Put on a happy face

di greenlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I didn't diserve happiness ***
Capitolo 2: *** Escape room ***
Capitolo 3: *** Bedtime story ***



Capitolo 1
*** I didn't diserve happiness ***


I didn't deserve happiness
 

QUATTRO ANNI PRIMA (18 agosto 2015, New York City)

“Iris D’Orsay, o meglio conosciuta con lo pseudonimo Blue Moore, la  scrittrice dalla cui penna ha dato vitaa diversi personaggi e luoghi di fantasia più di quindici anni fa, tra cui la spettrale e tetra Gotham, scenario delle innumerevoli episodi  con protagonisti Batman e, la sua nemesi, Joker. Ora la signora D’Orsay ha da poco firmato le carte del divorzio da suo marito Bob Carter, con cui era sposata da dieci anni. La causa della rottura si presuppone sia iniziata già l’anno scorso a causa del brutale incidente che…”

Premetti con violenza il grande pulsante rosso presente sulla parte alta e centrale del telecomando della tv, per oscurare le immagini che mi ritraevano, mentre uscivo dall’ufficio del mio avvocato divorzista.
Erano ormai le otto di sera. Gli operatori del trasloco avevano da un paio di ore finito di scaricare nel mio appartamento di New York City, in pieno centro di Manhattan, i vari scatoloni che contenevano gli ultimi oggetti e apparecchi: libri, quadri, foto incorniciate, anche piatti e bicchieri, vari soprammobili.
Appena arrivata un ‘ora fa con un aereo da Los Angeles, ero entrata nell’appartamento, lasciai le chiavi sull’isola della cucina, mi avviai in salotto, aprii la grande vetrata della terrazza per far entrare l’aria calda e umida di una notte qualunque d’agosto. Andai al centro del salotto davanti al divano bianco in pelle, inspirai a pieni polmoni l’odore di quella dimora non vissuta e grezza, e mi buttai sui morbidi cuscini imbottiti. Rimasi distesa ad inspirare ed espirare sul divano per una buona mezz’ora, senza muovere un muscolo, ascoltando il mio respiro e i rumori di una città che non mi apparteneva, vuota. Guardavo il soffitto, pensavo, anzi no, non pensavo a nulla in particolare, mi rilassavo e aspettavo che qualcosa accadesse, che la mia vita cambiasse direzione … ma che cazzate, la vita non è un libro in cui c’è il cambio di scena, se la vita è una merda lo è punto. Dovrei saperlo essendo scrittrice con appunto una vita che continuava a scendere nel vuoto, giù fino in fondo, nel cestino della mia esistenza. Spero solo che quelli dei rifiuti vengano a prendere l’umido se no comincio a decompormi.
Anche come scrittrice faccio pena.
Credevo di star bene nel silenzio plumbeo della mia casa, mi si addiceva ed era giusto così.

La mia carriera di scrittrice era iniziata circa dieci anni prima. Dopo gli studi di economia per volere di mio padre, ripresi le redini della mia vita cambiando le carte in tavola e ripresi la scrittura creativa l’unica via di fuga per altri mondi. Grazie alla scrittura potevo ricreare con le parole luoghi che abitavano la mia fantasia, senza limitazioni e oppressioni che invece la realtà rappresentava. Mondi come Gotham, una città perennemente schiacciata dal braccio del male, ma sarebbe risorta grazie alla buona volontà di un valoroso cittadino, un guerriero, un cavaliere oscuro che muovendosi nell’ombra poteva aprire spiragli per una nuova luce.
Volevo rischiare, fare la rivoluzione. Forse è stato questo che mi ha dato l’impulso di cominciare questa storia, che mi ha portato a viverla anche in prima persona! Potrò risultare una pazza ma veramente è successo, però magari lo racconterò un’altra volta quando perderò anche l’ultima cosa che possiedo: la ragione.
In quel momento dopo aver spento il notiziario le emozioni che vorticavano nella mia testa si fecero strada lungo tutto il mio corpo.

Le luci che mi abbagliano.
Il rumore di uno schianto
Vetri che si rompono
E poi sangue e urla che squarciano la notte.

 Mi serviva più ossigeno, le pulsazioni del cuore aumentavano, la gola cominciava ad emettere suoni gutturali, singhiozzi, gocce di acqua salata uscivano dai miei occhi ininterrottamente. Ormai il mio corpo non rispondeva ai comandi, ero una foglia mossa da un vento che non si sarebbe fermato finché non l’avrebbe staccata da quel ramo sottile. “Perché ho fatto scivolare via tutto dalle mie mani?” mi ripetevo. Una domanda che mai avrebbe trovato risposta.
Per non perdere le poche briciole della ragione che mi teneva ancora attaccata a questa terra, dovevo programmare d’accapo la mia quotidianità, evitando passi falsi. Avrei continuato negli anni avvenire a condurre una vita monotona con un lavoro tedioso, senza interferire nelle vite altrui e far male agli altri. Non meritavo la felicità.
*
PRESENTE (2 ottobre 2019, New York City)

Così fu. Una vita monotona come la volevo.
Vivo per inerzia, non ho obbiettivi o speranze, e mi sta bene perché ho meno gatte da pelare.
Ho riscritto la mia routine. Mi sveglio ogni mattina alle sei del mattino, mezz’oretta di corsetta a Central Park, tanto per fare un po’ di moto. Ritorno a casa per una doccia e un bicchiere di caffè nero. Alle otto comincio lavoro come contabile in un’impresa di scarpe. Basta libri, ora solo scarpe e numeri, che non ho mai amato. Mi ero rifugiata nella scrittura per scappare dalla matematica ed economia che studiavo a scuola, ma ora è l’opposto. Preferisco una calcolatrice e un computer, che la penna e un foglio.

Poi finito lavoro di solito vado a cena con i miei colleghi, parliamo di lavoro o degli ultimi gossip del momento. Infine, quando torno nel mio appartamento mi infilo velocemente sotto le coperte, aspettando che l’oscurità della notte si diradi per lasciare spazio ad un nuovo mattino uguale al precedente. 
Proprio in questo momento sto percorrendo le strade del mio quartiere che mi conducono a casa accompagnata dalla mia collega e amica Martina Bevilacqua, un’italiana doc ed una pettegola a tutti gli effetti, ma simpatica e cordiale, dal modo di fare molto socievole che ti mette a tuo agio. Ha voluto accompagnarmi a casa dopo la cena di lavoro perché doveva raccontarmi l’ultima novità arrivata sulla bocca di tutti tra gli uffici della nostra azienda.
“Il nostro signor capo, Michael Johns, quel gran pezzo di legno con un buco di trapano al posto del cervello ha avuto la brillante idea di portarsi la sua amante nel suo ufficio privato. Sai no quella che indossa i vestiti tutti floreali e corti che mettono sempre in risalto le chiappette stitiche che si ritrova !! Beh da quello che so se le sbattuta sulla scrivania ok ??! La povera Mary, la signora delle pulizie, ha provato prove ecclatanti dell’accaduto e …”
Non volevo sentire oltre: “Fermati subito, non voglio sentire oltre. Posso immaginarlo anche da sola tesoro, grazie. Ora non guarderò più il capo con gli stessi occhi.” Scuoto ripetutamente la testa per spazzare via le immagini poco caste dei due.
“E come volevi guardarlo il nostro capo scusa ?! Già con i pochi capelli che si ritrova non va bene neanche come spazzola per pulire le incrostazioni delle padelle per la frittura bleah” mi fa notare la mia amica “e poi dovresti essere meno puritana tesoro. Hai ormai quasi quarant’anni, delle gambe che ‘Jennifer Lopez scansati che ti faccio vedere io come vesto Jungle dress’, una chioma di capelli neri che il tempo non ne risente da quanto sono lucenti, e un paio di occhi azzurri sempre in tempesta, che aspettano un marinaio solitario che approdi” mi canzona Martina, prendendomi il viso tra le sue mani a coppa.
Sciolgo la sua presa e la guardo di rimando: “Smettila con queste cafonate e andiamo a casa che domani ho altre centomilacinquecentoquarantadue fatture da registrare”. Provo a darle le spalle e continuare per la mia strada ma mi prende il braccio e mi obbliga fronteggiarla di nuovo: “Devi di fare sempre la vittima e continuare a costruire mattoncino dopo mattoncino questo muro di indifferenza per quanto tempo ancora? Non capisci ti fai solo del male? Perché non riprendi la tua vita di prima ricominciando a scrivere?”
“Lo vuoi capire che la mia vita non esiste più” le urlai di rimando “tutto ciò che avevo costruito è finito per sgretolarsi  e trasmodarsi in polvere. E’ tutto finito. Dall’oblio non si sfugge.” Finii la frase in un flebile sussurro.
“Questa non sei tu! Non sei la scrittrice che ha fatto sognare milioni di scrittori con le sue avventure su Gotham, colme di speranza e di rivalsa. Tu sei molto di più di quello che credi, purtroppo non riesci neanche distinguere tu stessa chi sei davvero. Ti servirebbe una spinta magari.” Mi ammonì la rossa dalla folta chioma riccia. Aveva sempre questo suo lato guerriero e spavaldo contro le cose che trovava ingiuste, ed era sempre al primo posto per combatterle e l’ammiravo per questo, sapevo che mi voleva bene ed era sincera.
“Forse un giorno riuscirò ad innalzarmi dalla rupe dei re” le rivolsi un accenno di sorriso per rassicurarla. “Ed io sarò in prima fila per sostenerti” mi disse felice e mi racchiuse in un abbraccio caloroso e saltellando per l’euforia, che mi fece scappare una risata leggera.

Arrivo finalmente davanti la porta d’entrata del mio condominio e saluto la mia amica con un bacio sulla guancia. Dopo un paio di rampe di scale, arrivo al mio appartamento ed entro. Perfetto, la serata è finita con un discorso filosofico sulla mia vita, di nuovo. Meglio dormirci sopra che domani sarà un altro giorno e dovrà essere uguale al precedente.
Non credo che riuscirò a fare mai quel salto, la mia vita monotona è una sicurezza per me.

Martina non è la prima che ha cercato di ridestarmi e ricominciare, molti ci hanno provato. La prima persona è stata mio marito che ha cercato di portarmi via dalle giornate piene di silenzi in cui mi racchiudevo, arrivando al  punto di darmi un ultimatum sulla nostra relazione che io ho volutamente distrutto. Non potevo risucchiarlo nel mio mondo di perdite, così ho slegato anche l’ultimo nodo.
Mio padre ogni tanto mi fa visita da Parigi e viene a trovarmi, riesce a trovare del tempo da dedicarmi nonostante i suoi impegni con l’azienda multinazionale che possiede. Meraviglioso, peccato che cinque anni fa non aveva nemmeno il tempo per una telefonata di cinque minuti. Ora che vede sua figlia autodistruggersi cerca di starle vicino, che strana e ipocrita è la vita.

Poso la borsa sul tavolo della cucina, vado in bagno per struccarmi e lavarmi i denti. Percorro il corridoi che mi conduce alla mia camera da letto, mi spoglio e mi metto il pigiama: pantaloncini di stoffa corti e grigi, una canotta bianca di cotone e via. Mi distendo sul letto sotto il piumone e chiudo gli occhi.
Aspetto ma niente, non riesco a dormire. Mi giro su un fianco, ma ancora nulla. Troppi pensieri che frullano, mai una buona volta che si placano per una sana dormita. Stasera non è serata, mannaggia a te Martina, tu e i tuoi discorsi da politica indiscussa. Se ci fossi tu al governo, avresti proclamato la legge sul divieto della pizza con ananas e pepperoni, e te l’avrebbero approvata porca vacca.
Mi alzo dal letto ed apro la finestra della camera. Mi siedo sulla sedia davanti la scrivania in mogano, apro uno dei cassetti, prendo il pacchetto di sigarette e comincio a fumarne una.
Rivolgo lo sguardo fuori dalla finestra, i palazzoni della grande metropoli si innalzano verso il cielo come le spade dei Nani nella battaglia dei Cinque Eserciti. Bel libro Lo Hobbit, quasi quasi lo rileggo, tanto vale passare la nottata a fare qualcosa no?
Mi avvio alla biblioteca posta sulla grande parete della stanza.
Poggio il dito sulla copertina rossa del libro che stavo cercando ma prima di sfilarlo gli occhi cambiano direzione e si posano sul libro accanto. E’ un libro con rilegatura e copertina nera, senza un titolo sul dorso: era il libro che ho cominciato a scrivere prima del terribile incidente e di cui non ho avuto il coraggio di recuperare la stesura.
Prendo quel libro tra le mani e ritorno alla scrivania. Apro la copertina rigida e mi porto alla prima pagina.

La notte ha indossato il suo più bel abito. Gotham scopre la sua vera maschera quando scendono le tenebre e il pipistrello è lì che attende la sua fine.  

E poi il bianco della pagina. Non troverò mai una fine a questa maledetta storia.
 *
Il vento gelido del primo mattino mi accapponava la pelle, avrò ho lasciato la finestra aperta ieri notte.
Apro gli occhi. No, aspetta un momento. Stiamo scherzando vero?! Come cazzo faccio a trovarmi distesa, sul tetto del mio condominio, in pigiama?! Ora sono sonnambula oltre che soffrire d’insonnia. Bene, meglio che rientro in casa prima di prendermi un malanno, vestendo solo con una canotta e un paio di shorts non era il massimo ad ottobre.
Mi alzo da terra e mi avvio verso la porta delle scale, la apro e mi ritrovo con una pistola puntata alla testa: “ Mani in alto! Sono il commissario James Gordon, polizia di Gotham. Lei è in arresto, mi segua!”
Non può essere. Lui non è reale. E’ il personaggio di uno dei miei libri. Il prezioso amico e referente del caro Batman.
Perché mi trovo di nuovo qui, nel mio libro?
**
Ecco a voi il primo capitolo di questa storia leggermente, o forse un po’ troppo fantasiosa, ma è così che l’ho pensata quindi …
L’ispirazione arriva anche da una serie coreana che ho guardato ultimamente dal nome “W”, ve la consiglio se siete appassionati del genere o anche solo incuriositi.
Fatemi sapere se la storia vi intriga, al momento siamo solo all’inizia e chissà cosa riserva il futuro alla nostra tormentata Iris.


***

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Capitolo 2
*** Escape room ***


Escape room
 
FLASHBACK (3 ottobre 2004, Gotham)
 
“Come si chiama?”
Spero di star sognando perché al momento la mia mente mi sta facendo dei brutti scherzi. Pochi attimi prima mi ero magicamente ritrovata negli archivi della centrale di polizia, che poi ho scoperto essere di Gotham, ed  uno dei poliziotti che mi trovò era James Gordon.
Ora volete dirmi che qui davanti a me ho il commissario Gordon in carne ed ossa!?

“Signorina, il suo nome prego?” mi risveglio dal mio stato di trance in cui ero piombata pochi attimi prima ricomponendomi e distogliendo lo sguardo dal mio interlocutore. Credo stia pensando che io sia una qualche tipo di maniaca o malata montale, mentre osservavo in modo insistente la montatura dei suoi occhiali troppo spessa per un volto così asciutto e magro. Decisamente sì, credo di dover riscrivere questo piccolo particolare quando tornerò nel mondo reale, se ci tornerò mai ovviamente.
“Mi chiamo Blue Moore, ma questo è lo pseudonimo che uso per i miei libri. Il mio vero nome è Iris D’Orsay.” Risposi in tutta fretta, senza farlo impazientire oltre, notando il frenetico e compulsivo battere della penna, che teneva in mano, sul tavolo grigio di metallo, in cui eravamo seduti uno di fronte all’altro.

Ad ogni domanda a cui rispondevo continuava a scrivere su un foglio la mia dichiarazione, annotandosi con minuziosità ogni particolare che per lui era fondamentale in quello che dicevo.
“Quindi lei si chiama Iris D’Orsay. Età?”
“Ho venticinque anni”
“Iris D’Orsay, venticinque anni, scrittrice. E’ per questo che si trovava negli archivi della centrale, senza permesso e né documenti per giunta, per cercar tra i vari effetti personali, di cadaveri ancora ignoti, nuove ispirazioni ai suoi libri?” concluse, sistemandosi la montatura degli occhiali sul naso e poggiando entrambi i gomiti sul tavolo, piegando anche il corpo senza mai distogliere i suoi occhi da me. Era bravo a mettere in soggezione gli altri. Beh essendo un poliziotto è pure il suo lavoro.
“No certo che no. Anche perché non avrebbe senso, siete tutti voi nel mio libro e non posso cercare ispirazione in un posto dove l’ho già usufruita per crearvi, mi capisce? La mia ispirazione l’ho usata per formare voi e il luogo, la città in cui vivete. Con la mia immaginazione, ho costruito tutto questo e, mi creda, sono ancora molto scossa che voi, commissario Gordon, siete qui davanti ai miei occhi. Uguale a come vi ho scritturato nel libro, tranne per gli occhiali, ma quelli non c’è problema nel sistemarli” dissi con entusiasmo,  rivolgendoli un sorriso.
Si appoggiò allo schienale rilasciando un sonoro sospiro e acquistando una posizione a mio dire disinteressata e stanca: “Quindi lei mi sta dicendo che io e tutto c’ho che sta intorno a noi, tra cui Gotham e le altre persone di questa città sono una finzione?”
“Sì, voi siete dentro al mio libro. Cioè non siete reali, almeno credo …”
“Certo è tutto chiaro signorina”
“Lei non mi crede vero?”
Il commissario si alzò dalla sedia, raccogliendo le varie scartoffie dal tavolo, “Aspetti! Mi creda, glielo posso provare” dissi, mentre sbattei con forza e prepotenza le mani sul piano per attirare di nuovo il suo sguardo su di me.
“Quando decisi di scritturarvi ho pensato ad un uomo che era l’opposto di mio padre. Un uomo che vive per proteggere la sua città e le persone che ci vivono.” Gordon si fermò a guardarmi ed aspettava che continuassi ciò che avevo da dire“Voi siete una persona giusta signor commissario, fermamente convinto che applicando e rispettando la legge si può vincere su ogni cosa. Siete anche un marito premuroso. Alle volte siete mancato alle cene di famiglia per mettere in primo piano questioni di lavoro molto importanti a cui avete preso parte, ma sua moglie non si è mai lamentata perché sa che farete sempre in modo di rimanere incolume per i suoi figli e sconfiggere la criminalità. Per la sua famiglia, commissario Gordon, siete un pilastro e per Batman siete un amico fidato, a cui chiedere aiuto ed informazioni.”
Quando conclusi, l’uomo in piedi davanti a me mi squadrava con un misto di stupore ed interesse. Forse ora mi crede.

“Per cui lei è una stalker oltre che psicopatica!” proferì il commissario. Sono sconvolta, perché all’interno del mio libro nessuno mi prende sul serio!?
“Senta come glielo devo far capire che io sono veramente l’autrice del libro in cui voi vivete? E’ la verità.”
“Allora mi dica: chi è Batman? Qual è il suo nome?”
“Ma voi non vi siete mai interessato all’identità del giustiziere di Gotham. Non è nei vostri interessi perché voi vi fidate di lui!” mi alterai.
“Facciamo così: io ora me ne torno in ufficio a riposare e prendermi un’aspirina per il mal di testa, mentre lei pensa e scrive una dichiarazione plausibile per cui io possa scagionarla, e non rinchiuderla al manicomio di Arkham. Siamo intesi?” e il poliziotto uscì dalla stanza, lasciando sul tavolo un foglio bianco e una penna.

Bene. Sono considerata una donna pericolosa per la società con chiari problemi mentali. Porca puttana devo uscire da questo incubo!!! Ma che cazzo dico!? Devo risvegliarmi da questo sogno perché ora sto dormendo sul letto di casa mia e tutto questo non è assolutamente reale!

 Allora ricapitoliamo: sono rientrata a casa dopo una estenuante riunione sui vari eventi per la pubblicazione del mio libro, ho cenato con gli avanzi del giorno prima, una bistecca e un piatto d’insalata, poi ho guardato uno dei tanti telefilm poliziesco che davano alla tv ed infine mi sono messa a correggere e riscrivere varie parti del libro in cui ero incerta. Per cui non mi sono distesa a letto per dormire, anzi stavo scrivendo!
Bingo!
Devo solamente continuare a scrivere, forse è questo che vuole il libro da me no? Anche perché è colpa del mio libro se sono qui, giusto?! Oddio ma che discorsi sto facendo, è assurdo!

Presi in mano la penna e mi avvicinai il foglio per scrivere. Tanto vale tentare, ormai sono classificata come una pazza quindi.

‘La donna misteriosa, comparsa magicamente all’interno della centrale di polizia di  Gotham, scomparì come era arrivata. Lasciando dietro di se un alone di mistero.’

Mi ritrovai seduta su una panchina di uno dei grandi parchi di Gotham. Aveva funzionato, almeno ero uscita da lì. Ora cerchiamo definitivamente di uscire da questo gioco mentale!               
 *
PRESENTE (3 ottobre 2019, Gotham)

Mi alzo da terra e mi avvio verso la porta delle scale, la apro e mi ritrovo con una pistola puntata alla testa: “ Mani in alto! Sono l’ispettore James Gordon, polizia di Gotham. Lei è in arresto, mi segua!”
“Aspetti c’è un equivoco! Purtroppo credo di soffrire di sonnambulismo e per sbaglio sarò arrivata fino a qui!” cerco di spiegare la mia posizione, ma a quanto pare la questione è più grave del previsto. “Certo e mentre deambulava ha ucciso uno dei nostri uomini qui in sorveglianza al distretto di polizia. Venga dovrà trovare una scusa migliore signora!” disse mentre mi prende i polsi per chiuderli in un paio di manette.

Gordon e i due agenti al seguito, che mi tengono sottotiro con la loro pistola d’ordinanza, mi portano in una delle sale per interrogatori.
All’interno della saletta, al centro, c’è il comunissimo tavolo in metallo con due sedie, una opposta all’altra. Ogni volta che guardavo un telefilm poliziesco da giovane, trovavo la scena dell’interrogatorio sempre interessante e ansiosa, con quel silenzio in sottofondo ad ogni domanda che il poliziotto sottoponeva all’indagato. Fantastico, tranne per il fatto che ora sono io  quella seduta sulla sedia fredda di metallo, un paio di manette ai polsi, la luce accecante puntata sul viso, peggio delle lampade abbronzanti, e in pieno panico nel capire che diavolo stava succedendo.
“Senta signora, la sua posizione è molto grave e spero che abbia una valida motivazione di esser stata trovata sul tetto di questo edificio mentre, solo pochi minuti prima, hanno sparato alla testa una persona, proprio in uno degli uffici della centrale, qualche piano sottostante a dove si trovava lei. Sia chiaro, la sua cosa sul sonnambulismo non la bevo è meglio che sia più precisa. Come si chiama ? Non ha nemmeno i documenti con se” finì Il suo piccolo monologo, il commissario Gordon, affilando sempre più lo sguardo su di me.
“Mi chiamo Iris, Iris D’Orsay, e credo che voi già mi conosciate, no?” domandai speranzosa al commissario. Non poteva avermi dimenticato, dopo tutto quello che era successo quando ero sta qui, e per come si erano concluse le cose la scorsa volta.
A quanto pare la sua memoria non mi tradì. L’espressione che aveva assunto il suo viso era sorpresa e contrariata, forse per il fatto che ero molto cambiata. Ero invecchiata in confronto a lui.
“Non mi prenda in giro, non è un gioco questo. Quella ragazza, Iris, è ritornata nel suo mondo cinque anni fa ed era molto giovane …”  
“Beh a quanto pare lo spazio-tempo è differente, non è collegato. Glielo assicuro commissario, sono io, Iris, e sono tornata qui per non so quale motivo. Voi dovete credermi vi prego! Dovete aiutarmi!” dissi disperata.
Qual è la vera identità di Batman?” mi domandò. Sapevo già la risposta.
Voi non vi siete mai interessato all’identità del giustiziere di Gotham. Non è nei vostri interessi perché voi vi fidate di lui!”risposi sinceramente, cercando di usare le stesse parole di quindici anni prima.
“Esatto!” e mi rivolse un sorriso leggero. Lui mi credeva.

Ci fu qualche minuto di silenzio in cui cominciò a scrivere sul retro del foglio che mi passò per farmelo leggere.

Non posso lasciarti andare come se niente fosse. Purtroppo sei l’unica indagata, essendo la sola a trovarsi nel luogo del delitto durante l’uccisione della vittima. Nessun agente è presente in questo piano al momento, ma devi fare presto. Tra poco arriverà qui uno dei miei colleghi a portarmi il caffè, quello è il momento giusto per scappare. Non usare il trucchetto della penna, potresti dare troppo nell’occhio.

“Facciamo così: io ora mi bevo un buon caffè, mentre lei pensa e scrive una dichiarazione plausibile per cui io possa scagionarla, e non rinchiuderla al manicomio di Arkham. Siamo intesi?”  concluse Gordon passandomi la penna,  che presi tra le mani, e rivolgendomi uno sguardo d’intesa, per mettermi in guardia che il momento dell’azione stava arrivando.

Infatti, da lì a poco arrivò uno degli agenti come previsto, ed in mano aveva la tazza di caffè che il commissario aveva richiesto. Piegai il messaggio che James Gordon mi aveva passato e lo misi nella tasca del pigiama che indossavo, insieme alla penna.
Pensai in fretta e feci la mia mossa.

Mi alzai di scatto dalla sedia ed urtai con il braccio il poliziotto, facendo cadere a terra la bevanda che stava porgendo al suo superiore.
Fu un’azione molto veloce e meccanica quasi: presi dal fodero la pistola di ordinanza del giovane poliziotto distratto dalla precedente caduta del caffè.
Tolsi la sicura dell’arma e la puntai verso i due agenti che prontamente alzarono le mani.
“Non faccia cazzate signora!” mi ammonì il commissario Gordon.
Indietreggiai piano e uscii dalla stanza. Chiusi dall’esterno la porta con la chiave già presente nella serratura.
Mi asciugai il sudore freddo dalla fronte. Credo sia colpa dei libri che scrivo e delle troppe serie tv poliziesche che guardo, se ho appena fatto questa cazzata.

Cerchiamo di uscire da qui con indiscrezione stavolta.

 
***
La storia si sta sviluppando piano piano.
Questi due capitoli sono molto importanti per introdurvi all’interno della mia storia e per farvi capire le dinamiche.
Come avete letto non è la prima volta che Iris entra nel suo libro come. Si ritrova nel mondo che ha creato e deve capire perché è nuovamente lì.
La ragione della sua prima visita non è ancora stata rivelata, ma sarà completamente differente visto anche il lasso di tempo che è passato, in più sono successe molte cose sia nella Gotham di Batman e sia nel mondo reale di Iris.
Fatemi sapere se vi piace o no lo sviluppo che la storia sta seguendo.
Sono ben accettate le critiche costruttive ad esempio se scrivo male, non si capiscono i vari episodi accaduti, se faccio molti errori grammaticali oppure qualche consiglio nel migliorare la storia, ecc.
Cercherò di aggiornare un capitolo a settimana, salvo imprevisti.
A presto.
***

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Capitolo 3
*** Bedtime story ***


N.B. Quando finite la lettura del capitolo per favore leggete lo spazio autrice.
 
Bedtime story
 
Tolsi la sicura dell’arma e la puntai verso i due agenti che prontamente alzarono le mani.
“Non faccia cazzate signora!” mi ammonì il commissario Gordon.
Indietreggiai piano e uscii dalla stanza. Chiusi dall’esterno la porta con la chiave già presente nella serratura.

Quante cazzate continuerai a fare nella tua vita Iris accidenti!? Ti sembra dare poco nell’occhio rinchiudendo due poliziotti a chiave in una stanza, per giunta nella centrale di polizia !? Devi esserti proprio fumata il cervello dio santo!
Signore! Basta chiacchiere devo uscire di qui.

Osservai la mano con cui tenevo stretta ancora la pistola. Non avevo mai avuto il coraggio di impugnare un’arma ed ora l’ho fatto, senza esitazione. E’ stato uno scatto talmente veloce che non me ne ero totalmente accorta. Il pensiero di scappare da tutto questo, di nuovo, mi ha annebbiato il giudizio, la mia sana moralità. Ora sono una fuorilegge, in un mondo non reale, ma pur sempre il mondo ho creato.

Rabbrividii al solo pensiero che potevo far male veramente a qualcuno con quell’affare, così abbassai l’arma ai miei piedi e la poggiai a terra.
Sentii un leggero vociferare proveniente dal fondo del corridoio, forse erano agenti del turno di mattina visto che non c’era nessuno negli uffici presenti su questo piano e le finestre oscurate da persiane abbassate.
Dovevo muovermi ma prima dovevo assolutamente cambiarmi, se no sarebbe stato impossibile uscire da qui senza passare inosservati.
Gordon e l’altro agente che avevo preso in “ostaggio” non avevano la divisa addosso quando gli ho affrontati, quindi posso dedurre che stavano per fare un cambio turno giusto?
Attraversai velocemente il lungo corridoio di uffici, scorrendo con lo sguardo le targhette con i nomi su ogni porta presente.

‘Commissario James Gordon’ trovato!

Afferrai il pomello e lo girai, allo scatto aprii la porta e la richiusi alle mie spalle.
Non feci neanche due passi all’interno della stanza che quasi inciampai su una pila di scartoffie, registri e articoli vari, certo che Jim ha un senso dell’ordine spaventoso. L’ufficio era disseminato da pile e pile di fogli di carta, quaderni e scatole, poste sopra la scrivania centrale, sulle credenze e librerie appoggiate alle pareti, e pure a ricoprire quasi la metà del pavimento con qualche posacenere (rigorosamente non svuotati) qua e là. Non c’era speranza per quest’uomo, povera moglie.
Su una delle due sedie della scrivania era posata distrattamente una divisa d’ordinanza: giacca e pantaloni. La indossai velocemente sopra il pigiama.

Uscii dall’ufficio e finii di percorrere il corridoio per arrivare alle scale che mi porteranno al pian terreno e così alla porta principale.
La porta delle scale si spalancò e mi trovai di fronte una poliziotta. Mi bloccai sul posto e cercai di regolare il respiro.
“Signora …” la donna strinse lo sguardo verso il mio petto dove era posta una targhetta identificativa simile alla sua e lesse “… Morgan è nuova qui immagino. Tenga le chiavi della volante parcheggiata davanti all’edificio e la parcheggi nell’apposito garage.” Mi ordinò, facendo tintinnare un mazzo di chiavi davanti al mio volto che mi lanciò e mi superò andando, credo, verso il suo ufficio.

Mi sbloccai dalla mia posizione e, con le chiavi in mano, scesi di corsa la rampa di scale verso la libertà.
Arrivai senza altre interruzioni alla macchina davanti l’edificio e ci salii.
Misi in moto e partii verso l’unico luogo in cui mi sentivo al sicuro.
 
FLASHBACK (3 ottobre 2004, Gotham)
Tenendomi le braccia al petto per cercare in qualche modo di ripararmi dalla brezza fredda del primo mattino, cominciai a camminare verso l’unico posto in cui mi sarei trovata al sicuro, stando attenta a schivare le pozzanghere formatesi forse dal forte acquazzone della notte precedente, per non sporcare  le mie pantofole preferite con le stampe della carica dei centouno e Crudelia De Mon in primo piano.
Arrivai finalmente davanti all’enorme palazzo dei primi del novecento, salii gli scalini in pietra che mi portarono davanti alla grande porta d’ingresso. Ero sicura che fosse questa la casa, dopotutto era uguale a come l’avevo descritta sul libro, tranne per il fatto che quando scendeva la notte devo dire che era molto più lugubre e imponente. Controllai per sicurezza il nome sul campanello affianco all’entrata e pigiai successivamente per suonare.

‘Din Don’

Aveva appena iniziato a scendere una leggera pioggia su Gotham, portando dietro di sé una pungente umidità che il mio pigiama leggero purtroppo non riusciva a contrastare, provocandomi fremiti di freddo su tutto il corpo.
La porta si spalancò quel tanto da far intravedere la figura dell’uomo dietro ad essa: aveva un portamento molto rigido ed eretto, capelli ormai tendenti al grigio per l’età che portava sulle spalle, sul volto un’espressione seria ma cordiale e una mano posta sul ventre in segno di disponibile e gentilezza. Il mio Alfred, il maggiordomo perfetto con consigli ed insegnamenti sempre da impartire al giovane miliardario Bruce Wayne.
“Salve desidera?”

 
PRESENTE (3 ottobre 2019, Gotham)
Finalmente ero arrivata.
Parcheggiai la volante dietro a dei cespugli nel parco lì vicino. Scesi dalla macchina e mi avviai verso la porta d’ingresso della grande casa.

Din Don

La porta si aprì.
“Salve desid-… ? Signorina Iris?!”
Sorrisi alla faccia stupita del maggiordomo che presto mi rinchiuse in uno dei suoi rari abbracci. “Alfred, nemmeno il commissario Gordon mi ha riconosciuto subito, ha dovuto farmi il quarto grado per credermi.” dissi, ricambiando con piacere l’affetto ricevuto.
L’uomo sciolse il dolce gesto appena compiuto. “Speravo di rivederla di nuovo in pigiama sotto a una pioggia persistente come la prima volta. Ora, invece, è una poliziotta con qualche anno in più se non sbaglio, giusto? Credo che lei mi debba spiegare molte cose. Venga pure e bentornata a Gotham.” Alfred mi fece entrare nella grande magione Wayne.

Entrai nella gigantesca dimora. L’odore inconfondibile, simile a un negozio di antiquariato, ma meno polveroso, mi arrivò alle narici. Mobili antichi in legno scuro e grandi arazzi abbellivano le pareti della grande sala che dava benvenuto agli ospiti che vi entravano. Le antiche battaglie, raffigurate sui tessuti suntuosi eseguiti a mano, mettevano ben in risalto la potenza della famiglia Wayne, o di quello che ne rimaneva.
Tanti ricordi, che man mano con il passare degli anni, si dissolveranno uno ad uno ed aleggiavano ancora in questo ambiente, come spiriti in cerca di pace.

“Mi segua signorina, è arrivata giusta in tempo per la tazza di caffè mattutina.” Dichiarò il maggiordomo, comparendo con in mano il vassoio per il caffè. L’uomo mi fece strada attraverso gli intricati ed alti corridoi che collegavano le varie stanze presenti.
“Sai Alfred, quella volta avrei dovuto descrivere una casa più piccola con un unico piano terra. Mi dispiace farti fare tutta questa strada ogni volta per arrivare ad una stanza all’altra.”
“Solo perché ho molti più anni di lei non significa che le mie gambe non siano ancora in forma. Mi sento alquanto offeso sa? Dovrebbe sapere meglio di me che sono un uomo instancabile. Se sopporto il signorino Bruce da molti anni crede che non riesca sopportare qualche scalino in più?” mi rimproverò Alfred in modo giocoso.
“Hai ragione, me n’ero dimenticata.”

Ci accomodammo in soggiorno. Mi sedetti a lato del divano affianco al camino aperto e acceso che riscaldava la stanza. Invece, Alfred si sedette sulla poltrona di fronte a me, poggiando il vassoio sul tavolino da the che ci separava.

“Sembra che si sia dimenticata molte cose …” disse, e versò dalla teiera il caffè sulle tazze.
“Perché dici questo? Quindici anni possono fare la differenza, sicuramente, ma di tutti voi non mi scorderei mai.” Domandai e presi dal manico una delle due tazze bollenti.
“Certamente è cresciuta e lo si nota. Però la vedo sperduta, come la prima volta ma con un sentimento diverso nei suoi occhi. Si sente sollevata a trovarsi qui in questo mondo. Sta scappando da qualcosa?”
“Forse sono solo felice di rivedervi. Non ti preoccupare Alfred devo capire perché sono tornata e poi me ne andrò di nuovo” conclusi con tono neutro, bevendo un sorso di caffè e rivolgendo lo sguardo verso il camino acceso.  
Il picchiettare delle braci accese mi rilassava, il fuoco mi scaldava il corpo, ideale per una mattinata invernale come questa e ricordi gelidi da liberare.

 
FLASHBACK (16 febbraio 1999, mondo reale)
“Forza a letto!” decretai in tono autoritario contro quel marmocchio di mio fratello minore di quattordici anni, in piena fase ormonale.
“Ma sono solo le nove di sera ? Neanche le galline vanno a letto a quest’ora!” sbuffò sonoramente il ragazzino che stavo ospitando a casa mia, dopo che mio padre me l’ha spedito come un pacco postale lasciandomi per scritto che era mio dovere da sorella maggiore di “rieducarlo” in questa settimana, perché lui tempo non ne aveva da sprecare con ‘casi senza speranza’. Grazie papà, peccato che il genitore sei tu!

“Davvero? Hai un pollaio? Studiate il comportamento del Gallus gallus domesticus nelle ore di biologia?  No, quindi smettila di lamentarti e va a dormire. Domani sarà una lunga giornata!”
“Tanto sono stato espulso da scuola per una settimana, ho molte giornate libere per rilassarmi” sentenziò il diavoletto, stiracchiandosi disteso sul lato destro del letto matrimoniale, nella mia camera da letto, e portandosi gli avambracci dietro la nuca.
Mi misi anch’io supina, e sorridendo rimbeccai:“Esatto, recuperando lo studio perso ti rilasserai. Bravo fratellino!”
Mio fratello si alzò di scatto a sedere e cominciò ad inveirmi contro la sua disapprovazione:“Cosa!? Tu non hai proprio recepito il messaggio sorella …”.
 “Sì invece caro mio, perché sarò la tua tata per un’intera settimana, e se non vuoi farmi esplodere la testa prima che lo faccia io a te, è meglio per la tua incolumità che tu faccia come la sottoscritta e padrona di casa richiede” risposi tranquilla, e soddisfatta di me stessa.
“Era meglio se rimanevo a dormire da papà …”
Risi di gusto alla cazzata appena proferita.“Sì certo. Così lui ti avrebbe messo a forza seduto su una scrivania e a fatturare conti bancari dei clienti. Devi sentirti fortunato caro mio, ad avere la tua sorellona che studia centinaia di chilometri lontano da casa. Ora dormiamo.” Finii quello che avevo da dirgli e mi misi su un fianco rivolta verso il comodino.

Allungai il braccio per spegnere l’abat jour ma la voce della bestiolina accanto mi bloccò: “No, aspetta … non ho sonno. Raccontami una storia come facevi quando eravamo piccoli.”
“Vuoi che ti racconti una storia della buonanotte a un ragazzo grande e grosso come te?”gli domandai, sfottendolo.
“Okay è una richiesta stupida.” Si distese nuovamente e chiuse gli occhi.
“No no, va bene ti racconto una storia. Allora, c’era una volta un cavaliere …”
“ … in cerca della sua principessa . Anche no grazie. Voglio una storia di azione, piena di gangstar che fanno la lotta fra loro con pistole e fucili, e …”
“Frena Escobar. Prima di tutto guardi troppi film spazzatura e secondo la storia è mia per cui zitto e ascolta” mi schiarii la voce e mi misi seduta appoggiando la schiena alla tastiera del letto.

“C’era una volta un cavaliere oscuro. Quando giungeva la notte, il cavaliere indossava la sua maschera e la divisa nera per combattere in gran segreto e sottocopertura la mafia che aveva intaccato le fondamenta della povera città di Gotham.”
“E di giorno chi era?”
“Di giorno l’uomo, che per coincidenza si chiamava Bruce come te, era l’eroe della sua famiglia a cui ovviamente teneva segreta la sua vita di giustiziere solitario …” ma mio fratello mi bloccò ancora.
“Impossibile. Gli eroi sono sempre soli alla fine, tormentati dagli errori del passato. Come te e me.”

 
***
Scusate per il ritardo ma non sono riuscita ad aggiornare prima la storia per problemi personali.
Ho messo un po’ di ordine sistemato nei flashback scrivendo l’anno e in quale luogo si sono svolti, sperando che ora la lettura sia più pulita.
Non ricordo se ho fatto altre modifiche ma vi aggiornerò se ne farò di nuove.
Fatemi sapere se al momento il filo logico della storia si capisce o è troppo incasinato così da risolvere.
Alla prossima.
***

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