The Sound of Dream di Celtica (/viewuser.php?uid=833314)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Sound of Dream ***
Capitolo 2: *** Chiuso ***
Capitolo 3: *** Nei miei Sogni ***
Capitolo 4: *** Giocare con il Fuoco ***
Capitolo 5: *** Ancora un Sogno ***
Capitolo 1 *** The Sound of Dream ***
The sound of silence
Questa
storia partecipa a Ottobre Challenge:
Trick or Treat? Indetta sul gruppo facebook Il
Giardino di Efp.
Prompt:
odore di pioggia.
Prompt
di Relie:
A
lavora in un bar. B è cliente.
Ad
A piace B, ma non trova il coraggio di avvicinarsi. Quando finalmente
si decide
ad andare a parlare con B, entra C e si siede accanto a B.
Sandor ha 36 anni e Sansa 21.
The Sound of Dream
Sansa era seduta
al solito posto, a
leggere il solito libro.
La tazza
di tè sul tavolo davanti a lei aveva smesso di fumare da
almeno un quarto d’ora.
Sandor aveva seguito ogni scia di vapore da dietro il bancone,
finché non era
stato chiamato da un altro cliente.
«Ehi, Mastino, portami da bere. Il mio
bicchiere
è vuoto.»
«Lo
sai
che detesto quel nome» ringhiò lui, servendo altro
vino a Joffrey.
«Ma è
quello che sei, no?» Il sorriso di Joffrey si
allargò su quel volto da
ragazzino. «Un cane. Con quella faccia… dimmi,
Mastino, che effetto fa suscitare
ribrezzo in ogni donna? Che effetto fa trovartele davanti tutti i
giorni e
sapere di non poter…»
«Sentimi
bene, ragazzino.» La mano di Sandor picchiò forte
sul tavolo. «Sopporto la tua
presenza qui solo perché devo un favore alla tua famiglia.
Altrimenti…»
«Altrimenti
cosa, Cane?» Joffrey si
appoggiò allo schienale della sedia. «Come hai
detto, hai un debito con i Lannister. Quindi mi servirai buon vino ogni
giorno,
gratis, e sorriderai ogni volta che ti
chiamerò Mastino. Perché è questo
che voglio, capito, Mastino?»
Sandor
nascose il ringhio dietro un sorriso. «Buon vino,
certo.»
«Bene.
Ora
che hai capito, portamene un’altra caraffa. Stavolta di
bianco.» Poi Joffrey
lanciò uno sguardo lascivo in direzione di Sansa.
«Mi va di cambiare.»
«Corro.»
Sandor sollevò le labbra a scoprire i denti.
Passò davanti al tavolo da
biliardo, raggiunse il bancone e riempì un quartino con vino
bianco, il migliore
che aveva.
Si accorse
di Sansa, che aveva seguito la scenetta con Joffrey e continuava a
lanciare occhiate
nella direzione di entrambi. Il giovane Lannister intercettò
il suo sguardo e
sorrise seducente.
Lei
strinse gli occhi e si chinò sul suo libro.
«Ecco
qui.» Sandor sbatté la caraffa sul tavolo,
richiamando l’attenzione di Joffrey.
«Il miglior bianco della città.»
«Bene.
Dirò a mia madre che mi hai servito bene.»
«Ma il
bianco migliore non vale niente senza il suo ingrediente
speciale» aggiunse
Sandor, chinandosi in avanti.
«E quale
sarebbe questo ingrediente speciale, Mastino? Non ti ho mai visto
servire
niente di speciale qui dentro.»
«Lo
riservo solo ai clienti migliori.» Sorrise.
«Mmm, sì,
lo capisco.» Joffrey si stava annoiando. «E sia,
aggiungi questo ingrediente e,
se sarà speciale come dici, riferirò a mia madre.
Vedrò di farti abbassare un
po’ il debito.»
Sandor
afferrò il quartino con due mani. «Troppo
gentile.» Poi ci sputò dentro.
Appoggiò
la caraffa di fronte al volto sconvolto di Joffrey, tra
l’ilarità generale.
«Ecco fatto. Servizio speciale per un ragazzo
speciale.»
Joffrey
schizzò in piedi, gli occhi fuori dalle orbite e
l’indice puntato verso Sandor.
Se fosse stato più vicino – se solo gli avesse
sfiorato il petto con quel dito
– glielo avrebbe spezzato.
«Lo
dirò a
mia madre!» prese a farneticare, tremando. «Nessuno
metterà più piede qui
dentro, nessuno! Ti farò chiudere, hai capito, Mastino?
Chiudere!»
Poi se ne
andò facendo sbattere la porta.
Gli altri
clienti ridevano ancora, quando Sandor si avvicinò al
bancone e gridò: «Questo
giro lo offro io!»
I
bicchieri si alzarono nella sua direzione, chi per brindare e chi
aspettando di
vedersi riempire il calice fino al bordo.
Li servì
tutti, uno dopo l’altro, tenendo lei per
ultima. Sansa non si era unita
alle risate generali, e Sandor avrebbe voluto vederle spuntare in volto
almeno un
sorriso.
Quando si
avvicinò, stringendo una tazza di tè tra le mani,
non la vide nemmeno sollevare
lo sguardo. Sentì solo la sua vocina sottile che saliva al
suo orecchio.
«No,
grazie.»
«Che
hai
detto?»
Sansa incontrò
i suoi occhi per un istante brevissimo, e tornò subito a
concentrarsi sul libro
che stava leggendo. «Ho detto: no, grazie.»
«Che c’è?
La scena ha divertito tutti tranne te?»
Il
campanello della porta suonò di nuovo, ma Sandor non ci fece
caso.
Una mano
bianca e sottile salì a sfiorare la tazza di tè,
ancora intonsa sul tavolo.
Sandor riuscì solo a pensare che era proprio lì
che lui l’aveva toccata.
«Ho ancora
la mia tazza di tè. Non riuscirei comunque a berne un
altro.» Poi, vedendo che
lui non se ne andava, alzò di nuovo lo sguardo.
«Comunque grazie.»
Il brusio
della sala lo intontì. Fece per prendere la tazza nuova e
fumante sul tavolo –
era di un nuovo servizio arrivato giusto la settimana prima, che Sandor
stava
conservando per lei – quando qualcuno gli rubò il
tè da davanti al naso.
«Grazie»
disse una voce bassa, roca – maschile
– che fece subito sollevare i
begli occhi azzurri di Sansa. «Lasciala pure. La bevo
io.» L’altra mano accarezzò
la sedia più vicina alla ragazza.
«Posso?»
Solo
allora Sandor si ridestò dal torpore, osservando
l’uomo che gli stava rubando
la tazza dalle mani – e la ragazza nel suo locale.
Corse a
riprendersi la tazza, e Sansa lo guardò spaventata.
«Questa
era offerta dalla casa per la ragazzina.» A quella parola, la
paura svanì dagli
occhi di Sansa e lasciò il posto a un cipiglio arrabbiato.
«Tutti quelli che
hanno riso a una certa cosa, avvenuta prima che ti presentassi qui, ne
hanno diritto.
Tu no.»
L’uomo
sorrise solo con le labbra. «Allora credo che ne
ordinerò una tazza tutta per
me. Che ne dici? Può andare?» Poi tornò
a rivolgersi a Sansa. «Quel libro è
affascinante. L’ho letto tre volte, e il finale continua a
stupirmi…»
Sansa sembrò
dimenticarsi completamente della sua presenza. Si sporse in avanti,
verso
l’uomo in piedi, facendogli segno di sedersi.
«È
un bel
libro» disse con la sua vocina da ragazzina. Quella che
faceva impazzire
Sandor. «Non l’avevo mai letto.»
Sandor
sarebbe rimasto ad ascoltarla per ore. Certi giorni le portava latte,
zucchero
e caffè solo per sentirsi dire di riportarli indietro. Un
pomeriggio in cui si
era sentito particolarmente audace, si era presentato al suo tavolo con
diversi
pasticcini – e lui non serviva pasticcini nel suo locale, ma
quelli li aveva
ordinati apposta per lei – e due bicchieri di limonata. Aveva
insistito tanto
solo per sentirle dire quelle due parole – limonata e
pasticcini – scelte
perché abbastanza lunghe da fargli ascoltare bene la sua
voce.
Ma ora,
mentre lo sconosciuto sedeva al tavolo – il suo tavolo,
dove avrebbe
dovuto accomodarsi lui, offrendole una tazza di tè e
spingendola a parlare
ancora – capì che il suo errore era stato quello
di non interessarsi mai alle
sue letture.
Sansa si
presentava sempre con un libro in borsa. E non se ne andava se non
erano le sei
in punto e non aveva terminato il capitolo.
«L’ho…
l’ho letto anch’io» sussurrò,
per non farsi sentire dagli altri clienti.
Sansa e
l’uomo – comodo, seduto accanto a lei, il braccio
proteso verso il suo libro,
le dita a sfiorare le pagine – lo guardarono come se avesse
interrotto
qualcosa. Poi l’educazione di lei le impose di rispondere.
«Come?»
Sandor
cercò di controllare la voce. «Ho
detto… che l’ho letto anch’io.»
Lo
sconosciuto sorrise sotto i baffi, e lui capì che lo stava
deridendo. Frenò
l’impulso di prenderlo per il bavero della giacca e sbatterlo
fuori dal suo
locale, in mezzo alle prime foglie cadute della stagione.
«Potrei
avere il tè che ho ordinato, per piacere?»
Sandor
avrebbe voluto rispondere tante cose, farne altrettante, ma Sansa lo
stava
osservando.
Grugnì in
risposta e si allontanò con la tazza tra le mani, senza
perdere d’occhio quei
due. L’estraneo aveva aspettato di avere campo libero per
spingersi in avanti e
appoggiarsi alla sedia di Sansa con l’altro braccio. Sandor
schiumò di rabbia
vedendola arrossire.
A quella
distanza, con le voci degli altri clienti, non riusciva a sentire cosa
stesse
dicendo. Ma quando la vide sorridere non ce la fece più. Si
ripresentò al
tavolo con la stessa tazza di tè che aveva portato via, e un
bicchiere di vino
per sé.
«Già
fatto?» chiese lo sconosciuto, inarcando le sopracciglia.
«Che servizio
velocissimo… e che adorabile tazza. Sembra proprio quella di
prima, vero, cara?»
La cosa
che più irritava Sandor era che non smetteva mai di
sorridere.
Sansa
ridacchiò. «Oh, Petyr…»
Oh,
Petyr. Oh Petyr! Ma
chi era Petyr? E cosa
diavolo aveva da ridacchiare? Sandor strinse i pugni, prese una sedia e
sedette
insieme a loro.
«Non
pensavo che avrei incontrato qualcuno che conoscesse questo
libro.» Poi si
accorse di lui, alla sua destra, e il suo sorriso si spense.
«Come
dicevo» ringhiò Sandor, stringendosi sulla sedia
troppo piccola, «l’ho letto
anch’io.»
Petyr-come-diavolo-si-chiamava
rivolse le sue attenzioni su di lui. «Ma davvero? E qual
è la parte che hai
gradito di più?»
Sansa
infilò il segnalibro tra le pagine e chiuse il libro,
accarezzandone il dorso.
Sandor sentì una stretta allo stomaco. Deglutì e
cercò di concentrarsi
sull’immagine di copertina.
«Il
faro.
Quando vanno tutti al faro» buttò lì.
Gli occhi
di Sansa si abbassarono, pieni di imbarazzo, mentre Petyr si sporse in
avanti.
«Ma non mi
dire… e cosa fanno precisamente al faro?»
«Ora
basta, Petyr.» La voce di Sansa si fece più
matura, e Sandor percepì una certa
durezza nel suo tono. «Non mi sembra il caso.»
«Hai
ragione, mia cara. Non è il caso. Ma giusto
perché tu lo sappia, amico mio, non
c’è nessun faro nel libro.»
Forse fu
l’imbarazzo di Sansa a farlo reagire. Forse il fatto di non
incontrare mai il
suo sguardo. Fatto sta che Sandor si erse in tutta la sua altezza, e
afferrò Petyr-il-diavolo
per il collo. Gli bastò una mano sola per sollevarlo da
terra.
Lo sentì
scalciare contro il tavolo.
«Se lo
rovini, lo paghi» ringhiò Sandor, mostrando i
denti.
Lo
trascinò alla porta così, sollevato da terra, con
due mani intrecciate al suo
braccio, mentre Petyr cercava di non soffocare. Era divertente vedere
come tentasse
di gridare, senza riuscirci.
Con la
mano libera, Sandor aprì la porta e uscì in
strada. L’aria era gelida e il
cielo preannunciava tempesta. Il cumulo di foglie secche che aveva
raccolto
quella mattina stava raschiando la strada. Troppo tardi si era accorto
di non
avere sacchi in cui metterle… e ora osservava il suo lavoro
rotolare sul
marciapiede, di fronte al parco dove Joffrey e i suoi amici andavano a
fare
baldoria.
«Met-ti…metti-mi…
giù» sibilò quel diavolo che stringeva
tra le dita.
«Come
vuoi.»
Sganciò
la
mano dal suo collo, e Petyr ruzzolò a terra, sotto lo
sguardo impietrito dei
clienti del locale. Non c’erano altri testimoni per strada.
C’era odore di
pioggia e faceva troppo freddo.
Petyr
gattonò lontano da lui il più in fretta
possibile. E quando girò l’angolo,
Sandor si pulì le mani nel grembiule e tornò
dentro.
Si trovò
davanti Sansa, in piedi davanti alla porta, con il libro stretto al
petto.
Aveva un tale fuoco negli occhi che Sandor avrebbe voluto prenderla e
portarla
sul retro.
«Che hai
da guardare?» disse, facendo un passo verso di lei, pensando
di vederla
indietreggiare. «Non hai mai visto gettare via la
spazzatura?»
Ma Sansa
rimase muta e immobile. Non la smetteva di fissarlo.
Sandor
fece un altro passo avanti. «Allora, ragazzina? Hai perso la
voce?»
«Sei
un
bruto.» Solo allora Sansa fece un passo indietro. Sandor
avanzò ancora.
Nel locale
scese il silenzio. Troppi occhi erano puntati su di loro. Troppe
orecchie
pronte ad ascoltare e riferire. Qualche bocca avrebbe interferito, di
questo
era certo.
Così,
senza staccare gli occhi da quelli di lei, Sandor alzò le
braccia.
«Fuori»
disse.
E stavolta
nessuno interpretò male le sue parole. Sciamarono tutti
verso la porta,
lasciandoli soli. Nessuna interferenza, quel giorno.
N.d.A.:
Ho
il prompt di Relie da parte da circa un anno e mezzo. L’ho
trovato per caso, e
ho pensato subito che fosse perfetto per una piccola long! Fatemi
sapere cosa
ne pensate!
Celtica
|
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Capitolo 2 *** Chiuso ***
2. Chiuso
Questa
storia partecipa a Ottobre Challenge:
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Giardino di Efp.
Prompt:
coprire le spalle di qualcuno.
Chiuso
Non
c’era più nessuno nel locale, solo loro. E Sandor
sapeva di non aver bisogno di
girare il cartello su “Chiuso”, che la voce si
sarebbe sparsa in fretta e
nessun individuo si sarebbe avventurato lì dentro. Non quel
giorno.
Sansa fece un altro
passo indietro. «Mi
fai paura. Voglio andare via.»
«Tutto
ti fa paura. Allora vattene,
uccelletto.»
«Uccelletto?»
bisbigliò lei,
indietreggiando. «Vorrei andarmene, ma ci sei tu tra me e la
porta.»
«Fai il giro.» Sandor avanzò di nuovo.
Sentiva il cerchio stringersi intorno a
loro e, nonostante il gelo fuori dal locale, percepiva anche il calore
furente
dentro di sé. E dentro di lei.
«Spostati,
per favore.»
Lui non si
mosse. La vide arretrare
ancora. Poi si bloccò sentendo il tavolo alle sue spalle,
gli occhi sgranati,
in trappola.
«Non
volevi andare via, ragazzina?»
«Ci sei tu in mezzo!»
Gli occhi di
Sansa correvano da una parte
all’altra del locale, come se stesse cercando una via di
fuga. Forse si
domandava se sul retro c’era un’altra uscita, una
che avrebbe potuto imboccare
in quel momento.
«Non mi sposto.» Sandor incrociò le
braccia al petto. «Sono un bruto, hai detto.»
«Mi
dispiace… Ora lasciami andare.»
«Non
sei prigioniera, uccellino.» Iniziava
a trovare la cosa divertente. «Puoi andartene quando
vuoi.»
Sansa deglutì, poi si lanciò di lato, superandolo
di corsa. Lui intercettò il suo polso –
così sottile che avrebbe potuto
spezzarlo senza nessuno sforzo – e la voltò verso
di sé.
Ora iniziava a essere arrabbiato. Sul
serio.
«Davvero
credevi che ti avrei fatto del
male?» Trattenne a stento un ringhio. «Volevi
andartene? Allora vattene! Va’
via! E non tornare più qui dentro, hai capito,
ragazzina?»
Poi la sospinse
verso la porta e aspettò
che uscisse.
Sansa rimase interdetta tra lui e l’uscita,
indecisa se andare o restare. Se fosse fuggita via, lui non le avrebbe
permesso
di tornare. Sembrava rendersi conto di questo, di non poter
più sedere a quel
tavolo, leggendo tutto il pomeriggio dopo aver ordinato la solita tazza
di tè.
Sandor si chiese
cosa stesse aspettando.
Lui si era stancato di aspettare lei. Lo faceva impazzire. A tratti
così dolce
e gentile, e altri così insopportabile, così spaventata.
Ma se aveva così paura di lui, perché
tornava?
C’erano un’infinità di locali in cui
poter
ordinare il suo solito tè. Eppure Sansa si presentava
lì ogni giorno.
«Allora?»
le gridò. «Ti decidi ad
andartene? Così posso chiudere e tornarmene a
casa.»
Sansa si
guardò le punte dei piedi. I
capelli scivolarono a coprirle il volto, mentre fuori scendevano le
prime gocce
di pioggia.
Sandor emise un profondo sospiro, cercando
di calmarsi. Sentiva la solita tempia – quella a cui ormai
aveva dato il nome
di Joffrey – scoppiare.
«È
meglio se ti sbrighi, ragazzina. O
tornerai a casa con le tue belle piume tutte bagnate.»
Lei si intirizzì, proprio come un
uccellino. «Potresti smetterla di chiamarmi
ragazzina?»
«Perché?
Non lo sei?»
«No, non lo sono.»
«Tu mi hai chiamato bruto.»
«Ti ho chiesto scusa.» Sansa arrossì,
restando dritta tra lui e la porta. Pronta a scappare.
«Ma lo
pensi.»
«Che
cosa?»
Sandor le diede le spalle, camminando
verso il bancone. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Dalla prima
volta
che Sansa aveva messo piede lì dentro, lui aveva desiderato
un momento come
quello. Loro due soli, il locale vuoto.
«Che
sono un bruto.»
Prese un calice
da vino e lo riempì di
whiskey fino all’orlo. Niente ghiaccio, niente che potesse
ammorbidirglielo un
po’. Fissò il liquido ambrato come si fissa una
bella donna, e passò la lingua
sulle labbra, pregustandone il sapore. Era l’intorpidimento
che bramava più di
tutto, quel senso di pace, quel cerchio alla testa.
Si portò il calice alla bocca, quando
sentì una vocina alla sua sinistra.
«Non
è troppo?»
Le
lanciò solo un’occhiata, poi scolò
mezzo bicchiere in una volta sola. Si pulì sul dorso della
mano, prendendosi un
momento per guardare Sansa.
«Non dovresti essere già a casa?»
Lei scrollò le spalle. «Sta piovendo.»
Era solo una
scusa, lo sapevano entrambi.
Sandor rise, poi finì il whiskey.
«Quante canzoncine canti, uccelletto.
Anche un sordo si accorgerebbe che stai mentendo.»
«Io
non dico bugie.»
«Che
c’è? Te l’ha detto la maestra a
scuola che non devi dirle?»
«Non le dico e basta.»
Sandor prese un
altro calice e lo riempì a
metà. Non riusciva quasi a sentire l’odore del
whiskey, solo il sapore che
aveva ancora sulle labbra.
«Non starai esagerando?» disse ancora
Sansa.
«Questo
non è per me.» Sandor spinse il
calice davanti a lei. «È per te.»
Sansa si
tirò indietro. «Io non bevo
alcolici, e nemmeno superalcolici.»
«Che c’è? Non hai
l’età per bere?»
«Certo che ce l’ho» si risentì
lei. «È che
non mi va. Non mi piacciono.»
«Non
si bevono per il sapore, uccellino.»
Sandor
riempì il suo calice un’altra volta
e lo ingollò davanti a lei.
«Se non lo bevi, lo prendo io.»
Allungò una mano verso il bicchiere, ma
Sansa lo afferrò prima di lui. Sentì la sua pelle
sotto le dita, liscia e fredda,
come se fosse rimasta sotto la pioggia fino a quel momento.
«Ti
scalderà» le sussurrò.
Sansa si
portò il whiskey alle labbra, ne
assaggiò solo un sorso e sembrò trattenere un
colpo di tosse.
«È orribile» disse, mentre lui non
riusciva a smettere di guardarla.
«Solo
il primo goccio.»
Lei ci
riprovò, un sorso dopo l’altro,
mentre una goccia le scivolava lenta sul mento, lungo la linea sottile
del
collo, fin dentro la camicetta inamidata.
«Hai ragione» mormorò, appoggiandosi al
bancone. «È meglio se continui a bere.»
D’impulso, Sandor le strappò il calice
dalle mani, posandolo dalla parte del barista.
«Sì, ma direi che per essere la
prima volta hai bevuto abbastanza.»
«Non
puoi deciderlo tu.»
Lui la sospinse
verso la porta,
accorgendosi che fuori aveva smesso di piovere.
«Dovresti andare a casa. È ora.»
«Sono già le sei?» disse, poi
sembrò
rendersi conto di qualcosa. «Un momento. Come sai che me ne
vado alle sei?»
Sandor non
rispose, si limitò ad afferrare
la sua giacca e a mettergliela sulle spalle. Sentì la mano
di Sansa, fredda e
piccola e morbida, come se un uccellino si fosse posato su di lui.
Continuò a
stringere il bavero per non interrompere quel contatto.
Che fosse lei a togliere la mano, se
proprio voleva. Lui sarebbe rimasto lì tutta la notte e
anche il giorno dopo, cercando
il coraggio di prenderle le mani e scaldarle tra le sue.
«Grazie»
la sentì sussurrare.
La vide girarsi
verso di lui, sollevare
gli occhi fino a incontrare i suoi. Si perse nell’azzurro.
Mentre fuori il
cielo era grigio e terso, lui volava nel cielo limpido, nuotava in un
lago
estivo e intrecciava una corona di fiori per Sansa.
Solo guardandola, ebbe visione di un tempo
lontano in cui non era stato, di una vita che non aveva vissuto. Di una
fanciulla che non aveva amato.
E al posto della sua giacca scura,
immaginò una cappa bianca, e le stesse piccole mani che ora
stringevano lui.
«Tornerò
domani» bisbigliò Sansa, come se
la stanza fosse stata piena di gente e lei avesse voluto farsi sentire
solo da
lui.
Ti
aspetterò,
pensò Sandor. Ma non lo disse ad alta voce.
N.d.A.:
Rieccoci!
Avrei voluto aggiornare prima,
ma ho scritto così tante drabble per il fandom di Death Note
da non riuscire ad
aspettare qualche giorno prima di pubblicarne qualcuna. E “La
voce dell’Inverno”
arriverà in questi giorni.
Solo una cosa: questa storia è breve, e nel
prossimo capitolo capirete il perché della
“Soulmate!AU!”.
Fatevi sentire!
Celtica
|
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Capitolo 3 *** Nei miei Sogni ***
3. Nei miei sogni
Nei miei Sogni
Il tempo
non era migliorato. Gli alberi di fronte al locale erano sempre
più spogli,
mentre i cumuli di foglie secche da raccogliere aumentavano. Ma nessuno
si era
avventurato in strada per pulire, non quel giorno.
Il vento
era fortissimo. Polare. Come se qualcuno da lassù avesse
mutato il ghiaccio in
aria.
Sandor era
rimasto a dormire nel locale, contro le sue previsioni. Non era la
prima volta,
ma ora era strano pensare di essere intrappolato lì dentro.
Aveva trascorso la
serata a bere, poi aveva rimesso a posto il locale.
Fuori, il
vento era affilato come un rasoio.
Capì che
quel giorno non avrebbe ricevuto molti clienti. Capì che non
avrebbe ricevuto lei.
E infatti,
finché il vento non si placò, alcuni giorni dopo,
Sansa non rimise piede lì
dentro.
Le notti
nel locale furono due, e furono strane. Sandor fece sogni che non aveva
mai
fatto, se non la prima volta che Sansa si era fermata davanti alla
vetrina, a
sbirciare dentro il bar. Ricordava ancora il senso di smarrimento
quando aveva
incontrato i suoi occhi. Come se li avesse già visti.
Ma Sansa
non aveva dato segni di averlo riconosciuto.
Quella
prima notte sognò un bosco, una grande carrozza e cavalieri
in armatura. Sognò
di rincorrere un lupo enorme tra gli alberi. Sentì persino
l’odore della terra
e delle foglie marce, la puzza degli escrementi del suo cavallo.
E nel
sogno c’era anche lei, solo che era poco più di
una bambina. Vestiva d’azzurro
e aveva parte dei capelli intrecciati. Negli occhi le leggeva una gran
paura.
Non
ricordava molto altro. Ed era un’immagine che si ripeteva
spesso durante le sue
notti, quando lei si presentava al bar.
Quando
dormì nel locale, Sandor rivide Sansa nei suoi sogni. Stava
dicendo qualcosa,
ma lui non riusciva a capire cosa. Poi si allontanava al braccio di
Joffrey.
Sandor si
ritrovava allora da solo in una radura, con dame e cavalieri sempre
più
lontani, e uno strano elmo a forma di cane tra le mani. Cercava di
raggiungere
gli altri, ma era troppo lento, e loro sempre più distanti.
Poi
trovava il suo cavallo. Era nero e possente, e si sentì
mentre lo chiamava per
nome.
«Andiamo,
Straniero.»
Il bosco
mutò intorno a lui, trasformandosi nei vicoli di una
città medievale. Ovunque
vedeva solo pietra, straccioni e sporcizia. Nel naso aveva
l’olezzo della
povertà, dei catini svuotati per strada e di topi arrostiti
agli angoli dei
palazzi.
Poi
udì le
urla. Poi la vide.
Gente
sudicia che la trascinava via, lontano da lui. E anche se sapeva di
essere in
un sogno, non poteva fare a meno di lanciarsi a salvarla.
Sentiva il
cuoio delle briglie tra le mani, gli stivali che lasciavano le staffe.
Volteggiò da cavallo e li seguì in un portone
malmesso. Il pavimento era
ricoperto di sporco e di fieno. Ora distingueva bene la sua voce.
«No!»
continuava a gridare.
Sandor
nemmeno si accorse di avere una spada tra le mani. Il sangue non gli
faceva
nessun effetto. Si rese conto di averli uccisi solo quando la
trovò a terra, i
vestiti strappati, tremante come un uccellino.
«Va
tutto bene,
uccellino.»
La prese
tra le braccia e il contatto con la sua pelle lo svegliò.
Aprì gli
occhi sulla brandina nel retro del locale, dove si fermava a
dormicchiare
qualche volta. E il pensiero di non vederla gli provocò una
fitta allo stomaco.
La seconda
notte aspettò di addormentarsi, sicuro di rifare quel sogno.
Ma non era
preparato a quanto vide e a quanto sentì.
Fiamme
verdi lambivano le acque, affondavano le navi, e la puzza dei corpi
bruciati
arrivava fin sulle mura, dov’era lui.
Un nano
gli dava ordini, ma lui aveva negli occhi solo il fuoco… Non
capì nulla di
quanto diceva, se non che intendeva farlo tornare là.
E là era tra le
fiamme.
«In
culo
il Re.»
Si
ritrovò
a vagare in una fortezza, senza sapere dove portasse ogni corridoio, o
cosa ci
fosse dietro ogni porta. Aveva una sola certezza: lei era in una di
quelle
stanze. E lui doveva trovarla.
Sentiva
l’alcol scorrergli nelle vene, dargli alla testa. Aveva
voglia di lei. Voleva
prenderla, e non importava cosa sarebbe accaduto dopo. Sapeva solo
quello.
Quando si
stancò di girare come una trottola, colpì una
torcia, mandandola a terra.
Imprecò ad alta voce. Poi qualcosa lo attirò in
un’altra ala del castello.
C’era come una scia, qualcosa che lo guidava in quella
direzione. E finalmente
trovò una porta – la porta
– e la riconobbe. Era quella del bar.
Sapeva
cosa c’era lì dietro. O meglio: chi.
Posò
la
mano sulla maniglia, deciso a varcarla e a prendere la ragazza, ma una
grande
luce lo investì, e Sandor si risvegliò nel retro
del locale, sulla sua
brandina.
La terza
notte, a casa sua, sognò una grotta. Sansa non
c’era, anche se lui la cercava
tra i volti che aveva intorno. Poi qualcuno lo sospinse verso il fuoco
– il
fuoco! – e gli lanciò una spada.
«Dimostra
la tua innocenza» disse una voce.
Sandor
osservò l’impugnatura e la lama scintillante che
rifletteva il bagliore delle
fiamme. Se solo Sansa fosse stata lì, avrebbe potuto
dimostrarle di poterla
proteggere.
E quando
un uomo con una benda sull’occhio si fece avanti, alla luce,
Sandor si svegliò
di nuovo.
Il giorno
dopo, con il vento più calmo, la gente tornò nel
bar. E tornò anche Sansa.
Si
ignorarono, come avevano sempre fatto, come Sandor non sopportava
più di fare.
Ma quando furono quasi le sei – quando lui aveva ormai perso
la speranza di
parlarle – Joffrey entrò nel locale con due uomini
e Petyr al seguito.
Sansa alzò
gli occhi dal libro per seguire la scena.
«Buonasera,
Mastino.» Joffrey aveva un’espressione
così soddisfatta, che Sandor sentì la
rabbia salirgli al cervello. «Ho parlato con mia madre dopo
il nostro ultimo
incontro. Sai, nemmeno lei è troppo contenta del trattamento
che riservi ai
tuoi clienti…»
Petyr, con
il solito ghigno, si fece avanti. «Ha mandato me per
questo.»
«E chi
cazzo
sei?»
«Il
nostro
avvocato» rispose Joffrey, scambiando uno sguardo
d’intesa con Petyr. «Ora è
meglio se dici alla tua gente di andarsene, prima che si metta
male.»
Molti
clienti, avendo seguito la conversazione, lasciarono il locale in
fretta e
furia. Gli altri erano troppo occupati a giocare a carte per accorgersi
di
qualcosa.
Con
disappunto, Sandor si accorse che Sansa era esattamente dove
l’aveva lasciata.
Al solito tavolo, a leggere il solito libro, la tazza di tè
ormai freddo ancora
intatta.
«Fuori
tutti» ringhiò Sandor a tutti gli altri. Poi si
avvicinò a lei, posando una
mano sulle pagine. «È meglio se te ne vai,
ragazzina.»
Sansa
chiuse il libro e lo ripose nella borsa. Poi prese la tazza di
tè con due mani
e se la portò alle labbra. «Non ho finito il mio
tè.»
Joffrey
rise e si avvicinò. «Lasciala stare, Mastino. Non
ha finito il suo tè…»
Accarezzò la sedia dov’era seduta e
abbassò la testa, guardandolo di sotto in
su. «Magari vuole vederti cadere… Vuoi vederlo
cadere?»
Sansa
lanciò un’occhiata a Sandor per dirgli di non
intervenire. «Voglio solo finire
il mio tè.»
Quando gli
ultimi clienti lasciarono il locale, bastò un cenno di
Joffrey perché un suo
uomo corresse a chiudere a chiave l’entrata, e a voltare il
cartello su
“Chiuso”. L’altro abbassò
tutte le tapparelle.
Poi il
ragazzo fece girare il dito a indicare il bar. «Sai, mia
madre pensava che
avresti speso meglio i suoi soldi. Invece li hai investiti in questa
baracca.»
Sorrise, la schiena ben dritta, come se stesse reggendo una corona.
D’istinto,
Sandor strinse i pugni. «Ma non preoccuparti… Non
ce l’ho con te per il pessimo
servizio – che tra l’altro non è mai
stato minimamente accettabile, nemmeno per
una bettola come questa. Sono qui per aiutarti a rimodernare un
po’. Vero,
ragazzi?»
I due che
erano con lui afferrarono alcune sedie, scagliandole contro le mensole.
Ogni
cosa che c’era sopra cadde a terra. Poi, mentre uno sfondava
il vetro del frigo
dov’erano contenute le birre, l’altro
mandò in frantumi lo specchio dietro il
bancone, lasciando che le bottiglie si sfracellassero al suolo.
«Come
avvocato del signor Lannister…» si fece avanti
Petyr, perdendosi lo sguardo
incuriosito di Sansa, «devo avvertirti che hai una settimana
per restituire il
prestito, o ci vedremo costretti a chiamare la
polizia…»
«Perché
non la chiamate adesso?» si intromise Sansa.
Il sorriso
sul volto di Joffrey scomparve. Era rabbioso. «Sei davvero
una stupida.»
«Perché?»
chiese Sansa con innocenza. Non sembrava offesa. «Volete che
la chiami io?»
Senza
aspettare una risposta, prese il cellulare dalla borsa e
iniziò a digitare un
numero. Joffrey sollevò una mano per colpirla, e Sandor gli
afferrò il polso e
glielo torse. Mentre il ragazzo gridava, Petyr si appropriò
del telefono e
chiuse la chiamata.
«Scusa,
mia cara, ma è meglio se resti in disparte. Lo dico per il
tuo bene.»
Sandor
sollevò Joffrey di peso e lo scagliò contro un
tavolo, attirando l’attenzione
dei due che erano con lui. Gli sembrava di averli già visti.
Non portavano
un’armatura? Un lungo mantello bianco, elmi dorati e spade
alla cintura.
I due
lasciarono perdere il frigo e i liquori, e si lanciarono su di lui. Uno
lo
colpì alla schiena con una sedia, mentre l’altro
tentava di accoltellarlo.
Udì il
grido di Sansa e voltò la testa, vedendo Petyr stringerla in
un abbraccio da
dietro. «Sta’ calma. Non guardare.»
Quella
distrazione gli costò cara.
Quello con
il coltello – che Sandor aveva appena atterrato con un pugno
– gli conficcò la
lama nella gamba, facendolo gemere di dolore. Gli sferrò un
calcio in testa,
mentre l’altro gli ficcò la stecca del biliardo
tra le costole.
Si voltò
di scatto, sferrandogli un manrovescio, e Joffrey saltò in
piedi su un tavolo e
cominciò a gridare: «Uccidetelo! Fatelo a pezzi!
Lo voglio morto! Addosso!
Addosso!»
Sandor
corse verso di lui, ma un attimo prima che riuscisse a raggiungerlo,
qualcuno
lo colpì alla testa.
«No!»
gridò Sansa.
Lui
sentì
gli occhi che si chiudevano. Si sforzò per tenerli aperti.
«Se eri
già brutto prima, guardati ora»
sussurrò Petyr, chino al suo fianco. Poi si
alzò in piedi, rivolgendosi a Joffrey. «Tua madre
ha detto di dargli una
lezione, ed è quello che ha ricevuto. Ora lasciatelo
lì. Non toccatelo.»
«Mi ha
colpito!» gridò Joffrey, saltando. «Ha
colpito me! Un Lannister!»
«Ed
è
stato punito per questo. Ora andiamo via, prima che qualcuno chiami
davvero la
polizia.»
Sentì
la
porta che si apriva e che si chiudeva, le grida di Sansa che veniva
trascinata
fuori. Si aggrappò alle gambe di un tavolo per tirarsi in
piedi, e sentì la
testa che gli doleva. Avrebbe dovuto inseguirli. Sì.
Fece per
raggiungere l’entrata, ma la gamba ferita non resse il suo
peso e Sandor cascò
giù, di nuovo sul pavimento sporco.
Il
campanellino della porta suonò ancora, e lui
riuscì a dire soltanto: «Siamo
chiusi.»
Pensò che
Joffrey dovesse essersi liberato di Petyr per poter tornare
lì con gli altri
due.
Una mano gli
frugò nelle tasche, poi lo afferrò per un
braccio. «Ce la fai ad alzarti?»
Era Sansa.
Sandor avrebbe voluto piangere quando riconobbe la sua voce.
Voltò la testa per
guardarla. «Che ci fai qui?»
«Volevo
chiamare la polizia, ma mi hanno preso la borsa.»
Abbassò gli occhi. «C’è tutta
la mia vita lì dentro. Non solo il cellulare. Ora sanno
tutto di me.»
Quella
notizia gli diede una forza nuova. Si lasciò aiutare a
tirarsi in piedi, poi
prese una sedia e si sedette.
«È
meglio
se torni a casa.»
Sansa
sgranò gli occhi, spaventata. «Sanno dove vivo!
Hanno detto che se chiami la
polizia… che se uno di noi chiama la polizia… che
se proveremo a raccontare a
qualcuno questa storia, mi uccideranno.»
«È
stato
Petyr?»
Sansa
scosse la testa. «Joffrey. Ha detto che dovrò
dimostrargli la mia fedeltà, che
non devo tradirlo. No, Petyr ha cercato… in qualche modo ha
cercato di
difendermi. Ha detto a Joffrey di lasciarmi andare, che non avrei
parlato.»
Sandor
avrebbe voluto mollare tutto e lasciare la città, portando
Sansa con sé.
Avrebbe voluto dare fuoco al locale, fare un salutino a Joffrey e poi
andarsene
per sempre.
Sansa gli
guardava il volto tumefatto. «Hai dei medicinali? Delle
bende?»
Lui
scrollò le spalle. Non aveva mai avuto bisogno di una
cassetta del pronto soccorso.
La vide correre dietro il bancone, frugare tra le sue cose.
Entrò nel bagno –
che Sandor sapeva essere lurido – e quando tornò,
stringeva un flacone e degli
strofinacci.
Lui non
disse niente quando la vide prendere una sedia e sistemargliela di
fronte. Non
disse niente nemmeno quando Sansa inzuppò uno straccio con
quel flacone
trasparente, e glielo strofinò sul viso.
Sentì il
corpo in fiamme ad averla così vicina, a vedere
così bene dentro i suoi occhi.
Come nei
suoi sogni.
«In
genere
sono io che salvo te, uccelletto.»
Sansa
sorrise, e sembrò stupirsi lei stessa di quel sorriso.
«Dove mi avresti
salvata? Non ricordo.»
Nei
miei
sogni, ma non poteva
dire
ad alta voce nemmeno quello.
N.d.A.:
Questa
storia è una minilong, quindi mancano due soli capitoli alla
fine!
Grazie per
aver letto fin qui, e a chi ha recensito o inserito la storia tra
preferite/seguite.
E poi vorrei ringraziare fenice64 (che non manca mai!) e Anonima
Italiana per
aver recensito i primi due capitoli!
Celtica
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Capitolo 4 *** Giocare con il Fuoco ***
4. Giocare con il fuoco
Giocare con il Fuoco
Restarono chiusi nel bar tutta la sera.
Sansa era terrorizzata all’idea di tornare a casa e persino di andare a dormire
da qualche amica.
«Hanno i
miei contatti… i messaggi, tutto. Potrebbero trovarmi ovunque.»
Sandor
capì che il luogo più sicuro per lei poteva essere soltanto il suo bar. Nessuno
si sarebbe aspettato di trovarla ancora lì dentro, sola con lui. E poi c’era
sempre il suo posto segreto… e in caso di problemi avrebbe potuto nasconderla
lì.
«Cosa
possiamo fare?» domandò Sansa, mentre lui si riempiva un bicchiere di vino. «Forse
dovrei andarmene… Tornare nel nord.»
«Perché
non lo fai?»
«Lasciare
tutto? Sto ancora studiando. I miei amici sono qui. E prima di oggi non ho mai
preso in considerazione l’idea di tornare a casa.»
Sandor portò
due bicchieri e una bottiglia superstite di vino, zoppicando fino al tavolo
dov’era seduta Sansa. Lei posò gli occhi sulla sua gamba.
«Dovresti
andare in ospedale.»
«Per dire
cosa? Che mi sono ferito a una gamba mentre affettavo un limone?» Rise e la sua
risata sembrò ferro che strideva. «Tywin Lannister è primario. Saprebbero
subito dove sono. No, preferisco rimettermi da solo. Non mi fido degli
infermieri.»
Versò da
bere a Sansa, e stavolta lei lo prese senza fare obiezioni, bevendone una lunga
sorsata.
«Non avrai
paura degli aghi?»
Solo del
fuoco, da quando faccio quei sogni.
«I fottuti
aghi non mi spaventano.»
«Allora,
se ne hai, dovremmo provare a ricucirti.»
«È il vino
a parlare per te, uccelletto.»
Vide che
aveva il bicchiere quasi vuoto, e una strana luce negli occhi. L’alcol rendeva
coraggiosi, pensò. O stupidi.
«Non
abbiamo dato nemmeno un’occhiata alla ferita alla gamba» proseguì Sansa.
«Dovremmo almeno…»
«Ho
controllato io. E la ferita resta così.»
Sansa
sembrò farsi improvvisamente lucida. «Hai paura di me.»
«Non dire
cazzate.»
Poi lei
abbassò gli occhi sulla bottiglia, la prese e si versò da bere. Lo guardò un
momento, soffermandosi sul suo viso, e quello che vide la spinse a riempirgli
il bicchiere fino all’orlo.
«Grazie
per avermi lasciato stare qui.»
Sandor non
rispose. Cosa poteva dirle? Dei suoi sogni? Della prima volta che l’aveva
vista? Dell’idea di fuggire insieme?
No.
Ingollò
l’intero bicchiere di vino e se ne versò un altro.
«Sei stato
coraggioso ad affrontare Joffrey.»
Lui rise,
una risata cattiva. «Coraggioso? Joffrey è uno scarafaggio. I cani nemmeno si
sprecano a ucciderli, gli scarafaggi.»
«Perché
devi essere sempre tanto odioso?» Sansa incrociò le braccia al petto. «E poi
perché ti consideri un cane? E perché mi chiami sempre uccelletto? Dimmelo.»
«Preferisci
che ti chiami ragazzina?»
«Preferisco
Sansa.»
Si
guardarono. Sandor sentì un brivido di terrore riconoscendo quello sguardo: era
lo stesso che Sansa aveva nei suoi sogni. E se il solo vederla seduta lontano
da lui era sufficiente per sognarla, cosa sarebbe successo quella notte?
Sarebbe riuscito ad aprire quella porta? L’avrebbe trovata? L’avrebbe presa?
Sansa
allungò una mano sul tavolo e la posò sulla sua. Abbassò la voce. «Dimmi
perché. Ti prego.»
Lui non
riuscì a frenare le parole. «Ho fatto un sogno.» La vide sgranare gli occhi, ma
la mano rimase sopra la sua. «E nel sogno ti chiamavo così.»
«Cosa
succedeva nel sogno?»
«Oh, non
fare quella faccia, uccelletto! Niente di quello che pensi.» Voltò la mano,
palmo contro palmo. Per un istante credette che Sansa avrebbe ritirato di corsa
la sua, ma non lo fece. «Era come un corteo in costume. Eravamo tutti vestiti
strani.»
«Tutti?»
Sansa sembrava aver capito, glielo leggeva negli occhi. «Tutti chi?»
Sandor non
riusciva a smettere di guardarla.
«Tutti
quelli che erano qui stasera.»
Sansa
scostò indietro la sedia, perdendo il contatto con lui. Aveva la stessa
espressione di animale in fuga che le aveva visto un paio di notti prima.
«Era solo
un sogno, uccellino.»
«Perché la
gente ti chiama Mastino?»
«Secondo
te perché?»
Sansa posò
gli occhi sul lato del viso dove aveva la cicatrice, ma non disse nulla.
«Per
questa?» Lui non aveva più voglia di giocare. «Non riuscivi nemmeno a
guardarla, prima.»
La vide
abbassare lo sguardo, torturarsi le mani.
«No, non è
per questa. È per quegli stramaledetti sogni. Una notte ho lasciato che un
tizio ubriaco dormisse qui. E al mattino ha detto a tutti che continuavo a
ripetere quella parola. Mastino.»
«Cosa
succedeva in quei sogni?»
Lui
afferrò la bottiglia quasi vuota e se la portò alle labbra. Afferrò il tappo
con i denti e lo sputò lontano.
«Bevevo.»
Sansa si
appoggiò al tavolo, posando la testa sulle braccia incrociate. Non la smetteva
di fissarlo.
«Io cosa
facevo nel tuo sogno? A parte camminare con abiti ridicoli.»
«Non stavi
mai zitta, come adesso.»
Sansa gli
lanciò un’occhiata offesa e voltò la testa dall’altra parte. Lo lasciò a
contemplare i suoi capelli rossi che le accarezzavano la schiena e le braccia,
fino a sfiorarle le gambe fasciate nei jeans.
Era così
tentato di toccarli che allungò una mano per farlo, ma lei si girò di nuovo
verso di lui. Osservò le sue dita stese sul tavolo e si tirò su.
«Che stai
facendo?»
«Niente,
ragazzina. Che cosa dovrei fare?»
Sansa non
rispose. Lasciò vagare le mani sul tavolo come su un pianoforte, fermandole
accanto alla sua.
«Starò
zitta se mi racconterai i tuoi sogni.»
«Perché ti
interessa?»
Sansa
scrollò le spalle. «Non mi sembra ci sia molto altro da fare.»
Lui sapeva
cosa rispondere, ma non lo fece.
«Nei tuoi
sogni…» continuò Sansa, vedendo che lui non diceva niente, «dove sei?»
«Che cazzo
ne so di dove sono?»
«Sei qui?
Sei in qualche città, qualche posto che conosci?»
Lui fece
cenno di no con la testa. La vide chinarsi in avanti.
«C’è un
bosco. E un castello. E a volte le strade di una città, ma è tutto di pietra.»
«E io dove
sono? In quale di questi posti?»
Sandor la
guardò dritto negli occhi. «In tutti.»
La vide
deglutire. Riconobbe il tremito delle palpebre e osservò la bocca schiudersi.
Non l’aveva mai vista così tesa. Lui non si era mai sentito così teso.
«Quanti
sogni hai fatto su di me?» la udì sussurrare.
«Tutti.»
Aveva bisogno di altro vino, ma non voleva alzarsi. Era ipnotizzato dalle mani
di lei, così vicine alla sua. Strinse il pugno per impedirsi di toccarla. «Sei
in ogni fottuto sogno in costume.»
Tranne
l’ultimo, pensò. Lì ti
stavo cercando.
Le dita di
Sansa scivolarono accanto alla sua. Sandor sentì il contatto freddo con la sua
pelle.
«Da quanto
tempo va avanti?» Lei si piegò verso di lui. «Da quanto tempo fai questi
sogni?»
Lui
deglutì. Non voleva rispondere.
«Da quando
ti ho vista la prima volta. Eri ferma davanti a quella vetrina, e sbirciavi
all’interno.»
Il mignolo
di Sansa si infilò sotto la sua mano. Sandor sentì l’unghia contro il palmo.
«Perché
non me l’hai detto?»
Non sapeva
cosa dire. Era così logico il perché non l’avesse fatto… Sospettava che la
domanda di Sansa fosse solo un tentativo di non perdere quel momento.
E quando
lei prese a disegnare dei cerchi sul suo palmo, lui non poté più tacere.
«Stai
giocando con il fuoco, ragazzina.»
«Forse è
quello che voglio» mormorò, ma aveva le lacrime agli occhi.
Sandor
avrebbe tanto voluto ignorare quello che vedeva e abbandonarsi a quella frase. Crederle.
Pensare che fosse qualcosa di più della paura a spingerla tra le sue braccia.
Ma non poteva farlo. Non dopo essersi guardato ogni mattina allo specchio dopo
l’incidente.
«È l’alcol
a parlare» disse, aspro. Poi si alzò in piedi e le indicò la porta che dava sul
retro. «Va’ a dormire, uccelletto. Domani andrà meglio.»
Sansa
lasciò la sedia e scoppiò a piangere.
Non lo
seguì, né si mosse.
«Avanti, è
solo che hai bevuto troppo. Va’.»
«N-no…»
Scosse la testa singhiozzando più forte. «Non è il vino… È che non posso più
tornare a casa. Né qui, né al nord. Non ho più nessuno!»
Sandor la
guardò inginocchiarsi a terra, poi la prese tra le braccia.
«Basta,
uccelletto. Si risolverà tutto, vedrai.»
Sentì le
sue braccia intorno, una mano sulla spalla e l’altra sulla schiena, il suo viso
nell’incavo del collo. Odorava di sapone e magnolia, e il suo corpo era
bollente, come se avesse la febbre. Si chiese se fosse colpa del vino. Poi
Sansa smise di piangere.
Era
leggerissima, ma con la gamba conciata in quel modo aveva l’idea di portare un
peso enorme. Aprì la porta socchiusa con una spallata, posando Sansa sulla
brandina dove aveva dormito tutte quelle notti.
Chi
l’avrebbe mai detto che l’avrebbe avuta lì, nel suo letto?
Fece per
tirarsi su, ma Sansa continuava a stringerlo.
«Aspetta»
continuava a ripetere. «Aspetta, ti prego.»
«Lasciami,
uccellino» mormorò piano.
Lei
abbandonò la sua schiena per deporre le mani sul suo viso. Lo guardava negli
occhi, vicinissimo, e forse era tutta quell’oscurità a non farle battere mai le
palpebre. Posò le labbra sulle sue, e Sandor non riuscì a tirarsi indietro.
«Ti prego»
la udì sussurrare.
«No.» Le
afferrò i polsi e se li allontanò dal viso. «Non adesso. Non così.»
«Perché?»
«Ti
odieresti domani» disse. «E odieresti me ancora di più.»
«Non è
vero.»
«Lo dici
adesso.»
La aiutò a
stendersi, poi le tolse le scarpe. Avrebbe voluto mordersi la lingua piuttosto
che continuare a parlare, ma non riuscì a frenarsi.
«Se domani
la penserai ancora così, allora ne riparleremo.»
N.d.A.:
Scusate il ritardo! Il prossimo
capitolo (l’ultimo) arriverà la prossima settimana.
Il finale di questo è ispirato a un’altra
mia storia: “Domani”, nel fandom di Lady Oscar.
Grazie a chi continua a seguire e a
lasciarmi un parere!
Celtica
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Capitolo 5 *** Ancora un Sogno ***
5. Ancora un sogno
Ancora
un Sogno
Sandor
sognò di nuovo il fuoco verde.
Stavolta lo vedeva da una finestra del castello, dentro una stanza
immersa nel
buio. Trovò comunque il letto e una bambola e, senza sapere
come, capì che era sua.
Si
sdraiò e la attese.
Quando
sentì la porta aprirsi, si alzò e la raggiunse.
Le
coprì
la bocca con la mano soffocando un urlo, e strinse il suo corpo di
bambina a sé.
C’era
qualcosa che non tornava però. Lui sapeva che Sansa non era
davvero una bambina.
Sapeva di averla vista bere alcol e di aver assaggiato le sue labbra.
Parlarono,
ma al risveglio Sandor non riuscì a ricordare di cosa. E
mentre Sansa usciva
dallo stanzino sbadigliando, lui ricordò altri dettagli del
sogno.
Se
urli ti
uccido.
Aveva
in
testa una canzone antica cantata da Sansa, ma non gli venivano in mente
le
parole.
E
poi,
mentre lei prendeva un coltello e cercava qualcosa ancora integro da
mangiare,
a Sandor venne in mente di averle puntato una lama alla gola.
Mi
hai
promesso una canzone, Uccellino.
Credette
di tremare mentre si avvicinava al bancone.
«Ti
senti
bene?» chiese lei.
Sto
andando.
«Dobbiamo
andarcene.»
Sto
andando via.
«Andarcene?
Andarcene dove?»
«Lontano
da qui, dove i Lannister non ci troveranno mai.»
Lontano
dai fuochi.
Sansa
smise di affettare una mela. «Devi aver bevuto troppo, ieri
sera.»
Lui
ricordò di averla avuta sotto di sé mentre
cantava. Ricordò di aver pianto, e
la mano di Sansa che gli accarezzava la guancia.
«Io
potrei
tenerti al sicuro» disse, proprio come aveva detto alla Sansa
del sogno. «Nessuno
ti farà più del male.»
Se
lo
faranno, io li ucciderò.
Gli
occhi
di Sansa si fecero cupi, come se la notte fosse appena scesa nel locale.
«Che
vuoi
dire?»
«Dico
che
dobbiamo andare via prima che quel fottuto Lannister ritorni.»
Lei
scosse
la testa, posando la mela sul bancone. «Io… non
posso. Ho tutta la mia vita
qui. E anche tu.» Indicò il bar.
«Lo
brucerei piuttosto che lasciarlo a Joffrey.»
L’immagine del fuoco verde gli
annebbiò la vista, tanto che dovette strofinarsi gli occhi
per tornare a vedere
Sansa. «Ed è quello che farò oggi
stesso.»
Poi
si
avvicinò al bancone, togliendole il coltello dalle mani.
«Vieni con me.»
«Io…»
«Hai
detto
che sanno tutto di te ormai. Non hai più niente qui. E
quando brucerò il bar è
te che verranno a cercare, uccelletto.»
Sansa
abbassò gli occhi.
Non
sapeva
perché si sentisse in dovere di convincerla. Era come se
sapesse di non averla
salvata in un’altra vita… o forse era soltanto
perché conosceva Joffrey e
sapeva che Sansa non sarebbe stata al sicuro lì, senza di
lui.
È
per
colpa tua se è in questo casino,
rammentò a sé stesso.
E
poi non
ricordava come fosse finito il sogno.
Sansa
era
fuggita con lui? O era rimasta tra le grinfie di Joffrey?
«Potrei
nascondermi da qualche amica» tentò ancora Sansa.
«Perché dovrebbero farmi del
male? Non sarò io a bruciare il locale. Non ci
sarò più quando gli darai fuoco.»
Sandor
allungò
un braccio oltre il bancone e le afferrò il mento tra le
dita.
La
vide
abbassare le palpebre, e pensare di lasciarla sola lo fece infuriare.
«Guardami!»
«Lasciami.
Mi stai facendo paura.»
«Tutto
ti
fa paura.»
Sansa
aprì
gli occhi, e lui tornò alla notte del sogno, quando
l’aveva guardata cantare.
La lasciò andare.
«Joffrey
non ti lascerà in pace. Ho visto come ti guarda. E ho visto
come ti guarda
l’altro.» Petyr-il-diavolo.
«Senza di me non molleranno mai la presa. E
non sarà piacevole, ragazzina.»
«Smettila
di chiamarmi ragazzina.»
«È
quello
che sei. E i discorsi che fai lo dimostrano.»
Lei
incrociò le braccia al petto. «Ti diverte tanto
spaventare la gente?»
Mi
diverte
uccidere la gente.
Quando
aveva detto una cosa simile?
«Tu
non
sei la gente» replicò Sandor, facendole sgranare
gli occhi. «Sei un uccelletto
che non sa mentire, e che non si rende conto dei pericoli che
corre.»
«Dici
che
Joffrey e Petyr mi farebbero del male…»
mormorò Sansa, sfiorando la lama con le
dita. «E tu? Tu non mi
farai del male?» Poi un’ombra
passò sul suo viso, come se fosse appena stata folgorata da
un’idea. «Vero?»
Sandor
era
convinto di aver già sentito quella domanda, quella stessa
notte. Nel suo
sogno.
«No,
uccellino. Io non ti farò del male.»
Le
accarezzò il viso per un istante, prima di ritrarre la mano.
Si era appena
ricordato che Sansa non era fuggita con lui.
Lei
chiuse
gli occhi a quel contatto, e rimase così per un momento.
Finché non la vide
prendere un grande respiro.
«Va
bene»
sussurrò Sansa. «Verrò con
te.»
Successe
mentre radunavano le poche cose di valore dentro il locale. Quelle
piccole e
trasportabili. Mentre Sansa cercava ancora cibo e Sandor gli ultimi
proventi
della cassa.
Fu
lui ad
avvertire il pericolo. Lo vide arrivare dal parco di fronte al bar,
quello dove
Joffrey si radunava con gli amici.
Ora
erano
molti più del solito.
Sandor
ringraziò il cielo di aver tenuto le luci spente per tutta
la mattina. Così
sarebbe stato impossibile per le persone fuori accorgersi di loro.
Almeno
finché non avessero raggiunto i vetri…
«Svelta,
uccelletto. Andiamo.»
Le
fece
mollare la sacca che stringeva tra le dita e la portò in un
angolo. Spostò un
tavolo e aprì una botola che Sansa sembrava non riuscire
nemmeno a vedere.
«Ma
come…»
«L’uccellino
non sa smettere di parlare… Scendi e rimani in
silenzio.»
Sansa
fece
per entrare, ma poi si voltò verso di lui. «Tu non
vieni?»
«No,
uccellino. Ma ti tirerò fuori non appena sarà
tutto finito.»
«Ti
uccideranno se resti!» Gli afferrò la mano.
«Vieni, ti prego. Non posso
rimanere di nuovo sola.»
«Vai.»
«No,
se
non vieni anche tu.»
«Non
sei
brava a mentire…» sussurrò.
Ma
poi la
seguì ugualmente attraverso la botola, richiudendola sopra
di loro. Era uno
spazio troppo angusto per due persone. Potevano giusto restare in
piedi, uno di
fronte all’altra, cercando di non muoversi per non
infastidirsi a vicenda.
Riconobbero
i rumori: qualcuno aveva sfondato la porta, e diversi piedi camminavano
sopra
le loro teste.
Sandor
si
chiese cosa avrebbe fatto Joffrey non trovandolo lì.
L’idea
del
fuoco lo spaventava a morte. E se fosse stato l’altro a
bruciare il locale? A
bruciare loro? Trattenne il respiro mentre li
sentiva aggirarsi per il
bar, spaccare ciò che era rimasto integro dal giorno prima.
«Cosa
vogliono?»
gli chiese Sansa muovendo appena le labbra.
La
vide
sforzarsi di mantenere la calma.
Come
una
lady.
Non
lo
aveva detto lei? Non si era paragonata a una lady nei suoi sogni?
Restarono
così, uno di fronte all’altra, in quello spazio
strettissimo. Sandor sentì il
suo respiro caldo addosso, il petto che si alzava e si abbassava
attaccato al
suo. Si era sbagliato la sera prima, quando aveva creduto di vedere
quella
tensione tra loro. Adesso sì che la vedeva. E la sentiva in
ogni fibra del suo
corpo.
Si
sistemò
meglio contro il muro, spingendo la mano contro quello alle spalle di
Sansa. La
udì sussultare, e gli parve di vederla schiacciarsi di
più contro la parete.
«Sta’
calma, uccellino.»
«Ci
troveranno.»
«Non
qui.
Se riesci a tenere chiusa la bocca.»
Nell’oscurità
riconobbe un bagliore di rabbia negli occhi di lei. Lo divertiva
vederla così,
sentirla tesa e così vicina.
Il
respiro
di Sansa rallentò.
«Sono
sopra di noi» bisbigliò, guardando in alto, dove
si udivano dei passi.
Non
potevano rischiare che Joffrey li trovasse. Non adesso che erano
così vicini ad
andarsene. Le coprì la bocca con la mano, mentre con
l’altra la teneva ferma.
«Sta’
ferma. O ci sentiranno.»
Aveva
le
sue mani sulle braccia, le unghie che graffiavano i polsi nel tentativo
di
liberarsi. Così la attirò contro di
sé, facendola voltare. In quel modo, con la
schiena contro il suo petto, non poteva ribellarsi. E non poteva
parlare.
Poi
i
passi si allontanarono, e lui lasciò la presa.
Sansa
si
girò di scatto e lo colpì alla spalla.
«Volevi
che ci sentissero?» le chiese.
«Non
ci
avrebbero sentiti comunque se mi avessi lasciato stare!»
Fece
per
colpirlo di nuovo, ma le afferrò il polso e la
attirò di nuovo a sé.
«Questo
posto è troppo piccolo per due persone»
sussurrò in un ringhio. «Quindi sta’ un
po’ ferma se non vuoi che ci trovino.»
Dal
piano
di sopra venne un rumore sordo, di qualcosa che andava in pezzi.
Sansa
si
aggrappò a lui e, d’istinto, Sandor la
circondò con le braccia. Ora sentiva il
suo respiro sul collo.
«Hanno
distrutto la vetrina.»
Sansa
gli
appoggiò la testa sul petto. «Mi
dispiace.»
Aveva
le
mani sui suoi fianchi quando si accorse del silenzio. Forse se
n’erano andati.
Fece per aprire la botola, ma Sansa gli afferrò il braccio,
stringendolo contro
di sé.
«Potrebbero
essere ancora lì.»
«Non
possiamo saperlo finché non usciamo, uccelletto.»
Lei
lo
strinse più forte, respirando con affanno.
«Aspettiamo ancora. Ti prego. Hai
detto che qui non corriamo pericoli.»
Poi
lo abbracciò.
«Siamo
al
sicuro qui sotto» sussurrò Sansa.
Lui
la
attirò a sé, le accarezzò le spalle e
scese lungo le braccia. Le sfiorò il viso
con il dorso della mano, e quando sentì i loro respiri che
si univano, si chinò
a baciarla.
Un
rumore
che arrivava da sopra lo fece fermare.
«Sono
ancora qui» disse, e sembrò quasi una domanda.
Sansa
non
rispose.
Le
accarezzò i capelli, poi spostò una ciocca dietro
l’orecchio.
«Avevamo
detto che ne avremmo riparlato, uccelletto.»
«Di
cosa?
Credevo volessimo andare via insieme.»
«E
lo
faremo. Ma questo… non voglio che tu te ne penta.»
Sansa
gli
prese una mano. «Non ho niente di cui pentirmi.
Niente.»
Poi,
quando anche l’ultimo rumore scomparve e il silenzio riprese
il suo posto,
Sandor si chinò al suo orecchio.
«Quando
saremo lontani, uccelletto… allora ne riparleremo.»
Non
era
sicuro che Sansa sarebbe fuggita con lui. Nel sogno era certo di essere
partito
da solo… E quest’idea non gli dava pace. Lo
tormentava sapere di averla
abbandonata. Non poteva permettere che accadesse di nuovo.
Rimasero
immobili in attesa del silenzio assoluto. Poi, quando Sandor fu sicuro
che di
sopra non ci fosse più nessuno, tornarono nel locale.
Non
si
soffermarono a guardare i resti del bar, anche se era impossibile
ignorare le
scritte spray sulle pareti. Joffrey lo minacciava di morte. Giurava che
lo
avrebbe ritrovato ovunque si fosse nascosto.
Sansa
accarezzò quelle parole con le dita, poi si voltò
verso di lui.
«Hai
un
accendino?»
«Solo
fiammiferi.»
Lei
tese
la mano per farsi dare la scatola. «È ora di
andare» mormorò.
Aveva
una
voce diversa dal solito, fredda e distaccata, come se fosse il destino
di
qualcun altro.
Sandor
raccolse le cose rimaste, lo zaino, e restò a guardarla
mentre strofinava un
cerino sulla scatola.
Una
piccola fiamma si accese e Sansa la lasciò cadere.
Uscirono
mentre il fuoco divorava ogni cosa, annerendo le pareti e celando il
loro
passaggio.
Erano
stati
lì insieme. E non lo avrebbe saputo nessuno. Nemmeno Joffrey.
N.d.A.:
Siamo
giunti alla fine di questa
piccola storia.
Il
finale è un chiaro rimando a Lui,
il Diavolo
(minilong di due capitoli con
protagonisti diversi personaggi: Petyr, Sansa, Sandor e Jon) che vi
consiglio,
se vi piacciono le storie Modern!AU! e i libri di Stephen King
(è ispirata al
libro “Cose Preziose”).
Anche
se il punto di vista è solo di
Sandor, e anche se è solo lui a fare quei sogni, in
quest’ultimo capitolo
capiamo che anche Sansa sa qualcosa. Dice frasi che entrambi hanno
già sentito:
“«E
tu? Tu non mi farai del male?»
Poi un’ombra passò sul suo viso, come se fosse
appena stata folgorata da
un’idea. «Vero?»”
Un’ombra
passa sul suo viso perché lei
stessa si rende conto di aver già pronunciato quelle parole.
Il
finale è aperto, e come detto da
Sandor, lui non sarebbe partito senza di lei, al contrario dei suoi
sogni (e di
serie e libri).
Se
siete amanti delle SanSan, vorrei consigliarvi
una storia ancora in corso: Canzone d'Inverno, con Sandor e Sansa
costretti a sposarsi da
Joffrey!
Grazie
a chi è arrivato fin qui!
Celtica
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