Cancioniero

di Semperinfelix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incipit. ***
Capitolo 2: *** Il dilemma del Valentino ***
Capitolo 3: *** O cavalier gentile... ***
Capitolo 4: *** Voce di colei che grida nel deserto ***
Capitolo 5: *** Signor, vi piaccia udire… ***
Capitolo 6: *** Io son la volpe dolorosa ***
Capitolo 7: *** Il valoroso augello ***
Capitolo 8: *** O mia diva... ***
Capitolo 9: *** Armata di splendor de fiamma viva... ***
Capitolo 10: *** La spina. ***
Capitolo 11: *** Sine nomine. ***
Capitolo 12: *** Al fanciullo senza nome ***
Capitolo 13: *** La Signora dei flagelli. ***



Capitolo 1
*** Incipit. ***


 

Son la mesta isventurata
che più vivere non vole,
perché l'han levato il sole
e del riso l'han orbata.

Son l'augel ne l'aria ispenta
a cui han troncato l'ale
che piagnendo se lamenta
perché in cielo più non sale,
né de vivere se cale.

Quando penso ai dì felici
in cui aveva oro e amici...
ah! che fu di quell'orata?
Son la mesta isventurata...

Di mia vita isciagurata
più non tengo alcuna cura,
perché sola m'han lasciata,
senz'amore né premura,
trista, fosca, aspra e dura,

quei che un tempo lo bel viso
mi tingean di gioia e riso,
or che vita han lor scaciata.
Son la mesta isventurata...

Sempre gelo sento in l'ossa,
anche quand'il sole vïo
come fossi ne la fossa.
Me levette Cristo Iddïo
ogni gioia ed ogni brïo,

né più nulla mi rallegra
se non l'aqua scura e negra,
che di man ho scaturata.
Son la mesta isventurata...

 

Ottenari con schema ABBAC-DCDD-EE-AA FGFGG-HH-AA

Vorrei cogliere l'occasione per ringraziare Merione per aver compiuto il miracolo (forse è Dio che l'ha mandato?) di farmi comprendere finalmente il gioco degli accenti, nonché per la consulenza disinteressata che costantemente mi fornisce. Questo è il primo componimento che faccio "a orecchio", cioè senza bisogno di fermarmi a contare le sillabe, e devo dire la cosa mi ha grandemente stupita, perché non sapevo di ragionare in ottenari. Proseguiremo ogni qual volta Apollo tornerà ad invasarmi.
 

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Capitolo 2
*** Il dilemma del Valentino ***






"Siano lorsignorie le benvenute",
a ognun parlette il duca Valentino,
"e sappian che se quivi stan sedute

a sorseggiar fra loro il mio buon vino
non è per gola o per piaceri strani
né men per far con femine festino,

ma per decretar chi fra no' italiani
sia la stirpe de maggior eccellenza,
fra quante son eredi de' romani,

per forza, virtute e magnificenza!"
Come dir qual fu il stupore inaudito
quan venner i presenti a canoscenza

de la singular cagion dell'invito?
Aveva infatti il Borgia in adunanza
radunato al medesimo convito

tutti i signor d'Italia in una stanza
per lor proporre un tortuoso dilemma
cui dava non piccola importanza.

"Signor, poiché niuno pone lemma",
proseguì ebbro già il giovin facondo,
"principio io, che vanto aver per stemma

un torel feroce e rubicondo,
che infuria, strepita e 'l terren dirada,
facendo inver tremar l'intero mondo.

Noi che veniam da iberica contrada
e li qual nome abbiam di Borgïa,
ci prendiamo quel che più ci aggrada

sian pur donzelle per fare un'orgÏa!"
Così disse pien di boria el baron franco,
il vin versando nell'ampia gorgïa,

sicché il duca d'Este ormai stanco,
di sentire sì tante buffonate,
levossi in piede a lo suo fianco

e sì disse: "Messere, baggianate!
non iscordate che è la stirpe mïa
fra quante in su la terra ne trovate

la più antica e illustre che vi sïa,
'sendo del Domator la discendenza,
qual d'Ilio ver l'Italia se ne gïa,

dappoi che fue l'ettoride semenza
scampata non per pieta a lo gran rogo,
bensie per la materna diligenza.

Dico di Astianax, che dal patrio luogo,
fanciul passando il vasto mar fuggente,
giunse infino all'Isola del Fuogo,

che'l biondo Polidor vide nascente.
Ordunque noi che ci chiamiamo d'Este
e ci vantiam venir da tale gente,

con solerzia, oltra donne, guerre e feste,
ci dedichiam inver a una sol arte:
comunque sie, e notte e die, tagliar teste!"

finito ch'ebbe il duca la sua parte,
levossi in piè fra l'altri il lauto Moro,
fino allora statossene in disparte,

e sorridendo: "O suocero d'oro",
disse, "senz'altro proferite 'l vero,
ma non ve coronate de l'alloro

se prima io non sveli 'l mio pensero.
Non son di nobil stirpe, né vetusta,
fu Muzio, l'avo mio, villano e fero,

ma se quel che dico è cosa giusta,
noi che questo nome abbiam di Sforza,
siam gente virile e assai robusta:

ognun ci smove e niun giammai ci torza,
né alcuna, sia essa moglie o amante,
lo ardore nostro in corpo smorza!"

Ricevuto che ebbe il Moro inante
dalla mogliera un sonor ceffone,
s'alzette ritto in piede don Ferrante,

giudicando il Moro un gran sbruffone.
"Voi ben sapete, car mio Ludovico,
che quantunque per il viril biscione

del buon Francesco, e 'l suo ombelico,
io conservi ammirazion sincera,
benché fosse mio grande inimico,

imperciocché per la Italia intera,
da l'Alpe a la Cicilia ha seminato
figli e figlie in ogne modo e manera,

come, se non vel siete smenticato,
anco fece Niccolò il marchese,
che un milion di figli ha sparpagliato,

in tutto il contado ferrarese,
ora pur, per fecondità mostrata,
non cede la progenie aragonese,

né a l'una né a l'altra vostra casata.
Anzi essendo noi de l'Aragona,
gente assai ben riconoscente e grata,

per il ben del regno e de la corona
giammai con pieta o con viltà alcuna,
niun traditor piange e niun perdona!"

Così parlarono ad una ad una,
tutte le genti al convito presenti,
senza che ve ne fosse qualcheduna,

che per sbraitar e grignar li denti,
riuscisse almanco a ristaurar la calma,
sicché alfin, giti a casa miscontenti,

rinunziarono a riportar la palma.

~~~

Terzine dantesche con rima incatenata.

Note finali:
Il convito è ambientato fuori dal tempo, ma tutte le curiosità che vi trovate sono veritiere: i Borgia sono noti per il loro comportamento licenzioso, gli Este per la loro passione per la decapitazione (a parte lo scherzo, come il marchese Niccolò, padre di Ercole, decapitò la moglie e il figlio per adulterio, così anche il duca Ercole decapitò il nipote che aveva tentato di rapirgli la famiglia e di usurpargli lo stato, ma certo non possiamo dire che né l'uno ne l'altro avessero torto); gli Sforza invece derivano il loro nome da un epiteto rifilato proprio al capostipite Muzio Attendolo, condottiero di origini contadine famoso per la sua prestanza, e d'altronde tutti i membri della famiglia, fuorché Filippo, Gian Galeazzo e lo stesso Ludovico, erano dediti alle armi e alla guerra; infine gli Aragona, e il cinico re Ferrante primo fra tutti (rimasto famoso per la cosiddetta congiura dei baroni, che fu estinta nel sangue), sono crudeli e spietati, ma amorevoli in famiglia.

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Capitolo 3
*** O cavalier gentile... ***



Preavviso: quel che segue è in verità il finale preparato per la mia novella satirica "il marito e l'amante" con Salvini e di Maio, ma che poiché giudico avere un suo perché anche al di fuori del contesto originario vi ho qui proposto in anteprima.

 

"O Signor, sovvien tua divota serva",
dicea io tra lagrime e suspiri,
"che con modestia tua dottrina osserva,
e se conviene inver ch'io morte miri

onde evitarme turpe rappina,
fia dulce il morir, che assai m'alletta".
Mentr'era in plora e prieghi china,
di fuor, da l'alto monte in su la vetta,

gran luce apparir vidi a la mia destra
e mutar notte oscura in chiaro dïe;
senza tema affacciommi a la fenestra
per saver qual nuovo prodigio sïe.

Da ciel di stelle discender vedea
cavallier santo, d'armore lucente,
che d'un ippogrifo in groppa sedea,
e "chi vo' siete", addimandai piagnente,

"uom de carne o de Dio spirito muto?
Ve prego, non mi tegnete ascoso
se per mazarme qui sete venuto
e se m'attende fine doloroso".

"Sciuga", respose, "tue lagrime, o reina,
el brando mio, avvegnaché sangue prese,
allor che combattei in terra latina
né fanciullo né inerme offese,

e giammai non dolse a fior di rosa
come pur d'altrui vile spada fece
e se qui son, è per ben altra cosa,
non furon vane tue accorate prece.

Cavallier me volse un dì l'Altissimo
e fui, per l'alto onor ch'ei mi concesse,
in perpetuo servo suo fidelissimo
né luxuria né oro l'anima fesse,

né odio, o viltà, o brama veruna
che ispesso in giuso l'om trascina,
non per crudeltà di ciel o fortuna,
ma pe' istolto peccar, che gli è ruina.

Io fui Baiardo, defensor de Franza,
e finché vissi, e stetti in sella,
con Cristo in core, e in man la lanza,
servir Dio volsi, e onorar mia bella".

"O cavaliere orante", mi commossi,
"ardito e bello ogn'oltre misura,
lo tuo sembiante, ancorché mi fossi,
caro più d'ogni ben de la natura,

nol riconobbi, per virtù divina
che come face in adamante 'l sole,
assai lo cangia e ancor più l'affina,
sicché a occhio umano quasi dole.

Pregoti or che presto via me porti
da questo uomo scellerato e rïo
che sol può darme ferite e torti".
"Per ciò, domina pia, mandommi Iddïo,

perché ti togliessi a tua sorte acerba
e ti menassi adunque in loco
di cui tuo cuor dolce ricordo serba".
Siffatte parole udite, un tal foco

m'accese il petto, ch'io di gioia piena
a lui rispuosi: "o cavalier gentile,
io dovunque tuo voler mi mena
se non ti fia l'amor mio ostile,

perpetuamente androtti seguitando,
e se pure tra un che morto appare
ed una che viva, amor regnando,
sia lecito a nozze convolare,

per isposa eterna mi ti daggio".
"Quantunque ciò volesse dir morire?"
addimandommi 'l cavaliere saggio.
"Messer sì", rispuosi lieta, "el morire

assai più invero non me spaventa
ch'el non aver più tua dolce figura
innanzi, già che l'ho veduta e senta.
Liddove condurrà tua sorte oscura

e notte e die, e 'state e 'verno,
ti andrò fedel seguendo ancora,
foss'anco infino nello inferno".
Ciò detto, il piè sporgendo in fuora

dal davanzal, in sul grifo crinito
montai senza tema di alcun dolo
e in su, verso 'l ciel infinito,
spiccammo, stretti a noi, il folle volo.

La sfere passammo come ago in cruna,
Indi per trovar miglior ventura
galoppammo innanzi in su la luna,
la qual del ben perduto tiene cura.

Di lì, con dolce volto e amabil riso,
Bayard menommi infino in Paradiso.

~~~

Endecasillabi in rima alternata

Colgo l'occasione per annunciarvi che sto preparando una mia versione parodistica dell'Orlando Innamorato (o Furioso che sia), ovviamente in ottave, intitolata "Ludovico Indiavolato" e che pubblicherò a breve il primo canto, ma solo quello, perché è mia opinione che sia bene prima di tutto concludere la lettura dell'una e dell'altra opera, se non proprio dell'intera raccolta di poemi sparsi, prima di gettarmi io stessa all'avventura. Il primo canto ad ogni modo, che è sganciato dalla materia originaria, può e deve essere presentato adesso, per una ragione ben precisa che vi spiegherò in seguito.

 

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Capitolo 4
*** Voce di colei che grida nel deserto ***





O tu voce che gridi nel deserto,
taci, nessuno t'ode in veritade,
anzi hanno di te misera pietade,
che pur hai loro salvezza offerto.

Quale male avrà il senno coverto
di costei che nel fior di sua etate
se consacrò a Dio per l'eternitate
senza avere il piacere scoverto?

Non le cale di sua vita terrena,
ch'essendo per sé medesma tiranna
a fluir sanz'amori e gioie condanna
accrescendo sua angosciosa pena?

Perché se vuol sì male esta creatura?
Perché è invero sì crudele e stolta
che chiegge a Dio d'essere presto tolta
alla obbrobriosa umana sozzura?

Eppur sanza requie la miseranda
ancora ai peccator crida ostinata,
ma l'è destin rimanere inscoltata,
ch'ognun ride e si vota all'altra banda.

Così passarno gli anni tuoi, o meschina,
mentre tu vociando al vento gettavi
alle spalle impietosa i giorni soavi,
te piacendo tua esistenza tapina.

O voce? Ove sei, voce? Non t'odo...
Il ghiaccio o il foco... chi t'ha estinta?
O è la morte che t'ha cinta e avvinta
poi che provasti di martiro il chiodo?

Non fu già né l'una né l'altra cosa,
bensie l'acerbo duol d'un'alma mera
che da la vita solamente spera
in giovinezza divenire sposa.

Ora non serba neppur esso disio,
poi che la malarazza de la gente
ebbe le sue speme tutte spente
col suo viver scellerato e rio.

Cossì fu morta ne l'età più verde
estirpata la carne sin da le ossa,
acciocché cridare più inver non possa,
et ora è voce ch'il deserto sperde.

 

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Capitolo 5
*** Signor, vi piaccia udire… ***


 





Signor, vi piaccia udire
l'istoria di La Palisse,
che vi potrebbe far gioire
purché la vi divertisse.

El fu in vita poco abbiente
per mostrar la sua importanza,
e pur non mancogli niente
quando fu nell'abbondanza.

Notte e dì saltava in tondo
e figliava come un toro,
poiché avea il capo biondo
non portava il crine moro.

Il viaggiava volentieri
scorrazzando pel reame,
e quand'era a Poitieri
non dormiva nel letame.

Passò l'Alpi da la Galia
come volse il re Luigi,
né se pugnò in Italia
il combatté a Parigi.

Trastullavasi in battello
come in pace così in guerra,
sempre giva per ruscello
quando non passò per terra.

Il bevea tutti i mattini
el vin da la botte buona,
se mangiava dai vicini
il vi andava di persona.

Quando si sentiva casso
gradiva i cibi teneri,
festeggiò Martedì Grasso
la vigillia de le Ceneri.

Coi suoi bei crini chiari
pareva un faro al molo
né avrebbe avuto pari
se il fosse stato solo.

Talenti n'ebbe diversi
ma si è certi d'una cosa:
quando scriveva in versi
il non scriveva in prosa.

Egli fu, com'è contato,
ballerino assai scadente,
né avrebbe mai stonato
se il fusse stato silente.

E la storia anco vuole
che giamai poté risolvre
di caricar le pistole
sanza aver avuto polvre.

Morto fu de La Palisse
morto fu inanzi a Pavia,
ma poco pria che morisse
l'era in vita tuttavia.

Fu per triste sorte giunto
da ferita assai sleale:
si crede, poi che è defunto,
che tal colpo fu mortale.

Con lui cascò dabbasso
la virtù da Franza ambita,
e fu il dì del suo trapasso
l'ultimo de la soa vita.

 

È questa che avete letto una nostra libera traduzione de La Chanson de La Palisse di Bernard de la Monnoye. Poiché infatti la canzonetta merita, ma la traduzione fino a ieri disponibile non le rendeva giustizia, abbiamo deciso di tentarne una noi in rima seguendo lo schema di ottenari e il senso dell'originale, con l'aggiunta di due strofe (terza e quinta, per il cui contributo ringraziamo a proposito Hoel) e l'omissione dell'ultima, a nostro parere superflua.

Si dice (Hoel lo dice) che il maresciallo de La Palice fosse solito uscirsene con affermazione assai scontate, da qui il significato odierno di lapalissiano. Altra ipotesi è che l'origine dell'aggettivo derivi da una errata interpretazione di una strofa composta alla sua morte:

«Hélas ! la Palice est mort,
il est mort devant Pavie ;
Hélas ! s'il n'estoit pas mort,
il feroit encore envie.»

la s antica era infatti graficamente identica alla f, e perciò i posteri lessero seroit  al posto di feroit, ed  "en vie" al posto di "envie", di conseguenza dal significato originale di "se non fosse morto, farebbe ancora invidia" usciva fuori un "se non fosse morto, sarebbe ancora in vita".

 

 

 

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Capitolo 6
*** Io son la volpe dolorosa ***





Io vidi un dì ne la selva ombrosa
una volpe piagner di doglia antica,
la qual con voce umana par che dica,
sicché me misi ad ascoltarla ascosa.

Dicea: «io son la volpe dolorosa
che sol de amaro pianto se nutrica,
né in state o in verno ha fine sua fatica,
poi che perduto ha la sua dolce sposa.

Perduto è il volto e l'amato sorriso
di colei che me coloriva il mondo,
e senza lei io mi sento andare a fondo,
poi che m'ha Iddio da l'alma mia diviso.

Di quel che sol per lei aveo conquiso,
e il regno e l'oro e il viver mio giocondo,
tutto ho perduto, e di miseria abbondo:
poi che morì, non m'ha Fortuna arriso.

Per castigo io fui mutato in volpe
perché superbo fui ne l'altra vita,
e tante volte stolto l'ho ferita,
così soffrendo sconto le mie colpe.

Mio unico desio è lasciar queste polpe,
che ne sia per pieta l'alma partita,
però che si è del suo peccar pentita,
ma non è tempo ancor che me discolpe.

Ora mi resto sol col suo ricordo,
che ogn'ora accresce il mio tormento,
e chiamo Iddio ch'a mie richieste è sordo».

Cossì ascoltando el triste suo lamento
io mi sentì di morte amara al bordo,
pel sincero amor ch'Iddio avea spento.

~~~

Endecasillabi con rima ABBA - ABBA - CDDC - CDDC - EFFE - EFFE - GHG - HGH

Va bene, forse non arriverà mai il giorno in cui riuscirò finalmente a scrivere un sonetto come si deve, poiché anche questo componimento era partito come un sonetto, ma alla fine mi sono sentita una criminale a liquidare il discorso in quattro strofe e così non ho potuto fare a meno di scodellarne otto.

Ora, da cosa nasce cosa? Be', ma da questa poesia che fortuitamente ho rinvenuto:

Cossì pensando gli venne a memoria
esser stato a Venecia già molti anni,
e haver visto in San Marco quella istoria
che son due galli che, con forza e inganni,
hanno preso una volpe, e con gran gloria,
recordandosi i vecchi havuti danni,
la portan presa su un baston in spalla
ligato i piedi e il capo a terra calla.

E perché havea inteso che ogni cosa
che depinta in San Marcho è prophetia
diceva "io son la volpe dolorosa,
la consientia mia so qual la sia,
de invidia e rabia e inganni copiosa!
I Galli adesso mi seren la via,
e me hano teso di molte tagliuole":
cossì, meschino, si lagna e si duole.

(Pietro Matteo Carranti)

Ora, fuor di metafora, la volpe è Ludovico il Moro, i galli sono i francesi che l'hanno sconfitto, spogliato dello stato e di ogni altro bene e condotto prigioniero in Francia. A questo lamento antico si aggiunge il mio ancora fresco: Ludovico si era ben guadagnato il titolo di volpe, poiché finché era vissuto bene, ed era stato felice, aveva governato saggiamente e con scaltrezza, ma quel maledetto giorno in cui gli venne a mancare la moglie, da lui amata sopra ogni cosa, la quale morì appena ventunenne, egli perdette il senno e la ragione e smise di curarsi dello stato.

Con la sua amata se n'era volata via anche quella Fortuna che per vent'anni gli aveva sorriso benevola, cosicché si ritrovò facile preda quando, ormai esposto e senza più alleati, i galli vennero a soggiogargli il regno.

Ebbe le sue colpe, ebbe le sue colpe e n'ebbe tante: quella stessa moglie ch'egli tanto amava, più volte sfacciatamente l'aveva tradita e trascurata, così che in parte fu responsabile della sua morte. Eppure spesso è proprio la Morte che apre gli occhi prima serrati dall'abbondanza, cosicché con troppo ritardo Ludovico s'avvide di essersi condotto da sé alla rovina. Ma Iddio, che è Padre e Giudice, così punisce e così perdona, e perciò, se il pentimento è nell'animo sincero, non v'è figlio che Egli abbandona.

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Capitolo 7
*** Il valoroso augello ***




 

[ Estratto del romanzo "Et Nos Cedamus Amori"]



Piacciavi, o signori, udire
el sermone pien di lode
che col rischio de morire
venne a dire questo prode
a la mensa del buon sire,
ostentando le sue code.

Esso è l'ultimo rimaso
d'una degna e gran familia
ch'ebbe crudo e scuro occaso
d'una guerra a la vigilia,
quando ebbe il Barco invaso
la Venexia e i so' vessilia.

Padre e madre e sore e frati,
fatti a rosto e crudi e cotti,
tutti quanti fur mangiati,
da li turpi stradiotti
che vegnendo in guerra armati
son d'uccelli sempre ghiotti.

Or vedendo il crudo scempio
de li soi figlioli amati
ebbe il duca un duro esempio
de quei cuori scellerati
che un nemico matto ed empio
avea in guerra scatenati!

Uno solo se salvosse,
fra cotanta disventura,
perché primo rifugiosse
ne le alte e salde mura,
onde il duca consolosse
ad aver non più paura.

Cossì il valoroso augello
prese l'arme e come esperto
sfidò el duce a gran duello
che nomato era Roberto
Questi cadde nel tranello,
e sconfitto con sconcerto

ebbe onta e grave sdegno
a fuggirse discacciato
da un pavone che il suo regno
avea salvo e vendicato,
col suo singolare inzegno,
per il duca e il suo ducato.

Ora a voi, gentil signora,
questo uccello dal bel manto
per far lieta la dimora
manda il vostro padre santo,
e sì la gentil Dianora
perla nostra e nostro vanto.

 

Contesto storico: durante la cosiddetta Guerra del Sale (1482-1484) scoppiata tra la Serenissima Repubblica di Venezia e il ducato di Ferrara, gli stradiotti della Serenissima (i feroci mercenari greci ed albanesi) sotto la guida del condottiero Roberto Sanseverino e dei suoi figli invasero il Polesine e il Barco di Ferrara (il parco da caccia più amato dal duca Ercole, situato a poche miglia di distanza dalle mura), uccidendo e mangiando tutti i suoi bei pavoni. Ovviamente l'infausto evento arrecò al duca Ercole grande dispiacere, ma qui si esagera a dire che fu questo da solo la causa della gravissima malattia che in quell'epoca lo condusse quasi alla tomba. Il duca aveva infatti contratto la malaria ed era impossibilitato a condurre l'esercito o anche solo a governare, per di più le sorti della guerra volgevano al peggio e i veneziani erano alle porte, pronti all'assedio. La situazione era disperata e fu solo per la prontezza di spirito della duchessa Eleonora sua moglie (Dianora), la quale subito prese in mano le redini del governo, che si scongiurò il peggio, ed ella salvò così lo stato e il marito e i figli.

La poesia sopraddetta è recitata dal buffone di re Ferrante alle nozze della nipote Beatrice, figlia di Ercole e Dianora, con Diego Cavaniglia, quando agli sposi viene presentato il pavone in gabbia come dono di nozze. Il tutto naturalmente è di fantasia.

 

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Capitolo 8
*** O mia diva... ***




 

[Estratto del romanzo "Et Nos Cedamus Amori"] Sonetto alla donna amata:


O mia diva, o mio divin splendore,
già mai non ebbe su nel Paradiso
nociuto all'agnoli un più dolze viso
di quel che ora me strugge pien d'ardore.

Orsù, speranza mia, se per tuo onore
vuoi tu ch'io pera e cada estinto e occiso,
ch'abbia almeno il favor d'un tuo sorriso
e, pria che vada, un pegno del tuo amore.

Se pur me par trovare refrigerio
talvolta inver, da la soave pena,
nuovo m'arde di te lo desiderio,

e viene Amor, che strigne la cadena,
sì me reduce docile al suo imperio
e a te sola, mio fior, fidel mi mena.


 

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Capitolo 9
*** Armata di splendor de fiamma viva... ***


Knight and lady
 

[Estratto del romanzo "Et Nos Cedamus Amori"] Sonetto secondo alla donna amata:


Armata di splendor de fiamma viva,
me pari, donna, e di candor supremo,
quand'io te, avvinto, mirando tremo,
né per beltà te vince o stella o diva.

De l'alma mia, che già per te soffriva,
crudel, mentr'io t'imploro e soffro e gemo,
condotto a morte omai dal caso estremo,
un tuo sorriso, misero, me priva.

Sicch'io ne vegno ad impetrare un pegno,
pria che giunga all'ultima ruina,
che provi ch'io sia del tuo amore degno,

e fia per me conforto e medicina,
o morto cada tosto per un legno,
piutosto che per sprezzo tuo, cugina.

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Capitolo 10
*** La spina. ***





Punge la spina e la rosa profuma,
così è l'amore che tutto consuma
tu non nascesti per potermi amare
presto, allontanati, lasciami andare!

Non ti scordare dell'ora remota,
che ti baciava la bocca e la gota,
e pur quella ora s'è già consumata,
solo la doglia nel cuore ha lasciata.

Montagne alte e voi mari profondi
fate che insieme al mio amore io affondi,
fate che insieme al mio amore io mora,
egli che solo mi salva e rincora.

Se un'altra fiata mi vorrai vedere,
deh, vien, riaffiora dalle acque nere,
leva i tuoi occhi dal grembo del mare,
lì solamente mi potrai incontrare.

 

Sonetto in endecasillabi baciati composto sul momento ed ispirato ad un'antica canzone spagnola:

Puncha, puncha, la rosa huele,
Que el amor mucho duele,
Tu no nacites para mi;
Presto ale'xate de mi.

Aco'drate daquella hora,
Que yo te besava la boca.
Aquella hora ya paso',
Dolor quedo' al corazo'n.

Montan~as altas y mares hondos,
Llevame onde el mi querido.
Llevame onde el mi amor
E'l que me de' consolacio'n.

Si otra vez me queres ver,
Sale afuera te hablare'.
Echa los ojos a la mar;
Alli' me puedes encontrar.

 

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Capitolo 11
*** Sine nomine. ***





Ahimè, destino, punirme volesti,
e lo mio bene sì me togliesti,
or me desfaccio in sì amaro pianto
che non credeva pagare sì tanto.

Tenero collo, spezzato e lasso,
ventre mio caro, straziato e casso,
ventre che te carezzavo sovente,
io t'ho nutrito e pasciuto per niente.

Ossa mie care, ve baso ogni giorno,
senza più carne, più pelo d'attorno.
Occhi miei belli, che levar solevi,
scemi di vita e di sanguine pieni.

Bestiarella fosti, piccina e cara,
e te toccò una sorte sì amara,
e te toccò una sorte sì atroce,
che forse Cristo patì meno in croce.

Germoglio mio, remoto e tristo,
tu non godrai dell'amor di Cristo,
tu non godrai dell'amor del Padre,
ché non empisti del suo nom le squadre.

Rapita fosti nella notte oscura
per far mia vita più fosca e dura.
Tradita fosti da chi finse amare,
per non voler suo dinaro sprecare.

Egli ti tolse lo ben più prezioso,
né volle udir mio lamento pietoso.
Egli t'occise con sue istesse mano,
uomo di nome d'amor disumano.

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Capitolo 12
*** Al fanciullo senza nome ***





Che giorno è questo mai ch'io non conosco,
non giorno di letizie ma dannato
che fosti tu per mio morire nato
che fe' tuo padre pronto a venir nosco?

Non tienti, o figlio, pur il limbo fosco,
ancor che non moristi battezzato,
ma se' fra l'animelle coronato,
quassù fra li beati al dolce bosco.

A l'uomo reso folle dal cordoglio,
a li fanciulli mesti e senza cura,
perché, Fato crudel, togliesti il soglio?

Non futti sufficiente una sciagura,
ma tu che di procelle investi 'l scoglio,
serrasti pur lor'ogni via futura.

 

[In morte di Beatrice d'Este e del suo terzogenito, notte fra il 2 e il 3 Gennaio 1497].

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Capitolo 13
*** La Signora dei flagelli. ***


O Signora dei flagelli
che me mostri a piè di fossa?
Solo sangue veggo e ossa
e le membra mie a brandelli.

Su, cantate, o tristi augelli,
lo dolor che sempre ingrossa
di quest'alma senza possa
che s'aggira fra li avelli.

Oh, già sento come spira
lo sapor pregno de morte
che quest'alma mia disira.

O Pietà, battìme forte,
e le indegne opere d'ira
fa' che sian ver me ritorte.

 

Mi sono sentita ispirata per scrivere questa poesia dopo che stamane ho udito come un mormorio sinistro e lugubre, e m'è quasi parso di veder nell'oscurità cantare un uccello nero ridotto all'ossa.



 

 

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