In un'altra vita

di chemist
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La festa ***
Capitolo 2: *** Il portale ***
Capitolo 3: *** La scimmia e il documento ***
Capitolo 4: *** Il professor Hughes ***
Capitolo 5: *** Conversazioni notturne ***
Capitolo 6: *** Il libro ***
Capitolo 7: *** La quiete prima della (nuova) tempesta ***



Capitolo 1
*** La festa ***


Premessa dell’autore: circa 2 mesi fa mi è capitato di fare un sogno assurdo, che mi ha fatto riflettere per diversi giorni. L’accaduto è talmente fantasioso che ho deciso di scriverci una storia: naturalmente non ho sognato tutto ciò che leggerete, bensì solo l’idea di base che poi mi sono divertito a ‘romanzare’, ma spero che vi piaccia.😉
Voglio precisare fin da subito che, anche se alcuni passi del testo potrebbero farvelo credere, non si tratta né di una storia di alieni, né di una love story: fa tutto parte di un disegno più grande, se così si può dire.
Scusatemi inoltre per la lunghezza ma ritenevo che il primo capitolo dovesse, tra le altre cose, iniziare a presentare i personaggi, quindi mi sono preso ‘i miei spazi’.
Buona lettura a chi deciderà di dargli una possibilità e grazie in anticipo a chiunque vorrà lasciare una recensione.
😁

Capitolo 1: La festa
 
“Hey Lina, in tutta onestà: cosa c’era nel bicchiere di Randy? Siamo qui da soli 20 minuti e sta già dando di matto!”.
Quella sarcastica domanda fu seguita da uno spigoloso sorriso. Keith sapeva di aver fatto centro: vide Randy guardarsi intorno allibito, come a chiedere l’intervento di qualcuno, quando era palese che a nessuno fregasse nulla della loro conversazione.
Keith adora provocarlo: una volta mi disse che lo diverte troppo fare la parte dello sbruffone solo per smontare i discorsi a cui si appassiona. E Randy, d’altro canto, scherza su quasi ogni cosa, tanto che a volte sembra un idiota, ma quando si parla di argomenti che gli interessano riesce ad essere davvero geniale, e detesta che non lo si prenda sul serio.
“Fratello, stavolta non la spunti” disse allora l’interpellato, posando il bicchiere sul tavolo e le mani sui fianchi, in segno di sfida. “Ti dico che gli alieni esistono!”.
 
Bene, questi sono i miei due migliori amici che, nel bel mezzo di una festa, discutono dell’esistenza o meno degli alieni.
La padrona di casa, Lina, ascoltava tutto e ridacchiava di gusto mentre versava alcolici vari agli altri invitati: evidentemente trovava la cosa divertente.
Io invece non la trovavo divertente. La trovavo fottutamente imbarazzante.
A dire il vero, neanche ci volevo andare a quella festa. Non si tratta di essere asociale o robe simili: semplicemente non mi piace stare in luoghi stracolmi di persone che fanno casino e si fingono entusiaste per nascondere (anzi, per nascondersi) il loro reale carattere. Sono più uno da ‘pochi ma buoni’, io.
 
A proposito, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Jordan (per gli amici solo Dan) e alla festa, come avrete ormai capito, ci sono andato lo stesso, ma per un altro motivo di cui vi parlerò più avanti.
 
Keith e Randy non accennavano a fermarsi.
“Dovresti smetterla di credere ad ogni stronzata che trovi su Internet, ragazzo. Ti stai bruciando il cervello!”.
“Ma quale Internet! Due settimane fa, o giù di lì, mi ha telefonato mio cugino Larry: mi ha giurato di aver visto un UFO volargli sulla testa per poi scomparire dopo qualche secondo…arrenditi Keith, gli alieni esistono!”.
“Tuo cugino Larry? Vuoi dire quello che vive a Barnesville nel Minnesota?” sbuffò Keith per sottolineare la poca rilevanza della cittadina appena citata nell’immaginario americano.
Effettivamente, chi ha mai sentito parlare di Barnesville?
“E allora? Gli alieni non possono farsi un giro nel Minnesota?”.
Keith roteò gli occhi, arrendevole davanti all’ostinazione dell’amico: “merda…Dan, lo accompagni tu a casa o lo faccio io?”.
“Giusto!” esclamò Randy, come se si fosse appena accorto della mia presenza. “Dan, diglielo anche tu che esistono!”.
Ecco, proprio l’ultima cosa che volevo: essere coinvolto in quell’insulso dibattito.
Di colpo mi ritrovai tanti, troppi occhi puntati addosso: quelli irritati di Randy, quelli spazientiti di Keith, quelli esilarati di Lina e quelli detestabilmente giudicatori dei ragazzi in attesa del loro drink.
Perché sono andato a quella festa del cazzo?
“Io credo…” esordii, schiarendomi la voce e compiacendomi segretamente del fatto che un bel po' di persone pendessero dalle mie labbra.
“…credo che andrò fuori a fumarmi una sigaretta” conclusi poi, lasciando tutti interdetti.
A chi sarebbe importato se avessi cominciato un discorso razionale?
Quali e quanti di quegli stupidi mi avrebbero seriamente ascoltato?
Zero.
E allora meglio uscire a prendere una boccata d’aria. E di fumo.
 
Sia chiaro, non sono contento di essere un fumatore. Tempo fa uno dei miei professori universitari, uno dei pochi che rispettavo veramente, disse che fumare è un segno di debolezza. Lì per lì la cosa mi urtò, e non poco, ma andando avanti scoprii che mi stava bene il fatto di essere un debole. Una sorta di accettazione.
Keith e Randy non diedero la minima importanza al fatto che mi fossi allontanato subito dopo che mi fu rivolta una domanda. Perché avrebbero dovuto? Anche loro fumavano, ma per loro era solo un vizio come tanti altri.
Per me invece è una sorta di evasione da luoghi e situazioni che mi infastidiscono o mi opprimono. Le sigarette sono come un aerosol che tira fuori tutte le brutte sensazioni che ho dentro, e vi assicuro che sono tante, così tante che a volte temo possano schiacciarmi il petto.
So cosa state pensando: fumare non purifica, al contrario corrode. Tecnicamente avete ragione, ma fidatevi di quel che vi dico.
Così tirai fuori una Marlboro dal pacchetto e la accesi tenendola in bocca con l’indice e il medio. Il primo sbuffo andò ad annebbiare l’immagine della luna nel cielo nero come la pece, e pensai che il primo tiro è sempre il migliore.
Lina abitava davvero in un bel posto, qualche miglio ad Est di Sandy nello Utah, la città in cui la maggior parte di noi vive, studia e lavora. Casa sua non si poteva definire sperduta, non viveva in mezzo al nulla, ma era comunque a debita distanza dal clamore del centro. Non che Sandy nello Utah fosse New York, intendiamoci, ma penso che abbiate compreso cosa voglio dire.
Oltretutto aveva un’enorme balconata che affacciava su una specie di bosco con le montagne in lontananza, una veduta incredibilmente rilassante.
Mi appoggiai con la schiena al muro: lì fuori c’eravamo solo io, una coppia di fidanzati intenti a baciarsi e un gruppetto di amici di Lina, decisamente meno rumorosi di quelli all’interno. C’era una quiete magnifica, un silenzio intervallato solo da qualche chiacchiera sporadica, dai suoni del bosco e dalla musica che per fortuna arrivava bassa ai nostri timpani.
Alzai lo sguardo, cercando di coordinare il respiro e la frequenza di tiro della sigaretta con quei pochi suoni che mi apparvero come il battito cardiaco della terra.
Non c’erano stelle quella sera ma per un istante mi sembrò di scorgere qualcosa di luminoso in cielo. Due secondi dopo me n’ero già scordato: magari me l’ero solo immaginato.
 
Ero fuori da circa 5 minuti quando sentii dei passi che si avvicinavano accompagnati da delle risate sommesse; poi dalla scalinata alla mia destra fece capolino una chioma rossa che mi fece sussultare, facendo scoppiare quella bolla di tranquillità in cui mi ero rintanato.
Prima ancora che potessi riprendermi, mi ritrovai di fronte lei. Eva.
Ebbene, ecco il motivo per cui sono andato alla festa nonostante non ne avessi voglia.
 
Cosa posso dirvi di Eva? Sapete, non è affatto facile per me parlare di lei.
Ci conosciamo dagli anni del liceo, dunque se escludiamo i miei due migliori amici è la persona che frequento da più tempo.
Non abbiamo mai avuto bisogno di granché per intenderci: la nostra amicizia è nata in maniera normale, come ne nascono moltissime altre, ma in breve divenimmo quasi inseparabili (cosa che, in parte, ha resistito anche quando ci siamo iscritti a facoltà universitarie diverse), e questo servì ad entrambi per capire di poter contare l’uno sull’altra per letteralmente qualsiasi cosa.
Lei dice che nessuno le ha mai ispirato la fiducia che le ispiro io fin dall’inizio, dal giorno in cui attaccai a parlare, primo in assoluto, con quella ragazza che non faceva altro che seguire le lezioni con aria distante e bere decine di caffè alla mensa scolastica. Io invece penso che lei sia l’unica che mi capisce fino in fondo, fino all’ultima piega della mia personalità, forse anche più di Keith e Randy che su certe cose ancora faticano a starmi dietro.
Non dovrebbe sorprendermi: è una delle persone più intelligenti che conosco, ha una mente molto acuta ed è una grande osservatrice.
Prima ho usato il termine ‘amicizia’, ma in realtà il nostro rapporto è ben più difficile da definire: sono anni che tra noi due c’è questa attrazione reciproca, una chimica troppo forte per essere ridotta a quella di due semplici amici, ma non ce lo siamo mai detti perché la paura di rovinare tutto superava di gran lunga la voglia di stare insieme…o almeno questo vale per me.
Mi sono dannato l’anima per mesi cercando di trovare il momento giusto per dichiararle l’evidenza, ma non ce l’ho fatta in tempo: da circa 4 mesi ormai Eva è fidanzata con un altro ragazzo. Inutile dire che da allora un bel pezzo di quella complicità assoluta che c’era fra noi è andata scemando, fino a scomparire del tutto.
 
“Guarda chi c’è!” tuonò un vocione, bloccando il flusso dei miei pensieri. “Dan, amico, come stai?! Non ci si vede da una vita!”.
Shawn mi venne incontro entusiasta e mi propose un’energica stretta di mano alla quale risposi il più distaccatamente possibile.
“Veramente non ci vediamo da 2 settimane scarse, Shawn, ma sono felice anch’io di vederti”.
Non era vero. Sarò schietto, non mi stava simpatico, anzi per certi versi non lo sopportavo: era un tipo fastidiosamente superficiale, il cui successo con le donne era da ricondurre unicamente al fisico da sportivo (che fa sempre la propria parte, me ne rendo conto) ma che non aveva nulla di speciale da offrire alle suddette donne. Credevo che Eva, da quel punto di vista, fosse diversa, che cercasse altro, ma evidentemente mi sbagliavo.
Ciò nonostante, non avevo un reale motivo per comportarmi sgarbatamente con lui, e anche se l’avessi avuto non l’avrei fatto, per rispetto di Eva.
A questo punto vi starete (giustamente) chiedendo perché sono andato a quella festa pur sapendo che c’era anche Shawn. Beh, avete presente quando vi piace così tanto una persona da volerla vedere ad ogni costo anche se in compagnia del partner? Non sono un distruttore di relazioni e non voglio esserlo, ma avevo bisogno di vedere Eva. Lo so, è strano, ma non posso farci niente.
Non a caso, anche mentre salutavo Shawn, non le ho tolto un attimo gli occhi di dosso. Forse era solo una mia impressione, ma anche lei sembrava un po' imbarazzata per la reazione del suo ragazzo.
Era bellissima. Lo è sempre stata.
Indossava una camicia granata infilata in un paio di pantaloni di seta neri, e nero era anche il suo lungo cappotto, in contrapposizione con il bianco perlaceo della sua pelle; labbra sottili ma carnose al punto giusto, naso affusolato all’insù, occhi grigi dai tratti orientali e una cascata di capelli ricci rossi come il fuoco.
Ricordo che mi chiesi se mai sarei riuscito a togliermela dalla testa.
 
Finalmente anche lei si incamminò verso di me.
“Ciao Dan” disse, regalandomi un sorriso magnetico.
“Hey” risposi semplicemente, gettando la sigaretta dopo un ultimo tiro.
“Non pensavo saresti venuto”.
“E invece eccomi qua. Non è così facile liberarsi di me”.
“Sai, ero convinta che alla sciatta festa di Lina Rhode avresti preferito startene a casa a giocare alla Playstation, ascoltare i Pink Floyd o qualcosa del genere…”.
Sogghignò lievemente mentre parlava: mi stava facendo il verso e non c’era davvero nulla di male in tutto ciò, soprattutto fra due amici di lunga data, ma il fatto che l’avesse fatto davanti al suo ragazzo, dopo la piega che aveva preso il nostro rapporto, mi fece pesare la cosa più del dovuto.
“Si, beh, non sarebbe stato male in effetti, ma sto cercando di diventare un conformista che va a tutte le feste e…”.
“Stavo solo scherzando” mi interruppe lei, notando il mio cambio d’espressione. “Sono felice di rivederti”.
“Già. Anche io”, risposi annuendo.
Si, ero pronto ad esporre una memorabile invettiva contro i classici festaioli, ma lo sguardo di Eva mi fece capire che non era il caso. Rimasi per qualche secondo a perdermi in esso, prima che lei entrasse in casa insieme a Shawn per salutare Lina e gli altri presenti.
Immediatamente dalla stessa porta uscirono Keith e Randy, esaltati come se avessero finalmente risolto quello stupido enigma sugli alieni.
“Dan, è arrivata Eva!” esclamò Keith con urgenza.
“Non mi dire” commentai io sarcastico. “Da dove credi che sia entrata?”.
“C’è anche quel motociclista fake del suo ragazzo” aggiunse Randy.
“Così pare” conclusi, mettendomi a braccia conserte, con una faccia che era tutta un programma.
Sul viso di Keith si accese una scintilla di furbizia: “beh, in questi casi c’è solo una cosa che un uomo può fare!”.
“Fregarsene di tutti questi coglioni e tornarsene a casa?” domandai speranzoso.
Stavolta fu Randy ad appoggiare l’idea dell’amico: “no! Fregarsene di tutti questi coglioni…e cominciare a bere!”.
Quindi, a furia di pacche sulle spalle, mi ritrascinarono dentro.
 
Non si può dire che non abbia seguito il loro consiglio: trascorsi buona parte della serata seduto su uno scomodissimo sgabello e poggiato coi gomiti sulla cucina ad isola di Lina, tracannando un po' di tutto ciò che mi passava davanti agli occhi.
Persino i miei amici mi avevano abbandonato. Non li biasimo: volevano solo divertirsi. Ballavano, giocavano, cantavano e chiacchieravano con gente sconosciuta. Più o meno, ciò che si fa ad ogni festa.
Quello strano ero io. Mi guardavo intorno chiedendomi che cazzo ci facessi lì e rispondevo distrattamente ad ogni “assaggia questo drink” di Keith e ad ogni “a tizia sono cresciute le tette” di Randy.
Mi risvegliai dal torpore solo quando un’altra voce familiare mi disse: “sembri una spugna”.
Istintivamente girai la testa verso il gruppo di ragazzi ammucchiatisi vicino le casse della musica; solo dopo che vi scorsi anche Shawn mi voltai verso Eva, che s’era seduta di fianco a me e mi guardava con aria canzonatoria.
“Non è poi così male”.
Sorrisi. Malgrado tutto, Eva fu l’unica a strapparmi un sorriso quella sera.
“No, suppongo di no. Passa un bicchiere anche a me”.
Mentre le versavo un po' di gin, Eva tornò all’attacco.
“Allora, come va l’università?”.
“Non mi lamento, nell’ultima sessione ho dato altri 2 esami…che non è il massimo per un 23enne che dovrebbe laurearsi l’anno prossimo, ma sai com’è…”.
“No, va bene” sentenziò lei sorseggiando dal suo bicchiere. “Prendiamo tutto ciò che arriva”.
“Esatto”. ‘Prendiamo tutto ciò che arriva’ era la frase che ripetevamo ogni volta che eravamo stressati da qualcosa, che si trattasse di studio o altri impegni. E qualcosa mi diceva che non aveva usato quella frase per caso. “Tu invece?”.
“Io ho dato 3 esami, quindi come puoi vedere non me la cavo molto meglio di te”.
“Però sei sempre un passo avanti”.
Sentii le pupille dilatarsi, non saprei dire se per l’alcol o per tutto quello che avevo dentro e non riuscivo a pronunciare; sta di fatto che anche Eva la percepì come una risposta pesante, perché cambio subito discorso.
“Oh, e non mi dicesti che stavi messaggiando con una ragazza del tuo corso? Raccontami com’è andata!”.
“Vuoi dire Alison?”. Piccola parentesi: Alison è una che conobbi al corso di laboratorio, che svolgemmo in coppia; era una tipa interessante e ci scrivemmo per un po', ma un giorno mi disse che stava per trasferirsi e avrebbe cambiato università. Onestamente non fu un gran dispiacere: non ero sicuro che mi piacesse e probabilmente iniziai a frequentarla solo per non pensare alla nuova relazione di Eva.
“Oh, lei non segue più il mio stesso corso: ha cambiato università. A dire il vero, penso che abbia proprio cambiato città”.
“Ah” sospirò Eva, interdetta. “È un peccato, mi dispiace davvero. Non me lo avevi detto”.
L’ultima affermazione fu come un pugno nello stomaco.
“Desolato, ma vedi…noi non parliamo più come una volta, Eva”.
“Infatti, e vorrei sapere perché”.
Improvvisamente ci stavamo fissando con serietà. Non capisco come fece un’innocente bevuta a trasformarsi così repentinamente in un confronto spinoso.
Senza una ragione apparente, abbassai il tono della mia voce: “lo sai bene il perché”.
Eva non ci fece caso: “posso parlarti in un luogo più tranquillo?”.
“È da tutta la sera che parliamo in mezzo alle grida e alla musica, e inoltre sto bevendo. Parliamo qui”.
“Credo sia meglio farlo più…in disparte”.
“Ecco, appunto”.
Quell’insinuazione le fece spalancare gli occhi e la lasciò momentaneamente senza risposta.
Forse aveva capito che ciò che mi innervosiva era il suo voler per forza fare l’amica perfetta, chiacchierando con me di qualche irrilevante banalità come se fosse un obbligo e per giunta restando sempre sotto l’attenta (si fa per dire) sorveglianza di Shawn.
“Se non hai altro da dirmi, vado fuori a fumare”.
Una volta in piedi stavo davvero per dirigermi verso l’uscita quando lei mi bloccò un braccio.
“Per favore, Dan. Vieni con me. È importante”.
Avrei voluto dirle di no ancora una volta, divincolarmi dalla sua stretta e andarmene lontano. Solo io so quanto avrei voluto farlo.
Invece mi lasciai trascinare altrove…nel bagno di Lina.
Proprio così: ci ricascai.
 
Eva chiuse la porta del bagno a chiave.
“Lo sai, vero, che con tutto ciò che stanno bevendo di sotto qualcuno tra poco verrà a pisciare?” dissi, mantenendo un tono irritato.
“Non me ne frega un cazzo, Dan” chiosò lei intrecciando le braccia. “Dobbiamo parlare”.
“Sei tu che mi hai trascinato qui, dunque dimmi tutto”.
“Posso sapere perché da quando mi sono messa con Shawn sei diventato così schivo nei miei confronti?”.
Eva non era arrabbiata, ma capii all’istante che non potevo fare cazzate: una singola parola fuori posto poteva significare la fine dei giochi.
Non sapevo da dove iniziare, così presi tempo: “io non…non sono schivo”.
“Invece si! Sono mesi ormai che ti comporti come se fossimo due semplici conoscenti, e sai che non è così!”. Vidi Eva deglutire, pronta ad espellere tutti i cattivi segnali che aveva incassato negli ultimi tempi. “So che non siamo più dei ragazzini e che non possiamo di certo stare l’una con l’altro dalla mattina alla sera, Dan…ma mi sembra che tu voglia mettere una pietra sopra tutto ciò che abbiamo vissuto insieme solo perché adesso ho un ragazzo, e questo mi fa male, quindi vorrei solo sapere se sei cambiato e basta oppure c’è dell’altro…”.
Provai una morsa allo stomaco al pensiero di farla stare male. Forse era arrivato il momento di dirglielo.
Passai gli istanti successivi a ripetermi ‘diglielo Jordan, diglielo ora’.
Dovevo farcela: per me, per lei, e per tutto ciò che eravamo stati ma non eravamo più.
Schiusi le labbra. Presi fiato. Lei mi aspettava.
Ma, indovinate un po'? Per l’ennesima volta, non feci in tempo.
Un urlo squassò il nostro momento decisivo: “CHE CAZZO È QUELLA COSA NEL CIELO?!”.
 
 

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Capitolo 2
*** Il portale ***


Capitolo 2: Il portale

I muri della casa di Lina parevano rimbombare ancora dell’urlo che pochi secondi prima aveva interrotto me, Eva e tutti gli altri, dando il via alla serata, la vera serata, quella che sarebbe presto diventata la più incredibile della nostra vita.
Mi portai istintivamente una mano fra i capelli e chiusi gli occhi, in un gesto spazientito ma biologicamente necessario dal momento che l’alcol, la confusione e il ciclone di emozioni in cui mi ritrovavo mi stavano offuscando la vista.
“Che altro succede ora?”, domandai in un soffio.
Riaprii gli occhi e vidi Eva fissarmi incollerita, come se non avesse sentito nulla.
Il suo viso era così vicino al mio che per un istante pensai sul serio di stringerlo fra le dita, fregarmene altamente di Shawn e baciarla come volevo fare da anni. Forse sarebbe stata una spiegazione più convincente di qualsiasi parola.
“Dai, vieni, andiamo a controllare” dissi invece, voltandomi verso la porta con l’intento di evadere da quella stanza e da quella situazione opprimente.
Fu Eva a bloccarmi, per la seconda volta nella stessa sera: mi afferrò un braccio e lo strinse, costringendomi a rivolgere di nuovo l’attenzione su di lei.
“Dan…basta fughe”. Scosse la testa. “Basta fughe”.
Non potevamo ancora saperlo, ma quei pochi secondi in cui ci trattenemmo in bagno anziché tornare giù ci avrebbero salvati.
Io stesso alla fine mi convinsi che era meglio restare lì e affrontare quella discussione. Ne andava del mio rapporto con una delle persone più importanti della mia vita, e andassero al diavolo tutti quelli che si trovavano di là: probabilmente qualche stronzo aveva alzato troppo il gomito e s’era immaginato chissà quale creatura volante.
Iniziai a grattarmi la nuca, percependo il sudore che già da qualche minuto mi scorreva addosso.
“Eva, ciò che stavo cercando di dirti…e che avrei dovuto dirti molto tempo fa…è che…”.
Sospirai, non sapevo proprio come dirglielo. Poi, purtroppo o per fortuna, accadde qualcosa che fece passare tutto in secondo piano.
 
Venimmo improvvisamente travolti da un’onda d’urto, non tanto forte da farci cadere, ma forte abbastanza da generare delle strane e irrequiete vibrazioni dentro di noi, come se qualcosa nei meandri più profondi della terra fosse esploso e avesse scosso analogamente anche le nostre viscere. Sulle prime poteva sembrare un terremoto, ma era un fenomeno meno violento e tuttavia più inquietante, perché sembrava aver colpito l’atmosfera stessa.
Guardai Eva, e vidi dipinta sul suo volto un’espressione totalmente diversa: ora era turbata anche lei.
Aprii quella porta con tutta la fretta che avevo in corpo e insieme, correndo sulle scale, ci precipitammo al piano di sotto, dove ormai vigeva il silenzio, per capire cosa fosse stato.
 
Il salone era vuoto. Erano tutti fuori, ammassati come un gregge, con le teste inclinate verso l’alto e le bocche spalancate.
Fu allora che in noi la semplice inquietudine cedette il posto all’ansia, ma malgrado il contesto surreale trovammo comunque il coraggio di uscire a controllare.
Come per ritardare il momento in cui avremmo scoperto la fonte dello shock generale, ci concentrammo dapprima sui nostri compagni (Eva su Shawn, io su Keith e Randy): sembravano tutti in uno stato di trance, immobili come tante statue ma con le pupille che rimbalzavano da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Eva stava ancora cercando di destare il suo ragazzo, dunque fui io il primo ad alzare lo sguardo al cielo. E finalmente lo vidi.
“Oh, merda…”.
 
Ad una prima occhiata appariva come una semplice sferetta, poco più grossa e poco più luminosa di una stella, ma guardando più a fondo e per più tempo essa sembrava acquistare spessore, finché non si formò al suo interno una cavità iridescente, che la rendeva molto simile ad un anello.
In più, non se ne stava fissa in un unico punto ma, come gli occhi dei suoi osservatori, si spostava da una parte all’altra e viceversa.
“Cosa…cosa credi che sia?” mi chiese Eva, con voce tremolante.
“Non ne ho la minima idea…”.
Lei si portò le mani perlacee alla bocca, in preda alla paura. “Dan…Shawn non si riprende...nessuno si riprende…che diamine succede? Cosa dobbiamo fare?”.
Le cinsi le spalle cercando di scacciare la sua angoscia: “sta’ calma, Eva. Riflettiamo…”.
Stavo solo prendendo tempo. La verità è che io stesso ero stordito e preoccupato per i miei amici.
Non sapendo da dove cominciare, ripresi esattamente da dove avevo lasciato: dando delle energiche pacche sulle braccia e sul petto di Keith e di Randy, un po' come durante le amichevoli zuffe che scatenavamo per sfotterci l’un l’altro, chiamandoli con voce più alta e sperando che dessero un qualunque segnale di ripresa.
Non ne diedero nessuno, ma in compenso un nuovo suono catturò la nostra attenzione: un’improvvisa e violenta inspirazione, come di qualcuno che abbia appena riassaporato l’aria dopo un’interminabile apnea, seguita da un sordo tonfo.
Immediatamente ci voltammo, e scorgemmo poco distante la figura di un ragazzo inginocchiato a terra, con la schiena ricurva ed il respiro affannato.
“Ben!” riconobbe subito Eva, catapultandosi verso di lui e seguita a ruota da me.
 
“Ben…Ben, mi senti? Stai bene?”.
Decisamente non stava bene. Tremava come una foglia, era pallidissimo e si stringeva le tempie con le ruvide dita.
“E-Eva!” riuscì comunque a pronunciare, con non poca difficoltà. “A-aiutami, ti…ti prego!”.
Lo rimettemmo in piedi, ciascuno sollevandolo per un braccio, e lo portammo dentro casa, facendolo sedere sulla prima sedia che ci capitò a tiro; ci scordammo momentaneamente degli altri “ipnotizzati”, così come lui parve non accorgersene affatto.
Non appena si fu seduto, Eva gli domandò a bruciapelo: “Ben…sai dirci cosa cazzo ti è accaduto e cos’è quella cosa in cielo?!”.
Ben rispose prima alla seconda domanda e poi alla prima, ma il risultato fu ugualmente assurdo.
“Q-quella c-cosa è…n-non so, una specie di…portale” balbettò, stringendosi spasmodicamente le ginocchia. “E…e quando ci ho g-guardato dentro ho…ho v-visto…”.
Non riusciva a regolarizzare la voce, così fui io a spronarlo: “amico, che cazzo hai visto?”.
“Ho visto i-il m-me stesso…di un altro m-mondo!”.

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Capitolo 3
*** La scimmia e il documento ***


Capitolo 3: La scimmia e il documento
 
“Il te stesso…di un altro mondo?”.
Anche se scandite lentamente, quelle parole mi risultarono più strane ripetute da me stesso piuttosto che pronunciate da un tizio di cui, per inciso, non conoscevo ancora niente, se non che si chiamava Ben.
Non sapevo nemmeno perché stessi riflettendo su quello che aveva detto: era palesemente una stronzata. Voglio dire, una luce nel cielo che ti permette di vedere te stesso, ma in un’altra dimensione o cose così? Neanche un bambino o un pazzo ci crederebbero.
Diciamo però che dopo aver sentito l’urlo di un ragazzo spaventato da qualcosa che avevo visto nel cielo, dopo essere stato attraversato da un’onda d’urto anomala e dopo aver visto una trentina di persone incantate e mentalmente sconnesse, beh, se non altro iniziavo a pensare che quello non fosse un giorno come gli altri.
Ricordo che considerai addirittura l’ipotesi che si trattasse di un sogno: magari da un momento all’altro mi sarei svegliato dopo una lunga pennichella e avrei scoperto che la mia mente, nel frattempo, s’era fatta un bel viaggetto.
Inutile dire che non era un sogno, e anche se lo fosse stato, era ben lungi dal finire.
Questo Ben, saltato fuori dal nulla, ora mi guardava come se vedesse in me la sua unica fonte di salvezza: “e-esatto…è stato t-t-tremendo!”.
“Ben, si vede che sei scosso ma…” si intromise Eva, avvolgendogli le spalle con un braccio per farlo sentire al sicuro, “…non potresti provare ad essere un po' più preciso?”.
Proprio quando stavo iniziando a perdere la pazienza, Ben riuscì finalmente a ridurre considerevolmente il proprio tremito. “Ci posso provare”, confermò, e dopo aver inspirato a fondo cominciò a raccontare l’accaduto.
“Stavo ballando con un gruppetto di amici quando un ragazzo lì fuori ha urlato all’improvviso; non so chi fosse, forse un amico di Lina, ma è entrato e ha detto ‘venite tutti fuori, guardate cosa c’è in cielo’…ci stavamo divertendo dentro, ma eravamo anche curiosi perché sembrava che quel tizio se la stesse facendo addosso dalla paura, quindi siamo usciti e…lo abbiamo visto”.
Fece una piccola pausa, lo sguardo fermo su un punto indefinito.
“All’inizio era parecchio distante, tanto che molti di noi pensavano fosse solo un aereo; poi però ha iniziato a scendere, e a scendere ancora, finché non ha preso la forma di un grosso disco bucato. Si spostava da una parte all’altra e a me sembrava anche che ruotasse su se stesso, ma non ne sono sicuro…in ogni caso, eravamo ormai tutti concentrati a guardarlo, me compreso, ma poi c’è stata…come dire, una specie di vibrazione tutt’intorno a noi, una strana luce bianca ha avvolto tutto ciò che mi circondava e il disco si è ingigantito…o meglio, sono io che mi stavo avvicinando ad esso, come se mi stesse risucchiando!”.
A malincuore dovetti interromperlo per esternare un dubbio: “beh, lì fuori in questo momento ci sono decine di altre persone che si trovano nello stesso stato in cui ti sei trovato tu, ma i loro piedi non si sono mai sollevati da terra…”.
“Si, beh, potrebbe essere stata un’illusione” rispose Ben con molta più disinvoltura di quanta ne richiedesse l’argomento trattato. “In effetti, per tutto il tempo mi sono sentito come se il mio corpo non stesse subendo niente di particolare…era la mia mente a vivere tutte quelle cose…”.
“Quali cose? Vai avanti” suggerì Eva.
“Quando sono…ehm, entrato nel portale, mi è apparso davanti agli occhi un flusso velocissimo di immagini…erano troppe e riesco a ricordarne soltanto due, quelle che sono rimaste visibili per più tempo: una scimmietta di peluche e un documento, sul quale però non sono riuscito a capire cosa ci fosse scritto…prima che me lo chiediate, non ho la minima idea del loro significato”.
Stavolta, malgrado la fretta che aveva di scoprire il resto, fu Eva a interromperlo: “non dicevi di aver visto il te stesso di un altro mondo?”.
“Infatti” ribadì Ben. “Mentre cercavo di dare un senso alla scimmia e al documento, le immagini sono scomparse e al loro posto si è aperto un altro buco. Lo sfondo era indefinito, ma di colpo mi è apparsa davanti agli occhi una copia esatta di me stesso, il che come potete immaginare mi ha provocato un bello spavento. Pensavo si trattasse di un’altra immagine o di una sorta di grande specchio…ma poi la mia copia ha iniziato a parlare!”.
Ben ricominciò a tremare, ed Eva pensò che forse ci stavamo spingendo troppo oltre.
“Ben, non sei obbligato a dirci che cosa ti ha detto…”.
“Invece si! Devo dirvelo” esclamò lui con vigore. “Solo riportandovi tutti i dettagli abbiamo una chance di venirne a capo”.
“Allora continua” lo esortai.
“Aveva un’espressione enigmatica, e la sua voce era uguale alla mia. ‘Salve, Ben, ti trovo in forma’, mi ha detto. Io gli ho chiesto chi fosse, e nel farlo temo di avergli anche urlato contro perché mi ha risposto ‘sta’ calmo, non c’è motivo di agitarsi. Io sono te. Sono Ben, ma di un altro mondo, diverso dal tuo. Volevo solo vedere come te la passavi’”.
Ben spostò ossessivamente lo sguardo da me ad Eva, da Eva a me, forse per soppesare le nostre reazioni.
Vidi Eva boccheggiare, come se avesse udito parole di un linguaggio incomprensibile, e capii che probabilmente aveva raggiunto il limite; quindi, senza una fottuta ragione, domandai a Ben: “e dimmi…questa tua copia, era esattamente uguale a te? In tutto e per tutto?”.
“Fisicamente si” rispose lui, forse rincuorato dal fatto che fossimo ancora lì ad ascoltarlo invece di mandarlo al diavolo insieme a quell’insulsa storia, “ma aveva, come dire, uno stile diverso…era ben pettinato, aveva la barba curata e dei vestiti eleganti: giacca, camicia, persino una cravatta…roba che io detesto”.
‘In pratica sta ammettendo pubblicamente di essere un barbone’, pensai.
Non provavo nessuna ostilità nei suoi confronti, ero solo maledettamente confuso e cercavo punti di contatto con la realtà.
“E poi cos’altro è successo?” azzardai. Eva continuava a tacere.
“La mia copia mi ha detto ‘vieni, ti porto a fare un giro nel mio mondo’, e poi si è voltato, quasi come se volesse accompagnarmi…ma proprio quando lo sfondo dietro di lui stava iniziando ad assumere una forma, ho visto un flash che ha fatto scomparire tutto, come quello dei televisori…e mi sono ritrovato qui con voi. Questo è tutto”.
 
Per qualche minuto (che sembrò un’eternità) restammo tutti e tre in rigoroso silenzio, ognuno perso in pensieri diversi. Dopo di che Eva, come se si fosse svegliata solo allora da un lungo sonno, si schiarì la voce e disse: “Ben, vorrei parlare un attimo in disparte con Dan, se non ti dispiace…ma tranquillo, non andiamo da nessuna parte, non ti lasciamo da solo”.
“Certo, certo…fate pure” acconsentì Ben, quindi Eva mi invitò con un cenno del capo a spostarci un po' più in là.
 
“Prima di prendere una qualsiasi decisione” esordì, quando fu certa che la distanza impedisse a Ben di origliare, “vorrei avvisarti che non sono sicura che ci si possa fidare di lui”.
“Ma non mi dire” risposi io sarcasticamente, come se ciò non fosse già abbastanza evidente da quanto avevamo appena udito.
“Sono seria, Dan” mi rimproverò lei. “Ben è il fratellastro di Lina; potrà anche sembrarti un bravo ragazzo, e infondo lo è, ma lui ha…sofferto di tossicodipendenza, in passato, e per quanto ne sappiamo potrebbe soffrirne ancora”.
‘Ma tu guarda: Lina Garrison ha un fratellastro drogato’, pensai tra me e me, prima di realizzare quanto fosse stupido concentrarsi su quel particolare in un momento come quello.
“Quindi…cosa suggerisci di fare?” domandai dubbioso.
“Non lo so, forse dovremmo solo…aspettare che si riprendano anche tutti gli altri”.
“E se non si riprendessero? Voglio dire, è passato un bel po' di tempo da quando Ben ha iniziato a parlare…e poi c’è una cosa che non quadra: ha parlato anche lui di vibrazione, magari intendeva l’onda d’urto di poco fa…se così fosse, potrebbe esserci un minimo di verità nella sua storia”.
“O magari ha semplicemente ingigantito la cosa…te lo ripeto: non possiamo dare troppo peso a quel che esce dalla sua bocca, potrebbe essere mentalmente poco stabile”.
“Io credo che valga comunque la pena investigare ed eventualmente…fare qualcosa” insistetti, mentre Eva scrollò le spalle disorientata.
“Hai un’idea migliore?”.
“Non so se sia migliore ma si, ho un’idea” dissi con tono un po' più fermo. “Vieni, torniamo da Ben: tossicodipendente o no, è giusto che anche lui esprima la propria opinione”.
Così ci riavvicinammo al ragazzo, che d’un tratto si alzò in piedi e mi tese una mano.
“Comunque in tutto questo casino non abbiamo avuto modo di presentarci” disse con un mezzo sorriso. “Io mi chiamo Benedict, ma puoi chiamarmi anche tu Ben; se sei venuto alla festa immagino che tu conosca Lina…beh, io sono suo fratello. Fratellastro, a voler essere più precisi”.
“Capisco” risposi, fingendo di non saperne nulla. “Io sono Jordan, ma chiamami pure Dan”.
“Allora? Che si fa?” chiese lui impaziente. Anche Eva aspettava indicazioni, dato che non le avevo neanche accennato i miei piani.
“Bene, è ovvio che ci troviamo in una situazione senza precedenti. E in casi come questo, c’è una sola persona al mondo con cui andrei a parlare…”.

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Capitolo 4
*** Il professor Hughes ***


Capitolo 4: Il professor Hughes

Eva e Ben erano in attesa di indicazioni, mentre io riorganizzavo mentalmente la lista delle prossime cose da fare.
“Dell Hughes” pronunciai infine, pur sapendo che quel nome e quel cognome non dicessero niente di niente a nessuno dei due, che infatti mi guardarono indifferenti scrollando le spalle.
“Beh? Chi è?” domandò subito Ben. Lo conoscevo da pochi minuti ma avevo già imparato che, una volta calmatosi, era un tipo avventato, addirittura frenetico: sembrava sempre che si sentisse inseguito da qualcosa.
“Uno dei miei professori universitari. Uno dei migliori” risposi.
Entrambi sbuffarono, come se si aspettassero che la mia idea si sarebbe rivelata da scartare.
“L’ultima cosa che farei in questo momento è proprio parlare con un professore…ma se vuoi diventare lo zimbello dell’università e compromettere la tua intera carriera, beh, è una tua scelta, Dan” commentò Eva, con una risatina che serviva solo a mascherare il nervosismo che la assaliva.
“Mi spiace amico, si vede che sei un tipo a posto, ma sono d’accordo con lei” concordò Ben.
“Quindi preferite fare tutto da soli?” chiesi, infastidito dal loro approccio. Ero stufo del fatto che mi si prendesse sempre troppo poco sul serio. “In tal caso vi saluterò e agirò per conto mio, perché la trovo una stronzata”.
Dovettero realizzare che non avevamo altra scelta, perché non dissero altro. Almeno io avevo proposto qualcuno, e non l’avevo proposto a caso.
 
Dell Hughes (che per me era ancora il professor Hughes, ma che in seguito sarebbe diventato semplicemente Dell) era, in poche parole, l’uomo più intelligente che avessi mai conosciuto.
Insegnava varie discipline scientifiche nel mio corso e nonostante avesse 46 anni (un’età relativamente giovane per un docente) s’era già distinto in diversi ambiti di ricerca.
Era brillante e acculturatissimo, ma proprio per questo anche severo, schietto e sicuro di sé: se c’era una cosa che non riusciva e non riuscirà mai ad ammettere, è quella di essere in errore. Aveva lavorato sodo per molti anni per ottenere quel livello di conoscenza, e pretendeva che i suoi studenti facessero lo stesso.
Possedeva inoltre una personalità e un carisma straripanti, e qualche volta pure delle piccole quanto esplosive manie di protagonismo.
Forse vi starete chiedendo perché scelsi lui, dato che è palesemente una figura con cui è difficile avere a che fare. Ebbene, i motivi sono due.
Primo, i suoi modi tipici di chi si sente superiore a chiunque gli stia intorno avevano generato in me, nonostante tutto quel che m’aveva fatto passare, una profonda ammirazione nei suoi confronti. L’avevo odiato, ma l’avevo anche stimato immensamente.
Secondo, era un appassionato di cosmologia e fenomeni celesti: apparentemente, proprio ciò che faceva al caso nostro.
 
Alla fine, pur con qualche tentennamento, anche gli altri due si convinsero e accettarono di sentire il parere del mio professore.
“Vuoi che ti accompagni?” mi chiese Eva. A giudicare dalla cera che aveva, era probabilmente lei ad aver più bisogno di cambiare un po' aria e farsi un giro, ma dovetti rifiutare: non potevamo lasciare da soli gli ospiti ancora in trance…né potevamo affidarli a Ben.
“Non è necessario: credimi, rischieresti di irritarlo anche se ti comportassi in maniera normale…non immagini neanche quante paranoie abbia il professor Hughes”.
“Ma…sei sicuro di volerti mettere alla guida da solo dopo quel che è successo?” insistette lei, mentre io stavo già infilandomi il giubbotto di pelle e cercando le chiavi dell’auto.
“Ma certo, io sto bene, non preoccuparti. Piuttosto, tenete d’occhio quelli là fuori e se dovesse succedere qualcosa o vi sentiste male, telefonatemi subito. Tornerò il prima possibile”.
Eva fece un allarmato cenno col capo, mentre Ben s’era seduto di nuovo e sembrava immerso nei propri pensieri.
Scesi le scale in fretta e, una volta entrato in macchina, misi in moto e partii nel cuore di una notte ancora piuttosto giovane.
 
La strada deserta che correva innanzi a me ed il ritmo costante con cui muovevo le mani sul volante mi fecero scordare per qualche istante dell’inverosimile casino che stava andando in scena e riflettere sulla mia conversazione con Eva. Mi dissi che era un bene allontanarsi da lei anche per pochi minuti, perché non saremmo riusciti a mettere ancora da parte l’imbarazzo creatosi fra di noi. Eppure, per l’intera durata del viaggio non feci altro che pensare ai suoi occhi lucidi che mi fissavano dall’altra parte della vetrata, come a supplicarmi di ritornare presto.
Ero talmente concentrato che dovetti frenare più bruscamente del previsto quando mi accorsi di essere arrivato a destinazione.
La famiglia Hughes aveva una casa molto spaziosa ma complessivamente umile se confrontata con quella di Lina: muri esterni d’un bianco sbiadito, soffitto marrone, una finestra, un garage e uno scialbo cortiletto.
Suonai il campanello e abbassai nervosamente lo sguardo sul piccolo zerbino che si trovava ai piedi della porta, su cui c’era scritto un convenzionalissimo ‘Welcome’.
Ad aprirmi fu una ragazza che, ad occhio e croce, doveva avere la mia stessa età.
“Ehm…buonasera” dissi, spostando timidamente l’attenzione sull’interno della casa, illuminato soltanto dalla soffusa luce arancione di una lampada.
“Chi sei?” domandò lei con un cipiglio sospettoso ma sforzandosi di risultare comunque cortese.
“Oh, giusto…sono un ex studente del professor Hughes, so che abita qui e speravo di poter parlare con lui, ho delle cose urgenti da dirgli”.
La ragazza si portò una mano su un fianco, mentre l’altra era ancora ferma sulla maniglia. “Papà!” chiamò all’improvviso, confermando ciò che avevo già supposto: era sua figlia. “Ti cercano!”.
“Arrivo!” rispose, più distante, una voce infastidita che tante volte avevo udito in quegli anni.
Il rumore di passi svelti si insinuò nelle mie orecchie, mentre mi preparavo psicologicamente all’incontro col professore.



Note dell’autore: ok, è un capitolo breve e sostanzialmente transitorio, ma ho voluto dedicare uno spazio a parte alla presentazione di questo professore (che nella mia idea dovrebbe essere il terzo protagonista della storia). Spero che vi sia piaciuto comunque; se vi va, lasciatemi pure una recensione con un vostro parere 😀 Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Conversazioni notturne ***


Capitolo 5: Conversazioni notturne
 
Provai un intimo senso di disagio mentre la ragazza alla porta mi squadrava dalla testa ai piedi con un sorrisetto appena accennato.
Aveva i capelli castano scuro raccolti in una treccia, occhi chiari (non se ne distingueva il colore esatto per via della scarsa illuminazione) e altezza nella media (qualche centimetro in meno di me); indossava una felpa e una tuta, indumenti comodi per la casa.
Se non altro, dopo tanta tensione, quella era una bella vista.
Incrociai le mani dietro la schiena e inspirai con forza. Intorno a noi non si udiva altro che il verso roco di qualche gufo.
Poi d’un tratto lei si scostò di lato, permettendo ad una terza persona di prendere il suo posto sull’uscio.
Eccolo, finalmente. Il caro, vecchio, dispotico professor Hughes.
Esclusi i pochi e arruffati capelli grigi, era in condizioni non molto diverse da quelle in cui si presentava a lezione: piccoli occhiali a lenti rettangolari, camicia bianca sotto un’impeccabile cardigan blu, jeans sobri, scarpe classiche e l’immancabile orologio con cinturino in pelle nera che fissava ogni minuto. Sul viso, però, aveva delle rughe di spossatezza che suggerivano che, nonostante l’orario, stesse facendo tutto tranne dormire.
“Price?”, mi chiamò per cognome, sbarrando gli occhi.
“Proprio io, professore, ehm…buonasera” confermai, grattandomi la nuca in balia dell’imbarazzo. “Spero di non averla disturbato…”.
“In realtà ho un bel da fare” ammise lui a braccia conserte. “Stavo ricontrollando delle relazioni importanti, e credo che ormai tu sappia quanti errori banali siano capaci di fare certi studenti”.
A quell’affermazione vidi sua figlia sghignazzare e scuotere la testa.
Okay, ricevuto. Non ero il benvenuto.
“Ah, capisco…le chiedo scusa, davvero, ma vede…ci sono alcune cose seriamente urgenti di cui dovrei parlarle”.
Portò il pollice e l’indice a massaggiarsi l’attaccatura tra fronte e naso, in un gesto di concentrazione che gli avevo visto fare milioni di volte: “nulla che si possa rimandare a domattina?” propose, cercando di apparire un po' più cordiale.
“Temo di no” dovetti rispondere.
“Allora entra” concordò, non prima d’aver sbuffato (e neanche troppo celatamente).
 
Dall’interno, casa Hughes sembrava molto più stretta di quanto apparisse fuori, probabilmente per la notevole moltitudine di mobili, scaffali e librerie sparsi qua e là. C’erano anche molti quadri, che mi ricordarono di quando il professore disse che sua moglie era un’appassionata d’arte. Aveva sempre avuto la tendenza a raccontare piccoli dettagli della sua vita privata durante le lezioni.
Mi stavo ancora guardando intorno incuriosito quando la voce di Hughes mi riportò al presente.
“Per prima cosa, vorrei veramente sapere come hai fatto a sapere dove abito”.
“Oh, certo…beh, me lo disse Martin qualche tempo fa”.
Tyler Martin era un mio ex collega, laureatosi l’anno prima, che aveva lavorato in un paio d’occasioni come assistente di Hughes.
“Dovevo immaginarlo” riconobbe infatti il professore. “Ebbene, mettiti comodo” aggiunse poi, facendomi strada in cucina dove c’era un tavolo con delle sedie. “Cos’è questa cosa tanto urgente di cui mi volevi parlare?”.
Ero ansioso di metterlo al corrente dei fatti, ma innanzitutto feci un colpetto di tosse e spostai furtivamente lo sguardo su sua figlia, sperando che capisse che preferivo restare in privato con lui.
Evidentemente però il professore se ne accorse prima di lei: “giusto, hai già avuto modo di conoscere mia figlia Evelyn”.
“Molto piacere” le dissi educatamente.
“Piacere mio” rispose lei, dunque suo padre tradusse a parole il significato del mio comportamento: “Evelyn, potresti lasciarci parlare un po' da soli?”.
Evelyn si limitò ad annuire e ad andarsene in corridoio.
 
Quando fui sicuro che si fosse allontanata abbastanza, mi rivolsi infine a Hughes.
“Professore, poco fa è accaduto qualcosa di inspiegabile e se sono corso da lei è perché so quanto la sua mente sia flessibile e aperta ad ogni possibilità”.
Gli riportai ogni cosa che sapevo, tralasciando soltanto le strane immagini intraviste da Ben nel portale perché avrebbero potuto minare irrimediabilmente la credibilità di un discorso che poggiava su basi già troppo instabili. Dapprima mi parve svogliato e poco interessato: tamburellava le dita sul tavolo producendo un ticchettio snervante, e pensai che non mi stesse nemmeno ascoltando; tuttavia quando arrivai alla parte in cui Ben diceva d’aver incontrato una copia esatta di sé stesso focalizzò improvvisamente tutta l’attenzione su di me e si chinò in avanti come per sentire meglio.
“Price, se è uno scherzo è meglio chiuderlo qui. Non ho altro tempo da perdere” mi interruppe a quel punto.
“Se fosse stato uno scherzo lo avrei chiuso già da un bel pezzo e certamente non sarei venuto a farlo a lei, men che meno a notte fonda”.
Hughes rimase silenzioso per qualche istante, poi portò la mano destra al mento: “non riesco a crederci. Allora era tutto vero…”.
Non era più né scettico né spaventato: sembrava piuttosto che gli fosse stato riportato alla memoria un episodio di molti anni fa che aveva completamente scordato.
“Che vuol dire, professore? Sa già di cosa si tratta?”, domandai confuso ma speranzoso.
“Forse si” dichiarò lui; quindi, schiarendosi la voce, riferì: “quando avevo grossomodo la tua età iniziai ad appassionarmi all’astronomia, perché ero affascinato da tutto ciò che avesse a che fare col cielo o, più macroscopicamente, col cosmo. Un giorno mi ritrovai fra le mani un vecchio libro, che avrei definito privo di valore e decisamente poco affidabile rispetto ai rinomati volumi che avevo letto in precedenza; eppure gli diedi comunque una chance, aprendolo e iniziando a sfogliarlo. Ricordo che alcune pagine parlavano di un fenomeno anomalo, che niente e nessuno mi avevano mai citato: una specie di anello che volteggia nel cielo alterando la percezione della realtà di chi vi guarda dentro. Ho sempre pensato che fosse una bufala, una fantasiosa bugia messa lì per stuzzicare la curiosità del lettore, ma sembra coincidere con quello che mi hai appena descritto e, ad essere schietti, dubito che tu abbia letto quel libro…o un qualunque altro libro d’astronomia”.
“Infatti no” assentii, con un ghigno che non recava però alcun segno di divertimento. “Ricorda qualcos’altro di quel che c’era scritto nel libro? Potrebbe essere più specifico?”.
“Sinceramente rimembro ben poco” confessò Hughes, “se non che si tratti di un evento ancora pressoché sconosciuto, e che forse coinvolge l’interconnessione fra più universi”.
 
Boom. Quella frase fu come l’esplosione di una bomba a orologeria nel mio cervello.
Passi per Ben, che era ancora praticamente un estraneo per me ed aveva i suoi problemi, ma se anche Dell Hughes parlava di fantascienza…beh, c’era da preoccuparsi.
Fu in quel momento che realizzai che, volenti o nolenti, eravamo invischiati in qualcosa di grosso. Addirittura epocale.
“Sta dicendo che tutta questa faccenda potrebbe potenzialmente verificare la teoria del multiverso?” chiesi sbalordito.
“Non ne ho idea” replicò Hughes, alzando le mani come per stoppare le mie troppo affrettate conclusioni. “Ma in compenso so dove possiamo andare per vederci più chiaro. Quel libro si trova nella biblioteca comunale, poco distante da qui”.
“È un’ottima notizia, ma…è quasi l’una di notte, credo che ormai sia chiusa…” obiettai, dando per scontato che pure lui volesse fare qualcosa subito, senza attendere il mattino seguente.
“Di questo non ti devi preoccupare, ci penso io” disse semplicemente, afferrando un giubbotto. “Sei venuto in macchina?”.
Annuii.
“Bene, ti faccio strada”.
Chi l’avrebbe mai detto, fino a qualche ora prima, che il professor Hughes si sarebbe seduto nella mia auto?
“Aspettate! Voglio venire anch’io!” ci chiamò poi una voce dal corridoio.
Dalla penombra si fece avanti Evelyn, con espressione furba.
Hughes roteò gli occhi: “stavi origliando di nuovo?”.
“Non ho potuto farne a meno” ridacchiò la ragazza. “Ha tutta l’aria di essere una storia assurda”.
Suo padre sospirò; quindi, rivolgendosi a me, asserì: “Evelyn è una ragazza in gamba e potrebbe esserci d’aiuto. Portiamo anche lei?”.
“Sicuro, nessun problema”.
“Evviva!” esclamò lei elettrizzata; quindi tutti e tre ci avviammo verso la macchina parcheggiata di fronte al vialetto.

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Capitolo 6
*** Il libro ***


Capitolo 6: Il libro
 
Seguendo le indicazioni del professore, arrivammo alla biblioteca in circa 10 minuti. Le porte, come prevedibile, erano chiuse, ma guardando le finestre notai con sorpresa che all’interno c’era ancora una flebile luce accesa.
“Chi è che resta in biblioteca fino a quest’ora?” chiesi, a nessuno in particolare, mentre aprivo la portiera e scendevo dall’auto.
Non ricevetti risposta: Hughes, con sua figlia al seguito, s’era già diretto di fretta all’entrata. Paradossalmente, io che avevo vissuto tutta la faccenda in prima persona (o quasi) stavo a poco a poco tornando coi piedi per terra, mentre lui sembrava sempre più smanioso, come se il ticchettio di un’invisibile bomba ad orologeria gli rimbombasse senza tregua nelle orecchie.
Suonò il citofono e, in contemporanea, il rumore ovattato di oggetti in caduta pervase il vicinato facendo sussultare sia me che Evelyn, ma non il professore, impassibile come una statua. Pochi secondi dopo, le porte si aprirono e da esse fece capolino un uomo tarchiato, sui 50 o forse 60 anni, con pochi capelli disordinati, gli occhi stanchi dalle palpebre cadenti, una sorta di divisa ed un’espressione guardinga.
“Dell?” pronunciò, con la voce roca di chi fosse stato colto in flagrante.
“Spero di non averti inguaiato facendoti cadere quei libri, Oliver” rispose Hughes, indovinando la causa del baccano di poco prima. “Per farmi perdonare ti darò una mano a sistemarli”.
“Non preoccuparti, non è necessario, ma…che ci fai qui a quest’ora?”.
“Dovrei consultare un libro” disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo, mentre a me e ad Evelyn scappò una risatina smorzata.
“Dell, so che la tua sete di conoscenza non si esaurisce mai, ma venire qui addirittura 2 ore dopo la chiusura…” commentò Oliver, condividendo la nostra ironia.
Il professore invece era serissimo: “mi conosci abbastanza da sapere che se non fosse stato importante non sarei mai venuto a chiederti di fare uno strappo alla regola. Possiamo entrare, per favore?”.
L’altro, finalmente, si scostò facendoci spazio: “certo, avanti!”.
 
Dopo le dovute presentazioni, appresi che Oliver Ward era custode della biblioteca di Sandy, un onesto mestiere che svolgeva da ben 15 anni con insolita passione (probabilmente perché era anch’egli molto curioso); era una persona semplice, pratica, ma anche incredibilmente simpatica, più acuta di quanto dimostrasse, ed aveva una presenza rassicurante che gli aveva permesso di divenire un amico sincero persino del rigido professor Hughes.
Ci condusse all’interno e dovetti ammettere che la biblioteca, quando non c’era nessuno, era un luogo quasi mistico, poggiato sul perfetto quanto precario equilibrio di migliaia di libri posti uno accanto all’altro come le tessere di un enorme domino, rilassante e sinistro allo stesso tempo.
“Dunque, che libro state cercando?” domandò Oliver, arrestandosi e parandosi di fronte a noi.
Il professore riportò a memoria autori, casa produttrice ed edizione di un testo il cui titolo pareva essere ‘Novero dei fenomeni astronomici’. Il nome al custode non diceva nulla, ma ci fece comunque strada verso lo scaffale riservato ad astronomia e astrofisica.
Una volta lì, Hughes si immerse celermente alla ricerca dell’unico oggetto che avrebbe potuto esserci di una qualche utilità, mentre io ed Evelyn restammo un po' più indietro, approfittandone per scambiare quattro chiacchiere.
“Di’ un po', pensi davvero che questa storia c’entri qualcosa con universi paralleli e roba del genere?” esordì lei per rompere il ghiaccio.
“Ah, non lo so, è stato tuo padre a dirlo…”.
“E ti fidi di mio padre?”.
“Perché suona come un quesito a trabocchetto?”.
Lei ridacchiò. “Non è questo, è solo che mio padre non parla molto del suo lavoro quando è a casa ma so per certo che tanti ragazzi lo odiano”.
Scossi la testa. “Beh, io non lo odio, se può consolarti. Certamente ha dei metodi particolari ma deve esserci un motivo se ritrovandomi in una situazione inspiegabile ho subito pensato a lui”.
Evelyn chinò il viso verso il mio, continuando a sorridere ed offrendomi così un’altra visuale delle sue piccole ma magnetiche labbra.
“Sicuro. Magari ne riparliamo quando saremo da soli…”.
“Guarda che…” cominciai a dire per eludere le sue insinuazioni, ma i miei tentativi di ribadire la mia totale sincerità furono interrotti dal professore stesso.
“Venite, l’ho trovato!”.
 
Hughes stava già sfogliando rapidamente il libro quando lo raggiungemmo.
“È molto vecchio” osservò Oliver, stirandosi i folti baffi.
“Eppure è solo qui dentro che potremmo trovare delle informazioni che facciano al caso nostro”.
“Ma, insomma, si può sapere cosa vi è successo di tanto urgente?”.
Solo allora ci rendemmo conto che, indaffarati com’eravamo, non avevamo ancora menzionato niente al povero custode. Fui io stesso a raccontargli tutto, sperando di risultare il più convincente possibile. Oliver, tuttavia, cadeva praticamente dalle nuvole.
“Ragazzo mio, si vede che sei un tipo a posto, non voglio dirti cattiverie…ma venire in biblioteca proprio quando stavo per tornarmene a casa, in tremendo ritardo aggiungerei, per via di cerchi volanti e mondi paralleli…non mi sembra giusto, ecco”.
“Perché non hai mai letto questo libro”, mi difese Hughes facendogli cenno con la mano di avvicinarsi. “Vieni anche tu a dare un’occhiata”.
Il primo a cui mostrò la pagina desiderata fui però io, incredulo nel constatare che la figura su di essa rappresentava un anello nel cielo esattamente identico a quello che aveva sorvolato, e che forse sorvolava ancora, casa di Lina.
“Si! Si! È questo ciò che ho visto!” confermai, consapevolmente tradito dall’emozione che mi provocò l’aver trovato almeno un riscontro di una cosa apparentemente impossibile.
“Bene, allora leggi tu stesso quel che c’è scritto”.
Seguii il consiglio del professore, riportando parola per parola le poche e vaghe righe di quella descrizione.
 
INCROCIO QUANTISTICO
L’incrocio quantistico è un fenomeno astrofisico estremamente raro che consiste nell’intersezione (e talvolta, per un lasso di tempo approssimato ma non ben determinato, nella fusione) di due corpi materiali nel momento di reciproco contatto. La scienza accademica, se si esclude qualche eccezione, non tratta mai tale evento, ritenuto enigmatico e controintuitivo in quanto prevede la sovrapposizione, anziché la ben più logica collisione, di due oggetti effettivamente dotati di massa; ciò nonostante, alcuni autorevoli studi ipotizzano che l’incrocio quantistico possa rivelarsi la chiave di volta per la verifica della celebre teoria del multiverso (secondo la quale il nostro sarebbe solo uno degli innumerevoli universi esistenti) oltre che il meccanismo di interazione e comunicazione dei suddetti universi.
Sfortunatamente, le fonti che hanno dato credito all’argomento sono scarse, antiche e, proprio per questo, di dubbia affidabilità: la prima disamina dell’incrocio quantistico risale a delle tavole d’origine azteca, rinvenute in Messico negli anni ’60, sulle quali esso si manifestava come una sorta di buco nel cielo. La scarna documentazione del fenomeno, inoltre, non ha permesso agli studiosi di prevederne le eventuali conseguenze ambientali”
 
Una volta finito ebbi difficoltà nell’interpretare quanto aveva appena letto, così mi soffermai sulla reazione affascinata di Evelyn, su quella confusa di Oliver e su quella immutabilmente assorta di Hughes.
“La parte storica è chiara, interessante aggiungerei…ma la parte scientifica non fa per me” riconobbe Oliver.
“Lei cosa ne pensa, professore?”.
“Vediamo se riesco a ripetervelo in modo più facile”, si propose Hughes. “La teoria descritta nel libro suppone a priori che non esista un solo universo, ma che ne esistano tanti e che ognuno di essi sia paragonabile ad una bolla di sapone: a volte, quando due bolle entrano in contatto, si uniscono a formare un unico ammasso con due lobi…ebbene, la superficie di contatto comune alle due bolle, cioè ai due universi incontratisi, non è altro che l’anello che tu hai visto in cielo…l’incrocio quantistico”.
 
Sentivo il cervello fumarmi. La sua spiegazione era stata nettamente più comprensibile rispetto a quella dettagliata ma piuttosto fredda del libro, e tuttavia iniziò a instillarsi dentro di me il timore che quella sera stessero accadendo troppe cose assurde troppo velocemente, come se il mondo intero mi stesse precipitando addosso.
“Qui dice che non se ne conoscono le conseguenze e che non c’è un modo per fermarlo. Che facciamo quindi?”, tagliai corto.
“Innanzitutto mi porti a casa della tua amica: ho bisogno di vedere personalmente con cosa abbiamo a che fare. E di riflettere”.
Ricordai solo in quell’istante che Eva e Ben erano ancora lì, probabilmente da soli e verosimilmente in apprensione. Pensai che fosse una buona idea tornare da loro e metterli al corrente delle ultime novità.
“Vengo anch’io, se non vi dispiace” si intromise Oliver. “Questa storia non mi convince al cento per cento, ma ormai avete catturato la mia attenzione”.
“Nessun problema, ma credo che dovremmo portare con noi anche il libro…non si sa mai” dissi.
Con un cenno d’assenso il custode ci seguì e tutti insieme ci dirigemmo all’esterno, verso la macchina parcheggiata in solitaria poco distante.

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Capitolo 7
*** La quiete prima della (nuova) tempesta ***


Capitolo 7: La quiete prima della (nuova) tempesta
 
Il tragitto dalla biblioteca alla casa di Lina fu tanto rapido quanto silenzioso: ognuno di noi stava affondando in un oceano di pensieri, nessuno fiatava, sembravamo quasi degli sconosciuti.
Dopo aver suonato il campanello ed essere stati accolti all’interno, Eva mi corse incontro rincuorata prima di stopparsi a pochi centimetri da me, ricordandosi forse del modo decisamente imbarazzante in cui ci eravamo lasciati. Ben, invece, era ancora seduto a rimuginare, probabilmente a vuoto.
Hughes, Oliver ed Evelyn mi seguirono a ruota e naturalmente toccò a me fare le consuete presentazioni. In particolare, non mi sfuggì un’occhiata perplessa che Eva dedicò alla figlia del professore.
“Bene, ora che ci conosciamo che ne dite di andare ad osservare da vicino il problema?” propose quest’ultimo, quindi tutti insieme ci dirigemmo fuori al balcone dove intravedevo le sagome dei ragazzi caduti vittime del sortilegio, senza che si fossero mossi d’una virgola.
D’un tratto un sussurro mi entrò nell’orecchio, richiamando la mia attenzione. Era Eva, di nuovo.
“Credevo che stessi andando a prendere solo il professore. Gli altri due cosa ci fanno qui?”.
“Lunga storia”, tagliai corto. “Per ora accontentati di sapere che abbiamo trovato uno strano libro che parla di…beh, quello”, e con il dito le indicai il cerchio nel cielo, come se fosse proibito pronunciarne il nome.
Di solito, quando vedi qualcuno che conosci sbalordirsi per qualcosa di cui tu eri già a conoscenza ti diverti un sacco. In quel caso, invece, lo sbigottimento di Hughes e gli altri, unito al fatto che rispetto a quando ero partito non era cambiato assolutamente niente, provocò in me solo un’estrema inquietudine.
‘Riusciremo davvero a rimettere tutto in ordine? O siamo alla fine del mondo?’, pensavo.

Rientrando, Hughes aveva un atteggiamento diverso: sghignazzava nervosamente, era eccitato come un bambino la sera di Natale. Non lo avevo mai visto così.
“Non posso crederci…è tutto vero…non posso crederci”, ripeteva; poi, afferrando Ben per un braccio, disse: “tu…tu ci hai guardato dentro…dimmi cosa hai visto!”.
Il ragazzo, i cui sensi erano sovraeccitati dall’incredibile esperienza vissuta, balbettò spaventato: “n-n-non…non…non credo che s-sia…una buona idea”.
Mi fissava, aspettandosi forse un mio provvedimento, così lo rassicurai: “diglielo pure, tanto suppongo che ormai possano credere a tutto”.
Ben, dunque, mise anche i nuovi arrivati al corrente delle sue visioni, seppur meno minuziosamente di quanto aveva fatto con me ed Eva (magari perché gli faceva male ripercorrere con la mente quei momenti, o magari per mancanza di fiducia: chi avrebbe potuto biasimarlo?); quando sottovoce citò la scimmietta e il foglio di carta, che ancora lo assillavano nel tentativo di indovinarne il significato, Evelyn non poté reprimere una risatina smorzata, alla quale seguì il secondo sguardo bieco di Eva.
“Lo trovi divertente? Pensi che questo sia un gioco?”, la imbeccò con più aggressività di quanta volesse mettercene.
“Oh, no, ci mancherebbe; è solo che…questa storia è proprio assurda” si giustificò l’altra.
Oliver provvide a sedare quel piccolo battibecco con una domanda banale, una di quelle che, un po' per caso, mette in moto tutti gli eventi: “Ben, sei sicuro che sia accaduto tutto all’improvviso? Quella…uhm…quella cosa nel cielo non ha dato nessun, come dire…preavviso, del fatto che stesse per ‘ipnotizzarvi’?”.
Ben tacque per qualche istante, come se si fosse assentato; poi ammise: “in effetti, ora che mi ci fa pensare…pochi secondi prima della grande luce bianca, ricordo che le orecchie avevano iniziato a fischiarmi…ma non so se questa cosa sia collegata al portale oppure no…”.
“E non abbiamo altre fonti in grado di confermarlo o smentirlo”, rispose Hughes.
“Pare che, malgrado tutto, non ci resti che aspettare e riflettere”, conclusi io.

Mentre in cucina il professore illustrava ad Eva e Ben le pagine del libro riguardanti l’incrocio quantistico (fermandosi di tanto in tanto a fare constatazioni contrariate sulla quantità di alcol consumata durante la festa; argomento su cui Oliver preferiva invece chiudere un occhio), ne approfittai per ‘passeggiare’ un po' in mezzo a tutte le persone bloccate sul terrazzino.
Non muovevano un singolo muscolo. Erano immobili, e infondo lo eravamo anche noi ‘superstiti’ che non sapevamo dove sbattere la testa.
Un brivido mi percorse la schiena quando sentii una voce dire: “Sembra uno di quei film, ‘l’Apocalisse degli Zombie’…o qualcosa del genere”.
Mi voltai ad incontrare l’espressione vispa di Evelyn e annuii: “già…magari lo fosse”.
Si accorse chiaramente che le mie apprensioni erano rivolte soprattutto a due ragazzi: “chi sono?”.
“I miei migliori amici. Si chiamano Keith e Randy. Ero venuto alla festa con loro”.
Lei incrociò le braccia sul petto: “pensavo che fossero Eva e Ben i tuoi migliori amici”.
“No, beh…in realtà Ben prima di stasera non lo conoscevo neanche, mentre Eva…” mi stoppai un attimo a osservarla, bellissima anche quando assorta, “…è un po' complicato, ma diciamo che è un’amica. Un’amica di vecchia data”.
“E io che credevo fosse la tua ragazza”.
“Che? No, no! Cosa vai a pensare!” mi affrettai a chiarire, come se fosse evidente il contrario anche per una sconosciuta. “Non è la mia ragazza, no. Come ho detto, è soltanto un’amica”.
“Okay” rispose Evelyn con un mezzo sorriso. “Comunque non intendevo provocarla, prima: se ho detto qualcosa che l’ha offesa…”.
“Naah, non è colpa tua; siamo semplicemente…un po' nervosi, capisci? Non è facile essere gli unici scampati al pericolo e dover trovare un modo per sistemare le cose”.
“Certo, posso immaginarlo” disse, offrendomi un nuovo assaggio dei suoi luminosi occhi. “Spero che riusciremo a far tornare tutto come prima. Keith e Randy sembrano simpatici”.
“Lo sono” confermai, apprezzando sinceramente quel tentativo di stemperare la tensione.

Incredibile quanto velocemente si può passare dalla padella alla brace, vero?
Un minuto prima mi stavo godendo uno dei pochissimi momenti di pace di quella notte, e un minuto dopo venimmo nuovamente gettati nel panico da quel mistero piombato dal nulla nelle nostre vite, rendendoci incapaci di prevedere quale sarebbe stata la prossima mossa.
Un orecchio cominciò a fischiarmi. Poi dopo anche l’altro.
La faccia contorta di Evelyn mi avvisò che stava succedendo lo stesso anche a lei.
Immediatamente ci raggiunsero Eva, Ben, Hughes e Oliver, nelle medesime condizioni.
Alzai lo sguardo al cielo. L’anello stava lampeggiando.
“Oh mio Dio!”.

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