Il coraggio di lottare

di crazy lion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Verso il precipizio ***
Capitolo 2: *** Caduta ***
Capitolo 3: *** Difficile risalita ***



Capitolo 1
*** Verso il precipizio ***


Ciao a tutti!
So cosa state pensando:
Ma che fa? Ha una long in corso e ne inizia un’altra?
Forse alcuni di voi potrebbero dirsi che, tanto, anche loro ne hanno più di una e che se non è un problema per me, allora è tutto a posto. Altri invece potrebbero considerarmi pazza.
Io sono una persona che non ama avere più di una storia in corso, lo trovo confusionario. Ma questa mini long è già completa, ha tre capitoli e l’ho scritta nel giro di alcune settimane più qualche giorno per revisionare, per cui la pubblicherò tutta oggi. E sinceramente, è la storia breve di cui vado più fiera.
Buona lettura!
 
 
 
 
 
 
IL CORAGGIO DI LOTTARE

 
 
DEDICA
 
Questa storia è dedicata a Demi Lovato, a tutte le persone del mondo che soffrono per i motivi più diversi, ma in particolare alla mia amica _FallingToPieces_. Sei una persona speciale e la mia amica più cara, ti voglio bene.

 
 
INTRODUZIONE
 
Cari lettori, vi prego non saltate quest’introduzione. È importante e vi prometto che presto potrete leggere la storia.
 
Ammiro molto Demi Lovato per la sua forza, onestà e sincerità. Credo che, anche se ha affermato che aiutare gli altri raccontando la sua esperienza è quello che ad un certo punto ha capito di volere, e anche se in un’intervista ha detto che non si sente coraggiosa nel farlo, il suo sia comunque un atto di grande forza. Non è facile esporsi così tanto, nemmeno se sei una celebrità.
 
Le descrizioni delle emozioni provate da Demi, anche per quanto riguarda l'ansia, che ha veramente vissuto - l’ho letto in un articolo dell’”Huffington Post” -, sono molto forti, così come  quelle dei disturbi alimentari e dell'autolesionismo. Per quanto riguarda il panico, ne ha avuto uno quando è entrata in clinica, così dice un articolo su www.younghollywood.com, in altri articoli ho trovato informazioni riguardo l’ansia e il panico ma con i termini confusi, quindi non so dire con sicurezza se ne abbia sofferto ancora, anche se penso di sì.
Sono andata un po' più nell'esplicito, ma non nel volgare, questo mai. E non per incitare qualcuno a tagliarsi, o a cadere nel tunnel dell’anoressia, o della bulimia, o per dire che avere ansia o attacchi di panico è figo, ma per sensibilizzare su queste tematiche e far capire quanto dolore portano nella vita di una persona. Vorrei che questi problemi non fossero più dei tabù, che chi sta male ne potesse parlare senza paura né vergogna, come sarebbe giusto. Purtroppo però i disturbi mentali, forse ancora più di quelli alimentari, vengono sottovalutati o temuti da persone che nemmeno li conoscono a fondo e che non vogliono informarsi a riguardo.
 
Se voi, lettori, in questo momento siete in uno stato mentalmente fragile, non leggete se pensate che poi starete peggio. Voglio parlare di queste situazioni difficili e poi dare speranza, non affossare ancora di più.
 
La storia è ambientata a Los Angeles. So che Demi è nata ad Albuquerque e ha vissuto per un periodo in Texas, ma nelle mie storie per farla stare sempre vicina al suo migliore amico (un personaggio creato da me) ho fatto in modo che si trasferisse in California molto presto. Nelle mie fanfiction non tratto i suoi problemi con la droga, l'alcol e il disturbo bipolare: sono troppo difficili per me. Oltre a ciò che ho menzionato prima, Demi ha anche sofferto di binge eating da piccola.
 
Non ho mai avuto disturbi alimentari ma ansia, attacchi di panico e depressione sì e ci sto ancora combattendo. No, non sto scherzando.
 
Ma qui Demi non è solo una ragazza che sta soffrendo, è anche una che continua a combattere con tutte le sue forze, come ha sempre fatto. Ed è per tale ragione che scrivo questa storia, per far capire a chi ha un disturbo alimentare, mentale come me o un problema di autolesionismo che si può stare meglio, nonostante le ricadute. Certo, è difficilissimo. Ci sono alti e bassi, a volte sembra che il dolore durerà in eterno, che non ci sia fine al buio che ci avvolge, ma non è così, e ve lo dice una che ha fatto dentro e fuori da quest’oscurità centinaia di volte.
 
Non sentitevi in colpa, non ditevi:
"Dovrei essere più forte."
Voi siete come siete. Datevi i vostri tempi, non ascoltate chi vi dice cosa fare solo perché, anche se a fin di bene, vuole spronarvi ad andare avanti e a stare meglio subito. Sappiate che ci sono persone disposte ad aiutarvi. Parlatene con i vostri genitori o, se non riuscite a dire loro tutti i vostri problemi (conosco bene la sensazione) con un amico o una figura professionale che vi dia una mano. A volte non basta l'aiuto della famiglia e degli amici e non significa che siate matti o deboli. L'affermazione "Dallo psicologo/psichiatra ci vanno i pazzi" è sbagliata. Da queste persone ci va chi ha bisogno di aiuto per stare meglio e non c'è nulla di male in questo.
Non tenetevi tutto dentro, non vergognatevi di esternare emozioni, dolori o problemi per quanto grandi e insormontabili, per quanto brutti e bui siano i vostri pensieri. Fatevi aiutare.
E se proprio vi sembra di non riuscire ad arrivare a domani o nemmeno a stasera, non ce la fate più e pensate di mollare, chiamate un numero anti-suicidio. Fate di tutto perché la malattia o i vostri pensieri non siano più forti di voi, perché non vi anneghino nel loro mare di dolore.
 
La strada per venir fuori dal buco nero è lunghissima e tortuosa, ve lo dice una che la sta percorrendo da anni e che è caduta mille volte e si è rialzata sempre a fatica, sempre un po’ più rotta, per cui non voglio affatto asserire che sia facile. Sono sicura, però, che un giorno ci riusciremo e diremo che la vita è bellissima anche se spesso troppo dura. E saremo più forti e migliori di prima.

 
 
"I cannot tell you that I have not thrown up since treatment. I cannot tell you I’ve not cut myself since treatment. I’m not perfect. This is a daily battle that I will face for the rest of my life."
(Demi Lovato, dal documentario Stay Strong)
 
Traduco, così se qualcuno non sa l’inglese può capire queste frasi che sono importanti per il significato della storia:
"Non posso dirvi che  dal ricovero non ho più vomitato. Non posso dirvi che dal ricovero non mi sono più tagliata. Non sono perfetta. Questa è una battaglia quotidiana che dovrò affrontare per il resto della mia vita."
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 1.
 
VERSO IL PRECIPIZIO
 
"Allora, come stai?"
La voce dolce della dottoressa Doom spezzò il silenzio scomodo che si era  venuto a creare nella stanza da quando Demi era entrata. Le prime sedute con lei, a gennaio, una volta uscita dalla clinica erano sempre state così, ci aveva messo un po' a rompere il ghiaccio e a parlare, poi aveva imparato a fidarsi anche di lei come aveva fatto con gli psicologi e gli psichiatri alla Timberline Knolls. Emily Doom era una psicologa, ma Demetria andava anche da una psichiatra per il momento.
Restò lì, con le mani aperte appoggiate sulle ginocchia, per qualche secondo. “Come stai?” era una domanda difficile, a cui di solito si risponde un “Bene” così, tanto per dire qualcosa, anche se in realtà le cose vanno male e tutto dentro la testa grida per il dolore, la frustrazione, la tristezza o altri sentimenti negativi.
"Non lo so" ammise. "Dovrei essere felice, dovrei stare bene."
"Dovresti? E chi ti dice che devi sentirti in un certo modo? Tu hai il diritto di stare come vuoi e di prenderti i tuoi tempi. Ormai so che continui a lottare e sono sicura che ti sentirai meglio, ma non farti influenzare se c'è qualcuno che pretende che tu sia in un certo modo."
"No, non è questo, è che…" Doveva scegliere con calma le parole. Non era semplice. "È che sono tornata al lavoro, il mio album uscirà fra poco e i miei fan credono che io stia meglio, mi scrivono messaggi su Twitter e Facebook nei quali mi domandano come mi sento eccetera. Magari avessi il tempo di rispondere a tutti! Faccio quello che posso, dico che è stata dura ma adesso va meglio.”
“Ed è così o no?”
“Sì, ma ho come la sensazione che non capiscano che sto ancora combattendo. Ho iniziato a parlare dei miei problemi, ma penso che non sia abbastanza. Sto lavorando ad un documentario che uscirà l'anno prossimo e si intitolerà “Stay Strong” e cercando di dare un'immagine forte di me, ma io oggi non mi sento molto positiva ed è una cosa che capita ancora abbastanza spesso."
La psicologa rifletté per qualche momento su quelle parole. Il suo studio era una stanza piccola ma carina con le pareti dipinte di giallo, un colore che dava allegria ma che, la prima volta in cui ci era entrata, Demi non aveva sopportato. Erano sedute su due poltrone, l'una a fianco all'altra, separate da un tavolino basso con sopra una scatola di fazzoletti e un telefono.
“Sei uscita dalla clinica da pochi mesi e il percorso per guarire è lungo, lo sai e non tutti i giorni sono uguali o positivi in questo cammino” disse la donna, portandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio con un gesto lento.
Le sorrise e i suoi occhi color miele, così belli e particolari e simili a quelli di Madison, si illuminarono.
“Sì, è che vorrei stare meglio adesso, o quantomeno presto. Per me stessa, per la mia famiglia, per i fan, per tutti.”
“Lo so, ma ti serve tempo. Non pensare di non essere forte solo perché hai ancora molti giorni neri e tante difficoltà da affrontare. Stai lottando, è questo l’importante. Ed è un segno di grande coraggio.”
“Tu dici?” chiese Demetria, la voce ridotta ad un sussurro a causa di un groppo che le serrava la gola.
“Sì, dico. Ne sono convinta, ma l’importante è che lo sia tu. E poi, il fatto che tu abbia detto prima di tutto che vuoi stare meglio per te stessa conta moltissimo, significa che ti importa di nuovo di te.”
Non era stato così quand’era entrata in clinica, non le interessava più niente. A quel tempo aveva capito di avere più di un problema e di non avere scelta, ma proprio i disturbi alimentari e l’autolesionismo l’avevano talmente distrutta che all’inizio non era nemmeno stata sicura di riuscire a guarire né tantomeno di volerlo, convinta che la sua vita e la propria carriera fossero finite.
“Sì, credo mi importi. A volte, almeno. Non penso di essere coraggiosa, non ancora.”
“Ci lavoreremo su, allora. D’accordo?”
La ragazza annuì.
"Cosa senti in questi giorni non molto positivi?"
"Oggi per esempio ho la sensazione che succederà qualcosa. Non so cosa né quando, ma quello che sento non è affatto bello."
"Hai fatto qualche incubo che ti ha portata a pensarlo?"
"Non che io ricordi, no" disse riflettendo con la testa fra le mani, ma pareva poco convinta. "E il 12 di questo mese è uscito il mio singolo "Skyscraper" e sono contenta davvero, ma mi sento strana. Triste, giù di morale, ansiosa."
"Riesci a dormire bene?"
"Più o meno. Ma sono stata molto in ansia questi giorni. Ho avuto vari attacchi d'ansia anche senza alcun motivo apparente e sono durati molto, un giorno o più. Forse è stato perché a volte non sono riuscita a finire tutto il pranzo o la cena e le voci mi dicevano di vomitare o di fare abbuffate notturne e poi rimettere."
"E tu cos'hai fatto?"
"H-ho resistito."
E in quel balbettio e nella sua voce roca la psicologa lesse una sofferenza enorme, una battaglia interiore giornaliera così dura che era impossibile immaginarla. E vi lesse anche forza e fragilità insieme, coraggio e paura al contempo.
Aveva resistito, certo, pensava intanto la ragazza. Ma qualcosa le diceva che avrebbe avuto un'altra delle sue ricadute e che sarebbe stata molto brutta, stavolta. Non che le precedenti fossero state belle, anzi, nessuna lo era. Ma temeva che questa sarebbe stata molto, molto peggiore. Lo disse alla psicologa.
"Comunque non posso vivere con quest'ansia. Ce l'ho troppo spesso, mi distrugge. Riesco ad uscire, però a volte mi prende all’improvviso per esempio se sto in un posto affollato o, in certi momenti, se sono a casa da sola, anche se non sento di avere paura della solitudine.”
“Quando sei sola senti di volerti fare del male?”
“Ogni tanto, ma non credo che l’autolesionismo sia legato a questo.”
“Forse non solo. Credo che il tuo inconscio ti dica che quando stai da sola ti senti più fragile, più vulnerabile e ogni tanto partono quei pensieri, forse è per questo che stai così, ma dovremo lavorarci meglio nelle prossime sedute.”
“Va bene. Eppure per il resto faccio tutto tranquillamente: parlo, mi muovo, insomma ogni cosa è normale. Cerco di trattenermi finché non sono in un posto tranquillo, mentre dentro mi sento malissimo, e poi crollo. Comincio a respirare male, sudo, ma gli attacchi di panico sono i peggiori anche se ne ho avuti solo due… Prendo già tre ansiolitici - sì, so che il farmaco non lo è pripriamente, ma io lo definisco così per semplicità - ma vorrei chiedere alla psichiatra di poterne assumere un quarto se sto troppo male."
In clinica le era stato diagnosticato un disturbo ansioso che durava già da molti anni, con attacchi d'ansia frequenti. Non aveva mai avuto veri e propri attacchi di panico, tranne una volta, il giorno del suo dodicesimo compleanno, quand’era andata a fare un giro con il suo migliore amico Andrew e un'altra poco prima di entrare in clinica, ma d'ansia sì ed erano stati sempre orribili, tanto che un giorno era finita in ospedale a causa di uno di essi. All'inizio la psichiatra che aveva conosciuto in clinica avrebbe voluto prescrivere a Demi delle benzodiazepine, ma lei si era fermamente opposta perché creano assuefazione. Anche se in principio era stata di quell’avviso, si era poi detta che provare non sarebbe costato nulla e che in fondo era seguita, per cui non doveva temere niente. Aveva quindi provato le gocce di Lexotan, da prendere al bisogno e che le venivano date dalle infermiere nelle dosi indicate dalla psichiatra. Non si era sentita assuefatta, non era stato questo il problema. Dopo averle prese circa dieci volte in un mese si era resa conto che l’avevano intontita e basta, non aiutata così, dopo averne parlato con la dottoressa e aver detto che non voleva più prendere benzodiazepine, erano passate al Trilafon, un antipsicotico che oltre a curare altri disturbi, lo fa anche con l'ansia se questa è grave e se i farmaci ansiolitici non hanno fatto effetto. Una volta fuori la ragazza aveva continuato la cura, seguita dalla psichiatra da cui andava adesso.
Uscita dalla Timberline Knolls, sentendosi un po’ meglio almeno per quanto riguardava l’ansia, aveva cominciato ad assumere quella medicina solo ogni tanto e non tre volte al giorno. Quando la psichiatra l’aveva saputo, però, le aveva spiegato che se preso in quel modo il farmaco non fa effetto perché il corpo non riesce ad assorbirlo, quindi la cantante si era arresa a seguire la terapia prescritta.
"Se vuoi il mio parere,” riprese la dottoressa Doom riportandola al presente, “penso che in questo momento tu abbia bisogno di quella quarta pastiglia."
"Io ho intenzione di smettere con quei farmaci, ti giuro!" esclamò la ragazza. "Solo che non sono pronta. Sto ancora male."
Non voleva che la psicologa pensasse che non ce la stava mettendo tutta o che avrebbe voluto continuare a prenderli per sempre, o peggio ad abusarne, ma al contempo era consapevole, così come la psicologa, che non era ancora il momento di smettere.
"Lo so Demi, calmati. Il dosaggio che prendi non è affatto alto, dato che assumi sei milligrammi e il massimo è ventiquattro, e finché non starai meglio forse questa pastiglia in più a volte ci vorrebbe. Ma dobbiamo anche lavorare per arrivare all'origine del problema che ti causa tutta quest'ansia, capisci? So che ne abbiamo già discusso, ma ritengo ci sia ancora strada da fare."
Se non si va alla radice, si possono prendere tutti i farmaci del mondo ma non si risolverà mai la situazione.
Demi annuì.
"Forse è un insieme di cose, come ho detto in clinica e come ti ho spiegato varie volte” rifletté. “I miei demoni della bulimia, dell'anoressia e dell'autolesionismo sono sicuramente alcune cause della mia ansia. La dietista mi dice sempre che non devo pensare di essere bellissima e perfetta come le modelle alle quali mi ispiravo in passato, tutte magre e fantastiche, ma che è necessario che io impari ad accettare il mio corpo per com’è.”
“Sono d’accordo. Me ne avevi già parlato e stiamo lavorando anche su questo, dovremo farlo tanto.”
“Quando mi guardo allo specchio cerco di dirmi che sto guarendo, che un giorno sarò sana e che andrà bene così, ma sono consapevole che le ricadute sono sempre dietro l’angolo. Non dovrei pensare di stare di nuovo male e cerco di non farlo, ma quello che sto cercando di dire è che per me è molto difficile accettarmi per come sono” ammise, la voce ridotta ad un sussurro sempre più debole, mentre alcune lacrime le scorrevano lungo le guance e il petto si alzava e si abbassava con respiri pesanti. “Spesso mi guardo allo specchio e mi vedo orribilmente grassa, larga, penso sempre di non venire bene nelle foto e meno me ne fanno, meglio è. Da piccola, a circa tre anni, mi toccavo la pancia e mi vedevo grassa e di certo vivere in una casa in cui mia madre aveva un disturbo alimentare, anche se io allora non me ne rendevo conto, ha avuto il suo peso. In seguito volevo essere perfetta, ma non ci riuscivo e mi sentivo ansiosa. Mi vedevo grassa, mi abbuffavo, vomitavo e poi stavo peggio. E il mio passato, quello che è successo con mio padre, e la pressione per il lavoro.”
"In quegli anni in cui ti ispiravi a modelle o a persone che reputavi più magre o più belle di te, che cos'avresti desiderato?"
Demi sospirò incrociando le braccia al petto.
"Che qualcuno mi dicesse che andavo bene così com'ero, che a dodici anni non avrei dovuto iniziare una dieta assurda, né a farlo mai perché era pericoloso, perché non era sano. Che qualcuno mi aiutasse a capire che l'anoressia e poi la bulimia, e da più piccola il binge eating, non mi avrebbero fatta sentire bene né essere felice, ma che si sarebbero trasformati in delle ossessioni e che sarebbero state queste malattie a controllare la mia vita, ogni mio pensiero, le mie azioni. Negli anni ho nascosto tutto in mille modi diversi, ho mentito così bene che tutti mi credevano o, se mia mamma ha notato qualcosa, non ha mai fatto nulla. Non la incolpo, sono stata solo io che ho iniziato a cadere in un buco nero più profondo di quello che pensavo. Se dimagrivo un po' ero felice, ma durava poco perché non appena ingrassavo leggermente mi sentivo malissimo e andavo per ore in palestra. Allo stetsso tempo però pensavo che tutto ciò, per me, fosse normale e quindi in parte mi andava bene così."
"Non abbiamo tanto tempo prima della fine della seduta, ma hai tirato fuori moltissimi argomenti e sentimenti e ti ringrazio per esserti aperta tanto, non è facile. Dalle tue parole noto che ti sentivi molto sola e che soffrivi tanto, ma che allo stesso tempo negavi di avere dei problemi come spesso fa chi soffre di disturbi alimentari. Ne parleremo ancora meglio, promesso."
"Va bene."
Durante ore ed ore di terapia era venuto fuori che ogni cosa partiva dalla sua infanzia, da ciò che aveva visto accadere in famiglia, poi la pressione di apparire in un certo modo lavorando in televisione e diventando una celebrità - non che alla Disney le avessero detto di dimagrire, ma essere lì aveva comunque influito sui suoi disturbi alimentari -, e che tutto ciò perdurava ancora adesso anche se l’ansia era migliorata molto. Inoltre a lei piaceva fare quel lavoro, per cui dopo essersi presa una pausa una volta uscita dalla clinica era tornata e, se si sentiva troppo stressata, ne parlava con il suo team e andavano più piano. Lo disse alla donna, che in parte già lo sapeva.
"L'immagine che go quando penso a tutto quello che mi hai appena detto è quella di un grossissimo peso sulle tue spalle" commentò la donna. "Tu come lo percepisci?"
“Così come hai detto. È tanto da reggere tutto insieme. Lavorare però mi piaceva molto, per cui ci sono stati anche momemti molto belli."
"Parlami ancora delle voci."
"A volte ne sento più di una contemporaneamente, per esempio quelle della bulimia e dell'autolesionismo e non è semplice tenerle a bada e capire cosa mi dicono. Si sovrappongono, si confondono e mi esplode la testa."
"Queste voci di cui parli da tempo sono diverse l'una dall'altra? Hanno timbri differenti? Sono una maschile e una femminile? Descrivimele."
Demi rifletté per un po'. Era abituata a sentirle da tantissimi anni, così tanto che non faceva più caso a come fossero. E poi era come studiarsi dall'esterno in quel momento. Lei, che adesso non udiva quelle voci, doveva capire cosa c'era all'interno della sua mente. Era un compito arduo. Si mise le mani sulle tempie e si concentrò al massimo, cercando di non dare peso alla lieve emicrania che sentì facendo un simile sforzo.
"Quelle dell'anoressia e della bulimia sono simili. Sono entrambe femminili e tutte e due rassicuranti quando faccio quello che dicono ed usano un tono aspro e pieno di odio quando invece è il contrario. L'unica differenza è che ovviamente dicono cose diverse. Mentre per l'autolesionismo…" Tremò appena. Quella era la voce che aveva sentito per prima, a undici anni, quando si era tagliata la prima volta e aveva provato quel dolore terribile, visto il sangue, ma poi tutto ciò le aveva dato sollievo. Certo, i suoi disturbi alimentari erano iniziati un po' prima, ma non aveva mai sentito le voci allora. "Lei è più dolce, lo è sempre. Quando non faccio quello che mi dice, però, urla così forte che non capisco più nulla. Tutte e tre mi dicono che sono le mie uniche amiche e che solo loro possono capirmi e aiutarmi. Ah, e quando non mi taglio e lei mi parla è sempre più triste, così tanto che mi fa sentire in colpa per non essermi fatta del male."
"Capisco. Mi hai già spiegato cosa ti dicono ma dovremo lavorarci di nuovo, separandole meglio l'una dall'altra e comprendendo le loro differenze anche in questo. È importante per poi riuscire a trovare dei modi per contrastarle ancora meglio."
"D'accordo."
Parlarono di come andavano le cose a casa, di Andrew e del loro rapporto. I due erano amici da una vita e vicini di casa da sempre, o meglio da quando lei, nata ad Albuquerque, si era trasferita con la sua famiglia in Texas e subito dopo in California, a un mese di vita perché il padre non riusciva a trovare lavoro, e Demi disse che da quando era uscita dalla clinica aveva davvero capito chi era suo amico e chi no, chi le restava accanto nonostante le difficoltà e chi invece si era allontanato. Andrew era rimasto prima, durante e dopo il suo ricovero, venendola a trovare spesso con Dianna, Eddie, Madison e Dallas a Chicago.
"Chissà se anche mio padre sente le voci quando beve o si droga" mormorò Demi, più a se stessa che alla dottoressa.
"Tu cosa pensi?"
"Non lo so. Forse sì, magari è un punto che abbiamo in comune."
"Cosa provi se rifletti sul fatto che questo potrebbe accomunarvi?"
"Come ti ho spiegato, il nostro rapporto non è mai stato molto buono. Gli voglio bene, ma provo sentimenti contrastanti quando penso a lui perché in parte a volte lo odio, anche se mi dispiace e mi fa male dirlo."
Era pur sempre suo padre, ammettere di odiarlo non era cosa da poco. Aveva fatto cose orribili e lei non le giustificava, non l’avrebbe mai fatto, ma… restava sempre quel ma che la riportava al principio della questione: Patrick era il suo padre biologico e lei non poteva dimenticarlo.
"Con un'infanzia come la tua, dato che l'hai visto ubriaco e che hai assistito a varie scene di violenza psicologica e fisica da parte sua nei confronti di tua madre, è normale che tu abbia questi sentimenti. È comune nei bambini che hanno subito un trauma del genere."
Emily Doom non lo diceva per minimizzare il suo problema, ma solo per farle capire che non doveva sentirsi strana o male per questo. Stavano lavorando anche sul suo passato, scavando molto a fondo nei ricordi e Demi lo stava facendo anche con la psichiatra, perché i suoi problemi derivavano in parte da lì e perché comunque erano argomenti che andavano affrontati, ormai lei l'aveva capito, se voleva stare meglio. Ci sarebbe voluto almeno qualche anno di terapia per far pace con quell'ennesimo demone. Forse non sarebbe mai riuscita a lasciarselo alle spalle, ma voleva quantomeno che i ricordi di lui che urlava e lanciava cose come un pazzo insultando sua madre e a volte picchiandola non venissero più a tormentarla, né di giorno né negli incubi durante la notte. Non sapeva se sarebbe riuscita a stare meglio, ma voleva provarci.
Una volta uscita dallo studio della dottoressa, Demi si mise in macchina e fece fatica ad arrivare fino a quello della psichiatra. Era stanchissima. Parlò con lei più o meno delle stesse cose, discutendo anche dei farmaci. La donna decise che sì, dati i sintomi che la paziente riportava e ciò che raccontava era il caso di aumentare la dose di ansiolitico e le disse di prendere la quarta pastiglia solo al bisogno, mentre le altre tre mattina, pomeriggio e sera ogni giorno come
sempre.
Giunta finalmente a casa la ragazza prese la medicina del pomeriggio, si trascinò in camera e, chiusasi la porta alle spalle, si gettò sul letto. Era stato un pomeriggio intenso, due colloqui nello stesso giorno non erano uno scherzo. Vedeva la psicologa due volte a settimana, la dietista ogni giorno - ci era andata quella mattina, ora che ci pensava, quindi i colloqui erano stati tre - e la psichiatra una volta al mese. Non ne poteva davvero più. Erano le cinque e mezza di pomeriggio ma si mise a letto con le finestre ancora aperte e il sole che entrava. Chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò non pensando, stranamente, a niente.
 
 
 
"Mamma, Demi non sta dormendo troppo?" chiese Dallas a Dianna.
La donna era ai fornelli e stava cucinando la cena. Il fatto che la figlia si stesse curando per disturbi alimentari, tra le altre cose, non aveva impedito alla donna di continuare a mangiare pochissimo e a vomitare. Demi e le figlie si erano accorte che non stava bene, Eddie aveva notato qualcosa ma nessuno aveva capito fino a che punto per cui la famiglia non si era preoccupata, così lei cercava di nascondere il tutto il più possibile. Doveva essere un buon esempio per Demi, o perlomeno far finta di esserlo.
"Sì. Andresti a svegliarla?"
Dallas stava per alzarsi quando le squillò il cellulare.
"Scusate, è una chiamata di lavoro. Devo rispondere" disse in fretta e si allontanò chiudendosi in bagno, l'unico posto in cui poteva trovare un po' di pace.
La mamma e Madison erano in cucina e Eddie in salotto a guardare la televisione.
"Madison, tesoro, ci vai tu?"
Dianna girò le verdure che stava lessando e controllò la cottura del pollo. Era quasi pronto, non poteva lasciare le pentole incustodite e Madison aveva solo nove anni, di certo non avrebbe permesso che si avvicinasse ai fornelli. Quando Eddie si metteva a guardare il football americano non si staccava da lì nemmeno a pagarlo oro, anche se in realtà la aiutava parecchio quando poteva. Il fatto era che lavorava moltissimo e la sera era distrutto.
"I-io?"
La bambina aveva balbettato e tremato, ma sperò che la mamma non si fosse accorta almeno del tremore che l'aveva colta. Ogni volta che vedeva Demi e che le parlava non sapeva mai se la ragazza sarebbe stata buona, gentile e dolce oppure se si sarebbe arrabbiata anche per sciocchezze. Certo era che da molto tempo era sempre triste, giù di morale o di cattivo umore. Mesi prima la mamma le aveva spiegato che Demi stava molto male, che doveva andare in un posto dove si sarebbe sentita meglio. Aveva cercato di farle capire cos'erano l'anoressia, la bulimia e l'autolesionismo, con un linguaggio semplice adatto ai bambini e senza spaventarla troppo.
"Ma perché a volte è buona e altre sembra che non ci voglia bene?" aveva chiesto la piccola.
"Oh, Madison!" aveva esclamato la donna abbracciandola, mentre gli occhi le si erano riempiti di lacrime.
"Tesoro," era allora intervenuto Eddie, "non è che non ci voglia bene. Lei ce ne vuole tantissimo. Il fatto è che i problemi che ha modificano il suo comportamento e i suoi atteggiamenti, perché sono malattie che partono dalla mente e poi si sfogano sul corpo. A causa di queste e dell'autolesionismo, la sua testa non funziona come quella di una persona che sta bene. Il che non significa che sia pazza o che non sia normale, ma che si sente male e dev'essere aiutata per sentirsi meglio. Non può semplicemente smettere di farsi male, o di non mangiare o di mangiare troppo e poi vomitare, non è così semplice. Dobbiamo avere pazienza, farle sentire il nostro affetto e starle vicini. Vedrai che con il tempo tornerà ad essere allegra e a sentirsi bene."
E Madison in quel momento si era domandata se aveva mai visto la sorella davvero felice, e si era risposta di no.
"Sì, tu. Perché me lo chiedi così?"
La voce della mamma la riportò improvvisamente alla realtà.
"No, niente, niente. Vado subito."
"Non correre sulle scale e non saltare quando scendi" la ammonì, sapendo che alla bambina piaceva molto farlo. In effetti era una cosa che amava. Purtroppo però i genitori l'avevano scoperta e gliel'avevano impedito dicendole che era pericoloso.
Sbuffò.
“Ma mamma!”
“Niente “Ma mamma”. Vai.”
“Va bene” borbottò.
Salì lentamente i gradini. Erano in legno e la scala non era molto lunga in realtà, quindi non capiva dove fosse il pericolo, ma era ubbidiente per cui non si azzardò ad andare contro il volere dei genitori.
La camera di Demi era subito a sinistra. Madison rimase lì davanti alla porta con la mano a mezz'aria, poi la abbassò sulla maniglia ma non riuscì ad aprire. Cosa le avrebbe risposto la sorella? Si sarebbe arrabbiata? Avrebbe gridato? L'avrebbe cacciata in malo modo dicendole qualche parolaccia? Ne aveva viste così tante che era pronta a tutto, ma sapeva che una sua reazione negativa avrebbe bruciato più del fuoco dell'inferno. Fu allora che ricordò un altro episodio e fu come riviverlo davvero dato che era avvenuto proprio in quella camera circa tre anni prima.
 
 
Era piccola, avrà avuto sei anni. Quella notte c'era un terribile temporale e aveva anche grandinato. Madison si era spaventata molto durante la grandine, ma mamma e papà l'avevano rassicurata finché aveva preso sonno. Tuttavia, la piccina si era appena svegliata a causa di un incubo e anche di un tuono così forte che aveva fatto tremare i vetri. Il vento ululava minaccioso e sembrava uno di quei lupi cattivi dei quali si racconta nelle favole. La bimba saltò giù dal letto e camminò a piedi nudi, tremando a causa del contatto con il pavimento freddo. Non ricordava dove aveva messo le ciabatte, ma forse erano finite sotto il letto. Uscì dalla stanza e bussò alla porta di quella vicina.
"Che c'è?" chiese Demi con voce assonnata.
Sembrava arrabbiata e infastidita e Madison aspettò qualche secondo prima di abbassare la maniglia ed entrare, mentre il cuore le batteva all'impazzata.
"D-D-Demi?" domandò balbettando.
Temeva di disturbarla o di farla arrabbiare ancora di più.
Sua sorella era distesa sul letto con un iPod lì vicino e delle cuffiette nelle orecchie, la bambina non riuscì a decifrare la sua espressione. Appena vide Madison, Demetria lo spense e lo mise sul comodino.
"Dimmi. E perché balbetti?"
"I-io ho fatto un b-bruttissimo sogno. Posso dormire con te?"
"Sei venuta qui solo perché hai avuto un incubo?"
"S-sì. Ho paura. Altre volte mi hai fatta stare con te quando facevo brutti sogni. Perché questa sembri non volerlo?"
A quel punto la ragazza scoppiò a ridere. Era una risata terrificante, non sembrava nemmeno la sua. Lei non pareva più la stessa Demi. Era spaventosa, o almeno Maddie ne ebbe paura. La vide pallida, con gli occhi rossi per il pianto e con delle bende ai polsi.
"Cosa ti sei fatta?" gridò in preda al panico.
"Niente, è stato un incidente. Sono una sciocca. Non dirlo a nessuno okay? Non è importante."
"D'accordo."
Madison non l'aveva fatto e anzi, aveva presto dimenticato quel che aveva visto. Le era tornato in mente anni dopo, quando Demi era entrata in rehab.
"Comunque, riguardo quello che mi hai detto" proseguì la ragazza, "la vita è un incubo. Non lo è solo quando vai a letto. Nel momento in cui ti svegli, è ancora peggio. Ormai sei grande per dormire con me. Quindi cerca di crescere ed esci. Via!" disse a voce alta.
Non era la prima volta che Madison si sentiva rivolgere parole del genere da Demi. La maggior parte delle volte era buona, dolce e gentile con lei, altre invece si comportava molto male e le diceva cose brutte.
La bambina usò tutta la sua forza per mettersi sul letto della sorella, che era piuttosto alto, e poi la abbracciò ma la ragazza la spinse via e le fece sbattere la testa sulla testiera.
"Oh Dio!" esclamò quando capì ciò che aveva fatto. "Piccola, mi dispiace. Non volevo farti male, io…" Adesso era dolce, la sua voce era vellutata, ma Maddie scese e stava per correre via piangendo, quando Demi la raggiunse. "Aspetta, devo metterti del ghiaccio!"
"Non voglio" si lamentò la bambina, liberandosi dalla stretta della sorella.
"Ti verrà fuori un bernoccolo! Maddie, perdonami. Non volevo!"
Continuò a supplicarla, si mise anche in ginocchio.
"Lo dici ogni volta che mi tratti male. Tu sei cattiva!"
Detto questo, corse fuori dalla stanza e chiuse con tutta la forza che aveva. Sentì Demi che si dirigeva nel bagno che aveva in camera e che, prima di chiudere la porta, esclamava:
"Quanto odio questa maledetta vita!"
Maddie non capì il senso di quelle parole. Sentiva solo un forte dolore alla testa, così corse dai genitori.
 
 
"Madison, hai svegliato Demi? Tra cinque minuti è pronto."
La ragazzina dovette appoggiarsi alla parete davanti a sé per non cadere. Si sentiva come se qualcuno le avesse dato un pugno alla schiena mozzandole il respiro.
"Ora lo faccio, scusa mamma."
Lasciò andare un respiro tremante e poi si diede della stupida. non doveva avere paura di sua sorella, Demi le voleva bene. Ma il dolore per certe parole che le aveva rivolto era ancora grande e troppo vivo in lei. Abbassò lentamente la maniglia e non accese nemmeno la luce, cercando a tentoni il letto.
"Demi? Demi, è ora di alzarsi" la chiamò con dolcezza.
"Mmmmm" fece l'altra, poi aprì appena gli occhi. "Che ore sono?" mugugnò.
"Quasi le otto. La mamma ha detto che…"
Non fece in tempo a finire la frase che l'altra si era messa a sedere di scatto.
"Oh mio Dio, ma è tardissimo! Merda. Perché non mi avete svegliata prima?"
Non era arrabbiata, solo agitata.
"Mamma e papà hanno detto che eri molto stanca perché avevi avuto un pomeriggio difficile con tutte quelle visite e di lasciarti dormire."
"In effetti hanno fatto bene, ero proprio distrutta e lo sono ancora. Non mi va nemmeno di mangiare."
All'ora di cena le voci dell'anoressia si facevano sentire di più, così come a pranzo e a colazione, anche se non sempre. C’erano giorni nei quali riusciva a mangiare quasi normalmente seguendo la dieta che le era stata data.
"Ingrasserai fino a scoppiare, è questo che vuoi? Vuoi che la gente ti chiami balena come facevano i bulli della tua scuola? Se è quello che desideri allora mangia, però poi fai dieci ore di allenamento: corsa, salti, cyclette, quel cazzo che ti pare, ma le fai."
Eccola, infatti, Ana. Era tornata a tormentarla. Ma lei non voleva ascoltarla. Aveva capito che fare quelle diete di merda e dieci o dodici ore di allenamento, o non mangiare affatto erano tutti comportamenti sbagliatissimi, che mettevano a repentaglio la salute fisica e mentale e stava cercando in ogni modo di non essere più quel tipo di persona. Doveva mangiare un po'.
"Provaci, almeno tre quarti di piatto come  dice la tua dietista."
"E tu come fai a sapere cosa dice la mia dietista?" le domandò Demetria sorridendo.
"Ci sono anch'io, sento come ti aiutano mamma e papà."
"Hai ragione."
"Pensavo ti saresti arrabbiata" ammise la piccola abbassando lo sguardo.
"Cosa? Perché?"
Demi sbarrò gli occhi per la sorpresa. Madison l’aveva solo svegliata, era stata gentile, perciò non avrebbe avuto motivo di prendersela con lei. È anche vero che quando si ha molto sonno non si vorrebbe essere destati, ma era pur sempre ora di cena.
"Quando stavi più male a volte lo facevi, e anche tanto."
E le parlò di quello che aveva appena ricordato.
Mentre la ascoltava, a Demi si formò un groppo in gola sempre più stretto, sempre più stretto tanto che le sembrava di non respirare. Come aveva potuto comportarsi così male con Madison quella volta e molte altre? Come si era permessa? Che cosa le era passato per quel minuscolo cervello che si ritrovava? Doveva averlo proprio piccolo, solo una deficiente farebbe così. Era solo una bambina. Ed era sua sorella. Spesso, dopo quegli episodi, si era tagliata. Era l’unico modo che aveva trovato per punirsi, ma anche per riuscire a controllare un po’ il senso di colpa e la vergogna, per farli diminuire. Strinse forte Maddie e la fece accomodare accanto a sé.
"Mi dispiace, piccola. Ti prometto che cercherò di stare più attenta. Purtroppo non posso controllare ancora del tutto i miei problemi, a volte le mie malattie mi fanno dire cose che non penso e che, se stessi bene, non mi sognerei nemmeno di pronunciare. Sei speciale, la persona più importante della mia vita."
"Davvero? Anche più della mamma, o Dallas, o Andrew?"
Madison restò a bocca aperta. Non si aspettava quella rivelazione e il suo cuore cominciò a battere all'impazzata mentre le mani le sudavano. Nessuno prima d'allora, a parte i suoi genitori, le aveva mai detto una cosa così bella.
"Sono tutti tipi d’amore diverso, non si possono paragonare. Ma per me sei importantissima, non te lo direi se non fosse vero. Sappi che qualsiasi cosa accadrà tu sarai sempre la mia sorellina e io ti amerò per la vita e anche oltre, e nulla potrà mai cambiare questo. Amo te e Dallas allo stesso modo, ma tu sei mia sorella minore e dato che non credevo che ne avrei mai avuta una, sei speciale. Voglio bene a Eddie e alla mamma, ovvio, ma in modo diverso dal vostro. Capito?"
Caddero l'una nelle braccia dell'altra rimanendo così per quella che ad entrambe parve una meravigliosa eternità. A Madison venne da piangere. Ne aveva viste troppe, in quegli anni e soprattutto nell'ultimo periodo data la salute di Demi e anche della mamma. Era molto da sopportare per una bambina della sua età. Demi le accarezzava la schiena e cercava di calmarla sussurrandole parole dolci.
"Va tutto bene, piccolina. Io starò bene, staremo bene tutti quanti. Vedrai, saremo felici."
Stai dicendo cose nelle quali non credi fermamente pensò. Le stai mentendo, almeno in parte.
Ma ora non aveva tempo di sentirsi in colpa per questo.
"I-io lo vorrei t-tanto" disse la bambina fra le lacrime.
Demetria cercò di ricacciare indietro le sue. Non poteva piangere davanti alla sorella, l'avrebbe fatta soffrire ancora di più.
"Lo so. Di' le preghiere ogni sera e vedrai che Dio ti ascolterà."
Quando le due si furono ricomposte, scesero le  scale per mano. Non lo facevano da tantissimo tempo, rifletterono, ed era bellissimo sentire di nuovo le loro mani intrecciate e fare un gesto semplice come un piccolo percorso insieme, vicine l'una all'altra.
Prima di sedersi al tavolo, Demi trasse un profondo respiro e iniziò a ripetersi come un mantra:
"Puoi farcela, puoi farcela , puoi farcela."
Era quanto si diceva ad ogni pasto per darsi forza. Senza  quelle parole sarebbe crollata, se lo sentiva. Prese posto lentamente, quasi avesse paura, e guardò il piatto. C'erano pollo cotto al vapore e verdure, nulla di troppo condito o elaborato. Seguiva un percorso nutrizionale specifico e personalizzato dato dal suo dietista, fatto ancora di alimenti semplici e non di cibo spazzatura anche se da tempo, sulla pasta, oltre all'olio aveva iniziato ad aggiungere altri condimenti come il pomodoro e le era stato permesso solo da poco qualche dolce. Si ricordò di quando, in clinica, era rimasta un'ora a guardare una bustina con cinque grammi di formaggio senza riuscire a metterla sulla pasta. Il cuore le era battuto forte per tutto il tempo mentre l'ansia la attanagliava nella sua morsa. Alla fine ce l'aveva fatta, però. E pensò all'altro episodio nel quale era andata in crisi perché le pareva che le infermiere le avessero messo più olio di quello che il dietista aveva detto, anche se non era vero, ed era scoppiata a piangere lanciando via tutto. E alla prima cena in clinica dove le avevano messo nel piatto pollo, verdure e latte e lei aveva dato tre morsi al primo dicendo di essere a posto. La donna seduta accanto a lei per controllarla, in quella grande stanza nella quale tutti erano seguiti da qualcuno durante i pasti, le aveva detto di no, lei aveva risposto di sì, ma poi si era resa conto che forse aveva bisogno di stare lì, dato che non riusciva nemmeno a finire un pasto. Adesso era diverso, non stava più così male, ma la sua determinazione prese a vacillare. Si sentiva come nei momenti ai quali aveva pensato poco prima. Il profumo del cibo le dava il voltastomaco, era consapevole di fare mille smorfie e avrebbe voluto scappare, ma non poteva. La mamma non gliel'avrebbe permesso, dicendo che era per il suo bene.
"Coraggio Demi, prova con una zucchina, solo una" la incoraggiò la donna.
"Solo un boccone, poi il resto verrà più facile" continuò Eddie.
"Noi crediamo in te" aggiunse Dallas.
I genitori si scambiarono uno sguardo preoccupato che disse tutto.
"Perché oggi sta così? Perché fa tanta fatica a mangiare? Ieri era andata meglio. Che stia peggiorando o avendo una ricaduta?"
Queste erano le domande che si ponevano mentre cercavano di celare la preoccupazione dietro tanti sorrisi e incoraggiamenti. I loro cuori battevano all'impazzata e sudavano loro le mani.
Demi infilzò alcune verdure e se le mise in bocca, poi fece lo stesso con un po' di carne. Le girò qualche volta, poi mandò giù. Tutti le sorrisero, forse ce la stava facendo, quella crisi era passata. Ma il piatto le sembrava grandissimo, il cibo tantissimo, sempre di più, una quantità industriale che lei non sarebbe mai riuscita a mangiare. Lo vide davvero enorme e con un gusto e un aspetto orribili, sapeva quasi di marcio e lo sembrava. La malattia le faceva vedere tutto in modo distorto. Poi ogni cosa accadde molto velocemente, così tanto che all'inizio i tre rimasero senza né parole né fiato, increduli di fronte a quella reazione. Le voci nella testa di Demi cominciavano a farsi sentire più forti, era sempre Ana a parlare ma sembravano più persone con la stessa voce.
"Sei grassa e brutta, vuoi diventare ancora di più un cesso? Guarda che se mangi farai schifo e nessuno ti vorrà più bene, anzi ti odieranno tutti: i tuoi genitori, le tue sorelle, anche Andrew. È questo che vuoi?"
Se tutti l'avessero odiata, lei sarebbe rimasta sola e non sarebbe riuscita a sopportarlo. Il solo pensiero la atterriva facendole tremare persino l'anima.
"No" mormorò, così piano che nessuno la udì.
"Allora ascolta me, Ana, la tua unica amica. Ti dirò io cosa devi fare adesso e tu mi obbedirai."
Quello era un ordine, certo, ma la sua voce suonava comunque dolce e tranquilla, non brusca. E Demi, che ancora non era uscita dalla malattia, si fidò di lei. Se fare ciò che le chiedeva era l'unico modo per non perdere nessuno, allora era disposta a seguire i suoi consigli. Alzò il piatto in aria e, non potendo sopportare oltre la vista e il lezzo di quel cibo, la ragazza scagliò tutto lontano con un urlo terrificante. Il pollo e le verdure finirono dappertutto sporcando il pavimento e il tappeto, l'acqua del bicchiere che lanciò per secondo si riversò a terra e quest'ultimo e il piatto si spaccarono in mille pezzi. Approfittando del momento di silenzio calato su tutti quanti a causa dello sbigottimento Demi fece cadere la sedia e corse via, poi si rifugiò in camera e vi si chiuse dentro a chiave crollando sul letto. Non poteva vomitare adesso anche se Ana glielo stava praticamente urlando, avrebbe destato ancora più preoccupazione e troppi sospetti.
“Lo farò, okay? Smettila di torturarmi la testa!” esclamò, sentendo le tempie pulsare.
Doveva aspettare un momento più tranquillo, sperando che nessuno la  udisse e che il cibo non sarebbe andato troppo a fondo nel frattempo. Ma non riuscì ad attendere. Il corpo era scosso da forti sussulti, come se rifiutasse il cibo che lei aveva appena ingerito e volesse liberarsene subito, in quell'istante. Approfittò del momento di probabile shock dei familiari per dirigersi in bagno. Aprì al massimo l'acqua del rubinetto del lavandino per coprire il rumore, poi andò in camera sua e accese lo stereo a volume non troppo alto e lasciò la porta semi-aperta. Doveva sbrigarsi. Aprì il coperchio del water, si infilò due dita in gola e aspettò. La lingua, calda e bagnata, premette contro le sue dita mentre le parve che la gola formicolasse. La sensazione sarebbe stata piacevole se non le fosse sembrato di soffocare. Ma doveva liberarsi di quella roba che aveva ingerito, non poteva ingrassare. Dapprima sentì solo un sapore acido salirle su, poi il cibo arrivò e finalmente uscì aiutato da un conato. Avendo mangiato da poco era stato facile. Dopo aver tirato lo sciacquone ed essersi lavata bocca e denti per non far insospettire nessuno, la ragazza se la coprì con la mano e, con ancora la voce di chissà quale cantante nello stereo, urlò a pieni polmoni. Ne uscì solo un grido strozzato che nessuno udì e che non la fece sfogare. La gola le dolse per aver appena rimesso.
Brava, cogliona pensò. L'hai fatto di nuovo, dopo un mese e mezzo, un mesi e mezzo, ripeto, che non capitava, porca puttana!
Ana non era sua amica. In clinica le avevano insegnato che non era il cibo ad essere suo nemico, lo era lei di se stessa. Perché, allora, a volte crollava e non riusciva a ricordarselo? Corse nella sua stanza in punta di piedi e si chiuse piano la porta del bagno alle spalle, aprì la finestra e chiuse le imposte con due tonfi, poi richiuse il vetro con un'altra forte botta. Si avvicinò alla sedia dove teneva i suoi vestiti ed iniziò a lanciarli in terra, a caso, mentre gli abiti l'uno dopo l'altro cadevano e si stropicciavano.
"Non sto bene! Non sto bene, cazzo!" avrebbe voluto urlare.
Ma non aveva la forza di farsi vedere così dai suoi, di far capire che la sua ricaduta era più forte di quello che pensavano. Sapeva che parlare era importante, ma in quel momento non ci riusciva. I fan l'avrebbero odiata se l'avessero vista in quelle condizioni, ma per il momento non ci pensava. Ma una cosa era certa, e lo sentiva: lei si odiava. Rimise tutto a posto, anche se non in ordine come prima. Stava meglio nella confusione, perché in fondo quella era la metafora della sua vita che non era di certo perfetta e, con le mani davanti al volto e le guance in fiamme, scoppiò in un pianto dirotto e senza fine.
 
 
 
Dopo la paura e lo stupore il volto di Eddie e Dianna si trasformò. Il sorriso sparì per lasciar posto ad un'espressione irata, ma i due sapevano che urlare alla figlia:
"Ma che diavolo hai fatto?",
o fare discorsi sul non sprecare il cibo in quel modo sarebbe stato inutile. Anche Dallas lo capì, ma per i tre era difficile non lasciarsi andare a quelle forti emozioni.
"M-mamma, perché ha f-fatto così?" chiese Madison tremando, mentre diventava sempre più pallida.
La sua voce era più acuta del normale, sembrava avere quattro o cinque anni e aveva gli occhi sbarrati e le mani strette attorno al tavolo, tanto che le nocche le diventarono bianche.
"L'anoressia, una delle sue malattie, è stata più forte di lei stavolta. Non sopportava di vedere il cibo e ha avuto una crisi. Non ce l'ha con te né con nessuno, stai tranquilla."
Dianna aveva cercato di spiegarglielo, anche se l’anoressia non è, in realtà, dovuta dal fatto che il cibo non piace. Ma in quel momento non aveva la forza di dire altro.
Dallas si mise a pulire tutto mentre gli altri finivano la loro cena controvoglia e in fretta, in particolare i genitori.
“Sta ascoltando musica” disse Dianna ad un certo punto, mentre le note di una canzone riempivano l’aria.
“E se stesse vomitando?” suggerì Eddie. “Ci siamo informati, lo sai, questo è uno dei comportamenti delle anoressiche: rimettere dopo aver mangiato anche poco.”
Sì, lo so anche troppo bene pensò Dianna, che soffriva di anoressia da tanti anni ma, fino a quel momento, era riuscita a nascondere tutto. E mi sento in colpa perché mia figlia potrebbe essersi ammalata a causa del mio disturbo.
Una lacrima le solcò la guancia destra e avrebbe voluto gridare perché Dio, quel pensiero la uccideva dentro ogni singolo giorno, sempre un po’ di più, piano, in una tortura continua e la stringeva in una morsa dalla quale non si sarebbe potuta liberare.
Si divisero: Dallas portò Madison in camera con l'intenzione di parlarle e tranquillizzarla, mentre i genitori andarono da Demi. Dovevano assicurarsi che non avesse vomitato o altro, ma allo stesso tempo erano preoccupati per le altre due figlie. Tutti stavano soffrendo per quella situazione, non solo Demetria, e avendo tre figlie Dianna doveva tener conto dei sentimenti di ognuna, ora l'aveva capito. Dopo anni passati a non parlare con loro di argomenti profondi, di come stavano davvero, da quando Demi era stata male le cose stavano cambiando. Parlare è importantissimo, specialmente tra una mamma e i suoi figli, adesso ne era consapevole.
 
 
 
In piedi nella sua stanza, Madison era scossa da violenti tremori che rischiavano di farla cadere. Credeva di essere una bambina forte, tutti gliel'avevano sempre detto, ma quando un suo familiare stava male lei crollava e questo capitava in particolare con Demi, forse perché era più legata a lei che a Dallas nonostante volesse un bene dell'anima ad entrambe.
"Maddie, siediti" mormorò la più grande, con dolcezza, per la seconda o forse terza volta da quando erano entrate.
L'altra si lasciò prendere per mano e quasi trascinare verso il letto dove cadde sdraiata a peso morto. Aveva le mani fredde e brividi lungo tutto il corpo. Da tempo non aveva tanta paura.
"Demi sta molto male, vero?" domandò flebilmente.
La voce non le tremò al contrario di quanto si sarebbe aspettata, ma le uscì roca e stanca, non sembrava nemmeno la sua ma quella di una vecchia.
"Come ti ha detto la mamma, ha avuto un'altra crisi com'è accaduto altre volte in questi mesi, ma ce ne sono state di peggiori. Certo non sta bene, ma l'ho vista molto peggio."
"Anch'io, ma odio vederla soffrire."
E non riusciva a sopportare il fatto che a volte i suoi familiari minimizzassero i loro problemi per farla sentire meglio, tanto lei sapeva benissimo che la situazione di Demi non era buona, fatta di alti e di tanti bassi, di giorni buoni e di crisi come o peggiori di quella e che i problemi che la affliggevano da anni erano molto gravi e seri. Se pensava che se li era portati dietro per anni senza dire niente, senza mai chiedere una volta aiuto… Non ne poté più e scoppiò a piangere.
"È colpa mia?" chiedeva senza interruzione. "Demi sta male per colpa mia?"
Dallas le asciugava le lacrime, le scostava i capelli dal viso e la accarezzava.
"Madison, calmati. Non è colpa tua, non devi pensarlo nemmeno per un istante. Shhh, tranquilla. Ascoltami, tu non hai fatto niente. Nessuno di noi ha colpe in tutto questo. Demi ha sempre detto che la sua famiglia è la cosa più importante per lei assieme ad Andrew, che sta lottando anche per noi e, lo sai, sul comodino in clinica aveva la tua foto. Credi che sarebbe stato così se avesse incolpato noi di qualcosa?”
La bambina fece cenno di no con la testa.
“Ecco, vedi? Non è arrabbiata con noi, anzi, né sta male per colpa nostra. Io, tu e i nostri genitori la aiutiamo ad essere più forte e dobbiamo stare uniti, specialmente in momenti così difficili per lei e per tutti.”
Madison non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, anche se in quella situazione non ci sarebbe stato nulla per cui sorridere, ma a Dallas ci volle molto altro tempo per calmarla. Le tenne la mano, le parlò a lungo, le lesse qualcosa come faceva quando era più piccola, lasciò che si sfogasse più che altro con il pianto, dato che quella sera alla bimba le parole non uscivano. Tuttavia non c’era bisogno di loro per capire quanto soffriva, il dolore si poteva leggere nei suoi occhi tristi e stanchi, nel viso pallido, lo si percepiva dal respiro corto e irregolare.
 
 
 
I cuori di Eddie e Dianna battevano come due tamburi, ed ebbero la paura irrazionale che le figlie potessero udirli ed esserne disturbate. Per prima cosa aprirono la porta della camera di Demi e, senza osservarla, andarono subito in bagno, guardarono in giro, nel Water, ma non c’erano tracce di vomito. Lo spazzolino, però, era ancora bagnato e quindi doveva essere stato usato da poco.
“Dio, potrebbe aver…” mormorò Dianna, ma la sua voce si spezzò e non riuscì a continuare.
“Lo so” mormorò Eddie, grave. “Credo che l’abbia fatto.”
“Perché non siamo venuti prima?”
Se solo fossero stati più veloci forse avrebbero potuto fermarla, farla ragionare.
“Eravamo sconvolti, ma non è una giustificazione. Dovremmo capire i segnali, ormai, ma Dianna, non possiamo controllare tutto. Siamo umani anche noi.”
“Ma siamo genitori! Siamo genitori, porca miseria!” La donna si batté entrambe le mani in fronte. “Come ho fatto?”
Era sul punto di piangere e anche Eddie, benché non lo desse a vedere, faceva fatica a trattenersi. La abbracciò da dietro.
“Possiamo fare qualcosa adesso. Andiamo da lei.”
Intanto, Demi era a letto. I genitori la trovarono coperta solo dal lenzuolo, il resto era per terra anche se ancora infilato nel letto per un lato. La ragazza teneva gli occhi chiusi e non si muoveva, respirava piano anche se il suo cuore era in tumulto.
"Che disastro" mormorò Dianna.
"Deve aver avuto un forte scatto di rabbia quando è entrata qui dentro. Guarda adesso come trema."
"Tesoro mio" sussurrò la donna dandole poi un bacio su una guancia, piano per non svegliarla.
Le faceva male vederla così, le ricordava il modo in cui l'aveva trovata mesi prima quando era salita in camera sua per convincerla a farsi ricoverare. Aveva pensato a mille frasi da dirle, anche piuttosto dure, ma quando l'aveva vista non ce l'aveva fatta. Le era parsa una bambina spaventata, non una diciottenne, e per fortuna Demi - almeno in quel momento - non aveva opposto resistenza.
"Copriamola, coraggio."
Eddie la riscosse dai suoi pensieri e la donna si affrettò a farlo con il suo aiuto.
"Siamo sicuri che starà bene?" chiese, la voce rotta da un pianto che non vedeva l'ora di uscire.
Ad Eddie ci volle qualche secondo per rispondere. Nonostante non piangesse anche a lui dispiaceva tantissimo per Demi, e strinse le mani a pugno tenendo le braccia lungo i fianchi per cercare di incanalare in quella zona un po' del suo dolore, poi trasse un lungo e profondo sospiro. Lo sguardo che rivolse alla moglie, carico di sofferenza e tristezza, le disse più di mille parole.
"Sì, vedrai che non le succederà niente. Dorme e sembra più tranquilla, ma se vuoi resto un altro po' con lei" si offrì, sapendo che altrimenti l'avrebbe fatto Dianna.
Lei era già molto stanca, spesso passava lunghe ore a letto senza volersi alzare e altri segnali stavano iniziando a far capire a lui e ai familiari che anche in lei qualcosa non andava.
"Va bene, grazie amore."
Si sorrisero e si abbracciarono, evitarono però di darsi un bacio vista la situazione. Si scambiarono però uno sguardo pieno di quell'amore che li univa ormai da sedici anni, prima come fidanzati e poi come sposi. Eddie le accarezzò una guancia e Dianna ricambiò.
"Devi farti la barba. Pungi" gli fece notare ridendo.
"Domani mattina, promesso" rispose lui, sapendo che la donna non sopportava di vederlo con la barba lunga. Ma entrambi tornarono subito seri, quello non era il momento di scherzare. "Hai le mani fredde, Dianna. Fatti qualcosa di caldo."
"Sì. Ho paura. E quando ho paura il mio corpo ha questa reazione."
"Lo so."
La donna uscì dalla stanza barcollando leggermente e dovette tenersi ad una parete per lasciare che la vertigine che l'aveva colta passasse. Una volta scesa in cucina la prima cosa che fece fu tirare fuori dal nascondiglio dove lo teneva, un mobile che apriva praticamente solo lei e sotto varie cianfrusaglie che nessuno usava un barattolo di pillole. Xanax, un ansiolitico di cui era diventata dipendente da tanti anni e del quale non poteva proprio fare a meno. Prese una pillola e la mandò giù con pochissima acqua, poi si fece una camomilla.
Eddie rimase con Demi per una mezzoretta a guardarla dormire e ad ascoltare il suo respiro. In effetti la ragazza alla fine aveva preso sonno, anche se non avrebbe voluto. L'uomo le mise le mani sul petto e restò qualche secondo a sentirlo mentre si alzava e si abbassava. L'aveva fatto con lei, Dallas e soprattutto con Madison quando erano piccole per un po'. Gli pareva un modo per star loro più vicino, per proteggerle in un certo senso, per calmarle con la sua presenza. Era una cosa tutta sua che forse Dianna non sapeva, o almeno non ne avevano mai parlato, una "cosa da padre", come gli piaceva definirla. E non importava che ora Demetria fosse grande, sarebbe sempre stata la sua bambina. Ad ogni modo lui non aveva mai cercato di sostituirsi a Patrick, né aveva impedito a lei e a Dallas di vederlo o di chiamarlo papà, non si sarebbe mai permesso. Ma erano state loro ad affezionarsi a lui così tanto da considerarlo più un padre che il compagno o il marito della mamma.
"Dormi bene, principessa" le disse prima di uscire e andare in camera sua, dove Dianna intanto si era già messa a letto e dormiva, anche a causa dello Xanax che aveva fatto effetto in fretta.
Ma poco dopo che Eddie fu uscito, Demetria si svegliò di soprassalto a causa di un incubo che non ricordava già più. Si era alzata in piedi di scatto quasi senza accorgersene, probabilmente ancora nel sonno e ora grondava di sudore e piangeva. Quel sogno doveva essere stato così brutto che la sua memoria l'aveva cancellato per non farla stare troppo male.
 
 
 
Seduto sul letto, Andrew si passò una mano tra i capelli castani, un gesto che faceva a volte per rilassarsi. Guardava il cielo fuori dalla finestra. Gli piaceva osservarlo nelle notti in cui le nuvole si facevano sempre più scure coprendo luna e stelle, e soprattutto nel momento in cui dei bagliori sembravano volersi rincorrere sopra di esse. Accadeva spesso in quel periodo, essendo estate, che ci fossero dei brevi ma intensi temporali e, a quanto sembrava, sarebbe capitato anche quella sera. Di solito lui osservava incantato la scena mentre si godeva il ticchettio crescente delle gocce di pioggia che prima picchiettavano e poi si abbattevano con violenza sul tetto ma quella sera, mentre il temporale si avvicinava, si sentiva diverso. Una sensazione fin troppo familiare iniziò a farsi strada in lui scaturendo dalla parte più profonda di se stesso e cominciando a salire e a salire ancora fino a che il ragazzo avrebbe voluto urlare. Si mise le mani sul petto e trasse un profondo respiro per cercare di allontanare il dolore continuo che lo aveva colto ormai da un po', non insopportabile ma fin troppo insistente, mentre il suo respiro si faceva irregolare. Avrebbe voluto piangere, ma i suoi occhi verdi parevano secchi, asciutti, come se avessero già fatto sgorgare ogni singola lacrima. Era preoccupato non per qualcosa, ma per qualcuno. Non vedeva Demi da alcuni giorni, l'ultima volta gli era sembrato che stesse bene, ma adesso più pensava a lei più aveva la sensazione che le fosse accaduto qualcosa di brutto o che le sarebbe successo a breve. Non se la sentiva di andare da Frank e Joyce, i suoi genitori, e parlarne loro e nemmeno da Dianna e Eddie per non spaventarli, magari inutilmente. Per quanto sapessero che la situazione di Demetria non era semplice e che lui, come suo migliore amico, le voleva un bene dell'anima, Frank e Joyce avrebbero cercato di rassicurarlo dicendogli che andava tutto bene e di stare tranquillo e parole simili. Discorsi normali per dei genitori che cercano di calmare il proprio figlio, ma non per lui che avrebbe provato solo fastidio.
Si alzò dal letto. La scrivania era a pochi passi da lui, gli sarebbe bastato prendere il cellulare che vi si trovava sopra e mandarle un messaggio con scritto:
Ciao, come stai?
oppure:
Tutto bene?
o simili, ma le mani gli tremavano tanto che non riusciva nemmeno a fare questo.
Si avvicinò alla libreria accanto al tavolo e allungò un braccio. In alto, nell’ultimo scaffale, al quale arrivò solo mettendosi in punta di piedi, c’era un libro con dei sonetti di Shakespeare. Gliel’aveva regalato sua madre l’anno prima, dato che a scuola Andrew aveva apprezzato alcuni sonetti di quell’autore. Certo erano difficili, il linguaggio era complesso, ma perlomeno si sarebbe tenuto occupato, avrebbe concentrato la mente su qualcos’altro. Aprì la prima pagina e iniziò a leggere ma non ci capì nulla, non riusciva nemmeno a comprendere i termini più semplici. Leggeva e leggeva, sfogliava le pagine, ma le parole gli scorrevano davanti come se non avessero avuto senso. Urlò fregandosene del fatto che qualcuno avrebbe potuto udirlo e lanciò il libro dall’altra parte della stanza. Questo sbatté contro il muro e cadde a terra con uno schianto secco, la copertina si aprì mostrando la prima pagina. Andrew lo lasciò là. La testa non faceva che vorticare, sentiva il petto pesante e un senso di affanno ingarbugliargli lo stomaco. Tornato al suo letto raccolse le ginocchia al petto mentre scoppiava in un pianto dirotto.
 
 
 
NOTE:
1. una persona con i problemi di Demi dev’essere seguita da un team fatto di dietista, psicologo e psichiatra, per questo li ho inseriti tutti e tre. Non so se lei abbia mai preso farmaci per l’ansia, qui ho messo quelli che prendo io e la riflessione sulle benzodiazepine è mia, lei non ne ha mai parlato. Per un periodo ho assunto il Lexotan in gocce con gli stessi sintomi descritti qui, poi però l’ho preso in pastiglie per un lungo periodo, un anno o più, sempre al bisogno e devo dire che lo assumevo abbastanza spesso anche perché non mi intontiva, mi aiutava. Come nel caso della Demi di questa fanfiction, la mia ansia era quasi continua. Alla fine sono passata al Trilafon con la stessa terapia prescritta a lei e devo dire che mi trovo molto meglio. Ed è vero, Demi ha avuto un attacco di panico prima di entrare in clinica, o almeno così dice un articolo su www.hollywood.com. L'altro è tratto da una mia storia.
2. In un’intervista che ho visto su YouTube a “Pretty Big Deal”, molto recente ma che, forse, poteva valere anche per quel periodo, Demi ha spiegato che il suo dietista le dice che lei non ha bisogno di essere perfetta per stare bene, bensì di accettare il proprio corpo.
3. Nell’articolo che ho letto Demi non spiegava i motivi della sua ansia. In un video su YouTube, un’intervista al “Katie Show”, diceva che il rapporto conflittuale con il proprio corpo era cominciato molto presto, a tre anni, prima che iniziasse a fare audizioni e poi c’era tutto il discorso sul fatto che si toccava la pancia e si vedeva grassa e che vivere in una famiglia problematica causi difficoltà com’è successo a lei. Sempre lì ha detto che in clinica c’era qualcuno che la controllava durante i pasti e dato altre informazioni.
Per il resto ho cercato di dedurli.
In un altro articolo ha dichiarato che anche se alla Disney non le hanno mai detto di dimagrire, lavorare lì ha comunque avuto un impatto sui suoi disturbi alimentari. Per quanto riguarda questi, in “Stay Strong” ha dichiarato che non è riuscita a finire la prima cena in clinica, composta di ciò che ho scritto e che allora ha capito che forse aveva bisogno di rimanerci.
4. È vero, è finita in ospedale per un attacco d’ansia, anche se da come era descritto nell’articolo (diceva che si sentiva come se fosse stata drogata) a me pare più un attacco di panico. Tuttavia c’era scritto anxiety attack e ho lasciato così, non essendo sicura.
5. Gli attacchi di panico e d’ansia sono differenti. I primi si caratterizzano per essere molto brevi, massimo dieci minuti, improvvisi, scatenati di solito da un pensiero, da una paura, da un sentimento negativo e di forte preoccupazione e, durante tali episodi, si teme persino di morire. I sintomi (vertigini, soffocamento, sudorazione e altri a seconda dei casi) sono molto forti. Attacco d’ansia non è un termine clinico, ma si usa per descrivere stati di forte preoccupazione, paura o altri sentimenti negativi. Tali attacchi possono durare ore, giorni, ma anche settimane o mesi.
6. Non so se Demi sentisse le voci negli anni in cui ha avuto quei problemi, ma ad alcune persone capita così l’ho inserito.
7. Nel documentario "Stay Strong" Demi ha dichiarato che, una volta entrata in clinica, pensava che non sarebbe mai stata meglio e aveva la foto della sorellina sempre con sé.
8. Dianna ha sofferto di anoressia, depressione post partum, PTSD (disturbo post traumatico da stress) ADHD (Deficit di Attenzione e Iperattività) e dipendenza dallo Xanax. Lo racconta nel memoir “Falling With Wings: A Mother’s Story” ed è vero, faceva di tutto per nascondere ogni cosa anche se a un certo punto (non so se proprio nel momento in cui la mia storia si ambienta o poco dopo) i familiari hanno iniziato a notare qualcosa.
9. Nel libro Dianna scrive che avrebbe voluto dire a Demi mille cose, frasi anche dure, per farle capire che era necessario che si ricoverasse ma quando l’ha vista distrutta, le è parsa più una bambina che una diciottenne e le ha chiesto semplicemente di farlo. Demi ha risposto che non aveva altra scelta e la madre si è sentita sollevata che avesse capito e accettato.

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Capitolo 2
*** Caduta ***


I do not wanna be afraid
I do not wanna die inside just to breathe in
I'm tired of feeling so numb
Relief exists, I find it when
I am cut
[…]
I feel alone here and cold here
Oh, I don't wanna die
But the only anesthetic that makes me feel anything kills inside
(Plumb, Cut)
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 2.
 
CADUTA
 
"Tagliati."
La voce arrivò all'improvviso, dolce come sempre. Demi non la sentiva da un mese e mezzo circa. La sua psicologa e la psichiatra avevano detto che stava facendo progressi, che se non si tagliava da così tanto significava che si sentiva meglio, e adesso se l'avesse ascoltata avrebbe rovinato tutto quanto.
Non devi farlo pensò. Ti ferirai soltanto.
Ma rifletterci non bastava, era come se quei pensieri non arrivassero direttamente al suo cuore e alla propria anima, come se non li sentisse sul serio.
"Se lo farai avrai altre cicatrici sul tuo corpo. Non gli hai già fatto male?" si chiese, sentendosi subito in colpa.
L’aveva deturpato troppo, ferendolo e facendosi del male. Non era abbastanza, forse?
"Ho detto tagliati" le sussurrò di nuovo la voce nella sua testa, con lentezza.
Allungava le vocali come per chiamarla in modo quasi sensuale. Demetria udiva solo le sue parole, ma la considerava comunque una persona. Se la figurava come una ragazza giovane, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, magra e slanciata. Certo reputava difficile che una persona della sua stessa età o pressappoco riuscisse ad essere manipolativa, se non addirittura impossibile, ma l’aveva sempre vista in quel modo, non poteva farci nulla.
"No, non voglio" le rispose con convinzione, domandandosi se qualcuno la udisse e cos'avrebbe pensato di lei, ma non le importava.
"Sì che vuoi, in fondo lo sai benissimo. Hai vomitato, sei stata stupida e ora desideri in parte punirti, in parte esprimere la vergogna e la colpa che provi verso te stessa. È solo che il pensiero del dolore che potresti procurarti, della tua famiglia, dei tuoi affetti ti impedisce di fare il prossimo passo. Ma tu brami quella sofferenza, perché poi ti sentirai meglio!"
Avrebbe ferito tutti: i suoi genitori, le sorelle, Andrew e anche Joyce, Frank e Carlie, la sorella del suo migliore amico.
"Non pensare a loro, non ti amano davvero."
"Ma sei stupida? Che stai dicendo? Certo che mi amano!" sbottò.
Come poteva parlarle in quel modo orribile?
"Ne sei proprio sicura sicura? Magari ti stanno vicino solo perché sei la povera, piccola Demetria Devonne Lovato. Ti vedono come una ragazza fragilissima, insicura, che dev'essere protetta, come qualcuno che senza un sostegno non ce la farebbe, che devono aiutare per forza, come un peso" riprese la voce, tagliente.
In parte Demi non voleva crederci, non poteva essere. I suoi le avevano sempre voluto bene davvero e anche Andrew. Ma la mente non ragionava più in modo normale, ormai, non era lucida. Se lo fosse stata, sarebbe riuscita a scacciare la voce e a non pensare più a quelle cose orribili.
E se avesse ragione? Se fossi davvero solo questo per loro? Se fossi semplicemente una stupida, una persona inutile, un peso? Se non valessi niente?
In fondo che cos'aveva fatto in quegli anni? Terminato la scuola, iniziato una carriera musicale, recitato, ma la sua vita era a pezzi, fatta di segreti, di dolore celato a tutti. Si stava riprendendo, sì, ma sapeva di non essere abbastanza forte per farcela. A volte pensava il contrario, ma c'erano ancora tanti momenti nei quali si convinceva che, anche se a Capodanno in clinica aveva deciso di voler aiutare altre persone con i suoi problemi, non fosse l'esempio adatto, il modello da seguire, perché lei era sempre stata debole. Era stato difficile arrivare a quella conclusione, perché all'inizio del 2011 lei era scoppiata a piangere, corsa nella sua stanza e aveva cominciato a chiedersi cos’aveva fatto a lei stessa, dicendosi che a diciotto anni si trovava lì alla Timberline Knolls a Capodanno… Ed ora si rendeva conto che sì, anche se aveva pensato il contrario in quei mesi probabilmente non sarebbe stata meglio, non avrebbe fatto altri progressi, né proseguito con la creazione del suo album, né dato una mano proprio a nessuno. Non era nemmeno riuscita a cenare buttando per aria tutto e poi vomitando, come poteva anche solo sperare di esserne capace? Non avrebbe mai concluso niente nella vita, perché era lei quel niente. Se Andrew l'avesse sentita le avrebbe detto che era solo pessimista, che quella caratteristica faceva parte di lei ma che sarebbe migliorata nel tempo. Demi, però, preferiva definirsi realista convinta, anzi, estremamente convinta. Si sentiva come quando era entrata in clinica, una fragile foglia quasi del tutto secca in balia di un forte e freddo vento, completamente sopraffatta dalle proprie emozioni negative, con il cuore cupo e in tempesta. Una volta uscita forse quella foglia era più verde, i sentimenti più positivi dato che pensava al futuro, ma la sua battaglia non era ancora finita. Tuttavia non pensava avrebbe avuto tante ricadute, che sarebbe stata ancora così male. E invece…
"Vedi?" tornò la voce e rise. "Te lo stai dicendo da sola. Ci sei arrivata senza che io aggiungessi nulla: sei inutile, un peso di cui tutti farebbero volentieri a meno, credimi. Beh, mi hai evitato uno sforzo, brava, grazie. Ora spero tu l’abbia capito.” Si addolcì, parlando in tono quasi materno. "Solo io, Ana e Mia siamo tue amiche, ricordatelo sempre. Ora vai, fallo. Fallo!"
L'urlo fu roboante e la terrorizzò facendole fare un salto.
La voce aveva ragione: aveva mangiato pochissimo, vomitato, spaventato a morte tutti e avrebbe solo dovuto vergognarsi per questo. Lei non era una persona, era uno schifo.
"Lo faccio" mormorò, la voce che si frantumava come un vetro che riceve un colpo delicato ma sufficiente a spaccarlo.
Si alzò sentendo le gambe molli, pareva che volessero liquefarsi da un momento all'altro. Sarebbe stato bello sciogliersi lì, pensò, trasformarsi in acqua, o ancora meglio sparire, così non avrebbe più creato problemi a nessuno. Avrebbe voluto correre sentendo l'urgenza di farsi del male, ma quasi non riusciva a camminare. La testa vorticava a velocità impressionante e dovette aggrapparsi al muro e seguirlo per non rovinare a terra.
A destra del suo letto c'era una scrivania con tre cassetti. Aprì il primo, chiuso a chiave, una che teneva sempre lei in tasca ovunque andasse in modo che nessuno lo aprisse. Beh, una volta sua madre era riuscita a prenderla, a dire la verità, quando lei l'aveva lasciata non ricordava dove, e aveva letto un suo diario precedente nel quale diceva che era grassa e aveva messo immagini di persone molto in carne e che invece era necessario che diventasse sana, incollando sotto le foto di ragazze sottopeso. Quando aveva detto a Demi quello che aveva fatto, pochi mesi prima, la ragazza all'inizio si era arrabbiata: come si era permessa di leggere i suoi segreti? Ma poi si era resa conto che l'intento dellala madre era stato quello di aiutarla, per quanto Dianna avesse sempre saputo che ledere la sua privacy non era stato un gesto carino. Dopo il ricovero Demetria aveva iniziato un diario nuovo nel quale scriveva spesso, non ogni giorno purtroppo perché a volte o si dimenticava o stava troppo male e non ci riusciva, e in cui raccontava tutto ciò che le succedeva, sia le cose belle sia quelle brutte.
Lo appoggiò sulla scrivania, prese una biro da una tazza di plastica che si trovava lì vicino… Le era stata regalata quando aveva iniziato l’asilo, pensò, dalla madre, e per un periodo ci aveva anche fatto colazione. Una volta iniziato ad utilizzarne una di ceramica l’aveva usata come portapenne, e a quei ricordi sorrise appena. Accarezzò le decorazioni in rilievo che raffiguravano due gattini, poi senza ulteriore indugio aprì il diario alla pagina del giorno giusto e cominciò a scrivere.
 
Caro diario,
oggi non è stata una bella giornata. Anzi, orribile, di merda ad essere onesti, scusa la schiettezza. Mi sento così sbagliata, con l'autostima sotto le scarpe, infelice e stupida. Sono stanca, non ce la faccio più. Ho vomitato, sono disperata e sto male, ora voglio tagliarmi. So che è sbagliato, che è un problema, ma ho bisogno di farlo. Forse posso ancora fermarmi, porre fine a tutto questo. Non che io stia pensando di suicidarmi, ma magari scrivendo una sorta di canzone, o per meglio dire una poesia che mi è venuta in mente in queste ore, potrei riuscire a calmarmi.
 
Sotto scrisse:
 
RICADUTA.
 
Così, in maiuscolo, grassetto e corsivo, per marchiare il titolo, per dargli importanza e premette tanto la penna che quasi bucò il foglio. Sapere che ne stava avendo un'altra la riempiva di tristezza e alcune grosse lacrime cominciarono a bagnarle il collo e i vestiti. Non le asciugò, lasciò che scorressero libere su di lei, stando attenta che non bagnassero la pagina. Strinse i pugni fino a sentire dolore, finché le sue nocche sbiancarono. Quella era la rabbia, una rabbia che faceva fatica a reprimere. Avrebbe voluto rompere qualcosa fatto di vetro solo per sentirlo andare in pezzi come, in quegli anni, si era frantumata la sua vita, o tirare un calcio al muro o a qualsiasi altra cosa. Ci provò, con la parete, piano per non svegliare nessuno. Ma non funzionò, non le bastò. Sollevò le maniche del pigiama in cotone. Le cicatrici erano lì, alcune vecchie, altre più fresche, ma anche quelle stavano ormai sbiancando. Le toccò come se con quel semplice gesto avesse potuto guarirle. C'erano due tatuaggi sui suoi polsi a coprire i segni. Uno diceva Stay e l'altro strong, se li era fatti a marzo.
Avvicinò i denti alle braccia e iniziò a morderle. Le cicatrici tiravano, bruciavano, i denti erano tanti spilli che, tutti insieme, ferivano la pelle. Creavano segni irregolari, simili a delle piccole onde. Dopo averlo fatto per una decina di volte, mentre la voce dell'autolesionismo urlava per la gioia e il suo cuore faceva le capriole, Demi sorrise. Stava un po' meglio, ma non era abbastanza. La sua parte razionale le disse di scrivere ancora, di provare a fermarsi prima che fosse troppo tardi e lei, con quel briciolo di raziocinio che le era rimasto, tentò di ascoltarla. Riprese in mano la biro che le era caduta e cominciò.
 
 
Tengo la lama fra le mani,
Penso che questo dolore non abbia eguali.
Voglio tagliarmi profondamente,
Così da dopo non sentire più niente,
Provare sollievo,
Almeno per poco,
Pur sapendo che la vergogna tornerà a fare il suo gioco.
 
Credevo che quei giorni fossero finiti,
Che tutti i miei malanni fossero spariti,
Ma i demoni della mia mente urlano, mi fanno male,
È impossibile farli calmare.
Sono perfino più forti
Del battito del mio cuore.
Dicono: "Sei stupida, non vali niente,"
E fino a poco fa, con la mia famiglia, fingevo di star bene veramente.
 
Ora sono qui sul pavimento del bagno,
Ho il cuore spezzato e sono sola.
Calde lacrime mi solcano il viso,
Non potrò certo trattenerle all'infinito.
 
Cerco di scrivere questa poesia,
Se così può esser chiamata,
Come ultimo tentativo di fermarmi,
Anche di fronte a una verità consolidata.
La mia mente, ormai, sembra avermi lasciata.
 
Troppi anni di dolore e problemi qui mi hanno portata.
So di non averne colpa,
Ma ora voglio davvero guarire.
Per me stessa, per aiutare i miei fan e e tanti altri, non solo loro,
Per dir loro che ci sono
Se mai vorranno scrivermi
Ma probabilmente non sono pronta a tutto ciò.
 
È come se la lama
Fosse persona, persona viva.
"Fallo!" urla, “e starai meglio di prima.”
Non lo voglio, lo giuro,
Ma dentro sono rovinata,
E se qualcuno mi guardasse da vicino,
Potrebbe notarlo dalla mia faccia disperata.
O forse no, perché nascondo tutto dietro a un sorriso,
Uno che odio, come me stessa,
Come tutto questo,
Mentre in silenzio attendo che la fine arrivi presto.
 
Così lascio andare il diario e la penna,
E mentre il sangue inizia a scorrere
Penso:
Ci sei ricaduta, sei uno schifoso pezzo di merda.
 
 
Scrivere la aiutò a sfogarsi, a sentirsi un po’ più leggera anche se non quanto avrebbe voluto, ma il bisogno di farsi male era sempre lì, presente, attaccato a lei come una seconda pelle. Doveva farlo. Ora.
Sua madre aveva nascosto tutti i coltelli o gli oggetti taglienti. Andare in cucina a cercarli sarebbe stato troppo rischioso, se avesse fatto rumore l'avrebbero scoperta. Fu allora che si rese conto di dover fare una cosa che la sua parte razionale, sempre meno presente, reputava ingiusta e schifosa. Ma Demetria bramava quel dolore, i mostri che abitavano dentro di lei da anni scalpitavano per averlo, per sentire le emozioni negative farsi meno intense e mischiarsi con il sollievo, un sollievo composto di lacrime e sangue. Doveva farlo, o forse avrebbe avuto un attacco di panico dal quale non era sicura che sarebbe riuscita a riprendersi.
A passi lenti uscì dalla sua stanza, lasciò la porta socchiusa, oltrepassò la camera di Dallas e si avvicinò a quella di Madison fino a toccare la maniglia. Ma non ebbe il coraggio di entrare. No, per quanto lo volesse, per quanto i suoi demoni urlassero fino a farle venire un'emicrania epocale e avessero ragione, lei semplicemente non poteva entrare, aprire il suo astuccio e prendere quel temperino. Prima di tutto perché l'avrebbe rubato, e secondo perché poi Madison si sarebbe sentita in colpa, forse pensando che era stato a causa sua se la sorella maggiore, che adorava, si era tagliata. Non era giusto farle passare anche questo. Come era anche solo arrivata a concepire un'idea simile? Lei amava la sua sorellina!
"Sai che non ti arrenderai adesso. Lo vuoi ancora. Trova un altro modo."
La voce era tornata, la spronava in tono deciso. E allora Demi pensò che forse nessuno avrebbe mai saputo, se fosse stata abbastanza attenta. Wi tolse le ciabatte e le prese in mano, poi volò giù per le scale cercando di fare il meno rumore possibile, se le infilò di nuovo e notò che, sul tavolo del salotto, si trovava proprio un temperino. Era in mezzo ad altre cianfrusaglie, carte, scontrini, e forse nessuno se n'era accorto. Ma lei aveva visto quel contenitore di plastica colorata e semitrasparente e le sue mani si allungarono facendo cadere a terra un paio di scontrini. Tremò di piacere nel momento in cui se lo ritrovò fra i palmi e poté stringerlo, e ancora di più quando dirigendosi in bagno e accendendo la luce vide meglio la piccola lametta al suo interno. Sembrava pulsare proprio come un cuore, pareva un richiamo. Svitò con fatica la vite che teneva incollata la lametta all’involucro di plastica e tutto il suo corpo ebbe un brivido, in parte di paura e in parte di piacere ancora più intenso, al contatto con quel piccolo oggetto freddo. Era tanto sottile che avrebbe potuto spezzarlo con poco sforzo, e anche lei era così, fragile. Prima del ricovero, ogni volta che si era tagliata non aveva mai avuto paura. Era stato un suo modo per gestire tutte le sensazioni che provava causate da quanto le succedeva all'esterno, in particolare vergogna e senso di colpa, e non l’aveva mai considerato un problema, pur sapendo che era sbagliato. Ora, invece, una minuscola parte del suo cervello si rendeva conto che ciò che stava facendo era pericoloso e lo temeva. Se avesse spinto troppo a fondo avrebbe potuto essere la fine e lei non voleva morire. Forse era il caso di finirla lì. No, no. La parte razionale era ormai troppo piccola per raggiungerla davvero, lei non sarebbe mai riuscita a fermarsi ora che era così vicina. Altre volte l’aveva fatto, ma o non aveva avuto la lametta in mano ed era stata in grado di controllare i pensieri o, se si era ritrovata con un oggetto tagliente fra le dita, aveva smesso dopo un piccolo taglio o ancora prima di cominciare. Tuttavia ora non sarebbe potuta andare così, era troppo tardi. Se non avesse gestito l'ansia che ancora le stringeva il petto e le faceva dolere la testa così tanto da desiderare di sbatterla contro il muro, sarebbe esplosa. Iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza muovendo braccia, gambe, fianchi, tutto il corpo. Sentiva l’urgenza di muoversi e non riusciva a stare ferma, ma si bloccò dopo poco, prima di quanto si sarebbe aspettata. Il suo petto si alzava e abbassava a un ritmo irregolare, i respiri spezzati l'unico rumore che si udiva nella stanza. Girò tre volte la chiave in modo da sentirsi più protetta.
Prese la lametta con le dita della mano sinistra, poi la strinse solo con il pollice e l'indice e questi, freddi forse più di essa, ebbero un sussulto. Cadde a terra, ma la raccolse in fretta desiderando quel piccolo oggetto in maniera quasi ossessiva. Si lavò le mani con acqua e sapone e lo disinfettò con dell’alcol trovato nella cassetta del pronto soccorso per evitare che infettasse i tagli, fece ancora più attenzione dato che era caduto. Poi passò piano quella lametta sul polso destro, creando una sottile linea rossa. Premette più forte, facendola scivolare in orizzontale, da un lato del polso. Il dolore sembrò propagarsi per tutto il braccio come una stilettata. Le uscì un gemito strozzato e dovette trattenersi, con uno sforzo non indifferente, per non urlare. Il sangue uscì prima sotto forma di gocce, poi di piccolo rigagnolo. Il taglio che si procurò non era molto profondo o lungo, e si trovava in un punto in cui non aveva ancora mai inciso la sua pelle e la propria carne. Forse non sarebbe mai diventato una cicatrice, o magari sì e sarebbe stato un ulteriore segno che le avrebbe marchiato per sempre la pelle.
“Sei grassa” le dicevano i bulli a scuola.
Pensandoci si guardò allo specchio e si vide enorme. Si vergognò di essere così, del suo corpo, com’era successo tante altre volte. L’avevano anche apostrofata con nomi come puttana o puttanella e una sua compagna le aveva detto di uccidersi e aveva poi fatto firmare a tutti una petizione, una scommessa sul suo suicidio. Si tagliò ancora, lì vicino, ma stavolta la ferita fu più lunga e fatta applicando un po' più di forza mentre le lacrime, per il dolore fisico e psicologico, le arrivavano alle labbra con il loro sapore salato e poco gradevole. Il suo corpo fu scosso da un violento tremore, sentiva il petto pesante e le risultava difficile respirare. Il sangue gocciolava nel lavandino assieme al suo pianto e i due si mischiavano quasi fossero stati una cosa sola. Il rosso era più visibile delle lacrime, però quel colore scarlatto la faceva sentire più leggera. L’odore era nauseabondo, ma represse un conato e la nausea che cresceva e cresceva come una bolla nel suo stomaco. Iniziava a sentirsi meglio, più libera. Il peso che le gravava sul cuore era molto meno difficile da portare, ora, e poté trarre un lungo sospiro. Per un attimo si sentì in pace. Per un momento, un solo, singolo istante, non pensò più a tutte le cose brutte accadute quel giorno o nei mesi o negli anni passati. Non riusciva a riflettere nemmeno su cose belle, la sua testa era vuota ma almeno, come il cuore e l’anima, finalmente priva di dolore. Voleva più tagli, più sangue, più sofferenza fisica, più sollievo, perché sentirsi così era bellissimo, provare quella calma quasi innaturale, irreale, la faceva stare bene. Eppure sapeva che quello era un anestetico, un sedativo che avrebbe fatto effetto per pochi minuti, che alla fine non sarebbe cambiato niente, anzi, e che tagliarsi serviva solo a rendere intorpidita e confusa la mente e più sopportabile il dolore psicologico per un po’. Ma non importava, non poteva fare altrimenti. Demi si morse le labbra per non urlare, perché il dolore di quei tagli per quanto poco profondi era forte. La pelle e la carne bruciavano, tiravano, formicolavano. Se quelle ferite avessero fatto le croste, il prurito sarebbe stato insopportabile. Dopo il primo taglio ce ne furono altri perché l'autolesionismo è così, è una dipendenza, ti fa venire voglia di averne ancora e ancora e non riesci a fermarti, o ce la fai solo quando ti senti appagato. Con quei quattro tagli il suo respiro si stava regolarizzando, tornando quasi alla normalità, ma non era abbastanza. Doveva punirsi ancora perché era così sbagliata, grassa, inutile, stupida. Doveva capire meglio che non valeva un cazzo. Doveva sentirsi ancora in colpa, vergognarsi di più di se stessa, del suo fisico, di quel che aveva fatto. La voce dell'autolesionismo, anzi, le voci perché a volte erano di più, anche se sembravano tutte uguali, continuavano a sussurrarglielo nella testa.
I tagli erano un grido d'aiuto, ma il fatto che lei non lo chiedesse a parole rendeva tutto un controsenso. Perché a volte le risultava così difficile? Forse perché ora stava meglio e temeva che l’avrebbero sgridata, e pensava anche che se i giornalisti fossero venuti a saperlo avrebbero scritto articoli con titoli come:
 
Demi Lovato si taglia di nuovo: ricaduta o richiesta di attenzione?
 
Da una parte voleva nascondere tutto, dall'altra desiderava disperatamente che qualcuno si accorgesse di qualcosa.
Chissà se i suoi avevano capito che aveva vomitato, prima. Dovevano averlo intuito, in ogni caso. Pensò a Buddy, il Cocker Spaniel bianco che i suoi genitori le avevano regalato all'età di cinque anni. Avevano vissuto tantissimi momenti meravigliosi insieme, che né lei né nessun altro della sua famiglia avrebbe mai dimenticato. Chissà se lui si sarebbe accorto di qualcosa, dei suoi lamenti sussurrati, se sarebbe venuto a grattare sulla porta per entrare. Le sfuggì un singhiozzo, così forte che temette di aver allertato i suoi genitori, ma attese e non accadde nulla. Buddy era morto a dodici anni. Dianna l’aveva lasciato libero, quel giorno di settembre, come faceva spesso, visto che lui non si allontanava mai. Purtroppo, però, era successo e un’auto l’aveva investito. Non c’era stato nulla da fare: il cagnolino era morto poco dopo, fra le braccia della donna che lo stava portando, mentre piangeva assieme a Demi, verso la macchina, nel disperato tentativo di farlo salvare dal veterinario. Era stato un dolore devastante, tutti avevano pianto per mesi dopo la sua perdita perché si erano sentiti come se fosse morto un membro della loro famiglia, cosa che Buddy era diventato a tutti gli effetti. Per Demi non era stato solo un amico ma un fratello o, addirittura, quasi un figlio. E ci avevano sofferto così tanto che Dianna non aveva più voluto animali, non se l'era più sentita e per quanto le figlie fossero state in disaccordo, alla fine avevano accettato la decisione della madre comprendendo il suo dolore. Buddy non c'era più, nessuno l'avrebbe aiutata se non lei stessa, nessuno le sarebbe stato accanto in quel momento. Ma non aveva la forza di fermarsi, vedere quel rosso gocciolare le dava sollievo, con un altro taglio riuscì a sentire di meno il dolore per la scomparsa del suo cane.
Ma Buddy non vorrebbe questo, non desidererebbe che tu ti facessi del male pensò la ragazza.
Ormai era troppo tardi, e comunque non riusciva a riflettere su ciò che volevano gli altri, ma solo su quello che la parte malata della sua mente bramava con tutta se stessa. Era stanca, non ce la faceva più,.
“Lasciatemi qui a soffrire per sempre” mormorò. “Lasciatemi in pace.”
E dopo un sesto taglio, per un momento si vide immobile in quel bagno, per giorni, fino all’ora della sua morte per fame, sete o dissanguamento, anche se i tagli non erano tanto profondi da ucciderla. Non voleva morire, ma non ce la faceva nemmeno a vivere, non così. Quella non era vita ma sopravvivenza, e nei giorni orribili faceva schifo. Non la voleva più. Non voleva più niente. Le voci e i suoi pensieri erano stati più forti di lei, li aveva sentiti battere e battere nella testa come martelli fino a farla esplodere e avevano unito al dolore psicologico quello fisico. Ma anche se i tagli non erano profondi si era spinta molto in là, si disse; perché quando è la vita a ferire troppo, forse non c’è molto che si possa fare. Lei quella sera aveva provato a lottare contro i suoi disturbi, fallendo. Spesso in quei mesi aveva pensato che sarebbe guarita davvero. Che stupida. Si accasciò con la testa quasi dentro il lavandino e rimase lì, con il respiro lento e pesante, mentre l’odore del sangue le riempiva le narici. La foglia secca si era staccata dall’albero e ora il vento la stava trasportando. Forse era tutto finito, per lei.
 
 
 
NOTE:
1. in “Stay Strong” Demi racconta che, quando è arrivata alla Timberline Knolls, non voleva stare meglio e pensava che la sua carriera fosse finita. A Capodanno, dopo una crisi di pianto, ha capito di voler aiutare persone che avevano avuto il suo stesso problema.
2. In “Simply Complicated” la mamma di Demi ha detto di aver trovato una copia del suo diario con quelle foto e che si sentiva in colpa perché la figlia si era ammalata e che le altre erano comunque state influenzate da lei e dal suo desiderio che aveva di essere magra e perfetta.
3. Per la questione dell’ansia, ho unito sensazioni che prova Demi nella realtà (mancanza di respiro, bisogno di muoversi) ad altre che sento io (giramenti di testa, pesantezza al petto) e comunque anche a me manca il fiato. Nel terzo capitolo descriverò l’ansia e un attacco di panico per come io li vivo, dato che lei su quest’ultimo non è andata molto nel dettaglio.
4. La poesia è stata scritta da me, per questo ho riportato il testo intero. L’originale è in inglese, ringrazio Emmastory per averla tradotta in italiano su mia richiesta. L’ho pubblicata nel mio profilo ma avevo comunque intenzione di metterla anche in questa storia. Mi è parso più giusto lasciarla in italiano in modo che tutti potessero capirla, dato che è importante.
5. In un’intervista con Robin Roberts a “20/20” Demi ha detto riguardo l’autolesionismo:
"It was a way of expressing my own shame, of myself, on my own body. I was matching the inside to the outside. And there were some times where my emotions were just so built up, I didn't know what to do. The only way that I could get instant gratification was through an immediate release on myself."
 
Traduzione:
“Era un modo per esprimere la vergogna di me stessa, sul mio corpo. Stavo facendo corrispondere l’interno con l’esterno. E c’erano volte in cui le mie emozioni erano così represse che non sapevo cosa fare. L’unico modo in cui potevo avere un’immediata gratificazione era attraverso un sollievo istantaneo su me stessa.”
 
Poco dopo, quando le è stato chiesto se ha mai pensato di uccidersi, ha aggiunto:
“I don’t think I was ever trying to kill myself. But I knew that if I’d ever gone too far I wouldn’t care.”
 
Traduzione:
“Non penso di aver mai provato ad uccidermi. Ma sapevo che se mai fossi andata troppo in là non mi sarebbe importato.”
 
Qui, però, non pensa quest’ultima cosa. Non vuole morire e nemmeno andare troppo a fondo.
6. L’episodio della scommessa sul suo suicidio e i modi in cui la chiamavano sono, purtroppo, reali. Ho preso queste informazioni da “Simply Complicated”.
7. Demi non pensava che tagliarsi fosse un problema, prima di andare in clinica. Lo faceva per affrontare ciò che sentiva, per provare meno vergogna e senso di colpa per quello che le veniva detto, per stare meglio.
8. Buddy è inventato. Demi ha avuto un cane con lo stesso nome, ma questo non è lui. Si tratta di uno di cui io e la mia amica Emmastory abbiamo parlato nella storia “Cronaca di un felice Natale”. Demi ha veramente avuto un Cocker Spaniel, ma si chiamava Trump e, siccome allora non lo sapevo, ci siamo inventate un altro cane.

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Capitolo 3
*** Difficile risalita ***


I can take the pain
Bring it on
Let it rain
It’s only gonna make me better in the end
I’ll take this broken heart
I’ll pick it up every part
It’s never too late to restart
And I might fall
But that won’t change my mind
I choose to believe
It’s worth the fight
(Cimorelli, Worth The Fight)
 
 
 
Recovery is something that you have to work on every single day, and it's something that doesn't get a day off.
Being in recovery isn't always easy. I have good days and days when I feel like giving up, but those are the days I know I have to ask for help, which isn't easy.
(Demi Lovato, dal libro Staying Strong 365 Days In A Year)
 
Traduzione:
La guarigione è qualcosa su cui devi lavorare ogni giorno, ed è qualcosa che non si prende un giorno di pausa.
Guarire non è sempre semplice. Ho giorni buoni e giorni nei quali sento che voglio arrendermi, ma quelli sono i giorni in cui so che devo chiedere aiuto, il che non è facile.
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 3.
 
DIFFICILE RISALITA
 
Stava per fare un settimo taglio, ma qualcosa la fermò. Udì un’altra voce nella testa, la sua voce, che cantava parole che lei stessa aveva scritto.
Would it make you feel better to watch me while I bleed?
All my windows still are broken but I'm standing on my feet
 
You can take everything I have
You can break everything I am
Like I'm made of glass
Like I'm made of paper
Go on and try to tear me down
I will be rising from the ground
Like a skyscraper, like a skyscraper.
 
Go run run run, I'm gonna stay right here
Watch you disappear, yeah
Go run run run, yeah, it's a long way down
But I'm closer to the clouds up here
Aveva sbagliato, era stata debole. Si guardò le braccia esili e se le pizzicò, lì dove il sangue stava ancora affiorando, anche se più piano. Ora le teneva alte, all'altezza del cuore, in modo che ne sgorgasse di meno.
"Guarda che schifo, guarda che cos'hai fatto. Di nuovo, quando ti eri ripromessa di non marchiarti più così" disse a voce bassa. “Sei orribile con questi tagli aperti, con le tue cicatrici, fai pena, fai cagare.”
"Marchiarti". Quella parola era orribile, la faceva assomigliare più a una bestia che a una persona, ma purtroppo è questo che fanno le cicatrici, segnano la pelle a vita. Sperava solo che quei tagli poco profondi non lo sarebbero diventati, che sarebbero guariti, ma non riusciva a curarli. Non aveva la forza di muovere nemmeno un muscolo, in parte perché era indebolita, in parte perché faceva troppo male, sia fisicamente che dentro. Eppure avrebbe dovuto muoversi e pulire, in passato ce l’aveva fatta ogni volta. Era necessario che ripulisse tutto, che il marmo e il lavandino diventassero di nuovo immacolati. Generalmente, dopo che la sensazione di leggerezza era passata, in precedenza era sempre riuscita a sistemare tutto con una calma fredda e distaccata, - era stato per questo che la sua famiglia non l’aveva scoperta per anni - per poi immergersi di nuovo nel proprio dolore. Ma per adesso non ne era proprio in grado e pregò in cuor suo che nessuno si alzasse, che i suoi non la scoprissero, che non venissero mai a conoscenza di quel che era appena accaduto.
Sapevi che tagliarsi non era la soluzione! pensò, gridandolo nella sua testa. Lo sapevi, ormai l’hai capito. Eppure l’hai fatto lo stesso. Vaffanculo!
Era stata troppo male, non aveva potuto fare altrimenti. Ma ora era anche peggio. In quel momento era riuscita a fare solo quello per calmare la sua sofferenza. E sì, era stato un errore, ma la sua testa si sbagliava, lei non era stata debole. Chi si taglia, si brucia, tenta il suicidio o si toglie la vita non è debole, bensì soffre così tanto che sfoga sul corpo il proprio dolore. La stanchezza pareva raddoppiata, i pensieri erano ancora più cupi.
“Ti prego, Dio, fammi scomparire. Non morire, proprio sparire, vedi tu come. Non voglio stare così.”
Ma Dio era buono, non l’avrebbe mai fatto. Perché allora non l’aveva aiutata a fermarsi? Demi non lo sapeva, ma credeva in lui e non era arrabbiata.
Si morse l'interno del gomito per non mettersi a urlare. Anche se si era tagliata molte altre volte bruciava e tirava come fosse stata la prima, e non era nemmeno andata molto a fondo.
Ripensò di nuovo alla canzone, la sussurrò a se stessa dondolandosi a destra e a sinistra come a volersi cullare con quella melodia che, a causa del suo ritmo lento, si immaginò essere una ninnananna benché in realtà non lo fosse. E una piccola, minuscola, quasi invisibile fiammella di speranza si riaccese nel suo cuore. Non riusciva nemmeno a sentirla bene, ma c'era. Il tremore era cessato, ora sentiva un lieve calore invaderla pian piano. Le voci che fino ad allora avevano continuato a parlare, sembrando provenire da ogni parte e da nessuna al contempo, si bloccarono di botto e sparirono. E mentre si ripeteva quelle parole dondolandosi a destra e a sinistra, non pensò ai suoi genitori o alle sorelle, ma a qualcuno a cui anche in passato aveva sempre chiesto aiuto in quelle situazioni.
 
 
 
Il respiro di Andrew era pesante, così come i suoi passi che echeggiavano per la stanza e le scale, quando scese e andò a bere un bicchiere di latte. Forse a Demi non stava succedendo niente, magari si stava immaginando ogni cosa. Ma la visione di lei con i polsi aperti e pieni di sangue mentre questo si allargava in un’enorme macchia rossa sul pavimento, continuava a tormentarlo anche quando provava a  mettersi a letto e a chiudere gli occhi, anzi in quella situazione era ancora peggio perché gli pareva che i suoi tagli fossero più profondi, talmente tanto da fargli vedere l'arteria radiale, quella che, se tagliata, avrebbe fatto schizzare sangue dappertutto e che, se nessuno l'avesse aiutata in pochi minuti, avrebbe sanguinato tanto da ucciderla. Pensò al suo cuore che piano piano smetteva di battere mentre il suo respiro rallentava, intorno a lei c'era un vero e proprio lago di sangue e la vita la abbandonava e non ne poté più. Doveva fare qualcosa, ma non da solo, non quella volta. Si sentiva tanto debole che non era sicuro di riuscire ad arrivare a quella casa, la testa gli girava e non capiva nemmeno dove fosse la porta. Salì al piano di sopra, accarezzando distrattamente Chloe, la sua gatta dal pelo grigio, che si era svegliata sentendolo camminare.
"Sì, lo so che sei bellissima, ma ora ho fretta, devo fare una cosa. Coccolo te e tuo fratello domani, d'accordo?" mormorò con dolcezza grattandole la testolina.
La micia miagolò in risposta e tornò a riposare sulla coperta sopra il divano.
Cercando di non ansimare, il ragazzo tornò di sopra e bussò piano alla  porta della camera della sorella Carlie, che aveva quasi la stessa età di Demi, era più piccola di lei di un mese. La aprì piano sperando di non spaventarla. La ragazza dormiva con il braccio destro piegato sotto la testa, i capelli lunghi e biondi sparpagliati sul cuscino.
"Carlie?" mormorò avvicinandosi al letto.
"Mmm" mugugnò l'altra, avvolta dalle coperte.
Era estate, ma le piogge dei giorni precedenti avevano rinfrescato le serate e le notti.
"Carlie, sono Andrew. Ho bisogno del tuo aiuto."
"Ma che cazzo ci fai qui a quest'ora? Sto dormendo" si lamentò la ragazza.
"Scusami. Mi serve il tuo aiuto.”
“L’hai già detto. Per cosa?” chiese addolcendo il tono.
“Forse Demi è in pericolo."
"Cosa?" Lo disse a voce un po' troppo alta e si tirò su di scatto, facendo quasi volare le coperte. "Pensi che si stia tagliando o che l'abbia già fatto?"
"Forse, non lo so. Potrebbero c'entrare anche i suoi problemi con il cibo. Devi venire con me, andiamo a casa sua. Ti prego."
"Non avvertiamo i suoi, prima?"
Carlie non gli chiese perché voleva che andasse con lui: se suo fratello aveva bisogno e soprattutto a Demi serviva una mano, lei c'era. Si alzò, si infilò un paio di calze, una felpa e le ciabatte. Non rifece nemmeno il letto e lo seguì. Una volta in salotto, il ragazzo prese in mano il telefono e compose il numero della casa della sua migliore amica, ma squillò a vuoto.
"Ti pareva" brontolò.
"Che ti aspettavi? È notte, penseranno che sia un pazzo che ha sbagliato numero."
Era proprio così, infatti. Quando Dianna e Eddie avevano sentito quel rumore all'inizio si erano spaventati, poi avevano pensato ciò che Carlie aveva detto. Al secondo tentativo di Andrew, Eddie quasi bestemmiò, ma la moglie riuscì a fermarlo.
"Smetterà presto, chiunque egli sia. Porta pazienza" gli sussurrò con dolcezza.
Dallas e Madison continuavano a dormire.
 
 
 
Demi era troppo presa dal suo dolore, non solo da quello fisico ma anche dalla sofferenza psicologica, per fare caso al telefono. Come ogni volta, dopo essere diminuita e quasi sparita con quell'atto di autolesionismo, tornava più forte e devastante. Era il senso di colpa per tutto il casino che aveva fatto quel giorno o il precedente, per quell’ennesima ricaduta. Si piantò i denti nel labbro inferiore ma la pesantezza al petto, espressione fisica della sua sofferenza mentale, non passò. Non sapeva nemmeno che ora fosse, ma quella sensazione era insopportabile. Aveva fatto preoccupare tutti, non aveva seguito la sua dieta e mangiato e vomitato. Era un disastro, solo questo. Crollò a terra, l'ansia che ricominciava a farsi sentire. Grattò il pavimento con le dita come se volesse prenderlo, aggrapparvisi con tutte le sue forze, come quando da bambina, così le raccontavano, guardava le figure dei libri e ci metteva una mano sopra per provare ad afferrarle. La differenza era che allora stava bene, era felice, non capiva quanto la vita potesse essere dura. Adesso sì. Non riuscì a prendere le piastrelle, ovviamente, e al suo posto afferrò il piccolo tappeto davanti al water e lo tenne saldamente in una mano, stringendolo e lasciandolo andare con frenesia.
Doveva fare  qualcosa, qualsiasi cosa, ma non poteva rimanere immobile. La fiammella di speranza c’era ancora. Forse, molto forse, era vero che avrebbe potuto stare meglio, riprendere in mano le redini della propria esistenza. Quando aveva scritto quella canzone, “Skyscraper”, ci aveva voluto credere, l’aveva fatta ascoltare ai suoi genitori e alle sorelle in clinica provocando in loro forti emozioni e lei aveva pianto. Quella speranza faceva bene e male al contempo. Bene perché la aiutava a credere un po’ in se stessa e nelle sue possibilità, a pensare di essere più forte proprio grazie a ciò che aveva vissuto, male in quanto non era convinta che sarebbe riuscita a riprendersi e che sarebbe durata a lungo. Forse l’avrebbe fatta sentire viva per un po’ e poi tutto sarebbe ripiombato in un profondo grigiore dal quale, stavolta, non si sarebbe più ripresa. Forse avrebbe dovuto ritornare in clinica.
No, non sono a quel punto. Non sono a quel punto pensò.
 
 
Era alla Timberline Knolls da tre giorni, e vedendola abbattuta una ragazza le chiese se aveva bisogno di parlare. Demi si sfogò con lei dicendole che non sperava di guarire, che non credeva di farcela, che era sul fondo ed era convinta di non riuscire a risalire. L’altra cercò di farle forza usando parole gentili e non scontate, evitando le solite frasi fatte, puntando sulle qualità che aveva notato nella ragazza: la voce angelica, innanzitutto, una grande creatività - sul suo comodino c’erano vari fogli sui quali aveva appuntato degli abbozzi di canzoni - e molte altre che sicuramente possedeva.
“Sai dove ti puoi ficcare la speranza di cui parli? Su per il culo!” le rispose lei, alzando la voce e continuando ad inveirle contro.
Che ne sapeva, quella, di come poteva sentirsi? Come faceva a dire certe cose? Tanto entro pochi giorni sarebbe uscita. Il suo viso era molto più sereno del proprio, Demi vi leggeva una speranza che, ne era convinta, lei non avrebbe mai provato. Ma poi la ragazza alzò il maglione. Le sue braccia erano piene di cicatrici, dai polsi fino a sopra il gomito. E le mostrò anche quelle sulla pancia e le gambe. In quelle zone non c’era un centimetro di pelle che fosse senza segni.
“Ci sono passata anch’io. So che sei arrivata da tre giorni e che vedi tutto nero, ma starai meglio” concluse con un sorriso dolce.
“Non sei arrabbiata?” le domandò Demi con le lacrime agli occhi, mentre rimaneva senza fiato a causa della quantità di tagli e pensando a tutto il dolore che la sua interlocutrice aveva dovuto provare.
“No.”
“Ma io ti ho trattata malissimo.”
“E credi che io non l’abbia fatto con gli altri, o le infermiere, o i dottori i primi tempi? Tutto a posto, davvero. Molti qui sono autolesionisti, e anche se non ho le altre difficoltà che hai tu, in parte ti posso capire. Siamo tutti sulla stessa barca. Prima o poi andrà meglio, okay? Te lo prometto.”
Detto questo se ne andò senza dare il tempo all’altra di dire niente, nemmeno di ringraziarla o di chiederle come si chiamava.
 
 
Per il primo mese in clinica Demi aveva pensato di non voler stare lì. Ma col tempo le parole di quella ragazza, di cui non ricordava nulla se non la voce dolce, erano state uno stimolo che le aveva fatto capire che forse ce la poteva fare, che forse un giorno anche lei avrebbe avuto il suo sorriso, titubante ma sincero, a illuminarle il volto.
“Non sono l’autolesionismo, la bulimia e l’anoressia a dire chi sei” le avevano detto in clinica e anche la sua psicologa e la psichiatra lo facevano. “Attraverso di essi tu esprimi il tuo dolore, ma ci sono modi più sani per farlo, come parlare. So che tutto questo è più forte di te, ma puoi farcela. Puoi stare meglio, lottare contro queste malattie come stai già facendo, guarire e ricominciare a vivere. Non sarà facile, ma hai tutte le carte per riuscirci. Innanzitutto, però, devi crederci e stiamo lavorando proprio per questo. Sei solo tu stessa a definire chi e come vuoi essere.”
Non c’erano parole più vere. Lei non era solo un’autolesionista, un’anoressica e una bulimica. Era anche una ragazza dolce, determinata, sensibile, empatica. Era una brava cantante, un’attrice ma anche una figlia, una sorella, un’amica. Tuttavia era difficile ricominciare, ripartire, vivere e non sopravvivere. Perché ancora adesso, a volte, i suoi disturbi erano più forti della propria volontà. Perché certi giorni vomitare, o tagliarsi, o abbuffarsi le sembravano le uniche soluzioni per sentire meno dolore, per stare meglio. Perché altre, quando invece lottava con le unghie e i denti per non ricadere in quel profondo tunnel nero, si diceva che non sarebbe mai stata abbastanza coraggiosa, che le sembrava che i suoi disturbi fossero così radicati in lei da farla diventare un tutt’uno con essi. Parevano entità capaci di volontà propria che la chiamavano, la cercavano, la attiravano verso di loro facendola stare fisicamente male ma psicologicamente bene, almeno per un po’. E lei, anche se ora aveva capito di doverli combattere, che erano pericolosi, sbagliati, spesso li lasciava vincere.
Ma non stavolta. Pensò ancora a “Skyscraper”, alla sua voce spezzata mentre la cantava, alla propria bravura, a quanto le piaceva scrivere canzoni, comporre, cantare prima di tutto per se stessa. Rifletté su quanto fosse importante per famiglia e amici, persone che le volevano bene, che le erano sempre rimaste accanto. Se fosse stata inutile, un peso, non l’avrebbero amata con quell’intensità o proprio per niente, la voce dell’autolesionismo si sbagliava. Il calore della fiamma della speranza aumentò. Spinta da quella piccola ma potente forza prese in mano il telefono e scrisse un messaggio ad Andrew che diceva:
Aiutami ti prego
Lo inviò e poi scoppiò in un pianto quasi convulso. Che cos’aveva fatto? Ora si sarebbe preoccupato. Era stata una buona scelta oppure no?
 
 
 
Andrew lo lesse poco dopo, quando uscì con la sorella tenendo il telefono in mano. Sapeva che Demi, nei momenti nei quali era stata male in passato, gli aveva sempre mandato dei messaggi prima o dopo essersi tagliata, e sbloccando lo schermo vide che c'era una notifica da parte sua. Lesse e rilesse quel SMS. Tre parole scritte evidentemente di fretta, senza punteggiatura. Demetria era sempre molto brava a scrivere, corretta, non avrebbe tralasciato quei dettagli così importanti se fosse stata bene, nemmeno in un semplice messaggio.
"Corri" ordinò Andrew alla sorella e, dopo averle preso la mano, si lanciò lungo le strade deserte.
Il fresco entrava loro nelle ossa, mentre cadevano ancora alcune gocce - il temporale era durato pochi minuti - e si udivano tuoni lontani. Il cielo era completamente nero, coperto di nuvole minacciose, non c'era nemmeno una stella o uno spicchio di luna. Questo peggiorò l'umore dei due ragazzi, quasi che il colore della volta celeste significasse che era successo qualcosa di molto brutto.
Carlie sbuffò per la corsa. Continuavano a procedere ma tra le pozzanghere che cercavano di evitare, le auto che passavano e la pioggia che aveva ripreso a cadere, si stavano bagnando e non riuscivano più ad arrivare a destinazione. Entrambi erano magri, ma si dissero che se fossero stati più atletici avrebbero fatto prima. Di secondo in secondo la loro ansia per Demi cresceva e non sapevano più se ansimavano per lo sforzo della corsa o per il panico che li aveva ormai invasi completamente.
"E se avesse… Insomma, se si fosse spinta più in là del tagliarsi e avesse tentato di togliersi la vita? Se avesse provato a suicidarsi?"
Quell’ultima parola era forte, d’impatto, faceva male. La  voce di Andrew era acuta, non sembrava più la sua.
Carlie corrugò la fronte e i suoi occhi azzurri parvero di un colore blu più scuro. Per un secondo, la domanda del fratello aleggiò nell’aria come sospesa fra loro.
"No, vedrai che non sarà arrivata a tanto" cercò di rassicurarlo la sorella poggiandogli una mano su una spalla.
"Perché? Perché è forte? Credimi, anche le persone più forti possono crollare" disse lui in tono funereo, mentre la sua mente correva come impazzita.
No, non può farlo, non può averlo fatto pensava. E se invece Carlie avesse ragione? Demi, ti prego, resisti. Non voglio che tu muoia, non puoi morire. Se ti perdo io che faccio?
Sì, avrebbe dovuto pensare prima a lei che a se stesso, se ne rese conto subito dopo aver formulato quel pensiero. Ma il solo fatto che forse l'avrebbe persa gli faceva così male, gli procurava un dolore fisico come se qualcuno lo stesse tagliando dalla testa ai piedi, affondando un coltello nella carne viva e strappandogli il cuore per poi spezzarlo a metà, e un malessere psicologico forte come ne aveva avuti pochi nella sua vita, e tutti legati a lei. Un senso di nausea gli salì dallo stomaco alla bocca e si piegò in avanti con le mani su di essa per cercare di non vomitare. Provò a chiamarla, ma il cellulare squillava a vuoto.
Demi lo udì, ma ancora scossa dal pianto non se la sentì di rispondere, non quando era in quello stato.
"Per l'amore di Dio, rispondi. Demi, rispondi a questo cazzo di telefono, porca puttana!" mormorava intanto Andrew.
Riprovò a chiamare a casa sua, poi pensò se contattare un’ambulanza o meno e non riuscì a prendere una decisione. Carlie non sapeva cosa dire. Anche lei era molto preoccupata, benché forse i suoi sentimenti fossero un po' più deboli di quelli di Andrew. Quelle poche centinaia di metri si percorrevano in due minuti a piedi, ma la pioggia rendeva tutto scivoloso e li rallentava.
Arrivati di fronte alla casa i due si fermarono e cercarono di riprendere fiato, ma era impossibile. I loro cuori battevano troppo forte per l'agitazione.
"Ora che facciamo?" chiese la ragazza. "Suoniamo il campanello o proviamo a te…"
E poi, senza che nemmeno se ne rendesse conto, Demi lo fece. Urlò. Urlò per chiedere aiuto, urlò perché dentro di lei ardeva ancora la speranza.
Quel grido terrificante gelò il sangue ai due ragazzi che rimasero immobili senza riuscire a dire più nulla. Era Demi, quella. Aveva gridato squarciando il silenzio della notte e loro erano riusciti a udirla grazie a una finestra del bagno che era stata lasciata un po' aperta, forse per una dimenticanza dei padroni di casa.
"Cazzo" mormorò Carlie, mentre un tremore incontrollabile non le permetteva più di stare ferma.
I due non erano  stati cresciuti con il brutto vizio di dire parolacce, ma come a volte fanno gli adolescenti o i giovani, le utilizzavano quando erano arrabbiati o agitati per qualcosa.
Un sudore freddo colò lungo la schiena di entrambi e i due ragazzi rabbrividirono.
"Almeno sappiamo che è viva, ma come starà?" domandò Andrew guardando verso il cielo plumbeo.
Quella domanda echeggiò nell'aria e rimase senza risposta.
 
 
 
Dianna, Eddie, Dallas e Madison si tirarono su di scatto nelle loro rispettive tre stanze quando sentirono quel grido, riconoscendolo all'istante anche se ancora intorpiditi dal sonno. L'uomo disse un paio di parolacce domandando chi poteva essere, lo fece anche Dianna mentre le due figlie rimasero in silenzio, con il cuore che pareva esplodere loro nel petto.
"È Demi" disse poi la donna alzandosi in piedi, "dev'essere successo qualcosa."
Mentre pronunciava quelle ultime parole stava già volando giù per le scale, seguita a ruota dal marito che si muoveva più lentamente e dalle figlie che lo superarono. Tutti la chiamarono, ma lei non rispose più, e in quel momento suonò il campanello.
"E adesso chi accidenti è?" borbottò Eddie. "Non abbiamo tempo, chiunque tu sia!" gridò, sperando di non svegliare i vicini, anche se probabilmente quell'urlo l'aveva già fatto.
Tutti sapevano cosa poteva essere successo. Forse Demi si era sentita male, aveva avuto un attacco di panico e aveva urlato perché non riusciva a chiedere aiuto in altro modo. Quegli attacchi la bloccavano, le impedivano di muoversi, per cui se si era alzata e le era venuto le era stato impossibile tornare di sopra ad avvertire i genitori o Dallas. Oppure poteva essersi tagliata, o… Quando Dianna pensò che forse la figlia aveva tentato il suicidio, il suo cuore perse più di un battito e la testa prese a girarle. Si aggrappò al marito per non crollare a terra. Non disse niente a nessuno, ma il suo viso perse colore mentre le gambe parevano non sostenerla più e la terra sembrava sprofondare. Mentre continuava a chiamare Demetria con voce disperata e le sorelle facevano lo stesso, Eddie andò ad aprire tanto per vedere chi era e sgridarlo per bene, gettando su di lui tutta la sua frustrazione. Sapeva che non era giusto, ma aveva bisogno di sfogarsi.
"Che cosa…" Si bloccò, riconobbe subito quei due ragazzi e notò le loro facce distrutte. "Entrate" mormorò solo aprendo il cancello.
"Demi mi ha scritto un messaggio chiedendomi aiuto, ma io avevo una brutta sensazione già prima. Sono corso qui insieme a lei" spiegò Andrew.
Non c'era tempo per i saluti, né per riflettere su quanto strane fossero quelle circostanze. Non c'era tempo per nulla che non fosse accertarsi delle condizioni di Demi.
I tre attraversarono l'ingresso come furie e si diressero verso il bagno, Dianna e le sue figlie erano lì vicino.
"È qui, ho sentito dei singhiozzi. Ma non vuole aprire" mormorò la donna affinché Demi non sentisse.
"Forse non voleva essere scoperta. Lasciate provare me."
Andrew, che aveva appena parlato così in fretta che gli altri stentarono a capire il suo discorso, spiegò velocemente ciò che aveva detto a Eddie e tutti si allontanarono dirigendosi in salotto. Dianna e il marito furono quelli che lo fecero con più riluttanza, in fondo erano loro i genitori, ma capivano anche che in quella situazione, se - Dio non volesse! - si era tagliata, era Andrew quello di cui Demi si fidava di più. A lui Demetria, a dodici anni, aveva detto di aver cominciato a tagliarsi un anno prima, chiedendogli di mantenere il segreto. Il ragazzo, allora diciottenne, l’aveva fatto sotto le sue suppliche e da allora l’aveva aiutata spesso quando si era fatta del male, curando le sue ferite e standole accanto. Anni dopo, quando i problemi di Demi erano venuti alla luce e Eddie e Dianna avevano saputo tutto, avevano sgridato per bene Andrew per aver tenuto nascosta una cosa così grave. Ma avevano anche capito che, per quanto avesse commesso un grave errore, non era una cattiva o sbagliata influenza per la figlia perché in fondo le era stato sempre vicino e aveva cercato spesso di convincerla a parlare con loro, e i due avevano continuato a frequentarsi. Il ragazzo, anche se avrebbe dovuto farlo molto prima, si era reso davvero conto del proprio errore anche se quella non gli era parsa mai una cosa giusta, si era sentito immaturo. Avevano sbagliato entrambi, l’aveva compreso anche Demi, ma ormai era andata così.
Mesi prima Dianna aveva detto alla figlia di andare da lei ogni volta che sentiva l'urgenza di farlo ed era già capitato che Demetria corresse nella stanza sua e di Eddie nel bel mezzo della notte, piena di paura e dicendo che voleva tagliarsi. Ma quella doveva essere successo qualcosa e ciò non era accaduto. Più il tempo passava, più Dianna pensava che purtroppo quello che sospettava fosse una dura realtà. Continuava a pregare assieme agli altri, in silenzio, affinché i tagli fossero poco profondi, perché se Demi fosse stata in pericolo di vita…
"Sfonda quella porta" ordinò al ragazzo.
Bisognava fare presto, Dio, presto.
"Demi, sono Andrew" iniziò lui, cercando di non respirare con affanno e di sembrare calmo. "Batti sulla porta se mi senti."
Due colpi, buon segno.
"Bene. Ti sei tagliata? Ti sei fatta ferite molto gravi?"
"Sì, mi sono tagliata dopo aver mangiato e vomitato. E no, i tagli non sono molto profondi. Li ho curati, almeno in parte."
"Come?"
Gli spiegò di aver applicato delicata pressione con una garza sterile stando attenta che non entrasse nelle ferite ma ci stesse sopra. Poi aveva messo il braccio sotto l'acqua fredda, tutto questo per fermare il sangue e pulire le ferite.
“Non ne esce più, si è fermato in fretta."
Alla fine, non sapeva nemmeno lei come, era riuscita a muoversi. Aveva fatto male mettere i tagli sotto l'acqua, bruciato da morire, ma era servito. Molte volte si era curata senza Andrew, ormai sapeva come fare. Non era stata felice di fermare quel rosso, però, perché se da una parte si faceva schifo per ciò che aveva combinato, dall'altra avrebbe voluto tagliarsi ancora e teneva le mani strette a pugno per non riprendere in mano la lametta. L'ansia era tornata ad attaccarla come gli artigli di un leone che la sventravano.
Intanto, fuori, un'improvvisa sensazione di sollievo invase tutti. Fu come se Demi avesse tolto loro un enorme peso dal cuore. La sua voce era uscita roca, quasi stridula, ma aveva risposto.
"Ascoltami, non sono qui per dirti le solite frasi fatte che molti ti avranno propinato. Per ora voglio solo aiutarti, posso? Dobbiamo curarle o si infetteranno. Come facevamo tempo fa, ti ricordi?"
Non era ancora il momento di rassicurarla, di domandarle perché l'avesse fatto, di dirle che sarebbe stata meglio.
"V-va bene."
Quasi non riusciva a parlare e quando, dopo aver girato lentamente la chiave, aprì e Andrew la guardò negli occhi vide quel dolore profondo e infinito a cui purtroppo negli anni si era abituato, quella tristezza che non era ancora riuscito, nemmeno con l'aiuto degli specialisti, a far sparire. E gli fece male vederla così fragile. Demi era un bellissimo fiore con lo stelo piegato quasi fino a spezzarsi. Non era giusto che il suo passato e le malattie che aveva la facessero soffrire così, lei ce la stava mettendo tutta eppure l’anoressia, la bulimia, l’autolesionismo e l’ansia facevano ciò che era in loro potere per distruggere il fiore cercando di ridurlo in briciole. Tuttavia Demi era ancora lì a combattere, i petali di quel fiore immaginario erano tutti uniti, resistevano nonostante la tempesta. Erano deboli, ma non troppo. La vita l’aveva messa a dura prova piegandola e spezzandola. Ora era lì, davanti a lui e guardava il soffitto con occhi vuoti, stanchi, come la prima volta in cui l’aveva vista in clinica. Anche se era stata presente a se stessa, a volte il suo sguardo si era perso assieme alla propria mente, in chissà quali vie oscure e piene di sofferenza. Ma adesso erano lì insieme e lui poteva aiutarla. Sperò che si sarebbe ripresa, che ce l’avrebbe fatta, non riusciva nemmeno a pensare che avrebbe potuto essere il contrario perché sentiva qualcosa dentro di lui rompersi un po’ di più e faceva troppo male. Era necessario che si concentrasse sul presente.
"Demi!"
Dianna entrò di botto e le fu subito accanto, ma la ragazza si scostò in fretta appiattendosi contro il muro con la garza ancora premuta sul polso.
"Dallas, porta via Madison. Non può vedere tutto questo" sussurrò Eddie a quella che considerava sua figlia.
La bambina non voleva andare via, puntò i piedi, strinse i pugni e piagnucolò, poi urlò che voleva restare, ma l'altra la sollevò da terra e la portò nella sua cameretta dove si chiuse con lei, per provare a rassicurarla e a tranquillizzarla. Aveva già visto troppo.
Demi si lasciò andare, accucciandosi a terra contro il muro, i respiri spezzati e irregolari, il volto pallido e contratto, gli occhi che ora fissavano il vuoto. Tremava più di prima, non riusciva a tenere ferme le braccia e le gambe. Avrebbe voluto scappare, sua mamma non poteva vederla ancora in quello stato, era già successo. Ci aveva sofferto e lei, come ora, si era vergognata come una ladra e fatta ancora più schifo.
Fai star male chi ami, bravissima.
Parole d’odio verso se stessa, tanto orribili da non poter essere pronunciate, le riempirono la mente.
"Vattene, mamma" mormorò. Avrebbe voluto gridarlo, ma era debolissima.
"Almeno sta' fuori finché lui… ti prego."
Dianna era una madre, fosse stato per lei sarebbe rimasta e avrebbe aiutato Andrew a curarla. Accarezzò la figlia asciugandole il sudore dalla fronte e dal viso e capì che forse, se l'avesse ascoltata, l'avrebbe fatta stare almeno un po' meglio. Se quello era l'unico modo che per ora aveva di aiutarla, per quanto le causasse dolore non restare, beh, le avrebbe dato retta.
"Vado in salotto con Eddie" disse alla fine, sconfitta.
“Demetria, oh mio Dio” mormorò il ragazzo avvicinandosi. Accese la luce, poi chiuse la porta. Si lavò le mani con cura, prese il suo braccio, rimosse con delicatezza la garza sulla quale per fortuna non c’era moltissimo sangue e controllò che nelle ferite non fosse entrato dello sporco o che non fossero state in contatto con qualcos’altro che avrebbe potuto infettarle o irritarle, ma non vide niente. “Stai tranquilla, ci sono io. Ne hai altre? Fa’ solo sì o no con la testa.”
Fece cenno di no.
“Bene.”
Anche se non era andata molto in profondità e se erano tagli poco più che superficiali, Andrew non riusciva a smettere di guardarli e di osservare il sangue che era corso sulle sue braccia e finito per la maggior parte sul marmo che circondava il lavandino. Non era molto, grazie al cielo, ma non si trattava nemmeno di qualche goccia. Per un momento valutò l’opzione di portarla in ospedale, ma visto che i tagli non erano profondi, che erano corti e che il sangue si era già fermato si disse che era il caso di vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Non credeva, comunque, che ci fosse bisogno di una sutura. Per fortuna Demi non era andata così in profondità da recidere un’arteria, e l’aveva vista con tagli molto peggiori di quelli che aveva ora. Si passò una mano davanti al viso guardando ancora il sangue e sentendone l’odore.
"Demi, Demi. Guardami" la incitò il suo migliore amico, ma lei non faceva altro che fissare il vuoto, non sapeva nemmeno a cosa stava pensando. “Devo curarti le ferite, subito. Okay?”
Un lievissimo cenno del capo fu tutto ciò che ottenne.
La fece sedere sul coperchio del water perché tremava tanto che non riusciva a stare in piedi, poi si lavò ancora bene le mani per sicurezza, per diversi secondi, anche sotto le unghie e Prese del disinfettante.
"Brucerà, lo sai. Mi dispiace" sussurrò.
"Fai quello che devi" gli rispose con voce strozzata, poi cercò di respirare profondamente per calmare il battito impazzito del suo cuore, ma fallì continuando a farlo troppo in fretta.
Andrew lo versò piano sui tagli e sì, bruciò da morire, come se qualcuno le avesse gettato addosso del fuoco. Demi strinse le labbra per non gridare e cercò di tirarsi indietro, ma lui la tenne ferma con una stretta non troppo forte.
Quando questo si asciugò prese una scatola e, dopo aver letto il foglietto illustrativo, le passò sulle ferite un po’ di neosporin, una pomata antisettica che previene possibili infezioni quando si hanno tagli o bruciature, sia profondi sia di minor entità e punture di insetti. Cercò di essere il più delicato possibile, ma a Demi fece comunque male. Resistette e strinse i denti, sapendo che l’amico stava facendo di tutto per aiutarla.
Quando la crema si fu assorbita il ragazzo gettò via la garza insanguinata che lei aveva usato, che era stata buttata da una parte e ne prese una pulita, che le avvolse attorno al polso e al braccio e la fermò con del nastro adesivo medicale.
"Metti la pomata tre volte al giorno per sette giorni, come c’è scritto qui e cambia la garza ogni volta che lo fai. I tagli dovrebbero sgonfiarsi domani e iniziare a fare meno male nel giro di un giorno o due, e se li pulirai non si infetteranno. Credo che guariranno al massimo in due settimane. Metti anche il disinfettante o l’acqua ossigenata due volte al giorno, per maggior sicurezza, soprattutto quando non userai più la crema. Ti direi di non utilizzare questi prodotti se i tagli fossero superficiali perché potrebbero irritare, ma dato che non lo sono del tutto è meglio farlo. Se però vedi che peggiorano smetti. Lavati sempre le mani prima, mi raccomando, e fa' in modo che il sapone non vada nelle ferite o potrebbe irritarle. Quando faranno le croste non tirarle via, o sarà peggio."
"Sì, lo so" mormorò, ancora con il respiro ansante per il panico che l'aveva colta nel vedere sua madre lì in bagno. "Grazie."
Parlare le era quasi impossibile a causa del respiro accelerato.
"Figurati.” Fece una breve pausa. “Se ne sono andati tutti, non devi preoccuparti di nulla. La porta è chiusa e ci siamo solo io e te in questo bagno, okay? Puoi dirmi tutto quello che vuoi, se parli piano non ci sentiranno."
Aveva le mani fredde e sudate, notò toccandogliele, come se stesse per svenire.
“Pensa a qualcosa di bello.”
Uno dei modi per aiutare qualcuno con un attacco di panico è distrarlo, magari non facendolo parlare se non ne è in grado, ma aiutandolo a riflettere su cose che lo facciano sentire in pace.
“N-non ci riesco.”
La sua voce era flebile e incolore mentre il pallore del suo volto aumentava.
“Sì che ce la fai!” esclamò il ragazzo, forse con un po’ troppa enfasi. Si diede dell’idiota, non avrebbe voluto suonare duro. “Provaci, coraggio” disse ancora, stavolta con più dolcezza.
Demi fuse i suoi occhi marroni in quelli verdi di lui, notò che era spettinato e che il pigiama che indossava sembrava un po’ troppo piccolo. Si aggrappò a quelle considerazioni con le unghie e con i denti per tenersi salda alla realtà, per non perdere ancora il controllo. Cosa la faceva stare bene? E poi si ricordò di quella volta in cui, a quattro anni, era andata per la prima volta al mare con i suoi genitori e la famiglia di Andrew. Era stato bellissimo, quella distesa d’acqua le era sembrata infinita.
“D-digli che deve finirla, ti prego. Mi farà morire, sto morendo” sussurrò la ragazza artigliando la mano dell’amico.
Era evidente, pensava Demetria, non avrebbe potuto restare viva a lungo in quella situazione, non c’era più aria ormai.
“Non stai morendo, tesoro. Io sto respirando, lo farai anche tu. Devi solo calmarti.”
“Digli di… le medicine. Voglio prendere le medicine!” esclamò, muovendo braccia e gambe ad un ritmo frenetico. “La psichiatra ha detto… che p-posso prenderne due se sto male.”
Aveva le palpitazioni, sentiva il battito del cuore nelle orecchie, così violento da sovrastare quasi la voce del suo migliore amico. In parte le dava anche fastidio che le stesse parlando, tanto stava male.
Andrew sapeva che Demi prendeva farmaci e che non poteva saltare la terapia, per cui uscì e andò a prendere il necessario. Demetria provò a gridare, Dio quanto avrebbe voluto riuscirci per capire se ce l’avrebbe fatta a liberarsi, ma dalla sua gola uscì solo un rantolo. Cercò di alzarsi ma ricadde a terra e quando Andrew tornò gli andò in contro carponi.
“Ti portiamo in ospedale, è la cosa migliore. Stai troppo…”
“No.” La voce le uscì decisa, stavolta, e se ne stupì. “No, niente ospedale, per favore. Ne ho avuti altri così senza…” si fermò per respirare, una fitta d’ansia più forte le fece male al petto, “senza andarci. Le medicine sono contro l’ansia, mi aiuteranno.”
Mandò giù quelle piccolissime compresse rotonde e bevve il resto dell’acqua mentre il suo amico teneva il bicchiere che appoggiò poi sul lavandino.
“Allora, riesci a dirmi cosa ti fa sentire bene?” riprese il ragazzo.
“Il m-mare.”
"Perfetto. Respira come il mare, Demetria. Le onde vanno su e giù e fanno quel bellissimo rumore che sa di freschezza, non sembra anche a te un grandissimo respiro? Pensa alla sabbia, al calore del sole, al canto dei gabbiani, alle conchiglie, so che puoi farlo."
"C-come il mare" balbettò lei, ed Andrew sorrise perché capì che lo stava finalmente ascoltando, che era tornata.
Demi si concentrò sul suono delle onde, il più bello del mondo secondo lei, su una distesa d’acqua profondissima e che pareva non avere confini, sul mare calmo increspato da qualche onda che si alzava e si abbassava tranquilla.
"Sì, esatto. Così, brava. Apri e chiudi le mani a pugno, stringendole forte, a ritmo con il tuo respiro. In questo modo, perfetto" continuò lui, mentre il suo respiro si regolarizzava pian piano. “Sei molto forte, ce la stai facendo. E le medicine ti aiuteranno, vedrai.”
Andrew seguitò ad accarezzarle la testa, il viso, il collo con movimenti circolari e lenti e a tenerle la mano con quella libera finché non si tranquillizzò. La aiutò ad alzarsi, sussurrandole parole dolci per cercare di calmare quello che era in assoluto uno dei peggiori attacchi di panico che avesse mai visto. Poi, all’improvviso, com’era arrivato passò per lasciarla respirare normalmente.
“Finito” sussurrò la ragazza.
“Sì, è finito, è passato tutto. Andiamo di là, se te la senti."
Demi annuì piano, ma una volta in piedi rischiò di cadere a terra. Non mangiava praticamente dal giorno prima a pranzo, era ovvio che fosse molto indebolita. L'amico la sostenne e la accompagnò fino al divano da cui i genitori si alzarono per aiutarla a respirare meglio. In quel momento arrivò anche Dallas.
"Maddie chiede di te, mamma" le fece sapere, accomodandosi sull'altro, piccolo divano vicino a Carlie.
"Vado."
Dianna era consapevole del fatto che doveva occuparsi anche di lei, non c'era solo Demi della quale prendersi cura. Madison ne aveva viste tante, troppe per la sua giovanissima età, sia a causa della salute della sorella sia dei suoi comportamenti alimentari sbagliati, e proprio perché Dianna se n'era resa conto aveva iniziato a mandare anche lei in terapia da una psicologa infantile. Maddie ci andava volentieri, le serviva, la faceva sentire meglio. Dopo aver guardato Demetria e averle sorriso, la donna salì i pochi gradini e sparì.
"Come ti senti?" chiese Eddie a Demetria, visibilmente preoccupato.
"M-meglio, grazie."
Di sicuro era più calma ma aveva la testa ovattata, poco lucida, le girava tutto. Aveva provato tante volte quella sensazione quando aveva fatto diete assurde o ore e ore di allenamenti. Si sentiva svuotata di ogni energia fisica e mentale, come se l'autolesionismo e uno dei suoi disturbi alimentari le avessero risucchiato ogni grammo di forza, ma anche l’attacco di panico aveva fatto la sua parte.
"Vi va se preparo qualcosa? Un tè, magari?" propose l’uomo.
Era ormai l'una di notte ma erano tutti svegli, tanto valeva cercare di stemprare un po' l'atmosfera e rilassarsi per far sentire meglio la ragazza. Tutti dissero di sì, tranne Demetria che rimase in silenzio.
"Mettiamo un po' di musica" propose Dallas che andò a prendere un CD e lo infilò nello stereo.
Anche quello poteva essere un modo per distrarsi. Non era un vero e proprio album, ma un CD creato da Eddie con un insieme di canzoni. All'inizio ce n'erano alcune di Kelly Clarkson, una delle cantanti preferite di Demi che, quando la sentì cantare, sorrise per davvero per la prima volta da ore. E poi la udì. "Strong Enough" di Stacie Orico, una delle canzoni che aveva ascoltato durante il periodo in rehab e che l'aveva aiutata.
I had fought so hard and thought that all my battles had been won
Only to find the war has just begun
Quei due versi della prima parte, così come il ritornello, le ricordarono - come se lei stessa non lo facesse già abbastanza - tutta la sua sofferenza. Avrebbe voluto dire a Dallas di mandare avanti il CD ma qualcosa, una forza sconosciuta dentro di lei, la trattenne. Rimase seria, in silenzio, ad ascoltare il pianoforte che si mischiava con la voce dolce di quella ragazza che durante il ritornello si trasformava, aumentava di potenza per mostrare tutta la sua disperazione, chiedendo a Dio se non era abbastanza forte da darle una mano, una possibilità. Demi non sapeva se quel testo fosse autobiografico o meno, ma certo lo sentiva molto suo, come se fosse stata lei a scriverlo e se facesse parte di se stessa. Nessuno parlava, tutti ascoltavano attenti. Dallas e Carlie si erano emozionate, Dianna, che era tornata, anche, sapendo quanto importante fosse quella canzone per la figlia.
[…]
In my most desperate circumstance
It's there I've finally found
That you are strong enough
That you are pure enough
To break me, pour me out and start again
That you are brave enough
To take one chance on me
[…]
 
 
 
"È davvero bella" disse Carlie avvicinandosi alla ragazza.
"Sì, mi piace molto. Gli ultimi versi mi danno speranza."
Era strano dire quella parola, "speranza", dopo tutti gli anni di sofferenza passati, quei mesi difficili e la ricaduta appena avuta. Era strano perché la rendeva più bella, più vera. E ciò la aiutò a sentirsi, almeno un po', meglio. Il CD proseguì su canzoni più allegre alle quali la ragazza non prestò molta attenzione. Si beò della musica, ma non ascoltò più le parole. Le medicine le facevano venire sonno, non ne aveva mai prese due insieme prima 'dallora, ma voleva restare sveglia un altro po'.
"Ci hai fatti preoccupare" disse ancora Carlie prendendole le mani per scaldargliele.
"Mi dispiace. Grazie anche a te per essere qui."
La voce di Demi era debole, sembrava quella di una persona malata.
"Ma figurati."
Eddie disse che il tè era pronto e tutti lo raggiunsero in cucina. Dopo aver guardato a lungo la zuccheriera, con molta difficoltà Demi riuscì ad aggiungersi lo zucchero. Non sentiva la voce di Ana né nessun'altra, ma anche se non provava il desiderio di continuare a non mangiare proprio o di farlo e poi vomitare, era comunque molto complicato per lei approcciarsi al cibo. Gli altri cercavano di non guardarla per non metterle pressione e intanto chiacchieravano del più e del meno. Le loro menti erano concentrate solo su di lei, nel profondo, ma sapevano che sarebbe stato meglio vertere la conversazione su altro per farla sentire più a suo agio con il cibo. Dopo due cucchiaini di zucchero la ragazza mescolò con lentezza e, dopo aver soffiato, bevve.
"È buono" disse con un debolissimo sorriso.
Nei suoi giorni buoni aveva ricominciato ad assaporare davvero il cibo e le bevande, anche il latte che da tempo aveva smesso  di bere sostituendolo con un bicchiere d'acqua o con niente.
"Scusatemi." La voce di Demi si fece sentire più forte zittendo tutti. La ragazza guardò prima i genitori, poi la sorella e infine Andrew e proseguì. "Mi dispiace, perdonatemi. Non riesco nemmeno ad avere giornate normali. Spesso sopravvivo ancora, non ce la faccio neanche a vivere."
Eddie e Dianna sbiancarono, Dallas si mise le mani davanti al volto. Erano alcune tra le parole più dolorose che le avessero mai sentito pronunciare, facevano male sia a loro sia, soprattutto, a lei.
"Non dire così, tesoro" mormorò Eddie accarezzandola.
Lui e sua moglie erano seduti uno a destra e l'altra a sinistra della ragazza, mentre gli altri tre erano di fronte.
"Ma è vero."
Una lacrima le rotolò lungo la guancia e sua madre gliela asciugò con il pollice.
Ad Andrew faceva male vederla in quello stato, ma si disse che era stata molto, molto peggio. Certo ora era incredibilmente spossata, provata e piena di emozioni negative, ma prima che partisse per Chicago alla volta della Timberline Knolls, lui l'aveva osservata. Era andato da loro per farle compagnia e confortarla e l'aveva trovata sul suo letto, con i capelli così sporchi che pareva fossero stati immersi nell'olio, scarmigliati, gli occhi spenti che fissavano il soffitto e il volto pallidissimo, uno dei sintomi che può dare l'anoressia. Era davvero molto magra, con solo il pigiama addosso l'aveva visto meglio di altre volte. Gli era parsa un guscio vuoto, un'anima quasi senza vita. Se all'inizio gli era parsa apatica, quando aveva incrociato i suoi occhi quelli della ragazza si erano riempiti di una tristezza senza fine, ed era scoppiata in un pianto silenzioso che gli aveva fatto stringere lo stomaco e il cuore. La sua migliore amica non poteva essersi ridotta così, non era stato in grado di accettarlo; perché lei non se lo meritava, non era giusto. Eppure nel tempo i segnali c'erano stati, nel suo cambio di comportamento, tutti quegli allenamenti, le abitudini alimentari un po' strane… Ma lui non la vedeva tutti i giorni nemmeno ora, e lei aveva cercato di nascondere tutto lavorando molto. Gli aveva raccontato recentemente che durante le pause, mentre registrava “Sonny With A Chance”, si riposava o diceva che si sarebbe fatta le unghie, o andava fuori con i suoi amici più del normale. Per quanto riguardava l’autolesionismo, nel 2008 erano uscite delle foto con lei che aveva delle cicatrici sui polsi, anche se poi si era detto che erano stati segni causati da dei bracciali elastici. Ma Demi non era riuscita a chiedere aiuto, a non farsi più del male, e aveva cominciato a farlo in posti dove la gente non avrebbe potuto vederli come sulla schiena. E in tutto questo i suoi… beh, i suoi se n'erano accorti davvero solo quando c'era stato quell'incidente con la ballerina Alex Weltch, soprannominata Shorty, alla quale aveva dato un pugno. Tuttavia, tutti si erano detti che avrebbero dovuto capire prima. Andrew non lo sapeva, ma Dianna aveva notato diversi segnali molti anni addietro, già quando Demi ne aveva nove e aveva cominciato a nutrirsi troppo, soprattutto di dolci, a causa del binge eating, poi più avanti nel momento in cui era dimagrita e aveva iniziato a mangiare sempre meno e a vomitare e in seguito ad abbuffarsi e rimettere. Ma, vedendo che mangiava molto e al contempo presa dal proprio disturbo, la donna non aveva dato tanto peso ai problemi della figlia pensando che fossero solo fasi della crescita o non dandoci per niente importanza, nemmeno quella volta, anni dopo, in cui Dallas le aveva detto allarmata che Demi stava visitando siti strani sull’anoressia e la bulimia.
Adesso Demetria non pareva più quell'anima quasi senza vita che Andrew aveva visto prima che lei partisse per la clinica. Nei suoi occhi brillava una piccola, minuscola luce di cui forse lei stessa non si rendeva conto, ma certo non stava bene. Come avrebbe potuto dopo quella ricaduta tanto violenta?
"Noi ti amiamo. Demetria, hai capito? Ti amiamo!" esclamò Dianna in un misto tra enfasi e disperazione. "Le ricadute possono capitare, lo sai, è normale."
"Sì, ma questa è stata… simile alle prime che ho avuto. Non pensavo di sentirmi ancora così male."
"Starai meglio, piccola, e sono sicuro che una volta che ti sarai riposata tornerai a crederci di più anche tu" la rassicurò Eddie.
Demetria avrebbe voluto chiedere qualcosa come:
"Davvero mi volete ancora bene dopo tutto questo?"
ma non mosse foglia. Sapeva che era vero e si commosse, scoppiando poi in un pianto disperato che non riuscì più a trattenere mentre grossi lacrimoni le bagnavano senza sosta il collo e i vestiti. Tutti la lasciarono sfogare, poi i genitori la strinsero uno alla volta in un lungo e dolce abbraccio. Dianna la baciò con delicatezza sulla testa e sulle guance mentre la ragazza si sentiva protetta dalla sua presenza e dal calore del suo corpo. Si sentì un po' più in forze dopo quelle coccole e dopo altre parole di conforto da parte della sorella e degli amici, e riuscì oltre a bere anche ad inzuppare nel tè cinque o sei pasticcini, due dei quali al cioccolato che mangiava ancora pochissimo, sia perché ne era previsto in piccolissime quantità nella sua dieta, almeno per il momento, sia perché le pareva un cibo troppo grasso che Ana, e di conseguenza lei, spesso non sopportava, a meno che non avesse attacchi di bulimia nei quali mangiava di tutto. Assaporò i pasticcini alle mandorle e al cioccolato con molta lentezza e una volta finita quella merenda notturna sentì la testa finalmente lucida, non più ovattata e anche le vertigini erano sparite. Forse aveva ragione la psicologa: come una macchina non può stare senza benzina, così anche il corpo ha bisogno di carburante per funzionare. Gliel'aveva detto per ragionarci con lei settimane prima e ci stavano ancora lavorando perché a volte Demi non era d'accordo, ma ora si sentiva molto meglio almeno dal punto di vista fisico.
"Vorrei andare a dormire, sono stanca" annunciò la ragazza. "Giuro che non rimetterò come prima e non mi taglierò, non ne sento il bisogno e poi… poi non voglio."
Lo disse piano, come se non ci credesse del tutto, ma intanto l'aveva fatto.
"Ti accompagno in camera" si offrì Dianna e Demi non si oppose.
Andrew le diede la buonanotte e la abbracciò piano, come se temesse di romperla, mentre lei si sentiva il cristallo più fragile del mondo sotto il suo sguardo dolce. Avrebbe voluto essere lui ad accompagnarla, ma capiva che madre e figlia avevano bisogno di un po' di spazio e tempo da trascorrere insieme. Era giusto che fosse così.
"Magari passo a salutarti dopo" le sussurrò all'orecchio e lei annuì, poi prese per mano la madre.
Aveva bisogno di stringergliela, di avere con lei un contatto che, lo sapeva, desiderava anche Dianna. Nessuna delle due parlò durante il breve tragitto, ma una volta in camera la donna le rimboccò le coperte dopo averle accarezzato la fasciatura, visibile a causa del pigiama corto, e disse:
“Parleremo domani, tesoro, va bene? Ora ti lascio riposare.”
“Grazie” mormorò la ragazza.
Le era grata. Anche Dianna aveva capito benissimo che quello non era il momento di fare domande o avere spiegazioni. Demi era troppo stanca e debole, non ce l’avrebbe fatta. In una sola sera aveva mangiato qualcosa e poi vomitato, si era tagliata e aveva avuto un attacco di panico e una forte ansia. Era tanto da sopportare e la cosa migliore che poteva fare adesso era dormire.
“Mamma?” chiese Demi con voce rotta.
“Sì?”
“Ho cambiato idea, voglio parlare adesso. Almeno un po’.”
Sapeva che la madre non avrebbe dormito e non si sarebbe data pace fino a quando non l’avessero fatto e non voleva darle anche quel dolore. L’aveva fatta già soffrire abbastanza, non avrebbe sopportato di lasciarla sulle spine.
“Sei sicura di sentirtela?”
“Sì, credo di sì.”
Non era sicura di niente, in realtà, ma sapeva che i suoi familiari ed Andrew meritavano una spiegazione, per quanto parlarne ad alta voce avrebbe fatto ancora più male.
“Ti farò solo una domanda, tesoro mio. Non sono arrabbiata, voglio solo capire” disse Dianna con dolcezza. "Perché?"
Non lo domandò con fare giudicante, era solo in ansia.
Demi sudò freddo e le girò la testa. Si sentì quasi svenire, si aggrappò forte ai bordi del letto e, con il dolore a straziarle il cuore e l’anima, cominciò a parlare. Le raccontò tutto quello che aveva provato e fatto, con la voce che si spezzava sempre più ad ogni parola. Non tralasciò nulla, nessuna emozione, nemmeno le più negative e orribili. A Dianna si fermarono le parole sulle labbra.
Ormai ne ho sentite di descrizioni come questa pensò. Demi mi ha detto più volte che si è sentita così, in questi mesi e in passato. Mi ha anche spiegato che avrebbe voluto che l’aereo che ci portava alla Timberline Knolls avesse un incidente e che morissimo tutti, pur di non andarci e di non continuare a vivere stando male. Eppure, è vero che al dolore non ci si abitua mai.
E soprattutto, non lo si fa mai se si tratta del dolore altrui, in particolar modo se l'altra persona è qualcuno a cui teniamo più della nostra stessa vita.
"Non riuscivo a calmarmi, non ce la facevo a chiedere aiuto perché era troppo difficile."
"Sai che puoi sempre contare su tutti noi, te l'abbiamo detto tantissime volte" mormorò la donna con dolcezza accarezzandole i capelli.
"Lo so, ma non è così semplice."
Dianna ne sapeva qualcosa. Il suo disturbo di anoressia era iniziato moltissimi anni prima, eppure non aveva chiesto una mano a nessuno: né ai suoi genitori, né a Patrick, né tantomeno a Eddie, nascondendo ogni cosa dietro bugie e l'apparenza di una vita perfetta. Del resto, nessuno sapeva nemmeno che dopo la nascita di Demi e di Madison aveva sofferto di depressione post partum, che aveva preso farmaci per un po' dopo che Maddie era nata per poi smettere, senza parere medico, quando si era sentita meglio. Come nessuno era a conoscenza del fatto che da alcuni anni fosse dipendente dallo Xanax o chre avesse sofferto più volte di depressione e anche di ADHD, la Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività. Ormai era diventata brava a nascondere le cose quindi sì, la capiva.
Dianna si preparò a fare una seconda domanda, più difficile della precedente. Ebbe un singulto.
"Volevi… volevi morire?"
Demi non riuscì a risponderle a voce, il dolore negli occhi di sua madre faceva troppo male. Scosse piano la testa.
Dianna tirò un sospiro tremante.
"Non ho mai pensato di voler morire quando mi tagliavo. Cercavo di creare un equilibrio tra le emozioni che albergavano dentro di me e quello che c'era fuori, il fatto che tutti credessero che stavo meglio, come infatti era, e quello che io oggi, ormai ieri, non mi sentivo affatto così, che ci sono giorni orribili oltre a quelli buoni. Ma non sono riuscita a gestire tutto questo e, beh, l'ho fatto. E vale lo stesso per il cibo." Le spiegò come si era sentita durante la cena e dopo. "Pensavo di essere così stupida, così inutile, un peso e ho vomitato" concluse.
Se è vero che si fa più male con le parole che con le botte, almeno dal punto di vista psicologico, quando lo schiaffo di sua madre le colpì la guancia Demi si sentì sprofondare. Quel colpo, lo sapeva, non le era stato dato per rabbia, ma per dolore e disperazione, sentimenti negativi che lei aveva causato. Era quella la parte che odiava delle sue malattie: il senso di colpa che scaturiva dopo essersi fatta del male, che fosse riguardo il cibo o i tagli non importava. Perché sì, sarebbe venuto lo stesso, anche se non avesse mandato quel messaggio e nessuno se ne fosse mai accorto. Fece fatica a prendere un bel respiro per far entrare un po' di aria nei polmoni, un macigno sul cuore voleva impedirglielo a tutti i costi.
"Mi dispiace, mamma" mormorò mentre due piccole lacrime le rigavano il viso, pur rendendosi conto che quelle parole non descrivevano bene quanto si sentisse male per tutta quella situazione.
"Mi dispiace" era troppo poco per casi del genere.
"No, dispiace a me per lo schiaffo" le rispose Dianna, che si chiese se dentro di lei ci fosse un mostro orrendo. “E non volevo farti piangere.”
In fondo, se non fosse stata una bestia schifosa non avrebbe mai reagito in quel modo, facendo sentire la figlia ancora peggio.
"Non importa. Allora diciamo che siamo pari."
La porta cigolò appena e si aprì piano rivelando la figura di Eddie.
"Scusate, non volevo interrompere. Ero venuto a vedere come stavi, Demi, e ho sentito tutto il vostro discorso." Fece qualche passo verso il letto. "Piccola" cominciò, e Demi iniziò a piangere silenziosamente, ogni lacrima pareva ardere e bruciarle la pelle. Eddie e Dianna la guardavano con occhi traboccanti d'amore e credeva di non meritare le loro parole così dolci. "Tua mamma ti ha dato quello schiaffo solo perché sentirti dire le parole che hai pronunciato l'ha spaventata, non voleva farti male."
"Lo so" biascicò la ragazza.
"Noi ti staremo sempre vicino, non importa quello che accadrà. Tu però devi voler guarire, e in questi mesi ci hai dimostrato che lo desideri anche se è dura."
Lei non disse niente, non sapeva come rispondere a quell'affermazione. Voleva guarire? Lo voleva davvero? Sì, forse.
"Ci sono cose che a volte sono più forti della propria volontà" disse invece, "come per esempio il desiderio di tagliarsi o di dimagrire sempre più. Sono più forte di te, partono dalla testa, quando diventano una dipendenza ti prendono ed è difficile liberarsene."
"Possiamo solo immaginarlo, tesoro" riprese Dianna. "Starai meglio, d'accordo? Prenditi tutto il tempo che ti serve, noi siamo sempre qui se vuoi parlare o sfogarti. E se avrai bisogno di farti ancora male, la prossima volta cerca di fare uno sforzo in più e venire da me, anche se ti sembra impossibile. Oppure fai quello che ti ha detto la psicologa."
Le aveva insegnato alcune strategie per non tagliarsi, come per esempio prendere un foglio di carta, appallottolarlo, buttarlo a terra con veemenza e farlo a pezzi in modo da sfogarsi e incanalare lì tutti i propri sentimenti negativi, oppure scrivere o urlare con un cuscino sulla bocca. Demi era riuscita a farlo  varie volte in quei mesi, ma non sempre le era stato possibile. A volte le voci, quel bisogno, le emozioni che provava erano semplicemente troppo e le ottenebravano la mente.
"Ci ho riflettuto anche ieri sera ma non ci sono riuscita. Non è sempre facile, molto spesso non sono abbastanza lucida per pensarci.” Era strano a dirsi, però per farlo doveva sottoporsi ad uno sforzo mentale non indifferente che le procurava anche una gran fatica fisica. Ma questo i genitori non l’avrebbero mai capito. Ne aveva parlato solo con Andrew già anni prima. “Prometto che ci proverò, però, davvero."
"Già il fatto che tu ci abbia riflettuto è un buonissimo segno" disse Eddie, poi entrambi i genitori la strinsero, insieme, in un altro abbraccio pieno d'amore.
Demi seppellì il viso nella spalla della madre, respirando il profumo di shampoo al lampone che emanavano i suoi capelli lunghi e morbidi. Anche lei utilizzava quello shampoo come le sorelle, lo facevano tutte sin da bambine. Era un modo per sentirsi legate. Ad un occhio esterno avrebbe potuto apparire stupido, mentre per loro era una cosa semplice ma importante.
"Ti amiamo, bambina" dissero insieme i due, come se avessero pensato la stessa cosa nel medesimo istante.
Quell'ultima parola non la infastidì, anzi le trasmise un profondo senso di protezione e sollievo. Si sentiva piccola proprio come una bimba, fragile e bisognosa di ancor più affetto, ma allo stesso tempo, forse, forte.
“Vi amo anch’io!” esclamò con enfasi.
Dianna le pettinò i capelli con movimenti dolci e lei si rilassò a quell'ennesimo contatto. Adorava quando sua madre lo faceva, anche un gesto così piccolo acquistava per lei un sapore nuovo, più bello. Poco dopo Eddie le diede la buonanotte e uscì, dando a madre e figlia un altro po' di tempo da sole.
La donna le tenne la mano e le raccontò una favola. Sapeva che qualcuno avrebbe potuto considerarla una sciocchezza, ma fu la prima cosa che le venne in mente. Demi si addormentava sempre con quelle da piccola, e anche se era una storia per bambini non si oppose, non le disse di smettere e anzi, nell’udire dopo tanti anni “Il topo e il leone” sorrise, stavolta più convinta di prima. La voce vellutata della mamma la cullò come la più bella delle ninnenanne, parve stringerla a sé come il più affettuoso degli abbracci. Si addormentò così, con il calore di quella mano stretta nella sua e un sorriso, seppur triste, sul volto.
 
 
 
"Ne sono sicuro" stava dicendo Andrew guardando in particolare Eddie e Dallas.
I tre rimasero ad osservarlo per qualche secondo senza dire nulla, poi l’uomo mormorò:
"Spero tu abbia ragione, ragazzo."
La musica era stata spenta da un po', ora le espressioni di tutti erano di nuovo serie, il loro silenzio denotava una preoccupazione ancora presente.
"Quindi, se dici così, secondo te non voleva… morire?" chiese Dallas, tremando al suono di quella parola.
Sei lettere che facevano affiorare alla mente immagini orribili e venir voglia di urlare, battere i piedi a terra, la testa sul muro e piangere.
“A me e a Dianna ha detto di no” rispose Eddi per primo.
"No, non voleva. Era un suo modo per esprimere la sofferenza."
Andrew avrebbe voluto proseguire quel discorso, ma si fermò quando sentì Dianna scendere. La donna non vi aveva prestato attenzione e non chiese nulla.
"Si è addormentata" disse solo, sedendosi pesantemente sulla sua sedia. "penso che lunedì sarebbe meglio chiamare la psichiatra e chiederle un appuntamento straordinario, ha bisogno di parlare anche con lei di quello che è successo.”
Eddie annuì.
“Andrew, puoi comunque andare da lei se vuoi. Prima di dormire mi ha detto che avrebbe voluto vederti e anche se adesso riposa penso che le farà piacere, domani, sapere che ci sei stato."
"Vado subito."
Mentre saliva sentì la donna dire agli altri di andare a letto e, rivolgendosi a Carlie, il fratello le suggerì di tornare a casa, tanto avevano entrambi le chiavi.
"Sicuro che non vuoi che ti aspetti?"
Non le piaceva l'idea che camminasse da solo nel bel mezzo della notte.
"Sicurissimo, vai pure. Non mi succederà niente."
Una volta entrato nella stanza di Demi, il ragazzo la guardò a lungo. Era rannicchiata sul fianco destro, più o meno al centro del letto e avvolta da un lenzuolo e una leggera coperta entrambi blu, in tinta con il colore delle pareti della camera.
Si sedette sul materasso, a poca distanza da lei, e Demi lo sentì abbassarsi sotto il suo peso ma non si mosse. Andrew restò a guardarla a lungo mentre lei, che gli dava le spalle, ora era più o meno sveglia. Respirava piano, la faceva sentire bene il fatto che il suo migliore amico fosse lì accanto a lei e quel silenzio sembrava dire molto più di mille parole. Demi si godette le sue carezze, i piccoli circoli che le fece lungo la schiena, il calore delle sue mani sul proprio corpo, la delicatezza delle sue dita.
"Possiamo parlare, se vuoi" mormorò ad un certo punto, a voce appena udibile per non svegliare nessuno. "Credo di farcela."
"Non adesso. Sei ancora debole e non penso sia il momento. Preferisco che tu dorma e ti calmi, parleremo quando starai meglio."
La ragazza si girò e cercò la sua mano nel buio, quando la trovò gliela strinse e lui ricambiò con un po' più vigore, ma non troppo per non farle male.
"Ho già raccontato tutto a mamma e a Eddie."
“Allora, se insisti…”
“Sì.”
In realtà avrebbe solo voluto chiudere gli occhi e riposare, sentiva le palpebre farsi sempre più pesanti ma anche Andrew meritava una spiegazione, non solo i suoi, e questa non poteva aspettare. Disse ogni cosa anche a lui non tralasciando nemmeno il più piccolo dettaglio.
“Non ce l’ho con te per quello che hai fatto, Dem. Hai avuto una ricaduta, può capitare, fa parte del processo di guarigione. E so che avrai sentito questa frase centinaia di volte dagli specialisti che ti seguono, ma è così. Tu stai lottando, ce la stai mettendo tutta, è questo l’importante.”
“Forse potrei fare di più” disse più a se stessa che a lui, con un ennesimo sorriso triste sul volto.
“Non si può essere sempre al top, dare il cento per cento in tutto. Ma ne parleremo meglio, okay? Ora abbiamo bisogno di riposare, soprattutto tu. Sappi solo che non sono arrabbiato, non lo sono mai stato, non mi è dispiaciuto venire qui stasera e che ti voglio un bene dell’anima!”
Quelle parole sincere e piene d'affetto la commossero, le scaldarono il cuore, ma la fecero anche sorridere nel pianto. Fu  un sorriso luminoso, di quelli che ti aprono il viso e ti danno una piccola scarica di adrenalina. Si sollevò su un gomito e gli cercò il volto, poi gli diede un bacio su una guancia.
"Te ne voglio anche io" mormorò con la voce incrinata per l'emozione. "Resta con me, almeno per qualche ora. Per favore."
Andrew non se la sentì di negarglielo, così prese il cellulare dalla tasca del pigiama, impostò la sveglia sul presto - era sabato, quindi tutti si sarebbero svegliati più tardi, ma non si poteva mai sapere - e si sdraiò accanto a lei sotto le coperte. Si addormentarono stretti l'uno all'altra senza più parlare. Ma per Demi non fu una bella notte.
Il giorno seguente, quando si svegliò dopo ore di dormiveglia a causa del fortissimo dolore alle braccia, lui non c'era più. Si alzò e controllò l’ora sul cellulare, lasciato come sempre sulla scrivania, e vide che erano già le otto e mezza. Doveva essersene andato almeno un paio d'ore addietro, se non ancora prima. C’era un suo messaggio.
Ciao, Dem. Stanotte ti sei lamentata e mossa molto, i tagli dovevano farti parecchio male. Non sai quanto mi dispiace, ma comunque spero che tu sia riuscita a riposare almeno un po’. Ti penso, ci vediamo più tardi. Ti voglio bene.
No, i tagli non le avevano fatto solo parecchio male. Si era sentita come se qualcuno le stesse strappando le braccia, per questo era rimasta immobile mentre lui la stringeva riuscendo a ricambiare solo ogni tanto. Se le muoveva dolevano ancora parecchio, le sfuggì un gemito a causa della sofferenza. La pelle tirava e pareva bruciare. Ma se rimaneva ferma, notò, con le braccia lungo i fianchi, non avvertiva quasi nulla. Si sentiva meglio, più tranquilla, le pareva di aver recuperato abbastanza le energie e aveva anche fame. Ana o Mia non c'erano, né tantomeno la voce dell'autolesionismo. Nella sua testa tutto era silenzio, c'erano solo i pensieri a farle compagnia. La notte precedente non sarebbe stata dimenticata facilmente da nessuno.
Sospirò, iniziando a trascinare i piedi nudi infilati nelle ciabatte per tutta la camera, avanti e indietro per un paio di volte. Nei giorni più difficili e cupi le capitava di restare ventiquattr’ore su ventiquattro in pigiama, non uscendo mai se non soltanto in giardino, ma voleva che quello fosse differente, o almeno provare a farlo diventare tale. Certo non era pienamente in forma, ma non stava più così male. Infilò una tuta da ginnastica che si trovava sulla sedia accanto al letto e un paio di calzini corti, almeno per quelle prime ore in cui non faceva ancora caldissimo. I tagli bruciarono e tirarono, ma un po’ meno di quanto si sarebbe aspettata. Dopo essersi lavata il viso e pettinata scese. La prima cosa che fece fu andare in bagno. Il marmo e il lavandino erano stati ripuliti dal sangue, la lametta non c’era più neanche nel cestino. Eddie o la mamma dovevano averla buttata via da qualche altra parte.
Meglio.
Il ricordo della notte appena trascorsa la fece rabbrividire, ma se pensava ciò significava che si sentiva abbastanza bene, rifletté. Si lavò ancora le mani, poi si medicò e cambiò la fasciatura come Andrew le aveva detto.
La vedrà anche Madison pensò.
Era inevitabile, la tuta era corta e non si era ricordata di infilarsi qualcosa per coprirla. Stava per tornare di sopra e mettersi una maglia a maniche lunghe, quando una voce la chiamò dalla cucina esclamando:
"Demi!"
Era Madison e la ragazza si voltò per raggiungerla. Quando la vide, la bambina balzò giù dalla sedia e corse ad abbracciarla.
"Ciao, piccola!" esclamò la ragazza mentre non faceva altro che sorriderle.
"Come stai?"
I loro occhi si incontrarono e l'espressione felice di Maddie cambiò d'improvviso per lasciare il posto ad una fronte corrugata e due occhi sbarrati.
"Meglio, non preoccuparti."
Era una mezza verità, perché fisicamente non stava un granché anche se la situazione era migliorata, e psicologicamente beh, era sopraffatta. Sì, le pareva la parola più azzeccata, ma avrebbe provato a riprendersi.
"Dallas diceva che non ti sentivi molto male, ma io non ci ho mai creduto. So che tutti mi dite così per farmi sentire meglio."
Demi sospirò: la sorella era matura, troppo per la sua età, aveva dovuto diventare così purtroppo.
"Sono stata parecchio male, sì, ma…"
"Ti fa male?" chiese, impensierita, indicando la fasciatura.
"Questi, intendi? Sì, bruciano parecchio."
Per non spaventare la sorellina stringeva i denti, faceva respiri profondi e cercava di non pensarci. I tagli sembravano un po' meno gonfi e il rossore stava migliorando, ma versarci di nuovo sopra il disinfettante e metterci la crema non era stato di certo piacevole. Demi sentiva anche molto prurito e spesso passava la mano sopra la fasciatura, salvo ricordarsi poi che non avrebbe dovuto grattare o sarebbe stato peggio. La aspettavano settimane nelle quali avrebbe sentito bruciare, pizzicare e prudere quasi in continuazione, non sarebbe stato facile.
"Non intendevo i tagli."
La voce della sorellina la fece sussultare. Il tono era acuto, il modo di parlare concitato, gli occhi non si staccavano dalla fasciatura nemmeno per un istante, era ovvio che avesse paura di quello che si celava sotto, che le dispiacesse.
"Ah. E cosa, allora?"
"Odiarti. Io lo so che ti tagli e hai quei… come si chiamano? Disturbi alimentari perché ti odi, per il bullismo, per quello che è successo con Patrick in passato. Insomma, vivere con tutti questi sentimenti brutti fa così male?"
"Sì, tanto."
Le sue parole risuonarono appena nella piccola stanza, seguite da un pesante silenzio. La faccenda era molto più complessa di così, non c'era solo l'odio a farla da padrone ma anche il dolore in molte altre forme, comunque Madison ne aveva capito l'essenza. E aveva detto e compreso una cosa giusta: non era vivere a fare male in sé, la vita sarebbe stata anche piacevole se fosse stata diversa. Era vivere in quel modo, con un passato come il suo, con quei problemi che le procurava un dolore insopportabile e che lei cercava di alleggerire facendo tutte quelle cose al suo corpo, anche se la felicità, il sollievo, duravano sempre molto poco.
"E ti posso aiutare in qualche modo? Non me l'hai mai detto e scusa se non te l'ho chiesto prima, io…"
Demi si lanciò letteralmente verso di lei e la abbracciò con forza, riempiendola di baci e carezze, stringendola come se non avesse voluto più lasciarla andare.
"Maddie, tu mi aiuti ogni giorno. Ogni volta che sono con te, che mi saluti, mi racconti quello che hai fatto, mi mostri un voto che hai preso o, non so, mi canti qualcosa, io sto meglio. Ti assicuro che tutto questo vale tantissimo, per me. La tua sola presenza mi conforta. E ti prometto che ad uno dei miei prossimi concerti ti porterò a cantare sul palco con me, ti va?"
"Davvero ti aiuto così tanto? E dici sul serio?"
Il sorriso della bimba ora andava da un orecchio all'altro.
"Ma certo! Non sarà subito, ma ti prometto che succederà. E sì, mi aiuti più di quanto immagini."
La risata argentina di Madison riempì la stanza e fece sorridere Demi un po' amaramente. Quand'era stata l'ultima volta in cui aveva fatto una risata così allegra e liberatoria? Non riusciva a ricordarlo.
"Ho preparato la colazione, dobbiamo mangiare o si fredda" disse la bambina indicando il tavolo sul quale, la sorella maggiore lo vide solo in quel momento, c'erano le tazze, i piatti, i cucchiai, i tovaglioli e i biscotti tutti al loro posto, con il latte fumante al loro interno.
"L'hai fatto tu? Non sei ancora un po' piccola per riuscirci?"
"Ehi!" La colpì con un pugno scherzoso al  braccio. "Non sono piccola. Ho nove anni e sette mesi, io, fatti oggi fra l'altro."
Era vero, era il 28 luglio.
Demi scoppiò a ridere. Madison era sempre stata molto precisa riguardo la sua età, da un po' ci teneva a dire quanti anni avesse con meticolosità perché gli altri capissero che non era più una bambina.
"Hai ragione, scusa."
"Ti ho messo i tuoi cereali preferiti, non li mangiavi da tanto. Nella dieta c'è scritto che un po' di cioccolato è permesso, no?"
"Sì, ma non so se…"
Il suo rapporto con quell'alimento era ancora molto conflittuale benché una volta fosse stato, assieme alla pizza, il suo cibo preferito.
"Ti prego, Demi! Sono speciali, te li ho messi io nella ciotola."
Le labbra della cantante si incurvarono appena in un piccolo sorriso. Lottare contro l'anoressia e la bulimia non era così semplice. Non poteva solo dirsi, per quanto riguardava Ana per esempio:
"Mangio perché questo è il mio cibo preferito."
Non era così che funzionava; ma Madison non poteva saperlo, era ancora una bambina in fondo. Il suo discorso l'aveva intenerita e, siccome si sentiva bene, decise di tentare.
"Ti prometto che mi metterò a tavola e proverò a mangiarli, d'accordo? Non posso garantire nulla, ma ce la metterò tutta."
Con l’anoressia, però, non era questione di voler mangiare, di mettercela tutta o meno. Tuttavia Madison non poteva saperlo. Forse, comunque, dato che si stava curando sarebbe riuscita a farcela.
"Grazie!" urlò la bambina. "Vado a svegliare gli altri."
Detto questo corse di sopra facendo un piccolo salto ogni due passi. Almeno l'aveva resa felice, si disse l'altra sedendosi.
Dopo i saluti e averle chiesto come si sentisse, tutti si misero a tavola. Cercarono di non parlare di quello che era accaduto ma, al contrario, di dire qualcosa di bello. Non volevano evitare l’argomento, solo rimandarlo per dare un po’ di respiro a Demi.
"Oggi esco con una mia amica, forse andiamo a fare shopping" stava dicendo Dallas.
"Shopping con questa brutta giornata? Non potreste, non so, andare a mangiare un gelato visto che in gelateria ci sarà, forse, meno gente?"
"Con i saldi, mamma? Scherzi?" le rispose, quasi scioccata. "Non me li perderei per niente al mondo!"
"Tu, Madison, che farai?" le chiese Eddie.
"Beh, una mia amica stamattina va al parco qui vicino. Non è che uno di voi due potrebbe portarmici?" domandò indicando i genitori, i quali annuirono e dissero che sarebbero andati tutti e tre insieme, anche con Demi se lo desiderava.
"Ti farebbe bene uscire un po'" le consigliò la mamma.
"Non lo so, viene Andrew e vorrei aspettarlo, poi non ho idea di cosa faremo ma sì, vi prometto che uscirò un po'."
Stava mangiando molto piano e rimaneva quasi in silenzio, ma masticava i cereali che aveva nel latte e li mandava giù, non li teneva in bocca succhiandoli per minuti interi come faceva ancora, a volte. Quello era uno degli atteggiamenti che i genitori dovevano tenere sotto controllo, tipico delle anoressiche oltre allo spezzettare il cibo in piccolissime parti. Riusciva a sentirne il sapore, a farlo sul serio, il latte che scioglieva un po' il loro cioccolato e li rendeva mollicci ma gradevoli era qualcosa di meraviglioso e quando, in clinica, dopo più di un mese di permanenza aveva iniziato a gustarsi un po' qualcosa le era sembrato di stare meglio, di rinascere.
Dopo colazione Demi prese la sua medicina e poi si sedette sul divano, mentre tutti si preparavano per uscire.
"Se hai bisogno, ti viene voglia di farti del male o per qualsiasi cosa chiama me o Eddie. Il nostro cellulare sarà sempre acceso."
Il tono di Dianna era concitato, ma Demi non la biasimava. Se avesse avuto un figlio o una figlia e questi si fosse trovato nella sua stessa situazione anche lei si sarebbe preoccupata da morire.
"Sta' tranquilla, mamma, posso farcela" la rassicurò, anche se non era del tutto convinta.
E se, una volta sola, le voci fossero tornate? E se avesse provato ma non fosse riuscita a contrastarle? E se fosse ricominciata l’ansia?
Dianna stava per dire che sarebbe rimasta a casa. Non se la sentiva più di andare, non con Demi che non stava ancora del tutto bene. Sapeva che forse la figlia avrebbe pensato di essere un peso ma non importava, le avrebbe ripetuto per l'ennesima volta che non lo era. Proprio quando stava per dirlo, però, qualcuno suonò il campanello. Guardando dallo spioncino, Eddie vide che era Andrew e gli aprì.
Il ragazzo salutò tutti in modo gentile ma con meno entusiasmo del solito vista la situazione, poi quando si ritrovò solo con Demi riuscì ad abbracciarla.
"Ricambierei, ma fa…" iniziò la ragazza, restando poi senza fiato per una fitta di dolore più forte delle altre. Sembrava che qualcuno le stesse segando i polsi e le braccia e dovette aggrapparsi alla spalla dell'amico per non cadere. "Fa molto male" concluse, "e se muovo le braccia ancora di più."
"Hai curato i tagli?"
"Sì, come mi avevi detto. Ho anche messo del ghiaccio sopra le fasciature prima di cambiarle per diminuire il dolore e ho sempre controllato che tutto fosse pulito."
“Brava. Mettilo più volte al giorno, se ne senti il bisogno, ma poi cambia sempre la fascia e non strofinare, appoggialo e basta.”
“Ho fatto così, infatti.”
“Perfetto!”
La prese per mano e la accompagnò sul divano dove la fece sedere, poi preparò per entrambi una limonata, tanto ormai sapeva che poteva considerare quella come la sua seconda casa. Demi la bevve volentieri, godendosi il sapore aspro di quella bevanda addolcito dallo zucchero, poi si sdraiò ed Andrew le si mise accanto, nel poco spazio libero rimasto. Era venuto con l'intenzione di portarla fuori, ma era chiaro che quello non era il momento. I due rimasero a guardarsi a lungo senza dire nulla, gli occhi di Andrew erano preoccupati mentre quelli di Demi pieni di dolore. La ragazza però sorrideva appena, sollevata del fatto che lui fosse lì he fosse tornato a vedere come stava. Non che si aspettasse il contrario, comunque. In fondo lui era uno dei pochi amici che erano rimasti, ma sapere che c'era, che veniva sempre da lei le dava conforto, la faceva sentire, in un certo senso, amata.
"Come stanno i tuoi gatti?" gli chiese per cercare di dirottare la conversazione verso un argomento leggero.
"Sono i soliti monelli ma bene, grazie. In questi giorni potrai venire a vederli, se vorrai. Puoi venire quando vuoi."
"Mi piacerebbe molto. Chissà se un giorno i miei decideranno di prendere un animale."
"Gliel'hai chiesto?"
"Sì, ma per ora non vogliono" sospirò.
"Ti piacerebbe di più un cane o un gatto?"
"Non so, un cane forse, ma anche i gatti sono bellissimi."
Parlarono ancora un po' di Jack e Chloe, dei guai che combinavano, dell'amore e dell'allegria che portavano nelle vite di Andrew e dei suoi familiari. Il ragazzo raccontava di loro con così tanto affetto che Demi si commosse, pareva amarli quasi come dei figli.
"Senza di loro le nostre esistenze sarebbero sicuramente più tristi e monotone, invece ogni giorno accade qualcosa di diverso: un guaio che combinano, qualcosa che fanno che ci sorprende…"
"Dev'essere bellissimo."
"Lo è. La sera, quando vado a dormire, faccio il bilancio della giornata e, anche se qualcosa è andato male, cerco di pensare a qualcos'altro di positivo che può essere anche una cosa che alcuni potrebbero definire stupida o banale come il miagolio o le fusa del gatto. In quel momento sorrido e mi dico che almeno ci sono loro a tirarmi su" rifletté.
"Anche la mia psicologa dice che dovrei trovare qualcosa di positivo su cui concentrarmi. Io ci provo, ma non è facile. Ieri, per esempio, non c'è stato nulla."
"In certi momenti è difficile o impossibile vederla in questo modo, hai ragione."
"Non lo so" mormorò con un filo di voce, il petto che le doleva e bruciava come un fuoco per quello che stava per dire. "Mi sento ancora spezzata, distrutta, certi giorni davvero non ho fiducia nella vita."
Fece male ad entrambi, anche a lei che l'aveva detto, più di quanto si aspettasse. Andrew perse un battito e rimase in silenzio. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma darle una risposta intelligente e non scontata come "Andrà meglio" o "Non dire così, non lo pensi davvero". Perché se conosceva bene Demi e sapeva di farlo, era altrettanto consapevole del fatto che quando parlava di queste e di altre cose tanto serie non scherzava né esagerava mai.
"Voglio uscire" disse la ragazza alzandosi.
"Sei sicura?"
"Sì, mi sembra vada un pochino meglio e ho bisogno d'aria. Facciamo una passeggiata."
Si tirò su aiutandosi con le braccia ed ebbe un'altra fitta, un dolore più forte di quello continuo che la perseguitava da ore, ma dopo essere rimasta immobile per qualche secondo andò a prendere le scarpe e una felpa e le infilò, per poi uscire con il suo migliore amico. Gli prese la mano e si sentì al sicuro nella sua stretta calda. Camminarono lungo un marciapiede e poi fino ad un parco a un centinaio di metri dalla casa senza dire nulla. Demi respirava a pieni polmoni l'aria pur sapendo che non era così pulita e cercava di guardare di tanto in tanto il sole, una luce che le dava speranza e che nei momenti più bui si era rifiutata di osservare pensando che, tanto, anche se l'avesse guardata non sarebbe cambiato niente. Anzi, certi giorni in passato le aveva perfino dato fastidio la sua presenza e si era sentita più a suo agio nelle giornate uggiose, con le nuvole o addirittura la pioggia, lasciando che le lacrime del cielo la bagnassero cadendo su di lei. Quel giorno l’astro era molto pallido, circondato da nuvole grigie che ogni tanto lo coprivano. La ragazza controllò se Madison fosse lì ma non la vide; c’era un altro parco, un po’ più piccolo di quello che era particolarmente grande, forse era là.
"Mi spingeresti sull'altalena?" chiese arrossendo e sentendo le guance andare a fuoco.
Aveva bisogno di fare qualsiasi cosa per distrarsi, anche tornare un po' bambina, ma non sapeva come l’amico avrebbe preso quella richiesta.
Quando le sorrise, però, si rese conto che non l'avrebbe presa in giro. Anzi, non sapeva nemmeno come aveva fatto a pensare una cosa del genere; Andrew non era quel tipo di persona, non assomigliava per niente ai suoi ex compagni di scuola o ai bulli in generale, lui non lo era mai stato.
Demi si avvicinò alle altalene dei grandi. Ce n'erano diverse, divise in gruppi di tre a poca distanza gli uni dagli altri e in quella zona non c'era nessuno. I bambini presenti erano piccoli e si trovavano più indietro, con le mamme e le nonne, su altre altalene apposta per loro o sullo scivolo, il cavallino o altre giostre. La ragazza scelse la prima, quella che le sembrava messa meglio, e vi salì. Ci stava appena, ma non importava. La sensazione di essere di nuovo lì sopra dopo tanti anni fu meravigliosa e le fece provare qualcosa di diverso dalla confusione e dal dolore. Non si trattò di vera e propria gioia, questo no, ma di un pizzico di serenità che le portò alla mente momenti felici passati con Eddie, la mamma e Dallas e in seguito anche Madison, nei quali lei e le sorelle andavano al parco e si divertivano come ogni altro bambino. La sua infanzia non era stata facile e fin da piccola aveva fatto audizioni, vero, ma era anche riuscita a sentirsi normale: aveva giocato in giardino, era andata in bicicletta - ancora adesso, però, non sapeva usare quella senza rotelle -, si era sbucciata le ginocchia cadendo e così via. Una lieve spinta dietro di lei la fece tornare alla realtà. Andrew aveva cominciato a spingerla piano.
"Più forte!" lo incitò alzando un po' la voce e trovando, non seppe nemmeno come, quell'entusiasmo.
Quando andava in alto le sembrava di volare, la testa le girava appena ma era bello, bellissimo, e poi non faceva in tempo a tornare giù che ecco, una nuova spinta la mandava un po' verso il cielo. Da piccola, quando qualcuno la spingeva o lo faceva lei da sola, le sembrava di essere una farfalla che si librava leggera nell'aria e si lasciava trasportare dal vento. Si ritrovò a sorridere talmente tanto che il volto le fece male, ma erano sorrisi aperti e sinceri per cui ne valeva la pena. Andrew sorrideva con lei, felice che l'amica si sentisse meglio e la sua espressione fosse almeno un po' serena. Anche il suo volto si stava rilassando. La notte precedente non era riuscito a dormire molto bene a causa della preoccupazione e la tensione accumulate, e in più udirla lamentarsi in quel modo non era stato di certo d'aiuto, anche perché non era stato in grado di darle una mano e sentirsi impotente di fronte al suo dolore era qualcosa che non aveva mai sopportato. In altri momenti Demi gli aveva descritto la sofferenza che provava il primo e, a volte, il secondo giorno o i seguenti dopo essersi tagliata a seconda della profondità delle ferite, ma Andrew non era mai stato con lei la notte, non l'aveva mai sentita muoversi e agitarsi in quel sonno leggero e tormentato. Con un braccio a stringerla, si era messo la mano libera sul petto per cercare di alleviare un po' il bruciore insopportabile che aveva sentito espandersi dentro di sé, mentre alcune grosse lacrime gli erano scese lungo le guance. Era stato straziante.
"Vogliamo rimanere qui in silenzio per sempre?" chiese lei dopo un po'.
"Scusami, non sapevo se avessi voglia di parlare."
"Raccontami qualcosa. Come va al lavoro?"
"Tutto a posto, grazie. Allo studio legale sono tutti molto gentili, sto imparando molte cose e, anche se noto che a volte ciò che devo fare è stressante e i corsi di formazione non sono una passeggiata, io desidero diventare avvocato per cui ce la sto mettendo tutta."
Dopo aver finito l’università in tre anni, Andrew era entrato in una scuola di legge e dopo altri tre, una volta terminata, era diventato avvocato. Voleva però specializzarsi in diritto di famiglia, quindi da quasi un anno stava lavorando in uno studio legale per fare pratica e si occupava di quello e altre questioni. Avrebbe dovuto però aspettarne altri quattro, per legge, per poi sostenere un esame nella sua area di specializzazione e diventare un avvocato a tutti gli effetti. Nel frattempo continuava a studiare diritto di famiglia e a fare corsi di formazione a riguardo. Era brutto dover attendere tanto tempo, ma vedeva i quattro anni davanti a sé come un lungo periodo in cui fare esperienza, lavorare, seguire corsi per poi dimostrare di essere preparato, bravo e pronto ad aiutare la gente. Era convinto che molti intraprendessero quella carriera solo per i soldi, mentre lui l’aveva scelta per una motivazione più vera e profonda, ovvero aiutare le persone che avevano bisogno di una mano. Certo non sempre ci sarebbe riuscito, non tutte le volte avrebbe potuto fare davvero ciò che sarebbe stato giusto per tutti, in particolare nelle cause di divorzio. Ma ci avrebbe provato.
"Non pensi sia un lavoro difficile? Non ti spaventa nemmeno un po'?"
"Rispondo sì ad entrambe le domande, ma ho lavorato sodo per arrivare fino a qui perché era il mio sogno e non mi arrenderò adesso. Per quanto riguarda il lavoro in sé sì, ho paura delle cause che dovrò affrontare in futuro, so che non riuscirò sempre a fare contenti tutti in particolare se ci saranno cause di divorzio con figli di mezzo. Saranno situazioni molto complicate che dovrò gestire con distacco professionale ma non con freddezza e sarà, credo, la cosa più difficile. Ma ce la metterò tutta per essere un bravo avvocato e fare in modo che nessuno soffra, o che lo faccia di meno. Ogni divorzio porta con sé molto dolore."
Mormorò l'ultima frase ma Demi la udì lo stesso.
Concentrato com'era sui propri pensieri, Andrew non si rese conto che una bambina stava arrivando verso di loro in bicicletta. Una delle ruote si incastrò in un buco e la piccola non riuscì più ad andare avanti. Sua mamma era molto più in là, pensò la bambina, a chiacchierare con alcune amiche, e forse non l'aveva vista. Scese e provò a liberare la bici ma non ci riuscì, e stava per andare a chiamare la mamma quando si accorse di non ricordare più dove fosse. Il parco era grande e, disobbedendo all'ordine di restare nei paraggi, si era allontanata. Demi, resasi conto della situazione, fermò l'altalena mettendo a terra le punte dei piedi e scendendo senza pensarci due volte.
"Che stai…" iniziò Andrew, poi vide e comprese.
Demi si avvicinò alla bambina, piano, per non spaventarla. Era piccola, notò, più di quanto aveva pensato all'inizio, avrà avuto al massimo sei anni.
"Posso aiutarti, tesoro?" Lei non le rispose e la guardò soltanto, un po' diffidente. "Okay, immagino che la tua mamma ti abbia detto di non parlare con gli sconosciuti, buona cosa da parte sua. Ma ti assicuro che non ti farò niente."
Sì, Demetria, vai così. Questa è la classica frase che dicono quelli che poi fanno cose orribili ai bambini pensò inorridendo.
"Andrew!" esclamò la piccola sorridendogli.
Demetria gli lanciò uno sguardo interrogativo.
"Abita vicino a me con i suoi genitori, li conosciamo abbastanza bene" spiegò il ragazzo. "Lei è una mia amica, puoi fidarti" continuò rivolto alla piccola.
"Allora," riprese Demi abbassandosi alla sua altezza e parlandole con dolcezza, "posso darti una mano?"
"Sì, grazie. Stavo giocando ad essere una principessa e lo zoccolo del mio cavallo si è incastrato."
Demetria sorrise.
"Oh, davvero? Tranquilla, lo libero subito."
Bastò una leggera pressione e la ruota della bicicletta uscì dal piccolo buco.
"Grazie!" trillò la bambina, felice.
"Posso sapere il vero nome di questa bellissima principessa?"
"Mi chiamo Amelie, sono francese. Vivo qui ma i miei si sono trasferiti da Lione da pochi anni."
In effetti, ora che ci faceva caso, la bambina non aveva un accento inglese perfetto anche se probabilmente lo parlava meglio dei suoi genitori, e la “r” leggermente moscia.
"Hai un bellissimo nome" le fece i complimenti la ragazza.
Le piaceva molto Amelie. Rotolava sulla lingua e sulle labbra con un suono dolce e quasi poetico.
"Grazie. Tu come ti chiami?"
"Demi, anche se in realtà è il diminutivo di Demetria Devonne."
"Demi mi piace di più."
"Sì, anche a me."
Ogni volta che sorrideva, gli occhi verdi della bimba si illuminavano. Si tirò una ciocca di capelli rossi dietro l'orecchio, ma questi non volevano stare al loro posto. Ne aveva davvero tanti, una chioma voluminosa e bellissima e un visetto adorabile pieno di lentiggini.
Andrew, intanto, le guardava e sorrideva. Demi aveva sempre amato i bambini e anche adesso che non stava bene era riuscita ad aiutarne uno e a distrarsi un momento. Chissà se sarebbe diventata mamma, un giorno. Lei ci sperava, il ragazzo lo sapeva, ma quello non era il momento per rifletterci con serietà. Una ragazza uscita da poco da una clinica e con tutti i suoi problemi non pensa certo di costruirsi una famiglia in breve tempo, né tantomeno di fidanzarsi.
"Perché andavi sull'altalena?" chiese Amelie alla ragazza.
Non c’erano accusa o scherno nel suo tono, solo curiosità.
"Per divertirmi un po', si può farlo anche da grandi."
"Ah sì? Che bello! Io ho cinque anni, posso farlo ancora un po' da bambina" rispose questa saltellando. "Tu quanti anni hai, invece?"
Demi rise appena ma non si offese.
"Amelie, non si chiede alle signore" la rimbrottò bonariamente Andrew, ma l'altra rispose.
"Non fa niente. Anzi, non ho mai capito perché per educazione non si debba domandare, mi sembra una cosa senza senso. Ne ho diciotto, diciannove il 20 agosto."
"Non so dov'è la mia mamma" mormorò la piccola, ricordandosi improvvisamente l'importante dettaglio che per un momento aveva dimenticato, presa da quella nuova conoscenza.
Abbassò lo sguardo e i suoi occhi si riempirono di lacrime. E se non fosse più riuscita a trovarla? Aveva fatto male ad allontanarsi. Si sentì improvvisamente sola e sperduta anche se aveva la compagnia di quelle persone e strinse le mani in due piccoli pugni per cercare di farsi forza e non piangere, ma il tremore del suo corpicino e le poche lacrime che le rigavano il viso la tradivano.
“Sta’ tranquilla, Amelie, ora la troviamo” cercò di rassicurarla Demi prendendole una manina.
Era freddissima, forse a causa della paura, e provò a scaldargliela. Le faceva pena vederla così.
"La chiamo subito, ho il numero. Ti starà cercando" disse Andrew.
"Vuoi fare un giro? Ci sai andare?" chiese Demi alla bambina indicando l’altalena per farla sorridere almeno un po'.
Grazie al cielo aveva trovato loro, altrimenti sarebbe stata ancora più male senza la mamma né qualcuno di cui fidarsi che la aiutasse.
Amelie annuì e scelse un'altalena più bassa di quella su cui era salita Demi. Uuna volta che la piccola fu in cima, la ragazza iniziò a spingerla piano. Non avrebbe mai voluto che cadesse o si facesse male per colpa sua.
"Uuuuh, sto volando!" esclamava Amelie alzando le braccia in alto.
Demetria sorrideva continuamente nel vederla così felice, avrebbe voluto esserlo tanto anche lei. Ma quella felicità infantile era sparita da molto tempo, purtroppo. Quando cresciamo, la vita ci fa capire che sa essere durissima, più di quanto ci saremmo mai aspettati. La ricaduta del giorno precedente e le sue conseguenze ne erano solo un esempio. E, anche se ora si stava distraendo, non significava che stesse bene perché non era affatto così, non era tutto passato.
"Tieniti alle catene con le mani. Ma hai ragione, sembra di volare."
"E tu sembri imbambolata. Stai male?"
"No, tutto okay."
Forzò un sorriso per non farla preoccupare e, poco dopo, videro arrivare di corsa una donna. Demi fermò l'altalena e Amelie scese.
"Mamma!" esclamò correndo verso quella che era la sua copia sputata.
"Piccola, ti stavo cercando dappertutto. Quante volte ti ho detto di non allontanarti così tanto? Andrew, grazie davvero" disse, affannata per la corsa e l'agitazione, poi abbracciò e baciò sua figlia guardandola piena d'amore. "Stai bene, eh?"
"Sì, bene. Ho conosciuto Demi, la vuoi salutare?"
"È una mia amica" si affrettò a spiegare Andrew.
“Anche mia” aggiunse la piccola con la spontaneità che caratterizza i bambini.
La donna la guardò per alcuni secondi cercando di capire se avrebbe potuto fidarsi o no, la riconobbe ma non disse nulla. Il fatto che fosse una cantante famosa, di cui tra l'altro lei era una fan, non significava che fosse una persona affidabile anche se da fuori lo sembrava. Ma qualcosa, una sorta di sesto senso di donna e soprattutto di mamma, le disse che non c'era pericolo, che sua figlia con lei era stata al sicuro.
"Grazie" mormorò stringendole la mano. "Io…" Il cuore le batteva forte, avrebbe voluto urlare, abbracciarla, dirle che la ammirava, comportarsi da fan sfegatata, ma conoscendo almeno in parte la sua situazione non fece niente di tutto questo. "Io sono una tua grande fan, ti seguo da quando è uscito il tuo primo album." Demi si domandò se stesse per chiederle un autografo, cosa che non le avrebbe negato e che le avrebbe fatto piacere. Non diceva mai di no a nessuno anche se quel giorno di certo non si sentiva in forma. In fondo però si trattava solo di una persona, non di una folla. "Ma so che non stai ancora bene, per cui ti dico solo una cosa." Andrew aveva portato Amelie sullo scivolo, quindi le due potevano parlare con calma. "Dopo la nascita di mia figlia sono finita in depressione post partum, era una depressione piuttosto grave. Non mi alzavo quasi più dal letto, amavo mia figlia ma allo stesso tempo non vedevo l'ora che qualcun altro se ne occupasse, per quanto sia brutto dirlo.” Un singhiozzo la bloccò, ma si riprese subito. “Poi mi sono fatta aiutare, ho cominciato ad andare in terapia e a prendere dei farmaci e dopo un paio d’anni sono guarita con alti e bassi. L’ho fatto per me, per mia figlia perché la amo più della mia vita e per mio marito. È stata molto dura e le tue canzoni mi hanno aiutata, per cui grazie" concluse, con la voce rotta e le lacrime agli occhi.
"No, grazie a te" mormorò Demi abbracciandola e sentendo le braccia della donna stringersi attorno a lei.
Quando poco dopo le due se ne andarono, Demetria ringraziò mentalmente la mamma di Amelie per non averle chiesto nulla, per aver forse capito che quel giorno non era quello giusto, per averle lasciato un po' di spazio. Adorava stare con i suoi fan, ma quella le aveva sì raccontato un po' della sua storia, salvo poi abbracciarla e ringraziarla non domandandole altro, trattandola insomma almeno in parte come una persona normale.
"Sono simpatiche" disse, ancora commossa, risalendo sull'altalena.
"Sì, tanto. Sei stata molto brava e gentile con Amelie."
"Mi è venuto spontaneo, adoro i bambini."
E il suo sorriso si allargò. Mio Dio, quante emozioni contrastanti quel giorno!
"Tornando a ciò di cui stavamo parlando prima, credevo davvero nella riflessione che ho fatto poco fa, anche se è molto pessimista" disse e lui ci mise qualche secondo a capire che aveva cambiato argomento in modo repentino. Ogni traccia di sorriso era scomparsa dal suo volto, ora era più seria che mai. "Sul fatto che spesso non ho fiducia nella vita, intendo. Ieri ho sofferto molto. È stata una ricaduta più forte di quello che mi sarei aspettata. Mi sono svegliata sapendo che tutto sarebbe andato storto ed è stato così, ma ogni cosa è sfuggita al mio controllo e non ero pronta. Non avevo fame e da lì sono tornate le voci, le insicurezze e tutto è precipitato. Mi sentivo sull’orlo di un precipizio nel quale poi sono caduta. Il mio dolore era immenso, come credo si sia capito, e pensavo di stare toccando il fondo un'altra volta. È stato così. Non è vero che quando lo fai puoi solo risalire. Ci sono molti alti e bassi, lo so bene."
"Ma non l'hai fatto fino alla fine, non ti sei arresa. Mi hai scritto e poi hai urlato."
Andrew non voleva forzarla a dire cose in cui non credeva o che, forse, semplicemente non si sentiva di pronunciare in quel momento perché troppo dolorose. Desiderava solo capire, come lei del resto.
Dopo essersi schiarita la voce, mentre tutto il suo corpo si irrigidiva, la ragazza continuò:
“Sentivo di non farcela più, ero stanca, avrei voluto solo essere lasciata in pace, lì, in quel bagno, per sempre. Non volevo morire, non veramente, ma smettere di soffrire. Ho pregato Dio che mi facesse sparire, non morire ma scomparire, non so cosa intendessi con questo né come mi sia venuto in mente.”
Ad Andrew mancò il respiro.
“Demi…”
“Sono stati solo pensieri, non lo desideravo sul serio, altrimenti non mi sarei tagliata poco né ti avrei scritto. Sì, hai ragione, alla fine ieri sera ho chiesto aiuto.” Silenzio da parte di lui. Demi credeva che avrebbe detto qualcos'altro, ma non fu così. Le stava lasciando i suoi tempi e gliene fu grata. Trasse un profondissimo respiro. Non era facile dire ciò che stava pensando, non lo era per niente. "Perché in fondo ci credo ancora.” Lasciò andare l’aria come se l’avesse trattenuta per mesi o anni. Era riuscita a pronunciare quelle sei parole, alla fine, alcune delle più difficili della sua intera vita. “Forse non molto, adesso, ma lo faccio” proseguì. “Ho ancora speranza."
Se non avesse avuto almeno quella si sarebbe uccisa, pensò, e invece era ancora lì a combattere.
"Nella vita. Credi nella vita" disse Andrew, ripetendo quelle due parole per dar loro più enfasi.
"Anche se fa schifo ed è ingiusta e tante volte non ti dà quello che in realtà ti meriteresti, regalandoti invece periodi molto bui dei quali faresti volentieri a meno" concluse lei. "Ma sì, io ci credo, ci voglio credere ancora. E lo faccio per la mia famiglia e per te, perché so che mi volete bene e mi starete sempre accanto; non ho idea di dove sarei senza di voi. E un po', forse, anche per me stessa. Se sto tentando di superare tutto questo significa che, almeno credo, sono più forte dei miei problemi, delle mie malattie e sto tentando di tornare ad una vita normale e migliore. È per questo che ci credo, per smettere di sopravvivere e tornare a vivere. Ma non sempre tutto ciò è abbastanza."
Anzi, per il momento c'erano tanti giorni nei quali non lo era affatto. Tutte quelle motivazioni non sembravano sufficienti, parevano stupide, senza senso. La vita stessa lo era, a volte. Ma la speranza non si spegneva mai, l'importante era questo, anche quando i motivi per cui andare avanti non erano così chiari, come avvolti dalla nebbia o erano troppo pochi. Demi non sapeva perché quella fiammella resistesse nonostante tutto, forse non l’avrebbe mai capito, ma non importava. Il processo di guarigione è lungo e non si ferma mai, Demi l'aveva compreso. Doveva solo darsi tempo, forse qualche anno più tardi avrebbe visto tutto in modo più nitido. Sarebbe stato semplice attendere e continuare a lottare tra alti e bassi? Assolutamente no, e tante volte avrebbe pensato di mollare, ne era sicura. Ma credeva nelle parole della propria canzone: con difficoltà, nonostante i vetri delle finestre rotte attorno ai suoi piedi, si sarebbe alzata da terra come un grattacielo.
Andrew la abbracciò.
Demi gli aveva parlato di tutte quelle cose già in passato, lo faceva spesso, lui sapeva.
"Volevi essere salvata" mormorò. "Sei forte, hai avuto il coraggio di lottare."
Il suo migliore amico non era una di quelle persone che pensano che chi tenta il suicidio, o la fa finita o vuole sparire o morire sia debole perché non ha combattuto, non l'avrebbe mai fatto e nemmeno lei era così. E tagliandosi la ragazza aveva espresso, certo in un modo pericoloso, la propria disperazione. Ma in quella specifica situazione, Demi non si era fatta tagli molto profondi e aveva chiesto aiuto. Per farlo ci vuole forza, così come ce n'è bisogno per combattere. Quel che era riuscita a fare non era scontato.
Il loro abbraccio durò minuti interi. Le loro lacrime si mescolarono unendosi in un unico pianto, il dolore dell'una era quello dell'altro così come tutto il mare di emozioni che entrambi provavano come se fossero stati una persona sola, un unico cuore, un’anima sola. Demi dimenticò il dolore alle braccia per concentrarsi sul calore del corpo del suo amico che la stringeva, sui loro respiri spezzati, sui cuori che sembravano battere allo stesso frenetico ritmo, tutte cose che la facevano sentire, almeno un po’, viva. Viva nonostante tutto. In quel momento uno spicchio di sole sbucò da dietro le nuvole grigie. Un altro segno di speranza? Forse, certo era che fece sorridere i due amici nel pianto. Poco dopo ripresero la via di casa stringendosi ancora di più la mano e promettendosi, come avevano fatto tante altre volte, che ci sarebbero sempre stati l'uno per l'altra. Demi gli sorrise in modo che lui capisse che voleva provarci con tutta se stessa, che nonostante le mille difficoltà avrebbe continuato ad avere, sperava, il coraggio di lottare.
 
 
 
credits:
Demi Lovato, Skyscraper
 
 
Stacie Orico, Strong Enough
 
 
 
NOTE:
1. nel libro Dianna scrive che Demi, durante una visita dei genitori e delle sorelle mentre era ricoverata, ha fatto ascoltare loro  la canzone dicendo che l’aveva composta prima di entrare lì e tutti si sono emozionati. Più avanti dice anche che Demi ha veramente pensato quelle cose riguardo un possibile incidente mentre vi si recava.
2. L’episodio di Demetria e la ragazza autolesionista è inventato, ma è vero che per un periodo lei non voleva stare lì.
3. Mi sono informata sul modo in cui curare i tagli leggendo vari articoli su alcuni siti internet e chiedendo informazioni a qualcuno che conosco.
4. Demi forse ha fatto un errore a non andare in ospedale, ma non tutti reagiscono bene all’idea di recarvisi pensando che il problema sia di poco conto. Sperando che sarebbe passato, Andrew ha deciso di aspettare. Per fortuna poi si è risolto tutto.
5. In un’intervista a Demi è stato chiesto quali canzoni l’avessero aiutata durante il periodo in clinica e lei ha  detto che una era quella da me citata.
6. Ciò che Demi faceva per nascondere i suoi disturbi alimentari e l’episodio dei bracciali sono veri, li ho letti in un articolo su “People” in cui le venivano poste anche delle domande a riguardo. Ha parlato solo di altre zone in cui si tagliava, non so quali fossero.
7. Nel memoir Dianna spiega molto bene di non aver dato peso ai problemi della figlia perché la sua malattia le faceva vedere tutto in maniera distorta, sospettare ma non realizzare davvero. L’episodio di Dallas e dei siti internet è tratto da lì.
8. In un video di YouTube in cui rispondeva ad alcune domande dei fan, Demi ha detto che i suoi cibi preferiti sono il cioccolato e la pizza, e anche la questione dei tatuaggi è eale: li ha davvero e li ha fatti a marzo 2011.
9. Ho trovato su vari siti internet le informazioni su come diventare avvocato in California. Tuttavia erano molto complicate, spero di aver compreso bene tutto. Risalgono al 2016 e non so se nel 2011 le cose fossero uguali.

 
 
CONCLUSIONE


E così, anche questa storia è terminata. Ci ho lavorato per quasi tre settimane più alcuni giorni per revisionarla, all'inizio pensando di lasciarla tutta unita e poi dividendola in capitoli, scrivendo e riscrivendo, avendo dubbi, piangendo per le emozioni che facevo provare alla protagonista. Emozioni che, in parte, sento anch'io per quanto riguarda l'ansia e il panico che, come avete visto, possono essere devastanti.


Mi rendo conto che scrivere una conclusione decente ad una storia con tematiche tanto forti, e di certo non facile da leggere dal punto di vista emotivo è difficile, perché non so bene cosa dire e, almeno spero, i personaggi hanno già spiegato molte cose. Quando l'ho iniziata sapevo come sarebbe terminata, ma non ero preparata al fatto che la risalita della protagonista sarebbe stata un po' anche la mia. In questi giorni, attanagliata da ansia e attacchi di panico per vari motivi che non sto qui a spiegare, mi sentivo meglio solamente quando aprivo il file e scrivevo; perché anche se si trattava di emozioni negative tirarle fuori mi ha aiutata.
 
Le ricadute esistono, a volte si pensa che un giorno, una settimana, un mese buoni siano un segno che la persona è uscita dal problema, ma non è così semplice. E il fatto che Demi si fosse sentita meglio dopo il ricovero non significa che sia guarita, era questo che volevo far capire, perché disturbi del genere restano per tutta la vita. Sì, magari poi uno si fa una famiglia, non ci pensa, se sentiva le voci non lo fa più, però forse a volte qualche problema con il cibo ritorna, le insicurezze sul proprio corpo anche così come il bisogno di tagliarsi… certi pensieri e sensazioni non vanno mai via.
 
Per quanto riguarda l'autolesionismo, argomento che per varie ragioni mi tocca da vicino, spero di aver reso bene tutti i sentimenti ad esso connessi, in parte inventando e in parte riportando, non parola per parola ma con i fatti, cose che Demi Lovato ha veramente detto durante un'intervista, come ho scritto nella nota numero cinque del secondo capitolo.
 
Per quanto concerne, invece, i disturbi alimentari, mi auguro di aver fatto capire che partono dalla testa, che non basta dire “Mangia” per aiutare una persona con quei problemi o che lei non lo fa per attirare l’attenzione, o perché mangiare non le piace o perché, semplicemente, vuole dimagrire. L’anoressia, la bulimia, il binge eating e altri vanno molto più in profondità di così. Sono tutti problemi che hanno in comune una cosa: il dolore che li scatena.


Desidero che arrivi un messaggio da questa storia: si può stare meglio e non voglio in alcun modo romanticizzare l'ansia, gli attacchi di panico, i disturbi alimentari o l'autolesionismo. Non c'è nulla di dolce in tutto ciò, nemmeno nella depressione o in altri problemi. E non se ne esce in mesi, ma dopo anni di terapie, sia psicologiche sia, quando ce n'è bisogno, farmacologiche. Demi ci ha messo anni per stare meglio e io lotto contro la depressione da quattro, da quando mi è stata diagnosticata. Tante storie non danno abbastanza importanza a tutti questi problemi minimizzandoli, scherzandoci su o dando addirittura informazioni sbagliate, tutte cose che odio.


Mi auguro che, come questa difficile risalita di Demi è stata, metaforicamente parlando, un po’ la mia, abbia lasciato qualcosa anche in voi: un ricordo, un piccolo segno, una riflessione sulla situazione da me creata o sui vari disturbi dei quali ho parlato. Grazie a tutti per essere arrivati fino alla fine e per aver fatto questo viaggio con me, con noi, anche se è stato difficile. E grazi in particolare a _FallingToPieces_ per avermi dato alcune informazioni che mi sono state utili. Ringrazio anche tutte le altre mie amiche che mi incoraggiano sempre e aiutano quando serve.
Infine, un ultimo grazie particolare a tutti i personaggi, famosi e non, che hanno vissuto con me questi momenti duri e soprattutto a Demi, che non ha mollato e ha avuto il coraggio di lottare.

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