Il prodigio

di _candyeater03
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Terminal ***
Capitolo 2: *** II - Fiducia ***



Capitolo 1
*** I - Terminal ***


I

 Terminal

 


Signorina, si sente poco bene?”
 
Le labbra stanche di lei si contraggono per un riflesso automatico, tremano nel vano tentativo di mimare uno dei suoi tipici sorrisi orgogliosi. Il secco sguardo non riesce tuttavia a sollevarsi di conseguenza, rimane invece assente, imperturbato, sempre bloccato su un istante vuoto.
Nonostante il debole sforzo, il suo volto appare pregno di velenose emozioni. Le sue gote sono scarlatte, i suoi occhi gonfi e lucidi. Piccole lacrime brillano ancora impigliate tra le sue ciglia sottili, scivolano portandosi dietro un rivolo grigiastro di mascara. Qualche singhiozzo incontrollabile le agita talvolta il petto, alterando il ritmo lento e profondo del suo respiro.
Vedi di contenerti, ti stanno guardando tutti. Sei tu la stella, dopotutto.
Aspettano solo di vederti crollare.
 
Appena la donna seduta alla sua destra tenta di confortarla accarezzandole il braccio, il volto di questa scolorisce in un pallore mortificato. Non si aspettava che la ragazza si sarebbe ritratta dal contatto con una repulsione tanto irruenta.
“Oh mi scusi, non intendevo spaventarla.”
 
Franziska scuote il capo, inarcando le sopracciglia.
Vorrebbe poterle dire che no, non si è ritratta per lo spavento, ma perché da quella spalla le è stato appena estratto un proiettile, e a toccarla fa ancora male. Vorrebbe poterle spiegare in modo esauriente la serie di ridicole sconfitte che ha dovuto incontrare di recente nella sua vita privata e lavorativa. Vorrebbe poterle ordinare di non preoccuparsi, di lasciarla in pace, di guardare altrove, perché attirare attenzione in questo momento è l’ultimo suo desiderio.
Ma lei sa che la sua voce adesso è flebile, sa che cercare di parlare in una simile condizione la renderebbe solo più vulnerabile. Sa di non avere carisma o naturalezza nel mentire, sa che dire qualsiasi cosa in questo momento le costerebbe tutto ciò che le rimane della sua dignità. Sa che la sua coscienza è anestetizzata dal dramma di una realtà che non ha il coraggio di affrontare, e sa che tentare adesso di comprenderla la porterebbe solo ad una crisi ancora peggiore. Allora si limita ad esibire con calma un cenno di congedo, nella speranza di riuscire a dissipare l’indesiderata amichevolezza.
 
Maledetti gli americani e la loro inutile cortesia!
La donna la osserva ancora per qualche secondo, giungendo d’un tratto all’evidente conclusione di star solo peggiorando il suo umore. Prima di allontanarsi per lasciarle il debito spazio, le lancia un ultimo, dolcissimo sguardo di materna apprensione.
Ecco Franziska von Karma, il prodigio. Che attira pietà piangendo in un luogo pubblico.
 
Da una delle tasche del suo cappotto si leva a un tratto un breve squillo, la timida notifica di un messaggio sul cellulare. La sottile vibrazione la desta con veemenza dalla sua nube di pensieri vuoti, amplificata dal nervosismo della sorpresa. Chi la sta cercando, adesso?
Per un momento ella osserva sullo schermo tutte le conversazioni dell’ultimo periodo a cui non si è sentita di dare attenzione, conversazioni non visualizzate, ignorate, abbandonate senza risposta. Osserva nella vana attesa che il fastidio causato da un simile disordine inizi a dissolversi per abitudine, riuscendo tuttavia solo a gettarsi ancora in uno stato di spiacevole ansia confusa. Mentre naviga tra le rinnegate corrispondenze le sovviene ogni dovere non ancora adempiuto, ogni problema non ancora risolto, ogni compito infinitamente procrastinato; fallimenti vergognosi e mancati riscatti si susseguono in trista processione nella sua memoria. Il ritmo orrendo del suo battito cardiaco le palpita nelle orecchie, tiepide lacrime bagnano di nuovo le sue palpebre.
Un tempo eri così ordinata. Era una delle tue qualità migliori.
Cosa ti è successo?
 
Cosa ti è successo? Devo preoccuparmi?
 
È stata sua sorella a scrivere. Deve aver acceso il cellulare, finalmente.
Franziska ha tentato di chiamarla ore fa: ha chiamato due, tre, quattro, cinque volte, prima di avvertirla della partenza improvvisa con un messaggio in segreteria. Per quanto realistico potesse apparire il falso distacco nella sua voce, avrebbe dovuto immaginare di non riuscire a convincerla che andasse tutto bene.
Quando non è troppo presa da sé, Nina riesce sempre a vedere dietro la sua maschera.
 
Dammi qualche dettaglio almeno!
 
Franziska conosce il programma alla perfezione, potrebbe dare mille dettagli se solo lo volesse. Ma pensare adesso alle prossime ore le infonde una stanchezza opprimente. In un istante le si imprime nella mente la scoraggiante immagine della notte di sonno che sarà costretta a perdere, che la priva di ogni desiderio di ricordare orari, spiegare mezzi o commentare previsioni.
 
Ti prego, non farmi domande, oggi non sono in vena.
Dovrei essere a tiro per mezzanotte.
Dimmi se per te ci sono problemi.
 
Mentre rimira distratta la melanconica immagine di sé riflessa nello schermo nero del suo cellulare, la ragazza ripercorre con la mente ogni evento, ogni istante, ogni situazione che l’ha condotta a questo presente tanto estraneo. La sua memoria degli ultimi mesi non è che un flusso confuso, ha qualche difficoltà nel ricordare gli esatti momenti in cui le sono state strappate tutte le verità fondamentali, tutte le più profonde convinzioni, tutti i talenti di cui sempre ha avuto orgoglio.
Guarda, guarda, guarda il suo riflesso, ma non si riconosce.
 
Va bene Fran, stai tranquilla
 
Chiamami quando stai per arrivare così ti passo a prendere
 
Dobbiamo festeggiare il grande ritorno :)

 
Perché detesti i viaggi così tanto? Quando eri piccola ti piacevano.
Frammenti di innumerevoli ricordi iniziano a fluire rapidi e brillanti lungo la sua coscienza, quasi privi di contesto, generando un brivido leggiadro che le attraversa il corpo. Per qualche motivo che non riesce a comprendere, il profondo senso di familiarità che queste memorie le suscitano evoca solo una nostalgia antica, strana, senza speranza, che le stringe il cuore.
 
Quando era bambina, gli spostamenti non erano mai troppo eccitanti. Essendo spesso costretto a lavorare oltreoceano per brevi periodi, accadeva di frequente che suo padre portasse con sé anche la famiglia. Tuttavia, fatta eccezione per l’inusuale libertà di potersi svegliare a qualsiasi ora, queste giornate di vacanza si svolgevano in maniera del tutto grigia e ordinaria. Non vi era motivo per cui una ragazzina come lei avrebbe dovuto trovare divertenti delle circostanze simili. In effetti, non era questo il caso.
 
Quello che lei amava era la serie di inevitabili ricorrenze che finiva per accompagnare ogni viaggio. Non sono forse le tradizioni, le ripetizioni, i ricordi, a custodire la facoltà di creare momenti perfetti?
Per quanto lei possa a mente lucida vederli solo come una serie di sciocchi rituali, i suoi ricordi più cari ne sono intrisi, e così i suoi desideri, il suo cuore. Senza volerlo li tiene stretti stretti dentro di sé, li respira, li protegge, li vive. Sono tutto quello che le resta, tutto quello che per lei vuol dire casa.
Perché i suoi sciocchi rituali l’hanno sempre resa felice.
 
Era felice il giorno prima della partenza, quando andava a letto presto dopo aver trascorso il pomeriggio a preparare i bagagli. Era felice quando, durante il tragitto in macchina fino all’aeroporto, fingeva di dormire, il capo appoggiato al finestrino che vibrava appena della musica lieve della radio. Era felice quando poteva sentire l’aereo decollare, perdere ogni legame con la gravità, era felice quando, guardando fuori, si scopriva più in alto delle nuvole. Era felice quando lei, e Nina, e Miles, e papà si fermavano a pranzare al solito ristorante in fondo alla strada, senza nemmeno passare a posare le valigie. Ed era felice quando tornavano a casa nel cuore della notte, e si sedevano in cucina con la solita tazza di tè alla lavanda, discutendo tra i vaghi fumi del sonno di quello che gli era accaduto, delle persone in cui si erano imbattuti, dei film che avevano visto in aereo.
 
In verità il tè alla lavanda non le piaceva per niente. Probabilmente non piaceva proprio a nessuno. Quanti dei suoi rituali avvenivano solo per capriccio, per accontentarla? Quante volte, per quanti anni hanno bevuto tutti insieme quel tè, soltanto perché a lei stava a cuore?
Franziska detesta ammettere l’evidenza, eppure adesso riconosce che tutti i suoi ricordi, tutte le sue piccole ripetizioni che sembravano così speciali, in verità lo erano solo per lei.
 
Smettila con questi pensieri inutili. Fattene una ragione.
 
Senza volerlo ha iniziato a giocare con l’oggetto che per caso teneva in mano, piegandone gli angolini avanti e indietro. Che sia per la noia, per la rabbia, per la tensione?
Si tratta del biglietto da visita di Shelly de Killer; il volto di Phoenix Wright vi è rappresentato in un grossolano schizzo a penna. La sola vista della sua caricatura le ricorda tutta la frustrazione, tutto il disgusto, tutta la fatica delle ultime settimane. Non riesce a guardare quel biglietto senza che un principio di disagio irrefrenabile monti dentro di lei, portandole ulteriori lacrime agli occhi.
 
Strappalo! Strappalo! Buttalo via!
 
No.
 
No, infatti, no. Ti sta bene. Devi ricordare la tua sconfitta!
Sei una fallita! Fallita! Sei inutile! Non riesci nemmeno a fare ciò che è necessario!
 
Necessario. Vincere è necessario.
Da quando è stato così? Per quanto si sforzi, Franziska non riesce a ricordare alcun momento della propria vita in cui questo suo perfezionismo universale, questo suo morbo intrinseco non l’abbia avvolta, condizionata, stretta a sé. Vincere è necessario. Non puoi sbagliare mai.
 
Subito le tornano alla mente tutti i pomeriggi passati a preparare i suoi casi perfetti, a memorizzare orazioni, a considerare ogni alternativa, ogni possibilità, fino a non lasciar più margine d’errore. Ricorda le notti insonni, i singhiozzi, le lacrime insensate che bucavano i fogli dei suoi appunti, perché lei voleva dormire, ma aveva bisogno di studiare, di prepararsi, di vincere. Ricorda la pena, la rabbia, gli attacchi d’ansia soffocati nel silenzio freddo della sua stanza, per non svegliare nessuno. Ricorda i tubetti di pallido correttore, i sorrisi altezzosi, le arringhe crudeli, ricorda tutti i disperati tentativi di celare la sé che aveva vergogna di essere.
 
Non puoi sbagliare mai. Per quanto desideri confutare, rigettare questa tesi, nel profondo sente che non sarà mai in grado di farlo. Lei ci crede, ci crede con tutto il suo cuore.
Non sarebbe forse terrificante, catastrofico abbandonare la ricerca della perfezione? Cosa le resterebbe poi della sua identità, della sua persona, quali successi potrebbero soddisfarla?
È il suo fardello, la sua eredità. Un dogma scritto nei suoi geni e nella sua anima, plasmato dalle lodi dei suoi insegnanti, dalle carezze di suo padre, dalla sua carriera eccellente. Una razionale convinzione che coltiva in sé fin dal suo primo giorno di scuola, dal suo primo esame, dal suo primo processo. Non puoi sbagliare mai.
 
Franziska ripone il biglietto da visita, rivolgendo uno sguardo annacquato alla consueta frenesia dell’aeroporto. Non può che chiedersi cosa dovrebbe fare ora.
 
Cosa succede adesso?
Cosa bisogna fare?
 
Devi tornare come prima.
Deve tornare tutto come prima.






NdA:
Ciao a tutti! Sono di nuovo io!
Vado un po' di fretta quindi sarò breve. Ho iniziato questa ff diversi mesi fa, ma mi sono decisa a continuarla e pubblicarla solo ora. Nella mia mente era nata come one-shot, ma ora come ora credo che sarà almeno di cinque capitoli. 
Il personaggio di Franziska mi è sempre piaciuto molto, perché in un certo senso mi ricorda me stessa anche se io cerco di non andare in giro a frustare le persone lol. Ci sto mettendo tutto il mio cuore e, tanto per restare in tema, anche tutto il mio disagiato perfezionismo. Dai, speriamo che esca bene :)
Eh niente. Probabilmente il secondo capitolo uscirà tra un bel po'. Ma non so nemmeno se qualcuno leggerà questa roba, quindi il problema potrebbe anche non porsi xD
Nel frattempo statemi bene amici.
Ci vediamo!

Candy<4

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Capitolo 2
*** II - Fiducia ***


II

Fiducia
 


 
2 aprile 2013
 
Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene.
Non c’è bisogno di preoccuparsi.
Andrà tutto bene.

 
Con un sospiro tremante, Franziska rivolge allo specchio il suo sorriso più luminoso.
Ha tutto il diritto di sentirsi fiera. Non è cosa da tutti ricevere, in così giovane età, l’incarico di risolvere casi criminali. E a maggior ragione portare a termine il compito con tanta maestria.
Certo, l’agitazione è naturale. Si tratta del suo primo processo, dopotutto.
Nonostante ciò, è sicura di essersi preparata al meglio. Ha raccolto prove abbondanti, oltre che decisive, si è curata di interrogare ogni individuo coinvolto con la massima precisione, ha studiato ogni documento rilevante da cima a fondo. Ora le servono solo dieci minuti per ripassare.
Non c’è nulla che potrebbe andare storto.
 
Se il fon decide di cooperare, almeno.
 
Per qualsiasi angolazione guardi il suo riflesso, le punte sono ancora bagnate, senza equivoco.
Franziska prende tra le dita una delle sue ciocche chiare, sbuffando con irritazione. Niente da fare. È la terza volta che spegne l’asciugacapelli, solo per poi rendersi conto di averne ancora bisogno.
 
La radio accesa nella stanza vicino, in pausa tra due canzoni, annuncia l’ora.
Otto e mezza in punto.
 
Oddio. No, no, non va bene per niente!
Certamente non vorrai presentarti in tribunale così!
Come fai adesso? Perché diamine hai avuto quest’idea?
Che disastro! È terribile!
 
“Franziska?”
 
La ragazzina sussulta. Nella tensione del momento il richiamo improvviso la coglie di sorpresa, le rimbomba nelle orecchie forte e inaspettato come un colpo di pistola.
Dietro alla porta socchiusa della stanza, Manfred von Karma si sta sporgendo con discrezione. Non solo è già pronto, ma sembra addirittura impaziente di uscire.
“Muoviti, andiamo tra quindici minuti.”
 
“Ci sono quasi”, risponde lei, “un secondo.”
I capelli le ricadono ancora pregni sul collo, carezzandole le spalle con il loro tocco umidiccio. Rimirandosi ancora una volta nello specchio, arriccia le labbra in un broncio innervosito.
“Mi dai una mano per favore?” Franziska porge il fon a suo padre, facendogli segno di entrare.  “Non si asciugano.”
 
Dopo un breve sospiro di scettica contemplazione, egli annuisce con un cenno del capo.
Avendo due figlie già grandi è più che abituato a gestire simili situazioni. E per giunta – inutile precisarlo – gli riesce pure bene, come del resto qualsiasi altra cosa.
Una volta acceso l’asciugacapelli a media potenza, per non surriscaldarlo, comincia ad usarlo con grande concentrazione, spostandole appena il capo quando necessario. Il compito, all’apparenza seccante, non turba comunque la sua espressione compiaciuta.
 
Sulla guida vaga della radio ancora accesa, l’uomo inizia senza accorgersene ad intonare il brano corrente. Accenna piano la melodia, appena appena, con una certa spontanea serenità.
 
Franziska ne è sorpresa. In genere sente suo padre cantare solo a Natale, controvoglia, quando prima o poi cede preso per sfinimento dai commenti sarcastici di Damon.
Quando mai è stato dell’umore di farlo di propria volontà? Oggi dev’essere particolarmente contento. Del resto non accade tutti i giorni di vedere per la prima volta un figlio incamminarsi nella propria medesima direzione, propagare ancora la tanto cara tradizione familiare.
 
Non che si tratti proprio della prima volta, ad essere precisi.
Già da diversi mesi Miles si trova negli Stati Uniti, dove al momento lavora come pubblico ministero. Pur dopo un debutto piuttosto spiacevole, la sua carriera ha come subito preso il volo. Ormai in America tutti lo conoscono, parlano di lui, lo considerano un genio.
 
Eppure – Franziska ne è certa – adesso si tratta di una cosa diversa.
Del resto è lei la vera erede della dinastia von Karma. È lei che suo padre ha incoraggiato, spronato, corretto di più. È lei che ha sempre indirizzato verso questa via, verso questo giorno. Nonostante la naturale riservatezza, egli non può in alcun modo celare l’emozione straordinaria di questo momento. Le iridi dell’uomo brillano di una soddisfazione intensa, quasi commossa, che Franziska non gli ha mai visto in volto.
 
“Oggi non puoi sbagliare,” esordisce egli d’un tratto, raccogliendo un pettine dal primo cassetto, “la prima impressione è importante. Comunque non dovresti avere problemi.”
Subito inizia a districarle i capelli ormai asciutti, facendo attenzione a non tirare con troppa forza. Pettina con calma, ciocca per ciocca: parte dalle punte per poi risalire poco alla volta verso le radici. Oltre la farsa abituale dell’avvocato crudele, è in questi piccoli gesti non ragionati che senza volerlo emerge la sua natura più autentica. Le scioglie i nodi con precisione curata, con una certa rispettosa delicatezza.
Franziska lo trova ironico. Chi mai accosterebbe l’idea di delicatezza al temuto procuratore von Karma? E di delicatezza rispettosa, per di più. Certo non si addice alla sua immagine pubblica.
 
Per alcuni istanti Manfred sposta lo sguardo allo specchio, studiando il volto riflesso di lei. Analizza attento la sua espressione, ogni particolare, dalla curva delle labbra al colore delle guance, dalle sopracciglia contratte alla fronte corrugata. Lo sa lei di essere patetica, di non saper dissimulare, di non ispirare rispetto, né tantomeno timore, lo sa di avere ogni emozione come scritta addosso.
Ora guarda fisso in basso, con l’agitazione che le arrossisce in viso.
“Ti vedo nervosa”, constata suo padre, tornando a pettinarle i capelli.
 
E certo che sono nervosa, che ti aspetti?
Oggi mi sta andando tutto male. Ci manchi tu a chiedermelo!
 
“Certo che no”, risponde lei, rovistando con urgenza nella trousse accanto al rubinetto, “va tutto bene.”
Senza nemmeno guardare dentro, la ragazzina raccoglie ciò che le serve per truccarsi. Prende solo gli elementi basilari, quelli più semplici: a mettere il resto non è capace, e poi nemmeno le serve. Ora vuole solo coprire, coprire in fretta, coprire immediatamente.
 
“Non devi preoccuparti,” continua l’uomo, ignorandola del tutto, “guarda che non è un caso difficile. Puoi benissimo vincere anche oggi.”
Franziska deglutisce. In tutta fretta apre la consunta confezione del fondotinta, iniziando ad applicarlo con pennellate decise. Era davvero così ovvio che stesse mentendo?
 
In verità quel fondotinta lo detesta. Per la sua pelle non funziona, la irrita, le prude, la infastidisce. Pur cercando sempre di tenerlo solo per poche ore alla volta, finché lo ha addosso non riesce a pensare ad altro che non a quanto senta il proprio volto pesante, secco, estraneo. Nemmeno la tonalità, di un candido pallore poco naturale, si abbina a dovere alla sua carnagione.
Eppure deve metterlo per forza, perché a mascherare le sue reazioni funziona in maniera eccellente. Non ne trova altri che riescano a mantenersi con altrettanta persistenza, e insieme a conferire al suo volto una così credibile aura d’apatia.
 
Quando deve toglierlo fa fatica, naturalmente. In genere finisce per grattarlo via, le unghie di entrambe le mani coperte da uno strato di cotone imbevuto di soluzione struccante, solo per scoprirsi ancora più rossa e più acneica della notte prima. Ma, finché lo ha addosso, si sente al sicuro.
 
Manfred la vede distratta. Le dà un leggero colpetto sulla spalla, per attirare la sua attenzione.
“Vincerai di sicuro”, ripete lui, abbassando un poco il tono di voce, “capito? Non ti preoccupare.

 
“…Sì. Certo”, risponde la ragazzina, con poca convinzione.
Si è appena accorta, nella fretta, di avere utilizzato per sbaglio il pennello per il blush. Non che lei sia in grado di applicarlo: quasi non sa nemmeno perché quell’oggetto si trovi lì. Forse risale addirittura ai tempi in cui sua sorella viveva ancora insieme a loro. Forse Nina l’ha abbandonato in favore di altri pennelli più nuovi, più belli, più costosi. In effetti, guardandolo meglio, sembra pure di scarsa qualità. Perfetto.
Franziska torna a frugare nella trousse, ma senza risultato. Il pennello giusto non c’è. Chissà dove l’ha lasciato. Non le resta che continuare a usare quello di prima, per quanto adesso lo senta sbagliato.
 
Per alcuni istanti, la ragazzina cerca di rigettare il turbamento irragionevole che questa incongruenza le ispira. Non ti devi fare problemi – pensa tra sé e sé – tanto uno vale l’altro. E ci prova, ci prova, prova ad ignorare il pensiero, ma adesso la sola vista di quel pennello la fa rabbrividire di fastidio. Perché è fuori posto, ed è grave, anche se non lo è. Ora sente le guance riscaldarsi, le sente bruciare, bruciano così tanto che le è difficile respingere l’impulso di versarsi dell’acqua addosso. Una morsa senza senso le si stringe spietata attorno alla gola, fino a farle quasi lacrimare gli occhi.
È solo un maledetto pennello – pensa di nuovo – perché piangi? Perché devi piangere per queste cose? Sei un’idiota! Idiota, idiota, idiota!
 
Suo padre non dice nulla. Del resto, a confortare gli altri non è mai stato questo granché. Il meglio che può fare adesso è guardare da un’altra parte, dandole il tempo di risolvere la questione da sola.
In un certo senso, lei gli è grata. Il pensiero di essere compatita la fa rabbrividire. Ora vorrebbe solo essere lasciata in disparte.
Tale padre tale figlia, insomma.
 
Ancora stanno in silenzio. Lui continua a pettinarle i capelli, lei è passata al correttore. Una volta Nina le ha detto che ostruisce i pori, di non usarlo più, ma adesso non le importa. Un poco sotto gli occhi, sul naso, intorno alle labbra, e poi via di spugnetta.
 
Franziska immagina i suoi prossimi momenti liberi, pensa a quando potrebbe prendersi cinque minuti per farsi un bel pianto. È un pensiero strano, quasi una fantasia. La distoglie dalla gran voglia di piangere che avrebbe ora.
Potrei chiudermi in bagno durante la pausa. Ma solo se è di almeno quindici minuti.
Altrimenti va bene anche più tardi, prima di pranzo.
Oppure di pomeriggio. Nina oggi non ha il consiglio di classe? Dovrebbe lasciarmi a casa per le quattro. E papà non torna prima delle otto.
Per qualche motivo questi ragionamenti la fanno sentire in controllo, padrona di sé. È una sensazione che la rincuora, e che in un certo senso riesce a calmarla. Forse non le serviranno quei cinque minuti, alla fine.
 
Man mano, tuttavia, che quasi riesce a tranquillizzarsi, il problema più imminente le si rivela con nitidezza sempre maggiore, fino ad esploderle addosso in un carico istante di rivelazione. Il processo. C’è ancora il processo. Quest’idea le si riversa addosso lungo un brivido sgradito, con rinnovata tensione. Sta davvero per succedere.
Merda, che ansia. Merda, merda, merda.
 
Franziska chiude il correttore, inizia a darsi una mano di mascara. Una volta finito si guarda, non va bene: le è rimasta una macchiolina sulla palpebra. Per fortuna c’è rimedio. Basta appena il tocco di una salviettina struccante a cancellarla, ora è tutto perfetto. Fosse quello il suo unico problema!
 
Con un ultimo colpo di pettine, suo padre le sistema la frangetta asimmetrica. Ora ricade ordinata, su un lato, non una ciocca fuori posto.
“Grazie”, mormora lei. La sua voce è uscita così fievole, senza volerlo, che la ragazzina non sa nemmeno se lui abbia sentito.
 
Manfred ripone il pettine dentro il cassetto da cui l’aveva preso. Adesso esita, resta fermo davanti a lei: sembra in bilico tra il parlare e il non, come se volesse dire qualcosa ma faticasse a pronunciarlo.
Per qualche secondo si limita a guardarla in silenzio. È uno sguardo che Franziska ha visto molte volte, anche se di rado amplificato fino a questo punto. Quelle iridi chiare, così simili alle sue, risplendono di orgoglio, dell’amorevolezza schiva di chi non riesce a esprimerla con le parole.
Ora le sorride, appena appena, le dà un bacio sulla fronte. È un gesto breve, fuggevole come sempre, di una piccolezza familiare.
 
Franziska sa che non appena metteranno piede in tribunale inizierà a trattarla in modo diverso. Inizierà a dirle parole diverse con un tono diverso, a guardarla con occhi diversi. In un certo senso capisce perché. È per insegnarle, si ripete, è per essere professionali. Lei stessa ammira il modo in cui lui riesce a farsi temere.
 
Però non lo coglie fino in fondo, quasi la ferisce. Perché? Perché separare, perché fingere? Perché comportarsi in questo modo, perché negarle anche questo affetto discreto? La ragazzina ricorda che atteggiamento aveva il giorno del primo processo di Miles, ricorda il momento in cui lei gli aveva chiesto se sarebbe venuto anche al suo primo processo. Vedremo, le aveva detto. Lui, che non era mai mancato a un saggio che fosse uno.
Certo, nemmeno il suo fratellino aveva ricevuto un trattamento caloroso. Quel giorno Manfred lo chiamava per cognome, gli parlava con sufficienza. Perché trattare Miles come un subordinato, un dipendente qualsiasi? Perché trattare così anche lei?
 
“Sai che mi fido di te”, le dice adesso, distogliendo di un poco lo sguardo.
Lo so, pensa, lo so benissimo. Sa che per lui sono parole difficili da pronunciare, che se si è disturbato di dirle devono essere sentite per forza. Il problema è che lei non si fida.
Quasi la snerva, vederlo così sicuro. Perché? Perché sei così convinto che io vinca? Perché continua a pensarlo chiunque? E se perdessi? Se fallissi? Che penseresti se distruggessi la mia carriera? Che penserebbero tutti? Già credono che sia una bambina prodigio. Tu lo fai da prima che potessi conoscermi.
Non potevi andarci piano con le aspettative?
 
In un istante le iridi di lui tornano ad incrociare le sue: attende come un qualche segno, una risposta, una conferma. Ma Franziska riesce appena appena a sostenere lo sguardo, senza dire una parola. Ad ogni secondo che trascorre immobile il tumulto dentro di lei pare prendere forza; inizia a percepire un vuoto, una voragine nelle sue viscere. Ciò che vi affonda per primo, per un crudele paradosso, è proprio tutto quel coraggio, tutto quell’orgoglio, tutta quella speranza che ora splende fiera negli occhi dell’uomo.
 
Ora non è solo nervosa. È terrorizzata.
 
 
 *
 

“Scusami Fran”, sua sorella studia i due piatti con sguardo mortificato, prima di posarli ai lati opposti del tavolino, “forse dovresti metterci del sale.”
In accordo perenne con il proprio umore, Nina si muove tra i fornelli con esiti piuttosto volubili. Spesso, negli ultimi anni, Franziska ha assaporato le deliziose, ordinarie, insoddisfacenti sfaccettature della cucina di lei. Ha visto piatti conditi di dolce speranza, affogati dentro estive allegrie, ma anche intrisi di noia, di dubbio, cotti tra nere lacrime.
 
Osservando con scetticismo la sua febbricitante metà di omelette, la ragazzina scuote il capo. Dovrebbe saperlo ormai che questi inviti a pranzo non sono che scommesse cieche, pilotate dal caso e dagli ormoni. Si tratta soltanto di una giornata infelice. Un’altra.
“Non è che deve venirti il ciclo?” azzarda lei, inarcando le sopracciglia.
 
“Sì”, sua sorella fa una smorfia, sbuffando di lato con discrezione, “tra due settimane però.”
Lo sbocciare della primavera ha iniziato a portare belle giornate, e proprio oggi le due hanno optato per appostarsi sul balcone. La posizione dell’appartamento è comoda ma piuttosto defilata, permettendo quindi di godere dell’aria aperta senza il fastidio di rumori eccessivi. I grandi vasi di fiori disposti lì attorno non fanno che aggiungere all’amenità della situazione, nonostante l’occasionale, repellente ronzio di qualche vespa che vi si avvicina troppo.
 
Con fatica, Franziska inspira fino in fondo.
Nina è passata a prenderla in macchina una volta finito il processo, non meno di mezz’ora fa. È anche arrivata in leggero ritardo, quindi in totale devono essere passati circa quaranta minuti.
Eppure la ragazzina non riesce ancora a distogliere la mente dai fatti di questa mattina, dalla propria prestazione, dallo stress. Respira a stento, il suo cuore batte forte, non riesce a calmarsi.
 
Il caso è stato semplice, come da pronostico. Si è concluso in un giorno soltanto e senza troppi litigi, peraltro con il verdetto giusto. Ma alla fine cosa importa? Il suo esordio è stato tutto fuorché perfetto.
In alcuni punti ha mancato di fluidità, e addirittura di chiarezza logica. Ha manifestato a tratti il proprio nervosismo, e, guardando indietro, sente di essere stata infantile e poco professionale.
 
Ora ripensa a tutte le volte in cui ha studiato i filmini dei processi di Miles, annotando con attenzione qualsiasi errore. Ripensa a tutte le volte in cui ha riavvolto, e guardato daccapo, per costringersi a memorizzare ogni più insulsa correzione. Abbassa le spalle, era solita ammonire lo schermo del televisore, il tuo tono di voce è troppo alto, diamine, tieniti quel testimone per dopo!
A cosa è servito alla fine? Proprio a un bel nulla. Ora si vergogna e basta.
“Nina”, Franziska deglutisce, tamburellando sul tavolo con le dita, “che ti ha detto papà?”
 
Dopo aver cosparso di sale il proprio piatto sua sorella è rimasta immobile, a rimirarne il contenuto con sguardo assente. La domanda non sembra averla svegliata del tutto, ma almeno abbastanza da portarla a cominciare il proprio pasto.
“Che mi ha detto?” ripete lei con calma, tra due bocconi. “Di cosa?”
 
“Del processo.”
 
“Oh. Non molto”, Nina solleva lo sguardo, come se si sforzasse di rammentare, “però mi sembrava contento.”
Nonostante in viso possa apparire di umore consueto, lo scarso vigore nella voce di lei tradisce una profonda stanchezza. Senza aggiungere altro torna a concentrarsi sul pranzo, che subito termina con poco entusiasmo. Dalla propria borsetta, appesa in modo precario allo schienale della sedia, estrae poi un accendino e una piccola confezione. Con un gesto automatico fa scivolare una sigaretta fuori dal pacchetto, e l’accende in maniera altrettanto fulminea.
 
Franziska annuisce con un cenno nervoso, mordicchiandosi l’unghia dell’indice. Notando il suo sguardo Nina si raddrizza sulla sedia, senza fretta, e le posa una mano sulla spalla.
“Fran, ma stai bene?” nonostante il tono comprensivo, la vocina esausta di lei non risulta esattamente confortante. “Sei stata brava. Perché ti preoccupi?”
 
La ragazzina è incerta su cosa replicare. Come potrebbe spiegarlo?
Come spiegare l’importanza assoluta di fare tutto bene, tutto giusto, tutto perfetto?
Come mostrare tutte le aspettative, tutto l’orgoglio, tutta la gloria e insieme tutta la vergogna che ogni giorno compongono la sua identità?
Come raccontare la fitta al cuore che percepisce ad ogni proprio difetto, mancanza, distrazione, come descrivere la pungente convinzione di star tradendo sé stessi, così, per sbaglio?
Come dirlo a lei, così poco ambiziosa? Quella sua attitudine molle quasi la fa arrabbiare.
 
Alla fine non dice nulla. Rimane a torturarsi le cuticole con i denti, lo sguardo colpevole rivolto in basso. Quasi a leggerle nella mente, sua sorella alza gli occhi al cielo.
“Oh, lo so già che cosa stai per dirmi”, Nina si interrompe per un istante, lasciando fuoriuscire una nuvoletta di fumo, “guarda che non è sano voler essere sempre perfetti.”
 
Che non sono sana dimmelo quando hai smesso di essere un giorno depressa e l’altro pure.
E magari anche di fumare, se riesci. Grazie!
 
“Ma che vuoi, scusa?” sbotta la ragazzina, le guance infuocate sotto lo spesso strato di fondotinta. “Ma parla per te!”
Nina la osserva, il volto tinto di una sorpresa quasi allarmata. Non si aspettava una risposta tanto impetuosa. Anche Franziska stessa resta in parte stupita. Ha parlato senza rifletterci un istante.
Lei osserva Nina a sua volta, di rimando. Forse l’ha offesa il tono delle sue parole. Forse l’ha offesa il pensiero di prima, anche se non poteva sentirlo. Decisamente, sarà stato quello. Non ha alcun senso, ma dev’essere stato quello. Che l’abbia visto, in qualche modo? Che l’abbia percepito?
Franziska non ama essere arrabbiata. Vorrebbe sempre essere stoica, composta, perfetta, sempre in controllo totale di qualsiasi cosa. Eppure anche adesso, mentre tenta in ogni modo di calmarsi, di tenere a freno il cuore e la lingua, sente ad ogni resistenza quello spiacevole tremore agitarsi in lei, focoso.
Bisogna puntare alla perfezione”, aggiunge la ragazzina con autorità dogmatica, ma volgendo lo sguardo altrove, “è così che si migliora. Sarebbe sbagliato non farlo.”
 
Nina scuote il capo. Non le dona la pietosa saggezza che sta infondendo nel proprio sguardo: non su quel visino pallido, non sopra le poderose occhiaie, non dentro quegli occhi ancora da bambina.
“Sei tu che sbagli”, dice con molta semplicità, negli occhi il guizzo sbiadito di una sicurezza che da anni non le appartiene più, “la perfezione non è quella che dici tu.”
 
“Ah no?” domanda Franziska, tentando di soffocare l’irritazione.
Deve tenerci proprio sua sorella a farla arrabbiare. Ormai lei è cresciuta, è una donna adesso, va a lavorare. Non dovrebbe più essere trattata come una bambina. Non dovrebbe più essere trattata come se non capisse nulla del mondo, squadrata con quella sufficiente compassione di chi è certo di saperne di più.
 
Che presunzione! Certo che Nina non sa, non sa mai niente. No, così è esagerato. Però non sa niente di perfezione, non potrebbe, non la cerca mai. Eppure adesso vuole insegnare a lei, non le toglie di dosso quei suoi occhioni pietosi. Solo che a incrociarli con lo sguardo a Franziska sale la bile in gola. Solo che a incrociarli con lo sguardo sente l’impulso di tirarle uno schiaffo, farli sbattere a forza. No, quello no! Solo la bile. La bile.
Comunque Nina non sa nulla di perfezione. Proprio no, niente affatto. E come potrebbe, basta guardarla! Non pensarlo. Ha fallito in tutto. No, non essere cattiva. Ha fallito in tutto, chissà quante volte. È una fallita, fallita. No! Sì. Non pensarlo, non pensarlo.
 
Sei contenta, vero? Solo se sbaglia tutto riesce a non essere migliore di te.
La vera fallita sei tu, stronza.
 
Franziska sbatte le palpebre un paio di volte, come per strapparsi a quella catena di ragionamenti.
La ragazzina prova a reinserirsi nel momento presente, ma qualcosa la tira indietro. Non sa nemmeno come sia finita lì, cosa abbia voluto pensare, cosa abbia pensato davvero. Sente una fredda stretta allo stomaco, il fitto dolore della vergogna di aver lasciato che tutto avvenisse senza il suo controllo. Sente la mente vuota, torpida, ormai inquinata dalla scia grigia grigia di quei pensieri viscosi. Nella sua immaginazione vede tutta quella polverina immonda raccogliersi in una massa unitaria, vorticarle attorno ai neuroni, riempirle il cervello a poco a poco. Prova a visualizzare quella nube dissolversi ancora, fuoriuscire dalla sua testa, ma non funziona. Non funziona mai.
 
“No”, risponde sua sorella dopo qualche istante, “credo che sia più complicato di così.”
La donna allunga una mano verso il vaso di gerani rossi posto di fianco a lei, sopra l’armadietto per gli attrezzi da giardinaggio. Uno dei fiorellini sta appassendo lì davanti, proprio in bella vista.
Un fiore solo non è poi così importante. Può anche avvizzire del tutto, finché ne nascono altri, cadere a terra un petalo alla volta. Porta via alla pianta ciò che ha di più bello, eppure quella resta in vita.
 
Ma Nina anche del fiore ha riguardo: lo estrae con precisione, svelta, come per non fargli male.
Per qualche istante resta a studiarlo con una premura strana, quasi malinconica. Le ha fatto tristezza strapparlo, poverino, anche se non era poi così importante. Non si sente forse lei allo stesso modo? Così bella, e così appassita, così inutile. Non vede forse un fiorellino secco, attaccato alla pianta con tutte le sue scarse forze, ogni mattina rimirandosi nello specchio? Non vorrebbe essere strappata via, lei, è per questo che del fiore ha riguardo. Questo dicono quegli occhi, lo urlano, tanto neri e profondi come sono. Tanto gridano che anche Franziska riesce a decifrarne il messaggio. Anche tu che non capisci mai niente!
Alla fine Nina si raccoglie i capelli e sistema il fiorellino dietro un orecchio, con cura.
 
Una volta, riflettendo a voce alta, Franziska aveva concluso che una persona capace di far sbocciare tali meraviglie di natura dovesse essere contenta per forza. Come avrebbe mai potuto, chi vedeva fiorire in splendidi colori i boccioli da lui stesso nutriti, non avere la vita, la beatitudine eterna negli occhi?
“Sai quante me ne sono morte”, aveva commentato allora Nina, facendo spallucce.
 
Era una frase che altre volte aveva ripetuto, pur non essendovi condotta in modo tanto diretto.
Una volta compiuti i diciotto anni, Manfred aveva iniziato a non portarla più con sé nei suoi viaggi in America. Ormai era adulta, diceva, una signorina, poteva benissimo per due settimane gestire la casa. E pure tenere sua sorella, naturalmente. La bambina deve andare a scuola, le diceva lui, e a danzaE non è un genio come te, sottinteso.
Allora restavano loro due da sole, con molto tempo, troppo spazio e nulla da fare. Qualche volta si mettevano sul terrazzino della cameretta, a osservare uno per uno tutti i loro vasi, tutte le piante grandi e piccole che possedevano. Nina le spiegava come curarle, come reagissero alle stagioni, le raccontava i loro significati e le storie dei loro nomi. E anche dopo anni, quando lei aveva avuto il marito, e poi la bambina, e poi il cane, e Franziska non doveva più andare a scuola, né men che meno a danza, ogni tanto si trovavano su quest’altro terrazzo, durante i viaggi di lavoro di papà, a discutere delle piante nuove.
 
“Sai quante me ne sono morte”, diceva poi Nina, non appena iniziava ad entusiasmarsi troppo. E un giorno le raccontava di quelle primule che avevano gestito male il trasloco, tanti anni prima, un altro di quella phalaenopsis che per un mese aveva tentato di rinvasare, tra le lacrime e la frustrazione, un altro ancora di quel cactus a cui aveva dato troppa acqua, ed era marcito sia alla base che sulla cima.
 
Senza preavviso, sul volto stremato della donna appare ora un piccolo sorrisino reminiscente.
“Sai la perfezione cos'è? Una volta ho fatto un sogno bellissimo. C’era una fila di infinita di soli, che illuminavano l’oceano con la loro luce bianca”, il mormorio di sua sorella è apatico come prima, ma adesso è accompagnato da un lieve tremore delle dita, uno stravagante stupore di sé, “la mattina mi ero svegliata tutta contenta. Mi sentivo in pace. Avevo visto la bellezza perfetta! Credevo di potermi fidare dell’Universo, finalmente. Credevo che quella sensazione fosse vera e tutto il resto no. Che in tutto ci fosse bellezza, se si scavava abbastanza a fondo.”
 
“E ora non ci credi più?” le domanda Franziska, senza guardarla.
Certo che non la odia, non la odia affatto. E nemmeno si sente in competizione con lei. Che sciocchezze! Perché deve aver pensato una simile stupida idiozia, solo poco fa? È assurdo. Chissà cosa le è preso. No che non odia sua sorella. Non la odia per niente. Perché dovrebbe? Non avrebbe alcun senso. Non è vero, è chiaro a tutti. Non si deve preoccupare. Non l’ha pensato davvero.
Ne sei sicura?
 
Ancora una volta Nina aspira senza gusto, libera in un solo respiro tutto il fumo che le rimane in corpo. Poi spegne la sigaretta sul fondo di plastica del posacenere, la abbandona lì, fredda, consumata per tre quarti.
Gli occhi di lei restano vispi, spalancati, come sorpresi dalle parole che la bocca ha appena pronunciato. Il ricordo del sogno ha portato con sé quello di un periodo intero, mille memorie giunte a galla a poco a poco, ma tutte insieme.
 
Resta per un poco a riflettere in silenzio, poi fa no con il capo.
“La mamma diceva che il salto nel buio va fatto per forza, perché per noi la certezza non esiste. Che è naturale avere fede nelle cose. Lo facciamo anche senza saperlo”, la voce di Nina si riempie per un istante di una dolcezza bizzarra, beata e insieme rotta, senza speranza, “ma mi spieghi come si fa? Come faccio a fidarmi in un mondo così? Non posso.”
 
Per qualche secondo restano lì senza parole, pensando tra sé e sé, a contemplare i loro piatti vuoti.
Poi sua sorella si scusa, come se avesse detto uno sproposito, si alza, si volta, si appoggia al parapetto. La ragazzina non vede dove abbia rivolto lo sguardo, ormai è lontano da lei, è al di fuori.
 
Non dice niente Nina, e guarda avanti, gli occhi puntati su chissà cosa. Senza pensarci ha preso in mano quel fiorellino floscio che teneva dietro all’orecchio, e lo tortura, lo punzecchia con le dita. Per un attimo lo guarda, quel povero stelo palliduccio, accarezza i grinzosi petali bruni, splendidi, vermigli un tempo, li passa uno per uno tra i polpastrelli. E poi allo stesso modo li strappa, uno per uno, uno per uno li lascia cadere di sotto. Resta per ultimo il piccolo gambo ormai spoglio: questo lo lancia proprio, dandogli momento con il polso.
Franziska lo osserva vorticare giù, giù, per tutti quei quattro piani.






NdA:
Ciao!
Wow, è tipo passato tantissimo tempo dall'ultima volta che ho postato questa fanfiction, haha. Fino ad oggi è stata solo un prologo striminzito. Sorry, y'all :'D
I due episodi di questo flashback sono risalenti al giorno del primo processo della nostra eroina, circa cinque anni prima di JfA. Per me è stato un parto scrivere questo capitolo, perché non sono un granché nello scrivere dialoghi e azioni comuni (le cose che mi riescono meglio sono i flussi di coscienza senza capo né coda lol xD), e quindi mi ci è voluto un po' per essere soddisfatta. Sono anche nel mentre passata attraverso un periodo di blocco, ma quella è un'altra storia. In ogni caso, ora son qui, abbastanza contenta di come è uscito. Yaya!
Non disperate comunque, venticinque lettori, il prossimo capitolo è più flusso di coscienza che altro, quindi dovrei finirlo molto più in fretta di questo. Il piano in teoria sarebbe di completare tutti i capitoli prima della maturità (pregate per me plis), ma non so quanto ci possa riuscire. Farò del mio meglio!
E niente. Se sei arrivato fin qui, grazie mille davvero! Ci vediamo presto!

Candy<4


P.S. so di aver scritto un Manfred molto più soft di com'è in tipo il 95% delle fanfiction che esistono. Abbiate pazienza, è che mi piacciono i cattivi con la doppia anima :')

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