Voglio precisare fin da subito che, anche se alcuni passi del testo potrebbero farvelo credere, non si tratta né di una storia di alieni, né di una love story: fa tutto parte di un disegno più grande, se così si può dire.
Scusatemi inoltre per la lunghezza ma ritenevo che il primo capitolo dovesse, tra le altre cose, iniziare a presentare i personaggi, quindi mi sono preso ‘i miei spazi’.
Buona lettura a chi deciderà di dargli una possibilità e grazie in anticipo a chiunque vorrà lasciare una recensione.😁
Capitolo 1: La festa
“Hey Lina, in tutta onestà: cosa c’era nel bicchiere di Randy? Siamo qui da soli 20 minuti e sta già dando di matto!”.
Quella sarcastica domanda fu seguita da uno spigoloso sorriso. Keith sapeva di aver fatto centro: vide Randy guardarsi intorno allibito, come a chiedere l’intervento di qualcuno, quando era palese che a nessuno fregasse nulla della loro conversazione.
Keith adora provocarlo: una volta mi disse che lo diverte troppo fare la parte dello sbruffone solo per smontare i discorsi a cui si appassiona. E Randy, d’altro canto, scherza su quasi ogni cosa, tanto che a volte sembra un idiota, ma quando si parla di argomenti che gli interessano riesce ad essere davvero geniale, e detesta che non lo si prenda sul serio.
“Fratello, stavolta non la spunti” disse allora l’interpellato, posando il bicchiere sul tavolo e le mani sui fianchi, in segno di sfida. “Ti dico che gli alieni esistono!”.
Bene, questi sono i miei due migliori amici che, nel bel mezzo di una festa, discutono dell’esistenza o meno degli alieni.
La padrona di casa, Lina, ascoltava tutto e ridacchiava di gusto mentre versava alcolici vari agli altri invitati: evidentemente trovava la cosa divertente.
Io invece non la trovavo divertente. La trovavo fottutamente imbarazzante.
A dire il vero, neanche ci volevo andare a quella festa. Non si tratta di essere asociale o robe simili: semplicemente non mi piace stare in luoghi stracolmi di persone che fanno casino e si fingono entusiaste per nascondere (anzi, per nascondersi) il loro reale carattere. Sono più uno da ‘pochi ma buoni’, io.
A proposito, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Jordan (per gli amici solo Dan) e alla festa, come avrete ormai capito, ci sono andato lo stesso, ma per un altro motivo di cui vi parlerò più avanti.
Keith e Randy non accennavano a fermarsi.
“Dovresti smetterla di credere ad ogni stronzata che trovi su Internet, ragazzo. Ti stai bruciando il cervello!”.
“Ma quale Internet! Due settimane fa, o giù di lì, mi ha telefonato mio cugino Larry: mi ha giurato di aver visto un UFO volargli sulla testa per poi scomparire dopo qualche secondo…arrenditi Keith, gli alieni esistono!”.
“Tuo cugino Larry? Vuoi dire quello che vive a Barnesville nel Minnesota?” sbuffò Keith per sottolineare la poca rilevanza della cittadina appena citata nell’immaginario americano.
Effettivamente, chi ha mai sentito parlare di Barnesville?
“E allora? Gli alieni non possono farsi un giro nel Minnesota?”.
Keith roteò gli occhi, arrendevole davanti all’ostinazione dell’amico: “merda…Dan, lo accompagni tu a casa o lo faccio io?”.
“Giusto!” esclamò Randy, come se si fosse appena accorto della mia presenza. “Dan, diglielo anche tu che esistono!”.
Ecco, proprio l’ultima cosa che volevo: essere coinvolto in quell’insulso dibattito.
Di colpo mi ritrovai tanti, troppi occhi puntati addosso: quelli irritati di Randy, quelli spazientiti di Keith, quelli esilarati di Lina e quelli detestabilmente giudicatori dei ragazzi in attesa del loro drink.
Perché sono andato a quella festa del cazzo?
“Io credo…” esordii, schiarendomi la voce e compiacendomi segretamente del fatto che un bel po' di persone pendessero dalle mie labbra.
“…credo che andrò fuori a fumarmi una sigaretta” conclusi poi, lasciando tutti interdetti.
A chi sarebbe importato se avessi cominciato un discorso razionale?
Quali e quanti di quegli stupidi mi avrebbero seriamente ascoltato?
Zero.
E allora meglio uscire a prendere una boccata d’aria. E di fumo.
Sia chiaro, non sono contento di essere un fumatore. Tempo fa uno dei miei professori universitari, uno dei pochi che rispettavo veramente, disse che fumare è un segno di debolezza. Lì per lì la cosa mi urtò, e non poco, ma andando avanti scoprii che mi stava bene il fatto di essere un debole. Una sorta di accettazione.
Keith e Randy non diedero la minima importanza al fatto che mi fossi allontanato subito dopo che mi fu rivolta una domanda. Perché avrebbero dovuto? Anche loro fumavano, ma per loro era solo un vizio come tanti altri.
Per me invece è una sorta di evasione da luoghi e situazioni che mi infastidiscono o mi opprimono. Le sigarette sono come un aerosol che tira fuori tutte le brutte sensazioni che ho dentro, e vi assicuro che sono tante, così tante che a volte temo possano schiacciarmi il petto.
So cosa state pensando: fumare non purifica, al contrario corrode. Tecnicamente avete ragione, ma fidatevi di quel che vi dico.
Così tirai fuori una Marlboro dal pacchetto e la accesi tenendola in bocca con l’indice e il medio. Il primo sbuffo andò ad annebbiare l’immagine della luna nel cielo nero come la pece, e pensai che il primo tiro è sempre il migliore.
Lina abitava davvero in un bel posto, qualche miglio ad Est di Sandy nello Utah, la città in cui la maggior parte di noi vive, studia e lavora. Casa sua non si poteva definire sperduta, non viveva in mezzo al nulla, ma era comunque a debita distanza dal clamore del centro. Non che Sandy nello Utah fosse New York, intendiamoci, ma penso che abbiate compreso cosa voglio dire.
Oltretutto aveva un’enorme balconata che affacciava su una specie di bosco con le montagne in lontananza, una veduta incredibilmente rilassante.
Mi appoggiai con la schiena al muro: lì fuori c’eravamo solo io, una coppia di fidanzati intenti a baciarsi e un gruppetto di amici di Lina, decisamente meno rumorosi di quelli all’interno. C’era una quiete magnifica, un silenzio intervallato solo da qualche chiacchiera sporadica, dai suoni del bosco e dalla musica che per fortuna arrivava bassa ai nostri timpani.
Alzai lo sguardo, cercando di coordinare il respiro e la frequenza di tiro della sigaretta con quei pochi suoni che mi apparvero come il battito cardiaco della terra.
Non c’erano stelle quella sera ma per un istante mi sembrò di scorgere qualcosa di luminoso in cielo. Due secondi dopo me n’ero già scordato: magari me l’ero solo immaginato.
Ero fuori da circa 5 minuti quando sentii dei passi che si avvicinavano accompagnati da delle risate sommesse; poi dalla scalinata alla mia destra fece capolino una chioma rossa che mi fece sussultare, facendo scoppiare quella bolla di tranquillità in cui mi ero rintanato.
Prima ancora che potessi riprendermi, mi ritrovai di fronte lei. Eva.
Ebbene, ecco il motivo per cui sono andato alla festa nonostante non ne avessi voglia.
Cosa posso dirvi di Eva? Sapete, non è affatto facile per me parlare di lei.
Ci conosciamo dagli anni del liceo, dunque se escludiamo i miei due migliori amici è la persona che frequento da più tempo.
Non abbiamo mai avuto bisogno di granché per intenderci: la nostra amicizia è nata in maniera normale, come ne nascono moltissime altre, ma in breve divenimmo quasi inseparabili (cosa che, in parte, ha resistito anche quando ci siamo iscritti a facoltà universitarie diverse), e questo servì ad entrambi per capire di poter contare l’uno sull’altra per letteralmente qualsiasi cosa.
Lei dice che nessuno le ha mai ispirato la fiducia che le ispiro io fin dall’inizio, dal giorno in cui attaccai a parlare, primo in assoluto, con quella ragazza che non faceva altro che seguire le lezioni con aria distante e bere decine di caffè alla mensa scolastica. Io invece penso che lei sia l’unica che mi capisce fino in fondo, fino all’ultima piega della mia personalità, forse anche più di Keith e Randy che su certe cose ancora faticano a starmi dietro.
Non dovrebbe sorprendermi: è una delle persone più intelligenti che conosco, ha una mente molto acuta ed è una grande osservatrice.
Prima ho usato il termine ‘amicizia’, ma in realtà il nostro rapporto è ben più difficile da definire: sono anni che tra noi due c’è questa attrazione reciproca, una chimica troppo forte per essere ridotta a quella di due semplici amici, ma non ce lo siamo mai detti perché la paura di rovinare tutto superava di gran lunga la voglia di stare insieme…o almeno questo vale per me.
Mi sono dannato l’anima per mesi cercando di trovare il momento giusto per dichiararle l’evidenza, ma non ce l’ho fatta in tempo: da circa 4 mesi ormai Eva è fidanzata con un altro ragazzo. Inutile dire che da allora un bel pezzo di quella complicità assoluta che c’era fra noi è andata scemando, fino a scomparire del tutto.
“Guarda chi c’è!” tuonò un vocione, bloccando il flusso dei miei pensieri. “Dan, amico, come stai?! Non ci si vede da una vita!”.
Shawn mi venne incontro entusiasta e mi propose un’energica stretta di mano alla quale risposi il più distaccatamente possibile.
“Veramente non ci vediamo da 2 settimane scarse, Shawn, ma sono felice anch’io di vederti”.
Non era vero. Sarò schietto, non mi stava simpatico, anzi per certi versi non lo sopportavo: era un tipo fastidiosamente superficiale, il cui successo con le donne era da ricondurre unicamente al fisico da sportivo (che fa sempre la propria parte, me ne rendo conto) ma che non aveva nulla di speciale da offrire alle suddette donne. Credevo che Eva, da quel punto di vista, fosse diversa, che cercasse altro, ma evidentemente mi sbagliavo.
Ciò nonostante, non avevo un reale motivo per comportarmi sgarbatamente con lui, e anche se l’avessi avuto non l’avrei fatto, per rispetto di Eva.
A questo punto vi starete (giustamente) chiedendo perché sono andato a quella festa pur sapendo che c’era anche Shawn. Beh, avete presente quando vi piace così tanto una persona da volerla vedere ad ogni costo anche se in compagnia del partner? Non sono un distruttore di relazioni e non voglio esserlo, ma avevo bisogno di vedere Eva. Lo so, è strano, ma non posso farci niente.
Non a caso, anche mentre salutavo Shawn, non le ho tolto un attimo gli occhi di dosso. Forse era solo una mia impressione, ma anche lei sembrava un po' imbarazzata per la reazione del suo ragazzo.
Era bellissima. Lo è sempre stata.
Indossava una camicia granata infilata in un paio di pantaloni di seta neri, e nero era anche il suo lungo cappotto, in contrapposizione con il bianco perlaceo della sua pelle; labbra sottili ma carnose al punto giusto, naso affusolato all’insù, occhi grigi dai tratti orientali e una cascata di capelli ricci rossi come il fuoco.
Ricordo che mi chiesi se mai sarei riuscito a togliermela dalla testa.
Finalmente anche lei si incamminò verso di me.
“Ciao Dan” disse, regalandomi un sorriso magnetico.
“Hey” risposi semplicemente, gettando la sigaretta dopo un ultimo tiro.
“Non pensavo saresti venuto”.
“E invece eccomi qua. Non è così facile liberarsi di me”.
“Sai, ero convinta che alla sciatta festa di Lina Rhode avresti preferito startene a casa a giocare alla Playstation, ascoltare i Pink Floyd o qualcosa del genere…”.
Sogghignò lievemente mentre parlava: mi stava facendo il verso e non c’era davvero nulla di male in tutto ciò, soprattutto fra due amici di lunga data, ma il fatto che l’avesse fatto davanti al suo ragazzo, dopo la piega che aveva preso il nostro rapporto, mi fece pesare la cosa più del dovuto.
“Si, beh, non sarebbe stato male in effetti, ma sto cercando di diventare un conformista che va a tutte le feste e…”.
“Stavo solo scherzando” mi interruppe lei, notando il mio cambio d’espressione. “Sono felice di rivederti”.
“Già. Anche io”, risposi annuendo.
Si, ero pronto ad esporre una memorabile invettiva contro i classici festaioli, ma lo sguardo di Eva mi fece capire che non era il caso. Rimasi per qualche secondo a perdermi in esso, prima che lei entrasse in casa insieme a Shawn per salutare Lina e gli altri presenti.
Immediatamente dalla stessa porta uscirono Keith e Randy, esaltati come se avessero finalmente risolto quello stupido enigma sugli alieni.
“Dan, è arrivata Eva!” esclamò Keith con urgenza.
“Non mi dire” commentai io sarcastico. “Da dove credi che sia entrata?”.
“C’è anche quel motociclista fake del suo ragazzo” aggiunse Randy.
“Così pare” conclusi, mettendomi a braccia conserte, con una faccia che era tutta un programma.
Sul viso di Keith si accese una scintilla di furbizia: “beh, in questi casi c’è solo una cosa che un uomo può fare!”.
“Fregarsene di tutti questi coglioni e tornarsene a casa?” domandai speranzoso.
Stavolta fu Randy ad appoggiare l’idea dell’amico: “no! Fregarsene di tutti questi coglioni…e cominciare a bere!”.
Quindi, a furia di pacche sulle spalle, mi ritrascinarono dentro.
Non si può dire che non abbia seguito il loro consiglio: trascorsi buona parte della serata seduto su uno scomodissimo sgabello e poggiato coi gomiti sulla cucina ad isola di Lina, tracannando un po' di tutto ciò che mi passava davanti agli occhi.
Persino i miei amici mi avevano abbandonato. Non li biasimo: volevano solo divertirsi. Ballavano, giocavano, cantavano e chiacchieravano con gente sconosciuta. Più o meno, ciò che si fa ad ogni festa.
Quello strano ero io. Mi guardavo intorno chiedendomi che cazzo ci facessi lì e rispondevo distrattamente ad ogni “assaggia questo drink” di Keith e ad ogni “a tizia sono cresciute le tette” di Randy.
Mi risvegliai dal torpore solo quando un’altra voce familiare mi disse: “sembri una spugna”.
Istintivamente girai la testa verso il gruppo di ragazzi ammucchiatisi vicino le casse della musica; solo dopo che vi scorsi anche Shawn mi voltai verso Eva, che s’era seduta di fianco a me e mi guardava con aria canzonatoria.
“Non è poi così male”.
Sorrisi. Malgrado tutto, Eva fu l’unica a strapparmi un sorriso quella sera.
“No, suppongo di no. Passa un bicchiere anche a me”.
Mentre le versavo un po' di gin, Eva tornò all’attacco.
“Allora, come va l’università?”.
“Non mi lamento, nell’ultima sessione ho dato altri 2 esami…che non è il massimo per un 23enne che dovrebbe laurearsi l’anno prossimo, ma sai com’è…”.
“No, va bene” sentenziò lei sorseggiando dal suo bicchiere. “Prendiamo tutto ciò che arriva”.
“Esatto”. ‘Prendiamo tutto ciò che arriva’ era la frase che ripetevamo ogni volta che eravamo stressati da qualcosa, che si trattasse di studio o altri impegni. E qualcosa mi diceva che non aveva usato quella frase per caso. “Tu invece?”.
“Io ho dato 3 esami, quindi come puoi vedere non me la cavo molto meglio di te”.
“Però sei sempre un passo avanti”.
Sentii le pupille dilatarsi, non saprei dire se per l’alcol o per tutto quello che avevo dentro e non riuscivo a pronunciare; sta di fatto che anche Eva la percepì come una risposta pesante, perché cambio subito discorso.
“Oh, e non mi dicesti che stavi messaggiando con una ragazza del tuo corso? Raccontami com’è andata!”.
“Vuoi dire Alison?”. Piccola parentesi: Alison è una che conobbi al corso di laboratorio, che svolgemmo in coppia; era una tipa interessante e ci scrivemmo per un po', ma un giorno mi disse che stava per trasferirsi e avrebbe cambiato università. Onestamente non fu un gran dispiacere: non ero sicuro che mi piacesse e probabilmente iniziai a frequentarla solo per non pensare alla nuova relazione di Eva.
“Oh, lei non segue più il mio stesso corso: ha cambiato università. A dire il vero, penso che abbia proprio cambiato città”.
“Ah” sospirò Eva, interdetta. “È un peccato, mi dispiace davvero. Non me lo avevi detto”.
L’ultima affermazione fu come un pugno nello stomaco.
“Desolato, ma vedi…noi non parliamo più come una volta, Eva”.
“Infatti, e vorrei sapere perché”.
Improvvisamente ci stavamo fissando con serietà. Non capisco come fece un’innocente bevuta a trasformarsi così repentinamente in un confronto spinoso.
Senza una ragione apparente, abbassai il tono della mia voce: “lo sai bene il perché”.
Eva non ci fece caso: “posso parlarti in un luogo più tranquillo?”.
“È da tutta la sera che parliamo in mezzo alle grida e alla musica, e inoltre sto bevendo. Parliamo qui”.
“Credo sia meglio farlo più…in disparte”.
“Ecco, appunto”.
Quell’insinuazione le fece spalancare gli occhi e la lasciò momentaneamente senza risposta.
Forse aveva capito che ciò che mi innervosiva era il suo voler per forza fare l’amica perfetta, chiacchierando con me di qualche irrilevante banalità come se fosse un obbligo e per giunta restando sempre sotto l’attenta (si fa per dire) sorveglianza di Shawn.
“Se non hai altro da dirmi, vado fuori a fumare”.
Una volta in piedi stavo davvero per dirigermi verso l’uscita quando lei mi bloccò un braccio.
“Per favore, Dan. Vieni con me. È importante”.
Avrei voluto dirle di no ancora una volta, divincolarmi dalla sua stretta e andarmene lontano. Solo io so quanto avrei voluto farlo.
Invece mi lasciai trascinare altrove…nel bagno di Lina.
Proprio così: ci ricascai.
Eva chiuse la porta del bagno a chiave.
“Lo sai, vero, che con tutto ciò che stanno bevendo di sotto qualcuno tra poco verrà a pisciare?” dissi, mantenendo un tono irritato.
“Non me ne frega un cazzo, Dan” chiosò lei intrecciando le braccia. “Dobbiamo parlare”.
“Sei tu che mi hai trascinato qui, dunque dimmi tutto”.
“Posso sapere perché da quando mi sono messa con Shawn sei diventato così schivo nei miei confronti?”.
Eva non era arrabbiata, ma capii all’istante che non potevo fare cazzate: una singola parola fuori posto poteva significare la fine dei giochi.
Non sapevo da dove iniziare, così presi tempo: “io non…non sono schivo”.
“Invece si! Sono mesi ormai che ti comporti come se fossimo due semplici conoscenti, e sai che non è così!”. Vidi Eva deglutire, pronta ad espellere tutti i cattivi segnali che aveva incassato negli ultimi tempi. “So che non siamo più dei ragazzini e che non possiamo di certo stare l’una con l’altro dalla mattina alla sera, Dan…ma mi sembra che tu voglia mettere una pietra sopra tutto ciò che abbiamo vissuto insieme solo perché adesso ho un ragazzo, e questo mi fa male, quindi vorrei solo sapere se sei cambiato e basta oppure c’è dell’altro…”.
Provai una morsa allo stomaco al pensiero di farla stare male. Forse era arrivato il momento di dirglielo.
Passai gli istanti successivi a ripetermi ‘diglielo Jordan, diglielo ora’.
Dovevo farcela: per me, per lei, e per tutto ciò che eravamo stati ma non eravamo più.
Schiusi le labbra. Presi fiato. Lei mi aspettava.
Ma, indovinate un po'? Per l’ennesima volta, non feci in tempo.
Un urlo squassò il nostro momento decisivo: “CHE CAZZO È QUELLA COSA NEL CIELO?!”.
Quella sarcastica domanda fu seguita da uno spigoloso sorriso. Keith sapeva di aver fatto centro: vide Randy guardarsi intorno allibito, come a chiedere l’intervento di qualcuno, quando era palese che a nessuno fregasse nulla della loro conversazione.
Keith adora provocarlo: una volta mi disse che lo diverte troppo fare la parte dello sbruffone solo per smontare i discorsi a cui si appassiona. E Randy, d’altro canto, scherza su quasi ogni cosa, tanto che a volte sembra un idiota, ma quando si parla di argomenti che gli interessano riesce ad essere davvero geniale, e detesta che non lo si prenda sul serio.
“Fratello, stavolta non la spunti” disse allora l’interpellato, posando il bicchiere sul tavolo e le mani sui fianchi, in segno di sfida. “Ti dico che gli alieni esistono!”.
Bene, questi sono i miei due migliori amici che, nel bel mezzo di una festa, discutono dell’esistenza o meno degli alieni.
La padrona di casa, Lina, ascoltava tutto e ridacchiava di gusto mentre versava alcolici vari agli altri invitati: evidentemente trovava la cosa divertente.
Io invece non la trovavo divertente. La trovavo fottutamente imbarazzante.
A dire il vero, neanche ci volevo andare a quella festa. Non si tratta di essere asociale o robe simili: semplicemente non mi piace stare in luoghi stracolmi di persone che fanno casino e si fingono entusiaste per nascondere (anzi, per nascondersi) il loro reale carattere. Sono più uno da ‘pochi ma buoni’, io.
A proposito, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Jordan (per gli amici solo Dan) e alla festa, come avrete ormai capito, ci sono andato lo stesso, ma per un altro motivo di cui vi parlerò più avanti.
Keith e Randy non accennavano a fermarsi.
“Dovresti smetterla di credere ad ogni stronzata che trovi su Internet, ragazzo. Ti stai bruciando il cervello!”.
“Ma quale Internet! Due settimane fa, o giù di lì, mi ha telefonato mio cugino Larry: mi ha giurato di aver visto un UFO volargli sulla testa per poi scomparire dopo qualche secondo…arrenditi Keith, gli alieni esistono!”.
“Tuo cugino Larry? Vuoi dire quello che vive a Barnesville nel Minnesota?” sbuffò Keith per sottolineare la poca rilevanza della cittadina appena citata nell’immaginario americano.
Effettivamente, chi ha mai sentito parlare di Barnesville?
“E allora? Gli alieni non possono farsi un giro nel Minnesota?”.
Keith roteò gli occhi, arrendevole davanti all’ostinazione dell’amico: “merda…Dan, lo accompagni tu a casa o lo faccio io?”.
“Giusto!” esclamò Randy, come se si fosse appena accorto della mia presenza. “Dan, diglielo anche tu che esistono!”.
Ecco, proprio l’ultima cosa che volevo: essere coinvolto in quell’insulso dibattito.
Di colpo mi ritrovai tanti, troppi occhi puntati addosso: quelli irritati di Randy, quelli spazientiti di Keith, quelli esilarati di Lina e quelli detestabilmente giudicatori dei ragazzi in attesa del loro drink.
Perché sono andato a quella festa del cazzo?
“Io credo…” esordii, schiarendomi la voce e compiacendomi segretamente del fatto che un bel po' di persone pendessero dalle mie labbra.
“…credo che andrò fuori a fumarmi una sigaretta” conclusi poi, lasciando tutti interdetti.
A chi sarebbe importato se avessi cominciato un discorso razionale?
Quali e quanti di quegli stupidi mi avrebbero seriamente ascoltato?
Zero.
E allora meglio uscire a prendere una boccata d’aria. E di fumo.
Sia chiaro, non sono contento di essere un fumatore. Tempo fa uno dei miei professori universitari, uno dei pochi che rispettavo veramente, disse che fumare è un segno di debolezza. Lì per lì la cosa mi urtò, e non poco, ma andando avanti scoprii che mi stava bene il fatto di essere un debole. Una sorta di accettazione.
Keith e Randy non diedero la minima importanza al fatto che mi fossi allontanato subito dopo che mi fu rivolta una domanda. Perché avrebbero dovuto? Anche loro fumavano, ma per loro era solo un vizio come tanti altri.
Per me invece è una sorta di evasione da luoghi e situazioni che mi infastidiscono o mi opprimono. Le sigarette sono come un aerosol che tira fuori tutte le brutte sensazioni che ho dentro, e vi assicuro che sono tante, così tante che a volte temo possano schiacciarmi il petto.
So cosa state pensando: fumare non purifica, al contrario corrode. Tecnicamente avete ragione, ma fidatevi di quel che vi dico.
Così tirai fuori una Marlboro dal pacchetto e la accesi tenendola in bocca con l’indice e il medio. Il primo sbuffo andò ad annebbiare l’immagine della luna nel cielo nero come la pece, e pensai che il primo tiro è sempre il migliore.
Lina abitava davvero in un bel posto, qualche miglio ad Est di Sandy nello Utah, la città in cui la maggior parte di noi vive, studia e lavora. Casa sua non si poteva definire sperduta, non viveva in mezzo al nulla, ma era comunque a debita distanza dal clamore del centro. Non che Sandy nello Utah fosse New York, intendiamoci, ma penso che abbiate compreso cosa voglio dire.
Oltretutto aveva un’enorme balconata che affacciava su una specie di bosco con le montagne in lontananza, una veduta incredibilmente rilassante.
Mi appoggiai con la schiena al muro: lì fuori c’eravamo solo io, una coppia di fidanzati intenti a baciarsi e un gruppetto di amici di Lina, decisamente meno rumorosi di quelli all’interno. C’era una quiete magnifica, un silenzio intervallato solo da qualche chiacchiera sporadica, dai suoni del bosco e dalla musica che per fortuna arrivava bassa ai nostri timpani.
Alzai lo sguardo, cercando di coordinare il respiro e la frequenza di tiro della sigaretta con quei pochi suoni che mi apparvero come il battito cardiaco della terra.
Non c’erano stelle quella sera ma per un istante mi sembrò di scorgere qualcosa di luminoso in cielo. Due secondi dopo me n’ero già scordato: magari me l’ero solo immaginato.
Ero fuori da circa 5 minuti quando sentii dei passi che si avvicinavano accompagnati da delle risate sommesse; poi dalla scalinata alla mia destra fece capolino una chioma rossa che mi fece sussultare, facendo scoppiare quella bolla di tranquillità in cui mi ero rintanato.
Prima ancora che potessi riprendermi, mi ritrovai di fronte lei. Eva.
Ebbene, ecco il motivo per cui sono andato alla festa nonostante non ne avessi voglia.
Cosa posso dirvi di Eva? Sapete, non è affatto facile per me parlare di lei.
Ci conosciamo dagli anni del liceo, dunque se escludiamo i miei due migliori amici è la persona che frequento da più tempo.
Non abbiamo mai avuto bisogno di granché per intenderci: la nostra amicizia è nata in maniera normale, come ne nascono moltissime altre, ma in breve divenimmo quasi inseparabili (cosa che, in parte, ha resistito anche quando ci siamo iscritti a facoltà universitarie diverse), e questo servì ad entrambi per capire di poter contare l’uno sull’altra per letteralmente qualsiasi cosa.
Lei dice che nessuno le ha mai ispirato la fiducia che le ispiro io fin dall’inizio, dal giorno in cui attaccai a parlare, primo in assoluto, con quella ragazza che non faceva altro che seguire le lezioni con aria distante e bere decine di caffè alla mensa scolastica. Io invece penso che lei sia l’unica che mi capisce fino in fondo, fino all’ultima piega della mia personalità, forse anche più di Keith e Randy che su certe cose ancora faticano a starmi dietro.
Non dovrebbe sorprendermi: è una delle persone più intelligenti che conosco, ha una mente molto acuta ed è una grande osservatrice.
Prima ho usato il termine ‘amicizia’, ma in realtà il nostro rapporto è ben più difficile da definire: sono anni che tra noi due c’è questa attrazione reciproca, una chimica troppo forte per essere ridotta a quella di due semplici amici, ma non ce lo siamo mai detti perché la paura di rovinare tutto superava di gran lunga la voglia di stare insieme…o almeno questo vale per me.
Mi sono dannato l’anima per mesi cercando di trovare il momento giusto per dichiararle l’evidenza, ma non ce l’ho fatta in tempo: da circa 4 mesi ormai Eva è fidanzata con un altro ragazzo. Inutile dire che da allora un bel pezzo di quella complicità assoluta che c’era fra noi è andata scemando, fino a scomparire del tutto.
“Guarda chi c’è!” tuonò un vocione, bloccando il flusso dei miei pensieri. “Dan, amico, come stai?! Non ci si vede da una vita!”.
Shawn mi venne incontro entusiasta e mi propose un’energica stretta di mano alla quale risposi il più distaccatamente possibile.
“Veramente non ci vediamo da 2 settimane scarse, Shawn, ma sono felice anch’io di vederti”.
Non era vero. Sarò schietto, non mi stava simpatico, anzi per certi versi non lo sopportavo: era un tipo fastidiosamente superficiale, il cui successo con le donne era da ricondurre unicamente al fisico da sportivo (che fa sempre la propria parte, me ne rendo conto) ma che non aveva nulla di speciale da offrire alle suddette donne. Credevo che Eva, da quel punto di vista, fosse diversa, che cercasse altro, ma evidentemente mi sbagliavo.
Ciò nonostante, non avevo un reale motivo per comportarmi sgarbatamente con lui, e anche se l’avessi avuto non l’avrei fatto, per rispetto di Eva.
A questo punto vi starete (giustamente) chiedendo perché sono andato a quella festa pur sapendo che c’era anche Shawn. Beh, avete presente quando vi piace così tanto una persona da volerla vedere ad ogni costo anche se in compagnia del partner? Non sono un distruttore di relazioni e non voglio esserlo, ma avevo bisogno di vedere Eva. Lo so, è strano, ma non posso farci niente.
Non a caso, anche mentre salutavo Shawn, non le ho tolto un attimo gli occhi di dosso. Forse era solo una mia impressione, ma anche lei sembrava un po' imbarazzata per la reazione del suo ragazzo.
Era bellissima. Lo è sempre stata.
Indossava una camicia granata infilata in un paio di pantaloni di seta neri, e nero era anche il suo lungo cappotto, in contrapposizione con il bianco perlaceo della sua pelle; labbra sottili ma carnose al punto giusto, naso affusolato all’insù, occhi grigi dai tratti orientali e una cascata di capelli ricci rossi come il fuoco.
Ricordo che mi chiesi se mai sarei riuscito a togliermela dalla testa.
Finalmente anche lei si incamminò verso di me.
“Ciao Dan” disse, regalandomi un sorriso magnetico.
“Hey” risposi semplicemente, gettando la sigaretta dopo un ultimo tiro.
“Non pensavo saresti venuto”.
“E invece eccomi qua. Non è così facile liberarsi di me”.
“Sai, ero convinta che alla sciatta festa di Lina Rhode avresti preferito startene a casa a giocare alla Playstation, ascoltare i Pink Floyd o qualcosa del genere…”.
Sogghignò lievemente mentre parlava: mi stava facendo il verso e non c’era davvero nulla di male in tutto ciò, soprattutto fra due amici di lunga data, ma il fatto che l’avesse fatto davanti al suo ragazzo, dopo la piega che aveva preso il nostro rapporto, mi fece pesare la cosa più del dovuto.
“Si, beh, non sarebbe stato male in effetti, ma sto cercando di diventare un conformista che va a tutte le feste e…”.
“Stavo solo scherzando” mi interruppe lei, notando il mio cambio d’espressione. “Sono felice di rivederti”.
“Già. Anche io”, risposi annuendo.
Si, ero pronto ad esporre una memorabile invettiva contro i classici festaioli, ma lo sguardo di Eva mi fece capire che non era il caso. Rimasi per qualche secondo a perdermi in esso, prima che lei entrasse in casa insieme a Shawn per salutare Lina e gli altri presenti.
Immediatamente dalla stessa porta uscirono Keith e Randy, esaltati come se avessero finalmente risolto quello stupido enigma sugli alieni.
“Dan, è arrivata Eva!” esclamò Keith con urgenza.
“Non mi dire” commentai io sarcastico. “Da dove credi che sia entrata?”.
“C’è anche quel motociclista fake del suo ragazzo” aggiunse Randy.
“Così pare” conclusi, mettendomi a braccia conserte, con una faccia che era tutta un programma.
Sul viso di Keith si accese una scintilla di furbizia: “beh, in questi casi c’è solo una cosa che un uomo può fare!”.
“Fregarsene di tutti questi coglioni e tornarsene a casa?” domandai speranzoso.
Stavolta fu Randy ad appoggiare l’idea dell’amico: “no! Fregarsene di tutti questi coglioni…e cominciare a bere!”.
Quindi, a furia di pacche sulle spalle, mi ritrascinarono dentro.
Non si può dire che non abbia seguito il loro consiglio: trascorsi buona parte della serata seduto su uno scomodissimo sgabello e poggiato coi gomiti sulla cucina ad isola di Lina, tracannando un po' di tutto ciò che mi passava davanti agli occhi.
Persino i miei amici mi avevano abbandonato. Non li biasimo: volevano solo divertirsi. Ballavano, giocavano, cantavano e chiacchieravano con gente sconosciuta. Più o meno, ciò che si fa ad ogni festa.
Quello strano ero io. Mi guardavo intorno chiedendomi che cazzo ci facessi lì e rispondevo distrattamente ad ogni “assaggia questo drink” di Keith e ad ogni “a tizia sono cresciute le tette” di Randy.
Mi risvegliai dal torpore solo quando un’altra voce familiare mi disse: “sembri una spugna”.
Istintivamente girai la testa verso il gruppo di ragazzi ammucchiatisi vicino le casse della musica; solo dopo che vi scorsi anche Shawn mi voltai verso Eva, che s’era seduta di fianco a me e mi guardava con aria canzonatoria.
“Non è poi così male”.
Sorrisi. Malgrado tutto, Eva fu l’unica a strapparmi un sorriso quella sera.
“No, suppongo di no. Passa un bicchiere anche a me”.
Mentre le versavo un po' di gin, Eva tornò all’attacco.
“Allora, come va l’università?”.
“Non mi lamento, nell’ultima sessione ho dato altri 2 esami…che non è il massimo per un 23enne che dovrebbe laurearsi l’anno prossimo, ma sai com’è…”.
“No, va bene” sentenziò lei sorseggiando dal suo bicchiere. “Prendiamo tutto ciò che arriva”.
“Esatto”. ‘Prendiamo tutto ciò che arriva’ era la frase che ripetevamo ogni volta che eravamo stressati da qualcosa, che si trattasse di studio o altri impegni. E qualcosa mi diceva che non aveva usato quella frase per caso. “Tu invece?”.
“Io ho dato 3 esami, quindi come puoi vedere non me la cavo molto meglio di te”.
“Però sei sempre un passo avanti”.
Sentii le pupille dilatarsi, non saprei dire se per l’alcol o per tutto quello che avevo dentro e non riuscivo a pronunciare; sta di fatto che anche Eva la percepì come una risposta pesante, perché cambio subito discorso.
“Oh, e non mi dicesti che stavi messaggiando con una ragazza del tuo corso? Raccontami com’è andata!”.
“Vuoi dire Alison?”. Piccola parentesi: Alison è una che conobbi al corso di laboratorio, che svolgemmo in coppia; era una tipa interessante e ci scrivemmo per un po', ma un giorno mi disse che stava per trasferirsi e avrebbe cambiato università. Onestamente non fu un gran dispiacere: non ero sicuro che mi piacesse e probabilmente iniziai a frequentarla solo per non pensare alla nuova relazione di Eva.
“Oh, lei non segue più il mio stesso corso: ha cambiato università. A dire il vero, penso che abbia proprio cambiato città”.
“Ah” sospirò Eva, interdetta. “È un peccato, mi dispiace davvero. Non me lo avevi detto”.
L’ultima affermazione fu come un pugno nello stomaco.
“Desolato, ma vedi…noi non parliamo più come una volta, Eva”.
“Infatti, e vorrei sapere perché”.
Improvvisamente ci stavamo fissando con serietà. Non capisco come fece un’innocente bevuta a trasformarsi così repentinamente in un confronto spinoso.
Senza una ragione apparente, abbassai il tono della mia voce: “lo sai bene il perché”.
Eva non ci fece caso: “posso parlarti in un luogo più tranquillo?”.
“È da tutta la sera che parliamo in mezzo alle grida e alla musica, e inoltre sto bevendo. Parliamo qui”.
“Credo sia meglio farlo più…in disparte”.
“Ecco, appunto”.
Quell’insinuazione le fece spalancare gli occhi e la lasciò momentaneamente senza risposta.
Forse aveva capito che ciò che mi innervosiva era il suo voler per forza fare l’amica perfetta, chiacchierando con me di qualche irrilevante banalità come se fosse un obbligo e per giunta restando sempre sotto l’attenta (si fa per dire) sorveglianza di Shawn.
“Se non hai altro da dirmi, vado fuori a fumare”.
Una volta in piedi stavo davvero per dirigermi verso l’uscita quando lei mi bloccò un braccio.
“Per favore, Dan. Vieni con me. È importante”.
Avrei voluto dirle di no ancora una volta, divincolarmi dalla sua stretta e andarmene lontano. Solo io so quanto avrei voluto farlo.
Invece mi lasciai trascinare altrove…nel bagno di Lina.
Proprio così: ci ricascai.
Eva chiuse la porta del bagno a chiave.
“Lo sai, vero, che con tutto ciò che stanno bevendo di sotto qualcuno tra poco verrà a pisciare?” dissi, mantenendo un tono irritato.
“Non me ne frega un cazzo, Dan” chiosò lei intrecciando le braccia. “Dobbiamo parlare”.
“Sei tu che mi hai trascinato qui, dunque dimmi tutto”.
“Posso sapere perché da quando mi sono messa con Shawn sei diventato così schivo nei miei confronti?”.
Eva non era arrabbiata, ma capii all’istante che non potevo fare cazzate: una singola parola fuori posto poteva significare la fine dei giochi.
Non sapevo da dove iniziare, così presi tempo: “io non…non sono schivo”.
“Invece si! Sono mesi ormai che ti comporti come se fossimo due semplici conoscenti, e sai che non è così!”. Vidi Eva deglutire, pronta ad espellere tutti i cattivi segnali che aveva incassato negli ultimi tempi. “So che non siamo più dei ragazzini e che non possiamo di certo stare l’una con l’altro dalla mattina alla sera, Dan…ma mi sembra che tu voglia mettere una pietra sopra tutto ciò che abbiamo vissuto insieme solo perché adesso ho un ragazzo, e questo mi fa male, quindi vorrei solo sapere se sei cambiato e basta oppure c’è dell’altro…”.
Provai una morsa allo stomaco al pensiero di farla stare male. Forse era arrivato il momento di dirglielo.
Passai gli istanti successivi a ripetermi ‘diglielo Jordan, diglielo ora’.
Dovevo farcela: per me, per lei, e per tutto ciò che eravamo stati ma non eravamo più.
Schiusi le labbra. Presi fiato. Lei mi aspettava.
Ma, indovinate un po'? Per l’ennesima volta, non feci in tempo.
Un urlo squassò il nostro momento decisivo: “CHE CAZZO È QUELLA COSA NEL CIELO?!”.