Il crisantemo reciso

di Ridichetipassa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'ennesimo capriccio di Mia ***
Capitolo 3: *** A metà ***
Capitolo 4: *** 5 cm al secondo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il crisantemo reciso

Prologo

 

Hana mi puntò addosso i suoi grandi occhi marroni, tra le manine teneva ben saldo un grande libro ingiallito dal tempo.

«Questa era la sua preferita...» pigolò piano, mentre l'ultimo raggio di Sole perpetrava a farsi largo dalla finestra, arancione, di una sfumatura così viva e vibrante da far male. «Me la leggeva sempre quando ero piccola» continuò, scorrendo il dito tra quelle lettere che io ancora facevo fatica a leggere.

Chi mai avrà tagliato questo bel crisantemo,

Senza badare alla sua bellezza mentre cresceva

Nella naturale armonia di foglie e stelo?

Forse chi lo ha colto prima del suo rigoglio

Erroneamente, per salvarlo dai venti gelidi

O nel timore che morisse per il peso della rugiada.

Era una poesia, un'ode a un fiore che era stato spezzato troppo presto.

La bambina alzò la testa, lo sguardo velato da una rassegnata malinconia. Aveva poco più di otto anni, nove meno di me, ma tra le due la più piccola sembravo io, che, rannicchiata vicino a lei, non avevo ancora abbandonato il brutto vizio di strapparmi le pellicine dalle dita.

«Ogni pomeriggio vengo qui e gliela leggo, perché so che a lei fa piacere.»

Davanti a noi, lei ci fissava, un tenue sorriso stampato sulle labbra rosee, gli occhi a mandorla ridotti a due fessure, luminosi.

Era bella, di quella bellezza fragile e delicata propria dei fiori.

Con un magone in gola, la sensazione di una manciata di spilli che mi aveva bloccato il respiro, «Come si intitola questa poesia?» sussurrai appena stringendomi le gambe al petto ancora un altro po'.

La bambina sorrise, accarezzò quella pagina con garbo, un gesto familiare che doveva aver compiuto innumerevoli volte, e infine, dopo aver inspirato, parlò.

«Il crisantemo reciso»

Lei, Kiku, continuava a fissarci, immortalata in quello scatto perfettamente riuscito che il vecchio Miyagi aveva deciso di mettere sul suo altarino e che ogni giorno, di nascosto, andava a ripulire dalla polvere con una cura meticolosa.

Circondata da una splendente cornice dorata, portava con fierezza il nome del fiore protagonista della poesia, lo stesso di cui aveva condiviso il triste destino.

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Capitolo 2
*** L'ennesimo capriccio di Mia ***


«Tu sei completamente scema.»

Alessandro mi guardava dall'alto del suo metro e novanta, gli occhi torvi, la mano che stringeva la bottiglia di vodka ora sospesa a mezz'aria. «Dimmi che stai scherzando, Mia...» proseguì con un una voce che si era fatta quasi minacciosa.

Sotto il suo sguardo accusatore, forzai il collo della bottiglia verso il basso e lo costrinsi a versarmi un bicchiere di quel liquido trasparente, «Ti sembra che io stia scherzando?» gli chiesi alzando un sopracciglio.

Imbambolato, continuava a studiarmi senza riuscire a proferire parola. Dalla testa ai piedi, i suoi occhi vagavano alla ricerca di un segno di cedimento da parte mia, magari un sorriso appena accennato o gesto di nervosismo, che gli facesse capire che ciò che gli avevo appena detto, in realtà, era solo una grande, immensa bugia.

«Marco!» urlò d'un tratto verso il salone, ridestato di colpo dal suo stato di trance e arrabbiato come mai lo avevo visto prima d'ora.

Ingoiai un altro sorso del mio drink simulando un'indifferenza che non mi era mai appartenuta.

«La tua ragazza se ne va dall'altra parte del mondo e tu non dici nulla?»

Sull'uscio della cucina aveva fatto capolino la testa del mio fidanzato. Aveva le guance arrossate dall'alcol e i capelli biondi scompigliati, scombussolati almeno tanto quanto lui. Delle profonde occhiaie violacee segnavano i suoi occhi azzurri, puntati in quel momento nei miei.

«Abbiamo già discusso abbastanza, non mettertici pure tu.»

Glielo avevo annunciato in macchina quello stesso pomeriggio, quando mi era passato a prendere sotto casa con la sua Mini verde bottiglia per andare alla festa di Giulia.

Proprio come Alessandro, si era ammutolito aspettandosi che io sbottassi a ridere da un momento all'altro. Io però ero rimasta seria.

E dentro quella serietà che mi aveva irrigidito i muscoli, incupito i tratti del viso e serrato le labbra, Marco si era sentito perso, perché aveva capito che quella era una decisione che avevo già preso, ma soprattutto che il suo parere non era stato richiesto.

Aveva urlato, imprecato, mi aveva insultata, poi si era calmato, mi aveva chiesto di ripensarci, di non partire, "Dimmi che questo è soltanto un altro dei tuoi capricci" aveva detto alla fine accarezzando i miei lunghi capelli castani.

Mi era venuto naturale farlo. Incassando il suo sguardo scioccato e turbato, mi ero scostata freddamente dal suo tocco in nome di un desiderio, forse più simile ad una necessità, che volevo proteggere da chiunque ero certa non sarebbe stato in grado di trattarlo con il giusto riguardo.

Non avevamo più parlato per tutto il resto del viaggio. Una volta arrivati a casa di Giulia, ci eravamo separati evitandoci per tutta la sera, almeno fino a quel momento.

Era una situazione a cui non ero abituata: pesante, opprimente, a tratti soffocante. Perché in un mondo come il nostro, la leggerezza finiva sempre per impastarci un po' tutti e ogni discorso, ogni discussione, non si spingeva mai oltre la superficie. Si riduceva tutto alle solite conversazioni, alle solite battute, ai soliti sorrisi forzati.

E forse era per paura, paura che grattando un pochino lo strato esterno, ci saremmo scoperti più veri e umani di quanto avremmo potuto sopportare.

E noi a questo non eravamo pronti.

«Non ci posso credere...»

Alessandro si era appoggiato al tavolo, il volto contratto in una smorfia condita di delusione e amarezza. Nell'aria, ovattate, le voci allegre dei nostri amici stridevano contro di noi.

«Che sta succedendo qui?»

In un attimo il tono acuto di Giulia squarciò quel silenzio che ci aveva avvolti come un guanto troppo stretto.

«Nulla» mi limitai a dirle buttando giù il contenuto del bicchiere tutto d'un fiato. Con la testa ancora rovesciata all'indietro, un particolare, apparentemente insignificante, attirò la mia attenzione.

Non era stato il braccio scheletrico della mia amica avviluppato attorno al collo del mio ragazzo a farmi storcere il naso, ma Marco.

«Mia partirà per il Giappone tra qualche giorno...»

Se c'era qualcosa in cui lui riusciva alla perfezione era provocarmi. Era bravo nel suo gioco e io finivo sempre per cadere nella trappola, incapace di farmi scivolare addosso quel ghigno derisorio che mi feriva ogni volta un po' di più.

Alle sue parole lei si illuminò. «Io ci sono stata, è un bel pae-»

«No, Giulia, forse non hai capito.» Fu Alessandro a interromperla, «Mia ci va per lavorare.»

Era una reazione alla quale mi stavo iniziando ad abituare. Gli occhi sbarrati, la bocca aperta, il respiro mozzato, Giulia si era zittita, forse per la prima volta in vita sua.

«Lavorare? Te?» proruppe ancora sotto shock.

Aveva usato le stesse parole che mi avevano rivolto i miei genitori qualche settimana prima.

"Tesoro, per favore, non dire sciocchezze." Mia madre, seduta sul divano con ancora indosso gli abiti da lavoro, si stava massaggiando le tempie con le dita. Ogni volta che in tribunale perdeva una causa, tornava a casa con delle forti emicranie che significavano solo una cosa: voleva essere lasciata in pace.

Io quel giorno, però, avevo deciso di sfidare la sorte. "Me ne vado in Giappone, mamma, che ti piaccia oppure no. L'agenzia mi ha già trovato una famiglia."

Che fossi una ragazza testarda era risaputo a tutti, ma allo stesso tempo perdevo interesse facilmente e le mie battaglie spesso scemavano da sole dopo un po' di tempo. Per lei questa era l'ennesima delle tante.

"Se vuoi proprio lavorare, trovati qualcosa qui a Roma" aveva detto mio padre liquidando la questione con un gesto stizzito della mano, intento a fare zapping col telecomando.

Colta da una rabbia incontrollabile, avevo battuto i piedi.

Ricordo perfettamente l'espressione accigliata dei miei genitori. "Smettila di fare i capricci, Mia!" mi aveva richiamata mia madre, "Questa è la cosa più assurda che sia mai uscita dalla tua bocca. Un'au-pair? Così, da un giorno all'altro?" aveva proseguito mio padre.

Quel giorno, di fronte all'indifferenza dei miei genitori, avevo inconsciamente imparato qualcosa di nuovo: se le parole hanno un peso, allora le mie dovevano essere per forza inconsistenti, forse più leggere di una piuma.

"Un anno sabbatico per riflettere, per capire cosa fare della mia vita, e nel frattempo mi dò da fare, mi guadagno qualcosa. Cosa c'è di sbagliato in questo?"

"Che puoi farlo anche a Roma, perché devi andartene in Giappone?" Mio padre aveva spento la televisione. "Perché ho bisogno di cambiare aria, pà"

La mia risposta non gli era piaciuta, ma non avevano più obiettato nulla.

Andava sempre a finire così: io mi impuntavo su qualcosa e loro me la davano vinta. "Fai come vuoi" e io mi ritrovavo a non dover lottare davvero per qualcosa. Era tutto lì, ad un capriccio di distanza.

«Sì, io. Perché vi risulta così difficile da credere?»

Giulia drizzò la schiena, le mani puntellate sui fianchi, «Forse perché sei talmente ricca che se volessi potresti campare di rendita per sempre!» esordì, per poi avvicinarsi a me e sussurrarmi all'orecchio con quella voce felina che l'aveva sempre caratterizzata, «A me puoi dirlo...come si chiama?»

Lì per lì non capii, «Ma chi?»

«Il tuo amante giapponese, ovviamente. Pensi davvero che sia così stupida da bermi la storia del lavoro?»

Non poteva saperlo, ma io ero troppo vuota per poter amare davvero qualcuno. Me ne ero accorta tardi, troppo, che le emozioni ormai mi rimbombavano dentro in un eco infinito. Erano farfalle rinchiuse dentro un contenitore vuoto che si schiantavano contro le pareti alla ricerca di una via di fuga. Marco era per me solo un'abitudine.

Io ero rotta. Qualsiasi cosa provassi era destinata a svanire in fretta. 

E lo giuro, ci avevo provato a far finta di nulla, a convincermi che andava bene anche così, che io andavo bene così.

Eppure un giorno, mentre stavo attendendo che il mio tram arrivasse, la voce squillante di una ragazza aveva attirato la mia attenzione. Stava parlando al telefono con qualcuno e intanto gesticolava, entusiasta. Tutt'ora non mi so spiegare cosa mi avesse spinto a farlo, ma delicatamente avevo sfilato una cuffietta dall'orecchio e mi ero messa ad origliare la sua conversazione.

Con gli occhi lucidi, emozionata, aveva raccontato della sua famiglia ospitante, dei bambini che le erano stati affidati, della cultura diversa con cui si era interfacciata, delle cose buone che aveva mangiato, dei momenti in cui si era sentita un po' nostalgica, dei luoghi che aveva visitato, "Certo, dopo ti mando le foto!" aveva assicurato zompettando felice.

Una lacrima, poi, le era scivolata lungo una guancia, "Ho conosciuto così tante persone speciali... è stata davvero una bella esperienza" aveva infine asserito prima di chiudere la telefonata.

E per tutto il tempo io mi ero ritrovata a gioire con lei, a ridere degli aneddoti divertenti, a condividere la sua malinconia nei momenti in cui si era sentita sola, a visualizzare nella mia testa le descrizioni dei luoghi, a riuscire quasi a sentire i profumi delle pietanze che aveva mangiato.

Con lo stomaco ancora in subbuglio e la tachicardia, avevo preso il tram pensando che ciò che avevo appena ascoltato l'avrei presto dimenticato.

Ma non fu così.

Mi ero appropriata di quelle sensazioni travolgenti e ne ero diventata ingorda. Ne volevo altre.

«Voglio davvero fare questa esperienza, Giulia.»

Scrollò le spalle, «Sappi che il Giappone è più bello visto da turista che da sguattera» sentenziò poco dopo, aspra, scatenando la risata di Alessandro e Marco.

Se alle loro reazioni avevo iniziato ad abituarmi, ai commenti che seguivano non ne sarei mai stata in grado.

Forse mi sarei potuta risparmiare quella conversazione con loro, se quel giorno, invece di proseguire, fossi scesa alla mia solita fermata.

Però gli occhi radiosi di quella ragazza, il suo racconto, la sua voce entusiasta, mi si erano attaccati all'anima a tal punto da far desiderare anche a me di poter vivere qualcosa di simile, qualcosa in grado di emozionarmi almeno la metà di quanto aveva fatto con lei.

E allora avevo cercato col cellulare la più vicina agenzia per ragazze alla pari e, impostato il GPS, ero scesa ben otto fermate dopo la mia, in un quartiere che mi aveva fatto credere di non essere neanche a Roma, ma in una qualche favelas non meglio precisata del Brasile.

Avevo stretto i denti e, con qualche difficoltà, mi ero avventurata per le stradine secondarie, vie di cui non avevo mai sentito parlare il cui asfalto sembrava essere stato divorato, smaggiucchiato da un mostro immaginario che lo aveva ridotto a un cumulo di buche.

Il ticchettio delle mie scarpe, poi, aveva incuriosito qualche passante, alcune vecchiette affacciate dal balcone e anche un gruppo di ragazzi intenti a fumare quella che sicuramente non poteva essere una normale sigaretta.

"C'è puzza di Parioli" si era udito d'un tratto e io mi ero stretta nelle spalle, colpevole. Perché era una puzza che sapeva di Chanel n°5, della borsa di pelle di Louis Vuitton, dello smalto laccato delle mie unghie, era una puzza che mi ero cucita addosso, che solo poche volte nella mia vita avevo provato, invano, a lavare via.

Ero arrivata all'agenzia con il cuore in gola, gli occhi sbarrati e un senso di panico che mi aveva accorciato il respiro.

Avevo accettato la prima proposta che mi avevano messo davanti senza neanche pensarci su.

Ovunque.

Mi bastava andare via, lontano. "Giappone? Sì, va bene."

Magari mi sarei lasciata dietro anche la puzza di quello che ero diventata.

«Sapete che vi dico?»

I miei amici mi stavano fissando, sui loro volti ancora ben impressi quei sorrisi di scherno che tanto odiavo.

Li sorpassai e senza neanche voltarmi li salutai: il dito medio della mia mano destra fu l'ultima cosa che intravidero di me.

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Capitolo 3
*** A metà ***


Dai la cera, togli la cera.

Karate Kid era uno dei miei film preferiti quando ero piccola, quando sognavo di poter incontrare anche io un simpatico vecchietto giapponese che mi insegnasse le mosse necessarie per mettere al tappeto chiunque si parasse sulla mia strada.

Il respiro, lo prendi con il naso e lo emetti dalla bocca.

Mai avrei pensato che quel sogno si sarebbe realizzato, prima o poi, anche se diversamente da come mi aspettavo.

Dai la cera, togli la cera.

Le parole del vecchio Miyagi continuavano a rimbombarmi nella testa mentre io, imperterrita, facevo scivolare il panno lungo le travi di legno. Disegnavo ampi cerchi, passavo più volte sullo stesso punto con una meticolosità che avevo imparato a fare mia.

Alcune ciocche di capelli mi caddero davanti agli occhi e si incollarono alla mia fronte, ormai madida di sudore. Le scostai, stizzita, per poi fare un profondo respiro. Era la ventesima volta che ripetevo quel gesto, l'ennesima che imperterrita mi convincevo a continuare.

Intinsi nuovamente lo straccio nella cera per poi passarlo sul legno scuro. Piano, lentamente. Seguivo le venature, morbide e perfette, le assecondavo, le ascoltavo. C'era un silenzio surreale attorno a me, squarciato, di tanto in tanto, solo dal rumore del caldo vento pomeridiano tra le fronde degli alberi.

Ci stavo mettendo cura e dedizione, cercavo di sgomberare i pensieri, di calarmi nel presente.

Nella mia mente, vicino al tono soave del maestro, tuonò all'improvviso il mio, forte e acuto: "Farò la ragazza alla pari!" diceva e io a quelle parole mi irrigidii inevitabilmente.

Strizzai il panno e piegai la testa, le sopracciglia che si increspavano in tante rughe sottili, la bocca che si piegava all'ingiù e la mia calma che andava a farsi benedire.

Non dimenticare il respiro, è molto importante.

Inspirai e poi espirai, provai a buttare fuori con l'aria anche tutta la tensione che si era impadronita di me, che aveva reso meccanici i miei movimenti. Presi lo strofinaccio pulito e lo trascinai sull'asse, proprio lì dove avevo appena dato il lucido.

"Ormai ho deciso. Farò la ragazza alla pari!" La voce della solita ragazzina testarda e viziata che ero sempre stata e che tentava di fare la ribelle.

Si era bloccata lì, la mia ribellione, incastrata tra le spaccature di quella trave di legno che sorreggeva uno sperduto santuario shintoista nel bel mezzo del Giappone, dimenticato da tutti, perfino dai suoi stessi dei.

«Dannazione!»

Buttai il panno per terra e mi alzai, i pugni serrati lungo i fianchi e i nervi a fior di pelle che tornavano prepotenti a indurirmi i muscoli.

Alzai gli occhi al cielo e sperai che il vecchio Miyagi mi perdonasse, dopodiché abbassai lo sguardo: una chiazza di cera spiccava impavida sulla mia maglietta di Versace.

A quella terribile e sciagurata visione il mio cuore perse un battito, forse due. Buttai nuovamente indietro la testa, sconfitta, i capelli che mi scivolarono dalle spalle in una cascata di onde.

«Mia!»

Il mio nome, sputato con una punta di rabbia e acidità, mi raggiunse da lontano e istintivamente mi voltai.

Miyagi.

Non saprei dire se fosse stato solo uno strano scherzo del destino o se invece fosse stata una fortuita casualità, ma il vecchio sacerdote del tempio in cui ero finita a fare da babysitter, si chiamava proprio così. E no, non era un simpatico vecchietto giapponese come il suo omonimo.

Nonostante fosse anziano, anche più dell'originale, non smettevo mai di stupirmi di quanto fosse sorprendentemente veloce, agile e scattante. Non ci mise che pochi secondi a raggiungermi, infastidito, mentre gesticolava furiosamente in aria.

Indicò prima il barattolo con la cera e in seguito l'ala del corridoio che dovevo ancora lucidare. Mi aveva lasciato tre ore prima in quell'esatto punto e da allora non mi ero mossa di molto. Avevo solo lustrato tre assi e per me era già un gran risultato.

Continuava a parlare, "scansafatiche", "pulire", "cosa hai fatto finora?", erano alcuni dei vocaboli che avevo imparato a comprendere. Pareva stesse recitando una preghiera. Il suo era un monologo serrato e senza fine, non alzava mai troppo la voce, neanche quando mi mandava a quel paese per vie traverse, senza mai utilizzare parole profane che avrebbero sporcato quel luogo di culto.

Mi limitai a fare spallucce e abbassare la testa, non avevo nessuna scusa né tantomeno alcuna giustificazione. In fondo non ero abituata a lavorare e stavo cercando comunque di fare del mio meglio, quantomeno ci stavo provando. Le intenzioni c'erano tutte.

«Le bambine» pronunciò d'un tratto dopo essersi calmato e io mi illuminai. Annuii e mi diressi verso l'uscita.

Fino a qualche settimana prima tendevo a perdermi, là dentro. Non era grande, soprattutto se lo si paragonava agli altri santuari della zona, ma era tutto uguale: un'austera struttura ricoperta di legno da cima a fondo con numerose stanze e altrettanti corridoi che si intrecciavano e si snodavano con un ordine a me sconosciuto.

Ma era quasi passato un mese da quando ero arrivata e, con non poche difficoltà, avevo finalmente imparato a trovare la porta d'ingresso senza dovermi per forza catapultare giù da uno dei balconi che davano sul giardino.

Non feci neanche in tempo a fare due passi fuori dal tempio che lui mi richiamò.

«Mia!»

Quella voce autoritaria che usava con me non riuscivo proprio a tollerarla. Mi girai indispettita per poi notare che si stava indicando i piedi, «Le scarpe» puntualizzò. Abbassai lo sguardo al suolo: ero uscita con le pattine, di nuovo.

Tornai indietro, mi infilai le scarpe e questa volta lo salutai, un "io vado" che mi avevano insegnato a pronunciare Hana e Nami uscì flebile dalla mia bocca.

Ci osservammo per pochi secondi, un tempo che mi bastò per notare i suoi tratti duri ammorbidirsi di poco.

«Torna presto» mi rispose, infine, voltandosi e allontanandosi con quella sua andatura leggera che lo rendeva a tratti quasi onirico.

Sorrisi appena. Se c'era una cosa che avevo iniziato ad apprezzare del Giappone erano proprio quelle espressioni di cortesia, quelle formalità, che mi facevano credere che qualcuno, lì, avrebbe sempre aspettato il mio ritorno nonostante tutto.

Attraversai il giardino e iniziai a scendere le scale non mancando di tirare fuori il cellulare dalla tasca.

50, 49, 48.

Iniziai il conto alla rovescia dei gradini che mi separavano dal grande torii. Era diventata una routine, qualcosa che avevo cominciato a fare per divertimento e che poi si era trasformata in un rituale irrinunciabile ogni volta che lasciavo il tempio.

40, 39, 38.

Sembravano non finire mai: uguali, perfettamente squadrati, immacolati, specchio di un paese che aveva fatto della precisione il suo punto di forza, si alternavano sotto i miei piedi lesti senza che io fossi in grado di riuscire a distinguerli davvero.

Appena arrivata dall'Italia, loro erano stati i primi ad avermi accolto una volta scesa dal taxi.

30, 29, 28.

Li avevo odiati profondamente, maledetti, perché erano tanti, troppi, e per me che sono sempre stata poco atletica e debole, trascinarmi due valigie pesanti e uno zaino su fino in cima, fino all'ultimo gradino, non era stata una passeggiata. Mi avevano messo a dura prova.

20, 19, 18.

Però ormai ci avevo fatto l'abitudine, salirli o scenderli non mi risultava più faticoso, anche se ogni volta, ogni passo, era un salto nel vuoto, un tentativo malsano di sfidare la sorte e una promessa di una slogatura che prima o poi ero certa sarebbe arrivata.

10, 9, 8.

Il grande e imponente ingresso rosso troneggiava con la sua ombra sopra di me. Era una porta, un confine che mi separava dal resto del mondo.

3, 2, 1.

Una raffica di messaggi illuminò lo schermo tempestandolo come tanti piccoli proiettili.

Mamma, papà, Marco, Alessandro, alcuni compagni del liceo, perfino quella stronza di Giulia. Mi chiedevano come stavo, che cosa stavo facendo, dicevano che gli mancavo, Marco che mi aveva perdonata e che mi amava, e un sorriso sollevò le mie guance per la frazione di un secondo.

Poi il vuoto. Quello che mi aveva costretta a scappare via dalla mia vita.

Continuavo a sentirlo mangiarmi viva, a strappare pezzi di me.

E bruciava.

Bruciava di tutte quelle parole scritte che difficilmente mi ero sentita dire in faccia quando ero in Italia, nella mia cara Roma.

Bruciava e mi ricordava il motivo per cui io ero lì, a migliaia di chilometri di distanza, in una sperduta frazione della periferia di Kyoto di cui non conoscevo neanche il nome.

Le mie dita si mossero automaticamente sulla tastiera del cellulare. Delle risposte brevi e concise, le solite.

D'un tratto il rombo del motore di una moto mi riportò alla realtà. Sollevai lo sguardo.

Nascosti dietro la visiera del casco, due occhi verdi mi stavano fissando divertiti. Durò tutto la frazione di un secondo, prima che lui partisse grattando con violenza le ruote sull'asfalto.

Lo incontravo sempre in quel punto, mentre me ne stavo in bilico tra il sacro e il profano con un torii sopra la testa a ricordarmi che io, forse, ero sempre appartenuta a quel limbo, a quella terra di nessuno, incastrata nella mia apatia, tra una vecchia vita da cui non sarei mai potuta scappare e una nuova che non ero ancora pronta ad accogliere.

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Capitolo 4
*** 5 cm al secondo ***


Una volta avevo letto una frase, scritta con un pennarello indelebile sulla porta del bagno della scuola: «il mistero del silenzio è che non fa mai lo stesso rumore».

L'avevo trovata piuttosto ridicola, senza senso, il frutto del vaneggiamento di qualcuno che si era divertito a fingersi un poeta.

"Che bella calligrafia!" aveva esclamato Giulia, per poi tirare fuori il cellulare e scattarle una foto, "Non trovi?" mi aveva chiesto voltandosi verso di me e trafiggendomi con i suoi cristallini occhi blu.

"Sinceramente? Sarà pure bella, ma non capisco cosa voglia dire..." avevo confessato scrollando le spalle con disinteresse. Lei mi aveva fissata, un'espressione disincantata che non le avevo mai visto cucita addosso, "Forse non è fatta per essere capita da quelli come noi".

Quelli come noi. Era una sottile linea di confine che avevamo tracciato per separarci dal resto del mondo. Ci teneva a distanza da tutto e tutti e ci dava una scusa per poterci elevare sempre un gradino più in alto.

Eppure, quel giorno, Giulia aveva usato la nostra formula con un significato diverso. Non era più un privilegio, ma qualcosa che non ci permetteva di andare oltre alla bella calligrafia di quel poeta da quattro soldi. Non ci permetteva di capirlo appieno.

Eravamo destinate alla superficie, lì dove ci eravamo inconsciamente rilegate, incatenate a quella frase rituale che era insieme la nostra benedizione e la nostra rovina.

Non avevo voluto approfondire il discorso. L'avevo lasciato cadere così, liquidandolo con un cenno di assenso e un banale "Già".

Quell'aforisma, però, me l'ero trascinata dentro per anni. Fino al Giappone.

Stavo camminando lungo la solita stradina, quella che mi avrebbe portato alle scuole di Hana e Nami, le mie immancabili cuffiette infilate nelle orecchie, quando d'un tratto una folata di vento più forte delle altre mi aveva spostato i capelli.

Una ciocca si era attorcigliata intorno al filo delle cuffie costringendomi a toglierle per sbrogliarla.

Silenzio.

Non avevo mai sentito un silenzio così terribilmente surreale. E non aveva nulla a che vedere con quello che si formava nella mia cameretta a Roma, quando decidevo di chiudere la porta.

Non aveva in sé il rumore dei clacson in lontananza, oppure le grida della vicina del piano di sopra, benché meno il fastidioso ticchettio dei tacchi di mia madre.

E non era neanche uno di quei silenzi pesanti, di quelli che ti si incollano addosso talmente sono opprimenti, soffocanti, di quelli che provi a colmare in ogni modo, fastidiosamente sgraditi.

No.

Quello era il silenzio nel suo significato più assoluto. Ed era fatto dell'odore dell'erba dei prati, del canto di qualche cicala in lontananza, dello scrosciare del fiume nella sua lenta e inesorabile corsa, del fruscio del vento e del calore del Sole pomeridiano sulla pelle.

Era leggero.

Di quella leggerezza in grado di scavarti l'anima e portarti a galla i pensieri.

E io, immersa in quella quiete idilliaca, per la prima volta, avevo finalmente dato un significato a quella frase che io e Giulia eravamo rimaste a fissare con amara impotenza.

Poi, improvvisamente, mentre me ne stavo con le palbepre abbassate e le labbra dischiuse, avevo sentito uno stridio, dapprima sottile, poi sempre più molesto.

Ci misi un po' a intuire da dove provenisse, ma quando lo feci fui costretta a infilarmi nuovamente le cuffiette nelle orecchie e ad alzare il volume della musica, il fiato corto, gli occhi sbarrati.

Quello era il rumore dei miei pensieri. E scricchiolavano contro quella quiete così perfetta, grattavano, violenti. Non erano discreti o equilibrati, non erano armoniosi, ma un groviglio di fili senza capo né coda, un mare in burrasca.

Non ero mai stata brava ad ascoltarmi. Preferivo tamponare ciò che mi frullava per la testa con la voce graffiante di Dustin Bates, anestetizzare quel brusio di sottofondo con le potenti e devastanti note di Carnivore.

Niente cicale, niente fiume, niente vento, niente pensieri, niente Mia.

Ed ero scappata a migliaia di chilometri di distanza da casa credendo che solo così avrei potuto ritrovare la Mia di un tempo, quella che mia nonna aveva amato tanto e che non si sarebbe mai accontentata di appartenere a "quelli come noi".

Ma la verità è che non ero ancora pronta ad affrontarmi, ad affrontare ciò che ero diventata. E allora, ogni stramaledetta volta che percorrevo quella strada da sola, mi aggrappavo alla mia amata musica pur di non annegare dentro di me. Ché non ne sarei uscita viva, ne ero sicura.

«Mia!»

Hana mi stava correndo incontro, sorridente, mentre si faceva largo tra i suoi compagni di classe che, come lei, erano usciti in quel momento dalla scuola.

Le dita fredde, leggermente tremanti, sospirai appena, sconsolata, e mi tolsi le cuffiette.

Silenzio. E un brivido di paura mi attraversò la schiena.

Mi avvicinai alla bambina, la mano aperta e tesa per afferrare la sua, piccola e delicata, rassicurante.

«Andiamo a prendere Nami!» mi disse e cominciò a trascinarmi, un passo dietro l'altro nella direzione della scuola della sorellina. Mi limitai a seguirla, a farmi condurre, lei l'adulta e io la bambina.

Hana era responsabile, una ragazzina di soli otto anni che di fanciullesco non aveva nulla se non l'aspetto. I capelli raccolti in una coda alta, le guance paffute, l'uniforme perfettamente stirata, le scarpe tirate a lucido e quel portamento che trasudava una calma e una sicurezza che io potevo solamente sognarmi.

La testa alta, poi, e i grandi occhi scuri fissi sull'orizzonte, pareva guardare al di là di ciò che si trovava davanti, sempre proiettata un passo più in là di tutti.

«Com'è andata la tua giornata?»

Faticavo ancora a pronunciare una frase di senso compiuto, ma dopo un mese di corso di lingua riuscivo quantomeno a farmi capire.

«Stai migliorando! La tua pronuncia è quasi perfetta!» e si voltò verso di me alzando il pollice in alto e mostrandomi un'espressione soddisfatta, «Al solito...nulla di ché» continuò, alzando le spalle con fare rassegnato e tornando a guardare avanti.

A Hana non piaceva la scuola. Ogni volta che toccavo l'argomento si limitava a formulare le solite risposte atone e corte. "Al solito", "Non è successo nulla di nuovo", "Bene". Chiudeva subito la questione cambiando tema.

«Oggi il Sole è molto forte...» disse mettendosi una mano davanti agli occhi. Intorno a noi, dietro le piccole abitazioni in cemento, la campagna la faceva da padrone. Era immensa, rigogliosa, profumata, una distesa di piante di grano e di erbe selvatiche.

E di fronte a quello spettacolo anche quella piccola strada, quelle case minute, quella staccionata in legno mangiata dai tarli, quei pali della luce arrugginiti acquisivano un fascino tutto loro.

«Mia? Perché ti sei fermata?»

«Scusa, mi ero un attimo incantata» le risposi dandomi una leggera pacca sulla fronte, per poi ricominciare a camminare.

La scuola di Nami era a qualche centinaia di metri di distanza rispetto a quella di Hana.

Era un edificio basso, ma piuttosto esteso, adatto per la quantità di bambini che doveva ospitare.

Entrate dall'ingresso principale, ci affacciammo nella classe della minore. Intenta a giocare in un angolino con alcune bambole, Nami non si era accorta di noi.

La trovavamo spesso così, a giocare da sola. Lei da un lato e il resto dei suoi compagni dall'altro. Ogni tanto cambiava postazione, magari si sedeva più vicina ad altri bambini, oppure si sistemava a cerchio assieme a tutti quando la maestra leggeva loro qualche libro, ma non l'avevo mai vista parlare con nessuno.

«Nami!»

Hana la chiamò, la sua voce dolce e soave risuonò in tutta l'aula attirando l'attenzione su di sé.

La piccola alzò la testa e, dopo averci inquadrate, con un balzo si alzò da terra e corse verso di noi.

«Ce ne avete messo di tempo!»

«Guarda che siamo arrivate in orario» le rispose la sorella stizzita, dandole un pizzicotto sulla guancia paffuta e rosea.

La maestra, una giovane donna dai modi gentili e premurosi, si avvicinò e ci aiutò a recuperare lo zainetto della bambina dall'attaccapanni. «Ci vediamo domani, Nami» disse e si inchinò leggermente. «A domani, maestra» pronunciò lei chinandosi a sua volta in un modo talmente esagerato e goffo da strapparmi una lieve risata. La donna le passò una mano tra i capelli scompigliandoglieli, un gesto materno che non mancava mai di riservarle, dopodiché salutò anche noi con un breve cenno del capo e sparì di nuovo all'interno dell'aula.

«Andiamo che ho fame!»

Nami era molto diversa dalla sorella maggiore. Con i capelli sempre arruffati, il grembiule immancabilmente sporco di tempera e le scarpette impolverate, camminava sempre un passo dietro a noi, troppo occupata a raccogliere i sassolini più belli sul ciglio della strada per poter mantenere la nostra andatura.

«Questo è proprio bello! Guarda che forma!» urlò all'improvviso per poi raggiungerci e mostrarmelo, entusiasta. «Mia, è del colore dei tuoi occhi!» e mi afferrò la mano, posandolo sul palmo, «Te lo regalo» affermò infine, scoprendo i dentini in un sorriso disarmante.

Quel minuscolo sasso era di un grigio chiaro tendente al celeste, striato da alcune venatura più scure. Me lo portai vicino ad un occhio, «Tu dici?» le chiesi e lei annuì, «È lo stesso colore dei laghi di montagna, di quelli che stanno in alto alto» mi spiegò.

«In alto alto?»

«In alta montagna non ci sono piante e l'acqua dei laghi riflette solo il colore del cielo» proseguì Hana per lei, «I tuoi occhi hanno il colore dei laghi di montagna, Mia.»

Mi limitai a ringraziarle, colta alla sprovvista da quella piacevole similitudine. Era il complimento migliore che avessi mai ricevuto.

Continuammo a camminare, il Sole che a mano a mano andava nascondendosi dietro le colline in lontananza. D'un tratto passammo vicino all'unica area giochi del paese. Alcuni bambini, sorvegliati dai genitori, erano intenti a giocare tra loro. Chi usava lo scivolo, chi l'altalena, chi invece era impegnato a costruire castelli di sabbia oppure a saltare la corda.

Hana e Nami, come sempre, passavano dritte, la testa bassa, i pugni serrati lungo i fianchi. Non alzavano mai gli occhi dall'asfalto fino a quando non superavamo il parchetto. Sembravano terribilmente a disagio e adottavano lo stesso comportamento anche quando incontravano altri loro coetanei lungo la strada.

Ogni tanto salutavano qualche vicino di casa, un vecchietto di passaggio o qualche signora che conoscevano, ma non erano mai particolarmente affabili o sorridenti.

Non ne capivo il motivo e mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma allo stesso tempo sentivo che non era il caso di insistere, che se solo l'avessi fatto avrei incrinato irrimediabilmente il rapporto di fiducia che si era instaurato tra di noi.

E allora tacevo, proprio come loro, e facevo finta di nulla.

«Vi va un gelato?»

Quel giorno, però, non ce l'avevo fatta a ignorare le loro espressioni demoralizzate.

Hana e Nami sollevarono lo sguardo e, dopo un attimo di incredulità, esclamarono in coro un "sì" allegro che mi strinse il cuore.

Il supermercato, che si trovava in fondo alla via del tempio, non era molto grande, ma era l'unico in tutta la zona e proprio per questo era abbastanza fornito. La struttura, a tratti decadente, era piuttosto vecchia e frutto dell'incuria dei proprietari: una coppia di signori grassi e pigri che avevo visto solamente due volte da quando ero arrivata lì.

«Voi scegliete i gelati che vi piacciono di più, io entro un attimo dentro per cercare una cosa.»

Mi aggirai per gli scaffali con in mente un obbiettivo ben preciso: le caramelle. Quando vivevo a Roma, i miei genitori non mi permettevano di comprare alcun tipo di cibo "spazzatura": niente patatine, niente caramelle, niente merendine. Seguivo un'alimentazione rigida e controllata e col tempo avevo imparato a fare a meno di qualsiasi "schifezza" dolce o salata che fosse. Ma lì in Giappone, complici lo stress e la lontananza dai miei, avevo scoperto il piacere di mangiare, di tanto in tanto, qualche caramella, di quelle gommose colorate e a forma di tanti animali diversi.

Ne presi tre pacchetti, giusto per essere sicura di non finirne la scorta, e mi avviai alla cassa.

Appoggiata al bancone, un'espressione annoiata dipinta sul volto, la commessa era intenta a scrivere un messaggio al cellulare.

Da dietro il grembiule verde scuro con il logo del negozio, usciva la manica colorata e pomposa della sua maglietta. I capelli lunghi e neri, raccolti in due codini alti, erano decorati da tante mollettine a forma di fiore e le dita paffute erano ricoperte da numerosi anelli fluorescenti.

Sakura aveva sicuramente un aspetto singolare, eccentrico e vistoso, a tratti decisamente infantile, e un carattere estroverso e allegro.

«Ciao!» si ravvivò vedendomi arrivare con il mio bottino in braccio. «Quelle piacciono molto anche a me» indicò il pacco con le caramelle al gusto di fragola, prima di cominciare a trafficare con la cassa.

«Devo pagarti anche due gelati...» cominciai guardandomi intorno, «Le bambine dovrebbero averli scel-»

Fuori dalla vetrina, Hana stava cercando di estrarre la sorellina dal banco frigo. Della più piccola non si vedevano che le gambe sottili, in quel momento impegnate a scalciare furiosamente.

«Nami!»

Mi scagliai fuori dal negozio e, afferratele le caviglie, la tirai fuori dal frigorifero. Nelle mani, vittoriosa, teneva due gelati grandi quanto il suo viso. «Vogliamo questi!» urlò ancora a testa in giù, mentre Hana rideva di gusto, piegata in due con le lacrime agli occhi.

Io le osservai, dapprima sconvolta, poi sempre un po' più divertita.

E così i nostri ruoli si ribaltavano. Al suono delle loro risate cristalline e dei piedini che battevano sull'asfalto come grandine, io tornavo a fingere di essere l'adulta e loro di essere le bambine.

Avevo imparato a godermi quei momenti, consapevole di quanto fossero effimeri.

Duravano poco, il tempo che impiega il petalo di un fiore di ciliegio a toccare terra.

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