La Profezia dei draghi di _Malila_Pevensie (/viewuser.php?uid=804483)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piccola prefazione e PROLOGO -Il cuore della foresta ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 -Al riparo dal mondo ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 -Le parole del soldato ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 -Il viaggio ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 -Incontro di anime ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 - Attesa ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 -La Regina ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 - Comprensione ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 -Questione di abitudine, parte prima: Arco e frecce ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 9 - Questione di abitudine, parte seconda: Puro veleno ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 10 - La corte di Errania ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 11 - Un singolare incontro ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 12 -Omaggio a un guerriero ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 13 - Lezioni di ballo ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 14 - Si aprono le danze ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 15 - Confessioni, parte prima: Incubo ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 16 - Confessioni, parte seconda: Voci e misteri ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 17 - Nel buio ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 18 - Le strade di Errania ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 19 - Senso di colpa ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 20 - Separazione ***
Capitolo 1 *** Piccola prefazione e PROLOGO -Il cuore della foresta ***
PICCOLA PREFAZIONE
Ho
impiegato davvero un'eternità per decidermi a pubblicare
questa storia. E per un'eternità, intendo davvero
un'eternità.
Il progetto delle Saghe di Finian è nato quando io avevo
appena quattordici anni. La mia scrittura era ancor meno allenata di
adesso e la trama originale era davvero piena di lacune. Scrivevo
perché amavo farlo e scrivevo perché ero
innamorata del fantasy, ma era qualcosa che pensavo avrei sempre tenuto
solo per me. Il mondo che avevo immaginato nella mia mente prendeva
forma insieme ai suoi abitanti, eppure non credevo che sarebbe mai
andato oltre quel file sul mio computer.
Gli anni passavano e mentre la storia cresceva, io mi rendevo sempre
più conto che stava diventando qualcosa di più
grande che un semplice passatempo; lo intuivo dall'impegno che ci
mettevo, dal fatto che, pian piano, avevo iniziato a fantasticare su
cosa sarebbe venuto dopo le vicende di quella prima storia. E alla
fine, districandomi fra scuola e vita in generale, in qualche modo sono
arrivata a scrivere l'ultima parola dell'ultimo capitolo de La Profezia
dei Draghi.
La storia era lì, lo scorrere degli eventi era in qualche
modo delineato, ma sapevo perfettamente che, tornando indietro a
rileggere, avrei trovato tante cose da aggiustare e che non sarei stata
contenta fino a che non avessi avuto più nulla di nuovo da
aggiungere. Così è stato.
Perfino dopo aver messo il punto finale a quell'ultimo capitolo, ho
continuato a leggerla e a rileggerla e di volta in volta, qualcosa
cambiava: una sequenza di azioni, il ruolo di un personaggio, perfino
qualche nome che mi sembrava non calzasse più. Riprendevo
tutto punto per punto, cercando di eliminare tutto ciò che
non funzionava e lottando contro i buchi di trama che la mia
inesperienza mi portava a lasciare qua e là.
C'erano periodi in cui era più faticoso portare avanti la
mia infinita revisione, perché altre cose ci si mettevano di
mezzo, ma non aveva importanza quanto tempo impiegassi: ritornavo
sempre lì, al computer, per portare avanti quello che avevo
cominciato. Nonostante tutto questo, ancora non ero disposta ad
ammettere che scrivere,oramai, non era più classificabile
come hobby. Penso di aver avuto semplicemente paura che fosse qualcosa
di troppo grande, per me.
È dovuto passare ancora del tempo, ma, a un certo punto, le
mie stesse emozioni mi hanno costretta a capitolare. Mi sentivo
profondamente e sinceramente bene quando potevo mettere giù
le parole, in qualunque modo potessi farlo, e quando non ci riuscivo
sentivo chiaramente che qualcosa in me mancava. Più quel
qualcosa mancava, più io capivo che quella passione era
reale e che sempre lo sarebbe stata; capivo che se un giorno fossi
riuscita a far diventare la scrittura ciò di cui sarei
vissuta, avrei avuto la gioia di fare semplicemente quello che
più amavo.
Penso ancora che se ci riuscissi realizzerei quello che credo sia il
sogno di tutti: trasformare la propria passione in lavoro.
Però, so anche che se questo non dovesse mai accadere, io
non smetterei mai di scrivere; perché, qualunque cosa sia e
qualunque cosa diventerà,non lascerò mai che la
scrittura esca dalla mia vita.
Ora, questo racconto non è decisamente più lo
stesso che era agli inizi; allo stesso modo, pur avendo solo vent'anni,
io non sono più quella ragazzina che ha iniziato tutto per
gioco. Ci saranno sempre cose che potrò migliorare, a
partire dalla mia stessa scrittura, e sempre io cercherò di
fare meglio; sono il tipo di persona che tiene tutto incostante
revisione per non perdere il filo. Sono pronta ad accettare le
critiche, quelle che fanno crescere, e i consigli, perché
un'occhio esterno può essere sempre capace di catturare
dettagli che allo stesso (aspirante, nel mio caso) scrittore, coinvolto
con tutto sé stesso nella propria narrazione, possono
sfuggire.
Non importa, però, quante cose possano cambiare: ne La
Profezia dei Draghi ci sono sempre io, con il mio cuore e la mia
dedizione, e c'è sempre quel mondo che diventa sempre
più grande e concreto. Ci sono i miei personaggi, che amo e
conosco come fossero membri della mia famiglia.
Spero davvero tantissimo che tutto questo possa arrivare direttamente
dalle pagine che seguiranno, piuttosto che da questo fin troppo lungo
monologo su di me. Spero infinitamente che saranno proprio
loro,specialmente Freya e Aran, a farvi entrare in quel mondo e a
raccontare tutto ciò che c'è da sapere sulle
Saghe di Finian. Io sarò sempre tenacemente al loro fianco.
Un grazie enorme a chi è arrivato a leggere fin qui,
Malila
Pevensie, la voce dietro queste parole.
PROLOGO
- IL CUORE
DELLA FORESTA -
Il clangore delle spade ancora le riempiva le orecchie, in lontananza,
mentre il rombo degli zoccoli del suo cavallo cercava di tenerla legata
alla realtà.
Si sentiva lacerare dentro: continuava disperatamente a cavalcare verso
il cuore della foresta, là dove avrebbe potuto proteggere il
suo più grande tesoro, ma una parte di lei la tirava
inesorabilmente indietro accanto alla persona che amava, sotto i colpi
di quelle spade e degli incantesimi mortali.
Eleana sentì una calda lacrima solcarle il volto.
Strinse saldamente sua figlia al cuore e spronò il cavallo
ad andare più velocemente.
Come aveva potuto? Confondere a quel modo bene e male era stato il suo
più grande errore; aveva messo i suoi grandi poteri a
servizio di forze oscure, tradendo non solo se stessa, ma anche il suo
popolo.
Nulla, oramai l'aveva capito, poteva rendere meno oscuro e offuscato
dalle tenebre il cuore della tiranna. C'era però ancora
qualcosa che poteva impedirle di distruggere il loro meraviglioso
mondo, o per meglio dire qualcuno: la piccola bambina che in
quell'istante si teneva aggrappata alla sua camicia.
Avrebbe solo dovuto trovare chi condivideva il suo destino e le otto
pietre avrebbero ripreso a splendere.
Alle sue spalle, un boato enorme spense improvvisamente il rumore del
metallo contro il metallo, espandendosi sul terreno. Non
poté continuare.
Il sangue le si gelò nelle vene mentre tendeva le redini
allo spasimo. La fresca aria notturna era immobile, ma non portava con
sé il solito rinfrancante profumo di
tranquillità, bensì la consapevolezza di una
perdita enorme.
Sentì il proprio cuore spezzarsi, poté quasi
avvertirne lo schiocco sordo e i frammenti che ne restavano trafiggerla
come tanti pugnali.
Harden...
pensò e per un istante credette che sarebbe tornata indietro
per accertarsi di una realtà che però ben sapeva.
Poi, sentì qualcosa afferrarle la manica della tunica che
indossava.
Abbassò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli della
sua piccola Freya, di quell'intenso azzurro screziato di verde che
tanto amava. Aveva le piccole sopracciglia aggrottate e i riccioli
corti e scuri ondeggiavano alla lieve brezza che si era alzata.
Fusolo questo a darle la forza di spronare il cavallo a riprendere la
folle corsa.
Un giorno, quando sarebbe giunto il tempo, le avrebbe raccontato di
come il suo amato padre Harden aveva combattuto e si era sacrificato
per dare una possibilità a lei e a loro tutti.
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Capitolo 2 *** CAPITOLO 1 -Al riparo dal mondo ***
CAPITOLO
1
-AL RIPARO DAL MONDO-
Guardò la radura.
Attorno a essa si estendeva il bosco da cui proveniva solo il
fruscìo del vento e il verso di qualche animale
ben nascosto nell'ombra.
Gli alberi,
così alti da sovrastarla più di qualche braccio,
lasciavano intravedere solo uno scorcio di cielo, di un celeste
così pallido e delicato da sfumare quasi nel bianco delle
nuvole.
Il potere che emanava da
quel suolo s'irradiava ovunque, sembrava persino filtrare attraverso le
suole dei suoi stivali; sapeva da dove proveniva tutta quell'energia.
Si girò verso
il centro esatto della radura e una folata di vento leggero le scosse i
lunghi capelli ramati. A pochi metri da lei vide il grande obelisco
stagliarsi nella fioca luce che filtrava; l'aura che lo circondava era
una prova di tutta la magia che doveva contenere.
Lungo la pietra che lo
formava si avvolgevano spirali, sette per la precisione. Si
avvicinò lentamente, quasi con religiosità, e ne
vide i colori.
All'interno di quelle
scanalature, modellate con chissà quale incanto, correvano
le scie di sei pietre. La ragazza le riconobbe.
L'agata muschiata,
intrisa di ogni sfumatura del verde ; il diamante, limpido e
cristallino, solido e invincibile;l'ametista, di quel viola
meraviglioso intriso di sfumature interne che si espandevano quasi come
volute di fumo; lo smeraldo, brillante, intenso e di quel verde che
trasmetteva una sensazione di profonda comunione con la linfa vitale
del mondo, della terra e della natura; il quarzo rosa, delicato e
profondo, con qualche sfumatura bianca a screziarne la superficie;
infine il rubino, rosso come la forza vitale, il fuoco interiore,
un'antica e inestinguibile fiamma.
Un solco vuoto
s'incrociava con i percorsi delle altre pietre, privo di qualsiasi
gioia e colore; nel vederlo, senza una precisa ragione, una profonda
tristezza la colse.
Le spirali
s'incrociavano tra loro come a simboleggiare un infinito intreccio di
destini.
Freya ne
seguì il percorso con lo sguardo, fino a vederle culminare:
lì, una luce più intensa colmò il suo
sguardo. La settima pietra brillava intensamente.
La luce del granato era
fulgida, sopra di lei, come la vedeva quasi ogni notte in quel sogno.
Solo quella pietra era in grado di mantenere l'equilibrio, solo essa
poteva bucare la corazza di oscurità che permeava la loro
terra. Quella consapevolezza l'attraversava ogni volta e ogni volta lei
non riusciva a comprendere da dove potesse venire.
Quella luce le dava
speranza, la sentiva crescere dentro di sé, anche se sapeva
che presto lo scenario della visione sarebbe mutato.
Così fu. Una
folata gelida le soffiò sulle spalle e con un tremito di
paura si voltò. Come tante altre volte in precedenza, lei
era lì.
Guardò la
figura ammantata che avanzava lentamente sul terreno muscoso, ma non
con il profondo rispetto che aveva avuto lei. In ogni suo passo c'era
brama, brama di conquista, come se il pilastro fosse la meta della sua
vittoria. E forse lo era.
Quella figura
trasmetteva un senso di paura sconcertante.
La sua lunga tunica nera
fluttuava nell'aria fredda e tetra; la ragazza poteva scorgere i suoi
occhi ridotti a due fessure sotto la maschera lucida e nera,
incorniciata dal cappuccio del mantello, nero anch'esso, un po' come lo
stava divenendo tutto.
Persino il cielo si era
coperto.
La studiava con una
calma apparentemente normale, mentre in mano stringeva uno scettro
sormontato da una grande prisma in pietra d'onice. Freya sapeva cosa
sarebbe accaduto ma non si mosse comunque, spinta dal desiderio di
proteggere quella gemma così importante per l'equilibrio del
loro mondo.
Di nuovo un pensiero che
non pareva proprio appartenerle.
Ancora qualche passo
verso di lei e la figura spalancò gli occhi.
La ragazza li vide
fissarsi nei suoi e fomentare il suo terrore, gelandola con quel colore
così chiaro da essere quasi più trasparente del
ghiaccio. Con un ampio movimento del braccio la sinistra presenza
portò lo scettro davanti a sé. Un'enorme sfera
violacea esplose dal grande onice.
Freya la
sentì colpirla al petto e inondarla di una scarica di
dolore. Mentre la vista le si annebbiava, pensò che avrebbe
dovuto assolvere meglio il proprio compito.
Sentendo un colpo al cuore, Freya si svegliò di soprassalto.
Non appena si fu messa a sedere le mancò il respiro e
dovette sforzare al massimo i polmoni per inalare aria. Si mise una
mano sul cuore e sotto il palmo lo sentì battere furioso.
Terrore. Era l'unica sensazione che provava mentre le scene di quel
sogno le ripercorrevano la mente, confuse, come sempre. La radura, un
pilastro intarsiato sormontato da un'immane bagliore, la figura nera,
la morte che sopraggiungeva rapida.
Tutto questo le appariva in una miriade di frammenti sconclusionati,
che lentamente andavano a ricomporre le immagini che avevano tormentato
il suo sonno. La sola cosa buona che restava alla sua anima era
l'immensa speranza provata, anche se tanto fugace.
Quello stesso incubo la perseguitava da fin troppo tempo per poter
ricordare, insinuandosi nella sua testa quasi ogni volta che chiudeva
gli occhi.
Riacquistò la percezione dell'ambiente circostante
bruscamente; solo a quel punto riuscì a udire il forte
ululato del vento all'esterno, che scuoteva il suo albero facendolo
dondolare paurosamente.
Piano si girò nel letto e non appena posò i piedi
a terra la sensazione del legno sotto le piante dei piedi le diede
sollievo. Si alzò e barcollò indolenzita verso la
porta; le bastò scostare la tenda ricamata che copriva
l'uscio per essere accolta da sprazzi del cielo pieno di stelle che si
mostrava attraverso le fronde dell'albero.
Una balconata di legno le si mostrò dinnanzi, sospesa fra i
rami di quell'enorme quercia secolare; avanzò a
piedi nudi, senza timore. Quella era la sua casa da tutta la vita.
Aveva sempre vissuto tra gli alberi della foresta che si estendeva
sotto i suoi occhi, protetta da tutto quello che infuriava all'esterno,
ma nemmeno quel luogo che tanto amava sembrava poterla difendere da
quelle assurde visioni.
Rabbrividì all'ennesima folata di vento che la
investì e scrutò il nero manto celeste attraverso
il fogliame che ombreggiava tutto intorno. Conosceva molto bene la
solitudine, era diventata la sua unica compagna da anni, ma era solo in
quegli istanti che tornava a pesarle come nei primi tempi. Solo in quei
momenti di profonda vulnerabilità scopriva di ricordare
nitidamente ogni singolo giorno che aveva passato aspettando sua madre.
Cercò disperatamente di rievocare il suo volto, ma come
sempre più spesso le accadeva l'immagine le apparve sfocata,
nascosta nelle pieghe del tempo che trascorreva inesorabile; quella era
la sofferenza più grande, l'idea di star dimenticando la
persona che più aveva amato in tutta la sua esistenza.
Riportando a galla quelle immagini non poté fare a meno di
ripercorrere ciò che era successo; lo sguardo corse
inevitabilmente alle proprie mani, intirizzite nel gelo della tempesta.
Erano state quelle stesse mani la causa della scomparsa di Eleana, o
almeno ciò che da esse scaturiva.
Non ne avrebbe mai potuto ricevere conferma né l'aveva mai
detto ad alta voce, ma sapeva che ciò che era successo quel
giorno di oramai sei anni prima era il fulcro di tutto ciò
che era accaduto in seguito.
Era stato solo un momento, una brevissima e quasi invisibile scintilla.
Stavano cogliendo erbe selvatiche nel sottobosco, quando senza sapere
come un potere sconosciuto era sgorgato dalla punta delle sue dita.
Rammentava ancora quale meraviglia le fosse cresciuta dentro nel
comprendere che era proprio lei la fonte di quel bagliore etereo, che
pareva provenire da un altro mondo; il suo primo pensiero era stato di
aver ereditato i poteri da Incantatrice di sua madre.
Poi Eleana le si era avvicinata e in un sussurro, quasi temesse di
essere udita da qualcuno, le aveva detto che era arrivato il momento di
tornare alla loro casa. Una volta al sicuro tra le fronde dell'albero,
le aveva fatto un lungo discorso su quanto fosse importante che questa
cosa la tenesse per sé e non la usasse come un gioco; Freya
aveva annuito alle parole della madre, chiedendosi a chi mai avrebbe
potuto rivelarlo se nella foresta non c'era mai stata anima viva
all'infuori di loro e qualche bestia selvatica. La sua reazione le era
sembrata insolita, ma si fidava di lei e e perciò si era
trattenuta dal far domande.
All'epoca non immaginava che stava per perdere la persona che
più amava al mondo; non l'aveva capito nemmeno quando, un
paio di giorni più tardi, Eleana le aveva detto che sarebbe
dovuta partire e che lei avrebbe dovuto cavarsela da sola per un po'.
Freya aveva nascosto alla madre la sua inquietudine perché
immediatamente aveva compreso che quel viaggio era davvero importante.
Aveva ascoltato con calma le ansiose raccomandazioni di Eleana, che le
aveva detto di preoccuparsi solo nel caso in cui fosse trascorsa una
luna dalla sua partenza e lei non fosse ritornata.
L'ultima immagine che aveva di lei era la sua esile figura che si
allontanava a piedi nel sottobosco, umido della molta pioggia caduta in
quei giorni, poi era iniziata la sua vita solitaria.
Quel mese era stato meno pesante di ciò che avesse creduto:
la madre le aveva lasciato tutti i viveri necessari, in modo da
costringerla a scendere dall'albero solo per procurarsi l'acqua
necessaria a lavarsi e a rifocillarsi; nella parte coperta della loro
dimora la ragazza aveva tutti i preziosi libri carichi di conoscenza
che la donna aveva posseduto fin da quando lei aveva memoria. Aveva
anche tutte le erbe necessarie a confezionare impacchi e infusi
medicamentosi e sapeva già come utilizzarle.
Ma quando quelle quattro settimane si erano trasformate in due cicli
lunari e poi in tre, lei aveva capito che la promessa che sua madre le
aveva fatto prima di andarsene, la promessa che presto sarebbe
ritornata da lei, non era stata mantenuta e non di certo per sua
volontà.
Doveva essere successo di certo qualcosa, ma lei non poteva far nulla
per sapere cosa o per cambiarlo. Quel senso d'impotenza era stato quasi
impossibile da sopportare e forse per quella ragione ora cercava sempre
una soluzione, qualcosa da fare, quando le si presentava un problema
dinnanzi.
Il dolore, misto a un acuto senso di perdita. l'aveva colta e da allora
l'aveva sempre accompagnata, anche se crescendo era diventato solo come
una spina che ogni tanto la pungeva quando faceva un movimento troppo
brusco. Aveva trascorso intere sere appollaiata sui rami della sua
quercia a scrutare il nord, l'orizzonte dal quale sarebbe dovuta
ricomparire sua madre, ma la foresta era rimasta muta di fronte alla
sua supplica silenziosa.
Le era sembrato di essere destinata a vivere così, sola e in
attesa, per un tempo eterno.
Eppure alla fine, in un modo o nell'altro, la vita era continuata: si
era alzata da quella maledetta balconata e aveva deciso che sarebbe
sopravvissuta a ogni costo, che in qualche maniera avrebbe dato un
significato alla sua esistenza. Fin da quel momento, le sue
mani non si erano mai più illuminate di nuovo e lei non
aveva mai più fatto nulla per tentare di evocare quei poteri
che evidentemente dimoravano in qualche profondo recesso del suo
essere; in lei era nata la convinzione che se a causa di quei poteri
sua madre era partita in cerca di risposte e non era mai più
tornata, non avrebbero mai potuto portare a nulla di buono.
Le sue stranezze, però, non terminavano lì. Fin
da quando era stata abbastanza grande per capire qualcos'altro aveva
popolato le sue notti, oltre a quella terribile visione. Non era un
incubo, al contrario, ma era qualcosa che non avrebbe potuto definire
nemmeno sogno; si trattava di null'altro che una voce. Una voce calda e
profonda, venata di una sfumatura mascolina e ancestrale, che sempre le
era venuta a parlare nel sonno, soprattutto nei momenti in cui aveva
pensato di non potercela fare.
Aveva creduto di stare impazzendo quando si era resa conto di udirla e
soprattutto quando aveva realizzato di non averla mai sentita durante
le ore da sveglia, ma quando l'aveva detto a Eleana lei aveva sorriso e
le aveva semplicemente risposto: “È solo il tuo
spirito guida. Hai una grande strada davanti a te e lui è
lì per aiutarti a percorrerla.”
Quella risposta enigmatica era riuscita in qualche strano modo a
chetare le sue paure e Freya aveva così accettato anche quel
piccolo particolare fuori dalla norma. Il suo Spirito Guida,
così aveva sempre continuato a chiamarlo, l'aveva salvata in
molte situazioni e le aveva impedito di perdere se stessa nel dolore e
nella rabbia; fosse reale o meno, le aveva costantemente salvato la
vita.
Lui, chiunque fosse, era sempre stato solo una voce, ma quando si
svegliava in quelle notti fortunate Freya continuava a sentire la sua
strana ed aleggiante presenza ancora per lunghi istanti e in qualche
modo la paura scivolava via.
Quella notte, però, lo Spirito Guida non si era fatto
sentire e lei era sola; studiò ancora per qualche lungo
istante le stelle prima di dirsi che stava inziando a rimuginare troppo
e decidersi a trovare un occupazione.
Sapeva già alla perfezione cosa avrebbe voluto fare in
attesa della luce dell'alba. Si diresse verso la casa e
rientrò, lasciandosi alle spalle il vento impetuoso e lo
scintillio delle stelle; oltrepassò la sua stanza, in cui la
luna gettava i suoi pallidi raggi di luce, ed entrò in
quella adiacente.
Lì, come l'aveva lasciata lei sei anni prima, c'era la
stanza di sua madre. Il suo letto semplice e ammantato solamente da una
coperta color bronzo, un cassettone abbozzato nel legno e uno scrittoio
perfettamente ordinato. Non aveva cambiato di posto nessun oggetto
appartenuto a lei, come se sperasse che questo l'avrebbe mantenuta
più viva nei suoi ricordi.
Con passi sicuri si diresse verso una lama d'ombra tra la parete in
legno e lo scrittoio e di lì trascinò fuori un
grande baule di legno chiuso da un chiavistello finemente lavorato;
lentamente lo aprì.
Era completamente occupato da libri di tutte le dimensioni, pergamene e
pile di fogli che la ragazza era certa di aver letto almeno una volta
ciascuno. Sua madre era una donna molto colta e le aveva insegnato
quanto il sapere e la conoscenza fossero fondamentali; erano le basi
della vera libertà, le diceva sempre.
Era per questo che nonostante vivessero in mezzo alle Foreste di
Confine le aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto; le
aveva anche parlato di canti e miti e le aveva insegnato un poco di
geografia, anche se davanti a una cartina aggiornata avrebbe
probabilmente perso l'orientamento. Solo sulla storia si era mantenuta
sempre piuttosto vaga, accennando a malapena qualche avvenimento di
scarsa importanza avvenuto secoli e secoli prima e tenendola lontana
dagli eventi più recenti, evitando le sue molte domande.
L'unica cosa che doveva sapere, le era stato risposto, era che il loro
era purtroppo un mondo di tirannia e che questa tirannia portava un
solo e unico nome: Mirea. Colei che con l'ausilio di sconosciuti poteri
oscuri stava soggiogando lentamente l'intera Finian.
Era proprio per la realtà del mondo in cui vivevano che
l'aveva istruita a combattere, contando soprattutto sull'arco che le
aveva fabbricato, anche se fino ad allora non aveva mai avuto motivo di
utilizzare quel tipo di abilità se non per procurarsi il
cibo. Il pericolo che Mirea rappresentava le era sempre parso nebuloso
e lontano, al sicuro fra le fronde delle sue amate Foreste.
Si sedette sul letto e prese il suo libro prediletto tra le mani; oltre
a libri di studio, Eleana aveva conservato romanzi e scritti di
leggende antiche, forse perdute, ma che lei oramai sapeva a memoria.
Il tomo che aveva tra le mani era il più elaborato e, con
tutta probabilità, prezioso contenuto lì dentro:
la copertina era rilegata in cuoio e su di essa correvano incise figure
di animali mitologici, che per quanto sapesse non si vedevano nelle
terre di Finian da almeno un secolo.
Era chiuso da una piccola serratura intagliata a formare un drago su un
lato e un grifone sull'altro. Le zampe delle due creature
s'incontravano sulla chiusura del chiavistello.
Prese una catenina che le pendeva al collo e una volta che se la fu
sfilata si ritrovò a stringere tra le dita una piccola
chiave non più grande del suo pollice. Ogni volta che la
prendeva ricordava l'istante in cui sua madre gliel'aveva lasciata,
l'ultima volta che le loro mani si erano toccate.
Con attenzione la mise nella serratura e la girò. Con un
piccolo scatto le zampe di drago e grifone si separarono, lasciandole
libero accesso alle pagine in pergamena ingiallita dal tempo.
Non appena sollevò la copertina sentì l'atmosfera
intorno a lei cambiare; quel libro era avvolto da un'aura particolare
che l'aveva sempre affascinata.
Non sapeva da dove venisse né dove sua madre fosse riuscita
ad averlo, perché il volume era davvero molto antico:
racchiuso lì dentro c'era tutto il loro mondo, la sua
descrizione più autentica, quella che la tiranna Mirea non
permetteva a nessuno di narrare da molto, troppo tempo.
Persino sua madre, sempre dolce e generosa, le aveva insegnato a non
fidarsi per nessuna ragione delle truppe della tiranna. Eleana aveva
ideato dei sistemi di copertura per la loro casa, atti a fare in modo
che non la notassero i soldati che viaggiavano attraverso le Foreste e
lungo il confine con quello che una volta era il grande Regno di
Emeral, il territorio degli elfi.
Rimase lì a sfogliare delicatamente le pagine, sorridendo di
tanto in tanto per qualche passaggio che amava particolarmente e
leggendo di tutti i popoli di Finian; lesse con avidità
soprattutto il capitolo riguardante i draghi. Apprendere dei loro
poteri e delle loro peculiarità era qualcosa che l'aveva
aiutata ad immaginare che, da qualche parte nella vastità
del loro mondo, quelle meravigliose creture esistessero ancora; non
sapeva per quale ragione, ma il solo pensiero che davvero fossero
definitivamente spariti la riempiva di una struggente malinconia che le
cresceva dentro come una marea che lentamente la soffocava.
Si ritrovava a vagare con la mente e a pensare quanto sarebbe stato
meraviglioso visitare le loro terre, ma da quando Mirea aveva preso il
potere non si sapeva nemmeno se la loro isola, Rubea, esistesse ancora
nell'immenso Oceano Norn.
Altrettanto affascinante era il capitolo dedicato ai grifoni che, al
pari dei draghi, sembravano appartenere a un passato lontano che mai
sarebbe potuto tornare.
C'era solo una cosa che non era mai riuscita a capire di quel libro:
alla fine di ogni sezione faceva puntualmente capolino una serie di
pagine completamente bianche, apparentemente prive di alcun senso. Non
era mai riuscita a comprenderne l'utilità, ma le piaceva
credere che potessero celare in realtà un qualche mistero.
Spaesata da quelle strane emozioni scosse il capo, cercando di
scacciare quei pensieri in grado di portare la sua mente alla deriva.
La luce più intensa dell'alba la investì e si
rese conto solo in quell'istante di avere mani e piedi intorpiditi. A
malincuore richiuse il libro a chiave, lo ripose con cura nel baule che
rimise al suo posto. Poi, gettando un ultima occhiata alla stanza,
uscì richiudendosi la tenda alle spalle.
Rientrò nella sua camera e si tolse di dosso la camicia e le
braghe di lana che usava per dormire così da potersi
vestire. Anche gli abiti che indossava abitualmente di giorno non erano
particolarmente femminili, ma con la vita che conduceva non si poteva
certo permettere di indossare fronzoli che l'avrebbero solo
intralciata. Indossò così un paio di calzoni
resistenti, una camicia e una giacca di pelle scura di cui
allacciò le fibbie per proteggersi dal freddo della mattina.
Infilò poi i suoi stivali, in pelle anch'essi, raccolse la
parte superiore dei capelli per levarseli dalla faccia e prese l'arco e
la faretra posati in un angolo, mettendoseli a tracolla.
Infine, uscì a grandi passi che rimbombarono sulle assi
inchiodate all'albero e non appena fu al limitare della lunga
balconata, spiccò un balzo verso il ramo più
basso che trovò davanti alla sua vista. Lo
afferrò saldamente e in meno di un respiro fu in equilibrio
di su di esso: era così che preferiva muoversi, passando al
di sopra di qualunque pericolo potesse presentarsi a terra.
Già la sera prima, preparando uno dei suoi soliti pasti
frugali, si era resa conto che le scorte scarseggiavano: aveva quindi
deciso che il mattino seguente sarebbe andata a pesca. Si era allenata
a compiere anche quell'operazione usando il suo arco, perciò
non le serviva altro, e sin da piccola aveva imparato come rendere
conservabile il cibo che si procacciava. Spendeva molte giornate in
quelle attività, tanto che oramai scandivano la sua vita
più dell'alternarsi del giorno e della notte: erano
ciò che le aveva garantito la sopravvivenza e la giovane
aveva fatto in modo di affinarle quanto più possibile.
Senza esitazione, si avviò al fiume. La tempesta si era
chetata e finalmente il cielo si stava schiarendo, ma un delicato
sentore di pioggia saliva ancora dal sottobosco, molto più
in basso. Era uno dei profumi che più amava; forse, per
quella ragione si accorse subito che un'altro odore, molto
più deciso, si stava facendo strada alle sue narici.
Si arrestò e, seguendo il proprio naso, guardò
davanti a sé: un sottile filo di fumo si stagliava contro il
cielo limpido d'estate. Come in risposta a quella vista, i suoi muscoli
s'irrigidirono. Quasi sicuramente erano soldati di Mirea: non era raro
che drappelli dei suoi uomini viaggiassero attraverso le Foreste di
Confine. Piuttosto strana era invece la loro posizione: nessun
contingente si era mai accampato tanto vicino al suo albero.
Assalita dal dubbio, Freya tentennò. Andare a controllare
avrebbe potuto rivelarsi una follia, lo sapeva bene; eppure, qualche
istinto misterioso le diceva che doveva farlo. Fosse
curiosità o semplice desiderio di anticipare un possibile
pericolo, non avrebbe saputo dirlo. Spinta da quella forza sconosciuta,
iniziò a seguire quella traccia evanescente.
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Capitolo 3 *** CAPITOLO 2 -Le parole del soldato ***
CAPITOLO
2
-IL RACCONTO DEL SOLDATO-
Bastò poco
perché Freya si ritrovasse a osservare una piccola radura
dall'alto di un ramo. Il fumo, sempre più flebile, si levava
dalle braci ancora incadescenti di un piccolo falò da campo.
Con un balzo
leggero e imprudente, la giovane toccò terra e vide il
bivacco per intero: erano solo quattro tende, poste in circolo attorno
al fuoco, una delle quali più grande e di sicuro
appartenente al comandante. Si mosse lentamente, con cautela, cercando
di capire se i soldati fossero ancora assopiti nelle tende; si
rilassò un poco solo quando non udì alcun rumore
che segnalasse presenza umana. Nel giro di un brevissimo istante,
però, dovette riportarsi sulla difensiva.
Alle sue
spalle, nell'aria frizzante che le pungeva le guance, si espanse il
suono di una lama che veniva estratta dal fodero. Un suono che, non
avendo mai visto altro che la spada arrugginita con cui l'addestrava
Eleana, le parve stranamente familiare. Si girò
immediatamente, con l'arco stretto in pugno, incoccando a
rapidità sovrumana una freccia dall'impennaggio color della
cenere. Davanti a lei, protetti dalle loro armature, si trovavano sette
soldati. A parte quello che doveva essere il capitano, il quale le
puntava la spada contro, gli altri sei erano disarmati. La guardavano
fisso, forse leggermente incuriositi da quella strana ragazza che si
erano ritrovati di fronte.
Freya, dal
canto suo, non aveva mai avuto contatti con coloro che abitavano al di
fuori della foresta, o meglio, con altri esseri umani di sorta; per
quella ragione, il cuore prese a scalpitarle furioso nella gabbia
toracica. Come avrebbe dovuto comportarsi? La domanda rimase senza
risposta, poiché, con sorpresa della ragazza, come la spada
era stata estratta, venne ritirata nuovamente nel suo fodero.
«Non
siamo qui per cercare lo scontro. Il mio nome è Craius,
capitano della guardia personale della Regina, e questi sono i miei
uomini; siamo solamente in cerca una persona e crediamo di averla
trovata» disse l'uomo con calma, avanzando di un passo verso
di lei. «Se voi siete Freya, figlia di Eleana e Harden, la
nostra ricerca per conto della Regina Mirea si è
conclusa.»
Freya
abbassò l'arco, attonita. Aveva davvero appena sentito dalla
bocca di quell'uomo in uniforme viola che Mirea, colei che governava su
tutto il Regno di Riagàn e che lentamente usurpava sempre
più territorio, cercava lei, una ragazzina che viveva come
un'eremita in un bosco? Come poteva sapere della sua esistenza e
conoscere la sua ascendenza?
Fu la
curiosità a spingerla ad abbassare del tutto la sua arma e a
rispondere sinceramente alla domanda che le era stata posta:
«Vorrei potermi presentare anche io, ma voi conoscete
già il mio nome. La vostra ricerca si è conclusa:
sono io. Posso domandare in che modo la Regina Mirea sia interessata a
me?» Nonostante avesse intenzione di parlare con loro, non
abbassò completamente la guardia.
«La
nostra Sovrana ha un'offerta molto generosa da porgervi»
proseguì il soldato, rimasto, al contrario dei suoi uomini,
completamente impassibile. «Per rendere onore ai servigi che
vostra madre, Eleana, e vostro padre, Harden, le resero oramai quindici
anni or sono, Mirea, Regina di Riagàn, vorrebbe che
accettaste di abitare alla sua corte e di sentirvi lì come
se foste a casa vostra.»
Mentre le
parole pian piano si facevano strada in Freya, un'espressione
stupefatta fece capolino sul suo volto.
Per rendere onore ai servigi
resi... La voce del soldato continuava a rimbombarle nelle
orecchie, frastornandola. Era sempre più confusa. Quelle
parole andavano contro tutto ciò che le aveva sempre detto
sua madre: Eleana disprezzava in modo totale la tirannia di Mirea;
com'era possibile che ora quei soldati le dicessero che sia sua madre
che suo padre l'avevano servita?
Ebbe la netta
sensazione di aver appena trovato la porta che l'avrebbe condotta a
scoprire la verità, tutta la verità sulla storia
della sua famiglia, quella che Eleana non aveva mai voluto nemmeno
accennarle. Nonostante sapesse che probabilmente avrebbe dovuto
rifiutare e tornare alla sua vita solitaria, quel leggero sentore le
diede il coraggio di spingersi oltre. Con un semplice gesto ripose la
freccia nella faretra e rimise l'arco intagliato a tracolla.
«Va
bene. Ascolterò ciò che avete da dirmi»
acconsentì.
La tenda del
capitano era ampia e il tessuto color vinaccia in cui era fabbricata
generava una strana luce sotto la sua cupola. Era occupata da un
giaciglio posto in un angolo e da due ceppi di legno, su uno dei quali
era stata fatta accomodare Freya.
Il capitano,
sempre impassibile, le aveva allungato una tela arrotolata, chiusa
fermamente da un nastro di raso. «La mia signora mi ha detto
di mostrarvele se aveste dubitato delle mie parole»
affermò.
Sempre
accompagnata da quello strano presentimento, la ragazza sciolse il
nastro e srotolò la tela; ciò che vide la
lasciò ancor più stupita e frastornata di quanto
già non fosse. Sul foglio spiccava un ritratto di gruppo,
disegnato in pitture dai toni delicati. Erano almeno una decina le
persone delineate in quello che pareva un giardino, ma a Freya
bastò un attimo per individuare sua madre: era sorridente,
di un sorriso composto ed educato, ed era vestita come non era mai
stata abituata a vederla. Aveva un abito elegante e lungo, con il
corsetto legato da un filare di nastri terminanti in un fiocco e le
maniche a sbuffo sulle spalle e i gomiti. I capelli erano raccolti in
una treccia elaborata, decorata da fiori primaverili.
Fissò
quell'immagine a lungo, completamente incapace di trovarvi un senso.
Con gli occhi pieni di lacrime, che cercò immediatamente di
nascondere, riportò la sua attenzione sul comandante:
«Cosa significa?»
Intuendo il
suo dolore, il comandante ingentilì il tono rigido che aveva
avuto fino a quel momento. «Qui sono ritratti gli Incantatori
di corte della Regina poco più di vent'anni fa; vostra madre
era una di loro. Vostro padre, invece, era uno dei più abili
comandanti che il suo esercito abbia mai avuto»
spiegò, porgendole una seconda tela.
Ad apparirle
davanti, questa volta, fu un gruppo di uomini elegantemente vestiti. Lo
riconobbe immediatamente, nonostante in tutta la sua vita ne avesse
visto solo un piccolo ritratto: suo padre. Di lui conosceva molto poco:
sapeva solo che era stato un uomo forte, generoso e con lei
incredibilmente dolce; che l'unica cosa che aveva potuto separarlo da
loro era stata la morte. Quando aveva chiesto di lui a Eleana si era
sempre sentita rispondere che un giorno, quando fosse stata pronta, le
avrebbe detto ogni cosa. Evidentemente non ne aveva avuto il tempo.
«Erano
insieme ogni volta che gli era consentito durante il giorno, ancor di
più dopo che si furono sposati. Hanno servito fedelmente la
Regina Mirea ed è per questo motivo che la nostra sovrana
vorrebbe avervi vicina» proseguì il soldato,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Freya
osservò alternativamente le due immagini:
«Com'è stata in grado di trovarmi? Non sono mai
uscita dal folto di questa foresta. Mai in tutta la mia vita»
mormorò con sguardo lontano.
«La
mia signora ha cercato a lungo vostra madre e alla fine uno dei suoi
Incantatori ha udito delle... voci, che ci hanno permesso di
rintracciarvi. La vostra presenza in questa foresta sembrava una
leggenda, da come ci fu raccontata prima che partissimo, ma
evidentemente non lo era» rispose il comandante.
Quella
spiegazione non le parve così strana: la sovrana doveva
avere informatori sparsi ovunque per Finian. Rimase qualche attimo
immobile, riflettendo sulle cose che le erano appena state raccontate,
cercando di capire se fosse la verità. Passò le
dita sulle tele che aveva in mano. Potevano davvero essere vecchie
quanto le aveva detto il comandante: i suoi genitori erano
evidentemente più giovani.
Come avrebbe
potuto quell'uomo avere quei ritratti o anche solo sapere i loro nomi
se davvero non avessero mai prestato servizio alla corte di Mirea? Non
riusciva a scorgere nessuna menzogna nelle sue parole, a cui lentamente
iniziava a credere.
Nonostante il
suo buon senso, cominciò a pensare seriamente di accettare e
di lasciare tutto ciò che riteneva salvifico e sicuro per
raggiungere la capitale del Regno di Riagàn. Per tutto quel
tempo aveva avuto un'idea ben precisa di Mirea, un'idea che si era
fatta sulla base di ciò che le aveva detto sua madre. Quello
che stava scoprendo metteva in discussione ogni cosa in cui aveva
sempre creduto.
Aveva sempre
pensato che quella foresta fosse l'unico posto in cui mai avrebbe
potuto essere felice e probabilmente era davvero così. Il
mondo esterno e tutti i suoi scempi non l'avevano mai nemmeno sfiorata,
fra quegli alberi. Forse, per lei era arrivato il momento di uscire dal
nido che Eleana le aveva costruito attorno e vedere con i propri occhi
quello che accadeva là fuori.
A conti fatti,
l'unico modo per farsi un'opinione veritiera su qualcosa era averci a
che fare direttamente.
Se fosse
andata con loro, avrebbe finalmente recuperato ciò che
mancava di quel suo nebuloso passato e conosciuto la realtà
per quello che era. Sarebbe stato diffcile, molto difficile, ma oramai
era abbastanza grande da poter sopportare qualsiasi verità.
«Avete
ancora un giorno per pensarci. Partiremo da qui domattina all'alba e se
voi vorrete accettare vi basterà presentarvi qui al sorgere
del sole» la riscosse il comandante.
Freya si
alzò e l'uomo si inchinò leggermente al suo
cospetto, cosa che la lasciò particolarmente imbarazzata.
Uscirono nuovamente alla luce e per un istante, con il sole oramai alto
nel cielo che le riempiva lo sguardo, tutte le rivelazioni appena
apprese nella tenda parvero alla giovane solo un'illusione. Poi gli
alberi della foresta ricomparvero, con i loro verdi e marroni di tutte
le tonalità, e tutto riacquistò consistenza.
«Lasciate
solo che vi dia un consiglio» aggiunse il capitano, prima di
lasciarla andare. «Prendete seriamente in considerazione
questa proposta, Lady Freya. Vi posso garantire che non è
stata avanzata a molti altri prima di voi.»
Freya si
limitò ad annuire e dopo un cenno di saluto rispettoso
lasciò il bivacco, scomparendo presto fra gli alberi enormi
delle Foreste di Confine.
Presto si
ritrovò a correre. A ogni passo la sua corsa si faceva
sempre più rapida, fino a che non si ritrovò ad
assomigliare ad una vera e propria fuga; corse a perdifiato senza
inciampare mai nemmeno una volta nelle radici ritorte degli alberi e
senza fare troppo caso alla direzione in cui i suoi piedi l'avrebbero
condotta, sicura che non si sarebbe persa.
Conosceva ogni
singolo piede di quella foresta, era il luogo che per tutta la vita
l'aveva tenuta al sicuro fra le sue braccia benevole. D'improvviso
l'idea di abbandonare quella vita difficile ma per lei piena di
certezze le riempì il cuore di angoscia.
Furono le
orecchie a dirle dove stava andando; il suo fine udito
recepì il gorgoglio del fiume ancor prima che lo strapiombo
scavato da esso nella foresta fosse in vista. Solo sull'orlo della gola
si fermò; lì, dove il rumore dell'acqua si faceva
roboante e sovrastava tutto il resto, Freya arrivò a sentire
solo il proprio cuore che rimbombava frenetico fino a riempirle perfino
i timpani.
Non avrebbe
potuto prendere nessuna decisione fino a che non si fosse calmata, si
disse, iniziando a inalare quanta più aria possibile nei
polmoni. Respirò a quel modo fino a che anche la
più piccola traccia di batticuore fu scomparsa e
potè ritornare a sentire i familiari rumori della natura
espandersi attorno a lei; si accertò che le gambe
potessero reggerla e solo a quel punto iniziò la discesa.
La gola
sembrava impraticabile a chiunque la vedesse senza aver mai trascorso
un solo istante fra quegli alberi, ma era uno di quei tanti luoghi
nascosti a cui lei aveva imparato ad accedere.
Trovò
la strada senza sforzo, nonostante le mani le tremassero ancora
lievemente, e a breve si ritrovò sulla piccola secca
ricoperta di pietre che affiancava il fiume in quel punto.
Si sedette, le
gambe raccolte al petto, cercando di collegare in un filo logico tutto
ciò che aveva appreso in quella breve chiacchierata che
sembrava essere durata un secolo intero. Il sole faceva brillare
l'acqua, la quale pareva risplendere di una cangiante luce propria.
Senza farsi ostacolare da nessuno dei massi che si concentravano sul
suo cammino, quell'inarrestabile corrente avanzava per raggiungere i
grandi laghi del Regno di Hyalos.
Il fiume
sapeva perfettamente cosa fare, aveva ben chiara la direzione da
prendere; nulla poteva fermare il suo incedere maestoso. Avrebbe voluto
essere proprio come quel fiume, ma la verità era che, in
quel preciso istante, non aveva la minima idea di quale fosse la
decisione giusta: restare e rinunciare per sempre a ogni
possibilità di arrivare alla verità, oppure
andare e rischiare di rendere vano ogni sforzo che sua madre aveva
compiuto per proteggerla.
Fu proprio
quello, il pensiero di sua madre, a segnare la svolta nei suoi tanti
pensieri confusi. Solo in quell'istante realizzò che quel
soldato le aveva già restituito, inconsapevolmente, qualcosa
che lei pensava di aver perso per sempre: un'immagine di Eleana.
In quel
dipinto sua madre era più giovane, certo, e ora quella sua
versione serena e gioiosa si sovrapponeva a quella più
matura e segnata dalla vita che aveva conosciuto lei, ma quello era pur
sempre il suo volto. Lo poteva rievocare di nuovo e lo vedeva
chiaramente come non le accadeva da fin troppo tempo.
Una lacrima
sfuggì al suo controllo ferreo e le scivolò
rapida lungo la guancia. Il suo sguardo corse al cielo limpido di
quella mattina, visibile in brevi squarci oltre la gola e tra le fronde
molto più in alto; mentre una seconda lacrima raggiungeva la
prima, Freya seppe che aveva già deciso.
Costasse quel
che costasse, doveva seguire quella flebile traccia.
Sarebbe stata
sola, di questo era perfettamente consapevole, e non sarebbe stata
certamente la stessa cosa che esserlo nella foresta: avrebbe dovuto
confrontarsi con una vita completamente diversa e, soprattutto, con
tanti esseri umani quanti non ne aveva mai visti prima in vita sua.
Sarebbe stata
abbastanza coraggiosa da affrontare una prova del genere? Non lo
sapeva, però cercare quel coraggio era qualcosa che doveva a
sua madre. Era lei ad averla cresciuta insegnandole che essere cauti
era importante ma che mai bisognava vivere facendosi guidare dalla
paura.
Per la prima
volta il futuro si faceva incerto all'orizzonte, proprio il suo che le
era sempre sembrato uno solo e prevedibile; eppure tutto ciò
che la giovane riusciva a provare in quel momento era una sempre
crescente aspettativa.
In lontananza
qualche lupo, unico suo compagno nell'immensità della
foresta, ululò il proprio richiamo; Freya restò
in perfetto silenzio, pronta a cogliere nuovamente il suono quando si
fosse ripresentato, e quando lo fece provenne chiaramente da appena
sopra la sua testa. Pochi istanti dopo una grande testa grigia fece
capolino sull'orlo della gola e i grandi occhi gialli dell'animale la
osservarono, attenti e imperscrutabili.
Freya vide se
stessa in quegli occhi, la sua vita spesa con l'immenso dono della
libertà, e per un istante il peso di quello a cui stava per
rinunciare le parve insostenibile.
Oramai,
però, la scelta che avrebbe cambiato il suo destino era
stata compiuta: la mattina seguente sarebbe partita con i soldati di
Mirea.
Trascorse la
serata immersa nei preparativi per l'imminente viaggio. Raccolse tutti
i suoi averi più cari e solo quando li ebbe riuniti tutti
nelle uniche bisacce che possedesse, due vecchi involucri di pelle
consumati, si rese conto di quanti pochi fossero.
In ogni caso
era tutto ciò di cui aveva bisogno e che volesse portare con
sè: i suoi abiti, il libro che narrava la storia del loro
mondo e una serie di piccoli oggetti che aveva raccolto nelle foreste
nel corso degli anni. Naturalmente non lasciò indietro il
suo arco e la faretra; lucidò con cura l'arma e
controllò che fosse incordata, oltre a fabbricare ancora
qualche freccia.
Quando ebbe
terminato si sedette sul bordo della balconata, con le gambe a
penzoloni nel vuoto. La curiosità per quello che l'aspettava
cresceva, insieme all'ansia che l'ignoto portava con sé.
Com'era davvero il Regno di Riagàn? Come sarebbe stato
camminare il quelle terre fisicamente, invece di leggerne solamente le
descrizioni? Nelle Saghe di Finian c'erano delle bellissime
illustrazioni dei luoghi più importanti, delineate a mano
sulla pergamena; quale emozione sarebbe stata vederli per davvero? Il
cuore di Freya accelerò i battiti a quel pensiero e un
brivido sconosciuto l'attraversò: sarebbe stata l'avventura
più grande della sua vita. Si chiese anche se avrebbe mai
trovato un'altra foresta bella come quelle che stava per lasciarsi alle
spalle. Le sarebbe piaciuto potersi recare in un posto a lei
più familiare, di tanto in tanto.
Quando
calò la notte, consumò una cena fredda e poi si
accoccolò sulla balconata, avvolgendosi nelle coperte prese
dal suo letto; non aveva voglia di rientrare. Quella sarebbe stata la
sua ultima occasione di assaporare il profumo della sua amata foresta,
di ammirare le costellazioni che solo da quel punto si potevano
osservare.
Guardando le
braci che pian piano morivano nella grande ciotola di pietra dove aveva
acceso il fuoco, si addormentò. Quella notte lo Spirito
Guida si presentò da lei.
Stai per
intraprendere il cammino che ti porterà a conoscere ed
abbracciare tutto ciò che sei, le disse, ma per la prima
volta non si stava limitando a parlarle, le stava mostrando qualcosa.
Prima che tutto svanisse, sentì il soffio di un vento
potente sul viso e intorno a sé percepì uno
spazio luminoso, libero e infinito.
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Capitolo 4 *** CAPITOLO 3 -Il viaggio ***
CAPITOLO 3
- IL VIAGGIO -
Si
svegliò proprio nell'istante in cui i caldi raggi del sole
iniziavano ad affiorare dall'est, portando con sé la
promessa di un nuovo giorno.
Cercò di non indugiare troppo in quel luogo pieno di ricordi
e raccolse piuttosto in fretta le bisacce; non era del sentimentalismo
che aveva bisogno, in quel momento. Solo una volta giù
dall'albero si concesse un'ultima occhiata alla sua casa; anche se non
sapeva se mai ci sarebbe tornata aveva calato tutte le coperture
necessarie a celarne la presenza, tanto che se non avesse saputo dove
guardare mail'avrebbe potuta intravedere. Esitando più di
quanto avrebbe voluto,si voltò e prese a camminare in
direzione dell'accampamento dei soldati, lasciandosi alle spalle il
grande albero e tutto ciò che rappresentava.
Non ci volle molto per arrivare in vista del bivacco e quel poco tempo
le diede ancor più idea di quanto i soldati si fossero
avvicinati alla casa sull'albero; un brivido poco rassicurante le
scosse la spina dorsale. Era già tutto pronto,
constatò: le tende erano scomparse e al loro posto, legati
ai rami più bassi di un giovane albero, c'erano otto
cavalli. Sette di loro erano della stessa razza, tutti di un colore
rossiccio, evidentemente stalloni da guerra. L'ottavo lasciò
Freya a bocca aperta: era un animale enorme, dalle zampe grandi e
robuste ricoperte di folto pelo fulvo; gli zoccoli, larghi e ben
piantati, sembravano poter passare sopra qualunque ostacolo; il crine
era nero e il manto bianco, ricoperto da grandi e bellissime macchie
scure. Non appena avanzò di qualche passo, lo stallone la
notò e la guardò con i suoi grandi occhi scuri e
limpidi, grattando al suolo lo zoccolo della zampa anteriore destra. I
soldati la videro solo grazie al movimento dell'animale.
«Speravo che avreste accettato» le disse il
capitano, accompagnando le sue parole con una breve riverenza che la
mise a disagio tanto quanto il giorno prima.
«Sarò felice di sapere qualcosa in più
della mia storia» si limitò a rispondere la
ragazza, senza sbilanciarsi troppo. Non dovevano sospettare quanto poco
ancora si fidasse di loro, ma non gli avrebbe nemmeno lasciato credere
che fosse una sciocca ragazzina pronta a credere a qualunque cosa le
venisse propinata. Per quanto diffidente, non poté impedirsi
di sgranare gli occhi quando il capitano Craius le porse proprio le
redini del grande stallone, che le si avvicinò di buon
grado. Freya guardò l'uomo, senza capire.
«Questo stupendo stallone è discendente diretto di
quello che un tempo fu il cavallo di vostro padre» le
spiegò il comandante. «La Regina Mirea mi ha
incaricato di consegnarvelo come suo dono personale. Vorrebbe che foste
voi a dargli un nome.»
Freya lo guardò pensosa, poi decise che avrebbe capito quale
fosse il nome più adatto a lui solo dopo averlo cavalcato.
Agganciò tutte le bisacce alla sella dello stallone e poi vi
montò. La sensazione che mani invisibili la legassero a
doppio filo a quella meravigliosa creatura la lasciò quasi
senza fiato. Le era sempre successo di sentirsi in sintonia con tutto
ciò che l'intera natura comprendeva, tanto che mai le era
accaduto che qualche bestia selvatica la aggredisse. Poche volte le era
però accaduto così intensamente.
Lo spronò a muovere i primi passi e in quell'istante il
capitano si voltò verso di lei: «Il viaggio
sarà particolarmente lungo, Lady Freya. Avremo la
possibilità di fare sosta in più di un centro
abitato, ma spesso saremo costretti a dormire all'aperto. Rappresenta
un problema, per voi?»
Freya dovette trattenere una lieve risata in gola, sia per
l'assurdità di quel "Lady" apposto al suo nome che per la
domanda in sé; sembrava che la credesse fatta di vetro. Si
limitò a sorridere, asserendo: «No, capitano. Non
temete per me, sono più resiliente di quanto non
sembri.»
Craius le rivolse un brevissimo sorriso, prima di portare l'attenzione
sui suoi uomini. «Compagnia, in sella. Il percorso
è lungo e dobbiamo sfruttare ogni attimo per consumare
miglia» ordinò, perentorio. I soldati montarono a
cavallo senza una parola e in breve formarono un'ordinata colonna, per
quanto permettesse lo stretto sentiero.
Freya non aveva mai cavalcato prima, ma il da farsi le venne istintivo:
invitò con un leggero colpo di talloni il suo stallone a
muoversi e aggiustò la presa sulle redini. Ebbe solo un
brevissimo istante per riflettere un'ultima volta su quello che stava
per fare: lo spese voltandosi all'indietro e guardando la parte a lei
conosciuta della foresta che si allontanava sempre di più
alle sue spalle.
Cavalcarono ininterrottamente per tutta la giornata. Nonostante le
grandi zampe, notò la giovane, lo stallone si districava
bene nella foresta, tra le fronde basse e le radici nodose dei grandi
alberi. Era una dote piuttosto utile, contando il fatto che in quel
punto la foresta era particolarmente estesa e intricata.
Arrivata la notte, si accamparono in una radura grande abbastanza da
ospitare le tende dei soldati. Quando il comandante Craius ne
offrì una a Freya, la ragazza rispose che preferiva dormire
sotto le stelle; preparò un giaciglio con le coperte che si
era portata e, dopo aver tolto il fastidioso morso al cavallo, si
recò al rigagnolo che scorreva lì accanto per
darsi una rinfrescata. Consumata poi la propria cena, si sedette con la
schiena appoggiata al grande tronco alle sue spalle.
Lo stallone pascolava placidamente l'erba che cresceva attorno
all'albero. Era da tutta la giornata, rilassata dalla regolare andatura
del suo passo, che pensava a un nome da dargli, ma solo in quel
momento, ferma a guardare il cielo che risplendeva di stelle sopra la
radura, le venne spontaneo un nome. Si alzò e il cavallo le
venne incontro, come se avesse percepito che dovesse dirgli qualcosa;
la ragazza gli posò una mano sul muso e gli disse
dolcemente: «Stellato. Questo sarà il tuo nome, se
vorrai portarlo.»
Il cavallo emise un nitrito di soddisfazione che fece voltare
brevemente i soldati nella sua direzione.
La ragazza sorrise lievemente. «Allora è
deciso.» Poi, tornò a coricarsi accanto
all'albero, chiudendo gli occhi. Non appena fu sola nel buio della
propria mente, fu assalita dall'enormità di tutte le
decisioni che aveva preso.
Davvero sua sua madre sarebbe stata fiera di lei, se avesse saputo a
che cosa aveva scelto di andare incontro? Sì,
capì infine, lo sarebbe stata. In fondo, era stata lei a
insegnarle che in un mondo governato dalla prepotenza qual'era il loro
perseguire la verità e la giustizia fosse una
virtù fondamentale per accendere una luce nel buio. Con
quella consapevolezza si addormentò e, in qualche modo,
riuscì a coltivarla dentro di sé anche nei molti
giorni di viaggio successivi.
La prima sorpresa arrivò già appena superata la
parte più profonda della foresta, quando improvvisamente
Freya si ritrovò a cavalcare sulla strada più
grande che avesse mai visto. Doveva essere relativamente recente,
perché non ve n'era traccia sulle cartine che aveva avuto
fra le mani lei, probabilmente antecedenti alla conquista di Mirea. Da
quel momento in poi, iniziarono a incrociare viandanti, sia solitari
che in gruppo, carri di tutte le dimensioni e altri drappelli di
soldati a cavallo diretti chissà dove. Man mano che si
avvicinavano al cuore di Riagàn, la loro meta, il viavai si
faceva sempre più frenetico e caotico. Passarono quello che
una volta era stato il confine senza che Freya nemmeno se ne
accorgesse, troppo impegnata a cercare di abituarsi a tutte quelle
novità.
Il vero e proprio Regno di Riagàn, così come lo
era stato fino a cent'anni prima, era molto più piccolo del
territorio controllato ora dalla sovrana. Quando aveva preso il potere
Mirea aveva iniziato lentamente a espandere i domini di
Riagàn e adesso villaggi e piccoli centri urbani erano sorti
dove prima c'erano solo boschi e luoghi completamente disabitati. Pochi
erano gli angoli di Finian che gli esseri umani non fossero riusciti a
raggiungere e uno di questi era la piccola porzione di foresta in cui
viveva Freya. Gli altri erano i cuori delle Antiche Terre: la ragazza
aveva passato tutta la propria infanzia a domandarsi se prima o poi
qualcuno sarebbe riuscito a raggiungere di nuovo gli altri popoli nei
loro territori remoti. In fondo, era da uno di quei luoghi che sua
madre proveniva, anche se aveva sempre continuato a ripeterle che non
sarebbe mai potuta tornare fra la sua gente. In ogni caso, erano
pensieri che forse, nel posto in cui stava andando, avrebbe fatto
meglio a tenere per sé.
Mano a mano che il viaggio proseguiva, la giovane si rendeva sempre
più conto che probabilmente a Errania non avrebbe avuto
nemmeno la stessa libertà di espressione a cui era abituata.
Eleana le aveva sempre permesso di dar voce alla propria opinione, se
lo voleva, ricordandole semplicemente di farlo nei giusti modi; il suo
pensiero era sempre stato libero di articolarsi in parole, fin tanto
che lo faceva educatamente. Le persone che le passavano davanti,
villaggio dopo villaggio, sembravano in qualche modo frenate dal farlo.
Freya imparò come spesso la gente preferisse il silenzio,
soprattutto sotto lo sguardo di chi, in qualche modo, era considerato
loro superiore. In quel mondo che lei ancora non capiva, nessuno pareva
dire mai del tutto ciò che avrebbe voluto, nemmeno con
gentilezza.
Mentre gli zoccoli di Stellato la portavano lontano da casa,
così come nelle notti trascorse in tenda o nella camera di
qualche locanda, Freya cercava di ripetersi che quelle donne e quegli
uomini non erano poi tanto diversi da lei. Nonostante questo, loro non
sembravano pensarla esattamente alla stessa maniera: la ragazza sentiva
i loro sguardi su di sé, vedeva il timore nelle loro
espressioni quando notavano le sue orecchie a punta. Iniziò
a sentirsi una specie di creatura leggendaria ricomparsa dai recessi
delle loro memorie, qualcosa che fino al giorno prima non pensavano
potesse ancora esistere. Aveva provato a fare finta di niente, ma non
era abituata a tutta quella attenzione, né a tutta quella
presenza umana.
Anche mia madre si
sentiva così?, iniziò a chiedersi
costantemente. Tutti
quegli sguardi le hanno mai fatto pesare il suo essere elfa?
La sera, quando riuscivano a pernottare al cado di qualche struttura,
Freya mangiava velocemente e si rintanava nella stanza che avevano
tenuto per lei, beandosi della solitudine. A lungo quella
restò una sua abitudine, seppur accompagnata dalla
consapevolezza che, oramai, nulla nella sua vita sarebbe potuto restare
uguale per molto.
Il suo carattere, in ogni caso, sopportò imperterrito tutte
le prove a cui venne sottoposto. La sua curiosità la
portò comunque a trarre immensa gioia da tutto
ciò che aveva occasione di scoprire per la prima volta. Per
quanto la giovane non riuscisse ancora a capire come funzionasse la
società in cui gli esseri umani si muovevano, rimase fin da
subito affascinata dalla loro capacità di costruire
pressoché qualunque cosa. Dapprima, nei piccoli centri
urbani in cui sostavano, imparò ad apprezzare ciò
che scaturiva dal lavoro degli artigiani; non importava quale materiale
trattassero o cosa ne facessero: vedere le loro mani usare con perizia
gli strumenti del mestiere e creare tutto quello di cui le persone
potevano aver bisogno aveva il potere di incantarla. Anche lei aveva
spesso dovuto trovare il modo di mettere insieme quello che le serviva,
ma c'era un'enorme differenza tra farlo per mera necessità e
farlo anche per passione; la si vedeva nell'amore e nella cura per i
dettagli, oltre che nel risultato finale.
Quando giunsero poi nella prima delle due grandi città che
li separavano dalla capitale, per la prima volta Freya vide fin dove
l'inventiva e l'abilità degli abitanti di Riagàn
era capace di arrivare. Non aveva mai visto nulla di simile a quegli
edifici di pietra, pesanti, imponenti, tanto solidi. La sua casa
sull'albero sembrava prossima a crollare al primo alito di vento, se
paragonata agli enormi palazzi di Concivis. Mentre vi cavalcava
attraverso, la giovane non ne perse nemmeno il più piccolo
scorcio. Era un luogo molto curioso: alle case più semplici
si alternavano strutture dalla pianta rotonda, simili a basse e larghe
torri, spesso arricchite da pitture che fregiavano il contorno di porte
e finestre; a fare da sfondo a quelle opere d'arte, il colore giallo
declinato in centinaia delle sue tonalità. Sembrava una
caratteristica comune a tutti gli esterni dei palazzi, dalla periferia
al centro. Nel vedere la sua curiosità, il capitano Craius
le spiegò che quello ero lo stile architettonico peculiare
di Concivis e che in nessun'altra città avrebbe trovato
qualcosa di simile.
Vi sostarono per un paio di giorni, il tempo necessario a fare un
pò di rifornimento, prima di proseguire in direzione di
Plametia. Come le aveva detto il capitano, la città, che
sorgeva al centro di una vasta pianura, non condivideva nessuna
caratteristica con la precedente: gli edifici di Plametia erano
costruiti in pietra scura, grezza, su cui ogni tanto faceva capolino
qualche bassorilievo. La pianta dell'intero centro urbano era un
perfetto incrociarsi di strade, che scorrevano parallele o
perpendicolari le une alle altre, in assoluta simmetria. Perfino per
Freya, che in mezzo a tutte quelle vie si sentiva un pò
disorientata, sarebbe stato difficile perdersi.
Solo una cosa accomunava quei due luoghi: il misto di stupore e timore
che suscitavano nell'animo della giovane. C'era una parte di lei che
bramava di sapere, che spingeva per poter assorbire quante
più nuove nozioni e immagini potesse; l'altra, invece, era
quella che percepiva la sostanziale differenza fra sé e ogni
altro elemento che la circondava. Dimenticare gli sguardi era
più facile, quando la sua attenzione era catturata da altro,
ma nulla avrebbe mai potuto cancellarli del tutto.
Presto, lasciarono anche Plametia e fu mentre la grande porta della
città si allontava alle sue spalle che Freya
iniziò davvero a realizzare: la capitale si faceva sempre
più vicina e con essa anche l'ora della verità.
Era il tardo pomeriggio dell'ennesimo giorno trascorso in sella
quando,in lontananza, videro finalmente il castello e la
città che gli si espandeva al fianco. Proseguirono ancora
per diverse ore e infine, quando la sera stava iniziando ad allungarsi
sulla terra, vi giunsero. La capitale, Errania, era immensa e in un
certo qual modo terrificante, molto più di quanto non lo
fossero Concivis e Plametia, gli unici metri di paragone che Freya
avesse: era una distesa di case e palazzi, circondata da una spessa
cinta muraria che impediva qualunque sguardo esterno sulla sua vita;
oltre solo il castello, arroccato su un'altura che la dominava. Era
lì che si stavano dirigendo, tenendo i cavalli a un trotto
sostenuto.
Il pesante cancello era stato lasciato spalancato in vista del loro
arrivo e a Freya non restò altro da fare che seguire i
soldati nell'ultimo tratto di quell'improbabile viaggio.
Sentì i propri muscoli irrigidirsi progressivamente, come
pronti per scattare a un imminente pericolo, ma comunque, quando fu il
momento, entrò nel cortile del castello. Guardie e servitori
andavano avanti e indietro, svolgendo le loro mansioni quotidiane. Alla
loro comparsa si fecero tutti da parte. Il sole, alla fine del suo
tracciato nel cielo, tingeva ogni cosa di un colore aranciato che le
riempiva gli occhi, abbagliandola, tanto che inizialmente non si rese
conto che tutti si erano fermati. Credeva di essersi quasi abituata a
essere circondata da tante persone, ma ci volle poco perché
capisse che non era così; il suo disagio non fece altro che
crescere quando si accorse che le sue orecchie leggermente appuntite e
i tratti inusuali del suo viso avevano sortito il solito effetto.
Per un attimo, una strana paura la colse e fu tentata di far voltare
Stellato e fuggire da tutta quell'attenzione indesiderata; sentiva di
essere arrivata al limite ancor prima che la sua avventura cominciasse
davvero. Fu dalla sua anima che giunse l'incoraggiamento necessario: il
ricordo di ciò che le aveva detto il suo Spirito Guida la
notte prima che partisse. Le sue parole la invasero, riempiendola di
forza. Raddrizzò la schiena e proseguì verso il
fondo del cortile principale, su cui si affacciava l'entrata del
palazzo. Lì, un gruppetto di cinque persone allineate
sembrava attenderli: senza dubbio servitori del castello, tutti vestiti
in abiti semplici e dai colori poco vistosi. Non sembrava esserci
nessun altro. Fu solo avanzando ancora di qualche passo che
notò due ragazzi, in piedi sulla scalinata di pietra che
conduceva al portone intarsiato di ferro nero.
Non appena si concesse uno sguardo d'insieme, Freya rimase meravigliata
dalla grandezza di quel cortile, dall'altezza delle guglie di quel
palazzo color antracite e dall'effetto che la luce solare produceva
sull'ambiente circostante. Era talmente assorta nella contemplazione di
quell'ennesimo nuovo paesaggio da rendersi conto solo in un secondo
momento che tutte quelle persone erano lì per accogliere
lei. Con tutta la propria forza di volontà,
riuscì a ricacciare indietro il turbamento, almeno
finché non incontrò lo sguardo di uno dei due
giovani.
Solo allora sentì un'ondata di emozioni per lei non
identificabili afferrarle il cuore, rovesciandolo esattamente come
quando, da piccola, si lanciava da rami fin troppo alti per lei e
quello di colpo sembrava precipitarle fino ai piedi, per poi ritornare
bruscamente al proprio posto. Fra tutte quelle sensazioni, a stagliarsi
nitida su tutte le altre, seppur inspiegabile, era quella di aver
ritrovato qualcosa di perduto da tempo.
Era giunta in un luogo completamente estraneo, mai visto prima se non
in una minuscola veduta dipinta sulle Saghe di Finian. Eppure, lui ebbe
la sensazione di conoscerlo da una vita intera.
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Capitolo 5 *** CAPITOLO 4 -Incontro di anime ***
CAPITOLO 4
- INCONTRO DI ANIME -
Una strana e sempre crescente agitazione aveva animato il castello in
quegli ultimi giorni, accompagnata da un'euforia a cui Aran non era
abituato.
Non c'era abitante della corte di Errania che non mormorasse, mentre si
affaccendava per sale e corridoi, chiedendosi di quale portata potesse
essere l'ospite che aveva richiesto tanti preparativi. Era la sola cosa
che il ragazzo fosse riuscito a capire: a palazzo si prevedeva un nuovo
arrivo; con tutta probabilità, a portare la notizia era
stato il messaggero giunto al castello in tutta fretta quasi una
settimana prima. Scoprire l'identità del misterioso ospite,
in ogni caso, sembrava impossibile; nemmeno parlare con sua madre, la
Regina Mirea in persona, era servito aqualcosa, tranne che ad aprire
ancor più interrogativi. L'unica risposta che aveva ottenuto
era stata: "Capirai tutto a tempo debito." La Regina aveva sempre avuto
l'innata passione di rispondere per enigmi.
Per quella ragione, terminate le proprie incombenze, si era appostato
in cima alla scalinata principale del castello: voleva a tutti i costi
vedere cosa ci fosse da capire. Il vento del tardo pomeriggio lo
sferzava, freddo nonostante fossero ancora nei mesi estivi, ma lui non
sembrava preoccuparsene più di tanto; tutta la sua
attenzione era rivolta ai colori della sera che iniziavano a dilagare
da ovest. Perso nelle profondità di quelle sfumature,
finalmente nella calma, si ritrovò a sorprendersi di come il
suo addestramento quotidiano gli avesse prosciugato così
tanto tempo ed energia.
Era fin dal momento in cui aveva imparato a stringersi i lacci degli
stivali che la sua istruzione nell'arte del combattimento aveva avuto
inizio; quella intellettuale, la quale solitamente occupava le sue
mattinate, risaliva ad ancor prima. La sua vita era organizzata in
quelle attività oramai da anni, eppure la stanchezza a fine
giornata era sempre la stessa; lo sentiva nelle proprie membra pesanti,
sfiancate dall'interminabile serie di colpi che gli erano stati inferti
dal fratello maggiore. Lo osservò di sottecchi, in piedi al
suo fianco, e notò con una certa soddisfazione che anche
Darragh, suo inseparabile compagno d'allenamento, sembrava sfinito
tanto quanto lui.
«Sto iniziando a stancarmi di stare qui ad aspettare come un
imbecille» commentò quest'ultimo proprio
in quell'istante, aggrottandole sopracciglia. «Non so nemmeno
come tu abbia fatto a convincermi.»
La pazienza non era mai stata una delle virtù principali di
Darragh, ma perfino Aran, del quale solitamente era un tratto
distintivo, stava iniziando a perderla. Chi mai sarebbe potuto arrivare
a quell'ora, oramai? Eppure, le sue gambe si rifiutavano di voltarsi,
varcare il portone del castello e portarlo a ritirarsi in camera sua in
attesa della cena, come faceva sempre. Non sapeva cosa stesse
attendendo, ma non riusciva a ignorare quel senso di aspettativa che lo
teneva inchiodato lì.
Proprio mentre la mano di suo fratello correva a stringere il pomolo
della spada che gli pendeva al fianco, segno che la sua impazienza
stava raggiungendo il culmine, una piccola compagnia a cavallo
spuntò oltre il cancello nero. A capeggiare il gruppetto, il
capitano Craius, il quale giungeva al trotto sul suo stallone da
battaglia. Questo spiegava l'assenza dell'uomo nelle ultime settimane,
dettaglio di cui Aran si era accorto nonostante sua madre fosse sempre
molto attenta a mantenere il massimo riserbo sulle sue faccende. Era
forse per l'eccessiva riservatezza della Regina che il giovane aveva
finito col diventare un ottimo osservatore e aveva imparato a trovare
da solo le risposte che cercava.
In ogni caso, quella volta il segreto era stato mantenuto talmente bene
che solo ora che gli stava venendo incontro poteva scoprire l'oggetto
di tanta premura da parte di Mirea. Quando riuscì a scorgere
la persona che stava arrivando accompagnata dai soldati, una sensazione
sconosciuta lo strinse in una morsa ferrea, facendolo rabbrividire
dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. Non capiva a cosa
potesse essere dovuta: era una ragazza, semplicemente una ragazza.
Naturalmente, Aran aveva già visto altre giovani donne prima
di allora: era capitato che a corte si recassero le figlie dei generali
e probabilmente, secondo i piani della Regina, due di loro sarebbero
state un giorno le fortunate consorti dei suoi figli. Nonostante
questo, non appena vide lei gli sembrò la prima. Aveva
lineamenti particolari, resi tali dal volto affilato e dagli occhi
leggermente allungati. Fu il colore di questi ultimi a catturare la sua
attenzione al di sopra di ogni altra cosa: erano di un intenso azzurro
screziato di verde, luminoso e limpido, che gli si marchiò
in un luogo lontano in fondo al cuore. Solo in un secondo momento colse
altri dettagli, come i suoi lunghissimi capelli color del rame fuso e
le orecchie, terminanti in una punta ben visibile ai lati del suo viso.
C'erano tante altre cose insolite in lei, dagli abiti chiaramente
maschili all'arco che portava a tracolla con estrema naturalezza. Ne
rimase completamente incantato.
I servitori del palazzo l'accolsero e la giovane si avvicinò
a loro con la titubanza di chi trova sgradevole essere al centro di
tanta attenzione. Non la conosceva, non si erano ancora scambiati
nemmeno una parola, eppure Aran seppe che quell'incertezza era solo
momentanea; c'era qualcosa, nella sua camminata e nella sua postura,
che lasciava intuire una forza e una sicurezza che raramente aveva
visto in altri. Mentre la guardava parlare con Malia, gli parve di
essere avvolto in un silenzio d'ovatta che gli impediva di afferrare
bene il senso delle loro parole, lontano da tutto il resto del mondo.
Rimase profondamente turbato da quella sua reazione inspiegabile e,
soprattutto, incontrollabile. Non era abituato a lasciarsi cogliere
tanto di sorpresa dalle proprie emozioni. Aveva avuto molte fortune di
cui sorprendersi, nella propria vita, ma quella non era il genere di
meraviglia grata che gli era capitato di provare pensando a queste
ultime; era qualcosa che la sua mente non era in grado di processare.
La ragazza si mosse, un passo alla volta, percorrendo la scalinata fino
al portone. Aran fece appena in tempo a notare che dovesse essere
stanca, prima che quegli occhi che tanto lo avevano colpito si
posassero nei suoi. Il mondo cessò del tutto di esistere,
qualcosa di inafferrabile baluginò nella sua mente; tutto
nel giro del brevissimo istante in cui si trovarono uno di fronte
all'altra.
Poi, sentì Darragh dire qualcosa, prima di rivolgersi a lui
direttamente con molta poca delicatezza: «Aran?... Aran,
diamine!»
Ritornò presente a se stesso tutto di un colpo, rammaricato
di quel suo attimo di defezione; si aspettò di trovare
un'espressione divertita da parte della loro ospite, ma tutto
ciò che vide fu un riflesso del proprio stesso smarrimento.
Con non poca confusione, realizzò che Darragh aveva
già porto le proprie presentazioni alla giovane e che lui
doveva fare altrettanto.
«Aran di Errania», riuscì a mala pena a
tirar fuori. «È un onore fare la vostra
conoscenza.»
Un breve e rispettoso cenno del capo precedette le parole della
ragazza. «Freya, figlia di Eleana e Harden. L'onore
è mio.»
Malia sembrava aver già ricevuto precise istruzioni, al
contrario di loro che si erano dovuti presentati
così, su due piedi, perciò
condusse Freya all'interno. Aran rimase lì, piantato sul
gradino, almeno fino a che Darragh non lo afferrò per un
braccio con veemenza, altro tratto caratteriale che non li accomunava.
Erano cresciuti insieme, come veri fratelli, nonostante non
condividessero una sola goccia di sangue; eppure, erano completamente
diversi.
La mancanza di tratti somatici in comune non sorprendeva, considerando
l'adozione di Aran: lui non aveva gli stessi lineamenti marcati,
né gli stessi occhi azzurri e capelli castani di Darragh.
Quest'ultimo, poi, era alto e imponente, mentre Aran era leggermente
più basso e asciutto, anche se ugualmente forte; spesso i
loro duelli di allenamento finivano in una sfinita parità.
Lo stesso, però, si poteva dire delle loro
personalità, paragonabili solo al giorno e alla notte; erano
molte le volte in cui si ritrovavano a discutere per le differenti
opinioni. Certe volte, risultava difficile capire cosa li tenesse tanto
uniti.
«Non sarà bastata la vista di una bella fanciulla
a rammollirti» lo canzonò Darragh, in tono
malizioso.
Aran si divincolò dalla sua presa ferrea e per tutta
risposta si limitò ad acquisire un'espressione
impenetrabile. Non avrebbe mai dovuto perdere il controllo in una
simile maniera, si rimproverò. Era stato educato per
affrontare qualsiasi situazione con calma e raziocino, che si trattasse
di amministrazione, combattimento o sentimenti; poco importava che un
simile modo di fare non fosse nelle sue corde. Se gli fosse stato
concesso di essere se stesso forse sarebbe stato più aperto
e ironico, così com'era con le persone che lo conoscevano
davvero, ma era qualcosa che non si poteva permettere con tutti.
Ostentando un'aria sicura e tranquilla seguì i passi del
corteo che stava accompagnando la giovane, Freya, verso la Sala del
Trono, dove un giorno Darragh sarebbe seduto come Re del Regno di
Rìagan. Quell'attimo di debolezza non avrebbe dovuto
ripetersi mai più.
֍ ֍ ֍
Mettere un piede davanti all'altro: era tutto ciò che doveva
fare per raggiungere la sua meta.
Eppure, la mente di Freya vagava molto lontano da lì e a
ogni passo doveva sforzarsi per non voltarsi indietro, là
dove sapeva che il ragazzo dagli occhi grigi la stava seguendo. Non
senza un certo imbarazzo, dovette ammettere a se stessa che non aveva
fatto altro che guardare lui, mentre saliva la scalinata; solo il suo
senso dell'equilibrio sviluppato le aveva impedito di inciampare nei
gradini di pietra.
Cercò di dirsi che quella reazione fosse dovuta
semplicemente al fatto che, prima di allora, non avesse mai avuto a che
fare con molti ragazzi della sua età, ma sentiva che in
fondo sarebbe stata una bugia. C'era qualcosa, in lui, qualcosa che
l'attirava inesorabilmente e le faceva perdere in qualche modo
l'orientamento. La giovane sapeva perfettamente che quella era l'ultima
cosa di cui avesse bisogno, in quel momento, ma sembrava che al suo
cuore non importasse affatto: la sensazione che aveva provato il primo
istante in cui il suo sguardo si era posato su di lui era ancora
lì, ben presente e poco intenzionata ad andarsene.
Dopo quella che parve un'eternità, il percorso di corridoi
lungo il quale era stata condotta sembrò terminare; di
fronte a lei stava solo un'altra immensa porta, magistralmente decorata
e intarsiata. Prima che potesse anche solo cercare di capire quale
disegno gli artigiani avessero deciso di seguire, i pesanti battenti
vennero spalancati da due guardie in casacca viola, armate di alabarde
dall'aria letale. Solo allora si rese conto di non aver pensato a nulla
da dire, di non aver progettato come nascondere alla donna
più temibile di Finian che di lei ancora non si fidava.
Deglutì a vuoto, in ansia, e capì che forse il
problema principale sarebbe stato più che altro riuscire a
dire una qualunque cosa: aveva la gola così secca che
iniziò a temere che la voce le sarebbe uscita strozzata, o
peggio, non ne sarebbe uscita affatto.
Ciò che vide, però, non fu ciò che si
era aspettata. O meglio, chi si era aspettata. La Sala del Trono era
magnifica, con i suoi muri ricoperti di arazzi e il soffitto decorato
da uno stupendo mosaico di marmo e gemme. Sulla parete in fronte alla
porta, sollevato su un gradone di pietra, c'era il trono: era
imponente, adornato da pietre di onice, ossidiana e ametista e foderato
da morbidi cuscini di seta viola scuro. Freya fu perfettamente in grado
di coglierne ogni dettaglio, perché era vuoto.
Una figura solitaria stava a lato dell'alto scranno, ma sicuramente non
si trattava della Regina; era anzi un uomo, vestito di nero e viola
dalla testa ai piedi. La sua tunica recava lo stemma di Mirea. Si
avvicinò a loro, le mani intrecciate dietro la schiena
dritta come un fuso e nessuna espressione in volto. Una scarica di
terrore puro l'attraversò, come un terribile e ambiguo
presagio, ma Freya riuscì in qualche modo a ignorarla e a
impedirsi di fare un passo indietro.
«Dunque, ecco la figlia della più potente
Incantatrice che la nostra Regina Mirea abbia mai avuto al suo
servizio. Non so esprimervi quale onore sia conoscervi»
esordì l'uomo, prendendo la mano della giovane fra le sue e
baciandone il dorso. La sua galanteria le parve esagerata,quasi
artefatta.
«Il mio nome è Freya. Ringrazio la Regina Mirea
per la generosa ospitalità che mi ha
offerto»rispose la ragazza, riuscendo a ritrovare la parola.
Quella brutta sensazione non se ne andò nemmeno quando fu
riuscita a ritirare la mano; sapeva di non poter giudicare a quel modo
una persona con cui aveva scambiato a mala pena due battute, ma non
poté evitare di trovare qualcosa di sinistro in
quell'individuo.
«Il mio nome è Gorman, Lady Freya. Sono il Primo
Consigliere della Regina» si presentò lui, un
sorrisetto sulle labbra che non raggiunse mai gli occhi. Distolse
l'attenzione da lei solo per rivolgere uno sguardo alle sue spalle;
Freya ebbe l'impressione che si stesse interrogando sulla presenza dei
due ragazzi.
«Malia, la vostra ancella, vi condurrà negli
appartamenti che vi sono stati messi a disposizione, così
che possiate prepararvi» le annunciò poi, tornando
a guardarla. «L'incontro con la nostra Signora
avverrà non appena vi sarete ripulita dalla polvere del
viaggio.»
Gorman fece un cenno alla donna che l'aveva accolta all'entrata del
castello e lei le rivolse un breve sorriso, inchinandosi con deferenza.
«Sarò lieta di essere a vostro servizio»
le disse, tenendo lo sguardo basso.
Freya si domandò come si potesse pretendere che qualcuno
fosse felice di dover servire qualcun altro e fu tentata di dir loro
che non vedeva la necessità di avere un'ancella. Non era
però certa di come sarebbe stata accolta una simile
esternazione, perciò decise di contenere il proprio
disappunto. Senza toccarla, la donna le fece gentilmente segno di
seguirla verso l'uscita.
La giovane si voltò e si trovò a rivivere
l'insolito tuffo al cuore già avvertito in precedenza.
Stordita da quello strano miscuglio di emozioni, sulla scalinata, non
aveva osservato null'altro che il volto di quel ragazzo. Solo in quel
momento riuscì finalmente ad avere una sua immagine
d'insieme: era più alto di lei, anche se non di molto, e la
sua pelle era più scura di quella di chiunque avesse visto
fino ad allora, quasi olivastra. Aveva i capelli non troppo corti, neri
e ricci, che gli cadevano a volte sugli occhi, l'unica cosa di cui
avesse notato lo splendente colore: grigio ardesia, prima acceso da una
luce che ora sembrava sparita dietro una maschera di rigida compostezza.
Sia lui che l'altro ragazzo, Darragh, le rivolsero un leggero inchino
prima che uscisse, gesto che lei cortesemente ricambiò. Lo
sguardo penetrante di Aran fu l'ultima cosa che sentì su di
sé, prima che le porte della Sala del Trono si richiudessero
alle sue spalle.
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Capitolo 6 *** CAPITOLO 5 - Attesa ***
CAPITOLO 5
- ATTESA -
Dovettero passare per talmente tanti corridoi e scalinate che alla fine
Freya perse il senso dell'orientamento, tanto da non capire
più nemmeno in quale lato del palazzo si potessero trovare.
Per lei, abituata a poter trarre punti di riferimento dalla natura e a
saperli interpretare, fu davvero frustrante ritrovarsi in condizione di
non avere la minima idea di dove andare senza una guida. In ogni caso,
non poteva fare assolutamente nulla in proposito, perciò
impiegò quel tempo nell'ammirare tutto ciò che il
suo occhio poteva catturare.
In quel luogo non c'era assolutamente nulla che le ricordasse quello
che aveva già visto durante il viaggio attraverso le terre
di Riagàn; il castello era immenso, tenuto in piedi dalla
maestria di costruttori la cui vita apparteneva a un tempo oramai
lontano. Poteva sembrare assurdo, ma dall'interno si riusciva a
percepire ancor di più la vastità della
struttura: i corridoi, illuminati dalla luce di bracieri perfettamente
intervallati, arrivavano a toccare altezze che Freya aveva sempre
trovato solo negli alberi. Estremamente meravigliata, si
domandò per l'ennesima volta come qualcosa fatto di un
materiale tanto pesante potesse ergersi con una simile leggiadria.
Numerose porte scorrevano davanti ai suoi occhi, sollecitando
inevitabilmente la sua curiosità; sperò davvero
che le venisse concesso di esplorare quanto più possibile.
Mentre lei imparava a conoscere l'ambiente che sarebbe divenuto la sua
nuova casa, il loro percorso continuò fino a raggiungere
quella che Freya ipotizzò essere l'entrata a una delle
torri.
Quando varcò la porta che Malia le aveva indicato, la
ragazza rimase a bocca aperta. Si trattava di una camera circolare,
occupata da un grande camino pronto per essere acceso e un salottino
confortevole, fornito di poltroncine e di una piccola biblioteca
personale. Una grande finestra, oltre cui s'intravedeva solo il
tramonto oramai al culmine, si apriva sull'ambiente; in uno slancio
d'immaginazione, Freya riuscì a figurarlo inondato dalla
calda luce del sole al mattino. Tre gradini in legno portavano alla
pedana sopraelevata su cui posava un meraviglioso letto a baldacchino,
di quelli che lei non aveva mai visto: era trapuntato da lenzuola
candide e da calde coperte di un blu profondo, la cui
tonalità era ripresa nelle tende. Ai piedi di quest'ultimo
stava un baule che avrebbe potuto contenere tranquillamente dieci volte
la roba che la ragazza aveva portato con sé. In fondo, quasi
nascosta, s'intravedeva una piccola porticina che sembrava condurre a
un locale adiacente. Era leggermente socchiusa e da quello spiraglio
proveniva un profumo delicato ma persistente, molto simile a quello dei
gigli di bosco che sua madre raccoglieva in primavera.
«Quella è la stanza da bagno dove potrete
rinfrescarvi. Ho già preparato una tinozza d'acqua calda
profumata con sali da bagno, sperando che sia di vostro
gradimento» disse Malia. «Quando avrete terminato
sarò felice di aiutarvi a indossare l'abito che avrete
scelto e ad acconciarvi i capelli.»
La ragazza rivolse alla donna un sorriso grato. Lei sembrò
presa alla sprovvista da quel gesto e, un pò interdetta, si
congedò con una breve riverenza.
Spossata per il viaggio, Freya rimase immersa nella tinozza per molto
tempo, fino a che l'acqua non divenne fredda e perse quasi
completamente la sua fragranza. Uscì non appena
sentì dei leggeri brividi correrle lungo le braccia;
rinfrancata, si avvolse in un telo di lino, scaldato appositamente per
non farle patire il freddo, e raggiunse la piccola specchiera posta in
un angolo della stanza. Era abituata a lavarsi nella gelida acqua del
fiume, presso una lama in cui nuotava con sua madre quando era piccola;
amava molto quel luogo, ma dovette ammettere che poter usufruire di
acqua calda e sali profumati fosse una bella sensazione.
Si asciugò con cura, poi, sentendo le gambe pesanti per la
fatica accumulata dalle tante ore in sella, decise di sedersi sullo
sgabello posto davanti allo specchio. Osservò la propria
immagine riflessa, che non fece altro che rimandarle il suo stesso
sguardo. Nella casa sull'albero era presente un solo specchio, oramai
rovinato e sbeccato, a cui lei non prestava attenzione praticamente
mai. Era la prima volta che si concedeva un attimo per guardare un
pò più a lungo il proprio volto e si sorprese nel
constatare che assomigliava moltissimo a Eleana; ora che ne aveva
nuovamente un ricordo piuttosto nitido le risultava evidente.
Lo strano pensiero che, in quel modo, sua madre l'avrebbe riconosciuta
se si fossero mai riviste la colse impreparata; era convinta di aver
perso quel tipo di speranze già molto tempo prima. Un nodo
le serrò la gola e lei fece di tutto per mandarlo
giù. Non era più la bambina che aveva passatole
sue serate ad aspettare la madre al freddo; era cresciuta e, per quanto
potesse risultare triste, la vita che aveva condotto fino a quel
momento l'aveva resa certo più forte, ma l'aveva anche
indurita. La sua versione adulta sapeva perfettamente che perdersi in
fantasticherie come quelle non avrebbe fatto altro che renderla debole
e che la debolezza avrebbe aperto spiragli a chiunque avesse voluto
farle del male. Non avrebbe mai smesso di amare Eleana, ma non poteva
permettersi di sperare che un giorno sarebbe tornata a far parte della
sua vita. Semplicemente non poteva. Persa in quelle riflessioni
angosciose, quasi non si accorse che lentamente la porta si stava
aprendo.
Malia entrò con passo leggero, reggendo fra le mani fini una
bottiglietta colma di un liquido ambrato; perfino quel piccolo oggetto
sembrava prezioso. «Vedo con piacere che vi sentite meglio.
Se me lo permetterete, ora vi aiuterò a decidere come
abbigliavi e acconciarvi» disse gentilmente, posando il
flaconcino sul mobile della specchiera.
«Oh, non voglio farti perdere tempo. Posso
cavarmela» rispose Freya con un sorriso, pensando a quanto
fosse assurda l'idea che qualcuno dovesse aiutarla a vestirsi.
«Perdere tempo, Mia Signora? Io sono qui per
questo» rispose Malia, sorpresa, come se nessuno le avesse
mai detto nulla del genere. I suoi occhi nocciola erano sgranati e,
spalancati in quel modo, sembravano ancora più grandi di
quanto già non fossero.
Passò solo un'istante prima che Freya capisse
l'assurdità di ciò che aveva appena pensato.
Certo che nessuno le aveva mai detto una cosa simile: lei abitualmente
serviva signore che probabilmente non contemplavano nemmeno l'idea
d'infilarsi un anello da sole.
«Inoltre, posso garantirvi che indossare un busto non
è così facile come potrebbe sembrare»
aggiunse la donna, prendendo un altro panno di lino ripiegato con cura
sul mobile accanto alla tinozza. Le si avvicinò con
discrezione e delicatamente prese a tamponarle i lunghissimi capelli.
Senza che Freya sene accorgesse, l'acqua di cui si erano impregnati
durante il bagno aveva iniziato a gocciolare, lasciando una piccola
pozza sul pavimento di legno. La ragazza si affrettò a
scusarsi con Malia per quel piccolo disastro, ma l'ancella la
rassicurò, guardandola ancora con l'espressione di chi non
è abituata a ricevere scuse di alcun genere. Quando ebbe
asciugato il pavimento e frizionato ancora un poco la chioma della
giovane, la donna tornò a prendere la bottiglietta.
«Quest'olio viene estratto da una rara orchidea spontanea e
rende i capelli morbidi e profumati. Molte nobildonne lo
usano» le spiegò, iniziando ad applicarlo sui
lunghi capelli oramai appena umidi.
Nobildonna,
pensò Freya. Quel termine strideva in maniera quasi violenta
con il suo essere, ma rimase in silenzio e aspettò che Malia
avesse terminato.
Prima di dare una forma alle sue ciocche disordinate, la donna la
condusse nella stanza principale per dedicarsi alla scelta dell'abito.
L'ancella aprì il baule sul fondo del baldacchino e
iniziò a estrarre alcuni vestiti dalle trame elaborate,
forse fin troppo. Ne vagliò alcuni e infine glie ne porse
uno sui toni del rosso; la faccia di Freya dovette essere eloquente,
perché Malia sorrise e decise immediatamente di scartarlo.
Quel baule conteneva più abiti di quanti ne avrebbe mai
potuti indossare in una vita intera, ma per quanto potessero essere
belli Freya non riusciva a immaginarsi con nessuno di essi. Solo
arrivando verso il fondo iniziarono a spuntare stoffe dai colori
più sobri e finalmente la giovane riuscì a
individuare quello che sembrava fare al caso suo. Lo mostrò
a Malia: era un vestito color smeraldo con lemaniche all'avambraccio e
lo scollo rettangolare, il tutto bordato di ricami filigranati
d'argento. Anche la gonna e il corpetto erano ricamati d'argento, ma i
fili seguivano un disegno che ricordava i rami di un albero, decorati
da foglie punteggiate di piccole pietruzze che brillavano controluce.
Quando lo sollevò dal baule, l'ancella cambiò
espressione. Un sorriso malinconico le affiorò sulle labbra.
«Non è adatto?» chiese la ragazza,
cercando di interpretare i sentimenti della donna.
Lei scosse il capo. «No, al contrario... È molto
appropriato. Solo, non credevo che foste così simile a
vostra madre...» mormorò.
Freya sentì i propri occhi spalancarsi. «Conoscevi
mia madre?» domandò, con voce tremante.
«Io prestavo già servizio a corte, quando vostra
madre giunse qui; avevo iniziato da molto giovane con mia madre e dopo
la sua morte ne avevo preso il posto» spiegò
Malia. «Eleana era una donna fuori dal comune, trattava con
la stessa gentilezza chiunque incontrasse, portasse vesti signorili o
un grembiule da servitore. Ricordo ancora quando l'aiutai a indossare
questo abito.»
Freya sorrise, nonostante il mare di emozioni che le si agitava dentro,
e si avvicinò alla donna. «Grazie per avermi
restituito un pezzetto di mia madre, grazie mille. Sarò
onorata di portare un abito appartenuto a lei e che tu l'hai aiutata a
indossare» rispose, sincera.
Malia la guardò ancora una volta meravigliata, ma presto
sembrò riprendersi e prese a ritirare con ordine il resto
dei vestiti. Quando ebbe terminato si rivolse nuovamente a lei, questa
volta lasciando cadere un pò il suo tono formale:
«Vorrei che vi fosse concesso il tempo di riposare, ma Sua
Signoria Gorman mi ha informata che la Regina vi darà
udienza in un paio d'ore al massimo ed è necessario che
siate pronta per allora.»
Più che stanca, Freya si sentiva dolorante e l'ansia per
l'incontro imminente non le avrebbe concesso di chiudere occhio neanche
per un istante, perciò rispose alla donna di non
preoccuparsi e fare ciò che andava fatto. Indossare
quell'abito fu molto meno facile del previsto e al termine
dell'operazione dovette ammettere che senza l'aiuto di Malia non ne
sarebbe mai stata in grado. Il corpetto le stringeva il busto in una
presa che quasi le faceva mancare il respiro, niente a che vedere con
la comodità a cui era abituata. Nonostante quel piccolo e
fastidioso particolare, il vestito sembrava esserle stato cucito
addosso: cadeva alla perfezione, dallo scollo argenteo alla cintura
sottile che le cingeva la vita.
L'ancella passò poi gli attimi successivi a intrecciarle i
capelli e quando ebbe terminato, Freya rimase a bocca aperta. Le aveva
raccolto la parte superiore della chioma in una complicata treccia,
decorata da spilloni sormontati da piccole rose in smeraldo, niente a
che vedere con la sua solita crocchia disordinata; la parte inferiore
le ricadeva libera lungo le spalle. Quasi non si riconosceva in quella
strana persona che la guardava dallo specchio, ma le bastò
intravedere la consueta scintilla nei propri occhi per sapere di essere
sempre lei: non si sarebbe lasciata fagocitare da quel mondo dorato,
non avrebbe mai perso se stessa, giurò in quel preciso
istante. Dovessero prometterle tutto l'oro del Regno di
Rìagan.
«Sei stata veramente... formidabile» si
congratulò con Malia, anche se non aveva la minima idea di
come avrebbe dovuto apparire una ragazza di corte.
Nel mentre, la donna aprì uno dei bauletti sulla specchiera
e da esso estrasse un medaglione d'argento sostenuto da una catena
lunga una quindicina di pollici. Era decorato da pietre conosciute e
attraversato da intarsi d'oro che, con le loro linee sinuose, andavano
a comporre uno sconosciuto disegno. Non appena Malia glielo ebbe appeso
al collo, Freya lo sollevò all'altezza degli occhi e
osservò meglio le gemme: sette di esse erano disposte in
cerchio attorno all'ottava, incastonata nel centro esatto del
medaglione. Il suo cuore ebbe un sussulto, mentre le sue dita
stringevano il ciondolo fino a sbiancare: si trattava di un granato,
identico a quello della sua visione notturna e circondato dalle stesse
pietre che anche nel sogno lo attorniavano. Solo una non c'entrava
nulla, un topazio giallo come il sole.
Tornò presente a se stessa quando Malia la prese per le
spalle e la fece voltare per ammirare la propria opera.
«Abbiamo finito» annunciò, aggiustandole
l'abito sulle spalle. Poi, aggiunse: «Vi piace il
medaglione?»
«Sì, è meraviglioso. Cosa
ritrae?» domandò a propria volta Freya, sperando
che in qualche modo la risposta avrebbe aperto uno spiraglio nei suoi
sogni agitati.
«Vostra madre lo perse il giorno della vostra scomparsa. La
Regina Mirea in persona ha chiesto che ve lo dessi. Non ho davvero la
minima idea di che disegno sia, ma sono certa che avesse un significato
importante per lei; non lo toglieva mai.»
Freya rigirò il medaglione fra le dita, questa volta con
delicatezza, cercando di scacciare la delusione; il triste sentimento
se ne andò solo nel pensare a tutte le cose di Eleana,
materiali e non, che stava riuscendo lentamente a recuperare. Doveva
considerarla una grande conquista.
La lunga attesa che seguì le mise addosso una certa dose
d'inquietudine. Restò seduta sulla poltrona posta davanti al
fuoco, guardandosi intorno e facendo scorrere la catenina del
medaglione fra i polpastrelli. Sentiva la propria gola seccarsi sempre
più, mentre nella sua mente andava a formarsi un vuoto a cui
non era abituata; non riusciva a immaginare nessun possibile scenario
per l'imminente incontro, né tanto meno qualcosa di
più superficiale, come l'aspetto che potesse avere la Regina
Mirea.
Era talmente persa nella propria agitazione che quando Malia
parlò non poté impedirsi di sobbalzare.
«Desiderate che sistemi le vostre cose, Milady?» le
domandò, indicando con un cenno della mano le bisacce di
Freya, posate in un angolo della stanza.
La giovane, grata per quella piccola distrazione, scosse il capo.
«Ti dispiacerebbe se me ne occupassi io?» rispose,
temendo in qualche modo di offenderla; dopotutto, era il suo lavoro.
Malia le rivolse un sorriso. «Come preferite, Lady Freya.
Potrete riporle nel baule che troverete sotto la finestra.»
Freya ringraziò ancora una volta l'ancella, poi
tornò ad aspettare. Il tramonto si stava oramai disperdendo
nel buio quando tre colpi risuonarono attraverso la pesante porta di
legno; dopo il suo assenso, Malia aprì il battente e Gorman
fece il proprio ingresso nella stanza. Gli occhi gelidi
dell'inquietante uomo si fissarono su di lei.
«La nostra Signora Mirea desidera conferire con
voi» comunicò con voce incolore. «Noto
con piacere che vi siete abbigliata in maniera più consona a
un colloquio con la Regina.»
Per qualche ragione, Freya ebbe la sensazione di non piacere affatto a
Gorman: lo avvertiva nel suo tono piccato. Probabilmente le dimostrava
quella parvenza di cortesia solo perché gli era stata
imposta, ma non sarebbe mai stato contento della sua permanenza
lì; forse, non la riteneva degna di un posto a corte.
Dopo un altro sguardo al suo abbigliamento, da cui, a giudicare
dall'attento esame a cui veniva sottoposto, sembrava dipendere la
reputazione stessa di Gorman agli occhi della Regina, il Consigliere
sembrò decidere che fosse il momento di andare.
«Seguitemi, prego» la esortò, aspettando
che lei varcasse la soglia prima di richiudere la porta alle loro
spalle.
Percorsero nuovamente la strada dell'andata, i loro passi che
rimbombavano nei vuoti corridoi illuminati dalla luce delle fiaccole.
Per tutto il tragitto Gorman si prodigò nell'elencare una
dettagliata lista di tutto ciò che avrebbe o non avrebbe
dovuto fare in presenza della Regina; era una marea di informazioni, ma
Freya si sforzò di incamerarne il più possibile.
Fu solo davanti alla porta della Sala del Trono, dove era stata solo
poche ore prima, che si rese conto che finalmente stava per accadere:
avrebbe incontrato la donna più potente e terribile di
Finian, con tutta probabilità unica persona a sapere la
verità sulla storia della sua famiglia.
Solo un pensiero fu capace di arginare l'improvvisa paura che la stava
per inghiottire: in un modo o nell'altro, la sua vita era
già cambiata, il suo mondo era già stato
stravolto. Gli ingranaggi si erano oramai messi in moto e non c'era
più modo di fermarli; non poteva più ripensarci,
non c'era possibilità di tornare indietro. A dirla tutta,
non voleva tornare indietro, perciò non c'era più
alcun motivo di esitare.
Le porte si spalancarono e, accompagnata da Gorman, varcò la
soglia di quella sala per la seconda volta in un solo giorno e in tutta
la sua vita.
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Capitolo 7 *** CAPITOLO 6 -La Regina ***
CAPITOLO 6
- LA REGINA -
Il
salone era ampiamente illuminato e la luce dei fuochi mostrava
perfettamente i decori e il vuoto assoluto della stanza. Il silenzio
era irreale. Non sapeva bene cosa si aspettasse, forse di trovarsi
davanti un paggio in casacca di velluto che annunciasse di fronte a chi
si sarebbe dovuta inchinare e una folla di dignitari, come nelle
ballate scritte nei libri di sua madre. Invece non c'era nessuno,
almeno a prima vista.
Avanzò lentamente nel vasto spazio che la circondava,
seguendo il percorso tracciato da un lungo tappeto di tessuto viola, e
lasciò che i suoi occhi catturassero quanti più
dettagli potessero: la preziosità degli arazzi e
l'elaboratezza delle lampade in ferro lavorato; la bellezza delle
finestre in vetro colorato; ancora una volta, la maestosità
del mosaico incastonato nel soffitto da mani abili. Incantata da tanta
meraviglia, posò lo sguardo sul fondo della stanza solo
quandolo ebbe quasi raggiunto. Questa volta, notò con un
nodo allo stomaco, il trono era occupato.
Quando vide la Regina comprese perché quella donna non
avesse bisogno di nessuno che recitasse tutti i suoi innumerevoli
titoli per intimorire gli astanti. Sedeva sul trono con portamento
austero e autoritario, vestita di seta blu scuro e avvolta in un
mantello viola come i suoi stendardi, bordato di filigrana d'oro. La
sua figura era snella, messa in evidenza dalla perfetta postura; il
viso, appuntito e dai lineamenti spigolosi, era incorniciato da lunghi
capelli neri e mossi, sormontati da una corona di uno strano metallo
bianco traslucido, tempestata di gemme. In tutto questo,
però, a colpire Freya come un pugno allo stomaco furono i
suoi occhi: erano color del ghiaccio, così penetranti che
sembrarono trapassarla da parte a parte. Nella sua mente, per un solo
attimo, comparve l'immagine della figura incappucciata dei suoi incubi.
Solo grazie a tutta la propria forza di volontà resistette
all'impulso di fermarsi lì, nel bel mezzo della sala, e a
raggiungere la base del gradone su cui posava lo scranno.
La Regina Mirea la scrutò con occhio indagatore ed
estremamente attento per un istante che parve eterno, poi si
alzò e si diresse verso di lei. Freya ebbe un fremito, non
seppe dire se di paura o solo per l'ansietà; lo
scacciò rapidamente, ricordandosi ancora una volta il motivo
per cui era arrivata fin lì: trovare delle risposte. La sua
vita era stata un circolo infinito di domande senza alcun esito, era
giunto il momento di farla finita con quella catena di incertezze.
«Benvenuta alla mia corte, Freya. Sei talmente simile a tua
madre da farmi sembrare di avere la mia cara amica ancora
accanto» disse infine, rompendo il lungo silenzio. La sua
voce era forte, stentorea; quella donna sembrava in grado di guidare un
intero esercito come e più di un uomo. «Eleana
è stata la più potente Incantatrice che abbia mai
fatto parte delle mie schiere, oltre che una leale confidente; tuo
padre, Harden, uno dei miei più fidati e competenti
generali. Tu sei l'unica cosa che resta di loro e per questo riceverai
qui ogni riguardo che riservai a loro. Questo è un giorno
importante. Oggi prendi il posto che ti spetta.»
Freya cercò di riportare alla mente il lungo discorso che le
aveva fatto Gorman appena qualche attimo prima, ma la sua memoria
sembrava essersi completamente svuotata, perciò si
limitò a un educato: «Vi ringrazio di cuore per
l'ospitalità che mi avete dimostrato, Vostra
Maestà.» Piegò poi le ginocchia in una
breve riverenza, senza però abbassare il capo come forse
avrebbe dovuto fare. Proprio non le riuscì.
Mirea tornò verso l'immenso trono, ma non si sedette; le
diede le spalle appena il tempo necessario per raggiungerlo, poi
tornò a piantare gli occhi di ghiaccio nei suoi.
«Ho saputo che hai già avuto occasione di
conoscere Darragh e Aran, i miei eredi. Spero siano stati cortesi e ti
abbiano fatta sentire la benvenuta, al tuo arrivo» disse
solamente.
La giovane fu colta alla sprovvista da quell'esternazione, ma si
affrettò a rispondere: «Sono stati molto gentili
con me, mi hanno perfino scortata fino a incontrare il vostro
Consigliere.» Evitò naturalmente di rivelarle che
uno dei suoi figli le avesse fatto lo stesso effetto che le avrebbe
fatto precipitare in caduta libera da uno strapiombo; si
ritrovò a sperare con tutta se stessa di riuscire a
comportarsi normalmente con Aran, quando lo avesse rivisto.
La Regina si produsse in un sorriso enigmatico, tanto che Freya si
ritrovò a temere che le avesse letto nel pensiero. Si
tranquillizzò solo quando Mirea si limitò a
concludere il discorso. «Sono certa che avrete modo di
approfondire la vostra conoscenza nel corso della tua permanenza qui.
Ora, è il momento di affrontare un argomento molto meno
piacevole, seppur necessario.»
Freya sentì tutti i propri muscoli contrarsi, come se il suo
corpo si stesse preparando ad affrontare un qualche tipo di scontro.
D'improvviso, ebbe l'impressione di non essere abbastanza forte per
sopportare l'oceano di nuova consapevolezza che l'avrebbe travolta;
forse aveva mentito a se stessa, pensando di esserne in grado. L'unico
modo che aveva per scoprirlo era lasciare che Mirea raccontasse.
Raddrizzò le spalle, volse la sua completa attenzione alla
Regina e annuì per dare il proprio consenso.
«So che sei qui soprattutto perché ci sono molte
domande che hai bisogno di pormi, Freya» esordì la
sovrana, tornando finalmente a sedersi. A quel gesto la quiete della
sala fu brevemente interrotta dal fruscio di seta contro seta.
«Sono sicura che tu voglia sapere da me molte cose. Non
esitare, parla pure liberamente. Voglio che tu non abbia più
nemmeno l'ombra di un dubbio sulle grandi persone che sono state i tuoi
genitori.»
La ragazza tentennò solo un istante, alla ricerca delle
parole giuste con cui esprimersi. «La storia dei miei
genitori, per me, è un mistero. Fino a pochi giorni fa
credevo che le foreste fossero sempre state la nostra casa; ero a
conoscenza solo del fatto di aver perso mio padre e di avere solo mia
madre al mondo.» La voce le s'incrinò leggermente,
ma continuò. «Non potevo immaginare che fosse
avvenuto così tanto altro, prima della mia nascita. L'unica
cosa che vorrei è la verità sulle mie origini, su
ciò che mi ha portata a essere quello che sono»
concluse, una sensazione di vuoto allo stomaco che le lasciò
una spiacevole nausea.
«Sarò lieta di raccontarti ogni cosa fin dal
principio, che coincide certamente con l'arrivo di tua madre
qui» rispose la Regina alle sue richieste, prima di
immergersi nella storia.
La mia storia,
pensò Freya.
«Tua madre era una potente Incantatrice, capace di incanti
superiori a quelli della maggior parte di chiunque altro avessi mai
incontrato. Quando si trovò ad attraversare le mie terre non
passò perciò inosservata, nonostante sapesse
perfettamente come mascherare i propri lineamenti elfici.»
Freya si ritrovò a osservare le mani di Mirea, che la Regina
teneva giunte in grembo: pallide e salde, nemmeno il più
piccolo tremito le attraversava.
«Inviai un contingente a rintracciarla, esattamente come ho
fatto con te, a capo del quale v'era proprio tuo padre. Avevo bisogno
di Incantatori fuori dal comune per realizzare i miei
progetti.» Sorrise leggermente, come immersa in un ricordo,
ma Freya non si lasciò distrarre: non sapeva ancora quanto
di vero ci sarebbe stato in ciò che le avrebbe detto e
doveva registrare ogni singolo particolare. Il primo fu certamente
quella parola, progetti. Sentiva che non avrebbe dovuto dimenticarla.
«Quando arrivò qui, aveva il tuo stesso sguardo
diffidente: i popoli mi hanno odiata a lungo e sono a conoscenza della
loro longevità e lunga memoria. Sono troppi decenni che le
nostre antiche divergenze mi hanno costretta a rinunciare a qualunque
contatto» proseguì la Regina Mirea. Freya quasi
trasalì. Non si sarebbe mai aspettata che ne parlasse tanto
apertamente. «Tuttavia, Eleana accettò la mano che
le tendevo. Il nostro colloquio durò per ore. Mi
ascoltò attentamente, come io ascoltai lei; era una donna
intelligente, curiosa di scoprire cosa potesse celarsi al di
là delle apparenze. Si dimostrò realmente aperta
all'eventualità che i miei progetti potessero rappresentare
la pace e l'unità che Finian da sempre agogna. Le diedi
tutto il tempo di cui aveva bisogno per prendere la sua decisione,
tempo in cui ebbe sempre la possibilità di andarsene, se
l'avesse voluto. Eleana non lo fece e, infine, accettò di
unirsi a me.»
Le sue parole vennero accompagnate da un'occhiata penetrante quanto un
dardo. Freya rabbrividì nuovamente: a quanto sembrava non
era riuscita a nascondere i propri pensieri tanto bene quanto avrebbe
voluto. Forse, non sarebbe mai stata in grado di accostarsi nemmeno a
quella sottile sfumatura del mentire.
«L'amore fra Harden ed Eleana sbocciò
immediatamente» proseguì Mirea, tornando al
racconto. «Era tanto intenso che fu fin da subito
ben chiaro a tutti quanto lo era la luce del sole. Si sposarono dopo
tre anni che lei ebbe messo piede qui la prima volta e, in occasione
delle nozze, donai loro una grande casa locata nella parte alta di
Errania; non ho mai negato ai miei collaboratori il diritto di
costruirsi una propria vita al di là dei loro doveri a
corte. Trascorsero cinque anni prima che nascessi tu; i tuoi genitori
faticarono non poco ad averti. Non potrei descriverti la loro gioia per
il tuo arrivo nemmeno se lo volessi, non esistono parole
adeguate.»
Freya provò a immaginarsi tra le braccia di entrambi i
propri genitori, ma come sempre non ci riuscì. Era difficile
per lei, abituata ad avere un genitore soltanto o a essere
semplicemente sola, pensare alla famiglia che avrebbe potuto avere se
le cose fossero andate diversamente. Comunque sorrise, immaginando una
gioia tale, nei loro cuori, da non poter essere contenuta.
La domanda lasciò spontanea le sue labbra:
«Come... Loro com'erano, con me?»
Gli occhi della Regina si spalancarono e la donna la osservò
per l'ennesima volta con un'espressione che Freya non avrebbe saputo
decifrare. Ebbe la sensazione di averla colta alla sprovvista.
«Erano di una dolcezza e una dedizione senza pari. Tu, Freya,
eri il loro più grande tesoro; Eleana e Harden avrebbero
fatto qualunque cosa, per te» rispose, rivolgendole un
sorriso enigmatico tanto quanto la sua precedente reazione.
Quell'attimo di bei ricordi, però, svanì presto;
il volto di Mirea si fece scuro. «Non passò molto
tempo, prima che accadesse la disgrazia. Purtroppo, mi stavo tenendo
accanto dei traditori senza nemmeno esserne a conoscenza, tanto erano,
con mio disappunto, divenuti abili. Non tutti erano d'accordo con la
pace che volevo garantire e l'equità che desideravo: c'era
chi credeva che dovessimo governare col pugno di ferro, non concedere
alcun tipo di libertà» proseguì, mentre
una terrificante durezza s'impossessava della sua voce. «Fu
in una notte d'autunno che i disertori decisero di insorgere e
organizzare la loro prima incursione. Progettarono di attaccare i miei
più fidati collaboratori, ucciderli a sangue freddo e
successivamente prendere il potere.»
Senza saper bene perché, Freya trattenne il fiato; qualcosa
di terribile stava per tornare a galla attraverso le parole della
Regina e oscure immagini andavano a formarsi nella mente della giovane.
«Harden ed Eleana furono i primi. Cercarono di penetrare
nella vostra casa con il favore del buio, ma avevano probabilmente
sottovalutato la potenza di Eleana e i tuoi genitori riuscirono a
scampare all'agguato; sono più che sicura che tua madre
usò tutta la sua magia per proteggervi, perciò
non poté far nulla contro i tre Incantatori che si erano
alleati con i traditori. L'unica cosa che so con certezza è
che quando io personalmente arrivai sul luogo dove avevano braccato tuo
padre, infuriava una battaglia» proferì Mirea in
tono grave. Le successive parole calarono su Freya con la forza di una
mannaia, ineluttabili. «Gli Incantatori ancora fedeli a me
provarono ad aiutarlo, ma gli insorti erano forti e determinati; in un
modo o nell'altro persi molti uomini e donne, quella notte. La
confusione era indescrivibile, impossibile da districare a occhi
esterni e, in quel tumulto, Harden fu colpito da un incantesimo
destinato al capo di quella assurda rivolta. Ne rimase ucciso. Quando
riuscimmo a catturarne i fautori, ci rendemmo conto che tua madre era
scomparsa, portandoti con sé.» Mirea si
alzò e prese a camminare, come se l'asprezza di quel ricordo
le impedisse di stare anche solo un minuto in più seduta sul
trono con le mani nelle mani. «Li punimmo
duramente» continuò, «soprattutto colui
che ne era stato il fomentatore. Il suo tradimento fu il più
ignobile che si potesse immaginare, poiché egli era
cresciuto con tuo padre edera come un fratello, per lui.»
La Regina le dava le spalle, ma in quell'istante a Freya non importava
di vederla in viso. Man mano che il racconto procedeva in tutta la sua
crudezza gli occhi della ragazza si erano persi nel vuoto, offuscati da
una cortina di lacrime che a tutti i costi voleva trattenere. Cercare
di cogliere dettagli importanti nel discorso della Regina aveva perso
ogni importanza. Suo padre era stato ucciso da un'Incantatore amico e,
cosa ancora più straziante, a portarlo a quella morte era
stato qualcuno che Harden amava come un fratello. Solo quello riusciva
a pensare. Non le fu chiaro se la Regina Mirea avesse compreso cosa le
infuriasse dentro, ma in qualche modo le sue parole successive giunsero
a destinazione nonostante il velo di dolore che le stava lentamente
calando addosso, rendendola sorda al mondo circostante.
«Per lungo tempo ho tentato di capire in che modo avessero
spinto tua madre a fuggire o se, invece, vi avessero fatte in qualche
modo sparire e ho cercato di rintracciare Eleana, in vano. Arrivai a
temere che vi avessero uccise e avessero nascosto le tracce del loro
efferato crimine, ma era un'ipotesi per me tanto straziante che
rifiutai di cedervi» disse la Regina, tornando ad avvicinarsi
a Freya. «Solo ora che finalmente sei qui trovo un
pò di sollievo.» In un gesto inaspettato, Mirea
posò le proprie mani sulle sue spalle, guardandola dritta
negli occhi. «In nome di tutto ciò che Eleana fu
per me, prometto che quando i tempi saranno maturi ti darò
ciò che ti spetta: un posto al mio fianco, proprio dove fu
tua madre» proclamò. Di fronte all'espressione
sbigottita della ragazza, aggiunse: «Non appena sarai pronta,
naturalmente; farò in modo che tu riceva la migliore delle
istruzioni, in attesa di quel momento, e aspetterò con ansia
di vedere se hai ereditato il grande potere che aveva lei.»
Freya non aveva più parole, ogni cognizione pareva essere
scomparsa; perfino le ultime parole della Regina, seppur tanto
importanti, cadevano nel nulla difronte alla sorte della sua famiglia.
Aveva sempre creduto che, una volta scoperta ogni cosa, si sarebbe
sentita immensamente sollevata; invece sentiva un peso ancor
più grande gravarle addosso. Ingoiò le lacrime e,
ancora una volta, alzò lo sguardo sulla sovrana di
Rìagan.
«L'unica cosa che ho sempre desiderato era la
verità e vi ringrazio di avermela restituita, per quanto
possa essere tanto tragica» affermò solamente,
incapace di dire altro.
«Dimostri una grande maturità nell'affrontare con
tanta saggezza una così dura realtà, ma non mi
sorprende; Eleana ha saputo crescerti nel migliore dei modi. Trovare
anche lei, con te, sarebbe stata per me un'immensa gioia»
ribatté Mirea. Nemmeno quella parola sciolse il suo sguardo
implacabile. «La scoperta della sua assenza aggrava questo
lieto momento e vorrei che mi raccontassi cosa le è
accaduto, quando te la sentirai.»
Freya rispose in maniera automatica, quasi senza riflettere.
«Non è una storia particolarmente lunga.
È partita per un breve viaggio,quando io avevo nove anni, e
non è mai più tornata.»
Nel caos che regnava all'interno della sua testa, riuscì a
razionalizzare un solo pensiero: non era ancora pronta a rivelare a
nessuno che un qualche potere in lei c'era. Sarebbe dovuta essere
onesta, prima o poi, ma voleva prima capire con chi avesse a che fare.
La Regina Mirea si limitò al silenzio e non fece
più alcuna domanda. Forse, avrebbe dovuto risultarle strano,
ma in quel momento era l'ultimo dei pensieri della giovane.
«Quanto dolore hai già dovuto sopportare per la
tua giovane età» commentò poco dopo la
sovrana, lasciando che quelle parole aleggiassero nel silenzio che
seguì. Poi, così com'era cominciato, il loro
colloquio terminò. La Regina vi pose fine con poche e chiare
parole: «Posso solo immaginare il tuo dolore, Freya. Dobbiamo
però gioire, perché quest'oggi tu entri a far
parte delle nostre vite. Onoreremo il tuo arrivo quando sarà
opportuno. Fino a quel momento, sentiti libera di esplorare il castello
e i suoi dintorni; troverai alcune macchie boscose non molto lontano da
qui che ti faranno certamente sentire meno la nostalgia di
casa.» Detto questo, tornò al suo trono.
«Per questa sera sarai riaccompagnata ai tuoi
alloggi» aggiunse una volta seduta, in chiaro segno di
congedo.
Freya si sentì piegare leggermente le ginocchia in un
inchino, ma non seppe da dove fosse giunto quel comando al corpo; non
riusciva a formulare un solo pensiero razionale. Si voltò
verso la porta a testa alta, cercando di far fronte alla marea di
emozioni che l'aveva travolta con quella saggezza e maturità
che la Regina le aveva riconosciuto. Solo quando qualcosa finalmente si
mosse nella sua mente si fermò ancora un istante.
«Vorrei solo... solo sapere se mio padre possiede una tomba.
L'unica cosa che desidero è rendergli omaggio»
chiese in un lieve sussurro.
Mirea si voltò un ultima volta verso di lei. «Ma
certo. Non appena sarà possibile, manderò
qualcuno ad accompagnarti nel luogo in cui è stato
tumulato.»
Freya mormorò l'ennesimo ringraziamento e infine
uscì dalla sala. L'ondata di ciò che aveva
cercato di arginare la travolse, minacciando di far crollare le sue
difese. Non puoi essere
debole, non puoi essere debole, continuava a ripetersi,
mentre i suoi piedi già iniziavano a camminare verso una
meta ignota. Non sapeva se qualcuno l'attendesse per riaccompagnarla
alla sua stanza, in quell'istante solo ciò che aveva appena
appreso le occupava i pensieri. Tutto vorticava a una
velocità impressionante, rischiando di farle perdere la
lucidità. Non vedeva nemmeno ciò che la
circondava, tanto che quando si fermò sull'orlo di una
piccola balconata e inalò una boccata d'aria per schiarirsi
la mente non si accorse di non essere sola.
Un movimento alla sua destra la fece voltare. Rimase sorpresa nel
trovarsi davanti proprio Aran, il ragazzo dagli occhi grigi che
continuavano a colpirla come un maglio ogni volta che la guardavano. Il
giovane si limitò ad appoggiarsi alla balaustra di pietra e
a lasciar vagare lo sguardo sulla sterminata piana che circondava il
castello, al di là delle sue possenti mura, senza dire
nulla. Freya gli fu grata per quell'attimo di silenzio e persino per la
sua presenza, che servirono a farle riacquistare la calma.
«Ciò che mia madre ti ha raccontato dev'essere
stato sconvolgente. Il tuo sguardo parla da sé»
mormorò dopo qualche istante, osservandola.
Freya non trovava le parole, non riusciva proprio a spiegare quello che
la stava dilaniando in quel momento. Strinse solo le dita attorno alla
balaustra fino a farsi sbiancare le nocche, nel vano tentativo di
recuperare forza interiore.
Lui in qualche modo capì e non pretese da lei alcuna
risposta. Quando parlò di nuovo non fu per interrogarla e la
sua voce riuscì in qualche modo a farsi strada in lei.
«La calma dei giardini interni potrebbe aiutarti.»
Il Principe, senza probabilmente saperlo, aveva colto nel segno: aveva
bisogno di un posto che le ricordasse casa, un posto dove l'aria
facesse stormire le foglie e il profumo della terra le solleticasse le
narici.
«Ti sarei molto grata se mi portassi fin
lì» rispose con un filo di voce, accettando di
seguire i suoi passi.
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Capitolo 8 *** CAPITOLO 7 - Comprensione ***
CAPITOLO 7
- COMPRENSIONE -
La
notte, oramai, avvolgeva nella sua buia quiete tutta la corte di
Errania. I giardini erano vuoti, immersi in un silenzio interrotto solo
dal vento fresco che spirava fra gli alberi, spandendo dolci sussurri
nell'aria attorno a loro. Quei rumori familiari furono sufficienti a
zittire almeno per un pò la mente di Freya; testimone del
suo dolore restava solo una lieve stretta al cuore.
Mentre camminava fianco a fianco con quel ragazzo sconosciuto, la
giovane osservava con curiosità la particolarità
di quel giardino interno, in cui le piante crescevano rasente ai muri
del portico e lungo i vialetti acciottolati. Il silenzio fra i due si
protrasse ancora per qualche istante, senza però creare
nessun imbarazzo; non si erano scambiati che poche parole prima di
quell'istante, eppure si sentiva in qualche modo perfettamente compresa.
Fu proprio lei a parlare per prima, lasciando uscire in un sussurro un
pensiero che lottava per farsi sentire fra tutti gli altri:
«Sembra che solo all'aria aperta io mi possa sentire a casa.
Gli spazi chiusi non fanno per me.»
Aran spostò la sua attenzione su di lei e mentre la guardava
con attenzione un sorriso andò a formarsi sulle sue labbra.
Era la prima volta che sorrideva, pensò la ragazza. Rimase
un po' persa, in quel sorriso.
«Dove vivevi prima che i soldati stravolgessero
tutto?» le domandò e il suo interesse era vero,
sincero, tanto che ricambiare le venne del tutto naturale.
«Nel folto delle Foreste di Confine» rispose,
rievocando nella propria mente immagini di quel luogo che oramai le
pareva lontanissimo e irraggiungibile. «La casa in cui sono
cresciuta ha pareti e tetto sottili, non come le mura di questo
castello: quasi può entrarvi il cielo. In effetti, ci
è molto vicina.»
«Vicina al cielo?» chiese Aran, non nascondendo una
certa sorpresa.
Freya annuì, guardando la luna che iniziava a comparire
insieme alla nostalgia. «Abitavo su una quercia
secolare» spiegò e il ragazzo ammutolì
per un istante, non sapendo cosa rispondere.
«Sembra davvero un bel posto da chiamare casa. Non hai idea
di quanto sia soffocante vivere qui, a volte; non ho mai potuto
assaporare la libertà che devi aver avuto tu»
sussurrò piano Aran, quando ebbe ritrovato la parola. Non
seppe perché glielo stesse dicendo; sentì che
quella ragazza misteriosa gli stava facendo perdere nuovamente il
controllo.
Questa volta fu lei a guardarlo attentamente. «Credevo fosse
un privilegio vivere da signori, protetti da mura tanto
possenti.»
«Credo che fossi tu ad avere una vita privilegiata»
ribatté Aran, serio.
Continuarono a camminare lentamente, sempre più fiori a
costeggiare la loro strada. Freya, assorta nei propri pensieri, si
fermò solo accanto a un albero, sul cui tronco cresceva un
meraviglioso fiore dallo stelo verde scuro e dai delicati petali rosa
tenue. Era talmente bello che non poté impedirsi di
avvicinarvi il volto per sentire il profumo, né di sfiorarlo
con un leggero tocco delle dita. Poteva quasi avvertire la vita che vi
scorreva.
Lo guardò rapita per qualche istante, finché Aran
non si fermò accanto a lei e le spiegò:
«Viene chiamata Guerriera Solitaria; non cresce mai accanto a
sue simili, non si è mai visto un campo popolato solo da
queste piante, ed è capace di sopravvivere anche alle
condizioni più avverse. Fonda la sua vita in simbiosi con un
solo albero e su quello cresce senza mai sconfinare su un
altro.»
«Ne ho viste di piante, ma mai tanto affascinanti»
mormorò lei, piano, quansi temesse in qualche modo di
disturbarla.
«Mi sono sempre chiesto come la sola natura potesse averla
creata» convenne Aran.
Non aveva mai visto in nessuno tanto incanto per un semplice fiore e,
senza sapere come, si ritrovò a non poter distogliere lo
sguardo da Freya e da quella sua reazione così spontanea.
Ancora impegnata a osservare la Guerriera la giovane non ci fece
nemmeno caso, almeno finché non tornò a
guardarlo. Gli occhi chiari della ragazza lo sondarono,
imperscrutabili, e quelli di Aran vi rimasero intrappolati; poi,
così come quello scambio di sguardi era iniziato,
finì.
Freya distolse lo sguardo, sentendo l'ennesimo colpo al cuore, e decise
di concentrarsi su qualcos'altro, come per esempio la grande cultura
che Aran aveva appena dimostrato. Non c'era di che stupirsi,
sicuramente il giovane Principe aveva avuto i migliori precettori;
anche lei però era stata ben istruita e il pensiero di avere
almeno quello dalla propria parte, in un luogo di cui non si sentiva
all'altezza, la confortò un pò.
Aran, accanto a lei, sembrava interdetto, come se volesse dire qualcosa
ma non fosse del tutto certo di quali parole utilizzare.
Tentennò ancora un istante; infine, parlò e Freya
rimase ad ascoltarlo, attenta. «Forse, in questo momento,
vorresti essere da tutt'altra parte. Ovunque, tranne che in questo
posto che ti è estraneo e a cui senti di non
appartenere» esordì, quasi come se le avesse letto
nel pensiero. «Però devi sapere che ci sono volte
in cui anch'io mi sento allo stesso modo, per quanto ti possa suonare
assurdo.»
La ragazza corrugò le sopracciglia in un'espressione
interrogativa e capire che lo stava davvero ascoltando lo spinse a
continuare.
«Io non sono nato Principe: le mie origini mi sono
completamente sconosciute. So solo che i miei genitori mi abbandonarono
a me stesso in uno sporco vicolo alla periferia della capitale e Mirea,
che desiderava un altro figlio, mi prese con sé e mi
adottò, accogliendomi come fossi suo. Non so nulla della mia
famiglia di origine, anche se sono certo che mia madre abbia scoperto
qualcosa che non vuole rivelarmi. Per proteggermi, dice lei»
raccontò. «Se le cose fossero andate diversamente,
io non sarei qui. Ogni tanto questa consapevolezza mi piomba addosso e
mi sento come se venissi da un mondo a parte.»
Perfino Aran fu sorpreso dalla facilità con cui quelle
parole gli uscirono di bocca. La pelle di Freya fu attraversata da un
brivido, ma in qualche modo quell'informazione non le sembrò
così assurda; c'era qualcosa di diverso in lui e forse
quella ne era la spiegazione. O c'era molto altro?
«In ogni caso, ti sto dicendo questo solo per farti sapere
che qualcuno che capisca come ti senti, in questo luogo da cui vorresti
probabilmente scappare, c'è» concluse con un mezzo
sorriso, riprendendo a camminare.
Freya rimase qualche passo indietro, osservando la schiena di Aran e
domandandosi cosa nascondesse quel ragazzo nel suo mondo interiore, che
sembrava molto più vasto di quanto non lasciasse trasparire.
Lo raggiunse accanto a un alberello carico di fiori profumati.
«Hai ragione, è esattamente così che mi
sento, ma non scapperò. Qui ho trovato la verità
e non è detto che non ci sia anche qualcos'altro, per
me» rispose, quasi senza pensare che avrebbe aperto in lui
molti interrogativi su quale fosse la sua storia personale. La
verità era che non le pesava l'idea di parlarne con lui.
«Se hai rinunciato a tutto quello che avevi per venire qui
doveva essere qualcosa per cui ne valesse la pena» disse
Aran, senza però spingersi oltre.
Non avrebbe mai tentato di scoprire più di quanto lei
avrebbe detto di sua volontà, capì Freya, sempre
più stupita dal rispetto che lui dimostrava in ogni suo
gesto. Fu anche questo, probabilmente, a spingerla a decidere di
ricambiare la sincerità che lui le aveva riservato.
«La vita mi ha portato via entrambi i genitori, in
circostanze che non ho mai saputo spiegare. Prima mio padre, che ho
conosciuto per un tempo tanto breve da non poter valere, e poi mia
madre, che è scomparsa all'improvviso dopo essere partita
per un viaggio. Non avevo nessuna strada da seguire finché
non sono arrivati quei soldati e avrei rinunciato anche alla
libertà per trovare le risposte che cerco» rispose.
Ci fu un interminabile attimo di silenzio in cui i due ragazzi
continuarono a camminare l'uno di fianco all'altra, avvertendo
null'altro che la propria reciproca presenza.
«Ammiro il tuo coraggio» commentò infine
Aran, con un sorriso. Freya lo squadrò con le sopracciglia
scure inarcate, come se avesse detto una stupidaggine, e la sua
espressione lo fece scoppiare in una risata sommessa.
«Insomma, hai messo in discussione tutta la tua vita per
scoprire la tua storia. Hai rinunciato a tutto ciò che
conoscevi e che amavi e hai sopportato con tenacia una
verità evidentemente sconvolgente. Il tuo coraggio
è da ammirare» spiegò semplicemente.
Freya distolse un istante lo sguardo per osservare il cielo buio, senza
trovare nulla da dire. Lo sguardo di Aran seguì il suo e
solo in quel momento i due giovani si resero conto che il vento si era
alzato nuovamente, gelido e tagliente.
«Sarà meglio rientrare. Inizia a fare
freddo» disse lui e, seppur a malincuore, ripresero la strada
per il castello, consapevoli che quella che doveva essere una semplice
e breve passeggiata era diventata qualcosa di più.
All'interno le lanterne erano già state accese, restituendo
un po' di calore alle parenti in pietra grezza.
«Ti riaccompagno ai tuoi appartamenti» si
offrì Aran, ma Freya sentiva di aver già
approfittato fin troppo del suo tempo e della sua gentilezza.
«Ricordo la strada, non preoccuparti. Hai già
fatto fin troppo per me, questa sera» rispose Freya. Gli
rivolse un leggero cenno del capo e gli lasciò un sorriso,
il più sincero che riuscì a trovare, nonostante
la stanchezza che iniziava a sopraffarla. «Non
saprò mai ringraziarti abbastanza» concluse. Poi
si avviò lungo il corridoio, molto più leggera di
quanto non fosse da moltissimo tempo.
«Freya...» Sentì una voce chiamarla,
alle proprie spalle. Si voltò. «Non voglio alcun
ringraziamento. Vorrei solo tanti altri momenti come questo, in
futuro» si lasciò sfuggire Aran, cercando di
dissimulare l'imbarazzo.
Freya sentì qualcosa sciogliersi in un luogo molto vicino al
cuore. Sorrise ancora una volta e con tutta calma ribatté:
«Allora ci rivedremo presto, Aran.»
Solo allora se ne andò, nella direzione opposta rispetto a
quella di lui. Entrambi erano rimasti straniti da come suonasse il
proprio nome in bocca all'altro: familiare, conosciuto.
֍ ֍ ֍
Le pareti non parevano più così fredde, ora che
le calde fiaccole ne ammorbidivano l'impenetrabile superficie. La porta
degli appartamenti di Aran si aprì con un sommesso e quasi
inudibile cigolio e il giovane entrò nel piccolo salotto con
passo felpato. Aveva chiesto che non gli venisse portato nulla per
cena; voleva solo contemplare il cielo e tentare di mettere ordine
nelle proprie emozioni confuse. Sganciò il mantello
trattenuto dall'elaborata fibbia d'argento e lo posò con
noncuranza su una poltrona, poi si lasciò cadere su di
un'altra sistemata accanto alla finestra.
Alloggiava in quella stanza da quando aveva appena cinque anni e veniva
ancora accudito da Malia, che a quel tempo era stata designata sua
balia. Mille volte si era accoccolato su quella spaziosa poltrona e si
era addormentato osservando il manto celeste, costringendola poi a
trasportarlo a braccia nel letto. Non era mai mancata una volta che gli
venissero rimboccate le coperte, almeno fin quando era stato troppo
piccolo per iniziare il suo addestramento da cadetto. Non aveva avuto
molta scelta: diventare un soldato era pressoché l'unica via
che veniva lasciata ai secondogeniti, almeno nelle famiglie di una
certa levatura.
Finalmente solo, potè immergersi totalmente nei propri
pensieri. Ripercorse tutto ciò che era accaduto dal primo
momento in cui aveva visto Freya ed era rimasto impalato sulle scale;
in quelle immagini quasi non si riconobbe. Pensò a quando
sua madre l'aveva mandato a chiamare, chiedendogli di accertarsi che la
giovane stesse bene dopo il loro colloquio privato e di riaccompagnarla
alle sue stanze; a come si era sentito quando l'aveva trovata sull'orlo
della balconata e aveva avvertito la sua sofferenza.
Prima di allora non gli sarebbe mai sembrato possibile potersi sentire
tanto vicino ad una persona che conosceva appena; eppure, fosse
semplice empatia o qualcosa di ancora più inspiegabile, il
dolore di Freya lo aveva attraversato, come se in qualche modo
risuonasse con il suo. Forse, per quella ragione si era ritrovato a
rivelarle cose che aveva sempre tenuto strettamente riservate nella sua
testa o che aveva gelosamente custodito nel cuore, oltre che per
tentare di alleviare almeno un pò dell'angoscia che le
leggeva nello sguardo.
Fu ripensando a quello sguardo, puro e adamantino, che
riuscì finalmente a decifrare la sensazione che sovrastava
tutto il resto: quella di aver ritrovato qualcosa di perso. Era come se
si fosse ricongiunto ad una persona già conosciuta molto
tempo addietro e da cui, in qualche modo, si era separato.
Più ci pensava, però, e meno spiegazioni logiche
arrivavano; allora si impose, per una volta in vita sua, di smettere di
pensare a tutte le possibili implicazioni di quell'incontro. Si disse
che la compagnia di quella ragazza che l'aveva sconvolto tanto avrebbe
portato una ventata d'aria nuova, pulita, nella sua esistenza sempre
più assorbita dallo studio e dall'addestramento. Trascorrere
del tempo con lei avrebbe significato anche imparare a vedere la vita
con occhi diversi e la prospettiva, stranamente, non lo spaventava. Gli
lasciava piuttosto un senso di aspettativa.
Aran si alzò di scatto dalla poltrona e spalancò
la finestra. L'aria della sera gli riempì le narici, lo
splendore delle stelle gli occhi. Si affacciò al balconcino
di appena un braccio che sporgeva dalla torretta e lì
rimase, finché le palpebre non gli si fecero troppo pesanti
da tenere aperte. Quella notte fu serena, accompagnata dalla brezza che
filtrava dalla finestra aperta. Solo alle prime luci dell'alba qualcosa
cambiò nel tranquillo scenario dei suoi sogni.
Improvvisamente, l'aria
fresca si fece tagliente. Appena Aran aprì gli occhi si
sentì catapultare in un'altra realtà, che subito
fece sentire l'aridità che la permeava.
Lui era ancora
lì: il grande pilastro intarsiato protagonista del suo sogno
ricorrente si levava con sorprendente leggiadria, nonostante la sua
mole. Sembrava aver perso la sua solidità; il ragazzo
sentì un familiare senso di impotenza nell'avvertirne la
fragilità: pareva sul punto di crollare, come se da un
momento all'altro potesse sgretolarsi di fronte ai suoi occhi.
Non l'aveva mai visto
diversamente, doveva ammettere a malincuore, ma sentiva che non sempre
era stato così: un tempo la terra su cui sorgeva era stata
verde e la foresta che lo circondava era stata rigogliosa e popolata da
ogni sorta di animale. Si disse per l'ennesima volta che doveva
ritornare ad essere così.
Il suo sguardo corse
alle spirali che lo avvolgevano, colmate da lucide pietre, e alla gemma
finale, incastonata sulla sua sommità: era un granato, la
cui luce era debole e morente. All'impotenza si aggiunse la rabbia per
la morte di quella speranza e la voglia di farla pagare al responsabile
di quello scempio. Non sapeva chi potesse essere, come non sapeva
l'origine delle emozioni che provava ogni volta di fronte a quella
vista.
Avrebbe voluto davvero
far qualcosa, più di ogni altra cosa al mondo, ma non ebbe
il tempo di rielaborare nient'altro. Il vento si fece più
pressante e un forte fruscìo lo fece voltare. Una potente e
malefica energia nera ruppe la cortina di rami degli alberi, viaggiando
a velocità irrazionale verso il pilastro.
Aran scattò
in avanti, verso quello che avrebbe dovuto essere il punto d'impatto.
Il dolore gli mozzò il respiro, sminuendo persino il suo
scontro con il suolo. Mentre il mondo si faceva nero, un grido rabbioso
squarciò la terra.
Aran si destò di soprassalto, il fiato corto e la sensazione
di avere un macigno sul cuore. La testa gli doleva terribilmente e il
suo respiro era ridotto a un rantolo affaticato. Ogni percezione era
perduta nel terrore. Non ebbe il tempo di realizzare niente;
improvvisamente, fu preso da un'ondata di stanchezza, come se le sue
membra avessero dovuto sopportare veramente il colpo ricevuto in
quell'incubo.
Svuotato di ogni forza, ricadde preda di un sonno privo di sogni.
֍ ֍ ֎
Nello stesso istante, dall'altra parte del grande castello, Freya
spalancò gli occhi nel buio che sbiadiva. Aveva la fronte
imperlata di sudore e lacrime copiose le scorrevano lungo le guance,
per poi cadere incolori sulla coperta. Lo stesso sogno di sempre. La
stessa visione. Come ogni altra volta il dolore era stato
così intenso da sembrare reale; lo percepiva ancora gravarle
sulle spalle, lasciandola tremendamente stordita e boccheggiante.
Solo quando le parve di aver riacquistato un po' di calma, si
lasciò ricadere sui morbidi cuscini. Nemmeno lasciare i
posti che aveva sempre conosciuto l'aveva allontanata da quel dolore.
Si chiese se per caso quelle visioni non facessero parte di lei, se non
le venissero dettate dalla sua stessa anima.
Il pilastro e il suo granato... La speranza che irradiava... La sua
forza spezzata dall'apparizione della figura ammantata di nero...
Riepilogò tutto ciò che riusciva a rammentare con
una calma innaturale, ma com'era sempre stato non trovò
alcuna spiegazione. Prostrata per l'interminabile giornata anche lei
infine si riaddormentò, esattamente come colui che,
nonostante ancora non lo sapesse, condivideva il suo stesso fardello.
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Capitolo 9 *** CAPITOLO 8 -Questione di abitudine, parte prima: Arco e frecce ***
CAPITOLO 8
- QUESTIONE DI ABITUDINE, PARTE PRIMA: ARCO E FRECCE -
Quando Freya si
risvegliò il sole non si era allontanato poi di tanto
dall'orizzonte; probabilmente era trascorsa appena un'ora dall'alba.
Nonostante il giorno prima fosse stato piuttosto pesante e la nottata
fosse stata disturbata dalla visione, si sentiva piena di nuova energia
e pronta per esplorare il castello e i suoi dintorni; sentiva
l'assoluto bisogno di trovare un luogo dove poter respirare, di tanto
in tanto, e non sarebbe stata del tutto tranquilla finché
non lo avesse visto con i propri occhi. Dato che Mirea in persona
l'aveva autorizzata a lasciare il perimetro del castello, tanto valeva
dare un'occhiata ai boschi che lei stessa le aveva nominato.
Seppur restia
a lasciare il calore delle coperte la giovane si alzò e si
diresse al baule pieno di abiti. Avrebbe voluto indossare i propri
vecchi indumenti per facilitarsi la cavalcata, ma il giorno prima Malia
li aveva prelevati per farli lavare e rammendare, perciò non
poteva far altro che cercare un vestito comodo e sperare che non la
intralciasse troppo. Indossò quello più semplice
che trovò: un abito di pregiato tessuto filato color
ametista, con le maniche all'avambraccio bordate di un resistente
merletto, così come lo scollo squadrato e il bordo che le
sfiorava i piedi fasciati dai suoi stivali di pelle. Erano l'unica cosa
ad esserle rimasta, insieme alle strisce di cuoio con cui si fasciava
le mani quando aveva intenzione di usare a lungo il suo arco: se ne
avesse avuta la possibilità si sarebbe anche allenata al
tiro, perciò prese anche quelle. Per ovviare alla mancanza
della sua giubba di pelle si procurò un mantello che, oltre
a evitarle di patire il freddo del mattino, avrebbe protetto arco e
faretra, ben assicurati alla sua spalla.
Infine
uscì dai suoi appartamenti. I corridoi del palazzo erano
deserti e così le fu più semplice dirigersi alle
scuderie, dove sapeva di trovare Stellato, senza essere sottoposta alle
occhiate curiose degli abitanti della corte. Non che ne avesse visti
molti, fino a quel momento. Non appena mise piede fra le lunghe file di
vani che ospitavano soprattutto i cavalli dei soldati,
trasalì nel ritrovarsi la strada tagliata dal capitano
Craius.
«Lady
Freya» s'introdusse rispettosamente l'uomo, inchinandosi.
«Comandante
Craius, sono lieta di rivedervi» asserì lei con
cortesia, adeguandosi alla sua formalità.
«La
Regina Mirea mi ha incaricato di aiutarvi nel caso doveste avere
qualche problema e mi ha chiesto di mostrarvi dove è stato
alloggiato il vostro stallone. Riteneva che avreste avuto voglia di
cavalcare un po' per le terre attorno al palazzo» la
informò il comandante, mentre le faceva segno di seguirlo.
«Ha intenzione di lasciarvi una parte della
libertà cui siete abituata.»
Domandarsi
quale parte di libertà le sarebbe stata lasciata e quale
tolta fu inevitabile. Giunsero in un angolo delle stalle un poco
separato dal resto e, dalla pulizia anomala per quella che doveva
essere una scuderia, Freya comprese che lì dovevano essere
tenuti i cavalli della famiglia reale, sottoposti alle cure
più attente. Dopo averlo individuato, corse impaziente verso
il box dove era stato riposto lo stallone il giorno precedentee ne
aprì il cancelletto; subito il cavallo le sbuffò
il suo fiato caldo sul viso, felice di vederla.
«Ciao
bello...» mormorò la ragazza con dolcezza mentre
gli accarezzava piano il muso vellutato. Notò che Stellato
era stato strigliato con cura e nutrito a dovere.
«Avete
bisogno di aiuto per sellarlo, milady?» le domandò
il comandante.
«No,
ma vi ringrazio per la vostra premura, capitano»
ribatté la giovane con gentilezza.
Craius
s'inchinò ancora, asserendo: «Allora il mio
compito è terminato, per ora.» Fece per voltarsi e
andarsene, ma poi sembrò cambiare idea e aggiunse da sopra
una spalla: «Accettate la mano che vi viene tesa, Lady Freya.
Avrete molte più opportunità qui che dove siete
stata fatta crescere. Ma non pretendete più di quanto siano
disposti a concedervi.»
Freya rimase
per un attimo immobile accanto allo stallone, le briglie inerti fra le
mani. Era un avvertimento? Un brivido le corse lungo la spina dorsale,
mentre cercava di capire che significato attribuire alle parole di
Craius. Si riscosse solo quando Stellato scalciò, forse
avvertendo il suo nervosismo. Non aveva senso rimuginarci; sapeva a
cosa sarebbe potuta andare incontro, quando era partita, e ora sarebbe
andata fino in fondo. C'era molto altro ancora da scoprire ad Errania,
lo sentiva.
Finì
di sellare Stellato e poi montò sulla sua groppa. Con la
smania di uscire all'aria aperta e di poter riassaporare la pace della
solitudine spronò il cavallo ad uscire dalle stalle.
Percorse al trotto il cortile sul lato nord del castello e
uscì diretta verso le pianure punteggiate di boschetti che
circondavano il palazzo. Affondò con delicatezza i talloni
nei fianchi di Stellato e il passo dello stallone si fece sempre
più rapido. Non appena si ritrovò al di fuori dei
possedimenti del castello, Freya sentì una sorta di
pressione abbandonarla. Raddrizzò la schiena,
lasciò scivolare le briglie sulla sella e aprì le
braccia, mentre il cavallo continuava la sua corsa. Nonostante tutti i
privilegi di cui avrebbe potuto godere, sentì che nulla
avrebbe potuto compensare ciò a cui avrebbe rinunciato. Ogni
scelta aveva però il suo prezzo e questo si faceva sempre
più chiaro in lei; quanto sarebbe stato alto, l'avrebbe
stabilito il tempo. Tornando alla realtà,
recuperò le briglie e così il controllo delle
proprie emozioni.
Il bosco che
aveva scelto come propria meta si profilava all'orizzonte come una
frastagliata linea smeraldina, che Freya e Stellato riuscirono a
raggiungere nel giro di un paio d'ore. Quando superò il
primo gruppo di alberi il sole era già alto nel cielo.
Rallentò l'andatura per stare più attenta ai rami
bassi degli alberi e, come il giorno in cui aveva iniziato il suo
viaggio con Stellato, Freya notò che il cavallo era
sorprendentemente agile. Cullata dal suo passo regolare, si concesse
tutto il tempo necessario per ammirare quel luogo.
Una volta in
più, si ritrovò ad osservare come ovunque la
natura riuscisse a dar vita alle proprie meraviglie e a dare sfoggio
della sua imperturbabile magnificenza. Quel bosco non era vasto come le
Foreste di Confine e gli alberi che lo componevano non erano grandi
come le sue querce secolari, ma irradiava un senso di protezione che
avvolse Freya nelle sue calde braccia. Respirò a pieni
polmoni, cercando di immettere poi nel sospiro che lasciò le
sue labbra tutta la tensione accumulata.
Vagò
a quel modo fino a che non trovò un posto che le
sembrò fare al caso suo; era una piccola radura muscosa nel
cuore del bosco, custodita al suo interno come una perla rara. Fiori
estivi ne contornavano il perimetro, dondolando alla brezza leggera che
ora si era fatta calda e aveva costretto la giovane a togliersi il
mantello. Quello era il posto ideale per proseguire il proprio
allenamento solitario: gli alberi le avrebbero fornito ottimi bersagli
a cui puntare e le grandi pietre coperte di muschio di cui era
disseminata la radura avrebbero messo alla prova la sua
agilità. Vi trascorse la parte restante della mattinata,
tirando con l'arco come aveva progettato o anche solo restando sdraiata
a terra con gli occhi chiusi, ascoltando in tranquillità i
rumori che le si spandevano intorno e cercando di ricondurli alla
propria fonte.
Ebbe
finalmente il tempo di ripercorrere tutto ciò che era
accaduto il giorno prima. Tentando di restare quanto più
razionale possibile rivisse nella mente ogni singolo istante
dell'incontro con la Regina, ogni parola che era uscita dalla sua bocca
e iniziò a porsi le prime domande. Cos'era successo prima
che Mirea arrivasse sul luogo dove suo padre aveva perso la vita? Quali
erano gli eventi che si erano susseguiti in quel punto cieco della
tragica storia della sua famiglia? E per quale ragione sua madre era
scappata così, senza mai guardarsi né tanto meno
ritornare indietro nemmeno quando i fautori dell'attentato erano stati
catturati? Più di tutto era questo a tormentarla, come una
spina sottopelle, perché non riusciva a capacitarsi di cosa
avesse spinto Eleana a prendere la decisione di andarsene per sempre.
Aveva forse avuto paura che Errania non fosse più un posto
sicuro per crescerla?
Passò
così un tempo interminabile, ma quando il peso di quello che
le aveva raccontato Mirea si fece tanto schiacciante da arrivare a
soffocarla, Freya decise cambiare il corso dei propri pensieri. Come si
sarebbe dovuta aspettare, virarono inesorabilmente verso Aran. Per
lunghissimi minuti rivide semplicemente i suoi occhi grigi, il suo viso
e ogni emozione ed espressione che aveva visto attraversarlo; poi,
passò a domandarsi come fosse stato possibile avere avuto
tanta fiducia in un estraneo da parlare a cuore aperto come aveva fatto
durante la loro lunga passeggiata, a come potesse avvertire quella
strana familiarità ogni volta che pensava a lui; infine, si
ritrovò a dover ammettere di non avere nessuna risposta
razionale alle sue domande, solo lo strano desiderio di rivederlo
ancora. Fu a quel punto che un inspiegabile calore le salì
fino alla punta delle orecchie; dandosi della sciocca, si rimise in
piedi, ripulì i propri abiti dai residui di muschio e
corteccia e riprese la strada per il castello, imponendosi di non
formulare più simili pensieri.
La cavalcata
di ritorno fu più lenta di quella di andata, ma nel primo
pomeriggio fu comunque nuovamente a palazzo. Il cortile era brulicante
di vita e Freya si mosse veloce e silenziosa fra maniscalchi alle prese
con la ferratura dei cavalli, servi che correvano recando otri piene
d'acqua con cui rifornire le cucine e soldati tintinnanti nelle loro
cotte di maglia appena lucidate. In ogni caso, erano tutti
così indaffarati da fare ben poco caso a lei.
Riportò
Stellato alle scuderie e si prese cura di lui con estrema attenzione,
assicurandosi che fosse ben pulito e avesse cibo a sufficienza. Quando
si decise a lasciarlo e si accinse a uscire, rimase sorpresa nel vedere
Aran avanzare nella selva di vani. Aveva un'aria calma e rilassata e
non appena la individuò, sorrise. Non si abbigliava come un
nobile, notò Freya, ma come un semplice combattente;
sembrava pronto per lanciarsi in un duello, in effetti. La giovane
rispose al suo sorriso, mentre lui si avvicinava e posava con dolcezza
una mano sul collo dello stallone.
«È
un animale magnifico» commentò, perdendosi anche
lui nello sguardo bruno e gentile di Stellato. «Ero riuscito
a vederlo solo di sfuggita, il giorno in cui lo portarono qui
dall'allevamento. Ora scopro a chi era destinato.»
«Allevamento?»
domandò la giovane, incuriosita.
Aran
annuì. «Gli stalloni di Riagàn
provengono da un allevamento privato appartenente alla famiglia reale
da molti secoli. Ricevere in dono uno di questi cavalli è
considerato un grande onore. Sono i cavalli dei re» le
spiegò.
Freya
sgranò gli occhi. «Non ho mai dubitato dell'enorme
valore di Stellato, ma non avrei mai immaginato nulla di
simile» rispose, osservando tutta la sua possanza e
maestosità.
Fu la volta di
Aran di rivolgerle uno sguardo interrogativo.
«Stellato?»
La ragazza
annuì. «Sì, Stellato. Ha risposto
immediatamente a questo nome.»
Come a darne
conferma, l'animale diede un lieve nitrito e le si fece più
vicino. Presto l'attenzione di Stellato fu però catturata
nuovamente da Aran, che sembrava aver preso in simpatia. Dopo aver
annusato con interesse il volto del giovane, gli sbuffò fra
i capelli, arruffandoli, e Freya non poté trattenersi dal
ridere. Aran non sembrò prenderla male, anzi;
scoppiò anche lui in una risata divertita, continuando a
lasciargli lievi carezze sul muso. Solo dopo qualche istante di
piacevole silenzio il ragazzo parve ricordare il motivo per cui era
andato a cercarla.
«Io
e mio fratello stiamo per allenarci nella scherma e nel tiro con l'arco
al campo di addestramento. Mi chiedevo se ti andasse di
assistere» domandò, con la sua consueta cortesia.
Un altro
sorriso illuminò il volto di Freya. «Accetto
volentieri, ma solo se mi sarà consentito di
partecipare.»
A quell'ora il
campo d'addestramento era ancora gremito di soldati, nonostante la
maggior parte di loro preferisse allenarsi nelle prime ore del mattino.
Alcuni, notò Freya, erano già sfiniti e grondanti
di sudore, reduci da lunghi turni di guardia soffocati nelle pesanti
armature.
Aran la
condusse verso un grande spiazzo, sul cui sfondo si allineavano
perfettamente distanziati cinque bersagli. Darrah era già
lì e con gesti secchi e quasi bruschi stava controllando che
il suo arco fosse incordato. Non appena li notò il suo
sguardo si posò critico su Freya e sull'arma che lei
stringeva nella mano destra, come se dubitasse che fosse anche solo in
grado di prendere la mira.
«Credevo
che avreste solo assistito, Lady Freya» affermò
con aria scettica, inarcando le sopracciglia.
Nonostante
sapesse perfettamente di dover imparare a moderare i propri toni, a
quella frase arrogante la giovane non poté trattenersi dal
rimandare una risposta tagliente: «Perché non mi
mettete alla prova, Lord Darragh?»
L'espressione
che attraversò il viso di Darragh fece quasi scoppiare a
ridere Aran, il quale si trattenne solo per non irritare il fratello;
conosceva molto bene la sua suscettibilità. Doveva
però ammettere che vedere qualcuno tenergli testa a quel
modo fosse sorprendentemente piacevole.
Furono i due
ragazzi a iniziare: mirarono entrambi, a turno, tutti e cinque i
bersagli. Freya notò che Aran si destreggiava meglio di
Darragh con l'arco, arma adatta a guerrieri capaci di pazienza,
costanza e mira. Sospettava però che entrambi preferissero
la spada. Nonostante questo, i bersagli furono tutti trafitti dalle
loro frecce.
Quelle
scoccate da Aran erano ancora conficcate nel legno coperto di stoffa
quando Darragh tornò a rivolgersi a lei: «Vediamo
se siete in grado di colpire l'esatto centro del bersaglio senza
estrarre le frecce già tirate da Aran» la
sfidò, un sorrisetto superbo a incurvargli le labbra.
Aran parve
visibilmente contrariato dai modi di fare del fratello. Gli si
avvicinò e disse: «Mi pare che tu stia
dimenticando le buone maniere, quest'oggi.»
Darragh lo
fulminò con un'occhiataccia, ma prima che potesse aprire
bocca per ribattere Freya intervenne, un sorriso quieto in volto.
«Non ti preoccupare, Aran, sarò ben felice di
soddisfare la curiosità di tuo fratello.»
Dopo aver
controllato che l'arco fosse ben incordato con gesti sapienti e
delicati, la giovane studiò i cinque bersagli. Aran era
stato piuttosto preciso: la maggior parte delle frecce era arrivata a
colpire entro due anelli dal centro; l'ultima l'aveva colpito senza il
minimo scarto. Era quella a rappresentare un potenziale problema, ma se
si fosse concentrata avrebbe potuto anche farcela. Non si dava mai per
vinta prima di aver tentato.
Prese
posizione di fronte al primo bersaglio, estraendo dalla faretra una
delle sue frecce dall'impennaggio color cenere. Con estrema
concentrazione la incoccò e dopo aver tirato la corda fino
alla guancia, tanto da sentir le piume solleticarle la pelle,
iniziò a regolarizzare il proprio respiro. Inspirare ed
espirare: le due azioni riempirono la sua mente, mentre davanti a lei
si stagliava nitido solo il bersaglio dai colori sgargianti. A quel
punto, si sforzò di percepire solo lo strumento fra le sue
mani: il legno che stringeva fra le dita, lucido e intarsiato, la
corda, le piume dell'impennaggio che le sfioravano il viso.
Tutto accadde
nel giro di qualche secondo. Freya scoccò la freccia dritta
verso il cuore del suo obiettivo, senza vacillare di nemmeno un
pollice. Procedette poi a fare lo stesso con i restanti tre bersagli
dal centro libero, senza minimamente curarsi dei due ragazzi ancora
alle sue spalle o di qualsiasi altra cosa le stesse intorno. Quando si
ritrovò davanti all'ultimo, si fermò. Aver
centrato tutti gli altri non le garantiva di riuscire anche con quello,
dal quale avrebbe dovuto tentare di scalzare la freccia già
piantata. Ripetè perciò la solita procedura di
focalizzazione, ponendovi ancora più energia e
concentrazione, prima di lasciar andare per l'ennesima volta la corda
tesa. La freccia sibilò nell'aria, mentre lei la seguiva con
lo sguardo. Senza la minima deviazione, precisa come un pensiero, la
freccia centrò quella già scoccata dal figlio di
Mirea, tagliandola in sottili listelli che si aprirono come i petali di
un fiore che sboccia alla luce del sole.
La stessa
Freya non potè che lasciarsi andare a un sorriso
meravigliato, stupita dalla propria stessa prova. Non avrebbe mai
pensato di poter arrivare a raggiungere un simile risultato, eppure
quella era la dimostrazione che anni di pratica stavano dando i propri
frutti. Fu a quel punto che si ricordò della presenza di
altri individui in quel luogo. Le guance le si imporporarono quando si
rese conto che tutti avevano cessato le loro attività e, in
un silenzio totale, fissavano i bersagli senza far nulla per celare la
loro sorpresa.
Aran le si
avvicinò a bocca aperta. «Devo chiederti davvero
perdono per aver pensato che l'unica cosa che potessi fare fosse
assistere. Sono stato presuntuoso a presupporre che tu non avessi mai
impugnato un'arma e ti chiedo scusa, per questo» le disse,
con un'espressione di stupore tale da farle avere la sensazione di
poter guardare solo il suo viso tra tutti quelli presenti.
C'era
qualcosa, in quella sua capacità di incuriosirsi ed
entusiasmarsi in modo così sincero, che aveva il potere di
incantarla. Scosse leggermente il capo per ritornare in sé,
ancora una volta preoccupata per il corso che stavano prendendo i
propri pensieri. Nel frattempo i soldati stavano ritornando alle loro
attività, scuotendo ancora il capo per cercare di dissipare
lo stupore e mettersi d'impegno per non farsi battere da una ragazza,
per giunta più giovane di loro.
«Chi
ti ha insegnato a tirare così?»
proseguì il ragazzo, sempre con quel sincero interesse sul
volto.
Lei sorrise,
immersa nei ricordi. «Mia madre. Ricordo ancora quando la
guardavo per ore mentre si allenava nel bosco. Alla fine, il giorno del
mio sesto compleanno, uscii dalla mia stanza e davanti alla porta lo
trovai, chiuso in una custodia» spiegò,
accarezzando gli intarsi del legno con gentilezza. Le sue dita si
soffermarono sul disegno di un drago inciso con perizia nel legno e
proseguirono su tutta la lunghezza dell'arco, seguendo le foglie che ne
fregiavano la superficie. Poi continuò: «Ci aveva
lavorato moltissimo, per di più di nascosto da me. Solo dopo
qualche tempo le chiesi il perché di tanta fatica e lei mi
rispose semplicemente che meritavo un arco degno di questo
nome.»
Freya
alzò lo sguardo su Aran e, immergendosi nel suo,
sentì che in qualche modo lui la capiva. La dolcezza che
lesse in fondo a quegli occhi la fece avvampare, tanto che si
sentì perfino costretta a fare un passo indietro e
allontanarsi leggermente da lui e da quell'ondata di emozioni.
Fu Darragh a
interrompere la loro conversazione. «Non posso fare altro che
rivolgervi i miei complimenti e scusarmi, Lady Freya»
l'apostrofò, un sorriso sardonico in viso che tradiva la sua
apparente sincerità.
Molto
probabilmente non la credeva capace di fare null'altro che mirare a
bersagli immobili; anche quel "Lady Freya" con cui l'appellava sapeva
decisamente di presa in giro, ma lei decise che avrebbe aspettato di
vedere fino a che punto si sarebbe spinto il giovane Principe, prima di
perdere la pazienza. Quando notò le sopracciglia di Aran
inarcarsi nuovamente e intuì che stava per dire qualcosa al
fratello, la ragazza lo precedette e ribatté con un sorriso:
«Nulla di cui scusarsi, Principe Darragh», senza
scomporsi minimamente. Sapeva quali erano le proprie
capacità e non sarebbe stato certo il suo giudizio a farle
perdere fiducia in esse.
L'allenamento
al tiro occupò tutte le due ore successive. Freya si
adattò abbastanza in fretta al loro metodo, seppur
così diverso da quello a cui era abituata lei. Gran parte
del suo addestramento erano state le prede che doveva cacciare per
sopravvivere, oltre ai tronchi e ai rami degli alberi, bersagli molto
differenti da quei cerchi di legno imbottito.
Aran sembrava
entusiasta del suo modo di approcciarsi all'arco, tanto che spesso le
chiese consiglio su come avrebbe dovuto fare per migliorare.
Intavolarono una conversazione tanto fitta ed interessante da non
accorgersi nemmeno del tempo che passava, almeno fino a che Darragh non
si schiarì la gola e disse: «Mi spiace
disturbarvi, ma sarebbe il momento di passare a cose più
importanti.»
Fino a quel
momento il ragazzo sembrava aver perso un po' del suo cipiglio
arrogante, limitandosi a ignorare Freya e rivolgendosi solo di tanto in
tanto al fratello. Ora però stavano per passare alla spada,
campo in cui certamente lui la superava di gran lunga, cosa che
bastò a fargli recuperare prontamente la sua aria di
superiorità. Non appena Aran fu fuori portata, diretto
all'armeria, Darragh aggiunse: «Sarebbe meglio che vi faceste
da parte, a meno che non siate altrettanto abile con la spada,
s'intende.»
Freya sapeva
perfettamente di non esserlo: Eleana ne possedeva una e le aveva
insegnato i rudimenti della difesa e dell'attacco, mettendole in mano
una lama mezza arrugginita che avevano rinvenuto nella foresta, ma
aveva presto scoperto di non avere particolare affinità con
quel tipo di arma. Aveva lo stesso continuato ad allenarsi un po' da
sola, giusto per avere un mezzo di difesa in più, ma di
sicuro non sarebbe mai stata alla pari di qualcuno che per il
combattimento si preparava da tutta la vita.
«Non
lo sono affatto, ma vi ringrazio per avermi dato il beneficio del
dubbio» rispose, ritorcendogli contro il suo stesso sarcasmo.
«Il campo è tutto vostro.»
La calma che
Freya stava riuscendo a mantenere sembrava irritare oltremodo Darragh,
che si allontanò a grandi passi sulla scia del fratello.
Chissà per quale ragione il Principe sembrava tanto deciso a
esasperarla, si domandò lei, senza riuscire a trovare
nessuna risposta. Esattamente come Gorman, il ragazzo pareva faticare
ad accettare la sua presenza, come se in qualche modo lei lo stesse
derubando del suo spazio a corte.
Una sensazione
sempre più sgradevole iniziò a serrarle lo
stomaco e Freya strinse saldamente l'arco fra le dita, tentando in
qualche modo di ignorarla; forse si stava sbagliando, ma aveva
l'impressione che Darragh non si sarebbe fermato lì.
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Capitolo 10 *** CAPITOLO 9 - Questione di abitudine, parte seconda: Puro veleno ***
CAPITOLO 9
- QUESTIONE DI ABITUDINE, PARTE SECONDA: PURO VELENO -
Aran
e Darragh impiegarono diverso tempo a riemergere dall'armeria. Durante
la loro assenza, Freya si portò al limitare del campo e
iniziò a ritirare con cura le proprie frecce, controllandone
le condizioni man mano che le scorrevano davanti agli occhi; era
talmente immersa in quel lavoro minuzioso che solo quando
udì rumore di passi in avvicinamento distolse l'attenzione
dal compito che stava svolgendo.
Come le sue parole di prima le avevano confermato, Darragh stringeva
fra le mani una spada, la cui lama lunga e stretta riluceva nel sole
del pomeriggio. Il Principe la impugnò saldamente e si mise
in posizione per l'imminente duello. Le sue previsioni non si erano
però rivelate del tutto esatte per quanto riguardava Aran.
Il ragazzo infatti portava sì una spada, ma completamente
diversa da qualunque altra Freya avesse mai visto: aveva la lama dritta
ed elegante, monofilare, con una punta molto importante e leggermente
arcuata; l'elsa, chiaramente fatta per maneggiare l'arma a una mano
sola, era metallica e dotata di un pomolo piuttosto grande; la cosa
più peculiare, però, era certamente la guardia,
la cui strana forma asimmetrica saltava immediatamente all'occhio: il
braccio posto dal lato del taglio era lungo e piegava verso l'elsa,
mentre l'altro era più corto e andava nella direzione
opposta.
Incuriosita, Freya lasciò da parte le frecce e rimase a
guardare lo scontro. La tensione fra i due si fece sempre
più palpabile, mentre assottigliando gli occhi si studiavano
attentamente a vicenda in cerca di difetti, incertezze o brecce nella
difesa dell'altro. I loro lineamenti non lasciavano trasparire nulla,
come se anche la più piccola emozione potesse dare un
qualche vantaggio all'avversario.
Non fu possibile prevedere chi avrebbe attaccato per primo fino
all'ultimo istante, quando Aran scattò in avanti portando un
tondo rapido e preciso. Darragh fu altrettanto veloce a deviare il
colpo e quando le due lame cozzarono scintille dovute all'impatto
sprizzarono come mille tizzoni ardenti, ripartendosi dal punto di
sfregamento. Con la stessa immediatezza con cui si erano scontrate le
due figure si divisero, portando con sé le proprie armi, per
poi unirsi nuovamente mentre Darragh tentava un affondo alla spalla di
Aran. Quest'ultimo parò senza sforzo e sulle sue labbra
comparve un sorriso che presto fece capolino anche sul volto del
fratello. Era come se li divertisse constatare quanto bene conoscessero
i reciproci stili di combattimento. Più lo scontro andava
avanti, più Freya si rendeva conto che effettivamente era
così: i due fratelli dovevano allenarsi insieme da anni e
questo risultava evidente nella loro capacità di prevedere
quasi con esattezza quale sarebbe stata la prossima mossa dell'altro.
Erano entrambi molto abili, su questo non v'era ombra di dubbio. La
giovane, però, non poteva fare a meno di guardare
affascinata come quella strana spada danzasse fra le mani di Aran,
sempre pronta a vanificare ogni tentativo di fare breccia nella difesa
di colui che la impugnava. Era più un gioco di destrezza che
di forza, il suo. Man mano, anche lo scopo della guardia divenne
evidente: il braccio ripiegato verso l'elsa era un'ottima protezione
per la mano che stringeva l'arma e l'altro, per contro, rendeva
possibile braccare la lama avversaria e disarmare il nemico. Fu
così che Aran riuscì infine ad avere ragione di
Darragh. La lama dello spadone scivolò nella trappola della
guardia durante uno scontro ravvicinato e, con un repentino movimento
di braccio, Aran riuscì a strapparla dalla presa del
fratello maggiore.
I due contendenti, stanchi e oramai madidi di sudore, si fissarono in
silenzio ancora per un attimo, prima di avere una qualunque reazione.
Il volto di Aran si aprì in un sorriso vittorioso mentre su
quello di Darragh comparve una smorfia piuttosto eloquente, affiancata
da un: «Maledetta guardia, senza quella non ci saresti mai
riuscito.»
«Te lo lascerò credere»
ribatté Aran, scherzoso, dandogli una pacca sulla spalla che
attestava però quanta stima avesse delle abilità
dell'altro.
Poi, si diresse verso Freya, ancora strabiliata dal duello a cui aveva
appena assistito. Era la prima volta che aveva occasione di vederne uno
e non ne aveva perso nemmeno il più piccolo dettaglio.
Questa volta era lei a poter imparare qualcosa da Aran, qualcosa che
l'avrebbe aiutata a migliorare la propria autodifesa e a cavarsela se
si fosse trovata in una brutta situazione. La direzione che stava
prendendo la sua vita non lasciava presagire nulla di simile, ma niente
poteva essere dato per certo. Gli andò incontro, osservando
come le spalle di lui si alzassero e abbassassero al ritmo forsennato
del suo respiro.
Appena si raggiunsero, Aran sorrise nuovamente e disse:
«Solitamente non ne esco così bene.»
Freya ricambiò e rispose: «A giudicare da come
combatti mi riesce difficile crederlo.»
Aran rimase in silenzio per un attimo, alzando il viso verso il cielo
in cui il sole dilagava cocente. Poi ribatté: «Non
è stato facile, all'inizio. Non amavo particolarmente
combattere, perfino adesso non è tra le mie
attività preferite, ma con l'arma giusta è
diventato tutto più semplice.»
L'occhio della giovane cadde sulla spada di Aran, che il ragazzo aveva
ancora con sé. Lui sembrò accorgersene,
perché senza dire nulla gliela porse e Freya
lasciò che la propria mano scivolasse sull'elsa
perfettamente sagomata. Era una spada da allenamento, ragion per cui il
filo era smussato, ma dava l'idea di poter comunque lasciare dei bei
lividi e addirittura rompere qualche osso, se usata con eccessiva
violenza. La ragazza la sollevò e ne osservò
più da vicino la foggia, dall'insidiosa guardia che aveva
fregato Darragh fino alla punta ricurva.
«Non ho mai visto nulla di simile»
mormorò infine, assorta. «Che tipo di spada
è?»
«Questa è una lama Meridis»
spiegò lui. «È un'antica spada tipica
della zona insulare di Riagàn. L'armaiolo di corte stava
impazzendo a causa mia, sembrava che nessun arma fosse adatta a
me.»
Freya fece roteare la spada un paio di volte, prima di restituirla al
suo proprietario; era sorprendentemente leggera. Prima che la giovane
potesse domandare qualunque altra cosa, Aran fu richiamato all'ordine
dal maestro d'armi.
«Se non ne avete ancora per molto possiamo proseguire,
Principe Aran» disse l'uomo, inarcando le sopracciglia
sottili e argentee, visibilmente irritato dalla distrazione del ragazzo.
Freya sorrise, divertita. Sembrava che tutti avessero sempre fretta in
quel palazzo. «Stai tranquillo, io non mi
annoierò. Ho ancora qualche freccia da sistemare»
lo rassicurò, sedendosi a gambe incrociate sotto lo sguardo
stranito dei frequentatori del campo.
Più che proseguire il proprio lavoro con le frecce, la
ragazza continuò a osservare con attenzione il resto
dell'addestramento. Si allenarono in ogni possibile variante della
scherma e lei rimase attenta per tutto il tempo, cercando di
interpretare i movimenti e coglierne la logica. Certo non sarebbe
bastato per aiutarla a migliorare, ma era un inizio. Il pomeriggio
volgeva al termine quando i due Principi vennero lasciati andare, non
prima di aver parlato a lungo con il maestro d'armi, il quale fece
ripercorrere loro tutti gli errori commessi durante il duello. Solo
quando i ragazzi ebbero corretto ognuno di essi da sé,
comprendendone tutte le implicazioni, l'uomo si allontanò e
scomparve oltre la soglia dell'armeria.
Aran, sfinito, la raggiunse nuovamente e si lasciò cadere a
terra al suo fianco. Quando notò che il giovane respirava di
nuovo normalmente, Freya disse: «Quindi è
così che voi giovani nobili trascorrete le
giornate.»
Aran alzò lo sguardo su di lei e sorrise. «Non
c'è via di mezzo, o siamo qui al campo a duellare o in
biblioteca con il naso nei libri» rispose.
La ragazza rammentò le sue parole di qualche ora prima.
Aveva affermato che per lui combattere era stato difficile, all'inizio,
e che tutt'ora continuava a non piacergli particolarmente. Sperando di
non risultare troppo invadente, domandò: «Ti senti
più a tuo agio fra i libri che fra le armi, non è
vero?»
Il giovane Principe restò in silenzio per un attimo. Poi
asserì: «Sì, effettivamente preferisco
avere per le mani qualcosa che arricchisca le mie conoscenze piuttosto
che uno strumento di morte. Ma non ho molta scelta e, in ogni caso,
saper maneggiare una spada può salvarti la vita.»
Questa volta fu Freya a restare silenziosa per un lungo momento, prima
di decidersi a parlare. «Per questo ho bisogno di imparare a
impugnarne una come si deve, anche se l'idea non mi fa impazzire.
Potrebbe arrivare il giorno in cui il mio arco non basterà e
voglio essere pronta a qualunque evenienza » disse infine.
La verità era che, dal momento in cui aveva lasciato la sua
casa, aveva iniziato a rendersi conto che il mondo era molto
più grande di quanto avesse mai immaginato quando
s'immergeva nelle pagine delle Saghe di Finian; il pensiero di non
essere preparata ad affrontare l'ignoto la spaventava.
Rendendosi conto che la sua mente stava andando alla deriva e che Aran
la stava guardando, cercò di alleggerire il tono della
conversazione. «Comunque non so quanto il vostro maestro
possa essere disposto a insegnare a una donna, non ne vedo molte
qui» scherzò.
«Posso farlo io» disse Aran, semplicemente.
«Non conosco tutti i segreti della spada, ma posso insegnarti
quello che so.»
«Lo faresti davvero?» domandò lei.
Il ragazzo annuì. «Non farò l'errore di
sottovalutarti solo perché sei una ragazza.»
affermò. Poi, come se nulla fosse, si alzò e
iniziò a camminare verso l'armeria.
Solo quando fu arrivato a metà del campo Freya comprese:
«Non vorrai iniziare adesso?» chiese, alzando un
po' la voce per farsi udire. Non le piaceva urlare, si rese conto. Le
dolevano quasi le orecchie, come se fossero state talmente abituate al
silenzio da non sopportare quel tipo di suono.
«Voglio solo capire quale tipo di spada possa essere adatta a
te» ribatté lui, facendole cenno di seguirlo.
L'armeria era ordinata e perfettamente suddivisa: da un lato le armi
d'allenamento, dall'altro quelle da battaglia, a loro volta ripartite
in categorie. Perfino per Freya, che non c'era mai stata prima, fu
semplice individuare ciò di cui avevano bisogno.
Ben presto furono fermi di fronte a una schiera di spade in cui la
giovane non avrebbe saputo proprio come orientarsi. Certo, le era
piuttosto evidente che uno spadone a due mani sarebbe stato troppo
grande e pesante per lei, ma la sua conoscenza di quale lama nello
specifico potesse adattarsi alla sua corporatura si fermava
lì. Persa nelle proprie elucubrazioni non si accorse nemmeno
che Aran era scomparso, almeno fin quando non lo vide tornare
accompagnato da un uomo basso e dal ventre prominente, il quale le
rivolse un'occhiata perplessa non appena posò lo sguardo su
di lei.
«Parlavate di lei, Principe Aran?» chiese,
rivolgendosi al ragazzo come se Freya non fosse nemmeno lì.
«Esatto, Brant» rispose Aran, quieto.
L'uomo, Brant, sembrò interdetto. «Vostra Grazia,
non so quanto possa essere conveniente» ribatté
poi. Continuava a ignorare totalmente la presenza di Freya, come se
Aran fosse l'unico degno di considerazione.
La giovane non poté fare a meno di aggrottare le
sopracciglia, irritata. Forse c'erano molte altre cose a cui doveva
ancora abituarsi, ma non credeva che sarebbe mai riuscita a scendere a
patti con la loro misoginia. Come poteva essere che in un regno
totalmente governato da una donna trovassero ancora strano o
addirittura sbagliato che una ragazza volesse imparare a combattere?
Freya non riusciva proprio a capacitarsene.
Aran, in ogni caso, non sembrava sorpreso dalla reazione di Brant. Con
tutta calma si limitò a dire: «Non credo che la
Regina avrà qualcosa in contrario. Se così
dovesse essere, me ne prenderò ogni
responsabilità.»
A quelle parole l'uomo sembrò tranquillizzarsi e, nonostante
le occhiate palesemente scettiche che continuava a scoccarle,
acconsentì ad affidarle una spada.
La giovane, invece, rimase estremamente sorpresa da come il Principe si
fosse schierato dalla sua parte senza esitazione. In fondo, la
conosceva a malapena da due giorni e non era certo tenuto ad esporsi a
quel punto per lei. Fu così che nella mezz'ora successiva le
passarono per le mani tutte le spade che, a detta dell'armaiolo, lei
sarebbe stata in grado di portare; naturalmente secondo la sua
corporatura, non possibile abilità, che per l'uomo sembrava
essere certamente inesistente.
Alla fine, dopo innumerevoli tentativi, Brant decretò che
uno stocco poteva fare al caso suo. Freya non ne aveva mai visto uno,
perciò quando le venne porta l'elsa della spada si prese un
attimo per osservarla attentamente. Impugnatura a una mano, dotata di
una guardia piuttosto importante; lama sottile, seppur robusta e
rigida, priva di qualsiasi filo e terminante in una punta estremamente
acuminata.
«È un'arma di precisione. È fatta
apposta per insinuarsi nelle giunture dell'armatura e ferire il nemico
nei punti deboli» spiegò Aran.
La ragazza la fece roteare velocemente fra le mani. Era effettivamente
molto maneggevole, dato che probabilmente in lunghezza non superava i
cinquanta pollici, e forse avrebbe avuto qualche speranza di apprendere
come usarla.
«Lo stocco è pensato per portare affondi,
perciò non è tagliente, ma ci si può
comunque fare del male se lo si utilizza nel modo sbagliato»
la incenerì l'armaiolo, dando forse per scontato di
ritrovarla di lì a poco ad agonizzare in una pozza di
sangue. Poi si allontanò, scuotendo il capo come se avesse
appena assistito a qualcosa di assurdo.
«Ti prego di scusarlo, nel suo ambiente non si ha spesso a
che fare con le donne» asserì Aran, visibilmente
dispiaciuto.
Solo a quel punto Freya si permise di sorridere, commentando ironica:
«Deve essere stata dura per lui, immagino che di solito abbia
a che fare con persone alla sua altezza.»
«Non vedo alcun motivo per cui tu debba essergli
inferiore» ribatté il giovane.
«Lui evidentemente sì»
mormorò lei, impedendosi di contrarre i pugni per la stizza.
Quando uscirono il campo era oramai quasi completamente deserto, fatta
eccezione per uno sparuto gruppetto di uomini che si allenavano nel
corpo a corpo e Darragh, impegnato a parlare nuovamente con il maestro
d'arme.
Ignorandoli completamente, Aran si posizionò in una striscia
di terra lontana da loro e disse: «Bene. Vediamo cosa puoi
essere capace di fare.»
A Freya sfuggì l'ennesimo sorriso. «Non avevi
detto che volevi solo trovare l'arma ideale?»
ridacchiò.
Il Principe fece spallucce, sorridendo a propria volta. «Ci
abbiamo messo meno del previsto. E poi, non sono ancora
stanco» rispose, invitandola con gentilezza a porsi di fronte
a lui.
La ragazza fece come le era stato detto e procedette a mettersi in
guardia per il combattimento.
«Ho l'impressione che tu sappia molto più di
quanto non credi» affermò Aran nel notare il gesto
di lei.
«Io invece credo che tu mi sopravvaluti» disse
Freya. «Non conosco nulla più che le
basi.»
Aran assottigliò gli occhi. «Vedremo.»
E così trascorsero un'altra ora buona a cercare di capire
quali fossero le potenzialità di Freya e a ripassare tutte
le fondamentali della scherma. A ogni tipo di colpo, di punta o di
taglio che fosse, corrispondeva una dimostrazione pratica e la ragazza
iniziò pian piano a immagazzinare in un cassetto della
propria mente ogni informazione che riceveva.
Nel mentre Aran le spiegò anche tutte le componenti della
spada, soprattutto della lama, e la loro utilità nel
combattimento. La punta per gli affondi, il debole per portare i colpi,
il medio per parare quelli più leggeri e il forte quelli di
botta.
«Nel caso dello stocco l'unica cosa che dovrai sapere sui
colpi di taglio è come pararli. Ti sarà molto
più utile la punta che tutto il resto» le disse
alla fine della spiegazione sugli attacchi, mentre riprendevano fiato.
Poi passarono alla parte difensiva, anch'essa molto importante se non
voleva rischiare di soccombere al primo attacco. Non appena Freya ebbe
preso dimestichezza con ogni tipo di movimento i due ragazzi
scambiarono anche qualche colpo. La giovane oramai sapeva quanto Aran
fosse bravo con la sua Meridis,
ma il Principe sembrò molto sorpreso dal tono delle risposte
di lei. Le ci sarebbe voluto un po' per rendere fluide le mosse
più complesse, ma con quelle più semplici le
stava riuscendo piuttosto bene ribattere ai suoi attacchi, anche se
andavano certamente perfezionate.
Alla fine di quel primo mezzo allenamento Freya si accorse che le sue
braccia erano abituate a tendere un arco, ma non a reggere il peso di
una spada: quando si sedettero a terra, incuranti della polvere che si
attaccava ai loro vestiti, divenne consapevole di quanto le dolesse
anche solo contrarre e distendere i muscoli degli arti superiori.
Per molto tempo restarono immobili, in perfetto silenzio, prima che
Aran parlasse. «Per essere una che conosce solo le basi te la
sei cavata molto bene» disse, sorridendo.
«È difficile valutare cosa sai fare quando le
uniche volte che hai usato una spada stavi menando fendenti contro un
albero» rispose lei. «Non ho mai avuto altro modo
per continuare ad allenarmi.»
Di nuovo silenzio, mentre Aran la osservava. Sembrava che si stesse
facendo coraggio per chiederle qualcosa. «È stata
sempre tua madre a insegnarti?» domandò infatti
dopo che lei ebbe ricambiato il suo sguardo, come per invitarlo a
proseguire. «Non sei costretta a parlarne, se non ne hai
voglia.»
Freya sorrise, tranquilla. «Mi fa piacere parlare di
lei» ribatté, prima di rispondere al quesito che
le era stato posto. «Sì, è stata mia
madre. Voleva che sapessi difendermi in tutti i modi possibili,
perciò mi stava insegnando i fondamentali. Credo sapesse che
avrei sempre preferito l'arco, però.»
«Hai tutte le ragioni per farlo; non ho mai visto nessuno
tirare come te» disse il ragazzo. Lasciò vagare lo
sguardo per lo spiazzo, prima di aggiungere: «Doveva essere
una donna molto coraggiosa.»
«Lo era davvero» sussurrò lei e se c'era
qualcosa di cui era sicura era proprio quella.
Fu proprio in quel momento, quando Freya aveva abbassato la guardia e
stava finalmente lasciando andare del tutto la tensione, che una voce
li interruppe.
«Forse l'hai idealizzata un po' troppo. Mi chiedo con quanto
di tutto questo coraggio di cui parli abbia potuto abbandonare sua
figlia nel mezzo di una foresta in così tenera
età.»
Freya scattò in piedi e si voltò, solo per
trovare l'espressione arrogante di Darragh che la guardava dall'alto in
basso. Sentì le spalle che le si irrigidivano, come se da un
momento all'altro qulcuno potesse attaccarla e ferirla gravemente, e
una rabbia che non le era mai appartenuta prima divampava nel suo
sguardo con la stessa furia di un incendio. Non si riconosceva, in quel
sentimento ribollente e oscuro, ma la sua forza fu tale che non ebbe
nemmeno il tempo di stupirsene. Lo stocco che ancora stringeva fra le
mani si conficcò con veemenza nel terreno, ai piedi del
Principe Ereditario, il cui volto tutto a un tratto si fece pallido,
come se solo in quel momento si fosse reso conto di cosa avesse detto.
Senza nulla più da stringere per arginare l'ira, non le
restò altro che serrare i pugni.
«Prima di parlare di ciò che non
conosci» sibilò, facendo un passo in avanti che
costrinse Darragh a indietreggiare, «dovresti soffrire almeno
la metà di quello che ho sofferto io, nel sapere che tua
madre ti avrebbe protetta a costo della vita e forse l'ha
fatto.»
Freya avvertì le proprie stesse parole trafiggerla dritta al
cuore lentamente, una alla volta: era la prima volta in assoluto che
dava voce a ciò che fino a quel momento si era rifiutata
perfino di pensare.
Aran la guardava, senza sapere cosa dire di fronte a tanto dolore. Solo
in quel momento si rese conto che, nonostante la sua apparente calma,
c'era tanto che Freya teneva ben chiuso dentro di sé e,
probabilmente, lasciava trapelare molto raramente.
Irritata con se stessa per aver mostrato così tanto dei
propri sentimenti a tutti quegli occhi estranei la giovane si
allontanò a testa alta, senza più dedicare
nemmeno uno sguardo a Darragh e alla sua ignoranza; fu solo al limitare
del campo che notò Malia correre come una forsennata verso
di lei, tenendosi l'orlo della veste.
«Mia signora» ansimò, «non vi
trovavo in nessun luogo del castello, non avevo la ben che minima idea
di dove foste...»
Qualunque cosa avesse voluto dire dopo si perse in un mormorio
indistinto, mentre l'ancella osservava sconcertata il bell'abito di
Freya, inzaccherato di terra e polvere. In ogni caso sembrò
intuire che qualcosa l'aveva turbata e si limitò a dire:
«Venite, vi porto immediatamente a darvi una
ripulita.»
Il tumulto che l'aveva investita la stava ora abbandonando,
perciò Freya si lasciò guidare via dall'ancella
senza opporsi. Ogni passo era uno sforzo in più per
trattenere le lacrime che quelle parole di puro veleno stavano
minacciando di far scendere sulla ferita ancora aperta della perdita di
sua madre. Mentre si allontanava sentì arrivare anche la
paura, puro e semplice terrore che non avrebbe mai smesso di sanguinare
fino a che non avesse scoperto la sorte a cui Eleana era andata
incontro.
֎ ֍ ֎
I passi di Aran rimbombavano nei corridoi vuoti.
L'urgenza che lo animava era qualcosa che fino ad allora gli era stata
sconosciuta, ma che sapeva derivare dalla consapevolezza di quanto male
avessero causato le parole che Darragh aveva rivolto a Freya, il
pomeriggio precedente; sentiva di aver aspettato anche troppo, frenato
dalla propria razionalità. A dire il vero, aveva provato a
cercarla, subito dopo che si era voltata ed era corsa via, ma quando
aveva intuito che si era ritirata nei propri appartamenti aveva
desistito; era andato a dormire con un peso sullo stomaco, cercando di
ripetersi che doveva imparare a mantenere un certo distacco dalle
emozioni altrui. Naturalmente, non era servito a nulla: l'angoscia si
era protratta per tutto il giorno e Aran aveva sperato di vederla
comparire al campo d'allenamento, o alle scuderie. Di lei,
però, non c'era stata nessuna traccia.
Aveva riflettuto a lungo su cosa fosse meglio fare, in parte
perché non aveva il coraggio di andare a bussare alla porta
della giovane: forse, aveva paura che non si sarebbe aperta, che Freya
avrebbe respinto qualunque cosa avesse potuto dirle e si sarebbe
rifiutata di avere nuovamente a che fare con lui; quella
possibilità lo turbava molto più del normale. Era
stato solo durante la cena di quella sera, quando aveva visto Darragh
continuare a comportarsi come se nulla fosse, che aveva deciso che se
non l'avesse fatto lui, qualcuno avrebbe pur dovuto chiedere scusa a
Freya. La verità era che Aran aveva bisogno di accertarsi
che lei stesse bene, perché, qualunque cosa significasse,
sentiva di non poter sopportare nemmeno l'idea del suo dolore.
Forse, era vero quello che suo fratello aveva continuato a ripetergli
negli anni: la sua tendenza a lasciarsi coinvolgere non l'avrebbe mai
reso un buon guerriero. Eppure, in qualche modo, le parole di Darragh
non gli pesavano più come avevano fatto in passato; sembrava
che tutto stesse acquistando una prospettiva diversa, se legato a
Freya. Senza più esitare, il Principe era partito alla
ricerca di Malia, la quale gli aveva detto dov'era stata alloggiata la
ragazza.
Le gambe iniziavano a dolergli, quando la notò: era
appoggiata al davanzale in pietra di un piccolo bovindo sospeso sui
giardini interni, immersi nella penombra notturna spezzata di tanto in
tanto dalle lanterne portate dai soldati, di guardia sulle mura; quegli
sprazzi di luce a tratti le illuminavano il viso altrimenti colorato di
ombre. Non sembrò accorgersi della sua presenza, almeno
finché non giunse anche lui nello sporadico cono di luce. La
ragazza lo osservò, poi abbassò lo sguardo. Il
silenzio aleggiò su di loro qualche attimo, senza
però essere spiacevole.
«Non ho la minima idea di come scusarmi per ciò
che mio fratello ti ha detto. Non aveva il diritto di sputar sentenze
su ciò che non conosce, né tanto meno contro tua
madre» mormorò infine Aran, parlando piano per non
turbare quella coltre di tranquillità che sembrava isolarli
da tutto il resto.
Freya sembrò assimilare lentamente le sue parole, prima di
rispondere: «Non devi fare assolutamente nulla per scusarti
con me. Il ricordo che conservo di mia madre non potrà mai
essere rovinato e so che quelle parole non sarebbero mai potute
appartenere a te. Tu non sei tuo fratello; ho avuto la sensazione che
tu tenda a dimenticarlo.»
Questa volta fu Aran ad abbassare lo sguardo. Era vero che si sentiva
sempre in dovere di rimediare alla mancanza di tatto del fratello: era
capitato spesso che usasse toni simili, soprattutto verso coloro i
quali lavoravano per loro. Cercava sempre di ricordargli che tutti
meritavano rispetto, indipendentemente dal loro ruolo a palazzo, ma
Darragh raramente lo ascoltava, perciò era sempre lui a
chiedere scusa al posto suo. Si stupì di come lei fosse
riuscita a cogliere con tanta chiarezza quel particolare del suo
rapporto col fratello.
«Ci ho riflettuto molto oggi, sai? La verità
è che, in una parte di me, l'affetto per lei è
costretto a convivere col dolore per la sua scomparsa e ho finito con
il reagire bruscamente anche di fronte a un commento che non avrebbe
dovuto avere nessuna importanza» spiegò Freya con
voce calma, seppur venata di una profonda e a stento celata amarezza,
ignara delle riflessioni di Aran.
«Ha importanza, se ti ferisce» disse lui,
avvicinandosi di un passo. «Questo è il problema
di Darragh: pensare sempre che le parole non abbiano un peso, quando
invece ne hanno. Non gli permetterò mai più di
parlarti in quel modo; te lo posso promettere.» Si rese conto
con un attimo di ritardo di aver agito d'istinto e di essere fin troppo
prossimo a lei, ma Freya si limitò a fissarlo, spalancando
gli occhi chiari, senza far nulla per allontanarsi.
«Questa ora è anche casa tua ed è
giusto che tu la senta come tale» concluse infine Aran.
A quell'ultima frase l'espressione della giovane si fece seria, mentre
rispondeva con un enigmatico: «Sì, ora
è casa mia. Non so per quanto potrà durare, ma lo
è.»
Il Principe la scrutò, cercando di intuire qualcosa di
più, ma potè notare solo le sue dita stringere la
pietra grezza del bovindo; nient'altro. In breve il silenzio li avvolse
nuovamente; rimasero solo il rumore delle bestie notturne che vagavano
per i campi in lontananza e lo scalpiccìo dei soldati che
procedevano in un'incessante ronda. D'improvviso, in quella quiete, si
ritrovò a chiedersi da dove Freya traesse quella
straordinaria forza, come trovasse il coraggio di porsi tante domande
su se stessa e di accettarne le risposte, belle o terribili che
fossero. Per la prima volta in vita sua, sentì il bisogno di
scavare un pò più a fondo nella propria storia
personale, come stava facendo lei, ma quel desiderio fu accompagnato
dal terrore di non esserne in grado.
Le parole gli uscirono di bocca, incontrollate:
«Sarò mai capace di affrontare la
verità nello stesso modo in cui sei riuscita a farlo
tu?»
Non ci fu bisogno di specificare null'altro. Freya comprese al volo e
non esitò nemmeno un istante nel rispondere:
«Quando verrà il momento, troverai tutta la forza
necessaria. C'è già, da qualche parte, nascosta
in te.» Poi, gli sorrise. «Buonanotte,
Aran» accennò appena, congedandosi, e
puntò dritta verso la sua porta, appena distante dal bovindo.
Aran rimase lì, le fiamme delle fiaccole che scaldavano a
tratti il suo viso, con la sempre crescente sensazione che quel momento
si stesse avvicinando inesorabilmente.
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Capitolo 11 *** CAPITOLO 10 - La corte di Errania ***
CAPITOLO 10
- LA CORTE DI ERRANIA -
Quella
notte, nulla ruppe la calda coltre dei sogni di Freya: parlare con Aran
aveva fatto scendere su di lei una tranquillità che non
avrebbe mai creduto possibile. Fu una calma risanatrice, che le permise
di recuperare del tutto le forze perdute negli ultimi tempi a causa dei
suoi ripetuti incubi e del lungo viaggio affrontato.
Il suo sonno era tanto profondo che solo quando avvertì i
propri sensi sgusciare fuori dal torpore e riacquistare acutezza
aprì lentamente gli occhi. Ciò che
trovò la lasciò confusa per qualche attimo:
un'intensa luce dorata abbracciava tutto, dal mobilio ai tendaggi, per
poi scivolare sulle pareti in pietra grezza. Impiegò un
istante a capire che era la luce del sole a inondare tutto a quel modo.
Com'era possibile che fosse già così fulgida e
luminosa a quell'ora del mattino?
Si mise a sedere delicatamente e comprese il perché non
appena osservò il cielo, al di là del vetro
colorato che occupava la parete alla sua destra: il Grande Padre aveva
già compiuto parte del suo percorso nel cielo; dovevano
essere trascorse almeno tre ore, se non di più, dall'alba.
La mattina era ancora giovane, ma era comunque passato molto dall'ora
in cui si svegliava abitualmente. Gettò le gambe oltre il
letto, lieta che non dolessero più come il giorno
precedente. Subito si sentì rincuorata nel percepire il
calore del pavimento in legno sotto le piante dei piedi: le
ricordò quello di casa.
Non appena fu del tutto fuori dalle coperte quasi si lanciò
verso la finestra, smaniosa di permettere al sole di riscaldarle il
viso. Appoggiò le mani sul davanzale e socchiuse gli occhi,
concedendosi un istante di pace, nonostante oramai il sonno l'avesse
abbandonata. Poi, volse lo sguardo ai giardini, molto più in
basso; la sua vista acuta arrivò a scorgere i colori
sgargianti dei fiori, i petali multicolori schiusi a bearsi come lei
dell'imperante calore che vegliava sulla terra. Si riscosse solamente
quando il pensiero di avere un'intero castello ancora da esplorare la
riempì di aspettativa.
Si avviò verso il baule e cercò un abito che
potesse fare al caso suo; lo trovò sul fondo, leggero, di un
bel color cobalto e si vestì più velocemente che
poté. Raccolse alla svelta parte dei capelli sulla nuca,
senza curarsi di cercare lo specchio con lo sguardo, e
lasciò che il resto le ricadesse sulle spalle. Soddisfatta
del risultato prese un lungo respiro, cercando il coraggio necessario
per varcare la porta che l'avrebbe catapultata nel mondo di corte. Si
era oramai decisa quando, prima che potesse anche solo posare la mano
sulla maniglia, qualcuno bussò sul legno massiccio dalla
parte opposta.
Freya aprì all'istante e il battente si scostò
per lasciarle intravedere Aran, che pareva essersi svegliato
decisamente prima di lei. Non poté trattenersi dal sorridere
mentre lui la studiava attentamente, come se volesse accertarsi che il
suo malessere del giorno prima se ne fosse andato del tutto. Come
poteva, dopo così poco tempo, preoccuparsi a quel modo per
lei?
«Sto bene, Aran, non devi preoccuparti in alcun modo per
me» affermò, lasciando che la propria espressione
si addolcisse e anticipando qualsiasi cosa il giovane potesse dire o
fare.
Lui rimase ammutolito per qualche istante, sorpreso dalla sua
perspicacia, prima di riacquistare la parola. «In
realtà, sono qui perché oggi mi piacerebbe farti
visitare la nostra corte, se ne hai voglia» disse. Poi,
aggiunse: «Se però hai in mente qualcos'altro,
oppure desideri stare sola, non c'è alcun problema. Mi
potrai venire a cercare tu quando...»
Vedendolo tanto agitato, Freya non lo lasciò andare oltre:
«Voglio vedere ogni angolo di questo castello fin da quando
sono arrivata. Aspettavo solo di averne
l'opportunità» lo interruppe, nel tentativo di
fargli riprendere fiato.
Aran si fermò, imbarazzato di aver perso il controllo della
propria lingua, e con un profondo respiro asserì:
«Bene, allora andiamo. Da dove vorresti cominciare?»
«Sei tu la mia guida, perciò affido a te l'ardua
decisione» scherzò la ragazza, uscendo dalle sue
stanze e fermandosi di fronte a lui con le mani allacciate dietro la
schiena, in attesa.
Il giovane si produsse in un mezzo sorriso. «Mi piace che tu
riesca a parlare con me in modo tanto semplice e diretto,
sai?» commentò.
Solo in quell'istante Freya si rese conto di aver dato sin da subito
del tu a un Principe, senza che lui l'avesse mai autorizzata a farlo.
«Mi dispiace di essermi presa la libertà di darti
tanta confidenza, non mi ero resa conto di essere stata tanto
maleducata» disse, arrossendo violentemente.
Aran fece evaporare la sua preoccupazione, scoppiando a ridere e
ribattendo: «Non c'è alcun motivo per cui tu ti
debba rivolgere a me con deferenza, avrai a mala pena un anno in meno
di me.»
«Sì, ma tu sei un Principe» rispose lei,
prima di essere interrotta dal fissarsi dello sguardo del ragazzo nel
proprio.
«Non ha alcuna importanza. Promettimi che non mi tratterai
mai come se ti fossi superiore» soggiunse, come se per lui
fosse qualcosa di estremamente importante.
Quell'improvviso contatto visivo fece rimanere Freya senza respiro, ma
ugualmente riuscì ad annuire. «Te lo
prometto.»
In breve, entrambi si ritrovarono a sorridere, una felicità
sincera che li invadeva senza una ragione precisa. Solo passato quel
momento Aran iniziò ad avviarsi lungo il corridoio; sembrava
non avere esitazioni sulla direzione da prendere.
«Senza alcun dubbio dobbiamo iniziare dalla Galleria dei
Ritratti» spiegò, riprendendo il discorso
precedente dal punto in cui l'avevano interrotto.
Lasciarono la torre in cui si trovavano gli appartamenti di Freya e
attraversarono una serie di sale e corridoi minori che li portarono
all'ala est del castello; lì, Aran la condusse al secondo
piano, fino a una porta grande il doppio di quelle che s'intervallavano
normalmente lungo le pareti. Intarsi d'oro puro ne fregiavano la
superficie, facendola sfavillare debolmente alla luce che traspariva
dalle finestre smerigliate. Freya non osò fare il primo
passo: anche solo la maniglia doveva valere una fortuna. Fu Aran ad
aprirla, permettendole di entrare in una sala lunga e stretta di cui
quasi non si scorgeva il fondo.
La giovane varcò la soglia e un brivido le percorse la
schiena quando lo sguardo le cadde sulla parete alla sua destra: un
gigantesco ritratto alto almeno un braccio più di lei era
lì appeso e con dovizia di particolari vi era dipinta,
sontuosamente vestita, la Regina Mirea. Solo il trono la sovrastava
alle sue spalle, mentre tutta la stanza che le faceva da sfondo,
sebbene fosse quella del trono e fosse fregiata per tutta la lunghezza
delle sue pareti, sembrava convergere su di lei, dandole ancora
più importanza e imponenza. I suoi occhi, ghiaccio puro, la
osservavano severi e per qualche istante la giovane si sentì
schiacciare sotto il peso del quadro e di ciò che
raffigurava. Quando Aran le posò una mano sulla spalla,
trasalì.
«Lo so» sussurrò lui, quasi come se
avesse timore di risvegliare qualcosa di enorme sopito all'interno
della cornice, «questo dipinto mette in soggezione. Quand'ero
piccolo ne avevo una paura tremenda.. Gli altri ti
incanteranno.»
Con fatica immane, Freya distolse lo sguardo dalla figura inflessibile
della Regina e l'aura di paura che l'aveva avvolta si
dissipò non appena passarono oltre. Si trattava certamente
di suggestione, doveva esserlo. Quando riuscì a volgere la
propria attenzione agli altri quadri, la colpì come fossero
tutti più piccoli di quello di Mirea, tanto imponente da
sembrar usurpare spazio a chi era venuto prima di lei e a coloro che
sarebbero giunti in futuro. Solo sulla parete di fondo, ancora troppo
lontano per essere ben visibile, sembrava esserci un dipinto in grado
di rivaleggiare con quello che la Regina aveva commissionato per
sé stessa; la ragazza immaginò di dover attendere
la fine della visita per scoprire di cosa si trattasse.
Prima che potesse anche solo rischiare di restare intrappolata nel
pantano dei propri pensieri, Aran la salvò proseguendo lungo
la sala, sempre attento a non lasciarla indietro. Trascorsero
più di un'ora fra quelle mura cariche di storia del Regno di
Riagàn, seguendone il corso attraverso i moltissimi quadri
disposti in file che arrivavano quasi a toccare il soffitto.
Innumerevoli furono i Re e le Regine degni di essere ricordati per le
gesta che avevano compiuto o per particolari avvenimenti che si erano
ritrovati costretti ad affrontare durante i loro regni.
Freya ascoltò rapita la voce di Aran che narrava storia e
leggenda, fondendole in un unico racconto che le fece comprendere molto
sulla natura degli uomini. Erano impulsivi, spesso si lasciavano
trascinare dalle proprie passioni e dai propri sentimenti, come se gli
anni di vita che gli venivano concessi fossero troppo pochi per poter
fare tutto ciò che avrebbero voluto; erano però
anche capaci di compassione e altruismo, di saggezza e diplomazia, di
equità.
Anche i sovrani considerati meno noti avevano un posto d'onore in mezzo
ai volti e ai nomi più conosciuti e lei ascoltò i
vari aneddoti su di loro con lo stesso identico interesse. Alla giovane
fu presto chiaro come il potere e la ricchezza non preservassero dalla
sofferenza: molti di quei regnanti, apprese dalle parole di Aran, erano
rimasti soli dopo aver perso consorti e figli per le cause
più disparate, da lunghe e atroci epidemie a battaglie e
aggressioni sanguinarie.
Parola dopo parola raggiunsero la parete di fondo, che a Freya, la
quale aveva i piedi doloranti e la memoria satura di informazioni, era
parsa fino a quel momento irraggiungibile. Lì, accuratamente
bordato da un'immensa cornice intagliata nella pietra a formare un
ricco intarsio, c'era il ritratto che già in lontananza
aveva catturato la sua attenzione, più di qualunque altro.
Raffigurava una coppia, regale e solenne, la quale trasmetteva un
profondo senso di unione che le fece formare uno stretto groppo in
gola. L'uomo era alto, aveva capelli biondo miele lunghi fino alle
spalle e i suoi occhi blu profondo sembravano guardare il resto della
sala, come per vegliare su tutti gli altri sovrani che la condividevano
con lui e la sua consorte; aveva spalle larghe coperte da un mantello
scuro e una corona d'oro tempestata sul capo. Dalla sua cintura pendeva
una grande spada, mentre il braccio destro teneva stretto quello della
moglie.
Lei era di una bellezza pura e splendente: i lunghi capelli rossi le
scendevano sciolti lungo le spalle, coronati da una tiara d'oro di
finissima fattura, mentre gli occhi, di una particolare sfumatura
indaco, trasmettevano dolcezza e forza al tempo stesso; il suo vestito
era azzurro cielo, finemente ricamato, mentre una cintura scintillante
di turchesi le cingeva la vita.
Freya impiegò un istante per riconoscere la Sala del Trono,
alle loro spalle, perché era molto differente da come
appariva attualmente: i due scranni dei sovrani erano di legno
massiccio, rivestiti su schienale e seduta di bianco candido, e le
pareti erano decorate semplicemente da stendardi e intagli molto
più semplici di quelli ora presenti. Provò a
chiedere ad Aran di quel dipinto, ma la voce le morì in gola
per ben tre volte e alla fine fu lui a intervenire.
«Quelli sono Re Hamlan e la sua sposa, la Regina Mirana. Loro
sono i primi sovrani che Riagàn abbia mai avuto: il loro
casato ha risolto tutti i conflitti che imperversavano nelle nostre
terre e ci ha finalmente uniti in un solo regno; fu il popolo stesso a
sceglierli all'unanimità. Sono anche i più amati
e ricordati dalla nostra gente, uno di quegli affetti che vengono
tramandati attraverso i secoli» le disse osservando la sua
espressione stupita e, al contempo, rapita da quella coppia che
sembrava tanto unita e presente da essere lì, in carne ed
ossa.
Freya rimase immobile a guardare i due sovrani per un tempo che parve
infinito, mentre cercava di scorgere qualcosa prima negli occhi del Re
e poi, più alacremente, in quelli della Regina. Si
ritrovò a desiderare che prendessero vita, che si trovassero
di fronte a lei per spiegarle cosa avesse portato a quel loro presente,
così confuso come lo era stato il loro passato. Poi, la mano
di Aran la riscosse dai suoi pensieri, poggiandosi sul suo avambraccio.
La giovane scosse la testa come per scrollarsi qualcosa di dosso e si
voltò a guardarlo.
Fu strana l'impressione che la colse: improvvisamente le parve, in modo
tanto vivido da sembrare reale, di essere divenuti loro i soggetti di
un dipinto. Forse, fu per gli occhi dei sovrani fissi su di loro,
attenti e penetranti, mentre sembravano chiedersi come due ragazzi
così giovani potessero essere finiti in quella sala,
ritratti fra re e regine. Era come se il tempo si fosse cristallizzato
lì e non in quelle nicchie, uguali a sé stesse da
secoli. Durò solo un secondo. L'aria immota riprese presto a
scorrere nei polmoni di Freya, che bruciarono come se fosse rimasta in
apnea troppo a lungo.
«Stai... stai bene?» mormorò Aran,
visibilmente preoccupato per la momentanea assenza di lei.
La ragazza sorrise. «Sì, sto bene. È
solo che... questo quadro mi ha colpita. Sarà
perché è così antico e
imponente» ribatté, riacquistando fermezza nel
tono man mano che parlava.
Aran annuì. «Talmente antico che non è
rimasto più nulla del suo autore, solo un piccolo
scarabocchio all'angolo della tela» sussurrò,
puntando lo sguardo sul minuscolo ghirigoro, quasi invisibile.
«Sarà meglio andare, ci sono ancora moltissime
cose che vorrei mostrarti» disse infine, recuperando la sua
normale sicurezza.
Uscirono così dalla Galleria dei Ritratti, diretti verso la
moltitudine di sale ancora da visitare, dislocate in tutto il castello.
Camminarono a lungo e chiacchierarono di molte cose: della loro
infanzia, dei luoghi in cui l'avevano vissuta e delle vicissitudini che
si erano trovati ad affrontare. Freya si rese presto conto che,
nonostante vivesse in un castello, Aran ne aveva viste molte,
soprattutto se si parlava dei soldati d'istanza al palazzo. Il giovane
Principe le spiegò che sua madre lasciava intendere sempre
molto poco degli affari del Regno, ma nascondere un'intera compagnia di
cavalieri sanguinanti che ritornavano dopo misteriosi periodi di
assenza, o addirittura la sparizione di alcuni di essi, era impossibile
perfino per lei.
D'altro canto, nemmeno la ragazza era stata sempre tranquilla nella
foresta. Raccontò ad Aran delle battute di caccia e delle
lunghe ore passate a raccogliere i frutti della natura per procurarsi
il sostentamento, di sua madre che le insegnava a difendersi e a
orientarsi nel fitto sottobosco.
«Non hai mai fatto domande su tutti questi
misteri?» chiese Freya dopo un silenzio particolarmente
lungo. Stavano attraversando la Sala del Consiglio, in cui imperava
un'onnipresente luce dovuta a un'immensa vetrata locata alle spalle
dello scranno, dove la Regina sedeva durante le sessioni.
«Certamente. Una notte mi sono anche intrufolato negli
alloggi delle guardie, immaginando di trovare chissà che
cosa. Alla fine mi hanno ritrovato su una torretta di guardia col naso
all'insù, mentre cercavo di individuare alcune costellazioni
che il mio precettore mi aveva mostrato. Ricordo ancora che spavento
tremendo ho fatto prendere a mia madre» rispose lui,
sorridendo.
Quando ebbero fame raggiunsero le cucine e consumarono lì un
pasto frugale; Freya intuì che Aran si recava spesso a
mangiare con le cuoche dal modo in cui si rivolgevano a lui,
rispettoso, certo, ma con una nota di familiarità che non
mancò di strapparle un sorriso. Poi, Aran le
mostrò i giardini alla luce del giorno; per quasi tutto il
pomeriggio vagarono nei viali lastricati, facendo a gara per
riconoscere piante e fiori che spandevano il loro fragrante profumo
nell'aria. Infine, quando il sole si stava già avviando
verso il lontano orizzonte, rientrarono.
Aran la condusse in una camera del corpo centrale, non lontana dalla
Sala del Trono: era rivestita esclusivamente di lunghi arazzi
multicolori, che parevano avere qualcosa di diverso da quelli
decorativi visti fino a quel momento. Erano davvero di tutte le forme e
fogge, ma a spiccare erano quelli più grandi ed elaborati,
appesi lungo tutta la parete di fronte alla porta: sette in tutto, fra
di essi quello centrale la faceva certamente da padrone; era grande il
doppio, se non di più, degli altri sei. Si trattava di uno
stendardo purpureo, bordato di nero, e recante uno stemma sapientemente
intrecciato, attorno a cui si snodava l'effige "Città di
Errania". Il simbolo in questione era composto da uno scettro nero
incrociato con una spada, a cui faceva da sfondo uno scudo dal bordo
dorato; attorno a quest'ultimo si avvolgeva un rampicante irto di spine
e foglie frastagliate, anch'esso nero, terminante in un fiore;
dall'interno di quest'ultimo fuoriuscivano saettanti lampi. Freya lo
riconobbe all'istante: come avrebbe potuto non farlo, dopo le tante
volte che lo aveva visto campeggiare sulle casacche dei soldati di
Mirea?
«Questi sono gli stendardi delle principali città
del Regno. Questo, invece, è quello della
capitale» spiegò Aran.
La giovane passò in rassegna tutti gli stendardi, uno a uno.
Gli unici due che potessero esserle in qualche modo familiari erano
quello dorato di Concivis e quello color grigio argento di Plametia,
posti in fondo alla lunga fila. Ancora una volta, la sua
curiosità di saperne qualcosa in più prese presto
il sopravvento, e Aran si ritrovò tempestato da una miriade
di domande. Con un gran sorriso in volto, il Principe non
esitò a spiegarle brevemente dove fosse situata ognuna delle
grandi città di Riagàn che lei ancora non aveva
visto, quali fossero le sue caratteristiche e il suo preciso ruolo nel
funzionamento del Regno.
«Quando ne avremo l'occasione te le indicherò
tutte su una cartina» promise il ragazzo, mentre i loro passi
li conducevano fuori anche da quell'ultima sala.
Nell'uscire, Aran fece per aggiungere qualcosa, con un tono che a Freya
parve quasi dispiaciuto: «Sembra che la nostra visita guidata
si sia conclusa. Hai visto tutte...» Improvvisamente,
però, si fermò a metà frase, un'idea
che sembrava andarsi a formare nella sua mente.
«Che succede?» gli domandò Freya,
cercando di capire a cosa stesse pensando.
«Mi stavo sbagliando, non ti ho mostrato tutte le sale. Ce
n'è ancora una che voglio che tu veda. Ti riguarda in prima
persona, io credo, ed è la mia preferita»
ribatté lui, trascinandola con sé verso il
corridoio e poi su per lunghe rampe di scale che li portarono
all'ultimo piano del palazzo, in una camera che pareva essere
esattamente sopra quella del trono.
Freya ebbe la netta sensazione che non avrebbero dovuto trovarsi
lì. Si voltò verso Aran per esprimere il proprio
dubbio e ne ebbe la conferma quando incontrò i suoi occhi.
«Mia madre ha interdetto questa sala moltissimo tempo fa,
perciò non avrei mai dovuto nemmeno metterci piede. Sono
riuscito a entrare in possesso di una copia della chiave per caso e,
nonostante il divieto, non posso più fare a meno di entrare
qui, di tanto in tanto» le spiegò, prima di aprire
la porta con cautela e permetterle di entrare in un salone ampio,
circolare.
La visione di quel luogo la lasciò senza fiato e
cancellò il timore delle conseguenze che quella visita
avrebbe potuto avere. Non furono le colonne di pietra che si
alternavano alle pareti e culminavano in elaborati capitelli a
sorprenderla, né il soffitto a cupola. Fu piuttosto
ciò che conteneva. All'esatto centro, un tavolo rotondo in
massiccio legno di ciliegio occupava un'enorme porzione di pavimento,
circondato da dodici sedie dagli alti schienali; nonostante questa
fosse una visione più che normale, meno lo era la fontanella
in marmo che spuntava dal pavimento per poi bucare il tavolo. Non
sgorgava acqua dalle conchiglie rette in mano dalle esili figure di due
fate dalle ali perfettamente scolpite, ma era comunque qualcosa di
estremamente inusuale.
Tuttavia, quando la sua vista spaziò sul resto, anche quella
fontana divenne all'insegna della normalità. Lungo le pareti
si allineavano teche di vetro, in cui erano racchiusi un sacco di
oggetti molto strani. Freya vide bacchette magiche intagliate e con
incastonate un'infinità di pietre, vasi multicolori di tutte
le fogge e dimensioni che sembravano pulsare a intervalli regolari,
boccette che racchiudevano liquidi cangianti di luce propria, bauli in
legno e madreperla e altri oggetti a cui non seppe dare un nome e che,
probabilmente, solo un Incantatore ben istruito avrebbe saputo come
utilizzare.
Poi, vide i ritratti che occhieggiavano al di là delle teche
e il cuore le si fermò. I volti dipinti sulle tele dovevano
essere quelli degli Incantatori che avevano servito Mirea; al contrario
dei re e delle regine della galleria, tutti immortalati, forse per
tradizione, all'interno della Sala del Trono, essi avevano alle spalle
gli fondi più diversi. Ne ignorò la maggior
parte, fino a soffermarsi sulla fila più in basso, l'ultima.
Quando ebbe individuato ciò che cercava si
precipitò a osservarlo. Sì, anche sua madre era
lì, e quando si ritrovò a guardare quegli occhi a
lei così familiari non poté che cercare di
ricacciare indietro le lacrime con tutte le sue forze, sorridendo
nonostante tutto.
Eleana era sola, seduta su una panchina in pietra del giardino, con un
passerotto posato sulle dita affusolate. Portava un vestito color
acquamarina dalle maniche ampie, i capelli sciolti ed era felice come
non l'aveva mai vista. Poteva percepirlo attraverso la sottile membrana
della tela, come se il pittore fosse riuscito a catturare le emozioni e
i sentimenti con i suoi colpi di pennello, fissandoli nei pigmenti.
In quel momento la colse la consapevolezza che quel giorno aveva visto
un'infinità di cose che sua madre aveva conosciuto prima di
lei, attraversato luoghi dove lei stessa aveva camminato. Le lacrime
che aveva trattenuto fino ad allora lasciarono i suoi occhi e le
caddero lungo le guance. I ricordi del passato, quelli che gelosamente
conservava nel più profondo del suo cuore, si stavano
lentamente fondendo con quelli che stava acquisendo, dandole una
più ampia consapevolezza della persona che era stata sua
madre.
Dietro di lei, Aran rimase in rispettoso silenzio finché lei
non si voltò. Il ragazzo parve trattenere il respiro, come
temendo la sua reazione, ma nel suo viso qualcosa cambiò
quando Freya sorrise nuovamente. Era un sorriso sincero e lo furono
anche le sue parole: «Grazie, Aran. Grazie. Non avrei mai
potuto sperare in così tanto.»
Per un attimo il giovane non seppe cosa rispondere, poi non
poté fare a meno di sorriderle di rimando: «Non
hai nulla di cui ringraziarmi, avevi il diritto di capire
ciò che ha visto e vissuto lei» le disse in tono
sommesso.
Quella seconda frase la lasciò basita. Era come se avesse
espresso ciò che lei aveva solamente pensato pochi istanti
prima.
Solo allora Aran fece un passo in avanti e osservò anche lui
il ritratto di Eleana, assorto. «Doveva essere davvero
l'Incantatrice più potente che Mirea abbia mai avuto,
così come una delle sue più preziose alleate. Ho
sempre saputo che per mia madre la magia è un argomento
delicato, ma solo ora mi rendo conto che deve essere stata una
conseguenza della vostra scomparsa» aggiunse, quasi tra
sé e sé.
«La Regina non ha mai più avuto altri Incantatori
a suo servizio?» domandò la ragazza.
Aran scosse il capo. «Fatta eccezione per Gorman, non
c'è più nessun Incantatore qui a corte.»
Freya non disse nulla, ma quelle parole aprirono una nuova serie di
interrogativi. Non conosceva la storia di come Mirea fosse salita al
trono, ma una delle cose di cui aveva sempre avuto la certezza era che
per arrivare dov'era avesse usato un potere immenso. Non si spiegava
altrimenti la sconcertante longevità del suo Regno,
così come quella di Mirea stessa. Che davvero tenesse a sua
madre e a lei al punto da bandire quasi completamente la magia dalla
propria corte, alla loro scomparsa? Conosceva troppo poco della Regina
e del suo carattere per avere la risposta.
Uscirono dalla sala in silenzio. Freya camminava con le mani giunte
dietro la schiena, mentre Aran cercava di cogliere squarci di paesaggio
oltre le vetrate delle finestre che gli scorrevano accanto. Era oramai
ora di cena, le ombre si allungavano quasi impercettibilmente lungo le
mura, i viali e la campagna circostante. Quando giunsero al corridoio
che si diramava fra la torre nord-ovest e quella nord-est, i due
ragazzi si separarono.
«Ti ringrazio ancora» disse a mo' di congedo Freya.
«Con tutto il cuore. Hai rischiato molto per mostrarmi quella
sala e non lo dimenticherò.»
Lui indirizzò lo sguardo, che fino a quell'istante aveva
tenuto ben saldo sul panorama all'esterno, in quello di lei e sorrise.
«Non ho rischiato nulla, non ti devi preoccupare, e non avrei
potuto trovare modo migliore per trascorrere la giornata. Sono io che
ringrazio te. L'unica cosa di cui mi rammarico è di non
poterti accompagnare, nei prossimi giorni; sarò impegnato
con i miei studi. Non appena avrò un attimo di
libertà, verrò a cercarti» le disse e
come la sera precedente, lei capì che quella era una
promessa e lui l'avrebbe mantenuta.
«Non temere, i tuoi studi sono sicuramente importanti e
l'ultima cosa che voglio è distoglierti dai tuoi doveri.
Troverò molte altre cose da fare.
Aspetterò» rispose la ragazza.
Rimasero immobili ancora per un istante, come a voler trattenere quel
giorno che oramai volgeva al termine. Poi, si rivolsero un cenno a
vicenda, si voltarono e ognuno si diresse verso le proprie stanze. Il
cuore di entrambi era pieno di una gioia che raramente avevano
assaporato.
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Capitolo 12 *** CAPITOLO 11 - Un singolare incontro ***
CAPITOLO
11
- UN SINGOLARE INCONTRO -
Freya chiuse l'immenso libro con un tonfo sordo.
Accarezzò la copertina intarsiata e in parte consunta delle
Saghe di Finian, lasciando scorrere sotto le dita ogni singola piccola
ruga della pelle da cui era stata ricavata. Era la seconda volta che lo
apriva con l'intento di leggerlo, ma quel giorno le era stranamente
impossibile concentrarsi sulle file di parole in inchiostro di seppia
che le correvano davanti agli occhi. Leggermente frustrata,
lasciò la comoda poltrona su cui si era accomodata per
andare a riporre il tomo sotto al letto, avvolgendolo nelle coperte in
cui lo aveva portato fin lì. Aveva badato bene a tenerlo
nascosto a occhi indiscreti, anche a Malia, nonostante si fosse
dimostrata molto affidabile e gentile con lei. Non era qualcosa da
divulgare a cuor leggero.
Tornata a sedersi accanto alla finestra guardò fuori,
cercando di pensare a qualcosa che potesse impegnare il resto della
giornata. Era un'ora dopo mezzogiorno e il sole brillava al suo apice
nel cielo. Quella splendida estate, che sembrava volersi trattenere
ancora un po', la faceva sentire in pace e al sicuro; aveva sempre
amato quella stagione in particolare, chissà, forse
perché vi era nata: il suo sedicesimo compleanno era caduto
non molti giorni prima, anche se l'aveva tenuto per sé.
Mentre il suo sguardo vagava sul verdeggiare esterno, Freya si rese
conto che era quasi un mese che si trovava al castello di Errania. La
vita, lì, era completamente diversa da quella che aveva
sempre conosciuto lei. Non che si fosse aspettata di trovare qualche
similitudine, naturalmente; all'inizio, però, aveva faticato
parecchio ad abituarsi all'idea che non avesse più senso
fare nulla di ciò che prima era importante.
Non c'erano frutti e radici da raccogliere e poi conservare in
previsione dell'inverno, nessun branco di cervi di cui seguire
pazientemente le tracce; niente più riparazioni da fare alla
casa sull'albero quando gli spifferi che passavano fra le assi di legno
si facevano gelidi. Tutto il cibo di cui avevano bisogno veniva
consegnato alle cucine una volta alla settimana e riposto con cura
nelle dispense e non si faceva nemmeno in tempo ad accorgersi che
qualcosa non andasse prima che venisse sistemato. Alla corte di Errania
aveva trascorso il tempo che prima impiegava nel garantirsi la
sopravvivenza passeggiando e allenandosi, senza doversi preoccupare
pressoché di nulla.
Era stata invitata qualche volta a cenare con la famiglia reale e le
conversazioni erano state piacevoli, nonostante si fosse fatto sempre
più chiaro che con il figlio maggiore di Mirea non sarebbe
mai riuscita ad andare d'accordo: Darragh era troppo arrogante e
desideroso di apparire superiore e Freya troppo poco disposta ad
accondiscendere alle sue manie di grandezza. Due caratteri simili non
potevano sopportarsi troppo a lungo ed, effettivamente, facevano di
tutto per vedersi il meno possibile.
Con Aran, invece, accadeva tutto il contrario. Dispiaceva molto a
entrambi non potersi incontrare anche solo per parlare qualche istante,
proprio come stava accadendo in quei giorni. Non vederlo le lasciava
una strana sensazione di vuoto a cui non era abituata. I suoi studi
erano complessi e impegnativi, Freya l'aveva compreso immediatamente;
nonostante questo, il giovane l'accompagnava ovunque lei volesse, non
appena ne aveva la possibilità. Avevano trascorso molto
tempo insieme e ora che si conoscevano meglio la ragazza aveva iniziato
a fidarsi di lui in una maniera che le era difficile ammettere.
Nei giorni di solitudine riusciva comunque a tenersi sempre occupata,
eppure non aveva mai potuto fare quello che avrebbe voluto veramente:
rivedere la Sala degli Incantatori. Non avrebbe mai messo Aran nei guai
per soddisfare la propria curiosità, ma avrebbe desiderato
moltissimo esplorarla e trovare cose nuove da studiare e cercare di
capire. L'affascinava l'idea che lì si riunissero i potenti
Incantatori di Mirea e forse avrebbe potuto trovarvi qualche
informazione sulla magia. A interessarle particolarmente erano i
formulari carichi dei simboli che essi utilizzavano per incanalare il
potere, i Runíar; era l'unica cosa che sapesse sulla magia,
sua madre non aveva avuto il tempo di spiegarle molto di più.
In ogni caso, aveva letto alcuni libri della sua piccola biblioteca
privata e ne aveva sfogliati molti altri, solo per scoprire che erano
tutte biografie o canti e poesie di personaggi illustri del Regno di
Riagàn. Erano scritti molto interessanti, doveva ammetterlo,
così com'era interessante immergersi in una cultura di cui
conosceva così poco, ma dopo un po' si era ritrovata a
desiderare di poter assaporare qualcosa di diverso.
L'unico luogo in cui avrebbe potuto farlo era la Biblioteca del
palazzo, ma quando aveva espresso ad Aran il desiderio di visitarla,
lui le aveva spiegato che al momento era inagibile: Mirea aveva
richiamato i più abili archivisti dell'intera
Riagàn per far controllare le condizioni dei preziosi volumi
lì contenuti e farli catalogare. Non si sapeva di preciso
quanto avrebbe richiesto quella delicata operazione, perciò
il ragazzo le aveva garantito che quando avessero terminato l'avrebbe
avvertita e avrebbero passato un'intera giornata fra gli scaffali
riordinati. Si domandò distrattamente quando quel momento
sarebbe arrivato.
Stava lentamente annegando nel mare dei propri pensieri, ma qualcuno la
fece risalire bruscamente a galla, bussando alla sua porta. Aveva
chiesto a Malia di non restare lì tutto il giorno,
rassicurandola sul fatto che non ce ne fosse affatto bisogno,
perciò si alzò nuovamente e andò ad
aprire la porta da sé. Non appena ebbe socchiuso l'uscio, si
ritrovò di fronte proprio colui su cui si erano soffermati i
suoi pensieri poco prima. Le sorrise nel momento stesso in cui la vide
e lei non esitò ad aprire completamente il battente per
permettergli di entrare.
«Sono felice di vedere che stai bene. Spero che tu non ti sia
annoiata in questi giorni» esordì il giovane
mentre varcava la soglia e si guardava attorno.
«Ho avuto modo di continuare a leggere i componimenti dei
vostri poeti e di approfondire la conoscenza della vostra
cultura» rispose la ragazza.
Il sorriso di Aran si allargò. «Allora devo anche
sperare che tutto questo leggere non ti abbia fatto passare la voglia
di vedere la Biblioteca, perché finalmente è
possibile accedervi» le annunciò.
L'espressione estasiata di Freya dovette essere una risposta
sufficente, perché pochi istanti dopo erano già
fuori dalla porta. Lui non sapeva che parte di quello stupore era
dovuto al fatto che sembrava che qualcuno le avesse letto nella mente e
avesse esaudito la sua richiesta.
La Biblioteca era situata nella torre nord. Nel giungervi, Freya la
ricordò come l'aveva vista avvicinandosi a Errania, il
giorno del suo arrivo: la sua guglia svettava appena dietro il corpo
principale, alta e maestosa, visibile perfino a distanza. La porta
d'accesso era elaborata, come tutte quelle che si aprivano su luoghi di
una certa importanza: nel suo legno scuro era intagliato il disegno di
un maestoso albero, impreziosito da piccole pietre scintillanti.
Prima di aprirla Aran si fermò, con l'evidente intenzione di
dirle qualcosa. «Se non hai nulla in contrario, oggi vorrei
presentarti una persona a cui tengo molto» la
informò, stranamente esistante.
Lei inclinò il capo, sondando il suo sguardo per cercare di
comprendere il perché di tanto mistero. Alla fine si
ritrovò persa nel color ardesia brillante dei suoi occhi e
si affrettò a rispondere: «Ne sarei molto
felice.»
Aran recuperò la sua solita sicurezza e spinse uno dei due
battenti, che si aprì emettendo un lieve cigolio. Quando il
suo sguardo s'imbatté nell'interno della sala e nel suo
contenuto, Freya non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire
un mormorio stupefatto. Una spirale di librerie cariche di volumi
giganteschi si perdeva verso la cima della torre, affiancata da una
larga scalinata intervallata da molteplici pianerottoli. Aguzzando la
vista Freya poté vedere schiere di scalette in legno
agganciate saldamente ad esse, unico mezzo per raggiungere i libri
custoditi negli scaffali più alti.
Al piano terra erano invece distribuiti tavoli in pietra e legno
affiancati da due panche ognuno, adibiti allo studio e alla lettura. Al
di sotto della scala a chiocciola, a livello del pavimento, c'era una
selva di ampie scaffalature a muro; avvicinandosi, notò che
contenevano pergamene vuote e pronte per essere vergate dalle penne
ordinatamente riposte lì accanto, insieme alle boccette
d'inchiostro colme di liquido scuro. Altre librerie erano sparse anche
tra i tavoli e formavano una specie di labirinto in cui sembrava facile
perdersi.
«Vieni» le mormorò Aran a un soffio
dall'orecchio, prendendola senza nemmeno rendersi conto per mano e
guidandola attraverso la selva di scaffali.
Freya prese a camminare dietro di lui con passo leggero, permettendogli
di condurla verso una meta ignota con sorprendente facilità.
Tutto l'ambente circostante era pervaso da un piacevole profumo di
carta pergamena e la ragazza già pregustava di immergersi in
qualche gigantesco libro, quando giunsero a un tavolo piuttosto
distante dagli altri. Era l'unico rotondo che si scorgesse nei dintorni.
Seduto a una panca, chino su una moltitudine di fogli scribacchiati ed
enciclopedie stracolme di mappe stellari che illustravano
un'infinità di costellazioni, c'era un uomo di mezza
età che indossava una tunica blu notte. Il suo viso era
coperto da una folta barba castana curiosamente intrecciata, in cui si
intravedeva già qualche traccia di grigio; per contro, i
suoi capelli erano corti e ricci, seppur dello stesso colore. Un paio
di occhialetti rotondi gli calavano di continuo sul naso,
costringendolo a tirarli su con l'indice. Sembrava essere piuttosto
alto e aveva un'aria gentile, nonostante in quel momento la sua fronte
fosse increspata da mille e profonde rughette di cui una,
più marcata, creava un solco fra le sue sopracciglia.
Aran avanzò piano, poi tentò di richiamarlo:
«Maestro Athal?» Non ottenne risposta.
Un sorriso divertito comparve sul suo volto e, con cautela, gli
posò una mano sulla spalla mentre ripeteva:
«Maestro?»
L'uomo sobbalzò e un paio di pergamene chiuse da laccetti di
cuoio caddero dalla scrivania, rotolando sul freddo pavimento. Si
voltò verso il ragazzo ed esclamò:
«Aran, per l'amor di Finian! Sai che non devi assolutamente
deconcentrarmi mentre studio le mie car...», ma la frase gli
morì in gola quando notò la presenza di Freya.
«Oh, ma questa giovane fanciulla...»
esordì, mentre si sistemava meglio gli occhiali che gli
pinzavano il naso e si sforzava per osservarla oltre le lenti,
«deve essere certamente la figlia di Eleana! Quale immensa
sorpresa!»
Strinse con vigore la mano che lei gli porgeva e Freya rimase stupita
che non usasse la solita inutile deferenza di tutti coloro che aveva
conosciuto da quando alloggiava al castello. Si ritrovò a
gioirne: era talmente bello per lei trovare un pò
spontaneità. Il maestro Athal prese le pergamene che Aran
aveva recuperato da terra e tornò a sedersi senza aspettare
la sua riposta. Probabilmente era certo di avere indovinato.
«Il maestro è il mio precettore. Mi ha insegnato
tutto ciò che so e questa settimana mi ha svegliato ogni
notte per osservare le stelle. A suo parere si potevano scorgere meglio
le più importanti costellazioni del nostro cielo»
le spiegò Aran, con un affetto sincero nella voce.
Senza staccare il naso dai suoi rotoli, Athal rispose: «Non a
mio parere, ragazzo. Calendari stellari centauri antichi di secoli lo
riportano e quelli, lasciate che ve lo dica, sono assolutamente
infallibili!»
Freya rabbrividì. Centauri? Non aveva mai sentito nessuno
parlare dei popoli di Finian in modo tanto aperto, a parte il
misterioso scrittore delle Saghe.
Aran si affrettò a spiegare: «Non ho idea di dove
abbia appreso quei calendari o tutte le altre cose che sa sugli antichi
popoli. Lui è fatto così, ne parla in maniera
assolutamente normale, a meno che non si trovi in presenza di qualche
nobile. O di mia madre e mio fratello. Solo a me è riservato
l'onore.»
L'uomo alzò lo sguardo su Aran e i suoi occhi, che solo
allora la ragazza vide di un curioso blu elettrico, scintillarono.
«Non parlare a questa ragazza dei miei discorsi come
parleresti degli sproloqui di un pazzo vagheggiante. Inoltre, non hai
alcun motivo di nominare con timore i popoli, in sua presenza. Sono
sicuro che Freya ne sappia abbastanza, forse più di
te» lo ammonì. Detto questo, Athal
tornò come se nulla fosse ai suoi studi, mettendo
chiaramente fine alla conversazione.
La prontezza della riposta prese Freya alla sprovvista, strappandole un
sorriso. Più tempo passava più si rendeva conto
che quell'uomo le piaceva molto. A quella frase del suo precettore
Aran, invece, ammutolì e si limitò a rivolgere
uno sguardo alla giovane, che non pareva però affatto
disturbata dalla sua esternazione.
«Arrivederci, maestro Athal. Conoscervi è stato un
piacere. Spero che avremo altre occasioni d'incontro» disse
la ragazza nel congedarsi, ottenendo in risposta solo un gesto con la
mano accompagnato, però, da un sorriso ben visibile anche
sotto la folta barba.
Precedendo Aran, Freya continuò verso l'imbocco della scala
che portava ai libri.
Il ragazzo la seguì e parlò, quasi come se
sentisse di doversi giustificare: «So che può
sembrare strano, ma io sono sinceramente affezionato al maestro.
È davvero la persona più giusta, saggia e acuta
che io conosca.»
Freya gli rivolse un sorriso. «Non mi sembra affatto
strano.»
Aver imparato a conoscere quel ragazzo che le camminava accanto, in
quel mese in cui aveva sempre trovato un attimo per stare con lei e
scambiarsi anche i dettagli più insignificanti delle loro
vite, le aveva insegnato che Aran era davvero ciò che
mostrava; era davvero ciò che faceva e ciò che
diceva, ciò che sentiva. Almeno quando era con lei. Che
fosse affezionato sinceramente a quell'uomo, lo aveva dimostrato anche
solo nel modo cui gli parlava o ne parlava. La sua risposta parve
lasciarlo comunque sorpreso, a giudicare dalle iridi grigie sgranate
sul suo viso.
«Trovi davvero normale qualcosa che gli altri ritengono tanto
sconveniente?» le domandò, serio.
Freya si fermò, guardandolo confusa.
«Sconveniente?»
Aran sorrise amaro. «Mia madre non vorrebbe che io dessi
tanta confidenza al maestro. In fondo, per lei si tratta solo di un
insegnante che ha il dovere di prepararmi alla mia vita futura,
nient'altro.»
«Oh. Io avrei trovato molto più strano se non ti
fossi affezionato a una persona che ti è sempre affianco nel
percorso per diventare un buon Principe, piuttosto che il
contrario» commentò lei, riprendendo a camminare
tranquillamente.
La ragazza iniziò a vagliare con cura i libri riposti sugli
scaffali, decisa a trovare la sezione dedicata alla geografia. Era
curiosa di vedere come gli abitanti di Riagàn
rappresentassero Finian, soprattutto per cercare di capire se il
misterioso autore delle Saghe fosse un'essere umano.
«Se stai cercando qualcosa in particolare sarò ben
lieto di aiutarti» le disse Aran, dopo averla lasciata vagare
per un po' senza interrompere il flusso dei suoi pensieri.
Freya si voltò verso di lui. «Vorrei dare
un'occhiata alle vostre cartine e vedere come rappresentate
Finian» spiegò, ma il suo sorriso si spense quando
vide l'espressione di Aran cambiare.
«Non troverai un solo libro che riguardi la geografia
dell'intera Finian, in questa Biblioteca» rispose, adombrato,
come se Freya avesse riportato in superficie un suo vecchio dilemma.
«Mia madre, a quanto pare, non vuole aver nulla a che fare
con quelle carte e non ha la minima intenzione di far sì che
i suoi eredi le vedano. Non ho idea di cosa sia successo per farle
prendere una decisione simile.»
Freya non riusciva a comprendere. «Come fate tu e Darragh a
studiare le terre di Finian se non avete nemmeno una cartina su cui
orientarvi?» domandò, confusa.
«Studiamo solo la cartografia di Riagàn e dei
territori che abbiamo conquistato, per sapere fin dove gli umani si
siano spinti, nient'altro» disse lui.
La giovane avvertì traccia di frustrazione nella voce di
Aran. «Hai già provato a cercare quelle mappe, non
è vero?» chiese ancora e lo sguardo del ragazzo fu
una risposta sufficiente. Lui non era tipo da accontentarsi di quello
che gli veniva concesso di sapere, la sua intrusione nella Sala degli
Incantatori ne era la prova.
Freya decise di non insistere, per non rischiare di sfiorare corde che
non avrebbe dovuto toccare. Iniziò però a
chiedersi per quale ragione la Regina avrebbe dovuto far sparire tutte
le mappe del loro mondo, accarezzando distrattamente il dorso di un
libro. Non le aveva forse detto che il suo era un progetto di unione?
Allora come poteva aver bandito l'intera Finian dalla sua corte?
Quegli interrogativi le balenavano nella mente come tante lucciole
nella notte. In quel periodo di permanenza aveva visto una corte
pacifica, un luogo che lei non si sarebbe mai e poi mai aspettata. Ma
se fosse stata tutta un illusione? Se là fuori, un po' oltre
il suo sguardo, in quei luoghi che nelle menti di Riagàn
erano solo una distesa vuota, ci fosse stato ben altro? Magari gente
che soffriva, forse persone a cui quel progetto di unione stava negando
la libertà. Allontanò la mano dal libro con uno
scatto e voltò lo sguardo verso Aran, che la stava
osservando incuriosito. Persino la sua posa si era irrigidita, mentre
quelle riflessioni le scorrevano nella mente.
«C'è qualcosa che non va?» le
domandò, preoccupato.
Lei scosse la testa e cercò di apparire sicura.
«No, nulla.»
Non voleva che il ragazzo scorgesse anche solo uno di quei tanti
pensieri. La Regina era sua madre e ciò su cui Freya stava
rimuginando in quel momento imputava alla monarca un bel po' di colpe.
Passeggiarono ancora per un po' nella Biblioteca e finalmente Freya
riuscì a trovare qualche volume che la incuriosisse e che la
tenesse occupata. Mentre i due ragazzi sedevano su una panchina situata
ai livelli più alti della torre, la giovane ebbe la netta
sensazione di essere tenuta d'occhio. La testa iniziò presto
a pulsarle dolorosamente, tanto che per un istante ogni pensiero le fu
negato. Quando ebbe la forza di riaprire gli occhi, che aveva
istintivamente chiuso, vide una smorfia anche sul viso di Aran, il
quale sembrava preso dalla stessa sensazione sgradevole; lentamente, i
suoi sensi si riattivarono e Freya volse lo sguardo verso un punto in
ombra della Biblioteca, alle sue spalle.
«Lady Freya», ne emerse la voce secca di Gorman
dopo solo qualche attimo. Lo sgradevole uomo ignorò le
smorfie sul volto dei due giovani e si rivolse a lei soltanto:
«La Regina Mirea vi manda a chiamare. Desidera parlare con
voi immediatamente.»
Freya si irrigidì, un malessere strisciante che pian piano
s'impossessava di lei. Con esso, arrivò l'assurda paura che
Mirea fosse in grado di penetrarle nella mente e avesse potuto carpire
tutto ciò che aveva pensato un attimo prima. Si riscosse
rapidamente, dandosi della sciocca.; nessuno aveva quel potere.
Con calma, si alzò dalla panca e rispose cortesemente:
«Certamente. Concedetemi solo il tempo di indossare abiti
più consoni e mi recherò alla Sala del
Trono.»
Gorman parve sorpreso e Freya dovette trattenere un sorriso divertito.
Le lezioni di galateo che Malia era stata incaricata di impartirle
erano servite.
«Farò in modo che vi vengano mandate delle
guardie, milady» disse allora l'Incantatore, con un
disgustoso sorrisetto.
«Non sarà necessario. Posso tranquillamente
accompagnarla io» ribatté Aran.
«Come desiderate» fu la riposta del consigliere,
affiancata da un lieve inchino, e infine sparì da dove era
arrivato. Non appena si fu allontanato, i due si rilassarono
visibilmente.
«Anche a te non piace molto quell'uomo, vero?»
domandò Freya ad Aran, che sembrava resistere all'impulso di
scrollarsi di dosso qualcosa.
«Quand'ero piccolo ne avevo addirittura paura; mi dava i
brividi. Adesso che sono cresciuto semplicemente non riesco a
soffrirlo» ripose lui con un sorriso tirato.
Raggiunsero le stanze di Freya il più velocemente possibile.
Aran le promise che quando sarebbe stata pronta l'avrebbe trovato
lì fuori ad aspettarla, poi la lasciò alla sua
preparazione. Non appena la ragazza entrò, trovò
Malia che l'attendeva impaziente.
«Mia Signora», s'inchinò quest'ultima,
«vi ho già preparato la tinozza dell'acqua
calda.»
Freya entrò nella stanzetta da bagno, si lavò con
cura e poi, dopo essersi asciugata e aver indossato la sottoveste,
lasciò che Malia le intrecciasse i capelli. Ultimamente
aveva sempre fatto tutto da sola, dato che non aveva più
avuto incontri ufficiali, ma la donna sembrava sempre divertirsi molto
a prepararla; dal canto suo, la ragazza si agitava ancora sullo
sgabello come se fosse seduta su un cuscino di spine, non del tutto a
proprio agio. Mentre l'ancella le raccoglieva la parte superiore
capelli in una treccia, a Freya venne in mente che forse lei avrebbe
potuto darle alcune delle risposte che cercava.
«Malia, so che forse non potrai rispondere, ma vorrei sapere
da qualcuno che vive qui da sempre se davvero ciò che ho
visto in queste settimane è reale» le disse,
sicura di potersi fidare di lei.
La donna smise di intrecciarle per un attimo le ciocche.
«Cosa intendete, milady?» le domandò.
Freya pensò per un istante a come formare un discorso
sensato con la marea che le turbinava in testa. Poi, parlò:
«Vorrei sapere se davvero qui regna sempre la pace. Se
davvero la gente non soffre ed è ben trattata dai reali, se
non sono mai successe cose che violassero i diritti che ognuno dovrebbe
avere.»
Malia rimase per un istante in silenzio, iniziando a fermarle la
treccia sulla nuca in modo che le cingesse il capo, prima di
rispondere. «Non esiste luogo al mondo in cui l'ingiustizia
non sia in grado di arrivare, mia cara. Riagàn non fa alcuna
eccezione.» Nonostante stesse parlando le sue mani
continuarono a lavorare sulla chioma della ragazza.
«Eppure qui tutto sembra così sereno,
così... perfetto» moromorò la ragazza,
ma quell'ultima parola risuonò irreale perfino a lei.
Attraverso lo specchio vide un sorriso amaro indurire i lineamenti
della donna. «È difficile accorgersi delle
iniquità in posti come questo, dove regnano la ricchezza e
il privilegio» rispose.
Quelle parole colpirono Freya al punto che non domandò
più nulla. Si guardò attorno e si chiese se quel
mondo dorato, pian piano, non la stesse abbagliando, impedendole di
vedere come realmente stessero le cose. Non voleva trarre conclusioni
affrettate, ma doveva stare più attenta, si disse. Da quel
momento in avanti avrebbe tenuto occhi e orecchie ben aperti e avrebbe
cercato di guardare sempre al di là delle apparenze.
«Grazie, Malia» disse e lei la guardò
attraverso la superficie riflettente che stava loro davanti,
domandandosi forse per cosa la stesse ringraziando. L'ancella non aveva
idea di quanto quelle sue semplici risposte fossero servite a riportare
Freya alla realtà.
Il resto del tempo trascorse nel silenzio. Malia finì di
sistemarle la lunga treccia che aveva creato con la parte inferiore dei
capelli, trattenuta da un anellino di metallo, e poi l'aiutò
ad abbigliarsi. La donna controllò minuziosamente che ogni
lembo di stoffa cadesse a dovere, poi le posò le mani sulle
spalle e le strinse in un gesto affettuoso, guardandola negli occhi.
«Spero che andrà tutto bene per voi,
milady» le disse.
La premura dell'ancella nei suoi confronti le riscaldò il
cuore. «Ti ringrazio, davvero. Ti chiedo però di
chiamarmi semplicemente Freya; non servono tutti questi
titoli» ribatté la giovane con un sorriso. Prima
che Malia potesse protestare, era già fuori dalla porta.
Esattamente come le aveva promesso Aran era lì, intento a
guardar fuori da una delle vetrate. Mentre camminavano verso la Sala
del Trono il ragazzo la osservava di sottecchi, quasi cercasse di
capire cosa le passasse per la mente. Nonostante la testa della ragazza
fosse ancora affollata dai mille dubbi che si erano sollevati nel corso
di quella giornata, non poté fare a meno di sorridergli,
tentando di rassicurarlo. Nel vedere che la giovane si era accorta
delle sue occhiate, un colorito acceso imporporò le guance
di Aran, che si affrettò a distogliere lo sguardo. Il
sorriso di Freya si allargò. Quando le guardie di Mirea
aprirono i battenti della grande porta, gli occhi dei due ragazzi
s'incontrarono un'ultima volta, prima che Freya entrasse.
Avanzò verso il trono, come aveva fatto un mese prima, ma
l'ansia questa volta non arrivò a morderle lo stomaco.
La Regina la osservò impassibile mentre le rivolgeva la
consueta riverenza, poi la salutò con un breve sorriso,
dicendo: «Noto con piacere che la permanenza alla mia corte
ti ha giovato, Freya.»
«Questo palazzo è un luogo davvero meraviglioso e
ricco di bellezze, Regina Mirea» rispose la ragazza, oramai
più tranquilla nel parlare di quanto non lo fosse prima.
«Ti starai certamente chiedendo come mai io ti abbia mandata
a chiamare» proseguì la donna, ritornando alla sua
consueta espressione. «Ritengo che sia giunto il momento di
celebrare il tuo arrivo qui e che tu conosca le personalità
più influenti del Regno di Riagàn. Per questo ho
deciso di indire un ballo, che si terrà fra tre settimane
esatte. È l'occasione giusta perché tu venga
ufficialmente presentata alla corte di Errania.»
Freya si bloccò per un istante, mentre l'immagine di un
salone pieno di gente che voleva fare la sua conoscenza e parlare con
lei si andò a formare nella sua mente; con essa, venne il
disagio.
«Come desiderate» rispose nonostante tutto,
ricordandosi che per quanto il suo intero essere rifuggisse a
quell'idea non poteva certo dare un no come risposta.
Ci fu un attimo di silenzio in cui la sovrana guardò
attentamente Freya, prima di parlare nuovamente. «Penso,
inoltre, che tu sia pronta per essere condotta alla tomba di tuo padre.
Sono a conoscenza del fatto che sia un tuo grande desiderio rendere
omaggio alla sua memoria. Domattina all'alba manderò
qualcuno ad accompagnarti; a quell'ora nessuno disturberà la
tua visita.»
La ragazza s'irrigidì, preda di emozioni contrastanti. Era
davvero ciò che desiderava, ma non si aspettava
più che la richiesta fatta oramai settimane prima venisse
esaudita.
«Vi ringrazio, Maestà» rispose ancora
una volta con cortesia.
La Regina si limitò a rivolgerle un cenno del capo. Poi,
semplicemente, la congedò: «Purtroppo non posso
trattenermi a lungo con te, Freya, e non avremo molte occasioni di
incontrarci, nei prossimi giorni. Ma ti posso promettere che presto ci
rivedremo.»
Raddrizzando le spalle, la giovane uscì dalla Sala del Trono
e senza quasi accorgersene si ritrovò di nuovo nell'ampio
corridoio. Trasse un respiro profondo. Aran la guardò senza
proferire parola e lei non lo biasimò; era consapevole di
avere un aria smarrita, in quel momento.
«Mi porteranno alla tomba di mio padre»
mormorò, più a se stessa che al ragazzo. L'idea
del ballo pareva qualcosa d'insignificante se paragonata a quello. Ora
che era arrivato il momento, si rese conto, non sapeva come sentirsi al
riguardo.
Per un istante Aran parve immobilizzarsi, indeciso su cosa fare, poi le
si avvicinò e le afferrò la mano destra,
stringendola in una presa salda. «Verrò con te, se
lo desideri» la rassicurò.
Freya si limitò ad annuire e abbandonando l'orgoglio
lasciò che le proprie dita s'intrecciassero a quelle di lui,
che continuò a tenere la sua mano nella propria per lunghi
attimi. Il calore di quella stretta divenne l'unica cosa chiara, il
solo porto sicuro nella tempesta che era tornata ad agitarla.
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Capitolo 13 *** CAPITOLO 12 -Omaggio a un guerriero ***
CAPITOLO 12
- OMAGGIO A UN GUERRIERO -
Le
sfumature del cielo li accolsero, mentre cavalcavano attraverso le
strade deserte che si diramavano attorno al castello. Il sole non era
ancora sorto e all'orizzonte si palesava solo come una sottile fascia
tremolante di un brillante arancione, in contrasto con il blu
inchiostro del resto della volta.
Freya sapeva solo che si stavano dirigendo verso il cimitero
monumentale della città, nel quale riposavano gli antenati
delle casate nobiliari, ma non dove si trovasse; si lasciava quindi
guidare dal comandante Craius, che avanzava sicuro nelle prime ore
dell'alba. Aran le cavalcava affianco in assoluto silenzio.
La ragazza avrebbe voluto parlargli, avrebbe voluto esprimergli la
propria gratitudine per la sua presenza, ma non riusciva a sentire
null'altro che non fosse il proprio tumulto interiore. Era come se per
lei il tempo si fosse arrestato tutto di un colpo, come se tutto
continuasse a scorrere senza di lei, immobilizzata dalle sue stesse
emozioni.
Videro le lapidi e le tombe monumentali ancor prima di raggiungere il
luogo di sepoltura. Quando vi giunsero, il comandante disse loro di
smontare da cavallo. Solo quando ebbe posato i piedi a terra i sensi di
Freya tornarono a metterla in contatto con il mondo: avvertì
lo scricchiolio dell'erba brillante di brina sotto la suola dei suoi
stivali, l'aria fredda e pungente che passava attraverso la spessa
maglia del suo mantello e sentì la voce del capitano che
diceva: «Da quella parte, Lady Freya.»
La giovane seguì con lo sguardo la direzione che la mano di
Craius le stava indicando e scorse una lapide alta quanto lei, quasi
nascosta in una radura solitaria. Abbassò il cappuccio e la
furia del vento le inflisse gelide stilettate sulle guance. Con una
solennità mai provata prima, iniziò a camminare.
Passo dopo passo, raggiunse ciò che restava di quella
persona tanto amata, anche se mai conosciuta.
In quella terra non c'era null'altro che le sue spoglie, Freya ne era
perfettamente consapevole. Il suo vero desiderio, quello che Harden
potesse guardarla negli occhi e riconoscerla come sua figlia, non si
sarebbe mai potuto realizzare. Tutto ciò che aveva era
quella lapide, perciò fu alla pietra che si rivolse. La
guardò, le lacrime che iniziavano a colarle lungo le guance.
Il nome di suo padre era inciso a caratteri forti, senza troppi
fronzoli, adatti a quella che era la tomba di un guerriero.
Freya s'inginocchiò sulla fredda terra di fronte alla tomba
e mise il palmo della mano destra sulla lapide. «Ti chiedo
scusa se ci ho messo così tanto, papà»
mormorò, schiarendosi la vista asciugando le lacrime con il
dorso della mano.
Rimase in quella posizione per qualche attimo, anche dopo che ebbe
ritratto la mano. Pensò a tutte le cose che avrebbe voluto
dire a suo padre se fosse stato accanto a lei e alle tante domande che
avrebbe voluto porgli. Distrattamente, prese a disegnare piccoli cerchi
concentrici nel terriccio con la punta dell'indice; dapprima, il gelo
che pervadeva la terra del primo mattino oppose resistenza al calore
delle sue mani, poi si smosse.
Fu un istante. Qualche piccola scintilla smeraldina balenò
sotto il suo indice e dove prima c'era brulla polvere nacque qualcosa.
Un germoglio spuntò tra le spirali tracciate da Freya e
crebbe nel giro di pochi secondi come avrebbe dovuto fare in settimane;
presto, un giglio azzurro allargò i petali nei primi raggi
del sole.
La ragazza sgranò gli occhi e trattenne a stento un grido di
sorpresa, che riuscì a ricacciare in gola per miracolo.
Cercò di controllare con discrezione che nessuno dei
presenti se ne fosse accorto, ma fortunatamente era troppo lontana
perché avessero potuto vedere qualcosa. Un brivido le
percorse le membra quando consapevolizzò che quello non era
nient'altro che il potere che aveva tentato in tutti i modi di
soffocare: per qualche ragione, stava cercando di riemergere.
"Perché proprio ora?" si chiese, le mani che tremavano. Non
lo sapeva, ma di una cosa era certa: non doveva riverlarlo ad anima
viva. Osservò il fiore e, in qualche modo, mise da parte
l'angoscia. Non era il momento né il luogo per porsi simili
quesiti.
Alzò nuovamente lo sguardo sulla lapide, colse il giglio e
ve lo posò davanti. Bastò quel semplice gesto
perché nuove lacrime le si formassero agli angoli degli
occhi. Quando si rialzò, le sue spalle furono
inevitabilmente scosse da un singhiozzo, che la fece tremare fin nel
profondo. Fu allora che due mani gentili la presero per le spalle, la
fecero voltare e la strinsero con forza e dolcezza.
Fino a quel momento, Aran si era tenuto in disparte, dimostrando come
sempre un grande rispetto e una rara sensibilità.
Arrivò al momento giusto, nel preciso istante in cui lei
aveva bisogno di lui. Quando le sue braccia l'avvolsero, Freya non
riuscì più a mantenere la sua solita forza
d'animo e si abbandonò contro di lui, seppellendo il viso
nella sua spalla. Era la prima volta che si ritrovavano tanto vicini,
ma nessuno dei due conobbe imbarazzo.
La giovane avvertì con sconcertante chiarezza che quello era
l'unico abbraccio che avrebbe potuto impedirle di smarrirsi nel dolore.
Entrambi erano consapevoli dello sguardo del comandante Craius, fermo
alle loro spalle, ma rimasero comunque in quel modo a lungo.
«Quel giglio è meraviglioso» disse Aran
dopo qualche istante, scostandosi leggermente da lei per asciugarle con
delicatezza le lacrime che ancora le rigavano il viso. Probabilmente
non capiva da dove lei potesse averlo fatto saltar fuori, ma non fece
alcuna domanda.
«Mi sembrava l'omaggio più delicato e appropriato
che si potesse donare a un padre e a un guerriero» rispose
Freya, il respiro che pian piano andava regolarizzandosi.
Aran annuì, guardando la tomba illuminarsi con l'avanzare
del sole. Fu solo quando la luce dorata dell'astro raggiunse anche loro
che tornarono ai cavalli.
Freya osservò un'ultima volta il sepolcro di suo padre dal
dorso di Stellato, prima di voltarsi e prendere la via del ritorno. Ci
sarebbe tornata. Non sapeva quando, ma l'avrebbe fatto.
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Capitolo 14 *** CAPITOLO 13 - Lezioni di ballo ***
CAPITOLO 13
- LEZIONI DI
BALLO -
Quella
notte, dopo molto tempo, lo Spirito Guida tornò a farle
visita. Era da prima del suo arrivo a Errania che non sentiva
più la sua voce invaderle i sogni; in qualche modo, fu
rassicurante sapere che almeno quella piccola parte della sua vecchia
vita non l'aveva abbandonata.
Nel buio vellutato da cui emergeva la voce incorporea dello Spirito
Guida, Freya ripeté la stessa domanda che si era fatta
ancora mille altre volte da quando quel fiore era spuntato tra le sue
dita: "Perché proprio ora?"
Sta per giungere il
momento, rispose lui, enigmatico.
"Quale momento?" chiese ancora Freya, sempre più confusa,
mentre il sogno iniziava a scivolare via.
Quello in cui dovrai
scegliere, concluse la voce, appena prima che gli occhi
della ragazza si spalancassero sulla nuova giornata che stava per
iniziare.
Era stata un'altra voce a strapparla al sonno: sommessa, dal timbro
femminile. Le ci volle qualche istante per capire che si trattava di
Malia che, nel mentre, la scrollava con delicatezza. «Lady
Freya...vi prego, svegliatevi» le sussurrava la donna con
evidente impazienza.
«Te l'ho già detto Malia» rispose la
ragazza con la voce ancora impastata dal sonno, seppur fosse stato
scarso. «Basta che mi chiami Freya, non serve tutto il
resto.»
Avvertì un sospiro e l'ancella alzò gli occhi al
cielo. «Oh, e va bene... Freya. Ma ora è
importante che ti svegli» acconsentì alla fine,
seppur con una certa riluttanza.
Lentamente Freya si tirò su, la schiena terribilmente
indolenzita a causa della posizione fetale in cui era stata
raggomitolata per tutta la notte. Non era da lei faticare tanto ad
alzarsi, ma la sera prima il sonno aveva tardato parecchio ad arrivare.
I pensieri, che già per tutta la giornata l'avevano
perseguitata, avevano continuato a vorticarle in testa anche con il
calare della notte: quello che aveva provato vedendo il luogo dov'erano
custodite le spoglie di suo padre, la paura di ciò che
attraverso il solo contatto con la terra era riuscita a produrre. Poi,
quando finalmente si era addormentata, le parole misteriose dello
Spirito Guida. Le ricordava chiaramente, eppure non riusciva a
interpretarle.
In ogni caso, non ebbe molto tempo per rimuginarci. Malia sembrava
ansiosa di portarla da qualche parte, tanto che le aveva addirittura
già preparato gli abiti. La giovane ebbe a malapena il tempo
di rinfrescarsi nella stanzetta da bagno e vestirsi, prima che
l'ancella la trascinasse lungo corridoi e scalinate fino all'ala ovest.
«Dove dobbiamo andare tanto di fretta a quest'ora del
mattino?» domandò Freya a un certo momento,
arrancando dietro al passo svelto della donna.
«Vedrai, mia cara» le rispose Malia.
Pochi istanti dopo, si fermarono di fronte a una piccola porta in legno
scuro, incassata nella parete di pietra; senza esitazioni, l'ancella
l'aprì e le fece cenno di andare avanti. Quando ebbe varcato
la soglia, Freya si ritrovò di fronte a una stanza
largamente illuminata da una vetrata che dava sui giardini interni del
palazzo. Tutto intorno, lungo le pareti, correvano scaffali forniti di
stoffe di tutti i tipi, a prima vista estremamente pregiate; davanti a
loro, esattamente al centro della stanza, una donna bassa e in carne
stava esaminando quello che sembrava uno di quei manichini che usavano
i soldati per allenarsi. Era ricoperto di drappi di almeno dieci colori
e materiali differenti.
Malia si fece notare con un lieve colpo di tosse. «Madama
Cloelia?» chiamò a mezza voce, quasi temesse di
deconcentrarla.
La donna si voltò verso di lei e allora Freya la vide in
volto: aveva guance rosee, occhi di un penetrante color ambra e portava
i capelli grigi e ricci piuttosto corti, raccolti in un fazzoletto
ricamato. Aveva una veste lunga e rossa, fermata in vita da una cintura
carica di strumenti da sarta.
«Hm, la figlia di Eleana» affermò,
sicura, con espressione corrucciata.
Freya sorrise, oramai abituata a essere identificata in quel modo.
Senza attendere risposta, la donna si mosse in direzione della ragazza
e in silenzio le alzò prima un braccio, poi l'altro e infine
la fece girare su se stessa. Estrasse una fettuccia di cuoio graduata,
con la quale le misurò il punto vita, il torace, la
circonferenza delle spalle e del collo. Poi, senza un minimo di
ritegno, le alzò la gonna e le misurò il
polpaccio. La giovane si ritrovò in balia di quell'energica
donnetta, senza poter protestare né fare nulla. Nell'angolo,
Malia tratteneva le risa, cercando di restare seria e composta.
Solo dopo un lungo attimo di riflessione Madama Cloelia si
voltò verso il manichino e finalmente parlò.
«Nulla! Nessuna di queste stoffe è adeguata a
creare un abito per te. Il colore, il tessuto... Tutto il lavoro di una
notte in fumo!» esclamò, al colmo della
frustrazione.
Prese tutti gli scampoli in una sola bracciata e li buttò
alla rinfusa su uno scaffale; dopodiché, si voltò
nuovamente verso Freya e la studiò con aria corrucciata.
Malia se ne stava in perfetto silenzio; evidentemente conosceva da
lungo tempo la donna e sapeva che non andava interrotta mentre
lavorava. L'aveva capito persino Freya, in quel breve lasso di tempo:
pareva che anche il più lieve rumore proveniente
dall'esterno la irritasse, facendole comparire in volto
quell'espressione perennemente accigliata con cui l'aveva accolta.
Poi, d'un tratto, un lampo di genio illuminò il viso di
Madama Cloelia. In breve la donna scomparve in una piccola stanza
adiacente, che in un primo momento Freya nemmeno aveva notato. Si
sentì un tramestio diffuso, ante aprirsi e subito dopo
richiudersi, finché non si udì un'esclamazione
trionfante. La sarta ritornò con un voluminoso involto tra
le braccia. Lo posò delicatamente sul suo tavolo da lavoro,
quasi fosse un neonato in fasce, e piano prese a svolgerne i lembi.
Fece poi cenno alla giovane di avvicinarsi.
Dalla tela grezza apparve uno splendido abito di quello che sembrava
raso morbidissimo, color blu fiordaliso. Il corpetto era semplice,
attraversato solo da uno scollo ovale ricamato finemente. Il dettaglio
più spettacolare erano certamente le maniche, intessute in
un materiale quasi impalpabile: strette all'avambraccio, a partire dal
gomito si allargavano morbidamente, arrivando a toccare la lunghezza
della gonna. Tutta la superficie del vestito era ornata da una cascata
di pietre sparse, cucite a mano su ricami leggerissimi, tanto piccole
da risultare quasi invisibili. Nonostante Freya non avesse mai amato
particolarmente l'abbigliamento femminile, non potè fare a
meno di restare a bocca aperta.
L'espressione di Madama Cloelia si addolcì.
«Questo è l'ultimo abito che ho potuto cucire per
tua madre» le spiegò delicatamente, mentre la
giovane si voltava a guardarla, ancor più stupita.
La giovane sfiorò la stoffa: era leggerissima.
«È stato in occasione di un rinnovamento dei voti
nuziali suoi e di tuo padre» continuò la sarta.
«Avete le stesse misure. Che aspetti, provalo.»
In men che non si dica Freya si ritrovò a indossare quel
capolavoro di sartoria, che tra l'altro le calzava come un guanto. Si
osservò nel grande specchio che trovò alla
propria sinistra e quasi non si riconobbe in quella giovane donna che
la fissava, sorpresa. Madama Cloelia e Malia sorridevano, estasiate. La
sarta le si avvicinò solo per allacciarle una cintura di
cuoio borchiata di giada e turchesi in vita, poi tornò a
fare un passo indietro e a osservarla con attenzione.
«Ecco, questo tessuto e questo colore sono perfetti per la
tua figura e il tuo incarnato. Al ballo sarai splendida»
commentò infine. «A meno che tu non voglia un
abito nuovo di zecca, naturalmente.»
Freya si affrettò a scuotere il capo. «Oh no, vi
prego. È perfetto. Mi darà sicurezza avere
addosso un abito appartenuto a lei» ribatté con un
sorriso.
Un sospiro lasciò le labbra di Cloelia.
«Appartenuto, ma mai indossato» mormorò.
Allo sguardo interrogativo della giovane, la donna rispose in tono
malinconico: «Il rinnovo dei voti non ebbe mai luogo. Questa
sarà la prima volta che la mia creazione vedrà la
luce.»
Non servì che qualcuno specificasse cosa fosse successo: la
tragica notte che aveva distrutto la sua famiglia era arrivata prima
che i suoi genitori potessero giurarsi nuovamente amore eterno.
Lottando contro l'improvvisa tristezza, Freya sorrise di nuovo e disse:
«Un'altra buona ragione perché io porti
quest'abito.»
Madama Cloelia la guardò intensamente, come se in lei ci
fosse qualcosa che non riusciva a capire.
Infine, però, annuì con decisione. «E
sia, dunque» concluse.
Mentre le facevano sfilare il prezioso vestito, a Freya sorse spontanea
una domanda. «Madama Cloelia... voi... voi avete cucito anche
l'abito da sposa di mia madre?»
La donna rivolse su di lei i suoi occhi penetranti, poi
annuì. «Quella è forse la mia
più bella creazione. A dire il vero, Eleana è
stata per me una grande ispirazione. Per lei ho ideato certamente gli
abiti più belli che io abbia mai cucito» le
rispose.
Freya avrebbe tanto voluto chiedere di vederlo, ma proprio in
quell'istante bussarono alla porta.
«È stato un piacere vedervi, Madama Cloelia.
Verrò a ritirare l'abito il giorno prima del
ballo» si congedò Malia, mentre la ragazza le
rivolgeva un cenno con la mano e un sincero ringraziamento.
Quando aprirono la porta, Freya si trovò faccia a faccia con
Aran, il quale aveva un'espressione tutt'altro che felice. Era
accompagnato dal maestro Athal, anch'egli con l'aria di chi avrebbe
avuto di meglio da fare. I due giovani si salutarono con un cenno del
capo e un sorriso distese per un solo istante il volto del Principe.
Freya fece lo stesso anche con Athal e, nonostante la sua evidente
irritazione, l'uomo le rispose cordialmente. Prima che il battente si
richiudesse alle sue spalle, Aran la guardò un'ultima volta
e alla ragazza parve di leggere nei suoi occhi una muta richiesta
d'aiuto.
«Non mi sorprende che l'idea di cercare un abito non sia per
lui delle più allettanti» spiegò Malia.
«Le prove dei reali possono durare per ore.»
֍ ֍ ֍
Aran guardò oltre l'angolo, cercando di capire se avesse via
libera.
Quando ebbe constatato che non c'era nessuno, tirò un
sospiro di sollievo e si avviò verso la torre
dell'Osservatorio, l'unico luogo dove nessuno l'avrebbe trovato. A meno
che suo fratello non andasse a spifferarlo, o non lo facesse Freya. La
cosa incredibile era che si fidava più di lei, la terza e
ultima persona a conoscere il luogo dove si nascondeva più
spesso, che del ragazzo con cui era cresciuto; Darragh non avrebbe
certo esitato a farsi due risate mentre lo costringevano a prendere
inutili lezioni di ballo e gli facevano un ripasso di etichetta per
accertarsi che sapesse ancora come presenziare correttamente a un
banchetto.
Sgattaiolò verso la torre e, varcatone l'ingresso, ne
raggiunse in pochi attimi la sommità. La stanza dal soffitto
a punta era colma di oggetti inerenti all'astronomia di cui sapeva
solo, per la maggior parte, i nomi; un pesante tavolo di legno
campeggiava al centro della sala, gremito di pergamene del suo maestro,
e tante finestrelle rettangolari alte e larghe illuminavano a tratti il
pavimento scuro. Fra le travi s'intravedeva la botola che sbucava sulla
piccola balconata che circondava la torre, quella da cui, fin dai primi
tempi della sua istruzione, gli erano state mostrate le costellazioni.
Raggiunse la scaletta e la salì rapidamente, cercando di
allontanarsi il più possibile dal castello e dalle sue
imposizioni opprimenti.
Si sedette nel suo solito posto, da cui poteva godere di una perfetta
visuale del paesaggio senza essere scorto. Non aveva molto a cui
pensare, se non che tutte quelle ore inconcludenti trascorse a farsi
ricordare come fare il Principe lo stavano tenendo lontano dalle ben
più utili lezioni di Athal. E da Freya. Chiuse gli occhi; si
era recato lì per tentare di rilassarsi un poco e quello
doveva cercare di fare. Si era quasi convinto che ce l'avrebbe fatta,
quando un tramestio proveniente dal basso lo mise in allerta, facendolo
balzare sulle gambe. Tese le orecchie, sperando con tutte le sue forze
che non fosse qualcuno venuto per trascinarlo nuovamente nel palazzo.
In breve la botola si spalancò e ne spuntò
Darragh. Aran non seppe se esserne felice o meno. Tornò a
sedersi come se nulla fosse, mentre il fratello si issava sul tetto.
«Sei prevedibile a nasconderti qui, fratello» gli
disse, appoggiandosi al parapetto.
«Lo so, ma per lo meno nessuno è mai venuto a
cercarmi quassù. E nessuno lo farà, a meno che
qualcuno non vada a spiattellare tutto» ribatté
Aran, guardandolo piuttosto male.
Darragh ridacchiò. «No, non oggi. So quanto siano
noiose le lezioni di corte, ma non sono in vena di metterti nei guai.
Piuttosto, volevo parlarti e sapevo che ti avrei trovato qui»
rispose il ragazzo, diventando stranamente serio.
Aran lo guardò, in attesa.
«Non ci vuole molto per capire che tu e Freya andate molto
d'accordo. Che sia qualcosa in più di questo è un
problema che, per adesso, non voglio pormi. Ma parliamoci chiaro: credi
davvero che sia prudente fidarsi di lei?» esordì
subito Darragh, diretto come al suo solito.
Aran rimase impassibile, per quanto gli potesse riuscire con una strana
rabbia che iniziava a montargli dentro. La sola idea che stesse per
parlar male di lei lo mandava su tutte le furie.
«Sì, Darragh, sono certo di potermi fidare. Oramai
la conosco molto bene e non sono un idiota. So di cosa parlo»
rispose.
Non avrebbe lasciato correre quel discorso. Capitava spesso che il
fratello si divertisse a stuzzicarlo, ma solitamente ci passava sopra.;
quella volta non era sicuro che ci sarebbe riuscito.
Darragh lo squadrò, poi ribatté: «Aran,
quella ragazza è diversa. Lei non è cresciuta
come noi, non ha la minima idea di come ci si comporti a una corte
reale e non l'avrà mai. Nemmeno se tentiamo
d'insegnarglielo. Non la puoi chiamare nemmeno popolana, visto che la
civiltà non l'ha mai vista. Il suo posto non è
qui e prima o poi finirà col fare qualcosa che te lo
farà capire nel peggiore dei modi.»
Aran guardò Darragh, cercando con tutte le proprie forze di
non perdere il controllo e alzare le mani. Negli ultimi tempi gli
capitava fin troppo spesso, con lui. In ogni caso, riuscì a
mantenere la calma, seppur a fatica. Si alzò e
fronteggiò il fratello.
«Cosa ti fa credere di avere il diritto di parlare di lei? Tu
non sai nulla di Freya, non hai mai nemmeno tentato di capire chi
fosse. Non sai niente della sua vita e non sai niente di ciò
che l'ha fatta diventare quello che è oggi»
rispose, serrando i pugni.
Darragh gli si avvicinò di un passo con aria quasi
minacciosa, ma Aran rimase saldo al suo posto. Non erano più
bambini, erano finiti gli anni in cui il fratello aveva il potere di
intimidirlo.
«Ma ho un'idea molto chiara di ciò che
è giusto e di ciò che non lo è, a
differenza tua. Se l'avessi sapresti che Freya non va bene
né per te, né per questa corte»
continuò la propria arringa Darragh.
«No, Darragh, tu hai solo il terrore di quello che non
conosci e va oltre la tua comprensione. Devi imparare ad aprire la
mente al nuovo e al diverso, o vivrai tutta la tua esistenza nella
paura e non potrai mai essere un buon sovrano per
Riagàn» esplose Aran, senza più essere
in grado di tenere la bocca chiusa.
Gli occhi del fratello lampeggiarono, ma Aran resse il suo sguardo
senza battere ciglio. Era cresciuto col ragazzo che aveva di fronte, lo
conosceva bene quanto conosceva sé stesso. Sapeva
perfettamente che non amava affatto sentirsi dire la verità,
o qualcosa che andasse contro quello che pensava e diceva lui.
«Quanto sei ingenuo, Aran. Non è con la
bontà d'animo che si diventa un buon sovrano. Se non sei
forte abbastanza da spazzare via dal tuo cammino ogni potenziale
pericolo soccomberai di fronte a qualsiasi nemico e non sarai mai
capace di mantenere il controllo di un regno. Questo è
quello che tu devi imparare» ribatté Darragh,
talmente infuriato che la sua voce tremò.
Aran scosse il capo, continuando a guardarlo dritto negli occhi.
«Essere forti non vuol dire attaccare chiunque senza alcuna
distinzione per non correre il rischio di essere colpiti. Non mi
convincerai mai che questo sia il modo giusto per affrontare la vita.
Risparmia il fiato» disse Aran, considerando, da parte sua,
chiuso l'argomento.
Darragh lo fissò, quasi cercasse di riconoscere in lui il
ragazzo con cui aveva vissuto gran parte della sua vita e non ci
riuscisse. Poi, si allontanò verso la botola a passo
pesante. Prima di scomparire oltre il rettangolo buio, disse:
«Quando succederà qualcosa, e io so che
succederà, non venirmi a dire che non ti avevo
avvertito.»
Le tempie che gli pulsavano dolorosamente, Aran tornò a
sedersi a terra e a osservare il cielo terso, cercando di non
rimuginare sull'assurda discussione cui era appena stato costretto a
prendere parte. Darragh era sempre stato pienamente convinto che le sue
idee fossero le uniche valide, ma ultimamente sembrava intenzionato a
imporle a tutti i costi anche a lui. Non avrebbe tentato di
distoglierlo da quel proposito, decise Aran; semplicemente lo avrebbe
ignorato. Se Darragh pensava che fosse tanto facilmente influenzabile,
glie l'avrebbe lasciato credere.
Deciso a calmarsi, chiuse nuovamente gli occhi. Solo pochi istanti dopo
dovette però riaprirli, perché passi molto lievi
tornarono a farsi sentire al piano inferiore. Si mise all'ascolto,
ancora una volta. Si alzò non appena sentì la
presenza avviarsi lungo la scaletta a pioli e si avvicinò
alla botola, in attesa. Oltre la sottile barriera delle assi di legno
avvertì qualcosa di conosciuto: era un profumo delicato di
giglio selvatico che, ormai, gli era diventato familiare.
Rilassò i muscoli tesi, sapendo già chi
aspettarsi; quando la botola si sollevò vide il capo di
Freya comparire alla luce del sole. La ragazza era arrivata quasi in
cima quando lo notò e si fermò, esitante.
«Oh, Aran. Scusa, non volevo disturbarti» disse la
giovane, facendo un passo indietro sui pioli della scaletta.
Aran le sorrise; non aveva la minima idea di quanto fosse felice di
vederla. «Non disturbi affatto» asserì
infatti, tendendo una mano per aiutarla a salire, anche se sapeva che
Freya non ne aveva alcun bisogno. «Sei sempre la benvenuta
quassù.»
Rassicurata, Freya ricambiò il sorriso, afferrò
la sua mano e si issò con agilità sulla
balconata, richiudendosi la botola alle spalle. Per molto tempo nessuno
dei due parlò. La ragazza si avvicinò al
parapetto e osservò il paesaggio che si estendeva fino
all'orizzonte; lentamente un'espressione rilassata le si dipinse in
viso.
«Come mai sei salita fino all'Osservatorio?» le
chiese Aran ad un certo punto, curioso.
Freya si voltò verso di lui e inaspettatamente un diffuso
rossore comparve sulle sue guance. «Io... Ecco...»
iniziò e nell'avvertire in lei quella strana incertezza
un'idea andò formandosi nella mente di Aran.
«Nel caso stessi cercando un nascondiglio, non c'è
nulla di cui vergognarsi. Sono qui per lo stesso identico
motivo» la rassicurò, rinnovando il proprio
sorriso e attendendo poi che fosse lei a proseguire.
Freya prese un respiro e si sedette a terra, la schiena contro la
pietra della torre. Il suo sguardo vagò sulle terre assolate
all'intorno. «Io non sono una persona che scappa, di
solito» disse, torcendo fra le mani la catenella del
medaglione che portava al collo. «Eppure, la
verità è che non ci riesco. Non sono in grado di
reggere tutte queste assurde lezioni in cui non fanno altro che dirmi
come devo parlare, camminare e perfino mangiare.» La giovane
posò il mento sulle ginocchia raccolte al petto.
«Forse davvero questo non è il mio
posto.»
Aran le si sedette accanto e prese a guardare nella sua stessa
direzione. Non sopportava di sentirle dire quelle cose; era come
ascoltare Darragh, come se le sue idee le avessero in qualche modo
avvelenato la mente. Doveva levarle dalla testa quel pensiero assurdo,
perciò rifletté con cura su quali potessero
essere le parole giuste.
«Il fatto che non ti vada a genio perdere tempo dietro a
inutili lezioni di ballo e galateo non significa affatto che qui non ci
sia posto per te, Freya. A me sono state imposte fin da quando ero
piccolo, ma non per questo le trovo più gradevoli»
le spiegò, accantonando il suo turbamento personale per la
discussione avuta con il fratello. «Non appena ne ho avuta
l'occasione sono scappato a gambe levate, come puoi vedere.»
«Allora come hai fatto a vivere qui fino ad ora? Insomma, la
tua vita non è stata un grande agglomerato di tutto
questo?» gli domandò.
Aran scoppiò a ridere, cosa che fece sorridere anche Freya,
rassicurandolo un pò. «Sì, in effetti
ce ne sono state molte di giornate del genere. Venivo quassù
e mi barricavo dietro questo parapetto, a guardare la foresta. Per un
bel pò è stato l'unico modo per scappare almeno
con il pensiero dalla corte, dalle regole, dall'oppressione»
spiegò. «Non appena sono stato abbastanza grande,
ho iniziato a prendere il mio cavallo e fuggire fisicamente. Capisco
perfettamente come ti senti.»
Come ogni volta che confessava a Freya quello che normalmente teneva
per sé, un piccolo nodo gli si sciolse nel petto. Forse lei
sarebbe stata la persona a cui avrebbe rivelato il suo segreto
più intimo, un giorno, quello a cui ogni tanto aveva persino
paura di pensare. La convinzione che lei sarebbe stata l'unica cui
avrebbe potuto dirlo si faceva sempre più forte.
La giovane continuava a guardare oltre una delle feritoie scavate nella
pietra, ma lui sapeva perfettamente che lo stava ascoltando. Lo
ascoltava sempre. Dopo qualche istante, infatti, si voltò
verso di lui. Sorridendo, disse semplicemente: «Grazie, Aran.
Davvero.»
Il giovane sorrise a propria volta. «Tu mi hai già
ringraziato fin troppe volte. Sono io piuttosto che non te lo dico
abbastanza spesso. Perciò, grazie Freya»
ribatté, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi.
Freya lo osservava, forse sorpresa dalle sue parole, ma
accettò il suo aiuto senza esitazione.
«Che ne diresti se restassimo ancora un pò qui a
riprendere fiato e poi tornassimo insieme nella tana dei
lupi?» le propose con fare scherzoso, poggiando gli
avambracci al parapetto di pietra.
«Approvo pienamente la tua idea» rispose la
ragazza, mettendosi al suo fianco. «In fondo, meglio che mi
ci abitui adesso. Fra qualche giorno andrà ancora
peggio.»
Aran si lasciò scappare una risata, poi il silenzio
tornò ad avvolgerli. Rimasero così a lungo, senza
dire una parola, lasciando che il calore del sole e l'incessante
andirivieni del vento cancellassero qualunque altra cosa.
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Capitolo 15 *** CAPITOLO 14 - Si aprono le danze ***
CAPITOLO
14
-SI APRONO LE DANZE-
Nei
giorni successivi nessuno dei due riuscì più a
sfuggire alle ore quotidiane di lezione. Ogni minuto passato in
compagnia delle dame di corte, che le insegnavano come si sarebbe
dovuta porre al banchetto, faceva sentire Freya sempre più
inadeguata.
Il mattino di quello che per la corte sembrava un gran giorno
trovò il castello in una frenesia di preparativi che la
ragazza faticava a capire. Insomma, era davvero necessario mettere in
piedi una baraonda del genere solo per celebrare il suo arrivo? Non
aveva mai chiesto nulla di simile, né tanto meno lo voleva.
Ogni volta che le sovvenivano pensieri simili, in ogni caso, si
ripeteva la stessa identica cosa: aveva scelto quella vita, ora ne
doveva seguire le regole.
Per tutto il giorno, fu tenuta nella propria stanza da Malia, che
insistette per farla preparare a ogni evenienza. Essendo stata nominata
responsabile della sua istruzione sul galateo, la donna sembrava del
tutto intenzionata a non farla sfigurare e a non sfigurare lei stessa.
Per quella ragione, continuò a farle ripetere tutte le frasi
di circostanza che avrebbe dovuto sapere, la riverenza giusta da
praticare in presenza dei nobili, il portamento che doveva tenere. Nel
mentre, la Sala del Trono veniva preparata con tutta la dedizione dei
mastri di palazzo e le cucine sfornavano tutte le leccornie possibili e
immaginabili; tra un ripasso e l'altro, l'ancella le descrisse nel
minimo dettaglio lo sfarzo a cui si sarebbe trovata dinnanzi.
Quando, nel tardo pomeriggio, Madama Cloelia in persona venne a
portarle l'abito, i nervi di Freya erano già stati messi a
dura prova. La sarta restò per dare una mano a Malia e le
due donne la vestirono parlottando energicamente fra di loro. La
giovane le sentiva dire quale meravigliosa serata sarebbe stata per lei
e quanto incantevole sarebbe stata dopo che avrebbero finito di
prepararla, ma l'unica cosa che lei riusciva a provare era un vago
senso di nausea.
Cloelia controllò che ogni dettaglio dell'abito fosse come
doveva essere, poi si congedò per lasciare che Malia
ultimasse i preparativi. Nel lasciare la stanza, disse a Freya:
«Porta la mia creazione con orgoglio. Io ne vado molto fiera,
come ben sai, perciò non mi aspetto nulla di meno.»
Naturalmente, più che incoraggiarla, quelle parole servirono
ad aumentare ancor di più la sua ansia. Si lasciò
pettinare agitandosi a disagio sulla sedia, non sentendosi per nulla
partecipe di quello che le stava accadendo attorno, soprattutto di
quell'esagerato entusiasmo generale. Era come se gli eventi si stessero
evolvendo senza che lei ne avesse minimamente il controllo.
Fortunatamente, Malia le concesse almeno di lasciare i capelli
piuttosto liberi: si ritrovò la parte superiore intrecciata
in una trama complicata, ornata da piccoli fermagli in ferro lavorato,
e la parte inferiore in morbide onde sulla schiena. L'ultima cosa che
indossò fu il medaglione di sua madre, prendendosi un attimo
per osservarne lo sconosciuto disegno.
Nonostante il suo desiderio che la sera giungesse il più
tardi possibile, presto le ombre presero ad allungarsi lungo le pareti;
il cielo iniziò a imbrunire, tingendosi di sfumature
violacee e aranciate. Quando venne mandata a chiamare, Freya non ebbe
altra scelta che lasciare la sua stanza. Procedette lungo i corridoi
sempre più nervosa, pregando silenziosamente di non
inciampare nel vestito e fare una figura tremenda di fronte a tutti.
Presto, raggiunsero la Sala del Trono. La prima cosa che Freya
notò, giunta al cospetto della grande porta, fu l'allegro
vociare che proveniva dall'interno. Rimase lì davanti,
immobile, per quella che le parve un'eternità. Poi, il
portone si spalancò, rivelando la luccicante sala, e
più lo spiraglio fra i due battenti si allargava
più gente lei scorgeva. Le lanterne cangiavano lungo le
pareti, proiettando le loro ombre affusolate contro la pietra grigia e
solida.
Il mosaico sul soffitto fu la prima cosa che le saltò
all'occhio, brillando fulgido in ogni punto in cui le pietre
catturavano la luce. Solo in un secondo momento rivolse la propria
attenzione a tutto il resto: tre lunghi tavoli erano stati disposti
paralleli l'uno all'altro al centro del salone; lungo le pareti
cadevano drappeggi di morbida stoffa, in un tripudio di viola e
porpora, il colore ufficiale del Regno; uno stendardo con l'effige di
Errania era stato appeso dietro al trono e la filigrana d'oro di cui
era intessuto brillava fioca nella luce.
La Regina era seduta a capo del tavolo centrale, affiancata da Darragh
e Aran, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra.
Capì solo allora, con tutti quegli occhi puntati su di
sé, che ogni cosa era stata calcolata per far sì
che lei fosse l'ultima a fare il proprio ingresso e che l'attenzione
dell'intera sala fosse puntata su di lei. Solo un posto era rimasto
libero, accanto ad Aran. La ragazza tirò un sospiro di
sollievo all'idea di averlo accanto e fu l'ultima cosa che
poté fare.
Mirea si alzò, maestosa nel suo abito viola scuro, e ottenne
il silenzio con una sola occhiata. «Membri della corte di
Errania, sono lieta di avervi tutti qui riuniti. Finalmente
è giunto il momento di trovare qualcosa per cui gioire e
l'arrivo di questa giovane promessa lo è. Con immensa e
malcelata gioia, oggi voglio celebrare il ritorno tanto atteso di
Freya, figlia adorata di Eleana e Harden, i cui nomi voi tutti
ricordate. Vogliate unirvi a noi in questo giorno di festa»
parlò, la sua voce era chiara, forte e ferma. Sembrava che
nulla potesse far vacillare quella donna.
La Regina fece cenno a Freya di avanzare. I musici, discretamente posti
in un angolo, intonarono una melodia per accompagnare la sua marcia. I
nobili presenti applaudirono composti, alzandosi dalle loro sedie
imbottite e rivolgendole sorrisi che avevano ben poco di genuino,
traditi dal gelo dei loro sguardi. Le sembrò che ci fosse
qualcosa di tremendamente sbagliato in quello che stava facendo, ma
giunse comunque al proprio posto.
Non appena la vide arrivare Aran si alzò e, con sorpresa di
Freya, le scostò la sedia per farla accomodare. Lo
guardò cercando di capire se gli fosse stato detto di fare
così oppure fosse stato un gesto istintivo; fu l'espressione
del servitore alle sue spalle e, soprattutto, le sue mani tese verso lo
schienale dello scranno, a farle capire che la più corretta
era la seconda opzione. Gli rivolse un sorriso, quasi sopraffatta dalla
felicità di averlo accanto. Sentì vagamente la
musica continuare e la Regina che ordinava di far portare in tavola il
cibo, mentre il chiacchiericcio avvolgeva nuovamente l'ambiente.
«Sei un incanto» le disse solamente Aran e quel
complimento fece arrossire lui quanto lei.
Le era stato rivolto in maniera così sincera che aveva
sentito immediatamente il calore salirle alle orecchie. Per alleggerire
quell'attimo di imbarazzo, Freya ribatté: «Anche
tu non te la cavi affatto male.»
In effetti, la sua fu solo in minima parte una battuta: anche lui era
splendido nella sua tunica blu notte di pregiato tessuto, ornata solo
dai fermagli del mantello, e nei suoi calzoni d'alta fattura di una
tonalità più chiara. Una semplice cintura
borchiata in vita e stivali di lucido cuoio completavano il tutto.
La tavola fu presto imbandita di ogni tipo di cibo: arrosti e brasati
di manzo contornati da verdure abbrustolite e lesse, lucidi di sughi e
salse, maialini da latte con rosse mele in bocca, pesci accompagnati
dalle zuppe più disparate, pani di tutte le fatture. Portato
ogni vassoio, i servitori sparpagliarono lungo i tavoli brocche colme
di vino aromatico e sidro. Poi, si disposero quieti alle loro spalle,
in attesa che qualcuno avesse necessità di loro. A Freya non
piacque che fossero costretti a restare lì a quel modo, ma
sembrava che nessun altro provasse il suo stesso disagio a riguardo.
La cena proseguì tra discorsi e argomenti che la ragazza si
sforzò di seguire ogni qual volta venisse interpellata, cosa
che accadeva spesso dato che tutta l'attenzione era su di lei. Le
sembrava di essere costantemente messa alla prova, sotto quella pioggia
di domande. Quella sensazione l'abbandonava solo quando finalmente
riusciva a parlare con Aran, il quale spesso arrivò in suo
soccorso quando la situazione si faceva troppo pesante. In un modo o
nell'altro, si ritrovò a notare la giovane, era come se non
potessero fare a meno di cercarsi l'un l'altra.
Darragh si rivolgeva a lei di quando in quando, con la consueta falsa
cortesia cui lei rispondeva con freddo garbo. Nonostante a nessuno dei
due facesse piacere la compagnia dell'altro, evidentemente anche il
Principe si era reso conto di non poterla fronteggiare a viso aperto in
un'occasione simile.
Quegli istanti, con grande sollievo di Freya, passarono in un attimo.
D'aiuto furono certamente la cena, deliziosa e sapientemente
orchestrata, e Aran, che la supportò in molte occasioni.
Quando anche le pietanze dolci, che avevano riempito le narici degli
ospiti di un profumino delizioso, furono portate via, Mirea fece alzare
Freya.
La tranquillità che era riuscita ad acquisire
sfumò nel giro di pochi passi. La Regina le chiese di
posizionarsi in piedi accanto a lei, sulla pedana marmorea occupata dal
trono. Nella sala calò il silenzio, mentre gli ospiti pian
piano si alzavano per esserle presentati ufficialmente. In un battito
di ciglia, la ragazza si ritrovò sommersa da una marea di
volti e voci sconosciuti; erano tutti pronti a dirle quanto fossero
felici della sua presenza a Errania e quanto li onorasse fare la sua
conoscenza, un nome altisonante alla volta. Molti le dissero di aver
conosciuto sua madre, ma lei dubitava che la maggior parte di loro
potesse mai aver avuto una buona opinione di lei.
Quando la cortina di persone iniziò a diradarsi, Freya
notò che, con una rapidità sorprendente, i
servitori avevano sgomberato l'immensa Sala del Trono di tutto. Solo un
tavolo era rimasto, fornito di calici e di un'infinita
quantità di bevande aromatiche. Era stato creato un grande
spazio al centro del salone e, a un segnale della Regina, i musici
ripresero a intonare le loro bellissime melodie. Ben presto, danze
tradizionali del Regno di Riagàn presero l'atmosfera di
tutta la sala.
La giovane, che non aspettava altro che una distrazione da parte di
tutti, riuscì finalmente a defilarsi. Un piccolo bovindo
appena fuori la sala fece al caso suo; mentre intorno a lei si
spandevano le note delle più belle ballate dei compositori
umani, la sua attenzione si focalizzò sull'esterno. Si
sedette sul davanzale imbottito di velluto violetto e cercò
di seguire la trama delle lucciole che si inseguivano fra gli steli
d'erba. Pian piano, la musica divenne solamente un sottofondo ai suoi
pensieri.
Si chiese se quella sera fosse la fine della sua ricerca, se davvero
avesse completato il suo percorso verso la verità. La logica
le suggeriva di sì, ma qualcos'altro le diceva, invece, che
la strada era ancora lunga. Non riusciva a pensare che, da quel momento
in poi, la sua vita sarebbe stata fatta solo di balli e cerimonie,
limitata alle sole mura di quel castello. Nonostante le lunghe
settimane trascorse a Errania, ancora non riusciva a contemplare l'idea
che sarebbe stata a servizio di Mirea, se fosse rimasta.
Alla musica degli strumenti si unì ben presto una voce di
donna, probabilmente una musicista; doveva aver messo a disposizione le
sue corde vocali per permettere agli invitati di udire anche le parole
delle canzoni che arpeggiavano nell'aria. Le note, adesso, si erano
fatte più dolci. La notte diventava nel frattempo sempre
più scura. Nonostante facesse ancora caldo, le giornate si
stavano palesemente accorciando. La luna aveva oramai fatto la propria
comparsa, pallida nella sua falce, circondata da una corte di stelle.
Freya si rilassò finalmente un poco; nessuno sembrava badare
più a lei, grazie a quel momento di svago.
Proprio mentre si diceva quanto sarebbe stato piacevole lasciare
semplicemente che quella serata pian piano scivolasse via,
sentì dei passi dirigersi verso di lei. Quando
alzò lo sguardo si ritrovò davanti Aran, che le
porgeva una mano. Non appena la ragazza capì che cosa
intendesse, dapprima scosse vigorosamente la testa.
«Oh no, il ballo non è cosa per me»
spiegò, arrossendo imbarazzata. In effetti, era la
verità: le lezioni prese nelle settimane precedenti non
l'avevano per nulla aiutata a essere più sicura, l'avevano
fatta sentire solo tremendamente goffa.
«Non saresti la ragazza che ho conosciuto fino a ora se
preferissi il ballo a una cavalcata. Questa però
è la tua festa, no?» le rispose lui con un sorriso
che la tranquillizzò, anche se non del tutto.
Quella sera, Aran aveva assunto il proprio ruolo di Principe,
constatò Freya, osservando in lui un lato cavalleresco
stranamente affascinante. Avrebbe potuto scegliere la compagnia di
qualunque altra ragazza presente nella sala, si rese conto.
Probabilmente, tutte quelle giovani nobili sarebbero state candidate
ben più adatte a danzare con lui; eppure, Aran era
lì e aspettava lei. Esitando un po', afferrò la
sua mano. Lui rispose alla stretta e la tirò letteralmente
in piedi. Freya non poteva credere di aver accettato, eppure i suoi
passi la stavano davvero portando tra la folla di persone che danzavano
in perfetta armonia nei loro abiti elaborati.
La voce della musicista era incantevole e melodiosa, calda e
avvolgente. Quando la danza riprese, alle note di una piacevolissima
canzone, la giovane si disse che non poteva davvero essere più
complicato che affrontare un duello. E quando i loro primi passi si
unirono a quelli degli altri, capì che probabilmente il
meccanismo era lo stesso: ogni passo avrebbe avuto le proprie
conseguenze e lei doveva essere in grado di prevederle, per vincere. La
sola differenza era che non aveva l'impugnatura di una spada stretta in
mano. Riuscì a rilassarsi, come faceva quando stava per
affrontare un combattimento durante gli addestramenti. Si
ritrovò a pensare che fosse davvero un paradosso che la
tensione si facesse sentire di più in quel momento che non
con di fronte un avversario armato. Le bastò ancora un
attimo perché quell'insieme di passi e giravolte armoniose
diventasse per lei abbastanza naturale da non farle pensare di essere
ridicola agli occhi degli altri. Oltre tutto, si fidava di Aran; ora
non le costava più così tanto ammetterlo. Avrebbe
lasciato che fosse lui a guidarla.
Il ragazzo continuava a tenerle stretta la mano, mentre danzavano. La
musica non accennava a finire e i due giovani mantenevano il contatto
visivo l'uno con l'altra, non curandosi di nessuno. Probabilmente non
si rendevano più nemmeno conto del disegno che i loro piedi
tracciavano sul pavimento: Freya teneva gli occhi puntati in quelli di
Aran e viceversa, solo questo sembrava contare.
I nobili avevano lasciato loro un ampio spazio e ora di tanto in tanto
li osservavano, stupiti. Nel giro di qualche istante gli occhi
dell'intera sala furono puntati su di loro e, anche mentre continuavano
a danzare, gli altri ospiti lanciavano occhiate incuriosite nella loro
direzione. Alla fine, come tutto era iniziato, finì. Le
ultime note degli strumenti rintoccarono vibrando di mille sfumature e
loro si fermarono, senza smettere di guardarsi tanto attentamente da
non accorgesti di quello che stava accadendo attorno.
«Menomale che ballare vi costava immensa fatica, Principe
Aran» sussurrò lei, sorridendo divertita.
Aran ricambiò il sorriso e altrettanto piano rispose:
«Ho detto che faticavo a seguire le lezioni, non che non ne
fossi capace, Lady Freya.»
Ricordarono di non essere gli unici presenti nella sala solo quando
alcuni dei presenti esplosero in applausi e ovazioni. I due giovani
interruppero quasi bruscamente l'intreccio dei loro occhi e si
guardarono attorno, arrossendo entrambi fino alla punta delle orecchie.
Solo allora Freya poté vedere le occhiate inquisitorie che
molti altri le stavano dedicando, come se stessero cercando di scoprire
in lei un qualche secondo fine. Anche Mirea li stava guardando, ma il
suo volto era, come sempre, completamente impenetrabile.
Intenta a osservare la Regina con espressione accigliata, la giovane
non aveva notato la folla che li stava nuovamente sommergendo.
Ritornò alla realtà solo quando Gorman si
avvicinò alla sovrana e prese a sussurrarle parole
sconosciute all'orecchio; quel loro confabulare le diede un brivido,
anche se non avrebbe saputo spiegare perché. Si
voltò nuovamente verso la selva di persone, che nel
frattempo avevano ripreso le loro attività, e si
ritrovò davanti un uomo che non aveva mai visto prima di
allora: alto, capelli e barba brizzolati e ben curati, occhi
neri come la pece.
«Lady Freya. Vorrei presentarvi il membro più
illustre dell'esercito di Riagàn, il generale Nolan.
Organizza e guida tutte le spedizioni militari più
importanti del Regno» lo presentò Darragh, che si
era avvicinato a loro in compagnia del generale.
La sua espressione indecifrabile fece intuire a Freya che c'era
qualcosa sotto fin da subito. «È mio grande
piacere fare la vostra conoscenza, generale» rispose
ugualmente, con educazione.
«L'onore è mio, Lady Freya»
ribatté altrettanto cortesemente l'uomo, tanto che Freya per
un attimo pensò di essersi sbagliata.
Il generale salutò tranquillamente anche Aran, con il quale
scambiò qualche battuta sul proseguimento del suo
addestramento militare. Poi, quando tornò a rivolgersi a
lei, arrivò la frecciata: «Sono rimasto
molto sorpreso nel constatare quale padronanza abbiate della situazione,
considerando l'ambiente da cui provenite.»
Fu solo allora che comprese perché Darragh avesse voluto
presentarle proprio quell'uomo: aveva cercato qualcuno che avesse le
sue stesse convinzioni su di lei, evidentemente deciso a metterla in
difficoltà. Strinse i pugni fra le pieghe del vestito,
stanca e disgustata dalla sua meschinità; non si sarebbe
lasciata mettere i piedi in testa tanto facilmente. Se era veramente
ciò che Darragh voleva, sarebbe stata al suo gioco.
«Vi ringrazio, generale» rispose, esibendo un
sorriso che spiazzò i suoi due interlocutori tanto quanto
Aran. Il giovane la guardava esterrefatto, probabilmente aspettandosi
tutto tranne che una reazione tanto controllata. Mantenendo un tono di
voce estremamente pacato, Freya proseguì: «In
effetti, sapevo ben poco delle arti di corte. Chi lo sa, forse
perché mia madre ha ritenuto più saggio
insegnarmi cose ben più rilevanti e utili alla mia vita
futura.»
Con la coda dell'occhio, la ragazza vide le labbra di Aran ridursi a
una linea, come se si stesse trattenendo allo strenuo dallo scoppiare a
ridere. Impagabile fu però l'espressione di Darragh, un
misto fra frustrazione e astio crescente. Nolan, invece, si
sforzò di restare impassibile, nonostante una leggera
contrazione della mascella rivelasse quanto l'avesse irritato una tale
prontezza di risposta.
La seconda stoccata non tardò ad arrivare: «Deve
essere stato estremamente arduo comprenderne i meccanismi, per una
mente così poco avvezza a un mondo tanto
complesso» disse l'uomo, per poi sorbire con tutta calma un
sorso di sidro dal calice che rigirava fra le dita.
Ancora una volta, Freya sorrise e rispose senza battere ciglio:
«Oh, non dovete temere per me. Imparo in fretta.»
Lo sguardo nero del generale la trapassò da parte a parte,
mentre, con un sorrisetto sardonico, mormorava: «Tale e quale
a vostra madre.»
«Non avreste potuto rivolgermi complimento
migliore» ribatté Freya, producendosi in una
perfetta riverenza. Era arrivato il momento di porre fine a quella
conversazione. «Se volete scusarmi, avrei desiderio di bere
qualcosa. Arrivederci, generale Nolan. Principe Darragh»
concluse perciò, in chiaro segno di congedo.
Solo quando i due si furono allontanati, la giovane si rese conto di
aver serrato i pugni con tanta forza da fermare la circolazione del
sangue nelle proprie mani, attraversate ora da un violento formicolio.
Aran parve accorgersi della sua tensione, perché nel giro di
un attimo le sue dita sfiorarono quelle contratte di lei e la spinsero
a sciogliere la stretta.
«Vieni, andiamo a prendere un po' d'aria. I
giardini sono meravigliosi alla luce dei bracieri» disse
soltanto, prendendola per mano e partendo in direzione dell'uscita.
Effettivamente, più che di bere aveva bisogno di respirare.
Non appena l'aria fresca le invase i polmoni, sentì svanire
le ultime tracce della rabbia che aveva represso. I suoi muscoli
automaticamente si rilassarono e, sollevando un poco l'abito per
evitare di rovinarne l'orlo, continuò a camminare al fianco
di Aran.
Finirono per fare a gara su chi avrebbe raggiunto per primo
l'angolo più remoto dei giardini interni, lasciandosi andare
a un attimo di leggerezza. Fu Aran ad averla vinta, sedendo per primo
su una panca di granito piuttosto isolata. Freya non ne fu affatto
sorpresa, dato che era stato lui a lanciare la sfida partendo senza
preavviso e il vestito che le limitava parecchio i movimenti.
Il ragazzo l'aspettò con le gambe comodamente allungate di
fronte a sé e un sorriso trionfante in viso. «Ti
ho battuta! Sono io che sto migliorando o sei tu che stai diventando
pigra?» esultò, scherzoso.
Freya gli si sedette accanto e gli diede una gomitata altrettanto
giocosa. «È solo la tua serata fortunata. Se non
avessi indossato un abito tanto ingombrante, sarei dovuta restare qui
ad aspettarti per un'eternità» lo prese in giro,
fingendo un fare di superiorità.
Aran ridacchiò, poi per un attimo fu silenzio.
«Hai dovuto fare uno sforzo enorme per non spaccargli la
faccia, non è vero?» le domandò infine.
Freya scoppiò a ridere, prima di voltarsi nuovamente verso
di lui. «Lo so, lo so. Nessuna fanciulla a modo avrebbe mai
pensato di mollare un pugno dritto in faccia a un generale
dell'esercito» rispose.
Aran rise ancora; il banchetto oramai era lontano ed entrambi erano
visibilmente più rilassati. «Avrei chiuso un
occhio se l'avessi fatto» commentò, continuando a
sorridere. Poi, si fece serio. «Sei stata meravigliosa,
questa sera. Non solo hai sostenuto brillantemente tutte le discussioni
in cui sei stata coinvolta, hai anche saputo tenere testa a Nolan con
intelligenza e determinazione. Sei stata molto più educata
di quanto quell'uomo meritasse.»
Improvvisamente, l'espressione di Freya mutò e lo
guardò intensamente, con quei suoi occhi che sembravano in
grado di trapassarti l'anima. «Ci sono riuscita
perché tu eri lì con me. Tu mi hai dato il
coraggio necessario» confessò e, contro ogni
aspettativa, non fu per nulla difficile ammetterlo finalmente ad alta voce.
Aran scosse il capo e rispose con sicurezza: «No, Freya. Ci
sei riuscita perché tu sei coraggiosa e basta, in ogni
momento, senza bisogno che qualcuno ti aiuti ad esserlo.»
Eppure, Freya in quel momento si sentiva tutto fuorché
coraggiosa. Forse era vero che, contro ogni aspettativa, quella sera se
l'era cavata piuttosto bene. Però non dimenticava quale
inquietudine l'aveva colta al pensiero che la sua vita potesse ridursi
a questo. Avrebbe voluto dirglielo, sentiva che in qualche modo glielo
doveva, ma non ci riusciva, non ne aveva la forza. La verità
era che Aran sarebbe stata l'unica cosa difficile da lasciare in quel
luogo. Non la ricchezza, non i privilegi: solo Aran. Quella
consapevolezza la colpì con la forza di uno scroscio di
pioggia improvviso, togliendole il respiro.
Lui dovette accorgersi dal suo silenzio che qualcosa non andava,
perché cercò il suo sguardo, nel tentativo di
capire cosa stesse accadendo dentro di lei. Freya cercò di
evitare quel contatto, conscia che poi sarebbe stata costretta a
parlare, ma non ci riuscì.
Gli occhi grigi del giovane si piantarono nei suoi, incatenandoli, e le
domandò: «Cosa ti sta passando per la
mente?»
Freya tentò di svicolare, ma ancora una volta
fallì. Aran si alzò dalla panca e le si
piazzò davanti, piegandosi sulle ginocchia e costringendola
a guardarlo. Rimase in attesa, senza metterle alcuna fretta. Con un
enorme sforzo di volontà, finalmente la giovane
riuscì a parlare.
«Non importa quanto io sia stata brava, Aran. Questa sera, in
quella sala, non ero io. Quello non era il mio posto, me lo sentivo fin
dentro le ossa, e l'unico momento in cui quel senso di
estraneità mi lasciava andare era quando tu eri al mio
fianco. Quindi sì, è stato anche grazie a te se
non mi sono lasciata sopraffare» disse, le mani strette
saldamente l'una all'altra.
«So perfettamente che a volte qui non ti senti libera di
essere te stessa, Freya, ma nessuno ti chiederà mai di
rinnegare la tua vera natura solo perché ora la tua vita
è cambiata. E anche se dovessero farlo, nessuno
riuscirà mai a importelo. Ne sono certo perché io
so chi sei e so anche che non scenderesti mai a compromessi»
ribatté lui, con assoluta sicurezza.
Freya scosse il capo e si alzò. Aran fece lo stesso e si
ritrovarono i piedi, uno di fronte all'altra.
«Vorrei che fosse vero, Aran, ma se resto qualcosa in me
cambierà inevitabilmente, che io lo voglia o meno. Questo
è quello che facciamo per sopravvivere: ci
adattiamo» rispose ancora lei in un sussurro, non muovendosi
di un passo.
Per un attimo il silenzio calò fra di loro, poi Aran
parlò ancora e lei seppe che aveva capito anche lui
ciò che perfino lei aveva concluso solo quella sera.
«Sai, credo di averlo saputo fin da subito che non saresti
rimasta per sempre» disse, ma nella sua voce non c'erano
traccia di rabbia o delusione. Tornò a sedersi,
con l'aria di chi sta cercando le parole giuste per continuare. Freya,
ancora in piedi di fronte a lui, stette in perfetto silenzio.
«Però non importa» proseguì
infine il ragazzo. «Qualunque cosa tu decida e qualunque
sarà il momento in cui vorrai andare, sento che ora che le
nostre strade si sono incrociate non avrà importanza dove
sarai tu o dove sarò io. Ci sarà sempre qualcosa
che mi legherà a te.»
Il cuore di Freya perse un battito e, inaspettatamente,
sentì le lacrime salirle agli occhi. Le trattenne, mentre
una nuova consapevolezza le riempiva l'anima. Si avvicinò a
lui, senza più evitare di guardarlo in viso, e rispose con
una sicurezza assoluta: «No, non conterà nulla. La
mia vita è oramai legata alla tua, Aran, e questo non
potrà mai cambiare.»
L'espressione di Aran si fece strana, come se nell'avere la conferma
che per lei fosse lo stesso avesse acquisito una nuova certezza. Freya
tornò a sedersi al suo fianco e quando lo fece la mano
destra del giovane cercò quella di lei e la strinse
saldamente; le loro dita si intrecciarono. La giovane
incollò ancora una volta lo sguardo in quello di lui,
sentendo che tra di loro era appena stato suggellato un patto
silenzioso e che, in quel momento, sarebbe potuta succedere qualunque
cosa.
Quello che per loro era semplicemente un gesto risvegliò
qualcosa nell'aria, qualcosa che sapeva di magia: il vento si
alzò oltre le fronde dei grandi alberi, lontano, oltre le
mura del castello, e l'aria vibrò. I due ragazzi si
guardarono intorno; i capelli di Freya frustavano l'aria impazzita e il
mantello di Aran ondeggiava furiosamente alle sue spalle. Rivolsero i
volti all'insù, come se il cielo potesse avere la risposta,
ma le stelle continuarono ad ammiccare indifferenti. A loro non
restò che guardarsi a vicenda, confusi e attoniti.
Qualcosa stava davvero per accadere.
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Capitolo 16 *** CAPITOLO 15 - Confessioni, parte prima: Incubo ***
CAPITOLO
15
-CONFESSIONI,
PARTE PRIMA: INCUBO-
Senza
che quasi se ne accorgessero, l'estate virò rapidamente
verso l'autunno, portando con sé nuovi profumi e colori e
una certa dose di freddo precoce. Le foglie di alberi e piante erano
variegate di ogni tonalità di rosso, giallo e arancione;
pian piano, iniziarono a cadere copiose sull'erba dei giardini e sulle
campagne circostanti, tappezzando tutto e attutendo il rumore degli
stivali sulle viottole sterrate.
Freya non era più riuscita a tranquillizzarsi del tutto,
dopo quella sera. In cuor suo continuava a credere che prima o poi
qualcosa sarebbe successo, ma non mostrava i suoi timori e si
concentrava su altro. Aveva continuato a indagare sui suoi genitori,
cercando di capire se le fosse sfuggito qualcosa come le suggeriva
l'istinto, ma in quello non era per nulla progredita. La sua
conoscenza, però, continuava a crescere: aveva cominciato a
frequentare le lezioni che il maestro Athal teneva per Aran,
perché pian piano aveva capito quanto fosse importante
comprendere a un livello più profondo il mondo che la
circondava; trovava il suo modo di illustrare i vari argomenti
estremamente affascinante. Per quella ragione, quando Aran le aveva
spiegato che Darragh non seguiva le stesse lezioni poiché
aveva voluto avere un precettore un pò meno stravagante, non
era riuscita a comprenderne il motivo. Athal aveva il grande dono di
far apparire interessante anche il più soporifero dei
concetti. In ogni caso, Aran non sembrava dispiacersi dell'assenza di
Darragh.
Non c'era voluto molto a Freya per intuire che i due fratelli non si
parlavano praticamente più. La conferma le era stata data
dalla tensione che vibrava fra loro quando erano nella stessa stanza,
oltre che dalle frecciatine che si lanciavano le sole volte che si
rivolgevano l'uno all'altro. Alle domande della giovane, Aran aveva
risposto che, poco prima del ballo, avevano avuto una discussione
piuttosto pesante; anche se non aveva voluto dirle quale ne fosse stato
l'oggetto, sospettava riguardasse anche lei.
Oltre agli studi, poi, i due giovani trascorrevano ore ed ore in
Biblioteca; era il luogo più tranquillo del palazzo, dove
potevano parlare di ogni cosa passasse loro per la testa senza timore.
Curiosi di scoprire dove fossero andate a finire le mappe degli altri
Regni, avevano iniziato a esplorare sezioni della grande torre oscure
perfino ad Aran. Era uno strano passatempo, ma rispolverare scritti che
nessuno leggeva da tempo li portava ad avere sempre nuovi argomenti di
discussione.
Eppure, nonostante la relativa calma, le sue visioni avevano ripreso a
presentarsi durante la notte. Striscianti e avvolte in quella solita
aura di terrore, la costringevano a svegliarsi con le lacrime agli
occhi e la fronte imperlata di sudore, circondata dal buio totale.
Quando accadeva richiudeva gli occhi solo per sentire la voce dello
Spirito Guida ripeterle la stessa identica cosa che le aveva detto dopo
la visita alla tomba di suo padre: Presto arriverrà il
momento in cui dovrai scegliere. Era semplicemente un altro enigma fra
tutti quelli che avevano costellato la sua esistenza.
Anche Aran pareva stranamente stanco, ma Freya decise di non fare
domande quando intuì che il ragazzo non se la sentiva ancora
di parlarne. La fiducia fra di loro, sempre più profonda,
era indiscutibile; per quella ragione la giovane capiva che ci
sarebbero sempre state cose che avrebbero richiesto più di
tempo per essere rivelate, o che forse Aran non le avrebbe detto mai.
Non l'avrebbe mai giudicato per questo, tanto più che la
questione valeva per ambo le parti.
Molte volte Freya aveva pensato di cercare sollievo raccontando ad Aran
delle visioni che la tormentavano, di quella voce che le parlava da
sempre nel sonno. Le parole che si erano scambiati quella sera dopo il
ballo la incoraggiavano a farlo, così come quel legame che
andava rafforzandosi giorno dopo giorno. Sapeva però che
parlare di quello che la perseguitava l'avrebbe costretta a confessare
che nelle sue vene scorreva quel potere misterioso con cui lei lottava
da tutta la vita; temeva che Aran ne sarebbe rimasto terrorizzato. Per
quella ragione, alla fine, non aveva fatto altro che rimuginarci nei
momenti di solitudine, nascosta nella propria camera o in qualche
anfratto del giardino.
Fu in una notte di pioggia scrosciante che il cambiamento che Freya
percepiva in arrivo si abbatté su di loro.
Fino a quel momento, per la prima volta dopo molto tempo, il sonno
della giovane era stato stranamente tranquillo e privo di sogni; forse,
era stato l'allenamento di quel pomeriggio, protrattosi
più a lungo del solito fino a quando aveva cominciato a
piovere a catinelle e un vento gelido e tagliente aveva iniziato a
graffiar loro la pelle. Quella sera era crollata sfinita nel suo letto,
senza nemmeno cenare.
All'improvviso, qualcosa che non aveva mai visto prima di allora le
esplose dietro le palpebre. Non avrebbe saputo dire se si trattasse di
una nuova visione o semplicemente di un incubo, ma vi rimase
intrappolata, senza alcuna possibilità di scampo.
Era sola, nel mezzo di
una piana avvolta di foschia, e intorno a lei c'era solo morte.
Un'onda nera stava
lentamente travolgendo ogni cosa, uccidendo ogni essere vivente al suo
passaggio. Membri delle razze più disparate stavano perdendo
la vita in quella mattanza: elfi, protetti da armature lucide e incise
di runíar; centauri, imponenti e ritti sulle zampe
posteriori; adamantini, armati delle loro lance dalle lunghe lame;
perfino eteree, la cui pelle diafana riluceva nell'oscurità.
Sembrava di essere in un altro mondo, un mondo in cui il cielo non
esisteva più e ogni speranza era scomparsa.
Le urla le riempirono le
orecchie, atroci, angoscianti, e anche lei gridò, alzando le
mani di fronte a sé come se quel semplice gesto potesse
fermare quella marea mortale. Si ritrovò a pregare
perché il potere che fino a quel momento aveva soffocato si
manifestasse, come se sapesse che grazie ad esso ci sarebbe riuscita.
Ma nulla scaturì dalle sue mani, che rimasero inerti,
lasciandola impotente di fronte al massacro. Un dolore sordo le
ghermì l'anima, mentre le lacrime le inondavano le guance,
salate e amare, come la consapevolezza di aver fallito.
Il mare nero avanzava
inesorabile verso di lei e quando arrivò a lambirle i piedi
un bruciore lancinante le mozzò il fiato. Gridò
ancora, mentre la marea saliva e inghiottiva pian piano ogni pollice di
lei. Profonde ferite iniziarono ad aprirsi sulla sua pelle indifesa,
tagli slabbrati e sanguinanti che ben presto vennero invasi dal liquido
misterioso, e il dolore fu tale che credette sarebbe morta
così, prima che la sostanza arrivasse a soffocarla.
Eppure, non accadde.
Sentì ogni piccola parte di sé che veniva
bruciata e lacerata, fino all'ultimo istante, quando infine venne
sommersa. Il buio l'avvolse, terrificante e ineluttabile, ma nemmeno
allora il dolore cessò. Continuò a consumarla,
straziante, mentre una voce incorporea sussurrava: "Salvali... Tu puoi.
Salvali".
La ragazza balzò a sedere, tenendosi il corpo fra le
braccia. "Era un sogno, solo un sogno" cercò di ripetersi
più e più volte, ma non servì a nulla.
Quel dolore, per qualche assurda e inspiegabile ragione, non se n'era
andato con il risveglio, anzi: perdurava, mozzandole il fiato in
rantoli affaticati. Era come se quella disgustosa poltiglia nera la
stesse ancora facendo a brandelli; come se la sua stessa anima stesse
per lacerarsi irreparabilmente da un momento all'altro.
Si guardò attorno, spaventata, il cuore che picchiava contro
la cassa toracica. La sua mente era troppo annebbiata per permetterle
di capire cosa stesse accadendo. Molte volte il dolore dei suoi incubi
ricorrenti le era sembrato tanto reale da farle male, ma mai quanto
quella notte. Si alzò e la testà le
girò con tanta violenza che barcollò e dovette
appoggiarsi al letto per un lungo momento; solo quando credette di
potercela fare si mosse. Si diresse alla finestra, al cui vetro si
appoggiò con entrambe le mani e la fronte, ansante, alla
disperata ricerca di un pò di sollievo. Guardò
fuori, quasi credesse di ritrovare nella realtà lo stesso
scenario macabro dell'incubo, ma l'unica cosa ad avere vita
oltre il vetro era la tempesta che danzava nel vento.
Proprio in quell'istante, una nuova scarica di dolore la trafisse e le
ginocchia le cedettero di schianto. Nemmeno si accorse dell'impatto con
il suolo: restò lì, a terra, dondolandosi come
una bambina e mordendosi la lingua per impedirsi di urlare, riuscendo
solo a pregare con tutte le proprie forze che finisse presto. Per un
tempo indefinito non potè far altro che quello. Poi,
lentamente, il dolore scemò e Freya riacquistò
lucidità. Non poteva restare chiusa lì dentro, si
disse. Sarebbe impazzita. Doveva camminare, allontanarsi da quella
stanza, impedirsi di ricadere fra le braccia del sonno. Se l'avesse
fatto, forse lo Spirito Guida sarebbe arrivato ad alleviare la sua
sofferenza, ma la paura che l'incubo si ripresentasse non appena lei
avesse chiuso gli occhi fu più forte.
Si recò al baule e vi frugò dentro
finché non trovò uno dei mantelli più
comodi che possedesse. Lo indossò in fretta, sopra la veste
bianca che utilizzava per dormire, e senza sapere bene dove sarebbe
andata prese la porta e uscì. Voleva solo mettere quanta
più distanza possibile fra sé e quei sogni
tremendi che continuavano a perseguitarla.
֍ ֍ ֍
Tremava. Tremava tanto violentemente che gli sembrava di non avere
più alcun controllo sui propri muscoli. Aran
imprecò con tanta veemenza che, in altre condizioni, si
sarebbe spaventato di sé stesso. Non gli capitava mai di
utilizzare certi termini, ma non gli era mai nemmeno successo quello
che stava vivendo in quel momento.
Fece qualche altro passo lungo il corridoio, poi fu costretto ad
appoggiarsi con tutto il proprio peso contro il muro di pietra gelida,
stremato dal dolore che l'aveva aggredito al suo risveglio. Le gambe
stavano per cedergli, di nuovo. Chiuse gli occhi e in un attimo, le
immagini e la paura di quello che aveva visto durante il sonno
tornarono ad attanagliarlo.
Era abituato agl'incubi, erano stati una costante della sua infanzia e
non lo avevano mai abbandonato nemmeno quand'era cresciuto. Eppure,
questo era qualcosa di diverso, qualcosa di terrificante e
inspiegabile, che l'aveva lasciato paralizzato e inerme. Strinse i
pugni, come se quel semplice gesto potesse bastare a ridargli forza,
poi si scostò dal muro e procedette in direzione della sua
meta. La Biblioteca gli era sembrato il luogo ideale in cui rifugiarsi
e aspettare che la notte passasse; non aveva la minima intenzione di
riaddormentarsi e avere un libro fra le mani l'avrebbe certamente
aiutato.
Vi giunse con non poca fatica. Era frustrante sentirsi tanto debole, ma
avrebbe certamente avuto tutto il tempo per autocomiserarsi l'indomani
mattina; adesso doveva solo pensare a calmarsi. Sarebbe potuto restare
al piano terra, data la poca fiducia che aveva nelle proprie gambe in
quel momento. Ma lì, in quello spazio aperto disseminato di
tavoli, panche e scaffali, in qualche modo non si sentiva al sicuro.
Stava diventando paranoico, si disse. Senza curarsi della propria
stanchezza, iniziò a salire.
Non sapeva bene dove si sarebbe fermato, almeno fino a che non
arrivò nel posto che era diventato suo e di Freya. Era
lì che ogni giorno si fermavano a leggere e commentare i
libri che trovavano mentre cercavano le mappe scomparse. Si
avvicinò alla panca che erano soliti occupare durante quelle
ore e rimase estremamente sorpreso nell'intravedere una figura
familiare, accovacciata appena dietro di essa: Freya era lì,
seduta a terra a gambe incrociate, con un grande libro di botanica
appoggiato su di esse come fossero un leggìo.
Non appena colse il rumore dei suoi passi alzò lo sguardo,
spaventata, ma sembrò rilassarsi non appena comprese che era
lui. In un istante tutta la paura che Aran aveva avuto di quell'incubo
si tramutò in preoccupazione: la giovane non sembrava stare
meglio di lui. Era ancor più pallida del solito, cosa che
non faceva altro che accentuare le profonde occhiaie violacee che aveva
sotto agli occhi e i suoi capelli erano sciolti e scarmigliati; tremava
leggermente, proprio come lui. Non l'aveva mai vista in quello stato.
Com'era prevedibile che facesse, Freya si alzò e
cercò di ricomporsi. Posò il volume sulla panca e
gli si avvicinò, ostentando più sicurezza di
quanta dovesse averne. «Aran» mormorò,
l'aria di essere preoccupata quanto lui lo era per lei. «Cosa
ci fai qui?»
Il ragazzo raggiunse lo scaffale più vicino e prese un libro
a caso, che risultò essere Fauna terrestre e marina del
Regno di Riagàn. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di
dirle la verità. Se l'avesse fatto, avrebbe inevitabilmente
dovuto rivelarle il suo più grande segreto. Si fidava di
lei, immensamente, ma era qualcosa di cui aveva timore perfino lui; non
sapeva come Freya avrebbe potuto reagire.
«Non riuscivo a dormire» rispose infine, cercando
di risultare convincente. «Tu?»
Freya non sembrò persuasa, però rispose a propria
volta: «Stessa cosa.»
Entrambi sapevano che l'altro stava mentendo, ma si limitarono a
sedersi vicini nel cantuccio che un attimo prima era stato solo di
Freya e a cominciare a leggere in perfetto silenzio.
֍ ֎ ֍
Per lungo tempo, nessuno dei due trovò il coraggio di
parlare. La quiete della Biblioteca li avvolgeva come una coperta e ora
che erano lì, insieme, la paura sembrava solo un ricordo
lontano.
Completamente immersi nei loro pensieri, più che nella
lettura, quasi non si accorsero di essersi avvicinati al punto di
essersi infine appoggiati l'uno all'altra, come se fosse la cosa
più naturale del mondo. A poco a poco, avevano anche smesso
di tremare. Si accorsero di quanto fossero vicini solo quando
entrambi alzarono lo sguardo e trovarono gli occhi dell'altro ad appena
una spanna di distanza dai propri. Per un attimo rimasero
così, immobili, senza riuscire a dire o fare nulla;
quell'unica occhiata bastò a cancellare ogni dubbio.
«Freya, io...»
«Aran...»
Non poterono trattenersi dal ridere quando, dopo quel lungo silenzio,
le parole uscirono loro di bocca nello stesso preciso istante.
Freya alzò il capo verso la sommità della torre e
si lasciò sfuggire un sospiro, prima di riportare la propria
attenzione su di lui. Non poteva più nascondere la
verità, almeno non ad Aran; non dopo ciò che era
accaduto quella notte.
Aran, dal canto suo, sembrava avere qualcosa di altrettanto importante
da dire, ma decise di lasciar la parola a lei.
«Prima tu» disse, fissandola attentamente.
Freya scosse il capo. «In queste settimane hai sopportato
tutte le mie ansie e le mie paranoie, mi hai sempre ascoltata. Adesso
tocca a me fare lo stesso per te» rispose, ruotando
leggermente il busto verso di lui per guardarlo meglio.
Il ragazzo esitò ancora per un istante. Non aveva mai
rivelato ad anima viva quello che stava per dire a Freya.
Più la guardava, però, e meno paura di dar voce a
quel suo strano segreto sentiva. Così, iniziò a
parlare, senza più remore. «Ti capita mai di fare
incubi terribili?» le domandò.
Freya annuì, lasciandosi sfuggire un sorriso triste.
«Sì, mi capita. Molto più spesso di
quanto vorrei» rispose e il suo sguardo si perse in
lontananza, uno sguardo che ad Aran parve pieno di cose mai dette.
«I miei incubi mi accompagnano da tutta la vita. Sono
lì, in qualche angolo della mia mente, pronti ad aggredirmi
non appena chiudo gli occhi, da che ho memoria»
proseguì, appoggiando la testa allo scaffale che aveva alle
spalle.
Non poteva ancora immaginare quanto Freya comprendesse il suo tormento,
ma già il fatto di aver finalmente deciso di confessare lo
stava alleggerendo di un peso enorme. Le parole gli salirono alle
labbra come un fiume in piena impossibile da arginare; le
lasciò uscire senza timore, sapendo che la persona che aveva
di fronte in quel momento era l'unica a cui avrebbe mai potuto
affidarle. Lo sapeva perché Freya lo osservava con quei suoi
occhi chiari e attenti e in essi non v'era alcuna traccia di giudizio;
lo sapeva perché quello che le aveva detto la sera del ballo
su ciò che li legava era quanto di più sincero
avesse mai pensato.
«Conosco molto bene gl'incubi e la paura che ne deriva, ma
quello che è successo questa notte non ha nulla a che vedere
con quello a cui sono oramai abituato» disse.
«È stato... Straziante.»
Il ricordo di quello che aveva provato ritornò ad invaderlo
con prepotenza, mozzandogli il fiato in gola con tanta violenza che
dovette raddrizzare la schiena per poter continuare a respirare. Si
stava comportando in modo del tutto irrazionale, lo sapeva bene, ma
ciò che era accaduto era talmente inspiegabile che non aveva
più alcun controllo sulle proprie reazioni.
«Non avevo mai fatto un incubo tanto vivido, Freya. Non posso
biasimarti se penserai che io sia un folle, perché anch'io
ho il serio dubbio di star impazzendo. Ma non mento quando ti dico che
il dolore che ho provato era terribilmente reale. Ho lottato con tutte
le mie forze per svegliarmi e quando ci sono riuscito non è
cambiato nulla: era ancora lì» mormorò,
assorto.
Freya non poté fare a meno di sgranare gli occhi. Il
racconto di Aran iniziava ad assomigliare fin troppo a quello che
avrebbe potuto uscire di bocca a lei. Aspettò ancora un
attimo prima di parlare, ma oramai credeva di sapere come sarebbe
proseguita la storia. I suoi timori vennero confermati poco dopo.
Aran si voltò interamente verso di lei per poterla guardare
bene in viso e disse: «Quello che ho visto non aveva alcun
senso. Ero nel mezzo di questa... piana, vasta, sconfinata. Intorno a
me c'era una foschia spessa e inquietante e udivo solo grida
raccapriccianti. Centinaia e centinaia di persone stavano morendo
soffocate da questa agghiacciante marea nera e...» la voce
gli morì in gola.
Fu Freya a continuare per lui. «E per quanto tu lo volessi
non potevi fare nulla per salvarle. La marea nera saliva e saliva,
inghiottiva ogni cosa... E quando è arrivata fino a te e ti
ha sommerso hai sentito il dolore più lancinante che tu
abbia mai provato in vita tua» sussurrò, mentre un
brivido le correva rapido lungo la schiena. «È
stato come se la tua pelle si stesse squarciando e allo stesso tempo
sciogliendo sulle tue stesse ossa.»
Aran impallidì, sconcertato. «Come... Come fai a
sapere tutto questo?» le chiese.
La giovane, altrettanto sconvolta, rispose semplicemente:
«Perché ho sognato esattamente la stessa
cosa.»
Il silenzio calò su di loro, carico di mille domande
inespresse. Se per i due ragazzi l'incubo era già stato
abbastanza inquietante di per sé, adesso la faccenda si
faceva ancora più torbida. Com'era possibile che due persone
ben distinte sognassero esattamente la stessa cosa nello stesso
identico momento?
Non appena riuscì nuovamente a ragionare con sufficiente
lucidità, Aran le domandò ancora: «Hai
visto e provato esattamente ciò che ho visto e provato
io?»
Freya, riscuotendosi a propria volta, annuì, decisa.
«Tutto ciò che hai descritto avrei potuto
tranquillamente descriverlo anch'io. La piana, la marea nera, le
persone che morivano a centinaia... Il dolore. Mi sono
svegliata di soprassalto e stavo male fisicamente, come
se tutto fosse accaduto nella realtà e non solo nella mia
testa» ribatté. «Per questo sono corsa
fin qui.»
«Avevi paura di riaddormentarti» asserì
Aran.
Di nuovo, Freya annuì. Ancora più del solito si
sentiva perfettamente compresa da lui, cosa che riuscì
almeno in parte a placare la sua inquietudine. Era più che
evidente che, in quel momento, capire cosa fosse successo andasse al di
là delle loro facoltà. Quella prima condivisione
diede però loro la spinta per tirare fuori i segreti che
pian piano li stavano consumando e che, fino a quel momento, era
sembrato impossibile poter confidare a qualcuno.
Freya posò una mano sul ginocchio di Aran e disse, tentando
di sorridere: «Se ti può consolare, io so cosa
significhi essere perseguitati da incubi incomprensibili. Certo, questo
è stato di gran lunga il peggiore, ma non il più
misterioso.»
Questa volta fu Aran a mettersi all'ascolto.
«C'è questo sogno, anche se non so se si possa
definirlo tale, che mi appare fin da quando sono piccola e non sono mai
riuscita a decifrare» esordì la giovane. E poi, lo
fece: raccontò ad Aran del pilastro, di come in certi
periodi della sua vita quella visione si presentasse identica a
sé stessa per molte notti di seguito.
Gli occhi del ragazzo la seguirono per tutto il tempo, attenti ma senza
alcuna traccia dello spavento che Freya si sarebbe immaginata. Insomma,
stava pur sempre parlando di strane figure incappucciate che
l'attaccavano con la magia. La sua reazione, quando Freya ebbe
terminato, fu altrettanto inaspettata.
L'espressione di Aran si fece pensosa, mentre si alzava in piedi
dandole le spalle. Il libro che aveva scelto dallo scaffale, fino a
quel momento rimasto abbandonato sulle sue gambe, cadde a terra con un
tonfo che rimbombò per tutta la grande torre; fece poi
qualche passo in avanti, prima di tornare a voltarsi verso di lei.
«Allora quello di stanotte non è l'unico incubo
che abbiamo in comune» disse infine.
Come poco prima era stato per Aran, Freya non fece nulla per nascondere
lo stupore. In due rapide falcate gli fu davanti e gli
domandò: «Stai dicendo quello che penso?»
Aran le rivolse un sorriso incredulo.
«Sì» rispose. «Tutto
ciò che hai descritto, all'infuori della figura misteriosa,
è quello che vedo nei miei sogni, Freya. Ogni cosa, dal
pilastro, alla landa desolata che appare poi, a quell'energia
misteriosa che ti ferisce. Lo vedo in quasi tutti i miei
sogni.» Quasi fosse un riflesso incondizionato la prese per
le mani, avvicinandosi leggermente a lei.
Freya glielo lasciò fare, senza staccare mai lo sguardo dal
suo viso. «Com'è possibile?» gli
domandò infine. «Fino a qualche mese fa vivevamo a
miglia e miglia di distanza l'uno dall'altra, le nostre vite non si
erano mai incrociate. Com'è possibile che per tutto questo
tempo io e te abbiamo visto esattamente la stessa cosa?»
«Non ne ho la minima idea» ribatté lui.
Rimasero così, occhi negli occhi, uno di fronte all'altra.
In quell'istante in cui il tempo pareva essersi fermato si resero conto
che, arrivati a quel punto, la scelta migliore era senza dubbio la
totale trasparenza. Erano finalmente decisi a lasciare che l'altro
vedesse fino in fondo quel lato di loro stessi che avevano cercato con
tutte le forze di tenere nascosto, ma non ebbero il tempo di
aggiungere nient'altro. La loro conversazione fu improvvisamente
interrotta da una voce gelida e ben conosciuta.
«Ah, quale magnifica sensazione essere giovani e al di sopra
di qualunque regola.»
I due ragazzi si voltarono di scatto in direzione della scala.
Lì, avvolto nei suoi consueti abiti scuri, c'era Gorman.
Aveva le mani intrecciate dietro la schiena e un'espressione tutt'altro
che accondiscendente in viso. Nulla di cui stupirsi dato che avevano
chiaramente infranto il divieto di gironzolare per il castello nelle
ore notturne.
«Sareste così gentili da spiegare il motivo della
vostra presenza qui?» intimò l'uomo, sempre
più irritato.
Per un istante Aran e Freya ammutolirono, senza sapere bene come
tirarsi fuori da quella situazione scomoda. Poi, con sorpresa di
entrambi, fu la giovane a prendere la parola. «Ci dispiace
immensamente per aver infranto il coprifuoco, Signor
Consigliere» esordì con estrema educazione.
«Entrambi faticavamo a prendere sonno e ci siamo ritrovati
casualmente qui. Abbiamo pensato che potesse essere utile portarci
avanti con alcune letture inerenti ai nostri studi.»
Gorman parve preso alla sprovvista dalla calma con cui Freya stava
rispondendo, anche se non sembrò del tutto persuaso della
sua sincerità. Assottigliò gli occhi, come per
leggerle in viso la traccia di una qualche menzogna, ma lei rimase
impassibile nonostante la sgradevole sensazione che le suscitava
quell'uomo. Il suo sguardo si posò infine sui libri sparsi
lì accanto; fu alla vista di questi ultimi che parve
convincersi.
«Bene. Non crediate però che la vostra uscita di
questa notte non verrà riferita alla Regina. Ci saranno
delle conseguenze» asserì, forse credendo a quella
spiegazione, ma non abbandonando la sua inflessibilità.
Freya s'inchinò leggermente, ribattendo:
«Comprendiamo perfettamente.»
Gorman la fissò per un attimo, indagatore. I due ragazzi
ebbero la netta sensazione che, da quel momento in poi, li avrebbe
tenuti d'occhio con ancor più attenzione.
«Ora tornate alle vostre stanze, alla svelta. Se domattina
non sarete più che pronti ad assolvere i vostri compiti
quotidiani la vostra posizione si aggraverà
ulteriormente» ordinò, perentorio. Poi, si
voltò e iniziò a scendere la scalinata, lasciando
loro intendere perfettamente che non avevano nessun'altra scelta se non
fare come lui aveva detto.
Aran e Freya si scambiarono uno sguardo d'intesa, accompagnato da un
sospiro di sollievo. L'importanza di quello che si erano confessati e
dovevano ancora confessarsi aleggiava fra di loro, lo sentivano
chiaramente. Per il momento, però, era fuori discussione
riprendere la loro conversazione. Senza una parola, seguirono Gorman
lungo la scala.
Avrebbero dovuto attendere un luogo e un momento più adatti.
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Capitolo 17 *** CAPITOLO 16 - Confessioni, parte seconda: Voci e misteri ***
CAPITOLO
16
- CONFESSIONI, PARTE
SECONDA: VOCI E MISTERI -
Il
bosco, quel giorno, era immerso in una piacevole e confortante
tranquillità. Nella radura, all'ombra dei sempreverdi,
faceva freddo.
Aran si guardava intorno, gli occhi pieni di stupore e il fiato che si
condensava in spesse nuvolette. Non avrebbe mai potuto immaginare che
un luogo tanto bello si nascondesse ad appena un palmo dal suo naso.
Freya, un sorriso spontaneo sulle labbra, osservava la sua espressione
rapita. Era la prima volta che si recavano al suo piccolo rifugio nel
verde insieme. In quel meraviglioso silenzio, si presero entrambi un
attimo per assaporare quel poco di libertà che finalmente
era stata loro concessa.
«Vieni sempre qui, quando scappi dal castello?»
domandò a un certo momento lui, rivolgendole la propria
attenzione.
La giovane sorrise. «Dire che scappo forse è
esagerato. Vengo qui soprattutto per alleviare un pò la
nostalgia di casa e allenarmi al tiro» rispose, lasciandosi
cadere sul morbido tappeto di muschio che si allargava sul terreno. Era
un enorme sollievo poterlo fare di nuovo; la mancanza di un orrizzonte
che non fosse spezzato dalle spesse mura del castello era stata quasi
insostenibile per lei.
Fu il turno di Aran di restare a guardarla. Non era abituato a tutto
quel verde tanto quanto lei, né a potersi lasciare andare in
quella maniera. Freya se ne stava lì a occhi chiusi, come se
in qualche modo dovesse recuperare una connessione con la terra stessa
che in quei lunghi giorni aveva perso. Per lei sembrava tutto
estremamente naturale. Forse, si disse, doveva solo provare e lo
sarebbe diventato anche per lui.
Dapprima, semplicemente si sedette. Si guardò ancora
attorno, osservando come il cielo non accennasse ad aprirsi;
giocherellò con un rametto sottile che i suoi stivali
avevano malamente calpestato; respirò l'odore poco familiare
del sottobosco.
Poi, Freya parlò: «Aran, puoi farlo. Nessuno ti
giudicherà, qui» disse.
Quelle semplici parole sciolsero del tutto la sua rigidità
autoimposta. Il ragazzo si lasciò andare all'indietro e in
breve fu accanto a lei. Ci fu ancora un lungo momento di silenzio. Aran
lasciò vagare la mente, cercando di non pensare a nulla in
particolare. I suoi occhi virarono però inesorabilmente
verso Freya e presto si ritrovò a focalizzarsi su di lei:
teneva ancora le palpebre abbassate e respirava lentamente, come se per
molto tempo non l'avesse fatto veramente. Non poteva vederlo, ma
sembrò avvertire il suo sguardo su di sé; dopo
pochi istanti, si voltò verso di lui e gli rivolse un
sorriso.
«Ti senti meglio?» le domandò, ben
sapendo quanto quella reclusione fosse stata difficile da scontare per
lei.
«Sì. Adesso sì» rispose
Freya. Allargò le braccia sul terreno e prese un altro
profondo respiro. Era bello vederla sorridere di nuovo.
Avevano entrambi accettato la punizione che Mirea aveva loro imposto
senza nessuna lamentela, ma la giovane ne aveva certamente sofferto di
più. Era stata la Regina in persona a convocarli, la mattina
seguente la loro passeggiata notturna, e a esporre loro quali sarebbero
state le nuove regole che avrebbero dovuto seguire: ogni mattina
avrebbero frequentato la lezione del maestro Athal, in Biblioteca, a
cui non avrebbero avuto accesso per nessun'altra ragione; poi,
avrebbero consumato il pasto in solitudine, ognuno nelle proprie
stanze; infine, si sarebbero recati al consueto addestramento, che
sarebbe stato prolungato, per poi tornare alle loro camere. Inoltre,
ogni permesso di lasciare il perimetro del castello era stato loro
revocato.
Mirea non aveva mancato poi di osservare come un simile comportamento
non si addicesse a due giovani adulti e che, nonostante la violazione
non fosse stata grave, dovevano pagare le conseguenze delle loro
azioni. Dovevano capire che non si sarebbero mai più dovuti
permettere una tale mancanza di rispetto delle regole. Ad Aran era
sembrato di essere tornato un bimbo di dieci anni sorpreso con le mani
nel sacco, ma si era morso la lingua ed era rimasto zitto
finché sua madre non li aveva congedati.
Da quel momento in poi, non c'era stato più tempo per
nient'altro che non fossero i loro studi e gli addestramenti. Per i
primi giorni i due ragazzi avevano resistito piuttosto bene; in fondo,
erano abituati a faticare per ottenere dei risultati. Arrivati al
decimo giorno, però, la stanchezza aveva iniziato a farsi
sentire ed era stato sempre più difficile mantenere quel
ritmo serrato. Tirarsi su dal letto la mattina era diventata un'impresa
enorme e per quante ore potessero dormire, non riuscivano mai a
recuperare del tutto. Perfino Freya, più che avvezza alle
levatacce e a lavorare sodo, la sera doveva lottare per non
addormentarsi sul piatto.
Poi, quel giorno, che segnava la fine della seconda settimana, Gorman
si era presentato a loro mentre lasciavano la Biblioteca. Aveva la
stessa espressione di qualcuno a cui è stata tolta la sua
fonte di divertimento preferita; era bastato quel dettaglio per far
capire ai due ragazzi che la Regina aveva deciso che fosse sufficiente.
Con immenso sollievo, finalmente avevano potuto mangiare insieme nelle
cucine, prima di recarsi alle scuderie. Avevano anche incrociato
Darragh, il quale era parso piuttosto contrariato dalla loro rinnovata
libertà; sembrava che ogni cosa che li riguardasse gli desse
in qualche modo ai nervi. Con il suo sguardo sulle spalle avevano
lasciato il castello e Freya aveva fatto strada fino alla piccola
radura, dove finalmente stavano recuperando un pò di fiato.
«Qual'è il tuo rifugio sicuro, Aran?»
gli chiese Freya a un certo punto, tornando a guardarlo.
Questa volta fu lui a sorridere. «A dire il vero non ho un
luogo preciso in cui rifugiarmi» spiegò, portando
le braccia dietro il capo per stare più comodo.
«Quando voglio un attimo di respiro dalla corte solitamente
mi reco in città. È così bello girare
per le vie, soprattutto nei giorni di mercato. Nessuno fa caso a me in
mezzo a quella calca.»
«Non riesco nemmeno a immaginare come possa essere un
mercato» mormorò Freya, assorta.
«Nonostante l'idea della folla, mi piacerebbe vederne uno.
C'è così tanto di questa vita che devo ancora
conoscere.»
Aran le sorrise nuovamente. «Ora che abbiamo di nuovo un
pò di libertà di movimento ti ci
porterò. Il più presto possibile»
promise.
Per un lunghissimo attimo nessuno dei due parlò
più. Entrambi sentivano crescere il desiderio di affidare
all'altro i pezzi mancanti delle rispettive vite, ma ora che erano
lì volevano prima godersi un pò di quella tanto
agognata pace. Non c'era alcuna fretta: sapevano che l'altro avrebbe
saputo ascoltare in qualunque momento avessero deciso di confidarsi;
sapevano che potevano permettersi di essere spontanei l'uno con
l'altra, senza pressioni, senza timori.
«Non credevo che sarebbe mai stato possibile.» Fu
Aran a rompere improvvisamente il silenzio creatosi, in un sussurro che
solo Freya avrebbe potuto sentire.
Senza alzare la schiena dal tappeto di muschio, la giovane
voltò il capo e lo guardò. Il Principe teneva
ancora lo sguardo fisso sulle fronde che ombreggiavano la radura,
assorto nella contemplazione di quella vista a lui così
nuova, ma allo stesso tempo immerso nelle parole che stava pronunciando.
«Trovare qualcuno che avrebbe capito quello che io ho provato
per tutta la mia esistenza» spiegò poi, posando
infine gli occhi in quelli di lei.
«Nemmeno io» rispose semplicemente Freya in un
sorriso. «Eppure, sei qui.»
Ci fu dell'altro silenzio, ma durò molto meno del
precedente. Gli sguardi dei due ragazzi non avevano ancora deviato
l'uno dall'altro quando Aran proseguì: «Prima di
quella sera in Biblioteca avevo paura» ammise.
«Temevo che se ti avessi parlato dell'incubo e di tutto
quello che c'era stato prima, avresti scoperto una parte di me che ti
avrebbe spaventata. Che avresti provato per me lo stesso terrore che
provo io.»
Freya si voltò su un fianco, prima di rispondere:
«Anche io avrei voluto avere più coraggio, Aran.
Sono rimasta in silenzio a sopportare incubi e visioni per le tue
stesse ragioni; perché temevo che, fra le cose che ti ho
detto e quelle che ti devo ancora dire, ci sarebbe stato qualcosa che
ti avrebbe allontanato da me.»
Aran si girò a propria volta per poterla guardare meglio in
viso. S'immobilizzò, poi prese coraggio e allungò
una mano verso il viso della ragazza. Le lasciò una delicata
carezza, che dipinse sul volto di lei un velo di stupore; era il suo
modo per farle capire che non sarebbe andato da nessuna parte.
«L'altra sera, scoprire di quel sogno terribile è
stato un caso» aggiunse la giovane quando il nodo che le si
era formato in gola si sciolse. «D'ora in poi per me
sarà una scelta. Io voglio essere sincera con te.»
«E io lo sarò con te, Freya»
ribatté il giovane, determinato come non lo era mai stato.
Non era necessario che tutti i misteri del loro passato emergessero in
quel pomeriggio senza sole, ma quello sarebbe stato il vero punto di
partenza. Da quel momento in poi accettavano di farsi custodi di tutto
ciò che l'altro era. Sapevano entrambi quale
responsabilità fosse, ma sapevano anche che nessun altro al
mondo avrebbe potuto farsene carico.
Aran si alzò, mettendosi a sedere. Le sue successive parole
furono sommesse, ma non più per il timore; finalmente la sua
anima era abitata da una pace mai provata prima e non sentiva il
bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. «Prima che
venissimo interrotti, ti ho parlato di come le mie notti siano sempre
state costellate di incubi» disse.
Freya si mise all'ascolto. Non le dispiaceva che avesse iniziato lui;
poter tornare a parlare liberamente e ad ascoltarlo era più
bello di quanto Aran potesse immaginare.
«Le immagini del pilastro sono arrivate con il tempo;
gl'incubi, invece, ci sono sempre stati» continuò.
«Dovrei averci fatto l'abitudine, ma ancora adesso, quando mi
svegliano, impiego diverso tempo a riaddormentarmi. E nell'istante in
cui ci riesco...» Aran prese un profondo respiro, fermandosi
brevemente. «Sento molto chiaramente una voce che mi parla
nel sonno.»
La giovane sgranò gli occhi, per poi assumere un'espressione
agli occhi di lui indecifrabile e tirarsi su bruscamente.
Solo a quel punto la voce di Aran tremò leggermente.
«È una voce femminile, calda e melodiosa.
Rassicurante. La sento da che ho memoria e, soprattutto, quando ho dei
momenti di sconforto.» Si zittì ancora un attimo
per capire come avesse potuto prenderla Freya, ma dal viso di lei non
trapelava nulla. Di nuovo si ritrovò a parlare, come se
facendo altrimenti rischiasse di soffocare. «Non sempre
riesco a capire cosa cerca di dirmi. Ci sono volte in cui le sue frasi
sembrano veri e propri indovinelli e non riesco proprio a coglierne il
significato. Eppure, in qualche modo, è sempre stata in
grado di calmarmi. È come se mi guidasse verso la
pace» disse, ben consapevole di quanto una cosa simile
potesse suonare folle.
Esattamente come quella notte in Biblioteca, per un istante il tempo
parve fermarsi. Poi, inaspettatamente, Freya sorrise: era un
sorriso incredulo, pieno di un tale stupore che Aran capì
ancora prima che lei si spiegasse.
«La senti anche tu?» le domandò.
La ragazza annuì. Era come riprendere la loro confessione
dal punto esatto in cui si era interrotta; come se tutti quei giorni
non fossero mai trascorsi. «Emerge dal buio della mia mente
quando chiudo gli occhi. Mia madre la chiamava Spirito Guida e diceva
che mi avrebbe indicato sempre la strada giusta»
confermò infine. «Quando le cose nella mia vita si
sono fatte complicate, alle volte insostenibili, quella voce mi ha
spinta ad andare avanti.»
Aran non sapeva davvero cosa dire. Ritrovare in lei tutto
ciò che aveva sempre considerato quasi innaturale in
sé stesso era quanto di più bello e assurdo gli
fosse mai successo.
Freya, nel frattempo, si era fatta pensosa. «La sola
differenza, è che quella che sento io è maschile,
profonda. Sembra venire da un mondo lontano» aggiunse.
Nonostante il disorientamento, insieme cercarono di capirci qualcosa.
Trascorsero gli istanti successivi a riportare alla memoria i momenti
della loro vita durante i quali le voci si erano fatte sentire
più assiduamente; a ricordare almeno in parte cosa avessero
sussurrato. L'unico dettaglio evidente fu senza dubbio il fatto che
sembrasse sapessero sempre cosa dire per impedir loro di cadere nel
baratro. Molte altre volte, semplicemente, li lasciavano con una marea
di interrogativi, esattamente come in quel momento. Rimasero ancora
più sconvolti nel constatare che, ultimamente, avevano
ripetuto a entrambi la stessa frase incomprensibile: Sta per giungere il momento in
cui dovrai scegliere. Era l'ennesimo mistero
insormontabile che si sommava a tutti quelli già presenti,
insieme alla provenienza di tali voci.
«Qualche volta, mi sono persino ritrovato a pensare che
potesse essere la voce di mia madre, della mia vera madre»
confessò Aran, divenendo malinconico. «Poi mi sono
detto che era impossibile che ne ricordassi così chiaramente
il suono.»
«Non c'è nulla di strano, anch'io ho pensato che
potesse essere quella di mio padre. Abbiamo semplicemente cercato di
dare una spiegazione razionale a quello che ci stava
accadendo» lo rassicurò Freya.
«Sì, forse è vero» rispose
lui.
Avvertendo un diffuso formicolio salirgli lungo le gambe il ragazzo
cambiò posizione. Sembrava agitato e Freya intuì
che qualcosa ancora ribolliva in lui.
«Non so veramente nulla di lei. Di loro»
mormorò poi. «Ho solo la costante sensazione che
in quei primi anni che non ricordo sia accaduto qualcosa di
terribile.»
Solo in quell'istante la giovane si rese conto che Aran stava lottando
contro le lacrime; era la prima volta che lo vedeva tanto vulnerabile.
Senza nemmeno pensarci, si fece più vicina e
coprì le sue mani con le proprie. Non avrebbe mai pensato
che il contatto con qualcuno potesse divenire tanto naturale, eppure,
allo stesso tempo, non la sorprendeva che fosse proprio con Aran a
riuscirle così semplice.
Il ragazzo fissò lo sguardo in un punto indefinito sulle
dita di lei. Non aveva il coraggio di guardarla. «L'unica
cosa che abbia mai potuto associare al luogo e alle persone che mi
hanno visto nascere è l'ennesimo incubo. Vedo una bellissima
casa bianca che viene divorata dalle fiamme e sento le urla disperate
di una donna. Nient'altro» concluse. «Non so
nemmeno se possa essere davvero un ricordo.»
Freya rammentava molto bene cosa avesse provato quando aveva pensato di
star dimenticando sua madre. Cercò di figurarsi cosa potesse
significare non avere davvero alcuna memoria di Eleana e Harden; voleva
comprendere a fondo le emozioni di Aran. Bastò la sola idea
perché una tremenda tristezza la cogliesse; le lacrime
fecero capolino anche negli occhi di lei.
Con tutta la forza che aveva, si protese verso il ragazzo e lo prese
tra le braccia, stringendolo a sé. Non le
importava che il gesto venisse ricambiato o meno: quello che voleva era
alleviare anche solo un briciolo della sofferenza che Aran si portava
dentro. Lui stette immobile solo per un istante, come se il dolore
l'avesse paralizzato. Quando tornò a muoversi, semplicemente
la strinse in egual misura, fino a sentire lo strazio scemare pian
piano.
«Penso che possa essere veramente un tuo ricordo»
mormorò infine Freya, scostandosi solo leggermente da lui.
«Io non ho mai visto nulla del genere.»
La paura attraversò il volto del giovane Principe. Gli
sovvenne la conversazione avuta con lei nei primi giorni della loro
conoscenza: Freya gli aveva garantito che, quando fosse stato il
momento, avrebbe trovato la forza di affrontare la verità.
Ne era trascorso di tempo da allora, eppure lui quel coraggio non lo
sentiva ancora.
«Sarò con te quando ti ritroverai a fronteggiare
il tuo passato» disse imrpovvisamente la giovane, sorridendo.
«Tu c'eri quando io ho affrontato il mio.»
Aran non poté far altro che stringerla nuovamente, in segno
di gratitudine. Sapeva che, in qualche modo, Freya avrebbe mantenuto la
sua promessa. Per il momento, in ogni caso, non aveva senso stare a
pensarci; davanti a loro si dipanavano centinaia di
possibilità, la cui meta si perdeva ancora nella caligine
delle tante domande senza risposta.
«Sai, per quanto sembri tutto così assurdo, non
posso fare a meno di pensare che qualcosa debba voler dire»
commentò lui, lasciando da parte i propri problemi personali.
La ragazza annuì. Aran aveva ragione. Quanto a risposte
concrete e sensate brancolavano nel buio, ma una cosa oramai era certa:
non si trattava più di una semplice metafora, erano davvero
legati da qualcosa, anche se per il momento questo qualcosa era loro
sconosciuto. Nel silenzio che seguì, interrotto solo
dall'ululare del vento che si era alzato, entrambi giunsero alla stessa
conclusione.
«Ora che sappiamo, ora che non siamo più soli...
Dobbiamo cercare di scoprire cosa significhi tutto questo» le
diede voce Freya.
Aran annuì, risoluto. Era vero: adesso non erano
più soli.
֍ ֍ ֍
Restarono per diverso tempo seduti lì, a parlare in assoluta
tranquillità, mentre il sollievo più completo
l'invadeva. Fino a quel momento Freya non si era mai resa davvero conto
di quale peso avessero avuto tutti quei segreti nella sua anima.
Fu quando calò nuovamente il silenzio, in quella nuova
consapevolezza, che la giovane realizzò: era giunto il
momento di fare il passo più difficile. Sospirò e
avvertì il proprio fiato tremare. Negli ultimi giorni aveva
pensato spesso a come parlare ad Aran dei propri poteri. Le sembrava
impossibile fargli capire a parole cosa potessero essere: nemmeno lei
lo sapeva.
Aveva provato e riprovato a mettere insieme un discorso sensato, ma
alla fine si era dovuta rassegnare: l'unico modo che aveva era
mostrarglieli. Non era certa che avrebbe funzionato: sarebbe stata la
prima volta che tentava di evocarli intenzionalmente e non sapeva dove
sarebbero potuti arrivare. In qualche modo, però,
sentì di aver sempre saputo che non avrebbe potuto ignorarli
per sempre: per quanta paura ne avesse doveva provare a capirne un
pò di più.
Quando ebbe raccolto sufficiente fiducia in sé stessa, si
fece avanti. «Prima di andare, c'è un'ultima cosa
che devo farti vedere» gli disse, scostandosi di qualche
piede da lui e mettendosi sulle ginocchia. Aran le rivolse
un'espressione interrogativa. Non l'avrebbe bisasimato se prima o poi
si fosse stancato di tutte le sue anormalità.
«Prometto che dopo questo non avrai più strane
sorprese da me», tentò di scherzare nonostante le
sue mani tremassero.
Aran sorrise, cercando di infonderle tranquillità.
«Le tue strane sorprese non mi disturbano affatto. Da quando
ci sei tu la mia vita è molto più
interessante» asserì, divertito e sincero.
Rassicurata, Freya inalò un bel respiro e chiuse gli occhi.
Affondò le mani nel muschio, di cui avvertì
l'umidità bagnarle la pelle, e si concentrò. Fu
solo allora che i dubbi tornarono a fare capolino. Se non avesse
funzionato e fosse stata costretta a spiegarsi a parole? Se Aran, non
trovando un senso in tali parole, non le avesse creduto e avesse
pensato che fosse pazza? Tutto fu spazzato via quando,
inaspettatamente, l'aria intorno a lei prese a turbinare lievemente; la
sentiva infrangersi con leggerezza sulle proprie spalle, sui capelli.
Avrebbe potuto benissimo non significare nulla, ma Freya volle comunque
interpretarlo come un segno.
Sotto gli occhi esterrefatti di Aran, aloni di luce smeraldina si
irradiarono dalle mani della ragazza, andando a colpire il terreno. Una
pianticella giovane e sottile prese a crescere in quel bagliore
mistico, arrivando presto a sfiorarle le dita; una selva di piccoli
fiori azzurri sbocciò con naturalezza dall'arbusto appena
nato. Era la prima volta in assoluto che Freya avvertiva il proprio
potere con tanta forza; forse perché si stava davvero
impegnando, lo sentiva dilagare in tutto il proprio essere. Non appena
sentì di aver terminato, la giovane riaprì gli
occhi.
Quando mise a fuoco le proprie mani, sobbalzò: nelle vene di
cui erano attraversate pulsava un'intensa luce verde. Lo sconcerto le
mozzò quasi il fiato in gola. Ancor prima di osservare cosa
avesse creato quella volta, si focalizzò su Aran: un misto
di emozioni che viravano dall'attonito al meravigliato danzava fra i
suoi lineamenti; i suoi occhi correvano dal terreno alle mani di lei,
impregnate di magia.
Nonostante tutto, non fu quello a pietrificarla sul posto: fu piuttosto
vedere che i vasi sanguigni di Aran, allo stesso modo dei suoi,
brillavano nella penombra del sottobosco. La strana luminescenza non
riguardava solo quelli delle mani, ma anche le arterie che risalivano
lungo il collo: era una luce calda, aranciata, tanto bella che Freya ne
rimase ammaliata. Non riuscì a fare nè dire
nulla, mentre lui allungava le dita verso la delicata pianticella e se
ne rendeva conto da sé. Il gesto venne sospeso a mezz'aria.
Aran si portò le mani davanti agli occhi e le
ruotò lentamente, il bagliore arancione che gli si
rifletteva nelle iridi.
«Cosa...» farfugliò, a corto di aria e
parole. Dovette deglutire un paio di volte, prima di essere in grado di
parlare nuovamente. «Che cos'è?»
domandò, tornando a guardare Freya.
La giovane scosse lentamente il capo. «Io... Io non lo
so» rispose, altrettanto confusa. Con delicatezza
afferrò la mano di Aran, pur sapendo che studiare il
fenomeno più da vicino non le sarebbe servito a nulla.
I due ragazzi fecero appena in tempo a osservare come, nel trovarsi, i
due diversi spettri luminosi si fondessero in una sola sfumatura; poi,
la luce si intensificò, avvolgendoli. Come in riposta a quel
potere sconosciuto, l'intera natura che li circondava parve vibrare:
videro i rami degli alberi tremolare e sentirono chiaramente il legno
scricchiolare, sollecitato da una pressione invisibile ai loro occhi.
Durò pochissimo, ma fu abbastanza da accrescere il loro
sbigottimento. I bagliori si spensero tanto in fretta quanto erano
arrivati, palpitando lievemente prima di scomparire; loro rimasero
lì, con null'altro che due mani intrecciate.
Il silenzio dominava qualunque altra cosa, soverchiante, e lo fece
finché Aran, senza quasi accorgersene, parlò:
«È la stessa energia...»
Era stato nulla più che un mormorìo, tanto che
faticò a raggiungere la mente ottenebrata di Freya. Quando
la giovane si accorse che lui aveva parlato, non ebbe il tempo di
chiedere cosa intendesse.
Aran, improvvisamente rianimatosi dal torpore, si portò
sulle ginocchia, nella stessa posizione in cui era rimasta lei per
tutto quel tempo. Aveva gli occhi spalancati, incorniciati
dall'espressione di chi ha intuito qualcosa. «Ricordi quel
terribile vento che ci ha costretti a rientrare, dopo il
ballo?» le domandò.
Freya annuì. Lo rammentava molto bene. Nel ripensarci poteva
quasi sentire il formicolìo che le aveva lasciato sulla
pelle. In quel ricordo, vivido in ogni sua sfaccettatura,
trovò anche lei la risposta: intorno a loro aleggiava la
stessa identica energia che si era sprigionata allora. Senza poter
stare ferma un istante di più la ragazza balzò in
piedi, seguita a ruota dal giovane Principe. «Siamo stati
noi» affermò, sicura nonostante tutto.
«Io credo di sì» disse Aran a propria
volta.
«Come?» chiese lei, incapace di produrre qualcosa
di più articolato.
L'ultima, ennesima domanda, si perse solitaria nel vento d'autunno.
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Capitolo 18 *** CAPITOLO 17 - Nel buio ***
CAPITOLO
17
- NEL BUIO -
Non
pensare mai al tuo nome.
Questa regola fondamentale le era stata ripetuta fino allo sfinimento,
ai tempi del suo apprendistato. Non importava quante volte l'avessero
già fatto: quando si accingevano a dare inizio a un
Richiamo, il suo maestro le ribadiva quel concetto, scandendo bene le
parole come se lei fosse un'imbecille.
Era stato un periodo duro, quello, in cui nulla era mai stato certo e
ogni giorno tutto ciò che credeva di sapere veniva messo in
discussione; eppure, proprio in quegli anni aveva compreso quale fosse
il suo potenziale e aveva imparato a imbrigliare qualcosa che sfuggiva
ai più: la propria forza di volontà. Forse,
quello era il motivo per cui la regola le era rimasta addosso ed era
diventata sua abitudine: le ricordava che doveva sempre avere il
controllo. Avrebbe dovuto piantarla con quelle assurde reminescenze;
arrivati a quel punto, non servivano più a nulla.
Mentre attendeva, lasciò che la sua mente venisse avvolta
sempre di più dal buio. Era sorprendente come potesse
apparire tanto vuota; appena sotto quel velo di quiete che lei stessa
aveva steso, una fitta rete di pensieri e progetti continuava a
delinearsi ininterrottamente. Sapeva però che era
assolutamente necessario lasciarli fuori, se voleva riuscire a
stabilire il contatto. Tutto si reggeva sulla capacità della
sua mente di rendere concreta una realtà labile, che nessun
altro poteva vedere.
Il tempo, intanto, andava lentamente perdendosi. Cercare di tenerne la
percezione era inutile, perché colei che stava aspettando
non ne aveva alcuna, né tanto meno era interessata ad
averla. Tutti quei decenni legate senza via di scampo e ancora nulla
del mondo esterno l'aveva in qualche modo raggiunta. Non che ve ne
fosse necessità: il contatto con la realtà non le
era mai servito per esercitare il suo potere.
Il buio cresceva sempre di più. Poteva avvertirlo premere
sulle pareti della propria mente, come se volesse disintegrarle e
arrivare ad avvolgere il mondo intero, che giaceva quieto appena
là fuori, nella sua ignoranza. Quale misteriosa
forza, l'oscurità. Nessuno ne aveva mai conosciuto le
potenzialità, fino a che lei non si era spinta oltre. Se mai
ne avesse avuto timore, era stato prima di comprendere appieno dove
l'avrebbe potuta portare.
Fu proprio quando quella nera coltre divenne impenetrabile, annullante,
che una figura ben conosciuta iniziò a emergerne.
Inizialmente, si palesò come nulla più che una
sagoma fumosa, indistinta, i cui contorni sfumati impedivano di
riconoscerle qualunque aspetto umano. Poi, parve improvvisamente
prendere sostanza: le sue forme si fecero sempre più solide,
fino a divenire le inconfondibili curve di un corpo femminile, che
andavano disegnandosi nel nulla. Solo quando la sagoma fu completamente
delineata iniziò a intravedersi un volto, i cui lineamenti
erano attraversati da un sorriso che avrebbe saputo far rabbrividire
chiunque. La sua forma era umana, ma ciò che si nascondeva
al di là di essa non lo era neanche lontanamente.
Finalmente, lei potè muoversi. Sentì la propria
proiezione mentale avanzare, mentre la figura faceva lo stesso e si
avvicinava a passo lento. Quando furono una di fronte all'altra, le due
si guardarono dritte negli occhi. Quel sorriso non abbandonava il volto
dell'altra, mentre il suo era impassibile, come sempre.
Gli occhi totalmente neri e privi di pupilla della sua interlocutrice
brillarono, prima che parlasse. «Potresti mostrare un po' di
gioia, una volta tanto» disse, con la sua voce dal timbro di
velluto. Quanto poteva essere ingannevole l'apparenza?
«Che cosa hai percepito?» domandò lei,
senza perdere il proprio contegno. Sapeva molto bene quanto all'altra
piacesse giocare, quanto la divertisse detenere il potere attraverso
ciò che solo lei poteva sapere, ma dalla sua risposta
sarebbe dipeso molto.
La figura misteriosa si fece seria per un breve momento, prima che il
sorriso ricomparisse. Questa volta, in esso vi era una nota minacciosa.
«Quale trappola insidiosa, l'influenza del passato. Dovresti
ben sapere che quello che sottovalutiamo, in una maniera o
nell'altra, finisce con il scivolarci fra le dita»
aggiunse poi, spezzando il contatto visivo e superandola. La stoffa
nera della tunica in cui era avvolta fluttuò nella sua scia,
senza produrre alcun rumore.
Quelle parole sarebbero potute essere l'unica cosa capace di incrinare
la sua imperturbabilità. Sentì la collera
iniziare a risalire lungo tutto il proprio corpo, minacciando di
straripare. Eppure, non si scompose. Sapeva perfettamente di poterla
controllare, così come aveva sempre fatto con ogni sua
singola emozione. Si voltò. «Non ho intenzione di
commettere lo stesso errore una seconda volta»
sentenziò, lapidaria. «Ora, parla.»
Per un attimo, la figura restò silente. Chiuse gli occhi e
prese un profondo respiro. Di cosa, lei non avrebbe saputo dire: quella
creatura non viveva delle stesse leggi di chiunque altro, confinata in
quel mondo immateriale. Quando riaprì le palpebre finalmente
parlò: «Il potere è stato liberato ed
è vivo, ardente. O almeno, così è
stato per un attimo. Adesso è solo un lieve palpitio, ma la
sua traccia è inconfondibile.»
Nemmeno allora esternò traccia di emozione. Solo i suoi
occhi tradirono una qualche reazione, scintillando della stessa luce
che balenava in quelli della sua alleata, spalancati nel buio. Non
disse più nulla, ferma e immobile in quell'attimo che
avrebbe cambiato ogni cosa, per sempre.
Quel giorno, che per molte vite ignare non sarebbe stato diverso da
qualunque altro, era per loro il preludio di tutto ciò che
sarebbe accaduto da lì in avanti. Per il momento, non c'era
nient'altro che avesse importanza.
Lentamente, la figura misteriosa iniziò a dissolversi. La
sua voce, però, giunse forte e chiara un'ultima volta,
echeggiando in quel nulla che nulla in realtà non era:
«Presto arriverà il momento.»
Sì, presto sarebbe arrivato il momento, si disse lei. E il
mondo avrebbe tremato.
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Capitolo 19 *** CAPITOLO 18 - Le strade di Errania ***
CAPITOLO
18
- LE STRADE DI ERRANIA
-
La
Regina guardava Aran con occhio attento. Nulla, né la sua
espressione, né il suo sguardo, lasciavano presagire quale
sarebbe stata la sua risposta.
Il ragazzo rimase composto, attendendo che la madre dicesse qualcosa.
Lui e Freya avevano scontato la loro punizione e oramai erano tornati
liberi di andare dove volevano, ma per recarsi a Errania aveva comunque
preferito domandare il suo permesso. La Regina non aveva affatto
apprezzato la loro piccola gita notturna e mostrarsene consapevoli era
il modo migliore per evitare che diventasse eccessivamente restrittiva.
Aran cercò di non pensare al fatto che, nonostante quella
sua dimostrazione di trasparenza, le stava tenendo nascosto un fatto
piuttosto importante: nelle sue vene scorreva qualcosa di
più del semplice sangue. Rabbrividì. La scoperta
era tanto recente da risultargli ancora troppo difficile da assimilare.
Com'era possibile che non se ne fosse mai accorto prima? Non ce n'era
stata mai nessuna traccia; nessun segnale concreto gli aveva mai fatto
pensare di essere portatore della magia.
Nei giorni seguiti a quel pomeriggio nel bosco, lui e Freya avevano
deciso di sospendere ancora per un pò l'esplorazione della
Biblioteca; c'erano ben altre cose che occupavano i loro
pensieri. Tolti allenamenti e lezioni, avevano trascorso
tutto il loro tempo a parlare. Avevano discusso di tutto ciò
che aveva accomunato le loro vite per ore intere, ma anche di tanti
altri argomenti all'apparenza insignificanti; avevano fatto ipotesi, le
avevano smentite e avevano variato argomento quando non riuscivano a
trovarne altre. E mentre parlavano Aran aveva compreso che qualcosa
legato a quel misterioso potere inquietava Freya.
Non aveva fatto domande, esattamente come lei non insisteva mai quando
capiva che lui ancora non se la sentiva di dire qualcosa; aveva
però pensato che vedere un posto nuovo le avrebbe
risollevato il morale. Ottenuta udienza da Mirea aveva
perciò avanzato la sua richiesta; voleva far trascorrere a
Freya una giornata diversa dalle solite.
Inaspettatamente, sua madre sorrise: «Ti sei sempre recato a
Errania senza bisogno del mio consenso, Aran» disse, le mani
giunte di fronte a sé con la solita imperturbabile eleganza.
«È sempre stata una delle tue mete
preferite.»
Lo conosceva bene. La prima volta che gli era stato concesso di andare
a Errania aveva nove anni; al proprio fianco aveva Darragh e un soldato
scelto della guardia personale di sua madre, il quale per l'occasione
aveva rinunciato alla propria armatura in modo da non attirare troppa
attenzione. Ricordava molto bene quel giorno: Mirea non aveva ancora
mostrato i propri eredi al pubblico e nessuno avrebbe mai potuto
riconoscerli; per un momento, breve se paragonato all'interezza della
sua esistenza, si era sentito uno qualunque.
Si era quasi sentito in colpa per quel sollievo: accogliendolo Mirea
gli aveva dato tutto quello che si potesse desiderare e al giovane
sembrava di mancarle di rispetto. Nonostante questo, alla fine era
stata proprio la sensazione di leggerezza che ne era derivata a rendere
Errania il luogo ideale in cui scappare. Non credeva che la madre fosse
a conoscenza delle sue ragioni, ma fin da quel primo giorno le era
stato facile capire quanto il centro città lo affascinasse:
era ritornato al castello trattenendo a stento l'euforia e le aveva
raccontato tutto per filo e per segno, come se lei non avesse mai visto
la capitale del regno che governava. E quando era stato abbastanza
grande da recarvisi da solo, il senso di libertà era
diventato totale e irrinunciabile.
Mirea l'aveva lasciato fare; crescendo Aran era diventato sempre
più responsabile e accorto e non le aveva mai dato alcuna
ragione per imporgli restrizioni riguardo il suo giorno libero. Ora, il
Principe voleva assicurarsi di fare tutto nel modo migliore: doveva
dimostrare di meritare ancora quella fiducia. Per lui era fondamentale,
poiché averla significava che, nonostante la sua voglia di
libertà, la stava ripagando di tutto quello che gli aveva
dato.
«Ritenevo giusto consultarvi, madre» rispose.
«Volevo essere certo di avere ancora la vostra
fiducia.»
La Regina tornò alla sua consueta espressione di
serietà. I suoi occhi, al pari dell'abito intessuto d'oro
che portava, brillavano nella luce del primo mattino; quello sguardo
aveva sempre avuto il potere di metterlo in soggezione. Poi, ancor
più inaspettatamente del sorriso di poco prima,
arrivò il tocco delle sue mani sulle spalle. La madre si
pose di fronte a lui e lo studiò con ancora più
attenzione, come se volesse carpire il significato della sua
affermazione senza che lui dicesse una parola.
«Cosa ti fa pensare il contrario, figlio mio?» gli
domandò, senza che nulla sul suo volto cambiasse. Solo la
stretta delle sue mani si fece più salda.
Qualcosa nell'animo di Aran gli disse che da quella risposta sarebbe
dipeso qualcosa d'importante, anche se non avrebbe saputo dire cosa.
Guardò la madre negli occhi e rispose: «Temevo che
il mio comportamento potesse aver cambiato la vostra opinione nei miei
riguardi. Sono consapevole che un incubo non può essere una
giustificazione valida alla violazione del coprifuoco.»
Lo sguardo della Regina Mirea si fece ancora più intenso. Il
giovane ebbe l'impressione che una parola in particolare, fra quelle
che aveva appena pronunciato, avesse attirato la sua attenzione:
incubo. Fino a quel momento, non credeva nemmeno che ne avrebbe
parlato. La madre discuteva spesso sia con lui che con Darragh, ma le
loro conversazioni riguardavano principalmente la loro istruzione. I
figli non erano abituati a parlare con lei di faccende che riguardavano
la propria sfera emotiva. Aran aveva imparato ben presto a sbrigarsela
da solo, nel privato della sua anima, senza mai lasciar trapelare nulla.
Ciò che teneva occupata la sua mente in quel periodo era ben
più serio di quello che aveva affrontato in passato; eppure,
la sua abitudine alla riservatezza persisteva ancora. Era consapevole
di non poter più tenere nascosto quello che stava passando,
ora che quegli strani poteri si erano fatti vivi; inoltre, non credeva
nemmeno che fosse giusto nei confronti di sua madre: si parlava di
magia, una cosa molto più concreta di sogni e incubi. Prima
di farsi avanti, però, aveva bisogno di prendersi il tempo
necessario a capire come gestirli per conto proprio. O meglio, con
l'aiuto di Freya. Era l'unica persona con cui riuscisse a trovare le
parole adatte per esprimere il proprio stato d'animo.
Quando la Regina tornò a parlare lo fece senza smettere di
sottoporlo a quell'attento esame. «Qualcosa ti turba,
Aran?» domandò. Il suo atteggiamento era tanto
imperturbabile da rendere impossibile capire fino a che punto
l'affermazione del figlio la preoccupasse.
In un angolo della mente di Aran, la logica cercava di imporgli di
parlare, ma in quel momento non sarebbe stato capace di farlo nemmeno
volendo. Producendosi nel sorriso più genuino che gli
riuscì, rispose nuovamente: «Assolutamente no,
madre. Non è stato nulla più che un brutto
sogno.»
La pausa che seguì ebbe un che di strano. Il giovane ebbe la
netta sensazione che sua madre sapesse qualcosa di cui era decisa a
tenerlo all'oscuro; ma era un pensiero talmente folle che s'impose di
accantonarlo. Stava semplicemente diventando paranoico a causa di tutte
le strane coincidenze che riguardavano lui e Freya, si disse.
Poi, però, arrivarono le parole di Mirea:
«Esistono sogni e sogni.»
Aran dovette fare uno sforzo ancora maggiore per reprimere quel
sentore, ma infine non ebbe nemmeno il tempo di porsi ulteriori
domande. Detta quella brevissima frase, la Regina si scostò
da lui e tornò a sedersi dietro la sua scrivania, tanto
ordinata da sembrare quasi irreale. Ogni giorno sua madre sbrigava
tutte le faccende inerenti la gestione del regno seduta a quello
scrittoio, eppure sulla superficie lucida non c'era mai nulla che fosse
dove non doveva essere. Era sempre stato così, fin da quando
lui poteva ricordare. Chissà come sarebbe stata quando
Darragh avrebbe preso il suo posto, si chiese distrattamente.
«Tu e Freya potete recarvi a Errania senza alcun
problema», lo riscosse la voce perentoria della madre.
« Mi sembra giunto il momento che lei abbia una visuale
completa del mondo in cui ora vive. Vi chiedo solo di prestare estrema
attenzione e di evitare di dare nell'occhio. Sai perfettamente che ho
sempre fatto di tutto per scongiurare qualsiasi voce nei riguardi tuoi
e di tuo fratello; avrete tutto il tempo perché si parli di
voi quando diverrete il volto di questo regno.»
Era vero: Mirea era sempre stata molto attenta a non esporli
più del necessario. Avere il suo consenso in quella
circostanza significava avere anche la sua fiducia; finalmente, Aran
poté tirare un sospiro di sollievo.
«Vi ricordo anche che violare una seconda volta il coprifuoco
non vi è consigliabile» concluse poi la Regina, in
un chiaro avvertimento. «Farete meglio a rientrare per
tempo.»
«Naturalmente, madre» ribatté lui,
rivolgendole un rispettoso inchino. «Vi ringrazio.»
Il colloquio era terminato. Aran si voltò e in tre falcate
ebbe varcato la porta, che richiuse poi alle proprie spalle. Prima che
il battente si riaccostasse completamente, sentì che lo
sguardo della Regina l'aveva seguito fino all'ultimo istante.
֍ ֍ ֍
La mattina seguente partirono appena dopo il comparire delle prime luci
dell'alba. Soldati e servitori li osservarono mentre
percorrevano il tragitto verso le scuderie, salutando rispettosamente
entrambi al loro passaggio. Per Freya era un enorme sollievo che gli
abitanti del castello si fossero abituati a lei, seppur lentamente.
Sellarono i cavalli in silenzio. Le stalle erano vuote e gli unici
rumori che infrangevano la quiete erano quello delle briglie che
tintinnavano e dei cavalli che sbuffavano nel freddo pungente. Quando
gli sguardi dei due ragazzi s'incrociarono, entrambi sorrisero; per un
istante gli occhi di Aran indugiarono in quelli di Freya. La giovane
sapeva molto bene il motivo di quell'occhiata: il Principe era
preoccupato per lei. Non poteva biasimarlo: da quando il suo potere
aveva inspiegabilmente risvegliato quello di Aran, il ricordo della
scomparsa di sua madre era tornato a galla, rendendola costantemente
irrequieta.
Era qualcosa che Freya non aveva assolutamente previsto, quando aveva
deciso di mostrare cosa era in grado di fare. L'angoscia di allora
l'aveva travolta con una forza insospettabile e insieme a essa era
arrivata un'ineluttabile consapevolezza: era diritto di Aran sapere
come il mistero che avvolgeva le loro comuni capacità avesse
portato Eleana a sparire per sempre. E anche per Freya era fondamentale
che lui sapesse: in pochi mesi tra di loro era nato qualcosa di tanto
profondo da andare oltre ogni comprensione, un legame che li aveva
spinti a voler condividere ogni cosa con l'altro senza riserve. Quella,
fra tutte le ragioni per cui era giusto che Aran sapesse, era
certamente la più importante. Se non glie ne avesse parlato,
avrebbe infranto tutto ciò che avevano costruito, oltre alla
promessa di essere sincera. Doveva raccogliere il coraggio e farlo.
Il pensiero smise di martellare nella sua mente solo quando la ragazza
fu in sella a Stellato. Si concentrò su quello che si
apprestava a fare in quel momento, senza lasciare spazio a nient'altro;
sarebbe stato da stupidi rischiare di cadere da cavallo
perché non era in grado di mantenere la presa su quello che
si agitava nella sua testa. Quando Aran partì, saldamente
ancorato al dorso della sua Nieva, Freya e Stellato lo seguirono.
Nonostante tutto, la giovane era sinceramente emozionata. Era passato
diverso tempo dall'ultima volta che aveva visto una città;
inoltre, era certa che Errania sarebbe stata la più
interessante che avesse visitato fino a quel momento. Era ancora
piuttosto amareggiata di aver esplorato così poco di
Concivis e Plametia, ma con la capitale sarebbe stato diverso: aveva
tutto il tempo di approfondire ancora di più ciò
che prima aveva solo assaporato.
Entrarono a Errania attraversando la porta sud. Nel passarvi sotto la
ragazza provò lo stesso fremito di soggezione che aveva
avvertito la prima volta che aveva visto quelle mura insormontabili:
senza quei passaggi strettamente sorvegliati nessuno sarebbe mai potuto
entrare all'interno della città. Il mattino era ancora
giovane, eppure un gran via vai animava già la strada
principale, su cui Aran e Freya si mantennero; la maggior parte della
folla sembrava diretta alla piazza principale, dove quel giorno si
sarebbe tenuto il mercato. I due ragazzi s'immisero nel flusso e lo
seguirono, tenendo saldamente le redini dei cavalli per non rischiare
di perderne il controllo.
La giovane si guardò intorno da sotto il cappuccio del
pesante mantello, che le copriva interamente il capo e i lati del viso.
Il freddo l'avrebbe costretta a tenerlo alzato, ma quella mattina Malia
aveva insistito per svegliarsi con lei e acconciare le sue spesse
ciocche di capelli. Ora le sue orecchie a punta erano perfettamente
nascoste: non avrebbe corso il rischio di attirare l'attenzione.
Il suo sguardo indugiò sugli edifici che delimitavano la
via: le case addossate alle mura erano semplici, più in
legno che in pietra, ma non per questo meno dignitose; i vicoli che le
separavano, sebbene angusti e in terra battuta, erano puliti e sgombri.
Per quel poco che Freya ne sapesse quella era la zona abitata dai meno
abbienti e, nel vedere quello spettacolo di ordine e
semplicità, si ritrovò a provare un peculiare
senso di sollievo. Ricordò che anche Concivis e Plametia
erano così: forse era vero che nel Regno di
Riagàn veniva garantita una vita decorosa a tutti,
indipendentemente dalla classe sociale; forse doveva smettere di
preoccuparsi che qualche realtà nascosta continuasse a
sfuggirle.
Proseguirono per un tempo indefinito. Più il centro di
Errania si avvicinava, meno legno si scorgeva nelle costruzioni che
impedivano loro di vedere il sole e capire quanto fosse trascorso. Gli
edifici si facevano sempre più grandi, sempre più alti e i
vicoli iniziavano ad assumere le sembianze di vere e proprie stradine.
Freya beveva con gli occhi ogni singolo dettaglio che riusciva a
cogliere; registrava ogni suono a lei nuovo; cercava di catturare gli
odori e i profumi che caratterizzavano la capitale. Quelle piccole cose
rappresentavano per lei l'essenza della città,
ciò che le sarebbe tornato alla memoria quando vi avrebbe
ripensato in futuro.
Poneva ad Aran tutte le domande a cui riusciva a pensare: era stato il
Principe stesso a raccomandarle di chiedere tutto quello voleva, il
giorno precedente, e anche il maestro Athal l'aveva incoraggiata a non
trattenere la curiosità. Ogni città, le aveva
spiegato, era una piccola riproduzione dell'interezza di
Riagàn: comprendere Errania le sarebbe stato molto utile per
imparare a conoscere l'organizzazione del Regno senza che il maestro
dovesse tenere una lezione appositamente per lei. Aran, quelle cose, le
sapeva a memoria fin da quando era piccolo.
Freya proseguì con i suoi quesiti fino al momento in cui
giunsero prossimi alla loro destinazione. I primi banchi del mercato li
accolsero già lungo l'ultimo tratto della strada principale;
da quel punto in poi, il vociare di venditori e acquirenti si fece
sempre più assordante, impedendo ai due giovani di
interloquire fra loro. Era la massa di gente più grande e
rumorosa che la giovane avesse mai visto; per un istante si
sentì soffocare all'idea di trovarsi in mezzo alla calca,
una volta smontata da Stellato.
Il tempo di indugiare nel timore fu ben poco. Appena che Freya ebbe
formulato il pensiero, Aran la fece fermare di fronte a un edificio
piuttosto modesto, se confrontato agli altri della cerchia alta;
lì lasciarono i cavalli legati ai pali di posta. Il Principe
allungò qualche Placca d'oro a un uomo alto e smilzo che
stava alla porta, il quale le accettò senza battere ciglio:
sembrava conoscere il giovane e sapere di non essere nella posizione di
fare domande sulla loro identità. Aran lo
ringraziò, usando la sua consueta gentilezza, poi si
avviarono verso la piazza centrale.
Certa che Aran non le avrebbe permesso di perdersi Freya
continuò nella propria contemplazione. Il mercato di Errania
era immenso e ospitava una varietà impressionante di
mestieri e prodotti provenienti da paesi, villaggi e fattorie
sparpagliati nel circondario della capitale. Ogni volta che girava la
testa la giovane trovava una vista diversa ad attenderla: un banchetto
di verdure e frutta fresche, un chiosco di dolciumi, una bancarella di
ninnoli e gioielli dall'aria preziosa. Nel vagare del suo suo sguardo,
Freya non mancò di notare un dettaglio: tutte le botteghe e
i negozi erano chiusi. Senza esitazione domandò
delucidazioni alla sua guida.
«Nel giorno di mercato i negozianti e gli artigiani restano a
riposo, è la legge» spiegò Aran mentre
continuavano a camminare. «In primo luogo per potersi recare
anche loro a comprare quello che può necessitargli; in
secondo per fare in modo che i produttori provenienti dai centri urbani
più piccoli e dal circondario possano avere la loro
giornata di guadagno senza la concorrenza dei mastri
cittadini.»
Freya assimilò le sue parole, pensierosa. Non avrebbe mai
pensato a una motivazione del genere. In effetti, sembrava il tipo di
legge che rispecchiava il modello di regno di cui Mirea tanto aveva
parlato durante il loro primo incontro: un luogo in cui tutti, seppur
chi più e chi meno, potessero godere di una parte del
benessere. Voleva scoprire se ce ne fossero altre, ma per il momento
decise di accantonare la sua vena inquisitoria e concentrarsi su quello
che aveva davanti.
Trascorsero la mattinata in quel modo. Gradualmente riuscirono entrambi
a rilassarsi, perdendosi uno accanto all'altra in quel mare di persone
impegnate nella loro vita di tutti i giorni. La gente, capì
Freya, era molto più affascinante di quanto avesse pensato
fino a quel momento. Bastava osservare i loro volti, le loro mani, i
loro gesti per capire che ogni uomo, donna e bambino aveva una propria
storia, un proprio modo di essere e una qualche strada da seguire. Se
la prima volta in cui era stata nella civiltà era riuscita a
notare solo le cose che la dividevano dagli altri e la spaventavano,
adesso vedeva finalmente quello che la rendeva simile a loro, perfino
nell'unicità di ogni individuo.
Stavano camminando fra due bancarelle di lane e tessuti quando ne
parlò ad Aran. «Capisco perché ti piace
tanto questo posto» disse, guardandolo negli occhi con la
solita schiettezza e sorridendo.
Il giovane sembrò sinceramente stupito.
«Davvero?» chiese.
Freya annuì. «Sì, davvero»
rispose. «Ammetto che all'inizio non avrei mai creduto di
poterlo apprezzare anche io. Tutto questo chiasso è strano
per qualcuno che ha passato gli ultimi anni nel silenzio della foresta
a parlare con animali e piante.» Si zittì un
istante, persa nel ricordo di tutti gli istanti in cui aveva
temuto che avrebbe smarrito la capacità di parola. Leggere,
a mente o ad alta voce, e parlare con la gentilezza che le aveva
insegnato sua madre a qualunque creatura vivente l'avevano salvata da
quell'eventualità. Eleana le aveva sempre detto che un
giorno avrebbe avuto a che fare con altri individui e l'aveva preparata
a quel momento, fin dalla sua prima parola; rimasta sola era stato
più difficile, ma aveva cercato di non dimenticarsi mai come
si facesse. «Solo adesso capisco quanto le persone
contribuiscano alla vita» concluse quando si riprese.
Aran la guardò con quella che lei intuì essere
malinconia. Freya non voleva che lui fosse triste all'idea della sua
passata solitudine, di cui vedeva i lati negativi perfino lei, che
aveva imparato a considerarla come un'alleata. Istintivamente lo prese
per mano, intrecciando le dita alle sue con tutta la delicatezza di cui
fosse capace. Come sempre lui ricambiò la stretta.
Quando proseguirono, lasciandosi alle spalle le meravigliose stoffe
arcobaleno, l'attenzione di Freya venne catturata da un banco che
metteva in mostra meravigliosi oggetti di legno. Dopo averle lasciato
tutto il tempo per ammirarli e chiedere a un perplesso artigiano ogni
sorta di informazione sul suo lavoro, Aran non potè
più impedirsi di scoppiare a ridere. La sua risata fu tanto
lunga e sincera che ci volle un attimo prima che riuscisse a respirare
di nuovo normalmente.
«Cosa c'è di tanto divertente?» chiese
la ragazza, attonita. Non le sembrava di aver fatto nulla di strano.
Sulle labbra del Principe perdurava il sorriso. «Il tuo
entusiasmo per le piccole cose è meraviglioso»
rispose. «Solitamente sono i banchi degli orafi a ricevere
tante attenzioni.»
Gli unici gioielli che Freya avesse mai avuto erano la chiave delle
Saghe di Finian, sempre che si potesse considerare tale, e il
medaglione di sua madre. Non aveva mai pensato alla
possibilità di possederne altri, forse perché non
ne vedeva la necessità. Fu l'esternazione di Aran
a far nascere in lei la curiosità nei confronti di quella
diramazione dell'artigianato: era la prima volta che rifletteva sulla
manualità e l'abilità che un simile lavoro doveva
richiedere. Avrebbe certamente prestato più attenzione, si
disse.
Presi dalle loro conversazioni, i due giovani si accorsero che aveva
iniziato a piovere solo quando le gocce si fecero spesse e pesanti.
Corsero a cercare un riparo sotto gli scrosci violenti, i piedi che a
ogni passo schizzavano l'acqua che scivolava alle canaline di scolo.
Perfino in quel momento Freya riuscì a pensare
all'ingegnosità di quel sistema, che impediva l'allagamento
delle strade lastricate: ne aveva letto in riferimento alle
città del Regno di Adamas, nel sud-est.
Lontani dalle locande, uniche attività aperte quel giorno,
Freya e Aran puntarono a rifugiarsi nel vano di un grosso portone fino
a che la pioggia non si fosse almeno diradata. Vi giunsero
completamente inzuppati e nello slancio della corsa si ritrovarono a
fermarsi solo contro lo spesso arco in pietra, l'una addosso all'altro.
I loro corpi erano attaccati, tanto vicini che Freya poteva sentire il
cuore di Aran battere furioso appena al di sopra del proprio; e quando
finalmente si guardarono realizzarono che i loro volti erano
altrettanto prossimi, più di quanto lo fossero mai stati
prima.
Rimasero così. La giovane non sapeva perché Aran
non si muovesse, ma sapeva benissimo perché non lo stava
facendo lei: semplicemente, non ci riusciva. Era come se una forza
invisibile l'avesse immobilizzata e lei non potesse fare nulla per
contrastarla. Gli occhi di lui, che non aveva mai avuto a una distanza
tanto breve, erano ancora più belli di quanto Freya avesse
mai notato: c'erano delle sfumature più chiare, in quel mare
di grigio ardesia, che prima di allora non aveva potuto vedere.
Poi, c'era quel miscuglio di sensazioni completamente indefinibili. Le
ricordavano in qualche modo quello che aveva sentito la primissima
volta che l'aveva visto, ma non erano decisamente la stessa cosa. Sul
volto di Aran non c'era alcuna traccia d'imbarazzo, piuttosto un
riflesso di quelle stesse emozioni. La ragazza era abituata a vederlo
esprimersi con sincerità, quando era con lei, ma quella
volta la totale trasparenza di quello che lui stava provando la
colpì con un'intensità del tutto nuova.
Nessuno dei due comprese quello che stava succedendo, né
notò il proprio volto avvicinarsi sempre più a
quello dell'altro, fino a che un tuono non irruppe nell'aria uggiosa.
Tutto intorno a loro parve tremare. Aran e Freya trasalirono, colti
alla sprovvista, e come di riflesso si allontanarono, continuando a
guardarsi negli occhi.
La schiena di Freya arrivò a toccare il lato opposto
dell'arco e la pietra le parve tanto meno solida e affidabile, se
paragonata all'abbraccio di Aran. Era stato tutto talmente sconvolgente
che non seppe nemmeno arrossire, limitandosi a spalancare sempre di
più le palpebre nella confusione che la stava assalendo. Non
sapendo cosa fare, volse la propria attenzione ai mercanti che
sbaraccavano e lentamente abbandonavano la piazza, respirando
profondamente. Che cos'era stato, quell'istante?
Aran, che pareva turbato quanto lei, non parlò fino al
momento in cui la pioggia rallentò e poterono finalmente
mettersi alla ricerca di una taverna in cui mangiare. «Vieni,
possiamo andare» mormorò.
Stringendosi nei mantelli, i due ragazzi iniziarono a camminare in
direzione della seconda cerchia, dove certamente avrebbero trovato un
luogo caldo, asciutto e discreto. Alla fine s'infilarono in una locanda
pulita e modesta, il genere di posto dove si può mangiare in
tranquillità senza temere situazioni indesiderate. Si
sedettero a un piccolo tavolo posto in un angolo, giusto accanto al
fuoco su cui arrostiva un bel pezzo di carne. Quando lo stomaco di
entrambi brontolò sonoramente i due giovani scoppiarono a
ridere; la tensione che lo strano avvenimento di prima aveva steso tra
di loro finalmente evaporò.
Ordinarono una minestra saporita e fumante, arricchita da qualche
boccone di selvaggina, e due boccali di sidro. Sebbene quest'ultimo
appartenesse alla sua nuova vita, il cibo semplice le
ricordò inevitabilmente quella vecchia; mentre soffiava sui
cucchiai fumanti, venne trascinata indietro nel tempo. Il suo palato
stava quasi per dimenticare quel sapore.
Terminato il pasto arrivò il momento per le spiegazioni su
cui il maestro Athal aveva tanto insistito; sinceramente incuriosita,
Freya si concentrò al massimo, desiderosa di porre numerose
domande al riguardo. Fu proprio lei a dare inizio alla lezione
improvvisata: «Quindi, stando a quanto ho capito, la
città è suddivisa in cerchie che si sviluppano
attorno la piazza principale» esordì.
Aran annuì, spostando il proprio boccale a lato
perché niente stesse fra di loro. Stava prendendo molto sul
serio il suo compito. «Esatto. Ogni città di
Riagàn è organizzata esattamente alla stessa
maniera, seppur rispettando la diversa conformazione di
ognuna» iniziò. «Abbiamo tre cerchie: la
prima, quella più interna e prossima alla piazza,
è abitata dal governatore, dai funzionari di stato e dagli
esponenti della nobiltà; la seconda, quella intermedia e in
cui ora ci troviamo, è occupata da mercanti, artigiani e
costruttori di ogni sorta e ospita taverne e locande; infine la terza,
a ridosso delle mura, è abitata dai membri delle maestranze
più umili, ma non per questo meno necessarie al
funzionamento del Regno. Ogni singolo individuo è
fondamentale per il meccanismo.» Si fermò un
attimo e bevve un sorso, prima di proseguire. «A loro volta
le cerchie sono suddivise in quartieri. Ognuno di essi ospita le case e
le botteghe di un diverso ordine di lavoratori.»
Trascorsero le prime ore del pomeriggio in quel modo: Aran spiegava,
Freya interveniva con le proprie domande e memorizzava tutto
ciò che c'era da sapere sul sistema del Regno di
Riagàn. La pioggia continuava a battere sulle piccole
finestre della locanda, non facendo nulla per invogliarli a tornare
all'aria aperta; ma scoprire quanto fosse complesso e magistralmente
organizzato il governo di Mirea fu per Freya motivo sufficiente a non
annoiarsi: nulla sembrava lasciato al caso o al disordine fra le mani
della Regina.
Tutto veniva deciso e predisposto direttamente dall'alto. Ogni singolo
cittadino svolgeva un mestiere affidatogli dal governo stesso in base
alla propria cerchia, della quale Freya percepì nuovamente
il ruolo di divisore sociale, oltre che urbano; la famiglia di origine
era altrettanto decisiva: era estremamente raro che i figli fossero
destinati a un lavoro diverso da quello che i genitori avevano avuto
prima di loro. Fin da bambini tutti sapevano perfettamente quale
sarebbe stato il proprio ruolo. A ogni ordine veniva indirizzato un
numero differente di persone in base alla necessità, in modo
che nessun prodotto o maestranza venisse mai a mancare. La paga minima,
seppur diversa in base alla levatura del mestiere, era garantita a
chiunque in cambio del contributo dato al prosperare del Regno.
Perfino le abitazioni venivano assegnate da Mirea e dai suoi emissari,
che ne stabilivano anche modalità e tempi di costruzione. I
nobili solevano avere sia una residenza in città che una
più grande nelle campagne, ma quest'ultima veniva concessa
solo dopo un'approvazione formale e pagata interamente con denaro
privato. Non che fosse un problema: essi disponevano di tesori
famigliari alquanto cospicui, accumulati in generazioni di servizio
alla corona.
Erano infatti i nobili a controllare e sorvegliare gli allevamenti e le
fattorie del circondario, responsabili del rifornimento di carne,
verdura e cereali alle città, così come qualunque
altro negozio o bottega entro le mura: quel ruolo di supervisori
garantiva loro ricchezza e titolo, che la Regina aveva il potere di
revocare in caso di mancato adempimento degli obblighi.
Tutto, in sostanza, dai beni alle ricchezze, passava dalle mani del
governo di Riagàn, che ridistribuiva poi alla popolazione in
base a leggi ferree e importanza del ruolo ricoperto. Nessuno moriva di
fame e perciò nessuno mendicava per le strade,
così come nessuno vi era costretto a vivere
poiché non aveva un tetto sulla testa. Sembrava tutto
incredibilmente perfetto, come un ingranaggio oliato al punto da non
incepparsi mai.
Ognuno dei cittadini del Regno di Riagàn pareva avere
ciò che gli fosse strettamente indispensabile per vivere e
questo era certamente conforme a quello che la Regina le aveva sempre
detto. Qualcosa, però, strideva: davvero l'unico modo
perché esistesse un equilibrio era stabilire ogni cosa senza
che la gente potesse decidere alcunché? L'ordine del Regno
pareva meraviglioso, fino a che non si pensava al fatto che i sudditi
non avessero nemmeno la libertà di scegliere il mestiere di
cui avrebbero voluto vivere. E l'istruzione? Aran le aveva detto che
tutti avevano la possibilità di imparare il lavoro che
avrebbero dovuto svolgere, ma se mai avessero voluto conoscere di
più? Se mai avessero desiderato una vita diversa, avrebbero
avuto il diritto a quel tipo di ambizione? La risposta aveva il
potenziale di accendere in lei una certa inquietudine.
Le domande continuarono ad assalirla anche quando il temporale
cessò e finalmente poterono uscire. Aran pagò il
dovuto all'oste. Nel vedere nuovamente le piccole Placche rettangolari
luccicare Freya pensò che il Principe avrebbe dovuto anche
illustrarle nel dettaglio il sistema monetario, ma non l'aveva fatto.
Giunti all'esterno, il giovane rispose a quel dubbio. «Per
oggi hai già dovuto subire abbastanza i miei
sproloqui» disse, sorridendo. «Ho pensato che ti
sarebbe piaciuto vedere la piazza senza i banchi del mercato, prima di
avviarci.»
Gli occhi di Freya s'illuminarono e la ragazza annuì: la sua
curiosità prese di nuovo il sopravvento. Aveva cercato di
studiare i bellissimi edifici a ridosso della piazza, quella mattina,
ma la folla e le bancarelle gliel'avevano impedito. Doveva
assolutamente recuperare. Ritrovato il proprio spirito,
seguì Aran lungo le vie cercando di lasciarsi trascinare da
esso.
Come il giovane aveva detto, la piazza era completamente sgombra e fin
dalla via principale si poteva avere una bellissima visuale della sua
interezza. Freya si sorprese di non essersi accorta che fosse tanto
grande: la fontana che zampillava al suo esatto centro era parecchio
più distante dai palazzi di quanto avesse immaginato.
Nonostante la pioggia avesse cessato di cadere l'aria era fredda e
umida, perciò pochissime persone facevano loro compagnia in
quel vasto spazio. La giovane trasse un respiro profondo, assaporando
lo strano fascino del silenzioso cuore della città.
Giunti alla grande vasca centrale, Freya e Aran si sedettero sul bordo
in pietra, fianco a fianco. Lo sguardo di lei seguì per un
lungo istante tutto il perimetro percorso dagli edifici, fino a
fermarsi sul più grande e maestoso di tutti: un palazzo
talmente alto da svettare al di sopra di ogni altro, che affacciava
sulla piazza una lunga scalinata; al culminare dei gradini una selva di
colonne finemente scolpite sorreggeva un ampio porticato, al cui
termine si apriva il portone di entrata.
Senza riflettere, Freya si alzò e prese a camminare in
quella direzione. Aveva già letto qualcosa a riguardo, nelle
Saghe di Finian:
era il luogo di culto più importante dell'intero Regno di
Riagàn. Impiegò un attimo a rammentare
il nome dell'unico dio che gli umani adoravano: non aveva mai letto
nulla sull'argomento nei libri presenti al castello ed era da tempo che
non tornava su quel capitolo delle Saghe. Poi, un lampo: Creantis,
lucente entità della creazione. Così veniva
chiamato.
Aran, nel frattempo, l'aveva raggiunta. Stava dietro di lei, in
silenzio, lasciandole come sempre il suo tempo. Certe volte lei non
capiva proprio come potesse avere tanta pazienza di starle dietro nella
sua scoperta di tutte quelle cose che lui conosceva già alla
perfezione.
Quando Freya parlò, lo fece quasi senza accorgersene:
«L'Altissimo Tempio di Creantis...»
mormorò. Non c'erano sicuramente costruzioni del genere
nelle Foreste di Confine.
«Una volta, forse. Molto tempo fa» rispose Aran,
stranamente serio. «Ora è il Palazzo di Governo:
vi si tengono tutte le riunioni fra i funzionari e il governatore.
Inoltre, è la residenza di quest'ultimo, la meglio protetta
della città.»
Freya tacque, interdetta. Solo allora, distogliendo l'attenzione dai
bellissimi bassorilievi, si accorse delle quattro guardie appostate
all'ingresso; il portone era chiuso, probabilmente da più
che un semplice chiavistello, piantonato e controllato a vista. Sempre
più confusa, iniziò a riepilogare quello che
ricordava dalle Saghe:
il popolo di Riagàn, come pressoché ogni altro,
era profondamente legato al culto della propria divinità.
Creantis faceva parte della vita delle persone in ogni gesto; la fede
era vera, spontanea, poiché a ognuno era garantita la
libertà di credere o meno senza rischio di alcuna punizione.
Era una religione semplice, che raccontava di un dio accogliente e
comprensivo con i giusti, intransigente e irremovibile con i malvagi.
Come poteva la gente di Riagàn aver permesso che il suolo a
lei più sacro divenisse luogo di scambi di potere?
Eppure, mentre il suo sguardo correva alle lame taglienti delle
alabarde portate dalle guardie, ebbe la certezza che quello non poteva
essere il tempio di cui aveva letto; non poteva essere quel luogo di
raccoglimento sempre aperto a chiunque cercasse conforto nei momenti di
dolore, o benedizione nei tempi di gioia. E, con sconcertante
immediatezza, sopraggiunse il pensiero che dovesse essere opera della
Regina Mirea.
Non sentendo giungere nulla da parte sua, Aran proseguì:
«Il maestro ha tentato di accennarmi qualcosa, molti anni fa,
ma era un argomento che arrecava dispiacere a mia madre. Ha preferito
essere lei a parlarmene» disse, le sopracciglia aggrottate.
«Mirea ha lottato a lungo contro il credo violento e crudele
dei nostri antenati, quando è salita al trono. Ha dovuto
prendere delle decisioni molto difficili e invise ai più per
debellarlo. I principi cruenti su cui il culto si fondava erano
radicati al punto che l'unica soluzione fu abolirlo per legge. Da quel
momento, Riagàn è uno stato fondato sulla
ragione.»
La confusione venne presto sostituita da un sentimento d'inquietudine.
Come potevano la versione dell'autore delle Saghe e quella di Aran
dipingere il culto in due modi tanto divergenti? Le
possibilità erano solo due: o il libro che sua madre le
aveva sempre detto essere fonte di verità mentiva, oppure ad
Aran era stata raccontata una bugia. Entrambe non fecero altro che
aumentare l'angoscia di Freya, consapevole che qualunque fosse la
risposta uno dei due aveva creduto a una menzogna.
Più il silenzio di lei si protraeva, più Aran
sembrava agitarsi. «Ti senti bene?» le
domandò infine, visibilmente preoccupato.
Uno sforzo sovrumano e Freya riuscì a ricomporsi. Prese un
profondo respiro, sorrise. «Sì, è solo
che... Questo non è il culto di Creantis che conoscevo
io» mormorò.
Per un istante, la giovane rimase in bilico sul sottile filo del
dubbio: stava a lei decidere se esprimere le proprie riflessioni o
meno. Poi, qualcosa le disse che non era il momento adatto per
sollevare simili questioni; era stata una giornata bella e preziosa,
una di quelle che avrebbe sempre conservato nel profondo della propria
anima: non poteva rovinarla con le sue solite macchinazioni. C'era
già così tanto da risolvere.
Sorrise ancora e lentamente vide il volto di Aran distendersi fino a
che non la ricambiò. Avrebbe voluto vederlo sempre
così, si disse, sereno, pieno di gioia e meraviglia.
Camminò al suo fianco in completo silenzio, cercando di
concentrarsi sulla sua felicità, e altrettanto in silenzio
montò in sella a Stellato per riprendere la strada del
ritorno.
Eppure, il dubbio aveva oramai iniziato a scavare un solco
incancellabile.
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Capitolo 20 *** CAPITOLO 19 - Senso di colpa ***
CAPITOLO
19
- SENSO DI COLPA -
Nei
giorni successivi i temporali si susseguirono ininterrottamente. Appena
riconquistata la libertà, Freya e Aran dovettero rinunciarvi
di nuovo.
La mattina il cielo li accoglieva plumbeo, insieme a una pioggia tanto
fitta e gelida da rendere quasi impossibile distinguere i campi al di
là della sua cortina. I due ragazzi facevano colazione
insieme nelle cucine, seduti accanto al fuoco e stretti nei loro
mantelli per contrastare il freddo. Quando avevano terminato lasciavano
il tepore a malincuore per recarsi in Biblioteca.
Lì, le lezioni proseguivano a pieno ritmo. Ogni giorno il
maestro Athal esponeva un argomento diverso: parlava della lunga storia
del regno di Mirea, del pensiero dei letterati di Riagàn, di
botanica e persino di miti e leggende. Freya e Aran ascoltavano
attentamente e poi lo tempestavano di domande, a cui l'uomo rispondeva
spesso con altri interrogativi. A quel punto si aprivano lunghe
discussioni.
Una mattina il botta e risposta fra i due ragazzi durò
talmente a lungo che prese dell'ultima parte della lezione stessa. Fu
una parola ad accendere il loro interesse: profezia. Il precettore
aveva appena parlato loro di queste antiche predizioni, che potevano
giungere inaspettate o venir lette volontariamente nel moto delle
stelle: spesso erano enigmatiche, ma potevano svelare importanti
dettagli del futuro. Ora quasi nessuno ci credeva più, nel
razionale Regno di Riagàn, ma in passato chi sapeva
decifrarle era tenuto in gran considerazione. Alcune erano state
talmente complesse che per interpretarle erano stati impiegati interi
anni.
Il quesito da cui tutto ebbe inizio fu questo:
«Parlando come se foste certi che esistano, quale influenza
potrebbe avere una profezia nella vita di un individuo?»
Aran rispose prontamente: «Le profezie dovrebbero mostrare il
futuro, no? Amesso di riuscire a capire cosa ti vogliano dire, sapere
esattamente cosa accadrà nella tua vita può
cambiare tutto. Saprai con certezza che, qualunque passo compirai,
arriverai a quel dato avvenimento, bello o brutto che sia; vedresti
tutto in modo diverso.»
Freya sorrise. «Questo solo se parti dal presupposto che per
forza di cose la profezia sia qualcosa di definitivo.»
Il Principe rivolse tutta la propria attenzione a lei.
«Dipende da quanto credi nel destino e da come lo
concepisci» ribatté. «Innanzi tutto, la
fiducia in quest'ultimo determina anche la fiducia nelle profezie. Se
non credi nel primo, difficilmente crederai alle seconde,
perché vedrai l'avvenire come qualcosa d'indeterminato e
impossibile da prevedere. Se invece pensi che il destino esista, che
influenzi il tuo futuro e che sia inciso nella pietra, allora
intenderai la profezia come qualcosa di immutabile.»
Ne avevano già parlato, in passato: secondo Aran, larghe
parti della propria esistenza non potevano essere cambiate. Era una
convinzione che gli era derivata dalla propria condizione: come
Principe reale avrebbe sempre dovuto ricoprire un determinato ruolo,
senza possibilità di scelta. Poco importava che gli piacesse
o meno: era destinato a quello. Per lui era il prezzo giusto da pagare
in cambio di tutto ciò che aveva ricevuto dalla Regina
Mirea. La giovane, invece, ancora si rattristava al pensiero che, col
passare del tempo, Aran avrebbe dovuto rinunciare a tante delle sue
passioni.
Tenendo presente cosa significasse per lui quel discorso, Freya rispose
con decisione, ma anche delicatezza. «Sai perfettamente come
la penso, se tiri in ballo il destino.» Con la coda
dell'occhio vide Athal che li osservava, quieto. «Io credo
nella sua presenza, ma credo anche che non abbia un unico volto. Il
destino, per me, ha mille sfaccettature: è quello che non
possiamo evitare, ma anche ciò che deriva dalle nostre
decisioni; è fatto di tappe che dovremo attraversare, ma
anche di tutte le possibilità che ci creiamo noi. Non
è immutabile: cambia in base a come noi lo consideriamo e si
costruisce insieme a noi. » Prese una pausa.
«Perciò, per rispondere riguardo le profezie, non
le credo sentenze incise per l'eternità. Se il destino
può essere cambiato, anche una profezia può
esserlo. E vedendola così, saprai che essa è solo
una delle tante eventualità che il destino ti pone.
»
«E cosa ci garantisce che le nostre decisioni contino
davvero?» Aran espose la propria domanda con la stessa
fermezza di lei, ma sorrideva. Non c'era mai da annoiarsi, con lui.
«Se anche le decisioni di cui parli facessero parte di un
disegno e fossero già predestinate?»
Questa volta toccava a Freya appellarsi alla propria questione
personale. «Bene, ti risponderò parlando di
ciò che conosco» affermò. «Io
sono fermamente convinta che arrivare qui, a Errania, fosse nel mio
destino. Ma se quel giorno di mesi fa avessi detto di no al capitano
Craius, non vi sarei mai giunta. Almeno, non per questa via.
Perciò sì, credo che le scelte contino eccome.
Elaborando ulteriormente il mio precedente pensiero: il destino esiste,
ma anche abbracciarlo è una nostra decisione. Anzi,
è la prima scelta che siamo chiamati a compiere quando esso
si presenta a noi. Se ci voltiamo dall'altra parte, il destino
cambierà forma e troverà altre strade da farci
percorrere.»
«Resta comunque il fatto che, alla fine, arriveremo dove lui
ci vorrà condurre» ribatté Aran.
Freya sorrise di nuovo. «Il punto è che tu dai per
scontato che il cammino verso quel luogo non conti e di sapere dove
andrai a finire. Invece, non si può mai sapere nulla con
certezza.»
«A meno che tu non abbia una profezia, s'intende.»
A quel punto la giovane scosse il capo e, infine, i due ragazzi
scoppiarono in una risata. Sapevano venirsi incontro, ascoltarsi, ma
non scendere a compromessi; quella conversazione sarebbe potuta andare
avanti all'infinito.
Anche il maestro Athal sorrideva, adesso. Con il fare dell'arbitro,
sentenziò: «Bene, bene. Due visioni opposte della
questione: da un lato chi crede che il destino sia un libro
già compiuto che ci viene consegnato alla
nascita.» Guardò Aran. «Dall'altra chi
pensa che sia un racconto che scriviamo noi vivendo.»
Guardò Freya.
L'uomo sembrava molto soddisfatto della loro predisposizione al
dibattito e non faceva mai nulla per scoraggiarli dal parlare.
Perciò, anche in quel caso, non commentò
né tanto meno corresse il pensiero di nessuno dei due. Non
lo diceva mai ad alta voce, ma avevano entrambi l'impressione che fosse
molto orgoglioso di loro. Ascoltava ciò che avevano da dire;
partecipava alla loro ilarità quando riconoscevano la
rispettiva testardaggine; e a volte interveniva perfino con i suoi
commenti pungenti.
Intanto, il dilemma di Creantis non abbandonava mai Freya: anzi, la
tormentava anche in quei momenti. La sera stessa del loro rientro da
Errania, tornata alla sua stanza, aveva consultato le Saghe di Finian;
sapeva bene cosa vi avrebbe trovato, ma non si sarebbe data pace fino a
che non l'avesse riletto e perciò l'aveva fatto. Mentre
leggeva, l'inquietudine aumentava: esattamente come ricordava, l'autore
del compendio descriveva il culto di Riagàn come giusto e
generoso. Da quel momento, le parole di Aran e quelle del misterioso
scrittore avevano iniziato ad alternarsi nella sua mente, tanto diverse
da stridere terribilmente.
Col passare dei giorni, la giovane si convinceva sempre di
più a confrontarsi proprio con il maestro Athal. Una parte
di lei si sentiva in colpa: aveva promesso ad Aran di essere sincera,
eppure esitava a parlare. L'altra parte, però, era certa che
la cosa migliore da fare fosse discuterne prima con il precettore. Da
ciò che aveva capito, era stata la Regina stessa a spiegare
ad Aran perché avesse bandito il culto di Creantis e
perché non volesse che ne parlassero; mettere in discussione
le parole di Aran significava questionare Mirea stessa. E per quanto
curioso e sempre aperto a ogni possibilità, il Principe
sarebbe rimasto sconvolto dall'ipotesi che sua madre avesse mentito.
Attivando i suoi poteri gli aveva già dato abbastanza a cui
pensare: quella era una faccenda di cui doveva occuparsi lei.
Terminata la lezione, i due ragazzi tornavano alle cucine per pranzare.
Le cuoche facevano sempre trovar loro un buon pasto caldo e
chiacchieravano insieme ai giovani allegramente, a proprio agio come lo
sarebbero state con i loro figli. Freya anelava spesso quegli attimi di
tranquillità: le permettevano di immaginare la vita semplice
e normale che le mancava sempre di più. Aveva creduto che
Errania sarebbe stata la fine di tutte le domande; invece, in quel
palazzo, ne aveva trovate infinite altre, ancor più
complicate. In un certo senso era affascinante essere sempre alla
ricerca di qualcosa, ma ciò non toglieva quanto fosse
estenuante.
Terminato il pasto avevano solitamente un paio di ore di pausa. Era il
momento in cui Freya e Aran soddisfacevano il proprio bisogno di stare
soli con sé stessi e si dedicavano ad attività
differenti, separandosi fino all'ora dell'addestramento. Dal momento in
cui avevano affrontato l'argomento profezie, Aran aveva iniziato a
leggere trattati di astronomia. Non si poteva rintracciare nulla
riguardo le predizioni, dato che la Regina considerava le vecchie
credenze inutili, ma la trovava lo stesso un'interessante branca della
conoscenza. Freya, invece, aveva iniziato a scrivere; si trattava
più che altro di una raccolta dei propri pensieri, che
metteva giù su fogli di pergamena sparsi, seduta al tavolino
della propria stanza. Stava scoprendo come le parole, prendendo forma
fisica, diventavano all'improvviso più sensate.
Con l'accorciarsi delle giornate e l'avvento del freddo,
però, il programma cambiò: appena il tempo di
digerire e poi si recavano immediatamente alla sala d'addestramento
interna. Si trattava di una stanza lunga e piuttosto stretta, cui si
accedeva attraversando l'armeria adiacente i campi d'allenamento
esterni. Lì i Principi e i membri della guardia personale
della Regina si allenavano nella scherma quando il tempo non permetteva
altrimenti.
Seduta sul pavimento, la giovane restava a guardare i duelli di Aran e
Darragh, che in quel frangente non avevano alcuna
possibilità di evitarsi. Non parlavano praticamente mai; si
limitavano semplicemente a fare ciò che il maestro d'arme
comandava loro. Quando l'insegnante li lasciava andare, Darragh
proseguiva ancora insieme alle guardie; Aran, invece, riprendeva con
Freya. Oramai, tutti gli altri uomini si erano abituati alla sua strana
consuetudine di allenare la ragazza e non li osservavano più
increduli come prima.
Seppur lentamente, iniziavano a vedersi alcuni miglioramenti. Le
braccia della giovane non tremavano più, quando parava un
colpo; i suoi movimenti di base erano diventati più fluidi.
Non era ancora mai riuscita a disarmare Aran, ma per lo meno gli teneva
testa. Per lei, che non aveva mai pensato di essere portata per la
spada, era comunque fonte di soddisfazione.
Le prime ore pomeridiane scivolavano via in quel modo.
Era solo nella seconda metà del pomeriggio che i due ragazzi
si potevano concedere un po'; di riposo. Si dedicavano alle
loro attività personali, poi ritornavano alla Biblioteca e
davano inizio alla loro esplorazione. L'avevano ripresa il giorno dopo
la visita a Errania e l'impossibilità di uscire dava loro
una motivazione in più per proseguire: durante l'inverno
sarebbe certamente diventata una delle occupazioni principali dei loro
giorni di libertà. Continuavano a trovare di tutto, tranne
che l'oggetto delle loro ricerche: una mappa estesa e dettagliata del
mondo così com'era al presente.
A sera percorrevano la strada di ritorno alle loro stanze in silenzio e
infine si congedavano. Attendevano che le voci dei loro sogni si
facessero sentire, per capire se ora che sapevano l'uno dell'altra
avrebbero avuto qualcosa da dire. Per il momento, però, le
loro notti vennero attraversate solo da quella stessa identica visione
del pilastro, sempre più insistente.
Le voci restavano silenti.
Dovettero attendere quasi una settimana prima che gli acquazzoni
cessassero.
Un mattino Freya si alzò e si accorse che il cielo era
sgombro, sebbene il sole fosse pallido e il freddo fosse sempre
più tagliente. Ben sapendo cosa avrebbero fatto quel giorno,
la ragazza si preparò alla cavalcata: indossò un
bell'abito di lana blu; poi i nuovi stivali alti procurati da Malia, la
quale non aveva più sopportato di vederla indossare i suoi
calzari vecchi e logori; infine il mantello più pesante che
avesse. Contrariamente al solito, lasciò indietro l'arco:
non le sarebbe servito.
Quel giorno sarebbe stato interamente dedicato alla magia. Quel giorno,
lo sentiva, avrebbe parlato ad Aran della scomparsa di Eleana. Al
pensiero, un brivido ben più profondo di quelli causati dal
gelo la squassò.
Arrivata alle cucine scoprì che Aran aveva già
fatto colazione, recuperato qualche pezzo di pane e formaggio per il
pranzo e l'attendeva alle scuderie. La cuoca sembrava divertita dalla
fretta che aveva dimostrato il giovane Principe, ignara della
motivazione di tanta agitazione. Anche Freya era agitata, ma sospettava
che le sue ragioni fossero leggermente diverse. Mangiò
più velocemente che potè, poi si avviò.
Come le era stato detto Aran era già lì, accanto
a Nieva, intento a prepararla. La meravigliosa giumenta grigia si
lasciava sellare docile, tendendo di tanto in tanto il muso ai cerali
nella sua mangiatoia. Quando scorse Freya, alzò la grande
testa e nitrì. La reazione dell'animale attirò
l'attenzione del ragazzo, che si girò a propria volta. Le
sorrise. Sembrava davvero emozionato all'idea che, per la prima volta
da quando era comparso, avrebbe provato a evocare il potere di propria
volontà.
Nonostante tutto, Freya ricambiò. Era in ansia, certo, ma
anche per lei si trattava di una novità: prima di allora
aveva sempre cercato di far finta di non possedere alcun tipo di magia,
nascondendola perfino a se stessa. Sì, era decisamente
emozionante quello che stavano per fare: semplicemente, Freya non
riusciva a decidere in quale senso lo fosse per lei.
Fortunatamente, la cavalcata riuscì a risollevare il suo
umore, almeno per poco. Lei e Aran fecero a gara nel primo tratto, fino
a che Stellato e Nieva non si furono ben scaldati, ridendo e giocando
spensierati. Anche i due cavalli sembravano divertirsi, scattando e
scartando in quella corsa improvvisata, o almeno così
piaceva pensare ai due giovani. Quando furono troppo stanchi
rallentarono al trotto e poi al passo.
Restare tanto tempo a contatto con Stellato, in qualche modo,
riuscì a rassicurarla. La sua fierezza, la sua sicurezza, la
sua calma: ammirava quegli aspetti dell'animale proprio come se lui
fosse stato un essere umano. La verità era che lo stallone
sapeva perfettamente quanto valeva e questo si rifletteva nel suo
temperamento; Freya avrebbe voluto prendere esempio da lui e saper
valutare tutto con la stessa fiducia nel proprio istinto. Stellato
aveva uno spirito indomito e lo abbracciava al punto da seguirlo
sempre. Era una creatura intelligente, con cui le sembrava di parlare
anche senza farlo ad alta voce. Mentre procedevano ad andatura lenta si
prese del tempo per lasciargli delle lievi carezze a lato del collo.
Quando il loro respiro si fu regolarizzato ripartirono al galoppo.
Mancava oramai poco e in breve la solita radura li accolse, unico luogo
protetto nella vastità delle piane su cui posava il
castello. Freya osservò Aran mentre si guardava intorno,
più pensieroso che meravigliato come la prima volta che
erano stati lì insieme. Il ragazzo si avvicinò al
tronco di uno degli alberi circostanti e vi posò una mano,
quasi si aspettasse che reagisse in qualche strana maniera. Per un
attimo anche Freya lo credette: ricordava benissimo gli scricchiolii
del legno mentre i loro poteri entravano in contatto. Ma la foresta
restò immobile, in solenne e assoluto silenzio.
Quando Aran tornò a guardarla le rivolse un sorriso
imbarazzato. «Lo so, è stato assurdo da parte mia
credere che sarebbe successo di nuovo» disse, camminando
verso di lei.
«Non tanto quanto credi» rispose Freya, sedendosi a
terra a gambe incrociate. «Succedono un sacco di cose assurde
e improvvise quando si parla di questo potere.»
Abbassò lo sguardo su foglie e muschio; quando lo
rialzò, sul viso di Aran era comparsa la solita espressione
preoccupata. Non per la situazione: per lei. «Vorrei saperti
dire di più, Aran. Vorrei poterti spiegare meglio che
cos'è, ma non ne ho la minima idea io stessa.»
Ecco, stava iniziando a liberarsi di una parte del peso che la
opprimeva.
Aran continuò ad avanzare fino a sedersi di fronte a lei. Si
mise comodo, aggiustandosi il mantello sulle spalle per salvaguardarsi
dagli spifferi, poi si fermò con gli occhi puntati in quelli
di lei. «Come si è mostrato la prima
volta?» chiese, con delicata fermezza.
Fino a quel momento non le aveva mai domandato nulla: seppur non
conoscendo le motivazioni, capì Freya, lui aveva intuito che
quel discorso la metteva in difficoltà. Deglutì a
vuoto. Poi si decise a rispondere: «Avevo nove anni. Ero nel
bosco con mia madre. Ricordo di essermi chinata per raccogliere una
qualche erba di cui avevamo bisogno e...» Prese un respiro
profondo. «La luce mi ha accecata all'improvviso. Sul subito
non ho nemmeno realizzato che provenisse da me.»
Aran sembrò riflettere. Corrugò le sopracciglia e
assottigliò gli occhi, permettendo al piccolo solco che
compariva fra di esse in quelle circostanze di fare capolino.
«Tua madre cosa ti disse?»
«Solo di non pensare che fosse un gioco» rispose
lei, sincera. «Da quando lei se n'è andata non li
ho mai più rievocati.»
Il giovane indagò la sua espressione. Sembrava che stesse
realizzando che presto si sarebbe sentito dire qualcosa di estremamente
ingombrante. Comunque, parve decidere che sarebbe stata lei a parlare,
quando se la fosse sentita. Si fregò le mani, oramai
intirizzite dal gelo, e si mise sulle ginocchia. «Bene, sono
pronto» asserì, chiudendo per il momento
l'argomento. «Credo che sia arrivato il momento di vedere
cosa ne uscirà questa volta.»
Freya prese la stessa posizione e decise di focalizzarsi su
ciò che stavano per fare. L'ultima volta le era bastato
mettere le mani nella terra e lasciare che il potere fluisse,
perciò anche per Aran non sarebbe dovuto essere tanto
diverso. Conscia che in ogni caso non avrebbe potuto consigliargli
molto di più, ripeté ad alta voce quello che
aveva pensato.
Provarono entrambi nello stesso momento. Freya puntò su
quello a cui era abituata: cercare di far crescere qualcosa. Era
l'unica abilità che le si fosse palesata e per il momento
preferiva limitarsi a perfezionare quella. Aran, invece, tenne le mani
posate sulle ginocchia con i palmi rivolti all'insù,
chiudendo gli occhi. Non c'era nessuna regola in quella situazione,
perciò un metodo valeva l'altro. In fondo, sembrava che
anche il vento terrificante che si era alzato la notte del ballo fosse
opera loro, perciò il potere poteva non essere legato solo
alla terra.
I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Inizialmente non
comparve assolutamente nulla, poi, almeno per Freya, si
passò a delle brevi e fugaci scintille. Le mani di Aran
restavano quiete, ma lui non sembrava troppo sorpreso: stava cercando
di evocare una magia di cui per anni non aveva nemmeno sospettato
l'esistenza; non si aspettava certo che fosse tanto facile. Per la
giovane, invece, era un pò più frustrante: sapeva
di averlo sempre rifiutato, ma sembrava proprio che quel giorno fosse
il potere a rigettare lei. Era come se le stesse facendo pagare tutti
gli anni in cui lei l'aveva recluso e, allo stesso tempo, qualcosa lo
bloccasse senza che lei lo volesse.
«Non hai davvero fatto altro che concentrarti, la scorsa
volta?» domandò Aran a un certo punto,
strappandola dai suoi insuccessi.
Freya riaprì gli occhi e lo mise a fuoco. Annuì.
«Ho solamente...» Si zittì bruscamente.
«Forse... Forse concentrare non è il termine
giusto» mormorò poi, pensierosa. «Credo
di aver solo permesso che emergesse. È stato come lasciar
fluire qualcosa che sapevo perfettamente essere dentro di me e che mi
aspettava appena oltre la soglia della mia anima.»
«Perciò... Credi che la mente vada lasciata da
parte?» domandò Aran.
«Penso che la parte razionale sia il mezzo giusto per
controllare il potere una volta che lo hai fra le mani, ma non per
evocarlo all'inizio» rispose Freya, seguendo il proprio
stesso ragionamento.
Ritentarono. Chiusi gli occhi, Freya si rese conto che era proprio
quello il problema: la sua mente si agitava frenetica, presa da mille
pensieri e dal ricordo di Eleana che si allontanava nella foresta e
spariva per sempre. Stava monopolizzando tutta l'energia che avrebbe
dovuto impiegare nella magia. Non ci riusciva; sentiva solo un peso
terrificante sul cuore e sullo stomaco. Resistette all'impulso di
spalancare gli occhi più che potè; ma quando il
tutto si fece insostenibile fu costretta a lasciare il buio sempre
più soffocante della propria coscienza.
La vista che l'accolse non fece altro che accrescere a dismisura il suo
conflitto interiore. Aran ci era riuscito: la luce aranciata era
ritornata a fluire nelle sue vene e s'irradiava dalle sue mani aperte,
brillando come un piccolo sole disceso fra gli alberi. Intorno a lui,
scostando tenacemente foglie cadute e muschio, crescevano sottili steli
d'erba. Erano di un bel verde, brillante e pieno di vita. Era uno
spettacolo stupefacente. Freya sentì la meraviglia
mescolarsi all'angoscia, in uno strano miscuglio che le
mozzò il respiro.
In quell'istante, Aran la guardò. Era talmente stupito da
quello che era riuscito a fare che sembrava non poter fare altro che
sorriderle, incredulo. Lei avrebbe voluto ricambiare quel gesto come
faceva sempre, l'avrebbe voluto davvero. Invece, abbassò lo
sguardo sulle proprie mani e si ritrovò a sussultare:
esattamente come la volta precedente, i loro poteri sembravano aver
reagito alla reciproca vicinanza. In risposta a quello di Aran, il suo
le aveva inondato le vene di luce smeraldina, che improvvisamente le
sembrò bruciare come un fardello insostenibile.
Senza più riuscire ad arginare le proprie emozioni, la
giovane balzò in piedi, allontanandosi bruscamente dal
centro della radura. La luce verde scomparve all'improvviso e a breve
anche il potere di Aran si ritrasse, forse per lo spavento che gli
aveva fatto prendere. Freya avrebbe voluto spiegare, ma in quel momento
le era impossibile respirare, figurarsi formulare un discorso
comprensibile. Restò di spalle, cercando di inalare almeno
quel poco d'aria che rimettesse in moto i suoi polmoni, ma il nodo che
aveva in gola le impediva di farlo. La vista le si annebbiava a tratti,
un po' a causa delle lacrime e un po' per l'attacco di panico che la
stava assalendo. L'irrazionale sensazione che sarebbe accaduto qualcosa
di tremendo si era fatta incontenibile.
Era talmente persa in quell'incubo a occhi aperti che quando Aran le
posò una mano sulla spalla sobbalzò. Si
voltò di scatto, tendendo le mani in avanti: si sentiva
fuori controllo e provava l'assurdo timore di fargli del male. Il
giovane Principe sgranò gli occhi, come se lo avesse colpito
con uno schiaffo in pieno viso. Fu solo alla vista della sua
espressione che Freya trovò la forza di parlare.
«Sono stata io» disse, la voce che le tremava
incontrollata.
«Di cosa stai parlando, Freya?» domandò
Aran, realizzando che la sua reazione era legata alla stessa cosa che
logorava la sua anima oramai da tempo. Nel suo tono c'erano una
preoccupazione e una comprensione che le erano insostenibili.
«Sono stata io!» ripeté, questa volta a
voce talmente alta da trasformarsi in un grido. «Io sono la
causa della sua scomparsa!»
Di fronte a quell'affermazione Aran s'immobilizzò. Era fin
troppo perspicace per aver bisogno di chiederle a chi si stesse
riferendo, ma la sua confusione era palese. Le si avvicinò
di un passo, ma quando lei arretrò si fermò
nuovamente e domandò: «In che modo potrebbe essere
colpa tua?» Nel suo tono non c'erano orrore o pena, ma ancora
quella dolcezza che lei sentiva di non meritare affatto.
«Se... Se questa dannata cosa non fosse mai comparsa, mia
madre non avrebbe... Lei non sarebbe mai...» La voce
iniziò a mancarle e con sgomento la giovane si rese conto di
non riuscire più a trattenere le lacrime. Iniziarono a
scorrerle lente e calde lungo le guance; più lei tentava di
ricacciarle indietro, più le sue spalle sobbalzavano, in
preda ai singhiozzi. «Lei se n'è andata per... per
capire come aiutare me! Per capire cosa fare con questi maledetti
poteri! Avrei dovuto chiederle dove sarebbe andata... No, sarei dovuta
andare con lei! Invece... Lei è...» Un altro
singhiozzo la squassò, spezzando le sue parole. «E
io non saprò mai cosa...»
Da anni Feya non si concedeva più il lusso di lasciarsi
andare a una simile disperazione. Fino a che si era comportata come se
i poteri non si fossero mai fatti vivi, trattenere ogni cosa era stato
possibile. Ma ora che la magia splendeva nuovamente nelle sue vene non
lo poteva più fare. Perciò smise di lottare e
semplicemente pianse, sebbene si sentisse un completo fallimento per
essere andata in mille pezzi di fronte ad Aran.
La vergogna continuò a bruciare ardente in lei, almeno fino
all'istante in cui si sentì circondare e stringere dalle
braccia di lui. Provò a opporsi, quasi inconsciamente.
«No! Io non... Io non merito la tua compassione!»
gridò in mezzo alle lacrime.
Aran non si scompose minimamente. Si limitò a stringerla
ancora più forte. Quando le ginocchia di Freya si fecero
troppo deboli scese fino a terra con lei, continuando ad abbracciarla
in perfetto silenzio.
«Non merito nulla di tutto questo...»
mormorò ancora, troppo stanca per poter tenere lo stesso
tono di prima.
Le lacrime, nel frattempo, non accennavano a fermarsi. Lo strazio era
tale che Freya non riusciva più ad avere alcuna cognizione
di ciò che aveva intorno; solo il dolore sembrava avere
ragione di essere, l'unico di cui poteva sentire la voce. Non
realizzava di star attraversando tutto in una volta anni di emozioni
che in passato era stata troppo piccola per processare appieno. Non
realizzava di pesare completamente su Aran, il cui abbraccio era
l'unica cosa che le impediva di lasciarsi andare a terra e non
rialzarsi più.
Alla fine, solo lui fu in grado di arrivarle al di là di
quella cortina di pena. A un tratto, a far da contraltare a
quell'immensa tristezza comparvero la sua presenza, il suo calore e le
sue mani che lentamente le accarezzavano il capo e la schiena. Non
parlava, si limitava a quel semplice e rassicurante gesto; in quel
momento era tutto ciò di cui Freya avesse bisogno. Forse
Aran nemmeno si rendeva conto di quanto stesse facendo per lei.
Rimasero seduti in quel modo per un tempo impossibile da determinare.
Quando il pianto cessò Aran non la lasciò andare
e Freya non fece nulla per riprendere le distanze. Qualcuno avrebbe
anche potuto considerarlo sconveniente, ma a nessuno dei due importava.
Esserci l'uno per l'altra era oramai divenuta una consuetudine, per
loro; la giovane non sapeva nemmeno più come avrebbe mai
potuto rinunciarvi.
Poi, il Principe parlò. La sua voce era sommessa, lieve.
«Perché non mi hai mai detto prima come ti
sentivi?»
«Perché sono una codarda»
mormorò lei, la voce graffiata dal lungo pianto e il viso
seppellito nella casacca di lui. Sì, era stata una codarda e
lo era anche in quel preciso momento: avrebbe dovuto guardarlo negli
occhi, ma non ne aveva la forza. «Non ho saputo far altro che
nascondere la verità... Su mia madre, su questo potere... Su
me stessa. Io non sono chi pensi tu.»
Aran tacque nuovamente. Stava forse realizzando che lei gli aveva
celato qualcosa di estremamente grave e presto si sarebbe allontanato,
lasciandola sbriciolarsi come argilla calpestata? Freya non aveva mai
sentito di aver bisogno di qualcuno come in quel momento e se in
quell'istante non fosse stata tanto fragile se ne sarebbe spaventata.
Eppure, Aran non fece nulla di ciò che lei si era
immaginata: non si separò da lei; non la costrinse ad alzare
il capo per avere conferma di essere stato ingannato.
Contiuò a fare esattamente quello che stava facendo e, nel
mentre, parlò. «Vorrei avere le parole necessarie
per farti capire che ti sbagli, Freya. Vorrei che tu mi credessi se ti
dicessi che tutte le colpe che ti addossi sono dovute al tremendo
dolore che hai patito» Nel suo tono fece capolino una vena di
tristezza. «Ma so che nulla di ciò a cui potrei
pensare avrebbe questo potere. Questo è qualcosa che solo tu
potresti fare per te stessa.»
Solo allora Freya alzò la testa e lo guardò. Non
importava quanto poco coraggiosa si sentisse: glielo doveva.
Aran ricambiò la sua occhiata.
«C'è solo una cosa che voglio e posso fare:
assicurarmi che tu sappia chi sei. Tu, Freya, sei una creatura
straordinaria. Non per quello che c'è stato nel tuo passato
o per un qualche potere misterioso, ma per quello che sei. Affronti
ogni cosa con resilienza; impari da ogni circostanza che la vita ti
riserva, in ognuna trovi del buono da proteggere e fai in modo che lo
veda anche chi non sa guardare il mondo con i tuoi occhi. Hai una
parola gentile per chiunque incroci il tuo cammino, ma non per questo
permetti agli altri di piegare te e i tuoi ideali.» Si
fermò a riprendere fiato. «Come ogni essere al
mondo hai i tuoi difetti. Sei talmente ostinata che vai sempre avanti
nei tuoi propositi senza ascoltare niente e nessuno, anche quando
sarebbe necessario. Quando t'infervori sei così diretta che
sembri una lama pronta a colpire. E spesso pensi che l'unico modo per
affrontare il dolore sia chiuderti in te stessa e respingi chiunque e
qualunque cosa. Ma non c'è niente che non vada, in te. Non
ho mai conosciuto una persona come te e ho imparato sulla mia pelle che
vale la pena averti nella propria vita. Tua madre e tuo padre sarebbero
orgogliosi di ogni parte di quello che sei diventata.»
Freya non poté; far altro che tacere. Entrambi, seppur per
ragioni differenti, tendevano ad avere un carattere piuttosto
riservato. Lei aveva presto imparato quanto le venisse difficile
esternare le proprie emozioni in mezzo alle persone a cui non era
abituata; Aran tendeva a contenersi per com'era stato educato, si
trattasse di emozioni positive o negative. Fra di loro,
però, non avevano mai faticato a esprimere il proprio mondo
interiore.
Nonostante questo, sentirlo parlare in quel modo, a cuore aperto, la
colse impreparata. Tutto ciò di cui aveva avuto paura
sembrò scivolare via. Non sapeva bene se avrebbe potuto
credere a quelle parole, ma voleva disperatamente farlo. Voleva davvero
credersi capace di fare tutto quello di cui Aran la riteneva in grado.
«Grazie» mormorò, mentre un'ultima
lacrima le solcava la guancia.
Più per istinto che per altro, Aran raccolse la goccia
salata prima che arrivasse a toccarle il mento. Le sue dita sfiorarono
lo zigomo di lei e poi v'indugiarono, fino a che l'intero palmo della
sua mano non aderì alla pelle di Freya.
Perfino nello stordimento la giovane riuscì a percepire che
stava accadendo di nuovo. Era la stessa identica sensazione di quel
giorno a Errania, quando la pioggia li aveva colti alla sprovvista ed
erano dovuti correre al riparo. Ricordava perfettamente quell'emozione
sconosciuta e sconvolgente, ma quella volta il tuono l'aveva spezzata,
riportandola coi piedi per terra.
Adesso Freya rimase immobile, in attesa di vedere che cosa sarebbe
successo. Alla stesso modo restò Aran, coinvolto tanto
quanto lei in quell'istante d'inspiegabile aspettativa. I loro sguardi
restavano uniti, i respiri trattenuti; come se le loro vite potessero
cambiare da un istante all'altro, con una sola parola, in un unico
gesto.
Poi, le dita di Aran si mossero nuovamente, liberando la fronte di
Freya da una ciocca sparsa ed entrambi loro dall'immobilità.
La giovane si sporse quasi inconsapevolmente in avanti; lui
esitò prima di fare altrettanto, come se fosse diviso fra
due possibilità, ma alla fine posò le labbra
sulla fronte di lei. Era un gesto semplice, forse meno di quanto
avrebbe potuto essere, ma scatenò nel cuore della ragazza
qualcosa che non assomigliava a nulla che avesse mai provato prima.
Da una vita Freya non avvertiva sulla propria pelle un contatto simile.
Ricordava bene che sua madre le aveva sempre dato la buonanotte nello
stesso modo, ma questa non era decisamente la stessa cosa. Non aveva la
minima idea di come gestire quella nuova emozione, eppure non ne aveva
nemmeno timore; anzi, avrebbe voluto che non l'abbandonasse mai.
Il Principe indugiò un lungo momento in quel gesto. Infine,
posò la fronte su quella della ragazza e
l'avvicinò ancor di più a sé.
«Ricordi quando abbiamo deciso che avremmo affrontato insieme
gli incubi e tutto il resto?» le domandò.
«Sì» mormorò Freya. Non
l'avrebbe mai dimenticato.
«Questo non è diverso.» La sua voce era
risoluta. «Impareremo tutto quello che c'è da
sapere insieme. Non succederà nulla di male. Devi solo avere
fiducia in te stessa e in me.»
«Non ho mai creduto in nient'altro come in questo»
rispose lei, lasciando andare quelle parole come una confessione a
lungo serbata.
Aran si scostò e la guardò dritto negli occhi.
Nuove domande si andavano formando tra loro; non erano misteriose come
tutte quelle già presenti ma, per il momento, erano
informulabili. Forse in realtà entrambi già
sapevano, o forse no; non era il frangente per scoprirlo.
I due ragazzi ritornarono al silenzio e, in quel silenzio, si strinsero
ancora come se nient'altro avesse importanza.
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Capitolo 21 *** CAPITOLO 20 - Separazione ***
CAPITOLO
20
-SEPARAZIONE -
Da quel momento in poi la vita a Errania assunse un ritmo regolare.
Con enorme sollievo di Aran, finalmente Freya sembrava essersi
alleggerita del peso che l'aveva oppressa nelle ultime settimane e
aveva ritrovato serenità. Il giovane era consapevole che non
sarebbe bastato così poco per farle lasciar andare il suo
senso di colpa, ma per lo meno stava iniziando ad accettare la presenza
del loro comune potere. Parlarne non le era più tanto penoso
e, lentamente, la paura stava lasciando il posto alla
curiosità che Freya aveva sempre avuto per l'ignoto.
Aran era felice. Per tutta la vita la curiosità era sempre
stata la sua forza motrice e ora poteva condividerla con qualcuno che
capiva quanto fosse bello scoprire sempre cose nuove. Lui era stato
così fin da piccolo: tutti i suoi guai erano giunti dalla
sua smania di sapere tutto. Ricordava le espressioni dei servitori che
avevano dovuto sopportare le sue tante domande; ricordava sua madre che
si occupava degli affari del regno mentre rispondeva a lui. Rammentava
molto bene anche Darragh, il quale s'innervosiva sempre quando lui
prolungava la lezione più del dovuto per approfondire
un argomento; tutto ciò che il fratello voleva
fare era correre a prendere la spada in mano.
C'era solo una cosa su cui la sua curiosità era sempre stata
frenata: la sua vita prima di essere accolto al palazzo. Aveva saputo
di essere stato adottato fin da quando era bambino; sua madre aveva
voluto essere sincera con lui e crescendo Aran l'aveva molto
apprezzato. Significava che lo considerava capace di relazionarsi con
la realtà. Poi, però, aveva sempre messo a tacere
determinate sue domande: sapeva chi erano i suoi genitori? E
perché avevano deciso di abbandonarlo in quel modo?
Il giovane aveva sempre intuito che Mirea sapesse qualcosa. Lei era
molto controllata, quando doveva parlare con loro, ma in quei momenti
lui sentiva che la Regina nascondeva una verità. Alla fine,
la sola risposta che aveva ricevuto era stata: “Devo
proteggerti da questa terribile vicenda, Aran. Ci sono cose che ora non
posso dirti.”
La parola ora, inizialmente, gli aveva fatto sperare che un giorno la
madre avrebbe parlato. Poi, erano arrivati gli incubi. Era incominciata
proprio con il solo che lui e Freya non avevano in comune: la casa in
fiamme e le urla della donna. Aran si era reso conto che era una scena
che aveva già visto sporadicamente in sogno, quando era
molto più piccolo; ma una volta diventato grande era stato
diverso. Non solo non l'aveva più abbandonato: era diventata
il terrore di molte sue notti. Non capiva come ora che era cresciuto
potesse fargli più effetto di quando era un infante, eppure
era così. Era come se prima non potesse capire quelle
tremende immagini; come se all'improvviso avessero acquisito un senso.
E quando era comparso anche l'incubo del pilastro, aveva infine potuto
fare una netta distinzione: il pilastro era qualcosa che conosceva, ma
era certo di non aver mai visto, anche se non sapeva come; la casa in
fiamme, invece, era molto più personale. Lui doveva averla
vista. Da lì, aveva iniziato a sospettare che si trattasse
di un ricordo, molto lontano ma abbastanza traumatico da segnare un
bimbo di appena due anni.
Tutta la voglia di scoprire le sue origini era lentamente sfumata nel
fuoco che gli compariva dietro le palpebre quando si addormentava. Per
un po' aveva tentato di tener vivo il proprio coraggio, dicendosi che
nel momento in cui fosse stato abbastanza grande avrebbe posto di nuovo
la domanda. Man mano che l'incubo lo tormentava, però, la
paura era divenuta sempre più forte e l'aveva soffocato. Un
giorno si era detto che se la madre non gli voleva dire nulla era
perché si trattava di una vicenda ben più tragica
di quanto avesse sospettato e aveva messo da parte ogni quesito.
La presenza di Freya era riuscita a placare un poco il terrore. Lei non
aveva mai sognato la casa e gli aveva confermato che poteva essere un
ricordo; ma nonostante non conoscesse l'incubo, era la sola con cui ne
avesse parlato. Ogni volta che lo riviveva, sapeva che lei l'avrebbe
ascoltato in silenzio e gli avrebbe posato una mano sulla spalla.
Oramai riusciva persino a notare da sola quando
l'incubo tranciava il suo sonno; le bastava guardarlo in faccia la
mattina, mentre facevano colazione. Aran aveva pensato che avrebbe
tentato di incoraggiarlo a fare qualcosa riguardo il proprio passato,
ma la ragazza non aveva mai detto nulla. Come sempre, rispettava le sue
tempistiche in tutto e per tutto.
Il pilastro, comunque, restava sempre il cruccio di entrambi. Lo
vedevano oramai tutte le notti e la stanchezza era diventata loro
inseparabile compagna. Ne parlavano ancora, soprattutto nei momenti di
pausa, ma non c'era molto da dire: avevano capito solamente che, man
mano che il tempo avanzava, gli elementi della visione si facevano
sempre più nitidi. Le loro sensazioni e la visione in
generale, però, restavano sempre le stesse. E fino a che
qualcosa di nuovo non si fosse rivelato, sarebbero rimasti sospesi
nell'incertezza.
Nonostante tutto questo, nessuno dei due aveva rinunciato a cercare
qualche indizio, sia sul pilastro che sui loro poteri. Fin da subito la
Biblioteca non era sembrato il posto giusto per trovare simili
informazioni: per quella ragione, dopo molto tempo, si erano recati
nuovamente alla Sala degli Incantatori. Una mattina si erano alzati
quando la luce del sole a mala pena s'intravedeva in cielo e vi si
erano intrufolati. Era bastato un pizzico d'attenzione: a quell'ora
solo cuochi e fornai erano all'opera, nelle cucine del castello, e la
sentinella passava di lì solo una volta ogni ora. Era facile
scorgere la luce della lanterna di quest'ultima filtrare da sotto i
battenti della porta, perciò era facile anche sapere quando
non uscire. Inoltre, a quell'ora la guardia era oramai più
concentrata sul cambio che avrebbe avuto di lì a poco.
Trovata la giusta tempistica, avevano iniziato a ritrovarsi alla sala
almeno tre volte la settimana, incuranti delle possibili ripercussioni.
Vi trascorrevano un'ora o poco più alla volta, per avere
ulteriore sicurezza di non essere scoperti, e in quel breve tempo
leggevano avidamente tutto ciò che trovavano. Aran non aveva
la ben che minima nozione di magia e Freya aveva fin da subito messo in
chiaro il poco che sapeva: gli Incantatori evocavano i loro poteri
tramite simboli, i Runíar, che venivano combinati fra loro.
Alla luce di questo avevano una sola certezza: loro due erano qualcosa
di diverso rispetto ai tradizionali detentori della magia; e il solo
luogo in cui avrebbero potuto trovare qualcosa sulla natura delle loro
capacità era quella Sala. Inoltre, se il pilastro era un
manufatto magico conosciuto poteva essere descritto in uno dei libri
lì custoditi.
Nel castello non c'era più nessun altro posto in cui si
trovasse traccia della magia; l'ennesima ricerca doveva concentrarsi
per forza lì: era ciò che si ripetevano alba dopo
alba, quando tornavano alle loro stanze a mani vuote e con gli occhi
che bruciavano. I formulari raccolti nella Sala degli Incantatori erano
certamente affascinanti, nonostante con le loro competenze risultassero
ben poco comprensibili. In essi, però, non v'era alcuna
traccia della storia o delle possibili forme di potere. Li scorrevano
uno per uno con perizia, sperando prima o poi di imbattersi in un
volume di diversa natura, ma per il momento non avevano trovato nulla.
Quando si stancavano dell'argomento, cambiavano obiettivo e passavano
al pilastro, ma anche con quest'ultimo non avevano ancora avuto fortuna.
Seppur con un certo senso di colpa, Aran doveva ammettere che non
sempre la sua attenzione era rivolta pienamente agli antichi tomi. Di
tanto in tanto, in quelle ore in bilico fra notte e giorno, il giovane
si ritrovava a osservare Freya, seduta spesso di fronte a lui. Guardava
il suo capo chino sulle pagine in carta pergamena, la sua espressione
assorta, i capelli lunghissimi che le cingevano le spalle e ricadevano
fin quasi a toccare il pavimento. Senza poterne fare a meno rievocava
quei momenti in cui i loro volti erano stati vicinissimi e in cui lui
era stato fin troppo consapevole del fatto che sarebbe bastato
pochissimo. Un solo, infinitesimo movimento e avrebbe posato le labbra
sulle sue.
Per un istante aveva pensato che l'avrebbe fatto davvero, poco prima
che il tuono rimbombasse in quella stradina di Errania; e l'aveva
creduto anche nella radura, prima di ritornare coi piedi per terra e
realizzare che non sarebbe stato il momento opportuno. Avrebbe avuto
disprezzo di se stesso se avesse compiuto un gesto del genere mentre
Freya si trovava in un tale momento di debolezza. Entrambe le volte, in
qualche modo, era riuscito a controllarsi e lui stesso si era sorpreso
della propria forza di volontà. Mai in vita sua aveva
provato un desiderio tanto intenso di fare qualcosa.
Certo, non era mai stato indifferente al fascino femminile. Fino a quel
momento, però, era stato assorbito dagli studi e dagli
allenamenti, sempre più intensi man mano che cresceva; non
aveva avuto poi molto tempo per pensare alle possibili relazioni con il
sesso opposto. Inoltre, nessuna prima di allora aveva destato in lui un
interesse tale da fargli pensare di farsi avanti in qualche modo.
Freya, come sempre, era qualcosa di diverso. Non aveva mai incontrato
qualcuno capace di farlo uscire tanto da quello che era il suo
ordinario, in qualunque ambito della sua esistenza. Con lei rifletteva
su cose a cui non aveva mai pensato prima; scopriva di potersi sentire
a proprio agio in luoghi in cui non era mai stato; e soprattutto,
provava sensazioni che non l'avevano mai sfiorato. Era tutto una
scoperta, da quando c'era lei. Ogni cosa era sconvolgente e bella al
tempo stesso. Era la prima volta che gli accadeva e Aran avrebbe voluto
sentirsi così per tutta la vita.
Cosa ci sarebbe stato di male?, si chiedeva. Freya era diventata
talmente importante per lui in quegli ultimi mesi… Cosa ci
sarebbe stato di strano nel volerla per sempre nei propri giorni? Non
avrebbe potuto parlare per lei, ma in qualche modo aveva la percezione
che la ragazza sentisse lo stesso. Cosa sarebbe potuto accadere se
davvero qualcosa fosse mutato per entrambi? Quell'ipotesi faceva
capolino nella sua mente, di tanto in tanto, portandosi via tutta la
sua attenzione.
Poi, ricordava la conversazione avuta dopo il ballo. Per quanto potesse
interessarle scoprire realtà diverse, la giovane avrebbe
sempre scelto la libertà. Vi aveva rinunciato per scoprire
la sua storia e, ora che finalmente l'aveva fra le mani, presto o tardi
avrebbe sentito nuovamente il richiamo dei luoghi che aveva sempre
chiamato casa. E per quanto ammetterlo gli facesse un effetto piuttosto
strano, non credeva che il suo cuore avrebbe retto se si fosse legato
ancor più profondamente a lei per poi vederla andar via.
Sarebbe stato già difficile a sufficienza, anche se quel
nuovo sentimento fosse rimasto incompiuto.
«Trovato nulla di nuovo?»
Il silenzio dell'ennesima alba insonne venne interrotto da queste
parole, così come il corso dei suoi oramai abituali
pensieri. Aran alzò il capo e per un istante la vista gli si
annebbiò; poi, un odioso mal di testa gli strinse le tempie;
infine, riuscì a mettere a fuoco il volto di Freya. Come
sempre accadeva in quelle ultime settimane, ritrovarsi a guardarla dopo
essere riemerso dai meandri della propria mente gli causò un
tuffo al cuore. Se davvero aveva deciso di desistere per quale ragione
continuava a rimuginarci?, si rimproverò. Doveva
semplicemente attenersi alla propria stessa logica, alla
realtà, esattamente come aveva sempre fatto. Altrimenti non
solo avrebbe sofferto in futuro, avrebbe anche pregiudicato
ciò che doveva fare nel presente. Non poteva e non voleva
permetterselo.
Freya, nel frattempo, lo guardava dritto negli occhi, in attesa di una
sua risposta. Temendo che se avesse indugiato oltre la ragazza sarebbe
riuscita a carpire qualcosa, Aran s'impose di darsi un contegno.
«No, nulla» rispose. «Anche qui solo
tante formule incomprensibili e una lunga spiegazione di come si
è arrivato a ottenerle.»
Quanto sarebbe stato più appassionante se qualcuno li avesse
istruiti nella magia? Avrebbero letto i Runíar con l'occhio
di chi ne conosce lo scopo; avrebbero potuto dare
un'identità ai nomi di Incantatori che scorrevano tra le
pagine; e, soprattutto, forse avrebbero faticato meno a comprendere che
cosa fossero loro due. Ne avevano parlato a lungo: ora che iniziavano a
porsi le giuste domande ma non riuscivano a raggiungere nessuna
risposta era come se il loro intero essere venisse messo in
discussione. Stavano imparando entrambi come non saper spiegare una
parte tanto ingombrante di sé desse la sensazione di non
potersi conoscere mai davvero, ancor più di chiunque altro.
Come se avesse riflettuto sulla stessa cosa nello stesso identico
momento, Freya cacciò un lungo, pesante sospiro.
Nell'osservare le occhiaie viola che sottostavano i suoi occhi, Aran si
chiese quale forza li spingesse ad andare avanti. Forse, al loro posto,
qualcun altro si sarebbe semplicemente arreso; avrebbe preso atto che
la fonte di quei poteri sarebbe rimasta un mistero e si sarebbe
adoperato per imparare a usarli, in qualunque modo. A loro due,
però, restare nell'ignoranza pareva inconcepibile. Era un
bisogno, quello che li muoveva, tale che probabilmente si sarebbero
presentati a quella porta nei giorni prestabiliti in qualunque
circostanza. Lasciar perdere non era nelle loro corde.
Una soluzione forse ci sarebbe stata: rompere il silenzio con la Regina
Mirea. Nonostante non affrontasse mai l'argomento, Aran sapeva
perfettamente che la madre conosceva profondamente la magia. Eppure,
quel pensiero ancora lo metteva a disagio; c'era qualcosa che lo
frenava, come un presentimento che gli suggeriva che non fosse mai il
momento giusto. O almeno, così aveva preferito interpretarlo
lui. Nemmeno Freya, d'altro canto, l'aveva mai suggerita come possibile
opzione. Il ragazzo l'avrebbe sottovalutata credendo che non ci avesse
mai pensato, perciò anche lei doveva trovare ancora
difficile condividere la cosa con qualcun altro.
«È l'alba» mormorò Freya in
quell'istante, il viso rivolto alla grande finestra che illuminava la
sala. Aveva ragione: gli esili raggi del sole autunnale, seppur a
fatica, iniziavano a raggiungere la terra attraverso le nuvole sparse.
C'era qualcosa di particolare, nel freddo di quei giorni, come se da un
momento all'altro potesse nevicare. Era ancora presto, a dirla tutta,
ma quell'odore di ghiaccio nell'aria era inconfondibile. Comunque,
sembrava che per quella mattina il tempo avrebbe retto.
In silenzio i due ragazzi si alzarono, rimisero i due tomi che avevano
scelto al loro posto e lasciarono la sala esattamente come l'avevano
trovata. Si mossero negli ambienti del castello con cautela, ma nessuna
sentinella ostacolò il loro cammino. Quando giunsero al
punto in cui si dovevano separare indugiarono giusto il tempo di capire
quale fosse lo stato d'animo dell'altro. Lo facevano ogni volta e, come
sempre, infine sorrisero. Non importava cosa facessero, in
realtà: il tempo trascorso insieme era sempre prezioso.
Senza probabilmente nemmeno pensarci, Freya prese Aran per
l'avambraccio. Con l'usuale chiarezza, senza battere ciglio mentre lo
fissava nelle iridi, disse: «Arriveremo da qualche parte,
prima o poi. Non so come, ma ne ho la certezza.»
Prima di potersi contenere, Aran trattenne la sua mano fra le proprie.
La ragazza non fece nulla, tranne lasciar scivolare il proprio palmo
contro il suo. «Ne avremo il tempo?»
domandò infine lui.
Freya sembrò non esitare nemmeno per un istante.
Rinnovò il proprio sorriso e, continuando a guardarlo,
annuì e rispose: «Non importa dove sarai tu o dove
sarò io. Ricordi?»
Aran ricordava perfettamente. Bastarono quelle semplici parole a
cancellare quel breve pensiero che gli aveva attraversato la mente: si
erano fatti una promessa e non c'era dubbio che l'avrebbero mantenuta.
Se qualcosa lo turbava, erano le proprie emozioni confuse. Quella era
solo l'ennesima dimostrazione che doveva fare qualcosa per tornare ad
avere il controllo.
Fu con quella consapevolezza che il giovane si congedò da
lei. Camminò fino alle proprie stanze e lì si
ritirò. Aveva ancora a mala pena un'ora, prima di doversi
recare alla lezione del mattino. Continuava ad avere la sensazione che
prima o poi Athal si sarebbe accorto di quello che stavano facendo.
Scosse il capo, tentando di scacciare il sonno che tornava a
raggiungerlo; aveva bisogno di un attimo per rinfrescarsi e schiarirsi
la mente. Con calma, raggiunse la stanza da bagno; versò
l'acqua necessaria nel catino e, con immenso sollievo, vi immerse le
mani; infine, si sciacquò il volto. L'acqua gelida assolse
immediatamente il proprio compito e non appena la sua mente
uscì dall'ottenebramento, Aran prese un respiro profondo.
Ora poteva anche pensare di iniziare la giornata.
Attese che il tempo passasse seduto alla propria poltrona, osservando
il cielo farsi sempre più chiaro. Quando arrivò
il momento si alzò e andò alla porta,
più perso nei propri pensieri che ancorato alla
realtà. I loro poteri, tutte quelle ricerche, Freya...
Restava tutto saldamente aggrappato ai margini della sua mente senza
uscirne, anche se lui era fermamente deciso a non ritornarci sopra.
Aveva sempre dei doveri a cui attendere, che il suo cervello si
ricordasse che oramai era un adulto o meno.
La mattinata, come prevedibile, si protrasse con esasperante lentezza.
La lezione di Athal, solitamente capace di accentrare tutta la sua
attenzione e tutte le sue capacità, non ebbe il potere di
farsi largo nella sua testa sovraffollata. Il giovane Principe scriveva
automaticamente sulla pergamena che aveva davanti, senza
però capire veramente cosa stesse mettendo giù.
Quando arrivò l'ora di andare a mangiare, in ogni caso,
aveva una sfilza di appunti che ricopriva tutta la pagina. Avrebbe
dovuto confrontarli con quelli di Freya, ma almeno qualcosa c'era.
Doveva considerarlo un altro potere magico?, si chiese sarcastico.
Una volta riposto tutto con cura, i due ragazzi s'incamminarono.
Stavano attraversando la porta quando Freya lo fermò. Aveva
capito che stava macchinando qualcosa, comprese Aran non appena la
guardò in volto. Per sapere cosa avesse intuito doveva solo
aspettare che parlasse.
«Forse dovremmo fermarci» disse infine la giovane.
Era tutto tranne quello che il Principe si sarebbe aspettato. Doveva
riferirsi alle ossessive ricerche che stavano conducendo, ma non aveva
mai creduto che le avrebbe sentito dire una cosa simile. Poi, comprese:
lo stava facendo per lui. L'aveva visto rinchiudersi sempre
più spesso nei suoi pensieri, in quei giorni, e iniziava a
preoccuparsi per la sua salute. Non c'era altra ragione per cui lei
potesse rinunciare: era troppo testarda.
Immediatamente, sorrise. In quei momenti era ancora più
difficile non lasciar trapelare gli strani sentimenti che provava per
lei. «Se lo stai dicendo per me, non ti devi preoccupare. Sto
bene, Freya» rispose. « E poi, non possiamo
arrenderci senza avere nemmeno un piccolo indizio. Non riuscirei a
mollare proprio ora.»
Freya corrugò le sopracciglia. «E se tu stai
dicendo questo per puro orgoglio, allora dovresti pensare seriamente
alla possibilità di rallentare un po'. Vedo quanto sei
stanco.»
«Anche tu lo sei. Ma credi davvero che lasciando perdere
staremmo meglio? Se smettessimo, cesseremmo anche di rimuginare su
tutto questo?»
La risposta era no e la ragazza non dovette nemmeno esprimerla per
farglielo capire. Sospirò, proprio come aveva fatto quella
mattina; sapeva che non l'avrebbe smosso. Poi riprese il cammino verso
le cucine.
Aran la seguì. Cosa avrebbe pensato Freya se avesse saputo
che molte delle sue riflessioni ruotavano attorno a lei?
Cercò di immaginarsi la sua espressione se mai avesse dovuto
rivelarglielo, ma non ci riuscì. Forse si sarebbe
addirittura spaventata, chi poteva saperlo.
Continuarono il percorso in silenzio, almeno fino a che lei non
parlò nuovamente. «Non si stratta solo della
stanchezza, vero?»
Il ragazzo fece di tutto per nascondere la sorpresa. Per un istante
credette che avrebbe detto tutto: della frustrazione che provava nel
non capire nulla di quello che leggevano nella Sala; del
timore per il modo in cui i sentimenti che provava per lei
sarebbero potuti evolversi. Ma alla fine disse:
«È... Soltanto che ho sempre la sensazione che
quello che già so non basti mai.»
Freya lo guardò, continuando intanto a procedere.
«So bene di cosa parli.»
Lui proseguì, desideroso di allontanarsi dalla piega
pericolosa che avrebbe potuto assumere la conversazione.
«Quando mi ritrovo in mano quei libri, nella Sala degli
Incantatori, l'idea di non poter interpretare al meglio i loro
contenuti mi fa rabbia. Vorrei saperne di più sulla magia,
sul pilastro, sui popoli che mi ha sempre nominato Athal... Vorrei
saperne di più su tutto.» Non si trattava di una
bugia, in fondo.
«Credevo che il maestro ti avesse parlato più
approfonditamente dei popoli» mormorò Freya.
Sembrava assorta, tutto a un tratto.
«In realtà, sono sempre stati solo accenni. Mia
madre ha sempre approvato personalmente i nostri programmi di studio e
sai come la pensa: bisogna concentrarsi sulle cose concrete, non su
quelle che potrebbero anche non esistere più»
ribatté lui. «Per me è stata una
sorpresa quando, con il tuo arrivo, il maestro ha iniziato a parlarne
più spesso. Ma scommetto che ci sono tantissime altre cose
da scoprire.»
A dire il vero, tutta la discussione sulle profezie era stato il
culmine: Aran non pensava che avrebbe mai potuto discorrere di un
simile argomento.
Freya parve esitare per un momento. Poi, contro ogni previsione,
sorrise. «In questo potrei aiutarti, se vuoi.»
Il ragazzo avrebbe voluto chiederle come, ma oramai erano arrivati alle
cucine.
Finalmente, la sua giornata era stata attraversata da una scarica di
adrenalina.
Subito dopo il pranzo dovettero recarsi all'addestramento, come al
solito. Aran fece tutto quello che faceva abitualmente, con la stessa
concentrazione che ci metteva ogni giorno; ma intanto ripensava alle
parole di Freya.
Lei, dal canto suo, sembrava molto divertita dal suo entusiasmo. Nelle
pause fra una sessione e l'altra di allenamento, mentre se ne stavano
seduti sul pavimento della sala, provò a chiederle cosa
intendesse. La giovane, per tutta risposta, ribatté che
doveva avere pazienza e aspettare. Normalmente, Aran non avrebbe avuto
problemi a contenersi; ma in quell'occasione si sentiva esattamente
come la prima volta che era stato portato a Errania: un bambino che sta
a un passo da qualcosa che ha sempre voluto. Era da una vita che non
provava una cosa simile e rimase stupito di sé stesso.
Fu alla fine dell'addestramento che Freya si decise a non tenerlo
più sulle spine. Gli propose di fare una pausa, ma lui
oramai era troppo curioso di sapere cosa avesse da rivelargli.
Posticipando le ore in Biblioteca, presero i corridoi che portavano
alle stanze di Freya.
Una volta giunti lì, la ragazza lo fece accomodare al
divanetto posto di fronte al focolare. Mentre attendeva, Aran
osservò distrattamente i ciocchi di legna già ben
disposti nel camino: Malia doveva aver preparato tutto. Si chiese se
sarebbe stata l'ancella ad accendere il fuoco prima che Freya tornasse,
o se l'avrebbe fatto quest'ultima; conoscendola, il fatto che Malia
facesse le cose per lei la metteva ancora a disagio.
Venne distratto da un rumore: Freya era china di fronte al letto e
stava estraendo qualcosa proprio da lì sotto. Quando si
rialzò e lo raggiunse portava con se un libro piuttosto
voluminoso e, a un primo sguardo, antico. Si sedette al suo fianco,
tenendo il libro posato sulle gambe, e diede ad Aran il tempo di
osservarne la copertina. Un scritta consunta recitava: Le saghe di Finian.
In effetti, tutto il libro sembrava essere vissuto, come se fosse
passato di mano in mano nel corso di innumerevoli anni. Nonostante
questo, era ben tenuto e si capiva che era prezioso: l'elaborata
chiusura che ne proteggeva il contenuto ne era la prova più
lampante. Il giovane fu scosso da un brivido: le due creature che la
componevano gli erano estranee a livello conscio, ma stranamente
familiari in un modo che non capiva.
Tornò a guardare Freya. Solo quando lo fece lei procedette:
estrasse una catenina dallo scollo dell'abito e aprì la
minuscola serratura. Poi, inaspettatamente, passò il volume
a lui. Sulle labbra le aleggiava un sorriso malinconico.
Aran fece appena in tempo ad avvertire la consistenza del cuoio sotto
le dita e il peso del tomo, poi aprì sulla prima pagina.
Senza alcuna introduzione o indizio sulla sua identità,
l'autore iniziava sin da subito a trattare l'argomento del libro. Il
primo titolo che s'incontrava diceva: Il Regno di Adamas e gli
adamantini. Come in un lampo, un ricordo
attraversò la mente del ragazzo: un pomeriggio, aveva
discusso con il maestro Athal di quanto sarebbe stato comodo avere
acqua corrente negli edifici abitati; e l'uomo gli aveva nominato un
popolo, gli adamantini, che in qualche modo ci era riuscito. Ora quel
nome era lì, davanti ai suoi occhi, e preso dall'emozione
continuò a sfogliare: c'erano pagine e pagine che parlavano
di loro, ma non solo. Andando avanti ne incontrò molti
altri che aveva già udito dal precettore:
centauri, eteree, elfi. C'erano anche gli esseri umani.
Infine, gli ultimi due: draghi e grifoni. Prima di rivolgersi
a Freya osservò attentamente le illustrazioni manuali che
inframezzavano i vari paragrafi: ecco le creature su cui era stato
modellato il piccolo chiavistello che fermava la copertina.
Quando il suo sguardo si posò su di lei, vide che stava
ancora sorridendo. «È... Meraviglioso!»
esclamò, tornando subito ad accarezzare con lo sguardo
l'immagine del grifone che aveva davanti.
La sensazione di familiarità provata poco prima
ritornò, ancora più prepotente. Non aveva alcun
senso, perché la sola cosa che Athal gli aveva detto di loro
era che si trattava di creature straordinarie. Non ne aveva mai avuta
nemmeno una descrizione, figurarsi vederne un'illustrazione. Eppure,
era come se già conoscesse quell'essere maestoso e piumato.
«Lo è, vero? Ho imparato a leggere, su questo
libro» disse Freya, parlando piano come se temesse di
spezzare l'incantesimo sprigionato da quelle pagine.
Doveva tenerci molto, pensò Aran, per aver deciso di
portarlo con sé. Continuò a sfogliarlo con
delicatezza, ritornando a ritroso fino all'inizio. Cercò di
studiare la calligrafia, come per avere qualche indizio sullo scrittore
del volume; l'intero testo, però, era vergato in un
carattere ordinato ed elegante, privo di vezzi personali. Gli
ricordò quello dei mastri copiatori che fornivano i libri
alla Biblioteca del castello.
Freya restò silente, lasciandogli tutto il tempo necessario.
Parlò nuovamente solo dopo che lui ebbe scorso tutto il
libro una seconda volta. «Ti chiedo scusa se non te l'ho
mostrato prima. Non ci ho proprio pensato e... non l'avevo mai
condiviso con nessuno che non fosse mia madre.»
Aran la guardò. Sapeva quanto gelosamente lei serbasse anche
i più piccoli ricordi di sua madre e non voleva che si
sentisse in colpa per averlo fatto. «Non c'è nulla
di cui scusarsi» disse. «Era una cosa fra te e lei.
So quanto tutto ciò che la riguarda sia estremamente
personale, per te.» Le rivolse un sorriso rassicurante.
«E poi ti avevo detto solo che Athal mi aveva parlato dei
popoli, non quanto. Probabilmente ho dato l'impressione di essere molto
più informato di quanto non fossi.»
La giovane abbassò un istante lo sguardo, poi lo
posò sul volume. Sembrava che fosse sul punto di aggiungere
qualcosa, ma Aran non sapeva se riguardasse il contenuto del libro o
altro. Quando si concentrò di nuovo su di lui
tentennò ancora, ma alla fine parlò:
«Siamo così tanto presi da tutto quello che ci sta
capitando che oramai non sappiamo più vedere altro. Vogliamo
scoprire di più, imparare di più e non
c'è nulla di strano in questo; ma ogni tanto fa bene
fermarsi e guardarsi intorno, altrimenti si rischia di
perdersi.» Fece una breve pausa. «Non
riuscirò mai a rinunciare e non è quello che
intendo fare. Dico solo che dovremmo trovare un ritmo che ci permetta
di goderci più spesso le cose che già
abbiamo.»
Il Principe rammentò i pensieri di quella mattina;
ricordò di aver osservato le profonde occhiaie di Freya ed
essersi chiesto cosa li spingesse ad andare avanti. Ora, al contrario,
doveva domandarsi cosa potesse farli fermare: ripensò ai
primi tempi in cui Freya era stata lì; alle camminate in
giro per il castello solo per il gusto di passeggiare. Pensò
che ultimamente non l'avevano fatto spesso. Perfino nel corso della
loro gita a Errania, che doveva essere una distrazione, avevano parlato
di materie di studio. Sì, lei aveva ragione: non potevano
arrendersi, ma nemmeno consumarsi come i ferri di un cavallo che ha
percorso troppe miglia.
Riflettuto abbastanza, annuì. «E quello che
già abbiamo non è poco, no?»
Freya si rasserenò e sorrise ancora, annuendo a propria
volta.
Aran si disse che in fondo la curiosità si poteva applicare
anche a tante altre cose meno logoranti delle loro ricerche; doveva
solo guardarsi un po' più attorno, come aveva detto lei.
Forse avrebbe finalmente avuto il tempo di capire meglio anche altro,
fra cui la paura di affrontare il tempo lontano di cui gli parlava
l'incubo.
Restarono lì ancora per un po'. Freya gli
raccontò di quale insegnate paziente fosse stata Eleana e di
come avesse iniziato a istruirla molto presto. Se non avesse ricevuto
in eredità una passione tanto grande per la cultura, gli
disse, sapeva che avrebbe affrontato in maniera molto diversa la
solitudine della foresta.
«Aver lasciato lì tutti quei libri è un
grande rimpianto» disse Freya verso la fine della
conversazione. «Sono chiusi in bauli di ottima fattura che li
proteggono, ma mi piange il cuore a saperli lì a prendere
polvere.»
«Nessuno ci vieta di andarli a recuperare, un
giorno» ribatté Aran, quasi senza riflettere.
Lei lo guardò in silenzio, con lo stesso sguardo penetrante
che tanto lo aveva colpito fin dal primo giorno che l'aveva conosciuta.
Fu difficile reggere il peso di quegli occhi, ma lo fece e rimasero
così fino a quando non sorrisero entrambi.
«Comunque, potrai leggerlo tutte le volte che
vorrai» asserì la giovane, indicando il tomo che
ancora stava sulle gambe di Aran. Aveva uno strano tono, come se
trepidasse all'idea di alcune sue reazioni al contenuto de Le Saghe di Finian.
Lui si alzò e le porse il libro, scacciando quella
sensazione. «Ti ringrazio per averlo condiviso con
me.»
Lasciarono la stanza. Mentre camminavano in direzione della Biblioteca
concordarono che quel giorno ci sarebbero andati piano e si sarebbero
presi qualche pausa in più. Dal giorno dopo, invece, si
sarebbero concessi qualche giornata libera da quel tipo di occupazione;
sarebbe stato anche il caso, almeno per quella settimana, di sospendere
le loro incursioni mattutine alla Sala degli Incantatori. Provare a
dormire un po' di più tra una visione e l'altra avrebbe permesso loro di riprendere più riposati di prima.
Avevano appena varcato la grossa porta della Biblioteca quando Gorman
si materializzò improvvisamente davanti a loro. Come sempre
interruppe la loro conversazione senza alcun problema. Aran fece
un'enorme sforzo per non mostrare quanto lo irritasse il modo in cui
l'uomo compariva sempre mentre parlavano.
«Principe Aran, Lady Freya» li
apostrofò, sforzando perfino una lieve riverenza col capo.
«Primo Consigliere» risposero uno dopo l'altra i
due ragazzi.
«Sono spiacente di rovinare i vostri progetti per il
pomeriggio, ma la Regina richiede che suo figlio conferisca con
lei» annunciò. «Ha qualcosa d'importante
da comunicare a voi e vostro fratello prima di cena.»
Aran fu colto alla sprovvista; li aveva convocati poco tempo prima per
parlare dei loro progressi negli studi e non si aspettava che li
mandasse a chiamare di nuovo tanto presto. In ogni caso,
annuì alla richiesta di Gorman e si voltò a
guardare Freya, per capire se le sarebbe dispiaciuto che la lasciasse
così di punto in bianco
«In questo caso, ci vedremo domani, Aran» disse
lei, rispondendo con uno dei suoi sorrisi più tranquilli.
«Ci ritroviamo qui.»
Lui annuì. «A domani»
ribatté, salutandola con un cenno del capo.
Poi, seguì Gorman lungo il corridoio.
֍ ֎
֍
Aran la guardò per l'ennesima volta con quell'espressione
scontenta. Freya avrebbe voluto dimostrargli un po' di
solidarietà, ma tutto quello che riuscì a fare fu
scoppiare nell'ennesima risata. Il ragazzo tentò di fingersi
offeso da quella sua ilarità, eppure una scintilla divertita
nel suo sguardo lo smentì. Strinse l'ultima cinghia del
sottopancia di Nieva e iniziò ad assicurare le bisacce alla
sella.
Le stalle erano tranquille in quella fredda mattinata autunnale
attraversata di nuvole. Altri uomini si muovevano tra un vano e l'altro
sistemando le loro cavalcature e riuscivano a farlo in maniera
sorprendentemente silenziosa.
«Non rideresti se fossi al mio posto»
commentò Aran, tornando a rivolgersi a lei dopo aver
terminato di caricare le proprie cose sul dorso della giumenta.
«Io non ci vedo nulla di tragico, togliendo il fatto che
caccerete per divertimento e non per una reale
necessità» rispose Freya, con quel cipiglio serio
che le spuntava in volto quando affermava uno dei suoi principi
irrinunciabili.
Di quello in particolare avevano discusso a lungo, negli ultimi due
giorni, fin dal momento in cui Aran aveva ricevuto la notizia: la
tenuta di caccia della famiglia reale, situata a mezza giornata da
Errania, avrebbe presto ospitato una battuta. Vi avrebbero preso parte
tutti gli esponenti più in vista della corte e la Regina
Mirea aveva espressamente richiesto che fossero i suoi figli a far
procedere tutto nel migliore dei modi. Era qualcosa di singolarmente
importante: in quei giorni, i due Principi avrebbero avuto modo di
confrontarsi con i nobili di Riagàn e dimostrar loro che
sarebbero stati i degni eredi di Mirea. Aran e Darragh, dunque,
avrebbero dovuto collaborare.
L'invito, naturalmente, era stato esteso anche a Freya, ma la giovane
si era immediatamente rifiutata. Si era spiegata in poche e chiare
parole: l'unico motivo per togliere la vita a un animale era la
sopravvivenza. E quando Aran aveva saputo che cosa avrebbe risposto,
aveva tentato di defilarsi alla stessa maniera. L'idea di trascorrere
tre giorni con Darragh senza Freya a moderare la sua rabbia gli era
parsa una follia.
La ragazza, però, l'aveva messo di fronte a un'altra
possibilità: quella di andare e cercare di riparare allo
strappo che si era creato fra lui e il fratello. Aveva il fondato
sospetto che quello fosse il secondo fine di Mirea e sapeva bene che,
se ci fosse stata anche lei, Darragh non avrebbe mai fatto nessun passo
in avanti. Aran aveva comunque tentato di convincerla a cambiare idea,
dicendo che non sarebbe andato senza di lei, ma Freya era stata
irremovibile; quando poi la Regina aveva sentenziato che non avrebbe
accettato un rifiuto da parte dei figli solo perché non
erano in grado di affrontare le loro incomprensioni, non aveva avuto
altra scelta.
La convinzione che sarebbero finti con l'arrivare alle mani era quella
prevalente, in Aran, e fu quello che ripeté ancora a Freya
prima di partire. «Darragh non sa ascoltare altro che non
siano le sue idee. Non riusciremo mai a risolvere le nostre divergenze
a parole» affermò, sicuro.
«Credo che tu vi stia sottovalutando. Siete entrambi
abbastanza intelligenti da riuscire ad avere un confronto
civile» ribatté lei.
Ammettere l'intelligenza di Darragh le costò un grande
sforzo e Aran, essendone consapevole, non poté fare a meno
di sorridere.
Freya sorrise a propria volta e, mentre lui montava in sella, aggiunse:
«E nel caso dovesse andare a finire male, mira alle gambe.
L'equilibrio è ancora il suo punto debole.»
Il giovane Principe scoppiò in una breve risata, poi si fece
nuovamente serio e senza pensarci afferrò la mano di lei,
posata sul collo di Nieva. Freya assunse la sua stessa espressione,
guardandolo con gli occhi chiari spalancati. Il cuore le era balzato
fino alla gola, togliendole il fiato.
«Non credo tu sappia quanto mi aiuti averti
accanto» disse Aran, stringendo forte le sue dita fra le
proprie.
Riprendendosi alla svelta, Freya ricambiò la stretta.
«Sistemare le cose con Darragh è qualcosa che puoi
fare solamente tu e ne sei perfettamente capace» rispose.
Rimasero a guardarsi ancora qualche istante, poi il generale Nolan, il
quale avrebbe partecipato alla battuta, richiamò
l'attenzione di Aran. Commentò con un sorrisetto ironico lo
scambio fra i due ragazzi ma questo non servì a
destabilizzare Freya; dopo aver salutato definitivamente Aran, la
giovane si allontanò omaggiando il generale di un perfetto
inchino e di un sorriso altrettanto tagliente.
Arrivata all'entrata del castello si voltò per guardare la
compagnia che usciva dal cancello, ordinatamente allineata. Non appena
la schiena di Aran fu scomparsa uno strano senso di inquietudine le
trafisse lo stomaco.
Quello oramai era il posto che avrebbe dovuto chiamare casa, ma in quel
preciso, inaspettato istante Freya ebbe il bruttissimo presentimento di
star sbagliando qualcosa.
Breve annuncio:
Al momento, la pubblicazione de "Le Saghe di Finian: La Profezia dei
draghi" è stata sospesa.
Ho deciso di prendermi una pausa, principalmente per due ragioni. In
primo luogo, per concentrarmi maggiormente sulla progettazione del
mondo di Finian, in cui i miei personaggi si muovono. Ne ho
già fatta, ma ci sono alcune idee che voglio ancora
raccogliere e approfondire.
La seconda motivazione è un blocco dello scrittore che mi
impedise di andare avanti nella stesura dei capitoli. Si tratta di un
periodo in cui non riesco a concentrarmi come vorrei sulla trama e
questo mi impedisce di aggiornare regolarmente, cosa di cui mi dispiace
davvero molto.
Per queste ragioni, dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso che
fermarmi fosse la cosa migliore da fare. Non so quanto questo periodo
potrà durare, ma ho tutte le intenzioni di continuare questa
storia.
Non appena avrò ritrovato la giusta rotta,
riprenderò a scrivere e pubblicare.
_Malila_Pevensie
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