una canzone antica cantata da Sansa, ma non gli venivano in mente le parole.
E poi, mentre lei prendeva un coltello e cercava qualcosa ancora integro da mangiare, a Sandor venne in mente di averle puntato una lama alla gola.

Mi hai promesso una canzone, Uccellino.

Credette di tremare mentre si avvicinava al bancone.
«Ti senti bene?» chiese lei.

Sto andando.

«Dobbiamo andarcene.»

Sto andando via.

«Andarcene? Andarcene dove?»
«Lontano da qui, dove i Lannister non ci troveranno mai.»

Lontano dai fuochi.

Sansa smise di affettare una mela. «Devi aver bevuto troppo, ieri sera.»
Lui ricordò di averla avuta sotto di sé mentre cantava. Ricordò di aver pianto, e la mano di Sansa che gli accarezzava la guancia.
«Io potrei tenerti al sicuro» disse, proprio come aveva detto alla Sansa del sogno. «Nessuno ti farà più del male.»

Se lo faranno, io li ucciderò.

Gli occhi di Sansa si fecero cupi, come se la notte fosse appena scesa nel locale.
«Che vuoi dire?»
«Dico che dobbiamo andare via prima che quel fottuto Lannister ritorni.»

Lei scosse la testa, posando la mela sul bancone. «Io… non posso. Ho tutta la mia vita qui. E anche tu.» Indicò il bar.
«Lo brucerei piuttosto che lasciarlo a Joffrey.» L’immagine del fuoco verde gli annebbiò la vista, tanto che dovette strofinarsi gli occhi per tornare a vedere Sansa. «Ed è quello che farò oggi stesso.»
Poi si avvicinò al bancone, togliendole il coltello dalle mani. «Vieni con me.»

«Io…»
«Hai detto che sanno tutto di te ormai. Non hai più niente qui. E quando brucerò il bar è te che verranno a cercare, uccelletto.»

Sansa abbassò gli occhi.
Non sapeva perché si sentisse in dovere di convincerla. Era come se sapesse di non averla salvata in un’altra vita… o forse era soltanto perché conosceva Joffrey e sapeva che Sansa non sarebbe stata al sicuro lì, senza di lui.

È per colpa tua se è in questo casino, rammentò a sé stesso.

E poi non ricordava come fosse finito il sogno.
Sansa era fuggita con lui? O era rimasta tra le grinfie di Joffrey?

«Potrei nascondermi da qualche amica» tentò ancora Sansa. «Perché dovrebbero farmi del male? Non sarò io a bruciare il locale. Non ci sarò più quando gli darai fuoco.»
Sandor allungò un braccio oltre il bancone e le afferrò il mento tra le dita.
La vide abbassare le palpebre, e pensare di lasciarla sola lo fece infuriare.

«Guardami!»
«Lasciami. Mi stai facendo paura.»

«Tutto ti fa paura.»

Sansa aprì gli occhi, e lui tornò alla notte del sogno, quando l’aveva guardata cantare. La lasciò andare.
«Joffrey non ti lascerà in pace. Ho visto come ti guarda. E ho visto come ti guarda l’altro.» Petyr-il-diavolo. «Senza di me non molleranno mai la presa. E non sarà piacevole, ragazzina.»

«Smettila di chiamarmi ragazzina.»

«È quello che sei. E i discorsi che fai lo dimostrano.»
Lei incrociò le braccia al petto. «Ti diverte tanto spaventare la gente?»

Mi diverte uccidere la gente.
Quando aveva detto una cosa simile?

«Tu non sei la gente» replicò Sandor, facendole sgranare gli occhi. «Sei un uccelletto che non sa mentire, e che non si rende conto dei pericoli che corre.»

«Dici che Joffrey e Petyr mi farebbero del male…» mormorò Sansa, sfiorando la lama con le dita. «E tu? Tu non mi farai del male?» Poi un’ombra passò sul suo viso, come se fosse appena stata folgorata da un’idea. «Vero?»

Sandor era convinto di aver già sentito quella domanda, quella stessa notte. Nel suo sogno.

«No, uccellino. Io non ti farò del male.»

Le accarezzò il viso per un istante, prima di ritrarre la mano. Si era appena ricordato che Sansa non era fuggita con lui.
Lei chiuse gli occhi a quel contatto, e rimase così per un momento. Finché non la vide prendere un grande respiro.

«Va bene» sussurrò Sansa. «Verrò con te.»

 n

Successe mentre radunavano le poche cose di valore dentro il locale. Quelle piccole e trasportabili. Mentre Sansa cercava ancora cibo e Sandor gli ultimi proventi della cassa.
Fu lui ad avvertire il pericolo. Lo vide arrivare dal parco di fronte al bar, quello dove Joffrey si radunava con gli amici.
Ora erano molti più del solito.
Sandor ringraziò il cielo di aver tenuto le luci spente per tutta la mattina. Così sarebbe stato impossibile per le persone fuori accorgersi di loro. Almeno finché non avessero raggiunto i vetri…

«Svelta, uccelletto. Andiamo.»
Le fece mollare la sacca che stringeva tra le dita e la portò in un angolo. Spostò un tavolo e aprì una botola che Sansa sembrava non riuscire nemmeno a vedere.

«Ma come…»

«L’uccellino non sa smettere di parlare… Scendi e rimani in silenzio.»
Sansa fece per entrare, ma poi si voltò verso di lui. «Tu non vieni?»
«No, uccellino. Ma ti tirerò fuori non appena sarà tutto finito.»
«Ti uccideranno se resti!» Gli afferrò la mano. «Vieni, ti prego. Non posso rimanere di nuovo sola.»

«Vai.»
«No, se non vieni anche tu.»
«Non sei brava a mentire…» sussurrò.

Ma poi la seguì ugualmente attraverso la botola, richiudendola sopra di loro. Era uno spazio troppo angusto per due persone. Potevano giusto restare in piedi, uno di fronte all’altra, cercando di non muoversi per non infastidirsi a vicenda.
Riconobbero i rumori: qualcuno aveva sfondato la porta, e diversi piedi camminavano sopra le loro teste.
Sandor si chiese cosa avrebbe fatto Joffrey non trovandolo lì.
L’idea del fuoco lo spaventava a morte. E se fosse stato l’altro a bruciare il locale? A bruciare loro? Trattenne il respiro mentre li sentiva aggirarsi per il bar, spaccare ciò che era rimasto integro dal giorno prima.

«Cosa vogliono?» gli chiese Sansa muovendo appena le labbra.
La vide sforzarsi di mantenere la calma.

Come una lady.

Non lo aveva detto lei? Non si era paragonata a una lady nei suoi sogni?
Restarono così, uno di fronte all’altra, in quello spazio strettissimo. Sandor sentì il suo respiro caldo addosso, il petto che si alzava e si abbassava attaccato al suo. Si era sbagliato la sera prima, quando aveva creduto di vedere quella tensione tra loro. Adesso sì che la vedeva. E la sentiva in ogni fibra del suo corpo.
Si sistemò meglio contro il muro, spingendo la mano contro quello alle spalle di Sansa. La udì sussultare, e gli parve di vederla schiacciarsi di più contro la parete.

«Sta’ calma, uccellino.»
«Ci troveranno.»
«Non qui. Se riesci a tenere chiusa la bocca.»

Nell’oscurità riconobbe un bagliore di rabbia negli occhi di lei. Lo divertiva vederla così, sentirla tesa e così vicina.
Il respiro di Sansa rallentò.
«Sono sopra di noi» bisbigliò, guardando in alto, dove si udivano dei passi.
Non potevano rischiare che Joffrey li trovasse. Non adesso che erano così vicini ad andarsene. Le coprì la bocca con la mano, mentre con l’altra la teneva ferma.

«Sta’ ferma. O ci sentiranno.»

Aveva le sue mani sulle braccia, le unghie che graffiavano i polsi nel tentativo di liberarsi. Così la attirò contro di sé, facendola voltare. In quel modo, con la schiena contro il suo petto, non poteva ribellarsi. E non poteva parlare.
Poi i passi si allontanarono, e lui lasciò la presa.
Sansa si girò di scatto e lo colpì alla spalla.

«Volevi che ci sentissero?» le chiese.
«Non ci avrebbero sentiti comunque se mi avessi lasciato stare!»
Fece per colpirlo di nuovo, ma le afferrò il polso e la attirò di nuovo a sé.

«Questo posto è troppo piccolo per due persone» sussurrò in un ringhio. «Quindi sta’ un po’ ferma se non vuoi che ci trovino.»

Dal piano di sopra venne un rumore sordo, di qualcosa che andava in pezzi.
Sansa si aggrappò a lui e, d’istinto, Sandor la circondò con le braccia. Ora sentiva il suo respiro sul collo.

«Hanno distrutto la vetrina.»

Sansa gli appoggiò la testa sul petto. «Mi dispiace.»
Aveva le mani sui suoi fianchi quando si accorse del silenzio. Forse se n’erano andati. Fece per aprire la botola, ma Sansa gli afferrò il braccio, stringendolo contro di sé.

«Potrebbero essere ancora lì.»
«Non possiamo saperlo finché non usciamo, uccelletto.»

Lei lo strinse più forte, respirando con affanno. «Aspettiamo ancora. Ti prego. Hai detto che qui non corriamo pericoli.»
Poi lo abbracciò.

«Siamo al sicuro qui sotto» sussurrò Sansa.

Lui la attirò a sé, le accarezzò le spalle e scese lungo le braccia. Le sfiorò il viso con il dorso della mano, e quando sentì i loro respiri che si univano, si chinò a baciarla.
Un rumore che arrivava da sopra lo fece fermare.

«Sono ancora qui» disse, e sembrò quasi una domanda.

Sansa non rispose.
Le accarezzò i capelli, poi spostò una ciocca dietro l’orecchio.

«Avevamo detto che ne avremmo riparlato, uccelletto.»
«Di cosa? Credevo volessimo andare via insieme.»
«E lo faremo. Ma questo… non voglio che tu te ne penta.»

Sansa gli prese una mano. «Non ho niente di cui pentirmi. Niente.»
Poi, quando anche l’ultimo rumore scomparve e il silenzio riprese il suo posto, Sandor si chinò al suo orecchio.

«Quando saremo lontani, uccelletto… allora ne riparleremo.»

Non era sicuro che Sansa sarebbe fuggita con lui. Nel sogno era certo di essere partito da solo… E quest’idea non gli dava pace. Lo tormentava sapere di averla abbandonata. Non poteva permettere che accadesse di nuovo.

Rimasero immobili in attesa del silenzio assoluto. Poi, quando Sandor fu sicuro che di sopra non ci fosse più nessuno, tornarono nel locale.
Non si soffermarono a guardare i resti del bar, anche se era impossibile ignorare le scritte spray sulle pareti. Joffrey lo minacciava di morte. Giurava che lo avrebbe ritrovato ovunque si fosse nascosto.
Sansa accarezzò quelle parole con le dita, poi si voltò verso di lui.

«Hai un accendino?»
«Solo fiammiferi.»

Lei tese la mano per farsi dare la scatola. «È ora di andare» mormorò.
Aveva una voce diversa dal solito, fredda e distaccata, come se fosse il destino di qualcun altro.
Sandor raccolse le cose rimaste, lo zaino, e restò a guardarla mentre strofinava un cerino sulla scatola.

Una piccola fiamma si accese e Sansa la lasciò cadere.

Uscirono mentre il fuoco divorava ogni cosa, annerendo le pareti e celando il loro passaggio.
Erano stati lì insieme. E non lo avrebbe saputo nessuno. Nemmeno Joffrey.

 

n

N.d.A.:

Siamo giunti alla fine di questa piccola storia.
Il finale è un chiaro rimando a 
Lui, il Diavolo (minilong di due capitoli con protagonisti diversi personaggi: Petyr, Sansa, Sandor e Jon) che vi consiglio, se vi piacciono le storie Modern!AU! e i libri di Stephen King (è ispirata al libro “Cose Preziose”).

 Anche se il punto di vista è solo di Sandor, e anche se è solo lui a fare quei sogni, in quest’ultimo capitolo capiamo che anche Sansa sa qualcosa. Dice frasi che entrambi hanno già sentito:
«E tu? Tu non mi farai del male?» Poi un’ombra passò sul suo viso, come se fosse appena stata folgorata da un’idea. «Vero?»
Un’ombra passa sul suo viso perché lei stessa si rende conto di aver già pronunciato quelle parole.
Il finale è aperto, e come detto da Sandor, lui non sarebbe partito senza di lei, al contrario dei suoi sogni (e di serie e libri).

 Se siete amanti delle SanSan, vorrei consigliarvi una storia ancora in corso: Canzone d'Inverno, con Sandor e Sansa costretti a sposarsi da Joffrey!

 Grazie a chi è arrivato fin qui!
Celtica

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