Another Record of Ragnarok- The End of an Era

di Master Chopper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1: Rejected Proposal ***
Capitolo 2: *** Chapter 2: Fame and Shame ***
Capitolo 3: *** Chapter 3: The Pain of a Past Sunset ***
Capitolo 4: *** Chapter 4: Fame and Shame (Final) ***
Capitolo 5: *** Chapter 5: Popular Monster ***
Capitolo 6: *** Chapter 6: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose ***
Capitolo 7: *** Chapter 7: Let the Show Begin ***
Capitolo 8: *** Chapter 8: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose (Final) ***
Capitolo 9: *** Chapter 9: I Got Blood On My Hands ***
Capitolo 10: *** Chapter 10: My Crusade ***
Capitolo 11: *** Chapter 11: I Can't Drown My Demons, They Know How To Swim ***
Capitolo 12: *** Chapter 12: My Crusade (Final) ***
Capitolo 13: *** Chapter 13: Du Bist Im Labyrinth ***
Capitolo 14: *** Chapter 14: Dead End ***
Capitolo 15: *** Chapter 15: Murderous Intent ***
Capitolo 16: *** Chapter 16: Dead End (Final) ***
Capitolo 17: *** Chapter 17: Bluff ***
Capitolo 18: *** Chapter 18: Why Do I Kill? ***
Capitolo 19: *** Chapter 19: For Peace, Of Course ***
Capitolo 20: *** Chapter 20: Why Do I Kill? (Final) ***
Capitolo 21: *** Chapter 21: Have You Seen The Yellow Sign? ***
Capitolo 22: *** Chapter 22: Tragicomedy ***
Capitolo 23: *** Chapter 23: I Still Try To Find My Place ***
Capitolo 24: *** Chapter 24: Tragicomedy (Final) ***
Capitolo 25: *** Chapter 25: British Ninja ***
Capitolo 26: *** Chapter 26: I Have Swallowed That Hope ***
Capitolo 27: *** Chapter 27: Unchained ***
Capitolo 28: *** Chapter 28: I Have Swallowed That Hope (Final) ***
Capitolo 29: *** Chapter 29: Sine Die, Sine Deo ***
Capitolo 30: *** Chapter 30: True Beauty ***
Capitolo 31: *** Chapter 31: Curse of the Womb ***
Capitolo 32: *** Chapter 32: True Beauty (Final) ***
Capitolo 33: *** Chapter 33: Kyrie Eleison ***
Capitolo 34: *** Chapter 34: The Sword ***
Capitolo 35: *** Chapter 35: Break Through The Surface ***
Capitolo 36: *** Chapter 36: The Sword (Final) ***
Capitolo 37: *** Chapter 37: Omake ***
Capitolo 38: *** Chapter 38: The Beginning of The End (Of The World, As We Know It) ***
Capitolo 39: *** Chapter 39: I'm Waiting Here For You, And I'll Remind You Of The Pain Forevermore ***



Capitolo 1
*** Chapter 1: Rejected Proposal ***


Chapter 1: Rejected Proposal

Ai confini del tempo e dello spazio, tutti gli dèi erano stati chiamati ad esprimere il loro voto alla semplice domanda di “la razza umana deve essere sterminata?”.

E proprio quando la votazione sembrava aver raggiunto l’irrimediabile punto di non ritorno, una voce si era levata tra la folla. Non apparteneva a nessun pantheon, eppure alle sue spalle aveva riunito divinità che lo guardavano e restavano fermi con inamovibile sicurezza. Quello sconosciuto, apparentemente, levò la sua disapprovazione, ma la maggioranza degli dèi gli risero in faccia.

Tutti tranne alcune figure di rilievo.

Infatti una donna dal vestito dorato e adornato da piume d’uccello gli domandò: “Solo un folle sprecherebbe la sua voce in questa situazione. Hai qualcos’altro da aggiungere?”

Ed a quel punto il misterioso dio aveva sorriso, o meglio sogghignato, come se non fosse soggetto alle leggi sacre che vigevano nel luogo del giudizio universale. Aveva accennato ad un discorso di come non ci fosse né sfida, né un’equa giustizia in quella decisione.

“E allora cosa dovremmo fare?” Ridacchiò sardonico una creatura rossa e deforme, ma dall’aspetto così crudele da incutere timore in chiunque gli fosse nei dintorni. “Mandare agli umani una lettera per sapere il loro parere?”

Nessun parere, aveva risposto lo sconosciuto: con le parole agivano solo i codardi, ed era per questo che tutti gli dèi lì presenti si stavano nascondendo dietro un voto su carta. Immediatamente miliardi di sguardi inferociti si erano puntati su di lui.

Mentre, lui aveva continuato, soltanto la forza può mettere alla prova chi ha coraggio, e può decidere chi ha il diritto di agire sul proprio destino.

Qualcosa che si aggirava tra le divinità come una leggenda tra le leggende: l’occasione per l’uomo di sfidare dio, di ribaltare il proprio destino e di spezzare profezie, miracoli e qualsiasi cieca fede che avrebbe altrimenti portato al suo disastro. Lì, nell’arena che chissà quanto tempo fa era stata costruita proprio per quello scopo, l’Arena del Valhalla, si sarebbe dato via al Ragnarok.

Le maggiori divinità avevano acconsentito a quella sfida con la superiorità che per l’appunto caratterizza un essere superiore, ma a sorridere di più era stata la serpe che aveva ora insinuato un tarlo molto insidioso nelle menti degli dèi, ovvero quello del dubbio. Gli fu concesso di sfidare dieci dèi con i dieci esseri umani che lui riteneva più validi. La condizione lo soddisfò, così assieme alla sua cricca senza nome svanì, lasciandosi scivolare addosso tutto l’odio che gli stava venendo proiettato.

L’impossibile era stato reso possibile: rimandare l’estinzione dell’umanità per mano di quel patetico gioco di potere.

A quel punto però, strisciando tra i corridoi fino agli angoli più bui che nemmeno la luce poteva raggiungere, il dio misterioso spalancò il suo macabro sorriso nella stanza in cui era appena entrato. Lì, trovò i suoi alleati: “Dunque, decidiamo già da ora come dovrà andare questo torneo!”

 

Tempo dopo, giunse il momento di mettere a confronto la carne ed il sangue con la giustizia dei cieli. Nell’arena si agitava un fermento contenuto, pari al ronzio di miliardi di insetti piuttosto che al boato che spesso aveva scosso stadi molto più piccoli nel mondo umano.

Dèi e umani, angeli e mostri, miti e leggende fremevano sugli spalti senza avere la benché minima idea di cosa aspettarsi. Persino gli indovini, i profeti ed i veggenti scrutavano in un futuro incerto, a discapito dei loro desideri di barare nelle scommesse. Chi si infuriava perché la sistemazione del suo posto era troppo vicina a quella di un antico nemico, chi domandava per l’ennesima volta se fossero stati annunciati gli sfidanti, ed infine gli spettatori più in attesa di tutti: gli Dèi organizzatori.

Rintanati lontani da quella bolgia confusa ed ignara, da tre troni posti a formare un triangolo sopra l’arena, i rispettivi gestori di quell’evento mostravano emozioni contrastanti.

Ptah, in quanto dea della creazione, era segretamente soddisfatta di aver dato vita ad un qualcosa di così grande e celebrativo. Eppure, una maschera di tensione da diverse ore si era appoggiata sul suo viso, talmente tanto evidente da averla costretta ad evitare di essere inquadrata dalle telecamere.

Indossava una veste di scaglie dorate simili ad ali sulla sua pelle scura, anch’essa attraversata da tatuaggi bianchi che le risalivano fino al bellissimo volto accigliato.

Da un altro trono, Baal era sorpreso da quanto il suo stesso sorriso si stesse allargando da un orecchio all’altro, al punto da deformarlo completamente e rendere omaggio alla sua rinnovata natura demoniaca. Aveva accavallato le gambe, e con nervosa eccitazione tamburellava i suoi lunghi artigli sul trono, a volte graffiandolo e producendo stridii irritanti. La sua testa era larga come una balla, ma si assottigliava all’altezza delle orecchie appuntite, da diavolo.

Infine il più bizzarro degli organizzatori, ancora celato alle telecamere, galleggiava sul proprio posto a sedere. Si trattava di Chaos, un’entità informe dalle sembianze di un vortice di luci ed ombre che si agitavano fumose e prive di peso. Nella sua natura ineffabile ed incomprensibile però era possibile cogliere un barlume di vita, proprio al centro del suo corpo, come nella singolarità di un buco nero: pazienza.

Chaos aspettava e avrebbe aspettato senza scomporsi, senza parlare o mai esprimersi riguardo le sorti della battaglia. D’altronde era stato il primo, il disordine supremo generatore di tutto, la calma dell’abisso infinito. Ai piedi del suo trono avevano posto tutti gli altri dèi venuti dopo di lui: Gaia, creatasi poco dopo, ed i figli Erebo e Nyx.

La dea Nyx sollevò lo sguardo verso il padre generatore, per poi lanciare uno sbuffo indignato mentre ritornava a guardare distrattamente l’arena. Suo fratello Erebo le picchiettò con l’indice sul braccio, senza esprimersi ma mostrandosi incuriosito.

“ Si tratta di papà !” Borbottò la dea della Notte, ricoperta da molteplici veli che decoravano il suo corpo pallido come la luna, e dentro i quali si muovevano le costellazioni.

“ Questo l’avevo intuito, sai ?” Sospirò il dio delle Tenebre, esasperato dalla scarsa capacità di comunicazione della sorella. Lui mostrava solo il petto nudo, del colore scuro, perché tutto il resto del corpo, compreso il viso, era avvolto da un mantello con cappuccio più nero di qualsiasi cosa mai esistita dall’alba dei tempi.

“ Sta lì fermo a non fare niente! Non parteggia nemmeno per gli altri dèi, come se non tenesse a cuore proprio nessuno …” Fu la risposta indignata di Nyx.

“ Oh, andiamo! È ovvio che ci abbia tutti a cuore: chi se non il creatore di tutto dovrebbe tenere alla vita degli dèi ?” Ribatté Erebo.

“ Essere imparziali però è eccitante.” Nel loro discorso intervenne Gaia, la dèa primordiale della Terra.

La più antica delle dèe vestiva un morbido mantello apparentemente composto di fango, con uno scialle sul quale germogliavano continuamente fiori avvolto sotto i capelli, dai colori di tutte le piante del mondo.

“ Ho compreso, a mie spese purtroppo, come parteggiare per i propri figli porti soltanto ad una disperazione fatale quando li vedi perire. Restare imparziali e senza schierarsi può invece portare ad una sorpresa che non è né positiva, né negativa.”

“ Un padre o una madre possono davvero fingere di non avere a cuore i loro figli ?!” Esclamò sconvolta La Notte, inorridita dalle parole della zia.

“ Hai frainteso le mie parole, cara.” Sorrise amorevolmente La Terra.

“ Chaos non ha cuore niente e nessuno, semplicemente perché non ha un cuore. Qualsiasi cosa accada, anche la distruzione di tutti gli déi, non lo scalfirebbe minimamente… si potrebbe definire il peggior tifoso mai esistito, dunque.”

 

Nessuno poteva aspettarselo o prevederlo quando accadde, ma un rauco gracchiare dagli altoparlanti disposti ovunque nell’arena annunciarono l’inizio di qualcosa di mai visto prima.

Ladies and gentlemen, dèi e dèe di tutti i piani e di tutti i mondi …”

Due creature all’interno di una cabina scavata tra gli spalti avevano imbracciato le loro armi, i microfoni con i quali avrebbero condotto l’evento più atteso della storia.

“ Annunciamo finalmente l’inizio… della fine !”

Quelle parole erano state enigmatiche, confuse ed inaspettate, ciò nonostante un boato esplose in ogni angolo degli spalti: a nessun dio e a nessun umano interessava cosa sarebbe stato detto, in quanto erano venuti fin lì solo per assistere agli scontri decisivi per la propria razza. A presentare l’evento erano due esseri quanto più dissimili l’uno dall’altro: il primo dalle sembianze di un uomo vecchio ed avvolto da una tunica candida, il secondo dalle mostruose fattezze di demone asino con una coda di pavone ed una camicia rossa come il sangue.

“ Cosa vedremo accadere tra queste mura? La distruzione dell’umanità …” Presagì serio St. Peter, cancelliere del Paradiso.

“ … o lo spodestamento degli dèi ?!” Rise sguaiatamente Adramelech, cancelliere dell’Inferno.

“ Sono sicuro che nessuno qui è davvero pronto per assistere a questa mattanza.” Commentò il santo con tono drammatico.

“ Ciò nonostante dobbiamo chiederlo lo stesso: siete pronti ?!” Urlò il demone, frustando l’aria con la lingua.

Un secondo boato si sollevò fino al cielo. Era la voce di millenni e millenni di generazioni umane e divine che rispondevano all’appello.

 

Good, good.” Si ricompose Adramelech, soddisfatto. “ E allora cominciamo: direi che la vostra attesa meriti di essere ripagata con uno scontro d’apertura degno di questo nome.”

“ Ricordiamo che questo sarà il primo scontro di ben dieci, ai quali possono partecipare umani e divinità di ogni epoca e parte del mondo …”

Mentre queste voci riecheggiavano ovunque l’orecchio umano o divino potesse sentire, in uno dei corridoi dell’arena avanzava qualcuno destinato ad essere il primo degli sfidanti.

Un elegante drappo verde avvolgeva il suo corpo, in completo contrasto con un collare dorato e ricoperto di spunzoni, da toro. Il petto era protetto da un’armatura a scaglie, anch’essa dorata sulla superficie, ma in pietra al di sotto.

Il dettaglio più vistoso della sua persona era un paio di corna, lunghe e ricurve all’indietro, che facevano capolino da una matassa di capelli più simili a pelo ispido animale.

Nonostante l’aspetto mostruoso, unito alla sua stazza di più di due metri, l’essere camminava con portamento elegante e sguardo troppo preoccupato per appartenere ad un dio.

Durante la sua avanzata un servo sumero controllava che la sua armatura non presentasse imperfezioni, nonostante tremasse ogni qual volta lo toccava.

“ Mio padrone, l’armatura è di suo gradimento ?” Domandò con somma riverenza.

L’essere bestiale annuì, guardandolo appena per un istante negli occhi.

 

“ Ancora con questa superbia e con il tuo ottuso amore per gli uomini, Enkidu ?” Gli domandò una dea apparsa dalle ombre, sorridendo melliflua.

Dai biondi capelli, era ricoperta fino al seno da un lungo abito di fili intrecciati d’argento, il quale però lasciava scoperte le sue grazie. Ishtar, la dea dell’Amore e della Fertilità dell’antica Mesopotamia, sostenne il suo sorriso perfido, non notando però alcuna alterazione nell’espressione dell’uomo bestia.

Il servo, tuttavia, aveva iniziato a tremare così tanto da non poter nemmeno inginocchiarsi.

“ Che fai, uomo? Non ti inginocchi di fronte alla tua dea ?” La voce di Ishtar risuonò nuovamente calda ed accomodante, in completo contrasto però con gli occhi ardenti come tizzoni che perforavano l’uomo da parte a parte.

Lo scudiero guardava il pavimento, non potendo far altro che tremare e sudare. Il terrore era così opprimente che si sentiva strappare l’anima dal corpo ad ogni secondi di silenzio passato.

- Devo… inginocchiarmi… devo… inginocchiarmi !- C’era qualcosa che non andava, questo lo intuì istantaneamente.

Le gambe non si muovevano ed il panico strappava sempre più ogni barlume della sua sanità.

- Non ci riesco.- Si arrese al destino proprio quando le prime lacrime sgorgarono dai suoi occhi.

“ Non è un ottuso amore.”

Come un rombo di tuono, la bestia spezzò il silenzio colmo di tensione in quel corridoio buio.

Semplicemente poggiando il suo gigantesco dito sulla nuca dell’uomo, lo spinse con delicatezza fino al suolo, facendolo adagiare sulle proprie ginocchia.

La dea arricciò il naso, infastidita dalla preda scappata alle sue perverse macchinazioni.

“ Una parte di me è, e sarà legata per sempre agli umani, che amo con tutta la mia essenza.” Il dio ad immagine e somiglianza degli uomini chiamato Enkidu si portò una mano al centro del petto, comunicando con serenità e quasi riverenza quella sua realtà.

Detto ciò mosse un passo in avanti, lasciando lo schiavo dietro di sé e superando persino la dea senza degnarla di uno sguardo. Lei per un istante solo esitò dall’aprire bocca, tanta era immensa la mole della creatura fuori da ogni comprensione che l’aveva affiancata. Dopodiché, recuperando coraggio e compostezza, sicura della sua posizione, ritornò a schernirlo con un sorriso di falsa innocenza.

“ Sai che lui non ci sarà a guardarti? Nessuno gli ha comunicato della tua partecipazione alle battaglie, e come al solito preferisce pensare alle sue questioni piuttosto che a quelle dei mortali.”

Enkidu si lasciò scivolare addosso quelle parole, proseguendo verso la fine del tunnel.

“ Ha completamente senso, immaginavo avrebbe fatto così.”

Strinse gli occhi, emergendo nella luce.

- D’altronde nessuno, dio o uomo, riuscirebbe a fronteggiare il popolo che ha tradito... per questo me ne prendo io tutte le responsabilità !-

 

“ Il primo sfidante dallo schieramento degli dèi è qualcosa di raro, incomprensibile e feroce !” Sbraitava intanto Adramelech, ammirando come tutti l’apertura di un gigantesco portone alla base dell’arena.

“ Vanta della ferocia di un animale, del coraggio di un guerriero e della fierezza di un dio! Creato ad immagine e somiglianza del più grande degli eroi… due terzi dio ed un terzo umano… il secondo combattente più famoso di tutti i regni fioriti tra il Tigri e l’Eufrate …”

St. Peter indicò l’ingresso del primo sfidante mentre la folla esultava.

Enkidu, la punizione divina di Uruk !

Il mostruoso dio calpestò per primo la terra del campo di battaglia, proiettando un’ombra mastodontica grazie alla sua stazza sovrumana.

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Capitolo 2
*** Chapter 2: Fame and Shame ***


Chapter 2: Fame and Shame

Gli dèi sumeri, riuniti ed intenti a sollazzarsi con vino e cibarie, risero sommessamente all’ingresso del loro campione.

“ Che scempio, che buffonata !” Sembrò protestare Enlil, il dio dell’aria e delle tempeste con un alto copricapo ricoperto da corna. “ Non posso tollerare che il nostro pantheon venga rappresentato da… quella cosa, al posto di Lui! Ci stiamo rimettendo a livello di immagine !”

“ Ma che dici ?” Sbottò Shamash, del Sole, rosso in volto dall’ebbrezza. “ Che cosa ci importa di chi ci rappresenta?! Tanto Enkidu sarà lo stesso capace di portarci alla vittoria e all’annientamento di quegli stolti umani.”

Ishtar, che intanto aveva preso posto tra di loro, rise sottovoce per quell’affermazione e non poté che gioire della vista che le si palesava dall’altro lato degli spalti.

 

Proprio lì, un umano moderno mostrava un’espressione confusa.

“ Chi… sarebbe questo Enkidu? Un dio sumero ?”

“ No.” Rispose qualcuno appena materializzatosi al suo fianco, con voce rauca e cavernosa.

Un guerriero sumero dalla lunga barba e con le braccia conserte guardava lo sfidante divino con sguardo imperturbabile, come si ammira il mare in tempesta o un altro fenomeno affascinante nella sua spaventosità.

“ Enkidu fu creato dagli dèi per insegnare al nostro re a comportarsi in modo responsabile e giusto verso il popolo. Il suo intento era dunque quello di sfidarlo e sconfiggerlo a duello …”

In pochi attimi l’uomo osservò come un’intera tribuna degli spalti si fosse popolata di guerrieri sumeri, tutti immobili come statue e dall’espressione conturbata.

“ Tuttavia lui ed il nostro re divennero cari amici, protettori della Mesopotamia da ogni angheria… erano i nostri eroi.” Questa volta a parlare fu un anziano dalla pelle come terracotta, il quale trasportava sottobraccio innumerevoli tavolette di pietra e aghi di ferro. “ I racconti delle loro gesta… erano i più amati del mondo allora conosciuto! Furono di grande ispirazione per tutti i combattenti che poi si ersero nelle nostra bellissima terra tra i fiumi.”

Sîn-lēqi-unninni, antico scrittore, iniziò a versare lacrime colme di dolore sulla sua stessa creazione: l’Epopea di Gilgamesh.

“ E ora ci hanno entrambi abbandonato, combattendo per la distruzione dell’umanità.” Come un canto funebre i pianti dell’esercito sumero vissuto milioni di anni prima riecheggiarono, colmi di miseria e tristezza.

 

Inevitabilmente questi raggiunsero le orecchie di Enkidu, il quale ora sostava al centro dell’arena.

Solo quel lamento straziante riempiva lo stadio, facendo agitare gli umani nella confusione ed aumentando soltanto le risate soffocate degli dèi sumeri.

Il rumore era così infestante da far tremare la terra.

“ STATE ZITTI !” Accade in un istante: la creazione divina spalancò le fauci, mostrando una fila di denti aguzzi, per poi eruttare in un grido talmente forte da scuotere ancor di più il suolo sul quale poggiavano tutti i presenti.

L’arena tremò, gli dèi impallidirono e gli umani si schiacciarono sulle loro stesse sedie dalla paura.

Quell’essere, fino ad allora avvolto da una calma misteriosa, aveva svelato una natura bestiale e selvaggia, pregna di intento omicida fino all’orlo.  Sollevando ripetutamente le gigantesche spalle nell’atto di riprendere fiato, la sua presenza al centro dell’arena sembrava essersi fatta di colpo più imponente e pericolosa. Persino i presentatori, al sicuro nel loro studio, si erano zittiti.

Di conseguenza tutto l’universo era piombato nel silenzio.

 

“ Quella bestia… è spaventosa.” Mormoravano gli dèi che mai avevano sentito parlare di Enkidu, così come gli uomini.

Iniziarono a sussurrare tra gli spalti i racconti delle sue gesta, o teorie su cosa sarebbe stato in grado di fare al suo malcapitato sfidante. Solo una cosa era certa: un pressante timore reverenziale stava dilagando tra gli spalti, dapprima gremiti di eccitazione per l’imminente battaglia.

“ Questa visione rimarrà sicuramente impressa nelle loro menti per parecchio tempo …” Commentò divertito un individuo all’ombra di una tribuna.

Era accompagnato da solo altre due divinità sue simili, le quali però rimasero in silenzio.

“ Non siete d’accordo ?” Si rivolse allora ai suoi compagni Fobetore, il dio minore del sonno creatore degli incubi. Il suo sorriso sgargiante era di provocazione. Sembrava un qualsiasi ragazzo sulla ventina, ma con solo una cresta di capelli neri e viola in testa, riprendendo il tema dei suoi vestiti eleganti.

“ Mi interessa relativamente poco quanto sia spaventoso.” Rispose allora una creatura distesa per terra, con la testa poggiata su di un cuscino.

Aveva le sembianze di un bambino grassottello e ricoperto da un mantello di pelliccia leonina, con un elmo di scaglie calato lungo il cranio e la nuca.

“ Sono esistite molte persone all’apparenza spaventose, ma con un’anima buona… e viceversa. Lo giudicherò quando sarà andato all’altro mondo.” Concluse Ammit, la bestia egizia detta La Divoratrice.

“ In questo modo presumi già che Enkidu sarà sconfitto ?” Fobetore assottigliò lo sguardo, e non notando più risposta dalla creatura iniziò a ridere sguaiatamente.

Il terzo del gruppo era rimasto in silenzio, con lo sguardo puntato verso l’arena.

- Che sia spaventoso… che la sua anima sia buona… nulla di tutto questo è rilevante.- Pensò.

- Ciò che conta è che, in quanto araldo di queste divinità patetiche e vanagloriose… crolli sotto la potenza dell’umanità !-

Il dio misterioso si rivolse infine verso la porta rimasta fino ad allora chiusa.

- Vinci, mio guerriero !-

 

“ B-B-Bene… !” Adramelech riprese con non poca fatica il controllo della propria voce, guardando St.Peter deglutire a vuoto.

“ Riuscirà il suo sfidante a regalarci un incontro degno di questo evento? Credo proprio di sì !”

Il lato dell’umanità a quel punto si concentrò su qualcosa di estremamente importante per tutti loro: chi avrebbe assicurato la loro salvezza?

“ Non sarà di certo un dio, ma davanti a noi sta per apparire l’uomo che ha scritto la bibbia delle arti marziali !”

Il secondo portone venne spalancato, presentando apparentemente solo una gigantesca sagoma di oscurità.

“ Colui che ha rivoluzionato il mondo del combattimento! Colui che non ha mai smesso di combattere, superando il secondo conflitto mondiale e divenendo l’orgoglio di Giappone e Corea.”

Qualcuno emerse infine dalle tenebre, avanzando lentamente in quel palcoscenico colossale con sicurezza, persino quando le acclamazioni della folla esplosero a tutto volume nei festeggiamenti.

Una fila di uomini e donne di ogni età, ma tutti al pieno delle proprie forze, vestiti con gi da artisti marziali, batterono i pugni sugli spalti in acclamazione.

“ Conosciuto anche come Baedal, l’Ammazza-Tori, ed originariamente, nella sua terra natia, come Choi Young-Eui …”

 

I karateka di tutto il mondo, riuniti in una sola voce, gridarono assieme ai presentatori il nome dell’uomo che avrebbe protetto la razza umana.

Circondato da quell’urlo, ora si stagliava sul campo di battaglia un uomo dai lineamenti duri come l’acciaio, due folte sopracciglia e ricoperto da un gi logoro, strappato in più punti e macchiato di sangue.

“ Masutatsu Oyama, la Mano Divina !!”

 

Il costrutto degli dèi sumeri, Enkidu, ed il karateka riconosciuto come il più forte del mondo si guardarono negli occhi. Finalmente l’uno di fronte all’altro, presentavano una differenza di altezza di qualche decina di centimetri, tuttavia incapace di far sembrare l’umano più piccolo al confronto. Infatti questo presentava un’ampiezza di petto ben superiore a quella della divinità con tanto di armatura.

Nessuno dei due fiatò, probabilmente osservando qualcosa che mai avevano avuto l’onore di vedere in tutta la loro vita.

 

Qualcuno tra gli umani si mostrò scettico.

“ Davvero stiamo affidando l’umanità ad un karateka? Il suo avversario è pur sempre un dio …”

I loro bisbigli amareggiati tuttavia vennero zittiti nel momento in cui un uomo seduto con spavalderia scoppiò in una fredda risata.

“ Quest’uomo… quest’uomo… ho sempre sognato di vederlo, così come di combatterlo. Sono sicuro che, se ai tempi non avessi dedicato la mia carriera al cinema, il nostro scontro sarebbe stato leggendario.”

Indossava una giacca cinese verde, in tinta con i pantaloni, ed aveva un nunchaku di ferro nero appoggiato sul collo. I suoi capelli erano corti, la fronte alta ed i tratti orientali.

Quando gli uomini seduti lì di fianco lo riconobbero, per poco non caddero o svennero sulle loro sedie.

“ Bruce Lee ?!”

Il celeberrimo artista marziale cinese, noto per aver esportato in Occidente la filosofia delle arti marziali, aveva sul volto il suo classico sorriso compiaciuto.

“ Masutastu Oyama è un artista marziale che ha seguito i miei insegnamenti tramite il mio libro, ed ha anche ripercorso tutti i miei addestramenti nello stesso luogo dove andai io in eremitaggio …” Borbottava pensieroso un altro personaggio, attirando l’attenzione di chi non era rimasto del tutto ammaliato dalla presenza di Bruce Lee.

L’uomo indossava un largo cappello di bambù dalla forma leggermente concava, il quale gli ricopriva il volto. L’unico dettaglio comprensibile della sua persona era dunque una barba incolta ed una coda di cavallo che ricadeva selvaggiamente lungo il collo.

Mentre parlava tra sé e sé accarezzava con il pollice il fodero della sua katana, custodita da una pancera.

“ Pensa te !” Sospirò infine lo spadaccino, sollevandosi il cappello con l’indice. “ Sembra che dovrò tifare per un mio allievo, una vera e propria fortuna !”

“ Ma lui è… !” Esclamarono tutti i giapponesi ed i conoscitori della storia attorno a lui, con una reazione ancor più sconvolta di prima.

“ Il Kensei, Miyamoto Musashi !” Riconobbero così il leggendario guerriero vissuto nel diciassettesimo secolo il cui titolo significa Santo della Spada.

Tutti i presenti erano giunti da epoche diverse per assistere allo scontro decisivo per il futuro del pianeta.

Ciò su cui concordavano Bruce Lee, Miyamoto Musashi, così come tutti i karateka allievi dello stile Kyokushinaki, era che se le arti marziali non avessero permesso all’uomo di battere il dio, allora per tutta l’umanità sarebbe stata la fine.

Fu allora che gli uomini si riunirono per pregare, non una divinità o un idolo, bensì la forza dei muscoli e della mente dei loro simili, che per millenni aveva plasmato le arti marziali.

 

“ Ed è così… !”

Adramelech e St. Peter presero un gran respiro prima di strepitare nel microfono a tutta forza ciò che chiunque voleva sentire:

“ … che il Ragnarok ha inizio !!”

Un religioso silenzio acquietò dèi e umani, facendo canalizzare le attenzioni di tutti sui due protagonisti di quella prima sfida.

Era difficile definire cosa ci si sarebbe aspettati di vedere. Qualcuno aveva pensato ad un match senza esclusione di colpi, altri ad un vero e proprio massacro unilaterale, o forse qualcosa di impossibile da comprendere per chi non era avvezzo ai combattimenti.

A dispetto di qualsiasi aspettativa, nulla di tutto ciò accadde.

Mas Oyama e Enkidu non avevano smesso di squadrarsi in silenzio neppure dopo l’annuncio dell’inizio.

Imperversò subito panico e confusione, come una tempesta lungo gli anelli dello stadio. Ugualmente il vociare non servì a scuotere gli animi dei due combattenti, i quali si fronteggiavano immobili.

Enkidu, alto ben due metri e cinquanta, riusciva a squadrare l’uomo davanti a sé, inglobandolo perfettamente nella proprio ombra gigantesca. Ne scrutò ogni minimo dettaglio: il vestiario cencioso come quello di un pellegrino, il volto indurito e scavato da innumerevoli ferite, ed i lunghi capelli gonfi come una criniera, i quali incorniciavano due piccoli occhi scuri.

Il karateka era alto un metro e settantacinque, e nell’apice del suo peso forma arrivava a pesare ottanta chili, ben duecentoventi in meno del suo avversario.

Ciò che vide davanti a sé fu qualcosa di selvaggio, ma ben più di un animale delle montagne, nonostante il portamento regale da nobiluomo. Infatti, quando prima di varcare il portone aveva sentito quell’urlo abominevole risuonare in tutta l’Arena del Valhalla, si era domandato se non fosse qualche bestia primordiale ad attenderlo.

Ritrovarsi davanti quella creatura ben più antropomorfa di quanto si aspettasse era stato quasi un sollievo.

 

“ Sei parecchio acclamato.” Osservò Enkidu, sorvolando rapidamente gli spalti attorno a sé.

Il karateka annuì, sollevando le spalle mentre assumeva un sorriso beffardo.

“ Più di quanto non facciano i tuoi simili, mi sembra.”

“ È assolutamente così.” Rispose senza scomporsi il guerriero sumero. “ Non vanto tra gli dèi la stessa fama di te, un valente artista marziale umano. Tuttavia mi perplime aver di fronte un guerriero così stimato… e trovarlo così tanto vuoto.”

Quelle parole, di una freddezza disarmante, bastarono per far scattare sull’attenti l’uomo. Non gli era stata rivolta alcuna minaccia, né il suo avversario pareva intenzionato ad attaccarlo, eppure con una semplice frase aveva azionato un meccanismo di protezione intrinseco nel suo cervello.

In Mas Oyama, senza nemmeno che potesse spiegarsi il perché, fremeva l’istinto di combattere privo di freni inibitori.

 All’esterno tuttavia parve solo molto confuso, al che il dio proseguì a parlare:

“ Mi sembri davvero tanto insoddisfatto delle lodi con cui ti acclama la tua razza. Forse non sono abbastanza? Oppure mi ritieni già un avversario noioso ?”

“ Nulla di tutto ciò. Un avversario noioso non oserebbe mai parlare così… a meno che non si tratti di uno bravo solo a dare fiato alla bocca !”

Incurvando leggermente la schiena ed estendendo le braccia ai lati del corpo, in un istante Masutatsu assunse una posa combattiva. Il suo volto, sul quale i capelli gettavano ombra, era contorto in un ghigno di sfida.

Enkidu sospirò seccato, prevedendo ciò che presto sarebbe accaduto.

 

Con lo stesso fragore di un tuono, il karateka schiantò entrambi i piedi sulla nuda terra, balzando in avanti. Si contorse in volo con agilità inaspettata nonostante la sua stazza, calando così un calcio ad ascia sul collo nemico.

“ Sei nato cinquemila anni dopo di me, ma noto con dispiacere che gli uomini restano sempre inebriati dalla propria foga omicida.” Il commento di Enkidu fu detto in totale calma mentre si scostava lateralmente per evitare il colpo, riuscendo ad essere sentito solo e soltanto dall’uomo.

Masutatsu tenne gli occhi ben aperti, osservando il suo viso impassibile. Mantenne lo sguardo fisso e concentrato anche quando, una volta sfiorata terra con l’altro piede, frustò l’aria con la gamba già contratta in un calcio di tallone.

Enkidu schivò il colpo proveniente da un angolo cieco semplicemente arretrando di un passo, coprendo ovviamente una lunga distanza.

“ Sei molto agile. Ho sentito che molti secoli dopo la caduta di Uruk i greci avrebbero inventato uno stile di combattimento chiamato pancrazio… eppure questa tua danza mi sembra qualcosa di completamente diverso.” Il sumero poté riprendere a parlare quando il suo avversario si fu fermato anche solo per un secondo, essendo rimasto a distanza di sicurezza.

“ Danza ?” Ripeté l’altro con tono assente, presentando un’espressione totalmente assorta.

L’istante successivo scattò nuovamente all’inseguimento del suo avversario, questa volta però rimanendo ancorato al suolo.

Scivolò all’interno della guardia di Enkidu, incollando le proprie gambe a quelle del suo avversario. Mantenendo le braccia ritirate al petto, si fermò di colpo.

Ogni suo muscolo, tranne quelli degli arti inferiori si rilassò, con grande sorpresa di Enkidu.

“ Credi che mantenere questa distanza ti renda più facile colpirmi ?” Le sue parole questa volta vennero sovrastate ed interrotte dalla voce del giapponese, sempre più meccanica.

“ Quella che tu chiami danza non è altro che secoli di arti marziali cinesi, coreane e giapponesi unite e rivoluzionate sotto la guida di molti maestri, me compreso, per raggiungere la perfezione assoluta in combattimento.”

Nonostante quella risposta gli avesse procurato una certa inquietudine, il dio ebbe da protestare.

“ Perfezione? Ti dimostrerò che anche da dove ti trovi adesso non riuscirai ad affondare un colpo, figuriamoci a …”

“ Perché continui ad evitare i miei attacchi ?” Lo interruppe un’altra volta l’uomo.

Questa volta sollevò la testa, scalando con lo sguardo la distanza che lo separava dalla divinità per fronteggiarlo con tutta la sua sicurezza e determinazione.

“ Da quel che si sa, gli esseri umani non dovrebbero essere capaci di ferire gli dèi… giusto ?”

Nell’ombra gettata da Enkidu stesso, si spalancò un agghiacciante sorriso a trentadue denti sulla faccia del giovane combattente.

Il dio sussultò al suono di quelle parole, ma non ebbe più tempo per rispondere con la ragione: nuovamente avvertì l’urgenza di evitare un attacco.

 

Masutatsu estese il braccio destro in un singolo rapido pugno, diretto verso l’alto, mentre Enkidu già procedeva a ritrarre il capo per evadere ancora una volta.

Un massiccio spostamento d’aria, ben più grande dei due combattenti, attraversò come una folata di vento l’intero campo di battaglia per poi abbattersi contro le mura sotto le tribune.

Polvere e terra si sollevarono in unisono, generando un solco a forma di imbuto profondo qualche centimetro. Con un solo colpo sembrava esser stato spazzato via il suono stesso, rendendo così impensabile che a produrlo fosse stato un braccio umano.

Quando il pulviscolo si fu diradato, le sagome dei combattenti vennero svelate per com’erano appena un secondo prima.

L’unica differenza era nel braccio di Masutatsu, esteso in avanti ma con il pugno arrestatosi ad appena un millimetro dal volto del suo sfidante. Il muscolo tremava ancora, con le vene pulsanti in superficie come in procinto di scoppiare.

“ Prima ho temporeggiato perché volevo scoprire come mai evitassi ogni mio colpo, nonostante la tua presunta immortalità.” Rivelò l’uomo in totale serenità, sollevando il mento per guardare finalmente dall’alto in basso il suo avversario.

“ Quindi immagina la mia sorpresa ora che ho scoperto la verità… ovvero che mi basta un solo dito per far sanguinare un dio !”

Un’agghiacciante rivelazione venne svelata da quelle parole, costringendo gli dèi con orrore e gli umani con stupore a concentrarsi proprio su Enkidu.

Ciò che avevano creduto per quei pochi secondi era in realtà falso: il pugno di Masutatsu si era effettivamente fermato senza collidere con niente, ciò nonostante la nocca del dito medio sporgeva come uno sperone, conficcata nel ponte nasale del dio.

In totale silenzio, ma impallidendo per la confusione, il dio sumero riuscì a ritrarre finalmente la testa. Ciò che ottenne fu che dalle lacerazioni lungo il suo setto nasale, ormai spezzato ed accartocciato verso l’interno, spruzzassero sottili fiumi di sangue.

- Allora… allora era vero …- Si domandò Enkidu, percependo troppo in ritardo qualcosa muoversi.

- Era solo un presentimento, eppure avevo ragione !!-

Masutatsu connesse un secondo pugno dopo aver afferrato il suo nemico per il pettorale dell’armatura, affondando il colpo nel viso fino a quanto potesse. Dalla bocca della creazione divina questa volta fluì una vera e propria cascata di sangue, la quale si riversò lungo il suo capo penzolante verso il basso.

Il karateka, continuando ad afferrarlo con una sola mano nonostante pesasse più del triplo di lui, sorrideva spavaldo agli spalti dell’umanità.

“ Già! Sembra che una volta rotta l’illusione, la mia gente possa finalmente sperare in un torneo più equo.”

La folla umana acclamò l’eroe con occhi lucidi, sollevando striscioni col suo nome.

 

D’altro canto, le tribune divine impazzivano nel caos.

“ Un umano che riesce a far sanguinare un dio?! Non è minimamente concepibile !” Urlò qualcuno, scandalizzato da tale blasfemia.

“ A dirla tutta …” Intervenne An, dio del cielo e presidente dell’assemblea delle divinità mesopotamiche, richiamando tutti al silenzio.

“ Nella storia infinita di innumerevoli pantheon e lotte tra dèi, semidei e umani, più volte si sente parlare di un dio che sanguina per mano umana.”

Il gigante, dalla pelle di un blu terso come il cielo illuminato da una splendente luna piena, rivolse il suo sguardo di sottecchi ad una certa dea seduta lì vicino.

“ Tuttavia un umano non riuscirebbe mai a fare tutto ciò senza un aiuto …”

Ben presto la realtà, volente o nolente, fece il giro degli anelli, diventando così un fatto noto a tutti, per quanto inspiegabile.

 

Il trio formato da Fobetore, Ammit ed il dio misterioso, se la ridevano sotto i baffi nel loro angolo ombroso.

“ Oh cielo! Oh cielo! Questo sì che riempirà le notti degli dèi di incubi !”

La Bestia Divoratrice sogghignò pigramente, per poi rivolgere uno sguardo malizioso al suo compagno rimasto in disparte: “ Sì, ma… quale è la sua Sefirot ?”

 

Le Dieci Sefirot sono tra i più potenti simboli esoterici conosciuti, collegati ed intersecati tra loro secondo l’Albero della Vita: benevolenti verso l’essere umano, rappresentano le vie che esso deve intraprendere secondo i canoni di Amore, Forza e Compassione.

Essendo fuori dal dominio degli dèi, sono l’unica arma che possa essere usata dall’umanità per fronteggiare l’estinzione.

“ La Potenza, Ghevura !”

 

Per gli dèi fu subito motivo di vergogna e orrore, mentre per gli umani rappresentò il primo vero e proprio barlume di speranza certa.

Dio poteva sanguinare. Dio poteva essere ucciso.

 

Giù nel campo di battaglia intanto l’atmosfera era pressante, schiacciata dal vociare sempre più intenso della folla.

I combattenti tuttavia non avevano versato nemmeno una goccia di sudore.

 “ Cosa combini? Ti stai arrendendo ?” Il karateka incalzò il suo avversario, ormai a peso morto e con le braccia distese fino a sfiorare il terreno.

“ Penso.”

“ Pensi ?” Ripeté, confuso.

“ Penso a chi possa avermi giocato questo brutto scherzo. Nemmeno io sapevo di essere vulnerabile ai colpi umani, eppure ho avuto un orrendo presagio nel momento in cui hai sferrato il tuo primo colpo: ho sentito l’urgenza di schivarlo, come se ne valesse della mia vita.”

“ Se pensi e parli soltanto non è un combattimento.” Rispose Masutatsu, accigliandosi. Non sapeva se essere più offeso o deluso dal comportamento del suo avversario. “ In un combattimento vero e proprio ci si deve arrabbiare, esprimendo i concetti tramite i pugni e basta !”

“ Vuoi che mi arrabbi ?” Dopo una lunga inattività, Enkidu sollevò appena il capo, degnando il suo avversario di uno sguardo diretto.

Il karateka riuscì così a riflettersi negli occhi del dio, trasparenti come un cielo limpido. Vide il proprio volto impallidire, ed un istante dopo quel riflesso si fece più grande e ravvicinato.

“ Ecco come mi arrabbio !” Ruggendo con ferocia, il gigante si era issato su con un colpo di reni, schiantando la propria testa contro quella dell’uomo.

Con quel semplice movimento riuscì a sollevare il karateka da terra di mezzo metro.

 

“ Incredibile! Masutatsu Oyama incassa il primo colpo dall’inizio dello scontro !” Strepitò Adramelech, seguito da un grido d’orrore della folla umana.

“ Sembra che due colpi inflitti ad Enkidu, per quanto sorprendenti, non siano stati abbastanza da fermarlo !“ Concordò St. Peter, ascoltando la folla divina esultare.

 

“ Se colpisci tu, esultano te e ripudiano me… e solo quando colpisco io osano lodarmi come se fossi un loro simile …” Enkidu non perse tempo, afferrando per le spalle l’umano mentre ancora si trovava in volo.

Bastarono le sue due mani per inglobargli quasi totalmente il corpo.

“ Tutta questa ipocrisia… ecco cosa mi fa arrabbiare !” Esplodendo nuovamente in un impeto di rabbia imprevedibile come prima, il dio sumero puntò il suo avversario con le proprie corna, affondandole verso il suo petto.

Mas, già lucido per un soffio dopo il precedente attacco a sorpresa, dovette fare appello a tutte le sue forze per non rimanere tramortito un secondo di più. Testimone l’adrenalina ed una viscerale paura della morte, causata dalla visione di due corna affilate in avvicinamento, portò le braccia in avanti. Le maniche del suo gi si squarciarono quando le più letali armi della creatura lo raggiunsero, scavando persino nei suoi avambracci. Una volta che ebbero appena sfiorato il gomito, però, smisero di affondare in profondità: l’uomo era riuscito a bloccare il loro percorso afferrando il cranio di Enkidu.

Il dio tuttavia non aveva completato la sua furia, dando anzi appena inizio al vero attacco.

Inclinò il capo verso il basso, facendo cozzare violentemente l’avversario al suolo, ormai involontariamente schiavo del suo stesso blocco. Successivamente mosse un passo in avanti.

Il karateka ritrasse le gambe, evitando che un piede di Enkidu gliele calpestasse. Comprese troppo tardi che l’intento dell’avversario non fosse di schiacciarlo, più precisamente quando iniziò a venir trascinato all’indietro. Un passo dopo l’altro, dapprima lentamente e poi sempre con più foga, il dio sfruttò ogni muscolo del suo corpo per scagliarsi in una carica travolgente.

Il campo visivo dell’uomo si  restrinse alle corna davanti a sé che minacciavano di perforarlo sempre di più, mentre la sua schiena veniva usata per scavare un solco nella pietra. La veste venne lacerata, mentre i muscoli dorsali iniziavano a squarciarsi, percossi da roccia durissima.

La velocità della carica di Enkidu registrata dall’esterno, ad opera degli addetti al broadcast dello scontro, fu di circa duecentosettanta chilometri orari.

 

“ È la Carica del Toro Celeste …” Esclamò un generale sumero, tremando per la sorpresa. Molti altri soldati come lui lì attorno sembrarono riconoscere ciò di cui stesse parlando, ed annuirono sottovoce.

“ La famosa tecnica che Enkidu ha appreso sconfiggendo il Toro Celeste, la creatura mandata dagli dèi per ucciderlo !”

Nella leggenda il Toro Celeste era una furia omicida capace solo di lasciarsi alle spalle morte e distruzione, ovvero proprio ciò che la tecnica di Enkidu stava riproponendo nella realtà, terrorizzando chiunque nella sua ferocia.

“ Un toro, eh ?” Sorprendentemente, una risata di scherno si sollevò per rispondere a quelle voci preoccupate.

Bruce Lee, senza aver mai fatto sparire il proprio sorriso dal viso, indicò l’arena, invitando i suoi simili a prestare maggiore attenzione.

“ Anche se non l’ho mai visto combattere dal vivo, le voci su Masutatsu Oyama sono famose in tutto il mondo… anche uno sciocco, infatti, sa che ha avuto a che fare con i tori fino alla sua morte !”

 

Perfettamente a tempo con le parole dell’arista marziale, Mas Oyama spalancò i suoi occhi.

Il dolore venne rapidamente soppresso, in quanto il suo cervello aveva iniziato a processare più veloce della carica di Enkidu i precisi segnali da inviare al corpo.

In meno di un secondo e venti decimi avrebbe raggiunto la parete del campo di battaglia, e a quella velocità si sarebbe senza dubbio trasformato in una poltiglia sanguinante. Non c’era un secondo da perdere.

Avendo le gambe libere ed ancora sane, le sollevò unite ben sopra il proprio corpo. Dopo averle abbassate sulle corna di Enkidu, aveva ormai tutti e quattro i suoi arti aggrappati ad esse.

Il muro era quanto più vicino, ma il dio non ebbe modo di vedere ciò che gli si parava di fronte: questo perché quando alzò lo sguardo non trovò più il suo avversario.

Sfuggendo dal suo campo visivo, infatti, Masutatsu si era issato con tutti e quattro gli arti sopra la sua testa, ricurvo in avanti.

Procedendo per inerzia in avanti, ed oltre la schiena dell’avversario, ritrasse le mani e trasferì tutta la propria forza nelle gambe. Ciò che accadde fu che i trecento chili di Enkidu vennero sollevati con facilità grazie alla sua stessa forza, ed in un istante il dio si ritrovò a librare in aria con il capo rivolto al cielo.

- Cosa… ?- Riuscì a domandarsi, perdendo l’accelerazione. Si soffermò sullo sguardo disgustato degli dèi suoi simili.

Prima che potesse formulare un altro pensiero, Masutatsu terminò la sua capriola distendendo le gambe verso il basso, abbattendo a piena velocità il proprio avversario contro il pavimento.

La terra tremò, così violentemente che una ragnatela di crepe si diramò lungo tutto quel fianco dell’arena, risalendo persino sulla parete lì di fianco.

 

Il karateka riatterrò sulle punte, osservando il corpo disteso del proprio nemico, ora immobile ed impossibilitato a mostrarsi la faccia.

“ Che rischio !” Si asciugò il sudore dalla fronte con un sospiro di sollievo. La presa delle corna con le gambe era stata una mossa inaspettata anche per lui, facendolo meravigliare di cosa il suo cervello potesse proporgli nei momenti di maggiore pericolo.

 

I ricordi di circa un decennio della sua vita si palesarono ironicamente proprio dopo aver evitato la morte: appartenevano al momento in cui, dopo aver sfidato e battuto tutti i maestri di arti marziali del Giappone, aveva compreso che qualcosa più forte dell’uomo poteva solo essere l’animale.

Cinquantadue, questo era stato il numero di tori uccisi a mani nude senza mai perdere, perché altrimenti ciò avrebbe significato la sua morte. Quando addirittura ne ebbe uccisi ben tre con un singolo pugno al centro della testa, si guadagnò anche il titolo di Mano Divina.

 

Gli artisti marziali di tutto il mondo intanto urlavano al cielo con i pugni sollevati, lodando il combattente come più forte degli dèi per la sua tecnica, velocità e forza.

“ Queste sì che possono definirsi arti marziali capaci di sconfiggere gli dèi.” Annuì soddisfatto dallo spettacolo il Kensei Miyamoto, ritornando a rilassarsi sulla sedia dopo tutta la tensione accumulata.

“ La battaglia però non è ancora finita …” Presagì, ed in quello stesso istante il boato di esaltazione si interruppe.

 

“ Io …” La mano di Enkidu si era poggiata sul terreno, mentre con la spalla iniziava a farsi forza per tentare di rialzarsi.

“ Non posso perdere qui.”

La figura di Masumatsu incombette su di lui come l’ombra della morte stessa, con gli occhi accesi dalla bramosia di continuare a combattere.

Sollevò il piede destro per poi pestarlo sulla nuca del dio, producendo un raccapricciante schioppo che echeggiò nell’aria.

“ Devo vincere …” Continuò Enkidu, apparentemente insensibile al colpo subito.

La sua schiena tremò appena mentre, grazie all’aiuto dell’altra mano puntata per terra, cercò di raddrizzarsi.

-… ed andarmene di qui !-

“ Urrryah !!” Gridò allora il karateka, decidendo di imprimere ancora più forza e peso nel prossimo colpo, approfittando della posizione indifesa del nemico: piegando il ginocchio ed avvitando l’intero corpo verso il basso, abbatté un fragoroso pugno discendente dritto sulla sua tempia.

A quel punto il dio tentennò, immobilizzandosi.

Un copioso rivolo di sangue gli scivolò lungo tutta la fronte, accumulandosi su di un sopracciglio prima di gocciolare fino al mento.

 - Voglio andarmene di qui. Non ce la faccio più …- Nella sua mente rimbombavano solo queste parole, assieme all’eco dei colpi subiti.

Riprese il suo tentativo di rialzarsi, imperterrito.

 

“ Non è possibile! Quel pugno è capace di uccidere un toro, Enkidu non dovrebbe nemmeno più nemmeno essere vivo dopo tutti quei colpi !” Strillò atterrito qualche umano, rabbrividendo per quello scenario così raccapricciante.

“ Enkidu è un guerriero leggendario.” Lo ammonì con voce di sapienza una donna.

“ Guerriero?! Semmai una bestia !” Rispose quello.

A quelle parole la donna contrasse il volto in un’espressione stizzita, carica di sofferenza e rabbia.

“ Lui è più di questo.”

Vestiva un lungo vestito blu, con motivi ad onde ricamati in pizzo. I lunghi capelli scuri ricadevano sulle sue spalle del colore della terra rossa, appena incoronati da un cerchietto di campanelle.

“ Quando venne al mondo per mano degli dèi era davvero una bestia, per tanto viveva con i suoi simili in completa armonia: beveva dai ruscelli, brucava dalle praterie e liberava le prede dai cacciatori… tuttavia, se noi abitanti di Uruk volevamo davvero essere salvati da quel dono divino, avremmo dovuto almeno educarlo ad essere più simile a noi.” Spiegò allora Shamhat, la sacerdotessa di Ishtar, primo essere umano che avesse mai conosciuto Enkidu.

La sua voce risuonava sempre più triste, rievocando quelle reminescenze infelici.

“ Io, in quanto sacerdotessa, fui l’incaricata: per sette giorni fummo insieme, gli insegnai i comportamenti degli uomini e persino quali abiti indossare… in quel lasso di tempo Enkidu aveva imparato a comportarsi esattamente come un uomo completamente civilizzato, nonostante qualche giorno prima non sapesse nulla di tutto ciò.”

“ Come dici? In una sola settimana ?!”

“ Esatto, e quando combatté con il nostro re, lo fece alla maniera dei sumeri. Ciò che voglio dire è che in Enkidu coesiste la furbizia dell’uomo con l’istinto animale, assieme ad una forza che è figlia di entrambe queste sue nature… oltre ovviamente alla capacità di adattarsi rapidamente a qualsiasi imprevisto, anche il più drastico. Questa abilità si chiama Naked Ape Intuition.”

Terminate quelle parola, Shamhat sollevò il capo per svelare un volto bagnato da amare lacrime di dolore.

“ E per quanto io possa essere stata una sacerdotessa, adesso vedo la mia vita in pericolo per via degli dèi… o meglio, per mano di Enkidu, il nostro salvatore… colui a cui ho insegnato tutto.”

“ È… vero !” Una voce cavernosa, ma rotta anch’essa dal pianto, la sostenne.

La sacerdotessa allora si voltò, trovandosi di fronte l’intera schiera di soldati di Uruk in lacrime.

Poco prima erano festosi per tutti i colpi andati a segno da Masutatsu, così come gli artisti marziali, eppure ora le loro facce erano più adatte ad funerale. Piangevano, gridavano, si artigliavano i pugni o li sbattevano violentemente contro gli spalti.

La loro disperazione era palpabile, al punto che non parevano nemmeno più interessati a chi dovesse vincere. In cuor loro, conoscevano solo cosa avevano perso.

“ Enkidu… Enkidu, tu …” Fece il primo di loro, prendendo fiato.

“ … sei un traditore! La vergogna di Uruk !”

Altri lo seguirono, questa volta consapevoli che niente li avrebbe fermati dall’esprimere tutta la loro tristezza. Stavano assistendo non solo alla disgrazia dell’umanità, ma anche al loro salvatore combattere con tenacia per porre fine alla loro vita.

“ Non sei degno di combattere con l’ardore di un guerriero di Uruk !”

“ Non meritavi la nostra amicizia !”

“ Io chiamai persino mio figlio col tuo nome, tanta era la mia adorazione! Come mi staresti ripagando ?!”

Soltanto le loro urla bastarono a sovrastare qualsiasi altro suono nell’Arena del Valhalla, raggiungendo inevitabilmente anche gli dèi.

Ishtar, seduta in disparte persino tra i suoi simili, accavallò le gambe e rivolse alla razza umana uno sguardo disgustato.

 

“ Stai ancora pensando, Enkidu ?” Masutatsu si rivolse nuovamente al suo avversario dopo un lungo silenzio. “ Pensi per caso a quanto sia inutile vivere, ora che ti vessano sia umani che dèi ?”

Le sue dure parole vennero udite nonostante le urla dagli spalti imperversassero nell’aria.

“ Pensavi forse che, se avessi vinto, avresti guadagnato la riconoscenza ed il rispetto dei tuoi… nuovi compagni? Invece eccoti qui: tu ora hai solo il nulla.”

Il karateka avanzò lentamente verso il suo nemico, ancora costretto in ginocchio ed incapacitato a muovere un muscolo di più. Arrivato ormai quasi a poterlo sfiorare con le gambe, inclinò la testa verso il basso, volendo raggiungere la sua per guardarlo di nuovo negli occhi.

“ Hai perso tutto, grande guerriero.” Sussurrò nelle sue orecchie, mentre nei propri occhi brillava una riflesso di pura violenza.

In quel momento, custodito dalla segretezza dello scontro, Mas Oyama si era trasformato in una volgare rappresentazione di distruzione e potenza, capace solo di schiacciare il proprio avversario con qualsiasi mezzo avesse a disposizione.

“ Almeno io mi sono arreso a questa evidenza …” Fu però la risposta del guerriero sumero, ribaltando le aspettative del karateka.

Enkidu a quel punto sollevò il capo, fronteggiando lo sguardo assassino dell’altro con un sorriso compiaciuto.

“ Tu invece sei sicuro di aver accettato che, per quanto possano lodarti, non avrai mai più indietro ciò che hai perso? Saresti addirittura disposto ad accettarlo in punto di morte? Non credo proprio… grande guerriero.”

 Quelle frasi di scherno furono il dito premuto sul grilletto: ogni barlume di controllo in Masutatsu crollò in frantumi, ed ogni luce nei suoi occhi si spense di colpo.

 

- COME OSI ?!- Il karateka sollevò immediatamente la gamba destra, puntandola verso il cielo prima di colpire il suo avversario senza più badare al rispetto della sua condizione.

Il calcio si prospettava essere più forte di qualsiasi colpo inferto in precedenza, e forse anche nella sua intera e già conclusa vita. Accecato però dalla propria potenza, si dimenticò del dettaglio più importante a cui aveva smesso di far caso: gli occhi di Enkidu. Questi, ora inclinati in un’espressione ridente, sparirono presto dalla sua visuale, così come l’intero corpo della bestia.

Avendo costretto l’avversario proprio nel momento più adeguato, il guerriero sumero seppe con facilità prevedere ogni sua singola mossa. Di conseguenza si rialzò con le forze recuperate, e sollevando anch’egli la gamba intercettò quella di Mas Oyama con un pesante calcio alto.

Le carni dei combattenti, temprati da innumerevoli e sovrumane battaglie, cozzarono producendo un fragore quasi metallico, come se ad infrangersi l’un l’altro fossero state delle corazze.

 

“ I calci di Enkidu e Masutatsu si sono incrociati !” Strillarono i presentatori all’unisono, atterriti da quella manifestazione di potere tanto quanto il pubblico.

Per un mero secondo, capace di apparire come un lasso di tempo infinito agli occhi dei presenti, le gambe degli sfidanti rimasero sospese in aria senza apparentemente muoversi.

Infine, terminata l’attesa, qualcosa si spostò: legamenti, ossa e muscoli.

La gamba di Enkidu penetrò con forza nella rotula del karateka, facendola esplodere in una poltiglia sanguinolenta nell’aria.

Il corpo dell’uomo non era stato in grado di sostenere l’immenso peso e la brutalità del colpo avversario, ed avendo incontrato il suo limite, inevitabilmente aveva ceduto.

Alcuni umani strillarono dall’orrore, mentre altri, consapevoli di cosa comportasse quel colpo al loro rappresentante, non trovarono neppure il coraggio di fiatare.

“ Siamo finiti …”

“ No. Masutatsu lo aveva previsto …” Mormorò Miyamoto Musashi, mai stato così serio e concentrato in vita sua.

 

Ciò che nessuno si sarebbe aspettato successe così velocemente da durare quanto un batter d’occhio.

La parte inferiore della gamba di Masutatsu, ormai rotta nella giuntura principale e completamente dislocata, si contorse verso il basso in una posizione umanamente irraggiungibile. Così facendo compiette un arco sopra la testa di Enkidu, calando come una falce su di un bersaglio già prefissato da tempo: una delle sue corna.

La Mano Divina sogghignò nonostante il dolore, contento più che mai di non essersi davvero fatto sopraffare dall’ira quando il suo calcio riuscì a spezzare il corno destro.

Questo si ruppe alla base, a causa dei precedenti colpi inferti con il segreto scopo di indebolirlo, e venne scagliato verso il basso. Lì incontrò solo la spalla scoperta di Enkidu, conficcandosi nella carne in tutta la sua affilatezza. Fu allora che per la prima volta al guerriero sumero venne strappato un atroce grido di dolore.

In preda allo shock la sua mente venne tempestata da fin troppi pensieri.

- Come è possibile? Quando? Con quale… forza ?!-

Mentre ancora in preda allo shock cercava di reagire, l’artista marziale era atterrato davanti a lui su di una sola gamba.

Rapidamente Mas Oyama afferrò entrambe le corna dell’avversario, quella sulla spalla destra e quella sinistra sulla testa, per poi girarsi di centoottanta gradi e scagliarlo con un urlo selvaggio verso il basso.

“ OSSU !”

Ciò che ne seguì fu paragonabile ad un fulmine che si schiantò sul pavimento del campo di battaglia, aprendo una voragine ancor più grande tra le crepe e facendo tremare pericolosamente le gigantesche mura circolari.

 

Il kiai, ovvero il grido usato durante l’attacco di Masutatsu, riecheggiava nell’aria coprendo persino il fragore della pietra infranta. Quell’urlo di battaglia, appartenente all’uomo forgiato dalle arti marziali, continuò a risalire verso il cielo, ascendendo nella gloria.

Non ci volle molto prima che gli umani, dapprima troppo meravigliati per muoversi, lo imitarono in coro.

“ Ossu! Ossu! Ossu! Ossu !” Gridava, cantava e gioiva l’umanità.

Il colpo decisivo agli dèi era stato inflitto.

Il karateka si ritrovò così al di sotto del cielo, ma ben più in alto di quanto avesse mai sperato di essere. Inorgoglito, gonfiò il petto, per poi regalare alla sua folla un sorriso smagliante.

 

Però, proprio come quello precedentemente mostrato da Enkidu, si trattava di un falso sorriso.


Angolo Autore:
Welcome back! 
Spero che la storia vi stia piacendo! Se è così sono proprio curioso di sentire i vostri pareri ora che l'azione è cominciata!
Intanto devo ammettere che se non fosse stato per la sezione reddit che mi ha incoraggiato a pubblicare, questa storia sarebbe stata resa pubblica chissà quando. 
Dopodiché volevo parlare di un po' di dettagli: il motivo alla base dello scontro tra Mas ed Enkidu è essenzialmente, è proprio quello di far affrontare un Ammazza-Tori contro una creatura bestiale dalle fatezze taurine. Per l'esattezza ogni volta che penso ad Enkidu non riesco a non pensare a Kaido di One Piece, anche se molto più basso... mentre per Mas ed il suo aspetto da karateka trasandato mi sono ispirato al film romanzato sulla sua vita: Fighter in the Wind.
Ah, e poi come tralasciare il discorso delle Sefirot. Sì, a differenza dell'opera originale, non volevo utilizzare le Valchirie ed il concetto di Volund. So che per adesso sembra molto campato per aria, ma diciamo che preferirei non vi focalizzaste su questi aspetti di trama ora come ora, perché non riceverete a breve una qualche risposta. E ovviamente perdonatemi se vi sembra una schifezza come concept, perché posso comprenderlo!
Bene, ci si vede domani con il prossimo capitolo! Annunciò già che vedremo il passato dei combattenti...
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Chapter 3: The Pain of a Past Sunset ***


Chapter 3: The Pain of a Past Sunset

1946, Giappone, Tokyo

Quella era davvero una notte senza dio.

Tra le strade più impoverite della capitale giapponese, facendosi largo tra bordelli e ambulanti, un uomo barcollava in cerca di un appoggio. Il liquore ancora impregnava i suoi baffi, così tanto da fargli domandare se davvero fosse riuscito a pagarlo tutto.

Gli schiamazzi dei sobborghi parevano ululati e lo spaventavano, facendolo rimbalzare tra un muro e l’altro in continuazione, trovando raramente passanti con cui urtare. Sfortunatamente, due di questi furono molto più grandi ed incassarono il colpo, mente lui cadde rovinosamente nella poltiglia che ricopriva i ciottoli. Aveva piovuto, e l’acqua marrone della pozzanghera gli schizzò sul volto e sui vestiti.

“ Oh my fucking god, Johnny! This drunk-ass Jap looks like he’s looking for a fight !” Un soldato americano lo sollevò da terra con aggressività, ma il suo compagno lo spinse via scoppiando a ridere.

“ No way, Stanley! I think that he’s looking for a toilet to throw up like a tramp !”

Masutatsu si sentì così flaccido da non potersi nemmeno rialzare, mentre quel mondo offuscato continuava a bruciargli la gola e la testa. Persino quando gli uomini lo ebbero chiuso all’angolo, strattonandolo contro il muro e schiaffeggiandogli la faccia, non riuscì a muovere un muscolo.

“ The war is over, little samurai! And your ridicolous country has lost !” Gli gridò in faccia uno. Poi provò ad accennare quel poco di giapponese che sapeva: “ Se mi fai incazzare… BOOM !” Mimò il gesto di un’esplosione con le mani.

“ Ti sganciamo un’altra bomba in testa! Bwahahahaha !!”

In quel momento nella testa del giapponese nacque, anzi rinacque, anzi esplose, un tremendo sogno di morte e distruzione. Non c’era alcuna sconfitta peggiore di quella desolazione, della tabula rasa accarezzata da un vento caldo, come il manto rosso di un dio della morte che ora lo tormentava.

Sentì sulla sua pelle il sospiro di un uomo oltre la tomba che lo intimava a combattere. Volevano che si ribellasse, che riguadagnasse l’onore del Giappone.

“ Io non ho perso nessuna guerra …” I soldati americani si stupirono quando gli venne risposto quel sussurro, al punto ad non riuscire a credere che davvero quell’uomo avesse avuto il coraggio di parlare.

Istintivamente si prepararono a combattere, ma quando anche solo ebbero finito di formulare quel pensiero, dei pugni carichi di tutto l’odio che un essere umano potesse generare erano già affondati nei loro volti.

“ IO NON HO PERSO NESSUNA GUERRA !!”

 

1946, qualche mese dopo, Giappone, Prefettura di Yamanashi

Il giovane ragazzo si trovava al centro della strada di campagna, completamente da solo.

Lui contro il mondo. L’uomo contro la natura.

Nonostante tutto ciò che avesse passato nella sua vita, tra violenza e fatica, bastò la visione del Monte Minobu a scaraventarlo immaginariamente indietro di chilometri e chilometri.

Gli sembrò di starsi allontanando, diventando sempre più piccolo in confronto al colle verdeggiante e ricoperto di chiazze nevose.

Si schiaffeggiò le guance con decisione, cercando di sopprimere quella sensazione opprimente.

- No, non fuggirò !- Pensò, sorridendo nervosamente.

-D’altronde nessun uomo scapperebbe mai dalla propria casa. -

Iniziò così la solitaria scalata, affondando i piedi nudi nella terra resa fredda e bagnata dalla prima neve. Sulle sue spalle il peso di un gigantesco zaino non gli gravava affatto, impedendogli di avventurarsi tra gli angusti passaggi, superando torrenti e scivolando tra i pendii.

Cercava una casa, chiedendosi costantemente se l’avrebbe trovata vicino ad una cascata, o ad una tana di lepri. Nella selvaggia ed incontaminata sacralità di quel monte, era certo che qualcuno prima di lui aveva trovato rifugio.

Ripensò al libro incastrato nel gi bianco come la neve sulla quale camminava, a contatto con il suo cuore: Il Libro dei Cinque Anelli. Il suo scrittore, Miyamoto Musashi, aveva percorso quegli stessi sentieri ben trecento anni prima mentre lo scriveva per la prima volta.

Il freddo pungeva sulla sua pelle, dolendo particolarmente sulle cicatrici guadagnate recentemente e distraendolo dai suoi sogni di gloria. Riportato alla realtà, proseguì con sguardo sempre più cupo nel suo cammino.

Le ferite spuntate sul suo corpo nei precedenti mesi erano motivo di vergogna, ma nessuno con cui ne aveva parlato poteva comprendere cosa per lui rappresentassero.

Molti artisti marziali, ciò che lui aspirava ad essere,  consideravano motivo di vergogna esclusivamente le ferite riportate dalle sconfitte.

- Cosa ne sanno però, della vergogna provata nella vittoria ?- Sempre più sprezzante avanzò tra il vento gelido che scivolava come una valanga giù per la montagna.

 

I ricordi di gloria con cui si era sollazzato per troppo tempo erano finiti, venendo sostituiti solo da una deplorevole esistenza.

Notti annegate nell’alcool, trascorse a sfogare la sua rabbia contro le pattuglie americane da poco sbarcate nel Giappone, sconfitto in guerra. A lui non importava nulla della guerra: il Giappone non era la sua terra, gli americani non erano i suoi nemici, eppure quel mondo meritava di assaggiare i suoi pugni quanto un qualsiasi avversario affrontato.

 

Lasciò cadere pesantemente lo zaino su di un masso leggermente soprelevato rispetto alla neve. Non osava più sorridere, ora che era arrivato nel posto dove si sarebbe stabilito.

Lento ed inesorabile si adoperò per costruire una capanna, scegliendo il fianco di un’altura per ripararsi dal vento. Le ultime rondini volavano verso il cielo vermiglio, scappando ora che la nevicata si era conclusa.

La freddezza e la durezza della pietra e del legno fu tutto ciò che entrava a contatto con le mani di Masutatsu, e così sarebbe stato per tutto il periodo della sua permanenza.

Tre anni. Aveva scelto di restare lì per tre anni, quindi forse si sarebbe dovuto adattare in fretta a quelle condizioni. Il freddo non lo spaventava, la solitudine non lo intristiva, e di animali feroci avrebbe potuto sconfiggerne dall’alba al tramonto.

Quello era l’allenamento da eremita di Miyamoto Musashi, il più grande spadaccino esistito,  grazie al quale era potuto ascendere a leggenda ed ispirare il mondo dei combattenti.

Lui sarebbe voluto diventare tutto ciò, ed era pronto ad accogliere qualsiasi esperienza e conoscenza la natura gli avrebbe riservato.

 

- Ma allora perché …?-

Piangeva.

Aveva smesso di lavorare. Di colpo non voleva più una capanna, né seguire il Libro dei Cinque Anelli, o una vita da leggenda. Il freddo gli doleva ovunque, persino nel cuore. Soprattutto nella cicatrice del suo cuore.

Con un impeto di rabbia si strappò di dosso il gi, lanciandolo nella neve. Bianco su bianco.

Calpestò il terreno, le rocce, i rami, saltò sugli alberi e lì abbatté i colpi forgiati da anni di allenamenti. Gli immobili avversari non si dimostrarono degni di una vera sfida, perché caddero al suolo con il fragore di un’esplosione.

Le foglie cadute erano bossoli di proiettili. Il ruscello d’acqua che iniziava a ghiacciarsi ricordava un fiume di sangue che colava da una pila di cadaveri ammassati.

Non c’era più neve attorno a Masutatsu, bensì ossa e teschi, per avvolgerlo in un silenzioso inferno bianco.

 

Il ricordo che da tempo cercava di sigillare si liberò come un animale incattivito dal suo cuore, squarciandogli il petto per uscire.

Lui era ancora Choi Bae-Dal, un ragazzo coreano arruolatosi nella leva giapponese per rispondere agli invasori di una terra sconosciuta. Non gli era mai interessato nulla del mondo, per questo ignorava il significato della guerra in cui sapeva la sua madrepatria ed il Giappone stessero combattendo.

In tutta la sua adolescenza si era concentrato solo sul concetto di forza. Le arti marziali erano per lui una meravigliosa espressione di eleganza e potenza. Le aveva conosciute sin da piccolo, allenandosi con un amico di famiglia, e nella sua città natale era riconosciuto come uno dei giovani più forti.

Orgoglioso della forza che però continuava a desiderare di accrescere, si era incuriosito della forza di cui vantavano i soldati giapponesi, ed il sogno di diventare uno di loro si era finalmente realizzato.

Ogni giorno si sedeva in mensa con i suoi camerati, anch’essi coreani. Venivano tenuti in disparte dagli altri soldati, a causa di una freddezza solita del razzismo e vagamente mascherata da confuse gerarchie inventate di sana piante per tenerli lontani. Speravano che man mano la situazione sarebbe migliorata, e per dimostrare ai giapponesi di essere utili quanto loro, sarebbero dovuti diventare valorosi ed abili nell’arte della guerra.

Una mattina però i soliti chiacchiericci assonnati vennero interrotti dall’arrivo di un generale. Questo si avvicinò al loro tavolo, e dopo un’occhiata di ispezione, poggiò la mano sulla spalla di un amico di Bae-Dal.

Gli disse, per quanto riuscivano a comprendere di giapponese, che era stato promosso a pilota.

Felicità ed un po’ di invidia accompagnarono la colazione, anche se tuttavia tra coreani si sentivano un po’ tutti fieri del progresso di uno di loro. In quel momento non avrebbero desiderato altro che diventare il più presto possibile piloti.

La sera stessa, il compagno promosso non si presentò.

Passarono i giorni, e sempre più leve coreane divennero piloti durante la prima colazione. Tutti loro non videro più il tavolo per l’ora di cena.

Choi era rimasto solo.

Si ritrovò a fissare il suo piatto con sguardo sperduto, illuminato dalla luce di una lampada posta sopra la sua testa. L’ombra proiettata sul tavolo era solitaria, distendendosi tra i posti dove aveva parlato di sogni e speranze con altri suoi simili.

Tanti di loro avevano desiderato la forza, altri la fama, ed ultimamente sempre di più si auguravano solo che la guerra finisse per tornare dalle loro famiglie con una paga adeguata.

Lui non sapeva se avessero trovato tutto questo.

Ciò di cui era a conoscenza, però, era una parola che aveva iniziato a risuonare tra le risate di scherno rivolte dai giapponesi a lui ed ai suoi amici durante la sentenza del mattino.

“ Kamikaze.”

 

Il pugno di Masutatsu fece esplodere il grosso sasso come i sogni di gloria inseguiti in passato da lui e da tutti i suoi compagni. Nell’aria si dispersero frammenti di roccia e lacrime sgorgate dai suoi occhi rossi.

Nulla gli dava conferma che quella strada lo avrebbe portato verso il successo, oppure solo verso l’ennesima illusione.

Attratto dalla forza era destinato a ferirsi sempre più, così pregava che la prossima ferita gli avrebbe fatto dimenticare il più grande dolore provato in vita sua.

  

 

Mesopotamia, circa 2500 a.C

La luna sorgeva sulla città di Uruk, illuminandola nella sua distruzione.

Mai una guerra aveva scalfito le sue mura, distrutto le strade ed abbattuto le abitazioni come ciò che era avvenuto quel giorno. Sorprendentemente però, non c’era stato nessuno scontro tra i sumeri ed un esercito straniero.

Comunemente il termine più adatto, e che col passare degli anni i cittadini utilizzarono per riferirsi a quell’evento, fu “rissa”.

L’eco di pugni che cozzavano contro muscoli ed ossa,e  di  corpi scaraventati contro le mura fino a farle crollare, cessò all’improvviso. Il fracasso era stato una costante di quell’intero giorno, a partire dall’alba.

Per gli abitanti di Uruk, i quali l’avevano sentito crescere d’intensità, al riparo nel tempio o nel palazzo reale, fu un avvenimento tanto atteso quanto sorprendente.

Con timore si riversarono sulle mura più alte della città, ovvero dove lo scontro aveva avuto fine.

Lì trovarono due uomini ricoperti di ferite, intenti a guardarsi seduti l’uno di fronte a l’altro. Ridevano e si parlavano, circondati da uno stuolo di ancelle e curatori intenti a fasciarli o ad ungerli con unguenti.

Indisturbati, quei colossi capaci di far impallidire con la sola presenza tutti gli abitanti, avevano la stessa espressione di due amici che si parlano riportando alla memoria ricordi di giovinezza.

“ Quindi gli dèi ti hanno creato per darmi una lezione ed insegnarmi ad essere un sovrano più giusto? Ma pensa te !” Sbottò l’uomo indossante un’armatura dorata quasi del tutto ridotta a brandelli, per poi scoppiare a ridere divertito dalla sua stessa constatazione.

“ Come se io sapessi come si dovrebbe comportare un sovrano …” Rispose autocritico l’altro uomo.

“ Ammetto che fino ad ora non mi ero reso conto di quanto insensato fosse questo piano.” Di corporatura, stazza e persino nella voce e nel viso pareva la copia dell’altro, se non l’avesse distinto la sua umile toga sbrindellata.

“ No.” Il sovrano sollevò la mano per zittirlo, mostrandosi sorridente. “ Anche io mi sono appena reso conto di quanto abbia sbagliato fin’ora. Se davvero né tu né io sappiamo come bisogna essere un giusto sovrano… vuol dire che lo impareremo insieme !”

Rise. Gilgamesh, il più grande sovrano dell’impero sumero e dominatore della Mesopotamia rise con la gioia nel cuore per la prima volta in vita sua.

Enkidu chinò il capo con riverenza, avvertendo per la prima volta qualcosa che non aveva mai potuto apprendere tra gli animali.

- Non come un leone verso il capobranco… ciò che provo per quest’uomo è qualcosa di completamente diverso. È affetto, amore, amicizia, quanto più di positivo l’uomo e l’animale possa sperimentare nel proprio cuore …-

Nati per essere rivali, i due giganti divennero compagni d’armi e fratelli al calare delle tenebre.

 

Passarono gli anni, soltanto per far ritrovare Enkidu e Gilgamesh ricoperti di sangue e feriti proprio come al loro primo incontro.

“ Questo è stato lo scontro più arduo della mia vita !” Il re dorato si appoggiò al fianco della montagna, slacciandosi la pesante armatura che ricadde al suolo con un boato. Il frastuono riecheggiò nel vuoto: dove prima c’era una foresta, ora era rimasta solo una valle arida spoglia di alberi e vegetazione.

“ Ed è stato tutto per il tuo popolo. L’avresti mai detto ?” Sospirando affaticato, Enkidu si lasciò scivolare per terra accanto a lui, rivolgendogli un sorriso un po’ provocatorio.

L’amico sorrise, sedendosi accanto a lui mentre riprendeva fiato.

Dinnanzi ai due, i quali poggiavano le loro schiene sulla Montagna degli Dèi, c’era solo la rovina della Foresta dei Cedri. Alberi su alberi, accatastati in così grande quantità da formare una catena montuosa che si perdeva all’orizzonte, restavano l’unica testimonianza di quella grande foresta.

Dall’altra parte, un cadavere mostruoso e decapitato giaceva al centro di un cratere liquefatto, dove la pietra si era sciolta in una sostanza nera.

Gilgamesh si riteneva davvero soddisfatto, proprio perché la loro missione era stata portata a termine e da allora Uruk non avrebbe più sofferto della mancanza di legna.

“ Gli dèi non avrebbero dovuto dichiarare loro gli alberi sulla terra che noi uomini abbiamo combattuto per possedere.” Sentenziò duramente, rivolgendo lo sguardo alla montagna che incombeva su tutto.

“ Non dirlo qui. Rischi di inimicarteli, e non è una scelta saggia dopo ciò che abbiamo appena fatto.”

“ Anche se fosse? Sono pronto ad affrontare un dio, proprio come ho appena fatto con il mostro guardiano Khubaba, che ora qui giace! Lo faremo insieme, Enkidu !”

“ Gilgamesh.” Il suo compagno stavolta non lo assecondò nel suo entusiasmo, e preferì rimanere serio.

“ Siamo entrambi più dèi che uomini: tua madre è una dea, ed io sono loro figlio diretto, creato ad immagine e somiglianza di un uomo. Dobbiamo evitare di combattere contro chi ci ha creato… è solo merito loro se possiamo condurre la nostra vita da mortali.”

Un tono preoccupato aleggiava sulla stanchezza del guerriero, il quale tuttavia non riusciva a sottrarsi dal peso delle sue palpebre sui suoi occhi.

Gilgamesh storse il naso: “ Ho capito: hai sonno e per questo dici una marea di baggianate !”

“ Non cercare sempre la scusa per avere ragione !” Ribatté Enkidu, per poi ritenersi troppo esausto per litigare.

Il compagno gli posò una mano sulla spalla, rassicurandolo finalmente con un sorriso sereno.

“ Dormiamo.” Mai invito sarebbe risuonato così dolce dopo lo scontro leggendario dei due uomini.

Scivolarono entrambi nel sonno come dei bambini, non curanti dell’ombra proiettata dalla Montagna degli Dèi sul loro destino.

 

Poco più tardi Gilgamesh si svegliò. Le tenebre inghiottivano la landa, tuttavia la notte era mite.

Niente più del suo corpo doleva, nonostante le ferite riportate contro il demone.

Non riuscì a trovare una spiegazione a tutto ciò, tuttavia avvertì l’urgenza di alzarsi. Si separò dalla spalla del suo amico, ancora immerso nel sonno, per poi incamminarsi verso le cataste di legna.

“ Re dei Re …” Una voce femminile lo richiamò con giocosa riverenza.

Il sovrano trovò così la figura di una donna, in agguato nell’oscurità come un predatore. Nonostante il buio, fu capace di individuarla all’istante a causa di una misteriosa aura luminosa da lei emanata.

Gilgamesh era figlio della dea Ninsun, dunque era sempre stato capace di individuare cosa appartenesse al mondo degli umani, e cosa alle divinità. Nonostante la sua scarsa frequentazione dei templi e riverenza agli dèi, riuscì dunque a riconoscere ugualmente Ishtar.

 La dea dell’amore lo fissava con occhi brillanti e avidi, come se volesse catturarlo da un momento all’altro.

L’eroe del suo popolo non si sottrasse di un passo, ed anzi rimase ritto ed in guardia. Il pensiero di poggiare la mano sull’elsa della spada, anche solo per provocare la dea, lo sfiorò per un attimo.

Fortunatamente, in quella situazione così tesa lo perseguitò il rimprovero di Enkidu avvenuto poco fa.

- Accidenti a quell’impiccione !- Lo maledisse mentalmente, optando così per un approccio meno offensivo.

“ Prego. Parlami.”

“ Sia gli uomini che gli dèi ti riconoscono come il Re dei Re, immagino che tu ti senta lusingato.” Le parole della dea erano velate dalla cortesia, tuttavia per il re risuonavano lontanamente pericolose.

“ A breve su questa montagna si terrà il Concilio degli Dèi, e noi tutti ci sentiremmo onorati della tua presenza. Gradiremmo anzi che tu prendessi parte tra noi per sempre.”

“ Per sempre… tra gli dèi? Per farlo dovrei diventare io stesso un dio.” Ovviamente Gilgamesh comprese che era lì il punto dove voleva portarlo la dea, ed infatti la vide sorridere compiaciuta.

“ Certo, saresti finalmente un dio! Il modo per diventarlo sarebbe… che io ti prendessi in sposo.” Rivelò Ishtar, ed a quel punto il re giurò di averla vista irradiare luce come una stella.

Mai un essere umano avrebbe potuto esprimere tanta felicità in quel modo. Le emozioni di un dio erano senza dubbio qualcosa di molto più potente.

“ Sposo …” Ripeté il sovrano, abbassando il capo.

“ Esatto! Devo ammettere che è sempre stato il mio desiderio, sin da quando ti ho visto crescere nell’uomo forte e vigoroso conosciuto ora in tutte le steppe, da un fiume all’altro. Fidati di ciò che dico, so che ogni donna della Mesopotamia ti desidera e sarebbe disposta ad uccidere pur di giacere nel tuo letto… però io ti voglio per me! Solo la dea dell’amore potrà amare un re della tua portata …”

“ Rifiuto.”  Gilgamesh la interruppe duramente, noncurante più delle sue parole.

Ishtar si arrestò di colpo, sottomessa quanto sorpresa dall’autorità schiacciante dell’uomo.

“ Il motivo è semplice.” Iniziò a spiegare lui, schiudendo la bocca nel suo famoso sorriso. “ Se diventassi un dio, sarei obbligato a vivere lontano dai mortali per i quali ho deciso di lottare. Ogni avventura, ogni rischio ed ogni ostacolo da affrontare pur di rendere sempre più felice il mio popolo… non voglio sottrarmi a tutto ciò.”

Detto questo il sovrano voltò le spalle alla dea, incamminandosi lontano da lei con disinvoltura.

“ Andiamo Enkidu, abbiamo riposato abbastanza.” Disse apparentemente a nessuno. Il suo compagno invece, nascosto fino ad allora dietro una catasta di legna, uscì allo scoperto con un’espressione indecifrabile in viso.

Ricevette una pacca sulla spalla da parte dell’amico, mentre questo si metteva al lavoro per trasportare il legno fino in città, tuttavia la sua attenzione era altrove. Con la coda nell’occhio, Enkidu assistette infatti agli ultimi istanti prima che la dea Ishtar sparisse.

Le emozioni di un dio davvero erano più potenti di quelle dell’uomo: un volto deformato dall’odio come quello della dea non l’avrebbe mai più scordato finché sarebbe rimasto in vita.     

 

“ Dobbiamo fermare quei due umani! La loro superbia offende noi dèi, ed è nostro dovere punirli !” Adirata oltre ogni limite, Ishtar cozzò i suoi pugni contro il tavolo.

Mai ci si sarebbe aspettato di trovare la dea della passione in quello stato: i capelli frustavano l’aria come serpenti, scoprendo solo del suo viso gli occhi iniettati di sangue.

“ Non sono esattamente due umani.” An, il dio del cielo e presidente dell’assemblea degli dèi, parlò con voce piatta ed inespressiva. Di tutte le altre divinità radunate sulla cima della Montagna, era senza dubbio il più imperscrutabile, proprio come il cielo stesso.

“ Gilamesh è figlio di Ninsun, mia figlia, mentre Enkidu è stata una nostra creazione collettiva. Vuoi forse dire che mio nipote e la mia creazione sono… due umani ?”

Lo sguardo serio del dio rilasciò un’invisibile pressione su di Ishtar, schiacciandola sul suo seggio e facendo ripiombare il silenzio nella sala.

“ N-No… però …” Cercò di biascicare la dea, tremando per la paura ma non del tutto soppressa nel suo odio.

“ Una cosa è innegabile: Gilgamesh ed Enkidu hanno ucciso pocanzi il guardiano Khubaba.” Si erse all’improvviso il dio Enlil.

Il dio delle tempeste mostrava un’ira ben più radicata di quella di Ishtar, e per questo seppe fronteggiare lo sguardo giudicante di An.

“ Io stesso avevo assegnato a Khubaba il ruolo di guardiano della Foresta dei Cedri. E la Foresta dei Cedri è… o meglio, era, la più bella foresta che circondava questa nostra dimora… prima che quei due la distruggessero.”

Enlil a quel punto piazzò l’indice ed il medio sul tavolo: “Gilgamesh ed Enkidu sono dunque colpevoli di aver ucciso Khubaba e di aver distrutto la nostra foresta, soltanto per portare più legna alla loro città! Queste mi sembrano prove più che sufficienti per un’accusa di tracotanza !”

Tracotanza: una parola che successivamente nei poemi epici greci sarebbe stata chiamata “hybris”, divenendo l’emblema del conflitto tra dio e uomo.

Mentre l’uomo accusa il dio di essere spietato contro la sua gente, cerca in ogni modo di guadagnarsi con le unghie e con i denti un barlume di libertà e potere, venendo così giudicato dalle divinità come superbo ed irriverente. In tale circolo vizioso vivevano già da tempo uomini e dèi della Mezzaluna Fertile, senza nemmeno essersene resi conto.

Ishtar sorrise di nascosto, continuando a fingersi acquietata. Il supporto del dio Enlil le giovava molto per la condanna che presto avrebbe lanciato ad i suoi due più odiati umani.

 “ Sta bene.” Rispose allora An, rilassando le spalle sul seggio. “ Due accuse però sono tollerate, in merito alla natura divina di Gilgamesh ed Enkidu. Alla terza sarete liberi di intervenire, giudicandoli colpevoli e punendoli come meglio crederete.”

 

Tempo dopo, la Mesopotamia resa forte del magnifico legno dei cedri divini perse tutta la sua pace e tranquillità.

I campi si tingevano del sangue dei contadini innocenti, le città venivano spazzate via come da un alluvione e solo per disperazione pregavano gli uomini.

Il giudizio era arrivato, dicevano. Chiedendosi di cosa fossero colpevoli per star subendo quella punizione divina, i deboli tremavano. Eppure, due uomini non si sottomisero.

Allertati dai pianti del popolo, si misero alla ricerca della fonte di tutta quella morte e distruzione. Cacciarono il terrore per giorni, viaggiando tra rovine e trovando i sopravvissuti senza più una casa o forse una famiglia.

Quando ebbero trovato la causa, per quanto il nemico si palesasse imbattibile, lo affrontarono senza paura alcuna.

 

“ L’abbiamo messo alle strette, Gilgamesh !” Urlò Enkidu al compagno, straziando le sue corde vocali come ogni altro muscolo già lacerato e sanguinante sul suo corpo.

Il re di Uruk però non gli rispose, tanto era concentrato sulla bestia.

Il Toro Celeste, inseguito fino in fondo ad una conca prosciugata dopo anni dal più grande alluvione mai visto in Mesopotamia, scalpitava e muggiva facendo tremare la terra. Il suo verso pareva più un ululato infernale, forse rivolto agli dèi suoi padroni.

Gilgamesh aveva la spada sguainata, ben più vicino all’animale per cercare di ferirlo alle zampe. Se solo avesse potuto mettere fine alle cariche che da mesi terrorizzavano la sua gente, quella creatura avrebbe avuto vita breve.

Enkidu si ritrovò a fissare la schiena imponente del suo sovrano. Loro due erano pressoché identici nelle fattezze, eppure osservando il suo amico dalle spalle gli era sempre parso molto più grande.

Il suo corpo pareva sempre oscurare il sole quando camminava di fronte a lui, e quand’anche si metteva alle sue spalle, la sua ombra lo inghiottiva come quella di una torre.

Nonostante fossero pari, sia in forza che nel loro rapporto, non era difficile notare perché tutti i sumeri continuassero a lodare Gilgamesh come il re eroe della loro stirpe. Quell’uomo era capace di irradiare grandezza ed imponenza come un dio, riuscendo però a sorridere, ridere, arrabbiarsi e piangere come un comune mortale senza provare vergogna.

- Il dio più umano di tutti.- Enkidu formulò così un titolo che sarebbe stato adeguato anche per lui, ma non ebbe il tempo di pensare a tutto ciò.

 

“ Enkidu !”

Il grido di Gilgamesh già risuonava nell’aria quando il Toro Celeste, animato da una foga inimmaginabile, lo aveva travolto con una carica più veloce di un fulmine.

Il guerriero venne sbalzato all’indietro di diverse miglia, trascinato dall’immenso animale. I due scomparvero all’orizzonte in un lampo, lasciando così il sovrano di Uruk solo.

Dove prima avrebbe trovato la presenza consolatoria del suo amico, Gilgamesh vide solo una chiazza di sangue.

“ Enkidu …” Ripeté il re, questa volta più debolmente, come se con quel lamento volesse riportare lì il suo compagno.

 

Intanto, ad oltre ottocento chilometri di distanza, appena un istante dopo Enkidu aveva ripreso conoscenza. Lo shock del colpo a bruciapelo l’aveva fatto svenire per circa un secondo.

Il Toro Celeste, bestia divina inseguita per giorni e giorni, non aveva mai sfoderato una carica così veloce prima d’ora. Enkidu non lo avrebbe potuto sapere, ma la velocità percorsa dall’animale avrebbe potuto superare qualsiasi proiettile inventato fino al duemila avanti Cristo.

- Non è mai stato così veloce! Per tutto questo tempo ha nascosto la sua vera forza !- Pensò il guerriero, sentendo il suo corpo venir usato per fendere l’aria  con così tanta forza da generare il vuoto sul percorso tracciato.

Il dolore lo aveva a stento raggiunto quanto realizzò di avere due lunga corna affilate piantate nel petto, attraverso persino l’armatura di scaglie di pietra ed oro. I suoi muscoli divini non erano stati nemmeno una degna difesa, e nonostante il suo peso era stato sollevato di circa un metro da terra dalla mastodontica creatura.

Vide i suoi occhi rossi, ben più spietati di qualsiasi guerriero umano. Riconobbe allora un tipo di odio impareggiabile tra gli uomini: quello degli dèi.

Lo sguardo di Ishtar si ripresentò nella sua mente come un lampo nel cielo buio. La vendetta della dea non aveva atteso altro che il momento più proficuo per punirli.

- Gilgamesh !-

Conficcò entrambi i suoi pollici nelle orbite del Toro Celeste, mentre con le restanti dita afferrò saldamento il cranio della creatura. La sentì gemere e schiumare dal dolore, tuttavia finché la sua corsa non si sarebbe fermata nemmeno quando Enkidu avrebbe lasciato la presa.

Nella creazione divina vissuta tra gli umani era per la prima volta scaturito un impulso di protezione: verso i suoi simili, i poveri, gli innocenti ed il suo più grande amico. Non vi fu mai rumore più grande di quello prodotto da Enkidu quando piantò i suoi piedi nel suolo. La terra tremò, come percorsa da un sisma, ed il toro si ritrovò sollevato in aria da due potenti braccia.

Enkidu mosse un passo.

“ Se questa è la punizione che mi spetta, va bene! La accetterò !”

Più veloce di un fulmine, l’uomo partì alla carica, ripercorrendo il solco tracciato lungo svariate miglia mentre trascinava la bestia divina come fosse un aratro.

“ PERÒ NON POSSO ACCETTARE CHE GLI DÈI SI PRENDANO GIOCO DEGLI UMANI A LORO PIACIMENTO !”

 

L’urlo del guerriero percorse tutta la Mesopotamia, raggiungendo chi pregava invano per la salvezza e chi si condannava già vittima del giudizio divino. Raggiunse anche Gilgamesh, il più grande re mai vissuto, il quale vide il suo migliore amico e compagno d’armi raggiungerlo ad una velocità sovrumana.

Arrivato davanti all’eroe, Enkidu sollevò un piede da terra per colpire con un calcio il Toro Celeste. L’animale, già morto da tempo, venne scagliato in aria come un pallone di stracci, raggiungendo il cielo che gli aveva dato i natali.

In un duello durato appena qualche secondo, la minaccia dell’umanità era stata debellata.

Gilgamesh, incredulo, guardò l’amico. Era così tanto confuso da dover impiegare diverso tempo prima di notare le ferite mortali sul suo petto. “ Enkidu !” Esclamò inorridito, correndo in suo soccorso.

Il guerriero si accasciò tra le sue braccia, ma non prima di avergli poggiato una mano sulla spalla con fare fraterno.

“ Il tuo piano era buono, come sempre… scusami se però ho voluto essere un po’ eccentrico e risolvermela a modo mio.” Sussurrò alle sue orecchie mentre un rivolo di sangue gli percorreva il mento. Le braccia del re sumero lo cinsero in un caldo abbraccio.

 

Qualche ora più tardi, Gilgamesh aveva raggiunto la stanza nel palazzo reale dove Enkidu riposava, dopo una sessione infinita di cure. I migliori medici delle terre dei fiumi erano stati richiamati a corte con una prontezza mai vista, all’avviso che uno degli eroi capaci di salvarli dalla piaga del Toro Celeste era stato ferito a morte.

Il re vide il suo amico disteso su di un letto, con davanti a sé un balcone che dava sulla bellissima strada principale. Le luci delle fiaccole risplendevano nel buio con baldanza, assieme alle genti in festa dentro le loro case o nelle piazze.

Bisognava essere grati per chi aveva lottato, dando la propria vita pur di salvarli.

Gilgamesh però non aveva voglia di festeggiare l’ennesima vittoria. Nessun vino e nessun banchetto sarebbero stati buoni senza il suo più fedele compagno seduto accanto.

Il mondo poteva strepitare gioioso quanto voleva, ma lui sarebbe rimasto in silenzio fino a quando non avrebbe potuto riabbracciare Enkidu. Si appoggiò al balcone, chinando la testa alla luna splendente.

Pregò.

 

In quel momento Enkidu riaprì gli occhi, non trovando però alcuna luce a confrontarlo dopo quel lungo sonno. Si rese allora conto di star ancora sognando, confinato in un mondo buio nella sua mente.

“ Dove… ?” Fu sul punto di chiedere, quando una voce che non si sarebbe mai aspettato gli rispose.

“ Grande Enkidu. Benvenuto !” Così tanto disprezzo in poche parole furono subito una manifestazione di odio ben chiara per il guerriero.

La dea Ishtar apparve con così tanta luce da eguagliare una stella, rischiarando a giorno lo spazio vuoto circostante. Quando i suoi piedi toccarono il suolo insondabile, delle onde si diradarono in ogni direzione.

“ Benvenuto al Concilio degli Dèi …” Il suo sorriso perfido per Enkidu fu ben più mostruoso del Toro Celeste.

“ Ti chiediamo di scegliere chi sacrificare per la salvezza dell’umanità. Tu… o Gilgamesh ?”

 

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Capitolo 4
*** Chapter 4: Fame and Shame (Final) ***


Chapter 4: Fame and Shame (Final)

“ ALZATI ENKIDU !”

 

L’Arena del Valhalla era ancora gremita dalle esultanze umane quando un urlo fu capace di sovrastare qualsiasi voce. Uomini e dèi si zittirono di colpo, riportando l’attenzione ad una sezione in particolare delle tribune.

“ Non puoi perdere !!”

 Un gigante in armatura dorata si ergeva sulla balaustra, con le mani premute sul parapetto in pietra massiccia. Nemmeno la roccia poteva però resistere alle sue dita, penetrate con forza mostruosa come nel burro.

“ Se ti arrendi adesso, cosa ne sarà dell’orgoglio dei sumeri ?!” Il suo grido riecheggiò in tutta l’arena.

Dal lato degli umani, qualcuno incapace di riconoscere la figura si rivolse proprio al popolo nominato.

“ Cosa sta dicendo quel dio? Se Enkidu non perdesse, non solo i sumeri, ma tutti gli umani avrebbero solo da perderne.”

Nessuna risposta venne portata da una voce, piuttosto da delle lacrime. Virili lacrime colme di tristezza, così come di nostalgia, erano iniziate a scorrere dagli occhi dei guerrieri sumeri non appena quell’essere aveva fatto la sua comparsa.

“ Quello non è solo un dio …” Si lasciò sfuggire un guerriero, esalando un rantolio con la voce rotta dal pianto. “ Lui… è… il nostro sovrano …”

 

Gilgamesh, il re sumero delle leggende, emanava un’aura così schiacciante da allontanare istantaneamente qualunque divinità fosse troppo vicina a lui. La sua presenza, anzi, sembrava aumentare di secondo in secondo, invadendo sempre di più gli spalti nel terrore e nello sgomento.

“ Parli dell'orgoglio del tuo popolo in una situazione del genere?! Traditore della nostra stirpe !” Nascosta dietro i suoi sostenitori, la dea Ishtar soffiò come una serpe adirata, rivelando tutta la sua ira verso il bellissimo re.

Questo, al suono delle sue parole, si bloccò. Ogni sua funzione vitale pareva essersi fermata, e così anche il tempo. Nel silenzio e nella calma, la sua schiena gigantesca rivolta verso gli dèi trasmetteva nient’altro che terrore. Una collera silenziosa, pronta a scatenarsi, e che la dea stessa si pentì istantaneamente di aver provocato. Nonostante avesse già iniziato a tremare, però la reazione di Gilgamesh fu completamente inaspettata.

Il biondo voltò appena il capo verso di lei, mostrando un sorriso soddisfatto e due occhi sicuri.

Con la voce di chi aveva visto con chiarezza nel futuro, disse: “ Io non tifo né per gli dèi, né per gli uomini. Solo per Enkidu !”

 

 

“ Che sciocco …” Un sospiro seccato si sollevò dal corpo sanguinante di Enkidu, ancora immerso nella polvere e schiacciato nella pietra.

La sua voce era come al solito piatta, ma un velo di secchezza ora la animava. Tuttavia, a differenza di prima, quella controllata rabbia non era espressa tramite un’espressione corrucciata.

Masutatsu Oyama stesso dovette infatti controllarsi a pieno per non reagire in maniera fin troppo stupita, però se avesse potuto, la sua mascella sarebbe arrivata fino a terra per la confusione.

Il guerriero bestia si stava sollevando dal terreno, manifestando tutto il suo dolore e la fatica tramite i movimenti delle ossa, ciò nonostante un ghigno divertito si era dipinto sul suo volto.

“ Che sciocco …” Ripeté. “ Gilgamesh non mi avrebbe risparmiato le sue manfrine neppure in un duello mortale. Come potevo anche solo illudermi di potermi salvare da quel chiassoso testardo ?”

 

Incredible!! Enkidu si rialza con ancora il suo stesso corno conficcato nel petto, dopo aver subito un atterramento dal più forte artista marziale umano del mondo !” I due annunciatori descrissero a pieno l’incredibile vicenda, in modo che anche gli increduli potessero rendersi conto di ciò che stava davvero accadendo.

“ L’arrivo del Sovrano di Ur, Gilgamesh, ha davvero dato al suo compagno tutta la forza necessaria per continuare a combattere ?!”

Non appena si sentì nominare, proprio Gilgamesh iniziò a sbraitare a gran voce, battendosi i pugni sulla sua armatura dorata e ridendo grassamente.

“ Egocentrico.” Commentò con fredda simpatia Enkidu, lanciando uno sguardo al suo amico in alto.

“ Smettila !”

Una voce davanti a sé lo richiamò all’attenzione, cancellandogli di colpo il sorriso dalla faccia.

Si ritrovò di fronte agli occhi il karateka, ma con una maschera deforme di orrida collera che lo aveva reso irriconoscibile rispetto a prima. “ Smettila di distrarti! Lo capisci o no che cosa comporta questo scontro !?”

Tutti i muscoli di Masutatsu si contrassero, al punto che persino la sua gamba rotta sprizzò sangue come uno straccio strizzato. Rimase indifferente al dolore inumano che stava sopportando, e portò le mani in guardia.

“ Perdonami …” Ritornando serio, Enkidu sembrò rispettare le motivazioni che spingevano quell’uomo a parlargli così. Dopo essersi sfilato come un nonnulla il proprio corno dal pettorale, riassunse una posa bassa, con le braccia protratte in avanti.

“ Mi sento molto più partecipe di quanto tu non credi. Per la prima mi sento motivato a dare davvero il meglio di me !”

 

Qualsiasi cosa avesse detto, il suono delle parole venne lasciato alle sue spalle: la velocità del suono non era stata capace di stare al passo con lo scattò disumano appena compiuto.

Ripartendo all’attacco con la Carica del Toro Celeste, Enkidu si scagliò verso il suo avversario per avvalersi del suo unico corno come arma.

Sorprendentemente, l’artista marziale non si era fatto accecare una seconda volta dall’ira, così non aveva chiuso occhio nemmeno per un istante. La sua visione omnicomprensiva era riuscita a seguire qualsiasi azione del guerriero sumero: vide i suoi occhi brillanti, le sue gambe esplose nello scatto e per ultimo il corno sempre più vicino.

Non dovette nemmeno anticipare o prevedere l’impatto, perché tutto ciò che gli servì fu eliminare il problema alla radice. Afferrando  l’arma di Enkidu con entrambe le mani, ruotò sulla sua unica gamba per direzionare altrove la carica: per farlo aveva dovuto eguagliare, anche solo per una frazione di secondo, la velocità della Carica del Toro Celeste.

Con la sua proiezione istantanea, eseguita in meno di un battito di ciglia, scagliò l’eroe contro la parete.

 

La folla umana fu in visibilio.

“ È questa! È questa la vera via delle arti marziali !” Strepitò Adramelech, ricevendo il consenso degli umani che credevano e veneravano la forza che solo loro uomini potevano conquistare.

“ Colpi, parate, proiezioni… un corpo senza forma, come l’acqua, capace di adattarsi ad ogni situazione.” Bruce Lee sorrise con tutta la gioia del suo cuore, accontentato finalmente di aver assistito ad un’esibizione assolutamente irripetibile.

 

Il corpo di Mas Oyama era allo stesso tempo solido come una roccia, ancorato a terra tramite il singolo tallone che aveva scavato un solco di ben dieci centimetri nella pietra attorno, e libero come l’aria: ogni singola cellula del suo essere avrebbe potuto iniziare a fluttuare nel cielo, perché così lui si sentiva.

Un’ebbrezza impareggiabile raggiunse il suo cervello.

- Questo è… il controllo.- Nelle sue mani, che potevano stringere per diventare attacco e scivolare per diventare difesa, brandiva il suo stesso destino.

Anni di soprusi, confinato nell’atrocità del suo corpo impuro, lo avevano schiacciato e costretto a pensare che non ci potesse essere rimedio ad una vita del genere. Eppure adesso, nello scontro disperato per la vita, aveva trovato la speranza di trovare una simile rivelazione.

 

“ A-Attenzione! Non sembra finita qui !!” L’urlo di St. Peter richiamò tutti i presenti all’attenzione.

Nel momento in cui Enkidu era stato scagliato contro il muro, non si era affatto schiantato contro di esso in completa balia del lancio di Oyama. Al contrario, non appena vi era entrato in contatto con la schiena, aveva concentrato tutta la sua forza erculea nei reni per darsi uno slancio.

Essenzialmente ciò che aveva fatto era stato rimbalzare contro la parete ad una velocità incredibile, amplificandola ancor di più con una rinnovata forza.

L’Arena del Ragnarok tremò.

Enkidu non aveva mai visto la sconfitta. Non con gli occhi che avevano incrociato lo sguardo fiducioso del suo compagno Gilgamesh. Tutto ciò che aveva fatto era stato pianificare un’evoluzione necessaria per annientare il suo avversario. Rinascendo e conquistando nuovi limiti, la Carica del Toro Celeste divenne impareggiabile.

Masutatsu non si accorse nemmeno di esser stato colpito, fin quando il corno dell’eroe non gli ebbe trapassato il petto da parte a parte. Sbarrò gli occhi per la sorpresa, e solo allora percepì la pressione dell’aria sulla pelle.

 

Un eco lontano di un pensiero lo raggiunse persino a quella velocità.

- L’arma più potente del mondo è l’esplosione. A differenza di quel che si crede, l’esplosione è un qualcosa di assolutamente naturale, e per tanto esiste in natura, principalmente negli esseri viventi. Il cervello può produrre un’esplosione, un muscolo può produrre un’esplosione… persino un respiro, uno sguardo, un pensiero… tutto ciò può esplodere !-

Anche Mas Oyama nell’istante in cui era stato colpito, non aveva pensato all’attacco che aveva appena subito, tantomeno alla ferita mortale che si era procurato: ogni sua facoltà mentale e fisica era stata indirizzata per rispondere direttamente ad un colpo previsto già da tempo.

La sua mente vibrò, si riscaldò ed infine esplose. Negli occhi venne riflesso il ricordo della neve sul monte Minobu, simile agli aerei kamikaze che piovevano per abbattere un suo sogno giovanile.

Come tale, il suo pugno piovve e si abbatté con potenza esplosiva sulla nuca di Enkidu, abbastanza vicina proprio perché il corno era penetrato fino alla base nel suo petto.

Il guerriero sumero era talmente tanto infervorato dalla carica, che neppure si accorse del momento in cui era stato colpito.

Forse vide prima del sangue, ed in seguito si accorse di come la sua gola fosse stata aperta dall’interno da una deflagrazione invisibile quanto distruttiva. Ciò nonostante, bastò la sola realizzazione di quanto gli era successo, per sentirsi mancare la forza di poco prima in ogni singolo muscolo del corpo.

La corsa si arrestò seccamente, con le gambe del guerriero paralizzate da un infido pensiero nato nel suo cervello: l’orrore.

Fu proprio allora che Masutatsu, atterrando per terra con la sua gamba salda, ripeté l’attacco portato con la mano a taglio e mozzò di netto anche l’ultimo corno di Enkidu.

 

“ Quel pugno …” Mormorarono allibiti gli déi, guardandosi l’un l’altro per cercare una risposta a tutte le loro domande.

“ Quel pugno …” Ripeterono i fedeli seguaci del karate Kyokushin, stringendo saldamente le loro cinture sotto il petto con orgoglio ardente.

“ Il Bodhisattva Fist di Masutatsu Oyama!! La tecnica definitiva che non può essere parata da niente al mondo! Qualsiasi cosa vi entri a contatto, anche se fosse una mano per deflettere il colpo, esploderà inevitabilmente a causa della sua assurda potenza !”

Ben presto tutti vennero a conoscenza di quella mossa leggendaria, la quale aveva schiacciato al suolo un dio nonostante ad occhio inesperto fosse sembrato un normalissimo pugno. Indubbiamente, qualsiasi colpo capace di abbattere un dio doveva meritarsi un riconoscimento degno della sua impresa.

 

Erano passati ormai molti mesi dall’allenamento sul monte, e per la prima volta in cui Masutatsu ridiscese a contatto con la civiltà, fu catturato da un suono che non udiva da tempo: pugni, calci e kiei, scanditi a tempo di un allenamento marziale rigoroso.

Rivitalizzato da quella energia, entrò nel dojo di karate. Non appena fece il suo ingresso, tutti i presenti si voltarono verso di lui: vestiva un gi distrutto dalle intemperie, dal fango, e quasi del tutto annerito dal sangue seccato. Inoltre anche il suo aspetto fisico, frutto di una sopravvivenza estrema, lo rendeva inquietante come un demone selvaggio.

Purtroppo il suo sorriso servì a ben poco, sicché il maestro del dojo gli si avvicinò prontamente.

“ Non so chi tu voglia prendere in giro, ma vattene fuori di qui! Il karate è una cosa seria !” Gli indicò la porta d’ingresso con severità, ma lui non si girò nemmeno per guardarla.

“ Lo so, sono molto grato al karate per quello che ha fatto a me.”

“ E che cosa avrebbe fatto a te ?!” Grugnì l’uomo, per poi afferrarlo bruscamente dalla spalla per spintonarlo via. “ Farti conciare come un poverac-?!”

Nessuno degli altri spettatori comprese perché il maestro si fosse immobilizzato, ma se avessero potuto disporre dei suoi occhi per quel preciso momento, avrebbero visto qualcosa di incredibile.

L’uomo infatti aveva visto la propria mano a contatto con quell’uomo esplodere dall’interno, dopodiché quella stessa energia catastrofica gli aveva scalato l’intero braccio, procedendo alla distruzione del suo corpo in un battito di ciglia. Nulla di tutto ciò però era avvenuto.

“ No, è stato questo che mi ha fatto il karate.” Rispose allora Masutatsu, testimoniando che non fosse trascorso più di un secondo dall’ultima volta in cui l’altro uomo aveva parlato. Eppure, in quel lasso di tempo così breve, egli aveva compreso tutto.

L’altro si era reso conto di trovarsi di fronte al più grande dei maestri, e che l’energia mortale che sprigionava il suo corpo era stata in grado di risparmiarlo con la delicatezza della mano di un Buddha.

 

 

“ OSU !” Il karateka nell’arena si strinse anch’esso la cintura, espirando tutta l’aria trattenuta nei suoi polmoni con un grido. Nel farlo, uno spruzzo di sangue fuoriuscì dalla sua bocca: aveva ancora il corno dell’avversario che gli penetrava il petto, e anche con tutte le esaltazioni che rimbombavano sopra e attorno a lui, niente avrebbe potuto salvarlo dalla morte.

“ Mi resta poco tempo… direi all’incirca un minuto. Perché non terminiamo lo scontro, così che il vincitore possa venir salvato dalla morte ?” Con tono incalzante e giocoso, si rivolse al corpo disteso per terra del suo avversario.

Incredibilmente, per la terza volta la mano di Enkidu venne usata per sollevare il guerriero mastodontico.

Stavolta l’uomo bestia era ben più che semplicemente ferito: da ciò che ne rimaneva della sua gola sgorgava una cascata rossastra che aveva colorato tutto il suo petto in una striscia perfetta.

Non poteva parlare, tuttavia inclinò le labbra macchiate di sangue in un riso sarcastico.

 

Con estrema velocità sollevò il braccio in avanti, afferrando la testa del mortale in una presa ferrea.

Il giapponese sentì il suo cranio venir stritolato contro ogni previsione, e ben presto i suoi occhi si gonfiarono verso l’esterno in procinto di schizzar all’infuori. Tanta era la forza di Enkidu, da averlo sollevato da terra come una marionetta nonostante la sua ferita.  A causa della posizione, e del braccio dell’avversario, quasi il triplo del suo, che segnava la distanza, Masutatsu realizzò di non poter raggiungere in nessun modo alcun punto vitale.

Nuovamente però il suo pensiero si era astratto dal mondo reale, portandolo via dal dolore e dalla sofferenza, così come dalla sconfitta. Come in un coro angelico, si sentì circondare da tutte le glorie che avevano riempito la sua vita di un’effimera felicità.

- Ciò che voglio provare ancora… ed ancora… ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora-”

Sfidando ogni previsione, sfilò dal suo petto il corno di Enkidu nel momento in cui aspirò tutta l’aria che poteva.

In seguito lo posizionò davanti a sé, e dopo aver contratto la mano libera in un pugno, chiuse gli occhi.

L’aria esplose all’infuori dei suoi polmoni: - … è la vittoria !-

“ Bodhisattva Fist !”

 

Come la massima liberazione zen, ogni sua forza venne convogliata ed emessa, propagandosi verso Enkidu per unirlo in quel legame universale di potenza.

Il pugno eiettò il corno mozzato, trasformandolo in un missile che impalò in pieno la faccia dell’uomo bestia sumero. Lo scagliò all’indietro, rapendolo dal suolo in un decollo più veloce di qualsiasi Carica del Toro Celeste.

Il volo si arrestò soltanto quando la parete dell’Arena del Ragnarok lo volle, e così il corpo dell’avanguardia degli dèi rimase lì sospeso.

Un gigantesco cadavere piantato per la testa e grondante sangue come un maiale appeso al gancio.

Quella visione orrida e pietosa fece accapponare la pelle a qualsiasi dio, e dai volti stupefatti degli umani sparì ogni voglia di pregare.

Tutto ciò in cui dovevano credere era lì davanti a loro, e si chiamava forza dell’umanità.

 

Gilgamesh era rimasto traumatizzato.

Non era stata la morte brutale del suo amico a pietrificarlo così, bensì il sorriso liberatorio catturato sul suo volto un attimo prima di venir sconfitto.

Il re sumero, divenuto dio assieme all’amico che aveva appena perso, non poteva realizzare il perché di tutta quella felicità da parte degli umani, né sentiva appartenergli la sconfitta degli déi.

Lui non era un umano o un dio in quel momento: sapeva solo di aver perso per sempre Enkidu.

 

Prima ancora che uno dei due annunciatori potessero aprir bocca, balzò sull’arena in un impeto di ferocia.

“ TU! MALEDETTO BASTARDO !!” Lacrime di sangue eruttavano dai suoi occhi, complici di un dolore che solo lui poteva comprendere.

Lassù, in alto tra gli dèi del suo Pantheon, Ishtar sogghignava appagata dallo spettacolo.

Nessuno poteva immaginarsi cosa avrebbe fatto Gilgamesh a Masutatsu, se solo un ordine non fosse stato impartito prontamente ad una figura in agguato nell’ombra.

“ Fermalo.”

Innumerevoli catene imprigionarono il gigante ancor prima che potesse sfiorare il suolo dell’arena, bloccandolo a mezz’aria in un bozzolo d’acciaio.

A nulla valsero gli sforzi di Gilgamesh, e le sue imprecazioni furiose accompagnarono i sussulti stupiti di tutti i presenti.

Con voce fredda e distaccata, colui che lo aveva reso prigioniero parlò: “ Nessun estraneo può intervenire negli scontri.”

Capelli del colore dell’argento discendevano su di un volto umanoide, ma ricoperto da una peluria azzurrina, coprendo uno di due splendenti occhi di ghiaccio. La figura vestiva un completo nero, strappato da artigliate e segni di morsi, e ricoperto lungo tutte le spalle in una sciarpa di catene, dalle quali erano partiti i legamenti capaci di catturare il re sumero.

La catena indistruttibile Gleipnir poteva appartenere ad un solo essere, e questo gli dèi nordici lo sapevano bene: per questo riconobbero subito Fenrir, nel ruolo di sovraintendente della sicurezza durante il Torneo del Ragnarok.

 

Il Lupo argentato si dileguò trascinando quel bozzolo, lasciando così l’arena al suo unico e meritato protagonista.

“ Ed è così… che l’umanità conquista la sua prima… VITTORIA !!”

Le voci dei presentatori vennero facilmente sovrastate dalle urla degli esseri umani, finalmente convinti di avere davanti a loro la vera e sola speranza di salvarsi dall’estinzione.

“ Il vincitore è Masutatsu Oyama, la Mano Divina !”

L’artista marziale era caduto in ginocchio. Un colpo di tosse lo costrinse a vomitare sangue e bile, colorando così di un tetro rosso il suo sorriso spento.

- Non calpesterò più la terra, ma… almeno sono riconoscente di aver vissuto una vita degna di una soddisfazione: la vittoria dell’umanità.-

 

La sezione dell’umanità vide il combattente venir portato via, e tra i festeggiamenti generali una figura in particolare si diresse indisturbata verso un corridoio nascosto.

Appena separatosi da Fobetore, il dio degli incubi, e Ammit la bestia divoratrice, il dio dall’aspetto di un ragazzo percorse un lungo tragitto in solitudine prima di fermarsi.

Dall’ombra emerse allora Ishtar, con in volto un enigmatico sorriso.

“ Masutatsu Oyama ha trascorso tre anni da eremita per espiare le sue colpe e prepararsi a condurre uno stile di vita senza peccato… Enkidu invece, quando gli ho concesso di scegliere una punizione, ha preferito la morte.”

“ In questo modo la tua vendetta non era del tutto conclusa, non è vero ?” La interruppe il dio misterioso, serio ed impassibile. “ Non sentivi di aver vinto fino in fondo, per questo ti sei offerta di servirmi lui come primo perdente al posto di Gilgamesh.”

La dea della bellezza annuì estasiata, e con la sua lingua sferzò l’aria fino a leccarsi gran parte della faccia.

“ Grandioso! Per pietà divina lui e Gilgamesh erano divenuti dèi nostri simili… ma ora che è stato ucciso nel Ragnarok, la sua anima è persa per sempre! Per sempreee !”

In completa ebbrezza, quasi avvolta da una carica erotica, Ishtar era divenuta ormai pazza dal piacere. Nulla e nessuno avrebbero potuto riconoscerla come una dea, e non come un demone, se l’avessero vista in quelle condizioni.

“ È esattamente così. Dev’essere stato un bell’accordo per te, non è vero Ishtar ?”

D’improvviso la pietra che componeva il corridoio iniziò a mutare, divenuta malleabile come una gelatina ma allo stesso tempo liquida come acqua. Turbinando e scomponendosi, presto si riunì in una forma capace di instillare terrore puro nella dea sumera.

“ Quindi, quindi… continuate pure a parlare di questo accordo !”

“ Gaia !” Strillò Ishtar, riconoscendo la Madre Terra con il suo accogliente sorriso. In una qualsiasi situazione sicuramente le avrebbe trasmesso sicurezza e tranquillità, eppure ormai sembrava solo anticiparle una terribile sorte.

“ T-Tu sapevi tutto ?” Tremando, tentò disperatamente di indietreggiare.

“ Era abbastanza prevedibile.” Rispose per lei la figura maschile, rimasta in disparte e stranamente composta nonostante l’apparizione della dea della terra.

Questa lo guardò, ed il suo sorriso si smorzò appena: era palese ormai come dietro i suoi modi all’apparenza gentili si nascondesse una furia spietata trattenuta a malapena.

“ Ciò non ti arreca fastidio? Comunque sia, hai parlato del primo perdente che ti è stato servito… senza dubbio Enkidu era più svantaggiato di Gilgamesh, o di un immortale dio sumero qualsiasi… ciò nonostante, l’umano non avrebbe potuto vincere senza un piccolo aiuto. Hai utilizzato il potere di una Sefirot, giusto? Quindi me ne dovrò aspettare altre ?”

Lui rimase in silenzio.

Gaia a quel punto sbarrò gli occhi, e seppur impercettibilmente, il suo volto si illuminò dalla sorpresa:

- Astuto.- Pensò, ritornando a sorridere a pieno. - Ovviamente non può truccare gli incontri, però fa credere così agli dèi con i quali ha stretto un patto… in questo modo sta conquistando la loro fiducia e portando sempre più dèi dalla sua parte. A cosa gli serviranno però? Una presa di potere, forse ?-

“ Con chi altro hai stretto un accordo? Quanti sono collusi con te ?” Decidendo di non svelare quanto avesse scoperto, stette al gioco dell’altro ed incalzò quel delizioso gioco di tensione.

Non ricevette ancora nessuna risposta diretta: semplicemente il dio le voltò le spalle, e con un gesto della mano si congedò.

“ A quanto pare mi sono sbagliato …” L’eco delle sue parole rimbombarono nel corridoio. “ Non era così ovvio che tu sapessi proprio tutto.”

 

 

All’esterno intanto, affacciato alla balconata che dava sull’arena ancora segnata dal combattimento, l’anziano scriba Sîn-lēqi-unninni non partecipava a nessun festeggiamento.

I suoi compagni ed i guerrieri sumeri avevano lasciato posto alle lacrime per bere e festeggiare come da tradizione dei loro tempi, eppure lui si era dichiarato restio a tutto questo.

Ricordava i giorni antichi della sua gioventù, quando aveva dedicato giorni su giorni per raccogliere tutte le leggende su di un vero e proprio eroe: il re Gilgamesh. All’epoca si era stupito di come nessuno prima di lui avesse desiderato raccogliere le sue imprese in un’opera scritta, e così si era posto lui stesso il compito di farlo.

In questo modo si era illuso di vivere le avventure epiche del re sumero con il suo compagno Enkidu, come se avesse potuto combattere assieme a loro contro mostri, sfidando le angherie degli déi e ricercando l’immortalità o il segreto della vera forza.

Ad oggi, in quel giorno così distante dal suo tempo, si era reso conto però di una realtà tanto dolce quanto amara.

“ Gilgamesh ed Enkidu non hanno mai smesso di combattere, e per quanto io possa scrivere una seconda Epopea, o mille altre… mai io e nessuno potremo comprendere e tantomeno esprimere ciò che solo loro hanno conosciuto.”

Dei contro uomini. Ancora una volta la storia si ripeteva, ma la sua era ormai terminata.

Abbandonò per sempre l’ultima  tavoletta, ma non prima di aver inciso la parola “fine” a margine.

 
Angolo Autore:
Welcome back!
Spero vi sia piaciuto questo primo scontro. So che è stato molto grezzo, e abbozzato, ma l'ho scritto la scorsa estate e per quanto abbia provato ad aggiustarlo nel corso del tempo, devo ammettere che mi piace come si intraveda la voglia di sperimentare in un progetto appena nato. Ebbene sì, il primo scontro si è concluso, ma altri ne verranno ancora.
I primi tre sono già stati scritti, quindi ammetto di avere molto vantaggio. Tuttavia, prima di riprendere una pubblicazione giornaliera con il secondo scontro, ci vorrà una pausa di una settimana precisa. Quindi ci rivediamo domenica 10 Maggio!
Ah, ma prima, un ultimo regalo... la lista dei combattenti (in ordine sparso)!

 

-Heaven:

Hastur 

Sun Wukong 

Baphomet 

Enkidu 

Quetzalcoatl 

Fenrir 

Uriel 

Prometeo

Amenominakanushi 

Hel 

-Humanity:

Ramesses II 

Zarathustra

Charlotte Corday 

Josef Mengele 

Vlad Dracul 

Re Artù

Masutatsu Oyama

Boudicca

Guy Fawkes 

Dante Alighieri

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Capitolo 5
*** Chapter 5: Popular Monster ***


Chapter 5: Popular Monster

All’interno di una stanza erano stati chiamati quasi tutti i rappresentanti delle divinità selezionati per il Ragnarok: nove sfidanti dai più disparati pantheon, e nulla di quanto più diverso e anticollaborativo ci si sarebbe potuto immaginare.

Ognuno sedeva per conto suo sulle numerose poltrone, tenendo d’occhio nervosamente il tempo. Alcune figure di spicco si facevano notare per la loro eccentricità:

Fenrir, il lupo dal pelo argenteo, rimaneva semplicemente in piedi in un angolo, con il volto nascosto dalla sciarpa di catene arrotolata attorno al collo; un dio dormiva russando con la bocca spalancata su di un divano, e una dea guardava il cielo piovoso fuori dalla finestra con il mento tenuto su di un pugno.

Invece, su di un trespolo gigante, un piccolo dio dalle fattezze di un bambino si era appeso con le gambe, tirando su di addominali senza sosta: “Un, due! Un, due! Uff! Uff! Ma quando posso andare a giocare, insomma ?!” Strillava di tanto in tanto.

“Giocare? Giocare ?!” La dea, sentendolo, si voltò di scatto e lo riprese con sguardo torvo. In realtà solo la metà sinistra della sua faccia era corrucciata, mentre quella destra aveva un occhio che versava lacrime a dirotto: “Ma te ne rendi conto o no che un dio è morto? È così triste!”

“E poi tu mi fai così incazzare !” Urlò la metà sinistra della dea Hel, signora degli inferi del pantheon norreno.

Il bambino non disse più nulla, rimanendo a fissare lei con uno sguardo serio ma imperscrutabile. “Non ho capito.” Disse infine, alimentando ancor di più la rabbia, ma anche le lacrime, della dea.

Fortunatamente in quel momento entrò un membro dello staff, attirando su di sé tutta l’attenzione.

“Gentilissimi rappresentanti, volevo avvisarvi che il prossimo scontro avrà inizio a breve. Vi è già stato consigliato di scegliere chi scenderà in campo?”

Gli venne fatto cenno di no, così l’addetto iniziò a sudare freddo per l’ansia.”Ehm… scusatemi, è troppo chiedervi di scegliere in fretta? Non vorrei che…”

Avevano già smesso di ascoltarlo: le divinità già si scambiavano sguardi gelidi, pregni della loro potenza e supremazia traboccante.

“Fermi un attimo !” Sbottò però una voce, interrompendoli. Una figura entrò scostando bruscamente il membro dello staff. Quando questo provò a protestare, alzò la testa e gli morì la voce in gola nel riconoscere chi esso fosse: “S-Signor Tyr ?!”

Tyr, il dio nordico della guerra,  indossava una cappa che lo ricopriva fino alle caviglie, ma portava la spada in bella vista sulla schiena. Il suo sguardo torvo sorvolò uno ad uno tutti quegli dèi, per poi fermarsi su di uno in particolare: “È lui! È lui il bastardo privilegiato che non riesco ad accettare !”

Il suo dito venne puntato proprio su Fenrir, il quale aggrottò le sopracciglia, incupendosi.

“Soltanto perché è della sicurezza, e magari ha fatto qualche lavoretto sottobanco agli altri dèi, ora ha ottenuto questo posto che non si merita affatto! Non sei nemmeno un dio !”

Ad interrompere l’adirato dio della guerra fu una sua conoscente, ovvero Hel. “Premettendo che non ho mai avuto a che fare con Fenrir…” disse piangendo con il lato destro “Stai sparando un sacco di cazzate, Tyr !”

Al suono del suo lato sinistro, il dio trasalì. “Nemmeno Enkidu era un dio! E se per questo neanche quegli altri tre che non si trovano qui! Quindi che cazzo dici, si può sapere, eh ?!”

Seppur facendo una grande prova di coraggio, il membro dello staff forzò il migliore del suoi sorrisi e provò a dire: “Signor Tyr, posso consigliarla di parlare con un superiore della faccenda? Al momento c’è l’urgenza di selezionare il prossimo combattente, e…”

“Andrò io.” Sbottò Tyr. Nel suo sguardo ora bruciava la vergogna che per colpa di quel lupo aveva dovuto patire, e così con la mano sinistra sguainò la spada. Nel farlo, scostò il mantello e scoprì il suo fianco destro: come poterono tutti notare, al posto del braccio c’era solo un moncone bendato.

“Ho un conto in sospeso con Fenrir! Per questo ti sfido, ed in una manciata di secondi salirò sul palco con la tua testa in mano.”

Il sovraintendente della sicurezza scrollò le spalle, uscendo assieme al dio della guerra per terminare il loro cosiddetto conto in sospeso.

In quel momento un auricolare all’orecchio del membro dello staff trillò: “Oh! Temo che non ci sia tempo per aspettare questa… scaramuccia. Chi vuole scendere in campo adesso ?”

Per una questione di assoluta coincidenza, quando lui ebbe finito di parlare il dio che stava dormendo comodamente sul divano scivolò, finendo di faccia contro il pavimento. “Ahio !”

“Io? Ha detto io? Bene, bene !” Venne appuntato meticolosamente su di uno schedario. “E allora venga con me, forza.”

La divinità, rendendosi conto della situazione, si alzò da terra con la faccia dolorante. “Eh? Eeeh?! Urlò, confuso, mentre l’altro lo prendeva per il braccio e cercava di trascinarlo fuori. “Si tratta di un errore, amico! Io… io stavo così bene a dormire e…”

Dalla porta rientrò Fenrir, e la sua vista bastò a sorprendere tutti i presenti. La divinità aveva i suoi famosi capelli argentei macchiati di scuro sangue, così come parte del viso e tutto il vestito. Il punto però più intinto di quel vitale liquido rosso era senza dubbio la sua catena, che ora stava riavvolgendo a mo di sciarpa.

-Cosa?! Ha già risolto ?! - Urlò internamente quello che non centrava nulla in quella storia. Sporgendosi oltre l’uscita, vide con raccapriccio la poltiglia sanguinante che fino a qualche secondo prima era il dio della guerra Tyr.

-L’ha ucciso… l’ha ucciso.- Gli stava venendo da vomitare –Ma certo… dopotutto quando Fenrir ha staccato il braccio al dio Tyr era imprigionato ad indebolito, quindi nel pieno della sua potenza come avrebbe potuto dargli anche solo una chance di vittoria ?-

Intanto quando Fenrir comprese cosa stesse succedendo, domandò al dio: “Quindi vuoi andare tu ?” Il tono con cui pronunciò queste parole fu così gelido e schietto da far congelare il sangue nelle vene del povero membro dello staff. Quando guardò verso l’alto, si sarebbe aspettato che chiunque sotto lo sguardo inquisitore del lupo Fenrir sarebbe morto di paura, eppure non trovò nulla di simile.

Il dio che era stato scelto pareva più calmo e sereno che mai. “In realtà no, ma questo tipo dice che non c’è tempo e non vuole sentire ragione? Vuoi andare tu ?”

“No, mi sembra giusto non perdere troppo tempo.”

“Cattivo…” I due si erano parlati come se quella fosse stata una situazione normale. Così, con altrettanta indifferenza, il dio scelto come secondo rappresentante camminò per il corridoio stando attento ad evitare la carcassa di Tyr.

 

Non molto lontano, sempre tra le stanze adibite agli dèi, una delle organizzatrici stava vivendo un momento di forte stress.

La dea Ptah, infatti, stava appena iniziando a rilassarsi dopo quell’estenuante match alla quale era stata costretta ad assistere. Così tanta violenza e tensione non facevano bene alla sua bellezza, o almeno così pensava: per questo aveva chiesto ad un gran numero di massaggiatrici di occuparsi di lei, lavandole i capelli, truccandola e via discorrendo.

Ma proprio quando, con ancora un asciugamano arrotolato attorno alla testa, si stava godendo un massaggio rilassante, aveva visto spuntare da oltre la porta la faccia pacioccona di un suo conoscente.

“Ammit…” Mormorò con fare seccato lei, vedendo però la bestia divoratrice sorriderle, rimanendo nascosto nella sua postazione.

“Lo sai che da quando Gaia ha scoperto che il dio con cui te la fai ha una rete di traditori che vogliono far vincere gli umani, la vostra combriccola è ad alto rischio ?”

Ammit annuì vigorosamente.

“E lo sai anche che, se gli dèi sbagliati vi dovessero avere tra le mani, vi farebbero sputare a sangue i nomi dei vostri collaboratori ?”

Annuì ancora.

“Sì che lo sai… per questo sei venuto da me, vero? E stai rimanendo lì nascosto perché… vuoi che io ti segua, giusto ?” La voce della dea cadeva sempre di più nello sconforto e nella sofferenza, ma quando Ammit annuì con un gran sorriso per la terza volta, sentì il mondo crollarle addosso.

Non appena fu uscita dalla stanza, trovò assieme al giudice dell’aldilà egizia, anche il dio misterioso di cui tanto si era sentito parlare dal Concilio di qualche tempo prima.

“Salve, signorina Ptah, mi dispiace averla disturbata in questo momento…” provò a dire lui, ma venne interrotto quando la dea dal fisico slanciato, che infatti troneggiava di mezzo metro sopra di lui, agitò il dito in aria con un’espressione contrariata.

“Frena, frena, frena, bello! Signorina di qua e di là quanto vuoi, ma sappi che non casco ai piedi del primo che capita!” Davanti a quella sfuriata, il dio misterioso guardò Ammit in cerca di aiuto, ma lui fece spallucce.

“Sì, ecco… volevamo invitarla a conoscere il prossimo sfidante umano.”

“Cosa? Ma siete impazziti?! Se una come venisse vista da un umano, quello sicuramente andrebbe in iper-ventilazione e morirebbe stecchito sul colpo per la mia bellezza! E poi, cosa dovrebbe interessarmi di un umano ?”

“Oh, bhe… questo è un caso che la riguarda, non per nulla è stato Ammit a volerle parlare…”

Catturata dalla curiosità, infine la dea venne convinta a seguire quei due. Aggiustandosi di tanto in tanto l’asciugamano sulla testa, fece attenzione a non farsi vedere da nessun essere umano nella parte della struttura interna al colosseo adibita a loro.

La marcia finì davanti ad una porta con una tenda fatta di perline e scaglie dorate appese a tanti fili, come una cascata brillante. Oltrepassato l’ingresso, i tre si trovarono su di una balconata dal colore dell’avorio, sospesi su di una sala molto grande e che odorava di fresco.

Al di sotto c’era una piscina sulla quale galleggiavano petali e ninfee: il fondale era un arazzo costituito da tasselli che parevano brillare come stelle nel cielo, rappresentando il volto di un uomo.

L’iniziale stupore della dea finì però, quando vide qualcos’altro che galleggiava sul pelo dell’acqua: intimo femminile.

Il suo volto allora si contorse in una smorfia adirata, e gli altri due accompagnatori si tesero come corde di violino. Tuttavia, invitandola a scendere, vennero presto accolti da una melodia, cantata da una voce maschile.

Seguendola, arrivarono ad una cascata d’acqua che scendeva da un muro, ricadendo su di una figura che cantava così forte da sovrastare lo scroscio dell’acqua.

Ptah trasalì, non riuscendo a trattenere un urlo acuto: quell’uomo era nudo.

Esso si voltò di colpo, esclamando: “Figlio mio, non è come puoi immaginare! Mi sono dato alla vendita di intimo, e…” ma quando riconobbe i due dei maschili, si rasserenò. Il suo volto era lo stesso raffigurato un po’ ovunque in quella stanza.

“Che gran maleducato, e pensare che c’è persino una fanciulla.” Rise.

Il cuore di Ptah perse un battito: -Fanciulla ?- la voce di quell’umano era così calda e profonda.

Lui afferrò un panno per coprirsi il corpo dall’ombelico in giù, dopodiché avanzo verso il trio con un sorriso radioso.

“E con chi ho il piacere di fare conoscenza, miei amici ?”

“Pt…Pta…” Stava già sussurrando la dea, arrossendo come una ragazzina, ma Ammit la anticipò prima che svelasse la sua identità: “Ptarash !”

Ma quando udì quel nome, l’uomo si afferrò il cuore strappandosi un gemito.

“Oh no!” Esclamò Ptah, spaventata. – Lo sapevo! L’avevo detto io che un umano sarebbe morto a causa mia !-

Ma prima che scoppiasse a piangere disperata, il sorriso riapparve sulla faccia di lui: “È che… è che al sol udire questo nome soave, il mio cuore non ha retto. Voi siete di una bellezza fatale anche nel nome, mia cara Ptarash !” Le prese il mento tra le dita in una delicata carezza.

La situazione era così smielata che il dio misterioso ed Ammit si guardarono con un deluso sguardo d’intesa: -Non ci cascherà mai, vero ?-

Ma Ptah si era distratta a causa di un qualcosa che aveva notato: sul corpo dell’uomo in fatti, soprattutto sulle braccia e sulle spalle, c’erano dei piccoli lividi di forma rotonda e dei graffi. “Ma voi siete… ferito?”

L’umano rimase stupito, ma si inventò presto una scusa: “Eheh, sì… ho difeso dei bambini da un attacco di sciacalli, ultimamente …”

-Non ci cascherà mai, verooo ?!- Pensarono di nuovo i due dei.

Tuttavia Ptah aveva già i suoi occhi a forma di cuore, avvampata dalla testa ai piedi: “Oooh, ma voi siete così audace…”

“Va bene… basta così.” Mormorò, ancora basito, il dio misterioso, interrompendo quella conversazione con molto imbarazzo.

“Sei pronto per il prossimo match ?”

L’uomo non dovette nemmeno cambiare espressione, ed affrontò quella realtà con lo stesso sorriso spensierato ed orgoglioso: “Certo che sì!” Prima di raccogliere i suoi vestiti, gettati a bordo piscina, lanciò uno sguardo ammaliatore a Ptah.

“Ci rivedremo dopo la mia vittoria! Sono onorato di aver fatto breccia nel tuo cuore e nei tuoi pensieri… mia dea.”

 

Lo stadio era in fermento per il secondo incontro. Specialmente gli esseri umani che, già pregustando la prossima vittoria, urlavano a squarciagola il nome della loro avanguardia.

Chi non partecipava a tale fermento era un giovane umanoide dalla pelle simile al colore della pietra. In realtà, osservando meglio, ciò che ricopriva la sua pelle e gli donava quel colore era un rado strato di peli, però più folti e simili a capelli e barba attorno alla faccia, come una criniera.

Guardava con i suoi occhi di fuoco, ma spenti nell’entusiasmo, la fine del corridoio verso l’arena. Camminava lentamente, senza alcuna fretta, facendo tintinnare il suo grosso rosario buddhista appeso al collo, quelli più piccoli sui polsi, ed i gambali dorati che gli ricoprivano la parte inferiore del corpo. Una coda gialla sferzava l’aria, cercando di rinfrescargli il viso.

“Diaaamine …” Si lamentò con una buffa voce nasale, adeguata al suo volto scimmiesco.

Aggiunse mentre procedeva a grattarsi l’interno dell’ombelico con un artiglio: “ Perché mai dovevano chiamare proprio me? Chi se ne frega di questi umani …”

Nel momento in cui posò la sua zampa alla luce del sole, un boato proveniente da sopra la sua testa lo colse alla sprovvista, strappandogli un’imprecazione.

Nel cielo venne immortalata la sua espressione spaventata, l’inizio vero e proprio delle riprese di quello scontro.

Chefiguradim-” Le urla dei presentatori coprirono le sue parole.

 

“Il secondo rappresentate degli dèi! Un Re anche nel Paradiso, che ha lottato per diventare ciò che è adesso ed ha strappato l’immortalità dalle mani degli dèi più scettici …” Strillò Adramalech.

“ Non che la sua vita fosse già qualcosa di normale …” St. Peter sogghignò. “… per essere una scimmia.”

“Ed infatti, ladies and gentlemen, qui ed ora noi vi presentiamo Il Re Scimmiotto, Sun Wukong (Son Goku) !!”

Gli umani, vedendosi palesare davanti quello strano omuncolo dalle fattezze di un ragazzino, ma ricoperto di peli e con dei gambali fin troppo grandi per la sua taglia, dapprima ammutolirono… per poi scoppiare a ridere.

“E quello sarebbe il guerriero degli dèi? Ma che razza di scherzo è questo ?!”

Tutto quello scherno arrivò inevitabilmente anche alle orecchie dello scimmiotto, il quale incassò la testa nelle spalle e mostrò una smorfia seccata. “Sempre la stessa storia. Un tempo facevo paura agli dèi, ma con sugli umani non ho mai avuto una bella presa.”

 

“Introduciamo anche il lato degli umani !” La voce dagli altoparlanti interruppe le risa, presentando il momento più atteso prima dell’inizio dello scontro.

“Non so quanti di voi se lo saranno chiesto, ma la bizzarra arena che ospiterà il combattimento di oggi è stata scelta dallo sfidante del lato umano, in quanto vincitore dello scorso confronto.”

In quel momento tutti gli spettatori abbassarono lo sguardo, ed anche Sun Wukong prestò attenzione al pavimento sotto i suoi piedi. Era soffice , splendente al sole, e persino i suoi calzari ornati e pesanti non facevano alcun rumore quando lo calpestava.

- Sabbia.- Osservò, incuriosito.

“Un campo di battaglia per nulla insospettabile per lui! Già, lui! Colui che era conosciuto come Il Grande, e non bastano ulteriori soprannomi per presentarlo …”

“Secondo del suo nome: il più potente, ammirato, conosciuto e longevo faraone che abbia mai regnato sull’Alto ed il Basso Egitto… ”

 

Rombando con fragore, un’ondata di sabbia straripò come un fiume in piena dall’ingresso opposto a quello di Sun Wukong. Persino gli dèi rimasero a bocca aperta per la sorpresa, compresi i presentatori, che infatti si interruppero.

Lentamente, tra la nube giallastra sollevatasi fin sopra agli spalti, una figura avanzò.

Alto quanto il suo sfidante, ma dalla pelle color nocciola e con tatuaggi lungo le braccia muscolose ed i fianchi. Al centro del petto scorreva un panno bianco, coprendo parzialmente gli addominali, e che si andava a ricongiungere con un mantello avvolto attorno al collo. Gemme azzurre e verdi adornavano la sua leggera armatura dorata composta da dei bracciali lungo gli avambracci e delle ginocchiere.

Quando la nuvola si fu diradata, al sole brillò inaspettatamente un colore ancor più sfolgorante, il quale ricopriva il capo del ragazzo fino alle spalle. Si trattava della sua chioma di capelli ramati, come un’alba di fuoco o come il più raro dei fiori del deserto.

Il giovane sorrise, spalanco le braccia al cielo e lasciandosi investire della luce solare mentre il suo pubblico lo acclamava.

“Ramses II !!!”

Il mondo intero parve poi cadere in silenzio.

Lo sguardo degli unici due presenti nell’area si era incontrato, e delle singolari scintille di energia nei loro occhi sottolineavano la tensione che avevano iniziato ad emanare semplicemente in quel primo incontro.

Provenienti da culture quanto mai lontane e differenti, nessuno aveva mai sentito parlare dell’altro, e senza dubbio possedevano anche una concezione della vita completamente diversa. In quel momento però nulla di tutto ciò importava.

Ciò che contava davvero era un solo risultato, e allo stesso tempo l’interrogativo sul quale gravava la storia dell’umanità: chi di loro avrebbe vinto?

 

“Ha inizio il Ragnarok !!” Gli altoparlanti nel colosseo esplosero in questo unico fragore, facendo contrarre i muscoli di tutti i presenti per prepararsi al meglio.

Qualcuno in particolare però non sembrava prestare la stessa attenzione: “Grazie, grazie! Anche io vi amo !”

Ramses II, il sovrano egizio, era rivolto verso il lato delle tribune che ancora inneggiava il suo nome, intento a lanciare baci volanti e a dispensare occhiolini a tutti.

Davanti allo sconcerto degli dèi e del suo avversario, il quale lo guardava con le sopracciglia inarcate, non sembrava per niente interessato allo scontro di cui era partecipe.

Dopo circa un minuto ebbe però la necessità di voltarsi, rivolgendo allo scimmiotto un’espressione innocente, con un sorriso sincero.

“Scusami, ti do fastidio ?”

Sorpreso quanto mai in vita sua da un simile comportamento, l’altro non seppe cosa dire. Senza starci a pensare più di troppo scosse la testa.

“Perfetto! Allora continuo un altro po’ !” Disse rapidamente Ramses, prima di riprendere il suo lavoro: “Grazie mille! Fanciulle, voi siete magnifiche, non io !”

Lo scimmiotto constatò come effettivamente stesse alimentando la folla nelle sue ovazioni, venendo particolarmente apprezzato dal pubblico femminile.

- Aspetta… ma perché davanti a lui le donne si sventolano arrossendo, e per me niente ?- Si domandò d’un tratto, colto dalla gelosia.

Voltandosi vide soltanto le tribune degli dèi, silenziose e allibite davanti a quello spettacolo. Tornando invece verso il lato degli umani, riconobbe a stento il suo avversario, dato che era stato ricoperto in una frazione di secondo da quelli che sembravano dei reggiseno di tutti i tipi e dimensioni, con annesse altre parti di biancheria, altrettanto scandalose.

- Che cooosa ?!- Strillò internamente lo scimmiotto, divenuto rosso come un peperone.

 

Passò molto tempo prima che Ramses si sentisse soddisfatto delle acclamazioni ricevute, ed allora sospirando si voltò verso il suo avversario.

“Perdonami mio caro, ma cosa ci posso fare? Quando un mostro di popolarità come me si trova davanti ad un pubblico così magnifico …” La sua espressione per un attimo parve farsi più seria, così come il suo sorriso si indurì, quasi in un ghigno trionfante “… non posso fare a meno di promettere a tutti i miei fan che non li deluderò !”

“Ah, sì …” Rispose tuttavia Sun Wukong con scarso interesse, visto che nel frattempo si era disteso a pancia in giù, scaccolandosi distrattamente.

Ramses si imbronciò come un bambino.

“Co-Come?! Non ti fanno nessun effetto le mie parole da vero figo?! Insensibile !” Mentre le sue lamentele da offeso continuavano, lo scimmiotto si rialzò da terra sbruffando.

“È per colpa della gente come te che non apprezza lo spettacolo se l’arte non vende più, ed i grandi showmen passano inosservati …”

Accadde in un istante, così velocemente che nessuno tra il pubblico riuscì a prevederlo: Sun Wukong era balzato in avanti con un’espressione fredda e distaccata, sferrando al contempo un pugno sulla testa del suo avversario.

“Oh !” Sussultò l’egizio, schivando il colpo dopo aver semplicemente inarcato la schiena all’indietro.

Chiunque rimase sorpreso da questa azione, compreso Sun Wukong stesso, il quale ora aveva spalancato i suoi occhi.

Concatenò in rapida successione una serie di attacchi portati con il palmo delle mani e con le sue gambe corazzate, tutti mirati a distruggere il suo avversario con una potenza che solo le più antiche arti marziali cinesi avrebbero saputo scatenare. Tuttavia, qualsiasi colpo si dimostrò vano di fronte ad una prontezza di riflessi e ad un’elasticità sorprendente da parte del faraone.

Questo, anche sulla sabbia, sapeva scivolare sotto ogni colpo e portarsi in un istante fuori dalla portata del nemico con un balzo, senza versare neanche una goccia di sudore.

“Pensavi di cogliermi di sorpresa perché stavo parlando? Effettivamente la parlantina è un mio punto debole, lo ammetto …” Sorrise, beffandosi dello scimmiotto.

“… ma non così tanto !” Con un impercettibile cigolio, mise mano alla sua schiena, dove coperto dal mantello c’era un’asta dorata. Liberandola dai suoi legamenti, sferrò un colpo repentino con un’arma nascosta fino a quel momento.

Sun Wukong si allontanò con un salto, ma percepì qualcosa di tagliente sferzargli i peli sulla sua faccia, fin troppo vicino alla carne per non metterlo in allerta.

 

Ciò che brandiva ora Ramses era una lancia corta completamente composta in oro, con una larga lama decorata da quello che sembrava alabastro. Nonostante il peso che dimostrava, il sovrano iniziò a mulinarla in aria con maestria, creando vortici d’aria che sollevarono la sabbia circostante.

“Bella, no ?” Disse, retorico e spavaldo, mentre il suo avversario percepiva un brivido attraversagli la schiena per farlo mettere in guardia.

“Ed ora il grande re… passa al contrattacco !” Si annunciò il faraone, balzando all’attacco con una pioggia di affondi.

“Ormai si fa la telecronaca da solo !” Strepitarono i presentatori, stringendosi forte tra di loro mentre l’intera platea umana gridava a squarciagola.

La raffica di attacchi sembrò per un attimo sommergere come un cavallone il piccolo Sun Wukong, ma lo scimmiotto arretrò appena in tempo. Ciò che era rimasto del luogo dove si trovava prima era una conca nella sabbia, completamente squarciata dalla lancia d’oro.

“Pensavi che fossi un tipo solo bravo a parlare, vero? Assaggia il Tifone di Qdesh !” Ramses ripartì all’attacco senza dargli un attimo di tregua, stavolta afferrando l’estremità inferiore dell’asta con entrambe le mani ed iniziando a vorticare con tutto il suo corpo.

Ben presto si trasformò in un tornado delle sabbie di dimensione umana, e con tutta questa potenza centrifuga iniziò ad avanzare verso il suo avversario.

“Bugiardo.” Sibilò Sun Wukong.

Con il solo ausilio della mano destra afferrò il faraone per la gola, ignorando il suo attacco e riuscendo ad intercettarlo proprio quando si trovava ormai a meno di un metro di distanza. Lui però non si arrese, ed affidandosi all’inerzia lasciò che la sua lancia piombasse sulla gola dello scimmiotto.

Ne seguì un gran fracasso metallico.

Gli umani a quel punto tacquero, a causa di un’imprevista aura di terrore che si stava ormai diffondendo tra le loro fila. Tutto ciò era inspiegabile.

 

Avendo semplicemente sollevato il braccio libero, il Re delle Scimmie non solo aveva parato del tutto il Tifone di Qdesh, ma addirittura sembrava che al solo impatto avesse distrutto l’intera parte superiore della lancia. Lama e decorazioni dorate si erano trasformate in un ammasso contorto, spiaccicato sulla pelliccia del dio.

“Sei stato proprio un bugiardo… nel farmi credere che quella fosse la tua Arma.” Ringhiò Sun Wukong, mettendo in mostra i suoi canini appuntiti in una terribile smorfia animalesca.

“Durante il tuo attacco di prima eri persino riuscito a sfiorarmi la carne, e non immagini quanto mi sia spaventato prima di accorgermi che non ci fosse nessuna ferita !”

Il sovrano afferrato per la gola, di tutta risposta, si lasciò andare ad una risata soffocata.

“Io non ti avevo garantito niente.”

“Allora perché hai portato su questa arena un’arma inutile contro un dio ?”

“Bhe… ci ero affezionato, quella è… era la mia lancia delle grandi occasioni.” Rispose Ramses con un sorriso smagliante.

Un istante dopo la sua faccia venne centrata a grande velocità da un oggetto lungo, ed il colpo fu abbastanza potente da scagliarlo di diversi metri all’indietro.

Il rappresentante degli dèi allargò di colpo le gambe, assumendo una posa marziale mentre impugnava la sua nuova arma: un bastone di ferro scuro ben più grande di lui, e terminante ad entrambe le estremità in un anello d’oro con delle decorazioni tipiche dell’antica Cina.

In quella nuova forma, lo scimmiotto pareva aver abbandonato del tutto la nonchalance di poco prima, come se il combattimento avesse riacceso in lui un istinto combattivo sopito da secoli.

 

“D-Dove diavolo la teneva nascosta quell’arma ?!” Esclamò sorpreso un dragone umanoide dal lato degli dèi. Per poco i suoi piccoli occhialetti tondi non gli erano caduti dal muso.

“Si tratta di magia, senza dubbio. L’ha evocata dal nulla, senza dubbio.” Rispose un suo saccente simile, lisciandosi i lunghi baffi sottili.

“Ma certo! È la magia, la magia della Cina, la migliore del mondo !” Festeggiò un terzo, iniziando a suonare due tamburi che teneva stretti tra le gambe incrociate.

Al suono di quelle fandonie, un quarto drago, elegantemente vestito con un abito dal tema “onde spumeggianti contro il cielo tempestoso”, scosse il capo.

“Vi sbagliate tutti quanti, Re Draghi del Mare del Sud, dell’Ovest e del Nord. Non l’ha evocata grazie alla magia.”

“E come puoi affermare ciò, Re Drago dell’Est ?”

“Semplice !” Si intromise nella discussione una dragonessa vestita anch’ella elegantemente, facendo arrossire il marito. “ Quel bastone in realtà era una vecchia colonna che si trovava nel nostro palazzo !”

I tre draghi sussultarono, spalancando le loro grandi bocche.

“Q-Quindi quella è la leggendaria …”

“Sì.” Annuì il Re Drago dell’Est, immergendosi nei ricordi.

 

La sua memoria lo riportò ad un giorno qualsiasi nel suo palazzo infondo al Mare dell’Est, quando però la quotidianità era stata interrotta da un grande terremoto.

Il drago, in quel momento addormentato nel letto affianco a sua moglie, sobbalzò spaventato.

“Ci attaccano?! Chi osa ?!” Sbraitò, fiondandosi come una furia verso il portone d’ingresso.

Lì però trovò qualcosa, o qualcuno, che non si sarebbe mai aspettato di vedere.

“U-Una… scimmia ?” Stentò a crederci, osservando una piccola scimmia rossastra che si massaggiava la nuca borbottando.

Sul portone d’ingresso, alto quanto una torre, si era creata una sagoma proprio a forma di quel piccolo scimmiotto, prova inconfutabile che l’avesse sfondata scaraventandosi contro.

“Ohi ohi… sarà questo il palazzo del drago ?” Mentre si lagnava con la sua voce da bambino, la scimmia iniziò a guardarsi attorno, scrutando quel magnificente palazzo che mai nessun uomo prima aveva visto. Figuriamoci una scimmia.

“ La smetti di ignorarmi dopo aver distrutto la porta di casa mia ?!” Urlò furibondo il Re Drago, finalmente attirando l’attenzione dell’ospite indesiderato.

Avrebbe facilmente potuto divorarlo in un sol boccone, ma il sorriso inaspettato che quel piccolino gli rivolse lo lasciò spiazzato.

“Ah, è casa tua? Allora ho indovinato, questo è il palazzo del Mare dell’Est? Senti coso, sto cercando un’arma adatta a me, il Bellissimo Re delle Scimmie Sun Wukong! Non è che avresti qualcosa per me… ?”

 

Quando i ricordi lasciarono spazio al presenti, i tre draghi rimasti in ascolto avevano ancora la mascella a terra per la sorpresa.

“Così gli ho donato il tesoro più antico che possedessi …” Disse il Re Drago dell’Est, portando il suo sguardo sull’arma che ora brandiva proprio quella scimmia impertinente, anche se svariati millenni più tardi.

“La colonna che venne usata all’origine dei tempi per misurare la profondità degli abissi marini, ora trasformata in bastone… il Ruyi Jingu Bang (Nyoi Bo) !

Uno dei draghi annuì, lisciandosi i baffi.

“Senza dubbio, senza dubbio… proprio una grande arma. Gliel’hai donata perché hai visto in lui il grande vanto degli dèi che sarebbe diventato un giorno ?”

Proprio quando il Re Drago fu sul punto di rispondere, sua moglie gli abbracciò il collo, e sorridendo con un gran sorriso disse: “ Ma nooo! L’ho convinto io: dovreste credermi, quella scimmietta era così carinaaa !”

Con grande imbarazzo da parte dei Re Draghi, la discussione finì.

 

Un’arma capace di modificare la sua forma in base al volere del portatore, e che non per niente ha un nome che significa Bastone Accondiscendente, il Nyoi Bo poteva venir alterato nelle sue dimensioni senza alcun limite.

Infatti, per Sun Wukong trasformarlo in una colonna o in un piccolo spillo nascosto nel suo orecchio, ovvero come aveva fatto fin’ora, era un gioco da ragazzi.

 

“Mah, non ho mica capito dove la nascondessi prima …” Sbottò con voce lamentosa Ramses, che contro ogni previsione si stava rialzando da terra come se niente fosse.

Quando ebbe sollevato il capo, i suoi occhi si illuminarono di un bagliore superbo: “ Però la voglio !”

Lo scimmiotto dovette mettere da parte la sua sorpresa nel vedere l’avversario ancora in piedi, e piuttosto finse indifferenza con un ghigno.

“Certo, come no. Mi dispiace dirtelo, ma questa arma leggendaria ha un peso di svariate tonnellate, e sono stato l’unico al mondo a saperla maneggiare.”

“ Non ci credo. Fammi provare.” Gli disse con assurda serietà il sovrano, e proprio quella schiettezza mandò su tutte le furie Sun Wukong.

Deciso a porre fine a quella pagliacciata, si scagliò contro il suo avversario impugnando il bastone. Non mostrò alcuna pietà, abbattendolo contro di lui ed utilizzando tutta la sua maestria nelle arti marziali.

I colpi, veloci ed imprevedibili, provenienti da ogni direzione, non poterono nemmeno esser visti dal faraone. Egli infatti venne del tutto immobilizzato da una raffica che addirittura lo tenne sospeso in aria per qualche secondo.

Il colpo finale dello scimmiotto però, compiuto facendo prima roteare il bastone all’indietro, lo scagliò in cielo con un impeto distruttivo senza eguali.

“ Forse in un’altra vita, bastardo !”

 

Gli dèi esplosero in un urlo vittorioso, sollevando i loro pugni in aria per lodare a gran voce il proprio rappresentante.

Sun Wukong. Son Goku. Il Re delle Scimmie.

Questi nomi e titoli venivano acclamati, facendosi beffe di tutti quegli umani che ormai guardavano impotenti l’arena.

 

Quando il corpo del faraone ricadde al suolo come una bambola senza vita, un sussulto si levò tra la folla.

Lo scimmiotto si avvicinò al suo nemico: “ Non dovresti mirare così in alto, soprattutto quando sei un buono a nulla. Se non ti meriti qualcosa, ed in questo caso parlo della vittoria, dovresti semplicemente lasciar spazio a qualcuno di migliore.”

Ramses venne scosso da uno spasmo, e tossì sangue.

Quella reazione improvvisa aveva genuinamente sorpreso il suo avversario, che in fatti si fermò. Proprio grazie al silenzio riuscì a sentire le parole che seguirono:

“ Non avrei dovuto provarci, secondo te? Sarei dovuto rimanere… in disparte ?” I suoi denti, seppur macchiati di sangue, vennero scoperti per mostrare un sorriso.

“ E perdermi l’opportunità di dare questo spettacolo? Ma per carità… non mi sarei lasciato perdere questa occasione per nulla al mondo !”

“ Si può sapere perché lo fai, allora ?!” Sun Wukong digrignò i denti, infastidito da quel comportamento così ottuso.

Il faraone non rispose finché non si fu alzato in piedi, dimostrando di avere ancora il controllo del suo corpo nonostante le ferite pressappoco ovunque.

“ Per farmi guardare, semplice.” E sorridendo, continuò: “ Tu lo sai chi siamo noi se nessuno ci guarda ?”

Lo scimmiotto rimase senza parole, troppo confuso per poter pensare ad una risposta. Rimase fermo ed immobile, guardandolo ma senza capire davvero cosa si celasse dietro quel sorriso mesto.

Nessuno. Ecco chi.” Concluse Ramses II, ed a quel punto sollevò la mano davanti a sé.

 

“ Ma, risparmiandomi questi discorsi da gran figo per qualcuno di meno rammollito… ti toglierò ogni dubbio, e finalmente ti svelerò la mia vera Arma.”

Qualcosa dentro il Re delle Scimmie lo avvertì del pericolo prima ancora che potesse vedere qualcosa.

L’espressione sicura di Ramses, un movimento sospetto nella sabbia, quella postura da preparazione per un attacco. Non avrebbe dovuto lasciarlo agire, questo era ciò che il suo istinto gli ordinava di fare.

“ Piantala di vantarti e sparisci dalla mia vista !” Urlò, scagliando un colpo così veloce che niente al mondo avrebbe potuto anche solo percepirlo.

 

Almeno, questo era ciò che credeva Sun Wukong. Per questo motivo il semplice shock che provò quando percepì qualcosa opporre resistenza al suo invincibile Nyoi Bo, gli fece rizzare la pelliccia con un brivido freddo.

Solo un rumore soffice aveva accompagnato lo scontro del suo bastone contro qualsiasi cosa Ramses avesse eretto a difesa. Ci mise qualcosa secondo per comprendere cosa fosse, ed in quel momento sbarrò gli occhi, incredulo:

Il faraone aveva sollevate ben due armi, incrociandole per assorbire del tutto il colpo. Una era la sua lancia, brandita fino a poco fa, mentre l’altra era… il Nyoi Bo.

In realtà entrambe non erano del tutto identiche, ma erano composte da un materiale giallastro, soffice ma allo stesso tempo quasi indistruttibile. Sabbia.

Ramses si deliziò dell’espressione sorpresa del suo avversario, il quale lo aveva visto evocare proprio dal terreno sabbioso due copie di sabbia di quelle armi.

“ Ti avevo detto che quella tua arma sarebbe stata mia.” Rise, ed approfittando della destabilizzazione di Sun Wukong, non si lasciò sfuggire l’istante giusto per attaccarlo: veloce e mortale come un monsone del deserto, sparì dalla vista di tutti per apparire alle spalle dello scimmiotto.

Questo dapprima avvertì un senso di torpore in tutto il corpo, ma dopodiché si sentì come travolto da una pressione micidiale. Boccheggiò, rantolo, si curvò su se stesso, ed infine crollò su di un ginocchio.

Due squarci orizzontali si aprirono sul suo petto e sulla sua schiena, spruzzando così tanto sangue da ridipingere la sabbia di quell’area dell’arena di rosso vermiglio.

“ Co-Cosa… ?” Provò a dire, ma piuttosto raccolse tutte le sue forze per balzare lontano a distanza di sicurezza.

Vide distintamente il suo avversario voltarsi verso di lui, e per qualche ragione tutte le ferite sul suo corpo non lo facevano più sembrare meno aitante, o in punto di morte come prima. Una misteriosa energia, splendente come il sole, lo rischiarava e ne evidenziava la sua gloriosa bellezza.  

“ Ora sì che lo spettacolo può avere davvero inizio !”



Angolo Autore:
Welcome back! Ha inizio il secondo scontro, e la seconda pubblicazione giornaliera.
Il titolo di questo capitolo è lo stesso della canzone che rappresenta questo scontro, a mio avviso.
Nel primo era: "'Till I Collapse" di Eminem, mentre in questo "Popular Monster" dei Falling in Reverse.
Ramses II è stato il primo personaggio del roster ad essere pensato, e ringrazio ancora la mia ragazza per avermelo fatto venire in mente. Dovete sapere che tutta la mia vita è circondata dal concetto di "Egitto", "faraoni" etc. proprio perché il mio cognome è... bhe, Faraone. Finalmente ho trasformato un meme della mia vita in qualcosa di concreto! 
Basta chiacchiere! A domani!

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Capitolo 6
*** Chapter 6: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose ***


Chapter 6: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose

1259 a.C, Palazzo reale del faraone

Il Nilo scorreva placido come un coccodrillo, brillante sotto il sole cocente del deserto. Fiancheggiava un dominio però del tutto diverso dal panorama sabbioso che si estendeva per miglia e miglia: giardini verdeggianti, piramidi, sfingi e costruzioni sfarzose più simile a regge che a templi.

In quell’aria così lussuriosa ed ammaliante, una vera e propria oasi nella desolazione, mai nessuno si sarebbe immaginato che si stessero decidendo le sorti di un’importante guerra.

 

“ C-Cos’ha detto, mio faraone ?!” Il consigliere per poco non balzò dalla sua sedia, una reazione simile anche in tutti gli altri uomini del consiglio.

I loro sguardi erano rivolti in fondo alla lunga tavolata, dove il sole incorniciava la siluette di un uomo seduto sul suo trono.

“ Ho detto che …” Prese parola il giovane, sorridendo nella penombra per la reazione esagerata dei suoi uomini.

“ Con gli ittiti firmerò un trattato di pace. La battaglia di Qdesh non deve continuare ancora, vent’anni sono stati sufficienti per renderci conto della sua effettiva inutilità: è uno spreco di risorse, vite umane e, sinceramente anche del mio tempo su questo mondo.”

“ E per questo vorrebbe scendere a patti con quegli invasori ?!” Sbraitò però un membro del consiglio, così in preda alla rabbia da utilizzare un tono che gli avrebbe fatto rischiare l’esecuzione.

“ In guerra o si vince o si perde !” Continuò però imperterrito. Normalmente gli altri membri avrebbero dovuto riprenderlo per quel comportamento oltraggioso verso il faraone, ma nessuno sembrava davvero in disaccordo con le sue parole.

Il giovane uomo si passò tuttavia una mano tra la sua chioma cremisi, godendosi il massaggio delle sue ancelle su tutto il corpo: “ Gli ittiti sono validi avversari, ma altrettanto degni di meritare la pace. Riflettete: ai giorni nostri gli uomini non vivono più di venticinque anni. Volete davvero che i figli dei vostri figli nascano e muoiano durante la stessa guerra, senza poter conoscere… che ne so, la gioia dell’amore ?”

All’ennesimo sorriso sornione del re d’Egitto, il ministro che prima aveva parlato montò su tutte le furie.

“ P-Pace… pace?! Continua a ripetere questa parola, mia faraone! Ma si può sapere a cosa brama davvero? Perché mai vorrebbe fare qualcosa del genere ?!”

A quel punto Ramses II si curvò in avanti, appoggiando i propri gomiti sulle gambe. Il suo sorriso splendeva anche nell’ombra che il gigantesco trono gettava sulla tavolata.

“ Semplice: perché nessuno l’ha mai fatto! Né mio padre Sethi I, o tantomeno il mio antenato Tutankhamon hanno mai messo fine ad una guerra in questo modo… posso dire anzi, con assoluta certezza, che mai e poi mai nella storia si è verificato un evento simile. Quindi… sarò il primo a terminare una guerra con la pace! Non è grandioso ?”

 

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nessuno aveva messo in dubbio, durante il suo breve regno, che Ramses fosse assolutamente il faraone più folle che avesse mai preso in pugno il destino dell’Egitto.

Il ministro non ebbe più alcun controllo sul proprio corpo, ed in preda ad un raptus di follia si lanciò gridando contro il suo sovrano.

“ Maledetto folle! Non rovinerai così l’Egitto !” Brandendo una spada, balzò sul tavolo e corse verso Ramses.

Il faraone non dovette muovere un muscolo: osservò come un lampo decorato da un’armatura di bronzo e gioielli avesse intercettato ed immobilizzato il suo attentatore, e ne sorrise compiaciuto.

 

Amonherkhepshef, il figlio più anziano del regnante e colui che rivestiva le cariche più prestigiose, aveva uno sguardo serio e risoluto, del tutto diverso da quello giocoso e noncurante del padre.

“ Grazie Amon.”

“ Bastardo! Vergogna della tua stirpe !” Urlava intanto l’attentatore, mentre altre guardie sopraggiungevano per portarlo via.

“ Costruisci opere sontuose e appariscenti non per rendere omaggio agli dèi, ma solo alla tua immagine! Sarai punito, prima o poi: il tuo regno non durerà in eterno !”

Mentre quelle parole rimbombavano nella silenziosa sala, il sorriso del faraone divenne improvvisamente più serio, come se avesse acquisito una gravosa consapevolezza.

 

Grazie a quell’evento, Ramses II fu più deciso che mai a scendere a patti con gli ittiti, ponendo fine alla Battaglia di Qdesh con il primo trattato di pace della storia dell’umanità intera.

Tuttavia, il suo sforzo di lasciare un’impronta nel corso degli eventi dei suoi simili, ancora una volta era stato ostacolato da una pretenziosa minaccia.

- Il mio regno non durerà in eterno …-

Ramses lo sapeva. Ne era consapevole sin dalla sua nascita, perché il numero di persone che continuavano a ripetergli quella frase non aveva mai smesso di aumentare. Per quanto lui si impegnasse, per quanto combattesse, per quanto costruisse…

 

Quando fu sul punto di lasciare il suo harem per dirigersi in battaglia, la sua prima battaglia dopo esser salito al potere, una donna lo lasciò scivolare dalle proprie braccia dicendo:

“ Che peccato perderti così, come tutti gli altri. Voi faraoni credete di dominare in eterno, ma prima o poi tutto ha una fine.”

Persino la sua seconda sposa Isinofret, una donna che mai l’aveva amato davvero, ma che era dovuta succedere alla sua amatissima e defunta Nefertari, si faceva beffe di lui continuamente.

“ Così vecchio, ti puoi riempire di amanti fino a quanto vuoi, ma di mogli vedrai per ultima me… e quando il sole tramonterà sul tuo regno, io andrò in sposa ad un altro faraone.”

I figli avuti con Isinofret, dopo che i figli di Nefertari erano morti, non facevano altro che ricordargli quelle stesse parole, dimostrando così di essere avari quanto la madre:

“ Padre! Indovina chi ti succederà prima o poi? Non che tu abbia scelta, d’altronde… tutti questi titoli ci spettano di diritto, e morto un faraone se ne fa un altro !”

- Morirò.- Ramses ripeteva le loro parole.

Le ripeté per anni. Ed anni. Ed anni. Così tanti anni che…

 

- Sono morti tutti.-

Ramses II fu un uomo straordinario, che mai nessuno della sua epoca poté eguagliare.

Fu per i traguardi ottenuti in guerra? No.

Fu per il gran numero di eredi che ottenne, ovvero più di cento? No.

Fu per le splendide costruzioni da lui volute, che per tutta la storia dell’umanità resero famoso il suo regno per la bellezza e la magnificenza? Ebbene no.

Ramses II visse per ben novantadue anni, dei quali regnò per sessantasei. Mai nessun faraone si poté vantare di aver manovrato le sorti del proprio regno per una simile durata, segnando una vera e propria era nella storia che prese proprio il suo nome: Epoca Ramesside!

Chiunque avesse perciò auspicato al suo regno di tramontare prematuramente, come accadeva a tutti i sovrani d’Egitto, morì ben prima di lui. Così Ramses vide sotto i suoi occhi perire chi aveva combattuto a Qdesh, tutte le sue amanti, le sue mogli ed i suoi figli.

Solo, il più anziano faraone mai vissuto, sedeva sul trono consapevole solo di una cosa:

Lui era il Re dei Re, e mai nessuno l’avrebbe eguagliato.

 

 

Ma qual’era il motivo che lo aveva spinto a vivere così a lungo?

- Essere guardato da quante più persone possibili.- Rispose Ramses, ora nell’Arena del Ragnarok.

La battaglia era ripresa.

 

“ Così è quella la tua Arma …” Osservò Sun Wukong, ripresosi dallo shock di aver subito un colpo inaspettato. La ferita sul suo petto non era nemmeno tanto profonda, ma la sua carnagione si era fatta di colpo più pallida per lo spavento.

Il faraone annuì, iniziando a roteare ciò che aveva tra le mani in maniera vistosa.

Silt of the Nile… il potere di creare qualsiasi cosa io voglia dalla sabbia.”

Tale abilità derivava dalla settima Sephirot: Netzach, l’Eternità.

“ Ed ora preparati! Diamo inizio alla ribalta !” Gridò, inclinando entrambe le armi parallelamente al terreno e ricominciando a roteare su se stesso come aveva fatto prima.

Stavolta però, anziché avvicinarsi al suo avversario, decise di scagliare come proiettili prima il bastone e poi la lancia.

I colpi, carichi di tutta l’energia cinetica accumulata, tracciarono due dischi fluttuanti nel cielo provenienti da direzioni differenti.

“ Tifone del Deserto !”

 

Nonostante ormai non potesse più sottovalutare il suo avversario, lo scimmiotto mantenne la freddezza necessaria per non arretrare all’istante. Piuttosto, sollevò il Nyoi Bo in posizione di difesa prepararsi al primo colpo che sarebbe arrivato.

Ad una velocità spropositata, il primo Tifone del Deserto impattò contro la sua guardia, e la forza inattesa che venne sprigionata gli fece accapponare la pelle.

- Dannazione! Anche se si tratta di sabbia, è pesantissima !- Pensò il re delle scimmie, per fortuna avendo parato con successo l’attacco. Deciso ad evitare un altro colpo del genere, schivò la copia della lancia con un balzo.

Ad attenderlo però, quando fu sul punto di rimettere piede per terra, fu una scarica di piccoli aggetti dalla punta affilata scagliati verso di lui: coltelli di sabbia.

Con un colpo di bastone effettuato all’ultimo istante riuscì a disperderli, ma ciò servì soltanto a distrarlo per un istante, il tempo necessario affinché Ramses non gli lanciasse addosso un altro attacco simile.

“ Scorpioni del Deserto !”

L’incessante serie di colpi approfittava della rottura del ritmo di Sun Wukong, ormai barcollante sul filo di un rasoio tra un attacco ed un altro. Il faraone non accennava a voler dare al suo avversario un po’ di respiro, dimostrando al suo contrario una stamina infinita: la velocità con la quale faceva emergere dalla sabbia ai suoi piedi i coltelli per poi scagliarli era impressionante.

 

Lo scimmiotto continuava a balzare e a colpire in qualsiasi direzione apparisse l’attacco, senza mai fermarsi, ma accorgendosi suo malgrado di non poter più colmare la distanza che ora lo separava dal suo avversario.

- Sa bene che nel combattimento ravvicinato non riuscirebbe più a cogliermi alla sprovvista, ed è addirittura consapevole della mia superiorità nell’uso del bastone !- Mentre nella sua mente rimbalzavano tali pensieri al ritmo delle sue schivate, con la coda dell’occhio riuscì a scorgere un’ombra proveniente alle sue spalle.

Forse l’aveva solo immaginata, o si trattava di un gioco di luci in quella strana arena: era troppo impegnato a respingere gli Scorpioni del Deserto per occuparsene.

Fu in quel momento allora che la figura alle sue spalle, ovvero una copia di Ramses II armato di lancia e composta di sabbia, gli sferrò un colpo alle spalle. Lo scimmiotto però, come aveva già previsto, non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi. Facendo semplicemente roteare il Nyoi Bo sopra la sua testa, poté dissolvere dei coltelli diretti verso di lui e allo stesso tempo decapitare il clone con una freddezza disarmante.

 

Gli umani e gli dèi, che in un istante avevano intravisto una possibile vittoria da parte del faraone, sobbalzarono alla vista di come la situazione si fosse stravolta in un battito di ciglia.

Persino Ramses era rimasto non poco stupito nel vedere il suo attacco furtivo venir sventato, e questa sua sorpresa gli costò qualche attimo di distrazione. Più che sufficiente per il Re delle Scimmie, il quale puntò il proprio bastone verso di lui come se fosse una stecca da biliardo.

Grazie al solo sforzo della sua mente, un ordine impartito alla propria arma permise ad essa di allungarsi con velocità fulminea verso il faraone, annullando del tutto la distanza creatasi fino ad allora.

 

Ramses, in preda al panico per quell’attacco non previsto, evocò in fretta e furia svariati suoi cloni per formare una barriera davanti a sé.

“ Inutile !” Ruggì però Sun Wukong, cambiando repentinamente posa, e con essa anche l’attacco.

Muovendo un passo in avanti ed abbassandosi, spiccò un balzo verso l’alto e sferzò l’aria in direzione obliqua grazie ad una rotazione devastante. L’affondo di prima, ora trasformatosi in una spazzata, polverizzò lo scudo umano di Ramses come granelli al vento.

Alle spalle della sua inutile difesa, in un turbine di sabbia, il faraone venne colpito duramente sul fianco scoperto: questa volta il colpo riverberò nelle sue ossa e, a giudicare dal rumore che emisero le sue costole, gli procurò ben sette fratture letali più un’emorragia nel sistema respiratorio.

Con uno schioppo sordo che risuonò in tutto il colosseo, l’umano venne scagliato fino alla parete più lontana dell’arena. Lì il suo volo trovò fine quando si schiantò contro il muro, incastonandosi in esso.

 

Disperandosi, gli umani ulularono il nome di Ramses, ma stavolta con dolore. Amon, il primogenito del faraone, circondato da un’altra centinaia di suoi fratelli e fratellastri, gridò il nome del padre con le lacrime che gli puntellavano gli occhi.

In lontananza, Ammit guardava l’arena con uno sguardo serio, di ghiaccio. Al suo fianco c’era una donna nascosta da un mantello con cappuccio.

La platea divina invece gridò al nome della sua avanguardia, festeggiando il colpo letale andato a buon segno.

“ Chi l’avrebbe mai detto ?” Fu il commento cinico di un anziano uomo con una lunghissima e sottilissima coda di capelli grigi sul suo cranio pelato.

“ Quella piccola scimmia che adopera strategie di combattimento ben più complesse del semplice “attacca alla cieca”? Dannazione… se gliele avessi insegnate io a suo tempo, ora potrei vantarmi di essere stato il suo maestro più influente.”

L’uomo in questione era Shubuti, un maestro zen che Sun Wukong aveva assillato fino alla noia affinché gli insegnasse le arti marziali. Purtroppo per la scimmia, il maestro era assai intollerante con chiunque non completasse tutte le fasi del suo addestramento, il quale comprendeva anche la meditazione e la filosofia.

“ Purtroppo devo ammettere che questa si tratta di tecnica.” Disse con un misto di ammirazione e dolcezza. “Tecnica che si apprende solo in anni ed anni, e che nessun maestro potrebbe mai insegnare. Chissà quale viaggio lo ha spinto a tanto …”

 

Il guerriero dalle fattezze scimmiesche, divenuto la leggenda più conosciuta dell’Asia con un racconto del sedicesimo secolo a lui dedicato, viene associato a due eventi:

La sua ricerca dell’immortalità, la quale lo ha portato a sfidare tutti gli dèi del pantheon cinese, ed il viaggio verso l’Occidente per redimersi dalla sua superbia accompagnato da dei fedeli compagni.

Ebbene, uno di questi accaduti in realtà è falso.

 

Il giorno in cui Sun Wukong raggiunse l’apice della sua potenza dopo esser divenuto la creatura mortale più forte che mai avesse calpestato il suolo terrestre, anche la sua richiesta dell’immortalità era divenuta insopportabile alle orecchie degli dèi. Questi, organizzandosi in una spedizione punitiva, raggiunsero la terra per porre fine alla sua arroganza.

Ciò che trovarono però, non fu la semplice scimmia combattente le cui gesta avevano raggiunto il loro placido soggiorno nel Paradiso.

Bensì, si parò davanti a tutti loro un autentico demone.

 

“ Fatevi avanti !!” Ruggì la bestia, dopo aver scalato a mani nude la montagna di corpi insanguinati da lui costruita per raggiungere le nuvole. Sotto i suoi piedi schiacciava divinità, santi ed immortali, tutti abbattuti con il bastone che ora stringeva tra i denti.

Macchiato di sangue dalla testa ai piedi, con l’armatura ormai in frantumi, quella scimmia con il dono della parola e di una tenacia senza eguali, era arrivato dove mai nessuno aveva osato tentare di arrivare.

Quando si fu ritrovato ai piedi del Palazzo di Giada, e solo la famiglia reale dell’Imperatore di Giada e Buddha rimanevano da spodestare, urlò a squarciagola contro il Paradiso.

“ Vi volete decidere sì o no a rendermi un fottuto immortale come voi?! Eh ?! Vecchiacci !!” 

 

Gli dèi, senza più nulla da fare se non chinare la testa ad una simile ineguagliabile potenza, dovettero cedergli la vita eterna senza obbiettare.

Non ci furono alcune pesche sacre dell’immortalità come nella leggenda, ma solo una vittoria schiacciante.

Tuttavia, ciò che attendeva Sun Wukong nella sua nuova vita era un tranello ben più inatteso.

 

“ Come? Puoi ripetere ?” Domandò la scimmia, sbalordita.

Davanti a sé un dio in giacca e cravatta, proprio come lui, digitava ad un computer senza mai fermarsi. Si trovavano in un’enorme sala, dove non si poteva posare occhio senza trovare una scrivania con sopra due o tre operatori ben vestiti e con gli occhi fissi su di uno schermo.

Il rumore delle dita sulla tastiera era come di uno sciame di api sempre ronzanti.

- Che cosa ha a che fare questo con gli dèi ?-

“ Il tuo compito in quanto dio da adesso in poi sarà monitorare gli umani.” Rispose in espressivamente il suo collega di scrivania. “ È quanto scritto nel contratto di lavoro che hai firmato. Ora devi accendere il computer ed aprire il programma: Record of…”

I suoi discorsi robotici si persero nel vuoto creatosi nella mente di Sun Wukong, il quale non poteva rendere la sua espressione meno confusa di com’era in quel momento.

“ F-Fermo, fermo! Per quanto devo fare questo lavoro? Io pensavo che fare il dio significasse combattere  contro mostri e demoni! Quando potrò essere promosso per fare quelle cose lì ?”

“ Sarai dietro questa scrivania per tutto il resto della tua vita. E sei un immortale ora. Quindi abituati ed inizia a lavorare.”

La scimmia iniziò a tremare convulsamente, mentre la sua faccia stupita ed incapace di reagire propriamente a quella situazione incomprensibile rimaneva paralizzata. Voleva piangere, urlare, uccidere tutti e distruggere ancora il Paradiso.

Però in realtà era solo confuso.

- Eh ?-


Angolo Autore:
Welcome back!
Come ho detto in precedenza, in questo capitolo c'è l'esempio di una cosa che mi piace molto fare: stravolgere la storia. In realtà preferisco chiamarla decostruzione secondo un differente contesto, più che altro legato alla tematica che voglio rappresentare.
Quando scrissi questo capitolo volevo parlare per l'appunto dell'identità dell'individuo, e di come questa venga inevitabilmente condizionata da ciò che ci accade. Il lavoro che scegliamo (o non scegliamo), quanto a lungo viviamo, le persone che ci circondano... ammetto che il tema dell'alienazione che ha impigrito Sun Wukong può sembrare buffo e ridicolo, me ne rendo conto.
Comunque sia, spero riusciate a godervi questo scontro ^^!

A domani!

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Capitolo 7
*** Chapter 7: Let the Show Begin ***


 Chapter 7: Let the Show Begin

L’incertezza e la paura tra gli umani dilagava dopo che il loro campione aveva subito un attacco così devastante. Neppure Masutatsu Oyama aveva mai riportato un danno tanto grave nel duello precedente, e l’ulteriore silenzio nell’arena lasciava presagire una sconfitta.

Ovviamente tutti pregavano affinché ciò non accadesse, confidando invece nel miracolo che solo l’umanità avrebbe saputo dar loro.

 

All’interno del campo di battaglia, Sun Wukong avanzò a passo lento fin dove aveva scaraventato il suo sfidante. Il bastone allungabile pendeva sulla sua spalla, appoggiato svogliatamente.

“Reputi davvero necessario soffrire così tanto pur di dare spettacolo ?” Stavolta lo scimmiotto mostrò un tono di voce molto diverso da quello usato in precedenza per parlare con Ramses: non presentava più spavalderia nel fargli una predica che contraddistingue chi nutre pietà per il suo nemico, ma piuttosto era calmo e riflessivo.

Il suo interlocutore, il quale non era affatto un uomo morto, si mosse.

Con un minimo sforzo il faraone si liberò dalla roccia dentro la quale era stato conficcato, così da rimettere piede per terra. La sua testa penzolava all’ingiù.

“Eheh …” Tuttavia, una rauca risata risalì la sua gola. “Senza offesa, o Re delle Scimmie, ma …”

Quando mostrò a tutti i presenti il suo viso, presentava un sorriso smagliante dal quale colava sangue come una cascata.

“Non posso sprecare il mio fiato spiegando il valore della spettacolarità a chi non sa nemmeno cosa farsene della propria vita illimitata !”

Gli occhi della scimmia si sgranarono, diventando due pozze di fuoco rosse e torbide. I peli sul suo corpo si rizzarono come saette, iniziando a serpeggiare nell’aria.

“Che cosa… hai detto ?!” Sibilò tra i suoi denti mostruosi in bella vista.

Il faraone fece spallucce, con aria di finta rassegnazione: “ Dico che non te ne fai niente della tua immortalità. Per questo motivo sei un dio inutile, e se non ti eliminassi qui ed ora sarebbe una grave sconfitta morale per l’umanità: perdere contro un dio che spreca il suo stato di divinità-”

Non fece nemmeno in tempo a concludere il suo discorso, siccome si ritrovò con la testa conficcata nella parete dell’arena, questa volta però molto più a fondo. Il fragore, simile ad un’esplosione, fece balzare dai propri posti tutti gli spettatori per la sua improvvisa violenza.

 

Fu possibile intravedere solo per una frazione di secondo la mano di Sun Wukong che aveva incastonato Ramses nella pietra, prima che entrambi sparissero.

Un boato sonico si sollevò al centro del colosseo, ed in men che non si dica per qualche strana ragione tutte le mura del campo di battaglia si creparono, per poi sgretolarsi sempre più.

Con la stessa imprevedibilità con la quale tutto era iniziato, piombò di sasso il silenzio: Sun Wukong riapparve e scagliò il corpo di Ramses al centro dell’arena.

 

“I-Incredibile! Senza che nessuno di noi se ne accorgesse …” Dissero i conduttori, non riuscendo a credere ai loro occhi mentre facevano proiettare delle immagini a dir poco terrificanti.

Le pareti dell’arena ora presentavano dei solchi ben scavati che ne percorrevano la sua circonferenza svariate e svariate volte. Tutto ciò fino a poco prima non c’era.

Dopo aver lanciato come un peso morto il suo avversario, Sun Wukong riprese parola buttando fuori un gran sospiro. La sua carnagione ora ben più rossastra e con il pelo arruffato che lo faceva apparire il doppio delle sue reali dimensioni, gli donavano un aspetto terrificante.

Sollevò il dito indice accanto al suo volto, scuro dalla rabbia: “ Un secondo. Mi ci è voluto un secondo per farti fare il giro dell’arena per ben cinquantadue volte.”

Sotto gli occhi increduli del pubblico, ora il guerriero scimmia presentava un ulteriore cambiamento: non aveva più i piedi poggiati per terra, bensì sedeva a gambe incrociate su di una nuvola dorata fluttuante.

Gli dèi cinesi impallidirono a quella visione, inevitabilmente spaventati anche dal proprio combattente:

“Quella tecnica !” Rabbrividirono dal timore reverenziale. “ È la famigerata tecnica di quel bastardo che lo rende così forte! Sembrava strano che non l’avesse usata fin’ora …”

Una delle arti magiche padroneggiate dal Re delle Scimmie, e che assieme al suo Nyoi Bo gli aveva concesso di conquistare il suo posto in Paradiso: Cloud Walking, la possibilità di richiamare una nuvola che gli permetteva di spostarsi ad una velocità inafferrabile.

 

- Niente …- Pensava intanto la scimmia, ancora accecata dalla rabbia.

- Io non me ne farei niente… della mia immortalità ?-

“Non è possibile! Ladies and gentlemen, ci crediate a no, ma anche dopo i temibili colpi inferti da Sun Wukong …”

Le urla di St. Peter e Adramalech lo riportarono alla realtà, assieme ad un sussulto inorridito della folla.

Quando guardò davanti a sé, non poté fare a meno di restare a bocca aperta.

“... Ramses il Grande si è rialzato !”

Il re d’Egitto, ora con una spaventosa ferita alla testa nascosta tra i capelli, ma dalla quale fuoriusciva un fiumiciattolo di sangue, stava raddrizzando la sua schiena.

La prima cosa che fece fu incrociare il suo sguardo con quello dell’avversario.

“Che c’è? Sembri del tutto diverso rispetto a prima.”

Quell’affermazione a bruciapelo fece tentennare persino Sun Wukong. Lui, in vantaggio e di fronte ad un mero umano prossimo alla morte, era scosso.

Di nuovo Ramses fece prorompere la sua risata giocosa, così infantile e limpida per appartenere ad un uomo potente come lui. Quando ebbe finito, asciugandosi una lacrima mentre sorrideva, lanciò un’occhiata d’intesa al suo avversario:

“ È davvero così brutto ammettere che finalmente hai realizzato che l’unica cosa che ti fa sentire vivo è combattere ?”

Il sole illuminava la sua espressione radiosa, per niente adatta a qualcuno nella sua posizione.

“Anzi, lasciamo correggere… non l’hai affatto realizzato. Tu te lo sei ricordato: qualcosa dentro di te per tutto questo tempo ha sottomesso il vero motivo per cui eri in vita !”

Sun Wukong non sapeva davvero più come reagire. Il suo cuore divino era straziato da quelle parole.

- Perché… perché questo umano …-

Rivide se stesso millenni prima mentre scalava una montagna di dèi abbattuti.

Rivide se stesso per millenni intento ad impiegare il suo tempo nel nulla più assoluto.

Era vero. Lui non aveva fatto niente con la sua immortalità.

- Perché questo umano ha ragione ?-

 

“E allora dimostrami che puoi anche godere della tua vittoria !” Esclamò il faraone, indicandolo con spietatezza. “ Solo così daremo un degno spettacolo agli dèi e agli uomini !”

- Il motivo per cui ho combattuto… il motivo per cui combatto …- Si disse Sun Wukong, all’apice della sua esperienza di vita eterna.

Tutti i suoi sensi si affinarono, ed il tempo stesso parve rallentare mentre la nuvola dorata era pronta a scattare. La presa sul bastone si rafforzò. I suoi muscoli erano tesi.

-… era in fin dei conti proprio di dimostrare agli dèi che io fossi qualcuno! Era… dare spettacolo !-

I due combattenti, pronti più che mai, si prepararono a riprendere le danze.

 

Il Re delle Scimmie fu più veloce, e in un baleno si era già fiondato sul suo avversario.

L’egizio venne sbalzato in aria per la potenza di innumerevoli colpi abbattuti su di lui senza nemmeno che potesse vederli arrivare. Il dolore lo raggiunse quando ormai lividi e squarci si erano aperti lungo tutto il suo corpo.

- Non ce la faccio così! Se prendo un altro colpo del genere potrei morire !- Non avrebbe mai potuto superare la velocità della nuvola dorata, soprattutto nelle sue condizioni attuali: ossa rotta e muscoli distrutti oltre il limite di sopportazione umana gli rendevano una sforzo disumano anche solo stare in piedi.

Approfittò del momento in cui Sun Wukong dovette allontanarsi per prendere la rincorsa per agire.

Accasciato sulla sabbia sua alleata, si lasciò ricoprire da essa in una barriera. Ben presto, sorse qualcosa di spaventoso e bellissimo al tempo stesso: si trattava di una gigantesca armatura con tanto di maschera, copricapo e lancia.

Quella scultura di sabbia affascinò gli umani senza nemmeno che sapessero il perché, anche chi di loro non aveva mai visto in vita sua i meravigliosi sarcofaghi dell’Antico Egitto.

Armatura del Re !” Brandendo la sua arma in posizione di difesa, il colosso si preparò ad incassare l’ennesimo colpo del suo nemico, di circa un metro e mezzo più piccolo.

Sun Wukong comprese immediatamente quale fosse lo scopo del suo avversario: si era preparato a bloccare la sua carica con quella mole gigantesca e con la durezza della sabbia, per poi colpirlo dopo che avesse finito l’inerzia.

Non se ne badò, ed anzi assottigliò lo sguardo per prendere al meglio la mira. La nuvola vibrò.

 

Un istante dopo aveva tracciato una saetta dorata nell’aria, e si trovava alle spalle dell’Armatura del Re: quest’ultima era stata distrutta con un sol colpo dalle gambe in su, cancellandola completamente dal creato.

All’occhio dello scimmiotto però balzarono due dettagli: il primo fu che l’impatto aveva arrestato inevitabilmente la sua carica, mentre il secondo fu che nell’armatura non si trovava più il suo avversario.

In quel momento, approfittando della sua distrazione, dalla sabbia balzò fuori Ramses con la lancia puntata direttamente al suo petto. Il faraone, mascherato tra l’esplosione di granelli e al di sotto dell’ombra che gettava la nuvola di Sun Wukong sul pavimento, non era stato visto fino all’ultimo istante.

Con precisione micidiale però il Re delle Scimmie gli inflisse un colpo secco al centro della testa, spaccandogliela in un’esplosione di ossa craniche, occhi e cervello.

Si accorse troppo tardi però, che tutto ciò che il suo bastone aveva colpito non era nient’altro che sabbia, o meglio, l’ennesima copia di sabbia.

Fu proprio allora che dalla parte inferiore dell’Armatura del Re, dov’era rimasto nascosto fino ad allora, il vero Ramses II raccolse tutte le sue forze per scagliarsi a braccia spalancate verso il suo avversario. Stavolta Sun Wukong non poté fare niente per fermarlo, avendogli lasciato il fianco scoperto.

Si aspettava un colpo letale, ma il Faraone aveva sacrificato il peso di un’arma per una strategia migliore: lanciandosi sulle gambe dell’avversario, le cinse in un abbraccio per potergli far perdere l’equilibrio e disarcionarlo dalla nuvola.

Così accadde, ed i due si ritrovarono avvinghiati sul terreno mentre al di sopra delle loro teste la folla urlava selvaggiamente in preda a speranza e disperazione.

I combattenti, con i sudori freddi a causa di come le sorti dello scontro si erano ribaltate in fretta, ebbero modo di guardarsi negli occhi solo per un istante. Poi raccolsero tutto il loro fiato.

 

Provando a tener bloccato lo scimmiotto sulla sabbia, Ramses lanciò un grido di rabbia per far appello a tutte le sue forze.

Alle spalle di Sun Wukong si stagliarono improvvisamente molteplici figure, e quando lui si voltò venne assalito dal terrore: si trattava di un ippopotamo, un coccodrillo ed una sciacallo con le fauci spalancate, ed anche un falco in picchiata sulla sua testa con gli artigli protratti.

“La carica degli animali più pericolosi dell’Egitto !” Li presentarono gli annunciatori: “Ora che Sun Wukong si trova nella sabbia è a tutti gli effetti nel dominio del faraone !”

Le fiere piombarono sulla loro preda pronti a divorarla, ma una di esse venne intercettata al volo da un pugno.

Ne seguì un altro, poi un altro ancora.

Ramses, il quale aveva la testa schiacciata contro il petto del suo avversario per immobilizzarla a terra, poté udire il suono delle sue copie di sabbia venir distrutte.

- Com’è possibile?! Da questa posizione non dovrebbe potersi difendere …- Quando suo malgrado si ritrovò costretto a sollevare lo sguardo, lo accolse una visione così impensabile da provocargli grande paura.

“È-È l’altra famosa tecnica del Re delle Scimmie !” La riconobbero al volo gli dèi cinesi, per quanto le loro espressioni di sorpresa non fossero dissimili da quella del faraone.

 

Sun Wukong era ancora bloccato al suolo, con le spalle rivolte a dove poco prima si trovavano le bestie di sabbia, eppure qualcosa di sbagliato stava accadendo: proprio dalla sua schiena erano emerse delle braccia, e poi sempre più rapidamente delle figure antropomorfe.

Ramses assistette impotente alla generazione di svariati cloni del re scimmia a partire dal suo corpo, tutti imbraccianti il Nyoi Bo e con un ghigno trionfante sul viso.

Quando riportò lo sguardo sull’originale, il suo vero avversario gli mostrò un sorriso altrettanto maligno, con i suoi occhi ancora fiammeggianti come due pietre laviche.

Shen Wai Shen Fa: una tecnica magica che consente a Sun Wukong di creare un clone a partire da un singolo pelo della sua pelliccia. Senza questa magia non avrebbe mai potuto schiacciare l’armata di settantadue divinità mandatagli contro per fermarlo.

Ovviamente non ricorreva a questa tecnica proprio da quella leggendaria battaglia, e la scarica di adrenalina generata nel suo corpo proprio in quel momento gli stava ricordando la sensazione inebriante di potere appartenente a quell’evento.

Sun Wukong aveva risvegliato la cognizione di sé, ampliandola oltre ogni limite impostogli dal tempo passato a non far nulla, che aveva proprio soppresso ogni suo sogno e desiderio di potenza.

Se non si ambisce al potere non si può ottenere il potere, e chi smette di combattere dimentica anche perché solo avesse desiderato combattere. La rinascita dello scimmiotto era giunta.

 

“N-No !” Grugnì il faraone, colto alla sprovvista da quella straordinaria evoluzione. Provò ad allontanarsi dal nemico, ma anche il minimo spostamento gli costò un’emorragia interna sempre più grande.

Intanto il suo avversario, ora fiancheggiato da una decina di cloni, si era rialzato in piedi.

“Ti ringrazio per aver risvegliato in me la volontà di combattere. Se non mi mettessi in mostra proprio ora che ne ho la possibilità, allora tutta questa attesa fino ad oggi non significherebbe nulla !” Le sue parole sincere traboccavano forza come un fiume straripante, e con la loro intensità travolsero chiunque era in ascolto.

Dèi ed umani percepirono un brivido freddo lungo la loro schiena, incapaci di immaginare cosa avesse potuto rappresentare quel breve scontro nella lunga vita di Sun Wukong per portarlo a dire qualcosa del genere.

 

Tuttavia, Ramses II non volle ascoltare, ed agitando una mano fece ergere una schiera di copie sabbiose per proteggerlo.

Bastò poco ai cloni di Sun Wukong  per polverizzarle tutte.

“Purtroppo per te ho scovato il limite della tua Arma.” La voce rigida dell’avversario lo fece tremare dalla paura, incoraggiandolo ad arretrare sempre più mentre creava altre copie.

“A quanto pare non puoi esattamente creare qualsiasi cosa tu voglia, o almeno non senza delle ripercussioni. Per questo fino ad ora hai solo generato qualcosa che tu conoscessi bene: la tua lancia, quegli animali, l’armatura, i pugnali e persino… te stesso. Al contrario, non hai ricreato subito il mio Nyoi Bo, nonostante avessi detto che lo desiderassi già da un po’. Hai aspettato, dovendo persino incassare diversi colpi, con il solo scopo di imprimerlo al meglio nella tua memoria. Questo è il tuo limite: non puoi generare qualcosa di cui non conosci ogni singolo dettaglio alla perfezione.”

La scimmia continuava ad avanzare, mentre tutto attorno a lui svolazzavano i cloni  dissolti del suo avversario.

“Ti devo fare i miei complimenti per aver imparato la conformazione del mio bastone mentre sopportavi tutti quei colpi. Comunque sia, non ho finito qui: la seconda limitazione del tuo potere è che dopo aver generato qualcosa dalla sabbia il tuo corpo non è immediatamente pronto ad agire. Per questo prima mi hai mantenuto a distanza con quei pugnali, ed ora fai lo stesso con i tuoi cloni.”

Gli occhi del faraone, sbarrati per la disperazione che ora lo stava possedendo, riflettevano proprio l’ombra oscura dell’avversario che ormai incombeva su di lui.

- N-No… no! Io non posso… morire qui !-

 

 

Il sole, secondo gli egizi simbolo del dio Rah, stava tramontando all’orizzonte.

Tra la linea gialla rappresentata dal deserto ed il cielo purpureo c’era solo qualche macchia di imperfetta perfezione: oasi che riflettevano i raggi, splendendo come premature stelle sulla terra.

Il Nilo, di fianco al palazzo, ospitava qualche barca di pescatori. In lontananza la città con i suoi lavoratori era ancora in piena attività.

Tra le sabbie c’erano cammelli, scorpioni, mercanti e tanti altri esseri viventi.

Insomma, sotto quel tramonto non tramontava affatto la vita dell’uomo.

“ Amon …” Ramses II, soffermatosi ad osservare quel panorama mozzafiato con affianco il piccolo primogenito, lo richiamò con voce dolce ma autorevole.

Amonherkhepshef sollevò il capo. La tristezza tradiva come anche lui fosse estasiato da tale paesaggio.

“Mi vuoi chiedere qualcosa, vero ?”

Il bambino annuì, prendendosi le guance tra le mani e chinando ora lo sguardo.

“Padre, volevo chiederti da giorni ormai… come mai non avessi versato una lacrima al funerale di mia madre, la tua regina Nefertari. Tutto il regno ha pianto, persino i consiglieri ed i soldati.”

L’uomo accennò un sorriso, come a voler giustificare la risposta: “ Già, era molto amata.”

“E tu l’amavi? Me lo chiedo perché… se tu non l’avessi amata allora giustificherebbe come mai tu non abbia pianto.” 

“ L’amavo moltissima, Amon.” Stavolta il faraone fu diretto, non volendo torturare ulteriormente suo figlio nel dubbio.

“Nefertari era la mia amata prima che la mia regina. Lei era padrona di tutto ciò di cui io ero padrone, l’unica a cui mi sentissi sicuro di affidare il mio regno… ed anche la mia vita. Mi manca moltissimo.”

Amonherkhepshef rimase in silenzio, guardando il tramonto assieme al proprio genitore. Forse stava cercando di scorgere il viso della madre tra le nubi rosate del crepuscolo.

“ Ti manca moltissimo, ma comunque non smetti di fartela anche con altre donne.”

Quel commento così estraniato del figlio fu come una pugnalata al cuore per Ramses, il quale, colto in flagrante, non seppe proprio come rispondere. Divenne così rosso che fu grato ai colori del tramonto, nel caso l’avessero fatto passare inosservato.

“Ehm… sì. Ma non è questo il punto.” Cercò di salvarsi, schiarendosi la voce.

“Comunque sia, io non amerò mai nessuna donna come ho amato Nefertari. Però… il giorno del suo funerale non ho pianto perché ho sentito che, anche in quel momento, io non potevo cedere… dovevo andare avanti. Anche nell’ora più buia il mio cammino deve proseguire !”

Quest’ultima frase venne pronunciata con una fierezza tale da confondere il figlio, il quale non avrebbe mai pensato che una simile motivazione si nascondesse dietro le azioni del padre.

“M-Ma perché ?”

“In modo che lei, anche se da morta, possa continuare a vedermi rigare dritto, e ad essere fiera di me quando farò del bene per il prossimo.”

Ramses il Grande lanciò un’ultima occhiata passionale all’Egitto che si stagliava davanti a sé.

- Guardami! Anzi, guardatemi tutti! Costruirò un regno così splendido che mai nessuno potrà cancellare dalla storia: perché sarò io la storia, e per sempre si parlerà di me !-

 

Ritornato all’ora più buia di cui avesse mai avuto esperienza nella sua lunga vita, il faraone si ricordò di quella promessa all’ombra delle piramidi.

Un giuramento fatto, sin dal principio, proprio agli umani che lo avrebbero succeduto.

- Io non voglio sparire! Io non voglio sparire !-

Unì le mani in una posizione di preghiera, per poi formare due pugni e sbatterli sulla sabbia.

- Io voglio aggiungere anche questa vittoria alla mia storia leggendaria !-

“Oath to the Nile: Palazzo del Re del Deserto !”


Angolo Autore:
Welcome back! 
Siamo arrivati quasi alla fine dello scontro, e nel prossimo capitolo si avrà il tanto atteso vincitore! 
Intanto, giusto per tenervi aggiornati con l'avanzamento della storia, ieri ho concluso il quarto scontro, e presto inizierò a scrivere il quinto per portarmi avanti.
A domani!

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Capitolo 8
*** Chapter 8: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose (Final) ***


Chapter 8: To Have Nothing, And Nothing Left To Lose (Final)

“Oath to the Nile: Palazzo del Re del Deserto !”

 

Prima che Sun Wukong potesse sferrare il suo colpo finale sull’inerme avversario, al suono del suo grido, un muro di sabbia si frappose tra di loro.

Ne seguì un altro, dal quale si formò presto una biforcazione di corridoi capace di separare i suoi cloni. Con rapidità frenetica, mura e soffitti stavano venendo generati per intrappolare lo scimmiotto.

Questo ne abbatté uno con un pugno all’istante, soltanto per trovarne dietro uno del tutto identico.

Ben presto fu gettato nel buio, con il rumore incessante di quella strana prigione che si stava espandendo a dismisura.

 

- Ha guadagnato ancora una volta le distanze !- Constatò, iniziando inevitabilmente a sudare per la tensione.

Dai suoi occhi scaturì un bagliore, grazie al quale gli fu permesso di vedere anche nelle tenebre.

Si concentrò: -Riesco a sentire tutti i miei cloni, li posso controllare. Si trovano lontani da me, ma ognuno di loro ha la mia stessa identica forza …-

Un sorriso nervoso si aprì sulle sue labbra quando realizzò quale fosse l’unica alternativa rimastagli. Sollevò il bastone, per poi abbatterlo contro un muro e sfondarlo.

Sapeva che il suo nemico, dopo aver creato quella disperata costruzione, doveva senza dubbio aver esaurito tutte le sue energie. Ciò che lo aspettava ormai era una caccia, o meglio, una corsa contro il tempo. Attraverso la propria mente, sentì come anche i suoi cloni avessero iniziato a buttar giù le pareti che li imprigionavano.

- Io o tu, Ramses? La fine di questa battaglia è vicina, e solo uno di noi potrà essere il vincitore !-

 

In questo modo ebbe inizio la furiosa corsa all’interno di quel labirinto, un territorio sconosciuto e dentro il quale muoversi si rivelò subito fatale: a quanto pare Ramses aveva nascosto alcune delle sue armi come le lance ed i coltelli tra le mura, e queste quando esplodevano rilasciavano fendenti affilati a dir poco impossibili da evitare.

Persino i cloni di Sun Wukong dopo poco iniziarono a diminuire tra le morti più atroci, e lo scimmiotto non fu più in grado di rimpiazzarli a causa dei troppi danni. La sua energia, che persino lui credeva fosse infinita, trovò un limite in quella trappola letale: una battaglia di resistenza era, per la prima volta in vita sua, la debolezza più grande che avesse mai incontrato. 

Ciò nonostante, sanguinando e soffrendo, lui continuava a distruggere qualsiasi cosa gli si parasse davanti con una raffica di colpi. La sua concentrazione era al minimo, non rispondeva nemmeno più al dolore e per questo non si accorse di star avanzando con diverse lame di lance e coltelli conficcate nel corpo.

La terra tremava, scuotendo quella costruzione dentro la quale il suo nemico cercava di contenerlo.

- No!- Si ripeteva la scimmia. - Da oggi io sono colui che spezza ogni gabbia !-

Proseguì fino alla sfinimento.

 

Fu proprio prima che la speranza lo abbandonasse, che trovò lui. Quand’anche si sarebbe aspettato di vederlo rintanato in un altro antro oscuro, rimase stupido dall’accorgersi del posto in cui era giunto. Si trattava di una sala quadrata, con una fila di colonne che centravano la sua visione su di un tappeto, srotolato fino a dei gradini. E lì, su di un piedistallo rialzato, al di sotto di una statua raffigurante un falco con le ali spalancate ed un sole sulla testa, si ergeva un trono.

Ramses II giaceva ripiegato su quel seggio, madido di sudore ed in preda a tremendi spasmi a causa delle ferite riportate. I suoi occhi però non mostravano alcun segno di resa, ed anzi erano rivolti verso l’alto con speranza: stavano guardando una figura, seduta sul trono al posto suo, che gli sorreggeva la testa sulle ginocchia. Era una donna di sabbia immobile, ma ciò nonostante l’inespressivo materiale non riusciva a trattenere la stupenda bellezza di quella raffigurazione: una regina egizia dal portamento fiero, ma che in quel momento ispirava gentilezza e amore.

Dopo qualche secondo Ramses, diventato cieco per le ferite, si accorse dell’ingresso del suo nemico. La sua regina di sabbia crollò, ricoprendolo, perché quell’incantesimo di irraggiungibile perfezione si era dissolto.

 

Non era più in grado di combattere, e nonostante anche Sun Wukong fosse mortalmente ferito, almeno aveva un’arma in pugno e tutte le forze per poterla usare.

“Sei finalmente fiero di te, Sun Wukong? Sei fiero di poter rischiare la tua vita ancora una volta ?”

“Sì. E se non ti avessi mai incontrato sarei ancora confinato in quella prigione senza alcuna sofferenza, senza alcuna fatica… e senza più un sogno da inseguire. Ora che gli dèi hanno finalmente ripreso a guardarmi sono di nuovo qualcuno !” La scimmia impugnò il Nyoi Bo, portandolo al petto. “Avrei voluto conoscerti in vita… Ramses II.”

Il faraone socchiuse gli occhi, ritornando a sorridere.

“Anche io. Ciò non toglie però che ora nessuno ci sta guardando davvero… perché chi è al di fuori sta ammirando qualcosa che rimarrà nella storia.”

Le sue parole suonarono così gravose da rappresentare subito una minaccia alle orecchie di Sun Wukong.

Incespicò, sorpreso: “Cosa dici ?”

Una scossa di terremoto anticipò qualsiasi risposta. Nel momento in cui Sun Wukong riportò lo sguardo sul suo avversario, lo ritrovò nel bel mezzo della più fragorosa risata che avesse mai sentito.

Il faraone rideva, rideva di gusto e per la gioia di essere ancora vivo, contro ogni predizione.

“La più grande costruzione che un faraone possa costruire è una sola… e si tratta della tomba nella quale morirà !”

 

“Ladies and gentlemen… i nostri sfidanti sono spariti da qualche secondo, ma… qui possiamo presagire un esito fuori dal comune !”

Con voce tremante per l’agitazione, i presentatori a stento riuscivano a trovare le parole dopo che qualcosa di sublimemente terrificante era apparso davanti agli occhi di tutti.

L’arena del Ragnarok ormai non esisteva più, perché al suo posto era sorta una gigantesca piramide di sabbia grande alta quanto il colosseo stesso.

“Non ci possiamo credere neppure noi, ladies and gentlemen …”

Ciò che fu ancor più impressionante però, accade subito dopo.

Un’ombra colossale gettò tutti i presenti nell’oscurità e quando alzarono lo sguardo per trovare una spiegazione, rimasero a bocca aperta: un’altra piramide, però capovolta, era sospesa nel cielo.

La sabbia non seppe resistere ulteriormente alla gravità, e quando la punta di quelle due giga litiche costruzioni si incontrarono, iniziarono entrambe a collassare con un urto mostruoso.

Il boato che emise quel crollo generò una pressione così forte nell’atmosfera, da far ringraziare sia agli dèi che agli umani la barriera magica pronta a difenderli da qualsiasi cosa fosse entro i confini del campo di battaglia. Tuttavia, assistere ad una simile distruzione fu un evento tanto catastrofico quanto, inspiegabilmente, glorioso.

- …Farewell… Nefertari…-

 

Durò poco, e tutto ebbe fine nel silenzio. Com’era iniziato, un tappeto di sabbia ricopriva l’arena e qualsiasi cosa vi fosse accaduta sopra il suo vecchio suolo.

Il sole continuava a splendere nel cielo.

 

“Chi …” Adramelech deglutì a fatica un nodo in gola, afferrando il microfono tra le sue mani tremanti.

“Chi sarà sopravvissuto? Ramses II? Sun Wukong ?”

“O forse …” Presagì St. Peter, rabbrividendo. “… nessuno ?”

A quella domanda nessuno sembrava trovare risposta. Davanti a quello spettacolo di devastazione non esisteva orgoglio o superbia che potesse far affermare ad una delle due parti chi fosse senza dubbio il vincitore. Dèi e uomini, per la prima in quel torneo, si contorcevano all’unisono nel dubbio.

Poi accadde: un rombo proveniente dal sottosuolo.

La sabbia si scostò appena, mossa al di sotto da qualcosa che stava risalendo dalle profondità nelle quali era stata confinata. Una salita contro la vita e la morte.

E, incorniciata dai raggi di un sole intramontabile, la fine di quello spettacolo venne segnata definitivamente.

 

Facendo esplodere fragorosamente la sabbia, il bastone Nyoi Bo, trasformato in una gigantesca colonna, eruppe. Attaccato alla sua estremità, ora sollevatasi ben oltre le teste del pubblico, c’era nientemeno che il Re delle Scimmie, Sun Wukong.

Lo scimmiotto, ferito e sicuramente prossimo a perdere i sensi per lo sfinimento, grondava sabbia e sangue dalle sue ferite. Si era staccato brutalmente le lame dal corpo ed i suoi gambali si erano quasi del tutto frantumati, rappresentando così l’unico reperto rimasto della tremenda battaglia alla quale era sopravvissuto.

“LADIES AND GENTLEMEN… siamo finalmente felici di dichiarare che la vittoria… ”  

“… questa volta si aggiudica agli dèi, conquistata da Sun Wukong, Il Re delle Scimmie !!”

Mentre la folla divina per la prima volta in quel torneo festeggiava la vittoria, la scimmia non prestò attenzione a niente di ciò che si trovava sotto di lui.

Né ai suoi simili, che finalmente avevano riconosciuto la sua forza, o agli umani che ora piangevano disperati. Nemmeno il campo di battaglia che aveva solcato richiamava la sua attenzione: ormai ogni cosa che fosse importante ricordare era stata sepolta dal peso della storia.

Piuttosto, colmo di nostalgia per la bellissima esperienza vissuta, Sun Wuong si mise seduto sulla sommità del suo bastone gigante. Sollevò il capo verso il sole, mormorando tristemente:

“È stato un bellissimo spettacolo.”

 

Tra gli spalti di chi aveva conosciuto la sconfitta, spingendosi un passo più vicino alla propria estinzione, lamenti funebri si levavano fino al cielo.

Amonherkhepshef, ora orfano, aveva la testa china ed i pugni premuti sulla pietra. Era sul punto di urlare tutta la sua disperazione, quando due braccia lo cinsero da dietro. Trasalì, ma una voce dolce gli fece vibrare il cuore:

“Mi dispiace… ma almeno sappi che, tuo padre, non è passato inosservato davanti agli occhi di nessuno.” Seppur non riuscì a vederla in faccia, quella persona, una donna, sembrava aver sorriso nella maniera più dolce che conoscesse.

Il giovane si voltò di scatto, ma non trovò nessuno. Sulla sua spalla, dove quella presenza aveva appoggiato il volto, c’erano delle lacrime: “Madre… ?”

Ptah si era già dileguata, abbandonando quel triste funerale di una grande anima appena eclissata.

 

 

Poco dopo, all’interno di una delle sale d’attesa preparate per i combattenti stava avvenendo un interessante dialogo. L’oscurità era rischiarata da un camino acceso, il quale con le sue fiamme illuminava una lunga tavola d’argento e le tende rosse, chiuse in modo da bloccare qualsiasi luce proveniente dall’esterno.

Il tavolo, seppur lungo, presentava solo due ospiti: il primo era il dio misterioso, seduto di spalle al camino, mentre l’altro era così immerso dall’oscurità da non poter esser visto in volto.

Un bambino umano aveva portato una bottiglia di vino, versandone il contenuto al dio.

“E così il prossimo combattente sarai tu. Come ti fa sentire, se posso chiedere ?” Chiese la divinità, sorseggiando il vino per mascherare appena il suo sguardo indagatore con il quale cercava di scrutare nell’oscurità.

“È importante ?” Gli rispose una voce così rauca e cavernosa dall’altra estremità del tavolo, da sembrar proveniente dalle profondità della terra. Quando il dio non gli fornì risposta, la voce proseguì.

“Ho combattuto per tutta la mia vita. Questa è solo un’altra guerra… solo che non è né santa, né altro. Quindi per certi versi è la guerra più sbagliata che abbia mai combattuto, ma anche la più giusta.”

“Sbagliata? Giusta? Cosa intendi ?”

Il bambino intanto si stava dirigendo verso l’altro ospite, solo che l’oscurità gli impediva di percepire quanto fosse lungo il tavolo al suo fianco. D’improvviso, si fu allontanato così tanto da essersi perso. Con il terrore negli occhi si voltò, vedendo la luce del camino lontanissima.

“Intendo che combattere contro un dio mi pareva impensabile… ma se questi dèi sono così crudeli e meschini, allora meritano che io li giustizi senza pietà !”

Quando la voce proveniente dal buio tuonò in quel modo, il bambino sobbalzò: era quanto più vicina potesse aspettarsi. Girò la testa lentamente, trovandosi di fronte una visione che non scordò mai più:

Due occhi cremisi come bracieri, al di sopra di due zanne scintillanti fu tutto ciò che scorse, e gli bastò per svenire dalla paura.

“O-Ohoho! Perdona lo scherzo, giovanotto !” Prontamente l’uomo afferrò il paggetto prima che cadesse, salvando al contempo la bottiglia. “Sono stato proprio cattivo a spaventarti, mea culpa.” Iniziò a canticchiare con fare gioco, dando dei leggeri scossoni al piccolo per fargli riprendere i sensi.

Aveva ritratto le zanne, e persino i suoi occhi ora erano meno spaventosi.

Quando il piccolo rinvenne, scappò via senza voltarsi, suscitando ancora una goliardica risata da parte dei due.

“Comunque, permetti ora a me una questione …” Mormorò l’uomo, sorseggiando ora anch’egli il vino. Una stilla rossastra gli scivolò dalle labbra, posandosi sul suo mento.

“Perché fai tutto questo? Sei un dio, eppure a differenza dei tuoi simili hai voluto dare agli esseri umani una possibilità di contrastare il nostro destino segnato.”

“Bella domanda. Bellissima, sì.” Lo lodò il dio con un sorriso fin troppo caloroso ed accogliente. “ La risposta è che io odio la prepotenza e l’ignoranza di ogni tipo, e senza dubbio decretare tutta l’umanità come degna di venir distrutta solo per qualche crimine, è segno di tutte e due queste viltà.”

Continuò, pulendosi la bocca con un tovagliolo di seta: “Qualcuno doveva pur dimostrare agli dèi che gli esseri umani fossero anche capaci di azioni tanto forti da cambiare la loro storia. Immagino che già di fronte a questa mia dichiarazione non poche divinità abbiano iniziato a tremare… proprio perché loro riconoscono la vostra forza, e la temono. Ed ecco spiegata l’ignoranza e la prepotenza: sono fonti della paura… ma serve comunque equilibrio e giustizia nel mondo, come per gli umani, così per gli déi.”

Di tutta risposta, l’uomo nelle tenebre applaudì con grazia e delicatezza.

“Ammirevole, invero. Hai un gran cuore, il mondo intero dovrebbe esser popolato da gente come te… déi e umani.”

“Quindi tu non odi tutti gli déi ?”

“Assolutamente no. Proprio perché anch’io credo sia sciocco odiare tutti gli umani indiscriminatamente, non faccio lo stesso con gli déi. Però, ahimé, se ne dovrò uccidere uno pur di far sopravvivere i miei simili, dovrei sottrarmene? No, non credo proprio.” Sollevò il calice al suo compagno.

“Che sciocco sarei se sprecassi l’opportunità che mi hai donato !”

Entrambi brindarono.

“A questo punto allora credo che la scelta degli dèi del loro prossimo sfidante calzi a pennello, in modo da non doverti addolorare più di tanto.” Sogghignò il dio, suscitando la curiosità del suo interlocutore.

A questi, dall’altra parte della tavola, venne passato un dispositivo con sopra riportata un’immagine.

 

L’uomo nell’ombra a quel punto piombò in un silenzio glaciale.

Le tende si sollevarono, improvvisamente mosse da un vento innaturalmente freddo, come se stesse trascinandosi dietro la più fredda ed oscura notte della storia. Le fiamme nel camino vacillarono per un istante, prima di sparire per sempre e regalare a quella stanza un buio totale.

L’unica eccezione in quelle tenebre erano due tizzoni accesi, dai quali presero a colare ben presto delle lacrime luminose, dello stesso colore rosso come il sangue.

“Un diavolo …”


Angolo Autore:
Welcome back! Siamo alla fine di questo secondo scontro, che si è concluso con la vittoria delle divinità.
Eh, lo so... scontro breve, o comunque lo sono stati questi ultimi due capitoli. Vi assicuro che i prossimi non saranno così!
Bene così, allora io vi aspetto il 20 Maggio per la prossima fight! Alla prossima!

 P.S: Questa battaglia ha visto l’aggiunta della scena tra Ramses e la statua di Nefertari, grazie all’idea di un mio amico, e lettore. Grazie ancora! Spero vi sia piaciuta!

 

 

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Capitolo 9
*** Chapter 9: I Got Blood On My Hands ***


Chapter 9: I Got Blood On My Hands

Era il momento che tutti aspettavano.

Con un pareggio, motivo di grande ansia e preoccupazione sia per umani che déi, il destino delle due specie era sospeso sul filo di un rasoio. Quella tensione sarebbe potuta essere spezzata solo dal sangue versato ancora una volta nell’arena.

Ladies and gentlemen !” Trillarono gli annunciatori.

“Il combattimento di oggi si svolgerà in un campo di battaglia nuovo di zecca, pieno di pericoli ed intrighi.” Disse St. Peter.

Il suo compagno aggiunse: “Chissà che gli sfidanti non lo sappiano volgere a proprio vantaggio.”

Nell’arena effettivamente era sorto qualcosa che in pochi si sarebbero aspettati di vedere: un intricato sistema di pareti rocciose dalle forme irregolari andavano a creare cunicoli, gallerie e tunnel, tutto questo nella penombra, visto che il sole filtrava solo da pochi raggi molto in alto. Come fini cascate, rivoli di sabbia scivolavano verso il basso.

“Dopo la vittoria da parte degli dèi, riusciranno gli umani a riprendersi in questo match ?!”

“Scooopriamolo subito, con… !”

 

 

“ Il rappresentante dell’umanità in questa terza battaglia …”

Nel momento in cui lui fece il suo ingresso nell’arena, trascinò con sé un fragore assordante: era il rombo di migliaia di tamburi percossi sulle file dell’umanità.

Le tribune si erano improvvisamente affollate di uomini minacciosi al punto da incutere timore solo a guardarli, grossi e disumanamente spaventosi. Le armature placcate che indossavano erano nere e spigolose come scaglie, con un elmo sui loro capi a forma di fauce.

Chi non batteva i tamburi sollevava uno stendardo, inneggiando con un canto epico all’animale leggendario lì raffigurato: un drago nero e rosso come il sangue.

Quella stessa bestia sembrava essere appena arrivata sul campo di battaglia, eppure si trattava solo di un uomo.

“L’uomo che, per difendere il suo popolo, è diventato noto per aver svenduto la sua anima ed esser diventato capace di ogni brutalità! Torture, esecuzioni, instillare terrore nei suoi nemici: che cos’è la forza se non prevalere a tutti i costi sul proprio avversario ?!”

Un drago nero sembrava proprio scalare la sua armatura rossa, avvolgendosi attorno ad essa e lasciando sulla schiena due piccole ali spianate di pipistrello. Nessun elmo copriva il suo capo.

“La leggenda della bestia, del mostro, del diavolo… quanto è stato il sangue versato pur di evocare tutti quegli incubi ?”

Lunghi capelli corvini scivolavano sulle sue spalle, mentre dei morbidi baffi ricadevano da sotto il naso fino alla base della mandibola, contornando un’espressione rigida, quasi mortuaria. Senza due occhi splendenti di una terribile bellezza, si sarebbe potuto dire che non era nemmeno vivo, o un umano: orecchie appuntite, naso aquilino, guance e scavate ed un riflesso pallido che splendeva su tutto il suo volto.

“E tutti questi sacrifici sono stati eretti… sulla punta… della sua… lancia !”

La stessa arma che aveva già in pugno, una lancia da giostra segnata da una scanalatura a spirale che assomigliava ad artigli, a volte a scaglie, impregnati di sangue secco ormai nero.

“Il Drago! Il Voivoda della Valacchia… !”

I famelici soldati dell’Ordine del Drago ruggirono il suo nome.

“Vlad  III Ţepeş (L’Impalatore) conosciuto anche come Dracula !”

 

La creatura che oramai avanzava tra le ombre di quella grotta aveva fatto piombare nel silenzio chiunque non fosse nell’ordine militare dei cavalieri del Drago.

Umani e dèi, osservando quell’alto uomo, che tuttavia si muoveva in perfetto silenzio nell’oscurità, avevano iniziato a tremare.

“Guardate la sua arma !” Fece notare un dio, indicando la punta della lancia che l’umano si trascinava dietro, lasciando un rostro che scavava la terra.

“Masutatsu Oyama ed Enkidu hanno alzato la guardia dopo essere entrati nell’arena… poi, Sun Wukong e Ramses II hanno estratte le loro armi quando è iniziato il duello… ma lui aveva la lancia sfoderata nel momento stesso in cui è sceso in campo !”

Ciò che evidenziò quell’affermazione fu un innegabile intento omicida che traboccava da quell’umano, prima ancora di aver incontrato il suo avversario.

 

Intanto, dal lato degli umani, qualcuno cercava a fatica di recuperare compostezza.

“Bhe, il fatto che faccia così paura significa che è molto forte! Quindi in un certo senso, siamo fortunati ad essere nelle sue mani.”

“Sciocco !” Un soldato della Valacchia pietrificò con lo sguardo chi aveva osato parlare con tanta leggerezza, dopodiché gli si avvicinò. “La paura che instilla Dracula non è solo forza… lascia che ti racconti una storia, come direste voi, dell’orrore …”

 

Giugno del 1462, Campagna ottomana in Valacchia.

Il sultano Mehmed II era adirato oltre ogni limite dopo che il suo vecchio compagno d’armi, Vlad, da cinque anni collocato per sua volontà sul trono di Valacchia, aveva rifiutato di pagare la tassa di sottomissione all’Impero Ottomano.

Così, con un esercito a dir poco esagerato rispetto a quanto potesse vantare la piccola Valacchia, i turchi marciarono oltre il Danubio per schiacciare una volta per tutti coloro che non si erano del tutto piegati alla loro potenza.

Nella notte del 17 Giugno, l’accampamento del sultano era stato attaccato da un'incursione, e a causa di questo ormai marciavano a passo spedito verso il castello del Drago, a Târgovişte.

Il sultano marciava al sorgere del sole con i suoi più forti uomini alle spalle, e all’alba le loro armature risplendevano come un mare d’oro.

“ Mio sultano, secondo voi perché Dracula è stato così sciocco da scavarsi la tomba con quel gesto di disobbedienza ?” Gli domandò un suo alto ufficiale, avvicinatosi a cavallo.

Mehmed si soffermò a riflettere in silenzio, senza rispondere direttamente.

- Vlad… per dieci anni siamo cresciuti insieme alla mia corte. Hai combattuto come un turco, hai pregato come un turco, hai parlato come un turco… io ti ho rispettato come un turco. E tu, per quanto fossi stato venduto a noi come tributo, non hai mai mostrato odio.-

Mentre pensava a tutti ciò,  gli tornava alla mente l’adolescenza passata ad allenarsi con l’uomo che ora era il voivoda, ma che non vedeva sin dal loro abbandono, finita la permanenza alla corte ottomana.

- Che poi questo odio si sia insinuato in te durante tutti questi anni di lontananza? Ma sarebbe ingiustificato, innaturale, impossibile da …-

“Mio sultano !” Il richiamo di un ufficiale lo distrasse dal suo flusso di coscienza, tanto da fargli aprire gli occhi dopo una lunga marcia accompagnato solo dai suoi pensieri.

“M-Mio sultano… non ci risulta che attorno a Târgovişte ci fosse una foresta.” Una certa ansia fece tremare la voce dell’uomo, al che Mehmed si insospettì.

“Cosa dici ?”

“Le avanscoperte hanno detto di aver visto una foresta sorta tra la città ed il castello dove riteniamo si sia rifugiato Dracula. Però… da quando abbiamo chiesto loro di inoltrarsi per reperire maggiori informazioni, non sono più ritornate.”

“Morte ?”

“No, si dice che siano fuggite.”

Il potente sultano fu scosso da quella singola parola: - Fuggite ?- Ripeté, non potendo affatto crederci.

Guardò alle sue spalle l’esercito dei giannizzeri, i più grandi soldati mai forgiati sulla terra, e che riempivano le file dell’esercito più grande e pericoloso che avesse mai marciato.

- Dei guerrieri addestrati come loro non potrebbero mai fuggire !- Spronò il suo cavallo, decidendo di lanciarsi in una disperata corsa verso il castello. I suoi soldati lo inseguirono, urlando in preda all’ebbrezza perché credevano che da lì a poco avrebbero macellato gli infedeli nemici.

 

Quando però scoprirono cosa fosse davvero quella foresta, nemmeno un rumore si sollevava dalla terra. I cavalli erano fermi, le gole erano strozzate, e qualsiasi impulso era stato tranciato di netto. Tranne uno: il terrore.

Non erano tronchi, ma picche, e su di esse non ondeggiavano al vento foglie, ma così tanti cadaveri ammassati in poltiglie sanguinanti da aver piegato il legno, tingendolo fino alla base di rosso.

Più di ventimila uomini e donne, ma per lo più soldati ottomani impalati attorno ed in ogni anfratto di una città abbandonata, ed ormai adibita solo a grottesco teatro di una guerra che nessuno più volle combattere.

La picca più alta, troneggiante sulla città, era il nido dell’ufficiale mandato un anno prima a riscuotere il tributo. Tutti i presenti compreso allora che per un anno intero quell’uomo fosse stato tenuto in vita, soltanto per poi essere ucciso quello stesso giorno ed essere esposto come una minaccia.

Mehmed, al di sotto di quella foresta di cadaveri che sempre più sembrava innalzarsi, sommergendolo con le sue ombre ed il suo sangue gocciolante, realizzò due cose che lo tennero sveglio fino alla sua morte.

La prima era che, del Vlad che aveva conosciuto, non esisteva più nient’altro.

La seconda era la più carnale, viscerale e travolgente definizione di mostruosità.

 

 

“C-Cosa ?” Terminato il racconto, l’uomo che aveva frainteso fino ad allora la vera natura di Vlad, iniziò ad arretrare per la paura.

“Ventimila uomini… impalati? Una foresta… di cadaveri? È assurdo, non può essere esistito niente del ge-”

Nel momento in cui cozzò contro qualcosa alle sue spalle, dal rumore metallico che produsse, temette di aver infastidito un altro soldato. Tuttavia, quando si voltò non vide affatto un uomo in armatura festoso ed aitante come quelli dell’Ordine del Drago.

Si trovava davanti ad un uomo dalla carnagione scura e avvolto da una corazza dorata, che tremava in modo convulso ed incontrollato, abbracciandosi le spalle e facendosi sempre più piccolo.

“N-N-No! Nooo! Non lui! NON LUI !!”

Il cavaliere valacco sogghignò: “Sta tremando da allora …”

 

L’attenzione della folla schizzò di nuovo alle stelle quando gli annunciatori ripresero a strillare nei megafoni.

“ E ora, chi combatte per gli dèi… !”

Il suo ingresso fu nulla di spettacolare, come se stesse camminando dentro una stanza piena di gente a lui familiare: per questo sorrise. Eppure quel sorriso, fu palese a tutti, era così falso e meschino da appartenere soltanto ad un diavolo.

“Il mistero accompagna la storia di colui che, senza dar spiegazione a nessuno, si è ritrovato inserito tra le schiere dei diavoli !”

Una coltre di nebbia oscura lo circondò mentre prendeva posto, dall’altra parte della caverna ma sempre sotto gli occhi degli spettatori grazie ai giganteschi schermi olografici.

 “In quanto divinità, chi mai dubiterebbe del suo potere? Eppure, allo stesso tempo… chi può dire di conoscerlo davvero ?”

Si aggiustò con nonchalance la cravatta del suo completo, formato da pantaloni neri e una camicia dello stesso colore coperta  però da un gilet rosso senza maniche. In questo modo pareva quasi parodiare l’abbigliamento del suo sfidante.

Come capelli, una cascata di boccoloso vello nero gli discendeva lungo il collo. Due orecchie lunghe ma inclinate verso il basso vi spuntavano, assieme ad un paio di corna nere e attorcigliate all’indietro. I suoi occhi, scarlatti come quelli del nemico, erano circondati da lunghe e bellissime ciglia femminee.

“Sicuramente colui che l’ha selezionato per questo torneo riconosce la sua forza, altrimenti oggi non si sarebbe mai ritrovato a rappresentare gli dèi, nella terza battaglia del Ragnarok… !”

Era nero come la notte, ma allo stesso tempo splendente di una tremola luce misteriosa, come il barlume appena coperto di una candela nel buio. Tale era il suo sorriso, di chi sicuramente tramava qualcosa.

Quel demone caprino dal volto di un docile agnello sogghignava come un lupo.

 “Baphomet !”

 

I due combattenti non erano faccia a faccia, e per questo non potevano vedersi direttamente, eppure prima di scendere sul campo avevano visto nei grandi schermi il volto dell’altro.

“E così …” La voce melliflua del demone risuonò nella caverna.

“… tu sapevi già che avresti affrontato me ?”

Vlad lo interruppe bruscamente, facendo rimbombare la sua voce lungo le gallerie: “Taci, mostro !”

La pelliccia del demone si arricciò in maniera buffa mentre lui sussultava, con gli occhi sbarrati.

“E-Ehi! Come mai tanta cattiveria? Ci siamo appena incontrati… è vero che presto ci affronteremo in uno scontro mortale, ma non vedo alcun motivo per-”

“Tu sei un demone che vive tra le fiamme infernali.” Lo sovrastò nuovamente Vlad, parlando con tono piatto e calmo, ma non per questo incapace di nascondere tutta la sua pericolosità.

“Un ammaliatore che usa la magia per distruggere gli uomini, e non per altro oggi rappresenti un nemico per l’umanità. Sono IO che non vedo alcun motivo per il quale dovrei scadere nella mera confidenza con te, essere blasfemo.”

Baphomet rimase a lungo in silenzio, sorpreso.

Dopodiché mostrò a tutti quanti come i suoi grandi occhi da agnello si fossero riempiti di lacrime, ed iniziò a belare:

“Troppo! Troppo cattivo, Vlad! Queste parole fanno male qui !” E si indicò il cuore con così tanta forza da perforarsi il petto con uno dei suoi lunghi artigli neri.

Vlad socchiuse le palpebre, liberando un gran sospiro.

“Pazienta, e non appena suonerà la fanfara d’inizio la tua vita avrà fine.”

“Oh …” Mormorò con un sorriso sarcastico il demone, sentendosi al sicuro tra le ombre.

 

 

“CHE IL RAGNAROK ABBIA INIZIO !!”

 

In quell’esatto istante Vlad mantenne fede alla sua promessa, e scattò nel tunnel di fronte a sé.

“Non così in fretta !” Quello che non sapeva però, era che Baphomet avesse già anticipato le sue mosse.

Dalle mani del demone infatti vennero generati due cerchi composti di pura magia, con all’interno simboli antichi quanto il mondo. Con la sola imposizione di questi sigilli davanti a sé, scaturì un soffio di fiamme nere e violacee  capace di illuminare a giorno parte della grotta.

Le fiamme ovviamente non avrebbero mai potuto colpire Vlad da quella posizione, a causa della troppa distanza e degli impedimenti naturali tra di loro, eppure il tutto prese una piega inaspettata: l’attacco, proprio come le acque di un fiume che si adattano per superare qualsiasi ostacolo, si insinuò nelle gallerie nei dintorni, affluendo in quella rete di canali e cunicoli.

“Proprio come immaginavo… un demone dell’inferno fiammeggiante …” Brontolò con amarezza Vlad, mentre le fiamme lo avevano improvvisamente circondato.

 

“Che attacco, ladies and gentlemen !” Urlarono gli annunciatori.

“Baphomet ha lasciato che il suo fuoco riempisse tutti i tunnel, in modo da raggiungere Vlad da più direzioni !”

Effettivamente in quel momento il voivoda non si trovava contro un attacco frontale, bensì accerchiato da fiamme che lo avrebbero presto raggiunto. In quello spazio angusto non aveva luogo dove fuggire, siccome ogni via di fuga era ormai coperta dalle fiamme.

Ciò nonostante, l’espressione seccata sul suo volto non mutò affatto.

Di colpo arrestò la sua corsa, ma sfruttando l’inerzia lasciò scivolare la lancia fuori dalla sua mano, per poi afferrarla all’estremità dell’impugnatura. La fece roteare sempre più velocemente attorno a sé proprio quando ormai le fiamme gli si strinsero attorno, investendolo.

“Ed invece non è così !” Gridò St.Peter assistendo a quella scena mozzafiato.

La lancia di Vlad, agitata in aria con eleganza nonostante fosse un’arma da carnefice, sembrò catturare le fiamme come avrebbe fatto un retino con delle farfalle: in questo modo il fuoco turbinò assieme alla lancia attorno all’uomo, senza però metterlo in pericolo.

 

Visibilmente sorpreso, Baphomet sorrise: “Persino tu saresti stato carbonizzato all’istante da quelle fiamme… eppure hai avuto così tanto sangue freddo. Ammirevole !”

La sua voce, risuonando tra le gallerie, raggiunse le orecchie del voivoda.

Il suo viso si illuminò: “Il sangue del Drago è qualcosa che un demone come te non può capire: è coraggio, è vigore, è forza !”

Strinse il pugno attorno alla base della lancia, per poi puntarla davanti a sé e scagliarla con tutta la sua possanza. L’arma, ancora avvolta dalle fiamme come una meteora oscura, sfrecciò nel buio della galleria per poi sparire dalla sua vista.

Il demone non comprese immediatamente il perché di quella mossa, ma quando percepì un fischio avvicinarsi a sé, balzò all’indietro con un sussulto.

In un batter d’occhio il suo stesso attacco lo aveva raggiunto, piazzandosi davanti a lui e sovrastandolo come un sole contro un pianeta.

“Peccato che tu non mi possa fare niente così.” Sorrise, dissolvendo con uno schiocco di dita la palla di fuoco. In quel momento, e solo allora, si accorse di cosa si era nascosto lì dietro.

Gli occhi di Dracula scintillarono nel buio appena piombato su di loro, dopodiché scintillò solo la punta della sua lancia quando affondò su di Baphomet.

Tuttavia il demone schivò a bruciapelo, ma con disinvoltura: “Carino, davvero.”

 

Sorridendo balzò all’indietro, precipitando all’interno di una voragine che aveva notato prima. La prima azione del voivoda fu ovviamente quella di seguirlo con l’arma spianata, ma troppo tardi percepì una fonte di calore provenire dal basso. Il buco stava per eruttare fiamme verso di lui come un geyser, e da quella posizione sospesa in aria e quasi del tutto inghiottito dalla terra, non avrebbe potuto fare a meno di evitarle.

 “Quel Dracula è spacciato! È caduto dritto nella trappola del demone !” Esultarono gli dèi, pronti a veder carbonizzato lo sfidante umano.

Intanto, nascosto nell’ombra assieme ai sue due compagni, il dio misterioso osservava la scena per nulla coinvolto come gli altri.

“Che c’è? Non ti senti abbastanza coinvolto dopo che Ramses ha perso ?” Gli domandò Fobetore con un sorriso malizioso.

“Al contrario, sto puntando il tutto e per tutto su Vlad …”

“E allora perché non mi sembri per nulla interessato ?”

Lo interruppe il dio “Ora… ora.” Indicò il campo di battaglia. “Questo è il momento che aspettavo !”

Ammit posò pigramente il mento sulla mano con un sorriso tirato: “Ah, già! Il momento in cui svela la sua Arma. Giusto per curiosità, di che Sefirot si tratta ?”

 

Seppur Vlad fosse in procinto di venir investito dall’eruzione di fiamme, non alterò minimamente la sua maschera di ghiaccio.

Con una prontezza di riflessi sovrumani fece vorticare la lancia per direzionare la punta verso il basso, dopodiché la afferrò con entrambe le mani e poggiò un piede sull’asta per renderla più stabile. Sorprendentemente, quando le fiamme entrarono a contatto con il vertice di quella punta piramidale, si spalancarono come un ventaglio. In questo modo l’umano precipitò nella voragine, aprendo le fiamme dal loro centro senza venir nemmeno ferito, per poi atterrare nel terreno che si crepò sotto il peso della sua arma.

Baphometh, che aveva osservato la scena dalla distanza, rimase così impressionato da lasciarsi sfuggire un fischio di ammirazione.

“Q-Quindi è quella, eh …” La voce gli si spezzò, facendolo belare come un agnellino. “La tua Arma per u-uccidere gli dèi… senti, che ne diresti di lasciarla andare? Cioè, mi sembra un po’ barare !”

Nonostante Vlad non si fosse lasciato minimamente impietosire da quel discorso, il demone provò a sfruttare una qualche distrazione per attaccarlo di sorpresa: lanciandosi di lato afferrò una stalagmite e la scagliò contro il suo avversario.

Il voivoda inarcò un sopracciglio, più deluso che sorpreso: aveva immediatamente visto il demone creare una palla di fuoco per scagliargliela addosso dopo il primo attacco.

Con semplicità disarmante sollevò la lancia e ciò bastò per polverizzare la roccia, dopodiché con un affondo dissolse le fiamme. Tra lui ed il demone si generò un’esplosione di calore che illuminò la stretta caverna nella quale erano caduti.

“Non si è minimamente scalfita.” Ora Baphomet aveva un’espressione estremamente concentrata, con le pupille ristrette a due puntini per aguzzare la vista.

“Intendo la punta della tua lancia. È questo il suo potere, no ?”

 

“È una lancia che non si intacca ?” Domandò Ammit, ma il dio misterioso scosse la testa.

“No, e l’ha capito anche Baphomet. Il potere che la Sefirot Yessod, il Fondamento, ha incanalato nella sua lancia è… l’Absolute Pierce.”

Con il potere di perforare ogni cosa, l’arma del voivoda avrebbe potuto infilzare anche il materiale più duro del mondo senza mai ledere la sua punta. Allo stesso modo, grazie al solo spostamento d’aria che generava, poteva rompere i legami molecolari del fuoco e disperderlo nel nulla.

 

“Perforazione assoluta, quindi.” Ridacchiò sornione Baphomet. “Essendo un potere fatto per contrastare quelli come me, immagino che se venissi colpito morirei all’istante. Non oso immaginare che razza di ferite possa causare… si vede proprio che sei un sadico, Vladuccio !”

“Taci !” Tuonò il valacchiano, interrompendolo bruscamente nella sua prima vera e propria manifestazione di emozioni.

Sollevò l’arma davanti a sé, rivolgendola verso il nemico.

“Ho giurato sul potere a me conferito di terminare la tua esistenza qui ed ora, mostro !"

Il demone si lisciò i peli del suo mento a braccia conserte, in una posa riflessiva.

“Certo che sei fissato con questa parola: mostro di qua, mostro di là! Sei ossessionato come un bigotto in preda a manie di persecuzione mistiche, oppure c’è qualcosa di più profondo nel tuo personaggio ?”

“Ossessionato ?”

Vlad distese le gambe, acquattandosi verso il basso per concentrare tutti i suoi muscoli come una molla pronta a scattare. “Se sono ossessionato dall’uccidere tutti voi mostri, demoni infernali? Certo che sì! Voi rappresentate il male in questo mondo, la macchia d’onta che ha sporcato di nero il cuore degli uomini! Con un diavolo è nato il peccato, e a causa dei diavoli come voi il mondo rischia di finire !”

Baphomet stavolta non ebbe nulla da rispondere: si stava preparando a ricevere un attacco che, ancor prima di venir scagliato, rilasciava un’immensa onda di intento omicida capace di ancorarlo al terreno per la tensione.

 

“Saint George And The Dragon !”

Con quell’urlo feroce Vlad saettò in linea retta, e l’intero spazio circostante parve venir trascinato assieme a lui: la terra si modulò come creta, per poi venir spazzata via, mentre la roccia attorno si ritrasse come onde del mare.

Nonostante quell’affondo più veloce del suono, Baphomet lo aveva aspettato a lungo e seppe riconoscere il momento preciso per evitarlo. Nel momento in cui si sottrasse all’attacco percepì il boom sonico scuotere l’aria,

In quell’istante però realizzò con stupore che l’attacco non fosse terminato: Vlad, nonostante avesse disteso al massimo della portata i suoi arti assieme all’arma, sfruttò tutti i suoi riflessi e l’elasticità dei suoi muscoli per ruotare i polsi. Così facendo l’arma, assieme a tutta l’aria che aveva spostato, turbinò come una trivella.

Il demone non poté in nessun modo prevedere quella strategia, così nonostante si fosse distanziato dalla punta dell’arma, venne risucchiato all’interno del vortice come una mosca catturata da un uragano.

- Era una trappola !- Si sentì in trappola, impotente e fin troppo piccolo rispetto al gigantesco tornado che minacciava di dilaniarlo.

Facendo affidamento a tutta la sua precisione, distese in avanti le mani come per prepararsi ad una caduta, ma invece da esse generò un forte getto di fiamme. Il fuoco non raggiunse nemmeno Vlad, venendo catturato dal vortice, tuttavia avvolse l’arma. Quando così Baphomet entrò a contatto prima con il suo stesso attacco, che con la lancia mortale del voivoda, lo controllò affinché le fiamme lo respingessero.

Al termine di quell’azione durata una minuscola frazione di secondo, venne scagliato via incolume, tuttavia essendosi avvicinato pericolosamente alla sua morte a causa di una svista.

Mentre cominciava ad ansimare affannosamente, il tempo pareva essersi fermato. Tutto ciò sul quale riusciva a concentrare la sua attenzione era la glaciale impenetrabilità dello sguardo di Vlad.

 

“Ma è… !” Esclamò un vecchio pittore dalle vesti rosse ed un cappello grigio. “È la leggenda del mio quadro !”  Il pittore rinascimentale Paolo Uccello, riconobbe il nome che era stato dato a quell’attacco, scelto da lui per un suo quadro.

“ Effettivamente era della sua stessa epoca …” Si soffermò a riflettere, per poi osservare l’ambientazione del campo di battaglia con occhi diversi. “ Un cavaliere con la lancia che combatte un drago… simbolo del demonio…”

“Ma… Dracula non voleva dire proprio Figlio del Drago ?” Domandò un altro umano, al quale rispose un altro.

“Io sapevo volesse dire anche Figlio del Diavol-” Prima che potesse finire di pronunciare quella parola, un soldato valacchiano lo interruppe, impallidendo come un cadavere.

“Sta! Zitto !” Soffocò tra un sussurro. “Il voivoda Dracula odia a morte questa interpretazione del suo nome! Ormai anche lui ha perso il conto di tutti quelli che ha fatto impalare prima che si smettesse di dirlo ...”

 

- A causa di un diavolo come me è nato il peccato …- Quelle parole risuonavano ancora nella testa di Baphomet, mentre era sospeso a mezz’aria in attesa di atterrare a distanza dal suo nemico.

Qualcosa però nel suo cervello lo spinse a cambiare la sua strategia difensiva, e quel qualcosa eruppe dalla sua coscienza sotto forma di una piccola, impercettibile, smorfia di rabbia.

“Hellfire !”

Schioccando le dita più volte generò una raffica di piccole palle di fuoco, che come meteoriti si abbatterono su Vlad a gran velocità. Per la prima volta nel corso dello scontro il demone aveva attaccato alla cieca, senza seguire alcuna tattica se non la ricerca della distruzione dell’avversario.

Il voivoda però, rimasto in guardia sin dal principio, vorticò la sua arma per vanificare quegli attacchi come avrebbe fatto un soffio su di una candelina.

- Merda.- Per questo motivo Baphomet non poté che accusare se stesso, quando vide tutti i suoi sforzi venir vanificati. Sogghignò, preparandosi al peggio.

“Kazıklı Voyvoda!” Stavolta Vlad saltò in avanti per sostenere con tutto il corpo l’affondo letale indirizzato al suo avversario, con l’effetto di diventare una specie di lampo che perforò l’aria brillando di luce propria.

Baphomet non riuscì neppure ad ergere una difesa, perché la lancia lo investì nella sua rotazione travolgente e spietata.

L’attacco non si interruppe lì, e continuando nella sua traiettoria inarrestabile squarciò in due gran parte della caverna di pietra. Il campo di battaglia crollò su se stesso, sollevando nubi di polvere e sabbia che oscuravano persino la luce del sole. Nella penombra grigia, tra le silhouette delle macabre colonne di roccia che si erano conficcate nel terreno, il boato dell’esplosione riecheggiò per quello che parve l’infinito.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Ed eccoci qui al terzo scontro! Vi sareste aspettati questi due combattenti?

Allora partendo dalle reference: l’aspetto di Vlad è preso a piene mani dal Dracula di Castlevania (serie Netflix), mentre invece per Baphomet trovo esemplificativa questa fanart, da me modificata, di Pina (Beastars): https://i.ibb.co/DYdQqN0/Ro-R-Baphomet.jpg

Mentre invece la canzone che dà il tema a questa battaglia (di cui anche le lyrics sono state riprese per dare il nome al capitolo) è Dissent dei Seconds Aways.

Bene così! Sono curioso di sentire i vostri pareri!

Intanto… a domani!

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Capitolo 10
*** Chapter 10: My Crusade ***


Chapter 10: My Crusade

“E con il secondo attacco Vlad III ha centrato per la prima volta Baphomet !” Urlò Adramelech, stringendo il microfono con tutta la foga di cui disponeva. L’altro commentatore gli fece eco: “ Un solo colpo, ma devastante come pochi! Con il potere di cui dispone Vlad, non riterrei un azzardo dire che… potrebbe anche …”

Intanto, nei piani più alti degli spalti, uno degli organizzatori del torneo non pareva affatto trascinato da tutta quell’eccitazione. Si trattava del signore dei demoni Baal, con la sua grande testa rossa allungata orizzontalmente sostenuta sul palmo di una mano.

“Pensavo potessi essere più coinvolto.” Cercò di provocarlo una voce alle sue spalle.

Ptah, la dea della creazione egizia, gli si avvicinò per poi posare una mano sul suo trono. Entrambi guardavano l’arena, ma con davvero poco interesse.

“E perché mai ?”

“Si tratta di un demone della tua legione, quindi se perdessi la responsabilità cadrebbe su di te.”

Baal le rinfacciò un sorriso sghembo, che sarebbe dovuto essere un ghigno, ma pareva qualcosa di molto più malsano: “Potrei dire lo stesso di te con il round successivo di quel… Ramses! Ha perso, no? Non ti senti per nulla turbata ?”

Sul volto della dea si palesò un barlume di esitazione, colta alla sprovvista dall’atteggiamento del signore dei demoni che traspirava solo e soltanto pericolo. Tuttavia non rispose, vedendo poi Baal ritornare alla sua espressione noncurante.

“E comunque sia… Baphomet non è della mia legione. Non è mai stato un combattente, o altro.”

“Come ?!” Si sorprese allora Ptah. “ Non è un demone soldato ?”

“Per niente! Anzi, proprio per questo molti altri miei subordinati si sono arrabbiati parecchio quando ho scelto lui.”

“E allora… perché hai scelto lui ?”

Baal assottigliò i suoi grandi occhi contornati di nero, facendosi serio: “ Tra gli dèi scelti ci sono molti che non provano davvero odio verso gli umani, bensì li considerano solo formiche da schiacciare… ne sottovalutano quindi il potenziale, non li invidiano, non li temono, e si può tranquillamente dire che a stento li conoscono. Baphometh, invece… li conosce molto bene, e ha certamente motivo di odiarli.”

 

“Ladies and gentlemen !!” In quel momento un urlo scosse l’arena. I presentatori furono ovviamente i primi a notarlo, ma quando anche gli schermi olografici inquadrarono la scena, tutti gli spettatori rimasero a bocca aperta per lo stupore.

Vlad stesso tentennò, vedendosi sovrastato da un’ombra gigantesca.

“Il combattimento non è affatto concluso !”

Tutte le macerie crollate dall’alto improvvisamente si erano sollevate, formando una montagna sospesa a pochi metri da terra. Al di sotto di essa, Baphomet la indicava con il solo dito indice, mostrando un sorriso affaticato mentre si rimetteva in piedi.

“La terra! La stai …” Il voivoda si costrinse a parlare nonostante un groppo in gola per la sorpresa “…  sollevando con i tuoi poteri magici! Quindi non si confinavano solamente alle fiamme !”

Il demone si lasciò sfuggire una risata liberatoria “Non sei l’unico ad avere un asso nella manica, Vladuccio !” Sbarrò gli occhi, irrigidendo i muscoli del suo volto in un’espressione funesta: “E ora muori !”

“Furnace of Hell !” 

Controllandola con un mero sforzo del pensiero, scagliò l’enorme cumulo di macerie sul suo nemico, ma non prima di averlo rivestito di fiamme nere. Quella pira, simile ad un astro della distruzione, sovrastò in un men che non si dica il voivoda.

Vlad ringhiò a denti stretti “È veloce… !” Dopodiché sfruttò i suoi riflessi sovrumani per sollevare la lancia e affondare, nel mentre decideva quale punto della roccia colpire per fermare l’attacco.

- Non posso colpirlo più di una volta! E se un colpo dissolvesse solo le fiamme, ma non distruggesse la pietra? Morirei! Come posso… come posso trafiggere… ?!-

Nel mentre i suoi pensieri correvano più veloci che mai, il pubblico umano aveva il fiato sospeso per la tensione, al punto da aver cessato ogni grido di incoraggiamento. Pregarono tutti affinché la prossima esclamazione non fosse stata da parte dei nemici.

-Ci sono !- Nel momento fortuito, il volto del voiovoda si riaccese di speranza.

Ancora una volta aggiunse al semplice affondo, mirato alla punta di quella montagna, una rotazione del polso: con un’accelerazione pari ad una frazione quasi incalcolabile di secondo, la lancia ridivenne una trivella. Quando colpì la roccia, trapassando le fiamme, anziché perforarla la trapanò, generando un mulinello che disperse tutto attorno a sé il fuoco.

“Devil’s Den !”

Non l’aveva potuto calcolare: il ghignò soddisfatto di Baphomet fu qualcosa che poté solo intuire, perché ciò che accadde sotto i suoi occhi era stato senza dubbio fabbricato con tutta la malignità del mondo.

Prima ancora che il suo attacco la potesse distruggere, la montagna si spalancò come una fauce, rivelando al suo interno un nucleo di fiamme nere. Vlad riuscì a malapena a percepire lo scintillio fugace del fuoco, prima che l’esplosione di calore rompesse la roccia e lo investisse in pieno.

Quella bomba celata nel primo attacco l’aveva colto alla sprovvista, proprio come aveva programmato il suo avversario.

- I tuoi attacchi potranno senza dubbio perforare ogni cosa… ma il tuo punto debole rimane uno solo: tra un affondo e l’altro dovrai pur sempre tirare indietro il braccio, ed in quel momento sei indifeso come un qualsiasi altro mortale !- Pensò infatti Baphometh, gustandosi il successo della sua strategia mentre veniva ricoperto di lodi dalle altre divinità.

 

“Un attacco celato dentro un altro attacco! Chi l’avrebbe mai detto che il nuovo potere scoperto di Baphomet avrebbe potuto risultare in una simile strategia ?!”

Dopo che l’annunciatore demoniaco finì di parlare, a microfono spento il suo collega angelico gli domandò: “Adramelch, ma sei davvero sicuro che non si sappia niente su Baphomet? Dopo tutto quello che ha fatto, e per come ha resistito ad un simile attacco ammazza-dei, non ci credo che non faccia parte delle legioni demoniache di Baal! Ha dimostrato di essere molto più forte di tanti altri demoni soldato !”

L’altro conduttore si soffermò un attimo a pensare, prendendo seriamente quella domanda.

“Anche se non sono un demone combattente, in quanto Cancelliere dell’Inferno passo la mia esistenza a vedere demoni di tutti i tipi, e per questo motivo li conosco tutti, dai nobili ai guerrieri. Ma Baphomet… l’unica volta in cui l’ho visto varcare la soglia degli Inferi, è stata quando vi è entrato.”

“Davvero? Cioè, è entrato all’inferno e poi non è mai più uscito? Quindi per forza non è un guerriero, o un demone che si sia fatto conoscere nella storia… ma allora perché diavolo, perdonami, è così forte ?!”

“Non lo so… ma so soltanto che, quando l’ho visto per la prima volta, mi ha detto qualcosa che mi ha fatto venire i brividi …”

“ I-Io… io non dovrei essere qui !”

“Aveva lo sgomento negli occhi, come se non fosse in grado di capire perché si trovasse all’Inferno! Non mi è mai successo prima di trovare un demone così …”

 

Ciò che la storia scelse di non narrare: circa Dicembre 1447

A seguito delle invasioni ungheresi atte a conquistare la Valacchia, gli alleati ottomani avevano acconsentito a rilasciare il principe Vlad per farlo ritornare alla corte di suo padre.

Târgovişte quelle notti brulicava come di fantasmi e spiriti, sicché la paura di venir sbaragliati da un nemico era onnipresente. Solo l’erede al trono, per quanto fosse in pericolo, dormiva sogni tranquilli ora che si era ricongiunto ai suoi genitori dopo anni di prigionia come ostaggio politico in mano al sultano.

Una sera però, di quelle illuminate da una luna rossa che colorava il cielo di vermiglio, un grido straziante squarciò il silenzio del castello.

Quando le guardie fuori dalla porta della camera da letto del Drago, Vlad III, vi entrarono, per un attimo credettero di essere entrati nella stanza di un macellaio: le membra dei regnanti penzolavano dal letto a baldacchino, mentre il sangue aveva tinto dalle pareti, alle candide coperte, fin dove un corpo umano, l’unico con del respiro in corpo, tremava rannicchiato.

Il giovane Vlad III venne subito raggiunto dagli uomini, mentre altri realizzavano in che modo brutale fossero stati uccisi i suoi genitori.

“Principe Dracula! È stato un assassino?! Un assassino ungherese ?” Gli domandarono, ma lui non riusciva a rispondere per quanto rabbrividiva, completamente gelido dalla testa ai piedi.

mostr …” Finalmente dalle sue labbra si liberò un sussurro, solo che con la voce così rotta fu appena comprensibile.

Si sforzò con tutto se stesso di ripetere, mentre ormai i suoi occhi erano persi in una dimensione di paura dalla quale mai si sarebbero allontanati: “Sono stati i mostri …”

 

 

Lacrime bagnavano il volto anche del presente Vlad, trasformandolo in una persona del tutto diversa da ciò che rappresentava prima. Fermo e immobile, ma tremante, gigantesco e statuario, ma stretto nelle spalle in una posizione quasi fetale: l’antitesi del guerriero, del brutale comandante e sicuramente del salvatore dell’umanità.

Giaceva al centro di una pozza del suo stesso sangue, con l’armatura ormai in pezzi, e abbracciato alla sua stessa lancia come avrebbe fatto un bambino con un peluche nel buio.

“D-Dracula …” Provando a rievocare il suo nome, i soldati dell’Ordine del Drago pensarono di poter cambiare qualcosa. Non accadde nulla, perché quella persona non rispondeva nemmeno più.

Baphomet mosse un passo in avanti, facendo sussultare il voivoda in uno scatto di paura.

“Vladuccio, Vladuccio… mi aspettavo di più da chi aveva proclamato di uccidermi in modo così plateale …” L’ombra del demone si estese di diversi metri, inglobando l’uomo. La figura però era deformata, con larghe ali di pipistrello spalancate e corna affilate.

“Solve et Coagula!” Liberandosi gli avambracci dalle maniche, scoprì due tatuaggi raffiguranti le parole che aveva appena pronunciato, uno per braccio. Contemporaneamente le braccia vennero ricoperte prima da uno strato di roccia scagliosa, e poi anche da fiamme nere.

“Che ironia… uno che si chiama Figlio del Diavolo aveva intenzione di uccidere qualcuno che non è neppure un demone, per di più chiamandomi “mostro”… mi chiedo allora se tu sappia davvero cosa sono i mostri.” Quando ormai la figura di Baphomet sovrastava il voivoda in tutta la sua inquietante raccapricciante aura di morte, sul suo volto ricoperto dall’ombra si spalancò un sorriso troppo largo per essere umanamente possibile.

“Sono pronto a mostrarti… il vero mostro !”

“Stammi lontano !!”

Era stato un urlo, poi una scatto: un istintivo movimento di difesa mosso dallo spirito di autoconservazione e dalla paura della morte. Vlad aveva sollevato una mano da terra, lanciando della polvere per distanziare l’avversario, ma un istante dopo la sua visuale si era ricoperta di rosso vermiglio.

Quel colore lo aveva inondato, tingendo il suo volto pallido, e ora gli scivolava lungo gli zigomi.

 

“Q-Quello… !” Persino la voce dei presentatori si strozzò, stupiti da quell’evento inaspettato.

Soltanto uno tra gli spettatori rimase per nulla perplesso, ed anzi accolse quella scena con un sogghigno.

“Tu… aspettavi questo momento ?” Intuì Ammit, guardando il gioioso dio misterioso.

Questo non rispose, ma si scrocchiò il collo con aria rilassata, o a dirla tutta, soddisfatta.

Aveva appena osservato i piccoli granelli di polvere sollevati da Dracula venir scagliati come proiettili contro Baphomet, ed a contatto con la sua pelle perforarla, puntellandolo di minuscoli fori. Il demone, impotente e con gli occhi ancora sbarrati, cadde a peso morto all’indietro.

“Pensavate tutti che il potere della Sefirot Yessod fosse attribuito soltanto alla lancia, ma… in realtà Vlad può conferire a qualsiasi cosa tocchi una capacità perforante incontrastabile !”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Capitolo corto, lo so.

Vi consiglio vivamente di rileggere il capitolo 8, ovvero la fine dello scontro tra Ramsess II e Sun Wukong: grazie ad un consiglio di un mio amico e lettore, è stata aggiunta una parte che sono sicuro troverete molto carina (soprattutto per chi non è rimasto impressionato da come si è concluso lo scontro).

Ah, e tra l’altro avevo una cosa da dirvi: sto lavorando alla traduzione della storia in inglese, ho anche qualcuno che mi aiuta, ma… se qualcuno di voi lettori si sentisse in grado di sostenermi, potremmo portare il prima possibile questa fanfiction anche su di un panorama più ampio come quello del fandom inglese di Record of Ragnarok (o Shumatsu no Valkyrie). Se non vi va di scrivermi via recensione, potete senza dubbio contattarmi con i messaggi privati. Grazie in anticipo per chi mi vorrà aiutare.

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Capitolo 11
*** Chapter 11: I Can't Drown My Demons, They Know How To Swim ***


 Chapter 11: I Can’t Drown My Demons, They Know How To Swim

“Il combattimento… è finito !!” Strillò St. Peter, vedendo al suo fianco Adramelech sbruffare seccato.

“In questa battaglia di armi celate, Vlad III ha sicuramente prevalso nascondendo la sua carta vincente fino alla fine! E ora …”

“No.” Il suo collega demoniaco lo fermò in tempo, coprendogli il microfono e facendo cenno di guardare il campo di battaglia.

Non era qualcosa che tutti potevano comprendere, ma dal cadavere di Baphomet si stava sollevando un’atmosfera funesta, che minacciava solo disgrazia e metteva in emergenza chiunque riuscisse a percepirla. Ben presto però, tutti furono in grado di assistere all’incredibile: il demone si rialzò da terra senza realmente muovere un muscolo, e quando tornò dritto sulla schiena davanti al suo nemico, lui fu quello che ne rimase più sconvolto.

Nonostante il sangue ed i fori sugli abiti e sulla pelliccia di Baphomet, non si vedeva l’ombra di una ferita nella carne.

“Pick-a-boo !” Sussurrò il demone, ma in quell’istante Vlad si era già allontanato con un balzo impressionante.

“T-Ti puoi rigenerare le ferite ?!”

Baphomet ammiccò, per poi attendere la prossima reazione del suo avversario.

Questi gridò: “Stammi lontano, ho detto !” e non appena atterrò fece mulinare la sua lancia per scagliare tutti i frammenti di roccia circostanti verso il nemico.

Gli spuntoni di roccia però non riuscirono nel loro intento, e per quanto penetrassero da parte a parte il demone, lui continuava a camminare mentre i buchi nella carne si richiudevano.

“Non capisco proprio di cosa tu abbia paura? Forse… del mostro, vero ?”

“Kazıklı Voyvoda!”

Vlad si scagliò assieme all’attacco più forte di cui disponesse contro il nemico, ma Baphomet non batté ciglio.

“Ma perché avere paura di un mostro se lo puoi uccidere? No… tu hai paura di qualcos’altro.” Si abbassò con un tempismo perfetto, lasciando che l’affondo scivolasse sopra di sé, dopodiché spalancò le braccia: era entrato nella guardia di Vlad e lui non poteva fare più nulla per sottrarsi.

Semplicemente lasciò che l’inerzia portasse il suo nemico abbastanza vicino, dopodiché lo cinse. Vlad si arrestò di colpo, rimanendo impressionato dalla forza erculea che aveva bloccato la sua carica.

- Da questa posizione non posso… nemmeno infilzarlo con la lancia !- Sussultò, sentendo così tutta la sua fede svanire in quell’abbraccio di morte.

“Sheol !”  

Dalle braccia del demone si diramarono spuntoni di roccia infuocata, spaccando quel che restava dell’armatura di Vlad e conficcandosi nella carne. Il voivoda serrò i denti per resistere alla tentazione di urlare, mentre intanto il suo volto si colorava di un rosso acceso e la sclera degli occhi pareva gonfiarsi al punto da voler uscire dalla palpebra. Sentiva di star esplodendo dall’interno, mentre il suo stesso sangue prendeva fuoco ed ogni cellula della sua pelle bruciava.

 

Ladies and gentlemen! Questa volta l’attacco sembra mortale !” Gridarono i cancellieri ed annunciatori, stavolta d’accordo su cosa dire.

“Un attacco da vero demone.” Sogghignava soddisfatto Baal, osservando Baphomet portargli la vittoria.

Intanto al cospetto del dio misterioso era apparsa una presenza malsana e sicuramente non voluta: Gaia, la Madre Terra.

“Come ci si sente a perdere per la seconda volta ?” Bisbigliò Gaia, inclinandosi per parlare con la sua voce melliflua direttamente nell’orecchio del suo interlocutore.

Questi assottigliò lo sguardo, facendosi ancor più teso. Intanto la dea continuò: “Stavolta non ci sono state sorprese di nessun tipo, ma sono curiosa di vedere se hai altri dèi dalla tua parte… perché dal prossimo combattimento avrai sicuramente bisogno di loro per recuperare. Ed a quel punto io li scoprirò tutti! Tutti …”

“Zitta !” Sentendosi interrompere in quella maniera così brusca, il volto di Gaia si deformò in un’orribile maschera d’orrore, ma quando vide il sorriso rilassato del dio rimase spiazzata.

“Non intenderai perderti la fine dello scontro per queste chiacchiere ?”  

Quando riportarono allora lo sguardo sull’arena, videro come non ci fosse affatto la fine che tutti avevano ormai dato per scontata.

 

Vlad, dopo aver lottato a lungo, lasciò cadere al suolo l’arma. Immediatamente tutti pensarono che, stremato da quella tortura, la sua mente avesse ceduto, ma in realtà lo spirito combattivo non era affatto svanito dai suoi occhi iniettati di sangue.

Con le mani libere infatti si prodigò ad afferrare le spalle di Baphomet, come se volesse scivolare fuori dalla sua stretta. Ovviamente ciò non sarebbe stato possibile, ma infatti il voiovida aveva un piano diverso: senza che nemmeno il demone potesse aspettarselo, sollevò in alto le ginocchia, colpendo le sue braccia nel punto in cui si congiungevano con le spalle.

Fu appena un bagliore, dopodiché Baphomet non percepì più i suoi arti. Con gli occhi spalancati dalla sorpresa, vide come quelle normali ginocchiate avessero tranciato di netto le sue braccia , che ora infatti erano state spedite in aria.

“Questo è il vero …” Ruggì Dracula, sollevando dalla sua gola un urlo terrificante che si instillò a pieno negli incubi di tutti gli spettatori.

“… KAZIKLI VOYVODA (Voivoda Impalatore) !!”

 

“Il potere perforante …” Balbettava Gaia, osservando la scena incredula. “… appartiene anche al suo corpo?! È-È un’arma vivente !”

Il dio misterioso anche stavolta non le rispose, se non con un sorriso.

 

Ora al massimo del suo potenziale omicida, Vlad non si lasciò perdere nemmeno un secondo, fiondandosi sul nemico prima che questi potesse rigenerarsi. Con una mano gli artigliò il cranio, conficcando le dita nella carne e quasi frantumandoglielo sul colpo, dopodiché lo sollevò in aria come se fosse stato un giocattolo.

Con la mano libera recuperò la lancia da terra, per poi sollevarla verso l’alto mentre trascinava in basso Baphomeht. Così il demone venne perforato finalmente in pieno da quell’arma che aveva a lungo temuto, ritrovandosi impalato al terreno. Senza però fermarsi, il voivoda continuò a tenergli ferma la testa mentre procedeva ad afferrare anche gli arti inferiori.

Da quella posizione allargò sempre di più le sue braccia, e mentre i suoi muscoli si gonfiavano, quelli di Baphomet si allungarono per poi strapparsi.

KAZIKLI VOYVODA !!” Ripeté urlando al cielo, venendo intanto ricoperto dagli zampilli di sangue, che partendo dalla fontana che era diventata il corpo di Baphomet, gli grondavano addosso.

Quelle parole vennero ripetute anche dai suoi guerrieri, dopodiché dall’umanità tutta: era un grido di vittoria, la brutalità che schiacciava l’avversario in una guerra alla sopravvivenza che altro non era se non un retaggio animalesco, bestiale. E proprio bestiale in quel momento appariva la figura del voivoda, immerso nel sangue del nemico mentre ruggiva e dimenava in aria le sue estremità.

 

Tuttavia non era più la persona che tutti acclamavano. Non era l’eroe, il difensore della Valacchia, non era il principe che si era battuto per il suo popolo. In quel momento stava venendo lodato ed incitato solo il mostro delle leggende, la parte più oscura della sua storia che tutti temevano e nessuno voleva riportare alla luce.

 

“C-Come dei mostri… ?!” Domandarono le guardie, per nulla sicure di aver udito bene le parole del principe. D’altronde doveva essere forse impazzito dalla paura per dire qualcosa del genere. Nonostante questa convinzione iniziale, però, un temuto brivido iniziò a scalare anche le loro colonne vertebrali.

“Sì, i mostri…” Rispose allora Dracula, sollevando appena il volto.

Si era portato le mani al volto, macchiandosi così le guancie fino agli occhi di sangue, mentre quello stesso liquido ormai contornava le sue labbra, provenendo dai denti che si erano cibati del più orrendo pasto quella notte.

“I mostri… dentro di me !”

 

“Hell is empty, and all the devils are here” The Tempest, William Shakespear.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Siamo arrivati alla fine dello scontro! Eppure… manca ancora un capitolo. Cosa succederà nel prossimo aggiornamento? Chi lo sa, chi lo sa!

A domani!

P.S: Il titolo del capitolo è una citazione al testo della canzone “Can you feel my Heart” dei Bring me The Horizon.

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Capitolo 12
*** Chapter 12: My Crusade (Final) ***


 Chapter 12: My Crusade (Final)

“E-Eccolo… il… mostro… !” Vlad non seppe mai se a parlare fosse stato davvero il corpo maciullato di Baphomet, oppure una delle allucinazioni che infestavano la sua mente quando liberava quella parte di sé.

“L’inferno è vuoto! L’inferno è stato svuotato! E tutto il suo contenuto è traboccato qui… nel tuo cuore !”

Tuttavia non gli importava, perché voleva solo annientare fino a rendere poltiglia quell’essere: lanciò in aria la parte inferiore del suo corpo, per poi scagliarci contro la testa dopo averla resa un proiettile perforante grazie alla sua Sefirot. Infine, scagliò contro le due estremità polverizzate la lancia con la quale aveva ancora impalato il busto, e così qualsiasi parte di Baphomet divenne polvere nell’aria immobile della caverna crollata.

 

Ladies and gentlemen! Finalmente la fine di questo scontro è giunta! Ed il vincitore è… dal lato degli umani …”

“… nientemeno che Vlad  III Ţepeş, il Voivoda Impalatore !!”

Gli spalti popolati dall’umanità gridarono trionfanti, annunciando al mondo la loro seconda vittoria ed il loro vantaggio sugli dèi: in quel momento si erano allontanati in modo significativamente dall’estinzione.

“Allora, Gaia ?” Domandò il dio misterioso a Madre Terra, trovandola però silenziosa ed impassibile come una statua. “Che c’è, non ti va più di parlare? Credo che ti risparmierò la fatica di cercare gli altri miei sostenitori, visto che ho il vantaggio… sarebbe antisportivo, non credi ?”

 

Intanto, nell’arena del combattimento si agitava inquieto qualcuno che non era stato minimamente toccato dalla vittoria. Vlad infatti stava ancora combattendo contro quella furia omicida che stentava a placarsi, facendogli desiderare sempre più sangue, carne e morte.

- No! Io non sono così !- Barcollò, quasi cadendo per terra. – Io sono… il vincitore, ed ho vinto per l’umanità! Ho ucciso… il diavolo …- Infine le sue gambe cedettero, come era normale aspettarsi dopo tutti i danni ricevuti. Fortunatamente aveva recuperato la sua lancia, così poté sostenersi almeno un minimo.

Curiosamente era piombato in ginocchio proprio nel punto dove aveva colpito Baphomet in pieno per la prima volta attraverso i granelli di polvere. Rifletté su come avesse così scoperto il suo potere rigenerante, il secondo asso nella manica dopo il controllo della terra, oltre che del fuoco.

- In realtà… non ho davvero scoperto io i suoi poteri…- Nonostante la poca lucidità della sua mente, questo pensiero si insinuò dentro di sé. Rivide il flusso della battaglia, ignorando gli attacchi scagliati e subiti, ma concentrandosi sugli eventi. L’ordine cronologico gli parve in qualche modo scandito da qualcosa di ripetuto, un punto in comune.

L’ombra ai suoi piedi si ingigantì, spalancando due paia di ali e protraendo lunghe corna verso il cielo. Rossi erano i suoi occhi, come quelli del voivoda, che d’improvviso si spalancarono nel buio. Quella non era la sua ombra.

La luce illuminò la caverna quando una meteora infuocata si scagliò su Vlad, travolgendolo con l’intensità bruciante di mille soli. Un’onda d’urto terribile scosse le fondamenta della roccia, vaporizzando il terreno circostante. Bracieri fumanti levitavano in aria, ascendendo verso l’alto ora che non c’era più un tetto di pietra.

L’arena, visibile sotto gli spalti, ribolliva di calore e fumi pestilenziali.

“Che cos’è successo ?!” Esclamarono i soldati dell’Ordine del Drago, di certo non meno spaventati del resto dell’umanità dopo quell’esplosione imprevedibile.

Anche i presentatori erano ammutoliti, non sapendo come descrivere ciò che avevano visto.

 

“Quello non era… Baphometh.” Sussultò il dio misterioso, non potendo vedere il ghigno di Gaia che si espandeva in preda all’eccitazione.

- No! Il suo corpo era stato polverizzato… chi ha attaccato Vlad in realtà è… venuto da fuori !-

Nell’ombra si agitarono le catene brandite da Fenrir, il quale si ritenne pronto ad intervenire come aveva già fatto per Gilgamesh: “Un altro intruso.”

“No !” Tuonò una voce in tutto il colosseo, paralizzando l’agitazione universale di dèi ed umani.

Baal si era alzato di scatto dal suo trono, e ora guardava dal punto più alto tutti gli spettatori. Quando rivolse il suo sguardo verso l’arena non aveva un’espressione definita: era serio, ma allo stesso tempo irrequieto.

“Chi è intervenuto non ha infranto alcuna regola, perché si tratta di …”

 

“Complimenti, Vladuccio.”

Nel punto dove si era generata quell’esplosione di fiamme, due figure immobili sfidavano il calore, come se non esso non li minacciasse affatto.

Il voivoda aveva ormai perso la sua armatura, dissolta dalle fiamme, e la cenere anneriva la sua pelle cadaverica. Nonostante tossisse sangue, a causa di uno sperone di roccia improvvisamente sorto per impalare il suo petto dalle spalle, manteneva una vivacità impressionante negli occhi: sfidava la morte, combatteva per preservare la sua vita, e per continuare quel duello.

Alle sue spalle, infatti, era riuscito a trafiggere con la lancia il collo di un avversario inaspettato, che però si rivelò a tutti quando il fumo si disperse.

Baphometh, senza più alcuna ferita, se non per l’arma che ora gli trapassava da parte a parte la gola, sorrideva maligno.

“Sei riuscito a svelare il mio inganno in tempo! Se non avessi fermato la mia carica ora saresti polvere fumante …”

“Ho finalmente capito ciò che sei davvero.” Gli rispose l’uomo, parlando con una voce distante ed alienata, forse a causa del dolore che lo stava facendo impazzire. Il demone però comprese di non star affatto parlando con un matto, aveva smesso di crederlo da quando aveva reagito con dei riflessi spaventosi al suo attacco a sorpresa.

“Tu non hai mai presentato i tuoi poteri… se non dopo che io li avessi intuiti.”

 

“T-Ti puoi rigenerare le ferite ?!”

“La terra! La stai… sollevando con i tuoi poteri magici !”

“Tu sei un demone che vive tra le fiamme infernali.”

 

“Erano le mie convinzioni, e tu da esse hai tratto i tuoi poteri… mentre quelli di prima erano solo trucchi per indurmi a credere che tu avessi sempre più poteri. Puoi… rendere reali le parole, i desideri e le congetture degli altri.”

“È vero: per sollevare la roccia la prima volta avevo usato delle fiammelle così piccole da essere invisibili, ma poi non ho più dovuto farlo perché grazie alla tua convinzione ho sviluppato il potere di controllare la terra. Ma… come hai fatto a capirlo ?”

“Il sangue …” Dracula indicò la pozza rossa poco più distante. “ Quando ti ho sparato contro quei frammenti di roccia non ti hanno trapassato da parte a parte come avrebbero dovuto fare, perché tu probabilmente sei riuscito a controllarli e a bloccarli a livello della pelle… dopodiché hai prodotto della sabbia ferrosa facendomi credere che tu potessi rigenerarti anche da una ferita mortale.”

Si prese una pausa per respirare, sentendo le forze venirgli meno: “E la prima convinzione che avevo… è stata che tu fossi sceso in campo. Ma in realtà era un’altra finzione.”

Il demone scoppiò a ridere compiaciuto.

“Ma allora lo vedi che sei molto più di quello stereotipo che fingi di essere ?”

“Io… devo uccidere i mostri.”

“Stai parlando da solo. Non esistono mostri in questo mondo.”

“STAI ZITTO!! Vuoi solo portarmi a credere in questa menzogna !” La pelle diafana dell’uomo si ricoprì di vene scure, le quali formarono una ragnatela nera attorno ai suoi occhi che sprizzavano sangue.

Facendo appello a tutta l’ira che aveva in corpo, afferrò entrambe le estremità della lancia che sporgevano dal collo di Baphomet, per poi scagliarlo in avanti. La testa inevitabilmente si staccò, ma un’altra ricrebbe dal corpo in volo.

- Eppure… se tu volessi credermi, potresti esaudire questo desiderio.- Pensò intanto il demone, chiudendo gli occhi ed abbandonandosi ad un utopia che non avrebbe mai potuto realizzare.

-Ma in realtà nessuno di voi umani vuole smettere di credere nei mostri, vero ?-

 

 

Dopo la fine delle Crociate

Il dio informe, triste e solo, finalmente era uscito alla luce del sole dopo una lunga notte per parlare con gli unici che finalmente lo avessero accettato.

Dapprima, quando la popolazione aveva condotto da lui quei cavalieri con una croce rossa sul petto, aveva provato paura. Non succedevano mai cose belle quando qualcuno di nuovo o di sconsiderato scopriva il suo potere: lui era talmente tanto impotente da non poterlo controllare, e così finiva sempre con l’essere usato da uomini malvagi.

Non voleva causare sofferenza nel prossimo, ma solo rendere contente le persone.

Fortunatamente i Cavalieri Templari avevano apprezzato la sua buona volontà, e lui si era sentito così contento di poter esaudire qualsiasi loro richiesta. Erano uomini retti, volevano il bene per gli altri, ed desideravano elevarsi ad una conoscenza superiore, sempre più ampia delle cose.

Un giorno però smisero di venire. Gli altri uomini lo informarono che erano ritornati da dove erano venuti.

Gli mancavano così tanto che dovette per forza cercarli. Una piccola parte di lui credeva che quando li avrebbe rivisti, loro lo avrebbero ringraziato ancora perché ormai avevano esaudito ogni desiderio.

Non fu così.

Vide quegli stessi uomini sottoposti a torture inumane nella loro madrepatria, e dalle loro bocche insanguinate sgorgavano accuse contro di lui, il dio che li aveva tentati e portati via dalla loro fede. Lo chiamarono Baphomet, e tale lui diventò.

Invisibile, solo uno spettro di una storia che era stata condannata all’eresia, guardò il mondo odiarlo senza nemmeno poter attestare la sua esistenza.

Voleva sparire, ma tutti credevano in lui, perciò la sua esistenza divenne odio. Costretto ad esaudire qualsiasi desiderio gli venisse rivolto, quel dio incapace di morire, comprese di essersi involontariamente sacrificato per poter incanalare il male: Your Belief.

Molte persone morte venivano chiamati martiri, altri messia, ma lui invece, che aveva compiuto le stesse gesta con innocenza e benevolenza, era stato catalogato come diavolo. Quei canoni, quelle parole e quella fede malsana lo crocifissero ad un ideale che era obbligato a rappresentare per sempre.

Il dio del desiderio che voleva solo il bene per il mondo divenne demone e nemico dell’umanità.

 

 

- Voi umani… sapete creare qualcosa per poi confinarla nelle tenebre a vostro piacimento, perché preferite essere condizionati più dal giudizio… che dalla giustizia !-

“I mostri continueranno ad esistere finché tu crederai in essi, Vlad! Tu stesso sei un mostro, un diavolo !”

Baphomet digrignò i denti: se anche quell’uomo non avrebbe voluto credere nel bene che c’era in lui, allora lo avrebbe ucciso per accettare quell’oscurità che era necessario incarnare. Tra le sue mani si accesero fiamme purpuree.

Intanto Vlad trasse un lungo sospiro, liberando uno spruzzo di sangue dalla sua bocca che finì per macchiargli i baffi. Parte dei suoi muscoli erano bruciati e la ferita al suo petto lo stava portando al dissanguamento. Per uno come lui, che aveva sperimentato sul proprio corpo la guerra ed in più la morte in battaglia, quel deja-vû di sofferenza fu tanto ironico quanto inspiegabilmente familiare.

- Familiare… per me che non è stata mai una famiglia neppure la mia vera famiglia, ma solo le voci dei mostri nella mia testa che pretendevano altro sangue.-

Sollevò la lancia verso l’alto, ed un raggio di sole si rifletté sulla punta come un torcia di speranza per l’umanità.

- E va bene allora… lo riconosco… ho sbagliato.-

Il suo sguardo si sollevò verso gli spalti: umani che non avrebbe mai conosciuto e persone che invece lo conoscevano meglio di chiunque altro piangevano disperati.

- Noi umani sappiamo essere dei mostri, talvolta.-

Rammentò suo padre, che l’aveva consegnato ai turchi come ostaggio politico, i nobili che aveva giustiziato solo per terrorizzare la Valacchia e tutti gli avversari impalati solo per far accrescere la leggenda del Kazlıkı Voyvoda, la leggenda di Dracula.

- Eppure è così bello questo mondo, non vorrei che sparisse… spero che l’uomo che salverà l’umanità non sia davvero io, ma… se posso permettermi un desiderio…-

Capovolse l’arma ed indirizzò la punta sullo spuntone di roccia che gli sporgeva dal petto. Lo ruppe, ma il suo tragitto non terminò lì: la lancia cozzò contro il terreno così duramente da scagliare colui che la impugnava verso l’alto. Il voivoda ora solcava i cieli, elevandosi verso la voragine spalancata sul cielo limpido.

- …se anche un mostro come me può esprimere un desiderio…-

Con una mano spalancata come un artiglio raschiò la roccia, tracciando intanto il tragitto che lo portò ad emergere nella luce solare, svettando sopra tutto e tutti.

 

“… voglio essere un demone che fa qualcosa di buono, una volta per tutte !!”

 

Baphomet si ritrovò investito dalla lucentezza che circondava ora Dracula, in procinto di atterrare su di lui con quell’urlo infernale.

L’umanità intera tratteneva il fiato, mentre gli déi lo incitavano a reagire.

Il demone provò a schivare l’attacco non appena si fu ripreso dallo stupore, ma con maggiore sorpresa la lancia di Vlad gli distrusse parte del corpo più velocemente di quanto si sarebbe aspettato. In un batter d’occhio gli era rimasto solo il busto, gli arti superiori e la testa.

- Ora però non mi potrà attaccare !- Pensò di reagire in qualche modo, ma intanto fu sicuro di potersi rigenerare le gambe prima che l’avversario potesse caricare un altro affondo.

Neanche questa previsione fu esatta: anche se lancia era stata utilizzata, Vlad disponeva di un’altra arma. Scagliando dei proiettili di roccia che aveva nascosto nella mano libera, polverizzò in un istante il corpo di Baphomet. Del demone era rimasta solo la testa.

Vlad abbandonò la lancia.

 - Io… !- Negli occhi di Baphomet si riflesse l’ombra del nemico che ora oscurava il sole.

-… e lui… siamo entrambi demoni benigni. Che bello essere uccisi nel modo migliore possibile.-

“LEGENDA LUI DRACUL !”

Il voivoda afferrò la testa del nemico, per poi spalancare la bocca ed affondare i suoi canini nel collo dell’avversario. L’Absolute Pierce, combinata con la precisione anatomica del colpo inferto su di un intreccio di vene e nervi, fu necessaria a far esplodere in un istante ciò che rimaneva del dio rinnegato del desiderio.

 

In una danza di luce e polvere, sangue e morte, il connubio di tutto ciò che rappresentava la vittoria dell’umanità rimase impresso nella mente degli spettatori.

“LADIES AND GENTLEMEN… !”

Al via, dato dalla voce degli annunciatori, la folla umana esplose in un boato. In un unione di gioia e speranza sollevarono le braccia al cielo ed inneggiarono al nome della loro vincente avanguardia.

“Vlad  III Ţepeş ha vinto, senza più ombra di dubbio, questo scontro!! La vittoria va all’umanità !”

Ad urlare più forte fu l’Ordine del Drago, sollevando le loro bandiere con il dragone diabolico, ma che in quel momento era solo un simbolo di gloria.

Gli dèi, invece, non riuscivano a produrre più che uno stridio, ormai affondati nel silenzio e costretti a chinare il capo davanti alla realtà.

Dall’alto del suo trono, Baal si premette una mano sulla faccia per poi sospirare: “Mi dispiace, non immagini quanto …”

Ptah rimase composta, annuendo: “Vedere un demone ucciso è ancor più raro della morte di un dio. Quell’umano è riuscito davvero nell’impensabile.” Il demone la guardò di sottecchi, in un’indecifrabile attesa che ispirava perplessità.

“Saresti dovuto scendere tu in capo, ma all’ultimo sono cambiati i programmi. Come mai ?”

La dea della creazione egizia capì allora che l’altro non si stesse riferendo a lei: non appena si voltò, trovò per l’appunto una figura immersa nell’oscurità.

“Uno come Vlad non mi interessa …”

Quella voce. Quella voce sorprese Ptah, o meglio, quant’anche all’inizio la prima sensazione che provò fu sorpresa, si trasformò subito in qualcosa di diverso. Era confusione, smarrimento, insana voglia di scappare ad ogni costo.

Un formicolio le assalì la pelle, nel mentre tutti i suoi sensi si allertavano per darle un ordine non ben preciso. Era follia pura.

“ Ciò che voglio è …” La figura avanzò, accompagnata da un viscido strisciare di un corpo molle sul pavimento. Lunghi tentacoli neri scivolavano ovunque.

“Distruggere la speranza dell’umanità. Schiacciare ogni eroe, spegnere come una fiamma anche la leggenda ...”

Quella figura ora troneggiava sui due dèi superiori, rimanendo però lontano dalla luce. Era avvolta da un mantello giallo, e giallo era anche il cappuccio che nascondeva qualsiasi cosa avesse al posto della testa.

“… corrompere la più pura anima, trasportandola nella follia.” Sibilò infine Hastur, il Re Giallo.

 

In disparte, nascosti in un angolo della struttura dell’arena destinata agli umani, i tre dei che si erano opposti al giudizio universale ridevano festosi.

“Un’altra vittoria, non male !” Sorrise pigramente Ammit, rotolandosi a pancia in su. Fobetore annuì: “Certo, il testa a coda non mi fa impazzire, ma sempre meglio che un’altra vittoria degli dèi.”

“Non ti preoccupare.” Lo rassicurò con tono supponente il dio misterioso, regalandogli un ghigno degno di nota. “Il prossimo scontro sarà un vittoria facile… perché lo sfidante degli dèi è un nostro infiltrato !”

 

Angolo Autore:

Welcome back! Siamo arrivati alla fine del terzo scontro!

Tra una settimana (30 Maggio), la storia tornerà con una battaglia davvero… uhm… bhe, dai, se dicessi qualcosa adesso vi rovinerei il gusto dell’attesa e delle teorie su chi saranno i combattenti.

Intanto, vi è piaciuta questa battaglia?

C’è da dire che fin dall’inizio avevo intenzione di far combattere Vlad in quanto Impalatore, figura storica… e non Dracula, ovvero la leggenda. Però con l’ultimo suo attacco (Leggenda di Dracula) ho voluto inserire quella citazione, giustificata anche un po’ da ciò che potete intuire nel suo passato.

Mentre per Baphomet, alcuni si saranno chiesti: “ma Baphomet è associato al satanismo, perché non hai parlato di quello?” Ed io rispondo così:

In realtà Baphomet, in quanto dio o in quanto culto, potrebbe anche non essere mai esistito. È stato semplicemente un nome che gli inquisitori hanno “sentito dire” dai templari mentre li stavano torturando per costringerli ad ammettere di essere degli eretici. Insomma, sarete d’accordo con me che la testimonianza a questo punto è mooolto, mooolto poco attendibile.

Poi, con il corso del tempo e con la scarsa conoscenza di questa dubbia origine, la figura del dio pagano diventato demone ha assunto il ruolo di principale simbolo del satanismo e della magia nera. Però io non volevo parlare di queste cose… perdonatemi, ma le religioni un po’ mi annoiano.

Preferisco il loro lato mitologico, leggendario, e poco quello… insomma, inventato con zero fondamenti sulla realtà, ma che poi costringe i fedeli a credere comunque a tali avvenimenti.

Chiusa questa parentesi e date le mie spiegazioni… fatemi sapere cosa ne pensate, e cosa vi aspettate dal prossimo scontro!

Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Chapter 13: Du Bist Im Labyrinth ***


Chapter 13: Du Bist Im Labyrinth

La notizia della fine dello scontro aveva raggiunto qualsiasi anfratto dell’enorme Colosseo, persino i più oscuri e segreti che non tutti gli dèi conoscevano.

Entrando in una camera buia, Fenrir fece risuonare il tintinnio delle sue catene nel silenzio. Lo sferragliare dell’acciaio sul pavimento annunciava ogni sua apparizione, questo perché lui non era mai stato un Lupo predatore: sin dalla sua creazione, ogni parte di lui era votata al male e alla distruzione. Ciò non si sarebbe mai detto, ma il segreto del suo passato risiedeva in delle cicatrici lungo tutto il corpo che d’improvviso avevano iniziato a dolergli.

Si sfiorò appena la bocca, mentre i suoi occhi si assottigliavano in un riflesso di sdegno.

“Prometheus …”

In realtà la stanza in cui era entrato non era mai stata completamente buia: nelle tenebre era accesa una singola candela, capace di illuminare parzialmente la figura immobile e silente appena richiamata.

Di colpo la fiamma divampò violentemente, e seppur non fosse aumentata di dimensione, la luce che produsse fu capace di illuminare lo spazio circostante. Una tale magia sorprese persino il Lupo, facendolo sussultare dalla sorpresa. Quando la sua vista, si abituò alla luminosità della stanza, poté riconoscere a pieno la figura che si trovava di fronte.

Aveva le fattezze di un uomo seduto su di una sedia, unico elemento riempitivo in quello spazio vuoto. La sua sola presenza sembrava rappresentare una solitudine calma, proprio come la candela che ora bruciava inosservata al suo fianco.

Quell’essere presentava un dettaglio stravagante, capace di rompere l’armonia del suo silenzio: indossava un completo elegante bianco ed immacolato come la neve, eppure all’altezza della pancia quel tessuto candido era macchiato interamente di rosso. Pareva che una quantità inimmaginabile di sangue fosse stata persa di recente, ciò nonostante lui non sembrava nemmeno rendersene conto.

“È il mio turno? Bene così.”

Il Titano Prometheus inclinò la bocca per esprimere in maniera molto pacata la sua felicità.

Il semplice sorriso di circostanza bastò per far ammontare un’ira incontenibile in Fenrir, tanto che in un istante il Lupo proiettò su di lui tutto il suo intento omicida. Quell’azione apparentemente ingiustificata, aveva in realtà una valida spiegazione: dal momento in cui lui era entrato in quella stanza, l’essere che già la presiedeva aveva inviato una scarica di opprimente pericolosità. Era come se Prometheus fosse stato pronto ad ucciderlo proprio perché sapeva che sarebbe venuto ad avvisarlo, tuttavia non l’aveva fatto: semplicemente, mostrando il più gentile dei suoi sorrisi, sembrava stargli ricordando del rischio immenso che aveva corso.

Fenrir non poté però reagire in nessun modo, doveva seguire gli ordini dall’alto e non agire a causa di un suo capriccio. Così, per quanto Prometheus emanasse un’aura di provocazione e altezzosità, lui a testa bassa e con la coda fra le gambe lo vide allontanarsi verso il corridoio che portava all’arena.

 

- Esatto: bene così. Non vedevo l’ora che arrivasse questo momento.- Pensava intanto il titano, muovendo i suoi passi verso l’esterno. Con rinnovata allegria, ogni suo movimento pareva una danza leggiadra nell’aria.

- Umani… da quanto tempo non vi vedo. Cosa ne avete fatto della sapienza, della cultura e della curiosità? Ho atteso così tanto per scoprirlo… ma altrettanto tempo è passato per voi.-

Quando chiuse gli occhi li poté sentire tutti: gli esseri umani di varie epoche, riuniti in quel luogo al capolinea del destino con un obbiettivo comune: -Sopravvivere- si disse il titano, diventando di colpo serio.

- Siete sopravvissuti fino ad oggi, combattendo chissà quante battaglie contro gli dèi che, oggi come da sempre, hanno cercato di tarpare le vostre ali verso il futuro …- Le sue mani si strinsero per formare dei pugni, contraendo in uno sforzo disumano tutti i suoi muscoli.

Ormai il suo sguardo era animato dalla rabbia, un concentrato luminoso come il fuoco ma oscuro come un abisso che dipingeva degli occhi cristallini.

In quel corridoio non si sorprese di incontrare proprio chi voleva, a pochi passi dalla luce del sole dove il campo di battaglia lo attendeva. Ciò che sapeva solo lui e quella figura, però, era che non ci sarebbe stata alcuna battaglia. Quella consapevolezza gli ridonò il sorriso, e non un normale sorriso, bensì un ghigno beffardo.

 

“Prometheus, ti ringrazio ancora per essere sceso a patti con me.” Parlò il dio che aveva deciso di tradire i suoi simili, e responsabile per aver indetto quel torneo. “Con il tuo appoggio, l’umanità si aggiudicherà un’altra vittoria e saremo sempre più vicini a segnare la fine degli dèi.”

A quel punto il titano lo interruppe: “Ho stretto questo accordo con te non solo con il sommo piacere di dare scacco matto agli dèi… ma anche per qualcosa che, spero, comprenderai benissimo.”

L’altro dio attese in silenzio una risposta, preferendo non esprimersi a riguardo.

“Parlo dell’amore.” Svelò infine Prometheus, lisciandosi il viso mentre il suo sguardo nostalgico veniva portato altrove: “Amore verso gli umani. Speranza nel loro futuro. Fidandomi che ciò per cui mi sono sacrificato li conduca su di una buona strada, sempre e comunque.”

Si toccò così il ventre, e le sue dita tastarono la carne sanguinante lì dove una ferita non aveva mai smesso di ricordargli chi era stato.

“Certo.” Annuì l’altro dio, allontanandosi da lui. Con uno schiocco delle sue dita fece avvicinare uno scudiero, il quale porse al titano un mantello rosso, adatto alle sue dimensioni imponenti. Prometheus guardò verso la fine di quel cammino intrapreso fortuitamente proprio quando si trovava all’apice della disperazione.

- Gli dèi mi avevano scelto come sfidante per questo torneo, non solo perché sono l’unico titano che hanno scelto di far rimanere in vita fino ad oggi, ma anche per piegarmi ancora di più al loro sadico giogo: costringermi a combattere fino alla morte contro un umano?! Come solo hanno osato? P-Per fortuna niente del genere avverrà… meno male… mi basterà arrendermi sin da subito in questo incontro e, come mi hanno assicurato tutti gli déi disposti ad aiutare gli umani, nessuno potrà costringermi a continuare il combattimento.-

Mentre pensava tutto ciò, il suo volto, per quanto all’apparenza potente e stoico, aveva variato ripetutamente emozioni: disagio, sollievo, odio e felicità. Con un sospiro cercò di placare la tensione, rivolgendosi poi al suo complice.

“Come si chiama l’umano che incontrerò ?”

Il dio rispose prontamente alla sua domanda, ma ovviamente il titano non mostrò alcuna reazione.

“E chi sarebbe costui? In quale epoca è nato, e perché è stato scelto per combattere qui nel Ragnarok ?”

 

Anche stavolta gli venne data una risposta, e così il volto di Prometheus mostrò un’espressione diversa da tutte le precedenti. Mentre il tempo attorno a lui sembrava essersi fermato, ed il sangue gli era diventato di ghiaccio nelle vene, il suo viso si contorse in una maschera di orrore e perdizione.

Fu proprio in quel momento che qualcuno non seppe più aspettare: il corpo del titano venne perforato dalle spalle tra le costole destre. Un qualcosa di piccolo e sottile si era infilato nella sua carne, perforando il vestito e colorando il bianco di un piccolo bocciolo rosso che impregnò il tessuto. Ne scaturì un rivolo, il quale scivolò fino alla caviglia di Prometheus, proprio come il filo di sangue che ora aveva sputato dalle sue labbra.

Il titano percepì quel dolore bruciante e volle in tutti i modi reagire, ma qualunque cosa fosse conficcata nel suo corpo venne sfilata dipingendo un arco cremisi nell’aria. Stille rosse schizzarono, ma con dimestichezza e grazia, come se fossero state scagliate dal pennello di un pittore professionista.

Adoperando il bisturi come per dirigere un’orchestra, una mano precisa a livello maniacale seguì le note appena abbozzate di una canzone che stava risuonando in quel buio corridoio:

“Oh, diese Sonne!

Furchtbar steigt

sie mir empor!”

(Oh, questo sole!

Terribilmente si alza

dinnanzi a me!)

Una risata nervosa, più simile ad una tosse, interruppe bruscamente la melodia.

“O-Oh, perdonatemi! È che ogni volta che penso a come partono i tromboni nel terzetto del primo atto in Der Freischütz... uh, vado in visibilio!” Manifestando vari tic dovuti all’eccitazione come lo schiocco ripetuto delle dita, o il mordersi il labbro inferiore, la figura dell’umano che aveva porto la stola al titano, parlò con una voce trillante ed energica.

“Però sono stato distratto, tanto, tanto, sbadato… per l’emozione non sapevo proprio decidermi tra il prendermi un po’ di fegato e cistifellea, oppure andare sul sicuro con un rene. Bhe, almeno non ho commesso un errore da principiante affondando sulla sinistra: anche un idiota sa che sul lato sinistro non si può arrivare al fegato senza incappare nel polmone, o nello stomaco. Immagina che disastro se il bisturi si fosse rovinato a causa degli acidi gastrici! Eheh, che sciocchino, invero …”

Le gambe di Prometheus cedettero, mentre ancora straziato dal dolore si premette la mano sul fianco, arretrando appena per difendersi da un prossimo attacco. Tuttavia, per quanto avrebbe voluto temere solo e nient’altro che un semplice attacco, ciò che più lo terrorizzava era la presenza che ora gli si parava davanti.

Nascosto nell’ombra ancora in quel momento, l’umano continuava a blaterare tra sé e sé in quel soliloquio esagitato, logorroico. Il suo viso era tagliato di netto dall’oscurità, ma un bagliore scintillante proveniva dai suoi occhi e dai suoi perfetti denti bianchi, messi in bella mostra in un sorriso smagliante, da squalo.

Si poteva intravedere un vestito in pelle grigiastro, un’uniforme con fibbie e bottoni dorati, adornata da una croce di ferro nera e da una fascia rossa su di un braccio.

“Che… c-cosa significa ?” Prometheus non volle voltarsi per parlare al dio misterioso, perché sentiva che se solo avesse distolto lo sguardo, quella creatura sarebbe sbucata fuori dall’oscurità per colpirlo ancora una volta mentre era più vulnerabile e scoperto. Il terrore viscerale di un attacco a tradimento gli aveva già fatto versare diverse gocce di sudore in così pochi secondi.

“Significa che il vostro scontro è iniziato, Prometheus.” Gli rispose la voce del dio, alle sue spalle.

 

Ladies and gentlemen! Stavolta sta avvenendo qualcosa di incredibile!” La voce degli annunciatori risuonò in quella galleria come un boato, amplificata tra le spesse mura.

“Il quarto scontro di questo torneo è… iniziato prima ancora che i combattenti scendessero in campo !”

Confermando quell’assurda situazione, St.Peter ed Adramelech diedero modo a tutti gli spettatori di sussultare per l’incredulità davanti agli schermi giganti che ora ritraevano il corridoio d’ingresso all’arena.

Lì, davanti agli occhi di tutti, era chiara e nitida la visione del titano Prometheus piegato in due mentre sanguinava e si ritraeva tremando da una perfida e pericolosa minaccia in agguato nell’oscurità.

“Introduciamo tardivamente il rappresentante dei due schieramenti!” Annunciarono frettolosamente i presentatori, colti di sorpresa da quell’evento.

“Dal lato degli dèi… il benefattore dell’umanità, stavolta però dalla parte di chi vuole porre fine al suo operato! Il titano della saggezza e della conoscenza… Prometheus !”

“Mentre dal lato degli umani: il più temuto sulla terra durante una guerra che ha trasformato diversi uomini in storie dell’orrore… ma lui era il più terrificante e spregevole di tutti! Temuto come l’Angelo della Morte… Josef Mengele !”

L’uomo si aggiustò sulla fronte i corti capelli neri, pettinandoseli su di un lato per apparire in perfetta forma davanti alle riprese. Dopodiché accolse il suo sfidante sollevando il braccio destro, e con il più lucente dei suoi sogghigni: “Achtung! Il tempo dei convenevoli è per noi uno spreco: ti ho sentito prima, mentre venivi a conoscenza della mia identità… furbacchione !”

“Ed ora, che abbia inizio il Ragnarok !”

 

A differenza dei precedenti scontri, a quella presentazione della loro avanguardia non ci fu nessuno tra gli umani ad esultare. Piuttosto, la solita iniziale sorpresa si trasformò in panico quando appresero la verità. La fama di chi ora stava combattendo la loro battaglia non suscitava rispetto, ammirazione o altro, ma solo razionale terrore: era come osservare un predatore con denti ed artigli spianati, essendo consapevoli che quell’essere è capace di farti a pezzi da un momento all’altro.

“No !” Sbraitò qualcuno tra la folla degli umani, per poi prendersi il viso e contorcerselo in una maschera di orrore. “Come può un simile mostro rappresentare l’umanità ?!”

Non vi risposta, e per questo l’agitazione crebbe fino a formare quegli spalti in una massa urlante e confusa.

All’ombra di quell’angolo del colosseo, il dio misterioso si era rifugiato per osservare meglio la battaglia che presto sarebbe infuriata. Mentre osservava spalancarsi il sipario macchiato di sangue di quello spettacolo, non poté trattenere un sorriso.

“Ci deve essere un motivo? Per forza ?” Sollevò lo sguardo verso la tribuna degli dèi. “Davvero mi serve un motivo per mandare in battaglia anche l’arma più infida e ripugnante che io conosca ?”

E proprio lassù dove aveva guardato, un simile tumulto, ma molto più controllato, stava prendendo atto. Molti dèi infatti non conoscevano cosa avesse compiuto quel Josef Mengele, ma non appena ne vennero a conoscenza esplosero in reazioni differenti: risate, smorfie di raccapriccio, delusione o rabbia. In ogni modo, espressero il loro ribrezzo giustificato verso la razza umana.

“A-ah! Non sapete far altro che mandare assassini e schifosi criminali?! A quanto pare voi umani non avete di meglio da offrire !”

Mentre imperversavano schiamazzi beffardi tutti attorno a lui, Erebo, il dio delle tenebre, sedeva con il mento nella mano ed uno sguardo annoiato. Quella rivelazione che tanto fomentava gli animi non lo toccava minimamente, rendendolo solo più seccato ora che il trambusto gli rimbombava nelle orecchie.

Sospirò: “Oh, per l’amor di… ma quando inizia ?”

“Immagino che un dio dell’oscurità come te sia interessato ad uno scontro del genere.” Lo interpellò una voce. Si trattava di un dio sbucato al suo fianco, che con confidenza gli sorrise prima di guardare anche lui verso gli schermi.

“Intendo dire: la più oscura perfidia contro la luce che rischiara la ragione! Un duello del genere non si vedeva dalla fine del Medioevo, non credi ?”

“Scusa, ma… ci conosciamo ?” Erebo interruppe lo sproloquio di Fobetore, il dio degli incubi, con noncuranza. Quello si azzittì di colpo, con ancora la voce sospesa.

“Fobetore! Dio dei sogni, specializzato negli incubi !” Cercando di riprendere compostezza, gli porse la mano forzando il sorriso più splendente che potesse. Purtroppo l’altro scosse la testa, per poi distogliere lo sguardo: “Non mi dice nulla …”

Una vena iniziò a pulsare sulla testa di Fobetore: se solo non fosse stato costretto a cercare alleati tra le fila degli dèi, non si sarebbe mai fatto prendere per i fondelli da quel dio del suo stesso pantheon.

“Forse capiresti chi sono se ti dicessi che… !”

“Fobetore !” Esclamò una ragazzina, saltando tra i due. Aveva dei veli scurissimi che ricoprivano il suo corpo, candido e latteo come la luna. Nonostante fosse alta la metà del dio degli incubi, la sua sola presenza severa ed autoritaria bastò a farlo rizzare sull’attenti.

“Nonna !” Strillò lui, arretrando con le mani davanti in posizione di difesa.

“Nonna ?” Ripeté Erebo, fino a quel momento disinteressato, per poi iniziare a rimuginare. “Aspetta, ma quindi questo è figlio di tuo figlio, Hypnos, il dio dei sogni ?” Chiese alla sorella, la quale annuì.

“Ed è anche uno sconsiderato che mi sta dando un sacco di grane !” Inveì furibonda la piccoletta, afferrando Fobetore per un orecchio con insospettabile forza. “Ma pensa te! Lui va dove vuole e combina i suoi sotterfugi, mentre io sono obbligata a stare tra le tribune del mio pantheon, a sentire quella inquietante zitella di Gaia che borbotta su come vorrebbe uccidere lui ed i suoi amici !”

“Vabbé, le classiche ragazzate.” Sbadigliò Erebo, per poi ricevere uno sguardo in cagnesco dai due: “Ma da che mondo e mondo ?!”

Ad interrompere il loro battibecco fu una voce proveniente da dietro un palchetto circondato da un baldacchino. Una figura nell’ombra sedeva su di una poltrona sopraelevata, e dal modo in cui parlò proiettò la sua autorità irrevocabile sui presenti: “Potreste fare gentilmente un po’ di silenzio, giovinastri ?”

Il dio dell’Olimpo, Zeus, si lisciava la barba per poi attorcigliare la punta attorno al dito. Le sue labbra secche, da mummia, erano contorte da tempo in un sorriso sdentato: “Sto cercando di godermi lo spettacolino <3!”

 Nix, la dea della notte, brontolò qualcosa sul fatto che Zeus fosse in realtà molto più giovane di lei, dopodiché si sedette. Non prima di aver tirato sul posto accanto al suo anche il nipote, il quale era diventato come un bambolotto sotto la sua presa ferrea.

“Tu rimani qui e fai il bravo !” E con un fil di voce, Fobetore le rispose: “Sì… nonna …”

 

Intanto, all’interno del corridoio dove stava prendendo quel cosiddetto quarto scontro, la tensione era così palpabile da poter essere tagliata con una lama.

E proprio una lama di bisturi adesso fendeva l’aria a colpi ritmati, secondo la pretenziosa imitazione di un direttore d’orchestra da parte di Josef Mengele. “Papapapaaan pan! Papapapaan pan! Papapapaan pan papapapaaan! Walkürenritt, che entrino le Valchirie !”

Davanti a quella scena tanto assurda da trasmettere disagio, il titano ancora piegato quasi in posizione fetale strabuzzò gli occhi, incredulo. A stento riuscì a dire qualcosa, tra i denti che battevano:

“Perché… perché mi hai attaccato alle spalle con tanta crudeltà ?”

Nell’inconcepibilità del pensiero di Josef, avanzare quella domanda innocente era tutto ciò che sentiva di dover fare. Tuttavia, la risposta che gli venne riservata era l’ultima cosa che avrebbe voluto sentire.

“Per noia. Semplice noia.” E quando poi la voce del tedesco prese a scorrere come un fiume in piena dalla sua bocca, la mascella del titano tremò in un brivido di paura.

“So già cosa tu voglia fare, ma per quanto io non sia d’accordo, non mi reputo capace di cambiare la tua scelta… però almeno, lasciami divertire! Comunque tu voglia concludere questo scontro, io non reputerò di aver finito con te fino a quando non sarò soddisfatto.”

A quel punto la perplessità di Prometheus ebbe fine: quell’umano aveva accennato al suo piano segreto, l’accordo con il dio misterioso: arrendersi per terminare quello scontro con l’ennesima vittoria degli umani.

Come un vetro infranto da un proiettile, schegge di quella convinzione divennero polvere nell’aria sotto lo sguardo impotente del titano. Sembrava non avere più nessuna scelta.

“Come sarebbe a dire… “divertire” ?” Gli tremò la voce.

“Ma sì! Questa occasione per me è elettrizzante! Immagino che è così che si debba esser sentito il Doktor Faust di Goethe, quando Mephisto gli è apparso per promettergli una vita colma di emozioni e piaceri …” L’uomo sollevò la testa, distendendo il collo verso l’alto come per ricevere una qualche luce scaldante.

“Però per me non è solo un divertimento, sai? Sicuramente mi diverte sapere che, in un modo o nell’altro, qualsiasi cosa farò sarà di beneficio all’umanità, in quanto io sono un medico… ma la medicina è scienza, ricerca e soprattutto insegnamento! Spero che tra gli spettatori qualcuno oggi impari qualcosa di utile.”

Il suo volto deformato in un freddo e tagliente sorriso divenne gigante nei grandi schermi, paralizzando dalla paura persino gli dèi meno coraggiosi. Gli occhi di Josef risplendevano ancora di più ormai, nell’oscurità in cui si sentiva sovrano.

“Ad esempio… come si viviseziona un dio !”

Ma nella testa di Prometheus si era diradata qualsiasi ulteriore preoccupazione, perché ormai tutto ciò che rimbombava era un pensiero incessante: -Insegnamento…- si ripeteva.

- Beneficio all’umanità …-

 

Eoni ed eoni prima, quando gli umani avevano appena iniziato ad abitare la superficie della terra, tutto era amorfo ed imperfetto. Mentre gli dèi, ebbri della propria sapienza e superiorità, affrontavano le loro questioni ben più importanti su nei cieli, il compito di occuparsi della razza umana era stato relegato a due fratelli: Prometheus ed Epimetheus.

- E queste scimmie umane sono così poco evolute da infastidirmi …- Il titano fratello maggiore, seduto su di una roccia al centro di uno dei primi villaggi mai creati, osservava con fastidio tutta quella vita circolare attorno a sé. Gli umani gli parevano non più intelligenti di un gregge di pecore.

Per pura coincidenza, quando volse lo sguardo verso i pascoli, vide suo fratello Epimetheus tra il bestiame, seguito da uno stuolo di bambini ridenti.

Ripensò a quando era stato mandato lì da Zeus, il quale aveva conquistato il potere all’Olimpo da poco.

Il forte e giovane dio degli dèi sedeva già sul suo trono come se gli fosse sempre appartenuto, guardando dall’alto il titano, che invece aveva la testa bassa con un’espressione frustrata e abbattuta.

“ Su, su, Prometheus… di cosa ti lamenti? Gli umani sanno essere molto spassosi! E poi hanno certe donne…” Dalle narici di Zeus partirono due sbuffi di fumo, come era abituale per quel pervertito.

Il titano si guardò attorno: tutti gli dèi che presiedevano a quella riunione gli rivolgevano sguardi taglienti, accusatori, come se avesse appena commesso il più grande dei crimini.

- Non li biasimo…- Pensò lui, arrendevolmente – Dopo tutto mio padre, Giapeto, aveva organizzato un colpo di stato al nuovo governo di Zeus con gli altri titani… ma tutti sanno che la Titanomachia non è andata affatto bene per loro.-

Il Tartaro: la prigione infernale dove erano stati mandati i vecchi titani per punirli, e dove spesso l’avevano minacciato di spedirlo soltanto perché anche lui era nato titano, e non dio.

Ritornando con la mente a quel confinamento sulla terra degli umani, Prometheus si abbandonò in un sospiro e decise di andare da suo fratello.

Epimetheus non aveva mai affrontato quella situazione, o addirittura la sua esistenza da titano, con la sua rabbia e tristezza: d’altro canto era stato da subito entusiasta di avere a che fare con qualcuno che non lo prendesse a male parole, o che non lo giudicasse per ciò che aveva fatto suo padre. Ogni volta che vedeva il sorriso sul volto di suo fratello, segretamente Prometheus si sentiva invidioso, in quanto incapace di sorridere in qualsiasi mondo fosse costretto a vivere.

Quando raggiunse Epimetheus, quasi del tutto uguale a lui se non fosse stato per i capelli arruffati e la folta barba sul suo viso tondo, venne salutato in coro da tutti i presenti. Le voci dei bambini dopodiché tornarono a ridere di suo fratello, giocando a strattonarlo o a corrergli intorno.

Ad un certo punto, mentre era assorto nel fissare la placida ed insignificante vita del villaggio, sentì distrattamente un bambino chiedere: “Epimetheus, che fungo è questo ?”

“Non lo so, non l’ho mai visto! Ma i funghi sono fatti per essere mangiati, come le bacche, no ?”

In quell’istante Prometheus si voltò di scatto, allarmato, soltanto per vedere suo fratello sollevare un fungo rosso livido sopra la sua bocca spalancata.

“Cretino !” E con uno schiaffo glielo strappò di mano. Suo fratello rimase a guardarlo con gli occhioni spalancati e pieni di lacrime.

“Ma perché ?” E pure tutti i bambini, in procinto di piangere, gemettero: “ Ma perché ?”

“Cos’è, vi siete messi d’accordo?! Cretini !” Sbraitò esasperato il titano più grande. Prendendo un bel sospiro, provò a mantenere la calma. “Quel fungo che stavate per mangiare era velenoso. Non tutti i funghi sono commestibili, così come le bacche… guardate, ecco da cosa si riconosce un fungo velenoso.”

E chinandosi al suolo prese a spiegare tutte le sue conoscenze in natura. In men che non si dica, senza che se ne accorgesse, non solo Epimetheus ed i bambini, ma anche i pastori che passavano lì vicino, e poi tutto il villaggio, si era radunato attorno a lui con gli occhi stralunati in silenziosa ammirazione.

“Wow…” Fischiò suo fratello, per poi battergli una pacca sulla spalla. “Sei una forza, Prome !”

Non gli venne dato nemmeno il tempo di rispondere, perché tutti gli umani lì attorno annuirono, complimentandosi con lui e ringraziandolo.

“E se… e se…” Una bambina gli tirò la mano, per poi arrossire dall’imbarazzo quando lui guardò verso di lei: “E se… il signor Prometheus… ci insegnasse altre cose? Può ?”

Con acclamazioni da parte di bambini ed adulti, tutti incitavano il nome di Prometheus. Addirittura ad un certo punto lo sollevarono in aria, lanciandolo su e giù.

-Questo è…- Il titano fu grato che in quel momento nessuno potesse vederlo in viso, perché le sue gote si erano tinte di un insolito colore, proprio come quello del fungo velenoso. –Questo è bellissimo !-

 

“Gli umani meritano di sapere di più sul mondo !” Disse a Zeus, tempo dopo.

I due parlavano per la prima volta in privato, siccome il titano era riuscito a sgattaiolare nel giardino del dio degli dèi mentre faceva una passeggiata notturna. L’aveva interrotto mentre, ubriaco, urinava in un cespuglio, ma nemmeno l’imbarazzo l’aveva fermato.

Ora parlavano da un po’ seduti su di una panchina, con la scusa di far smaltire la sbronza di Zeus.

“Quindi… ti stai divertendo ?”

Prometheus arrossì di nuovo. Odiava quando succedeva, ed ultimamente succedeva fin troppo spesso.

“Non è divertimento. È… soddisfazione, completezza. Mi sento il fautore di una intelligenza che è derivata dalle mie conoscenze, da tutti quegli anni passati in solitudine nella biblioteca degli dèi… dopo che mio padre…”

“In poche parole, hai finalmente trovato dei tuoi simili.” Lo interruppe Zeus, ridacchiando tra una parola e l’altra. Dopodiché girò la testa verso di lui, e non gli parve affatto poco lucido quando disse: “Sono contento per te, stai facendo qualcosa di meraviglioso.”

Sorrise. Prometheus sorrise per la prima volta dopo… non lo sapeva nemmeno.

“Ma quindi, come vorresti far sapere di più sul mondo ?”

“Gli umani non conoscono gli dèi! Per quanto sono stati creati da essi, non hanno nemmeno la minima idea che voi esistiate… di cosa abbiate fatto, dei progressi o delle battaglie. Insomma, non hanno nemmeno idea di come si è originato il mondo in cui sono nati, o gli animali che fanno pascolare. L’unico modo per dimostrare loro tutto ciò è… con la fiamma della conoscenza.”

Gli occhi di Zeus si illuminarono dalla sorpresa, facendolo sussurrare a labbra contratte: “Il Record of Ragnarok …”

La fiamma della conoscenza era invero l’archivio della storia delle divinità, dalla creazione del cosmo alla creazione della Terra e oltre. Ogni scontro leggendario, ogni progenie divina, e persino dei tabù come la morte di alcuni dèi, veniva registrata tra le braci di quel fuoco che non brucia e non si spegne.

“ Io …” Zeus sbadigliò, mentre si stiracchiava all’indietro per flettere i suoi bicipiti “… non ci vedo nulla di male!”

E all’ennesimo sorriso, Prometheus ricambiò, rosso in volto: “Grazie…”

“Come sei carino ora che arrossisci, Prometheus <3!”

“Sta zitto! Cretino !”

 

Una volta tornato sulla Terra, al titano fu concesso il tempo necessario per raccogliere gli umani e spiegare loro la situazione, mentre intanto Zeus indiceva un Concilio degli Dèi per poter mettere ai voti quella proposta. Il dio gli aveva augurato per il meglio, convinto che chiunque avesse sentito la voce del suo cuore così puro parlare, sarebbe stato persuaso.

“Sei così… fantastico, Prometheus!” Gli diceva intanto suo fratello, sistemandogli il completo bianco davanti allo specchio. “Il più migliore!”

“Non si dice più migliore, Epimetheus.” Sorrise il maggiore, arruffandogli i capelli con fare scherzoso. “Ma grazie !”

“In tutto questo tempo hai fatto imparare tante cose agli umani, mentre io…” Epimetheus si abbandonò su di una sedia. Anche lui era vestito elegante, ma era solo per formalità: non era stato chiamato al Concilio, ed avrebbe solo dovuto spiegare la situazione agli esseri umani.

Ovviamente quel ruolo così secondario, unito allo sconforto di non sentirsi utile, lo rendeva triste. Suo fratello riconobbe quell’espressione: il non sentirsi in diritto di avere un posto nel mondo.

Era ciò che lui aveva vissuto per molti, moltissimi anni, mentre invece Epimetheus si sforzava di sorridere nonostante tutto. Si sentì subito in colpa per aver condannato a quella condizione colui a cui teneva di più, e che in fondo gli era sempre stato vicino.

“Penso che…” Si schiarì la voce, prendendo per le spalle suo fratello. “Penso che debba andare tu a parlare al posto mio al Concilio degli Dèi, sai ?”

Immediatamente Epimetheus andò nel panico, agitandosi ed arrossendo più di quanto facesse il fratello: “C-Cos-Cosa?! I-Io?! M-Ma io non s-so nemmeno…”

“Sì che lo sai… cretino. Dirai che gli umani meritano di sapere di più sulla storia attraverso la fiamma della conoscenza. Hai presente la fiamma della conoscenza ?”

L’altro annuì, seppur titubante.

“Ok! Se ci pensi l’unica cosa che separa gli umani dagli dèi e quanto sanno della storia del mondo… però, detto fra noi, alcuni umani qui se conoscessero le giuste cose saprebbero superare quei balordi.” Ridacchiò, prendendo sotto braccio il fratellino. “È chiaro? Andrai benissimo, io credo in te. Otterremo il permesso di usare la fiamma della conoscenza !”

Così, quella notte, Epimetheus raggiunse la sala del Concilio e si sedette ad un banco davanti a tutti gli dèi del creato. Sì sentì talmente tanto sotto pressione da sudare, ignorando lo sguardo titubante di Zeus, che si domandava intanto cosa fosse successo al suo accordo con Prometheus.

“D’accordo, siamo tutti qui riuniti…” Parlò a gran voce il dio degli dèi, interrompendo i brusii di disapprovazione. “… per far parlare questo bel giovinotto. Allora, Epimetheus, cosa vuoi proporre a questo Concilio ?”

Il titano si paralizzò, colto da un attacco di ansia da palcoscenico inverosimilmente buffa quanto terrificante nella sua situazione. Ritto e teso come una corda di violino, il sudore ora incorniciava le sue labbra tremanti. Passò così tanto tempo che le prime risate si poterono udire nel silenzio tombale, al che Zeus pensò di intervenire.

“ Io… !” Un’esclamazione, un’affermazione della propria esistenza, o forse semplicemente la prima cosa che era venuta in mente ad Epimetheus. Il titano chinò il capo, sentendo nascere dentro di sé il bisogno impellente di parlare: voleva essere utile, non voleva rappresentare un peso per suo fratello e per tutti gli esseri umani ai quali si sentiva legato.

“Io voglio che gli esseri umani sappiano quanto gli dèi! Anzi, alcuni possono anche sapere più degli dèi! Si meritano tutto questo perché… la storia del mondo è importante, e meritano di conoscerla.”

Già dalle prime parole pronunciate il silenzio tombale era divenuto pesante e freddo come una lastra di ghiaccio piombata tra le tribune. Ben presto, una terribile e pressante aria minacciosa iniziò ad incombere su Epimetheus, ma lui era così impegnato a parlare che non se ne accorse.

“ Ad esempio… tutti devono sapere com’è andata la Titanomachia!” Aveva detto il primo evento storico a cui avesse pensato, ma quelle poche parole furono la goccia che fece traboccare il vaso: in un clima già pericoloso e sull’orlo della rottura, bastò per far esplodere la rabbia che gli dèi stavano covando.

“Bastardo! Come ti permetti?!”

“Gli umani dovrebbero sapere quanto e più di noi?!”

“La storia della Titanomachia?! Cos’è, pianifichi di vendicarti per la fine di tuo padre?!”

“Io sapevo che dei titani non meritavano di vivere! Sono tutti impostori e traditori !”

L’ira che tempestava l’innocuo titano lo travolse, schiacciandolo e facendolo sentire impotente. Disperato, tra le lacrime provò a far risuonare la sua voce, ma non veniva ascoltato da nessuno.

-Io volevo solo…- Cercò l’appoggio di Zeus, ma lui si dimostrò impotente -… essere d’aiuto…-

Venne avanzata la proposta di condannare i due fratelli titani, e all’unanimità venne approvata. Il padre dell’Olimpo, non potendo far nulla, infine si arrese guardando quel povero Epimetheus con sguardo mesto.

“Mi dispiace, Epimetheus. Ma… perché ?” Domandò, avvicinandosi a lui per sorreggerlo in piedi dopo che si era accasciato a terra tra le lacrime. “Perché non hai lasciato parlare tuo fratello ?”

“Perché avevo da fare !” Con un boato, la porta della grande sala venne spalancata.

Il titano Prometheus, vestito elegantemente per l’occasione, avanzò tra le tribune fino a raggiungere Zeus e suo fratello.

“E ciò che mi ha occupato fin’ora è stato… trafugare la fiamma della conoscenza per poi donarla agli umani !” Il suo sorriso sprezzante, accompagnato da quelle parole tremende, bastarono per far sussultare tutti gli dèi presenti.

Persino Zeus, incredulo, vacillò: “Cosa hai… fatto ?”

Il titano ridacchiò, ma la sua espressione gioiosa non esprimeva più semplice felicità e soddisfazione. No, si trattava di una crudele superiorità, un’ironia con la quale aveva scosso fino al midollo una società ingiusta che per sempre l’aveva afflitto.

“Ora gli umani sanno quanto voi: si tramanderanno miti e leggende, magari anche distorcendoli e prendendosi gioco di voi… oppure ribellandosi.” Sogghignò, per poi superare il dio degli dèi e raggiungere suo fratello.

“Q-Quindi ce l’abbiamo fatta ?” Con il volto rigato dal pianto, Epimetheus abbozzò un sorriso per accogliere il fratello. Gli venne risposto con un’espressione dura, quanto più di odio e disgusto Prometheus potesse dimostrare.

“ Ce L’HO fatta solo perché sin dall’inizio sapevo che la proposta sarebbe stata rifiutata… quindi cosa mi costava mandare a prendere tempo un inutile cretino come te? Mi servivi come pedina per distrarre gli dèi mentre comunque portavo a compimento il mio piano! Che credevi ?!”

Il titano Epimetheus non rispose nemmeno. La sua tristezza incommensurabile lo raggiunse dopo: più tardi del dolore, e più tardi di quando il pugno di suo fratello non gli avesse perforato il petto da parte a parte. Vomitò sangue, il quale si mischiò alle lacrime che già inondavano il suo volto.

Dopodiché morì tra i rimorsi, consapevole di esser sempre stato solo uno stupido per suo fratello.

Al contrario, senza rimpianti, Prometheus venne incatenato ad una roccia con ancora quel sorriso beffardo stampato sulle labbra. Un’aquila gli divorava il fegato giorno dopo giorno, come si tramandò nella storia, ma lui non abbandonò mai quel sorriso: in fondo sapeva che prima o poi anche gli umani avrebbero rosicchiato le catene che gli dèi avevano cercato di porre su di loro, e un giorno, chissà, si sarebbero ribellati ai loro creatori.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Eccoci tornati al quarto scontro! Spero che l’attesa verrà ripagata nei prossimi tre giorni, ma intanto sono curioso di sapere se, col capitolo di oggi, già ho catturato il vostro interesse.

Prometheus contro Josef Mengele. Il titano è l’infiltrato, colui che non avrebbe voluto combattere contro l’umanità… ma allora perché sta avvenendo tutto ciò? Se questa è la domanda che vi tormenta, rimanete sintonizzati per i prossimi capitoli.

Un paio di cose prima:

1) Spero vi sia piaciuto come ho stravolto il mito di Prometheus. D’altronde è qualcosa che nel corso della storia, tra filosofi e varie culture, è già stato cambiato molte volte. Io ho voluto dargli quel tocco di coerenza con l’atmosfera generale della storia (ovvero che esiste un Concilio degli Dèi, e non soltanto un pantheon)

2) Questo è stupido, ma non inutile dirlo: ovviamente se ho deciso di mettere Josef Mengele, non è perché lo reputi un eroe dell’umanità o altro. Non c’è alcun tentativo di apologia del nazismo in questa storia, e spero proprio che nessuno lo pensi. Inoltre, non farò riferimenti troppo diretti al nazismo e alla Seconda Guerra Mondiale, perché li reputo un po’ troppo pesanti da inserire: ciò non significa che io neghi il nazismo e l’olocausto, o non riconosca la tragedia di quel periodo storico. Giusto per mettere un po’ le mani avanti, non si sa mai.

A domani!
P.S: Il titolo, che in tedesco significa "Tu sei nel labirinto", è un riferimento alla canzone che mi ha dato l'ispirazione per questo scontro: Labyrinth degli Oomph!- Come potrete immaginare, lo scontro sarà pieno di parole in tedesco: le esclamazioni non le tradurrò, mentre per le frasi che sono per lo più prese da pezzi teatrali, sì. Inoltre il riferimento a Der Freischütz è stato inserito in quanto citazione all'anime Hellsing Ultimate, in cui era una delle colonne sonore del Letzte Bataillon (ovvero la squadra nazista).

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Capitolo 14
*** Chapter 14: Dead End ***


Chapter 14: Dead End

Eppure, mai più che in quel momento, proprio la sapienza donata da Prometheus agli umani minacciava di schiacciarlo senza pietà, perché impugnata come una daga velenosa da una mano malvagia.

Lo squillo d’inizio era già rimbombato da tempo, mentre lui esitava ancora ad agire in quel corridoio.

“Giusto per essere chiari, onde evitare che la codardia abbia assordato le tue orecchie …” Josef Mengele aveva estratto qualcosa dall’interno della sua giacca: un piccolo cilindro di vetro, con all’interno un colore brillante. C’era anche un ago tra le sue dita.

“Che tu ti arrenda, inneggiando alla pietà che abita nel tuo cuore, o che tu scelga di non combattere, per me non c’è alcuna differenza.” Aveva appena assemblato una siringa, ma non prima di aver indossato due guanti bianchi di lattice. “Io, in quanto medico e fedele al giuramento che ho fatto …”

Un passo dopo un altro. Si stava avvicinando al titano, il quale ora sempre più sentiva il retro del suo collo pungere e prudere per la pelle d’oca.

“… procederò in una lenta e meticolosa vivisezione del tuo corpo senza alcuna anestesia !”

Un pugno in pieno viso lo raggiunse, spezzandogli la voce e paralizzandolo sul posto come un tronco d’albero. Josef si raddrizzò sulla schiena mentre già i suoi piedi si erano staccati da terra: pareva una aereo in decollo.

In quel momento, più lucido che mai, Prometheus poté riconoscere il suo braccio proteso in avanti, e proprio il suo pugno affondato nel volto del tedesco. Il sudore gli correva all’indietro lungo le guancie e la fronte, assieme ai suoi capelli sciolti e mossi durante la foga del colpo.

Il suo corpo era ancora freddo, ma bastò poco affinché tutti i suoi muscoli si riscaldassero, fino a bruciare: era il segno che si era mosso, non era rimasto fermo. Non aveva di certo controllato lui quell’azione, con il suo cervello ancora intorpidito dallo shock, eppure quel suo corpo aveva deciso di muoversi.

Sentì le lacrime puntellargli i bordi degli occhi, in procinto di uscire.

 

First hit !” Strillarono gli annunciatori “Con un sucker punch, Prometheus fa la sua prima mossa !”

E proprio quando erano sul punto di urlare con ancor più esagitazione, una visione li lasciò senza parole.


“Oh cielo! Sc-Scusami, io… non volevo, non l’ho fatto apposta !”

Il gigantesco combattente si era ora piegato sul suo avversario, esitando a toccarlo, ma evidentemente preoccupato per aver colpito così duramente l’altro. Josef intanto si era preso il volto tra le mani, nascondendolo mentre le sue mani tremavano.

Un liquido rosso venne versato sui guanti bianchi, sgorgando tra i palmi e le dita e piombando al suolo con un disgustoso suono di schioppo. Prometheus trasalì: “È s-sangue? Io non volevo, lo giuro …”

Ma il tedesco si accasciò a terra, lasciando scivolare gli arti lungo le ginocchia ripiegate. Il suo volto era segnato da un grosso livido rotondo che gli prendeva tutto il naso, spaccato e sanguinante.

- Eppure… il mio corpo è stato modificato da queste stesse mani per superare le capacità di un normale essere umano.- Pensava intanto il dottore, sentendo la propria testa sul punto di esplodere per il dolore.

- Se non fossi stato così… se fossi stato un normale umano… quel colpo istintivo mi avrebbe sfondato il cranio come un pallone travolto da un Panzer.- Il suo perfido sguardo si fece sottile e tagliente come due fessure, squadrando il suo avversario con sospetto. -Ma ora… deve aver capito quella cosa.-

Infatti, davanti a lui, Prometheus aveva accantonato la sua preoccupazione per un’altra perplessità: si stava guardando la mano destra, siccome un fastidioso bruciare lo aveva colto alla sprovvista. Rigirando il palmo, notò sulle nocche delle piccole abrasioni, come macchie sparse lungo il dorso.

A causa della sua stessa mano che ora gli copriva il campo visivo, non poté notare cosa accadde davanti a sé: favoreggiato dalla sua posizione strategica, Josef raccolse la terra sulla quale era stato versato il suo sangue per poi scagliarla addosso all’avversario. Questo, colto alla sprovvista, non seppe come difendersi dal mucchio di terra e polvere che lo colpì.

Inizialmente non comprese il perché di una simile azione, ma subito dopo lo raggiunse il dolore. Bruciava molto più della sua mano poco prima, ed era in corrispondenza dei detriti che avevano sporcato il suo vestiti. Abbassando la testa, poté vedere la sua giacca bianca bruciare e corrodersi, mentre la pelle al di sotto già veniva straziata da un attacco incomprensibile.

Stavolta però, nonostante il dolore lancinante, non perse di vista Mengele quando questo si alzò e balzò su di lui. Il dottore affondò la siringa che fino a poco prima impugnava, colpendo però il vuoto: Prometheus si era tirato indietro. Quando però lo stantuffo della siringa venne premuto, il liquido al suo interno schizzò in avanti come un proiettile, e proprio come tale perforò inaspettatamente la spalla del titano.

Prometheus, nell’istante in cui percepì la propria carne venir attraversata da quel liquido, riprovò la stessa sensazione di paura di poco prima. Il suo corpo era freddo, ma i muscoli in tensione parevano delle pietre laviche. Ormai rispondeva ad un solo impulso, un istinto che gli faceva dubitare della sua razionalità: sopravvivere. Scappò.

Il corridoio era largo, così non ci fu modo per il tedesco di fermarlo quando scappò verso l’interno della struttura. Gli annunciatori ed il pubblico sussultarono alla vista di quella scelta: “Non si era mai visto niente di simile, prima d’ora! È una fuga, ladies and gentlemen! Dal momento in cui Prometheus ha deciso di battere in ritirata, tutti i corridoi dell’Arena del Valhalla sono da considerare campo di battaglia. Siete pregati di lasciare la struttura interna…”

Noncurante di quella voce dal cielo, Josef diede le spalle alla luce dell’esterno, rivolgendosi verso le tracce di sangue che il suo avversario in fuga aveva perso. Nell’oscurità proiettata sul suo volto si spalancò l’ennesimo sorriso splendente.

-Non ti ho avvisato di una cosa, Prometheus… nessuno dei miei pazienti sopravvive al mio intervento !-

 

L’aria sfrecciava sui bordi del suo viso, lasciandosi lo sconfinato buio e l’ignoto  alle spalle. Le ferite più profonde non smettevano di sanguinare, e la pelle di bruciare.

-Cosa diavolo è stato? Un umano non dovrebbe poter danneggiare una divinità !-

Prometheus voleva fuggire dalla verità proprio come fuggiva dallo scontro, ma in realtà non era rimasto all’oscura rispetto ai precedenti matches. Il concetto di Sefirot, l’Arma donata dall’Albero della Vita che permetteva all’uomo di combattere dio, lo aveva subito affascinato: con quell’arma, credette, sarebbe stato possibile ribaltare l’equilibrio della stupidità che opprimeva la conoscenza.

Eppure in quella situazione il coltello era puntato verso di lui, mentre il manico lo stringeva un essere umano che mai avrebbe potuto aspettarsi. Lo voleva uccidere, calpestando ed ignorando tutto ciò che Prometheus avrebbe voluto portare con il suo aiuto alla razza umana.

Scosse la testa, ricacciando quel pensiero. Voleva a tutti i costi restare lucido, mentre ogni volta che si focalizzava sulla perdita della sua speranza, sentiva una parte della sua anima venir fatta a brandelli.

-Quando l’ho colpito, le mie nocche bruciavano… e allo stesso modo, quando mi ha lanciato la terra bagnata dal suo sangue, era un attacco vero e proprio. Questo mi farebbe pensare che la sua Arma sia il sangue, ma… questo vuol dire che deve aver ricoperto con lo stesso anche il bisturi, e riempito la siringa !-

Raggiunse un’area piena di stanze, così entro in una delle prime porte che trovò. Al suo interno c’era silenziosa tranquillità, tuttavia fu allora che la paura ritornò a farlo tremare convulsamente. Appoggiato alla porta, si lasciò scivolare al suolo.

-E se non fosse il sangue? E se fosse un altro liquido con il quale si era bagnato la faccia, e che aveva all’interno della sua bocca? Pensa, Prometheus, pensa !-

Qualcosa lo fece trasalire, al punto da rischiare di strappargli un grido per la sorpresa: si trattava di una canzone che echeggiava nel corridoio oltre la porta, ma seguita da uno stridio costante, capace di far accapponare la pelle.

 “ Und der Haifisch, der hat Zähne

Und die trägt er im Gesicht

Und Macheath, der hat ein Messer

Doch das Messer, sieht man nicht!”

(C’è uno squalo che ha le zanne

E le mostra in bella vista

C’è Macheath che ha un coltello

Ma il coltello nessun lo vede!)

Un bisturi strideva contro la parete dalla parte del manico, trascinando un raschio mentre Josef avanzava.

 

Tra le tribune umane trasalirono in molti al vedere quella presenza malvagia strisciare nel corridoio come un mostro che insegue la sua preda, ma qualcuno in particolare sussultò con ancor più orrore.

“Non può essere… che stesse cantando la mia… ballata!” Il musicista Kurt Weil balzò in piedi con un maschera di disgusto e raccapriccio in viso. Al suo fianco, un uomo più composto e serio, ma non per questo meno toccato da quella visione, sibilò:

Die Dreigroschenoper, primo brano: die Moritat von Mackie Messer.” I due uomini, entrambi tedeschi, vennero riconosciuti seduta stante tra la folla.

Bertold Brecht, il drammaturgo che aveva composto l’Opera da Tre Soldi, fissava da dietro i suoi occhiali tondi la trasmissione dello scontro, perseguitato da una malevola sensazione di disagio.

“E pensare che quel brano parla appunto di un efferato criminale, Macheat o Mackie Messer, contro il quale neanche la legge ha potere… si trattava di una critica, una velata satira per la quale però sono dovuto scappare da quel regno di terrore !” I suoi occhi, fermi sul volto di quell’uomo che avrebbe potuto riconoscere per sempre, e sulla croce celtica sulla sua spalla.

“Che la mia opera, in fine, sia stata sentita da un nazista… mi dà il voltastomaco !”

 

Intanto Prometheus sentiva il suono di quella voce acquietarsi sempre di più, facendosi lontana.

-Se n’è… andato ?- La curiosità lo spinse ad alzarsi e a voler aprire la porta.

Quando però posò una mano sulla maniglia, una fitta di dolore improvvisa lo costrinse a ringhiare, togliendogli però il respiro. Riconobbe la sensazione di acido bollente, così quando abbasso lo sguardo seppe riconoscere subito la propria mano entrata a contatto con quel liquido di prima, spennellato finemente sulla maniglia della porta.

Klopf, klopf? Lass mich rein (toc toc? Lasciami entrare)!” Improvvise e spietate come un fulmine a ciel sereno, le braccia di Josef sbucarono dallo spiraglio appena aperto dalla porta, e cinsero l’arto ferito del titano. Tirandolo all’esterno e piegandolo a novanta gradi, lo spezzarono in due: l’osso spaccato produsse un suono netto e preciso.

La velocità con cui era stata compiuta quell’azione non fece nemmeno percepire istantaneamente il dolore a Prometheus, che tuttavia vide davanti ai suoi occhi quel braccio disgiunto in maniera orribile. Tuttavia l’attacco del suo avversario non era finito: con un singolo colpo sfondò la porta all’altezza della nuca del titano, raggiungendo con due dita l’occipite.

Nuovamente ci fu un suono come di scoppio.

“Ahi, ahi! Devi stare attento adesso, mein verlörest Kind (mio bambino sperduto) …” Mengele aveva affondato il volto tra i capelli di Prometheus, essendo ora la sua testa piegata all’indietro in modo innaturale. Una strana protuberanza sporgeva scompostamente dalla sua gola.

 “Spezzandoti la vertebra cervicale C6, il tuo collo si è piegato ed ha creato una pressione che schiaccia sia l’arteria carotide che quella vertebrale. Presto non arriverà più sangue ed ossigeno al tuo cervello, e morirai …” Dicendo queste parole, Prometheus non poté vederlo a causa dell’impossibilità di muovere la propria testa, ma il tedesco aveva gettato gli occhi all’insù come in estasi.

“Come puoi vedere non mi serve nemmeno la mia Arma, tratta dalla Sefirot Cochma, Intuito di Saggezza, per batterti! Basta solo un po’ di conoscenza anatomica per farti soffocare con il tuo stesso corpo! Questa è la mia dominazione, la mia supremazia… mentre tu sei solo l’inerme cavia che dovrà stringere i denti fin quando io non avrò esaurito tutto ciò che voglio farti provare.”

Dopo aver detto quelle parole, tuttavia, lasciò la presa dal braccio e dal collo.

Il titano si voltò, riuscendo ad intravedere la porta spalancarsi di colpo. Il suo avversario, ora apparendo in tutta la sua figura, si mostrò con un assetto del tutto nuovo: attraverso delle imbracature metalliche sul petto, aveva agganciato alla schiena due grosse taniche di vetro, dentro le quali era possibile vedere un liquido cremisi. Quelle vasche erano collegate a dei tubi: alcuni arrivavano all’altezza dei suoi gomiti, per poi conficcarsi dentro l’uniforme, mentre altri si univano ad un fucile d’assalto che l’uomo impugnava.

Pur non avendo mai visto in vita sua una simile arma adoperata in battaglia, Prometehus ne poté intuire il funzionamento a partire dalla struttura. Così facendo, ricollegò il movimento dell’indice di Mengele sul grilletto, come un evidente segnale di pericolo.

Das ist der Blitzkrieg !”

Una scarica di proiettili rossi come il sangue esplosero nella piccola stanza, ed ora che l’unica uscita era bloccata, non era rimasta una via di fuga.

Il titano si scagliò all’indietro, vedendo intanto vari mobili attorno a lui venir ridotti in macerie. Atterrò su di un letto, siccome quella doveva essere una camera per gli ospiti, e ribaltandolo cercò di crearsi una benché minima protezione. Quando però rivolse le doghe verso di sé, non gli sfuggì qualcosa di insolito che spiccava tra di esse.

Il colore del fuoco, di una rosa, di un cadavere brutalmente ucciso: il rosso del sangue. Tra le assi di legno era legata una sacca di sangue, proprio di quelle usate per le trasfusioni. Alla sua sola vista, Prometheus comprese di aver compiuto il più grande errore, iniziato nell’istante in cui aveva deciso di sottostare alle regole di Josef.

Il letto lo raggiunse a gran velocità quando proprio il tedesco glielo scagliò addosso con un calcio, ed in quel modo la sacca collise con tutto il suo corpo per poi esplodere.

Si sollevò una nuvola di vapore che puzzava di carne bruciata, ma persino lo scoppiettio frizzante della pelle non bastò a coprire il ruggito agonizzante che scaturì.

 

“Una trappola! Prometheus è caduto in una trappola !”

Adramelech e St.Peter si sporsero in avanti, impressionati dall’orrenda e violentissima visione alla quale stavano assistendo: “Perché è stato spinto da Josef Mengele proprio in una stanza che aveva armato in precedenza !”

 

“Il vantaggio di scegliere il campo di battaglia con largo anticipo di tempo è una delizia. Io sono andato in guerra, sai ?” Domandò con un sorriso cordiale il tedesco, usando il fucile per spingere quel letto, e di conseguenza anche Prometheus, contro il muro. Quando lo ebbe inchiodato alla parete, carne e sangue spruzzarono ovunque tra le urla agonizzanti di lui, mentre il suo petto ed il suo volto si scioglievano tra atroci sofferenze.

“Ma non posso biasimarti per la tua scelta, e per questo non vorrei che ti ritenessi sfortunato: ogni stanza in questo labirinto era una trappola già preparata. Che male c’è ad usare un’arma non convenzionale come una trappola, un inganno o un attacco alle spalle in guerra? Qui non ci sono quelle stupide leggi etiche, e perdonami anche il gioco di parole, se ti dico che non c’è… umanità !”

Accade solo per un istante, ma nella foga, nella follia e nel sangue che spruzzava nell’aria, i loro occhi si incrociarono. Nel tempo congelato, l’immagine più rappresentativa della loro essenza pareva esser stata catturata da una fotografia: Josef, ubriaco di quella superiorità, e Prometheus, in eterno tormento.

Dopodiché il titano, in preda ad uno spasmo di dolore, non si dimenò come una bestia. Gli bastò un solo colpo con la sua forza sovrumana per polverizzare il letto, e con esso anche il fucile di Mengele.

-Io…- Sorpreso di punto in bianco dal ribaltamento della situazione, il nazista cercò di pianificare una strategia, ma ogni cosa gli scivolò da sotto gli occhi troppo rapidamente.

Quando se ne rese conto, di Prometheus non c’era più nulla, ed intravide solo la coperta che il titano si era trascinato dietro di sé mentre fuggiva dalla stanza.

-È stato… veloce.- Si portò una mano al viso, sfiorandosi appena la ferita da taglio che una scheggia volante gli aveva procurato. Le dita del guanto si colorarono di rosso. –Però non mi ha attaccato direttamente. Che si sia accorto di …?-

“Oh, ma comunque…” Forzando una risata che lo rincuorasse, scrollò il capo chino. “La situazione non cambia.”

Consapevole di avere in pugno il suo avversario, e fiducioso come un ragno che si muove sulla propria tela, avanzò nel labirinto di corridoi che però aveva già memorizzato. Gli bastò seguire nuovamente le tracce di sangue, fino a quando, poco prima di svoltare un angolo, si ricordò che questo avrebbe portato ad un vicolo cieco.

Arricciò le labbra in un sorriso diabolico, sbucando con un passo deciso verso la fine del suo nemico.

Lì, come programmato, vide una figura ricurva su se stessa e avvolta dalla coperta. Il sangue macchiava i suoi piedi, formando una pozza.

“Non a caso ti ho parlato di crimini impuniti, prima …” Iniziò ad avanzare verso di lui. “La tua morte si aggiungerà alle tante sconfitte degli déi, ovvero diventerai solo un numero. Pensi che qualcuno ti piangerà a lungo, oppure saranno tutti più interessati a rivolgere le loro speranze nel prossimo sfidante? Come disse un uomo che, bhe… posso dire di non rispettare molto, ma comunque, dicevo, espresse un pensiero abbastanza condiviso anche nella mia terra… “La morte di uno è una tragedia, un milione di morti è statistica”. Ma non voglio indurti a credere che la vittoria degli dèi, o degli umani, per me abbia differenza.”

 

Il suo discorso, ascoltato da tutti gli spettatori, fu univocamente ripudiato, siccome nessuno era in disaccordo sul fatto che quell’uomo fosse la peggiore feccia.

Persino il dio misterioso, soprattutto dopo quell’ultima osservazione, non si risparmiò una smorfia di disgusto.

 

“… perché lo sai cosa voglio, qui ed ora? Studiare come muore… un dio !”

“Basta così !” Lo interrupe una voce fragorosa come una valanga.

Il tedesco, colto alla sprovvista, si ritrovò a bocca aperta. Davanti a sé la figura sotto la coperta si sollevò da terra, gocciolando sangue. Il ticchettio per qualche secondo fu l’ultimo suono che riecheggiò nel silenzio generale.

“Mi hai già dato abbastanza motivi per riconsiderare le mie condizioni.” Disse infine Prometheus, scostandosi la coperta di dosso.

Ciò che si ritrovò di fronte Josef Mengele, fu abbastanza per fargli sgranare gli occhi, assalito da un’improvvisa ed innegabile costernazione, mista ad inimmaginabile sorpresa.

Il corpo del titano si ergeva su di lui, statuario e perfetto, ma soprattutto senza neanche un graffio. La giacca era stata rimossa, mostrando il suo petto generoso di muscoli prorompenti, mentre il suo viso era contratto in un’espressione decisa, di indomabile forza.

Neanche una ferita, fisica o psicologica, era rimasta per tangere quella divinità che ora pareva splendere di luce propria, come una fiaccola.

Era il faro di Alessandria, la Stella Polare, la direzione verso sia umani che déi si erano ritrovati a guardare, uniti, ma senza neanche saperlo.

“Inizialmente ero fin troppo combattuto sui miei principi per dichiarare aperto lo scontro con un umano, seppur lui volesse uccidermi. Questo perché il mio amore verso l’umanità è sconfinato ed innegabile !” Il titano sollevò il capo, sfidando per la prima volta l’uomo mentre lo guardava dall’alto.

“Tuttavia… ora mi sono reso conto che, eliminando un individuo corrotto come te, non compio altro che un gesto di bontà e giustizia verso gli esseri umani! Quindi preparati a venir distrutto, Josef Mengele !!”

Finalmente il duello poteva considerarsi iniziato.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Parliamo un po’ di reference: Josef nel concept e nel design è ispirato al dottor Hajime Hanafusa di Kengan Ashura, al dottor Kiryu di Starving Anonymous (il che è tutto un dire, visto che il personaggio di aspetto fisico è uguale a Mengele) e nel comportamento a Hannibal Lecter. È stato interessante farmi una scorpacciata di horror per entrare nel mood di questo scontro, grazie al quale ho recuperato anche il tristemente famoso “Man Behind the Sun”.

Prometheus invece è un qualcosa di più originale, non ha avuto una reale ispirazione.

Fatemi sapere se vi è piaciuto questo capitolo (tra l’altro in cui si inizia a vedere una certa similitudine con il quarto scontro dell’opera canonica)!

A domani!

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Capitolo 15
*** Chapter 15: Murderous Intent ***


 Chapter 15: Murderous Intent

Era carità e rettitudine: l’intento di eliminare quell’empio essere umano era stato proclamato da Prometheus in modo che tutti lo ascoltassero. Il suo grido aveva raggiunto ogni orecchio dell’universo, così come ogni cuore che ambiva in quella stessa speranza.

La paura ed il terrore non erano più l’unica cosa che avrebbero infestato i pensieri degli spettatori, perché la rassicurante stazza del titano ora gettava ombra sul piccolo uomo.

“Eliminando te, renderò il mondo in cui vivranno gli umani un posto migliore !” Prometheus sollevò il pugno verso l’alto, stringendolo con così tanta forza da far prorompere le venature.

Il suo sguardo imbastito di forza, però non ricevette una reazione soddisfacente dal dottore. Anzi, gli occhi dell’uomo brillarono per un istante di interesse, per poi venir socchiusi con un sorriso mellifluo.

“Adorabile: rigenerazione.”

Come narrava il mito, per quanto la punizione di Prometheus fosse che un aquila gli avrebbe divorato il fegato, ogni notte il suo corpo ritornava intatto. Costretto a subire questo tormento per ere interminabili, l’organismo del titano aveva assimilato quella condizione, facendola propria: ora era capace di ricostruirsi, riparando ogni ferita.

“Però non è tutto qui. Le ferite che ti ho causato erano letteralmente impossibili da curare, così complesse che persino un esperto chirurgo non avrebbe saputo da dove partire per ricostruire i tessuti…” Puntualizzò l’uomo “Mentre tu in poco tempo sei tornato come nuovo. Te ne intendi di medicina, forse ?”

Nonostante l’ultima domanda fosse evidentemente retorica e colma di ironia, il suo avversario rispose seriamente e senza la minima esitazione.

“Tutte le conoscenze che ho dovuto trasmettere all’umanità …” Ricordò per filo e per segno tutti gli anni passati tra gli esseri umani, dopodiché ciò che aveva appreso nella fiamma della conoscenza nella quale aveva scrutato.

Tutto quel sapere brillava nella sua mente come lo stesso focolare.

“… per prima cosa le ho padroneggiate io stesso! Non esiste nuova tecnologia o evoluzione che io non abbia previsto, e con la quale non sappia adoperare: questo è il fulcro di Prometheia, “Tutti i Talenti degli Uomini” !”

“Capisco… quindi, in quanto dottore, dovrei ringraziarti per essere il fautore della medicina tra gli umani ?” Sempre parlando con pungente ironia, Josef procedette a sganciarsi le due taniche che portava sulla schiena, adagiandole sul pavimento alle sue spalle.

“Un dottore? Tu ?” Quelle parole di Prometheus, pronunciate con tremenda durezza, non lo lasciarono impassibile come al solito. Persino uno come lui, in quel momento, si sentì tremare, pervaso da un calore che partiva dalla sua testa.

Soffocò la rabbia, nonostante il suo viso irrigidito mostrasse in maniera evidente lo sforzo, e si staccò i tubi che collegavano quelle capsule alle sue braccia. “Mi hai ferito sul serio per la prima volta, mio caro titano …”

Sogghignò nervosamente, scrutando il suo avversario come aveva già fatto in precedenza. Eppure c’era qualcosa di diverso, una nota discordante nella solita canzone: ora l’aggressività che mostrava era più cauta, come un predatore che si prepara ad assalire una preda che può difendersi, e che lo farà fino alla morte se necessario.

 

Umani e dèi attendevano in fermento, mentre le labbra dei presentatori sfioravano i microfoni nell’attesa distruttiva che li separava dalla prossima parola. Si sarebbe potuto udire un capello toccare il suolo.

 

Scattando in avanti più velocemente di quanto il suo avversario avrebbe saputo reagire, Josef Mengele si avvicinò pericolosamente alla guardia del nemico: lì era a tiro per qualsiasi colpo mortale. Dall’interno della sua giacca, come aveva fatto in precedenza con il bisturi e la siringa, estrasse un oggetto colorato dal solito liquido rossastro: pareva un punteruolo dalla punta molto sottile e lunga, quasi quanto una mano.

Impugnando la base larga e circolare nel palmo, stretto tra le dita, si parò di fronte al suo nemico. Questo lo sovrastava, ovviamente, ma lui si accovacciò ancor di più per nascondersi da eventuali attacchi.

Quando però Prometheus si mostrò sul punto di muoversi, Josef ignorò qualsiasi sua azione e semplicemente affondò l’arma verso l’alto.

L’orbitoclasto, questo il nome dell’oggetto, era stato inventato per adoperare la macabra procedura chirurgica della lobotomia; e proprio a questo scopo il dottore aveva intenzione di usarlo, mirando l’occhio del titano: se avesse affondato la punta nella volta orbitale, avrebbe trapassato il dotto lacrimale per raggiungere il cervello. In quel modo, nessuna rigenerazione avrebbe saputo riparare un simile danno.

Completamente immerso nel suo atroce sotterfugio, non si sarebbe aspettato per nulla al mondo che Prometheus decidesse di parare quel colpo ad ogni costo. Infatti, sollevando la mano e lasciandosela perforare, il titano bloccò l’arma prima che la punta gli si avvicinasse troppo al cranio. I suoi muscoli sovrumani nullificarono la forza di Mengele, il quale si ritrovò bloccato. Dopodiché fece oscillare il braccio libero come un pendolo, o una lama di Damocle, abbattendo un manrovescio sul cranio dell’umano. L’impatto fu così forte da emettere un suono simile a quello di un gong.

Gli occhi di Josef divennero lattiginosi, privi di ogni luce, mentre zampilli di sangue gli fuoriuscirono da tutti gli orifizi possibili della sua testa.

Tuttavia, quando abbatté un piede sul terreno per recuperare l’equilibrio, dimostrò di non aver ancora ceduto. Sogghignò malignamente, curvandosi in avanti. Fu allora che Prometheus si rese conto che, nella foga dell’azione, la giacca del nazista fosse sparita.

Quando sollevò la testa, la vide precipitare proprio sopra di lui. Il suo lato interno era completamente imbevuto di rosso, ed ora incombeva sul suo capo per terminare la sua vita. Animato da un impulso di paura e grazie ai suoi nervi saldi, balzò all’indietro per evitare il pericolo. Infine, con un semplice colpo nella parte “non pericolosa” del vestito, se ne sbarazzò scagliandolo via.

  

Purtroppo, proprio quando credeva di aver agito prevedendo qualsiasi cosa succedesse attorno a lui, si ricordò presto che il suo nemico era ancora lì e lungi da essere fuori gioco.

Mengele, infatti, dopo aver ottenuto abbastanza tempo da riprendersi, si era portato agilmente fuori dal campo visivo del suo avversario. Stavolta a mani nude, ma estendendo le proprie dita come aghi, le affondò nella schiena scoperta del titano. Il contatto avvenne inevitabilmente: ogni sua singola azione era stata compiuta per distrarre e destabilizzare un nemico che non avrebbe potuto fronteggiare direttamente, costringendolo infine ad offrirgli il suo lato più indifeso.

“ Colpo diretto !” Esclamarono Adramelech e St.Peter, facendo trasalire lo schieramento degli dèi.

Le divinità infatti si ritrovarono davanti ad una visione da brividi: la loro avanguardia, Prometheus, era immobile, mentre alle sue spalle si poteva vedere distintamente come Josef lo avesse colpito nella schiena.

“E Prometheus… non si muove! Che sia… ?” Nessuno poteva davvero comprendere cosa stesse avvenendo.

Questo perché nessuno, se non proprio l’umano, aveva idea di cosa stesse avvenendo lì.

 

Josef Mengele aveva per la prima dall’inizio dello scontro spalancato gli occhi dalla sorpresa, vedendo il suo sorriso vittorioso trasformarsi in una smorfia confusa. Entrambe le sue mani avevano sì colpito la schiena di Prometheus, ma non perforandola: piuttosto, la carne del dio di era spalancata come una fauce composta da muscoli ed ossa, per poi serrarsi ed immobilizzarlo fino ai polsi.

Prima che potesse anche solo pensare a cosa dire, la voce del titano lo anticipò:

“Pensavi davvero che la struttura del mio corpo fosse solamente in grado di rigenerarsi ?” Quando girò la testa per guardarlo negli occhi, una luce brillante e beffarda lo travolse: era il sorriso di una speranza schiacciante.

“Purtroppo non è così: se le mie conoscenze mediche ed anatomiche mi permettono di ricostruire il mio corpo con la massima precisione in ogni suo singolo punto… posso fare lo stesso, ma distruggendolo per poi ricomporlo.” Distruzione e Ricostruzione. Quella era l’abilità di un essere sovrannaturale, antico quanto i più vecchi dèi esistenti.

Con una semplice torsione del corpo, e mollando la presa sulle mani di Mengele, Prometheus sollevò in aria l’uomo. Quello che bastava per portarlo davanti ai suoi occhi.

“E ora… muori !” La sua voce raggiunse Mengele, sospeso in aria come una bambola di pezza, in contemporanea con uno sbarramento di pugni portati da delle braccia gigantesche.

Ogni singolo colpo si abbatté tremendamente sull’uomo, facendo tremare l’aria attorno a loro.

“ORAORAORAORAORAORA! ORRAAAH!!” Le urla risuonarono in tutta l’arena, raggiungendo persino gli spalti soprastanti.

Dèi ed umani vibrarono in risonanza con quella potenza mostruosa.

Quando la scarica terminò, con l’ultimo colpo Mengele venne scagliato via in un turbinio di sangue. Le nocche di Prometheus bruciavano appena, ma il dolore non lo preoccupava affatto.

 

“Questo sì che è un colpo diretto, ladies and gentlemen !” Si corressero gli annunciatori non appena si furono ripresi dalla meraviglia.

Ogni schermo proiettava la stessa immagine, capace di infondere una sensazione rassicurante di forza e determinazione in chiunque: la schiena di Prometheus, così larga e confortevole.

Gli umani si commossero, piangendo mentre accettavano la protezione che il titano voleva portare alla loro razza. Gli dèi, ugualmente, non poterono che rispettare ed entusiasmarsi alla sola vista di una dimostrazione di forza divina così impressionante.

E proprio quando tutti gli sguardi erano catturati da quella schiena, in venerazione, le gambe di Prometheus cedettero e la schiena si inclinò, piegandosi.

Un sussulto così forte ed univoco risuonò nell’aria, senza però raggiungere il titano.

 

Egli infatti si manteneva sulle braccia, in ginocchio, con la mente troppo concentrata sulla sua situazione attuale per pensare ad altro. Gocce di sudore gli scorrevano lungo il viso, per poi ricadere al suolo.

“L’avevo capito…” Sussurrò con voce debole. Il suo sguardo raggiunse la crepa nel muro dove si era incastonato il suo avversario. Il volto di Mengele era imperturbabile, troppo serio per sorridere, troppo rigido per mostrare preoccupazione o paura.

Era una maschera di cera che nascondeva le vere emozioni del suo cuore, ma ciò nonostante Prometheus era stato capace di leggerle così nitidamente.

“Scommetto che muori dalla voglia di dire che cosa mi hai fatto.” Ridacchiò il titano, provando goffamente a rialzarsi. I suoi muscoli non risposero correttamente.

Il dottore, sospirando con fare enigmatico, lo assecondò:

“Per ogni evenienza mi ero nascosto sotto le unghie delle capsule con dentro il liquido che costituisce la mia Arma, Cochma. In questo modo, una volta dentro il tuo corpo, ho potuto iniettartelo tra le vertebre toraciche, nel canale spinale: in questo modo ti ho sedato la spina dorsale, impedendo al cervello di ricevere qualsiasi stimolo da quel punto del tronco in giù. Tuttavia… so bene che ti basterà qualche secondo per ricostruire il tutto.” Non potendo iniettargli virus o veleni, Josef aveva usato quella sua arma misteriosa e dai molteplici utilizzi nel migliore dei modi, secondo la sua conoscenza medica e chirurgica.

“Adesso che ho esaudito il tuo desiderio… perché non mi dici anche tu una cosa che voglio sapere? Esattamente… cosa avevi capito?” La sua voce tremò appena. Fu difficile capire se fosse stato a causa delle ferite spaventose accumulate sul corpo, oppure per qualche emozione che faceva breccia nel suo cuore.

Prometheus accolse quella richiesta con un sorriso sereno, consapevole di non avere nulla da perdere.

 

Gli spettatori assistevano a quella scena con la tensione a mille, aggrappati con le unghie ai loro posti, in attesa di qualcosa.

 

“Mi hai paralizzato per far sì che, comunque andasse a concludersi il tuo attacco, io non fossi in grado di distruggere quella cosa….” Ora il suo sguardo si spostò su di un punto del corridoio non molto distante da lui, dove erano adagiate le due taniche lasciate da Mengele.

“Ti sei sacrificato a costo di bloccarmi, quindi devi tenergli davvero molto.”

“Non è una cosa!” Ruggì il medico, dimenandosi per liberarsi dalla roccia.

“Oh, ma l’ho capito, ormai… tuttavia, non è nemmeno un essere umano.”

Ciò che stava guardando, quando venne inquadrato e trasposto sui grandi schermi, fece allibire qualsiasi spettatore. Una vista tanto sconcertante fu impossibile da descrivere e definire, e per i più svariati motivi provocò terrore, disgusto e raccapriccio in chiunque ne fosse soggetto.

Sospeso in una delle due taniche, perché l’altra era quasi a secco di quel liquido rosso, c’era una figura umanoide. Però, difficilmente si sarebbe potuta definire antropomorfa, perché i suoi arti amorfi e la sua costituzione informe facevano intuire che non fosse ancora un organismo completo.

Stava infatti nascendo e generandosi davanti agli occhi di tutti: era una creatura nuova e sconosciuta.

 

Osservandola con due occhi persi ai confini del tempo, Josef trasse un sospiro di sollievo.

 

Günzburg, Baviera, 1926

Durante gli anni d’oro di quella che sarebbe diventata la Germania, ma che da poco si chiamava Repubblica di Weimar, ogni cittadino era consapevole di essere entrato in un’epoca di felicità: lo sviluppo economico era accompagnato anche da quello culturale, permettendo la nascita di film, cabaret e teatro come mai se n’era visti in Europa.

E proprio nel ventennio della Bauhaus, la famiglia Mengele era benestante e non soffriva affatto la fame.

Il figlio più giovane, Josef, dovette arrestare bruscamente la sua carriera scolastica da quindicenne per colpa di una malattia al midollo osseo, l’osteomielite. Costretto a trascorrere molto tempo in ospedale, chiunque avrebbe potuto presupporre che un qualsiasi bambino si sarebbe annoiato a morte, tuttavia lui aveva un segreto.

O meglio, condivideva un segreto.

“Josef !” Bisbigliò, ma in modo da farsi sentire, una voce da sotto la finestra. Il ragazzino allora si sporse dal suo letto ospedaliero, scorgendo come una piccola figura si stesse arrampicando sull’albero lì fuori.

“Che combini oggi ?!” Si voltò energicamente quel bambino, e per poco non rischiò di cascare giù. Aveva un sorriso vitale, la faccia sporca e dei vestiti umili e sudati.

Ciò nonostante, la cosa che più colpiva il piccolo Josef ogni qual volta che lo guardava era una, ed una soltanto: era identico a lui.

Engel, questo il nome del ragazzino figlio del bracciante che possedeva la terra confinante con l’ospedale, l’aveva incontrato per la prima volta, mentre veniva portato lì. Nell’istante in cui i loro occhi si erano incrociati, con quei volti tanto identici che per fortuna nessuno aveva notato, era stato come se una pioggia di scintille fosse esplosa tra loro due.

“Tu credi nel destino, Josef ?” Gli aveva chiesto una notte, con il mento poggiato sulle braccia raccolte, aggrappato alla finestra.

E lì il piccolo si era fermato a riflettere. Effettivamente in un universo di cui non si conoscono i limiti, pieno di innumerevoli galassie con altrettanto illimitati sistemi solari, e in un’infinità di pianeti in essi contenuti, con miliardi di individui, migliaia di paesi e milioni di città… -Non si chiama proprio destino l’aver potuto incontrare te ?-

 

Ciò nonostante, per quanto lui ed Engel fossero identici nell’aspetto, l’altro ragazzino mostrava un carattere senza dubbio più impavido e spensierato: si arrampicava su alberi e tetti come uno spazzacamino, ma facendo lavoretti qua e là possedeva tanti di quegli argomenti di cui parlare. Era l’unica vera e propria finestra di Josef per guardare il mondo esterno, mentre lui era rinchiuso lì.

E mentre Engel poteva parlargli di quel “Metropolis” di Fritz Lang che stava spopolando al cinema, o della moda americana delle gonne importata dall’America e che faceva impazzire le ragazze, Josef a stento poteva discutere di medicina. Nelle tante ore in cui il suo amico e sosia non c’era, cercava di allenare la sua capacità di dialogo con i medici, e per tanto imparava dal loro lavoro.

Quando, due anni dopo, fu uscito da quell’ospedale, continuò a vedersi ogni giorno con Engel ma senza mai farlo sapere a nessuno. Era ancora il loro segreto, come se l’esistenza di una cosa tanto preziosa come la loro identicità fosse qualcosa da nascondere al mondo.

-Cosa vuol dire essere uguali ?- Si domandò però un giorno Josef.

Nel corso del tempo era diventato molto più socievole e cordiale, e i suoi studi all’università mostravano i frutti di una nuova dirompente personalità che tutti apprezzavano. Ciò nondimeno, per quanto ci provasse, non riusciva mai a sentirsi uguale ad Engel.

-Come si può rendere un essere umano uguale ad un altro ?- Non riusciva a pensare ad altro, e cogli anni si accorse di guardare a quel sorriso gentile, quell’animo turbolento, e quel coraggio rampante, non più con preziosa amicizia, bensì con odio.

 

“Cosa vuol dire che ti arruoli ?!” Sbraitò un giorno Engel, come al solito cercando di non farsi sentire, nel cortile di casa dei Mengele. Erano fuori da sguardi indiscreti.   

Correva l’anno 1931: la crisi della Borsa di Wall Street aveva portato inevitabilmente al crollo di quell’epoca da sogno in cui erano nati e cresciuti. La democrazia era una carcassa morente, ma i veri avvoltoi preferivano cibarsi di chi, alimentato da una voglia di insurrezione, come risvegliato da un pacifico sogno con solo rabbia in corpo, guardava alla prospettiva di una guerra.

Il partito più acclamato era quello delle NSDAP, con a capo Adolf Hitler, ma ancora lontano dal vincere in modo schiacciante le elezioni.

E in tutta quella turbinosa massa di caos, toccava ai giovani prendere le redini del proprio paese. Josef Mengele, a vent’anni, aveva deciso di arruolarsi in un gruppo paramilitare che anni prima aveva anche tentato un putsch, e veniva acclamato dal Duce italiano, Benito Mussolini.

“Mi arruolo per affrontare la qualsiasi guerra che il mio paese affronterà.” Rispose in modo calmo il medico, eppure era come se non fosse davvero lui a parlare. Questo il suo sosia lo notò, o meglio, lo intuì.

Le variabili genetiche che contraddistinguono un individuo servono ad influire non solo sull’aspetto, ma anche sul comportamento. In questo modo sulla Terra non può esistere un essere umano identico ad un altro, se si valuta anche la sua sfera emotiva. Questa differenza però nei gemelli è meno comune, perché la struttura genetica quanto più simile, favorisce anche una simile interpretazione del comportamento: la cosiddetta telepatia dei gemelli.

Engel ovviamente non era il gemello di Josef, o comunque non ne ebbe mai la conferma, eppure in quel momento preciso seppe perfettamente cosa stesse pensando l’altro. Ne ebbe paura.

“Non farlo.” Gli afferrò la mano, tirandola a sé per trattenerlo. “Non è una guerra che tu vuoi davvero combattere !”

“Sì, invece!” Gli rispose l’altro, urlando come mai aveva fatto prima. “Solo con una guerra si potranno smaltire gli esseri inutili! E così saremo… tutti… uguali e perfetti !”

Josef riteneva Engel senza dubbio perfetto, rispetto a lui. Per questo motivo, quando “malauguratamente” gli esplose un colpo di pistola proprio nel petto del suo sosia, dimostrò la più grande contraddizione della sua stessa vita.

 

Aveva ucciso un essere perfetto identico a lui, eppure mai e poi mai, e poi mai, e poi mai e poi mai, con tutte le ricerche che seppe fare, con tutti i sacrifici e gli esperimenti, le atrocità e le infamie, ne avrebbe sfiorato la perfezione. L’Angelo della Morte aveva portato un altro angelo lontano da quella terra, in modo da ricreare l’inferno. 

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Ed eccoci a quasi la conclusione del quarto scontro.

Vorrei un attimo parlare del background di Josef: intanto, se ci fossero dubbi, la parte di Engel è completamente inventata. Questo perché ho voluto contestualizzare quella caratterizzazione del personaggio che lo lega agli esperimenti sui gemelli e al sadismo.

In sunto, se non lo aveste capito, ciò che ha cercato per tutta la sua vita era ricreare un essere perfetto (cosa che in realtà è attinente alla realtà, perché con gli esperimenti sui gemelli lui voleva proprio capire come ricreare velocemente più e più ariani), ed ora con la sua Sefirot ci sta riuscendo. Cosa ne sarà quindi, del suo clone?

Lo scoprirete domani! Bye-bye!

A domani!

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Capitolo 16
*** Chapter 16: Dead End (Final) ***


Chapter 16: Dead End (Final)

In un mondo lontano da quello, ora Josef Mengele era solo un impotente uomo immerso nel suo stesso sangue.

Sangue. Ne aveva perso parecchio.

La sua Sefirot gli permetteva di rendere il suo stesso sangue un’arma capace di uccidere gli dèi, quando filtrato attraverso quelle cisterne. Dopo aver imbevuto diversi oggetti, nonché la sua giacca, e riempito delle sacche per le trasfusioni come trappole, sentiva che non gliene rimaneva molto in corpo. Tutto il sangue che continuava a produrre, infatti, andava in quell’unica clessidra di vita e morte: la sua creazione.

Era una creazione per la quale valeva la pena vincere quella battaglia, in modo da poter continuare per sempre i suoi esperimenti. Guardò con malinconia l’essere umano perfetto che voleva creare, e che doveva difendere.

 

“Freude

 schöner Götterfunken

 Tochter aus Elysium”

(Gioia

Bella scintilla divina

Figlia dell’Elisio)

 

Quel suono vibrò nel silenzio come una freccia scoccata, ma percorse l’infinità del vuoto e buio corridoio.

Prometheus inarcò le sopracciglia. Le sue gambe si stavano riprendendo, ma non era il solo a potersi muovere, ormai.

 

“Wir betreten feuertrunken

Himmlische, dein Heiligtum”

(Noi ci accostiamo ebbri d’ardore

Divina, al tuo sacrario)

 

“Non può essere !” Bisbigliavano intanto gli umani, così storditi da non riuscire ad alzare il volume della loro voce, come se ci fosse qualche ordine da rispettare.

“Che sia davvero… ?”

“Deine Zauber binden wieder

Was die Mode strengt geteilt”

(I tuoi incanti tornano a unire

Ciò che gli usi severamente divisero)

 

L’Inno alla Gioia, composto da Friedrich Schiller ed eseguita da Ludwig van Beethoven, risuonò soave, ma diabolico, dalle labbra insanguinate di Mengele.

Il titano strinse i pugni, preparandosi alla battaglia. In un istante si era sollevato in piedi, pronto a fronteggiare qualsiasi nuovo orrore sarebbe nato di lì innanzi.

 

“alle Menschen

Werden Brüder …“

 (Tutti gli uomini

Diventano fratelli …)

Silenzio. Si udì appena un respiro.

Dopodiché il dottore sollevò il volto. Il suo sorriso, come al solito spalancato nell’oscurità, ora pareva solo un abbellimento, una distrazione dalla massa informe e viscida che si contorceva nella sua anima, e che prorompendo come parassiti sottopelle, gli deformavano la carne del viso.

 

“… WO DEIN SANFTER FLÜGEL WEILT !”

(… DOVE SI POSA LA TUA ALA SOAVE !)

 

Mentre ora quelle aberrazioni spasmodicamente si diffondevano su tutto il resto del corpo, simili a giganteschi vermi sotto i vestiti, l’uomo scoppiò a ridere in modo insano. Di umano ormai non aveva più niente.

“Disperati, stolto! Disperati per il male che tu stesso hai creato, per un’umanità corrotta dal male e dell’intelletto superiore di individui come me! Sieg Heil !

In una folle dichiarazione, si portò entrambe le mani all’altezza dei fianchi, ritto con la schiena e puntando il suo avversario. In seguito, facendo appello a tutta la sua forza si spremette il corpo esercitando una pressione assurda: dalla sua bocca vomitò un flusso di organi, ossa e… sangue.

Il sangue infatti, dopo aver lasciato il corpo, saettò nell’aria e si trasformò fino a diventare una creatura umanoide, o meglio, proprio il suo stesso proprietario. Quell’emanazione di Mengele composta solo di fluidi vitali venne sparata verso il suo avversario e, sorprendentemente, spalancò gli occhi ed un ghigno, dimostrando di essere senziente.

 

Prometheus rabbrividì, ma dimostrò grande coraggio non arretrando nemmeno di un passo di fronte a tale mostruosità.

“Stavolta è diverso !” Rise sguaiatamente quello spettro di sangue, precipitandosi sulla sua preda. Dal suo corpo liquido si diramarono dei viticci simili a tentacoli, terminanti con delle punte da trapano.

“Mi basterà colpirti per entrare nel tuo sangue, e sempre tramite trasmissione ematica… prenderò il sopravvento sul tuo corpo e ti ucciderò !”

Furono delle scie scarlatte tracciate nel vuoto. Solo lo scintillio degli occhi di Prometheus fu visibile, anche se solo per un istante.

Nel vuoto affondarono tutti gli attacchi della creatura deforme, facendo così spalancare i suoi occhi rossi.

Ogni colpo sibilò, mancando il suo avversario: il titano manteneva il sangue freddo, evitando ogni colpo con la massima attenzione. Il suo orgoglio, la sua dignità e la sua forza di volontà lo rendeva distante anni luce da qualsiasi limite raggiungibile umano.

 

Swing! Swing! Prometheus scivola sotto ogni colpo del nemico, schivandoli tutti !!” Consapevoli di star assistendo a dell’incredibile, gli annunciatori furono la goccia che fece traboccare il vaso: tutto il pubblico si alzò in piedi, catturato dalla tensione di quello scontro al cardiopalma.

Persino Fenrir osservò la scena con massimo interesse, fisso su quelle immagini.

Gli dèi organizzatori attendevano speranzosi di vedere presto la vittoria della loro avanguardia, mentre il dio misterioso, in disparte stavolta, si mordeva l’unghia del pollice con nervosismo.

Fobetore non stava più assistendo ad un incubo, bensì ad un sogno così magnificente da ispirare un’emozione simile alla paura, ma in realtà del tutto diversa. Persino Erebo e Nyx parvero impallidire quando una luce accecante esplose davanti agli occhi di tutti.

Scorching Bright Light !”     

Dopo essersi curvato in un’angolazione impossibile, il corpo piegato di Prometheus si era teso, imprimendo nella storia la splendida immagine di muscoli che si tendevano, disegnando un percorso di potenza, energia, fuoco vitale, che terminava in un pugno: era la rappresentazione perfetta dell’aggettivo “divino”.

Proprio quel pugno fu così forte da far esplodere al minimo contatto l’intera figura liquida di Mengele. Stille di sangue venero obliterate nell’esistenza, nullificando del tutto anche solo il ricordo del corpo che un tempo le ospitava.

 

“Ha… ha… !” La voce ai megafoni gracchiò con esitazione.

“Prometheus ha …”

 

Ma Prometheus sussultò, soffocando a denti stretti un grido.

Si guardò la mano. Lì, un piccolo foro su di una nocca.

“Ce l’ho fatta !” Una voce proveniva da dentro il suo corpo.

 “Se non mi avessi ridotto in pezzi così piccoli, non sarei mai riuscito ad entrare facilmente dentro di te! E ora sono in circolo… sono in circolo, capisci?! È finita !”

 Non poteva più vederlo, ma sentì come il sorriso del dottore formarsi sotto la sua stessa pelle.

 

“Non voglio che finisca così, invece …”

Imperturbabile, il titano si mostrò sprezzante anche verso quel pericolo mortale che stava correndo.

Cadde in ginocchio, ma continuò a sostenere il mento verso l’alto, con sguardo fiero, guardandosi ora la mano che aveva sollevato davanti al viso.

“Cosa? Cosa stai… ?”

La carnagione del titano divenne pallida, simile a carta, mentre i suoi occhi venivano abbandonati dalla luce della ragione. Con voce flebile, parlò a stenti:

“Io… sto controllando il mio flusso sanguigno per dirigerlo tutto verso il braccio… impedendoti di entrare in circolo nel resto del corpo …”

“No! S-Sei impazzito ?!” Il dottore nel suo sangue gridò, non credendo a ciò che aveva appena sentito. Provò a ribellarsi con tutte le sue forze, ma non poteva nulla, era in trappola.

“Così facendo… cosa otterrai?! Se porti il sangue lontano dal tuo cervello, morirai! Solo uno stupido farebbe qualcosa del genere pur di …”

“Stupido, eh ?” Con un sorriso dolceamaro sulle labbra, Prometheus lo interruppe.

“È qualcosa che non puoi dire di conoscere, finché non l’hai provata: è ciò che porta un uomo ad affrontare un’operazione nonostante abbia oltre il cento percento di probabilità di morire… è ciò che muove la fortuna, il destino, la fede, le false speranze e la cieca fiducia in se stessi.”

Ripensò alla conoscenza di cui aveva fatto dono agli umani, ma anche di come, tuttavia, loro avessero la libertà di non usare quell’intelletto.

 “È… il bello di essere stupidi !”

 

Quando solo il braccio destro di Prometheus si fu colorato di un rosso livido, il titano se lo amputò con le ultime forze che gli rimanevano. L’arto cadde, dopodiché si avvizzì come una foglia secca e sparì in una manciata di polvere.

 

Per un po’ il silenzio permase, lasciando il tutto in un alone mistico, di luce intensissima che perforava le tenebre. Umani e divinità con il fiato sospeso.

Il dio misterioso sospirò appena. Il suo volto non era mai stato così torbido, digrignato in una smorfia che lasciava presagire ad un turbinio di diverse emozioni: rabbia, umiliazione, vergogna, vendetta. Guardò Prometheus per l’ultima volta, dopodiché abbandonò quel pensiero nefasto per il bene della propria salute mentale: il pensiero di aver compiuto una scelta che, senza volerlo, lo aveva portato solo ad una sconfitta.

  

Ladies and gentlemen! Il tanto atteso finale di questo insolito scontro… è ormai chiaro come il sole sotto gli occhi di tutti noi !”

E proprio sotto la luce del sole, ora il titano era apparso. Camminando fino al centro dell’arena, venne inondato da un’esplosione di ovazioni da parte dei suoi simili, prevalentemente.

Ma non era ciò che lui guardava: il suo sguardo infatti era solo e soltanto catturato dai sorrisi degli esseri umani, sui loro spalti, e che per quanto quella vittoria avesse segnato un passo avanti verso la loro estinzione, si sentivano toccati nel profondo del loro cuore dal suo gesto.

Infine, sorvolò tutti fino a raggiungere il dio misterioso, nascosto nell’ombra. Ne osservò l’espressione indecifrabile, non riuscendo a capire se fosse soddisfatto o no di quanto era avvenuto.

 

“Stavolta la vittoria è stata conquistata dagli dèi! Il vincitore è il titano PROMETHEUS !!”

 

Di colpo, non gli importò più di niente e di nessuno. Una voce lo aveva richiamato, così si voltò e cercò quella persona che… lì, ora in piedi accanto al sorridente Zeus, lo salutava e lo chiamava a gran voce.

Era riuscito a sentirlo nonostante le urla delle divinità, perché in fondo il suo cuore perdeva un battito ogni qual volta pensasse a lui. Le lacrime gli solcarono il viso.

Corse ad abbracciare suo fratello Epimetheus.

 

All’interno della struttura, teatro dello scontro appena concluso, si aggirava un’ombra senza meta.

Fenrir, il lupo argenteo, era stato sul punto di intervenire quando la battaglia aveva preso atto fuori dall’arena. Era stata una violazione delle regole, e per tanto avrebbe dovuto interromperla.

Tuttavia, dopo che un ordine gli aveva proibito di intromettersi, era rimasto in disparte ad osservare.

Da una parte aveva iniziato a rivalutare l’orgoglio di Prometheus, molto diverso dalla fama di traditore e codardo che si era conquistato, mentre dall’altra aveva assistito al peggior essere umano sulla faccia della terra.

Dopo aver raggiunto la vasca dentro la quale quel dottore stava per dar vita al suo più inumano esperimento di clonazione, non aspettò un attimo: con uno schioppo della sua pesante catena Gleipnir, la ridusse in frantumi. Il liquido rosso colò ai suoi piedi, ma era ormai inoffensivo, siccome la Sefirot era attiva fin a quando restava in vita il suo utilizzatore.

“Oh, ma che bel cagnolino !” Una ragazza saltò fuori dal nulla, e con gli occhi spalancati dalla tenerezza iniziò ad accarezzare energicamente le orecchie da lupo di Fenrir. “Bello! Bello! Bello! Un bel cucciolotto !”

Lui arricciò il naso: per quanto quella donna umana non rappresentasse un pericolo, gli sembrò strano quell’epiteto con cui, per la prima volta, qualcuno gli si rivolgeva.

“Calma, Charlotte.” Intervenne il dio misterioso, avanzando con uno sguardo amareggiato “Non è lui il tuo avversario.”

La ragazza si mostrò sorpresa, dopodiché, salutando dolcemente Fenrir con un grattino sotto il mento, si allontanò.

Il lupo osservò i due camminare via e nonostante la confusione, quanto accaduto non lo alterò per niente.

Questo, fino a quando non notò un dettaglio: ormai dopo essersi allontanata di diversi metri, quella ragazza brandiva un coltello nella mano. Lui però non l’aveva vista affatto estrarlo, ma solo ora che ci aveva prestato più attenzione se n’era accorto.

Ripensò alle parole del dio misterioso.

-Se non l’avesse fermata… lei… - Si sfiorò il collo, dove all’altezza della carotide un sottile taglio spiccava sulla sua pelle.

In lontananza, Charlotte Corday, avanguardia dell’umanità, ridacchiò tra sé e sé mentre si rigirava tra le mani una lama lievemente tinta di sangue.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Cari lettori, lo so… questo capitolo è suonato un po’ simile al quarto scontro dell’opera originale, quello di Jack e Eracle, a partire dalla scelta dei personaggi. Non posso negarlo, proprio perché questa battaglia è stata un mio personale tributo a quello scontro: volevo ricreare qualcosa di simile, aggiungendo però il parco delle emozioni e delle sensazioni su cui potevo giostrarmi.

Spero non sia sembrato troppo noioso, al pari di un plagio, a causa di questa mia decisione.

Detto ciò, ci vediamo al prossimo scontro, tra una settimana (Martedì 9 Giugno)! Wow, stento a crederci che siamo arrivati praticamente a metà!

Alla prossima!

 

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Capitolo 17
*** Chapter 17: Bluff ***


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Chapter 17: Bluff

Dopo il pareggio tra divinità ed umani, serviva obbligatoriamente che qualcuno prevalesse: lo stallo, la tensione, l’attesa, era tutto insostenibile ora che la battaglia si spingeva verso la metà degli scontri previsti.

Ladies and gentlemen! Siamo tutti qui per sapere …” Sbraitò Adramelch, venendo seguito dal suo collega St.Peter: “… chi si porterà in vantaggio?!”

Un boato da ambedue i lati degli spalti rispose, agitando pugni ed ululando all’aria. L’eccitazione era alle stelle, e l’atmosfera vibrava come se il cielo si stesse preparando ad una tempesta.

“E allora non aspettiamo ancora! Conosciamo, piuttosto, chi rappresenterà l’umanità stavolta… !”

L’arena stavolta aveva le sembianze di una piazza popolare, con al centro una piccola fontana, e delimitata da piccole casupole appena sotto le prime file degli spalti. Alberi e fiori decoravano degli spazi verdi in quell’ambiente pietroso e grigio, probabilmente ripreso da una città realmente esistita.

 

“Proprio come i due precedenti sfidanti umani, questa donna ha una storia oscura, macchiata di sangue… e proprio come Josef Mengele, anche lei ha ottenuto il soprannome di angelo… sì, l’Angelo dell’Assassinio !”

Fece il suo ingresso con naturalezza, senza cerimonie o effetti speciali.

La ragazza, vestita con un lungo abito blu a righine bianche, camminò aggraziatamente, accompagnata dal ticchettio dei suoi tacchi e dal fruscio della gonna a strascico.

“Durante la Rivoluzione francese era una criminale… durante l’Impero Napoleonico un’eroina !”

Portava un cappello blu con al di sotto un velo bianco, capace di incorniciarle pochi boccoli castani lungo il suo bel viso, perlaceo e innocente come quello di una bambola. Gli occhi grandi e gentili erano assottigliati per assecondare il sorriso benevolo.

“Fatto sta che, dopo quell’omicidio a Parigi, la storia sarebbe cambiata per sempre. Che ironia… la storia di un popolo cambiata da una pugnalata, come successe con l’assassinio di Cesare. Il nome di questa donna è…”

In completa, assurda, contrapposizione con quel suo aspetto del tutto normale, c’era un coltello. Un oggetto comune in cucina, ma quanto mai azzardato in quella situazione, soprattutto perché la ragazza lo stringeva senza troppo sforzo tra le mani, lasciandolo sfiorare appena con la lama quella gonna che rimbalzava ad ogni passo.

Infine si fermò, e resasi conto di essere sotto gli occhi di tutto quel pubblico, ringraziò dell’attenzione con un elegante inchino.

“Charlotte Corday !!”

 

Parte della folla umana rimase senza parole di fronte ad una tale bellezza. Per la prima volta era scesa in campo una figura quasi angelica, in completa opposizione contro i bruti, muscolosi o eccentrici uomini che avevano fatto la storia.

“E quella bella pupa sarebbe un’assassina ?!” Fischiò qualcuno, causando risate in cenno di approvazione e altri ululati perversi.

“Silenzio, razza di villici senza pudore !” Aveva urlato un uomo in parrucca bianca, dal viso terribile: “Quella donna è solo una bieca terrorista che ha minato la pace della grande Rivoluzione!” Si trattava di Maximilien-de-Robespierre, il fautore del Grande Terrore.

“Per l’amor del cielo, se penso che avrebbe potuto colpire noi, al posto di quell’omuncolo…” Si sventolava intanto un uomo corpulento, ma anch’esso con la parrucca: Georges-Jaques Danton, altro capo rivoluzionario.

“Oh! Pover’uomo! Oh! Pover’uomo!” Piangeva un terzo, con il volto nascosto tra le mani. Dopo aver fatto quella scenata, non appena si accorse che più nessuno lo stava guardando, il suo sguardo divenne freddo come il ghiaccio: “Oh… poco male.” E tornò a guardare la donna che ora camminava davanti a tutti.

Sollevò un pennello ed una tela, e ora con due occhi famelici si disse: “Sei tu, dunque! Finalmente ti mostri a me, per farti ritrarre in tutta la tua bellezza!” Si trattava del pittore Jacques-Louis David, celebre per aver ritratto l’assassinio più famoso della storia della rivoluzione, ma non l’assassina.

Al di sopra di tutti loro, una donna seduta comodamente su di un letto di veli e cuscini, rideva graziosamente con il mignolo piegato davanti alla bocca. Servi e paggetti le facevano aria con giganteschi ventagli di piume di pavone.

“Che adorabile fanciulla!” Trillò la regina Marie Antoinette, adornata da rose  bianche, “Mi piace la moda da campagnola rivisitata, è così mignonne.”

Nel frattempo gli dèi non prendevano affatto in considerazione i signori della Rivoluzione, o la Delfina di Francia, bensì storcevano il naso guardando un’altra schiera di individui, più in disparte tra le fila umane.

“Non ci credo… un’altra volta hanno scelto per gli umani uno sporco criminale.”

Infatti puntavano proprio un quartetto di persone dalle quali tutti gli altri esseri umani si erano preventivamente allontanati.

“Nessuno può capire… no, loro non possono capire.” Ripeteva un uomo occhialuto, con la testa abbassata e raccolta tra le ginocchia. “Non possono capire cosa vuol dire trovarsi davanti un corpo morto… e volerne altri, e altri, e altri e altri e…”

“Ma nel caso di quella lì ha ucciso una sola persona!” Strillò una donna bionda, abbracciata ad un uomo circa della sua età. Lui annuì, per poi scoppiare a ridere: “E va benissimo così! Non siamo certo noi a dover giudicare cosa è giusto o sbagliato fare… noi, della peggior specie!”

A rispondere ai serial killer cannibale Jeffrey Dahmer, ed ai due assassini delle brughiere, Ian Brady e Myra Hindley, fu un uomo dal viso truce ed incupito.

“Gente buona o gente cattiva. Chi ha ucciso tanti, e chi ha ucciso uno. Ciò che importa è che quella donna abbia provato la sensazione… la madre di tutte le soddisfazioni: osservare l’ultimo respiro di una persona alla quale hai appena tolto la vita! Non c’è niente di meglio al mondo.” Ted Bundy aveva gli occhi spiritati, come se stesse vivendo un’estasi. 

Loro erano la feccia dell’umanità. Loro avevano ucciso uomini, donne, bambini ed anziani nei peggiori dei modi e poi ne avevano anche brutalizzato i resti. Loro erano i killer.

Ma Charlotte Corday, killer anch’ella, non mostrava alcuna somiglianza con loro.

Lei sorrideva, guardando il portale opposto a quello da dove era entrata. Non c’era nessuno tra la folla a distrarla, nemmeno un caro a cui rivolgersi per farsi incoraggiare in quel momento così speciale.

 

“E ora lasciamo entrare lo sfidante… dalle fila degli dèi!”

Il portone si spalancò, lasciando che una folata di vento raggiungesse l’arena. Non ci volle molto però, affinché quella brezza diventasse una corrente fortissima. Gli spalti ne vennero investiti, ma prima tra tutti proprio Charlotte fu costretta ad abbassarsi la gonna con un gridolino, e a tenersi il cappello in testa.

“Sarà lui a porre fine all’umanità, com’era da principio il suo compito?!”

Una figura saettò nel cielo come un proiettile, ma improvvisamente si fermò a mezz’aria con braccia e gambe spalancate. Aveva l’aspetto di un bambino, e come tale sprizzava energia da tutti i pori, soprattutto dal suo sorriso a trentadue denti bianchissimi e zannuti.

“La divinità più conosciuta, sin da tempi immemori, nella landa selvaggia e spietata che fu il Mesoamerica!”

Indossava un’armatura di pietra rossa a forma di scaglie, con un gonnellino di piume blu, gialle bianche e nere, mentre sui suoi polsini e sulle sue ginocchiere erano verdi. Invece, il capo era adornato da una specie di corona in legno, con una criniera di piume anch’esse verdi. La sua pelle era scura, però i suoi occhi gialli, da rettile, brillavano come due stelle.

“Dal fascino inconfondibile! Il serpente piumato bello come la giada… libero come il vento… splendente come il sole dell’alba…”

E nel momento in cui si posò per terra, leggero come una piuma, tutto il vento si unì in una colonna d’aria che esplose verso il cielo, perforando le nuvole. Con la luce del sole più puro che ora illuminava perfettamente la figura di quel ragazzino come un riflettore, chiunque rimase a bocca aperta per la meraviglia.

“Quetzalcoatl !!”

Le divinità scoppiarono in un boato di ammirazione e meraviglia, siccome mai una delle loro avanguardie aveva fatto un’entrata in scena così magnificente.

“Il quinto scontro del Ragnarok, tra questi due sfidanti quanto più diversi… inizierà adesso!”

 

La folla degli dèi era ora in fermento per l’apparizione della loro avanguardia. In particolare, un dio dalla pelle nera come il carbone e con un mantello di pelle di giaguaro aveva un ghigno trionfante in volto e se la rideva in continuazione. La sua risata crebbe, crebbe e crebbe, fin quando non era diventata qualcosa di fastidiosissimo per gli dèi circostanti.

“Ehi, ma insomma! Si può sapere che ti prende? Sei forse impazzito?”

A quella domanda il dio Tezcatlipōca si rilassò finalmente sul suo seggio, ridendo più sommessamente.

“Io… io credo proprio che questa sia l’occasione giusta per far brillare ancora una volta quel bastardo. Già… quel maledetto genio bastardo.”

“Genio?” Ripeterono gli altri, non comprendendolo. Allora il dio, considerato la stella nera del pantheon mesoamericano, iniziò a raccontare.

 

In una terra amorfa, paludosa e sulla quale aleggiavano nebbie mefitiche, l’origine dei tempi era la cosa più interessante che fosse successa.

Lui, Tezcatlipōca, era stato mandato ad indagare sul perché qualsiasi cosa gli dèi creassero venisse distrutta brutalmente.

 E, proprio mentre con la sua barca solcava lentamente quel lago, la minaccia lo raggiunse. Si erse dai flutti un coccodrillo antropomorfo, ma con lunghi capelli di donna e centinaia di mostruose bocche sparpagliate ovunque. Cipactili, questo il nome della bestia distruttrice, ruggì famelica.

“Sciocco dio! Pensavi di porre fine al mio banchetto?!” E si avventò su di lui, spezzando parte della barca tra le sue mascelle.

Il dio avrebbe potuto anche contrattaccare, se quell’attacco a sorpresa non l’avesse colto disarmato, rendendolo quindi impotente. E proprio quando la paura non sembrava abbastanza, realizzò che con il suo morso Cipactili gli aveva strappato via anche il piede destro.

Urlò selvaggiamente dal dolore, mentre la barca iniziava ad affondare e le acque putride lo raggiungevano, per inglobarlo definitivamente nel regno, e nel pasto, della bestia. Ma proprio quando ogni speranza sembrava aver abbandonato lui, prode e coraggioso dio guerriero, la sua morte venne rinviata: tra gli occhi serrati dalla paura, percepì solo qualcosa di potente schiacciarsi davanti a sé, come una pressione mastodontica.

Un istante dopo rinsavì, rendendosi conto di quanto fosse successo. Il paesaggio di fronte a lui era cambiato: ora nell’acqua si era spalancata una voragine, grande quanto un’isola, schiacciando verso una profondità insondabile qualsiasi cosa vi si trovasse, compreso quindi Cipactili. Gocce di sangue, frammenti di ossa e organi, ridotti appena in particelle, rimasero sospesi in aria per poi venir anch’essi trascinati nel vuoto.

Anche Tezcatlipōca a quel punto sarebbe sprofondato, assieme al suo relitto, in quel baratro, ma una mano lo sostenne in volo.

Sollevò lo sguardo verso il cielo, e lì trovò proprio il dio di quel reame celeste: poco più di un bambino, dall’aspetto. Non sembrava per niente una divinità, così senza fronzoli né ornamenti, ma solo un bimbo con capelli verdi morbidi come la peluria di un pulcino e due occhi spalancati sul mondo, che lo fissavano senza però parlare.

Quetzalcoatl, detto il serpente piumato, gli aveva appena salvato la vita nonostante fosse il più piccolo degli dèi del suo pantheon.

 

“Ecco perché dico che quel moccioso è un mostro.” Ridendo ancor di più, il dio sollevò la gamba per mettere in mostra il moncherino al posto del piede. Sulla caviglia fece notare che era stato legato un nastro, terminante con un ninnolo a forma proprio di serpente piumato.

“Ma è molto talentuoso e potente! Questo scontro potrebbe durare una manciata di secondi…”

Intanto, in un angolo più inosservato delle tribune, il trio di dèi disertori stava confabulando.

“Hai sentito quello che si dice su Quetz?” Chiese Fobetorre al dio misterioso, che annuì senza però scomporsi.

“E allora?” Insistette il dio degli incubi, sconcertato dal non notare alcuna reazione. “Credi che Charlotte gli darà filo da torcere in combattimento? Quello è più forte di Prometheus ed Enkidu messi insieme, mentre a livello di magia rivaleggia con Baphomet e Sun Wukong. A meno che lei non sia più forte di Vlad e Masutatsu…” Ma venne interrotto proprio dal suo interlocutore.

“Niente affatto. Charlotte non ha speranze, potrebbe venir polverizzata in meno di una frazione di secondo.”

Ammit e Fobetore sgranarono gli occhi, allibiti: “M-Ma allora…?”

“Questo però… !” Intervenne prontamente il dio misterioso, sollevando l’indice “… se dovessero scendere in combattimento. In caso contrario, credo proprio che la vittoria sia assai facile da conquistare.”

Nonostante quei due non riuscissero a comprendere il significato di tali parole, vennero presto distratti da un suono inconfondibile: la tromba d’inizio era stata suonata.

“ED È COSÌ CHE IL RAGNAROK HA INIZIO !”

 

L’attenzione fu istantaneamente catturata dai due combattenti.

Cosa avrebbero fatto? Quale sarebbe stata la loro prima mossa? Con quale strategia sarebbero giunti alla vittoria?

Quetz agì per primo: parlò.

“Ehm… scusa, signorina? Io sono venuto qui per lo scontro, ma non c’è quello con cui mi devo battere. Tu sai per caso dove devo andare? Pensavo fosse questa l’arena, ed è pure iniziata la battaglia …”

Quel tono implorante e confuso fu l’unica cosa che risuonò nello stadio, echeggiando nelle menti di dèi e umani di tutto il mondo e di tutti i tempi. Nel silenzio più incredibile che mai ci si sarebbe aspettato, per la prima volta nessuno sapeva cosa dire.

Durò appena un attimo, perché subito dopo Tezcatlipōca urlò dagli spalti: “Razza di idiota! È lei la tua sfidante!”

E, seguendolo, tutti gli altri dèi iniziarono a prendere a mali parole il dio, insultandolo per la sua lentezza mentale e poca perspicacia. Assordato da quel frastuono, Quetzalcoatl si tappò le orecchie con una smorfia infastidita.

“Ma che cavolo avete da urlare?! Eh? Ah, ciao Tezcatlipōca!” Salutò allegramente il suo amico, ricevendo in risposta solo altri insulti che però non riuscì a sentire.

Quando il bambino però spostò lo sguardo sulla persona con cui stava parlando prima, la ritrovò improvvisamente avvicinata ad un palmo di naso da lui. Nella sua completa distrazione, lei aveva azzerato la distanza che li separava.

“Certo.” Charlotte lo degnò del più gentile dei sorrisi. “Ti posso aiutare io, se ti va.”

 

“Uccidilo! Uccidilo ora che è distratto, quel cretino!” La incitarono gli umani, fischiando e perdendosi nei più selvaggi e svergognati versi, ebbri di una vittoria così facile.

“Che aspetti?! Che aspetti?! Fallo a pezzi!” Ringhiavano anche i serial killer, senza alcuna pietà verso l’imbranato dio.

Ma la francese, che a differenza dell’altro sentiva eccome i richiami dei suoi tifosi, si portò un dito alla bocca e si corrucciò in una smorfia contrariata.

“Cosa?!” Borbottò tra sé e sé.

“Ucciderlo? Non ucciderei mai un bambino.” Disse, mentre con un lampo di frenesia pura si era lanciata sul suo bersaglio, brandendo il coltello con entrambe le mani per affondarlo nella sua testa indifesa.

Gli spettatori trattennero il respiro, sorpresi da quell’imprevedibile scatto, come un raptus di follia.

E durante il tempo di quel breve, ma interminabile sussulto, esplose un boato.

Qualcosa, più veloce di un proiettile, slittò al fianco del viso di Charlotte. Le dipinse una scia di sangue sulla guancia, proprio al di sotto di uno dei suoi occhi, apatici e privi di luce, così come di qualsiasi stupore persino in una situazione tanto inconcepibile.

Il suo stesso coltello era stato respinto, volando all’indietro: fu quanto le bastò capire, per immobilizzarsi, diventando gelida sia nel corpo che nel sangue. La lama cadde a terra alle sue spalle, interrompendo così il silenzio con un fragore che rimbombò nell’aria.

“L-L-Ladies and gentlemen…” I due presentatori deglutirono a vuoto, sconvolti quanto il pubblico.

“Persino per noi è difficile decretare cosa sia successo! Charlotte h-ha… e Quetzalcoatl ha…! Unbelievable !”

Riprendendosi dalla sorpresa, gli dèi scoppiarono all’unisono in una grande risata isterica, forse più per il sollievo che per qualche altro motivo.

La voce di Tezcatlipōca si levò di nuovo tra la folla, e stavolta il dio si erse in piedi per parlare direttamente al suo amico: “Ehi, Quetz! Fagliela pagare! Ora dovresti aver capito che la devi uccidere, no ?”

Ma il dio ricoperto di piume semplicemente si voltò verso di lui, e con voce naturale ribatté: “Ma che dici, Tezcatlipōca? Questa signorina ha detto che mi aiuterà a raggiungere lo scontro! Sarai forse scemo?!”

-Da che pulpito!- Fu il pensiero univoco di dèi ed umani, entrambi abbastanza sconcertati, anche se i primi reagirono con la stessa irritazione ed indignazione di prima, riprendendo ad urlare improperi vari.

 

Al contempo, Ammit e Fobetore erano sbalorditi dai recenti avvenimenti quanto gli altri, tuttavia si accorsero che il loro collega non mostrava lo stesso sconcerto. Al contrario, sorrideva e ridacchiava come suo solito, cosa al quanto sinistra.

“Ma è davvero… davvero stupido.” Realizzò Ammit.

“E non solo.” Il dio misterioso lo guardò, mostrandosi sogghignante: “è anche merito della Sefirot donata a Charlotte Corday… ovvero Chesed, la Benevolenza.”

“E cosa farebbe? Non sembra avere poteri magici, o d’attacco.” Intervenne Fobetore, indicando il coltello che era stato respinto.

“No, infatti, ma trasforma in arma una dote predominante in Charlotte: il modo in cui cela l’istinto omicida al bersaglio del suo assassinio. Con questo potere, lei potrà attaccare Quetzalcoatl tutte le volte che vorrà, senza mai far trasparire le sue reali intenzioni.”

Il dio degli incubi ammise la sua sorpresa, sapendo che ciò avrebbe fatto piacere al collega. “Però… perché l’attacco non è andato a buon fine ?”

“Questo …” Mostrando così un attimo di tentennamento, il dio misterioso si morse l’unghia del pollice, rabbuiandosi in viso “Questo temo potrebbe essere un bel problema.”

 

“Signorina, è inciampata ?” Domandò serenamente Quetzalcoatl, avvicinandosi alla ragazza che aveva appena cercato di ucciderlo. Lei, impercettibilmente si era già asciugata dalla stilla di sangue sulla sua guancia candida. Tuttavia, proprio quella guancia era diventata improvvisamente rossa.

“Ehm, oh cielo! Che imbarazzo, sì!” Arrossita per la vergogna, indietreggiò nascondendosi il volto tra le mani.

“No, dai! Non c’è alcun problema.” Assalito dai sensi di colpa, anche a causa della sua inesistente esperienza con l’altro sesso, il dio non seppe proprio cosa fare.

D’altro canto, mentre lui esitava, non poteva proprio immaginare che il viso nascosto di Charlotte fosse in quel momento corrucciato per escogitare la prossima mossa.

“Il mio… coltello.” Domandò flebilmente lei, distraendosi dall’imbarazzo. Finse di guardarsi attorno, ma il dio, coraggiosamente, glielo indicò per terra. “È lì, signorina! Vado a prender-”

“No, no. Vado io, non ti scomodare, per favore !” Lo interruppe l’altra, arrossendo ancor più forte. Il dio si tenne in disparte per non far aumentare i sensi di colpa.

 A quel punto, tra la tensione crescente nell’aria ed i sussulti sospesi della folla, lei si voltò ed andò a recuperare la sua arma.

“Sei una cuoca, signorina ?”

A quella domanda, come un lampo di luce, qualcosa balenò nella mente di Charlotte.

 

Vide quel coltello nelle mani di qualcun altro che glielo stava porgendo.

“Con questo taglierà anche la carne più ostinata, mademoiselle!”

Sorrise, inspirando a pieni polmoni. Le sembrò quasi di rivivere quella Parigi, immaginandosi carri e carrozze, distinti signori e dame che passeggiavano tra i boulevard fioriti in quell’estate.

Ed il sangue sulle strade…

Rinsavì appena in tempo, ora con il coltello tra le mani: “Sì, mi piace molto cucinare. Al monastero in cui venni cresciuta da piccola insegnarono a me e alle mie sorelle come farlo… così poi, quando venne chiuso, mi occupai della mia anziana zia cucinando per lei.”

Parlava ispirando tranquillità e amorevolezza, ma intanto si avvicinava ad un ignaro Quetzalcoatl, come un ragno che ammira la sua preziosa ed intrappolata preda in un gioco di riflessi argentei sulla ragnatela. Il riflesso argenteo sul coltello aveva le sembianze di un sorriso tanto gentile, quanto diabolico.

Fu un imprevisto, una casualità: forse era inciampata di nuovo, o il vento le aveva strappato il cappello dalla testa, fatto sta che quell’elegante copricapo d’altri tempi cadde in avanti.

Si ritrovò esattamente davanti al volto del dio, oscurando qualsiasi sua percezione per un istante. E quell’istante, in realtà Charlotte l’aveva premeditato ed atteso con precisione chirurgica.

-Oiseau de Proie !-

Si lanciò in avanti, turbinando con il coltello in una raffica di fendenti che tracciarono nell’aria un tornado di fugaci bagliori.

 

“Un altro attacco a sorpresa! Non c’è davvero tregua alla perfidia di Charlotte Corday!” Strillarono i presentatori, seguiti dalle acclamazioni della folla umana.

Fobetore ed Ammit guardarono allora il dio misterioso con uno sguardo più condiscendente: “Ecco cosa intendevi.”

“Sì, ma…!” Stavolta l’altro si morse l’unghia con così tanta forza da spezzarsela, sollevando uno spruzzo di sangue che gli macchiò la faccia. “…ma così è un cane che si rincorre la coda !”

Tutta quella rabbia e frustrazione parve immotivata, ma quando gli altri guardarono di nuovo l’arena si resero conto di cosa intendesse dire.

 

“Ma… ma…” Adramelech e St.Peter, con il fiato sospeso, tentennavano al posto di parlare. Infine, esplosero in un urlo: “Ma anche stavolta l’attacco non ha effetto !”

Infatti, sul campo di battaglia, Quetzalcoatl era rimasto immobile e, più sorprendentemente, incolume. Aveva solo sollevato una mano, stringendo per un lembo il cappello di Charlotte.

La ragazza, giunta alle sue spalle, si voltò con una goccia di sudore che le percorreva la tempia. Cercando a tutti i costi di placare il suo nervosismo, non riuscì a trattenere un brivido gelido quando vide l’espressione calma del dio che ora le porgeva il suo stesso copricapo.

“Signorina …” La sua voce piatta ed inespressiva la schiacciò al suolo. “Devi stare più attenta a correre con un coltello in mano.” Le fece notare un minuscolo taglio sul cappello, al che Charlotte ebbe ancor di più da trasalire.

-È riuscito non solo ad evitare tutti i miei attacchi… ma si è anche preso la briga di difendere il cappello! Quanto può essere veloce ?!-

Sentiva il cuore palpitare direttamente nella gola, ma l’assenza di qualsiasi cosa che seguì la aiutò a calmarsi. Non c’era davvero nessun pericolo, e se ne accorse solo quando tornò a pensare a mente fredda.

Forzò il sorriso più convincente che potesse: “Sì …”

-Se avesse voluto uccidermi l’avrebbe già fatto.-

Similmente, la domanda che tutti si ponevano era proprio:

-Ma Quetzalcoatl lo sa o no che deve ucciderla ?-

 

“Perché mai dovrebbe perdere tempo?! Quell’idiota sicuramente non ha capito nulla !” Sbraitò Robespierre, tirando una steccata con il suo bastone ad un essere umano lì vicino. Tuttavia, il colpo venne intercettato da una mano.

Era stato un uomo grande e grosso, dalla carnagione scura attraversata da pitture rituali, e con un gonnellino di foglie. Quel guerriero azteco pietrificò l’uomo più temuto durante la Rivoluzione con un’occhiata da far gelare il sangue.

“Tu! Tu… non hai idea di cosa è capace Quetzalcoatl, lui… che un tempo distrusse tutto il genere umano.”

E mentre quelle parole terrorizzarono chiunque le avesse ascoltate, nell’angolo dei serial killer qualcuno aveva una propria teoria.

“Il fato sta giocando con Charlotte …” Ipotizzò Ted Bundy. “È una guerra psicologica atta a schiacciare lei, e tutti noi, nella paura. Sappiamo che quel dio potrebbe ucciderla in un sol colpo, ma solo se gli andasse a genio… quindi, che lui lo sappia o meno che dovrà eliminarla, l’attesa ci torturerà fino alla risposta definitiva.” 

Come pedine sulla scacchiera degli dèi, quei piccoli e poveri umani ora vivevano nel terrore di andare incontro alla verità.

 

Charlotte, più consapevole di tutti, avanzò coraggiosamente verso il proprio avversario.

“Ti ringrazio.” Tese la mano in avanti e recuperò il suo cappello, adagiandoselo sulla testa.

“Oh, ma… mi è caduto di nuovo il coltello !”

“È impossibile che ci caschi di nuovo !” Strillarono all’unisono sia dèi che umani, colti alla sprovvista da quel momento così anticlimatico.

“Oh, davvero?! Mi dispiace, aspetta che lo cerco…” Mormorò il dio, girandosi ed offrendo le spalle alla ragazza.

“Ma è assurdo !” Nuovamente ci fu un grido unanime degli spettatori.

La ragazza francese ora aveva davanti a sé il dio, curvato e completamente scoperto. La loro vicinanza avrebbe reso impossibile schivare qualsiasi attacco.

Sì, ma come avrebbe attaccato, se non aveva il coltello? A questa domanda impellente, Charlotte era più che lieta di sorprendere chiunque con l’ennesima strategia.

Il coltello che le “era caduto chissà dove”, in realtà lo aveva tra le mani un secondo prima, ma nell’istante in cui si era ritrovata tra le mani il cappello, lo aveva nascosto al suo interno. Approfittando di quella distrazione capace di ingannare sia gli spettatori che il dio, ora aveva un’arma nascosta proprio sulla testa.

- Adieu …-

Affondò la lama verso il collo di Quetzalcoatl. Un collo che, contro ogni previsione, si era  girato.

“Signorina, scusa, ma non lo aveva in mano un secondo fa il coltello ?”

Lo stallo più incredibile della storia.

Charlotte si era pietrificata come una statua, rispecchiandosi negli occhi del dio che ora erano spalancati a pochi millimetri da lei. Lui si era voltato con un tempismo più che perfetto, lasciando che il coltello affondasse nel vuoto e fuori dal suo campo visivo. Ora infatti la mano di Charlotte era dietro la testa di Quetzalcoatl, con ancora il coltello serrato in pugno: lui non poteva vederlo, e lei non poteva muoversi.

Eppure lei si mosse, lasciando cadere l’arma.

“Oh, eccolo !” Improvvisando nella disperazione più totale, fu sorpresa di vedere la reazione sorpresa del dio quando sentì il suono del coltello che rimbalzava per terra.

Distraendosi così da quanto aveva detto un attimo prima, lui si chinò di nuovo per raccoglierlo.

Una distrazione che non si sarebbe dovuto permettere. Lo sbaglio più fatale che avrebbe potuto commettere.

 

“Charlotte ha… ha…” Persino ai presentatori morì la voce in gola, stupefatti da quanto stavano vedendo.

Charlotte Corday, sfidando ogni sciocca previsione ed assunzione illogica, in quel momento stava brandendo un altro coltello. Quell’arma in più che le avrebbe garantito la vittoria, e che ora sollevava sopra il suo inerme bersaglio.

Tuttavia si fermò. Esitò. E, nuovamente contro ogni aspettativa, lo nascose.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Bentornati! Questo quinto scontro, come potete aver ben capito, è tra uno degli dèi più forti e l’umano più debole di tutte le avanguardie. Già, non volevo fare una battaglia convenzionale o alla pari, per quelle ci sarà tempo: piuttosto volevo creare una sfida in cui il più debole cerca di prevalere su di un avversario che potrebbe spazzarlo via con il minimo sforzo.

L’attacco di Charlotte Oiseau de Proie, che in francese significa uccello predatore, è una citazione ad uno dei brani che mi hanno ispirato in questa battaglia: “Oiseaux de Proie” della band post-rock francese Alcest. L’altra canzone, diciamo theme song, è “I’m Alive” degli Shinedown.

Bene, a domani con il proseguo!

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Capitolo 18
*** Chapter 18: Why Do I Kill? ***


Chapter 18: Why Do I Kill?

“Sei proprio sbadata, signorina.” Le disse Quetzalcoatl, restituendo il coltello che aveva preso da terra.

Lei se lo portò al petto, mostrando riconoscenza con un elegante inchino.


“Perché… perché non ha deciso di attaccare ?!” Si domandava Tezcatlipōca, con ancora i sudori freddi per il rischio che il suo amico aveva corso poco prima.

Tutti aveva visto chiaramente Charlotte sfoderare un altro coltello, ma poco prima di affondare un colpo che sarebbe stato fatale, si era arresa.

Anche dall’altra tribuna qualcuno era altrettanto perplesso: Marie Antoinette si sorresse la testa sulle dita, mostrando un’espressione corrucciata. “Una mademoiselle tanto indecisa non deve aver successo con gli uomini… chissà cosa le è successo…”

Ladies and gentlemen… questo scontro sembra diventare ogni secondo più inaspettato.” Comunicarono gli spettatori. “Ad oggi non si è mai visto niente del gen-”

“Ehi, voi due !” Urlò a gran voce Quetzalcoatl, chiudendo le mani attorno alla bocca per amplificare quel grido. Il volume fu così alto da sbalordire chiunque, generando anche una raffica di vento che scalò tutte gran parte degli spalti, per poi raggiungere la cabina dove risiedevano St.Peter ed Adramelech.

Nessuno sfidante si era mai rivolto agli annunciatori durante la battaglia, così quei due non seppero davvero come rispondere.

“Ho una richiesta! Potete cambiare questo campo di battaglia? Non mi piace !”

Tutti i presenti si ritrovarono allibiti ed esasperati di fronte al troppo ingenuo e caotico dio.

 

In poco tempo, dalla terra sorsero delle costruzioni di legno, ferro e plastica: altalene, dondoli, pali per l’arrampicata, scivoli, percorsi ad ostacoli ed altri simili giochi da parco. L’arena dove si sarebbe deciso il destino dell’umanità era diventata un parco giochi.

“Che bello !” Strepitava ora Quetz, saltellando da una parte all’altra e con tutta l’energia del mondo. Di colpo spiccò un balzo ed atterrò davanti a Charlotte, che sorpresa sussultò quando lui le prese le mani.

“Signorina! Intanto che aspetto il mio sfidante, giochiamo un po’ ?” Era candido, puro, ed innocente proprio come un bambino, con un lato infantile che non riusciva proprio a sopprimere.

La ragazza, di fronte a tanto genuino entusiasmo, non poté far altro che commuoversi un po’.

Inclinò la testa di lato, sorridendo dolcemente: “Certo …”

Intanto, tutto attorno a loro, aleggiava una grande confusione. Dèi ed umani si chiedevano cosa ne fosse diventato dello scontro, mentre osservavano i due giocare nel parco come dei compagni di scuola a ricreazione.

 

Tuttavia, per quanto quell’atmosfera fosse giocosa e leggera, Charlotte Corday non aveva affatto perso di vista il suo obbiettivo: grazie alla sua Sefirot, Cochma, riusciva a mostrarsi tanto felice e partecipe ai giochi di Quetz, nel mentre pianificava il modo migliore per ucciderlo.

Normalmente sarebbe bastato uno sguardo sbagliato, la classica occhiata che riceve la preda dal predatore in agguato, per far accorgere il dio mesoamericano del pericolo che correva in ogni singolo istante. Ogni volta che era a pochi centimetri da Charlotte, o ogni volta che le dava le spalle, rischiava la vita. Ma non doveva preoccuparsi di ciò, perché era impossibile scorgere nell’intento omicida della sua avversaria.

E proprio guadagnandosi la sua fiducia, la francese poté studiare molto di lui.

Ad esempio, quando dovettero recuperare la corda da arrampicata legata in un punto troppo alto per essere raggiunto, Quetzalcoatl spiegò un paio di ali verdi e rosse per librarsi in volo. In quella forma pareva essere più veloce di quanto un occhio umano avrebbe potuto rendersi conto.

Oppure, in un momento più rilassante in cui i due giocarono a chi riusciva a schiaffeggiare le mani dell’altro, Charlotte si ritrovò a mancare ogni singolo colpo. Tuttavia, quando si lasciò prendere apposta dal dio, si accorse che la sua forza e la sua velocità di riflessi non era affatto sopra il normale.

-È chiaro, allora …- All’interno della sua mente, dove poteva dare sfogo ai suoi veri pensieri ed impulsi, qualche ingranaggio cominciò a muoversi.

-Quando l’ho attaccato per la prima volta, il coltello mi è stato respinto… e allo stesso modo, con il secondo attacco non sono riuscita a scalfirlo. Eppure non ha evitato tutti quei colpi coscientemente: ha una barriera che lo protegge !-

E a quel punto, osservandolo da vicino e potendo stare attenta a tutti i suoni che produceva il suo corpo, poté accorgersi di un frusciare appena udibile, ma impetuoso, proveniente da una strana aura che gli permeava la pelle.

-Certo !- Gli occhi di lei si spalancarono, riconoscendo quell’ostacolo che avrebbe dovuto superare per portare a casa la vittoria: -Il vento !-

L’armatura di vento che ricopriva Quetzalcoatl era quasi sempre attiva, tranne quando lui voleva volontariamente toccare qualcosa, come era successo prima quando l’aveva presa per le mani. Allora, se mai l’avesse eliminata per sua volontà, sarebbe stato indifeso.

Il “come fare” fu a quel punto la domanda che tormentò Charlotte di secondo in secondo, mentre fingeva di godere della compagnia di quel ragazzino.

 

Insieme tuttavia si divertirono con tutti i giochi che quell’inaspettato parco aveva da offrirgli.

“Sai, mi ricorda la terra in cui sono nata …” Confessò d’un tratto Charlotte, mentre si riposava su di una panchina.

“C’era un parco giochi ?” Domandò curioso Quetz, facendola sorridere.

“No, ero in campagna… ma giocavo tutto il giorno con le mie sorelle, e le amiche delle fattorie vicine. Poi, quando sono andata a vivere in convento ed infine in città, non ho avuto più tempo per giocare.”

“In città non c’era un parco giochi ?” Insistette lui, ma stavolta senza divertirla. Charlotte si incupì un po’, chinando il capo e lasciando che l’ombra del cappello le nascondesse il volto.

“Non era… esattamente un posto in cui divertirsi.”

Si poteva percepire tristezza, amarezza e malinconia, come quando si parla di tempi perduti, ma anche qualcos’altro: una sensazione che ti fa arricciare il naso, sentir caldo alla faccia e contorcere le interiora.

Accorgendosi di aver stretto i pugni per la rabbia epr tutto quel tempo, Charlotte decise di darsi una calmata. Tornando a dissimulare la facciata che aveva avuto fino ad allora, guardò il dio con un sorriso smagliante.

Lo vide, sorprendentemente, assorto nei suoi pensieri ed un po’ già di morale rispetto al solito.

“Ti va di giocare a Ce l’hai ?” Domandò lei, distraendolo da quell’attimo di curiosa introspezione. Lo vide annuire energicamente.

“Però ti avviso: io sono davvero imbattibile ad acchiappare !” Quetzalcoatl si gonfiò il petto, carico di orgoglio.

“Oh, ma immagino …”  Charlotte non si scompose affatto, ed anzi mantenendo vivo quel sorriso giocoso, non esitò un istante a strapparsi la gonna esattamente al centro. Questo gesto inaspettato lasciò di stucco sia il dio che tutto il pubblico circostante, dopodiché lei infierì, strappando anche tutta l’estremità inferiore e lo strascico.

Ora, con le gambe nude e scoperte fino al ginocchio, il suo sguardo si fece più intenso e serio, per quanto continuasse a sorridere.

“ Però non sarò da meno !” Annunciò provocatoria, per poi saettare via.

L’imprevedibilità di quanto era successo fece tentennare il dio per qualche secondo, dopodiché venne scosso da un tremito. Scoppiò a ridere.

“Sì, così mi piaci !” Sghignazzò, acquattandosi come un felino per poi scattare all’inseguimento.

 

“È diventata una gara di… acchiapparella ?!” I due cancellieri e presentatori erano sbigottiti, tuttavia presero a fare la cronaca anche di quell’inseguimento.

Nonostante i movimenti di Quetzalcoatl fossero fluidi come il vento, rendendolo capace di sgusciare tra le costruzioni con grande scioltezza, Charlotte nascondeva la sua presenza dopo esser scomparsa dal campo visivo avversario, così da mantenere un netto vantaggio. La sua resistenza però non era minimamente al livello del dio, che instancabile ribaltava tutto il parco giochi pur di trovarla, mentre lei era costretta a prendere un respiro ogni tanto.

L’inseguimento proseguì proprio vedendo la distanza tra i due accorciarsi esponenzialmente, finché la ragazza non poté più sparire dalla vista di Quetzalcoatl. Era a portata di braccio.

Charlotte si diresse verso il cortile di sabbia dove avevano fatto qualche castello.

Un altro po’ di accelerazione e l’avrebbe raggiunta.

Lei spiccò un balzo. Distese in avanti le gambe più che potesse, mostrandosi agile come un’atleta. Incespicò nel vuoto, e quando atterrò sotto i suoi piedi si trovò inavvertitamente qualcosa.

Intanto Quetzalcoatl l’aveva raggiunta.

Ma quel secondo, inteso come tutto ciò che costituiva quel lasso di tempo tanto breve quanto importante, faceva parte del piano di Charlotte. La ragazza infatti era atterrata su di una paletta, di uso comune per fare le costruzioni di sabbia, ma che in quell’istante si dimostrò una trappola: dopo aver calpestato l’estremità larga, il manico della paletta si sollevò, diventando così un ostacolo davanti alla caviglia del dio.

Lui inciampò, e così fece anche Charlotte, con la sola differenza che lei si era voltata di centoottanta gradi durante la caduta, come per fare da materasso al ragazzo. I suoi intenti però erano molto meno nobili, come dimostrava il coltello che aveva estratto, e sopra il quale precipitò il suo bersaglio. Com’era nei piani.

 

-No !- La ragazza percepì la pressione del vento schiacciarla, ed in quell’istante, in bilico tra la vita e la morte, i suoi sensi si fecero più acuti per rispondere ad ogni domanda.

-Il vento… c’è ancora !- Lo scudo attorno al suo bersaglio era ancora lì, non si era affatto dissolto, ed ora stava facendo rotta di collisione contro la punta della lama.

-Se me lo dovesse respingere adesso… !- Vide già quel coltello venir scagliato nel suo corpo con la forza di un proiettile, e bastò la semplice visione per farle accapponare la pelle.

Spalancò le braccia allora, e come se nulla fosse successo afferrò il ragazzo al volo. In quell’abbraccio improvvisato, caddero sulla sabbia senza farsi male, o meglio, senza morire. Un solo attimo di troppo avrebbe cambiato il corso di quello scontro, ma nessuno lo seppe mai.

Dopo aver comunque accusato una bella botta sul petto, la ragazza mugugnò: “Stai bene ?”

Una domanda ironica da parte di chi l’avrebbe voluto morto.

Lui non le rispose, così insistette: “Stai… bene ?” Ma la voce le morì in gola.

Quello che si ritrovò davanti non era più il giocoso bambino di prima, bensì una creatura mostruosa: la sua pelle si era spaccata in scaglie spigolose, mentre zanne e corna bianche come l’avorio crescevano a dismisura. I colori delle sue piume si erano fatti d’un tratto più feroci, come un ispido mantello di morte.

Un odore sulfureo si levò dal suo corpo.

Prima ancora che Charlotte potesse dire qualcosa, notò con la coda nell’occhio dove fosse concentrato lo sguardo del bambino: sul suo stesso ginocchio, dove una piccola ferita, una sbucciatura, lasciava intravedere il rosso del sangue. Poi, con una scintilla, l’aria prese fuoco.

 

“Ladies and gentlemen !” A stento la voce ai megafoni riuscì a sovrastare il rombante divampare della colonna di fuoco che era esplosa nel campo di battaglia.

“Finalmente abbiamo un assaggio della tremenda furia di Quetzalcoatl !”

Di fronte a quella manifestazione di potenza divina, gli stessi dèi furono sbalorditi, mentre gli umani atterriti.

Tezcatlipōca si limitò a deglutire per lo shock, rilassando poi la schiena sul suo posto a sedere. Fischiò d’ammirazione, ma qualcosa dentro di lui lo rendeva inquieto.

“Quetzalcoatl …” Mormorò, lasciandosi ad un tempo primordiale di cui pochi avevano memoria.

 

“Quetz! Ti piacciono gli umani ?” Aveva domandato al dio, una volta che era sceso a trovarlo sulla Terra.

A turno, loro due ed altri dèi avevano scelto di occuparsi degli umani per rendere il loro mondo un posto migliore. Il suo tentativo, chiamato il Sole di Tezcatlipōca, era stato poco efficace: a causa della ferita riportata contro Cipactili, le sue energie erano state insufficienti per alimentare un sole che donasse abbastanza luce agli esseri umani. E, dopo la decisione unanime di passare il tentativo ad un altro dio più in forze, era toccato proprio a Quetzalcoatl.

Con la potenza smisurata del dio, il sole ardeva intensamente, alimentando di rimando anche l’energia negli uomini. Si svegliavano al levar del sole, e lavoravano fino a quando non calava oltre l’orizzonte. In breve, costruirono una civiltà impressionante.

Tuttavia, a quella domanda posta un giorno da Tezcatlipōca, il dio serpente piumato aveva risposto: “No.”

Se ne stava seduto da solo su di una montagna, con la testa incassata tra le ginocchia a disegnare cerchi sulla terra. Il dio giaguaro, sorpreso, lo guardò con perplessità.

“Che hanno questi umani che non ti piacciono ?”

“Non giocano con me. Stanno sempre tra di loro.” Borbottò infantilmente l’altro. Questa reazione suscitò inevitabilmente un risolino in Tezcatlipōca, ma cercò di trattenersi per rispetto del suo amico.

“Dai, dai, non fare così… sono sicuro che prima o poi giocheranno con te.”

“Ho detto… che non mi piacciono.” Puzza di zolfo.

Il dio si mise in allerta troppo tardi, quando già le nuvole si erano ammassate, nere come un cielo senza stelle e senza sole, sulla terra degli umani. La pressione dell’aria fu schiacciante, crepando il suolo e scuotendo le montagne.

“Non potremmo semplicemente… spazzarli via, e provare con un altro sole ?”

Nella completa oscurità, gli occhi grandi ed ingenui di Quetzalcoatl brillavano, aspettandosi una risposta dall’amico. Tuttavia il dio giaguaro era rimasto senza più parole, contemplando un mondo che era di colpo sprofondato nelle tenebre, e dove l’umanità era stata annientata a causa di un capriccio.

 

“Potremmo… fare un altro gioco a tua scelta… ti va ?”

Sfidando l’ardere delle fiamme che divampavano, i fumi infuocati e la spaventosa morte scarlatta che la minacciava, una tenue voce parlò.

Nel dolore parve delicata come una carezza, o forse un abbraccio. Come l’abbraccio che ora vedeva Charlotte stretta al corpo di quella pira umana che era diventato Quetzalcoatl, con i suoi occhi furibondi di un bianco accecante.

“M-Ma… ma io mi sono fatto male !” Nel fuoco, il dio pianse disperato, e due lacrime rosse gli colarono lungo il viso. Tuttavia la ragazza, resistendo per un dolore infinite volte più intenso, rise: la sua risata era pura e nitida come il gorgogliare di una sorgente.

“Quello? Non è niente. Guarda come passa …” Si chinò ginocchio del dio, e poggiando le labbra su quella pelle incandescente, gli baciò la ferita. Nessuno avrebbe mai potuto credere a quell’evento, se non l’avessero appena visto con i propri occhi.

E, ancor più incredibile, fu ciò che seguì: la pira di fiamme che raggiungeva il cielo si smorzò, fino ad estinguersi in un filo di fumo dissolto nell’aria. Dalla tempesta, alla calma.

Quetz guardò ai suoi piedi, ancora tremante e con il volto bagnato dal pianto: Charlotte sopportava le ferite, marchiata dal fuoco, e con abiti quasi del tutto distrutti, pareva la creatura più bella del creato. Con il sorriso che ora gli rivolse, ripetendo quel “allora, lo scegli tu adesso il gioco”, fece perdere un battito al cuore del dio.

Arrossì, e più in fretta possibile si asciugò la faccia dalle lacrime. Non voleva più farsi vedere come un bambino piccolo.
“V-Va bene, signorina !” E, inorgoglito, mostrò un sorriso smagliante. “Facciamo un gioco della mia terra !”

 

Ladies and gentlemen… a che cosa abbiamo appena assistito ?” Dissero gli annunciatori, con la voce ridotta appena ad un sibilo per lo shock. Tutti i presenti avevano visto quell’esplosione di energia, impressionante persino per un dio, spezzata semplicemente da un gesto amorevole di un’umana.

“È come la favola del topo che toglie la spina dalla zampa del leone.” Commentò Danton, venendo giudicato con un’occhiataccia dall’altro rivoluzionario, Robespierre.

“Ma che dici?! Un’assassina rimane tale, per quanto possa fare qualcosa di buono !”

Ed il pittore David, rimanendo in disparte con i suoi pensieri, assottigliò lo sguardo e si arrovellò il cervello: -Assassina? Sì, è giusto dire che l’obbiettivo di Charlotte è quello di uccidere Quetzalcoatl, ma… ciò che ha fatto adesso era davvero una finzione, un gesto tanto materno e benevolo ?-

Simile fu la riflessione che portò Fobetore ad esclamare: “Ho capito !” E guardando i suoi due compagni: “Sta cercando di uccidere  NON Quetzalcoatl, ma la sua voglia di lottare !”

E, su per le tribune degli dèi, lo stesso pensiero stava angosciando anche il dio giaguaro Tezcatlipōca.

- Quetz… che ha distrutto l’umanità per capriccio! Quetz… che ha un potere spaventoso persino tra gli dèi, ma che è troppo immaturo per controllarlo …- Iniziò a sudare copiosamente, cercando però di non darlo a vedere.

-Effettivamente questa sua ingenuità potrebbe costargli caro! Specie se il bersaglio di Charlotte non è il suo corpo, protetto dall’impenetrabille Barriera di Xolotl… bensì quel suo lato sempliciotto. Se lo spinge ad arrendersi per pietà, si risparmierebbe un cadavere, ma comunque porterebbe la vittoria agli umani …-

La battaglia era lungi dal terminare.

 

Il gioco della terra di Quetzalcoatl si rivelò essere il pok-a-tok, di origine maya. Il dio ordinò che apparissero due piccoli canestri a forma di anello su di una parete dall’arena, in modo che la cavità di uno fosse di fronte a quella dell’altro.

Poi, presa una palla di gomma, la fece roteare sul dito e spiegò: “Tutto ciò che devi fare è mandare la palla nel canestro avversario. Però non puoi usare mani e piedi, questa è l’unica limitazione. Puoi usare ginocchia, fianchi, pancia, testa …”

Mentre lei si perdeva nella spiegazione, intanto la regina Marie Antoinette era contentissima nel vedere finalmente un gioco non violento.

Parbleu! Sembra fantastique! Voglio giocare anche io.” Diceva entusiasta.

“Secondo le regole, la squadra perdente viene sacrificata agli dèi, e le teste bruciate nel fuoco.” Aggiunse un guerriero maya, rovinando completamente la sua aspettativa e facendole mettere su il broncio.

“Ah, grazie tante, eh!”

 

“Credo di aver capito, fammi provare.” Charlotte fece cenno all’altro di passargli la palla. Il passaggio venne eseguito con un atletico e preciso colpo di anca, tracciando una parabola nell’aria. Stranamente però, la ragazza non si preparò ad accoglierlo, e rimase ferma, con i piedi per terra.

All’ultimo secondo si mosse: sollevò il coltello e colpì la palla. Tutti si aspettarono che l’avrebbe sgonfiata, invece la rinviò al mittente con un passaggio alto.

Persino Quetzalcoatl rimase sbalordito. Poi sentì l’odore del sangue.

“Charlotte… !” Sussultò Adramelech, venendo seguito da St.Peter: “… ha deciso di ferirsi ?!”

Sembrava una follia, eppure era chiaro e palese sotto gli occhi di tutti: la francese non stringeva il coltello dalla parte del manico, bensì dalla lama. Le sue mani si erano ferite nell’impatto con la palla, tuttavia, ignorando quelle stille di sangue che scivolavano fino a terra, lei rimaneva impassibile.

“Niente mani.” Disse con sfrontatezza, come per smentire una qualsiasi opposizione a ciò che stava facendo.

Dopodiché, recuperò anche il secondo coltello e lo scagliò in avanti.

 

Gli spettatori trattennero il fiato.

“Ma cosa fa?! C’è la protezione, se l’è dimenticato !” Strillò Ammitt, sorpreso da quel gesto sconsiderato.

Al contrario, Tezcatlipōca balzò in piedi, cogliendo l’attimo: “Ora, Quetz! Ora ti ha mostrato il suo vero intento, uccidila !!”

E tutte le urla di umani e dèi, ognuno che trionfava speranzoso per la propria avanguardia, si spensero in un battito di ciglia quando altro sangue venne versato nell’arena.

Senza alcuna Barriera di Xolotl a proteggerlo, ora Quetzalcoatl aveva un coltello che gli sporgeva esattamente al centro del petto, conficcato nella carne tenera fino all’osso.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Spero vi stia piacendo il proseguo dello scontro! Parliamo un po’ di curiosità:

Per l’aspetto di Quetzalcoatl, o meglio per i colori, mi sono basato sull’animale realmente esistente che gli dà il nome, ovvero il Quetzal. In poche parole il nostro Quetzalcoatl è come un piccolo uccellino, ma con un’armatura a scaglie e occhi da serpente.

Poi, so che il potere di Charlotte sembra inutile, ma mettiamola così: se qualsiasi persona che avete attorno, anche qualcuno che vi è sempre stato vicino (famiglia, amici, il portinaio etc.) volesse uccidervi… quanto facilmente ci riuscirebbe? Sicuramente tantissimo, perché c’è l’insospettabilità che quella persona possa volervi uccidere, e questo vi porterebbe ad essere vulnerabili in qualsiasi istante della vostra vita attorno a lei. Ecco spiegato ciò che sta succedendo tra Charlotte e Quetz… anche se lui, lo avete capito, ha una barriera di vento sempre attiva per proteggerlo anche quando ha la guardia abbassata.

Eppure…! Nel finale sembra essere successo qualcosa. Come mai la barriera non era alzata? Se volete, potete provare ad indovinare.

Ok, un’ultima cosa: la prossima settimana ho un esame importante, forse l’ultimo che mai affronterò in vita mia, e per questo potrei decidere di passare un po’ di tempo a studiare (il che, detto da me, sembra un’assurdità perché nella mia carriera da studente penso di non aver mai studiato seriamente un bel nulla). Quindi potrebbero esserci dei leggeri spostamenti nella pubblicazione del prossimo scontro. Vi farò sapere tra due giorni.

A domani!

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Capitolo 19
*** Chapter 19: For Peace, Of Course ***


 

Chapter 19: For Peace, Of Course

C’era una volta un regno, che crollò per mano di uomini e donne che volevano giustizia, e trascinarono quella stessa terra in un’ingiustizia ancora più profonda. I Rivoluzionari dicevano di parlare al popolo, ma il popolo che volevano ascoltare era una mostruosa brutalità che stava dilaniando la Francia. Ed il mostro più crudele di tutti era la voce della pancia e della violenza di quella gente: l’Amico del Popolo, Jean-Paul Marat.

Ogni volta che i giacobini, i quali volevano porre fine  alla violenza che alimentava la guerra civile tra le strade, chiedevano ai rivoluzionari in carica di fermarsi, Marat aumentava il numero di teste che voleva veder rotolare giù da una ghigliottina. La soluzione era sempre la morte.

Così, per distruggere quel mostro che terrorizzava la brava gente, un giorno una ragazza proveniente dal nulla, senza dire niente a nessuno, si levò dalla sua anonima casa per cambiare le sorti del suo paese.

 

E ora, quella stessa donna aveva pugnalato un dio. Il sangue era ancora una volta il perfetto testimone, qualcosa che può parlare prima ancora della voce, e asserisce innegabilmente la debolezza alla morte a cui tutti siamo soggetti.

“Lo ha… colpito ?!” Questo però era ciò che nessuno riusciva a spiegarsi. I due cancellieri strepitarono, increduli. “Sì, indubbiamente! Lo ha colpito!! Charlotte Corday ha inflitto il primo colpo a Quetzalcoatl !”

Mit ‘nem Messer in der Brust…” Canticchiava il dio misterioso, in una reminescenza di quello che era stato lo scontro precedente. Vedendolo così spensierato e allegro, i suoi due colleghi non poterono che sollevarlo per il bavero, infuriati.

“Ci vuoi spiegare quello che sta succedendo ?!”

“Chi, io ?” Fece quello, confuso. “Ah, ma io non sto capendo niente. Dovreste chiederlo a lei… o forse, proprio a Quetzalcoatl.”

Ed indicò il campo di battaglia.

O meglio, il campo di pok-a-tok, dove si stava ancora disputando la partita: la palla era in volo, passata da Charlotte prima del coltello, ma molto più lenta. Quetzalcoatl barcollò, esitando per lo shock e per il dolore, però ricevette il passaggio saltando ed intercettando la palla con le ginocchia.

Incredible! Quetzalcoatl fa come se nulla fosse e continua a giocare, ladies and gentlemen !!”

Tezcatlipōca digrignava i denti e stringeva i pugni a più non posso, disperato: “Perché?! Perché lo fai, Quetz ?!”

Ma la risposta poteva saperla solo Charlotte, dal momento che il dio le aveva parlato.

“Dopotutto tu stai giocando con una penitenza… quindi è giusto che ce l’abbia anche io.” E dalle sue labbra insanguinate nacque il solito innocente sorriso spavaldo.

La francese ricambiò, bloccando la palla con il coltello prima che andasse nel suo canestro.

Come un normale gioco tra amici, anche se con spruzzi di sangue che si sollevavano in aria, i due continuarono la partita. L’una sentiva le mani lacerarsi, e le sue dita erano prossime a staccarsi, mentre l’altro aveva il coltello piantato in un punto non mortale, ma che comunque gli bloccava il respiro e causava una copiosa emorragia.

In quella folle esagerazione, la ragazza intercettò la palla per poi mandarla più in alto possibile. Il colpo pareva fin troppo eccedente rispetto al suo bersaglio, ma in un istante Quetzalcoatl si accorse della trappola: in realtà quell’alta parabola sarebbe perfettamente nel suo anello, precipitando però con un’angolazione impossibile da bloccare all’ultimo. Così impiegò tutte le forze che gli rimanevano per spiccare un balzo, ed infine spiegare le ali per elevarsi ancor di più.

“Io… non ho le ali.” Gli fece notare Charlotte, seria e glaciale come la lama di un coltello. Lo stesso che ora afferrava dalla parte del manico.

Al dio vennero i brividi al suono di quelle parole, e tutti lo videro paralizzarsi in aria. Un istante dopo, ben due coltelli gli si piantarono nelle ali, macchiando di rosso anche quelle brillanti piume.

“A-A-Anche le ali ?!” Urlarono gli annunciatori, anticipando la disperazione degli dèi. “Se prima Charlotte non riusciva a mettere a segno un colpo, ora sta massacrando Quetzalcoatl !”

“È giusto… così.” Disse però il dio, tossendo sangue ancora a mezz’aria. “Non avrei dovuto… barare.”

Pur di giocare un gioco pulito, si stava lasciando colpire: era la sua dimostrazione di fiducia, la sua ostinata correttezza che trascendeva ogni logica comune. Con un sorriso ammetteva le sue colpe e quasi si puniva, lasciando però che fosse l’altra a decidere la punizione che doveva scontare. Tutto questo pur di divertirsi.

“Non ti preoccupare, fa niente.” Gli rispose amorevolmente la ragazza.

“Però… io non ho finito qui.”

In elevazione come un astro, e perfettamente all’interno del sole per come lo vedeva Charlotte, il dio non si abbandonò alla morte. Per prima cosa bloccò la palla con il petto, dopodiché sfruttò l’accelerazione del suo volo e l’inerzia della caduta, siccome aveva iniziato a precipitare verso il basso, per avvitarsi in volo: si capovolse con un carpiato, e terminando con una rovesciata di polpaccio spedì la palla dritta nell’anello avversario.

Si sarebbe aspettato un coro esultante, però ottenne solo un sussulto confuso.

Persino Charlotte era ammutolita, ora che la sua sottile trama assassina pareva aver raggiunto un imprevisto. Non sapeva cosa aspettarsi ora che il gioco era terminato, e quell’ignoto le causò un brivido gelido lungo tutto il corpo.

“Signorina …” Una volta atterrato, Quetz procedette a sfilarsi i coltelli dal corpo, per poi porgerli all’altra con un enigmatico quanto affaticato sorriso. “… questi sono tuoi. A che gioco giochiamo, adesso ?”

E con quella frase enigmatica, che poteva far presupporre soltanto alla fine di tutti i giochi, qualsiasi persona avrebbe capito che la fine per Charlotte era giunta.

Se con il primo coltello aveva accuratamente scelto di non colpirlo a morte, così da non fargli destare sospetti sul suo vero intento omicida, e con gli altri coltelli minava a privarlo delle sue ali con cui poteva a muoversi a grande velocità, l’obbiettivo finale era pur sempre quello di eliminare la presunta onnipotenza di Quetzalcoatl. Lì, davanti a tutti, avrebbe pelato un pezzo dopo l’altro il mito del dio imbattibile, facendo leva sulla fiducia e sulla gentilezza, in un piano perfetto che, se condotto senza errori, filava liscio come l’olio.

Eppure, con quell’ultima provocatoria domanda, Quetzalcoatl minacciava di aver capito tutto. Era arrivato alla conclusione segreta, e che tale doveva restare per mantenere in piedi il piano: Charlotte Corday aveva giocato con lui in un gioco di vita e di morte. Ed ora bisognava giocare alla pari.

Ma Charlotte Corday fu proprio l’unica a non arrendersi a quel dubbio, e con fierezza ed eleganza, sorrise di rimando.

 

“Eccolo …” David il pittore a quel punto ebbe un’epifania, perché la sua mente era stata sollecitata a ricordare un evento così impressionante, da lasciarlo con brividi di tensione ancora adesso, che era solo un’anima. “Quel sorriso …”

 

17 Luglio 1793

Non esistevano buoni o cattivi, né giusti o criminali. Davanti alla ghigliottina venivano giustiziati solo i “nemici del popolo”, così da dare l’esempio ai presunti “amici del popolo”.

Ma quei nomi ora valevano poco, sicché chi li usava a dismisura per animare le masse, era morto: Jean-Paul Marat, assassinato pochi giorni prima.

Ed in un tempo in cui bastava anche solo apparire contro rivoluzionari e a favore della monarchia per essere uccisi, come ad esempio usare un tovagliolo o preferire il pane bianco, quel giorno venne portata alla ghigliottina una creatura del tutto nuova, insolita: un mostro.

Ma quel mostro non piangeva, non urlava, o imprecava blasfemie, come ci si sarebbe aspettato. Lei, Charlotte Corday, di una bellezza tale da far ammutolire chi non l’aveva ancora vista, camminò a testa alta verso la ghigliottina con fierezza. Nemmeno la regina era andata verso la morte in quel modo.

 Il boia si frappose tra lei e la ghigliottina, per poterle abbassare la testa e condurla al giaciglio, ma lei desistette con il solito dolce sorriso: “Ve ne prego, avrò pure il diritto di vederla: non ne ho mai vista una !”

E l’esecutore, spiazzato da quella decisione, la lasciò camminare da sola.

In quel momento Jacques-Louis David, seduto ai posti d’onore in quanto alleato della Rivoluzione, poté assistere a quello spettacolo tanto unico quanto incredibile. Se gli avessero chiesto di dipingere una magnificenza sul punto dell’estinzione, sicuramente avrebbe ritratto una cometa, i Giardini Pensili di Babilonia prima di venir distrutti, o il Colosso di Rodi prima di sprofondare nel mare… assieme a quel sorriso.

La sentì persino parlare tra sé e sé:

“Una macchina di morte per uccidere nobili e poveri senza distinzione… gli piaceva tanto, all’amico del popolo. Forse sono stata anche fin troppo gentile a dargli una morte così unica.” Nei suoi occhi vacui aleggiava una determinazione incrollabile anche di fronte alla morte, e per tanto, spaventosa.

 

“Pensavo …” Tornando al presente, Charlotte rispose finalmente alla domanda del dio. “… e se concludessimo la nostra sfida di prima? Adesso dovrei essere io a prenderti, e tu a scappare.”

Si era spezzata qualsiasi tipo di tensione, o di finta educata distanza che entrambi mantenevano quando parlavano. Niente imbarazzo, niente freni inibitori, solo ciò che provavano davvero.

Quetzalcoatl sogghignò con i suoi denti aguzzi: “Mi va bene !”

La nuova sfida, l’ultima sfida, iniziò proprio quando il dio corse via.

Con le ferite accumulate non avrebbe di certo potuto muoversi a grande velocità, tantomeno sfuggire grazie alle sue ali, eppure riusciva a correre con sufficiente vigore. L’unica differenza da una normale gara a rincorrersi, era che chi lo stava inseguendo trascinava dietro di sé, come una cappa, un’intensa valanga di morte che inghiottiva il suo cammino.

Charlotte ormai aveva abbandonato la Sefirot che celava le sue intenzioni, così ora sfoderava tutto quell’intento omicida che aveva trattenuto per diverso tempo. Pareva travolger qualsiasi cosa, allungando mani invisibili verso la schiena del suo bersaglio.

Quetzalcoatl non era soltanto quello che scappava. Era una preda.

Ovunque si nascondesse, era costretto a scappare il più velocemente possibile non appena sentiva la presenza della morte sulla sua pelle, e poco dopo una lama affondava nel vuoto, mancandolo per un soffio. La ragazza continuava a mascherare l’assassinio da gioco, e per tanto colpiva solo nel momento in cui il dio le porgeva le spalle per scappare: sarebbe bastato accorciare le distanze sempre di più, e quella frazione di tempo si sarebbe trasformata nel momento della vittoria.

Si sentiva potente. Una predatrice. E tutto ciò che faceva era per l’umanità: loro stavano guardando, e per questo non poteva arrendersi. Tutte le fiamme e tutto il dolore del mondo non sarebbe bastato a farla vacillare, perché in quel caso con lei sarebbe crollata anche la speranza della sua gente.

La sua gente…

 

11 Luglio 1793

“Vuoi… salvare la tua gente ?” Domandò l’uomo immerso nella vasca da bagno alla ragazza che aveva appena accolto a casa sua.

Lei rispose affermativamente: “Come ho scritto nelle lettere che vi ho fatto pervenire stamattina, monsieur.”

“Tu …” La interruppe lui: ”In realtà hai scritto che vuoi salvare la Patria, e servire la Francia, con ovviamente la Rivoluzione. Non hai parlato di gente.”

A quel punto la ragazza rimase in silenzio. Un occhio molto attento avrebbe potuto vedere le sue mani tremare.

“Hai ribadito che vieni da Caen.” Lui fischiò volgarmente d’ammirazione. “Da Caen a Parigi. Tutta questa strada per la Rivoluzione… e ora mi parli di salvare la gente.”

“Perché la gente… !” Parlò infine lei, levando la sua voce con un sussulto, ma ugualmente con forza e fermezza. “Monsieur… la gente è quella che soffre. La gente patisce la fame, la gente prova paura, alla gente si spezza il cuore quando perde un figlio, un marito, un amato… un Paese non prova emozioni.”

Quell’ultima affermazione normalmente le sarebbe costata la morte, ma fu agile nel non demordere: “Ma un paese può fare molto per la gente! Un paese può… essere in pace. Così che nessuno più soffra.”

Lo sguardo indagatore di Marat cedette. Non riuscì più a dissimulare un’altezzosa distanza, perché quando udì quelle parole il suo cuore perse un battito per l’emozione.

“Esatto!” Esultò raggiante, colpendo l’acqua con i pugni in un gesto impulsivo ed infantile.

“È proprio ciò che intendo io! Andiamo d’accordo sulla pace !” Sorrise Marat: “Tutti vogliono un eroe che porti loro la pace. È il motivo che spinge gli uomini a pregare gli dèi, o a votare un capo. Io però non mi considero un eroe, bensì un amico del popolo !”

“Anche lei desidera la pace …” Charlotte non aveva più un interlocutore preciso, in quanto persa nei suoi pensieri tenebrosi ed offuscati come la notte. “Ma come ottenerla? Questo mi domando.”

“Come ?” L’occhio dell’uomo si spalancò, assieme ad un ghigno affilato. “Con la ghigliottina, ovvio! Inizieremo dai traditori che mi hai comunicato poco fa, giustiziandoli domani stesso. Sai perché è stata costruita la ghigliottina, mademoiselle Corday? Per rendere un’equa giustizia nella morte, senza distinguere re o plebei! Per i traditori sarà forse un vanto venir uccisi dalla stessa lama che ha decapitato i vecchi reali !”

E scoppiò in una risata così spontanea da contagiare, in quel clima di familiarità ed amicizia, anche Charlotte.

La donna rise, rise e rise. Dopodiché, come se fosse la cosa più naturale del mondo, impugnò il coltello che aveva nascosto in seno e pugnalò Marat all’altezza della clavicola.

“Allora la morte che ti sto donando ti parrà una benedizione… così fuori dall’ordinario . La tua voce che aizza le folle e pretende altre teste non si leverà più su Parigi.”

L’uomo gridò, ma solo schiuma rossastra gli fuoriuscì dalla bocca. Schizzi rossi che tinsero l’acqua, ma si sollevarono per segnare il volto latteo della bellissima donna che ora gli sorrideva.

“Sono io sono l’eroina che tutti vogliono… adieu, Ami du Peuple.” E concluse quel verdetto con un bacio sulla fronte, mentre l’uomo si tendeva per gli spasmi, per poi adagiarsi nella vasca con un braccio che penzolava fino a terra.

La moglie di Marat, rimasta a spiare dietro la porta socchiusa, lanciò un urlo straziato, correndo a soccorrere il marito. Nonostante lei, e persino quando i gendarmi immobilizzarono Charlotte per arrestarla, quella ragazza non smise di sorridere, e di ridere.

 

Quando, giorni dopo, venne portata al processo, la sua fine era segnata. Nessuno riusciva ad accettare che lei avesse ucciso Marat, ed ora quello stomaco affamato di sangue che era il popolo, ora pretendeva la sua testa.

Robespierre, Danton e persino il pittore David la guardavano con un misto di disgusto e raccapriccio. No, era paura. Charlotte era consapevole che lei, una ragazza sola provenuta dalla campagna, avesse ucciso un mostro. Era come le fiabe che leggeva da piccola, o della sua eroina diventata santa, Jeanne D’Arc.

“Cosa vi aspettavate di ottenere assassinando Marat ?” Le chiese il giudice.

Fu come se la dose di una droga bellissima le fosse stata iniettata: era felicità pura. Non vedeva più volti iracondi e non sentiva più voci furiose, ma percepiva attorno a sé una melodia fantastica.

Non era il mondo del presente, ma la previsione del futuro. Un destino che avrebbe reso tutti felici.

“La pace !” Solo così avrebbe potuto descriverlo. “Ora che è morto, la pace tornerà a regnare nel mio paese !”

(Testimonianza di Charlotte Corday, 16 Luglio 1793, Tribunale rivoluzionario)

 

“Tu… provi vergogna davanti agli umani.”

Quelle parole fecero rabbrividire Quetzalcoatl. Non aveva modo né tempo di voltarsi, per tanto non seppe nemmeno da dove provenisse quella voce. Era nell’aria, d’ovunque.

“L’ho capito.” Continuò Charlotte. Forse non lo stava più nemmeno inseguendo.

“Da quando sei sceso in campo non hai fatto altro che indossare una maschera… sembravi divertirti, ma in realtà volevi solo distrarti. Tu in realtà lo hai sempre saputo che sono io la tua avversaria.”

“Basta !” Il dio si fermò, sentendo però l’immenso spazio attorno a lui soffocarlo. Stava sudando, tremando. Era scosso e non riusciva a calmarsi.

“Cosa ti è successo? È un avvenimento della tua vita, vero? Qualcosa che hai fatto… uno sbaglio… qualcuno che hai perso… un tuo errore ?”

Quetzalcoatl strinse i pugni e digrignò i denti: “Zitta !!” Il vento si stava accumulando, rivestendolo.

La sua barriera di Xolotl era impenetrabile, ma nulla poteva contro quelle parole.

“Quindi qualcuno è morto …”

“Non dirlo… non dirlo… no-“

“… a causa tua ?”

 

“GRWAAARGH !!” L’urlo fu in realtà un ruggito, come se un drago si fosse risvegliato. La pelle del dio serpente piumato bruciava dall’interno, e quel calore gli arrivava fino al cervello, infiammando i suoi pensieri e rendendolo cieco. Ma non era solo rabbia: era dolore, sofferenza.

Portò le braccia in avanti, e tutto il vento accumulato e compresso si distese, rilasciando un turbine di aria dalla pressione esorbitante. Quel flusso bastò per polverizzare qualsiasi cosa incontrasse, tracciando un solco che raggiunse la parete opposta dell’arena. Lì si schiantò, formando un’enorme conca dalla forma perfettamente rotonda.

 “Quello era il Cannone di Ehecatl !” Lo riconobbe Tezcatlipōca, mentre assieme a tutti gli altri spettatori si accorse che l’intero stadio stava tremando.

Persino gli annunciatori si sentirono in pericolo.

“Lo scudo magico ha retto a stento !” Grugnì Adramalech, fuori microfono.

“E pensare che lo stiamo potenziando di scontro in scontro! Non credo proprio reggerebbe un altro colpo del genere !” St. Peter si mostrò molto preoccupato, e guardò il suo collega, titubante. “Dici che dovremmo… sospendere… ?”

Il demone volse lo sguardo verso il campo di battaglia, pensando però a quali rischi avrebbero corso fermando quello scontro.

 

E ora, nella piazza cittadina distrutta per metà, come se fosse stata travolta da un tifone, tutto si era fermato.

Gli occhi di Quetzalcoatl erano persi nel vuoto, ma mantenevano una brillante e vivida fiamma inquieta, insana, esasperata. Continuava a soffrire.

 

“Evviva, ce l’ho fatta! Finalmente gli umani vivranno in pace !” Una dea esultava, felice. Nonostante però stesse vivendo quel momento di personale soddisfazione, scelse di voltarsi verso di lui, volendolo rendere partecipe di quel bellissimo sorriso che aveva sul volto.

“Che ne pensi, Quetz? Sono stata brava ?”

“Sì… sei stata bravissima.”

 

Erano lacrime. Non un alluvione.

Dai suoi occhi sgorgavano lacrime, scivolando lungo le guancie fino a bagnare il seno di Charlotte, che ora lo abbracciava stretto. Non voleva lasciarlo andare, perché per la prima volta dall’inizio dello scontro, anche lei aveva abbandonato quella maschera di finzione e bugia.

Erano entrambi, finalmente, sinceri. Ma non avversari.

“Dimmelo, per favore… dimmi cosa ti ha fatto soffrire degli umani …”

Era proprio un alluvione.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Parlando del flashback di Charlotte:

Non sono uno storico, e non posso dire per certezza come risponderebbero determinati personaggi storici, in linea con il loro carattere. Però do del mio meglio, cercando di ricostruirli attraverso le informazioni che ho (e posso assicurare che per i personaggi della rivoluzione ho fatto un bel lavoro di ricerca, guardando persino documentari che non esistono se non in francese, del quale grazie al cielo ho una buona conoscenza). Ovvio che io non voglia scrivere una storia 100% storicamente accurata, ma almeno un po’ di coerenza secondo me ci deve essere… poi c’è da dire che io conto anche a stravolgere l’immaginario che il lettore ha di un determinato personaggio, ma quello è un altro discorso.

Bene, spero che siate pronti per la conclusione di questo scontro.

A domani! 

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Capitolo 20
*** Chapter 20: Why Do I Kill? (Final) ***


Chapter 20: Why Do I Kill? (Final)

Una volta sconfitta Cipactili, la terra per far proliferare gli umani era stata creata. Sfortunatamente né i tentativi di Tezcatlipōca, né del dio della pioggia Tlaloc, avevano ottenuto buoni risultati. La razza umana era sempre imperfetta, o lo era il mondo ed il sole per loro creati.

Il Sole di Tezcatlipōca ad esempio, non era stato abbastanza chiaro, mentre quello di Tlaloc era stato fin troppo intenso.

Gli dèi dibattevano ancora di quell’ultimo fallimento.

“Anche se sei un depresso del cazzo, potevi almeno impegnarti un po’ !” Ringhiò il dio giaguaro, rivolgendo un’occhiata truce ad un dio dalla pelle blu, con il corpo costellato di pietre preziose, di cui due al posto degli occhi.

“Senti …” Rispose lui, facendo una lunga pausa. “… non mi assillare.”

Il dio giaguaro si ribaltò per terra, prendendosi la testa e cominciando ad urlare: “Che nervi !”

Quando si rialzò, non era meno calmo. “Per la terza volta di fila abbiamo fallito a creare un mondo per gli umani! Ti rendi conto di che figura stiamo facendo di fronte agli dèi? Con che coraggio ci dovremo presentare al prossimo Concili-”

“Abbiamo fallito per la terza volta ?” Li interrupe una vocina, sbucata fuori dal nulla. Quando i due dèi si voltarono, il fiato si bloccò nelle loro gole.

Quetzalcoatl era entrato, e dopo aver poggiato il copricapo per terra, si era avvicinato loro con fare incuriosito.

I due dèi lo sapevano: il secondo fallimento, detto il Sole di Quetzalcoatl, era stata una brutta macchia sulla loro carriera. Il piccolo dio era stato persino processato per aver sterminato l’umanità senza nessuna autorizzazione dal Concilio degli Dèi, ma per fortuna era stato assolto. Tuttavia, il suo tremendo ed incontrollabile potere era qualcosa che faceva venire i brividi.

“Abbiamo fallito per la terza vooolta ?!” Domandò un’altra voce, stavolta femminile e con tono più shockato.

Apparteneva ad una ragazzina, poco più alta di Quetz, dai lunghi capelli blu e con un copricapo a forma di giara sulla testa. Sbarrò i suoi occhioni, i quali presto si ricoprirono di lacrime.

“Nooo! Che tristezza! Povero Tlaloc, sarai così triste!” E corse ad abbracciare il dio della pioggia.

“Ehm… sì, sono in un dolore perpetuo… cioè, no! No. Tranquilla.” Imbarazzato, lui cercò supporto negli altri due.

Tezcatlipōca provò a rassicurare la piccola: “Dai, non è niente Acuecuyoticihuati.” Ma alla fine di quel nome lunghissimo, si morse la lingua e ritornò a ribaltarsi per terra.

“Nooo! Per colpa del mio nome ti sei morso la lingua.” Pianse, ancora più forte, la dea di tutte le acque e della bellezza.

“Il dolore è insondabile… ogni giorno spero di svegliarmi e di far parte del nulla cosmico.” Sussurrava intanto Tlaloc, drammatico.

Quel teatrino disperato, con i tre dèi che avrebbero dovuto dare speranza all’umanità, sembrava una causa persa. Tuttavia, ignorando tutta quella disperazione, Quetzalcoatl poggiò una mano sulla fronte della dea, scompigliandole i capelli con un gesto fraterno.

“Ehi, Acu… ora tocca a te, fatti forza !” E le rifilò il sorriso più smagliante ed incoraggiante che potesse.

Solo guardandolo, lei si sentì illuminata da una luce rinvigorente, e non poté fare a meno di guardarlo con ammirazione. Tirò su col naso, imbarazzata: “S-Sì, fratellone Quetz !”

 

Ed il Sole di Acuecuyoticihuati, il quarto, segnò un’epoca di prosperità per gli uomini. Una luce tanto gentile pareva come un bacio amorevole, perché tale era la gentilezza che la dea offriva agli umani. In cambio, essi cominciarono a venerarla, perché un mondo così bello non si era mai visto.

Persino gli dèi del Concilio furono sorpresi, e perdonarono i quattro mesoamericani per i tre precedenti disastri.

Tuttavia, l’energia impiegata nel rendere quel mondo così perfetto, iniziò a gravare sulle spalle della giovane dea.

Un giorno infatti, apparentemente senza motivo, tutta la tensione accumulata rovinò l’armonia che c’era tra i quattro.

“Che ti prende, Acu ?!” Quetzalcoatl, che fino ad allora aveva passato il tempo a giocare con i bambini umani, era stato di colpo allarmato dal pianto della sua amica.

Trovò la dea delle acque in ginocchio, piangente, mentre attorno Tezcatlipōca e Tlaloc cercavano inutilmente di calmarla.

“L-Le ho solo detto che dev’essere bello avere tutti gli umani che ricambiano il suo sole con tutte quelle preghiere.” Cercò di spiegare il dio giaguaro, però al sol sentire quelle parole, la dea urlò ancor più forte.

“Nooo! Tu pensi che io sia una che se la tira! Io non voglio che voi siate invidiosi di meee !” E piangeva, e piangeva, sempre più forte.

“Scusami Acu !” La implorò Tezcatlipōca, inginocchiandosi di fronte a lei. “Ti prego, fammi male, colpiscimi! Fa qualsiasi cosa che ti possa far star meglio !”

“No, fai male a me !” Si inginocchiò anche Tlaloc, venendo squadrato male dall’altro dio. “E tu che diavolo centri, scusa ?!”

Quetzalcoatl, impassibile di fronte a quella scena, mosse i primi passi avanti, scostando i due dèi. Si chinò di fronte alla sua amica, sollevandole il mento con l’indice per spingerla a guardarlo negli occhi: “Ehi …”

Vedendola quasi esitare, non resistette ancora con quel dolore in petto: la abbracciò di slancio, prendendole la testa ed accarezzandole i capelli.

“Tutti noi ti amiamo, Acu… tu sei bravissima, e questo è un dato di fatto. Anche se non credi molto in te… bhe, dovresti! Se ti fidi di me, e mi vuoi bene… allora dammi retta.”

La sentì singhiozzare un po’ più sommessamente, tirando su col naso come quando iniziava a placare il suo pianto. “No, fratellone Quetz… tu non capisci.”

E staccandosi da lui, abbassò la testa. Ora sul suo viso si leggeva molta vergogna, assieme ad una preoccupazione che fece comprendere ai tre presenti la gravità della situazione.

“Purtroppo ho… perso il controllo dei miei poteri, per colpa del pianto.”

“E …?” Domandò Tezcatlipōca, serissimo.

“Ho distrutto il mondo.”

La terra, in quei pochi istanti, era stata allagata da un alluvione devastante. Tutte le civiltà erano state sommerse, e gli esseri umani inghiottiti dai turbini marini. Ancora una volta, per la quarta volta, un nuovo sole aveva portato solo l’ennesima distruzione del genere umano.

“Cosa ?!” Strillò il dio giaguaro, mordendosi le dita in preda al panico. “Il Concilio degli Dèi ci ucciderà !”

Tlaloc, adirato, lo prese per il collare: “È tutta colpa tua !”

“Mia?! Senti chi parla! Se tu non avessi combinato quel casino l’ultima volta, ora il nuovo sole non sarebbe toccato a…”

“Che problema c’è ?”

Tutti si fermarono. La dea delle acque era sull’orlo di un altro pianto disperato, distrutta dai sensi di colpa, ma quella voce l’aveva fatta balzare sull’attenti.

“Come… Quetz ?” Domandò il dio giaguaro, vedendo il suo compagno insolitamente tranquillo. “Lo capisci che non possiamo permetterci di creare l’ennesimo sole ?!”

“Ma infatti io non lo vorrei.” Rispose semplicemente lui, prendendo le mani della dea ed accarezzandole: “Questo mondo creato ad Acu era così bello, e gli umani erano bellissimi… non ce ne saranno mai di migliori, ne sono sicuro.”

Si alzò in piedi, e mettendosi i pugni sui fianchi, propose sorridendo: “Se il problema è che sono morti tutti gli umani, allora non ci resta che andare a riprenderli dal regno dei morti !”

Questa dichiarazione lasciò di stucco i tre, al punto che nemmeno la bocca larga di Tezcatlipōca fece uscire un sussurro.

“M-Ma, fratellone !” La dea però, era così preoccupata da quell’idea che non poté non aggrapparsi al dio serpente piumato, per trattenerlo. “Non possiamo farlo! Va contro le regole !”

“Oh, allora ci andrò io.”

E con quell’affronto, Quetzalcoatl compiette l’impensabile.

Si recò sin nel regno dei morti, dove le anime soffrivano ed urlavano in una caverna buia e dall’aria irrespirabile. Discese per chissà quanto tempo fino alle profondità della terra, sepolto dalla stessa distanza che c’è tra la superficie ed il cielo.

Finché, arrivato davanti ad un portone marcescente, dodici demoniache figure non sbucarono dall’ombra per interrompere il suo passaggio. Indossavano maschere terribili, fuse con il loro corpo munito di artigli, piume, legno rosso sangue e pietra.

Sibilando, soffiando e ruggendo, gli sbarrarono il passo.

“ Noi siamo i dodici dèi della morte, e questo è il nostro regno !”

“Sì, ok, io devo passare.” Insistette Quetz, continuando a camminare. Un demone però balzò esattamente davanti a lui, facendo tremare la caverna. Lo guardò dritto negli occhi, e alle sue spalle gli altri ridacchiarono. Erano famelici, e pronti allo scontro.

“Nessun sole e nessun vento ti potranno aiutare qui! Sparisci subito, oppure …”

Un boato inconcepibile interruppe ogni parola, riempiendo il silenzio di tutto il regno dei morti. Quando, ripresi dallo spavento, i demoni cercarono di comprendere cosa fosse successo, li sorprese una luce abbagliante.

Ora sopra Quetzalcoatl, in direzione del braccio che aveva puntato verso l’alto, un buco era stato aperto nella caverna. Da esso scaturiva una luce biancastra, ed anche un flebile, seppur fresco, alito d’aria.

“Che c’è ?” Domandò allora il dio, vedendo i dodici arretrare per lo sgomento.

“Avete detto che non c’è sole e non c’è vento, ed è vero: posto non mi piace proprio perché è buio e puzza di chiuso. Così ho fatto un buco per l’aria.”

Quetzalcoatl non ebbe alcun problema a resuscitare la razza umana, quel fatidico giorno.

 

“E poi… e poi gli umani… !” Piangeva nel presente Quetzalcoatl, proprio come un bambino avvolto tra le braccia della madre, mentre Charlotte gli accarezzava la testa senza più il copricapo.

“Hanno iniziato ad adorare me, e a ringraziare me! Acu…A-Acu …” Il dio gettò all’indietro la testa, gridando con il viso rosso e segnato dalle lacrime. “Acu non ha ricevuto nessun merito !”

Sopra di loro, tra le tribune, tutti erano ammutoliti a causa di quell’evento incredibile.

“Stupido…” Il dio giaguaro Tezcatlipōca aveva le braccia incrociate in una posa seria e austera, tuttavia i suoi occhi erano lucidi. “Che razza di passato tragico sarebbe questo? Sei proprio uno… stupido !”

Al suo fianco, anche il dio Tlaloc sorrideva e piangeva commosso. “Già, proprio uno stupido. Non pensi, Acuecuyoticihuati ?” Ma si morse la lingua, iniziando a contorcersi dal dolore.

La dea però non lo stava ascoltando, e con le mani davanti alla bocca e gli occhi pieni di lacrime, guardava il suo amico aprire per la prima volta il suo cuore a quella verità.

Gli umani che avevano venerato i soli degli dèi, ed in particolare Quetzalcoatl, stavano anch’essi piangendo commossi per quella inaspettata dichiarazione del dio.

“Oh, serpente… piumato…” Mormoravano tra i singhiozzi, senza vergogna. Dall’alto Robespierre li guardò, e stizzito fece una smorfia di disgusto.

“Ehi.” Sussurrò la voce delicata e gentile di Charlotte all’orecchio di Quetz. Il dio, sorpreso, alzò la testa, incrociando il suo sorriso affettuoso. “Guarda, ora tutti lo sanno …”

Lui si guardò attorno, riconoscendo degli sguardi comprensivi, sia tra gli déi che tra gli umani. Lui, che si era volutamente tenuto lontano da entrambi a causa della vergogna e dei sensi di colpa, per la prima volta si sentì toccare davvero da quel riconoscimento che gli veniva offerto.

 

“Grazie, Charlotte.” Sussurrò, tornando finalmente a sorridere. Era come se il sole fosse sbucato fuori dalle nuvole dopo una lunga pioggia torrenziale.

“Ora però… dobbiamo tornare a combattere …”

“No, non sarà così: io mi arrendo !”

 

Quella sua voce, per quanto delicata, risuonò in tutta l’arena, in tutto il colosseo, tra tutti gli spettatori, così chiara e nitida che fu impossibile crederci.

Tutti furono colti alla sprovvista.

Il dio misterioso, così come Gaia, sussultarono al punto da dimenticarsi di respirare. La mascella di Ammit e Fobetore scese fino a terra per lo shock. Baal e Ptah spalancarono gli occhi fino a renderli grandi come delle ruote.

E per finire, agli annunciatori che ora avevano la bocca attaccata al microfono, mancò il fiato in gola.

“Si è… si è …” Si guardarono in faccia più volte per darsi conferma della realtà. “Si è arresaaa ?!!”

“Ma che combini, Charlotte ?!” Gridò proprio il dio misterioso, sporgendosi sul campo di battaglia. Ma era troppo tardi.

Ladies and gentlemen, incredibile ma vero, per la prima volta nella storia del Ragnarok un combattente dà forfeit !”

Quetzalcoatl guardava la ragazza sbigottito, ma lei non accennava a smorzare il suo sorriso.

“Cosa? Perché ?”

“Perché sarebbe orribile ucciderci a vicenda in preda all’odio, quando abbiamo scoperto di non essere per nulla legati da tali sentimenti. Non trovi ?” Aveva cominciato a piangere a dirotto, per quanto stesse sorridendo.

“E così il vincitore di questo incontro è… Quetzalcoatl !!”

Gli dèi ovviamente esultarono per la gioia, fieri di aver conquistato la seconda vittoria consecutiva. Al contrario degli umani, che, ora in svantaggio, si abbandonarono sui propri seggi con sconforto e paura per il loro futuro.

Il dio serpente piumato, d’altro canto, non si sentiva né felice né triste. Era un po’ confuso, certo, però si sentiva segnato positivamente da quell’incontro. “Che dire… ?”

Guardò in faccia la sua amica, volendola lasciare con uno splendido sorriso.

“Grazie di tutto !”

“Grazie a te... Adieu !

A Quetzalcoatl si bloccò la voce. Non era un nodo in gola, bensì una sensazione quasi piacevole, fresca ma al contempo pungente. Impiegò poco tempo prima di accorgersi che ora il coltello di Charlotte era affondato nel suo pomo d’Adamo, spuntando dalla nuca.

La ragazza lo aveva abbracciato di nuovo, così era stato inebriato dal profumo dei suoi capelli, ora che la testa gli ricadeva sulla spalla di lei. Non riusciva a muoversi, il peso di anche un millimetro del suo corpo era insostenibile.

Quando parlò uno spruzzo di piccole gocce rosse andò a macchiare la schiena della ragazza.

“Addio.” Mormorò, e sorrise. Fu strano, perché infondo stava morendo.

Non poté mai vedere ancora una volta le lacrime di Charlotte, perché la ragazza non aveva smesso di piangere, ed anzi ora levò i suoi gemiti ancor più forte. Il dolore le gremiva il cuore, ma non poteva farci niente.

 

“Che ha fatto ?! Esplosero gli dèi, sconvolti da quella visione nefasta che non poterono accettare.

Ci fu chi urlò ai soccorsi, ma quando il corpo senza vita di Quetzalcoatl stramazzò al suolo ed iniziò a disperdersi in frammenti di luce, angosciosamente tutti compresero che non ci fosse nulla da fare.

“Ma… perché ?” Si domandavano anche gli umani, senza parole.

Tezcatlipōca, Tlaloc e Acuecuyoticihuati urlarono in preda al panico, non comprendendo il perché di quell’evento così violento, improvviso ed ingiustificato.

Nell’ombra, osservando la scena, Fenrir grugnì: “Devo intervenire ?” Lui era pur sempre il sovraintendente della sicurezza, ed uccidere un dio a scontro terminato consisteva in una violazione del regolamento.

O almeno così credeva, perché persino la persona che gli dava ordini non seppe come rispondere, tanto era ammutolita.

“Tremendo …” Sussurrarono gli annunciatori, testimoni di un evento terribile e senza precedenti.

Poi, cercando di prendere in mano la situazione, si sforzarono di parlare: “P-Portate via Charlotte dal campo di battaglia.” St.Peter spense il microfono, guardando preoccupato il suo collega.

“E ora cosa si fa ?” E l’altro: “Non ne ho idea. Penso che a noi toccherà solo… aspettare gli ordini dei superiori e comunicarli.”

Ma c’era silenzio stampa in tutta l’Arena del Ragnarok. Nessuno osava esprimersi a riguardo dell’avvenuto.

Un dio non era stato sconfitto, né era semplicemente morto, bensì era stato assassinato.

 

Poco dopo, cavalcando l’onda di quella collera e di quello sdegno collettivo, la personalità più iraconda e terribile della dea degli inferi Hel stava prendendo il sopravvento.

Per fortuna usava la mano sinistra per artigliare con forza il bracciale della sua comoda poltrona, mentre con la destra accarezzava distrattamente la testa del lupo argenteo Fenrir, adagiato sulle sue ginocchia con sguardo impassibile.

“Povero… povero Quetzalcoatl !” Piangeva con la parte sinistra del volto. “Un destino peggiore della morte gli è capitato… oh!”

“Ma il regno dei morti è il tuo regno. Non potresti semplicemente riportarlo indietro ?” Le domandò quasi con disinteresse il lupo. A quella domanda la dea si voltò di scatto, facendo prevalere il suo lato del viso furioso, una vera e propria maschera di pericolo mortale.

Fortunatamente si ricompose in fretta, ovvero tornando a singhiozzare: “No, no e no! Le anime che muoiono nel Ragnarok non hanno possibilità di riscatto, e giungono fino al Nilfhel… dove neppure io posso recuperarli.”

Fenrir fece spallucce, continuando a godersi le carezze.

“Ma Fenrir… oh, Fenrir… ora quegli umani conosceranno la nostra furia! La furia degli dèi !”

“Permettimi di dissentire.” La interruppe un terzo individuo, appena intervenuto nella loro conversazione.

 

Da tutt’altra parte nella struttura interna allo stadio, dei passi affrettati segnavano il ritorno di Charlotte Corday nella stanza d’attesa destinata ai combattenti umani.

Anche nel momento in cui vi entrò, le lacrime non avevano smesso di sgorgare.

Fu allora che un’altra donna, la quale aveva atteso il suo ritorno pazientemente ma in apprensione, le venne incontro. Prendendole il viso tra le mani, si premunì di baciarle gli occhi per asciugarle le lacrime, dopodiché la strinse forte, ma così forte, che le due poterono sentire i rispettivi cuori battere.

“Charlotte …” Mormorò lei, liberando con un sospiro tutta la sua inquietudine e preoccupazione. “Per fortuna sei viva.”

Era una donna ben più alta e piazzata della francese: con una muscolatura che veniva incorniciata da un’armatura di pelle bianca e nera, assieme ad un collo di pelliccia che si espandeva anche sugli spallacci. I suoi capelli, folta chioma rossa, erano portati su di un lato, mentre dall’altro erano più radi, ma con piccole treccine che delineavano quegli zigomi un po’ squadrati, ma rosei. 

Tutto sommato l’aspetto imponente e minaccioso di Boudicca, la regina guerriera, era in perfetto contrasto con quegli occhi blu, più limpidi del cielo sereno in primavera, con i quali ora guardava Charlotte. Le sue labbra carnose erano piegate in un sorriso.

Nonostante tutto quell’affetto, l’umore della ragazza non parve migliorare.

La donna esitò, ma convinta di dover scavare in quella mente offuscata dalla tristezza per risollevarla, dovette porle quella domanda: “Charlotte, perché lo hai ucciso ?”

L’altra ebbe un fremito.

Boudicca insistette: “Ti eri arresa. Non ci dovevano essere morti. Perché allora lo hai…”

“Era l’obbiettivo.” Rispose con una sola emissione di fiato. “L’obbiettivo.” Ripeté, come perdendosi in trance.

Al che la rossa inarcò un sopracciglio, per poi scuoterla prendendola dalle spalle. Questo bastò a far riprendere lucidità, e soprattutto colore sul viso di Charlotte. “Sii più chiara, ragazza !”

“Ecco, io sapevo che dovesse essere un duello mortale. E… dovevo ucciderlo. Così, anche se mi dispiaceva, e mi dispiace ancora …” Non ce la faceva più a continuare, perché stava per scoppiare in lacrime.

Guardandola in quello stato, la donna si impietosì e tornò ad abbracciarla, tuttavia non poté non pensare all’insensatezza di quelle parole. Ma dopotutto, non conosceva le condizioni che avevano portato quella ragazza a pensare così.

“Io… io avrei potuto evitarlo!” Si straziava Charlotte, tra le lacrime, fino a quando un altro tocco non la sfiorò.

Fu una mano grande e pesante, quanto infinitamente leggera nel momento in cui si adagiò sulla sua spalla, quasi a parere un uccellino su di un ramo. Stupita da quel contatto, la ragazza sollevò il viso, per poi rimanere a bocca aperta: l’aveva appena accolta un altro sorriso, ma così radioso ed incoraggiante da riscaldarle il cuore e l’animo come un raggio di luce solare.

“Ciò che facciamo spesso non è dettato dalla nostra ragione, e per tanto va solo a riempire quella ragnatela di eventi chiamata destino… solo ad opera compiuta potremmo giudicare davvero fin dove ci hanno condotto. Prima di allora, giudicarci ed accusarsi è inutile.”

Era alto come una montagna, così grande da fare ombra alle due con la sua stazza troneggiante, il suo ampio mantello, e per di più quella corona adagiata sul capo. Solo il suo sorriso risplendeva, assieme ai suoi occhi chiari e dei capelli come fili d’oro.

Rincuorata, Charlotte annuì, riappacificandosi con se stessa. Non avrebbe dimenticato la morte di Quetzalcoatl, ma solo a fine di quella battaglia per la sopravvivenza della razza umana lo avrebbe rimpianto a dovere.

“Oh! Venite qui, voi due !”

Boudicca si inorgoglì nel vederla di nuovo contenta, così con un abbraccio cinse sia lei che il grande uomo biondo, il quale fu costretto a piegarsi e strepitò sotto la forza erculea della donna.

 Mentre intanto loro ridevano, qualcuno si era affacciato da un’altra porta, spiandoli. Uno sguardo confuso, ma che poi si arrese all’esasperazione di quella scenata, si sottrasse in fretta e tornò a badare ai suoi affari. Lì, in una camera privata con tomi e manoscritti che ricoprivano interamente le pareti, e dove un tavolo attraversato da pergamene e puntellato di calamai e penne occupava quasi tutto lo spazio, si sentiva più a suo agio.

Si sedette di peso sullo sgabello, lamentandosi del dolore. Lo avevano chiamato per la prossima battaglia, e doveva mettersi a lavoro per mettere su carta la sua ultima ispirazione prima del tempo.

“Il sesto scontro… il sesto scontro …” Ma non riusciva a concentrarsi, era eroso dalla rabbia. Al che, gettandosi all’indietro ed imprecando con tutta la forza dei suoi polmoni, Dante Alighieri urlò: “Ma perché cazzo non il terzo ?!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Questo scontro non è finito per caso come ve lo aspettavate? Ci avrei scommesso! Dopotutto l’ho sempre detto che sarebbe stata una battaglia fuori dall’ordinario.

Sono curioso di sentire i vostri pareri.

Intanto vi do appuntamento a venerdì 19 Giugno per il prossimo scontro… in cui combatterà qualcuno che, insomma, credo abbiate già capito di chi si tratti.

Alla prossima! 

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Capitolo 21
*** Chapter 21: Have You Seen The Yellow Sign? ***


Chapter 21: Have You Seen The Yellow Sign?

Mancava poco all’inizio del sesto scontro, ma c’era qualcuno che per niente era interessato ad essere presente in tempo. Era Fobetore, il dio degli incubi, incappato in un problema davvero impellente giusto qualche istante prima.

“Aaah… una costruzione grossa quanto l’universo, ma è difficilissimo trovare un bagno, ogni volta.” Sospirò, tra l’indignazione ed il sollievo, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle. Detto ciò, si preparò a raggiungere gli altri due, quando percepì una presenza giungere dal fondo del corridoio.

Procedeva con un’andatura lenta, eppure il fruscio che emetteva il suo spostamento era assordante. Troppo tardi se ne rese conto: non era un solo individuo ad avanzare, bensì un esercito. Di giallo ocra vestiti, quella processione di drappi gialli lo stava per investire come un’ondata morbida e secca.

Fobetore tremò, guardando in faccia l’orrore.

Un istante dopo qualcuno gli passò accanto, superandolo senza dir nulla e procedendo sulla sua strada, come se nulla fosse successo. Il dio degli incubi rinsavì, ma il suo cuore non smetteva di battere all’impazzata. Si era addirittura perso qualche battito.

-Lui… è… ?-

 

Il campo di battaglia era immobile e silenzioso, tuttavia gli occhi di innumerevoli spettatori erano concentrati su di esso nella solita attesa, fremendo urgenti per l’avvenire.

In particolar modo gli dèi, ormai grati del vantaggio di due vittorie consecutive, nonché del primo vantaggio: il testa a testa si era fermato, così come sembrava essersi infranta la speranza dell’umanità dopo la loro sconfitta. Ed era proprio tale vergogna, a non permettere a nessuno di loro di volgere i loro sguardi su di una determinata tribuna: quella delle restanti avanguardie dell’umanità.

Lì, Charlotte Corday, con gli occhi spenti da quella mortificante considerazione, non riusciva a tirarsi su nemmeno con gli incoraggiamenti di Boudicca. La regina guerriera iniziava a scoraggiarsi anch’ella, pensando che il cuore della fanciulla fosse stato irrimediabilmente segnato dal suo secondo omicidio: quello di una persona che, infondo, amava.

Ciò nonostante volle parlarle ancora per tentare un’altra consolazione, ma stavolta un’altra voce intervenne: “I messeri attendono, ed è teatro di festa e speranza.”  

Boudicca si voltò con un’espressione confusa quanto diffidente: ma di quale speranza stava parlando?

Ad esprimersi era stata una figura nell’ombra, appoggiata ad una parete con le braccia incrociate. Il suo abbigliamento nero gli permetteva di essere tutt’uno con l’oscurità, così come il cappello a larghe falde calato sul volto invisibile.

“Ma come, mia regina? Non se ne rende conto? Arriverà presto il cantastorie ad allietarci.” Sollevò appena il capo, permettendo al suo capello di scoprirgli parte del viso: in realtà quel viso non esisteva, perché infatti apparve solo il sorriso statico di una maschera bianca con un pizzetto nero e dei baffi di decoro.

“Non chiamarmi mia regina.” Rispose stizzita ella, guardando il suo interlocutore come se glielo avesse ripetuto almeno un centinaio di volte. In effetti era proprio così, perché quel Guy Fawkes non smetteva di introdurre i suoi discorsi in quel modo tanto strano.

“E poi… non credo che sia esattamente un cantastorie.”

“Già! È un poeta!” Intervenne Charlotte, illuminandosi in viso, forse per ammirazione.

L’uomo mascherato rise bonariamente: “Certo, certo! Lo so bene, non credetemi uno stolto: era famoso anche quando ero in vita. Solo che… è davvero diverso da come me lo sarei aspettato.”

 

I microfoni si accesero, riempiendo di un ronzio l’aria già tesa.

Ladies and gentlemen! Siamo giunti al sesto scontro, ciò significa che metà degli sfidanti selezionati per questo torneo ha solcato il campo di battaglia, battendosi e morendo per il loro obbiettivo! Scendiamo in campo, un’altra volta cooon… il lato degli dèi !”

I annunciatori tennero il pubblico sulle spine, fin quando, di colpo, ogni luce nel creato si spense.

Tutto piombò nel buio più buio, senza che alcuna percezione potesse aiutare ad orientarsi: era assenza di qualsiasi appiglio, qualsiasi speranza, qualsiasi salvezza. Pareva un vortice in cui i presenti erano già piombati, catturati da qualcosa di inevitabile.

“Un avviso a tutti coloro che hanno dato vita, o mai partoriranno, un pensiero immotivato, una realtà distante, un sogno sublime …”

Dapprima un fruscio, come di abiti, poi un brusio infestante, simile al volo improvviso di tanti insetti. Esplose nel buio, quando meno se lo sarebbe aspettato, improvviso e violento: un crescendo musicale terribile e spaventoso.

“Lui possiede tutto. Ed avrà la vostra mente, nel momento in cui vi rivolgerete a lui… alla sua corte !”

Luminoso come un faro, il giallo di un drappo lacero iniziò a splendere nell’oscurità. Ricopriva una figura umanoide, ma allo stesso tempo innaturale: non aveva volto, ma solo tentacoli che strisciavano oblunghi e viscidi sul terreno.

“Il Re Giallo da un tempio dimenticato, dalla città in rovina di Carcossa, dalle rive del lago Hali! Nel suo incomprensibile orrore …”

Quando le luci tornarono, e le stelle si riaccesero nel firmamento, quell’orrore non faceva di certo meno paura. Il suo volto restava coperto dal drappo, e quel suono sempre più onnipresente nelle menti degli spettatori.

“… Hastur !!”

E quella creatura si guardò attorno, notando come un silenzio tombale fosse piombato sugli spettatori, pietrificandoli ai loro posti. Emise un flebile sussurro dalla cavità del suo cappuccio: “Lo avete visto? Il Segno Giallo?”

 

Lassù, qualcuno tra gli umani iniziò a mormorare, chiedendosi cosa stesse dicendo.

“Allora…” Disse soltanto uno, e non sembrava nemmeno riferirsi a quella domanda nello specifico. Semplicemente aveva compreso qualcosa, e contro ogni giudizio, ma mosso solo dal proprio istinto, sentì di dover parlare.

“Allora esiste… davvero.” Aveva la testa allungata verso l’alto, con la fronte scoperta e occhi ricurvi verso il basso, in un’espressione di angoscia e perdizione. Howard Phillips Lovecraft, scrittore capace di guardare nell’orrore e nelle paure più recondite dell’uomo, assisteva a quello spettacolo come un presagio di distruzione.

“Cosa sarebbe quella cosa ?” Si domandava intanto Ammit, squadrando l’avanguardia degli dèi con confusione. “Non riesco proprio a comprendere se sia buono o malvagio.”

Al suo fianco c’era Fobetore, il quale nel momento in cui lo aveva visto apparire, aveva ricominciato a tremare e a sudare copiosamente esattamente come poco prima.

“Non può essere.” Diceva tra sé e sé, mormorando febbrilmente. “Non può esistere un incubo così. È… assurdo !”

Quel colore giallo era una macchia schizzata via dalla ragione umana, e per tanto nemmeno il dio degli incubi poteva comprenderne le sfumature di paura che sapeva provocare.

 

“Mentre sul lato degli umaniii… !”

L’attenzione venne riportata sul portone opposto a quello dove era fuoriuscito Hastur, e lì venne ripiegata tutta la fede dell’umanità.

“Un uomo… un artista… una leggenda… una storia !”

Una vacua foschia fuoriuscì dal portale, ricoprendo il terreno. Poco dopo, prima un’ombra e poi un corpo, qualcosa di gigantesco galleggiò sospesa nel vuoto. Si trattava di una barca di legno nero, solcante proprio la nebbia opaca. Sussulti di stupore si levarono, osservando quel battello spettrale: fuochi fatui erano accesi lungo le sue fiancate, mentre un cartello a prua indicava una sola direzione, “la Città Dolente”, in parole di colore oscuro.

“Una vita passata a documentare le gesta del mondo, realizzando un compendio di aspra critica. Lui, che si è elevato a Sommo… sarà in grado di soggiogare gli dèi, con la penna che ferisce più della spada ?!”

“Per me si va ne la città dolente… per me si va ne l’etterno dolore…” Iniziò a ripetere la gente, tra gli umani, con una crescente tensione nella voce. Il procedere dell’imbarcazione era lento ed inesorabile, aspettando quasi che loro terminassero, con un trionfante:

“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate !”

E d’improvviso, un urlo: “E si va a letto?! Io mi sono rotto i cojoni di questo mortorio !”

Qualcuno saltò fuori dalla nave di Caronte, atterrando a gambe larghe nell’arena. Sollevò il  capo con circospezione, guardandosi intorno. Poi, inspirando profondamente, si lanciò in un altro grido tuonante:

“Ed il mio nome?! Non lo dite ?!”

Gli annunciatori, ritratti all’indietro per lo shock, si guardarono l’un l’altro esitanti: “Ehm… Dante Alighieri !”

Ma c’era troppa confusione da parte di tutti per esultare.

L’uomo che ora si trovava in campo aveva l’aspetto di un po’ in là con gli anni, dai capelli castani ma vagamente brizzolati in cima. Il suo viso era affilato, dalla bocca piccola e con un naso altrettanto lungo, sopra il quale dei grandi occhi torvi squadravano il pubblico.

“Avete sentito?! Daaante… Alighieeeri!” Disse sbracciandosi, facendo volteggiare il grande giaccone rosso che portava, aperto, su di una maglia bianca con pantaloni di pelle neri. Sollevò poi una corona d’alloro, appoggiandosela sulla testa. “Io ho questa! Io sono il Sommo Poeta, il Vate!” Iniziò a cercare qualcosa, o meglio qualcuno, tra gli spalti dell’umanità.

“Adesso, invece… potreste per cortesia, scusate guarda eh, trovarmi un certo… Albertino Mussato?!” Ricalcò quel nome con una dose spropositata di acidità. “Che cosa fa? Chi è costui ?”

E tali domande si chiesero anche gli umani, il quale cercavano a destra a manca, volendo assecondare le richieste di quell’inquieto uomo.

“Sempre la stessa storia.” Sospirò invece una donna, con fare rassegnato. Ella era Gemma Donati, la moglie di Dante Alighieri.

Quando le chiesero allora spiegazioni, lei rispose, mentre teneva in braccio tre bambini piccoli vispi ed esaltati come il padre: “È quello lì.” Ed indicò un uomo, in disparte, il quale faceva del suo meglio per nascondersi da tutto e da tutti, con il volto rosso di imbarazzo.

“Forse ve lo ricorderete per la tragedia Ecerinis.” Ma tutti scossero la testa.

“Come immaginavo.” Ammise lei: “Quando mio marito era in vita, il Sommo Poeta era Albertino Mussato… e questo Dante non l’ha mai mandato giù. Ora invece ha scoperto che, dopo la sua morte, è stato incoronato… ahiahiahi, ma chi ce la doveva mandare ?”

E tornarono tutti a fissare quell’uomo che si vantava a destra e a manca, senza un attimo di tregua.

“Hai sentito, Albertì?! Nessuno ti conosce più !” E scoppiò in una gloriosa risata, sollevando poi tre manoscritti. “Ed invece questi… questi, mammamia bella, in eterno li dovranno insegnare nelle scuole, nelle università, e tutti dovranno averne una copia in casa, pur non avendoli mai letti !”

 Tutti riconobbero i tre testi che costituivano la Divina Commedia, l’opera più celebre del poeta.

Adramelech e St.Peter, intanto, non sapevano più per davvero come riprendere il controllo della situazione.

“Ehm, e quindi ora che il Sommo Poeta-”

“Sì, è vero, sono il Sommo Poeta.” Riprese Dante, nella disperazione comune.

“Però all’epoca? Col cazzo, dico io, e perdonatemi il volgare! Mi avevano dato del corrotto, del tangentista… e ora, invece?! Sono il simbolo dell’Italia! Ah- no aspetta, forse questo è proprio la normalità.” Si stette zitto per qualche secondo, per poi riprendere a ridere istericamente.

“Cos’è? Non mi dite per caso che ora sono persino sulle monete! Probabilmente dove c’è raffigurata anche la merda, e la faccia di questo sgorbio qui !”

Ci volle un po’ prima di rendersi conto, che a tutti gli effetti Dante avesse indicato Hastur.

Il dio, sentendosi appellare in quel modo, per nessun apparente motivo, rimase scosso.

“Ma questa era gratuita …” Sussurrò qualcuno tra le tribune degli dèi.

Un uomo, invece, borbottò adirato: “Ed io dovrei essere ricordato più per questo tizio, che per l’Eneide ?” Era il poeta romano Virgilio.

“Ma ‘sto grullo! Che più grullo non se pò !” Scoppiò a ridere un altro uomo, dall’aspetto più feroce ed agghindato come un nobile di paese. Il suo nome era Filippo Argenti, e sbeffeggiava il poeta mentre tutte le ragazze che lo coccolavano, attorno a lui, ridevano in contemporanea.

Sembrava che non ci fosse più alcun rispetto, né stima, per l’avanguardia dell’umanità.

 

“Ci siamo rotti noi, adesso! Basta! Il Ragnarok ha inizio !!” Urlarono infine gli annunciatori, furenti.

Incredibilmente, il sesto scontro era iniziato davvero.

 Tuttavia, uno degli sfidanti non appariva affatto calmo e concentrato come quelli che lo avevano preceduto:

“Sesto?! Merda! Perché non terzo? O nono, ché nove è tre per tre !” Dante, con le mani tra i capelli al punto da spennarsi la corona d’alloro, rimuginava camminando in cerchio. Infine, la sua camminata si arrestò quando si imbatté in una presenza torreggiante. Le urtò contro, ricadendo all’indietro, e da quella posizione poté vedere chiaramente Hastur.

Il Re Giallo, in silenzio sopra di lui, aspettava immobile: “E tu saresti la speranza dell’umanità? Mi hanno mentito …”

“Eh?! Non ti sento, parla più forte !” Incurante, il poeta gli si avvicinò così tanto da infilare l’orecchio nel cappuccio.

Dalle tribune si levò un sussulto.

Hastur rimase ancora immobile, non reagendo a quell’oltraggio.

“Lo hai visto? Il Segno Giallo ?” Ripeté la sua frase iconica, alla quale venne risposto un secco: “No.”

Era impossibile leggere le emozioni del Re Giallo, tuttavia l’unica certezza che decise di mostrare fu che non aveva perso di certo la voglia di schiacciare il suo avversario: alcuni suoi tentacoli si sollevarono lugubri dal terreno, mostrandosi come arti penzolanti e intrisi di una saliva scura.

Nonostante sembrassero innocui nel loro aspetto gonfio e lento, in un battito di ciglio saettarono in avanti. Dante non ebbe nemmeno il tempo di muoversi, perché quegli arti neri si erano irrigiditi come lance, per poi piantarsi nel terreno attorno a lui. Lo avevano sfiorato appena, tuttavia proprio quel leggero contatto squarciò la sua pelle in più punti, sollevando schizzi di sangue nell’aria.

Il poeta esitò, dopodiché il dolore prese il sopravvento e gli strappò un viscerale urlo di terrore dalla gola.

“Che… cazzo sei ?!” Arretrò, inciampando ed iniziando a strisciare sui palmi. Non perse di vista la creatura, ne valeva la sua vita dopotutto, così la osservò ritrarre i tentacoli con un’inquietante calma.

 

Ladies and gentlemen! Il primo colpo è stato messo a segno da Hastur!”

Sulla tribuna degli umani, Charlotte si voltò con preoccupazione verso i suoi compagni: “M-Ma siamo sicuri che Monsieur Dante sappia combattere ?” Boudicca non avrebbe voluto mostrarsi così negativa, ma scosse la testa con fare serio.

“Rischia che la storia dell’orrore di quell’Hastur lo divori.” Commentò aspramente Guy Fawkes, seppur con il suo solito tono giocoso.

 

Intanto davanti agli occhi di tutti si stava mostrando una scena parecchio patetica, capace di far disperare gli umani e ridere a crepapelle gli dèi: Dante, in preda al panico, stava scappando a gambe levate, lanciando anche varie imprecazioni.

Però, ovunque si voltasse, finiva per trovarsi davanti sempre la stessa cosa, ovvero il vuoto siderale nel cappuccio del suo avversario. Era dappertutto, non poteva fuggire.

“Vai via !” Strillò d’un tratto, esasperato, non correndo via all’istante quando si ritrovò davanti l’avversario.

Hastur ne rimase sorpreso, e mettendosi in allerta, osservò la mano dell’uomo compiere un arco verso la sua faccia. Quello schiaffetto lo dissolse come se fosse stato un fumo, lasciando il nulla assoluto davanti a Dante.

“Ah…” Sospirò lui, sollevato, per poi voltarsi. Hastur era di nuovo lì, piegato per portare il suo volto a pochissimi millimetri da quello dell’altro.

Il poeta provò ad urlare, ma fu troppo tardi: un tentacolo nero gli si avviluppò attorno alla mascella, tappandogli la bocca.

“Mi aspettavo molto da te.” La voce bassissima di Hastur gli riempì le orecchie, sovrastando il boato degli spettatori. “Cercavo la speranza dell’umanità… ma tu puoi esserne al massimo la vergogna. Non fraintendermi: sei un poeta, e questo ti fa onore. Però un artista ha molta più grinta di te. Dov’è finita la ferocia, la ricerca del sublime, del dolore, il raggiungimento dell’estasi nel portare a termine un incarico sovrumano? Tu hai una visione molto limitata, del mondo, della vita, di te stesso e degli altri.”

Mentre parlava, orribilmente altri tentacoli si erano introdotti nella bocca dell’uomo, il quale a malapena riusciva a sbavare una schiuma rossastra. Quei piccoli viticci iniziavano a scavargli nel corpo, percorrendogli la pelle come un tracciato. I suoi occhi avevano ormai perso qualsiasi luce.

“Te lo chiedo per un’ultima volta… lo hai visto? Il Segno Giallo ?”

E, proprio in quelle iridi, apparve un simbolo misterioso ed arcano, sostituendo qualunque barlume di sanità e speranza. Il corpo di Dante venne liberato, e senza peso cadde al suolo.

L’umanità sussultò, e persino gli dèi tentennarono: una visione tanto brutale avrebbe colto alla sprovvista chiunque. Si erano tutti quanti aspettati un duello, ma avevano assistito ad un macabro omicidio.

Lentamente, ma sempre più forte, come lo sciamare di milioni di insetti, sussurri di paura e riverenza si agitarono tra gli spalti. 

 

E anche voi parlerete del Simbolo Giallo, del Re Giallo e di Hastur. Non sentite già l’urgenza di farlo?

Fatelo! Scrivete di lui, disegnatelo, lasciatevi ispirare dalle sue trame di mistero per la creazione di un’opera d’arte che, tuttavia, lascerete incompiuta.

Perché nessuno deve sapere cos’è, o cosa non è, tutto questo. È un segreto tra me e voi, cari lettori.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Il sesto scontro è terminato. Effettivamente Dante non aveva scampo contro Hastur

 

 

“NO !!”

Un urlo proveniente da un’anima vibrante più forte di tutta quella follia, e di quell’orrore, polverizzò la così banale fine che tutti avevano accettato.

Hastur, colto alla sprovvista, si irrigidì. Prima ancora di voltarsi, però, percepì un forte calore attraversargli il tessuto giallo che vestiva.

“F-Fuoco ?!” Urlarono i presentatori. Accennavano ad una presenza danzante al centro dell’arena, di colore rosso fiamma, che si agitava e cresceva di intensità davanti agli sguardi stupefatti di tutti.

Ma, nonostante il calore emesso, non si trattava di fuoco: era un’aura, fumosa ed intangibile, che avvolgeva un corpo in procinto di sollevarsi da terra.

 

“Cosa diavolo sta succedendo ?!” Urlò Boudicca, sporgendosi oltre la balaustra. “Non era… morto ?!

“Affatto.” Gli rispose, sorprendentemente, il dio misterioso. L’essere infido era apparso tra loro solo per mostrargli quanto fosse soddisfatto il suo sogghigno.

“Era solo svenuto.”

 

Ed il corpo che si alzò in piedi, circondato da quel vapore incandescente, mostrò un sorriso altrettanto compiaciuto. Tuttavia, la sua soddisfazione derivava soltanto dall’immensa sete di sangue che emanavano i suoi occhi fiammeggianti, e che esigeva venisse soddisfatta.

La terra si squarciò, e dalle profondità di un buco senza fine fuoriuscì una malsana creazione: fatta di sole ossa gigantesche e terminante con un teschio dalla cui bocca aperta spuntava una larga lama, quella falce venne impugnata senza remore dalla mano del suo proprietario.  

Dante, ormai con il volto attraversato da scaglie di pietra lavica, tirò fuori la lingua per sbeffeggiare ancor di più il suo avversario: “Forma dell’Inferno” sibilò tra le risate.

“E ora vediamo… che razza di storia si può tirare fuori da questo scontro !”

 

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Capitolo 22
*** Chapter 22: Tragicomedy ***


Chapter 22: Tragicomedy

L’essere umano che ora calcava con il suo passo il campo di battaglia era qualcosa di completamente diverso rispetto a prima. Il cappuccio del suo giaccone era calato appena sulla testa, gettando un’ombra che però non smorzava l’intensità dei suoi occhi, brillanti anche nel buio.

 

“Che cosa è successo a Dante ?!” Strillò per prima la moglie del poeta, per poi venir seguita da un vociare confuso di tutta l’umanità.

Un’altra voce che si levò sconvolta fu quella del nobilastro Filippo Argenti, il quale per poco non si ribaltò dal suo posto, nello sporgersi in avanti: “E da dove… e da dove…” balbettava, rauco “E da dove salta fuori quello lì ?!”

Dalla sua reazione sembrava che non avesse visto nulla del genere, tuttavia un’ombra di angoscia e spavento nei suoi occhi lasciava presagire qualcosa di molto più oscuro.

 

Seconda metà del XIII, circa.  

Nessuno a Firenze si sarebbe mai aspettato di radunarsi di fronte a due importanti case per assistere ad un tale litigio. Certo, tra i vicini Alighieri e Adimari non era mai corso buon sangue, ma il più irruento della seconda casata aveva deciso quel giorni di dare spettacolo prendendosela con il più insospettabile di tutti: Dante Alighieri.

Il giovane letterato era stato afferrato per il colletto e tenuto contro una parete dalle possenti mani guantate di Filippo. L’uomo era detto Argenti perché si bardava proprio in quel modo scintillante, assieme al suo cavallo, e nell’argento Dante vedeva riflesso il suo stesso viso madido di sudore ed impaurito.

“Ma cosa mi combini, eh? Ma cosa mi combini, Dante ?!” Strillava Filippo, sbattendolo come un pupazzo contro il muro. “Mi vuoi rovinare?! Vuoi umiliarmi ?!”

Era furioso, e come un ossesso non dava nemmeno tempo all’altro di fiatare. La gente lì attorno temeva che presto la faccenda si sarebbe risolta nel peggiore dei modi, ma non avrebbero comunque potuto intervenire: tutti temevano Filippo Argenti, e subire la sua furia per essersi intromessi non avrebbe giovato a nessuno.

“I-Io… ho fatto ciò che dovevo fare.” Rispose comunque, coraggiosamente, Dante. In realtà la fifa che lo assaliva e lo faceva tremare come una foglia sarebbe appartenuta a ben altro che ad un coraggioso, ma comunque sia aveva trovato la forza di parlare.

L’altro non reagì bene, ed anzi sembrò peggiorare nel suo umore già nero: “Cosa dici, codardo di merda?! Io ti avevo chiesto di andare dal giudice per farmi assolvere da tutte quelle denunce, ma tu invece hai solo aggiunto altri capi d’accusa! Ti rendi conto di quanto mi tocca pagare, con una multa del genere ?!”

Le labbra secche di Dante si contrassero per qualche istante, serrate. Dopodiché, venendo inumidite da una passata di lingua, si curvarono in uno sforzato sorriso: il poeta stava dando il meglio di sé per apparire disinvolto, al punto addirittura di sollevare il mento per guardare Filippo dall’alto verso il basso.

“Non è colpa mia se tu sei solo un bifolco, un prepotente, che solerte  se la prende con la brava gente, e che solo di violenza di diverte.”  

Ed in quel momento, al centro di tali occhi così spavaldi, Filippo aveva intravisto una luce tenue ma pericolosa.

Con uno schiaffo in pieno viso aveva provato a cancellare quello sguardo che talmente tanto lo disturbava, eppure anche dopo aver scaraventato il poeta a terra, quello gli aveva rivolto la stessa occhiata minacciosa.

Tutti coloro che non si erano accorti di quanto fosse successo, si domandarono come mai dopo quel giorno i due non avessero più litigato, né perché Filippo Argenti avesse smesso di anche solo avvicinarsi a Dante.

 

Ladies and gentlemen, abbiamo appena assistito ad una trasformazione vera e propria !” Gridò Adramelech, e poi St.Peter “È qualcosa che si riterrebbe impossibile per un umano, normalmente! Che sia merito di qualche potere speciale ?”

Ed il dio misterioso, il quale stava assistendo al perfetto svolgimento dei suoi piani, sorrise malignamente come per voler rispondere. Gli sguardi di Boudicca, Charlotte e Guy Fawkes erano puntati su di lui.

“La Sefirot Binah… ovvero Conoscenza.” Le sue pupille sprizzavano fiamme per l’eccitazione, completamente catturato da quella visione stupefacente che aveva fatto ammutolire tutti, persino gli dèi.

“Adesso ha anche lui un’arma per ferire un dio. Vediamo come ve la cavate …”

 

Intanto Dante, nella sua appena annunciata Forma dell’Inferno, inclinò la testa con sorpresa nel vedere il suo nemico ancora immobile. Si era appoggiato la falce sulla spalla.

“Che ti prende, non vuoi farti sotto? Ma si può sapere cosa saresti: il personaggio di un libro, o di una saga? Mah, forse…” Strinse i pugni attorno all’estremità dell’impugnatura, ed in quella torsione le sue braccia si gonfiarono come dei palloncini di muscoli e vene: “…sei una mezza…saga !”

E si slanciò in un fendente, ignorando la distanza che lo separava dall’avversario. Questo perché, sorprendentemente, l’asta dell’arma si allungò  in modo fluido e sinuoso, come una frusta.

Non potendo in nessun modo prevederlo, Hastur venne trafitto dalla lama in pieno petto, contraendosi per l’impatto del colpo.

“Colpito !” Sussultarono gli annunciatori, assieme agli dèi, spaventati.

Tuttavia scoprirono presto che nulla di tutto ciò fosse in realtà possibile. Questo perché l’esistenza stessa del Re Giallo era un ammasso di follia incomprensibile, e allo stesso modo il tessuto del creato si piegava per assecondare quella natura inafferrabile.

Dai brandelli del tessuto lacerato, proprio dove nasceva la ferita, sgorgò fuori una figura strisciante: un altro Hastur, uguale al fantoccio che aveva lasciato come fanno le cicale con la vecchia pelle, iniziò a risalire l’arma di Dante per raggiungerlo alla velocità di un proiettile.

In quel modo il poeta, seppur avesse iniziato a ritirare a sé la frusta, non sarebbe riuscito in nessun modo a colpirlo con la stessa arma. Tutto ciò, unito allo shock iniziale di non aver ottenuto nessun risultato nonostante avesse colpito in pieno il suo nemico, avrebbe sconvolto un qualsiasi uomo al punto da paralizzarlo per la paura.

E probabilmente il Dante di poco prima sarebbe stato ridotto così, ma la sua nuova forma reagì a quella situazione impensabile con un ghigno da squalo: “Finalmente ti fai sotto !”

Una mano si staccò dall’impugnatura per formare un pugno solido e compatto, come un meteorite gremito da crepe vascolari pronto all’impatto con il nemico che gli era venuto contro.

“Pensi di avermi colto impreparato ?”

Aveva visualizzato la vittoria già davanti a sé, così non riuscì nemmeno a vedere Hastur reagire prontamente a quella sua azione. Il Re Giallo, infatti, aveva avuto tutto il tempo di vedere il suo attacco partire, e preparare una contromossa: sollevando un lembo di mantello vi lasciò sbucare un braccio nero come la pece, con un pugno molto più veloce di quello del poeta. Lo anticipò, infatti, segnando un colpo pulito in pieno volto.

 

“Allo scambio di colpi ha vinto… Hastur !!”

Tutti assistettero alla visione della faccia di Dante, dapprima deformata in un sorriso vittorioso, e poi deformata dal colpo che la percosse.

Dopodiché i due sfidanti vennero scagliati all’indietro, conficcandosi in due pareti opposte.

Le esultanze delle divinità si bloccarono sul nascere, rimanendo confusi ed esterrefatti quanto gli esseri umani. Non erano riusciti a comprendere cosa fosse successo, allo stesso modo di Adramelech e di St.Peter, che infatti ora boccheggiavano sul microfono.

“Che cosa…?! R-Rivediamo la scena !” E riprodussero il filmato con tanto di moviola di quello che tutti avevano visto.

Senza dubbio, il colpo di Hastur aveva centrato il bersaglio prima di quello di Dante, mentre addirittura l’uomo non era nemmeno riuscito a sfiorarlo. Tuttavia, allo stesso tempo, in perfetta contemporanea, tutti e due erano stati scaraventati in direzioni opposte.

Nuovamente sorridente, il dio misterioso si accarezzava le punte delle dita davanti al volto, seduto con i gomiti puntati sulla balaustra.

 

Tra l’incomprensione generale, Hastur si distaccò per prima dal muro nel quale era stato incastonato. Parte del suo cappuccio era stata distrutta, ma iniziò a rigenerarsi subito grazie ad una mucosa nera.

Stava benissimo, ciò nonostante non era riuscito a comprendere cosa avesse colpito il suo volto. Guardò davanti a sé, e dall’altro lato dell’arena trovò Dante, anch’egli in piedi. L’uomo sorrideva come prima, senza nemmeno un graffio.

“E quello lo chiamavi pugno? Sono sicuro che quella meretrice di tua madre me lo avrebbe dato più forte !” Esplodendo in una risata goliardica, si lanciò in aria per cogliere di sorpresa l’avversario con un attacco dall’alto. La sua arma frustò l’aria, piombando verso il basso come un fulmine dal cielo.

Tuttavia, per la seconda volta, Hastur riuscì ad anticiparlo: ormai aveva compreso la massima estensione dell’arma nemica, e sicuro della lunghezza dei suoi tentacoli, poté interrompere l’attacco scagliandoli verso l’alto. Le nere estensioni si moltiplicarono in volo, formando come un’orrenda rupe appuntita, la cui sommità si conficcò in pieno nel petto di Dante.

L’uomo, bloccato a mezz’aria, sputò sangue, pietrificato in un’espressione di sorpresa mentre i suoi occhi si facevano bianchi e lattiginosi.

E, altrettanto sanguinante e sorpreso, divenne Hastur quando d’improvviso un gigantesco squarcio si formò al centro del suo corpo. Polpa viscida schizzò al posto del sangue, macchiando il terreno.

“Hastur… colpito un’altra volta! Ma cosa sta succedendo ?!” Urlava la folla divina, nel panico più totale.

Erano tutti così presi dalla ferita inspiegabile del dio, da essersi dimenticati di Dante.

In quel momento di confusione, il poeta aveva approfittato per reindirizzare la sua lama verso quei tentacoli che lo avevano perforato. Con un paio di sferzate perfette, ignorando il dolore, se ne liberò. Ora che non era più sospeso nel cielo, iniziò a precipitare verso il suo avversario.

Il Re Giallo, impegnato fino a quel momento nel rigenerarsi in fretta e furia, alzò lo sguardo per intravedere appena il colpo che stava calando sulla sua testa. Eresse all’ultimo dei tentacoli per difendersi, ma questi vennero mozzati.

Senza quell’ostacolo, gli sguardi dei due combattenti si incrociarono.

Dante rideva malignamente, corroso da una sete di sangue e ferocia assurda, mentre Hastur non lasciava trapelare alcuna emozione da sotto il suo cappuccio oscuro.

 

Ed, illeggibile come il suo volto, erano anche i suoi piani: insospettabilmente, i tentacoli che aveva perso iniziarono a contorcersi per terra, come se avessero vita propria. Dalle estremità mozzate spuntò una bocca famelica e gremita di denti affilati, i quali si indirizzarono all’istante sulla carne della loro preda.

Il sommo poeta, colto alla sprovvista, venne azzannato in più punti. La sua carne venne squarciata da quelle fauci, alcune delle quali gli si chiusero attorno al braccio armato, rendendogli così impossibile sferrare un altro colpo. Muscoli, tendini, vene e ossa: tutto il suo corpo divenne il pasto di quelle creature orripilanti.

Tuttavia, ora era il suo volto ad essere impassibile.

Hastur lo notò, e non riuscì più a capacitarsi di cosa stesse accadendo. Poi il dolore lo colse, struggente ed improvviso come era già avvenuto due volte prima. Abbassò lo sguardo, distinguendo il suo corpo squarciato in più punti, come se una mano invisibile lo stesse smembrando.

Lo raggiunse la voce di Dante, maliziosamente derisoria: “Buon appetito, coglione.”

Il Re Giallo, forse più colto da un istinto di sopravvivenza, che dalla realizzazione di quello che era successo, fece svanire nel nulla le bocche che stavano divorando Dante. Il corpo dell’uomo venne svelato: la carne gli era stata divorata quasi del tutto, mostrando alcune ossa scoperte o pezzi di organi con segni di morsi. Eppure, continuava a sorridere come se nulla fosse.

Sotto gli occhi di tutti, messo ormai a nudo, il suo corpo si rigenerò. Tessuti e fibre ricrebbero, riparando i danni in un perfetto lavoro, ammaliante per quanto era curato.

“Rigenerazione ?!” Sussultarono gli umani, i quali, come tutti, stavano ricordando un evento di due scontri fa. “Anche lui ha lo stesso potere di Prometheus ?!”

Non si concentrarono così su di un altro importantissimo dettaglio: in contemporanea con la rigenerazione di Dante, anche quella di Hastur stava prendendo atto, senza più che il suo corpo venisse danneggiato.

I combattenti si guardavano l’un l’altro in una spaventosa calma che lasciava presagire solo un’altra tempesta imminente.

 

“Tu …” La voce flebile di Hastur riprese a suonare nell’arena dopo diverso tempo. “Puoi riflettere sul mio corpo le stesse ferite che ti infliggo.”

La constatazione era stata chiara e schietta, ma talmente tanto che il poeta scoppiò a ridere. Rise e rise a pieni polmoni, gonfiandosi il petto ed inarcando la schiena all’indietro mentre si era puntato i pugni sui fianchi.

Poi, di colpo, si raddrizzò per guardare in faccia il suo avversario ed il suo sguardo si fece serio.

“ Esatto, pezzo di merda: il mio Contrappasso mi permette di restituirti ogni danno che mi fai! E sai qual è la cosa migliore? Che, siccome il mio corpo ed il tuo diventano la stessa cosa, posso sfruttare la tua rigenerazione per azzerare qualsiasi danno mortale !”

Apparentemente impassibile a tutto quel discorso, Hastur parlò in modo pensoso: “Ah sì. Però ti sei dimenticato una cosa, che io invece ho capito …”

Dall’oscurità che componeva il suo volto si accesero due tizzoni, splendenti come fari nella notte: erano occhi terrificanti, con i quali trafisse l’uomo come una sentenza di morte. La sua voce stavolta tuonò come un boato in una caverna.

“Non puoi restituirmi il danno che ti infliggo all’istante. Ciò vuol dire che, distruggendoti fino all’ultima cellula in un solo colpo, non dovrei più sorbirmi quel tuo odioso sorriso !!”

In quel momento, finalmente, l’espressione ridente di Dante si incrinò, infrangendosi sotto quella disturbante irregolarità. Percepì il suo corpo come un castello di carte che stava venendo minacciato da un vento impetuoso.

I due si mossero in contemporanea:

Hastur concentrò tutti i tentacoli che potesse davanti a sé, scagliandoli in avanti in un moto ondeggiante. Prima lento, poi rapido, era una folle danza incalzante ed imprevedibile.

Il Vate però aveva già proteso la sua frusta in un attacco frontale, il quale bastò per squarciare quell’onda e raggiungere il suo bersaglio. Il giallo si ritrovò improvvisamente con la lama della falce alla gola, mentre tutta l’impugnatura si era avviluppata attorno al suo corpo.

Sarebbe bastata la minima trazione del polso di Dante per decapitarlo, ed era proprio ciò che Dante aveva deciso, ma nel farlo sottovalutò il suo avversario: non poté immaginarsi che l’attacco di Hastur non si sarebbe affatto arrestato, ed infatti si ritrovò travolto da quei tentacoli. Sommerso, affossato, annegato, sparì sotto un flutto nero.

Nell’attesa trepidante, gli umani esplosero in un grido terrorizzato. E poi un secondo, più sollevato, quando la testa del poeta emerse, mostrandosi sano e salvo.

“Ommioddio! Che sta succedendo ?!” Queste furono le prime parole che pronunciò, sorprendendo chiunque, persino Hastur.

L’uomo pareva aver perso di colpo tutta la grinta che possedeva fino ad un istante prima, ed ora si guardava attorno colto dal panico, realizzando in che situazione fosse. Lanciando suppliche e sguardi imploranti a destra e a manca, scorse d’un tratto l’impugnatura della sua arma sbucare dai tentacoli, anch’essa non ancora affondata.

Prima che venisse persa per sempre, in un disperato sforzo riuscì ad afferrarla. Di colpo paure e dubbi sparirono dai suoi occhi.

Il Re Giallo si tese come una corda di violino, ma troppo tardi: a causa del Contrappasso si era immobilizzato con il suo stesso attacco. Nemmeno un secondo dopo la frusta si strinse attorno al suo corpo per poi sferzargli la gola. L’arma si librò in aria come un serpente rampante, facendo piovere gocce di poltiglia sul campo di battaglia.

I tentacoli di Hastur, ormai innocui, vennero scostati da Dante mentre si rialzava. Al contempo, la testa del Re Giallo cadde al suolo, ruzzolando poco più in là.

“Viscido… bastardo.” Il poeta Infernale sputò per terra, ringhiando sprezzante per il rischio che aveva corso.

O forse, il suo odio era indirizzato verso il corpo decapitato del suo avversario. Guardò dove si sarebbe dovuta trovare la testa, ma al suo posto c’era solo uno straccio accasciato al suolo.

 

Ladies and gentlemen! Nonostante l’ennesimo scambio di colpi… lo scontro non sembra affatto concluso !” Persino St.Peter ed Adramalech fecero fatica a parlare, siccome anche loro erano stati investiti dall’improvvisa aura opprimente che stava imperversando lungo tutto il colosseo.

Mai nessuno aveva visto così tanti dèi tremare di paura, mentre gli esseri umani, già abituati a quel genere di terrore schiacciante, compresero immediatamente di essere di fronte alla tanto temuta ira divina.

La sequenza liturgica “Dies irae” sarebbe stata perfettamente adeguata, mentre spettatori di ogni schieramento sembravano venir spazzati via da una tempesta di oscurità e tenebre, la quale minacciava di coprire per la seconda volta la luce solare.

Tutta quella catastrofe aveva un epicentro ben preciso: il mantello giallo di Hastur, che ora svolazzava all’aria come una bandiera al vento. Infine, proprio quel panno lacero si librò in aria, svelando la misteriosa presenza del dio.

“Hai compiuto il più grande errore della tua vita… ma felicitati… perché sarà anche l’ultimo: quando ti sarò entrato sotto la pelle, nel più profondo dei tuoi pensieri, non godrai più della libertà di scelta, ma sarai condannato ad eterni incubi di tortura !”

Una grottesca figura si sollevò da terra in modo convulso ed impreciso, come se fosse uno scheletro che aveva appena appreso come muoversi. La sua carne era squamosa pietra giallognola, segnata da incisioni, rune, pelliccia ed altre scaglie che però grondavano poltiglia nera. Dalla sua schiena gonfia e gobba scaturiva come una cascata un mantello di tentacoli voluminosi. Gli arti erano scarni, secchi e terminanti in acuminati artigli. 

Ma ciò che più destava incubi, ed infestava la ragione dei presenti con orrende visioni, era il presunto vero volto di Hastur. Ancora una volta era nascosto, ma da una maschera gialla che imitava anche la figura di una corona, più simile però ad una cresta con in superficie centinaia di occhi neri. Quell’incubo tripofobico di  globi iniettati di sangue saettavano le loro pupille ovunque, nonostante il corpo della creatura avesse già iniziato ad avanzare, strisciando lenta ed inesorabile, verso il suo bersaglio.

 

Persino Dante era stato ancorato al suolo dalla presenza opprimente della vera forma del suo avversario, ed addirittura la sua ragione proiettò un’immagine rappresentativa di ciò che aveva di fronte: era come se tutte le belve più oscure ed assassine si fossero canalizzate in un’orda famelica  diretta verso di lui, provenendo dai cancelli appena spalancati dell’inferno.

E così, colto dalla paura e dalla sorpresa, non poté non svenire.

Il suo corpo esanime stramazzò al suolo, spezzando la tensione di quel momento con una mossa alquanto anticlimatica. Però, come ormai tutti sapevano, quella non era la fine della battaglia, ma solo l’inizio di un’altra fase.

“Forma del Purgatorio !”  

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Non vi ho ancora salutati a dovere in questo sesto scontro! Mea culpa.

Allora, Dante ed Hastur… ormai dovreste aver capito il filo conduttore che li lega, così come dovreste aver capito che a livello di forza sono quasi uguali. Questo non accadeva circa dallo scontro con Vlad, quindi mi fa render conto di quanta libertà mi sia preso nei precedenti due match.

Comunque sia, dopo la sua prima trasformazione Hastur ha assunto una nuova forma, che mi è stata ispirata da questa immagine: https://i.ibb.co/ThWts8f/hastur.jpg

Dante invece ha abbandonato quella falce che tanto lo rendeva simile al protagonista di Dante’s Inferno, per otterne un’altra… e (spoiler) adesso un’altra ancora. Insomma, sì, la natura della sua Sefirot non risiede nell’arma fisica, bensì nella sua capacità di trasformare Dante.

Ho detto troppo! Fatemi sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo di bbotteh!

A domani!

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Capitolo 23
*** Chapter 23: I Still Try To Find My Place ***


Chapter 23: I Still Try To Find My Place

Il dio misterioso assisteva a tutto ciò, e nel mentre il sorriso era sparito dalle sue labbra. Ripensava a quando, non molto tempo prima, aveva evocato Dante Alighieri per porlo nella sua schiera di combattenti.

 

A differenza di personalità più che entusiaste di prendere parte a quello scontro come Ramsess, il quale aveva subito iniziato a corteggiare Boudicca e Charlotte, o Masutatsu e Guy Fawkes, quel grigio uomo aveva fatto solo due cose: si era guardato attorno e poi, con la stessa espressione mesta, si era allontanato.

Non aveva una meta, perché quello era il capolinea dell’aldilà, eppure aveva preferito sottrarsi alla vista di chiunque.

Immediatamente il dio misterioso lo aveva inseguito, scioccato: “M-Ma… perché te ne vai? Ti sto dando l’opportunità di salvare l’umanità!”

Dante, sorprendentemente, si era fermato. Ma solo per voltarsi appena, rifilandogli un’occhiata solitaria e malinconica come un freddo pomeriggio piovoso. Nuvole grigie temporalesche scivolavano nei suoi occhi.

“Questo è il luogo oltre la vita?” Aveva domandato, al che l’altro gli aveva dovuto dare conferma. “E allora non c’è nulla per me qui, da vedere.”

“Cosa dici?” L’inseguimento era andato avanti per un po’ “Non ti interessa impedire che il genere umano venga distrutto dagli dèi?”

“Tempo fa… ti avrei detto no. Io? Salvare gli umani ed andare contro al volere degli dèi? Certo che no, mai e poi mai mi sarei sognato una simile blasfemia… eppure ora che posso vedere davvero com’è il mondo dopo la morte, mi rendo conto di quante cose ho pensato erroneamente. Giusti e corrotti, eroi e malvagi, radunati nello stesso luogo e con uguali possibilità… non esistono infedeli, non esistono pene, né salvezze eterne.” Aveva strizzato quegli occhi tristi: “Siamo tutti uguali sotto un cielo che non ci accetta.”

“Proprio per questo dovresti impedire una simile brutalità, ora che ne hai l’occasione !”

“Ma… perché? Questo mondo non potrebbe semplicemente… finire ?”

 

Eppure dopo… era successo qualcosa.

Il dio misterioso era perso ancora in quel ricordo, quando l’immediatezza di una scena incredibile lo distrasse.

 

La seconda trasformazione di Dante era stata accompagnata da una luce tenue, ma che inspiegabilmente sembrava aver catturato tutti i colori circostanti per rendere l’atmosfera ancor più grigia e smunta. Sembrava come se una ballata lenta risuonasse nell’aria morta, alla danza delle vesti del poeta, ora di un rosso pallido. Le scaglie laviche sulla sua pelle erano scomparse, lasciando posto ad una pelle cinerea, attraversata da crepe, come su di un viso di porcellana infranto.

Anche l’arma tra le sue mani era cambiata: non più una frusta, ma costituita da una lunga e rigida impugnatura e terminante con due lame ricurve che quasi si chiudevano a cerchio, come una falce di luna.

“Forma del Purgatorio !” Così aveva esclamato.

Hastur non si era lasciato impressionare, ma anzi continuava a covare rantolii disgustosi, strisciando a destra e a sinistra. Entrambi, nella loro calma riflessiva, si stavano preparando ad attaccare.

 

“La tensione è palpabile, ladies and gentlemen!” Urlarono gli annunciatori “Entrambi gli sfidanti si sono svelati in una nuova forma! Chissà quali nuove sorprese ci potranno riservare ?!”

Ed in un attimo, tutto riprese:

Hastur spalancò tutti i suoi occhi, puntandoli su Dante. Fu come se un ghigno si fosse spalancato nell’oscurità sotto la sua maschera, dopodiché scomparve.

Si materializzò sussurrando parole arcane e proibite alle spalle del poeta, il quale per la sorpresa dovette spiccare un balzo ed allontanarsi.

“Si allontana! Dante Alighieri ha smesso di contrattaccare?!”

Non appena però l’uomo rimise piede per terra, quella figura inquietante gli apparve sopra la testa, mulinando i suoi tentacoli in aria. Lui riuscì ad evitarli, osservandoli schiantarsi sul suolo che calpestava un istante prima. Il terreno era stato schiacciato, diventando una profonda spaccatura, simile ad un’impronta animale: gli attacchi di Hastur si erano fatti più pesanti, ma non per questo meno veloci e letali.

Ogni volta che Dante si spostava, il Re Giallo  spariva dalla sua visuale per materializzarsi nei suoi angoli ciechi. Il lasso di tempo tra l’apparizione e l’attacco che ne seguiva era sempre lo stesso, tuttavia il poeta non poteva sempre schivare alla stessa velocità, né riprendere a muoversi con la stessa immediatezza. Vedendosi quasi sfiorare da quei tentacoli distruttivi, con la pressione dell’aria che esplodeva in boati a pochi millimetri dai suoi timpani, poteva sentirsi al centro di un ciclone in costante movimento.

Se si fosse spostato da un piccolissimo spazio sicuro, sarebbe stato travolto da quei flutti oscuri.

“Dante …” Mormorò in apprensione sua moglie Gemma, stringendo le mani come in segno di preghiera. Anche tutta l’umanità si contorceva nella preoccupazione che se mai quegli attacchi avessero centrato il loro campione, tutto sarebbe stato perduto.

Purtroppo, quando tutti meno se lo aspettarono, avvenne: un tentacolo finalmente riuscì a sfiorare Dante. Fu un tocco leggerissimo, appena accennato e che coprì a stento una superficie di un millimetro sulla spalla dell’uomo. Tuttavia, un secondo dopo, da quel punto esplose un fiotto di sangue che andò a macchiare la maschera giallastra di Hastur.

Gli occhi del Re Giallo riflessero quel colore cremisi, e divennero lucidi per le lacrime di commozione, nell’euforia di quella piacevole vista.

Ci fu solo un sussurro: “Ti… ho… preso… che… bello …”

Il poeta impallidì sotto quel mostruoso sguardo, e dovette far fronte ad una paura viscerale appena sorta in sé per muoversi con ancora più velocità. Spinse il suo corpo al limite, fronteggiando degli attacchi ora altrettanto più rapidi e frenetici.

“Lo avete visto ?” Si dissero intanto gli déi. Un sogghigno collettivo si sparse tra di loro, venendo percepito come una minaccia per la razza umana. Ed effettivamente, il motivo di tanto giubilo, era qualcosa di cui fu impossibile non preoccuparsi: Hastur non era stato ferito.

Nonostante il colpo portato a segno, a differenze delle volte precedenti, stavolta non gli era stato restituito e così il dio aveva potuto continuare ad attaccare con sempre più foga.

Ed ora, nonostante gli sforzi sovrumani del poeta, quegli attacchi avevano iniziato a collidere sempre più frequentemente, sollevando altri schizzi di sangue nell’aria. Altre gocce rosse sulla maschera gialla di Hastur, che ormai era diventato solo un incubo di caos e follia.

I suoi movimenti erano come una tempesta di oscurità, qualcosa che in natura non si era mai visto e non sarebbe mai potuto esistere.

 

“È… la… fine …” Così fu tutto ciò che si sentì pronunciare dalla bocca di Hastur, quando affondò tutti i suoi tentacoli, uniti per formare una gigantesca lancia nera, contro il suo bersaglio.

E quei tentacoli, così come erano stati scagliati, vennero afferrati e bloccati nell’arma di Dante.

“La fine ?” Ripeté la voce del poeta. Non era di certo la voce di qualcuno che si era arreso, ed anzi fuoriusciva da una bocca incrinata appena in un sorrisetto spavaldo.

Di fronte a quell’espressione beffarda Hastur, e tutti gli déi, sussultarono per lo shock.

L’arma di Dante, simile non per altro ad un’arma medievale europea utilizzata per catturare criminali a distanza, aveva serrato le sue lame attorno agli arti di Hastur, lasciando le loro punte appena a qualche centimetro di distanza dalla sua faccia. Quando la scostò, poté rivelare il suo volto al nemico, spiazzandolo con uno sguardo tagliente. “Questo è solo l’inizio… della tua fine !”

E mentre la divinità si rendeva conto di essere caduta in trappola della sua stessa avidità, il poeta si era già mosso, più veloce di quanto prima avesse finto di schivare: dopo essersi voltato di centoottanta grandi, aveva sollevato l’arma soltanto per poi schiantarla a terra, e con essa sbatté al suolo anche Hastur.

Producendo uno schioppo viscido, come un polpo schiacciato su di uno scoglio, l’armatura del Re Giallo si crepò, spaccandosi in più punti. La confusione sorprendentemente non gli lasciò percepire alcun dolore, ma quando provò a rialzarsi sentì il mondo vorticare fin troppo velocemente attorno a sé.

Sfruttando quell’esitazione, l’arma di Dante lo liberò dalla presa, soltanto per potergli indirizzare un colpo portato con l’asta in piena gola. Mentre Hastur finiva lungo disteso a terra, vide il poeta stagliarsi su di lui, con alle spalle il sole.

“Alzati.” Ordinò, con una calma feroce.

E la divinità provò realmente ad alzarsi, ma quando volle posare la mano per terra, questa gli venne scostata dalla punta del bastone nemico. Mentre, sbilanciato, ricadeva al suolo, Dante lo intercettò con una sferzata di colpi talmente tanto rapidi da poter essere visti a fatica da occhio umano.

Stavolta fu il volto di Hastur a venir schiacciato al suolo, e da quella prospettiva percepì davvero il peso del mondo gravargli addosso, schiacciandolo e calpestandolo in una valanga di disgrazia.

“Hastur rimane giù  !” Urlava la folla degli umani, quando anche i presentatori annunciavano: “Il Re Giallo viene costretto al tappeto e non sembra più rialzarsi! Astonishing! Che sia il momento di suonare già la campana di fine scontro ?”

 

Ed Hastur a tutti gli effetti rimaneva a tappeto, pressato dalla tensione che emanava quell’umano di fronte a sé.
In quel silenzio snervante, nel suo placido ed immobile riposo, immaginò una miriade di situazioni: come rialzarsi, riprendere l’attacco, ribaltare la sua condizione. Tutte quelle infinite possibilità, però, venivano annullate nella sua mente prima ancora di poter essere realizzate.

Tutto questo a causa di Dante, il quale semplicemente inchiodandolo al suolo con lo sguardo, riusciva ad instillargli l’idea che, qualsiasi cosa avesse voluto fare, lui l’avrebbe interrotta. Lo aveva già fatto, d’altronde. E non solo quando aveva intrappolato i suoi tentacoli, o quando gli aveva impedito di poggiare la mano a terra per rialzarsi.

“Sembra che tu abbia capito che ogni mia forma possieda un’abilità differente.” La voce dell’uomo interruppe quel flusso di pensieri. Era grave e terrificante.

“Non posso essere più protetto dal Contrappasso, ma… con la Previsione, ogni tuo attacco contro di me viene vanificato. Anche quando prima ho finto di farmi mettere alle strette solo per afferrarti, ho neutralizzato i tuoi attacchi, intercettandoli per ridurne la potenza.” E si sfiorò quelli che prima tutti pensavano fossero gravi ferite, ma in realtà erano solo piccoli graffi.

Una volta macchiatosi il pollice di sangue, se lo portò alla bocca per poi asciugarselo con la lingua. Intanto il suo sguardo si era indurito, proclamando una minaccia dal suo cuore di roccia:

“Ti giuro che ti distruggerò, Hastur !”

 

Mentre la folla umana esultava, inneggiando al loro rinato eroe, c’era qualcuno che in silenzio continuava a rimuginare. Il dio misterioso, nonostante avesse al suo fianco Charlotte che si esibiva in piroette vorticanti con la sua larga gonna, non aveva voglia di festeggiare.

-Ha cambiato idea, rispetto a prima… e questo soltanto perché …-

Quando lui e Dante avevano parlato, ed il poeta aveva espresso il suo assoluto rifiuto, si era protratto un lungo silenzio.

 

“In tutta la mia vita, tra tutte le inenarrabili vicissitudini che ha passato questo corpo marchiato dal dolore, dal tradimento e dall’umiliazione, mai c’è stato un palliativo che potesse placare i tormenti della mia anima… più del suo sguardo.

La incontrai quando avevo nove anni. Pioveva, era una giornata fredda, ma né l’acqua né il gelo mi potevano tangere, perché c’era quel focolare a riscaldarmi: lei sorrideva. Lei era bellissima, portava la primavera dove c’era l’inverno, e la pace nel mio cuore.

Dal secondo successivo, quando i nostri sguardi smisero di incontrarsi, iniziai a soffrire. Non potevo sapere il perché, e pensavo fosse ingiusta una simile condanna, ma fu ciò con cui convissi per lunghi anni.

Ero arrivato al punto da odiare quella situazione, quasi maledicendo il motivo per cui… no. Non avrei potuto.

Poi passarono altri nove anni, e tornò la primavera.

“Tanto gentile e tanto onesta pare”

Ma cosa mi saltava in testa? Non avrei potuto scrivere di peggio, un insulto più deprecabile per confinare quella bellezza a delle parole così mediocri. Non sarei mai riuscito a descriverla.

Era indefinibile, inafferrabile, incomprensibile. Vederla mi riempiva gli occhi di lacrime ed il cuore di urla. Lacrime ed urla di gioia? Di paura? Entrambe: gioivo incredibilmente di quella visione, ma temevo l’istante in cui l’avrei persa di nuovo.

E si trattava solo di un saluto. Un incontro fugace per le strade di quella città che condividevamo, nonostante lei sembrasse provenire ogni volta dal più alto dell’Elisio.

Cosa avrei potuto fare io, se non limitarmi a rispondere al suo saluto? Non ero… non sono mai stato nessuno al suo cospetto. Anche se fossi stato re o imperatore, sono sicuro che avrei sempre tremato, esitato, sentendo la sua voce ed incontrando il suo sorriso.

Ma tanto, alla fine, non sono mai stato nessuno: un insignificante volto per lei, tra tanti in mezzo alla strada. Mi chiedo cosa penserebbe se scoprisse quanti pensieri le ho dedicato, quante lacrime strazianti per la disperazione, quanti atroci dolori consumati nel silenzio della mia anonima vita.

Forse ne sarebbe spaventata. Forse ne sarebbe disgustata. Il mio amore le farebbe paura, le farebbe male.

E se così fosse, e solo allora, io mi sentirei peggio di quanto mai mi sia sentito in vita mia: non potrei vivere in un mondo così. Mi dispiace se posso farti paura, per questo io rimarrò solo un volto che incontrerai casualmente per la strada. Per favore però, ti chiedo solo di non smettere di salutarmi.”

 

E dopo giorni, anni, secoli, millenni… lui aveva smesso di ripensare a quella pagina bruciata e persa per sempre. Dante teneva lo sguardo basso sul terreno, non osava alzarlo ancora.

Prima era stato azzardato, spregiudicato: quel darsi le arie solo per buttare un occhio tra gli spalti dell’umanità e cercare quella persona. Avrebbe dovuto vergognarsi.

In fondo al suo cuore sapeva che, se davvero l’avesse rivista in quella situazione, e dopo ciò che era diventato, avrebbe preferito condannare se stesso piuttosto che  spezzare l’illusione della sua anonima vita e scoprire davvero cosa lei pensava di lui. Non avrebbe voluto saperlo.

Forse avrebbe vinto e salvato l’umanità, oppure tutto il genere umano si sarebbe estinto, ma non era questo l’importante: lui avrebbe continuato a non voler sapere niente.

 

“Distruggermi? Ma… cosa vuoi distruggere, davvero ?”

Si era distratto. Appena si rese conto di quel dettaglio, il poeta recuperò la concentrazione per guardare davanti a sé. Vide solo il terreno, come se non avesse mai davvero alzato lo sguardo.

“Il mio dominio è la follia.”

Hastur era dietro di lui, eppure quando si voltò non trovò nulla. Un eco, un sussurro alle sue spalle, ma poi ancora il vuoto. Ovunque si voltasse, poteva a stento sfiorare un’immagine evanescente, che strisciava fuori dalla sua visuale e spariva ancora ed ancora.

“E la follia non può che nascere dal genio, dalla creatività, da un intelletto superiore ed ispirato.”

Stufo di quell’incalzante voce che lo perseguitava, Dante decise di fare uso della sua Previsione per individuare l’avversario. Così fece, ma quando si voltò, tutto venne interrotto da un fragore quasi metallico.

Gli spettatori sussultarono per lo spavento.

Nessuno di loro aveva potuto prevedere quel tentacolo appena fuoriuscito dal terreno, al di sotto di Dante. E, a dirla tutta, nemmeno il poeta l’aveva davvero previsto.

Aveva sollevato l’arma in tempo per parare il colpo, che ora però rimaneva a pochissima distanza dal suo viso.

-Ho solo… reagito per istinto.- Sentiva la sua testa venir stretta in una morsa, mentre le vene sulla sua fronte pulsavano in una tensione febbrile.

Poi ne arrivò un altro, da una direzione ignota. Non riuscì nemmeno a vederlo stavolta, ma spazzò la sua asta in un movimento circolare, e l’impatto del colpo bastò a sbalzarlo all’indietro.

“Così, mentre tu mi sottovalutavi… io ho trovato il modo perfetto per ucciderti !”

Quella voce ormai non aveva provenienza, ma esisteva in uno antro ameno, proibito da qualsiasi buon senso. Era capace di far sgorgare stille di sudore freddo sulla pelle di Dante, nel mentre veniva sorpreso da una scarica di nuovi, incessanti colpi misteriosi.

Una serie di attacchi che però era tutt’altro che insensata, siccome pareva seguire un ritmo, come un crescendo incessante, ma che a volte discendeva e poi risaliva rapidamente, vorticosamente, rovinosamente. Si sarebbe potuti impazzire solo nel provare a leggerne il pattern, eppure era ciò che il sommo poeta era costretto a fare pur di sopravvivere.

 

“È… l’ignoto.” Tra le grida spaventate dell’umanità, la voce tremante di H.P. Lovecraft parve risuonare. Aveva parlato con un che di malinconico, nonostante nei suoi occhi si riflettesse il terrore.

“La più antica e viscerale emozione dell’uomo è la paura, e la paura più antica e viscerale è quella… dell’ignoto.”

 

All’estremo di uno sforzo fisico sovrumano, Dante si rese conto che, per quanto riuscisse a prevedere i colpi all’ultimo istante, ne seguivano così tanti in contemporanea da esser fisicamente impossibile bloccarli tutti assieme.

Da destra e sinistra allo stesso tempo. Dall’alto e dal basso. Da sotto terra, da dietro le sue spalle, oltre la guardia dell’arma, completamente in un suo angolo cieco.

-Non… ci… !- Le lacrime gli inondavano gli occhi per lo sforzo. -… riesco !-

E fu allora, mentre tutto ciò lo aveva fatto indietreggiare sull’orlo di un precipizio, che intravide finalmente il vero volto del suo nemico.

 

Hastur era sospeso al centro dell’arena, con ormai un rimasuglio del suo cencio giallo che, animandosi, si espandeva alle sue spalle come i raggi di un sole pallido. La pelle che era stata rivelata avrebbe potuto appartenere ad un essere umano, ma la conformazione era così deforme ed aliena da essere quanto più dissimile da qualsiasi forma in natura. E poi c’era il volto… qualcosa di assolutamente insano, inenarrabile, disgustoso, oscuro, lugubre: la perdizione di tutti i sensi in un abisso di terrore.

“Universal Collapse !”

Da quel corpo scaturivano come acqua da un torrente infinità di tentacoli in ogni direzione. Alcuni si immergevano nella terra come radici, mentre altri venivano scagliati in cielo, oscurando la luce del sole in un arco che poi ricadeva verso il basso, eclissando anche Dante nella loro pioggia torrenziale.

Tutto veniva avvolto e straziato, come se violente pennellate di bitume cancellassero la luce di una tela bianca. Così, pezzo dopo pezzo, pennellate di sangue dopo urla di dolore, Dante iniziò a cedere.

Era stato spinto nella trappola del suo nemico, risucchiato in un turbine oscuro.

Guardò Hastur e pensò di scagliarsi contro di lui. I tentacoli lo avrebbero fatto a brandelli, ma forse avrebbe potuto fermarli semplicemente colpendo il suo avversario.

Quest’ultima speranza venne cancellata quando il Re Giallo perse ogni forma tangibile, diventando solo un’esplosione di tentacoli che, inevitabilmente, lo investì anche dall’unica direzione che riteneva sicura. Non esisteva più l’occhio del ciclone. Era tutto morte.

 

“Beatrice… perdonami.”

 

“So I'll stay unforgiven

And I'll keep love together

And I'll be yours forever

I'll sleep close to Heaven”

-“Close to Heaven”, Breaking Benjamin

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Il flashback di Dante, che rappresenta una pagina di una specie di diario segreto, è ispirato al testo della canzone “Creep” dei Radiohead. Mentre il nome del capitolo richiama il testo di “Diary of Jane”, dei Breaking Benjamin. Tuttavia la canzone che fa da tema a questo scontro è quella citata nel finale, ovvero “Close to Heaven”, sempre dei Breaking Benjamin.

Mentre, parlando di Hastur, vorrei specificare che lui non è solo una creatura di Lovecraft, né è stata inventata da lui (a stento appare, solo nominato, in un suo racconto, però poi è stato inserito tra i Grandi Antichi postumo alla morte di Lovecraft). Ecco perché non ho voluto dare questa autorità al personaggio dello scrittore. Vi consiglio vivamente di ricercare l’origine di Hastur, e di come la sua influenza abbia raggiunto Lovecraft.

Per il finale ci vediamo… a domani!

P.S: Alla fine credo proprio che il settimo scontro avrà un lieve ritardo, causa che il 25 ho l’esame. Dopo di allora avrò tutta l’estate per scrivere (ma diciamo pure tutta la vita, visto che voglio guadagnarmi da vivere come scrittore)

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Capitolo 24
*** Chapter 24: Tragicomedy (Final) ***


Chapter 24: Tragicomedy (Final)

“Quando moristi, portata via da quel drappo in fiamme, persino l’odore di fiori era appassito nell’aria.”

 

Non era semplicemente sangue che sgorgava, carne aperta e ossa rotte. Era un cuore trafitto da mille e più aghi di vergogna, che strillava ed implorava pietà, ma non riceveva salvezza.

Accasciato a terra come uno straccio, imbevuto ed annegato nel suo stesso sangue, Dante guardava solo il sole che era ritornato a splendere su di lui.

Il terreno tutto attorno era smosso, crepato, distrutto, solcato dai colpi di qualcosa di ben più forte di quanto un essere umano avrebbe potuto sopportare. Ed infatti il corpo del poeta, dilaniato in più punti e smembrato, era stato lasciato morire al sole come un pesce sul molo.

La fine più patetica che ci si sarebbe potuti aspettare.

L’odore di sangue e morte saliva fino alle tribune dell’umanità, dove occhi arrossati dal pianto giacevano immobili, osando a stento sperare per qualcosa di meno doloroso di tale visione.

Gemma Donati piangeva stringendo i suoi figli, che seppur troppo piccoli per capire, avrebbero solo voluto vedere il loro padre sorridere come una volta. Ed anche chi quel sorriso non l’aveva mai visto, come gli abitanti di Firenze, Filippo Argenti e Virgilio, ora piangevano commossi per quella fine incresciosa.

“Brutto bastardo !” Urlò d’un tratto proprio quel signorotto che lo aveva odiato in vita, e che era stato così disprezzato da Dante stesso. “Non ti azzardare a morire così! Che razza di onore stavi difendendo prima, eh?! Sarebbe questo? Quello di uno che si fa ammazzare ?!”

Le grida iraconde dell’Argenti, inspiegabilmente, alimentarono una fiamma nel petto degli altri spettatori.

Ben presto, tutti quelli che erano stati insultati e derisi dal poeta, ma anche tutti coloro che non lo avevano sopportato per niente, iniziarono a strillare con tono accusatorio.

“Mostra quanto vali, figluolo !” Esordì il poeta Virgilio, sollevando in aria i tre testi della Divina Commedia. Altri lo imitarono, facendo brillare alla luce del sole quell’opera che, innegabilmente, aveva unito per anni tutta l’umanità.

 

D’altro canto, gli dèi e persino Hastur assistevano a quella scena e non la reputavano più di quel che fosse davvero: tanto chiasso proveniente da dei disperati.

Ma, tra tutto quel boato assordante, una sola voce parve risuonare così nitida da poter esser stata forse l’unica davvero in tutta la folla:

“Dante …”

E Dante spalancò gli occhi.

Non fu lui a guardare il sole, ma una luce bianca lo investì, guardando dentro di sé e nel profondo della sua anima. Lì, dove una crepa aveva scisso la sua persona in tre dimensioni.

Inferno. Purgatorio, ed infine: -Paradiso-

Una vita che non aveva vissuto, un’avventura che nessuno avrebbe mai intrapreso. Tutto ciò però era esistito nella sua mente, all’interno di quell’anima ferita, e che solo attraverso un percorso di speranza e redenzione, ancora una volta, poteva formare un unico individuo.

Lui era Dante Alighieri, come quella voce lo chiamava.

“Forma del Paradiso !”

 

“Che cosa stai… ?!” Esclamò Hastur, vedendolo muoversi di colpo, nonostante la sua condizione. Il fiato gli si era bloccato però in gola, nel momento in cui il poeta si era messo a sedere, e puntando le mani per terra, accennava a volersi rialzare. Per aiutarsi utilizzava una gigantesca falce bianca, la stessa con la quale era entrato in campo, ma ora adornata con delle piccole ali piumate sull’attaccatura della lama.

Non era più quello di prima: adesso il volto era segnato lateralmente da delle piume nere e dalla punta sgocciolante sangue rosso.

Una luce bianca lo investiva, posandosi però solo sulle ferite, come un leggerissimo velo.

Dante sollevò lo sguardo, penetrando con i suoi intensissimi occhi la creatura sua rivale. In quel momento il Re Giallo poté assaporare una forza rinnovata, avrebbe osato dire ringiovanita, oltre i confini del tempo e delle possibilità umane.

E di fronte a quella minacciosa tenacia, perse la ragione per la rabbia.

“Questa sarebbe la tua ennesima trasformazione?! Una cura !” Un flusso di tentacoli saetto verso il poeta, per poi trafiggerlo in più punti. L’uomo venne sospeso in aria, grondando sangue, per poi essere scagliato al suolo.

Hastur strisciò verso di lui, sperando che dopo quell’attacco avesse raggiunto la sua vittoria. Così non fu: un rantolio, e dopo uno spasmo di tosse, confermarono che Dante fosse ancora vivo. Nuovamente la luce bianca si posò su di lui.

Altri tentacoli lo assaltarono come una fitta pioggia, crepando il suolo sottostante e formando una voragine puntellata da fori giganteschi

“Come osi ?!”, urlava intanto la divinità.  “Tu non sei nessuno! Solo un povero stolto che ha osato sfidare gli dèi! Un essere blasfemo come te merita solo di sparire, di venir dimenticato da tutti e dalla storia !!”

Ma a nulla servirono tutti quegli attacchi. Ogni volta Dante si rialzava, seppur a fatica, ma tenuto in vita grazie a quella luce benefica. Era la Benedizione, l’asso nella manica di quella sua terza ed ultima forma.

Infine, la sua bocca si spalancò per tuonare: “Che mi dimenticassero tutti, allora !” E si alzò in piedi, contro ogni previsione.

“Essere rimosso dalla storia? Mi può andare anche bene… ma solo se dovessi perdere. Fintanto che sono vivo, quindi… io sono qualcuno! Sono Dante Alighieri !”

Colpito da quella dichiarazione, la creatura mostruosa tentennò. Dopodiché, iniziò a far confluire i suoi tentacoli in ogni direzione, ripetendo l’attacco di prima.

“Sarai anche Dante Alighieri, ma sei solo un poeta fallito!! Universal Collapse !”

 

Eppure, proprio quando i presenti si aspettavano di assistere allo stessa tecnica distruttiva del Re Giallo, questo aveva stravolto ogni aspettativa.

Con la velocità di un lampo, infatti, approfittando della distrazione causata dalla quantità inconcepibile dei suoi tentacoli, aveva preferito saettare in avanti per afferrare la falce di Dante. In un istante gliel’aveva tolta di mano, lasciandolo disarmato e per qualche secondo anche incapace di realizzare cosa fosse accaduto.

Non ci volle molto, però, prima che lo stesso poeta mostrasse un’espressione del tutto diversa da quella fiera che aveva: contorse il volto in una smorfia, ritraendosi ed iniziando a lacrimare copiosamente.

Nel più puro terrore, gridò: “C-Co-Cooosa hai fatto ?!”

Ed altrettanto sconvolti sussultarono gli spettatori umani, colti alla sprovvista sia dalla mossa di Hastur, che dalla reazione per nulla eroica della loro avanguardia.

Intanto, in un rinnovato silenzio, il Re Giallo si agitava su per un tentacolo la falce. Sul suo volto fatto di pura oscurità si apparvero dei denti che presero la forma di un ghigno mostruoso, o meglio, la parodia grottesca di un sorriso.

“Pensavi che sarei cascato nella tua trappola? Me ne sono accorto mentre eri nella Forma dell’Inferno, poco fa …”

 

“Ommioddio! Che sta succedendo ?!”

 

“L’arma ti era caduta dalle mani, ed in quel momento sembravi aver riacquisito la personalità, ed anche la forza, di quando avevi fatto il tuo ingresso qui. Così ho capito che fosse quella la debolezza della tua Sefirot, ovvero il dover rimanere in contatto con l’arma per mantenere i tuoi poteri !”

Soltanto ascoltare quel discorso bastò per far rabbrividire il dio misterioso, il quale comprese immediatamente quanto Dante fosse nei guai.

“Questo vuol dire che… per tutto questo tempo… ?” Mormorò il poeta, nonostante la sua gola si fosse fatta arida ed il respiro iniziasse a mancargli.

“Esatto. Anche io ho temporeggiato, facendo finta di essere alle strette. Tuttavia con la Previsione sarebbe stato molto difficile disarmarti, così ti ho mostrato il mio attacco più forte ed assolutamente impossibile da parare. In questo modo ti ho instillato la paura di quel colpo, costringendoti ad alzare la guardia per difenderti da esso ogni volta che lo avresti visto, senza mai pensare che in realtà il mio obbiettivo sarebbe potuto essere toglierti l’arma !” 

L’antico e misterioso dio esplose in una risata isterica, ma ebbra della strategia vincente che aveva portato a segno dopo tutto quel tempo. Anche lui, come Dante, si era mostrato un astuto stratega ed ingannatore, tuttavia le sue macchinazione erano state di gran lungo più subdole ed efficaci.

“Allora immagino che questa sia la mia fine.”

Tuttavia, nonostante quelle parole fossero vere, nessuno si sarebbe mai aspettato di sentirle pronunciare dalla voce ora calma e rassegnata di Dante. Il sommo poeta aveva sollevato lo sguardo con un sorriso dolceamaro in volto, accettando tutto ciò che gli sarebbe accaduto.

Persino Hastur non seppe come reagire.

“Brava gente da tutto il creato! Che voi siate giovani o vecchi, ma comunque destinati alla fine del cammino della vita vostra… è stato bello sentire finalmente qualcuno fare il tifo per me.” Dante intanto si era voltato verso gli spalti dei suoi simili, salutando ad occhi socchiusi per nascondere le lacrime.

-C’è qualcosa sotto.- Intuì Hastur. –Che sia una trappola?-

“…però, anche se con il vostro supporto, non ho potuto fare nulla. A quanto pare questo dio è troppo forte. Lo definirei il più forte degli dèi, senza ombra di dubbio… cosa poteva fare un semplice umano come me?”

E, voltandosi verso il suo avversario, spalancò le braccia: “Su, aspetto il tuo colpo finale. Poni fine alle mie sofferenze !”

-È decisamente una trappola! Ma come può essere… ?-

“Tuttavia, prima che tu mi finisca con la tua possanza, ho una richiesta.” L’uomo sollevò il dito indice.

-Non devo assolutamente colpirlo ora !-

Ma ignorando la battaglia psicologica che stava dilaniando il dio, Dante proseguì:

“Sono grato alla mia esistenza da umano, per quanto il mio destino sia sempre stato in mano agli dèi. Tuttavia, se davvero la mia vita è un dono divino, non credo di dover essere grato a nessuno per tutto ciò che ho realizzato con essa… se non a me stesso. E così dev’essere per tutti gli umani: cosa importa chi ti ha dato la vita? Non sono forse più importanti tutti i traguardi raggiunti, le vittorie, gli amori… ed anche quel dolore, che solo un debole ed insignificante umano sull’orlo della disperazione può provare? Punizioni, pentimenti… sono davvero necessari, se alla fine dei giochi, continueremo a sbagliare e a soffrire, a gioire e ad amare? Non dobbiamo lasciarci frenare dal divino… perché il nostro pensiero è umano, ed illimitato.”

Dopo quel discorso, pronunciato tutto d’un fiato, il sorriso sulla sua bocca aveva assunto un’accezione ben più temibile. Alle sue spalle si agitava una calca di uomini e donne motivati dalle sue parole, commossi, ed uniti più che mai per spezzare quell’incubo che li opprimeva.

Hastur respirava pesantemente, trattenendo a fatica l’impulso di scagliarsi sul suo nemico dopo delle frasi tanto blasfeme e colme di insulti.

Era così preso dal trattenersi, che rimase sorpreso quando Dante gli si rivolse: “Ed ora, tu…”

“… taneriao mtare ?”

Il momento era talmente teso, ma talmente teso, che un solo capello caduto al suolo avrebbe potuto infrangere quell’illusione di calma immobile che permeava l’arena. Tuttavia, per quanto Hastur si stesse contenendo, non poté che reagire nel modo più spontaneo possibile, non avendo capito cosa l’altro gli avesse chiesto:

“Eh ?”

Ed a quel punto Dante allargò il suo sorriso fino a raggiungersi quasi le orecchie, perché aveva aspettato quel momento tanto a lungo.

Gonfiò le guancie, dopodiché si abbassò entrambe le mani per poi fermarle all’altezza del bacino, mentre fischiava: “Stoc**** !”

Ciò che disse in realtà fu così volgare, meschino e deplorevole, che mai nessuno se lo sarebbe aspettato provenire da chi si vantava del titolo di Vate, Sommo Poeta. In tutta l’arena, sia déi che umani, arrossirono per l’imbarazzo.

Vergogna: quel sentimento che soggiunge quando l’umiliazione subita è così grave da non dare pace ai sensi, canalizzando ogni sensazione su di un fastidio che cresce e cresce, divorandoti dall’interno.

Ed Hastur, il Re in Giallo, il signore degli incubi dei templi e delle città in rovina, che era appena stato preso in giro con uno scherzo da ragazzini, non era affatto immune da questa violenta e viscerale vergogna.

 

“Scusami, non ho resistito.” Rideva intanto Dante, ora con lacrime molto più sincere agli occhi.

“Io ti ammazzo !!” Hastur balzò su di lui, assumendo la forma più spaventosa che possedesse, qualcosa di assolutamente impensabile per qualsiasi intelletto, pur divino o soprannaturale.

Era terrore, era un incubo, era follia.

In ogni modo, nell’istante in cui terminò il suo selvaggio attacco, si bloccò come una statua. Aveva ridotto in pezzi il suo avversario, o almeno questo credeva: il poeta iniziava già a rigenerarsi tramite la Benedizione.

“Non ce la fai più, vero? Intendo il tuo corpo… non può sopportare un altro attacco.”

Ed in quell’istante Hastur abbassò lo sguardo, guardando per la prima volta il proprio corpo . Laddove il mantello giallo o l’armatura ora non lo ricopriva più, vide squarci, fratture, lacerazioni e crepe. Avrebbe voluto sobbalzare, se solo i suoi muscoli distrutti glielo avessero concesso.

“Perché?! Perché non ho sentito nulla di tutto questo ?” Gemette, in preda al panico e prigioniero del suo stesso corpo. Uno schioppo violento lo interruppe, dopodiché cadde al suolo.

I suoi arti inferiori si erano appena polverizzati, lasciandolo agonizzante per terra.

“Semplice: tu hai erroneamente pensato che, una volta assunta una nuova forma, io non potessi utilizzare i poteri di quella precedente. Ciò è sbagliato, infatti durante la Forma del Purgatorio io avevo ancora a disposizione il Contrappasso… soltanto che, grazie alla precisione assoluta di quella forma, e alla Previsione, ho potuto reciderti tutte le terminazioni nervose. Così tu non hai più potuto percepire il dolore, e non ti sei accorto di tutte le volte in cui i tuoi attacchi ti si ritorcevano contro.”

Il Re Giallo stava assistendo agli effetti dei suoi stessi colpi più devastanti. Anche le braccia svanirono in granelli nel vento.

“M-Ma… ora tu non avevi nessuna arma! Come hai potuto-“

“Questo era ciò che pensavi tu.” Lo interruppe Dante, al contempo scostandosi la giacca.

In questo modo mostrò come, all’altezza del cuore, nella carne fosse stato incastonato un pezzo di ossa appartenente alla Arma donatagli dalla Sefirot Binah: “L’ho sempre avuta qui con me, per ogni evenienza.”

Mentre Hastur pensava di essere di un passo avanti a lui, Dante aveva segretamente predetto tutto il corso della battaglia.

 

“Ed ora …” Il poeta si ergeva sulla creatura abissale, troneggiando mentre emanava un’aura annichilente, una pressione più profonda di quella presente anche al centro della terra.

Sollevò la falce.

“Candida Rosa della Fine del Mondo !”

“A-Aspetta! Fermo! Mi arrendo !”

Mentre quell’urlo ancora rimbombava nell’aria, tutti gli spettatori si ammutolirono per la sorpresa.

Hel e Fenrir sgranarono i loro occhi, così come le divinità orchestratrici Baal e Ptah.

St.Peter ed Adramelech ripeterono a stento: “Si arrende ?!” Non sicuri nemmeno loro di aver capito bene.

I volti degli dèi si dipinsero di orrore, mentre quelli degli umani si illuminarono. La speranza era stata inseguita fino alla fine, e dopo quelle parole, avevano raggiunto la vittoria.

Gli annunciatori infine non si risparmiarono dal decretare: “Hastur si arrende, ladies and gentlemen! Incredibile ma vero !”

L’umanità esplose in un boato univoco di esultanza. Boudicca e Charlotte si abbracciarono per l’entusiasmo, mentre Guy Fawkes dedicò al “cantastorie” un applauso in piedi. Il dio misterioso, dal canto suo, rideva malignamente accarezzandosi il mento.

“Dopo una feroce battaglia, lo scontro si conclude anche stavolta con una resa dichiarata… ed in questo modo la vittoria inequivocabile va a… Dante Alighieri !!”

Sua moglie Gemma ed i bambini, assieme a Filippo Argenti e al poeta Virgilio, commossi, festeggiavano la vittoria di quello strambo ed egocentrico poeta. Proprio lui, che ora aveva sollevato lo sguardo verso i suoi simili, incespicando in un timido sorriso:

“Quindi è questo il vero riconoscimento che mi merito… oh cielo, fa quasi paura !”

 

Tutto si fermò. Il suo respiro, il suo flusso sanguineo, ed anche quella visione estasiante svanì come se fosse stato fumo spazzato via dal vento.

Un tentacolo nero ora gli trapassava il petto all’altezza del cuore, emergendo dalle profondità oscure di una creatura viscida e subdola, ma che aveva aspettato il momento giusto per colpire.

 

Le parole di Gaia erano state chiare:

“Che tu vinca o perda, non è importante… anzi, la maggiore soddisfazione la trarremmo se, nel caso tu perdessi, riuscissi a vendicarti degli umani per quello che ha fatto Charlotte Corday.”

Per questo l’umana non era stata punita: gli dèi, convinti da Madre Terra, avevano più gradevolmente accarezzato l’idea di una spietata ed infamante vendetta per distruggere la speranza degli esseri umani sotto i loro occhi.

Hastur aveva sogghignato allora, ma adesso il suo sorriso era ancor più ampio e perverso, ebbro di quella felicità immensa.

 

“Liscio.” Gli disse però Dante, ora apparso alle sue spalle.

Il Re Giallo, colto alla sprovvista, lanciò un urlo di orrore, ma nel voltarsi di scatto cadde al suolo.

Il poeta era di nuovo in piedi, sovrastandolo, stavolta però con un sorriso compiaciuto.

“Come ti ho già detto possiedo costantemente tutte le abilità delle mie tre forme… compresa la Predizione. Avevo visto con largo anticipo il tuo piano.”

“M-Ma io… ti avevo colpito !” Vide il suo tentacolo ancora sospeso nel vuoto, senza però nemmeno una goccia di sangue al di sopra.

“Eri così accecato dalla sete di sangue, che hai visto quello che volevi vedere, ovvero la tua vittoria.”

Dante sollevò dalla sua spalla la falce, per poi iniziare a calarla lentamente verso il basso.

“Ma preferisco così… nonostante il duello fosse finito, mi avrebbe dato parecchio fastidio non poter rispettare la mia promessa. Te la ricordi ?”

 

“Ti giuro che ti distruggerò, Hastur !”

 

Stavolta l’antico essere assaporò per davvero, senza trucchi né inganni, quella sensazione che aveva desiderato di causare negli altri così intensamente: la disperazione.

Nell’istante in cui la punta della falce lo toccò, percepì il cielo, la terra e tutto il creato contorcersi, accartocciarsi attorno a lui per comprimerlo e distruggerlo.

“Candida Rosa della Fine del Mondo !”

Dapprima urlò, ma la catastrofe causata da una violentissima ed immediata morte gli soffocò ogni funzione vitale. Tuttavia, mentre la sua forma fisica spariva per sempre, vide il suo corpo contorcersi tra la stretta di mani artigliate: provenivano dal basso, dalle profondità della terra.

E lì, quando una fiammata dalla forma di una rosa splendente lo inghiottì, scomparve per l’eternità tra immense e perpetue pene.

 

Conclusa davvero la battaglia, a Dante non rimase che tirare un sospiro.

-Il mio ultimo… respiro.-

Aveva esaurito ogni forza, ed ora nemmeno la luce candida della Forma del Paradiso lo baciava più. Ogni trasformazione ed abilità era solo un lontano ricordo, mentre il sostegno della Sefirot svaniva.

Percepì la forza abbandonarlo, mentre tutto attorno a sé diventava luce, e lui ci piombava dentro.

-È davvero questo tutto ciò per cui è valso la pena lottare ?-

Amici, famiglia, salvezza, speranza, gloria. Cosa ne rimaneva davanti all’abbraccio della morte.

Lenti frammenti della sua anima si staccarono, danzando nell’aria luminosa.

-Eppure non mi sento affatto contento, perché fino al mio ultimo respiro ho provato… paura…-

Cadde verso il suolo.

-Paura di… incontrare quello… sguardo…-

 

“Dante.”

Quella voce! Era la seconda volta che lo chiamava dal sonno della ragione, e d’improvviso fu come se una luce ancora più forte si fosse mostrata a lui, qualcosa che non aveva mai visto prima.

Lui cadeva, sì, ma i suoi occhi volavano verso l’alto, sfidando il tempo e lo spazio.

E fu lì che la rivide.

“Grazie di tutto questo, Dante.” Il sorriso colmo di dolcezza più bello del mondo gli rischiarò l’animo, spazzando via ogni rimpianto anche in quell’attimo fatale.

-Grazie a te… Beatrice… per avermi accompagnato fino alla fine di questa bellissima commedia.-

E anch’egli sorridendo, pestò un piede per terra, fermando la propria caduta.

Non morì disperdendosi in frammenti luminosi, bensì sollevò il capo verso l’alto con lacrime calde che gli bagnavano le guancie rosse. Aveva ritrovato la forza per continuare a vivere, anche si era conclusa la sua battaglia: sperare.

Sperare per la salvezza dell’umanità, affinché altri amori così belli potessero sbocciare a discapito di ogni paura e perdizione.

 

Poco dopo:

Dopo l’esperienza sorprendente del sesto scontro, le tribune si stavano riposando tra sospiri ansiosi. Nonostante le due vittorie consecutive degli dèi, gli umani avevano strappato il pareggio all’ultimo.

La situazione era sempre più tesa ed inquieta.

A differenza però di quella normale tensione, la dea Gaia stava attraversando un turbamento molto più intenso. Seduta al centro di una camera buia, con la testa tra le mani, digrignava i denti fino a distorcere il suo volto in modo mostruoso, assolutamente orripilante.

La terra stessa tremava, dalle pareti si staccavano pezzi di pietra e l’aria stessa pareva esser fatta di una melma densa e malsana, contorcendosi attorno al cuore nero della dea.

L’adirazione per la sconfitta di Hastur, nonché per la sua impossibilità di uccidere Dante, era stata l’ennesima umiliazione. Si sentiva minacciata dalla pressante mano del suo nemico numero uno, che le schiacciava la spalla per metterla in ginocchio. Quella pressione aumentava di volta in volta.

Ma lei non si sarebbe spezzata, né tantomeno piegata.

“Per questo adesso andrai tu… che sei tra i più forti.”

Alle sue spalle Fenrir aveva atteso pazientemente, impassibile nonostante l’atmosfera fosse ostile a qualunque forma di vita.

“E se morirai, osando darmi un’altra umiliazione …” La mano della dea gli strinse il volto, avvicinandolo al suo, il quale ormai era costituito solo da una voragine gremita di denso petrolio nero ed altri orrori delle profondità.

“… non risparmierò nemmeno tua sorella, Hel. Vi spedirò entrambi nel Nilfhel, distruggendo la vostra anima in modo irreparabile !”

Stavolta, persino l’insensibile e distaccato Fenrir non poté trattenersi dal sudare freddo, ed anche copiosamente.

 

Intanto, dall’altra parte della struttura sotterranea, la sala d’attesa degli umani era stata svuotata. Charlotte, Boudicca e Guy Fawkes erano stati mandati altrove, così che lì rimanessero soltanto due persone.

Il dio misterioso era voltato verso una parete, ancora rimuginando tra sé e sé. La sua soddisfazione dovuta alla vittoria era sparita dopo il ritiro di Dante. Non poteva di certo mostrare il suo viso cupo e privo di alcun sorriso ai campioni umani rimasti in vita, oppure si sarebbero scoraggiati.

“Vorrei che tu mandassi me a combattere per prossimo.” Con tono gentile ma autoritario, pretenzioso, gli si rivolse quella gigantesca figura ammantata e dai boccoli d’oro.

“Temo proprio di no. Devo tenerti come ultima risorsa, mio diletto. Fin’ora ho scherzato a provocare gli dèi, ma ora che la posta in gioco è troppo preziosa da perdere, e la vittoria ancora lontana… mi toccherà giocare sporco, con strategie e colpi bassi. La forza schiacciante di cui disponi mi servirà nel caso peggiore.”

Si voltò appena, soltando per intravedere un’espressione seria, ma che tradiva mestizia in quei luminosi occhi azzurri.

“Perdonami se ti faccio questo. Ma tu sai che di me ti sei sempre potuto fidare, Arthur.”

 “Certamente… Merlino.”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

E, assieme allo scoprire chi è stato il vincitore di questo scontro… avete scoperto anche la vera identità del dio misterioso! Bhe, dopo oltre la metà della storia mi sembrava più che dovuto.

Come si evolveranno le cose da adesso in poi? Purtroppo sono constretto a spostare la data di aggiornamento fino a martedì 30 Giugno, e anche all’ora non sono proprio sicuro al 100% di poter aggiornare giornalmente. Dipende da quanti capitoli riesco a sfornare dal 26 fino al 30.

Comunque sia, vi è piaciuto questo scontro? Fatemelo sapere!

Alla prossima!

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Capitolo 25
*** Chapter 25: British Ninja ***


Chapter 25: British Ninja

Fenrir camminava nel giardino, simile ad un parco, con aria tesa.

L’aria era tiepida, riscaldata appena dalla luce del sole che riusciva a filtrare tra gli alberi, e che colpendo il selciato creava mosaici luminosi tra le ombre. Oltre agli alberi, siepi e cespugli fioriti decoravano quel luogo idilliaco di risposo, la cui esistenza era insospettabile all’interno del colosseo in cui si stava combattendo la più importante battaglia di sempre.

Il lupo svoltò l’angolo, raggiungendo infine uno spiazzo riempito solo da una panchina all’ombra di un melo. Un uomo vestito di nero, con il mantello ripiegato sul braccio, sedeva intento a leggere un libro. Il suo volto era coperto da una maschera bianca con un sorriso affilato, contornata da lunghi capelli neri mossi: il cappello che di solito indossava era appoggiato su di un ginocchio, smuovendosi appena quando l’uomo faceva dondolare la gamba.

“Ah!” Sussultò lui, abbassando il libro per non avere ostacoli tra il suo sguardo e Fenrir, appena apparso davanti a sé.  Il suo tono di voce si fece sornione, mentre riponeva al suo fianco il libro riportante la scritta in copertina: “The Rime of the Ancient Mariner”.

“Felice di conoscerti, buon… lupo.” La voce gli si ruppe per colpa di una risatina che proprio non poteva trattenere. “Scusami, davvero. È solo che, per quanto dicono le leggende popolari, quando si incontra un lupo non si fa in tempo nemmeno a salutarlo prima di venir mangiati.”

Ma il lupo argenteo non rispose a quella battuta, preferendo guardare con sguardo fermo e disinteressato l’uomo.

“Però so che ora come ora non vuoi divorarmi. Il nostro scontro è stato annunciato, ma in questi attimi di pausa che lo precedono non dobbiamo essere necessariamente nemici.”

La divinità finalmente schiuse le labbra: “Eseguirò i miei ordini quando mi spetterà farlo, esatto. Ma non ti ucciderò perché siamo nemici, o per odio …”

Guy Fawkes poggiò la testa sulla mano, guardando l’altro fisso per qualche secondo, prima di commentare: “Ma certo: tu mi ucciderai solo perché è tuo dovere farlo.” E, soffermandosi sullo sguardo così serio del lupo, non trattenne per la seconda volta un’altra risata.

“Cosa c’è di divertente?”

“O-oh, sai… in un certo senso mi rende più sollevato non dover combattere contro qualcuno che mi odi, o non mi reputi una specie di pidocchio al suo confronto. C’è del rispetto in tutto questo. Immagino infatti che se tu non mi rispettassi, ora non staresti qui a parlarmi.”

“Sollevato? Sai che stai per morire e ti senti sollevato solo perché non colgo già da ora l’occasione per eliminarti?”

“Certamente! Come potrei essere triste, sapendo che si terrà uno scontro leale? D’altronde non mi sarei dovuto aspettare altro da qualcuno del tuo rigore. Mi ricordo di quando non lasciasti intervenire Gilgamesh, nel primo round, e Charlotte mi ha raccontato del vostro incontro poco tempo fa.”

Stavolta il lupo decise di rimanere in silenzio, e così facendo lasciò che l’inglese si avvicinasse a lui durante la sua parlata incalzante.

“Mi fido della tua lealtà, Lupo del Ragnarok.” Disse infine, facendo vibrare la sua voce a contatto con la maschera.

“Dove vuoi andare a parare?”

“Dove voglio… andare?”

E, abbandonando il tono profondo di poco prima, Guy Fawkes si lasciò sfuggire un altro risolino squillante. Poi indicò con l’indice verso l’alto.

“La luna, mio caro!”

Fenrir inarcò un sopracciglio, ma non gli venne dato tempo di parlare.

“Durante tutti questi anni di evoluzione umana, gli uomini hanno costruito dei mezzi che potessero permettere loro di visitare i corpi celesti. Il cielo un tempo era territorio esclusivo degli dèi, ma ora… elicotteri, aerei, navicelle spaziali… cosa separa più l’uomo dal dio? Ad ulteriore dimostrazione del potenziale umano nettamente superiore a quello divino, ti consiglierei di ripensare agli scontri di Masutatsu Oyama, Vlad e Dante Alighieri!” Prendendosi una rapida pausa per respirare, Guy intrecciò le dita delle mani e se le portò sotto al mento.

“Scommetto che, proprio perché anche tu riconosci del potenziale in me, sei venuto fin qui.”

“No.” Rispose secco Fenrir, ora con una nota di agitazione nella sua voce. “Sono venuto fin qui perché mi ci ha condotto la puzza di polvere da sparo.”

“Ah. Sì.” Sbuffò l’inglese. “Certo, hai seguito la traccia fino a me perché dall’altra parte l’odore è stato camuffato.”

“Cosa?!”

Ma, prima ancora che la sua voce arrivasse alle orecchie di Guy Fawkes, il boato di un’esplosione sovrastò ogni suono. Colorando l’aria del colore del rame, una deflagrazione di calore inghiottì parte del colosseo esattamente alle spalle di Fenrir, proiettando la sua ombra su tutto il giardino.

A dirla tutta, non era solo la sua ombra a stagliarsi gigantesca: poco al di sopra c’era anche quella di Guy Fawkes, con la luce delle fiamme che gli bucava la maschera per imprimere sul suolo gli occhi e le labbra piegate in un sorriso.

Poco dopo il frusciare delle foglie, smosse dal vento, parevano un bisbiglio insignificante, dopo che le orecchie del lupo erano state assordate. Lo scoppio rimbombava ancora nelle sue ossa, e ad ogni battito il cuore gli ricordava quella potenza esplosiva.

Era rimasto immobile, con gli occhi sgranati e la bocca leggermente dischiusa.

“Sarebbe orribile se qualcosa del genere coinvolgesse degli dèi, e non si limitasse solamente a far crollare una piccola area deserta.” La voce di Guy risuonò nell’assordante silenzio, quasi più forte ed improvvisa dell’esplosione stessa. In realtà aveva appena sussurrato, sportosi al fianco di Fenrir.

“Hai presente quando ho nominato Masutatsu, Vlad e Dante. Pensavo giusto che… se il loro potenziale è stato sufficiente a battere un dio in un duello leale, a parità d’armi… figurati cosa posso fare io, giocando sporco!”

Gli sussurrò qualcosa all’orecchio, per poi dileguarsi calandosi per bene il cappello sulla testa.

E mentre camminava via, lasciando il suo nuovo nemico paralizzato dallo shock alle proprie spalle, ripeté:

“Mi fido della tua lealtà, Fenrir!”

Per quanto il sole potesse splendere, e la luce perpetuare, le ombre si sarebbero sempre annidate appena oltre lo sguardo.

 

Poco dopo che il panico per quell’esplosione si fosse acquietato,  gli dèi e gli umani presenti nel colosseo vennero richiamati sugli spalti. L’evento era stato inaspettato ed ancora avvolto nel mistero, e persino gli dèi organizzatori avevano sembrato ritenerlo di poca importanza.

Ciò che più importava ormai, nelle fasi finali del Torneo del Ragnarok, era chi avrebbe combattuto e vinto il settimo match.

L’Arena del Valhalla stavolta presentava un campo di battaglia diverso dal solito: si trattava di una landa di terra brulla e scura, del colore del sangue rappreso, segnata da crepacci e scanalature. Qualche albero solitario, morto, si stagliava sotto un cielo nuvoloso e prossimo alla pioggia. Un fiume prosciugato attraversava il campo, mostrando sul suo letto pietre e altri detriti.

Ladies and gentlemen! Stiamo per assistere allo spareggio definitivo! Chi si aggiudicherà questo match si spingerà ancor più vicino alla conclusione! Lo strenuo testa a testa continuerà… o assisteremo ad una sequela di vittorie schiaccianti?!”

Nessuno avrebbe potuto le risposte a tutte quelle domande, ciò nonostante era inevitabile porsele, lasciandosi divorare dalla tensione e dalla trepidazione. Quel cielo cinereo sopra di tutto e tutti era la perfetta rappresentazione del tumultuoso stato d’animo di molti.

“Lasciamo adesso entrare l’avanguardia dell’umanità…”

Quando il portone dal lato degli umani si spalancò, un getto di fumo fuoriuscì impetuosamente, anticipando l’ingresso in scena di un uomo.

“Remember, remember the Fifth of November: The Gunpowder Treason and Plot. I see of no reason, why Gunpowder Treason should ever be forgot... quando in quel cinque di Novembre 1605 lo trovarono nei sotterranei del Parlamento inglese, non avrebbero mai immaginato che potesse esistere davvero un uomo con un piano così diabolico!”

Nel silenzio, il mascherato si fermò. Con un piede in avanti ed un altro allineato con il proprio bacino, si inchinò sfilandosi il cappello.

“Un folle cospiratore che voleva cambiare il suo paese… distruggendolo! Colui che pianifica tra le ombre, alla luce di una candela… dietro la sua maschera di machiavellico genio!”

“Il Congiurato delle Polveri… Guy Fawkes!”

Quando la folla umana ruggì alle sue spalle, e solo allora, Guy si sollevò da quello scomodo quanto formale inchino. Riaggiustandosi il cappello a larghe falde sulla testa, si voltò appena per portare un occhio ai suoi sostenitori.

 

“Mentre dal lato delle divinità… !”

All’apertura del portale, un rumore vibrante scosse l’aria e la terra. Tutto tremava, seppur quasi impercettibilmente, ma non sembrava affatto opera di una scossa sismica: era un suono melodico, ma che faceva oscillare l’atmosfera stessa, distorcendo lo spazio nella sua intensità.

“La bestia più forte mai nata! Né il cielo, né la terra hanno potuto vincolare il suo potere!”

Quattro occhi si accesero nel buio, appartenenti a due grosse sagome. Erano animali quadrupedi, ma più grossi di qualsiasi mammifero esistente.

Orecchie appuntite, code pelose, lunghi musi muniti di zanne e zampe artigliate.

“Sono… lupi?!” Si domandarono gli umani, che tuttavia mai avevano visto lupi così grossi.

Quelle apparizioni, tuttavia, si rivelarono in realtà essere due giovani che si fermarono ai lati del portone.

Skǫll e Hati, i due lupi che inseguivano rispettivamente il sole e la luna, non avanzarono. Il loro compito era soltanto quello di annunciare colui che stava emettendo quell’ululato: il loro padre.

“Portatore di morte e distruzione, temuto anche dalle divinità più potenti. Un giorno, tutti lo sapevano, che sarebbe giunto proprio qui, allo scontro finale, al capolinea della storia!”

Quando il suono cessò, tutti poterono udire dei tonfi ben distinti. Pesanti zampe crepavano il suolo, sostenendo una mole infinitamente più grande di quella dei due lupi.

Infatti, se loro erano più grandi di qualsiasi mammifero non estinto, il terzo lupo che ora emergeva dalle ombre era senza dubbio più grande di qualsiasi mammifero che mai avesse solcato la Terra, e quindi di un mammuth.

 Un colosso nella stazza, con due fauci spalancate dalle quali sgorgano stille di saliva sanguinosa e schiumosa. Semplicemente intravedere quella demonica figura nell’oscurità bastò ad iniettare terrore puro sia tra umani che tra gli dèi, perché la creatura che emergeva dalle tenebre era l’incarnazione di una furia che non aveva ostacoli.

“Il Lupo del Ragnarok…”

Ed infine uscì lui: capelli argentei, completo blu scuro segnato da graffi e segni di unghiate, ed una sciarpa di catene che gli cingeva il collo e la bocca. Occhi quasi vitrei per quanto erano limpidi e luminosi, squadravano silenziosamente il campo di battaglia.

“… Fenrir !”

Dopo che il settimo combattente divino fu entrato nell’arena, gli dèi sembrarono riottenere la compostezza necessaria per non essere più bloccati dalla paura. Anzi, la forza che trapelava dal Lupo del Ragnarok era diventata per loro motivo di vanto ed esultanza.

“Forza! Sovraintendente alla sicurezza!”

“Distruggi quel patetico umano!”

Ma, per quanto lo acclamassero, Fenrir rimase del tutto indifferente a quelle lodi. Il suo sguardo era l’espressione perfetta della sua anima, fredda come un ghiacciaio e più oscura di una notte senza luna.

“Vinci, papà!” Gli dissero i suoi figli, salutandolo con una pacca sulla spalla “Ce la farai senz’altro!”

E quand’anche i giovani lupi lo ebbero lasciato solo, lui non si scompose, né aprì bocca per parlare.

“Il Ragnarok… ha inizio!” E seguiti dall’esultanza della folla, gli annunciatori diedero il via al settimo incontro.

 

Ciò nonostante, a differenza dei precedenti scontri iniziati nella foga e nel sangue, nessuno dei due combattenti si mosse di un millimetro. Uno strano vento lugubre soffiava sulla terra marcescente.

“Cosa? Che succede? Perché non si muovono?” Si domandarono tra gli spalti, esterrefatti da quell’insolito inizio.

Guy Fawkes e Fenrir parevano due statue, ognuno al proprio posto, e non accennavano a muoversi per quanto il tempo scorresse.

“Ma è ovvio! Come fate a non averlo ancora capito?” Tuonò una voce massiccia, proveniente da un corpo altrettanto gigantesco. “Il mio fratellino sa bene che potrebbe concludere la battaglia con un solo colpo, così sta scegliendo accuratamente la sua finisher move!”

Dal busto in su era umanoide, un ragazzo con una felpa verde chiaro aperta su di una maglietta color verdone, dai capelli rossi spinati e con due occhi di serpe gialli. Altre particolarità erano la pelle solcata da scaglie da rettile, quattro denti così aguzzi e lunghi da sporgere dalla bocca, assieme ad una lingua biforcuta ogni volta che parlava, ed il resto del suo corpo: al posto delle gambe cresceva un colossale corpo verde e squamoso, così lungo da srotolarsi fin su le tribune ed uscire dallo stadio. Però quella coda rispuntava accanto al punto in cui scavalcava le mura del colosseo, ritornando sotto il braccio del proprietario, arrotolata come una corda.

“D-Davvero?!” Esclamò Hati, con gli occhi spalancati dall’entusiasmo. Suo fratello Skǫll gli rispose con un ghigno: “Ma certo che sì! È di nostro padre di cui stiamo parlando, dopo tutto!” Dopodiché sollevò lo sguardo verso la creatura immensa che aveva parlato prima, la quale ora aveva attirato l’attenzione di gran parte degli dèi.

“Giusto, zio?”

Jormungandr, il serpente del mondo, così mastodontico da poter circondare la terra e le acque, faceva il tifo per suo fratello Fenrir senza alcuna ombra di dubbio.

“Fidatevi di me, ragazzi! Qui attorno non c’è un dio che possa dubitare della sua potenza!” E sibilando, guardò con superiorità tutte le divinità che avevano improvvisamente distolto lo sguardo da lui.

La paura che instillava quella stirpe mostruosa era tale da pietrificare qualsiasi dio: non per altro Fenrir era stato scelto come sovraintendente alla sicurezza.

“Piuttosto… mi chiedo perché nostra sorella Hel non sia qui a vederlo combattere…”

 

Intanto, all’interno del campo di battaglia, la figura di Fenrir agli occhi di Guy Fawkes non appariva affatto come il mitico e terribile spauracchio che tutti temevano.

-A…ah…- L’uomo avrebbe voluto scoppiare a ridere, ma si trattenne. Il motivo della sua contenuta euforia era un’isterica esasperazione dalla quale era appena uscito, dopo tutto quel silenzio e quell’attesa.

Fenrir non lo aveva attaccato, per tanto lui era vivo.

-E se Fenrir non mi attacca…- Chinò il capo, proiettando un’ombra sulla sua maschera che ne lasciò scoperto solo il sorriso dipinto. -…vuol dire che tutto sta andando secondo i piani!-

 

Quando dopo l’esplosione si era sporto all’orecchio di Fenrir, aveva sussurrato queste parole:

“Ucciderti per me non è indispensabile, perciò se regaliamo al pubblico uno spettacolo quantomeno decente in cui tu perdi e ti arrendi, saremo tutti contenti. E sai chi sarà ancor più contento di non saltare in aria per mano di una Sefirot? Tutti gli altri dèi qui radunati.”

 

Proprio al contrario della bestia mitologica, ora il Lupo del Ragnarok era alla strenua di un cagnolino spaventato che tremava con la coda tra le gambe. Questo, lassù negli spalti, non avrebbero nemmeno lontanamente potuto immaginarselo, e per tanto, nessuno si sarebbe accorto che qualcosa non quadrava nell’atteggiamento di Fenrir.

 

“Quel Guy Fawkes…” Ed invece, proprio qualcuno tra le tribune degli umani stava ora guardando il campo di battaglia con sospetto. “… sta tramando qualcosa.”

Si trattava di Robert Cecil, maestro delle spie nell’Inghilterra di Re James I. Chi meglio di lui poteva conoscere quell’attentatore, dato che  era suo il merito di aver scongiurato l’attacco al Parlamento.

Anche un altro suo connazionale osservava la scena: una presenza capace di spiazzare gli altri esseri umani più vicini, in quanto niente meno che il più grande drammaturgo di sempre, William Shakespeare. Tuttavia, per quanto in vita fosse conosciuto per il suo carattere goliardico, al momento ribolliva in una silenziosa rabbia, capace di rendere il suo volto scuro come la notte.

 

Intanto Guy Fawkes tirò un profondo sospiro di sollievo, placando il tumultuoso battito del suo cuore.

“For whom the bell tolls?” Sussurrò a denti stretti, mentre con uno scatto delle braccia sollevò il mantello, prima adagiato lungo i suoi fianchi. Così rivelò delle fondine, dalle quali estrasse una coppia di coltelli che tenne stretti tra le dita.

E scagliandoli in avanti, proclamò: Thou must die!”

Lo sguardo di Fenrir non mutò minimamente, imperscrutabile come sempre, neppure quando in uno dei suoi occhi tanto glaciali si conficcò proprio un coltello. L’altro invece aveva mirato al cuore, e lì trafisse la giacca fino a raggiungere la carne.

Gli dèi trasalirono, ma non era finita lì: un’altra pioggia di coltelli si abbatté sul lupo, tramutandolo in un puntaspilli.

“Guy Fawkes ha colpito Fenrir senza lasciargli scampo!” Strepitarono gli annunciatori, anch’essi increduli per via dell’assurdità di quella scena. Ogni aspettativa si era ribaltata di colpo, infrangendo la cieca fiducia che le divinità riponevano nella loro avanguardia.

“Fenrir!” Persino Jormungandr sobbalzò, assieme ai due nipoti: “Papà!”

Nell’arena, i due combattenti avevano di nuovo smesso di muoversi, tornando alla loro condizione di statue.

Ora il vento faceva svolazzare di lato il mantello dell’inglese, dando l’impressione che avesse una singola ala nera allungata verso l’alto.

“Questa…” Una voce interruppe il silenzio “… non è la tua Arma.”

Guy Fawkes guardò incuriosito l’espressione vagamente basita di Fenrir, che ora aveva spalancato il suo unico occhio per la sorpresa.

“Già… perdonami lo scherzo.” Ammise infine l’uomo, sinceramente pentito.

Lentamente, a trucco svelato, i coltelli si staccarono dal corpo di Fenrir senza aver davvero lacerato la sua carne: le loro lame si erano piegate come se fossero state di carta.

E mentre gli dèi rimanevano ancor di più stupiti, insistette: “Ma… lo sapevi già? Oppure hai voluto rischiare?”

A quella domanda il Lupo del Ragnarok reagì in modo del tutto nuovo: inclinando la testa di lato e sollevando le spalle, inarcò le sopracciglia per assumere un’espressione innocente.

“Non mi sono mosso perché non ne avevo voglia.”

Qualcosa in Guy Fawkes si infranse, per poi esplodere in una miriade di frammenti. L’uomo ripiombò di colpo nell’abisso di incertezze di prima, in cui tutto era scuro e nulla era certo.

-Non vuole stare ai patti?!- Lo aveva realizzato solo dopo quella reazione.

Il comportamento di Fenrir non era stato dettato dalla paura, bensì dalla noia: non lo aveva attaccato solo perché non ne aveva voglia. Persino in quel momento però la sua espressione poteva significargli qualsiasi cosa, ma celare in realtà un’intenzione del tutto diversa.

Per quella bestia, terminare o meno una vita di qualcun altro era una questione di voglia.

-O forse mi ha illuso per poi fregarmi?- Anche se avrebbe voluto concentrarsi su altro, questa domanda inevitabilmente sfrecciò nella mente di Guy Fawkes: -Mi trovo davvero di fronte ad un essere tanto crudele?-

Iniziava finalmente a percepire anch’egli ciò che vedevano tutti, ovvero la reale natura di Fenrir.

 

E dopo quella triviale conversazione, il lupo compì qualcosa di altrettanto indifferente per lui:

“Lœðingr!”

 Un capo della catena che formava la sua sciarpa si mosse in completa autonomia, sfrecciando in avanti.

“Fenrir sta… attaccando!” Gridò Adramelech, osservando quel lampo d’acciaio che fendeva l’aria.

Guy Fawkes ne rimase impressionato quanto tutti gli altri, perché non avrebbe mai immaginato che in battaglia Fenrir avrebbe utilizzato una simile mossa; tuttavia, siccome era già in stato di allerta da diverso tempo, ebbe la prontezza di riflessi per schivare.

“Ma Guy Wakes evita l’attacco!” Proseguì St.Peter “O… quasi?!”

Effettivamente, come si poté notare, la catena mancò il bersaglio, tuttavia proseguì lungo il suo percorso. Non avendo apparentemente fine, senza rallentare continuò a srotolarsi in avanti, per poi curvare in volo e ridirigersi verso dov’era appena atterrato il suo bersaglio.

“Un attacco che non dà tregua, ladies and gentlemen!”

 

“Una catena?! Che razza di stile di combattimento è?” Si domandavano intanto gli umani, terrorizzati da quell’attacco a ricerca che dava la caccia a Guy Fawkes. Videro la loro avanguardia saltare in ogni direzione, correre ed evitare all’ultimo secondo, ma la catena Lœðingr non interrompeva il suo inseguimento.

“Già… chi mai potrebbe pensare a qualcosa del genere?” Sibilò beffardo Jormungandr, che era tornato a sorridere ora che il fratello aveva fatto la sua prima mossa.

“Quando gli dèi provarono ad intrappolare Fenrir con tutte le catene che avevano a disposizione, riuscirono a bloccarlo soltanto al terzo tentativo, ovvero con la catena Gleipnir. Quel folle però, quando venne liberato, chiese soltanto una cosa: di tenere con sé le catene che erano state usate su di lui! In questo modo ha sviluppato una tecnica di combattimento con delle catene fatte per sottomettere persino un dio!”

I figli del lupo ascoltarono quel racconto con la meraviglia negli occhi, fin quando non vennero distratti da un particolare che prima non avevano notato: “Ma zio Jorm, allora… se sta usando Lœðingr per attaccare… che catena è quella lì?”

E a quella domanda persino Jormungandr non seppe dare risposta, ed anzi, rimase ugualmente stupito da ciò che gli era stato fatto notare: sulla schiena di Fenrir era assicurato un involucro di catene, simile ad un gigantesco bozzolo, o una crisalide.

-Non ne ho la benché minima idea… ma se è un’altra delle sue assurde strategie, forse nessuno al mondo potrebbe capirlo.-

 

Per quanto Guy Fawkes avesse gli occhi puntati sulla catena, e riuscisse a vederla perfettamente persino alla velocità con la quale si muoveva, un sentore disturbante gli ghiacciò il sangue nelle vene.

-Sta accelerando!- Comprese che Fenrir stesse mostrando appena una parte del suo reale potere.

Un lupo non balza sulla sua preda dopo la prima occhiata: la può inseguire per giorni, attrarla in un territorio in cui è avvantaggiato, e dopo che è stata sfiancata la colpisce brutalmente.

-Non posso finire così!-

Ma per quanto un uomo possa sperare, e correre superando i propri limiti alimentato dall’adrenalina, non può evitare l’inevitabile. Prima ancora che lo vedesse, Guy percepì il dolore: una fitta al centro del petto.

Dove mirano i tiratori più esperti: il centro di massa del corpo umano, il plesso solare, apparentemente meno letale della testa, ma in realtà così vicino agli organi vitali e alla spina dorsale da conferire quasi sicuramente un colpo mortale.

La catena aveva perforato il suo corpo come uno spiedo, mentre il suo mantello nero, ora non più svolazzante, si era attaccato alla sua schiena. Gocce di sangue scorrevano al suolo, trascinate fuori da quella catena che continuava a fluire dentro la sua ferita come un treno in una galleria.  Dopo un po’ si arrestò, avendo fermato un percorso nell’aria che ricopriva gran parte dell’arena, collegando i due combattenti.

Non era il filo rosso del destino a legarli, bensì un laccio di ferro rosso di sangue.

 

-Che ironia.- Pensò l’uomo, mentre veniva prosciugato della sua energia vitale con quel colpo secco.

“Guy…”

-Eh?-

“Guy!”

 

“Guy!”

Sua madre lo aveva richiamato mentre giocava con i suoi amici. Nei suoi occhi c’era preoccupazione, e lanciava sguardi inquieti a destra e manca, tuttavia quando vide arrivare il suo bambino si sforzò di sorridere dolcemente.

“Non giocare con quei bambini.” Gli disse, passandogli sui capelli un panno bagnato, finendo poi per accarezzargli la testa. “Sono protestanti… e non vedrebbero bene la gente come noi, se scoprissero chi siamo in realtà.”

Erano gli anni settanta del millecinquecento, ovvero un periodo che per i cattolici inglesi corrispondeva all’inferno in terra. Dopo che la regina Elisabetta Prima, nel 1558 aveva ordinato che tutti i cittadini inglesi si convertissero al protestantesimo, tutti i cattolici erano considerati nemici della corona e degni di venir perseguitati.

Edith Fawkes, madre di Guy, era una cattolica convertita per volontà del marito, affinché non venisse arrestata o peggio. Tuttavia, la donna non aveva mai smesso di considerarsi cattolica, e di riflesso era fermamente convinta che anche suo figlio lo fosse: con qualcun altro con cui condividere quel gravoso sacrificio, si sentiva meno sola e più devota a quella specie di martirio.

Tuttavia al piccolo Guy importava ben poco delle questioni religiose che laceravano e facevano soffrire il suo paese, come ci si aspetterebbe da un bambino. Trovava sempre qualcosa di mistico nelle preghiere e nelle parole devote della madre, ma restavano nient’altro che scongiuri magici alle sue orecchie, senza far vibrare alcuna corda nel suo cuore.

“Tu promettimi che crederai sempre in Dio, Guy…” Gli disse la donna, guardandolo negli occhi con così tanta intensità da commuoversi. “Ti prego… a qualsiasi costo… per il bene superiore.”

Il bene superiore.

Due parole che Guy non comprese mai, per quanto gli venissero ripetute costantemente. Secondo sua madre, qualsiasi cosa accadesse nel mondo, e qualsiasi azione degli uomini, andava ricondotta alla volontà di un essere superiore, dagli intenti inafferrabili e per questo molto più elevato dei comuni umani.

Solo raramente qualche essere umano poteva cogliere parte di quel volere, ed interpretarlo per dare insegnamento al prossimo. Quelle persone erano speciali, e venivano chiamati in molti modi: santi, messia, profeti, salvatori. Secondo Edith, ogni cattolico inglese che proteggeva la sua vera fede era degno di questi titoli, per il grande sacrificio che stavano compiendo.

Ma a Guy non interessavano queste faccende aldilà della vita terrena.

Proprio per questo motivo prestò poco interesse alle parole dette durante il funerale del padre, nel 1579, limitandosi ad assistere alla cerimonia con fare annoiato, così come suo madre.

Qualche anno più tardi però la donna si risposò, e a detta sua: “Con un uomo che poteva imbrigliare le sorti del destino”. Un altro modo per chiamare quegli individui elevati, ed insomma, un altro cattolico che nascondeva la sua vera religione.

Però effettivamente quest’uomo era diverso, e per quanto poco potesse interessare al piccolo Guy, sentì che lui era qualcuno deciso a ribaltare il regno, e l’oppressione protestante della regina Elisabetta: un uomo chiamato cospiratore.

Sapeva quasi nulla di lui, eppure ogni tanto, nel cuore della notte, gli era capitato di sbirciare nel tabernacolo di casa. Il suo nuovo padre sedeva assieme ad altri uomini attorno ad una croce, illuminati solo dalla luce delle candele. Un’atmosfera che non aveva nulla a che fare con il religioso permeava quelle sedute, e la tensione palpabile nell’aria lasciava presagire la pericolosità di tutto ciò.

Capitava così spesso che quegli uomini facessero loro visita, che Guy divenne amico con un altro ragazzo, figlio di cospiratori: Robert Catesby. Il piccolo Robert gli teneva compagnia durante quei lunghi giorni in cui i loro genitori erano impegnati, parlando del più e del meno e giocando come ragazzini.

Eppure il ragazzo sembrava più informato di Guy riguardo le questioni trattate durante le sedute:

“Sai, la famiglia Shakespeare di Straford, anch’essa cattolica, ha iniziato a scrivere a mio padre. Probabilmente ci verranno a fare visita anche loro, un giorno. Così saremo ancor più cattolici.”

-Contro un intero regno di protestanti.- Avrebbe voluto ribadire Guy, ma non volle essere troppo cinico. Dopotutto era un bambino, ed era già tanto che una chiacchiera sulla solita faccenda che gli rimbombava nelle orecchie da che era nato, avesse catturato la sua attenzione.

Tuttavia, distraendosi a parlare, il ragazzino scoprì di essersi spinto in un angolo della casa che mai aveva visitato. Era lo studio del suo nuovo padre, un luogo in cui gli era stato proibito l’accesso sin dal suo trasferimento.

Si guardò attorno, e trovando nient’altro che lo sguardo ugualmente curioso di Robert, gli fece cenno di entrare senza far rumore. Una volta lì dentro, poterono trovare una stanza buia, siccome le finestre erano chiuse ermeticamente dall’interno. Solo un tavolo era illuminato da una candela, rivelando diverse lettere e carte sparpagliate o ammassate.

Pareva che diversi libri formassero colonne in giro sul pavimento, rendendo l’esplorazione abbastanza impervia. Così Guy scelse di afferrare la candela dal suo piattino ed usarla per farsi luce.

Voltandosi, gli apparve davanti agli occhi qualcosa che non aveva mai visto prima, e che simbolicamente aveva sottratto dall’oscurità per portarla alla sua conoscenza. Si trattava di un barile senza coperchio, dentro il quale si poteva quindi intravedere una specie di polvere granulosa, più scura dei chicchi di caffè.

Sul barile era riportata la scritta: “Gunpowder”.

Prima ancora che lo stupore di Guy avesse fine, o che Robert potesse metterlo in guardia, una goccia di cera incandescente scivolò verso il basso. Quella singola stilla bianca e ardente, chi mai l’avrebbe immaginato, non appena entrò a contatto con il contenuto del barile si trasformò in luce.

Tutto era diventato luce abbagliante, come quella di cui Guy aveva sentito parlare nei racconti religiosi di sua madre. Una luce che investì tutto, persino il suono: un boato fragoroso che fece tremare le fondamenta della casa, tranne che per due muri nello studio, dato che erano stati abbattuti seduta stante.

Allarmati più che mai, tutti coloro radunati in quella proprietà corsero verso le macerie della stanza. Robert Catersby venne tratto in salvo dal padre, nonostante si fosse tenuto abbastanza lontano dal barile per essere rimasto intoccato dall’esplosione.

“Guy!!” Strillò invece Edith, richiamando disperatamente quel figlio che non vedeva più.

Cercò ovunque, tra le macerie ed i detriti, e persino tra quelle poche fiamme che ormai si stavano estinguendo in fretta. Quando anche il suo nuovo marito lo aveva cercato in ogni dove, insieme porsero lo sguardo verso il cortile esterno che ora l’assente muro mostrava.

Trovarono lì, disteso a faccia in su come un angelo della neve tra la cenere e la terra, un bambino ricoperto di nero ma con un sorriso smagliante in volto.

Un qualsiasi essere umano, a così poca distanza da un’esplosione di quel genere, sarebbe potuto diventare cieco, sordo, o come minimo riportare ustioni e danni irreparabili. Tuttavia, a differenza della credenza popolare, un’esplosione non è mai uguale ad un’altra, e ciò non riguarda la sua intensità o potenza. Si tratta della sua deflagrazione: esattamente com’è imprevedibile la danza di una fiamma, allo stesso modo lo scoppio di un esplosivo può assumere qualsiasi particolarissima forma.

E, nel caso più unico che raro di Guy, ciò che lo investì fu solo l’onda d’urto, proiettandolo all’indietro prima ancora che le fiamme divampassero.

Quel bambino si sollevò di scatto, mettendosi seduto per guardare in faccia i suoi genitori.

“Mamma!” Urlò, con un’energia che gli straripava dai polmoni fino alla bocca, sempre più contratta per la contentezza.

“L’ho visto! Finalmente l’ho visto: il bene superiore!”

E così, quel giorno, Guy Fawkes aveva trovato il dio nell’esplosione.

 

“E così anche la tua vita è legata a qualcosa come un’esplosione?!” Quando sentì questa storia, l’uomo non poté trattenersi dal sogghignare, per poi scoppiare a ridere battendosi una mano sulle gambe.

Guy gongolò appena, per poi cercare di non apparire troppo indiscreto: “Ma no! Non oserei mai dire che lo scopo della mia vita è pari al suo, sir…”

Parlando a tu per tu, anche se con una distanza dettata dal rispetto e dall’ammirazione, l’uomo si era appena confidato con un altro condottiero dell’umanità: Masutatsu Oyama.

“Nonostane siamo entrambi uomini che sanno cosa voglia dire uccidere un’esplosione, ciò che è riuscito lei durante il primo scontro di questo torneo è…” L’inglese si sentì così insignificante anche solo a ricordare l’esito della battaglia che aveva visto vincitore Masutatsu .

Per quanto nella sua vita fosse rimasto affascinato dalle esplosioni come lo è un devoto verso il suo dio, ciò che era stato prodotto dai pugni di quell’uomo incredibile era stato un vero e proprio spettacolo senza paragoni.

Il karateka si prese il mento tra le dita di una mano, assumendo una posa pensierosa.

“Bhe, avrai anche ragione tu… io e te siamo diversi, e quel tipo di esplosione… non fa per te. Tu sei un codardo!” Dopo aver detto parole tanto schiette, ed essersi accorto di quanto avesse fatto precipitare l’umore dell’inglese, Mas scosse le mani in avanti con fare impacciato.

“Ehi, ehi! Aspetta!” Una volta riottenuta l’attenzione di Guy, senza che si demoralizzasse troppo, continuò:

“Non il codardo di tipo cattivo, ma del tipo… ninja!”

“Ninja?”

“Non conosci i ninja?!”

Masutatsu Oyama proseguì dunque ad introdurre quell’uomo più vecchio di lui di diverse centinaia di anni, ad un mondo che in vita non avrebbe nemmeno potuto immaginare.

 

Il Kayakujutsu è uno stile di combattimento adottato dai ninja, il cui nome significa “Arte della polvere da sparo”, che comprende varie tecniche adottanti l’uso di esplosivi di ogni genere.

Gli scopi possono essere distrarre, confondere, accecare e ovviamente ferire. Il fuoco, elemento primario e primordiale che l’uomo conosce sin dai suoi primi passi sulla terra, unito ad una polvere nera, può generare un’infinità di eventi, come infinite sono le rifrazioni della luce che danno vita ai colori.

 

 Pur non essendo nato conoscendo quei miti di prestigiosi maestri dell’inganno, quell’uomo che aveva quasi rovesciato il proprio regno, aveva appreso quante più nozioni possibili per prepararsi allo scontro.

Così, nonostante fosse stato trafitto da quella specie di lancia, rimase fermo in piedi e non si piegò. Dopodiché allargò le spalle, distendendo le braccia verso l’alto per formare una “U” sopra la sua testa.

“Cosa?!” Sussultarono gli annunciatori “Guy Fawkes è ancora in piedi dopo quell’attacco! Ed anzi… si sta preparando a fare… qualcosa!”

Neppure Fenrir seppe immaginare quale attacco sarebbe potuto scaturire, soprattutto perché era stato colto alla sprovvista dall’energia vitale dell’uomo, che francamente aveva già dato per spacciato.

Il secondo dopo Guy abbassò le braccia di scatto, serrando le mani attorno alla catena che gli sporgeva dal petto per schiacciarla in mezzo ai suoi palmi. Tuttavia, al posto dello schioppo che ci si sarebbe aspettato da un battito di mani, seguì un rumore del tutto diverso: rimbombante, vibrante, altissimo e al contempo profondo.

Un’esplosione.

Fumo grigiastro si sollevò dal corpo dell’inglese, laddove ormai la catena Lœðingr era piombata ai suoi piedi.

Il Lupo del Ragnarok, che fino ad allora non aveva alterato la sua espressione stoica per nulla al mondo, ora si era incupito. I suoi occhi erano incorniciati da un’ombra scura, rendendo la sua anima ancor più impenetrabile, perché avvolta dall’oscurità.

Ma, per quanto stesse terrorizzando diversi umani e dèi, la maggior parte delle attenzioni si erano concentrate su Guy Fawkes.

-L’esplosione è un’arte nobile… ma io sono un vile!- La sua maschera rappresentò perfettamente il sorriso, nonostante da sotto i baffi stessero iniziando a scorrere dei fili di sangue.

-Ma cosa importa chi io sia in realtà? La storia ha pur sempre bisogno di un motore che la faccia andare avanti… una miccia che vada accesa da qualcuno che non ha paura dell’esplosione che ne seguirà… quindi la provenienza della mano che aziona il meccanismo è del tutto iniqua.-

Riprese il cappello che gli era caduto durante il colpo, calandoselo sulla testa per incorniciare ancora una volta quel sorriso macchiato di rosso.

-Ed ora mostrerò agli umani un mondo in cui un dio può essere ucciso… anche da un vile come me!-

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Scusate il ritardo, a cui certamente non siete abituati, ma solo ora sono libero da tutti quegli impegni che mi hanno fatto ritardare la continuazione della storia.

Avviso che da ora in poi non ho altri capitoli già pronti, quindi scriverò ed aggiornerò senza poter davvero accumulare niente. Forse in futuro ci saranno altri ritardi nella pubblicazione, ma ormai stiamo raggiungendo il finale, quindi stringete i denti!

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Capitolo 26
*** Chapter 26: I Have Swallowed That Hope ***


Chapter 26: I Have Swallowed That Hope

Ladies and gentlemen… per quanto Guy Fawkes non sia ancora riuscito ad infliggere il suo primo colpo, è sopravvissuto all’attacco di Fenrir ed è riuscito a spezzare Lœðingr! Nessuno si sarebbe mai aspettato niente di simile!”

Fermento ed eccitazione imperversavano nell’aria, perché ora l’esito dello scontro era diventato incerto e tumultuoso come un cielo ricoperto di nuvole.

Sulla landa arida del campo di battaglia non aleggiava più un filo di vento, come se la natura stessa si stesse piegando. E la fonte di quella pressione schiacciante che soffocava persino l’ambiente era proprio Fenrir.

Il Lupo del Ragnarok aveva reso il suo sguardo inarrivabile, coperto da una dimensione di buio perpetuo, mentre tutto attorno a lui il creato veniva scosso dalla tensione.

“Mi vuoi attaccare con tutta la tua forza, giusto?” Lo canzonò Guy Fawkes, raddrizzando la schiena e portandosi una mano al volto, per coprire parte della maschera.

Da quel momento in poi iniziò a muovere i suoi arti, le sue giunture ed articolazioni come se il suo intero corpo fosse diventato un fluido inquieto, come l’acqua di un ruscello. Una marionetta dai fili intrecciati, che ricadeva al suolo e si rialzava con l’impetuosità di un vortice, senza seguire alcuna regola o forma.

La danza è uno dei modi più liberi per il corpo e la mente di dimostrare la propria disciplina, l’autocontrollo, confidenza, ma anche devozione, lealtà e amore, sottoforma di flessibilità, tempismo e coordinazione.

Ballare è caos nell’ordine. E Guy Fawkes aveva preso a ballare seguendo una musica assai caotica: il ritmo dei suoi pensieri.

 

Pistole da guanto Sedgley, usate dalla Seconda Guerra Mondiale fino alla Guerra Fredda. Questo meccanismo, nascondibile in un guanto, permette di sparare un proiettile facendo contatto con un corpo che premerà il grilletto. Essendo un’arma utilizzata prevalentemente per gli assassinii, possiede un solo proiettile.

Affidandosi al suo amore per la modernità di cui aveva discusso proprio con Fenrir, Guy aveva scelto proprio quell’arma per stupire il pubblico nella sua esibizione. Lo scoppio che aveva rotto la catena aveva fatto sembrare il suo colpo simile al potere di Masutatsu Oyama, tuttavia si trattava di un’arma celata e alquanto inutile in qualsiasi altra situazione.

Però lo scopo delle arti ninja è proprio quello di indurre l’avversario a pensare che qualsiasi attacco sia qualcosa di assurdo ed incomprensibile, in modo da colpirlo in un modo ancor più insidioso e fuori dalla sua immaginazione.

“Però io non ti darò il tempo di contrattaccare!” Esclamò, balzando in avanti.

“Drómim!”

L’ira di Fenrir esplose, facendo librare un altro capo di catena, più grosso del precedente, in aria. Ma era troppo tardi, perché ormai Guy si era avvicinato fin troppo.

Come un enorme serpente che si schiantò sul terreno, il colpo cercò di schiacciare l’inglese, piegando la terra sotto il suo peso gigantesco. Tuttavia Guy si muoveva agilmente, piroettando tra gli attacchi come un pattinatore sul ghiaccio.

Quando infine fu arrivato a tiro, estrasse un coltello come quelli di prima, acquattandosi per terra per preparare un salto.

“Guy vuole riprovarci con un attacco di coltello?!” Strillarono gli annunciatori.

“Ma prima abbiamo visto che non possono nuocere Fenrir!” Gli umani erano ugualmente sconvolti: “È forse pazzo?!”

-Pazzo? No…- Rispose mentalmente Guy, affondando a sangue freddo la sua pugnalata verso il petto dell’avversario.

“Preferisco che mi si chiami genio visionario!”

“È un altro attacco che… spara. Dico bene?”  La voce di Fenrir spazzò via ogni pensiero ed ogni sua tensione, facendo tabula rasa e lasciando solo uno spazio bianco nella sua mente.

Guy, nonostante fosse partito alla carica con tanta foga, tentennò e si bloccò.

Si sentì come un piccolo granello di sabbia che si era scontrato contro una parete di ghiaccio. E quell’enorme iceberg che ora lo inglobava nella sua ombra non era nient’altro che Fenrir.

Troppo tardi si rese conto di come in realtà il Lupo avesse previsto ogni sua singola mossa, tuttavia non poteva più arrestare il suo corpo.

Premette un pulsante nascosto sul pugnale, e la lama si separò dal manico, espulsa per via della propulsione di una molla.

Un coltello balistico, per definizione, eietta la sua lama lungo una traiettoria balistica. Il vantaggio di quest’arma è senza dubbio l’imprevedibilità di quest’ultima funzione d’attacco, assieme alla potenza che supera notevolmente quella con la quale un qualsiasi braccio umano potrebbe lanciare un coltello.

In questo modo, il colpo di Guy si sarebbe rivelato più letale di tutti quei coltelli scagliati in precedenza per far abbassare la guardia al suo nemico. O almeno, questo sperava fin quando Fenrir non si era dimostrato meno incauto del previsto.

Lo aveva aspettato fino a quel momento.

La lama volante venne afferrata tra gli anelli della veloce catena Lœðingr, come se fosse stata la cosa più facile del mondo.

Ed ora che Guy si era slanciato in avanti, scoperto e disarmato, restava inerme di fronte al sopracitato minaccioso iceberg che incombeva su di lui. I capelli di Fenrir si rizzarono in aria per tutta la tensione rilasciata sottoforma di elettricità statica, mentre i suoi occhi finalmente si spalancavano alla luce del sole, in modo da riflettere la sua luce in quegli specchi di cristallo.

“Se prima non trovavo modo di attaccarti, né di difendermi… adesso mi sono ricordato…” La catena  Drómim si sollevò sopra la testa di Guy, come un braccio gigantesco pronto a calare a mo di ghigliottina.

“Mi sono ricordato perché uno come te non merita alcuna pietà!” Sentenziò il lupo, mostrando per la prima volta i suoi denti serrati in un ringhio ferale.

“Drómim!”

 

Un boato riecheggiò nell’arena, accompagnando il levarsi di uno schizzo di sangue.

“L-Ladies…” Balbettarono Adramelech e St.Peter, abbracciandosi tra loro per l’apprensione mista alla paura che suscitava quanto era appena successo “…and gentlemen!”

Uomini e dèi si affacciarono, sporgendosi il più in avanti possibile verso il campo di battaglia perché non credevano ai loro occhi, e pensarono di esser stati tratti in inganno.

Fu necessario un replay sui grandi schermi olografici per chiarire quanto fosse accaduto:

Nel momento stesso in cui Fenrir aveva inaugurato il suo attacco, Guy aveva mosso una minuscola parte del suo corpo in un istante di tempo appena percettibile. Si trattava del suo dito indice, il quale si era staccato dal manico del coltello per premere un altro punto, diverso dal bottone che aveva eiettato la lama.

In quel modo, dalla cavità nel manico era fuoriuscito un oggetto a grandissima velocità, più veloce della lama sparata dalla molla, e più veloce anche della catena di Fenrir. Un bossolo dorato, appuntito fino a risultare un’arma aerodinamica ed infallibile, specialmente a quella distanza.

Un proiettile.

Si trattava dunque di un coltello balistico con anche un meccanismo da pistola incorporata, esattamente come le pistole da guanto: un NRS-2 Scout Firing Knife. Tutto ciò era andato oltre le previsioni di Fenrir, risultando in un attacco impossibile da schivare.

Perforando la pancia della divinità, quella pallottola aveva lasciato dietro di sé una scia di sangue che poi si era adagiata sul terreno, come lo schizzo di un pennello su tela.

 

Gli occhi sgranati di Fenrir avevano assunto ora un significato del tutto diverso. Non era più rabbia, collera, ferocia, vendetta, bensì umano e straziante dolore.

 

“Voi divinità siete così vecchie, retrograde… e nemiche del progresso.” Guy lanciò il coltello alle sue spalle con fare giocoso, per poi poggiarsi una mano su di un fianco in una comoda posa.

“Ai vostri tempi, nei miti e nelle leggende… eravate invincibili oltre ogni limite e gli umani non potevano nemmeno sognare di ferirvi. Ma il motivo… sapete qual è?” Distese le braccia in avanti, come per presentare il suo nemico ferito davanti agli sguardi di tutti.

“È perché non esistevano ancora le armi da fuoco! Quando sono arrivati proiettili e cannonate… non c’è più stato posto per divinità e bestie fantastiche: non c’è niente al mondo che non possa essere ucciso da un colpo di pistola!”

Le tribune delle divinità si riempirono di sguardi stupefatti, o ringhi sommessi per la rabbia che stavano covando.

A tutti gli effetti però, il motivo della loro rabbia era principalmente uno: Guy Fawkes aveva ragione.

Numerosi eroi nella storia hanno sfidato gli dèi e le creature soprannaturali con armi o a mani nude, ma nessuno di loro era mai stato colpito da una pallottola, e per quindi non potevano certo dire di potervi resistere.

Ed ora, inequivocabilmente, Fenrir ed il suo ventre sanguinante erano la prova.

 

“Padre!” Strillarono all’unisono Hati e Skǫll, i quali mai avevano visto loro padre ridotto in quello stato.

Mentre fino a poco prima quell’uomo mascherato pareva solo un moscerino facilmente schiacciabile, ora era diventato lo spauracchio delle divinità: qualcuno che aveva mostrato una debolezza innegabile di loro tutti.

“Ragazzi… non disperate!” Sibilò fra i denti stretti Jormungandr, visibilmente irrequieto. Guardò alle sue spalle, dove due individui si erano appena avvicinati: “Scommetto che è la stessa cosa che sono venuti a dirci questi due…”

Ed in particolare il suo sguardo si fece torvo su di un dio dal viso stoico come quello di suo fratello, con la differenza che questi aveva dei lunghissimi capelli rossi ed un gigantesco martello assicurato alla schiena.

Il dio del fulmine, Thor, non si degnò di rispondere e preferì mantenere il suo fare distaccato.

Al contrario, un vecchio capace di ammutolire chiunque soltanto con la sua imponente presenza, aprì bocca: “Esatto! Quel lupo… se bastasse davvero così poco per ucciderlo, allora vorrebbe dire che dovrei ricredermi su di una convinzione durata millenni. La convinzione… che lui fosse il più forte tra il nostro pantheon.”

Thor, seppur rimanendo espressivo come una statua, rivolse lo sguardo al padre: “Persino più forte di me?”

Ed Odino, guardandolo seriamente con il suo unico occhio, rispose: “Ovvio.”

 

Correva. Le sue zampe di lupo, seppur piccole, gli permettevano di sferzare l’aria fredda a gran velocità. Sfrecciava tra i ghiacciai e le rupi, senza sosta e senza guardarsi indietro. Qualcosa d’un tratto catturò la sua attenzione, togliendogli il respiro per un attimo.

Rallentò sempre di più, per poi proseguire ad un’andatura lenta verso quell’albero pallido. Mentre avanzava, il suo corpo mutò forma, prendendo le sembianze di un bambino dai capelli argentei ma con ancora delle orecchie ed una coda da lupo.

Il piccolo, o meglio “cucciolo”, Fenrir si avvicinò ai suoi fratellini. Jormungandr aveva attorcigliato la sua corta coda attorno ad un ramo, lasciando penzolare a testa in giù il suo corpo da bambino, mentre Hel era seduta su di una radice.

“Vi ha presi?” Domandò il lupetto, serissimo. Non ricevette risposta, ma prima ancora di iniziare ad insospettirsi, notò come sui volti dei suoi fratelli si fosse spalancato un gigantesco ghigno.

Lentamente, i due bambini si fusero in una poltiglia fumante, e Fenrir capì che era troppo tardi.

“Acchiappato!” Dopo aver dissolto quell’illusione, un uomo diede un colpetto di dito sul naso del lupo.

Lui, seppur inizialmente sorpreso, scoppiò a ridere assieme a quell’individuo, che altri non era se non suo padre. Loki, il dio degli inganni, lo abbracciò forte per poi prenderlo giocosamente in giro.

Ben presto i veri altri due figli li raggiunsero, e constatando la sconfitta di Fenrir non poterono non ridacchiare anche loro.

“Gnehehe! Mannaggia Fenrir, sei cascato nel tranello più vecchio del mondo!”

“Non lo prendere in giro, Jorm. Tu sei stato il primo a venir preso.” Hel riprese suo fratello minore con aria saccente, facendolo infuriare ancor di più. Per fortuna intervenne anche Fenrir:

“Hel, io ti ho vista quando papà ti ha acchiappato perché si era mutato in una montagna di pietre preziose.”

La bambina arrossì per l’imbarazzo, dopodiché si strinse nelle spalle e squittì capricciosa: “Uffa! La speranza è l’ultima a morire. Un giorno sono sicura che anche qui nello Jötunheimr troverò delle pietre preziose e mi riempirò di gioielli!”

Jötunheimr era il nome della terra dove si trovavano: uno dei nove mondi, sopra Midgard, quello degli umani, ed Asgard, quello degli dèi. Si trattava di una landa di ghiaccio e pietra che tuttavia aveva dato i natali a Loki, e che per questo aveva scelto per accudire i suoi figli. Loro non avevano mai visto nessun altro mondo se non quello, ma loro padre raccontava spesso di tutti i viaggi e le avventure che aveva compiuto, intrattenendoli in un universo di mondi fantastici che non avrebbero potuto esplorare.

I tre bambini erano dunque cresciuti in quel modo, conoscendo nessun altro tranne loro padre e qualche gigante.

Jormungandr si scontrava spesso contro i giganti, desiderando ardentemente di diventare grande e forte come loro. Fenrir non voleva nulla di più dalla vita che trascorreva lì, mentre al contrario, Hel pretendeva che il padre la portasse fuori da Jötunheimr per farle visitare gli altri mondi. Tuttavia, ciò era impossibile, a detta sua.

 

E proprio dopo un giorno come tanti altri, mentre i bambini discutevano ancora sui giochi che potevano fare, si accorsero del volto di Loki, divenuto mesto e grigio.

“Che ti prende, papà?” Domandò Jormungandr, tirandolo per una manica. Lui sobbalzò, colto alla sprovvista.

Dopo aver guardato tutti i suoi figli con uno sguardo alquanto triste, mutò la sua espressione in un dolcissimo sorriso: “Pensavo che… è il momento di andare.”

“Andare?” I bambini lo fissarono con gli occhi spalancati per la curiosità.

“Andare… ad Asgard.”

Asgard: la terra promessa delle divinità del pantheon norreno, nella la quale gli umani supplicano di venir spediti dopo la loro morte. Solo grandi eroi e dèi possono però aggiudicarsi un posto in quella città-palazzo colma di lusso, ricchezza ed ogni altro capriccio, mortale o non.

Dal momento dell’annuncio, fin quando non vi misero piede, i tre figli di Loki non placarono il loro stupore e la loro meraviglia. Dopo esser stati reclusi così a lungo tra ghiaccio e giganti, tutta quella magnificenza andava ben oltre le aspettative create dai racconti di loro padre. Soprattutto Hel pareva quella più in visibilio, siccome si fermava ad osservare ogni singolo mattone d’oro puro o gioiello rarissimo con occhi altrettanto scintillanti.

Quello stupore dovette venir placato, sotto consiglio di loro padre, quando si ritrovarono di fronte alla sala del trono. Lì, il Padre di tutti gli dèi nordici, Odino, sedeva con uno sguardo severo protratto in avanti.

Ai piedi del suo trono, sulle scale che lo sopraelevavano, c’era un giovane dai capelli rossi appoggiato ad un gigantesco martello, alto circa il triplo di lui.

“Loki. Ne è passato  tempo…” La voce cavernosa di Odino riecheggiò nella sala.

“Che c’è? Ti sono mancato?” Sogghignò il burlone, ma l’altro proseguì:

“Ne è passato di tempo da quando non ti si vede più ad Asgard. E per tutto questo tempo trascorso sei stato nello Jötunheimr, con i giganti… a combinare chissà cosa.”

“Sai… forse fanno una brutta impressione quei ragazzacci, visti da quassù, sul tuo bel trono. Però ti assicuro che se ci vivi un po’ assieme non sono affatto mal-“

“Taci!” Tuonò Odino, smorzando il ghigno di Loki come mai niente era riuscito prima. L’aria si fece di colpo gravosa e tesa, ed i figli del burlone iniziarono a comprendere una cosa: non avrebbero voluto più stare lì.

“Ti ho convocato affinché tu mi mostrassi la tua prole.” Riprese il Padre, abbassando poi il suo occhio sui tre.

“E… quanto dicono le profezie è vero: sono dei mostri. Mostri terribili, che uniti e se cresciuti con un’indole malvagia, non porteranno nient’altro che distruzione per noi dèi.”

A quelle parole i bambini iniziarono a tremare. Non era stata l’accusa a sgomentarli così, tanto più la voce di Odino così seria ed allarmata. C’era una nota abbastanza calcata di preoccupazione, come se davvero loro fossero dei mostri, come se davvero loro non fossero nient’altro che portatori di male.

E Loki stava zitto, a testa bassa.

“Li porteremo via da te.” Sentenziò infine il dio degli dèi.

“Ma che cazzo dici, vecchiaccio?!” Fenrir, Hel e Loki sollevarono il capo, esterrefatti.

Jormungandr aveva gli occhi iniettati di sangue e le zanne in bella vista, come quando combatteva all’ultimo sangue contro i giganti più pericolosi. Pronto a scattare, con tutti i muscoli in tensione, soffiò verso Odino.

“Tu non ci porterai mai lontani da nostro padre! Mai!”

Il vecchio rimase in silenzio per qualche secondo, scrutando fino a fondo quel suo avversario. Dopo un po’ sospirò: “Fortunatamente è ancora troppo presto affinché tu possa rappresentare un pericolo. Thor!”

E con un balzo fulmineo, il dio del tuono si portò davanti al serpente. Gli bastò oscillare il suo immenso Mjölnir per scaraventarlo via, oltre il trono di Odino e fuori da Asgard. Tutti lo videro precipitare in un abisso apparentemente infinito, mentre il suo grido di terrore echeggiava ancora in tutto il regno degli dèi.

Hel si portò le mani davanti alla bocca, atterrita, mentre Fenrir non riuscì a far nulla, se non rimanere con la mascella spalancata e gli occhi sbarrati.

“Hai avuto quel che volevi, no?” Con uno sforzo immenso, Loki porse questa domanda ad Odino.

“Ovviamente non è morto.” Rispose lui. “Thor lo ha solo spedito nella terra degli uomini.”

“Non è quello che ti ho chiesto!” La calma di Loki si incrinò “Ti ho chiesto… se fossi soddisfatto, adesso che mi hai portato via un figlio.”

Ma l’occhio di Odino si mosse implacabile sull’unica figlia femmina, facendola sobbalzare, e tremare.

Il cuore del lupo perse un battito.

“Ammetto di esser stato piuttosto rude con tuo figlio, ma ho reagito così soltanto perché ha mostrato intenti nocivi. Non sono un assassino, e per tanto credo in una seconda possibilità: darò ai tuoi figli occasione di mostrarmi che possono diventare qualcosa di buono. Ad esempio tu, ragazza… posso assegnarti il Regno dei Morti come casa.”

Hel smise di tremare, ciò nonostante le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso per inerzia.

“Avrai un dominio, come qualsiasi altra dea. Gli umani ti rispetteranno, ti adoreranno, e potrai far visita a tutti i nove mondi liberamente, se lo vorrai.”

Tuttavia, Loki si era già portato una mano davanti alla faccia per nascondere l’orrenda smorfia di odio e dolore che indossava: “Ti prego… non… portarmi via anche lei.” Rantolò con il tono di voce più bassa che potesse.

La mano di Thor si strinse quasi impercettibilmente attorno all’impugnatura di Mjölnir : Fenrir lo vide, e per tanto balzò in allerta nell’istante più intenso e drammatico della sua vita.

“Va bene così, padre.” La voce che gli fuoriuscì dalla bocca fu ferma e serena, come un’amorevole rassicurazione. “Diventare una dea e poter vedere tutti i nove mondi… è sempre stato il sogno di Hel.”

Guardò sua sorella, e per quanto si stesse sforzando di fingere, le lacrime presero a colargli comunque dagli occhi. Hel si lanciò su di lui, abbracciandolo mentre singhiozzava più forte di tutti.

Odino si rilassò sul suo trono,facendo apparire l’ombra di un sorriso sul suo volto austero: “Bene, è deciso. Quanto a te… piccolo lupo… sei leale, a differenza di tuo padre, ma come lui possiedi una mente molto sveglia. Mi piacerebbe crescerti qui ad Asgard, dove potrai confrontarti con tutti gli dèi e gli eroi della storia, e da loro apprendere sempre di più. Tutto ciò, in cambio della tua fedeltà come guardiano degli dèi.”

Fenrir non perse nemmeno un attimo, ed annuì.

Il suo pensiero andò a suo padre: se davvero fosse diventato il guardiano di Asgard, probabilmente non l’avrebbe mai potuta lasciare, però tramite Loki avrebbe potuto mantenersi in contatto con Hel e Jormungandr. Infondo, dunque, non avevano perso nulla.

Gli venne da sorridere, ma in realtà dentro di sé covava un ghigno da lupo famelico.

 

Jormungandr sorrise, ricordando quell’aneddoto così significativo della sua vita, e che era stato raccontato infinite volte ad Hati e Skǫll.

In quel momento però, tra il gruppo di dèi nordici, si aggiunse Odino. Un secondo Odino, che prese a guardare quello che già era lì presente con occhio torvo.

“Ooops!” In men che non si dica il primo si rivelò essere proprio Loki. Il burlone iniziò a volteggiare, finendo abbracciato al collo del suo figlio più piccolo. “Comunque sia, non ci distraiamo troppo! Sta succedendo qualcosa di davvero interessante, lì…”

 

I due sfidanti sul campo di battaglia erano entrambi feriti abbastanza gravemente, a giudicare dal sangue che sgorgava dalle loro ferite.

Tuttavia, dire che si fossero arresi era un’utopia, qualcosa di impossibile ed assolutamente impensabile.

Per la seconda volta Fenrir aveva mutato la natura del suo sguardo. Passando dalla calma alla rabbia, finalmente aveva raggiunto il modo perfetto di guardare il mondo ed il suo avversario: con concentrazione e ferocia, come gli occhi di un predatore avrebbero dovuto squadrare la preda che astutamente stava venendo cacciata. Il genio di suo padre Loki non era stato ereditato per niente.

“Drómim!”

La pesante catena si sollevò da lui come una freccia sparata nel cielo, per poi compiere una parabola nel cielo e piombare su di Guy Fawkes. L’inglese dovette compiere un impressionante balzo all’indietro per evitare l’attacco, ma con grande sorpresa vide come la catena non avesse affatto smesso di muoversi: al contrario, si sollevò di nuovo da terra per compiere una seconda parabola.

Una dopo l’altra dovette schivarle, indietreggiando mentre veniva inseguito da quella successione di arcate che minacciavano di schiacciarlo.

-Mi basterebbe venir colpito anche solo una volta per morire.- Rifletté a mente fredda, schivando i colpi mortali. Era costretto ad allontanarsi da Fenrir, e sapeva che ben presto alle sue spalle si sarebbe parata la fine dell’arena.

La realizzazione di essere costretto a cambiare percorso lo portò ad inseguire un’impulsiva intuizione: dopo aver calcolato la velocità impiegata dalle catene per sollevarsi e poi calare verso il basso, approfittò del momento propizio per raggirare il colpo lateralmente. In questo modo sentì uno schianto alle sue spalle, ma ormai stava già sfrecciando verso il suo avversario.

-Pensavi di avermi messo alle strette?!- Percepiva la catena inseguirlo, ma sapeva bene che non l’avrebbe mai preso, così come sapeva che Fenrir non sarebbe riuscito a ritirarla a sé in tempo per difendersi.

-Purtroppo per te sono un passo avan…!-

“Gjöll!”

Qualcosa di immenso e fortissimo lo colpì alla schiena, trapassandogli la pelle, i muscoli, le ossa e rimbombandogli nei polmoni così intensamente da togliergli il respiro. I suoi occhi si erano fatti vacui per un istante.

-Non è stata la catena a colpirmi…- Realizzò, mentre la sua carne vibrava come una cassa di risonanza.

-Questa è… un’onda d’urto!-

Non aveva avuto modo di vederlo, proprio perché ormai si era lasciato il suo unico pericolo alle spalle, in un punto cieco: un secondo prima, la catena Drómim non aveva ripetuto il suo ciclo perpetuo, bensì  si era agganciata al terreno così saldamente da strappare una lastra di terra. Successivamente l’aveva abbattuta al suolo, e seppur mancando Guy di qualche centimetro, lo spostamento d’aria causato dalla mole gigantesca del colpo era bastato per frastornarlo.

Quella pausa era ciò che Fenrir aveva atteso a lungo, e che ora gli lasciò sulla bocca un sottile ghigno famelico.

“Lœðingr!”

Dall’interno del macigno attaccato alla grossa catena fuoriuscirono all’improvviso numerosi legacci formati dalla catena più sottile, Lœðingr.

- Lœðingr era… stata attorcigliata attorno a Drómim per poter scagliare questo attacco!- Questo fu ciò che Guy Fawkes riuscì a pensare, prima di venir avvolto, catturato, ed infine vincolato al masso.

-Me l’hai… fatta…-

La catena più grande iniziò a sollevarsi, trascinandolo lontano da terra.

 “Gjöll!”

E nuovamente si abbatté al suolo, così poderosamente da far tremare l’intera Arena del Valhalla.

 

“Guy…” Gli aveva detto un giorno Robert Catesby, guardandolo dritto negli occhi. “Tu ed io rovesceremo questa Inghilterra corrotta.”

Ma cosa ne era rimasto di tutto ciò?

Una volta che il maestro delle spie Cecil aveva rivelato a Re James I del loro complotto, in quella notte di oscurità tinta di bianco dalla neve, tutti i loro sogni erano stati dispersi nel vento.

I cavalli galoppavano, pallottole sfrecciavano nell’aria, tra gli alberi, e corpi stramazzavano al suolo per venir inghiottiti dal buio.

La mente di Robert non smetteva però di rimbombare sempre al suono delle stesse parole: -Guy! Guy! Dove sei?!-

Un altro sparo. Quattro uomini.

Le loro speranze si erano infrante, e ciò che rimaneva del loro piano era solo una disperata fuga alla ricerca della salvezza. Da tredici cospiratori, erano rimasti solo cinque uomini spaventati.

Tre uomini.

-Ovunque tu sia… salvati, ti prego!-

Due uomini.

Cadde da cavallo, rotolando ai piedi di un mausoleo nel bel mezzo del bosco. Lì si trascinò nella neve, lasciando una striscia di sangue che pareva quasi un tappeto rosso nobiliare.

Un solo uomo.

-Salva l’Inghilterra… o salva te stesso.-

La luce della luna filtrò attraverso una crepa nel soffitto, assieme ad un turbinio di fiocchi di neve che danzavano dolci e lenti: tutto ciò si posò sul corpo di un uomo disteso, cullato in una pozza vermiglia ed abbracciato ad un quadretto con la Santa Vergine.

 

E mentre tutto ciò avveniva, alle guardie del Parlamento era stato ordinato di ispezionare i sotterranei. Ciò nonostante, fu comunque una sorpresa da batticuore per il capitano Sir Thomas Knyvett trovare una figura ammantata tra le ombre.

“Chi sei?!” Gli urlò, ma quello spettro nero non si mosse affatto, degnandolo solo delle spalle.

In questo modo nessuno avrebbe mai visto che, nascosto dal suo largo mantello, quell’uomo stringeva tra le mani un piccolo fiammifero. La fiamma illuminava il suo corpo, ma non il suo viso, gettato nell’oscurità dal suo largo cappello. Ma, soprattutto, illuminava parte di tutti quei barili di polvere da sparo ammassato di fronte a sé.

L’uomo tuttavia scelse di soffocare il fuoco nel suo pugno, emanando un sospiro profondo.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Perdonate il ritardo, spero di avervi regalato un capitolo soddisfacente. Personalmente mi sento molto orgoglioso di questo scontro, non l’avrei mai detto. È davvero divertente trattare la mitologia norrena, così come mostrare degli stili di combattimento non proprio convenzionali.

Fatemi sapere quel che ne pensate!

Alla prossima!

P.S: La theme song di questo settimo scontro è “The Phoenix “dei Fall Out Boy, mentre il titolo di questo capitolo mi è stato ispirato dalla canzone “Then, the Sky Opened Up and Swallowed Them Whole” dei The Paper Melody.

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Capitolo 27
*** Chapter 27: Unchained ***


Chapter 27: Unchained

“Il mio unico rimpianto è che il mio piano abbia fallito”

Questa era stata la frase che più aveva colpito Re James I, quando interrogò il cospiratore trovato nei sotterranei del Parlamento.

Aveva confessato tutto, come se sapesse che ormai non ci fosse più nulla da perdere, e che i suoi compagni fossero stati già tutti uccisi o arrestati. Addirittura, al momento della sua esecuzione, preferì lanciarsi giù dalla gogna col cappio al collo pur di chiudere in fretta la sua vita.

Tuttavia…!

 

“F-Fenrir…” La voce degli annunciatori focalizzò l’attenzione su di un dettaglio dell’avanguardia degli dèi, che in pochi avevano notato. In effetti si trattava di un piccolo particolare, appena percettibile in tutto il polverone sollevatosi dopo l’ultimo attacco, ciò nonostante bastò per ammutolire sul posto chiunque se ne accorse.

Erano frammenti che, come neve, si sgretolavano e cadevano al suolo da una barriera di catene che Fenrir aveva eretto a sua difesa, sopra la sua testa.

“Cosa è stato ad attaccare Fenrir?!” Sobbalzò Jormungandr, enunciando la domanda che tutti si stavano ponendo.

Solo Fenrir apparentemente sembrava conoscere la risposta, e per tanto il suo volto si era incupito. Aveva fissato il suo sguardo sul responsabile di tutto ciò, trovandolo al di sotto dell’enorme macigno al quale era stato incatenato, e che ora lo schiacciava a terra.

Lì sporgeva appena il volto di Guy Fawkes, ed era nient’altro che la sua maschera: un sorriso spettrale, attraversato da crepe e rivoli di sangue.

“Oh, ce l’hai con me?” Tra vari sussulti per il dolore, l’uomo scoppiò a ridere, noncurante di tutta l’ira che il Lupo del Ragnarok gli stava rivolgendo contro. Dopodiché sollevò un braccio, l’unico che potesse, mostrando così una handgun.

“Sei troppo… lento.”

Guy Fawkes aveva percepito in anticipo il precedente colpo dell’avversario, così, pur non potendo reagire, aveva preparato un’arma. Gli era bastato il semplice momento in cui Fenrir l’aveva sollevato in cielo, e pur incatenato, aveva avuto modo di sparargli da un’angolazione che era passata inosservata a tutti.

“Ma devo farti i complimenti. Se non avessi bloccato quel colpo, ora saresti morto.” Noncurante della propria salute, parlava della vita del suo nemico con tono beffardo, schernendolo.

Fenrir sapeva che si trattasse solo di provocazioni.

“Che c’è? Mi ignori? Mah… poco male!” Tuttavia, il suo nemico iniziò a fare qualcosa che stavolta non si sarebbe mai aspettato. Di colpo parve rimpicciolirsi, o meglio, restringersi.

“Guy Fawkes sta…” Urlarono St.Peter e Adramelech “…sta sparendo sotto il macigno!”

Tutti assistettero infatti alla sparizione del britannico, rintanatosi il più possibile sotto i detriti che lo avevano schiacciato.

 

Si attese un secondo. Poi due secondi.

Al terzo secondo un raggio di luce squarciò la lastra di pietra, dapprima dividendola in due, per poi frantumarla e sparpagliare i suoi frammenti nell’aria con una poderosa esplosione.

Boudicca e Charlotte Corday rimasero a bocca aperta per lo stupore, ma il più esterrefatto fu Masutatsu Oyama, mentre le fiamme divampanti e la luce terrificante si riflettevano a pieno nei suoi occhi.

Dopodiché, non ci fu modo per nessuna creatura di seguire il corso degli eventi.

Ciò che serve dire è che, da quel poderoso scoppio, un lampo nero era stato eiettato ad alta velocità in direzione di Fenrir. Si trattava di Guy Fawkes, ma la sua forma aveva perso qualsiasi tratto umano, deformata dall’aerodinamicità per diventare soltanto una forma allungata: una lancia.

“Spear of Gungnir!”

E quella lancia, più veloce di qualsiasi proiettile fosse mai stato sparato da un essere umano, talmente tanto rapida da trasformare persino un corpo umano in un’arma, venne fermata da una singola mano divina.

Fenrir infatti aveva sollevato il suo braccio, artigliando la maschera di Guy Fawkes ed arrestando la sua carica. Lo bloccò all’istante, contrastando l’inerzia al punto da far sembrare che l’uomo non si fosse mai mosso.

L’inglese sentì la porcellana infrangersi sotto gli artigli di Fenrir, ormai appartenenti ad una zampa bestiale, ma a nulla servì contorcersi.

“Quella è…” Sussultò Odino, per poi guardare anche Loki e Thor, ricevendo conferma dai loro occhi.

“Quella è la vera forza di mio fratello… la stessa che gli è stata sigillata per tutto questo tempo.” Sibilò Jormungandr, sentendosi di colpo alla stregua di un serpentello. Lui, che era una bestia così forte da esser quasi stata scelta per il Torneo del Ragnarok.

Persino Hati e Skǫll iniziarono a tremare di fronte al loro stesso padre, come se non l’avessero mai visto prima di allora.

Ed in effetti del precedente Fenrir era rimasto ben poco. I suoi capelli argentei, ora fusi con il volto per formare del pelo che gli incorniciava due occhi da bestia, erano rizzi come spine. Inoltre i suoi muscoli ormai non potevano più venir contenuti da dei semplici vestiti, e per tanto, dopo aver squarciato il tessuto, si mostravano gonfi e calcati da fiumi di vene, assieme a numerose cicatrici che percorrevano il suo corpo per intero.

“È la sua forma senza più vincoli… Senza Catene.” Persino suo padre Loki era stupefatto, tuttavia palesava il suo stupore con un sorriso inebetito e due occhi colmi di lacrime commosse.

“Tu… sapevi che il Ragnarok l’avrebbe portato a questo livello di potenza?” Domandò Odino, fremendo per la rabbia, al punto da far mettere in guardia persino Thor. Ma il buffone non lo degnò nemmeno di uno sguardo, e continuando a guardare orgogliosamente il proprio figlio, semplicemente sibilò:

“No, non è stato un mio piano. Lo ammetto, mi sarebbe piaciuto… ma qui si tratta del lavoro di qualcun altro.”

 

Mentre il pantheon nordico era stato lanciato nel caos da quest’ultima dichiarazione, uno dei due combattenti aveva ripreso a muoversi.

Era stato Fenrir, o più precisamente, le sue catene. Stavolta si sollevarono tutte dal suo collo, lasciandolo scoperto: si unirono, mescolandosi e prendendo la forma di una gigantesca spada con la lama sollevata verso il cielo.

“…Angrboða…”

Tutti trattennero il respiro.

“Sai… per me sarebbe la cosa migliore arrendermi, adesso.”  

Ed in quel momento di quiete prima della tempesta, Guy Fawkes ruppe il silenzio. La sua voce era appena un sussurro, capace di farsi ascoltare solo e soltanto da Fenrir.

“Arrendendomi avrei salva la vita, e nulla mi tratterrebbe dal far saltare tutti voi dèi in aria con la mia Arma, mentre siete impegnati con il prossimo scontro. ”

Le crepe sulla sua maschera continuavano ad espandersi, facendo scricchiolare e soffrire la porcellana.

“Ma non è questo ciò che vorrei davvero!” Ed in quell’istante il pezzo inferiore si staccò, mostrando un sorriso spavaldo. “Questo perché, arrendendomi con le parole ma non con i fatti, non sarei per nulla coerente! Al contrario, io credo fermamente che un uomo deve fare ciò che dice: prendere un’iniziativa significa giurare di compiere un’azione a costo della nostra vita!”

Il Lupo del Ragnarok aveva gli occhi sbarrati, impossibilitato dall’agire.

“Ed io ho giurato di vincere questa battaglia costi quel che costi! Non posso proprio tirarmi indietro solo perché sei molto più forte e spaventoso di me!”

Quell’uomo sull’orlo della sconfitta, patetico ed in fin di vita, riusciva in qualche modo ad emettere un’aura di onore e coraggio in grado di oscurare del tutto la minaccia della divinità.

E proprio quell’aura aveva raggiunto gli spalti dell’umanità, riempiendo i cuori e gli occhi degli uomini di lacrime, senza nemmeno che loro sapessero il perché.

“È questo…” In particolar modo, il drammaturgo William Shakespeare aveva smesso di tremare come di rabbia, rivelando le sue vere emozioni in un pianto commosso.

“È questo che significa davvero combattere! Per tutta la mia vita non ho fatto altro che ripulire la mia immagine ingraziandomi nobili e potenti… mentre lui, un uomo come me… anziché piegarsi ha combattuto fino alla fine!”

Le sue parole bastarono ad ispirare tutti coloro che avesse attorno, dando vita ad un boato di incoraggiamento che incitava Guy Fawkes a mantener fede alla sua promessa. Nessuno più lo vedeva come uno sconfitto, bensì come qualcuno che, come Masutatsu Oyama, Vlad e Dante, avevano ribaltato la situazione anche nella loro ora più buia.

Ciò nonostante, una figura continuava ad osservare perplessa quello scenario: si trattava del maestro delle spie, Robert Cecil.

 

La storia narra che, quando Guy Fawkes venne arrestato, resistette agli interrogatori e alle torture in tutti i modi, lasciando come unica testimonianza al re James I una singola frase:

“Il mio unico rimpianto è che il mio piano abbia fallito!”

E dopo una strenua resistenza, avrebbe ceduto, rivelando i nomi degli altri cospiratori rimasti in vita.

Tuttavia… niente di tutto ciò era vero!

E proprio il maestro delle spie lo sapeva meglio di tutti. Dopotutto, era stato lui a ricevere un’ombra nella notte che lo aveva avvisato in anticipo della Congiura delle Polveri.

Ma non si trattava di una sua spia.

“Ti staresti costituendo, forse?” Chiese il lord alla figura ammantata, prima che essa si svelasse il capo.

Era proprio Guy Fawkes, con lo stesso volto che poi avrebbero raffigurato nella maschere.

“Per niente. Il piano verrà seguito da me in persona, come è stato programmato.”

Cecil non fece mistero dei suoi pensieri: “Sei forse pazzo? Un uomo con un piano del genere, portandolo a termine potrebbe rivoltare l’Inghilterra ed ottenere esattamente ciò che vuole. Fermeresti la piaga che affligge la tua gente, diverresti un eroe! Cosa ti impedisce di…?”

“Io non voglio fermare proprio nulla.” Gli aveva risposto quell’uomo, prima di sparire nel buio.

“Per questo mi arrenderò. Però, so in cuor mio che questo fallimento porterà a qualcosa di grandioso… ed un giorno, qualcun altro vincerà questa guerra per me. Come nel gioco d’azzardo, non c’è nulla di disonorevole nel ritirarsi, se ritieni che comunque il tuo avversario non l’avrà vinta.”

 

E nell’arena, anche Fenrir era stato forse impressionato da quella determinazione?

Affatto.

“Te ne sei accorto, eh?” Il sorriso di Guy divenne d’improvviso un ghigno affilato, beffardo, e per nulla onorevole.

Il Lupo iniziò a mormorare, dando voce ai suoi pensieri: “Hai appena detto che… potresti far saltare in aria gli dèi con la tua Arma. Non ti riferivi a quelle cose con cui mi hai ferito.”

-Cosa potrebbe essere?- Se davvero la morte non avrebbe fermato il piano di Guy, allora ucciderlo sarebbe stato inutile. La mente di Fenrir iniziò a processare informazioni ad una velocità superiore a quella di un cervello umano, in modo da individuare il pericolo che stavano correndo tutte le divinità.

Nonostante fosse lui a stringere la gola del suo nemico, sentiva la falce della Morte premere sul suo collo.

-Non posso sbagliarmi! Non posso fallire!-

Gli unici attacchi che Guy aveva mostrato erano stati tramite degli attrezzi misteriosi, i quali gli donavano capacità quasi pari a quelle di un’Arma, ad esempio la possibilità di rompere le sue catene e ferirlo.

L’unico particolare diverso da tutti era l’attacco appena scagliato: Spear of Gungnir.

-È stata una propulsione, causata da un’esplosione che ha infranto il mio Gjöll. Ma… perché non l’ha usata prima per liberarsi?! Ha preferito spararmi, seppur sapendo che avrei parato il suo proiettile. Che abbia aspettato… il giusto momento?-

“Tempo scaduto!”

E quando Guy accese il fiammifero che nessuno gli aveva visto estrarre, proprio in quel momento, nella mente del Lupo tutto si fece chiaro.

 

Ricordò di quando aveva letto il fascicolo sul suo avversario, venendo a conoscenza per la prima volta di cosa fosse la polvere da sparo. Era rimasto sorpreso, in seguito, dallo scoprire quanti modi di infiammare le cose esistessero.

Un oggetto poteva prendere fuoco. Un liquido poteva prendere fuoco. Ed anche l’aria, se saturata da particelle di un materiale infiammabile, poteva esplodere.

Quando poco prima Guy aveva fatto esplodere Gjöll, aveva scelto di rintanarsi al di sotto del masso: lì sotto l’aria infiammabile era così poca da non destare alcun sospetto, così gli era bastato accendere un fiammifero senza che nessuno lo potesse notare.

-Ma allora quando l’aria è stata saturata?- Si era chiesto Fenrir, mentre anche tutto il mondo al di fuori dei suoi pensieri si faceva luminoso, e soprattutto incandescente.

La risposta gli era giunta troppo tardi: quando Guy era entrato sul campo di battaglia, era avvolto da un grande fumo che tuttavia aveva fatto presto a dissolversi nell’aria.

L’Arena del Valhalla era incapsulata da un campo di forza che rendeva impossibile qualsiasi contatto tra l’esterno e l’interno. In questo modo, un possibile gas non avrebbe avuto modo di dissolversi del tutto, ed anzi era rimasto concentrato sul campo di battaglia. Così, ora che Guy aveva finalmente deciso di mostrare tutte le sue carte, gli era bastato accendere un fiammifero per incendiare l’atmosfera circostante. 

 

Tutto divenne brillante. Una simile esplosione non poté venir contenuta neppure dal campo magico che proteggeva gli spalti, ed infatti riuscì a scuotere l’intero colosseo.

Dèi ed umani tremarono, in balia di una potenza mai registrata prima.

St.Peter ed Adramelech vennero scagliati all’indietro, assieme ai loro microfoni, urlando: “Ladies and gentlen, please, tenetevi forteee!”

Quando il boato smise di riecheggiare nelle orecchie di tutti, per qualche secondo non si sentì altro che un fischio lontano. Infine, gli occhi si riabituarono alla luce normale, e chiunque fu impaziente di vedere cosa ne fosse rimasto del campo di battaglia.

Sorprendentemente però, al di sotto dei loro sguardi c’era solo una cupola nera. Il fumo denso lasciava a stento intravedere vampate di fiamme, che guizzavano in un inferno nascosto.

Quando gli annunciatori recuperarono la loro postazione, per poco non ricaddero al suolo dallo spavento:

“La temperatura raggiunta all’interno della cupola è impossibile da sopportare per qualsiasi creatura vivente! Dobbiamo assolutamente intervenire!”

 

Ciò che stava accadendo era senza dubbio l’evento più incredibile che si fosse mai visto dall’inizio del torneo. Eppure, ciò che in realtà non sarebbe mai stato esposto al pubblico, era un affare molto più importante, che andava a toccare le fragili corde delle vite umane e divine.

Sarebbe avvenuto alla fine del settimo scontro:

Gli occhi di Madre Terra osservavano l’arena, ma non palesavano alcuna emozione. Tutto di lei era annegato in un fango denso e scuro, persino ogni sua bontà o paura.

“Hai una bella faccia tosta per rivolgerti così a me…” Solo allora si voltò, infiammando di colpo quegli stessi occhi con un inquietante bagliore.

“E anche tutti voi… ne pagherete le conseguenze!”

Ma il titano a cui aveva parlato, ovvero Prometheus, non batté ciglio neppure di fronte ad un’aura di pericolosità così intensa. Al suo fianco, tutte le divinità radunate si strinsero per farsi forza, e così resistettero: c’era suo fratello Epimetheus, Fobetore, Nyx, Erebo e Zeus, come lui del pantheon greco, assieme al Grande Padre Odino con il suo figlio più forte Thor, ed Ammit accompagnato da Ptah.

Ben dieci divinità, contando una delle dee organizzatrici ed in carica nel Concilio degli Dèi, erano pronte ad affrontare l’ira di Gaia.

Prometheus strinse i pugni: “Sarai tu a pagare, maledetta doppiogiochista!”

“Non osate fare un altro passo!” Due figure balzarono in difesa del titano.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Scusate il ritardo, ma non appena questo scontro sarà completato spero di scrivere molti più capitoli di fila! Comunque sia, fatemi sapere cosa ne pensate anche di quell’evento misterioso nel finale.

Alla prossima!

P.S: Se a qualcuno potesse interessare, ho iniziato una storia sul fandom di Danganronpa: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3920792&i=1

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Capitolo 28
*** Chapter 28: I Have Swallowed That Hope (Final) ***


 Chapter 28: I Have Swallowed That Hope (Final)

Tramite un incantesimo di qualche tipo l’ambiente all’interno della cupola era stato privato del fumo e delle fiamme. Ora era possibile per tutti acquietare la propria preoccupazione, scoprendo finalmente cosa fosse accaduto nell’arena.

Ciò che trovarono fu un territorio completamente trasformato: la terra era stata crepata, smossa e dissestata come se fosse stata fatta a pezzi e poi assemblata caoticamente. Dove prima c’era una piana, ora grottesche rupi e strapiombi nell’abisso delimitavano un cratere dove il suolo era divenuto nero ed esalava fumi grigi.

L-Ladies and gentlemen… Fenrir è…”

E proprio quella cenere si smosse, come una coperta sotto la quale si agitava un corpo.

“È ancora vivo!”

Il Lupo del Ragnarok si sollevò dal suo letto di distruzione, tossendo sangue e tremando ancora per il colpo subito. Il suo pelo, un tempo argenteo, si era colorato di rosso scuro per le tremende ferite ricevute, ed in alcune parti la sua carne era nient’altro che macchie carbonifere e fumanti.

Cieco da un occhio e quasi del tutto assordato dall’esplosione, realizzò che se non avesse assunto la sua forma Senza Catene in tempo, non sarebbe mai potuto sopravvivere ad un simile attacco.

A-And also…”

“Spero ti sia piaciuto il mio attacco! Ah, no? Mannaggia, non riesco proprio a strapparti un sorriso, oggi.”

“Guy Fawkes! È vivo anche lui!” Strepitarono gli annunciatori, facendo notare l’apparizione del britannico, ancora bardato ed ammantato, assieme all’inseparabile cappello che si era appena calcato in testa.

La constatazione che lo scontro non fosse ancora terminato, nonostante quanto fosse accaduto, bastò per far comprendere a qualsiasi spettatore che le creature all’interno dell’arena erano senza dubbio tra le più forti mai esistite.

Ma purtroppo, come due stelle estremamente brillanti, una è destinata ad oscurare la luce dell’altra nel cielo.

 

“Anche se te ne sei accorto all’ultimo… complimenti per aver compreso quale fosse la mia vera Arma, tratta dalla Sefirot Hod, la Gloria: Gunpowder Misery, l’ingrediente segreto per una ricetta capace di uccidere gli dèi!”

Mentre lui parlava, Fenrir notò un dettaglio alquanto disturbante: del volto di Guy Fawkes, parzialmente nascosto dal cappello, era rimasto poco e niente.

“Oh? Questo?” Quando se ne accorse, l’uomo piegò quella che pareva essere la sua bocca in un sorriso: “È stato un piccolo prezzo da pagare! Sai, il mio abito è ignifugo e capace di resistere a qualsiasi esplosione, e così era anche la mia maschera… però purtroppo si è rotta. Che ci posso fare?!”

E scoppiò a ridere con fare esaltato, avanzando intanto verso il Lupo.

“Temo di esser giunto al capitolo finale della nostra storia, quindi…” Estrasse una pistola dalla sua giacca “È il momento degli ultimi saluti.”

All’inizio non se ne accorse nemmeno, perché non c’era stato alcun dolore, solo una sensazione di leggerezza al suo braccio. Quando però udì un tonfo ai suoi piedi, non poté non chinare lo sguardo, e lì riconobbe proprio la mano con la quale stringeva l’arma da fuoco.

Era lì, separata dal moncone all’altezza del polso, dal quale ora iniziava a scorrere sangue da un perfetto taglio lineare.

“Cosa…?”

La tribuna degli umani venne strozzata da un groppo alla gola per la sorpresa, non comprendendo neppure cosa fosse successo e ritenendolo alla stregua di un’illusione.

Eppure era tutto vero: vero come il dolore che adesso Guy riusciva a provare, e vero come il sogghigno affaticato che si stava spalancando sulla bocca di Fenrir.

“Non sei l’unico che sa giocare sporco.” Mormorò il Lupo, finalmente rivelando all’universo un sorriso, come mai aveva fatto in precedenza.

“Tra i fumi dell’esplosione di prima è stato facile preparare il mio attacco… quindi è soltanto te stesso che devi ringraziare, se adesso perderai!” I suoi denti acuminati ed i suoi occhi freddi, ma ridenti, brillavano di ferocia: “Ecco il MIO ultimo saluto… Gleipnir!

 

“Gleipnir?!” Sussultarono i figli di Fenrir, Hati e Skǫll, così come la maggior parte delle divinità.

“M-Ma noi pensavamo che fosse la catena che papà portava sempre attorno al collo, quella che prima è stata distrutta…”

“Non è così.” Disse solennemente Odino “La vera catena Gleipnir… quella che per millenni ha sigillato la forza di Fenrir… è più sottile di un capello.”

Jormungandr spalancò gli occhi per la sorpresa: “Un capello?!”

Ma il Grande Padre stava già scrutando l’arena, e grazie al suo sguardo che tutto poteva vedere, aveva compreso quale fosse la perfida tecnica appena elaborata dal Lupo del Ragnarok.

 

Tutto il campo di battaglia era attraversato da Gleipnir, la più fine ed indistruttibile catena mai creata: era fissata ad ogni rupe, al terreno, e persino alle pareti dell’arena. Nel complesso formava un’invisibile ragnatela che non si limitava semplicemente a circondare Guy Fawkes, ma anche di non lasciargli alcun punto in cui potesse essere al sicuro.

“Da quel che ho potuto vedere fin’ora…” Iniziò il Lupo: “Dèi ed umani, quando muoiono, sono simili. Entrambi sanguinano, cadono al suolo, e posseggono anche una certa gloria in quel momento… l’onore di essere morti in questo torneo, combattendo per l’orgoglio della propria stirpe. Però…!”

I suoi denti si serrarono in un ringhio selvaggio, deformando i lineamenti del suo viso per far trasparire tutta la sua furia e minacciosa potenza:

“In realtà quando moriamo non c’è nulla! Non esiste gloria dopo la morte, non esiste alcun messaggio che si tramanda, e non c’è nulla di bello in una vita che si estingue! Per questo io non voglio morire: non voglio diventare nulla! Non sparirò nell’oblio!”

Quel discorso lasciò spiazzati sia déi che umani, rendendoli partecipi di una realtà che solo chi combatteva in quell’arena poteva comprendere: il vero significato di vivere o morire.

Guy, di tutta risposta, si prese il moncone sanguinante con l’altra mano, e a capo chino disse: “Ah, e così vorresti lasciare a me il compito di diventare nulla? Bhe, almeno non valuti la possibilità che io possa arrendermi, e questo dimostra il tuo rispetto verso di me… grazie…”

Ma quando sollevò la testa, sul suo volto non c’era affatto un’espressione accondiscendente come le sue parole. Il suo viso deformato mostrava qualcosa di molto simile ad una smorfia beffarda, confusa però con rabbia e pura follia.

“Grazie tante, eh! Stronzo!” Urlò, colmo di disprezzo, e così il duello riprese.

 

Come prima mossa il britannico sollevò il braccio ferito in aria, dipingendo un arco con le gocce di sangue che ne schizzarono. Dopo aver aspettato un secondo, si chinò fino a terra ed avanzò in corsa.

“C-Cosa sta facendo Guy Fawkes?!” Si domandarono gli annunciatori, osservando l’avanguardia dell’umanità continuare a danzare nel campo di battaglia, spostandosi di qua e di là secondo un percorso apparentemente casuale e molto complesso.

Tuttavia, il dettaglio più importante, era che prima di compiere qualsiasi movimento lui spruzzasse stille di sangue fuori dalla sua ferita.

“Usa… il sangue?!” Persino il maestro delle spie Lord Cecil rimase a bocca aperta dallo stupore.

Per quanto un filo sia sottile ed invisibile, una goccia potrà comunque poggiarsi al di sopra. Per questo motivo, all’alba, anche le ragnatele più fini sono visibili, siccome la rugiada le ha bagnate.

In una situazione estrema ed apparentemente senza via di fuga, Guy Fawkes si era adattato alla tecnica finale del suo nemico, sfruttando la propria menomazione per mostrare la strada che lo portasse alla vittoria.

-Ma allora perché… ?-

Corse, evitando la morte come se fosse un gioco da ostacoli, ed infine poté dire di essere arrivato di fronte al suo avversario.

-Perché… ?-

Erano l’uno di fronte all’altro, e mentre il Lupo non possedeva più catene con cui difendersi, lui poteva vantare un’altra pistola nella sua mano intatta.

-Perché?! Perché mi guardi di nuovo con quegli occhi di ghiaccio?!-

La tensione per Guy era aumentata di colpo, raggiungendo in un secondo il grado più alto e folle possibile. Sentiva ogni suo muscolo, ogni sua fibra, ogni sua cellula, tremare dalla preoccupazione.

Era in pericolo.

Riusciva a veder il suo sguardo mortificato dall’ansia riflesso negli occhi glaciali di Fenrir, il quale improvvisamente era ritornato alla sua postura rilassata, ma allo stesso tempo insormontabile.

 

Non lo vide. Nessuno lo poté vedere, se non Odino.

Qualcosa di staccò dal corpo di Fenrir: fu un filamento formato dalla sua stessa essenza, leggero, capillare, che sferzò l’aria per poi diramarsi in tanti raggi, come i petali di un fiore che sboccia.

“Gleipnir!”

La pelle ed il vestito di Guy Fawkes iniziarono a venir decorati da sottili tagli, i quali man mano si estendevano in lunghezza come tantissime fessure.

E fu allora che il Grande Padre nordico lo comprese: quella catena usata per imprigionare e sigillare la forza di Fenrir si era intersecata così tanto nel suo corpo, da venir letteralmente assorbita dalla carne.

La vera natura della forma Senza Catene era quindi quella di potersi liberare da Gleipnir, per poi controllarla.

In quella frazione di secondo Jormungandr, Skǫll e Hati si tesero, mentre Loki ampliò il suo subdolo sorriso.

 

-Non posso arrendermi…!-

Poco prima che la tempesta di fili lo facesse definitivamente a pezzi, Guy sentì ammontare dal profondo del suo cuore un turbinio di forza e speranza.

Le lacrime gli scorrevano ai bordi dei suoi occhi, su di una pelle ustionata ed irriconoscibile.

Diversi tagli gli squarciarono la carne, amputandogli una gamba, poi un orecchio, ed infine percepì qualcosa stringersi attorno al suo braccio armato.

-Non posso arrendermi!- Urlò dentro la sua testa, sollevando proprio quel braccio e riuscendo a premere un dito sul grilletto della pistola, prima di farselo recidere di netto.

Il boato dello sparo non fece nemmeno in tempo a risuonare.

Il proiettile sorvolò la breve distanza che lo separava da Fenrir, e lo colpì: collise precisamente sul suo pugno, un colpo che era stato sferrato così velocemente da intercettarlo a pieno.

La pallottola riuscì a perforare parte della carne, ma dopodiché l’impatto con l’osso bastò per assorbire l’impatto, e la velocità del braccio di Fenrir fu capace di respingerla con potenza triplicata.

Il britannico non riuscì neppure a vedere cosa fosse successo, perché era avvenuto tutto troppo in fretta.

Si accorse di come il suo piano avesse fallito solo quando il suo stesso colpo lo centrò in petto, facendo schizzare sangue ovunque attorno a sé.

 

-Ma sei… sicuro… che io mi sia arreso, Lupo del Ragnarok?-

Non vacillò e non cadde. Il suo liquido vitale era spruzzato nell’aria, ricadendo sulla trappola mortale ed invisibile che tanto aveva temuto fin’ora.

Stille rosse percorrevano Gleipnir, sospese apparentemente a mezz’aria come stelle cremisi nel cielo.

-Allora… non mi hai capito per niente…-

Ancora una volta, da una situazione del tutto imprevista, l’uomo aveva saputo cogliere il momento propizio per adattarsi e non annegare nell’oblio. Per l’ultima volta il suo cervello aveva combattuto con tutte le sue forze, strappando una strategia anche da quel momento così vicino alla parola “sconfitta”.

-IO NON POSSO PERDERE!-

 

Masutatsu Oyama, che per tutto quel tempo aveva assistito allo scontro, venne attraversato da un brivido.

“Nell’aria…” La sentiva tremare, così come tremava la sua mano, quando la guardò. “… questa sensazione!”

La percepì anche tutta l’umanità, al punto da non riuscire più a restare ferma e seduta. Dovettero alzati, scossi da una vibrazione che nasceva dentro di loro, e che li portò presto ad urlare.

E Fenrir, così vicino alla fonte di tutta quell’energia, ne venne sovrastato, sommerso, ed infine invaso.

Era un’onda, un calore, una forza inarrestabile. E, ancora una volta, era luce.

Intanto Guy Fawkes brillava di quella luce intensissima, sprigionata non da un marchingegno, o da un’arma moderna, bensì dall’interno del suo corpo.

-Vivere o morire… queste parole non hanno concretamente nulla in comune con la vittoria.-

I suoi abiti neri non bastarono a contenere lo splendore di cui stava sfolgorando. In particolar modo, quell’energia termica si concentrò sulla parte inferiore del suo corpo, diventando sempre più accecante.

-C’è chi vive una vita non concludendo nulla, e chi muore insoddisfatto. C’è chi è appagato da quel che fa fino alla fine, e chi termina la propria vita con il sorriso sulle labbra. E allora…-

La strada attraverso Gleipnir era stata mostrata.

-E allora…-

L’intero corpo di Guy esplose, partendo dalle gambe, le quali servirono da propulsore per scagliarlo contro Fenrir con la velocità di una supernova.

“Farewell and Godspeed!”

-E ALLORA CHE MALE C’È NEL VINCERE AD OGNI COSTO?!-

Il Lupo del Ragnarok sbarrò gli occhi, diventando microscopico al cospetto di tanta luce sfavillante, di tanto calore, e di tanta sconsiderata follia.

 

Fu la bomba più potente che l’umanità avesse mai conosciuto.

Un perfetto connubio di onnipotenza, spietatezza e crudeltà. Questo perché, quando l’uomo creò gli esplosivi, non lo fece affatto per l’onore, bensì per sbarazzarsi del proprio avversario nel modo più orribile che fosse stato concepito. Secoli e secoli di evoluzione hanno portato a nient’altro che il perfezionamento di certi ordigni, al punto che qualsiasi uomo con abbastanza denaro può permettersi di minacciare la Terra.

Mentre il suolo tremava, la barriera magica del Ragnarok finalmente si infrangeva, e così anche il cielo poteva venir investito da quella colonna di fuoco e fumo nero, tutte le divinità provarono paura.

Guardarono gli umani non più come piccoli esseri fastidiosi, alla stregua di innocue formiche, bensì come una specie che li aveva di gran lunga superati sotto un fattore che loro non avevano mai potuto conoscere.

“Il Male.” Decretò una voce che mai nessuno aveva udito.

Apparteneva ad un ammasso di disordine cosmico, l’origine di tutto e niente: Chaos, il silenzioso membro del Concilio degli Dèi. Per la prima volta nella sua vita, che non aveva mai avuto inizio e mai avrebbe avuto fine, parlò per riconoscere all’umanità qualcosa in cui avevano eccelso.

E la colpa era di nessun’altro, se non che loro.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Oggi per la prima volta faccio un aggiornamento serale!

So bene la domanda che più vi affligge… come sarà finito lo scontro?! Dovrete aspettare una settimana (19 Luglio) per scoprirlo. Nel prossimo capitolo avrà anche inizio l’ottavo scontro, spiegando anche il cliffhanger con cui ci siamo lasciato nello scorso capitolo.

Intanto, ditemi le vostre supposizioni, ma soprattutto se e perché vi è piaciuto questo settimo scontro.

Ah, e aperta e chiusa parentesi, qualche fan di Hunter x Hunter potrebbe aver colto nel finale un mio piccolo tributo all’opera, o meglio ad una tematica da essa affrontata: il diabolico potenziale umano, impiegato nel produrre armi di distruzione di massa.

Il personaggio di Guy Fawks non voleva rappresentare nient’altro che questo: un uomo disposto a vincere una guerra è pronto a farlo a qualunque costo, ed utilizzando qualsiasi mezzo di cui disponga.

Nel caso vi interessasse la mia opinione al riguardo in quanto autore, io sono assolutamente pro al disarmo nucleare, e sulla precisa tematica dell’utilizzo di certe armi nel mondo la darei volentieri vinta agli dèi per l’estinzione della razza umana.

E voi? Da che parte state: dèi o umani?

Alla prossima!

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Capitolo 29
*** Chapter 29: Sine Die, Sine Deo ***


Chapter 29: Sine Die, Sine Deo

L’Arma derivata dalla Sefirot Hod era stata capace di trasformarsi in qualcosa al di fuori di qualsiasi aspettativa, sia divina che mortale.

Quando il fumo si fu diradato del tutto, la terra ancora tremava, e nell’aria si percepiva un certo eco, o un ronzio infestante. Venne innanzitutto appurato che gli spettatori stessero bene, e nonostante le tribune inferiori fossero quasi state inghiottite dal terreno, nessuno era rimasto ferito.

Ladies and gentlemen…” St.Peter e Adramelech ancora non riuscivano a realizzare quanto fosse successo, e per tanto la loro voce continuava ad interrompersi: “La barriera posta attorno al campo di battaglia è stata distrutta… m-ma… ne faremo erigere un’altra!”

Nessuno sembrava davvero interessato da questo dettaglio: infatti, lo sguardo collettivo era posato sull’arena, o almeno ciò che ne era rimasto dopo la tremenda esplosione.

I cancellieri allora deglutirono a vuoto per bagnarsi la gola, e ripartirono con la loro classica foga:

“Dunque…! Come si sarà concluso questo settimo scontro?!”

Era questo il quesito più importante. La sopravvivenza della razza umana, così come l’orgoglio delle divinità, dipendevano dalle prossime parole che sarebbero state pronunciate.

 

Charlotte Corday si strinse forte al braccio di Boudicca, che digrignando i denti mormorava: “Forza… forza… Monsieur Fawkes!”

Anche Shakespeare e Lord Cecil aspettavano con sommo timore, assieme, sorprendentemente, alle  stesse guardie in carica che avevano arrestato Guy Fawkes. Per quanto la reputazione che quell’uomo aveva guadagnato al loro tempo fosse stata tremenda, in quei pochi minuti di scontro si era rivelato una persona così coraggiosa e votata alla sopravvivenza della razza umana da aver dato il tutto e per tutto.

Dall’altra parte, due figli tremavano per la preoccupazione, aspettandosi di rivedere il padre sorgere dalle ceneri. Erano Hati e Skǫll, che abbracciati dallo zio Jormungandr, condividevano la sua stessa apprensione struggente.

“Si intravede qualcosa!” Strillarono gli annunciatori, facendo balzare sull’attenti tutti gli spettatori.

 

Per la prima volta dopo diverso tempo, fu possibile individuare una figura nel cratere nero. Giaceva con la schiena poggiata su di una lastra di pietra sollevata a mo’ di lapide, con il corpo pesante, simile ad uno straccio insanguinato che gocciolava stille rosse ed emetteva fumo dalla carne ormai bruciata.

“Papà…” Sussurrarono i figli del Lupo del Ragnarok. Le prime lacrime però iniziarono a sgorgare dagli occhi serpentini di Jormungandr.

Il corpo del Lupo era parzialmente intatto, probabilmente grazie alla sua forma potenziata, tuttavia sembrava solo un guscio svuotato della potente bestia che era stato un tempo. Frammenti del suo corpo si staccavano come foglie in autunno da un albero, sgretolandosi e liberandosi in aria, trascinati da un vento inesistente e che profumava di nulla assoluto.

“Il Nilfhel…” Mormorò Odino, e poi Thor continuò, freddo: “Dove vanno le anime distrutte qui nel Ragnarok…”

Di Guy Fawkes ormai non rimaneva più niente, essendosi dissolto per trasformarsi nella vera lancia che poi aveva trafitto il Lupo, uccidendolo. Un’Arma a doppio taglio, ma che aveva evitato l’ennesima sconfitta totale.

“È…” La voce di Adramelech e St.Peter aveva ripreso a tremare, sconvolti da quel risultato che mai si sarebbero aspettati: “È un pareggio!”

Incerte emozioni aleggiavano nell’aria, complici di una vittoria da entrambi i lati, che tuttavia non pareva affatto tale. Il sapore dolceamaro delle lacrime piante per un martire non potevano colmare la perdita di un padre, di un fratello, o di una figura di riferimento.

Il Grande Padre Odino squadrava il corpo di Fenrir che si dissolveva, e per la prima volta il suo occhio non pareva affatto distaccato: “Hai svolto il tuo lavoro eccellentemente per tutto questo tempo. Almeno non hai perso…”

E fu quella frase che scatenò l’ira del Serpente del Mondo, il quale si avventò su di lui con tutta la sua forza colossale. Ciò che Odino riuscì a vedere fu solo un bagliore nei suoi occhi dalla pupilla acuminata, poi un luccichio di zanne ed artigli.

Il dio del tuono Thor aveva interrotto la carica di Jormungandr, ma non prima che la bestia avesse scavato un solco nelle tribune lungo diversi metri, sbalzando all’aria qualsiasi dio ci fosse sulla sua strada. Il Grande Padre nordico lo poteva così vedere, frenato a pochissima distanza dal suo viso, contorto dal dolore e dalla sofferenza. Non pareva affatto una temibile bestia.

“Lavoro eccellente?! Ma cosa stai dicendo?! È morto, e per lui non c’è niente! Nemmeno… nemmeno l’abbraccio di nostra sorella Hel!!”

“Hel…” Ripeté Thor, noncurante dell’immenso sforzo che stava impiegando nel trattenere Jormungandr.

“Sì! Hel, nostra sorella…”

“Hel.” Disse stavolta con fare più conciso, ed il serpente notò come il suo sguardo fosse rivolto verso l’arena. Anche Odino fece lo stesso, ed il suo singolo occhio si sbarrò improvvisamente.

 

Si trattava di qualcosa  che per tutto quel tempo era passato inosservato, seppur fosse stato sotto gli occhi di chiunque sin dall’inizio dello scontro. Era sopravvissuto ad ogni intemperie, e persino alle due macroscopiche esplosioni incredibilmente distruttive.

Questo era perché, in quel bozzolo di catene che Fenrir aveva portato con sé, era stata impressa la forza di ben tre tipi di catene: l’elastica Lœðingr, la pesante Drómim e l’indistruttibile Gleipnir.

Ed ora che la morte di Fenrir era giunta, e solo allora che le sue forze si dissolvevano nell’etere, i sigilli erano stati sciolti per liberare l’immenso potere che ormai chiunque stava già avvertendo.

Pareva una canzone senza musica né parole, o un’immagine per ciechi. Non si poteva sentire, cogliere, comprendere, ma era lì, e stava facendo vibrare l’aria con un’intensità mai vista prima. Era come se il creato stesse non avesse atteso altro che quel momento, ed ora si stesse inchinando per accoglierlo con uno squillo di trombe fragoroso più che mai.

Il cielo sopra il colosseo si riempì di nuvole nere grandi quanto l’universo, eppure qualcosa nell’oscurità tumultuosa brillava, e si muovevano. Erano tante, tantissime, infinite: stelle cadenti.

Piccole e dalla sembianza di fiocchi di neve, colorarono il buio di un bianco splendente, per poi posarsi sul campo di battaglia dove fin troppo sangue era stato versato.

 

Solamente un mantello copriva la donna che ora levitava a mezz’aria, sopra il proprio riflesso nel sangue: un lato bianco, ed uno nero, così come erano divisi i suoi lunghi capelli che discendevano sul suo viso, mascherato in parte da un largo diadema dorato attorno agli occhi. Una corona di ossa le adornava la testa, facendo però scorrere rivoli di sangue nero sulla maschera, poi lungo le guancie ed infine al centro del petto, dove un vortice scavava la carne.

La dea, rivelatasi nella prima ed ultima notte dall’inizio di quel torneo, era così spaventosa quanto aggraziata e dolce, avvolta da quel manto di polvere luminosa.

“Hel…” La riconobbe Jormungandr, tuttavia non si fermò lì la sua sorpresa, perché di colpo sua sorella parlò.

“Temo sia stato riportato un risultato sbagliato.” La sua voce, così ferma, aveva rimbombato in modo che nessun potesse ignorarla, insinuandosi così fino nel profondo dei cuori di tutti.

Il gelo nell’aria sembrò aumentare, stringendo i cuori dei meno coraggiosi, ma facendo sussultare i più impavidi.

Adramelech e St.Peter sarebbero pure intervenuti, se qualcos’altro non si fosse mosso, nell’arena.

All’inizio parve quasi un’illusione, un inganno, un colpo basso portato dalla stanchezza e dalla troppa tensione. Poi però, quel qualcosa continuò a muoversi: si rialzò da terra, con movimenti lenti, seppur decisi.

Qualcosa era un corpo sanguinante e ferito, ma intatto e vivo: l’occhio integro di Fenrir non splendeva più, segno che fosse stato reso anch’esso cieco, tuttavia brillava di una sinistra luce.

“Lo stavo fiutando lontano un miglio…” Ammise Loki, padre di quei due che oramai avevano rubato la scena. A dimostrazione di quanto aveva detto, il dio degli inganni non aveva pianto una lacrima, né mosso un dito, dalla morte del figlio.

Presunta morte, a quanto sembrava.

“Fenrir è… è…” Balbettò l’annunciatore demoniaco, mentre quello angelico afferrò il microfono ed esclamò: …vivooo?!!”

Com’era possibile tutto ciò? Il mondo intero sembrava danzare sul palmo della mano di Hel: uno spettacolo organizzato da lei stessa per coinvolgere e stravolgere gli spettatori attraverso emozioni inaspettate.

La Dea della Morte sorrise da entrambi i lati del suo viso.

 

“Avrai un dominio, come qualsiasi altra dea. Gli umani ti rispetteranno, ti adoreranno, e potrai far visita a tutti i nove mondi liberamente, se lo vorrai.”

Con quelle parole Odino, il Padre degli Dèi Nordici, l’aveva allontanata da suo padre e dai suoi fratelli, per poi condurla verso l’aldilà. L’oscuro Nilfheim era tra i più antichi mondi mai generati, dove tutti i mordi venivano indirizzati sin dall’alba dei tempi.

In quel mondo sotterraneo, che nessun dio avrebbe mai dovuto vedere, si vedevano solo anime di uomini e donne. Al suo primo arrivo, avanzando tremante di paura, le venne da chiedersi come mai gli uomini dopo la morte non venissero tutti spediti a banchettare nel Valhalla, come quelli visti ad Asgard. Apprese la risposta, a malincuore, semplicemente ascoltando cosa avessero da dire quelle anime lì segregate, costrette a lunghi cammini tra il ghiaccio ed il buio.

Sentì storie di vite miserabili, di uomini inabili che non avevano mai potuto combattere, di assassini giustiziati, di genitori che avevano preferito sfamare i loro figli piuttosto che partire per la guerra, di morti di vecchiaia o di malattia: tutti loro che dannavano la vita trascorsa, ripudiando qualsiasi azione avessero commesso, e che li avesse portati lì.

Il Nilfheim veniva infatti chiamato “Il Regno dei Morti Disonorati”, ovvero dove finivano le anime di chi in vita non era stato un eroe, o degno dell’ammirazione degli dèi.

Quando Hel pensava che il dolore non fosse abbastanza, infine, vide loro: i bambini.

Erano piccole, fragili creature che strillavano e piangevano, condannati a soffrire in eterno senza poter conoscere nemmeno un giorno nella luce solare, essendo morti ancora in fasce.

Ne prese uno, macchiandosi le braccia di sangue. Lei, nata con un volto deforme capace di disgustare persino gli orribili giganti, e che non aveva conosciuto l’amore se non dalla famiglia che l’aveva accettata sin dalla sua nascita. Quel bambino smise di piangere proprio tra le sue braccia, e le lacrime di entrambi si fermarono di colpo.

Faceva un po’ meno freddo, ora, nell’aldilà.

Lo depositò di nuovo sul suolo, dopodiché proseguì per il suo cammino senza guardare più nessun’anima.

Tremò di paura alla sola vista del gigantesco mastino Garmr, il quale faceva la guardia alla grande magione del suo nuovo regno, dove avrebbe abitato: Eljudnir, la Casa della Morte.

“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui!” La accolse una voce maschile, e subito dopo una femminile: “Il mostro che Odino ci ha mandato!”

Quelle due figure, agghindate di nero con decorazioni di teschi ed ossa, immediatamente la accerchiarono.

“Certo che per spedirti fin quaggiù, vuol dire proprio che non vuole farti vedere da nessuno!” Rise sguaiatamente Ganglati, un servitore della morte ed addetto a quel regno.

Hel, spaventata dalle loro espressioni maligne, si ritrasse come un piccolo animale in pericolo.

“Lo capisco… guarda un po’ questa cosa che ha in faccia!” Quando Ganglot sfiorò con le sue unghie il lato distorto del volto della figlia di Loki, questa sobbalzò, generando ancor più ilarità tra i due.

“C-Chi siete voi? I-Io sono stata mandata qui dal Grande Padre Odino per dominare questo regno!” Mormorò tremante la piccola, indietreggiando fin quando non si sentì schiacciata con la schiena ad una parete.

A quel punto non poté distogliere lo sguardo dalle due minacciose figure che le si erano avvicinate, sogghignando macabramente.

“Ma sentila! Ancora non ha capito…”

“No, è una stupida povera ingenua! Non ha proprio capito…”

Hel esplose in un grido, disperata: “Capito cosa?!” ma tutto quel fiato le morì presto in gola, lasciando la sua voce sospesa a mezz’aria.

Era stata pugnalata all’unisono da due pugnali, facendo sgorgare sangue nero al di sotto del suo vestito grigio. Il volto, già pallido, divenne smunto e quasi trasparente, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.

“Non ha ancora capito…” Risero i due servitori “Che era solo una scusa per toglierti di mezzo!”

Il corpo della bambina ricadde al suolo, o meglio, nella pozzanghera del suo stesso sangue.

“O forse ora l’ha capito!” Le risate di Ganglati e Ganglot riempirono l’aria, rimbombando in quell’oscuro antro. Era l’unica cosa che le orecchie di Hel riuscì a sentire, in punto di morte.

Non percepiva il dolore delle ferite, tantomeno quello della vergogna per esser stata ingannata. Tutto ciò che riusciva a provare era una grande sensazione di vuoto, proprio lì dove era stata pugnalata: le mancava la felicità che, seppur vivendo come un tabù, aveva conosciuto assieme a qualcuno che l’amasse.

-Padre… Jorm… Fenrir… addio.-

 

“E se non dovesse andare così la nostra storia?”

Quella voce era parsa come una luce all’interno dell’enorme, denso e petrolifero buio, dentro la quale Hel stava annegando. Immobile, non poteva che rivolgersi a quella luce.

“Nostra… storia?” Le parole le fuoriuscirono senza pensarci.

“La storia di noi dèi. Così potenti, invincibili, capaci di scuotere il destino dei nostri simili, tanto quanto quello degli umani che ci servono, venerano e temono. Non possiamo di certo permetterci di sparire nel nulla.”

Quando la luce aumentò di intensità, capì che era la sua fonte ad avvicinarsi a lei. Si trattava di una focolare ardente, con fiamme danzanti.

“Il Sole è Fuoco. E quando tramonta il Sole per gli dèi, ha fine anche la loro vita. Di tutti loro, all’unisono. L’estinzione di una singola luce può condurre a tutto questo: un collasso delle energie più potenti di tutto il creato, che per quanto possano radunarsi e farsi forza l’un l’altro, hanno un solo punto debole. Tu sai qual è?”

E mentre la voce parlava, Hel guardò dentro quel fuoco e vide l’intera esistenza di due tipi di creature: il dio e l’uomo.

Dèi che disprezzano e calpestano gli uomini, dèi che riconoscono gli uomini come loro simili, uomini che bestemmiano gli dèi, uomini che temono gli dèi. Dèi che uccidono uomini e uomini che uccidono dèi.

Sembrava una storia di finzione, come i racconti di suo padre, eppure c’era qualcosa di estremamente importante in ciò che riusciva a comprendere. Non si trattava di una finzione, bensì della storia.

La storia del passato, del presente e…

“Il futuro. La grande debolezza degli dèi è che non possono controllare il futuro, e non possono nemmeno prevenire la loro estinzione. Come ogni cosa in natura, esiste un ciclo vitale che inesorabilmente termina con… la morte.”

Attorno ad Hel si formò un abbraccio di fango nero, il quale tuttavia mostrava un sorriso su di un volto femmineo.

“E tu, Hel, vuoi avere il dominio sulla morte? La morte… degli dèi?”

Il Record of Ragnarok, quella fiamma brillante pregna di una verità innegabile, risplendeva più intensamente di un sole che non sarebbe mai tramontato.

 

“Sei stata tu a dare ad Hel questo potere!”

La porta per la più inaccessibile stanza era stata aperta, e così anche Prometheus, il Titano, ottenne la stessa visuale di Gaia, lì sulla sua tribuna speciale.

Madre Terra voltò appena il capo, riconoscendo con la coda nell’occhio quell’insolente titano che aveva ottenuto una vittoria nel quarto round.

“Il Record of Ragnarok, il fuoco della conoscenza!” Proseguì lui: “Hel non sarebbe dovuta diventare una dea, ma ciò nonostante tu… le hai mostrato la possibilità di vendicarsi su tutte le divinità!”

“E così hai portato il Ragnarok… il Tramonto degli Dèi.” Anche il Grande Padre Odino, seguito da suo figlio Thor, fece il suo ingresso.

“Quella profezia che lei non avrebbe dovuto conoscere.” Terminò Zeus, il più potente del pantheon greco.

Gaia rimase in silenzio per qualche secondo, come in riflessione.

“Anche se io avessi messo a conoscenza Hel di questa profezia, permettendo di utilizzare i suoi poteri sopiti contro altri dèi… perché mi state dando la colpa del Ragnarok? Non l’ho certo richiesto io.”

“All’apparenza no!” Esclamarono all’unisono due voci, appartenenti a qualcuno che tutti gli dèi avevano imparato a conoscere durante quel torneo.

Fobetore ed Ammit, con alle spalle Nyx, Erebo e Ptah, dichiararono: “Però conosciamo colui che ha richiesto espressamente questo scontro… ed anche se l’intenzione principale era salvare gli umani dall’estinzione, in realtà lo scopo sembrerebbe essere lo stesso: distruggere gli dèi!”

Infine, tutti gli sguardi delle divinità si puntarono sull’orchestratrice, messa alle strette.

“Tu sei solo una traditrice!”

Gli occhi di Madre Terra osservavano l’arena, ma non palesavano alcuna emozione. Tutto di lei era annegato in un fango denso e scuro, persino ogni sua bontà o paura.

“Hai una bella faccia tosta per rivolgerti così a me…” Solo allora si voltò, infiammando di colpo quegli stessi occhi con un inquietante bagliore. “E anche tutti voi… ne pagherete le conseguenze!”

Ma Prometheus non batté ciglio neppure di fronte ad un’aura di pericolosità così intensa. Al suo fianco, tutte le divinità radunate si strinsero per farsi forza.

Ben dieci divinità, contando una delle dee organizzatrici ed in carica nel Concilio degli Dèi, erano pronte ad affrontare l’ira di Gaia.

Prometheus strinse i pugni: “Sarai tu a pagare, maledetta doppiogiochista!”

“Non osate fare un altro passo!”

Due figure piombarono di fronte al trono di Gaia, frapponendosi tra lei e la schiera di dèi pronti a punirla.

Il primo a farsi avanti fu un uomo dalla stazza colossale, capace di far impallidire persino Prometheus. Indossava un’armatura d’acciaio bardata e decorata da un lungo mantello blu. La sua testa era coperta da un elmo, cinto da una corona d’oro che faceva parte anch’essa dell’armatura.

Nonostante avesse assunto una posa difensiva, da combattimento, non estrasse la sua arma: si limitò piuttosto a poggiare la mano sull’impugnatura della spada, pronto a sguainarla da un momento all’altro.

Il dio del tuono Thor solitamente, di fronte ad un invito di sfida così palese, sarebbe balzato in avanti assieme al suo Mjölnir. Tuttavia, dal momento in cui si era palesato il rischio che quel cavaliere potesse estrarre la sua spada,  una minacciosa pressione lo aveva inchiodato al suolo.

“Quell’arma… non è frutto di una Sefirot, però è comunque capace di uccidere un dio.” Dichiarò, allertando gli altri.

“Riposo, Arthur… non credo che ci sia il bisogno di scontrarsi.” La seconda figura si rivolse al cavaliere con tono rilassato, quasi giocoso.

Si trattava di un giovane avvolto da un mantello di vari colori, quali lilla, azzurro e bianco, con una morbida pelliccia attorno al suo collo. Lì terminavano anche i suoi capelli, lunghi e sottili come filamenti di nuvole.

Nei suoi occhi gioiosi d’ametista erano riflessi tutti e dieci le divinità, i quali al momento lo volevano morto.

“Tu…!” Ruggì Prometheus, riconoscendolo.

“Tu, tu… chi diavolo saresti tu?” Inizialmente preoccupato, Erebo sembrò essere parecchio confuso sul chi si stesse trovando davanti.

Per fortuna sua sorella Nyx gli rispose prontamente: “È l’idiota che ha proposto questo torneo!”

“Ohoh… perdonate questo povero vecchio, però io non ho ancora capito chi sia.” Ridacchiò Zeus, arrossendo per l’imbarazzo.

“Già…” Ptah si accigliò, incrociando le braccia “Dicci sul serio chi saresti! È finito il tempo di fare il dio misterioso!”

Odino la guardò, scettico: “Chi ti dice che sia un dio, e non un demone?”

“Bingo!”

L’inaspettata apparizione di Baal, altro presidente del Concilio degli Dèi, sorprese tutti, senza esclusione. Il signore dei demoni, barcollando con la sua strana andatura ondeggiante, entrò nella stanza per poi appoggiarsi ad una parete, in disparte.

Schioccò la lingua, socchiudendo le palpebre: “Lui è Merlino, figlio di un potente demone che lo generò per distruggere il Concilio degli Dèi.”

Lo shock fu generale, men che per il cavaliere in armatura e Gaia, i quali non si smossero.

“Aaah! Così mi fai arrossire!” Gongolò il semidio, strofinandosi la nuca con un sorriso da ebete in viso.

“Per tutto questo tempo avete fatto finta di essere avversari… quando in realtà avevate lo stesso obbiettivo…” Ruggì Ptah, stringendo i pugni.

Madre Terra a quel punto contorse il volto in un ghigno raccapricciante, simile ad un disegno nel fango: “Nostro obbiettivo? Non si tratta del nostro obbiettivo… si tratta della fine che sicuramente farete voi tutti! È una profezia inevitabile, il vostro destino, ed il Record of Ragnarok non è stato nient’altro che l’ultimatum per tutto questo tempo.”

“Ma voi tutti avevate troppa paura di riconoscerlo.” Proseguì Merlino, anch’egli con un sorriso da serpe: “Per questo motivo avete sempre tenuto in considerazione l’idea di distruggere l’umanità, ovvero coloro che vi avrebbero spodestati, un giorno.”

La tensione era alle stelle, sembrava che l’aria stessa, in un concentrato di potenze così ferocemente in lotta, potesse emanare fuoco e scintille. La vera battaglia finale si sarebbe potuta tenere lì, in quella stanza, in quel preciso momento.

 

“M-Ma che succede, ladies and gentlemen?!” Le urla degli annunciatori però interruppero ogni cosa, portando l’attenzione su di un evento alquanto sorprendente.

In pochi avevano potuto seguire i suoi movimenti.

Quella figura si era mossa così velocemente da apparire come un’immagine sfocata, saettando giù dagli spalti per poi lasciare dietro di sé un grande solco, nell’arena. Quel turbine, quel lampo, quella furia si era poi abbattuta su di Hel.

La dea della morte assaporò una visione chiara e nitida del pugno che le era stato scagliato contro, come se il tempo si fosse fermato: vide quelle dita e quelle nocche indurite e contratte, segnate da cicatrici, così come vide la chioma rossa che sventolava dietro la testa della donna davanti a sé.

E, più dettagliatamente, vide proprio il volto di lei: era contratto dalla sofferenza, trasformata però in rabbia attraverso lacrime che ne scavavano le guance, e denti serrati in un’espressione di violenta ferocia.

“BRUTTA…”

Il pugno di Boudicca centrò Hel in piena faccia, generando un’onda d’urto talmente forte, che per poco non sbalzò gli spettatori fuori dagli spalti.

“…PUTTANA!!”

 
 

Angolo Autore:

Welcome back!

Perdonate il ritardo rispetto al giorno promesso, cercherò in futuro di non creare aspettative che poi non posso mantenere.

Intanto, in questo capitolo è stato svelato tutto il flashback dei figli di Loki, mostrando il punto di vista di Hel. In questo modo, senza più troppe interruzioni di trama, l’ottavo combattimento potrà scorrere liscio come l’olio fino alla sua conclusione, tra tre capitoli.

Il prossimo aggiornamento sarà domenica 26, sperando di concludere questo scontro entro il mese di Luglio.

Alla prossima!

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Capitolo 30
*** Chapter 30: True Beauty ***


Chapter 30: True Beauty

Ogni cambiamento nella storia non è mai stato ottenuto da una persona qualsiasi, priva di virtù, determinazione e soprattutto forza. Per questo motivo, quando nella tribù britannica degli Iceni nacque quella donna, il mondo intero seppe che un grande cambiamento sarebbe avvenuto.

Qualcosa che l’isolata tribù non poteva conoscere, ovvero la genetica, giocò il suo ruolo predominante:

Sin da piccola, la bambina era dotata di una straordinaria versatilità muscolare, il che la rendeva capace di sovrastare facilmente anche i più esperti guerrieri della sua gente. Tuttavia, era sempre soggetta a pesanti affaticamenti, e spesso crollava svenuta a terra anche durante semplici camminate.

Al giorno d’oggi, possiamo sapere con certezza che l’essere umano medio utilizza il trenta, o al massimo il quaranta percento dei propri muscoli, e che nemmeno un atleta dall’allenamento perfetto può superare una percentuale di circa ottanta.

Il limite viene imposto dal cervello umano, che regola la produzione di forza muscolare per impedire che il corpo si autodistrugga in sforzi sfrenati. Ciò vuol dire che, per quanto il pugile più forte del mondo possa sferrare un pugno, la sua forza sarà sempre diminuita rispetto al reale potenziale che le sue fibre muscolari potrebbero garantirgli.

Ciò di cui era afflitta Boudicca, invece, era una particolarissima condizione, la quale le permetteva di utilizzare inconsciamente il cento percento delle sue fibre muscolari, accedendo al suo pieno potenziale. Sin dalla nascita questo suo potere venne chiamato comunemente Benedizione di Andraste, e fu scelto di tenerlo segreto alle altre tribù per non ribaltare il già precario ordine in cui vivevano gli Iceni.

Come già detto, Boudicca non poteva sapere cosa le stesse accadendo, tuttavia intuì quale sarebbe stata la migliore soluzione: incominciò sin da giovanissima un intenso allenamento basato sul rafforzare i propri tendini e aumentare la densità delle proprie ossa, in modo da tollerare il pieno utilizzo dei suoi muscoli. In questo modo poté vantare una forza fenomenale, la quale, assieme ad uno studio delle tradizioni, della storia e delle buone maniere comportamentali, la rese una delle donne più rispettate e famose d’Inghilterra.

 

Così, il pugno più forte che Boudicca potesse sferrare, si conficcò nella faccia di Hel. L’onda d’urto rilasciata sollevò istantaneamente tutta la polvere ed i piccoli detriti dal terreno, dando l’impressione che un movimento sismico avesse appena scosso la terra.

“Ladies and gentlemen…!” Gli annunciatori deglutirono a vuoto, colti alla sprovvista “Boudicca è scesa in campo ed ha attaccato Hel! Sembra che ci siano tutte le condizioni necessarie per uno scontro…”

E mentre si confrontavano, non sapendo cosa fare, all’orecchio di Adramelech arrivò una comunicazione da un suo superiore: “A-Ah! Sì, certo!”

E riprendendo il microfono, sbraitò: “A detta delle tre divinità organizzatrici di questo Ragnarok, l’ottavo scontro può già considerarsi iniziato!”

St. Peter, capì di dover cogliere l’occasione, così aiutò il suo collega: “Dal lato degli dèi abbiamo la dea del regno dei morti! La regina delle anime dannate… HEL!”

“E dal lato degli umaniii… la regina degli Iceni, condottiera che riunì le tribù d’Inghilterra sotto il suo vessillo! Adorata per forza e carisma… BOUDICCA!”

Ancor più in alto, nella tribuna di Gaia aleggiava una tensione agghiacciante.

Il ghigno di Merlino si era spalancato nel buio.

“Che l’ottavo scontro del Ragnarok… abbia inizio!”

 

Intanto, nell’arena, Il Lupo Fenrir si era lanciato su colei che aveva osato attaccare sua sorella. Poco importava che fosse cieco, perché con le zanne spalancate e tutta la sua furia omicida sfoderata riuscì ad emanare un’onda di pericolosità immane.

Tuttavia, una mano si sollevò davanti al suo volto per bloccarlo.

“Non è stato niente di che, Fenrir.” La voce di Hel, per nulla alterata, ma anzi perfettamente naturale, lo raggiunse in tempo.

Il volto della dea, dal quale si era finalmente staccato il pugno di Boudicca, non mostrava nessuna imperfezione o ferita grave. Solamente una goccia di sangue le scendeva dal naso, posandosi sulle sue labbra.

“È stata tutta scena! Sei riuscita appena a farmi scoppiare un vaso sanguineo…” Sogghignò infine verso la sua avversaria, sfogando la rabbia che le montava in petto attraverso tutta la saccente ironia di cui fosse dotata.

La rossa spalancò gli occhi per la sorpresa, per poi aggrottare la fronte e digrignare i denti per la rabbia. La provocazione aveva avuto effetto.

“Incredibile!” Gridarono gli annunciatori: “Nonostante quel colpo capace di far vibrare l’aria, Hel ne è uscita del tutto incolume!”

Mentre le incitazioni da parte di dèi ed umani iniziavano a scatenarsi, la dea della morte si ritagliò un istante per pensare a mente fredda:

-Anche se a me non potrà fare nulla, se Fenrir intervenisse nelle condizioni in cui versa al momento verrebbe ucciso in un solo colpo.- E premurosamente guardò suo fratello. Non gli serviva la parola, e nemmeno un cenno del capo: l’empatia che solo due fratelli possedevano bastò a fargli capire quanto fosse preoccupata per lui.

Così il Lupo del Ragnarok, con le orecchie basse e la coda fra le gambe, fece rotta verso il portale degli dèi per lasciare il campo di battaglia.

“Non lo avrei colpito comunque, sta tranquilla!” Ruggì Boudicca tra i denti, avanzando verso la sua avversaria con la testa alta ed un’espressione che lasciava intendere quanto forzatamente stesse trattenendo l’impulso di saltarle addosso.

“Stupida umana… tu non dovresti permetterti nemmeno di alzare un dito su di noi esseri superiori.”

“Ah sì?! Mente voi, invece, potete barare a vostro piacimento quando in gioco c’è la vita di tutta l’umanità?” Il cappello di Guy Fawkes, o quel che ne rimaneva, venne trascinato via dal vento.

“Noi?! Barare?!” Gli occhi di Hel ricordavano ancora le lacrime versate per la vita di Quetzalcoatl, strappata così facilmente per colpa della sua troppa ingenuità e bontà d’animo. “Anche se vi trovaste davanti un dio leale e benevolo, vi ribellereste a lui solo per il gusto di affermare il vostro dominio su qualcos’altro! Siete una razza di affamati, ingordi ed avidi consumatori di ogni cosa bella che esista, sia sotto che sopra il cielo!”

Qualcosa in Boudicca scattò: era un impulso irrefrenabile di porre fine a tutte quelle sofferenze causate da un simile tirannico egoismo.

“Ne ho abbastanza di sentirti parlare!” E sferrò un altro pugno, stavolta così vicina che sarebbe stato impossibile anche solo prevederlo o schivarlo. Infatti il colpo andò a segno, rilasciando nell’aria un boato simile però ad uno schioppo. Era il suono di ossa spezzate e carne schiacciata.

“Co-Cosa…?!” Tuttavia non era stata Hel ad esser stata colpita: questo, seppur apparentemente impossibile, fu ciò che vide la rossa.

Il suo pugno si era conficcato nella faccia di qualcuno di totalmente diverso, ovvero un uomo vestito con abiti normali. Il cadavere, perché tale era stato reso dalla piena potenza di quel colpo, piombò al suolo.

Dopo poco iniziò a sgretolarsi in tanti frammenti, i quali svanirono su nel cielo.

“Lo hai ucciso…” Rimbombò una voce in tutta l’arena, probabilmente innescata nelle menti degli spettatori.

“…e come tutte le anime di voi umani presenti qui, nel Ragnarok… è semplicemente svanita. A differenza nostra, che siamo divinità in vita, voi siete nient’altro che anime a cui è stato donato un corpo fisico.”

Al di sotto dell’onnipresente voce di Hel, Boudicca iniziò a sudare freddo, rendendosi conto di cosa stesse succedendo. Le parole che vennero pronunciate in seguito bastarono per dare il colpo di grazia, rendendo reali le sue preoccupazioni:

“Ed in quanto anime, sono tutte sotto il mio controllo!”

 

Dall’alto della tribuna di Gaia, Odino spalancò il suo unico occhio, sussultando come non aveva mai fatto in vita sua: “È questo… il motivo per cui lei è qui?”

Le sue sole parole bastarono per provocare un brivido gelido lungo la schiena dei presenti, nonostante qualcuno non avesse davvero compreso il loro significato.

Non ci fu tempo per una risposta, siccome il fermento si era già scatenato poco al di sotto di loro, direttamente sugli anelli del colosseo.

“Ma che succede?! F-Fermi!” Provavano invano ad urlare gli annunciatori, impossibilitati dal fermare altrimenti ciò che stava accadendo.

Davanti allo sguardo incredulo e spiazzato di Boudicca, il sole venne oscurato da una massa di corpi.

“N-Non puoi starlo facendo davvero…”

Umani di tutte le epoche, la cui sopravvivenza era il premio in palio che la spingeva a combattere: un’onda di questi speranzosi esseri umani ora si era sollevata dalle tribune, capitombolando giù nell’arena come una valanga. Non c’era più vita nei loro occhi, bensì traspirava l’impotenza di un burattino.

E la burattinaia, ovvero Hel, stava usando le loro anime per attaccare la paladina dell’umanità, proprio a causa della mancanza di una barriera che separasse gli spettatori dal campo di battaglia.

Come aveva già compreso Odino, si trattava proprio di un piano premeditato ed eseguito accuratamente fino a quel momento. Tutto era incominciato con la provocazione che Charlotte aveva lanciato agli dèi, uccidendo Quetzalcoatl sotto gli ordini di Merlino. Successivamente, sempre come ordinato dal mago, Guy Fawkes aveva usato il suo attacco più potente per distruggere la cupola attorno all’arena.

Nel momento in cui Boudicca realizzò di essere soltanto un’altra pedina all’interno di una partita giocata tra Gaia, Merlino e la razza umana, si sentì un burattino. Niente di diverso da quelle anime umane, da Hel o da Fenrir.

Mentre veniva oscurata dalla massa di corpi umani, il suo pensiero andò a tutti coloro che avevano combattuto a costo della propria vita per inseguire un nobile obbiettivo. Chiuse gli occhi.

 

“COME SE ORA POTESSI ARRENDERMI!!” Ogni singola fibra muscolare del suo corpo si illuminò come se le sue cellule fossero fatte di fuoco, facendola splendere d’improvviso.

In un lasso di tempo fin troppo ristretto per essere possibile, anziché scappare da quell’attacco che la stava per travolgere, decise di caricarlo a tutta velocità. Dopo qualche pesante passo che incrinò il terreno, le sue gambe spiccarono un salto per poi ritrarsi, portate al petto. Ormai il contatto con quel flutto di corpi in discesa era inevitabile.

“Ora che so la verità…!” Scalciando con gli arti inferiori in un poderoso drop kick, eseguito ad una velocità di circa sessantaquattro chilometri orari, la regina icena scaraventò via tutti i suoi ostacoli umani come se fossero stati brilli colpiti da una cannonata.

“…non intendo fermarmi davanti a nulla!”

Piombò sugli spalti, crepando la pietra ed allontanando con un’onda d’urto tutti gli umani nei dintorni. Infine, sollevando un dito verso la tribuna dove Merlino e Gaia la stavano già guardando, deformò il suo viso in una maschera di rabbia.

“Sto venendo a prendervi, bastardi! Non vi permetterò di prendervi gioco degli umani!”

I due esseri divini si sentirono travolti da una violenza tale da non poterli affatto lasciare indifferenti. Accanto al mago, l’armatura chiamata Arthur incrociò le braccia in attesa.

“Che donna…” Ridacchiò una voce, appartenente a qualcuno appena entrato nella stanza. Anche lui un dio, nonostante non si sentisse parte di questa cerchia.

“Anche se assomiglia un po’ ad una bestia… e per questo mi ricorda ancora di più un certo mio amico.”

“PERÒ NON POSSO ACCETTARE CHE GLI DÈI SI PRENDANO GIOCO DEGLI UMANI A LORO PIACIMENTO!”

“Enkidu.” Prometheus pronunciò quel nome con sommo rispetto, e fu allora che Gilgamesh sorrise beffardo, sfidando i due orchestratori.

“Penso che lo abbiate capito ormai, ma… dèi, umani… non fa differenza: a nessuno piace venir presi in giro!”

Gaia e Merlino rimasero impassibili, fin troppo stoici per tutte le minacce che erano state poste nei loro confronti.

 

“Invece io penso che tu non andrai da nessuna parte…”

L’obbiettivo di Boudicca era senza dubbio raggiungere quella tribuna lì in alto, senza ferire altri esseri umani. Li avrebbe al massimo tramortiti, limitando la sua forza come aveva fatto con quelli appena attaccati, perché non intendeva uccidere degli innocenti.

Eppure, per quanto forte fosse il suo desiderio, non poté muovere un singolo passo.

Non capendo perché, abbassò lo sguardo, e lì notò come sia la mano che non aveva sollevato, che entrambi i suoi piedi, fossero intrappolati da un pesante strato di ghiaccio. In particolare sugli arti inferiori, quella spessa coltre si era espansa come radici sulla pietra sottostante, ancorandola al suolo.

La mano sinistra invece era inutilizzabile: per quanto sentiva di poter distruggere il ghiaccio semplicemente contraendo il pugno, quell’area del suo corpo non rispondeva ad alcun segnale. Era come parzialmente paralizzata, o peggio ancora, morta.

“Ladies and gentlemen, Boudicca è stata immobilizzata!” Strillò Adramalech, venendo poi seguito da St.Peter.

“Ed ecco che Hel… o meglio, degli esseri umani, la attaccano!”

Come avevano appena fatto notare, altre anime umane controllate dalla Regina dei Morti si erano improvvisamente strette attorno alla guerriera. Lei, al centro di un centinaio di marionette pronte a saltarle addosso, pareva proprio una preda messa all’angolo da un branco di animali feroci.

Agli occhi di Hel, nascosta tra le tribune ove la sua nemica non avrebbe mai potuto vederla, quella sarebbe stata la conclusione perfetta per l’umanità: dopo due vittorie di fila da parte degli dèi, non ci sarebbe stata alcuna speranza di recuperare.

Tutto andava secondo i piani.


“Sefirot: Tiferet, La Bellezza!”

Quel grido, al contrario, non era affatto stato calcolato dalla dea della morte. L’aveva colta alla sprovvista, tanto che non riuscì nemmeno a vedere cosa stesse accadendo.

Percepì di colpo un calore immenso venir sprigionato da dove la donna si trovava, e poi una luce accecante la privò della percezione dello spazio attorno a sé. Sembrava che il creato si stesse conglomerando attorno a quel puntino luminoso che era diventata Boudicca, plasmando, concentrando e richiamando qualcosa.

In seguito, tutti gli umani attorno su quella zona della tribuna si ritrovarono sbalzati in aria. La gravità non li assisteva più, lanciati così in alto da sparire parzialmente dalla vista di chiunque.

Quando atterrarono, privi di sensi, vennero acchiappati al volo con precisione e grazia dalla stessa strana struttura di legno che li aveva colpiti. Boudicca, a lavoro terminato, abbassò il braccio destro, e così fece tremare il suolo sotto il peso della sua nuova Arma.

La battaglia era appena incominciata.

“Carro di Andraste!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Scusate la lunga attesa, tra l’altro proprio ingiustificata, ma ho avuto un po’ di blocco dello scrittore unito anche a vari rallentamenti tecnici (mi è arrivato il computer nuovo ed ho passato un giorno per montarlo ed uno per metterci dentro tutte le cose necessarie, compresi i file word delle mie storie).

Ma basta scuse!

Avviso voi, miei lettori italiani, che da pochi giorni la storia sta venendo anche letta in inglese su Ao3 (https://archiveofourown.org/works/25745362/chapters/62519320). Il merito non va a me, ma alla mia ragazza, la traduttrice. Cavolo… quando 6 anni fa iniziai a scrivere su EFP non avrei mai immaginato che un giorno sarei arrivato a questo punto. So che per qualcuno non sembrerà un granché, ma pensando da dove sono partito, per me significa moltissimo ^^!

Ho anche un server Discord dove comunico gli aggiornamenti, posto informazioni e retroscena sulla storia e tante chicche. Sentitevi liberi anche voi di entrarci, mi farebbe molto piacere, così come agli altri lettori che già ci sono dentro.

Link: https://discord.gg/tTeajYD

 

Al prossimo capitolo!

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Capitolo 31
*** Chapter 31: Curse of the Womb ***


Chapter 31: Curse of the Womb

Un carro è un mezzo di trasporto.

Dunque, non può venir sollevato con una sola mano. Dunque, non può essere usato per schiacciare o colpire. Dunque, non è un’arma.

Eppure, il modo in cui Boudicca faceva vorticare quell’enorme biga attorno al suo corpo, quasi come se si stesse rapidamente passando un pezzo di stoffa da una mano all’altra, davanti al petto o dietro la schiena, andava a rompere proprio quelle leggi dell’impossibile.

La Regina degli Iceni stava creando una pozza di sudore esattamente al di sotto dei suoi stivali, ormai immobili, come del resto erano le sue gambe. Ferma dal busto in giù, continuava a vorticare le sue braccia senza interrompersi nemmeno un po’ nemmeno per un secondo. Senza la sua forza fisica sovrumana tutto ciò sarebbe stato impossibile, ciò nonostante non si trattava affatto di un’azione semplice.

-Eppure…- pensava -…questa è l’Arma che quel Merlino dice di essere adatta a me. Se è ciò che il destino mi ha affidato, non posso che metterci tutta me stessa nel padroneggiarla al meglio!-

In quel momento fece il suo ingresso una persona, la quale sussultò per la sorpresa.

“Oi, Vlad!” Lo salutò Boudicca, senza però fermarsi. Non vedendo però l’altro combattente risponderle, si insospettì.

Vlad III, detto Ţepeş, si era bloccato sullo stipite della porta, volgendo lo sguardo altrove da lei e frapponendo davanti al suo viso una mano. Stava bofonchiando tra i denti stretti, e la regina poté giurare che persino la sua pelle cadaverica si fosse colorata di rosso per un istante.

Abbassò il capo, intuendo che il motivo di tutto ciò fosse che si stava allenando a petto nudo, mettendo così in mostra i suoi possenti muscoli, ma anche altro.

“Oooh, andiamo! Non fare il vecchio bavoso!” Lo schernì allora, ridacchiando come una bambina dispettosa.

Una maglietta le venne lanciata direttamente sulla faccia, seguita da un grugnito: “Se mi impedisci di allenarti, ci vai a perdere solo tu! E poi sono quasi mille anni più giovane di te!”

“E allora sei proprio un ragazzino!” Al che lei obbedì, finalmente appoggiando il carro al suolo ed indossando quel top sportivo. Solo allora il voivoda la guardò, o meglio, la scrutò fin nel profondo dell’anima.

“C’era davvero bisogno di farmi vestire, se poi è come se mi spogliassi con gli occhi?”

Non rispondendo direttamente a quella battuta, lui disse: “Sei migliorata.”

“È solo merito tuo. Ma quindi, sei davvero sicuro di non voler fare uno sparring con me?”

“Sai bene che se scontrassimo le nostre armi, la mia Absolute Pierce distruggerebbe all’istante il tuo carro. E le nostre Sefirot non sono fatte per affrontarsi tra di loro: devi preservare il Carro di Andraste per l’avversario.”

Come al solito il voivoda parlava in modo serio, severo, come se nessun’altra emozione lo toccasse. Eppure, Boudicca l’aveva visto combattere nell’arena: aveva pianto, sofferto, ed il suo cuore era esploso in un grido di speranza e vittoria che aveva influenzato non solo lei, ma tutta l’umanità.

Uno come lui non poteva che essere il maestro perfetto per insegnarle a combattere, anche con un’arma non-convenzionale come quella che si era ritrovata.

“Tu sai che…” Non era tutto lì, però: “Non ti ho chiesto di aiutarmi solo a padroneggiare la mia Arma.”

Quando i loro sguardi si incrociarono, parvero brillarono anche nell’oscurità in cui si trovavano.

“Ma ho bisogno del tuo aiuto anche per controllare i demoni che mi tormentano!”

 

La Boudicca del presente, invece, emanava una luce del tutto diversa dalle sue iridi: era brillante come quella di una stella e, Hel se ne rese conto, stava guardando dritta dentro di lei.

“Ho capito cosa mi hai fatto, con quel ghiaccio.” La donna sollevò la mano libera, fino a poco prima avvolta da un blocco freddo. Ora, esattamente come le gambe, era stata liberata.

La contrasse in un pugno, e quando la riaprì, qualcosa di piccolo e bianco si dissolse. Erano minuscoli vermi pallidi, i quali emettevano grida di dolore come lamenti di anime dannate.

“Questi cosi erano attaccati a te, quando prima ti ho colpito direttamente.” Disse, riferendosi al pugno in faccia che le aveva sferrato, lo stesso che era stato congelato.

“E anche su quelle anime che mi hai mandato addosso.” Accennò ai corpi travolti dal suo drop kick “Mentre non c’erano sull’anima con la quale ti sei scambiata d’improvviso per allontanarmi, scelta dalle tribune a caso.”

E ora si guardò la mano che aveva usato per colpire quell’innocente, la quale ora brandiva il Carro di Andraste senza alcuna ripercussione.

“È ovvio che tu non abbia potuto mettere i tuoi vermi su di lui, mentre invece su quei corpi, che prima si trovavano qui… sì!”

Era atterrata proprio da dove si erano scagliati su di lei quella massa di marionette, poco fa, e come poté constatare semplicemente abbassando lo sguardo, c’erano delle gocce di sangue per terra. Era il segno innegabile che Hel, la quale stava ancora perdendo sangue dal naso, si fosse trovata lì.

“Mi basterà soltanto evitare di toccare i corpi con i quali entrerai in contatto per evitare di congelarmi ancora!” Asserì la regina icena, per poi sollevare il carro e poggiarselo sulla spalla come se fosse stato un bastone.

La dea dei morti, per quanto ora si trovasse lontana dalla sua avversaria, percepì il pericolo sulla sua pelle sottoforma di un caldo respiro. Era un predatore con le fauci spalancate, pronto a serrarle attorno alla sua gola.

-Ha già scoperto che posso utilizzare gli Éljúðnir’s Parasites solo trapiantandoli a mano dentro dei bersagli, che poi possono infettare lei a loro volta… e da ora in poi li terrà a distanza con quel carro.-

Una goccia di sudore freddo le percorse la tempia, e odiò il suo stesso corpo per aver espresso così palesemente la sensazione di insicurezza in cui ora era piombata.

-Rimani calma, dannazione!- Si disse, utilizzando l’odio per sovrastare qualsiasi altra emozione o sensazione. Strinse i denti, si conficcò le unghie nei palmi, e a petto in fuori, ritta ed orgogliosa come una regina, smise di tremare.

I suoi occhi lanciavano bagliori gelidi.

-Però, non ha ancora capito… che il vero pericolo dei parassiti non è affatto quello.-

 

Boudicca si fiondò in avanti, non esitando neppure quando un muro di corpi di vari umani si sollevò da ogni gradino degli spalti per fermarla. Dapprima fendette l’aria orizzontalmente con la sua Arma, coprendo una superficie abbastanza grande da spazzare via gli ostacoli più vicini, dopodiché lo impugnò a due mani come uno scudo.

Gli umani si ammassarono sul legno, venendo respinti come gli spruzzi delle onde una volta infrante sugli scogli. Ciò che accadeva una volta che entravano in contatto con il carro, era però ancor più degno di nota: i loro corpi venivano investiti della stessa luce che avvolgeva l’Arma, e di colpo perdevano i sensi senza riportare danni.

Perché un carro è una forma di armamento militare superato? Per la sua inadeguatezza a percorrere qualsiasi tipo di terreno, poca maneggiabilità e limitazione ad un piano di spostamento orizzontale.

Invece, maneggiato da due mani che lo potevano brandire come una qualsiasi arma, diventava la rivoluzione nel sistema di combattimento che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: pesante, ampio abbastanza da coprire una larga superficie ed inarrestabile come se ogni suo singolo spostamento fosse davvero sempre e comunque trainato da i più veloci cavalli del mondo. A tutti gli effetti, quando impugnato da Boudicca, si trasformava in una gigantesca estensione dei suoi arti.

Ciò nonostante, non era un’arma per uccidere gli umani, e questo lei lo sapeva bene: i poteri della Sefirot erano fatti per ferire solo e soltanto gli dèi.

 

Intanto, le divinità osservavano come la battaglia imperversasse sulle tribune davanti ai loro occhi, dall’altro lato dell’arena. La sola vista di tutti quei corpi scagliati ovunque da lampi di luce bastava a pietrificarli per lo sgomento.

“È assurdo…” Sibilò Jormungandr, preoccupandosi per la sorte dei suoi nipoti, e per questo stringendoli tra le braccia.

“Nah.” Sbottò Loki, suo padre: “È solo la fine del mondo.”

 

Per quanto gli umani provassero a scappare in ogni direzione, terrorizzati dalla furia distruttiva della loro paladina, non potevano scappare al controllo di Hel: di colpo le loro urla di paura si mozzavano, i loro occhi divenivano vacui, ed erano costretti ad unirsi a quell’esercito di burattini.

Il cuore di Boudicca piangeva per tutta la sofferenza che stava provocando il suo scontro, ma sapeva di non essere lei la causa. Le sarebbe bastato fermare l’artefice, e non ci sarebbe stato più alcun dolore.

Ad un certo punto però iniziò a rallentare. I suoi movimenti si facevano più imprevisti, ed era sempre più faticoso muoversi.

Guardò le proprie gambe, poi la mano destra. Erano bluastre, del colore della morte.

Proprio come prima, non rispondevano davvero ai suoi comandi, ma venivano mosse soltanto dai muscoli adiacenti. Erano come dei cadaveri animati, e non potendo affatto indurirsi, tutti quegli sforzi sovrumani iniziavano a distruggerli. La carne si lacerava, sentiva le ossa rompersi, eppure non usciva sangue.

Nessuna coagulazione. Assenza di calore. Parametri vitali quasi del tutto assenti.

La temperatura corporea di Boudicca non accennava a risalire, neppure dopo tutto il movimento fatto nella foga della battaglia. E, ciò che era ancor più preoccupante, era come il suo sangue congelato stesse risalendo lungo le vene, contagiando in fretta altre parti del corpo.

-Ma allora… se questo è il vero effetto dei parassiti…?!- La regina si voltò rapidamente per scandagliare tutti i suoi avversari respinti. Con orrore constatò come si fossero trasformati in lastre di ghiaccio così spesso da eclissare completamente i loro corpi originali.

-Se non riescono a trasmetterli istantaneamente su di me, e vengono resi incoscienti… finiscono congelati!-

Si sentì immediatamente colpevole di star condannando quegli umani ad una sorte ben peggiore di quanto pensasse. Nemmeno il potere della sua Sefirot bastava per curare se stessa, o gli altri, dalla magia di Hel.

 

“Sei un mostro!” Urlò, fermando però i suoi attacchi.

Quel grido feroce risuonò in tutta l’arena, paralizzando gli dèi sul posto.

Boudicca non vacillò e non si mosse neppure quando tutte le marionette di Hel le furono addosso, addentandola, mordendola, e trasmettendo dentro la sua pelle tutti quei parassiti glaciali di cui disponevano. I suoi occhi stavolta erano serrati, ma bastava il volto contratto dalla rabbia per far trasparire quanto il suo cuore stesse continuando a gridare a più non posso.

“Che cosa sta combinando?!” Si domandarono gli annunciatori, esterrefatti: “Boudicca si lascia colpire?!”

Persino Hel rimase ferma a guardarla, per poi accorgersi di un dettaglio spaventoso: attorno a lei rimanevano poche marionette per difenderla e nasconderla, ma il resto delle tribune degli umani ormai erano state evacuate dai civili non sotto il suo controllo.

Ciò significava che era rimasta a corto di potenziali anime da controllare, e sugli spalti vuoti, la sua posizione era ormai resa palese. Non si sarebbe potuta nemmeno scambiare di posto con un’altra anima per allontanarsi, perché tutte quelle che rimanevano erano addosso a Boudicca.

-Senza che me ne accorgessi ha decimato le mie riserve… e ora non ho più modo di difendermi!-

Fu allora che Boudicca attaccò.

 

Dopo aver afferrato a due mani il suo carro, lo fece vorticare attorno a sé per creare un tornado, con il quale sbaragliò in un secondo tutti coloro che la circondavano. Il vortice però non si fermò, ed anzi continuò ad accumulare energia cinetica.

Hel era nel panico più totale, non sapendo più come difendersi, né evitare il colpo che le sarebbe stato scagliato.

-Calmati Hel! Calmati!- Ma, anche nella sua ora più buia, riuscì a riportare la sua mente fredda come le profondità di una mare artico.

I suoi fratelli e suo padre sarebbero rimasti delusi da lei, se non fosse riuscita a sviluppare un piano geniale, degno della sua stirpe di ingannatori. E lei credeva fortemente nella sua astuzia: i potenti che ignorano il pericolo e non sanno cosa voglia dire sollevarsi dal fango non l’avrebbero mai compresa, e per questo lei sarebbe sempre stata un passo avanti a tutti loro.

Come si era aspettata, infatti, Boudicca procedette con lanciare il carro alla velocità di una meteora.

“ANDRASTES STEORRA!”

Come non si sarebbe mai aspettata, invece, quell’attacco non fu indirizzato a lei.

Tutte le sue convinzioni crollarono quando vide il carro percorrere una linea retta che attraversò il campo di battaglia, al centro dell’arena. Nel campo visivo di Boudicca, che lei non aveva potuto vedere, non c’era affatto lei.

“L’attacco è diretto verso la tribuna delle divinità!” Urlarono St.Peter e Adramelech, e fu lo stesso pensiero che attraversò la mente della Regina dei Morti. Proprio come ormai il carro stava attraversando l’aria, scagliandosi dritto su…

-NO!!-

Suo fratello, i figli di Fenrir e Loki vennero travolti da quella luce intensissima, ovvero l’ultima cosa che si riflesse nelle loro iridi prima di un impatto tale da far tremare l’Arena del Valhalla.

Le tribune degli dèi, colpite da quell’attacco distruttivo, si accartocciarono come carta e poi crollarono su loro stesse in un’esplosione di detriti e fumo nero.

Un evento del genere non era stato mai minimamente pensato dagli organizzatori del torneo, ed infatti persino loro non poterono rimanere impassibili davanti a tutto questo.

Ptah e Baal si sporsero giù dalla balconata, così in alto che per fortuna non aveva risentito danni, mentre Gaia si era sentita sprofondare sulla sua poltrona per lo shock. Il volto di Merlino si era irrigidito di colpo, come tutte le volte che qualcosa non andava secondo i suoi piani.

 

I cancellieri cercavano di contenere il panico che imperversava tra le divinità, constatando anche a quanto ammontassero i feriti. Lentamente il fumo si diradò dalle macerie, o meglio, dal cratere apertosi tra gli spalti.

Terrorizzati, tutti i presenti nei dintorni si sporsero con preoccupazione per osservare cosa ci fosse nella voragine. Ciò che vi trovarono fece mancare il respiro a chiunque.

“H-Hel ha…”

La Regina dei Morti era lì, stramazzata al suolo di fianco ai resti distrutti del carro. Alle sue spalle, i suoi parenti la guardavano sbigottiti, ancora senza essersi resi conto di quanto fosse accaduto.

“Hel ha parato il colpo diretto alla tribuna degli déi!”

St. Peter e Adramalech dovettero rivedere i filmati delle telecamere di sicurezza per accertarsi di quanto fosse accaduto:

Poco prima che l’Andrastes Steorra impattasse contro la tribuna, la dea aveva scagliato un’anima umana davanti alla sua famiglia, per poi scambiarsi di posto ed intercettare il colpo a mezz’aria. In questa maniera non aveva potuto erigere in tempo alcuna difesa, e la meteora di luce l’aveva centrata in pieno con tutta la sua potenza.

Ora dal suo abito nero e bianco si sgretolavano brandelli ardenti, svelando la pelle segnata da un’ustione spaventosa. Un sussulto l’animò, facendo staccare un pezzo della sua maschera d’oro, la quale si infranse al suolo.

“Hel!” Suo fratello Jormungandr fece per soccorrerla, ma lei sollevò una mano per tenerlo a distanza.

“È… la mia battaglia.” Rantolò, con un rivolo di sangue che le colava lungo la mascella. Si alzò con grande sforzo: “Quando avrò finito, voi… voi… non dovrete più preoccuparvi di niente.”

Le divinità impallidirono di fronte a quella forza di volontà dimostrata. Persino Loki aveva perso ormai il suo caratteristico ghigno, e non riusciva a far sparire dai suoi occhi quella sensazione di bruciore, e di bagnato.

“Niente più lotte… niente più conflitti… niente più sofferenze.” Infine la Regina delle Anime Dannate si alzò, fiera, guardando davanti a sé. La sua avversaria la attendeva, e l’esito dello scontro pure.

“Niente più dèi ingiusti!”

 

“Mi parli… di giustizia… proprio tu?” Le rispose una voce lontana.

Dall’altra parte dell’arena, Boudicca fremeva dalla rabbia.

“Ma se nemmeno gli umani conoscono la vera giustizia, cosa ne possono sapere gli dèi?!”

 

Al seguito della conquista delle isole di Britannia da parte dell’Impero Romano, c’erano state non poche ribellioni da parte delle tribù. Queste, per la prima volta dopo secoli vissuti divise, si erano coalizzate per fronteggiare un nemico che, da oltremare, minacciava la loro vita ed il loro credo.

Inutile dire che, a causa della superiorità nel piano militare dell’impero che stava lentamente conquistando il mondo allora conosciuto, tutte le insurrezioni furono placate con il sangue ed il ferro. Dopo la rivolta del 43 d.C, Boudicca comprese che non avrebbe mai voluto vedere la sua gente in quelle stesse condizioni.

Così, pochi anni più tardi sposò un uomo altrettanto desideroso di pace. I due capotribù regnavano indisturbati, dichiarando al loro popolo che non avevano nulla da temere.

Una notte di qualche tempo più tardi, però, mentre il cielo ruggiva imprecazioni tra i lampi e la pioggia, un manipolo di guerrieri si muovevano nell’oscurità con intenti tutt’altro che pacifici.

“Ma sei sicuro che sia qui?” Domandò uno, accennando al luogo impervio dove si trovavano: in cima ad una collina, dove una capanna solitaria sfidava i fulmini che piombavano al suolo non molto distanti.

“Certo! È venuta fin qui a partorire per la seconda volta… è davvero come si dice: per quanto sia forte come una dea, nel momento del parto è vulnerabile come una normale donna.”

“Hanno predetto che anche questa figlia sarà una femmina. Non può andare avanti così! Se non è capace di dare a Prasutago un erede maschio, allora i romani non manterranno mai il patto di alleanza!”

Nel buio della notte, quegli uomini con le spade sguainate, erano pronti a macchiarsi del peggior crimine possibile perché temevano per la propria vita.

Eppure, quando alle loro spalle qualcosa che non si sarebbe dovuto trovare lì si mosse, temettero ancor di più, come mai avrebbero creduto fosse possibile. Si voltarono appena per vedere la tremenda figura illuminata da un lampo: vestita da un solo abito fradicio, aveva la sua chioma rossa sciolta, che tuttavia in quel secondo non riuscì a nascondere un volto di disumana collera.

Mentre le loro urla si perdevano tra i tuoni, i soldati vennero sbaragliati da una donna sola, disarmata, ma non per questo meno forte dell’essere più forte che avrebbero mai incontrato sulla faccia della terra.

Poco dopo, nella capanna entrò quella stessa figura, venendo accolta da un’occhiataccia severa, ma apprensiva, da parte di un gigantesco uomo dall’aspetto grezzo ed intimidatorio.

“Boudicca…” La richiamò grave, ma la donna gli rispose con uno sbuffo, prima di rimettersi stesa sul tappeto di pelli animali.

“Prasutago.” Disse dopo un lungo silenzio, con una voce che non sarebbe mai potuta appartenere alla stessa bestia feroce di prima. Aveva un tono sognante, perso in un mondo immaginario che solo lei riusciva a vedere: “Secondo te cosa vorrà fare nostra figlia? Vorrà bene a sua sorella? Litigheremo mai, un giorno, fino a piangere e poi riabbracciarci con ancora più amore di prima nel cuore?”

Il marito incrociò le braccia, per poi lanciare un’occhiata ad una bambina, anch’essa dai capelli rossi e selvaggi, che dormiva da un pezzo.

“Quale figlio non litiga con i suoi genitori almeno una volta? Certo che litigheremo, specie se anche lei eredita il tuo carattere forte. Sicuramente litigherà anche con sua sorella, ma le vorrà bene. E poi… qualsiasi cosa volesse fare, lo potrà fare perché sarà la regina.”

La magia negli occhi di Boudicca svanì: “Lo sai che i romani non accetteranno mai che i loro alleati siano governati solo da una capotribù femmina. Questo ovviamente vale anche per i tuoi eredi.”

Prasutago sorrise tristemente, per poi stendersi per terra, con la testa accanto a quella della moglie.

“Le nostre figlie non saranno mai grandi abbastanza per sposarsi quando io morirò. Quindi, a meno che tu non ti voglia risposare…”

“Sta zitto, idiota!” La rossa si posò un braccio davanti agli occhi.

“Ecco. Quando mai ti sei fermata davanti a qualcosa, o a qualcuno? Ricordi quando da giovani ti presi in giro perché ritenevo impossibile che una donna potesse essere davvero forte come dicevano di te? Mi ci vollero settimane intere per riprendermi dopo quei pochi colpi con i quali mi stendesti…”

Tra le lacrime, iniziarono a ridere.

“Per favore, non morire.”

“Non posso andare contro al volere degli dèi.”

Quella notte, tra il pianto del cielo e di due umani, nacque l’ultima erede della tribù.

La pervenuta morte di Prasutago, a causa di un male incurabile, lasciò gli Iceni comandati solo dalla forte Boudicca. Tuttavia, da quando ella aveva partorito solo due figlie femmine, la gente iniziò a credere che la Benedizione di Andraste fosse soltanto una maledizione in incognito.

Nella sua determinazione, la regina stava gettando un’ombra di pericolo sulla sua intera tribù. La minaccia sopraggiunse, infatti, quando i romani vennero a pretendere ciò che non potevano avere.

 

Quel giorno capanne e raccolti vennero bruciati, mentre soldati su cavalli bardati scorrazzavano gridando che quella terra non sarebbe più stata governata da braccia barbare.

La sua gente sarebbe stata risparmiata, perché i lavoratori senza dubbio non dovevano mancare all’Impero. Ma a quale prezzo?

L’indipendenza non gli sarebbe mai più stata concessa, al che tutti i loro terreni sarebbero diventati proprietà di un signore romano assegnato al controllo della tribù.

Boudicca strinse i denti. Suo marito non avrebbe tollerato che i rapporti, seppur fragili, tra loro e i romani si fossero spezzati.

Per questo non batté ciglio quando, in pubblica piazza, venne frustata nuda. Cosa sarebbe mai potuto essere tutto ciò? La frusta non scalfì nemmeno il suo corpo, né il suo orgoglio.

Piuttosto, nemmeno lei si spiegò mai perché non si fosse mossa di un millimetro neppure quando vide le sue figlie, ormai bellissime donne, venir brutalizzate mentre invano imploravano pietà e chiedevano il suo aiuto.

No, non se lo spiegò affatto, e per questo non riuscì mai più a guardarle negli occhi.

Lei amava la sua famiglia, era tutto ciò che aveva giurato di proteggere con la forza che le era stata donata dalla nascita. Eppure, in quel momento così buio da parere l’inferno in terra, quella benedizione fu del tutto inutile.

 

E fu inutile persino rialzarsi, e ribellarsi.

Migliaia di tribù in tutta Britannia unite per respingere gli invasori. Tutto inutile.

Avamposti rivendicati, con innumerevoli vittime per dimostrare al nemico che non li avrebbero mai e poi mai risparmiati. Tutto inutile.

Una superiorità numerica e la conoscenza del territorio? Tutto inutile.

Né gli dèi, né la sua forza, le erano state utili. Fu così che, immersa nel suo sangue, su di un carro distrutto, guardò il cielo in tempesta e pensò che l’amore della sua vita non avrebbe mai voluto niente di tutto ciò da lei.

Aveva solo perso in una battaglia inutile, come inutile era stata la sua esistenza fino a quel momento.

 

Per questo motivo, ora che l’occasione di strappare la vittoria più importante della sua vita si era palesata davanti ai suoi occhi, Boudicca non se la sarebbe mai lasciata scappare.

“L’unica giustizia che dovrai rispettare, ora… SARÀ LA MIA! È il momento del mio giudizio!!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Siamo arrivati al penultimo capitolo di questo ottavo scontro! Questo capitolo, assieme al seguente, sono stati scritti di fila in una nottata andata avanti fino alle 5 del mattino perché al momento mi trovo in viaggio. Quindi, non preoccupatevi: non dovrete aspettare molto per avere la conclusione della battaglia, però poi per una decina di giorni la storia non andrà avanti.

Al prossimo capitolo, dopodomani (giovedì 13 Agosto)!

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Capitolo 32
*** Chapter 32: True Beauty (Final) ***


Chapter 32: True Beauty (Final)

Senza più alcuna limitazione né remore, le due regine avversarie si guardavano a distanza, ognuna presiedendo un lato delle tribune.

Fino ad allora il combattimento si era svolto all’infuori della normale arena, rendendolo senza dubbio uno scontro fuori dall’ordinario e da qualsiasi aspettativa.

Persino Merlino e Gaia, i quali avevano previsto che i poteri di Hel avrebbero portato al caos e alla distruzione, non avevano immaginato che la folle Boudicca avrebbe osato attaccare direttamente gli spalti delle divinità. Quasi metà dell’arena era collassata sotto l’ultimo colpo, minacciando la sicurezza degli dèi.

Non sarebbe stato insensato sospendere quello scontro, tuttavia i due organizzatori Baal e Ptah non riuscivano a fiatare, tanto erano tesi per l’esito della battaglia.

 

La Regina degli Iceni aveva sacrificato la sua Arma, il Carro di Andraste, con l'ultimo colpo, ciò nonostante non era rimasta a mani nude. Anzi, proprio con esse ora impugnava le due grosse ruote staccate della biga, le quali bastavano per ricoprirle le braccia fino alle spalle. Potevano sembrare semplicemente scudi, eppure preservavano ancora la capacità delle Sefirot di ferire gli dèi.

Hel, al contrario, era stata costretta ad allontanarsi dalla sua unica forma di difesa e d’offensiva, ovvero le anime mortali dentro le quali poteva covare i parassiti glaciali. Il sol ripensare alla sua strategia le fece domandare come mai la sua avversaria fosse ancora in vita: gli Éljúðnir’s Parasites erano capaci di rendere il sangue delle loro vittime così freddo da solidificarsi in spessi grumi che non coagulavano, bensì congelavano anche tutti i vasi sanguinei circostanti fino a trasformare il corpo ospitante in un blocco di ghiaccio dall’interno.

Guardò meglio Boudicca, e solo allora si accorse come su tutto il suo corpo si fossero aperti diversi buchi, dai quali sgorgavano rivoli di sangue tutt’altro che congelato. A quanto pare era stata lei stessa a causarsi quelle ferite proprio per estirpare i parassiti, senza i quali il proprio corpo aveva potuto riscaldarsi gradualmente.

“Sei una pazza… completamente fuori di testa.” Sibilò la dea, scrocchiandosi il collo con sguardo truce.

L’altra si limitò a sogghignare con aria di sfida.

“Non ti sei ancora chiesta perché prima, tra tutte quelle anime umane, non hai incontrato quelle della tua famiglia?”

Bastò quella semplice domanda però per smorzare il sorriso della rossa, facendola sussultare. Hel se ne accorse, e felice di aver suscitato una tale reazione, infierì:

“Oh, so che le hai cercate: non avresti mai voluto trovartele davanti, né ferirle. Ma non ti dovevi nemmeno preoccupare… perché ho agito preventivamente: le ho cancellate! Ora non esistono più, e per questo non hanno avuto il diritto di venir convocate al Ragnarok!”

Il volto diviso in due della dea stavolta si contorse in un’unica smorfia grottesca, la parodia di un macabro sorriso da maschera teatrale.

Sapeva di aver appena scagliato un duro colpo psicologico alla sua avversaria, togliendole l’unica cosa che in vita non era riuscita a difendere. Svolgere ricerche sul proprio nemico e trovarne le debolezze era una tattica della quale, in quanto favorita da una delle organizzatrici del torneo, non poteva non usufruire.

“Ah sì?” Le rispose tuttavia Boudicca, provocatoria. Quando sollevò la testa, la accolse con un’espressione derisoria che mai si sarebbe aspettata.

“Bhe, da quello che hai fatto prima, riportando l’anima distrutta di tuo fratello in vita, mi sembra che tu non abbia problemi con casi del genere!”

“Che cosa… intendi dire?”

Una luce folle balenò negli occhi della rossa: “Voglio dire che, in punto di morte, ti costringerò attraverso le sofferenze più estreme a fare lo stesso con le anime della mia famiglia. Me le ridarai tutte! Una ad una!”

Senza aspettare altro segnale, balzarono l’una addosso all’altra, percorrendo la distanza che le separava ed incontrandosi esattamente al di sopra del centro dell’arena.

 

Lì, essendosi mossa più velocemente grazie alla sua prestanza fisica sovrumana, Boudicca sollevò entrambe le ruote per poi abbatterle addosso all’avversaria. L’impatto fu sufficiente per intercettarla in volo, e scaraventarla in un cratere da lei stessa scavato giù sul campo di battaglia.

Hel sentì l’urto risuonarle nelle ossa, mozzandole il respiro e tagliando fuori dal suo controllo qualsiasi funzione organica o muscolare. Il suo cervello aveva subito un blackout per una frazione di secondo, dopodiché tornò a poter percepire tutta l’agonia che il suo corpo stava provando.

Vomitò sangue a fatica, ed il suo respiro fu appena un rantolo: -Dev’essere la voglia di vendetta a renderla così forte… merda! Non avrei dovuto provocarla! Ora che può usare tutta la sua forza e ferirmi, non ho chance in un combattimento ravvicinato! Un altro attacco a bruciapelo come questo e sono morta…-

Ma non le venne data tregua. Piombando dal cielo come una furia, Boudicca roteò attorno al proprio asse per trasformarsi in un tornado luminoso.

-No!- Hel fece frapporre tra lei ed il colpo un’anima umana, evocata fortunatamente in tempo. Questa attutì l’impatto, venendo scagliata su di lei perfettamente incolume. Come tutti gli altri corpi colpiti dalla Sefirot Hod, si era illuminato della stessa luce del carro.

-Non posso più scambiarmi con i corpi imbevuti di questa luce…- Ripensò quindi alle uniche marionette disponibili che le rimanevano. Erano ancora schierate compatte in una zona degli spalti, ma essendo questi ormai deserti, spuntavano subito all’occhio.

-Se mi scambiassi con loro per fuggire, verrei subito vista… e raggiunta.-

“Anche se continuerai a pararti con le anime umane, prima o poi finiranno.” Come se le avesse letto nel pensiero, Boudicca menzionò ad alta voce la sua più grande debolezza.

Stava avanzando verso di lei a passo lento, trascinando a terra le ruote. “E qualsiasi sporco trucco tu abbia in mente, non potrà essere effettuato senza di loro. Così, mi basterà tenerle costantemente d’occhio per capire quando le vorrai utilizzare.”

Sentirsi guardata dall’alto in basso provocò nella Regina dei Morti una sensazione che credeva ormai sepolta nel tempo. Invece, ora che era stato riesumato in lei il fantasma dell’impotenza e della vergogna, non avrebbe mai potuto lasciare in vita colei che le aveva parlato in quel modo.

“Tu… dimentichi…!” Ringhiò, alzandosi in piedi con gli artigli protratti come quelli di un falco. Attorno alle sue unghie iniziarono a svilupparsi sbuffi di gelo.

“…che ti è bastato il minimo contatto con i parassiti del mio corpo per congelarti! Mi basterebbe toccarti per un istante in più e andresti in frantumi!”

L’attenzione delle due avversarie, come se fossero ad un incontro di boxe, si spostò quindi sulle braccia altrui. Possedevano entrambe armi capaci di uccidere l’altra con un sol colpo ben assestato: il pericolo era reale, così intenso da provocare agghiaccianti brividi lungo la colonna vertebrale.

Ripartirono all’attacco all’unisono.

 

Colpi così veloci da lasciare appena le proprie scie nell’aria fluivano leggeri, inarrestabili, trapassando però solo l’immagine residua dei corpi contro i quali erano destinati a scontrarsi. In un istante Boudicca ed Hel erano capaci di scomparire, per poi individuare la posizione del nemico e lì sferrare un attacco portato con il solo intento di uccidere.

I boati echeggiavano senza sosta.

Persino i presentatori erano ammutoliti, mentre l’intero pubblico di divinità si teneva stretto sugli spalti, in attesa di un minimo accorgimento che avrebbe fatto intuir loro l’esito dello scontro.

 

Improvvisamente, un colpo di Hel penetrò a fondo nella guardia di Boudicca, così tanto da sbilanciarla all’indietro pericolosamente nell’atto di schivare. Approfittando allora degli arti avversari, i quali impiegarono più tempo del solito per tornare in posizione, la Regina degli Iceni serrò su di essi le proprie ruote, come se fossero state delle zanne.

Le due tenaglie schiacciarono le braccia di Hel, rompendo le ossa e deformandole in una posizione del tutto innaturale. A causa di tutta la concentrazione e la tensione accumulate, ed infine culminate dopo aver subito un tale colpo, le venne strappato un viscerale ululato di dolore.

Gocce di sangue vennero sollevate in aria.

-Ora! Il momento che aspettavo!-

E dentro quelle stille, così come in ogni minima parte del corpo della Regina dei Morti, si annidavano i parassiti bianchi. L’attacco che aveva escogitato allo stremo delle sue forze, precipitò su di Boudicca.

O meglio, esattamente come era avvenuto prima, trapassò l’immagine persistente del suo corpo e colpì il vuoto. Questo perché Boudicca, che aveva deciso di tenersi ben in allerta da un avversario insidioso come Hel, si era già allontanata con uno scatto.

Eppure, allontanarsi in uno scontro in cui apparentemente si ha la meglio, può sembrare illogico. Fu questo dubbio a colpire Hel, la quale era già abbastanza tramortita dal danno appena subito.

E ciò che infatti la sua avversaria le stava riservando, venne svelato:

“Andrastes Steorra!”

Di punto in bianco, nascosto da un’azione evasiva, l’attacco più potente di Boudicca venne sferrato. Stavolta non venne utilizzato il Carro di Andraste, bensì una sola ruota di esso. In questo modo la meteora risultò più piccola e leggera, e per questo incredibilmente più veloce.

-Anche se sembra più debole…!- La dea tremò al sol pensiero di ricevere in pieno quel colpo.

La corta distanza, assieme alle ferite accumulate, le impedì di muovere anche solo un muscolo delle gambe per schivare.

“Non mi resta altra scelta!” Urlò, utilizzando il suo asso nella manica proprio quando l’avversaria non se ne sarebbe potuta approfittare.

Istantaneamente riuscì a richiamare davanti a sé tutte le marionette di cui disponeva, formando una barriera composta da una decina di corpi umani.

L’Andrastes Steorra impattò.

 

L-Ladies and gentlemen…” Quando fu possibile vedere di nuovo, Adramelech e St. Peter comunicarono con grande stupore quello che nessuno si sarebbe aspettato.

In contemporanea, Hel sgranò gli occhi, crollando su di un ginocchio.

“Hel è stata colpita!” L’urlo riempì lo stadio, ma nessun esultò.

La dea dei morti si guardò allora il fianco destro, trovandolo parzialmente evaporato. Anche parte del suo volto e dei suoi arti, sempre sullo stesso lato, stavano iniziando a disperdersi in minuscoli frammenti, come farfalle in volo.

Lo sgomento si stava già impadronendo della sua sanità mentale, quando constatò come un enorme solco nel terreno fosse tutto ciò che rimaneva di metà della sua barriera di anime. Si voltò, trovando tutti i corpi sbaragliati e, dove terminava il solco, conficcata nella parete dell’arena, la ruota scagliatale addosso.

-La ruota, proprio perché era più piccola... è stata più aerodinamica del carro… e siccome era anche più leggera, Boudicca ha potuto imprimere molta più forza nel lanciarla.- I suoi pensieri divennero una landa deserta, dove un triste vento morto spirava, accarezzando il vuoto.

Sola, a terra e prossima alla disfatta.

 

La presenza della sua avversaria, che ormai appariva come mastodontica e disumana, la sovrastò:

“Alzati! Ho promesso che prima mi avresti ridato le anime della mia famiglia, e poi saresti potuta morire!”

Boudicca era arrivata faccia a faccia con le ultime difese della dea, la quale ora, impotente, era china su se stessa al punto da non riuscire nemmeno a vederla.

Jormungandr, Hati, Skǫll e Loki erano tesi come corde di violino. In lontananza, anche se non proferiva parola da molto tempo, persino Fenrir pareva decisamente in apprensione per sua sorella.

Nessuno osava fiatare, e così alcun suono si levò nell’Arena del Valhalla per molto tempo.

Finché: “Ehe…ehehe!”

Gorgogliante come un ruscello e a tratti gracchiante come un corvo, quel suono distorto eruppe dalla gola di Hel.

“EheheHEHEHEHEHEEEH!”

Pazzia. Dolore. La sua mente era offuscata, così come la vista, per via del sangue che sgorgava davanti ai suoi occhi. Gli altri sensi erano intorpiditi, ed i muscoli non rispondevano più correttamente agli ordini.

Eppure lei rideva.

“Eheheheh…” Rantolò, sollevandosi da terra in una posa scomposta. “Grazie per avermi ricordato… il tuo punto debole!”

Gli occhi di Hel brillarono malignamente, ma Boudicca poté prestarci attenzione solo per poco, siccome presto qualcos’altro accadde. Qualcosa che la fece sussultare, colta del tutto alla sprovvista. 

I suoi occhi si sbarrarono, come per accertarsi di star guardando davvero ciò che pensava.

“Non potrai di certo colpire… la tua famiglia!” Continuò a ridere Hel, allargando le braccia per mostrare come tutte le anime davanti a sé avessero preso le sembianze di Prasutago, e delle figlie di Boudicca.

Rideva e rideva, mentre Boudicca riusciva solo a tremare, convulsamente.

Cercò invano di dare fiato alla sua bocca, e quando infine ci riuscì… rise anch’ella.

“Va bene, te lo do per vinta!” Un sorrisetto di superiorità accompagnava il volto macchiato di sangue e sudore della regina, che tuttavia non aveva deciso di arrendersi nemmeno in quella situazione.

Dopo aver inizialmente spiazzato Hel, la quale si era ammutolita di colpo, proseguì:

“Hai ragione. Non riuscirei mai a colpire le mie figlie, né mio marito… non dopo tutto il male che ho recato loro. So bene che non sono davvero loro, ma i sensi di colpa mi bloccano al sol pensiero. Già…”

Sollevò la mano libera, stretta a pugno.

“Per questo colpirò direttamente te, che ho giurato di annientare!”

E strattonò con forza qualcosa di invisibile, e a tratti inesistente.

 

No. Hel sentì lo spostamento dell’aria attorno a sé. Percepì il peso di un oggetto che si muoveva velocissimo, ma quando anche solo elaborò il pericolo, fu troppo tardi.

“Pensavi davvero che avrei abbandonato una delle ruote, soltanto perché ne avevo un’altra?!”

La ruota del Carro di Andraste, precedentemente conficcata nella parete dietro di Hel, si schiantò con forza inarrestabile contro la sua schiena. La dea, mentre veniva investita di luce, riuscì a stento a gemere, tra i denti che si spaccavano e rilasciavano un’eruzione di sangue:

“C-Come?!”

Boudicca fu più che felice di rispondere, mostrando sempre il pugno libero che aveva davanti a sé.

“Quando nello scontro precedente la cupola attorno all’arena è stata distrutta, l’esplosione di addio di Guy Fawkes ha trasportato su per gli spalti qualcosa di molto importante… per tuo fratello!”

Gleipnir. Il filo indistruttibile, persino di fronte all’esplosione più forte che déi ed umani avessero mai visto, non si era affatto spezzato. Piuttosto, i suoi filamenti si erano sparsi in giro per lo stadio, alla pari di un nastro leggero trascinato via dal vento.

E ora, proprio quel filo univa la mano di Boudicca con la ruota sulla quale nessuno più aveva riposto attenzione, men che meno la sua avversaria.

-Questa è ciò che considero… una benedizione.- Pensò la donna, piangendo lacrime mentre non rendeva affatto vano il sacrificio di Guy Fawkes.

-Anche se non potrò più rivedere la mia famiglia, lo considero un piccolo prezzo da pagare… per un mondo a misura di uomini giusti!-

“È la fine, Hel! Pagherai le conseguenze delle tue azioni!”

Il corpo di Hel si illuminò, diventando parte della stessa luce che emanava la Sefirot.

 

Ma non scomparve affatto.

“Cos-?!” Provò a dire Boudicca, ma una mano le si attaccò alla faccia, zittendola. Era provenuta dalle sue spalle, ed apparteneva ad un’anima umana, un cosiddetto burattino.

E, quell’ignorata marionetta, ora stava riprendendo le sembianze che davvero gli competevano: quelle di Hel, la Regina delle Anime Dannate, e figlia del Dio degli Inganni.

Invece, quella che era stata colpita dalla ruota del carro, ora appariva proprio come una delle figlie di Boudicca, incolume. Gli altri sosia approfittarono dello sgomento della paladina per strapparle di mano l’altra ruota restante, e così lei rimase del tutto impotente tra le grinfie di Hel.

“Sia tu che io sapevamo che non avresti colpito la tua famiglia… ma era proprio questo il punto! Non colpendo le anime con la tua Sefirot, non le hai potute rendere immuni ai miei poteri: soltanto grazie a te, quindi, ho potuto scambiarmi e poi mutare sia il mio aspetto che quello di quell’anima. Ma a te è parso soltanto che io non mi fossi mai mossa, mentre mi scagliavi addosso il tuo attacco finale!”

Fino a quel momento, dopo aver fatto volontariamente concentrare Boudicca sui suoi poteri legati al contatto diretto, e al richiamare le anime davanti a sé, Hel era riuscita a rimuovere dalla mente dell’avversaria la possibilità che lei potesse di nuovo scambiarsi con una delle anime sotto il suo controllo.

“Non esiste alcuna benedizione: né gli dèi, né il fato, sanno essere così gentili.”

Ma nessuna di queste parole, per quanto sussurrate al suo orecchio, raggiunsero la rossa. Ormai, stretta tra entrambe le mani di Hel, stava venendo congelata a partire dal suo sistema nervoso.

Tutto ciò che vedeva era ghiaccio. Tutto ciò che sentiva era freddo.

Persino i ricordi dell’amore provato, dell’affetto ricevuto, e della speranza che l’aveva rinvigorita, svanirono in fretta dal suo cuore. Come fiocchi di neve che si infrangono al suolo.

“Wild Hunt…”

E anche la statua di ghiaccio in cui si tramutò, alla minima pressione, andò in frantumi.

 

Ladies and gentlemen! L’ottavo scontro, così travagliato e pieno di colpi di scena… SI CONCLUDE CON LA VITTORIA DEGLI DÈI!”

Un boato si sollevò dalle tribune degli dèi, uniti ad imprecazioni riservate all’umana che aveva osato attentare alla loro vita, ma che ora aveva avuto la fine che le spettava.

Jormungandr, Hati e Skǫll piansero lacrime commosse, felici di sapere che non solo Fenrir, ma anche Hel fosse uscita viva e vittoriosa dopo tante paure. Loki si limitò a sorridere compiaciuto, per poi riservare uno sguardo al cielo.

“Boudicca…” Charlotte Corday aveva nascosto la testa contro il petto di Dante, sfogando tutte le sue lacrime mentre il poeta le accarezzava la schiena. Lo sguardo dell’uomo era addolorato quanto amareggiato.

Intanto, lì accanto, due figure nell’ombra non riuscivano a placare l’intento omicida sprigionato dalla loro infinita rabbia: erano Masutatsu Oyama e Vlad, i quali avevano deciso che quello sarebbe stato l’ultimo scacco che gli dèi avrebbero inflitto loro.

Dall’altra parte, all’interno di una tribuna apposita per i partecipanti divini, Fenrir sedeva silenzioso come era stato per tutto il resto dello scontro. Ormai cieco e sordo a causa dell’ultimo attacco inflitto da Guy Fawkes, sembrava del tutto indifferente agli esiti di quel torneo, e persino alla vittoria di sua sorella.

“Allora…?” Gli domandò una voce seria, che tradiva un enigmatico fastidio.

Sun Wukong non dovette nemmeno guardarlo: sapeva che la sua espressione non sarebbe mutata.

“Ne è valsa la pena, forse?”

E, come aveva immaginato, non ottenne risposta.

 

Nel frattempo, nella tribuna di Gaia, tutta la tensione accumulata fino a quel momento venne rilasciata attraverso un collettivo sospiro. Era come se solo da allora fosse stato possibile respirare di nuovo.

"Vi rendete conto che, per i vostri scopi, avete causato danni a degli innocenti umani?!" Ringhiò Prometheus, rimanendo però a distanza di sicurezza: per quanto avesse voluto muoversi, sentiva che un solo passo in avanti avrebbe potuto costargli la vita.

Attorno a Gaia, Merlino e a quell'immobile armatura, si contorceva un'aura distorta. I volti dei tre, nascosti alla loro vista, erano in realtà misteriosamente contemplativi.

Gaia mormorò cupamente: "Cinque per gli dèi, e tre per l'umanità." Non volse nemmeno lo sguardo verso Merlino, seppur lo vide congedarsi con uno sbuffo.

"Poco male. Sicuramente Arthur non perderà il prossimo scontro. Andiamo, Arthur..." Il mago meditabondo si incamminò verso la porta, come se questa non fosse sbarrata da uno schieramento di divinità che lo volevano morto.

"Sei più viscido di un verme." Sibilò Ammit, guardandolo storto. Lo stesso fece Fobetore, per poi rivolgersi direttamente al prossimo sfidante:

"E tu, invece, sei forse impazzito?! Non capisci che questo qui vuole condurre l'umanità intera alla distruzione?"

La voce gli morì in bocca, esattamente come in tutti quanti loro venne annichilita la volontà di bloccare l'avanzata di quei due. Persino i più potenti, come Zeus, Odino e Ptah, videro le proprie ginocchia tremare. Fu per un istante, ma quando smisero di preoccuparsi per loro stessi, davanti a loro non c'era più nessuno.

"Date ad Arthur un avversario decente, per favore." Ordinò Merlino, mortalmente serio, mentre si allontanava. Il chiasso prodotto dai pesanti stivali dell'armatura sparì a poco a poco.

Il titano dai capelli rossi si artigliò il petto, non realizzando che lo stesse facendo per controllare che il suo cuore battesse ancora regolarmente. Trovò il battito accelerato, eppure per un istante gli parve di non aver percepito alcun segno vitale.

"L'unico altro essere capace di farmi provare questa sensazione…"

"Già, è lui." Baal diede segno di conoscere perfettamente come si sentisse, e cosa fosse stato portato a pensare.

"Che ironia: sembra che quell'Arthur non verrà deluso… da Uriel."



 

Angolo Autore:

Welcome back! L'ottavo scontro è finito, ed io a stento riesco a crederci. Anche se spero di distaccarsi da questa storia il più tardi possibile, inevitabilmente finirà assieme all'estate.

Io vi aspetto alla fine della mia vacanza, con il prossimo match: Uriel Vs Arthur, anche detto Re Artù. Annuncio anche, per chi ha sempre desiderato un po' più momenti leggeri riguardanti i personaggi, che ci saranno degli extra a sfondo comico, molto slice of life. Li pubblicherò in una raccolta di un capitolo.

 

 

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Capitolo 33
*** Chapter 33: Kyrie Eleison ***


Chapter 33: Kyrie Eleison

Le tende del grande letto a baldacchino lasciavano filtrare debolmente la luce proveniente dalla finestra, illuminando solo da un lato Hel. La dea, con la parte superiore del corpo che emergeva dalle coperte, stringeva la mano al fratello Fenrir, seduto di parte.

Lui non l’avrebbe più vista, né ascoltato la sua voce: le conseguenze dell’ottavo scontro erano irreparabili anche dopo esser stato riportato in vita. Allo stesso modo, sua sorella era rimasta gravemente ferita, facendolo preoccupare fino all’ultimo secondo del match da poco concluso.

“Hel, io non ti avrei mai lasciata morire.” Tali parole vennero pronunciate da una terza figura in quella stanza. Gaia, la Madre Terra, guardava seria i due sul letto. Dentro il suo sguardo non c’era più ombra di superiorità, rabbia o desiderio di vendetta. Qualcosa pareva essersi rotto dentro di lei, ed un frammento del suo essere si era così staccato, cadendo via da quella che era stata palesemente una maschera.

“Lo scontro era fuori da ogni previsione degli organizzatori, perciò sarebbe stato sensato interromperlo qualora tu fossi stata in serio pericolo. Ripeto, non saresti morta in nessuna occasione dentro quell’arena.”

La dea della morte a stento riusciva a ripensare alla battaglia appena combattuta senza tremare per la paura, segno che Boudicca le avesse impresso sin nelle ossa l’eco della sua mortale pericolosità. Tuttavia, volle fidarsi delle rassicurazioni di Gaia, più per timore che la parte più oscura e feroce della titanide potesse ripresentarsi su quel volto ora così calmo.

“Piuttosto… ora che hai utilizzato a pieno i tuoi poteri per la prima volta, sei diventata abbastanza forte da richiamare quelle anime?” La voce di Gaia si incrinò appena.

Definitivamente anche l’ultima luce che anelava una possibile felicità scomparve dalle sue iridi quando Hel scosse la testa, con una smorfia preoccupata.

“Non è niente di così sorprendente, ahimè.” Sopraggiunse una quarta presenza, parlando con leggerezza di quella questione che faceva battere così forte il cuore di Gaia.

Merlino si palesò ridente, nel suo aspetto così giovane ed ingenuo da parere fuori posto in mezzo a tutte quelle divinità potentissime. I suoi occhi, i quali erano suddivisi in tanti frammenti come un prisma, e che brillavano come un minerale prezioso raffinato, si piegarono quando sorrise.

“Nemmeno il Record of Ragnarok, dal quale Hel trae i poteri come tutti gli dèi, è abbastanza forte da evocare anime del genere.”

Dopo aver affrontato l’iniziale sorpresa che rappresentò la comparsa del magus davanti a loro, Hel e Fenrir rimasero ancor più sbalorditi dalla totale assenza di reazioni da parte di Gaia.

 Per tutto quel tempo avevano creduto di essere le pedine di Gaia nella sua battaglia contro Merlino, eppure in quel momento lui si era introdotto nella loro discussione, sapendo perfettamente di cosa stessero parlando. Inoltre, si era inserito in quell’atmosfera informale con aria così fiduciosa e serena, da apparire completamente a suo agio.

“Capisco.” Sospirò Gaia, dando lo scacco matto alle menti dei due fratelli, divinità nordiche.

In quel preciso istante compresero che Boudicca aveva detto la verità, intuendo all’alleanza che quelle entità avevano stretto, e che aveva come obbiettivo qualcosa che andava ben oltre il mero Torneo del Valhalla. Tuttavia, con quei due assieme nella stanza, si sentirono improvvisamente scoraggiati dall’idea di intromettersi: nonostante non stessero mostrando nemmeno un briciolo di pericolosità, né fossero di cattivo umore, trasudavano una potenza così immensa che avrebbe potuto paralizzare sul posto qualsiasi dio o umano nella storia.

“Comunque…” Il sorriso del mago si fece più sensibile, a tratti sincero. Porse una mano a Gaia: “Auguri per questo nono scontro. Che vinca il migliore!”

Lei la strinse, ricordandosi come avrebbe dovuto concludersi per l’appunto quell’incombente battaglia.

 

Nell’arena l’aria era così bollente da parere sul punto di prender fuoco, con ogni urlo che pareva una scintilla per far scoppiare tutta la tensione immagazzinata nei polmoni degli spettatori.

Ora che una metà del colosseo era stata ricostruita, anche le anime umane sopravvissute ad Hel avevano ripreso ad incitare qualsiasi altro eroe sarebbe sceso in campo per rappresentarli. In tutti loro si animava la paura di sparire dalla storia, siccome l’esistenza dell’umanità era messa in pericolo anche solo da una vittoria da parte degli dèi.

Ladies and gentlemen! Siete caldi?! Siete pronti?!” Un boato da ogni singolo posto rispose agli annunciatori, i cancellieri del Paradiso e dell’Inferno.

“In questo penultimo scontro previsto per il torneo che deciderà le sorti dell’umanità, la speranza di ogni singola anima di uomo e donna è riposta in una vittoria… mentre, per gli dèi, basterebbe che il proprio sfidante vincesse per ripagare di tutte le smisurate perdite subite tra i vari pantheon!”

Mentre parlavano, in cielo vennero trasmesse le morti di ogni sfidante nei precedenti scontri.

Il cadavere impalato al muro di Enkidu. La sabbia che aveva sepolto la tomba di Ramsess II. Baphomet che si dissolveva nella luce. La tanica prosciugata dal sangue di Mengele, solo rimasuglio della sua esistenza. La gola perforata di Quetzalcoatl, dopo che Charlotte si era arresa. Hastur, inghiottito dall’eterna sofferenza. Il cappello svolazzante all’aria di Guy Fawkes, unica parte di lui sopravvissuta all’esplosione.

Ed infine la statua di ghiaccio in cui si era trasformata Boudicca, nell’istante esatto in cui venne frantumata in minuscole particelle. L’ultima sconfitta per gli umani, l’ultima di ben cinque.

Dèi e umani digrignarono i denti, guardandosi in cagnesco. Ben presto quel loro odio sarebbe stato incarnato da due lottatori, i quali avrebbero combattuto fino alla morte per la giustizia della loro specie.

 

“Passiamo al lato degli umani, forza!”

La terra tremò quando il portale venne spalancato, abbassandosi come un ponte levatoio per superare il fossato che separava l’arena dagli spalti.

E sebbene ce ne fossero molti più nobili di lui, egli fu scelto più e più volte senza ombra di dubbio come loro comandante!” Mentre St.Peter annunciava lo sfidante con quella citazione, un nitrito lontano riecheggiò forte con un tuono.

Ad un furioso galoppo, un cavallo bianco bardato di rosso e d’oro percosse duramente il ponte di legno con i suoi zoccoli, per poi spiccare un balzo in corsa.

“Colui che dalla fortezza di Camelot ha radunato i migliori cavalieri, regnando in eterno grazie alla sua leggenda!”

Colui che gli era in groppa, una volta raggiunta la massima altezza, saltò a sua volta: in alto, perfettamente perpendicolare al sole nel cielo, riflesse i suoi raggi al punto da accecare tutti gli spettatori.

“Il più forte, il più nobile, il più valoroso! Mai nessuno ha osato dubitare dei suoi poteri!”

Quando atterrò, lo fece piombando in picchiata dopo aver estratto qualcosa da un fodero al suo fianco. Un altro scintillio, seguito dal sibilo dell’acciaio che sguscia fuori da una guaina. E proprio la lama di una spada si conficcò sul costone di roccia che sporgeva dal terreno, il quale venne squarciato da parte a parte da una sola e profondissima crepa.

“Il leggendario Re dei Cavalieri… e Re in Eterno…”

La spada era enorme, e così ricoperta d’oro da non poter essere quasi chiamata un’arma. Il braccio armato che la impugnava era d’acciaio bluastro, come il resto dell’armatura, anche se ora era coperta da un mantello rosso con la pelliccia bianca, svolazzante nel vento come un’insegna di battaglia. Dal suo elmo rotondeggiante, sopra il quale era incastonata una corona con diverse gemme preziose, osservava il campo di battaglia che presto avrebbe conquistato.

“Arthur Pendragon, Re Artù!”

Una fanfara di trombe accompagnò l’urlo unanime di centinaia di migliaia di cavalieri, tutti abbarbicati sulla parete divisoria degli spalti più bassi. Sollevavano le loro armi e i loro stendardi, gridando o percuotendosi gli scudi e le corazze per produrre ancora più suono. Si respirava un’aria quasi mistica, da leggenda.

“Oh, per l’amor di… Ginevra.” Borbottò un cavaliere affascinante, con un lungo ciuffo di capelli biondi che gli discendeva lungo parte del viso. “Davvero occorre essere così chiassosi?”

Ma la lamentela di Sir Lancillotto non venne di certo ascoltata da un altro cavaliere, grosso e dall’aspetto selvaggio come un leone, il quale iniziò ad urlare più forte di tutti gli altri presenti messi assieme.

“FORZA ARTHUR!” Sir Gawain, nipote del re combattente, era infiammato dall’eccitazione.

A quel punto un giovane biondo, con un sorriso tirato a causa dell’imbarazzo, cercò di calmare Lancillotto: “Su, su, padre. È normale che siano tutti così entusiasti: dopotutto sono millenni che non vediamo Re Artù combattere.” La benevolenza di Sir Galahad bastò a placare il padre, il quale si limitò a sbuffare.

“Piuttosto…” Bofonchiò un vecchio dalla voce rauca e cavernosa. Nonostante l’età, mostrata dai baffi grigi che spuntavano da sotto la visiera calata dell’elmo, in armatura Sir Pellinore pareva il più spaventoso tra tutti i Cavalieri della Tavola Rotonda.

“Mi domando se quel ragazzino sappia ancora battersi…” Il suo sguardo si assottigliò fissando l’armatura silente al centro dell’arena “Ed in particolare se sappia ancora come si usa… quella.”

 

Quella. Un termine riduttivo per indicare la spada più conosciuta al mondo, in un racconto immortale capace di toccare ogni singolo angolo della Terra, attirando in ammirazione tutti gli esseri umani.

Excalibur, la spada invincibile che non aveva mai perso una battaglia. Essa non tradiva affatto la sua natura magica, mostrandosi quindi come la prima vera e propria arma soprannaturale brandita da un umano nel corso del Torneo del Valhalla.

 

Quando Arthur era poco più che un ragazzino, un giovane mago gli disse che era giunto il momento per lui di diventare re di Britannia. Egli si fidò ciecamente di lui, e questa sua fiducia venne ripagata nel momento in cui si materializzò una spada in un’incudine sopra una roccia, che nessun cavaliere seppe estrarre.

Nessuno, tranne lui. Eppure, a discapito della credenza popolare, quella spada non era Excalibur.

Quell’arma non rendeva Arthur un cavaliere migliore, ma lo legittimava soltanto al trono di Inghilterra. Il ragazzo conobbe quindi il limite della sua forza, quando si affrontò per la prima volta contro l’esperto Sir Pellinore.

Il vecchio cavaliere infatti gli distrusse la spada ritenuta magica nel duello, ma riconoscendo il suo talento lo lasciò vivere.

“Fai unire il cavaliere che ti ha battuto alla tua Tavola.” Suggerì allora il mago all’orecchio di Arthur. “Il nemico di oggi è l’alleato di domani.”

E così, mentre il potere del re si rafforzava grazie ai prodi cavalieri che si riunivano sotto il suo vessillo, il mago lo premiò con una spada davvero invincibile: emersa dalle profondità di un’antica civiltà nascosta in un lago, fuoriuscì dallo specchio d’acqua la splendente e dorata Excalibur.

 

E ora quel mago, dall’alto della sua tribuna personale, sorrideva divertito.

“Perché mi hai fatto fare tanta strada per raggiungerti, Merlino?!” Gemette dolorante una vecchia donna coperta da panni neri e grigi, ornati con piume di corvo.

La sua vista provocò ancor più ilarità in lui, strappandogli una risata.

“Megera! Sei proprio un fiore, vedo. Il più bel fiore che io possa cogliere oggi-”

“È Morgana, non Megera!” Gridò furibonda lei, prendendolo a bastonate con un ramo nodoso che usava per camminare. “E poi io dovrei essere molto più giovane di te!”

“Lo so, ma ti sei ridotta comunque vecchia e decrepita perché non hai saputo usare bene la magia che ti ho insegnato.” O forse non l’aveva insegnata come avrebbe dovuto apposta.

Lei di tutta risposta sputò per terra, ringhiando con i suoi pochi denti: “Ho capito, sei qui per deridermi e basta. Torno ad aspettare la fine del mondo…”

Ma Merlino la cinse prontamente in un abbraccio, iniziando a supplicarla con fare smielato “No, no, no! Ti prego, Morganuccia! Rimani e ti mostrerò tante cose bellissime!”

“Ma va via!” Morgana lo prese ad altre bastonate. “Che cosa vorresti farmi vedere da quassù? Sentiamo!”

Un ghigno serpentino si spalancò sulla faccia del mago, ricoprendo tutto il suo campo visivo dopo che l’ebbe forzatamente afferrata da spalle ed avvicinata a sé.

“Il più bello spettacolo prima della fine del mondo! Anzi, diciamo proprio che sarà questo stesso spettacolo a terminare l’esistenza degli dèi e degli umani!”

 

“E ora, dal lato degli dèi…!” Sbraitò St. Peter, venendo poi seguito dal collega Adramelech: “… chi cercherà a tutti i costi di calpestare questa speranza!”

Gli dèi iniziarono a esultare festosi, fino a quando il loro portale non si spalancò, portando solo un silenzio tombale. Sembrava un evento assurdo: tutte quelle voci erano state silenziate di colpo da qualcosa di invisibile, una presenza che, non sapevano nemmeno loro in che modo, ma riuscivano a percepire.

Era capace di paralizzare le loro ossa come un ordine impellente. Un ordine al quale non poteva sottrarsi nemmeno una divinità.

Scie di fumo grigio fuoriuscirono dal corridoio, ed inizialmente si temette che fosse qualcosa di simile alla polvere da sparo portata da Guy Fawkes. Al contrario però, quando arrivò alle narici di tutti gli spettatori, questi capirono cosa fosse: incenso.

Il dolce e penetrante incenso rese i loro sensi ancor più acuti, quando diverse fiammelle si accesero nell’oscurità da cui proveniva quel profumo. Il fuoco, fluttuando al di sopra di tante assurde figure, simili ad ammassi di ali e globi oculari con attaccati degli incensieri, sembrava vibrare al suono del loro canto.

“Confiteor Deo omnipotenti

Beato Urieli Archangelo

Quia peccavi nimis

Mea culpa, mea culpa

Mea maxima culpa”

Non pochi esseri umani tremarono come fuscelli al vento, con il terrore negli occhi e che risuonava fin nelle loro cellule. Alcuni scoppiarono in lacrime, ed eppure così si poté sentire dalle loro bocche fuoriuscire un rantolo:

“Kyrie Eleision! Kyrie Eleision!” Invocavano la pietà di colui che stava emergendo dall’oscurità, al suono del canto ormai trasformato in una vibrazione assordante.

“Mea culpa!”

Gli annunciatori ripresero la presentazione: “Lui, l’angelo che incarna la Giustizia, la Forza, la Luce…!”

Con uno scatto del braccio, ciò che brandiva la figura appena emersa dal corridoio si tramutò in una pira fiammeggiante.

“…il Fuoco!”

Non camminava, rendendosi ancor più distaccato da quel mondo terreno che con lui non aveva nulla da spartire. Una tunica bianca, cinta in vita, strisciava al suolo, rivelando la parte superiore del corpo: muscoli su di una pelle candida, ciò nonostante incisa da un marchio nero al centro del petto. Era un sole con un occhio all’interno.

“Mea culpa!”

“Porterà l’Apocalisse senza battere ciglio, ardendo fino a ridurre in cenere il suo avversario! Perché tale è la sua natura da implacabile giustiziere divino, e perché il suo nome significa proprio Fuoco di Dio!”

Due paia di gigantesche ali bianche erano distese dietro la sua schiena, mentre un piccolo paio saliva fin sopra al collo, incrociandosi davanti al suo volto per nascondere qualsiasi cosa si trovasse sopra la sua bocca. Al centro di esse era marchiato un altro occhio nero dentro un sole.

Col suo braccio destro impugnava uno spadone senza lama: infatti, dalla guardia in su danzavano in maniera quasi impercettibile delle fiamme, unite contro ogni legge della natura per formare una lastra di fuoco lunga due metri.

“Mea Maxima culpa!” Terminarono gli angeli attorno a lui.

“L’Arcangelo delle Fiamme Celesti… Uriel!!”

Il gigantesco angelo era massiccio come l’armatura di Arthur, ma, sospeso da terra di qualche centimetro, lo sovrastava di circa un metro. Non appena si fu ritrovato di fronte al suo avversario, sollevò il bicipite per porre la sua lama di fiamme parallela al terreno.

“Sei tu, l’ultima fortezza da abbattere per cancellare i mortali dal creato?”

Arthur rispose estraendo Excalibur dalla roccia, privandosi del mantello, che ricadde alle sue spalle.

 

Intanto l’umanità era ancora sotto shock, impietriti dall’apparizione dell’arcangelo.

“M-Ma come è possibile che quello… sia il vero aspetto di un angelo?” Più lo guardavano, e più si sentivano accapponare la pelle, pervasa da un formicolio infestante.

L’aria attorno ad Uriel era distorta, molle, con bagliori globulari che brillavano sulle piume delle sue ali per renderlo quasi inguardabile a causa della troppa luce.

In ogni raffigurazione storica degli angeli reperita fino ai tempi odierni, essi sono sempre stati ritratti con sembianze umane ed ali simili a quelle della colomba, simbolo di purezza. Eppure, ora che l’umanità si trovava al cospetto del primo vero angelo che si fosse mai rivelato a dei comuni mortali, capirono che questo fosse una creatura del tutto diverso dalla loro specie.

“Piuttosto…” Iniziarono a mormorare, come timorosi che il combattente degli dèi potesse sentirli: “Non ho mai sentito nominare questo Uriel. Perché non hanno inviato l’Arcangelo Michael, Gabriel o Raphael?”

Ma il segreto venne mantenuto dal silenzio che aleggiava nell’arena.

“Combattenti! Ai vostri posti!” Squillarono le trombe “Il Ragnarok ha inizio!”

 

“Di quanti peccati ti sei macchiato in vita, umano?” Disse Uriel appena cominciato lo scontro, stravolgendo l’aspettativa degli spettatori. Non ricevette risposta da Arthur, tuttavia sembrava che non gliene importasse affatto.

“Che siano stati mille, cento o anche uno, non importa. La grande colpa per la quale verrai giustiziato seduta stante…” Sollevò il braccio armato, caricando il colpo. “…è di aver sfidato Dio!”

Con un movimento innaturale, l’angelo parve traslare nello spazio senza alcun reale movimento corporeo, nullificando la distanza che lo separava dal cavaliere. Lì, calò lo spadone, dipingendo una mezzaluna infuocata nell’aria.

“Quella spada è fatta di solo fuoco!” Sogghignarono gli dèi sugli spalti “Non è qualcosa che puoi semplicemente fermare! Stupido umano!”

E gridando il nome del loro paladino, assistettero alla parabola compiuta dalla spada di fuoco. Questa però, venne intercettata a qualche centimetro dalla faccia di Arthur con un tonfo sordo.

Il grido venne soffocato, facendo echeggiare nell’arena soltanto quel misterioso frastuono.

Gli stivali del Re Cavaliere scavarono un piccolo solco nella terra, ciò nonostante né il suo busto, né le sue braccia vacillarono quando con Excalibur parò la spada di Uriel. L’angelo, incredulo, esercitò ancor più pressione sul suo braccio, trovando però un’insormontabile resistenza.

“Ladies and gentlemen!” Strillarono gli annunciatori: “Nessun fuoco al mondo si dovrebbe comportare in quel modo!”

Davanti agli occhi di tutti era infatti visibile come le fiamme che componevano l’arma dell’arcangelo continuassero a divampare, fatta eccezione per la parte in collisione con la lama di Arthur. Lì, infatti, esse sfrigolavano all’impazzata, tuttavia venendo respinte e facendosi sempre meno feroci.

“La sua spada tocca… l-le fiamme?!” Sussultarono sia gli dèi che gli umani.

Nell’alto della sua tribuna, Gaia, la quale aveva assistito alla scena con non poco stupore, si soffermò a riflettere nell’arco di un secondo: “Le opzioni sono due: questa capacità ha a che fare o con Excalibur o con…” volse lo sguardo alla tribuna sopraelevata opposta, dove c’era una sua vecchia conoscenza.

“…una Sefirot!”

Merlino sorrise perfido: “Schiaccialo, Arthur!”

 

E come se avesse potuto sentire quell’ordine, stavolta fu Arthur a muoversi. Lasciò scivolare lungo la lama l’attacco di Uriel, per poi colpire nel punto lasciato scoperto, ovvero l’intero fianco destro.

L’arcangelo riuscì a ritirare l’arma in tempo per usarla come scudo, ma il suo avversario aveva già previsto questa mossa, così deviò la traiettoria del colpo all’ultimo secondo. Gli spostamenti istantanei di Uriel e la sua grande spada lo salvarono giusto in tempo da una raffica di sferzate, fendenti ed affondi, talmente tanto rapidi da trasformarsi in scintillii fugaci.

“È una pioggia; ma che dico? una burrasca di attacchi!” Strillò Adramalech, su di giri, venendo seguito da St. Peter: “Nessuno si sarebbe aspettato che Arthur potesse costringere Uriel sulla difensiva!”

Con gli occhi scintillanti per l’emozione, il giovane Sir Galahad si stava sporgendo dalle tribune per assistere meglio alla scena: “È incredibile! Mozzafiato! Stupefacente! Anche se le fiamme che costituiscono la spada di Uriel la rendono un’arma pericolosa, il peso degli attacchi del Re lo sbilanciano sempre di più, rendendogli impossibile rispondere tra un colpo e l’altro!”

“Sei un vero fanatico, lasciatelo dire Galahad!” Rise allora Sir Gawain, divertito da tutto quell’entusiasmo nonostante lui non ne mostrasse affatto di meno. “Il nostro Re è un asso nel combattimento!”

“Il realtà quelle sono tecniche da principiante…” Commentò aspramente Sir Lancillotto, facendo piombare gli altri due cavalieri nello sconforto.

Dopodiché, assottigliando lo sguardo con l’aria di chi ha previsto l’arrivo di qualcosa di sensazionale, sussurrò: “Ora arriva la parte in cui occorre stare attenti!”

Quando Arthur caricò un fendente da dietro la sua testa, tutti compresero che sarebbe stato un attacco dalla potenza terrificante. Al contrario però, Uriel vide qualcos’altro: una finestra per colpire.

A causa della guardia del suo avversario venuta a mancare praticamente su tutto il corpo, nell’intervallo di tempo impiegato per sollevare così tanto la spada, lui poté abbandonare la difesa per sferrare un singolo, potente affondo a breve distanza.

Le fiamme scaturirono come un getto lavico eruttato da un vulcano.

Un essere infinitamente potente come Uriel aveva affrontato soltanto nemici altrettanto divini, o comunque soprannaturali, e per questo motivo mai era prima d’ora entrato a contatto con il mondo dei combattimenti umani. In particolare, la scherma tra esseri mortali, i quali combattono senza spade dai poteri magici, è parecchio interessante nel modo in cui può sopperire la differenza di potenza tra un avversario ed un altro. E questo modo si chiama tecnica, o strategia.

Per questo motivo, l’arcangelo non avrebbe mai potuto intuire che in realtà Arthur non stesse affatto caricando un colpo, bensì avesse assunto una posa difensiva con lo scopo di attirarlo fuori dalla sua difesa pressocché impenetrabile.

L’arma di Uriel venne intercettata in volo, e lì rimase, bloccata dalla pesante Excalibur. Questa situazione avrebbe portato ad un equilibrio, se solo il Re Cavaliere non avesse deciso di mollare la presa di una mano sulla sua spada, per poi calare l’intero braccio: con esso avvolse tra il gomito ed il guanto d’arme l’impugnatura dell’arma di Uriel, assieme alle sue due mani.

“Lo ha… bloccato!” Sussultarono gli dèi, appena conclusa quell’azione svolta all’incirca in un secondo.

“Schiaccialo!” Ripeté Merlino, con gli occhi iniettati di sangue.

Da quella distanza il pugno dell’umano, portato più che altro con il pomolo della sua arma, si abbatté sul volto dell’angelo con un fragore metallico.

 

L’occhio di Uriel si schiuse, osservando così il volto del suo avversario così vicino. In realtà poté solo riflettersi sull’elmo di lui, e così vide come il suo volto si fosse contratto per incassare il colpo con la guancia. Una stilla di sangue colò dalla sua bocca, ma niente più: nemmeno un lamento venne ceduto ad Arthur, il quale sembrava troppo attonito, come del resto tutti gli spettatori, per reagire.

Così agì lui per primo, spiegando le sue gigantesche ali per poi sbatterle fragorosamente addosso al cavaliere. Esso venne scaraventato all’indietro per una decina di metri, come se la folata di vento che lo aveva strappato dal suolo non percepisse affatto il peso a dir poco insostenibile della sua corazza. Infine, capitombolò al suolo, rialzandosi sulle ginocchia quasi istantaneamente.

Lì si fermò, iniziando a tremare convulsamente per qualche secondo. Quando smise, non pareva più così intenzionato a ripartire all’attacco.

“Quel bastardo ha fatto la cosa migliore.” Commentò Sir Pellinore, più preoccupato che in ammirazione.

Sir Gawain lo guardò con fare interrogativo: “Cosa intendi dire? Arthur l’ha comunque colpito!” 

“Quel pugno non era portato a danneggiarlo, ma solo a creare lo spazio necessario affinché avesse potuto infilzarlo con Excalibur. All’ultimo secondo però Uriel deve averlo intuito, ed ha incassato il colpo senza farsi distanziare, nullificando del tutto ogni opzione di Arthur.”

Un senso in inquietudine si animò tra gli spalti dell’umanità, e non per la visione del loro paladino costretto in ginocchio, bensì per ciò che stavano percependo nell’aria. A quel punto si accorsero di come anche la tribuna degli dèi fosse piombata nel silenzio più totale, ed alcuni di loro stessero addirittura tremando.

 

“Voi umani non sapete proprio fare altro?” La voce di Uriel suonava lamentosa come una nenia.

“Illudere. Mentire. Soggiogare con l’inganno.”

Nella mente delle divinità tra gli spalti vennero invocati i ricordi di tutti i combattenti perduti fino ad allora. In quel momento più che mai, si sentirono subissati da un odio inverosimile, alimentato in alcuni dalla vergogna, ed in altri dalla vendetta.

E proprio perché pensavano di essere in sintonia con le emozioni dell’arcangelo, a stento videro quando questo svelò un macabro sogghigno al di sotto delle ali che gli coprivano il volto.

“Meglio così!” Ruggì lui, euforico.

A nessuno venne data spiegazione del suo comportamento, perché un istante dopo sollevò la spada da terra. Sorprendentemente fece soltanto calare la lama verso il basso, colpendo il vuoto. Tuttavia, dal fendente seguì una deflagrazione di colore incandescente.

Arthur colse appena la sagoma di Uriel in quel bagliore accecante: lo vide scattare verso di lui, ed istintivamente sollevò la guardia, siccome non avrebbe potuto schivare.

Il colpo previsto tuttavia non arrivò, e quell’immagine dell’avversario sfocò, dissolvendosi al sole.

Ciò accadde giusto in tempo affinché il vero Uriel si sostituisse alla sua immagine residua una frazione di secondo dopo, ormai avendo destabilizzato il ritmo del cavaliere.

“Muori.”

Con una mezzaluna crescente rossa scarlatta, sotto gli sguardi atterriti degli spettatori, la spada di Uriel separò il braccio di Arthur dal suo corpo. Il fendente era stato rapido ma preciso come una pennellata, ciò nonostante, e di questo l’arcangelo si preoccupò immediatamente, non aveva eseguito la tanta desiderata uccisione.

Per di più, il braccio mozzato era soltanto un guanto d’arme, senza né spada, né…

-Sangue?!-

Lo shock del non vedere il liquido rosso vitale sgorgare da quell’arto reciso gettò il giustiziere divino in un abisso di insicurezze.

Quell’incertezza, esattamente com’era stata sfruttata poco prima da lui in persona, stavolta venne colta dal suo avversario. Arthur infatti aveva inarcato la schiena all’indietro per evitare di venir mortalmente reciso in due, e sfruttando lo slancio fece oscillare Excalibur dal basso, tracciando una mezzaluna del tutto uguale alla precedente, però di un bianco purissimo.

Uriel la parò dopo aver visto il bagliore con la coda nell’occhio, tuttavia il colpo fu così potente da respingerlo all’indietro. I suoi piedi toccarono terra, scavando due piccoli solchi assieme a quello gigantesco della sua spada che aveva saldamente ancorato al suolo.

 

Merlino sorrise compiaciuto: “La tecnica di Uriel consisteva nel generare un miraggio, riflettendo i raggi solari sul calore della sua spada. In questo modo Arthur ha visto la sua immagine distaccarsi, ed anticiparlo prima che effettivamente arrivasse da lui.” Si voltò verso la vecchia al suo fianco, con tono sbarazzino:

“Lo sai come hanno chiamato gli umani questo tipo di illusione?”

“Sì… Fata Morgana.” Rispose lei, guardando il mago con fare deluso, non soddisfacendolo con l’imbarazzo che in realtà stava provando.

“Quel giovanotto sembra essere assai avvezzo alle illusioni, però. E poi… quel braccio…”

“Ah, vogliamo parlare di quello?”

 

“Unbelievable, ladies and gentlemen!” Strillarono gli annunciatori, mentre le platee rimanevano sbigottite e mute.

“Arthur ha evitato il colpo mortale di Uriel per un soffio come se nulla fosse successo!”

A testimonianza di questa nonchalance, il cavaliere chinò l’emo verso il proprio arto, per poi raccoglierlo.

“Non… sanguina…” Mormorarono le divinità, notando come neanche dal moncone sgorgasse sangue.

I Cavalieri della Tavola rotonda risero beffardi, tutti tranne Sir Lancillotto, il quale si limitò a ribattere secco:

“No che non sanguina, imbecilli. Voi non siete di certo gli unici a poter avere delle armi magiche!”

Erroneamente nella storia si attribuiscono molti poteri magici ad Excalibur, ma in realtà ad essere davvero invincibile è l’abilità per il combattimento del suo portatore, ovvero il Re Cavaliere.

Affermare però che non ci siano poteri soprannaturali nell’arma è falso, perché il vero artefatto magico risiede non nella spada, bensì nel suo fodero. La guaina di Excalibur, rivestita interamente in oro e portata al momento sulla cintura del paladino dell’umanità, aveva infatti la capacità di non far mai sanguinare il suo possessore.

Per questo motivo la scena di Arthur che raccoglieva il suo stesso braccio come se fosse una pietra da terra, agli occhi dei quattro cavalieri parve assurdamente familiare.

“E non finiscono qui le sorprese.” Disse Merlino, osservando impaziente il suo pupillo.

 

“L-Ladies and gentlemen!” La voce dei presentatori si strozzò, mentre gli occhi degli umani di tutto il mondo si riempirono di gioia e speranza.

“Sai, Morgana… ad Arthur è stato dato un potere che entrasse in perfetta sincronia con la magia del fodero di Excalibur.”

“Re Artù si è…!”

Excalibur venne nuovamente impugnata a due mani, come più si addiceva ad una grande spada per un combattimento al pieno delle proprie forze.

“… riattaccato il braccio come se fosse stato un guanto!”

L’umanità ruggì vittoriosa, vedendo il proprio guerriero tornare come nuovo, e più pronto di prima a combattere.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Perdonate la lunga attesa, ma questo scontro è un osso duro per me: nella mia testa è programmato in un modo, ma viene costantemente messo in discussione dal mio buon senso, e questo causa continui ripensamenti e modifiche in corso d’opera.

Ciò nonostante, almeno eccolo qui! Spero vi possa piacere quanto sta piacendo a me scriverlo, perché vi assicuro che sarà del tutto diverso da quelli che avete visto in precedenza.

Il motivo? Andrà a svelare le motivazioni dietro le scelte di Merlino che hanno causato l’inizio di questa storia.

A dopodomani, con il continuo!

P.S: Il design di Arthur è basato su questo stupendo disegno: https://www.artstation.com/artwork/nQ8nKr

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Capitolo 34
*** Chapter 34: The Sword ***


Chapter 34: The Sword

Sefirot Keter, la Corona. Questo incantesimo, scelto accuratamente da Merlino per combinarsi con la magia del fodero di Excalibur, permetteva al Re Cavaliere di saldare qualsiasi cosa toccasse come se fosse stato un fabbro con del metallo bollente.

In tal modo si era potuto riattaccare il braccio, senza aver perso sangue, e siccome il potere si spingeva anche a livello molecolare, riusciva a rendere solide le fiamme della spada di Uriel per poterla far fronteggiare con Excalibur.

 

“Esattamente come ai vecchi tempi, quando bastava solo ago e filo dopo una battaglia per riattaccargli orecchie, braccia e gambe!” Rise sguaiatamente Sir Owain, con grande sconcerto di Sir Galahad.

“Non capisco cosa ci sia da ridere, comunque… già, il nostro re, proprio perché sapeva di essere inarrestabile, si lanciava sempre in prima fila. Nessuno riusciva a scollarlo dall’avanguardia.”

E mentre i tempi andati venivano rievocati con un mesto sorriso sulle labbra, Sir Pellinore diede voce ai pensieri di tutti loro: “State pensando che c’è qualcosa di strano in tutto ciò.”

I due giovani cavalieri sussultarono, al contrario di Sir Lancillotto, il quale si corrucciò per rispondere al vecchio: “Ma non riesco a capire cosa.”

Riportarono lo sguardo sull’arena: “Cioè, il suo modo di combattere è sempre stato quello, no? Quindi perlomeno il carattere dovrebbe essere rimasto…”

“Carattere?” Grugnì l’anziano cavaliere. “Non ha aperto bocca nemmeno una volta dall’inizio della battaglia, né si è sfilato l’elmo. Come possiamo davvero dire che sia rimasto lo stesso di sempre?”

 

Gli uomini più vicini ad Arthur della sua stessa famiglia, ovvero i Cavalieri della Tavola Rotonda, lo conoscevano a menadito da praticamente quando aveva affermato il suo potere sulla Britannia.

Avrebbero potuto narrare vita, morte e miracoli di quell’uomo, di tutta la sua passionale esistenza e del suo cuore da inguaribile ingenuo fanciullo. A volte sembrava proprio un bambino, e Merlino suo padre o fratello maggiore, pronto a ragguardarlo. Ciò era quasi comico, siccome nonostante il mago dimostrasse pochi anni più di lui, si comportava da mamma preoccupata per il figlio.

Questi battibecchi erano spesso fonte per i cavalieri di derisioni, le quali venivano ben accolte dal re a causa del suo umorismo. Tuttavia, ci fu una volta soltanto in cui nessuno osò pronunciare parola in una discussione tra Merlino ed Arthur.

Fu quella volta in cui, di soprassalto, la parete della stanza in cui si tenevano le riunioni, assieme al celebre tavolo, venne sfondata. A sollevarsi dalle macerie fu un giovane uomo, dai biondi capelli mossi e con una camicia di seta blu indosso, ora macchiata di sangue.

Si ripulì la bocca, sputando un grumo rosso per terra.

“Bastardo!”

“Smettila di provocarmi, Arthur! Ti sto parlando seriamente.” Tuonò un giovane dai capelli bianchi, vestito con un lungo abito intarsiato di gemme. Brandiva una staffa, dalla cui punta fuoriusciva ancora un filo di fumo.

I cavalieri tutti attorno si erano prontamente allontanati, assistendo alla scena con una preoccupazione mai provata prima.

Ruggendo, Arthur brandì una spada appartenente ad un’armatura da esposizione e si lanciò su Merlino. La lama e il bastone si incrociarono.

“Sei soltanto un ragazzino sconsiderato se pensi che puoi fare tutto ciò che vuoi solo perché sei il re!” Gli urlò in faccia l’altro.

“Ah sì?! Invece devo fare tutto ciò che vuoi tu solo perché tu sei… cosa?! Il re del nulla?!”

“Come osi?! Io ti ho fatto diventare ciò che sei adesso, altrimenti saresti ancora a rubare dalla strada, figlio bastardo del re Uther!”

Dopo aver sentito il modo in cui era appena stato chiamato, gli occhi di Arthur si assottigliarono come quelli di un animale. Abbandonò la pressione sulla staffa di Merlino e si gettò su di lui con una spallata in pieno petto, travolgendolo. Dopodiché, cavalcando l’inerzia, lo afferrò dalle spalle per gettarsi assieme a lui a terra, schiacciandolo.

Lì, rinchiudendolo tra le sue ginocchia, provò a sferrargli un pugno, ma venne bloccato.

“I-Io…” la sua voce tremò per lo sforzo.

“Proprio perché sono un… bastardo…!” Un suo pugno riuscì a collidere con la faccia di Merlino, facendogli schizzare sangue dal naso rotto.

Il mago aveva istintivamente chiuso gli occhi, ma quando li riaprì si considerò pronto a contrattaccare con tutte le sue forze. Però non lo fece.

“Io, proprio perché sono un bastardo…” Vide Arthur in lacrime, sopra di sé: “Voglio conoscere il vero amore, ed amare chi amo davvero, e da chi sono ricambiato.”

Il grido proveniente dal cuore lacerato del ragazzo riecheggiò in tutta la sala, vibrando in quelli dei valorosi cavalieri, ma soprattutto in quello di Merlino.

Arthur Pendragon, figlio del re Uther, avuto da una regina già sposata ma che lui desiderava a tutti i costi. Successivamente, una volta divenuto re, gli era stato imposto un matrimonio politico con Ginevra, donna che lui non amava affatto.

Scoprì così che le guerre e le battaglie, assieme alla leggenda che contribuiva a creare grazie alla sua spada Excalibur, non lo rendevano affatto più eroico di un uomo triste e solo. Questo, fino a quando non conobbe una donna che amasse davvero: lady Morgana.

 

Merlino aveva provato a metterlo in guardia: la sua previsione infallibile diceva chiaramente che, qualora Arthur si fosse unito a Morgana, ciò avrebbe segnato la fine del suo regno, condannandolo alla disgrazia e alla morte.

Eppure, ora che quel giovane aveva tirato fuori i denti e gli artigli per opporsi a quel destino del tutto certo, e ancor più dopo aver visto le sue sincere lacrime, il mago poté dire di conoscere cosa stesse provando.

Lo conosceva anche lui l’amore.

Fuori dal castello, dove si era rifiutato di vivere, in una casa sul lago più incantevole di tutta Britannia, lo aspettava la sua amata. Una donna la quale pronunciare solo il nome gli riempiva le narici di un odore dolcissimo, di casa.

-Nimue… tu capiresti.- Assieme a Nimue avevano cresciuto Arthur sin dalla sua nascita, portato via dal padre Uther, anch’egli privo di un destino felice. Sapeva che anche lei desiderava soltanto vederlo in pace con il suo cuore, e forse quello era l’unico modo per salvarlo dalla miseria della sua stessa anima.

Il mago fece crollare le sue braccia al suolo, in segno di resa. Lasciò che le lacrime del suo praticamente figlio gli precipitassero sul viso, diventando allora le sue.

 

Immerso in quei tempi, il volto di Merlino si era irrigidito in un’espressione neutra, con gli occhi tutt’altro che colmi dell’entusiasmo di poco prima. Morgana al suo respirava profondamente per l’emozione.

Intanto, proprio al di sotto del loro sguardo, la folla umana continuava a ululare.

“Maledetto angelo da quattro soldi!” Gridavano iracondi, rigettando la loro rabbia ed il loro disgusto verso l’immobile avversario, pietrificato di colpo dopo il rivelato potere di Arthur.

“I veri angeli dovrebbero stare dalla parte di noi umani! Anzi, tutti voi déi in realtà… dovreste amarci come noi abbiamo amato voi!” Lacrime scorrevano tra gli spalti. Appartenevano a cuori traditi dalle fedi in cui si erano rifugiati per millenni, o milioni di anni, solo per scoprire che in realtà quell’amore non era affatto ricambiato.

Anzi, proprio coloro che avevano venerato, per nove lunghe battaglie non avevano desiderato altro che la loro estinzione.

Masutatsu Oyama, Vlad, Dante e Charlotte, i quali ora osservavano la scena con sguardo crucciato, erano complici della furia degli dèi che si era abbattuta solo loro con l’intento di cancellarli per sempre.

 

“Amare.” Le labbra di Uriel si dischiusero dopo esser rimaste serrate per troppo tempo.

Né una goccia di sudore marchiava il suo corpo, e né un respiro affannato disturbava la sua voce, la quale infatti poté rimbombare in tutta l’arena nonostante fosse calma e monotona.

Gli umani si ritrassero istintivamente indietro, e sorprendentemente lo stesso fecero gli déi.

Lui sollevò lentamente la mano di fronte a sé, per poi tendere il braccio in direzione del suo nemico.

“Un Dio che promette amore… non è mai esistito, se non nella vostra disperata immaginazione!”

Serrò il pugno con così tanta forza da produrre il suono di due montagne che si scontravano tra di loro, generando al contempo una pressione che seppe smuovere il terreno.

“Voi non meritate amore da nessuno, eppure lo pretendete come elemosina! E questo perché voi umani siete… peccatori.”

Pronunciando l’ultima parola, si fiondò verso Arthur ad ali spiegate. La sua ombra gigantesca venne proiettata sul cavaliere, inglobandolo e trasmettendo in tutti gli spettatori una sensazione di oppressione spaventosa, come se anche loro potessero venir giustiziati in un batter d’occhio.

Arthur, senza essersi scomposto nemmeno per un secondo, si preparò a resistere all’attacco più veloce che l’avversario gli avesse scagliato contro.

“Seven Bowls of God’s Wrath!”

Tuttavia, qualsiasi cosa arrivò in seguito fu senza dubbio fuori dalla sua anche più remota previsione.

Al primo fendente, quasi del tutto invisibile, venne conficcato di schiena nel terreno senza nemmeno avere il tempo di accorgersene. Il secondo fendente parato lo scagliò all’indietro, o meglio, attraverso la terra alle sue spalle che penetrò per diversi metri. Il terzo colpo fu un affondo, e quando lo evitò sollevandosi da terra, questa fu perforata al posto suo fino a chissà quale profondità. La spada di fuoco allora si sollevò dal basso per un quarto colpo, ed il fendente sfiorò appena l’elmo di Arthur, proseguendo in una colonna di fuoco fino alle nuvole.

Quando tuttavia il Re Cavaliere vide l’avversario scagliare i suoi ultimi tre fendenti, comprese che non avrebbe avuto scampo: furono così veloci da venir visualizzati dai suoi occhi come se fossero avvenute nello stesso esatto tempo. Nonostante la velocità, la loro potenza fu tale da squarciare la sua armatura su entrambe le spalle e al centro del petto.

Poté sollevare la spada solo dopo essersi accorto di esser stato colpito.

Ladies and gentlemen! I colpi di Uriel vanno a segno!” Gridarono gli annunciatori, ma proprio l’arcangelo non degnò né loro, né gli spettatori e tantomeno Arthur, di un secondo di tregua.

Infatti, quando il suo avversario si sarebbe aspettato un attacco, sbatté nuovamente le ali così forte da scagliarlo all’indietro per la corrente generata.

“Seven Bowls of God’s Wrath!”

La letale combinazione di attacchi venne ripetuta proprio dopo che il Cavaliere era stato destabilizzato dalla folata di vento improvvisa.

Il primo colpo, per lo stupore di tutti, venne parato.

“Forza Arthur!” Gridava l’umanità dalle tribune.

Anche il secondo venne parato, mentre il terzo fu schivato per un soffio.

“Arthur…” Mormorò Charlotte Corday mordendosi il labbro inferiore. Non voleva perdere un altro compagno.

Al quarto colpo Arthur provò ad incrociare la spada con quella di Uriel, ma le fiamme divamparono d’improvviso, minacciando di inglobarlo, e così venne respinto.

Chiunque si stava rendendo conto che in realtà il combattente delle divinità stesse rivelando la sua vera forza solo in quei brevi attimi, con pochi colpi atti a distruggere il suo avversario.

Ciò nonostante, anche al quinto attacco il cavaliere fece cozzare la sua Excalibur contro la spada avversaria per interromperne la carica. Di nuovo, fallì.

A quel punto Uriel, senza perdere il ritmo della sua danza fiammeggiante, indietreggiò quanto bastasse per affondare in avanti. L’affondo era stato più debole del precedente, e quando ciò venne intuito da Arthur, lui comprese di poter rischiare il tutto e per tutto: avrebbe afferrato le mani di Uriel come prima.

Eppure, proprio quando il suo cervello ebbe registrato l’azione che stava per compiere, tutto divenne buio.

Le ali di Uriel si erano spalancate, coprendo la luce del sole ed inabissando l’enorme corpo del cavaliere all’interno della sua ombra.

Ora che Arthur riuscì a vedere la trappola che il suo nemico gli aveva teso, si accorse di quanto lui stesso ormai fosse irrimediabilmente esposto ad un prossimo attacco. Ciò nonostante, cercò il più velocemente possibile di pararsi prima che Uriel lo colpisse di nuovo con una folata di vento.

E proprio così, il vero stratagemma dell’angelo poté mettersi in moto: dopo essersi librato in volo per appena un metro ad ali spiegate, anziché sbatterle, ruotò attorno all’asse che costituiva il suo corpo. Così fu in grado di sferrare un tremendo colpo potenziato dall’energia cinetica; stavolta la guardia dell’umano non solo cedette, ma letteralmente si spezzò.

 

Il suono dell’acciaio e delle ossa che si frantumavano sovrastò ogni urlo da entrambi gli schieramenti, per poi far piombare le suddette tribune nel silenzio più totale.

Gli umani guardarono atterriti, grazie ai loro occhi sgranati per lo sgomento, a cosa fossero state ridotte entrambe le braccia del loro paladino: rami spezzati, dai quali l’armatura si sgretolava come un sottile strato di vetro infranto.

Ma, con ancor più orrore e disperazione, riuscirono a vedere ciò che significò il momento più buio dall’inizio del Torneo del Ragnarok.

Erano frammenti di acciaio e oro che risplendevano nella loro sofferenza, piombando al suolo.

“Dio ha creato il peccato esclusivamente per renderne vittime gli umani.” Sentenziò allora Uriel.

Il suo spadone di fuoco, le sue quattro ali spiegate, e la sua intera mastodontica figura rimasero impresse nel riflesso di Excalibur, la leggendaria spada, ormai spezzata.

“Mentre io sono stato creato per punire i peccatori! Dunque, voi umani esistete solo affinché io, in questo momento a me concesso alla fine dei tempi, possa purgare il creato dalla vostra vita!”

 

Gli annunciatori erano ammutoliti come tutti i presenti. Non era necessario aggiungere niente, perché chiunque aveva assistito alla più spaventosa dimostrazione di forza in quel torneo.

Adramalech volse lo sguardo verso il suo collega, ed a quel punto si ricordò di una conversazione avuta poco prima dell’inizio del nono scontro. Più che una chiacchierata tra colleghi era stato un avvertimento: gli era stato garantito che si sarebbe presto reso conto del perché Uriel fosse stato scelto tra tutti gli angeli, nonostante non fosse famoso per qualche sua azione.

Al che il cancelliere degli Inferi gli aveva preventivamente chiesto una spiegazione, ed in quel momento aveva potuto veder riaffiorare negli occhi del cancelliere del Paradiso un ricordo angosciante.

“Perché in realtà…” Gli aveva confidato “… è sempre stato Uriel il vero angelo più potente.”

 

Chi tra i grandi angeli era stato selezionato per annientare la sopravvivenza dell’umanità?

Michael, il capo dell’esercito angelico e principe degli angeli, che aveva scacciato all’inferno suo fratello Lucifer? O forse Gabriel, il cui nome significa Forza di Dio, come aveva dimostrato annientando la città di Sodoma?

Poco tempo prima dell’inizio del Torneo del Valhalla, St. Peter era stato incaricato di raggiungere l’Alto dei Cieli per invitare i suddetti arcangeli a prendere parte allo scontro.

“Uff! Queste scale!” Gemette, maledicendo le sue piccole ali per niente adatte al volo “Cos-? No! Non le sto maledicendo davvero!” Urlò, dissociandosi dal peccato.

Una volta raggiunto il piano più alto al quale quella scala dorata potesse condurlo, trovò la figura di un giovane seduto su di una nuvola, con le gambe penzoloni. Quando questi lo vide, dopo una capriola nel vuoto spiegò tre paia di ali per raggiungerlo in volo.

“Peter!” Raphael lo salutò raggiante, siccome non era un volto solito a vedersi lassù. Lui era l’Arcangelo della Cura, dall’aspetto più innocente e fanciullesco di tutti gli altri. E, a detta di St. Peter, era anche mille volte più piacevole da guardare di tutte quelle assurdità fatte di ali e occhi e ruote, da brivido.

Dopo avergli spiegato il motivo della sua venuta, il cancelliere guardò l’angelo in attesa di una sua reazione.

“Lo sapevo già.” Gli disse lui però, sorprendendolo.

“Qui tutti sanno già che cosa sta per succedere. Io però…” Il suo viso si fece mesto, volgendosi altrove. “… non voglio davvero pendere la bilancia per l’estinzione dell’umanità.”

Tra tutti, Raphael era stato l’angelo più vicino agli umani, dispendendo la sua conoscenza per guarirli e spingere la loro evoluzione fino al punto dove erano arrivati.

“So cosa vuoi dire.” Nonostante al giovane si fosse accapponata la pelle per la paura di esser stato sentito mentre diceva tali cose, quando si voltò non trovò alcuno sguardo di rimprovero. Al contrario, c’era un sorriso compassionevole, ma che sosteneva il fardello di un grande dolore.

Michael, dalla bellezza folgorante, aveva la testa bionda incorniciata da un’aureola di piccole spade di luce, come quelle che adornavano già la sua armatura dorata. Tuttavia, anche se in perenne assetto di battaglia contro le forze del male, non pareva affatto intimidatorio e ostile.

“Da quando in qua gli uomini rappresentano il male che noi umani dovremmo estinguere? È quasi un controsenso, qualcosa che va contro il nostro compito sin dalla loro creazione…” Perplesso, guardò St.Peter in cerca di risposte, anche se lui era solo un cancelliere.

“Però lo farai.” Terminò per lui una terza voce. Si trattava di un altro angelo accovacciato in disparte, con le braccia poggiate sulle ginocchia larghe. “Perché siamo stati chiamati proprio per porre fine alla loro vita.”

L’arcangelo Gabriel pareva distaccato, o forse desensibilizzato sull’argomento, come dimostravano i suoi occhi foschi.

“Il Concilio degli Dèi non accetta mai repliche. Ho sentito che hanno richiamato all’appello persino chi si è sempre tenuto distante dal loro ambiente, come Enkidu, Baphomet e Sun Wukong. E se rifiutiamo… bhe, penso che sarebbero disposti a mandare Fenrir fin quassù per prenderci.”

Michael lo guardò con aria di rimprovero, offeso dall’ipotesi dell’altro, il quale credeva che per lui il Lupo del Ragnarok sarebbe stato un problema.

“Eppure qualcuno si è opposto a loro!” Esclamò Raphael, intervenendo: “Si tratta proprio del motivo per cui stiamo affrontando questa discussione! È un membro del Concilio degli Dèi, quel Merlino…”

“E allora? Cosa vuoi dire: che dovremmo unirci a lui?” Domandò il principe degli angeli, senza però alcuna ironia nella voce. A quel punto vide la faccia scura di Gabriel infrangersi, mostrando un piccolo sorriso.

“Bhe, allora… sapete che io sono il messaggero per eccellenza, no… ?”

“Smettila di vantarti, vanaglorioso!” Lo beccò Raphael, quasi spingendolo a controbattere.

“Ecco… ho scoperto che in realtà molti dèi, anche appartenenti ai pantheon che hanno schierato i loro combattenti, si sono messi dalla parte di Merlino. Parlo di Ishtar, Fobetore, Ammit, Prometheus, il quale è un combattente, e persino una delle presidentesse del Concilio, Ptah… e altri.”

“A-Aspettate, ma di cosa state-?!” Balbettò St.Peter, incredulo di star assistendo a quella conversazione, nonostante stesse venendo ignorato.

L’Arcangelo della Cura squittì raggiante: “Quindi non siamo stati i soli ad aver avuto questa idea!”

Al contrario, Michael fu più riflessivo prima di aprir bocca: “O forse c’è qualcosa dietro le azioni di Merlino, che va ben oltre il semplice salvare l’umanità.”

Gabriel inarcò un sopracciglio: “Sei indubbiamente diventato più scettico da quando hai mandato Lucifero nelle profondità della terra.”

“Il fatto che il male sia sotto terra non vuol dire che non possa essere lo stesso vicino ai cieli.” Nonostante il velo di inquietudine che circondava il Principe degli Angeli, dopo poco cancellò ogni dubbio dal suo viso e proclamò:

“D’accordo. Andremo almeno a parlare con Merlino per conoscere le sue vere intenzioni. In questo modo valuteremo quali parti prendere!”

Non ci fu tempo per i festeggiamenti di Raphael, o la felicità male esternata di Gabriel. Non ci fu nemmeno più tempo per quell’idea di tramutarsi in un fatto, perché prima ancora che potessero accorgersene, gli Arcangeli erano diventati quattro.

“È così, dunque?” Una pressione paragonabile al levare di mille voci in coro esplose nell’Alto dei Cieli, pietrificando l’aria ed appesantendo il corpo dei presenti.

Persino il Principe degli Angeli e l’Angelo della Forza sgranarono gli occhi, sentendo la presenza al loro fianco diventare mastodontica, tanto da oscurare la luce del loro stesso Dio.

“Per gli umani mostrate… compassione.” Uriel camminò verso Raphael, il quale si era rannicchiato in un angolo con la testa tra le mani.

“Volete… salvarli.” Si sporse sopra il suo capo chino, accarezzandogli i capelli con la sua voce.

“È per colpa vostra che noi angeli siamo diventati ciò che loro vogliono credere.” E schioccò le dita. Di colpo, come un soldatino, il più giovane scattò sull’attenti e fuggì in volo, per poi ritornare dopo qualche secondo in fretta e furia.

“Ci credono loro protettori, o servitori.” Continuò, mentre si faceva allacciare l’armatura che gli era stata portata. Dopodiché indicò in una direzione, ed i due arcangeli più forti e temuti si dileguarono con delle facce pallide.

“Flammescat igne caritas… “Infiammi di fuoco la carità”, eh?” Gli venne portato lo spadone nella sua guaina, così immenso e pesante da dover essere sorretto in contemporanea da Michael e Gabriel con immenso sforzo.

St.Peter intanto stava assistendo ad un’illusione che si frantumava davanti ai suoi occhi.

Pensò che se solo gli esseri umani avessero saputo cosa fossero in realtà gli Arcangeli, ovvero semplici schiavi per Uriel, non ci avrebbero mai creduto. Questo perché l’Arcangelo delle Fiamme non era mai apparso in nessuna leggenda o mito rilevante per la storia dell’umanità, né degli dèi.

“Gli umani non necessitano della pietà degli angeli quanto noi non necessitiamo delle loro suppliche. Questo perché, come sono in grado di capire anche quegli sciocchi, le implorazioni di un debole impotente vanno fatte cessare solo calando la lama sulla sua testa, non assecondandole!”

 O meglio, come apprese in quel momento, aveva scelto intenzionalmente di non apparire davanti agli umani per mantenere incolmabile la distanza tra lui e loro, come quella che c’era tra il Cielo e la Terra.

“Noi siamo i giustizieri del peccato. L’umanità È PECCATO.”

La spada venne sguainata, liberando il suo fuoco selvaggio.

“Era da un po’ che non scatenavo il mio vero potere… e stavolta non dovrò farlo usando i vostri nomi.”

E senza aggiunger altro dopo aver eliminato ogni libertà di scelta per i propri fratelli, andò ad adempiere al suo compito.

 

“Prega me, peccatore! Prega affinché la tua fine giunga subito!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Con questo capitolo si sono viste le backstory di Arthur ed Uriel, e vorrei davvero sapere cosa ne pensate. Intanto posso immaginare di essere stato un po’ confusionario con Uriel, quindi ecco che provo a chiarirvi le idee: in questo universo narrativo, tutte le vicende mitologiche attribuite agli arcangeli che riguardano castighi divini sono state svolte da lui e basta, lasciando però che il merito ricadesse sugli altri perché non ha mai voluto venir riconosciuto per quello che faceva. Non si tratta di modestia, ma di distacco: non vuole essere adulato, perché reputa che gli angeli che vengono idolatrati siano visti troppo vicini agli umani, e per lui esseri divini ed umani non possono mai e poi mai entrare in contatto.

Un’altra precisazione, è che in questo universo, per volere di sospensione dell’incredulità, Arthur Pendragon è esistito davvero ed ha compiuto le sue gesta.

Per il prossimo capitolo dovrete pazientare un po’, ma vi assicuro che è già pronto al 50%.

Alla prossima!

P.S: Se non lo avesse ancora notato, i primi tre scontri hanno ricevuto delle copertine disegnate da me. Piano piano arriveranno per tutti.

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Capitolo 35
*** Chapter 35: Break Through The Surface ***


Chapter 35: Break Through The Surface

Il vento soffiava sul prato e tra le colline, risalendo fin sopra quelle rozze pietre per accarezzare i capelli dei due. Lei era in piedi sullo stesso lastrone di pietra dove invece lui era seduto con le gambe ciondoloni nel vuoto. Attorno a loro il complesso megalitico di Stonehenge si affacciava su di uno splendido tramonto dai colori della perla e del fuoco.

“Merlino…” Nimue richiamò il compagno per l’ennesima volta, ma la sua voce veniva rapita dalla brezza pre-serale, non raggiungendo quindi il malinconico mago intento a fissare quel globo rosso scuro sparire oltre l’orizzonte.

Era passato un paio di anni da quando si erano allontanati da Camelot, ma non vi era stato tramonto in cui Merlino non avesse volto il suo sguardo sperduto verso il cielo, come se stesse perennemente cercando la sua casa lassù.

“Arthur ha davvero bisogno di te.” Non riusciva più a trattenere quell’informazione, per quanto sapeva che avrebbe potuto ferirlo.

Finalmente destò una qualche attenzione in lui, il quale infatti si voltò incuriosito.

“Il frutto della sua unione con Morgana… è nato.” Nimue lo vide accigliarsi appena.

“E quindi?”

“Lo ha abbandonato. Se n’è separato, pur contro la volontà di Morgana.”

Per poco il mago non scivolò giù dal dolmen per lo sgomento: “M-Ma…!”

“Ti ha ascoltato. Ha dato retta a ciò che gli dicesti allora, alla tua profezia secondo la quale quell’unione avrebbe portato solo distruzione al suo regno e a tutto ciò che ama.”

Merlino tornò a guardare altrove, con le spalle ricurve.

“Forse lo ha già fatto con il vostro rapporto, ma…” Nimue sapeva di essere l’unica che il mago ascoltasse, così non si arrese davanti a tutte le barriere che lui cercava di ergere. Gli si avvicinò, accarezzandogli i capelli.

“Perché non torni da lui, a Camelot? Ti ha dimostrato che si fida di te, anche se ha dovuto separarsi dal sangue del suo sangue. Capisci? Lui ti è ancora amico… quanto tu lo sei per lui.”

“Oh, Nimue… io sono davvero un pessimo amico, se per questo.”

 

Il terrore attanagliava gli spalti dell’umanità, dove soltanto respiri affannosi rompevano il silenzio, senza che parole proferissero dalle loro bocche.

Excalibur, in pezzi, era scivolata dalle mani di Arthur, e ora tutta l’arena sembrava esser stata inglobata dall’insormontabile ombra dell’arcangelo giustiziere.

“La tua fiducia si è di colpo sgretolata assieme a quel ridicolo giocattolo?” Per la prima volta la bocca di Uriel si piegò in un sorriso sprezzante di scherno, non trattenendo più tutto il disprezzo che provava verso la razza umana, né il piacere causato dal vederla in ginocchio e tremante per la paura.

Poco più in alto, i Cavalieri della Tavola Rotonda osservavano il loro sovrano ridotto ad una statua, completamente paralizzato dopo la distruzione dei suoi arti, nonché della sua leggendaria spada.

“Com’è potuto succedere?” Balbettò Sir Gawain, confuso quanto Sir Galahad al suo fianco: “Prima è riuscito a reggere tutti i suoi colpi di spada. Non è possibile che d’improvviso gli attacchi di Uriel siano diventati così pesanti da spezzargli le braccia!”

In quel momento i due si sentirono picchiettare sull’armatura da Sir Pellinore. Prima che riuscissero a girarsi però, il vecchio cavaliere abbatté a piena forza le sue mani nuovamente su quegli spallacci, ed allora i due si sottrassero.

“Ahia!” Gemettero, per poi rimanere stupiti dalla loro stessa reazione.

“Esatto.” Annuì il vecchio, drammatico: “Arthur è stato colpito per ben due volte dal semplice battito d’ali di Uriel… eppure, ha ricevuto da quei singoli colpi più danni di quanto mai abbia dovuto sopportare.”

Sir Lancelot si corrucciò: “Le folate di vento lo hanno… colpito?”

“Se sono state abbastanza forti da scagliarlo via di tutti quei metri, allora hanno subito anche un altro effetto, che però noi non abbiamo potuto vedere.” Ed indicò di nuovo i due cavalieri più giovani: “Intendo sotto l’armatura.”

“Sotto l’armatura?” Ripeté confuso Sir Gawain, massaggiandosi la spalla dove era stato percosso, nonostante avesse un pesante spallaccio di metallo a proteggerlo.

“Le vibrazioni prodotte dalla pressione hanno attraversato il corpo di Arthur, facendolo sbattere e rimbalzare ripetute volte all’interno della sua armatura. In questo modo è stato ferito dalla sua stessa protezione, tanto da triturargli le ossa. La stessa sorte deve averla subita l’acciaio di Excalibur, in quanto è durissimo, ma proprio perché è davvero poco flessibile ed inadatto a sopportare simili oscillazioni.”

Successivamente, dopo aver fatto piombare nel silenzio i suoi compagni, il vecchio cavaliere si massaggiò la mascella con fare molto preoccupato: -Ci voleva davvero un angelo per portare in ginocchio Arthur…-

 

“Lascia che ti spieghi una cosa: per i deboli come voi non esiste né Paradiso, né Inferi, ma solo un’atroce fine tra le fiamme della mia spad-!“

Il discorso borioso di Uriel si interruppe a causa della sorpresa, quando davanti a sé il cavaliere si piegò.

Nonostante l’elmo poté sentirlo mugugnare qualcosa di sconclusionato, o fin troppo confuso a causa del panico, mentre raccoglieva i frammenti della sua arma. La sabbia scivolava tra i guanti d’arme ogni volta, assieme a piccoli frammenti d’oro e acciaio che si apprestava a recuperare con agitazione.

“Giusto! Con il suo potere Arthur potrebbe riparare Excalibur!” Esclamò St. Peter quando ebbe intuito cosa stesse accadendo.

Bastarono queste poche parole per ridonare all’umanità la speranza necessaria per far erompere un fragoroso urlo di incitazione.

“Forza Arthur!!”

Il ruggito travolse il campo di battaglia, stordendo le divinità sulle tribune opposte.

Queste, dopo qualche istante di disorientamento, compresero cosa avrebbero dovuto fare a loro volta:

“Forza Uriel! Non lasciarglielo fare!”

Nessuno si sottrasse a quegli incitamenti fino a sgolarsi, mentre il terreno tremava sotto miliardi di piedi che pestavano ripetutamente.

Tuttavia, a nessuno dei due contendenti importava di quel tifo sfrenato.

“E-Exca…Excalibur.” Sussurrava un alito dietro l’elmo del cavaliere.

“Come osi distogliere lo sguardo da me?!” Tuonò invece Uriel con voce grave, prima di spalancare le sue due paia di ali, impugnando la spada davanti a sé.

“Paradise Lost!”

Le piume bianche si avvilupparono attorno la lama, venendo incendiate da quello stesso fuoco che aumentava di intensità. Dopo aver sciolto la stretta, le ali incandescenti assunsero la forma di quattro triangoli, rigidi ed immobili ai lati dell’angelo.

Il Re Cavaliere non fu in grado di evitare la carica di Uriel, quando questi turbinò su di lui come una stella a dalle cinque punte infuocate. Le ormai moltiplicate lame segnarono l’armatura dopo il misero tentativo di Arthur di sottrarsi all’attacco, dopodiché quegli squarci capaci di rendere rosso l’acciaio, divamparono in una miriade di fragorose esplosioni.

L’umano ne venne investito, tramutandosi in una pira che gettò un agghiacciante urlo di dolore al cielo. Un istante dopo la sua corazza si sgretolò, per poi evaporare in denso vapore bianco.

 

Il Re galoppava in groppa al suo cavallo, conscio di starsi trascinando dietro una parte del suo regno: coloro che erano scesi in battaglia, coloro che lo avevano seguito tra le spade e gli scudi di ogni conquista e vittoria, coloro che avevano sacrificato la loro vita pur di seguirlo fino alla fine dei tempi.

-Ma cosa ne è stato di tutto il resto del mio regno?!- Nessuno avrebbe potuto vederlo sotto il suo elmo in quel momento, ma se anche solo qualcuno avesse potuto farlo, non lo avrebbe riconosciuto.

Era il volto di un uomo attanagliato dal dolore e dal rimorso, la cui anima non era stata in pace da quando aveva scoperto che Camelot era stata presa da un nemico che non aveva potuto né prevedere, né fermare.

La sua gente ora era prigioniera di quel nemico, ed era stata strappata dalla felicità proprio perché lui li aveva lasciati indifesi, anche se per un breve periodo di tempo.

-No! Sono imperdonabile!- Lacrime che nessuno avrebbe potuto vedere sgorgarono lungo le sue guance.

E quando arrivò alle porte del suo castello, mentre il sole tramontava sulle montagne, vide quel nemico.

Con un battaglione di cavalieri pari al suo, e alle spalle le mura del castello affollate dagli ostaggi in lacrime, forse di speranza per il ritorno del loro re, un uomo si ergeva ritto davanti a tutti.

Stringeva tra le mani lo stendardo di Camelot, con il simbolo della Tavola Rotonda: tutto ciò per il quale Arthur aveva combattuto, sopportando il peso di essere re e allo stesso tempo cavaliere.

Eppure, ciò che più scosse il sovrano, fu che quell’uomo in armatura non gli fosse straniero.

“Tu sei Mordred!” Gridò Sir Pellinore, al fianco del re.

“Bastardo! Hai tradito l’ordine della Tavola Rotonda! La pagherai!” Anche Sir Lancelot l’aveva riconosciuto: Mordred era cresciuto al loro fianco, ammirando Arthur come un dio sceso in terra, più che un re.

“C-Cosa… Perché?” Riuscì a malapena a mormorare il re di Camelot, mentre intanto quel traditore si sfilava l’elmo.

Rivelò una chioma di capelli corvini, che ora più che mai gli ricordò qualcosa che aveva deciso di abbandonare al suo passato, ed uno sguardo che non era affatto radioso e limpido come un tempo.

“Perché finalmente mi prendo ciò che mi spetta di diritto…” Gli occhi di Morderd, al contrario, svelarono un tetro bagliore maligno.

“… Padre!”

 

I capelli biondi di Arthur furono tutto ciò che Uriel riuscì a vedere dall’alto. Allo stesso modo, gli spettatori avevano potuto vedere a stento come l’umano, dopo l’esplosione della sua armatura, si fosse rannicchiato in ginocchio, con la testa incassata tra le spalle.

“Ti inchini a me?” Insinuò maligno l’arcangelo. “Voi umani siete così bravi a farlo, quando dovete invocare il perdono divino.”

Sopra di loro il cielo era stato coperto da una cappa di nubi nere.

Ladies and gentlemen! Sembra che Arthur, dopo il grave colpo che ha subito…” Gli annunciatori lo avevano notato, e mostrarono sugli schermi olografici il vero motivo di quella posizione fetale assunta dall’uomo.

“… stia proteggendo Excalibur, la sua lama spezzata!”

L’elsa ed i frammenti dell’arma erano infatti ciò che il cavaliere dalle braccia rotte stringeva al petto, tremando convulsamente.

 

“Padre?!” Ripeterono gli uomini del re, chi rimanendo troppo sconvolto per parlare, e chi dando immediatamente del pazzo al cavaliere in nero.

Al contrario, Arthur rimase in silenzio, con le labbra sigillate dallo stesso malessere che ormai lo attanagliava da tempo.

“Senti solo ora i sensi di colpa?” Mordred fu apparentemente in grado di leggergli nel pensiero, suscitando in lui una reazione spaventata che ben poco si addiceva ad un re. Arthur sembrava aver di fronte un fantasma.

“Tu lo hai sempre saputo. Hai saputo che, dopo aver abbandonato mia madre Morgana e me, io ero capitato sotto la tua ala. Hai saputo anche che non ti ho mai odiato, e che non ho mai svelato a nessuno questo nostro segreto perché volevo guadagnarmi la tua approvazione con i risultati, e non solo perché sono sangue del tuo sangue!”

La voce del cavaliere aumentò di volume ad ogni parola, finché non si ritrovò ad urlare parole che tutto il regno poté ascoltare.

“Eppure…” Infine, scemò in un rantolo di dolore, mentre il suo sguardo sprezzante si fiondava sul volto inafferrabile del padre, protetto dietro l’elmo.

“Eppure hai sempre fatto finta di niente, pur sapendo chi fossi… e non sono mai stato abbastanza per te, da ricevere anche solo uno sguardo.”

Ci furono pochi secondi di silenzio, scanditi dai battiti dei cuori di padre e figlio.

Gli uomini schierati in battaglia si domandarono se Arthur sarebbe riuscito ad uccidere suo figlio, e se l’odio di Mordred lo avrebbe davvero portato ad eliminare il re benevolo e giusto di Camelot.

Ad Arthur invece, bastò pensare a Merlino: l’amico che aveva scelto di ascoltare troppo tardi.

Sfoderò Excalibur e si lanciò in battaglia.

 

Il colorito dei suoi capelli si estinse, lasciando una chioma sporca come di cenere e carbone. Quella contaminazione proseguì anche sul resto del suo corpo, dove la cotta di maglia divenne nera, ed apparvero piume di corvo a decorarla.

“No!” Esclamò Morgana, affacciandosi sull’arena con il terrore negli occhi. Al suo fianco, il mago era impassibile.

“Non puoi… averlo fatto!” Ululò allora la megera, strattonandolo disperata mentre il dolore le attanagliava il cuore. “Perché?! Perché non lo hai lasciato in pace!”

Al contempo, gli spalti dell’umanità e degli dèi si animò di mormorii confusi e sussulti di sorpresa.

Ladies and gentlemen…” Anche St.Peter ed Adramelech non sapevano proprio come reagire a quell’evento mai accaduto prima.

“Sembra che il combattente dell’umanità… non sia davvero Arthur!”

Morgana gridò, artigliando l’aria, come per raggiungerlo: “Il mio bambino!”

A Mordred, il Cavaliere Traditore, però non importava di niente di tutto questo. Lui stringeva Excalibur e tremava.

 

“Oh, Nimue… io sono davvero un pessimo amico, se per questo.” Aveva rivelato Merlino alla sua compagna, sapendo che la battaglia in cui Arthur sarebbe morto avrebbe preso luogo tra qualche anno, esattamente come aveva previsto.

Sorrise, perché era solo il primo dei suoi piani a lungo termine che si sarebbe attuato.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Parliamo innanzitutto di qualche inaccuratezza che potrebbe far storcere il naso a qualche esperto del Ciclo Bretone: sì, ho fatto avvenire la Battaglia di Camlann (lo scontro mortale tra Arthur e Mordred) a Camelot, e sì, so che durante la battaglia Arthur avrebbe combattuto con una lancia, e non con Excalibur.

A mia difesa: A) Non ci sono certezze sul luogo dove sia avvenuta questa immaginaria battaglia; B) Qualcuno mi spieghi perché mai Arthur avrebbe dovuto abbandonare la sua incredibile e leggendaria spada, per una lancia random che appare giusto per quell’occasione.

Lungi da me criticare l’universo narrativo che concerne la leggenda di Re Artù, but still, dovete ammettere che è molto confuso a causa delle innumerevoli versioni (francesi, gallesi, inglesi e chi più ne ha, più ne metta).

Successivamente… sì. Plot Twist: il nono rappresentante dell’umanità è in realtà Mordred, figlio (bastardo) di Arthur!

Cosa ne pensate? Come credete che volgerà la storia dopo questa scoperta? E soprattutto, come mai Merlino ha architettato tutto questo?

Alla prossima!

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Capitolo 36
*** Chapter 36: The Sword (Final) ***


Chapter 36: The Sword (Final)

Un colpo. Due colpi.

Quando i fendenti tirati a vuoto divennero mille, il giovane ragazzo concluse il suo allenamento con un sospiro. Lasciò andare il pesante spadone per ripulirsi il sudore che gli incollava i capelli neri alla faccia.

“Domani è il grande giorno.” Si disse, sollevando quel volto madido e sporco verso la valle che si apriva sconfinata davanti a sé. E lì, troneggiando silente ed inamovibile, la fortezza di Camelot si stagliava in lontananza.

Nonostante le miglia che separavano quel giovane dal castello, tutti gli anni passati ad allenarsi avevano eretto un cammino invisibile, costruito pezzo per pezzo dai suoi sforzi e dalla sua determinazione.

Ormai quel ponte era stato eretto, e la strada era spianata.

“Devo dire grazie solo a te, per tutto questo.” Si voltò verso la figura ammantata che lo aveva cresciuto, alimentando in sé il fuoco del suo sogno puerile, ma inestinguibile.

“È solo grazie a te se potrò incontrare mio padre… Merlino.” Terminò mentre quell’uomo si era sfilato il cappuccio dalla testa, rivelando un paterno sorriso.

“Non è nient’altro che il tuo destino, Mordred.”

 

“Il suo destino?!” Ripeté Morgana, inginocchiata ai piedi del magus mentre gli artigliava la veste. Quella donna era ormai stravolta dal dolore, dopo aver appreso che in realtà la prossima vittima sacrificale non era l’amato che l’aveva abbandonata, bensì il figlio dal quale era stata separata crudelmente.

“Come puoi essere così spregevole?! Sei un mostro!” Soffocò il volto tra le pieghe del suo vestito, piangendo ed ululando tutte le sue pene.

Al di sopra, il terrificante ghigno di Merlino si stagliava su tutta l’arena.

“Spero ti sia piaciuto il mio regalo… Gaia.” E sollevò un ipotetico calice per brindare al loro accordo.

Di dirimpetto, sempre tra le tribune più alte riservate agli organizzatori del Torneo, proprio la titanide curvò le labbra in una smorfia maliziosa.

 

“Mordred… il cavaliere traditore di Artù!” Mormorò a labbra strette Dante Alighieri, suscitando l’interesse dei suoi compagni.

“Lo conosci?” Domandò Masutatsu, sorpreso dal vedere uno sguardo così sgomento provenire dal poeta.

“È, come narra la sua fama, colui che tradì e uccise il re… suo padre.”

“Padre?” Ripeté allora Vlad “Quindi mi stai dicendo che per questo scontro non è sceso in campo Arthur, ma suo figlio?!”

Il motivo di tale scelta fu a loro ovviamente ignoto.

 

“Fermi tutti! Non è assolutamente valida una cosa del genere!” Tuonò Ptah, la dea della creazione egizia, con al fianco Ammit: “Quando mai per i combattenti umani era stato registrato questo Mordred, al posto di Arthur?!”

Baal, il signore dei demoni, le diede corda annuendo con il suo fare apparentemente distaccato: “Non è la prima volta che gli inganni di Merlino sfociano in un’incorrettezza. Il Ragnarok dovrebbe rispettare delle regole, ed invece ogni volta viene rifilato un colpo basso alle leggi stipulate…”

Spalancando un occhio gigantesco, il demone rosso riuscì a rispecchiare tutti i volti corrucciati delle divinità, in forte disaccordo con quanto stesse accadendo.

“Hanno ragione! Questo scontro va assolutamente fermato!” Echeggiò allora una voce. Gli dèi, ma soprattutto gli umani, rimasero sorpresi nel constatare come Prometheus, precedente rappresentante delle divinità, si fosse sporto sul palchetto della sua tribuna con uno sguardo tanto determinato, anche se molto inquieto.

“Oppure volete che si ripetano le incorrettezze del quarto scontro, o del quinto, o addirittura dell’ottavo?!”

 

Quando quelle parole vennero pronunciate, la dea dei morti Hel poté sentire suo fratello farsi cupo tra le sue braccia. Sarebbe stato impossibile che lui avesse potuto ascoltare, in quanto reso sordo, eppure pareva proprio il contrario.

In quanto rappresentante della sicurezza del Ragnarok e delle divinità lì presenti, ed in quanto soprattutto una pedina corrotta tra le mani di Merlino più che del Concilio degli Dèi, Fenrir non riusciva a far fronte alla battaglia combattuta dentro il suo ego. In quanto vittima e tradito, si era sempre sentito autorizzato, assieme a sua sorella, a remare contro gli dèi: erano malvagi, arroganti, e non facevano altro che giocare con la vita di chi riponeva fiducia in loro.

Eppure, ora che guardava in faccia la realtà, dopo aver visto tutto il male che anche l’umanità aveva da offrire grazie a Guy Fawkes, una singola domanda abissava qualsiasi sua certezza:

-Che cos’è il vero male?-

 

Parallelamente a quel processo mentale travagliato, nelle tribune dell’umanità riservate ai precedenti combattenti si animavano emozioni contrastanti.

Charlotte Corday era stata appena chiamata in causa dal titano Prometheus, e similmente a Fenrir, il seme del dubbio era stato insinuato nel suo castello di convinzioni.

-Il bene o il male… la Pace si può ottenere in entrambi i modi?-

No. La maschera di Guy Fawkes balenò davanti ai suoi occhi, ricordandole cosa quell’uomo avesse voluto comunicare con il suo sacrificio.

La vittoria si può conseguire indipendentemente dal compimento di bene o male. La vittoria era la salvezza dell’umanità. La vittoria era la pace.

-La vittoria… porterà la Pace?- Aveva sempre desiderato una pace che debellasse qualsiasi male, eppure la seconda volta che aveva cercato di raggiungerla, era stata costretta nuovamente a macchiarsi le mani di sangue.

A quel punto comprese quale fosse l’errore di calcolo, risalendo all’origine della sua essenza, e non a quello che era stato impiantato in lei.

“La vittoria non ci darà nulla.” Mormorò freddamente le prime parole dopo la morte di Guy Fawkes e di Boudicca.

Alle sue spalle, Masutatsu, Vlad e Dante decisero di ascoltare in silenzio.

“Solo scegliendo di andare contro al male… potremo avere la Pace.”

 

Nel mentre, Prometheus sentiva il brusio sotto di sé aumentare di intensità, segno che per la prima volta si stesse generando un tumulto portato dalla ragione, e non da insignificanti questioni tipiche degli dèi.

“Pensavo odiassi farlo.” Disse Sun Wukong: “Intendo, parlare con loro. E ora invece vuoi farli ragionare.”

“Gli dèi sono terribili.” Una nota distorta ruppe la voce di Hel, intenta ad accarezzare i capelli di Fenrir per distrarsi, o per recuperare la calma. “Non sanno fare altro che pensare a loro stessi!”

“Ed approfittarsi di te.” Aggiunse lo scimmiotto, concordando quindi con il pensiero di tutti i combattenti divini rimasti in vita. Trovò segretamente curioso che, in quel gruppo, gli unici a pensare che le divinità fossero invincibili erano Hastur ed Uriel.

-E bhe… sappiamo la fine che ha fatto il polipetto.- Tirò su col naso.

“Sì, è vero che odio gli dèi, mentre amo gli umani. Però, devo ammettere che in primis non riesco a tollerare nessun comportamento scorretto.” Gli rispose infine il titano “E dopotutto, sono convinto che Merlino e Gaia stiano facendo tutto questo per l’interesse di nessun altro, se non di loro stessi.”

 

“Insomma, la questione ormai non è più punire gli umani per il loro peccato, o gli dèi per la loro vanagloria.” Ragionò allo stesso modo Vlad, volgendo lo sguardo verso l’alto.

Anche Masutatsu guardò lì, trovando la loro falsa guida e promesso messia, il quale non li degnava neppure di uno sguardo. “… ma si tratta di sgominare i piani di chi mina alla sicurezza di entrambi, e che ha scatenato questo Ragnarok proprio per farci indebolire a vicenda.”

I più forti dèi ed umani che si uccidevano, riponendo speranza in due figure che non facevano altro che indorare la promessa di vittoria, e nascostamente complottare per accaparrarsi la carcassa di quel sistema, una volta distrutto.

“Servirebbe proprio un’alleanza per rompere il culo a quei bastardi che ci hanno abbindolato.” Vennero rivolte a Dante delle buffe facce di sorpresa, una volta che ebbe pronunciato istintivamente quelle parole.

“Che c’è? H-Ho detto qualcosa di…?”

“No.”

Tutti i presenti si voltarono di scatto, riconoscendo un’anomalia nella loro discussione: si era aggiunta una quinta persona. Tuttavia nessuno di loro scattò sull’attenti, sorprendentemente neppure Dante, il quale si ritrovò la misteriosa figura ammantata ad un palmo dal suo naso.

Al di sotto del cappuccio calato sul capo, poté vedere un benevolo sorriso risplendere sul suo volto come una falce di luna nel cielo scuro.

“Hai più che mai ragione!”

 

“Non comprendo il motivo della tua lamentela, Prometheus.” Non proprio a dispetto delle sue aspettative, Prometheus si ritrovò contrastato da Gaia in persona.

La titanide aveva parlato però con una voce troppo calma, a detta sua, per appartenere a chi rischiava di vedere il proprio piano sgominato in un batter d’occhio.

“Nessuno ha parlato di te! Cos’è, hai la coda di paglia?” Il Re delle Scimmie Sun Wukong inarcò un sopracciglio, provocatorio.

Non ci fu nessuna reazione da Gaia, la quale proseguì guardando tutti dall’alto verso il basso allo stesso modo.

“Avete menzionato come le scorse volte Merlino potrebbe esser stato responsabile di sconvolgimenti all’interno degli scontri, no? Vi siete riferiti a situazioni in cui i combattenti umani hanno stravolto le nostre previsioni, cogliendo gli dèi alla sprovvista… eppure non comprendo proprio di cosa vi stiate lamentando.”

Lasciò di stucco l’intera platea con una nonchalance agghiacciante, per poi incurvare per la prima volta la sua bocca allo scopo di formare un’espressione.

Si trattava di un ghigno affilato, con gli occhi pulsanti per la frenesia, in una deformazione di malvagità pura e che non accettava nemmeno lontanamente l’idea di avere un limite.

“Sia il quarto, che il quinto e l’ottavo scontro si sono conclusi con la vittoria degli dèi! Abbiamo vinto, quindi non ha senso protestare… esattamente come adesso!” E con la mano indicò l’arena di combattimento, presentandola in tutto il suo splendore di miseria.

“Uriel sta per infliggere il colpo di grazia ad Arthur, totalizzando la sesta vittoria e ponendo fine al torneo che tanto desiderate, a quanto pare, veder concluso! Volete davvero annullare lo scontro prima del tempo? Non pensate che sarebbe questa la vera scorrettezza?!”

Come ogni valanga, incominciò da un effetto boule-de-neige, un accrescere di mormorii, schiamazzi, ed infine voci di protesta sempre più elevate che esplosero sugli spalti.

“Ha ragione! Non ha senso fermarci proprio ora!”

“Stiamo per vincere, dannazione!”

“Gli umani non meritano la nostra pietà dopo tutto quello che ci hanno fatto!”

Gli dèi, in rivolta contro il pensiero di Prometheus, pestarono i piedi per terra e sollevarono i pugni. Barriti, ruggiti, ululati: un festeggiamento in onore della prossima vittoria, assaporata appena da lingue ormai fameliche, e della distruzione della razza umana così vicina.

Gaia sorrise soddisfatta, mentre il titano si sentiva sprofondare nei frammenti della sua speranza infranta.

Tutte quelle voci vennero zittite quando una in particolare, spaventosamente forte ed intimidatoria, rimbombò nello stadio: “Tacete!”

Le labbra degli dèi si sigillarono di colpo. Persino la titanide sussultò sbigottita, avvertendo la forte pressione omicida venir sprigionata dal centro del campo di battaglia.

Il volto di Uriel era come sempre coperto da due ali avvolte attorno alla sua testa, eppure chiunque poté sentirsi martoriato da qualsiasi cosa potesse provenire da sotto quell’ombra. L’occhio ritratto sulle piume parve muoversi e sorvolare gli spalti con inflessibile giudizio.

“Sono stato fin troppo ad ascoltare le vostre patetiche diatribe.”

E, senza pietà né climax, o tantomeno pathos, vibrò un colpo di spada verso Mordred.

Non necessitava di importanza quel momento, per lui. Era solo la conclusione di una strenua resistenza, né la prima ma sicuramente ormai l’ultima, che l’umanità aveva posto nei confronti degli altissimi ed intoccabili esseri come lui. Grazie all’eterno giudizio, l’icore non sarebbe stato versato ancora.

Non la fine del mondo, ma degli uomini, era giunta.

Morderd protesse Excalibur con tutto il suo corpo, aspettando l’impatto fatale.

 

“Pensa te! Tu sei stato fino ad ora ad ascoltare e non ti sei mosso di un millimetro, mentre io ho dovuto correre come un dannato per arrivare qui giusto in tempo!”

Una mano ricoperta da un guanto aveva afferrato il polso di Uriel, giunta dalle sue spalle con la velocità di un lampo. Sebbene fosse stata così leggera, appartenente ad una figura eterea e quasi spettrale, si serrò attorno alla carne con una presa micidiale, raggiungendo direttamente le ossa.

E lì rimase aggrappata, anche con tutti gli sforzi che l’arcangelo impiegò per muovere l’arto in circa un secondo. Dopodiché, quando provò a voltarsi, la figura alle sue spalle lo scaraventò via come se non avesse alcun peso.

Masutatsu Oyama sgranò gli occhi: dall’alto della sua esperienza sapeva bene che sarebbe stato impossibile per qualsiasi essere umano proiettare qualcuno in quel modo, contando soprattutto il peso delle ali e della mastodontica spada. Eppure, colui che era apparso nell’arena come un fulmine a ciel sereno, sembrava proprio fatto apposta per sovvertire qualsiasi convinzione.

E mentre lo stupore dei presenti raggiungeva le stelle, Gaia lanciò uno sguardo confuso a Merlino.

Si aspettava che facesse parte del suo piano, sicuramente un altro dei suoi tranelli, o magari una scorrettezza per aggiudicare anche una volta la vittoria agli dèi. Invece, quando poté leggere l’espressione sul suo volto, ne rimase terrorizzata.

Il mago aveva una maschera di informe sgomento e confusione, la distorsione del suo affascinante viso in preda alla perdizione più totale. Non era esattamente l’espressione di chi non stava comprendendo cosa accadesse, bensì proprio di chi aveva visto nascere nella propria testa un dubbio terrificante, e lo stava vedendo realizzare senza poter intervenire in nessun modo.

 

L-Ladies and gentlemen… nulla del genere era stato previsto per questo scontro!” Gridarono gli annunciatori, dopo aver chiesto spiegazioni agli organizzatori del torneo, ricevendo solo silenzi pieni di sorpresa.

“Un intruso, un terzo incomodo, insomma un invasore misterioso è sceso sul campo di battaglia!”

E quella figura allora procedette a grattarsi la nuca con fare nervoso.

“Misterioso, eh? Non era proprio il titolo con cui volevo essere riconosciuto…”

“T-Tu…” Le prime parole mai pronunciate da Mordred finalmente fuoriuscirono dalle sue labbra tremanti, quando poté sollevare il capo e constatare di essere ancora vivo.

Invece Merlino lasciò fuoriuscire dalla sua bocca un gridò di ira e disperazione: “CHE CAZZO CI FA LUI QUI?!”

Di tutto ciò, lo splendente cavaliere biondo in semplice armatura sorrise divertito. I suoi occhi azzurri come un cielo limpido riflessero il volto sgomento del figlio.

“Un “grazie papà” può andare bene... ma…”

 

Due spade conficcate in due cavalieri. Due uomini, due guerrieri, e due cascate di sangue che sgorgavano da due petti luccicanti nelle armature.

“Perch-chè… Mordred?” Il padre vomitò altro sangue, iniziando ad accasciarsi. Nel farlo, istintivamente allungò la mano verso colui che l’aveva ucciso.

Non era mai stato in grado di farlo, così decise di obbedire a quel capriccio prima che fosse troppo tardi.

“Sono nato con il sangue di un re… ma non ho mai potuto avere ciò che mi spettava…” Disse il figlio.

Il loro sangue, partendo da due ruscelli separati, si unì per formare una pozza circolare.

Il padre allora rispose: “Il mio regno era troppo per te. Troppi sacrifici, troppe ingiustizie… io stesso, non avrei mai creduto un tempo di dover dire addio al mio migliore amico, a causa di questa maledetta corona.”

“Non parlo del regno, papà.” Il figlio si sentì riscaldare dall’interno, sebbene si stesse tramutando in cadavere, nel pronunciare quell’ultima parola. “Io volevo… solo te.”

Le lacrime che sgorgarono dai loro occhi non poterono unirsi, perché quelle spade che li trafiggevano erano l’ultimo baluardo di una distanza capace di impedire qualsiasi abbraccio tra padre e figlio. E quella barriera non poté crollare finché entrambi rimasero in vita.

 

Per questo motivo, il primo pensiero che Arthur Pendragon aveva avuto, dopo esser stato evocato e salvato dal vuoto eterno di una storia dimenticata, venne realizzato seduta stante: abbracciò Mordred.

“Scusami, figliolo.” Parole che non aveva avuto il tempo di pronunciare.

Perché in fondo, non è mai troppo tardi per venir perdonati, se si ricomincia a partire dalle scuse.

“Eri l’unica parte della mia vita che non volevo perdere, mentre il mio regno cadeva a pezzi.” Entrambi i loro corpi iniziarono a splendere di una nuova luce, più viva di qualsiasi fiamma e più pura dei raggi solari.

“E quando mi sono reso conto che tu volessi solo il mio amore… ho fatto l’uscita di scena più codarda possibile.” Rise della sua stessa morte come se fosse stata solo una bazzecola, al contrario di Mordred, al quale bastò soltanto rievocare quel pensiero per far perdere un battito al suo cuore.

“Però ora io ti ringrazio… per avermi amato.” Quando sciolsero l’abbraccio, qualcosa era cambiata.

“So che non è molto, e soprattutto non è il regno che ti sarebbe spettato, ma va comunque bene come regalo, se ti dico che la puoi tenere?”

Mordred singhiozzava bruscamente mentre nella sua mano era stata ricreata Excalibur, in tutta la sua splendente maestosità.

“S-Sì…!” Le lacrime sembravano aver ostruito persino la sua gola, tuttavia riuscì ad esclamare quella singola parola forte e chiaro, a testa alta e con il petto gonfio di orgoglio. Come si addiceva ad un cavaliere di fronte al suo re.

“Bravo ragazzo.”

 

L’enorme figura che si stagliò sopra i due era un ammasso nero, un’ombra insormontabile bucata solo da un unico occhio ardente come un faro. L’ira di Uriel crepitava sulla sua pelle, sulle sue ali di fuoco e soprattutto sulla spada che ora sollevava ben oltre la sua testa.

“Come hai osato interrompermi?!”

“Sta’ giù!” Prima ancora però che l’arcangelo potesse calare la sua lama, Arthur si mosse.

In una frazione di tempo pari ad un decimo di secondo, il Re Eterno fu capace di voltarsi e, senza nemmeno degnare di uno sguardo il suo avversario, sferrargli un pugno all’altezza del volto.

Sulla faccia di Uriel esplose tutta la potenza generata da quel singolo colpo a bruciapelo, il quale pervase l’aria di una vibrazione assordante. Piume macchiate di sangue dorato svolazzarono davanti al volto di Arthur, incorniciando i suoi occhi serrati.

Persino i suoi cavalieri rimasero impressionati dall’aggressività che sprigionò nel momento in cui colpì nientemeno che l’arcangelo supremo, praticamente senza battere ciglio.

Uriel inevitabilmente finì in ginocchio prima ancora di concepire cosa gli fosse accaduto. L’impugnatura dell’arma gli era quasi scivolata di mano.

Provò a rialzarsi per ripartire all’attacco.

Così Arthur gli ripeté: “Sta’ giù!”

E sollevando il piede, pestò il suo cranio con talmente tanta forza da incassarlo nel terreno. Stavolta non fu solo l’aria, ma anche le fondamenta del colosseo a tremare.

Dèi e umani assistevano all’impossibile divenire realtà, e solo dopo qualche istante realizzarono di non star tremando a causa del sisma, ma per via della autorità sublime che quell’uomo emanava, schiacciando qualsiasi cosa attorno a sé: in una parola, dominazione.

“Uriel non riesce a muovere un dito!” Urlarono gli annunciatori, e soprattutto St.Peter credette di star assistendo ad un miracolo. Anzi, forse tutto ciò era l’opposto di un miracolo.

Ma l’arcangelo di fuoco si mosse eccome, e sollevando il capo dalla terra mostrò a tutti la sua bocca sporca di sangue contratta in un ringhio.

“B-Bastardo!” Boccheggiò, facendo forza sulle gambe per rialzarsi con un balzo “Pagherai per-!”

“Ho detto STA’ GIÙ!!”

La minacciosa voce di Arthur venne accompagnata da un boato fragoroso.

L’uomo fu capace di muoversi così velocemente da generare un boom sonico che si manifestò nello spazio circostante. Tutto ciò che aveva fatto era stato estrarre la spada che pendeva dal suo fianco, ed impugnarla sopra la sua testa fino ad estendersi mentre inarcava la schiena. In questo modo apparve come una gigantesca fortezza di ferro agli occhi dell’avversario, il quale tuttavia riuscì a scorgerlo per un istante appena.

Quando infatti Arthur calò la spada verso il basso, imponendo tutto il peso mastodontico del fendente, l’arcangelo non poté far altro che sollevare la sua arma a mo’ di scudo. L’impatto fu devastante, gravando sulla forza di gravità al punto da far sprofondare il terreno in una larga conca sotto i loro piedi.

“Paradise Lost!”

Tuttavia Uriel aveva atteso quel colpo proprio come occasione definitiva per ripartire all’attacco: sfruttando infatti l’inerzia del fendente, lo lasciò scivolare lungo la sua lama fino al terreno, roteando intanto attorno al proprio asse per sfuggirgli. In quel momento, le sue ali trasformate in repliche della stessa arma infuocata trasformarono la sua rotazione in un tornado di fuoco tagliente.

Fu allora che Mordred afferrò il genitore dal collo dell’armatura, trascinandolo all’indietro per sottrarlo a quella che, inevitabilmente, sarebbe stata la morte certa.

L’umanità festeggiò lo scampato pericolo, mentre Uriel tentennò basito, prima di ricordarsi che, effettivamente, i suoi avversari ora fossero due.

E proprio quei due, padre e figlio, impugnarono le spade per sferrare un colpo combinato, il quale si schiantò sulla difesa dell’angelo e lo scagliò all’indietro di diversi metri. Ci furono altre urla, accompagnate da un grido di dolore ed altro icore sputato.

Merlino osservava tutto questo senza lasciarsi distrarre dalle esultanze degli umani, o dalla disperazione degli dèi. I suoi occhi erano puntati su di Arthur. Il vero Arthur.

Sentì Gaia chiamarlo, era arrivata da lui per chiedergli spiegazioni. Non gliele poteva fornire, perché in tutta onestà non capiva cosa cazzo stesse succedendo, pensò.

 

“Eh! Sono sempre uno sconsiderato, ho rischiato la morte per davvero… di nuovo!” Sbuffò il re biondo, per poi scoppiare in una risata isterica a causa dell’enorme stress provato.

Uno schiaffo da parte di Mordred lo raggiunse sulla nuca, prima di un secco: “Idiota!”

I Cavalieri della Tavola Rotonda rimasero allibiti.

“Sei proprio un idiota se pensavi di sconfiggerlo buttandoti a testa bassa contro i suoi attacchi! Scommetto che mi hai visto combattere contro di lui e hai pensato che fosse facile, eh?! Bhe, ora hai fatto una figura di merda davanti a tutti!”

“Dai…” L’uomo iniziò a disegnare cerchi sul terreno con il piede, guardandoli a testa bassa: “Tutti mi sembra un’esagerazione.”

“No invece! Si tratta proprio di tutti, nel senso di tutto il creato!”

“Scusa figliolo, non sono abituato a tutto ciò. Ai miei tempi non c’erano queste cose...”

Sir Pellinore scoppiò a ridere a causa di qualcosa che mai avrebbe pensato di vedere in vita sua. Dapprima gli altri cavalieri rimasero in silenzio, ma poco dopo ruppero quella facciata di serietà con risate sempre più squillanti.

Colpevole la troppa tensione, si sentirono incredibilmente più leggeri e felici.

“Ma guarda un po’!” Bofonchiò il vecchio, ridendo sotto i baffi “Era questo il vero Arthur che mi mancava!”

 

“È intollerabile!” Per un attimo tutti si arrestarono per quell’improvviso grido.

Gaia, con gli occhi fuori dalle orbite, strillò: “Due combattenti contro uno?! Non è affatto così che deve andare! È scorretto un incontro del genere, non si può- !”

“Scusami, ma…” Dopo aver allungato l’ultima parola con un sorriso sornione, Prometheus la guardò dritto negli occhi: “Fermare questo incontro non è esattamente ciò che non volevi fare un attimo fa?”

“Sei proprio una buffona, meriteresti un naso da clown e una parrucca!” Gongolò Baal, disteso lungo la sua sedia mentre ridacchiava.

Anche Ptah rincanalò la dose: “Volete davvero annullare lo scontro prima del tempo? Non pensate che sarebbe questa la vera scorrettezza?! Per caso… ti suonano familiari queste parole, dolcezza?”

La titanide non era mai stata umiliata e resa pubblicamente così impotente come in quel momento, e per questo fu costretta a deglutire a vuoto mentre ormai tutti volgevano gli sguardi lontani da lei.

 

Intanto, tra le tribune degli umani, ma nell’area riservata ai combattenti, stava continuando un dialogo rimasto in sospeso:

“Chi sei tu?” Domandò Dante alla figura ammantata apparsa tra di loro.

“Chi, io? Sono solo qualcuno che ti ha dato ragione: servirebbe un’alleanza tra umani e dèi, un equilibrio pacifico, per porre fine al piano di Gaia e Merlino.” Trillò l’uomo misterioso, per poi sollevare un dito all’altezza della tempia.

“E prevedo che avverrà presto, quindi state tranquilli!”

Vlad, certo che non avrebbero ottenuto altre informazioni sull’identità dell’uomo, cambiò domanda: “Ci sei tu dietro tutto questo? Intendo l’arrivo di Arthur.”

Il suo interlocutore incrociò le braccia al petto, e sotto al cappuccio poté scorgersi un broncio serioso.

“Non mi piacciono le scorrettezze, ecco! Quindi ho pensato di rimediare all’inganno di Merlino con un altro inganno.”

“Cioè? Come hai fatto a richiamare Arthur, se la sua anima non era nemmeno stata resuscitata davvero per questo torneo?”  

“Ah, a dirla tutta nemmeno io avrei dovuto essere qui… ma non corriamo troppo! Quello che vi serve sapere è che: sì, ho richiamato io il vero Arthur Pendragon per fargli prendere parte al torneo… e gli ho anche concesso un mezzo per combattere, come gli spettava di diritto.”

Pur non potendo ascoltare quel dialogo, nella sommità della sua balconata il magus Merlino pensò esattamente a ciò che venne detto dall’uomo ammantato in quello stesso istante.

 

La Decima Sefirot: Malkhit, il Regno. Nell’Albero Sefirotico si colloca all’estremità opposta di Keter, la Sefirot posseduta da Mordred.

Padre e figlio, l’uno al fianco dell’altro con le spade sguainate, tracciavano un percorso costellato da tutti i combattenti umani che avevano lottato per impedire la distruzione della loro specie. Eppure, anche se in realtà quel percorso era condannato ad una fine ancor più nefasta, proprio la Sefirot Malkhit rappresentava la svolta fondamentale per evitare il collasso dell’umanità.

Il Mondo umano, materiale, connesso come radici nella terra e nella vita. Dove tutto ciò che è morto finisce, e dove tutto ciò che è vivo nasce. È proprio da questa prepotente ribellione che nasce l’intoppo nella macchina perfetta pensata da Merlino e Gaia.

Hybris’ Tale: il potere di rompere i sistemi, e per questo di incarnare in ogni fibra del proprio corpo tale incantesimo ammazza-dei.

 

“Ma allora è esattamente come la mia Sefirot, Ghevura, La Potenza!” Realizzò Masutatsu dopo la spiegazione, non poco perplesso.

Di tutta risposta l’uomo ammantato fece oscillare il dito indice alzato come un pendolo, un chiaro “no, no”.

“Ghevura non è solo la Sefirot della Potenza, ma rappresenta il Potere della Giustizia. Insomma, con questa Sefirot tu puoi imporre sugli dèi la stessa legge che amministravi per gli umani, ovvero che i tuoi pugni possono uccidere.” Fece una pausa, ritornando con lo sguardo sul campo di battaglia.

“Malkhit non pone l’uomo allo stesso livello della divinità, ma al contrario, ridimensiona il dio sullo stesso piano dell’uomo, ovvero ponendolo sul mondo materiale: il Regno degli Umani. In parole povere può annullare lo stato di invulnerabilità degli dèi quando li colpisce, rendendoli danneggiabili.”

I combattenti compresero che quella differenza così sottile in realtà potesse nascondere altro, tuttavia Dante non poté trattenere un commento d’ammirazione misto a sospetto.

“Certo che sai davvero tante cose sulle Sefirot…”

“Mi pare ovvio!” Sorrise l’altro: “È grazie a me se esistono!”

Dopodiché ignorò le facce sbalordite che i quattro gli riservarono, per fissare intensamente la ragazza francese.

“Charlotte…”

“S-Sì, monsieur?” L’Angelo dell’Assassinio lo guardò di rimando con i suoi grandi occhi chiari, riflettendo un volto non più tirato in un sorriso, ma contratto in un’espressione mesta.

“Niente. Anche se posso prevedere il futuro… anzi, proprio perché posso farlo, so di non poterti fermare.”

 

Giù nell’arena, intanto, l’arcangelo Uriel si era appena issato in piedi. In piedi, sulle proprie gambe, come quelle parassitiche creature che tanto ripudiava.

Un cocktail di vergogna e collera, in aggiunta ad una spruzzata di dolore che ancora brulicava nel suo corpo ferito, fu sufficiente a tramutare l’occhio sul paio di ali poste sul suo volto.  Esso infatti roteò, diventando una fessura verticale con al centro una pupilla animata come fiamme selvagge.

“Sacre Scritture… Dio è amore… porgi l’altra guancia…” Mugugnava come in trance, rafforzando la stretta attorno alla sua arma.

“Vi siete barricati dietro una menzogna per non temerci più! Ma ora capirete qual è la vostra unica certezza: ceneri eravate, e ceneri rimarrete!”

Mordred si irrigidì nel vedere l’avversario di nuovo al pieno delle sue forze, alimentato ovviamente dalla rabbia. Aveva provato sulla sua stessa pelle quanto fosse devastante la sua forza, e ora che non c’era più nessuna armatura a difenderlo, soccombere al suo prossimo colpo sarebbe stato inevitabile.

Proprio a causa della sua tensione trovò bizzarro vedere suo padre, al contrario, completamente a suo agio. Il re aveva le spalle ricurve ed il busto piegato un po’ in avanti, in modo da far toccare la punta della sua spada a terra. La faceva roteare avanti ed indietro di poco, muovendo il piatto della lama su e giù. Questa procedura era accompagnata da uno sguardo decisamente concentrato.

“Padre, cosa stai…?”

“Aspetta, Mordred.” Disse prontamente lui, assottigliando gli occhi, aspettandosi ciò che sarebbe successo.

L’istante dopo scattò in avanti.

La distanza che lo separava dall’angelo era fin troppa per rendere efficace un attacco a sorpresa come quello, soprattutto perché era rimasto tutto il tempo di fronte alla visuale di Uriel. Il primo pensiero di Mordred, così come di tutti i Cavalieri della Tavola Rotonda, fu che Arthur avesse compiuto un’altra scelleratezza.

Tuttavia, quando la spada dell’uomo riuscì a tracciare un lungo taglio ascendente che risalì la gamba di Uriel, tutti ammutolirono per la sorpresa. Lo stesso angelo grugnì tra i denti, sollevando lo spadone solo quando l’attacco gli arrivò all’altezza del petto, finalmente potendo bloccarlo.

 “Ladies and gentlemen! Come ha fatto il Re Cavaliere a prendere alla sprovvista Uriel con quell’attacco?!” Strillò St.Peter, incredulo, venendo poi seguito da Adramelech.

“Che sia stata la velocità, o che Uriel non sia riuscito a vedere la traiettoria del colpo?!”

L’unica evidenza fu che Arthur si sentì molto soddisfatto di esser riuscito a mettere a segno quell’attacco.

“Tsk, sembra che non mi sia arrugginito del tutto!” Aveva lo sguardo di chi era sicuro di aver scovato la debolezza del suo avversario, e non si trattenne dal rivelarlo con tono canzonatorio: “E tu invece avevi un punto debole grande quanto una casa proprio in bella vista!”

 

L’arcangelo ruggì e fece vibrare lo spadone di lato, nel gesto di spazzare via quell’umano come se fosse stato una formica. La folata di fuoco che accompagnò il fendente servì a moltiplicare visibilmente la massa della lama, rendendola immensamente più grande di Arthur.

Lui infatti imprecò tra i denti e si preparò ad assorbire il colpo parandolo con la sua spada.

Fu come se il vento avesse ghermito una foglia: pur salvandolo dalla morte certa, la spada Caliburn venne scagliata in aria quando i guanti del cavaliere implosero per la pressione.

Questa volta fu il turno di Uriel di ghignare famelico, assaporando già la distruzione della sua vittima. Poco dopo quel suo volto compiaciuto impattò contro il ginocchio ricoperto dall’armatura di Arthur, siccome il re gli aveva prontamente afferrato la testa con entrambe le mani per poi sbatterla verso il basso.

Icore spruzzò dalla faccia dell’angelo, decorando il gambale con oro puro.

“Incredibile!” Gli annunciatori si sgolarono per la frenesia dopo aver visto una mossa del genere venir messa a punto.

Ma non era ancora finita: umani e dèi osservarono Caliburn cominciare la sua parabola discendente, compiendo ritmiche rotazioni come se volteggiasse nell’aria.

Arthur cercò la concentrazione, e quando fu a portata di mano la afferrò, accompagnando la sua discesa con un fendente verso l’alto. L’obbiettivo fu il collo di Uriel, perfettamente perpendicolare al terreno.

A quel punto però l’angelo, il quale non era affatto incosciente, sfoderò tutti i suoi riflessi sovrumani: puntando i piedi al suolo, eseguì una capriola frontale per evitare che la lama lo decapitasse, lasciandola così scorrere a pochi millimetri dalla sua schiena. A quel punto, ancora a mezz’aria, scalciò contro la spalla di Arthur per darsi la spinta e balzare all’indietro.

Pensò di essere al sicuro, ma prima ancora di poter tornare con i piedi per terra, Arthur urlò:

“Mordred!”

E proprio suo figlio apparve alle sue spalle, usando la schiena del genitore come trampolino di lancio per raggiungere l’arcangelo con un salto. Excalibur scintillò, ripristinata nella sua bellezza.

Gridando per l’impeto, il Cavaliere in Nero abbatté sul suo avversario una selva di colpi da ogni direzione nel brevissimo lasso di tempo che li separava dall’atterraggio al suolo.

“Anche se siete in due, per me non fa nessuna differenza!” Uriel era davvero convinto delle sue parole: dopotutto, le sue strategie avrebbero funzionato ancora ed ancora.

Infatti, quando Mordred affondò con impeto, a causa dell’impazienza lasciò la sua guardia fin troppo scoperta. All’angelo bastò così lasciar scivolare il peso di Excalibur lungo la sua lama, ed iniziare una rotazione fiammeggiante accompagnata dalle sue ali di fuoco.

“Padre!” Gridò però il giovane cavaliere, e proprio in quel momento Uriel comprese di trovarsi lui stesso intrappolato nel vortice della strategia di quei due umani.

Di fatto, Arthur sopraggiunse come una valanga travolgente, aggirando però il suo avversario per sorprenderlo dalla schiena. Sorprendendolo durante l’azione di roteare attorno al proprio asse, abbatté la sua spada contro un’ala dal verso opposto, frapponendosi così alla rotazione ed arrestandola sul nascere.

All’angelo erano state tarpate le ali in volo, ed in quanto tale, non ebbe più l’equilibrio sufficiente per reagire.

Padre e figlio ruggirono, inclinando le loro spade parallelamente al terreno e squarciando la carne di Uriel con due fendenti contrapposti. Lo Ying e lo Yang, due falci di luce che penetrarono i muscoli del giustiziere divino, mentre la sua voce saliva altissima fino al cielo.

Sembrava proprio lo stridio di un uccello ferito, ciò nonostante parve così agghiacciante da paralizzare le divinità ai loro posti.

 

La prima volta che Merlino aveva visto un umano ferire una divinità grazie al potere della Sefirot, aveva sorriso compiaciuto. Eppure, quando quella stessa visione si ripresentò davanti ai suoi occhi, c’era solo una maschera di panico sul suo viso.

Alle sue spalle, Gaia sudava freddo nella stessa identica maniera.

“Sta avvenendo davvero… davanti ai nostri occhi?!” Alle sole parole degli annunciatori, l’umanità prese fiato per poi lanciarsi nuovamente in un coro di esultazioni.

“Questi due cavalieri sono riusciti a sovrastare il più grande arcangelo di tutti i tempi, colui che era stato scelto per portare l’apocalisse e la fine del genere umano!”

Lacrime a fiume scorrevano da Morgana, la quale sventolava un fazzoletto all’aria, gridando: “Amori miei! Siete bellissimi!” come l’orgogliosa tifosa che era.

 

Ma mentre tutte le esultanze erano in corso, un fragore proveniente dal terreno per poco non ribaltò tutti gli spettatori giù dagli spalti. Si trattò di una vibrazione così potente da generare crepe lungo tutto il terreno del campo di battaglia, le quali risalirono persino sulle mura e minacciarono un’altra volta di incrinare la cupola protettiva.

Voci confuse si levarono, indagatorie, ma uno strano senso comune del pericolo indirizzò gli sguardi di tutti verso un unico punto.

“E quello cos’è?!” Domandò atterrito Adramelech, cercando risposta nel suo collega. Lo trovò completamente pallido e con gli occhi sbarrati.

Le labbra gli tremarono per qualche secondo, prima di mormorare: “È-È …”

Le due ferite sul corpo di Uriel si spalancarono come fauci sanguinanti, e dalle carni emersero sette protuberanze per formare un cerchio: quelle lunghe e piccole bocche pulsavano e vibravano perfettamente in sintonia con il sisma che martoriava l’arena.

Arthur e Mordred balzarono via preventivamente, e se non l’avessero fatto, l’esplosione di fiamme che seguì li avrebbe inceneriti sul posto. La voce di Uriel si elevò ancora, ma stavolta in un urlo selvaggio, accompagnato dal suono di sette trombe che squillavano e smuovevano il suolo.

“È l’Armageddon!” Concluse St.Peter, con lo sguardo di chi non nutriva più alcuna speranza.

Quando il bagliore accecante si dissolse, il corpo di Uriel era mutato nella sua nuova trasformazione.

Allo spadone avevano preso posto due anelli fiammeggianti che roteavano attorno a lui, generando un’aura sferica simile a vapore rosso sangue. Quell’emanazione si rivelò presto tutt’altro che incorporea, siccome si staccava a dense colate, come se gocciolasse, sciogliendo il terreno ad ogni stilla lavica. In cerchio levitavano ancora le sei ali, tramutate però in tentacoli incandescenti ancorati al terreno per sostenere quella mostruosità.

Il corpo dell’arcangelo, protetto da quella fortezza e macchina di morte, pareva poter controllare tutto ciò senza nemmeno doversi muovere, ed infatti l’espressione del suo viso era rilassata, ma cupa.

“Umani…” Disse, stavolta iniettando puro terrore nei due sfidanti.

“Le vostre lame non riusciranno più a toccarmi!”

Di fronte a quell’abominevole mostruosità, qualsiasi individuo, che fosse mortale o immortale, si sentì schiacciato da un’opprimente sensazione.

Mordred aveva la spada sguainata, ma tremava sia a causa del dolore, che di quella vista.

“Padre… e ora?”

Gocce di sudore scesero lungo i lati del volto di Arthur: “Ora…” a dirla tutta, stavano colando ai lati di una bocca tirata in un sorriso nervoso.

“Ora ci diamo da fare per non morire di nuovo!”

Ed afferrando la nuca del figlio, gli fece premere la fronte contro la sua. I loro cuori battevano forte, perché sapevano che il tempo gli era avverso in quella battaglia contro la morte stessa. Trascorse una manciata di secondi, durante i quali nessuno riuscì ad udire cosa si fossero detti, dopodiché i due ritornarono a guardare fissi il loro avversario.

Sorprendentemente, tutto ciò che fecero fu afferrare le loro spade per la lama e, imprimendo una forza mostruosa nelle braccia, le mandarono in frantumi.

I Cavalieri della Tavola Rotonda più di tutti gli altri umani impallidirono di fronte ad una tale folle scelta.

Ma non ci fu tempo per le spiegazioni, perché i due combattenti umani procedettero nel pestare il terreno con così tanta potenza da generare un’esplosione di polvere e detriti sul posto.

 

“Caricaaa!!”

Da quella nuvola saettò una figura, facendo rimbombare il fracasso della sua armatura ad ogni falcata.

“È Arthur!” Lo riconobbero gli umani, osservando così il Re Cavaliere caricare a testa bassa e disarmato ciò che era diventato l’arcangelo.

Uriel sogghignò sadico: “Stolto!”

Una pioggia di affondi incandescenti si abbatté sull’uomo, il quale tuttavia cambiò direzione prima di ritrovarsi impalato da quei tentacoli di fuoco. La sua idea a quanto pare non era mai stata mirare direttamente all’avversario, bensì aggirarlo, come infatti stava facendo.

Arrivandogli alle spalle in appena un secondo, osservò: - Sei decisamente più lento e prevedibile di prima, bestione! –

E saltò in avanti, mettendo mano al fodero quando fu arrivata a distanza di circa due metri dalla palla di magma che rivestiva Uriel.

“Ma come?! Non aveva forse distrutto la sua spada?” Sussultarono dagli spalti, increduli.

Eppure, qualcosa venne di fatto sfoderato dal fianco del re, e tracciò un arco nel cielo diretto verso il suo nemico.

“Pensi di cogliermi impreparato?! Ti ho già detto che non avreste potuto scalfirmi!” I denti affilati di Uriel formarono un sorriso da squalo, anche se ancora macchiato dall’icore dorato.

Ed infatti, come aveva pronosticato, la spada brandita da Arthur si sciolse al contatto con il suo scudo.

“C-Cosa?!”

Tuttavia, a dispetto di qualsiasi sua predizione, quell’arma non era né Caliburn, né Excalibur. Si trattava di una lama formata da rocce incastonate, attaccate all’elsa dell’originale spada del Re Cavaliere.

- Grazie, figliolo. - Pensò l’uomo, il quale aveva usufruito di una finta spada creata da ciottoli grazie alla Sefirot Keter del figlio.

E proprio a Mordred fu diretta l’attenzione di Uriel, quando lo avvertì ormai sopraggiunto sopra la sua testa con un salto. Il Cavaliere in Nero sollevò sopra la propria testa la spada, abbattendo un colpo dalla potenza micidiale verso il basso.

Tuttavia, anche Mordred sapeva che la sola forza della sua lama non sarebbe bastata a penetrare lo scudo di Uriel, e proprio per questo non aveva vanificato il suo tentativo: a ragion di ciò, il suo colpo non era indirizzato contro Uriel, bensì verso un oggetto sospeso in volo proprio tra lui e la barriera.

Quando esso venne scaraventato verso l’arcangelo grazie alla potenza del fendente, come un proiettile perforò lo strato bollente di magma che nulla poteva scalfire. E solo allora tutti compresero cosa fosse, perché incominciò a risplendere di luce dorata.

“È E-Excalibur?!”

La lama della spada leggendaria non era stata dunque impugnata da Mordred, il quale aveva preferito invece scagliarla con un colpo di Caliburn per trapassare la difesa di Uriel.

Contro ogni speranza umana, però, la traiettoria della lama fu facilmente intuita dall’angelo, il quale infatti la evitò con un semplice movimento del busto. Dopodiché senza nemmeno voltarsi dove la lama era stata spedita, mosse rapido un suo tentacolo di fuoco.

Questo si conficcò nel petto di Arthur, forando il centro della sua armatura come fosse burro e strappandogli un grido di dolore.

“Cosa credevi… di fare?” La cupola di lava si infranse, evaporando in bianchissimo fumo a causa dell’ingente danno subito. Tuttavia, l’angelo non pareva preoccuparsi di nulla, perché ora guardava con superiorità il suo avversario umano.

L’aveva bloccato nell’atto di trafiggerlo con la sola lama di Excalibur, recuperata grazie al passaggio del figlio, immortalando così la sua espressione in un connubio di sorpresa e sofferenza.

Poi diresse i suoi occhi verso Mordred, l’unico nemico rimastogli. Lo trovò intento a coprirsi il volto, così patetico tra le lacrime, pensò. Eppure, nel silenzio tombale che si era creato, non gli parve di sentire alcun singhiozzo.

“Ho fatto scacco al Re avversario, ecco tutto!” Gli rispose infine la voce di Arthur, così tuonante in quell’assenza di rumori da farlo trasalire.

Voltandosi di nuovo, si accorse di cosa non aveva fatto in tempo a vedere: al fianco del re cavaliere pendeva il fodero della spada leggendaria, il quale con la sua magia aveva reso la ferita inferta meno letale.

Eppure, si rassicurò l’angelo, aveva bloccato Arthur. Ovviamente poteva muovere ancora le braccia, ed infatti con queste stava puntando davanti a sé la lama di Excalibur.

-Perché me la punta contro?!- La mente di Uriel si affollò di dubbi e pensieri in così poco tempo -Non può di certo ferirmi, da quella distanza! E allora perché… ?-

E non poté fare a meno di fissare quella lama.

 

Il mito della spada Excalibur tende spesso ad essere inesatto. Come già si era scoperto, in pochi conoscevano che la vera magia fosse in fondo custodita solo dal suo fodero. Eppure, allo stesso modo, è un errore o un’inesattezza affermare che non risieda alcun potere magico nella sua lama.

Per questo motivo, quando l’acciaio si trasformò in pura luce ed investì l’occhio di Uriel, Merlino venne attraversato da un brivido. Il calore emanato dal centro dell’arena fu capace di risvegliarlo dall’intorpidimento della confusione, come se fosse stato un abbraccio familiare.

Uomini e dèi si coprirono gli occhi per evitare di rimanere abbagliati, mentre le loro voci confuse si levavano in protesta.

Ma intanto, proprio a fonte di tutta quella luce, Arthur sorrise a palpebre serrate.

-Hai abbassato la guardia dopo che credevi di avermi ucciso… e così hai focalizzato l’attenzione proprio dove volevo io.-

Ripensò a quanto avesse scoperto poco prima, semplicemente indirizzando la luce del sole sull’unico occhio di Uriel grazie al riflesso sulla sua spada.

-Come ho detto prima, hai un punto debole grande quanto casa in bella vista!-

E ora che la sua arma risplendeva di luce magica, non gli serviva la vista per esser certo della posizione del suo avversario. Serrò le dita attorno alla base della lama con così tanta forza da far prorompere le nocche bianche, mentre con un una singola sferzata recideva il tentacolo che lo ancorava al suolo, e poi sempre più in avanti. Oltre il limite dell’ultimo briciolo della sua forza.

Urlò fino a svuotarsi i polmoni. Per il suo regno, per suo figlio, per il bene dell’umanità.

REX… CALIBUR!!

In un tripudio di luci e rumori, un trionfante grido di amore esplose nell’arena, inondando chiunque.

Il magus si lasciò ricadere sulla sedia, sudando freddo: alle sue narici era stato portato l’odore dei fiori selvatici attorno al castello di Camelot. Pensò di rimando a Nimue.

Mordred, invece, riconobbe l’urlo di suo padre come tante volte l’aveva sentito in guerra, davanti a sé, mentre li guidava tutti verso la vittoria.

 

Quando il ronzio della voce di Arthur si dissolse nell’aria, chiunque spalancò di scatto le palpebre per assistere a quale nuovo mondo sarebbe apparso di fronte a loro. Anche gli annunciatori furono pronti a far squillare le loro gole secche per l’emozione.

Tuttavia, c’era ancora solo e soltanto luce.

 

Similmente all’incorrettezza sui poteri di Excalibur, sin dall’inizio di quello scontro era stato erroneamente dato credito ad un altro errore.

“Il mio nome… Uriy’el…” Quella voce risuonò come un coro di mille esplosioni rimbombanti, vibrando all’interno delle menti di tutti i presenti come un’infestazione.

“Può significare Fuoco di Dio… come Luce di Dio!”

Nessuno poté vederlo in quel momento, ma l’arcangelo aveva finalmente sollevato le ali a protezione del suo volto per mostrare nient’altro che la lucentezza di un sole. Al suo cospetto, Excalibur emanava appena la luminosità di una fioca candela sul punto di spegnersi.

“Quell’occhio e quelle ali servivano soltanto per limitare i miei poteri, contenendo questa luce divina.”

E quando tornò a rinchiudere il suo vero volto con le ali, come una crisalide, tutti poterono assistere a quanto fosse impotente Arthur, il Re Cavaliere.

In ginocchio, dopo aver fallito il suo colpo, guardava verso l’alto con occhi ciechi.

“Padre!” Urlò Mordred, sollevando una mano in direzione del suo genitore e muovendo i primi passi di una corsa disperata.

Il mondo intero stava collassando per l’umanità. Cuori infranti da cui nacquero lacrime calde, e voci singhiozzanti di pietà.

Le divinità, dal canto loro, non esultavano affatto. Osservavano solennemente quell’attimo immortalato nella storia dell’esistenza: la prova che non ci fossero confini alla forza di un essere divino, e che gli umani non potessero far nulla per ribaltare tale ordine.

Morgana ululò in lutto, mentre i Cavalieri della Tavola Rotonda si erano fatti rigidi come statue in armatura.

Gaia spalancò i suoi occhi, nei quali venne riflessa la vittoria in un vortice di gioia e soddisfazione.

L’umanità intera si irrigidì e strinse i denti, aspettando soltanto l’impatto fatale.

 

“Mi scusi… potrebbe non farlo, per favore?”

Dopo aver dissolto la sua forma Armageddon e aver rivelato, anche se solo per un istante, le sue vere sembianze, Uriel era provato oltre ogni limite mai sopportato in vita sua. Le troppe ferite che laceravano la sua carne e l’icore versato gravavano sul suo senso dell’equilibrio, sui suoi sensi, sui suoi riflessi e sulla lucidità dei suoi pensieri.

Per questo motivo, nel momento in cui una semplice umana gli si avvicinò alle spalle, non reagì come avrebbe fatto normalmente, ovvero eliminandola sul posto. Piuttosto, si voltò incuriosito a guardarla.

Sottò gli occhi increduli degli spettatori, e dei combattenti umani che non riuscivano a spiegarsi come se l’avessero potuta perdere di vista, Charlotte Corday era giunta al centro dell’arena.

La sua apparizione inaspettata fu abbastanza clamorosa da togliere le parole di bocca persino ai cancellieri al microfono, perché tanto non avrebbero saputo nemmeno descrivere cosa stesse avvenendo lì sotto.

“Cos- ?” Fece in tempo a mugugnare distrattamente Uriel.

Le Sefirot in dotazione ai dieci combattenti umani esaurivano il loro compito solo con la morte dello stesso, e per questo i poteri potevano essere usati anche fuori dallo scontro in cui era presunto dovessero venir usati.

Chesed, la Benevolenza, avrebbe per sempre celato l’intento omicida dell’Angelo dell’Assassinio.

Uriel vomitò altro sangue dorato quando spalancò la bocca in uno spasmo, riconoscendo il dolore più lancinante mai provato. Durò poco, almeno fin quando Charlotte non gli estrasse il coltello piantato nella sua gola con un gesto secco.

“Patetica…” L’icore colò a cascata dalla sua mascella troppo pesante per resistere alla forza di gravità.

“… inferiore… umana…”

E cadde. Quel colosso, pilastro che separava il piano degli dèi da quello degli uomini con tutta la sua distanza incolmabile, stramazzò al suolo nella fine più patetica ed anticlimatica che potesse meritarsi.

 

“Eeeh?!” Alitarono infine Adramelch e St.Peter, con uno sbuffo deluso quanto sorpreso.

Mordred rallentò la sua corsa fino ad arrestarsi del tutto, al fianco del padre. Guardò la ragazza macchiata d’oro, ancora persa con lo sguardo sul cadavere dell’arcangelo, e non trovò altre parole se non:

“E… adesso?”

Ma qualsiasi domanda, o risposta, venne presto sovrastata dalla folle risata di Merlino che traboccava dalla sua fauce dischiusa.

“Ce l’ho fatta!!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back, e finalmente aggiungerei!

Perdonate il ritardo, ma questo capitolo è stato il più lungo mai pubblicato della storia, ed in quanto tale ha richiesto assolutamente più attenzioni e tempo. Spero lo abbiate gradito almeno quanto me, dato che lo considero il mio preferito.

Allora, abbiamo la comparsa del vero Arthur che si riconcilia con il figlio e lo accompagna nella prima battaglia 2vs1 del Ragnarok. Sì, ormai avrete capito che dèi e umani se ne stanno fregando bellamente delle regole.

Tuttavia, anche se Arthur e Mordred sono stati sconfitti (onde evitare confusioni, Arthur non è morto), Charlotte ha ucciso Uriel e… Merlino esulta. Nel prossimo capitolo entriamo nel reame del decimo scontro, e finalmente capirete cosa passa per la mente del magus.

Ah, e comunque ho realizzato la cover art del quarto scontro, in occasione della sua pubblicazione in inglese. Vi ricordo che qui potete, semmai, seguire il server Discord: https://discord.gg/FHNr7A7
Alla prossima!

P.S: Avete capito chi è la figura ammantata, no?

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Capitolo 37
*** Chapter 37: Omake ***


Angolo Autore (questa volta in cima):

Welcome back! Cos’è questo capitolo, aggiornato così in fretta dopo la fine del nono scontro?

Sono solo degli omake che mi ero promesso di fare, ovvero delle scenette dietro le quinte tra i partecipanti del torneo. Come potete vedere sono sette, esattamente come sette sono i giorni che vi separano dal prossimo capitolo, e quindi dall’ingresso nella parte finale di questa storia.

Che dire, godeteveli e godetevi l’attesa!

Alla prossima!

 

(Fare Il Padre)

Era notte fonda ormai quando il faraone più amato d’Egitto rientrò di soppiatto nella sua reggia. Fece un occhiolino complice alle guardie, gli parve di udirle sbuffare, e si complimentò con se stesso per avere dei passi così silenziosi da doversi meritare il titolo di “Fantasma del Deserto”.

Quest’ultima affermazione però apparteneva solo e soltanto alla sua immaginazione, perché purtroppo divenne subito il faraone più in pericolo d’Egitto.

“Ramsess!” Lo richiamò una voce adirata, facendogli balzare il cuore in petto per lo spavento.

Ciò nonostante, provò a voltarsi per andare in contro alla morte fingendo un sorriso: “Mia adorata Nefertiti, cuore mio e luce dei miei oc-…”

“Basta, io non ce la faccio più con te!” Strillò la regina, la quale portava in braccio due bambini, più uno arrampicato sulla schiena, uno sul petto e altri due per gamba.

“Sei sempre fuori a bere, o con donne, o con donne a bere! Non ti occupi mai dei tuoi figli!”

“Ma nooo… lo sai anche tu che esageri.”

“Ah sì?! E allora dimmi che giorno è nato il tuo settantaquattresimo figlio?”

Il tempo parve fermarsi, ma in realtà ogni secondo veniva scandito nella testa di Ramses come nel countdown di un quiz a premi.

“Ehm, è una domanda a trabocchetto, vero? Io non ho così tanti figli!” E scoppiò a ridere.

Nefertiti gli rifilò uno sguardo in cagnesco: “Ramsess, tu hai più di cento figli.”

A quel punto scoppiò a piangere.

Contemporaneamente, anche altri cento bambini di tutte le età si risvegliarono nel cuore della notte a palazzo, piangendo disperati in cerca della mamma. Una mamma che, però, non accennava muoversi.

“Stasera ci pensi tu a loro!”

E dopo quelle parole, il regnante più potente ed indisciplinato del mondo non poté fare a meno che ubbidire. A testa bassa, mentre smaltiva una sbornia, si trascinò nella camera che pareva una caserma di soldati, costellata di culle per altre piccole versioni di sé.

Ad uno ad uno li cullò, li baciò, e raccontò loro una storia, finché non crollò addormentato in un mare di suoi figli.

 

 

(Viaggi Fantastici)

“Ancora con questa storia?! È così noiosa da riuscire a sterminare dalla noia pure noi dèi, figurati gli umani che sono costretti a studiarla!” Sbuffava Sun Wukong, il Re delle Scimmie, esasperato nel suo litigio contro un altro permaloso ed irascibile individuo.

“La MIA è una storia piena di passione, cultura, filosofia! Poi parli tu, che non l’hai nemmeno scritto il Viaggio Verso l’Occidente?!” Gli urlò in faccia Dante Alighieri, alimentando ancor di più l’ira dello scimmiotto.

“C-C-Cultura e filosofia, ah?! Ma se spendi capitoli interi ad insultare le persone che ti stanno sulle palle, e a fare elogi per una donna che non ti degnava nemmeno delle sue attenzioni! Sei solo un vecchio simp, ecco cosa!”

“Come osi, lurido animale? Il mio è il più grande racconto mai scritto: l’avventura per antonomasia! Ti rendi conto che ho affrontato l’Inferno ed il Purgatorio, per poi arrivare fino al Paradiso?!”

“Io da solo metto in piedi la cultura della Cina, invece. E, pensa un po’, se guardi anche negli anime e nei manga, ogni tre per due trovi un riferimento a ME! Hai presente Dragonball?!”

La diatriba sarebbe potuta andare avanti all’infinito, se solo un’ingenua voce non avesse chiesto con fermezza:

“Ehm, scusatemi la domanda, ma… questi viaggi li avete compiuti per davvero, quindi?”

E a quel punto i due litiganti ammutolirono come due stoccafissi, per poi decidere di non toccare mai più quel discorso in vita loro e di non vantarsi di viaggi che in realtà non avevano mai fatto.

 

 

(Buona Sorella)

Un dubbio tormentava la Dea dei Morti, Hel, ponendola al pari delle anime dannate in suo dominio, e quel dubbio riguardava nientemeno che il suo amato fratello Fenrir. Voleva molto bene anche a Jormungandr, certo, però il Lupo era quello costantemente più esposto al pericolo, soprattutto a causa della decisione di collaborare con lei.

Per questo motivo era nato il quesito: “Io sono una brava sorella?”

Decise di indagare sui rapporti di parentela altrui, in modo da informarsi di quali fossero gli standard di un buon fratello/sorella.

Trovò Prometheus chiacchierare allegramente con suo fratello, Epimetheus. Erano quasi simili nell’aspetto, e quando ridevano e scherzavano parevano due gocce d’acqua. Ma di cosa stavano parlando?

-Ah…- ascoltò Hel -Parlano di quando Prometheus lo ha ucciso, dandogli dello stupido.-

Forse non era stato un buon fratello, ma almeno poi avevano fatto pace.

In seguito vide Quetzalcoatl assieme agli altre tre dèi mesoamericani. Tezcatlipōca si era morso la lingua dopo aver provato a pronunciare il nome di Acuecuyoticihuati, ed ora si rotolava a terra per il dolore. Quetz aveva le lacrime agli occhi per le risate, Acu per il dispiacere di aver fatto indirettamente male al suo amico e Tlaloc invece per la sua tristezza esistenziale.

Tutto sommato, anche senza legami di sangue, quei quattro erano come una famiglia.

-Certo…- pensò -Hanno anche distrutto la Terra per più volte…- però almeno erano contenti.

Tra le divinità fu soddisfatta dei risultati ottenuti, però, mossa da una profonda curiosità, provò a sbirciare anche nelle vite degli umani.

Scoprì così il passato di Mengele, e da quel preciso istante fu convinta più che mai di essere la migliore sorella che Fenrir potesse avere.

 

 

(Ninja Dies Twice)

“Shuriken Caricato! Castagnola Shinobi!” Era iniziata come semplice passione per i ninja.

Guy Fawkes trasformò il suo braccio sinistro in un lanciafiamme e mirò il manichino d’addestramento: “Getto Ardente!”

La differenza tra passione ed ossessione era stata superata facilmente dopo che l’inglese aveva scoperto un certo videogioco, e così era nato il desiderio di modificare il suo corpo per integrare le armi di quella affascinante casta di guerrieri.

Dopo aver fatto centro, portò le braccia al petto e un paio d’ali di acciaio gli sbucò dalla schiena, accompagnando la sua planata. Dopodiché, queste si chiusero a bozzolo attorno al suo corpo, rilasciando una nube di fumo nero.

“Mi servono più strumenti ninja!” Una volta diradata, lui era sparito.

Non ci volle molto prima che un mostro si presentasse alla porta di Masutatsu Oyama. Persino il grande karateka ne ebbe terrore: era ricoperto da una corazza di ferro da cui spuntava una lancia, due katane al posto delle braccia, il rotore di un aereo sulla schiena ed una dozzina di canne di armi da fuoco lungo tutto il corpo.

“Maestro! Eccomi, ora sono il ninja definitivo!”

 

 

(Servizi)

La Bestia Divina Enkidu, nella sua silenziosa permanenza tra gli altri dèi combattenti, passava molto tempo da solo. Non che si trovasse a disagio nella solitudine, però quella situazione non dipendeva soltanto da lui: gli altri non lo avevano mai avvicinato, né per un dialogo, né per compiere una qualche attività insieme.

Sapeva di essere un tipo schivo, e che senza Gilgamesh non appariva di certo come una figura rassicurante con cui intrattenere una conversazione, però ad un certo punto iniziò a nutrire una certa invidia verso il titano Prometheus.

Prometheus infatti, dall’essere disprezzato da tutte le divinità superiori, pareva molto popolare tra quelle che avrebbero combattuto nel Ragnarok. Era sempre chiamato a destra e a manca, e di buona leva si impegnava per risolvere i problemi di tutti con più efficienza possibile. Così, Enkidu iniziò a spiarlo di nascosto.

Vide il titano mettere a posto la stanza di Quetzalcoatl, spolverando e lucidando gli strumenti d’allenamento mentre ancora il piccolo dio li stava usando, non facendosi problemi a sollevarlo senza però interromperlo.

Dopodiché si premurò di spalmare l’antiossidante sulle catene di Fenrir e consigliare ad Hel quale fosse la maschera a due colori migliore per il suo viso.

Venne salutato cordialmente da Baphomet mentre gli accendeva tutte le candele nel suo tempio oscuro, e persino quando fece lo stesso con le candele dell’altare di Uriel, non venne incenerito all’istante dall’arcangelo. Il che, sembrava una grande impresa.

Passò anche in rassegna il divano su cui alloggiava Sun Wukong, ovviamente ronfando profondamente, e gli rimboccò le coperte facendo attenzione a non svegliarlo.

Dopo aver constatato che Hastur non necessitasse di niente, anche perché non si faceva mai vedere in giro, il titano dai capelli rossi si sedette in un angolo a riposare.

“Enkidu.” Chiamò, rivelando la posizione del suo osservatore nascosto. La divinità, nascondendo il forte imbarazzo dietro al suo viso duro, si fece avanti.

“La prossima volta…” Prometheus sorrise, asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. “… puoi aiutarmi anche tu, se ti va!”

 

Entrambi non sapevano però, che dal lato dei combattenti umani, Mordred e Boudicca si destreggiavano come un padre ed una madre casalinghi esperti.

 

 

(I Due Burloni)

Quando si annoiava, Guy Fawkes tendeva a fare degli scherzi che colpivano indiscriminatamente tutti gli altri combattenti umani.

“Aaah, finalmente è arrivato il libro che avevo ordinato!” Esclamò raggiante Dante, aprendo il pacco che gli era stato spedito. Sfortunatamente, ad attenderlo ci fu soltanto un’esplosione di cenere che gli annerì la faccia, bruciandogli anche le sopracciglia.

“Anche a te, eh?” Domandò Boudicca, lì di passaggio, con in bella mostra i capelli tirati all’indietro sfidando la forza di gravità, anch’essi neri di fuliggine assieme al suo volto. Entrambi poterono udire l’inglese ridacchiare, nascosto dietro un angolo.

Al contempo, dal lato degli dèi, anche Quetzalcoatl aveva simili modi di passare il tempo.

Infatti, quando vide Sun Wukong dondolarsi distrattamente su di un’altalena, decise di dargli una spinta con una folata di vento. Sfortunatamente, non sapendo controllare il suo potere molto bene, lo spedì così lontano da farlo sparire nel cielo, mentre l’urlo atterrito della scimmia si affievoliva sempre più.

 

 

(Teatrino Degli Dei)

“Questo è il più grande spettacolo di tutti i tempi!” Annunciò una voce, quando il sipario si spalancò.

La voce del narratore apparteneva ad un personaggio in scena, ovvero un agnellino nero dalle lunghe ciglia.

“La pecorella camminava per la foresta assieme al suo amico, il grande e possente toro.” Disse Baphomet, nascondendo male un tono divertito.

Enkidu apparve in scena con un ridicolo campanaccio da bestiame al collo, e palesemente controvoglia seguì il compagno.

“Ad un certo punto però, la pecorella ed il toro si persero! Faceva tutto così paura!” Si udì un frusciare di foglie tra le cime degli alberi.

“Per fortuna un amico era dalla loro parte: la scimmia, che della foresta faceva la sua casa!”

Piovve dal cielo Sun Wukong, il quale non perse tempo prima di ridere borioso: “Eccomi qui! Il Signore delle Scimmie, il bellissimo scimmiotto, il campione degli dèi…!”

“Tuttavia!” Lo interruppe Baphomet: “Anche la scimmia tremò di paura quando apparve il terribile e grande lupo!”

Non accadde niente.

“Ehm… il terribile e grande… lupo!” Fenrir apparve sul palco con la coda tra le gambe.

“Bravo! Bravissimo!” Esultava Hel dagli spalti, con le lacrime agli occhi per la commozione. “Sei il più grande attore del mondo, sono così fiera di te!”

A quell’affermazione la scimmia dorata si accigliò: “Ehi! Sono io il più grande attore di tutti i tempi, non lui!”

“Ti cedo volentieri il posto.” Dichiarò mogio mogio il lupo grigio.

“Non l’hai mai avuto!”

Però Baphomet aveva già ripreso a narrare: “In realtà il lupo non era cattivo, si era solo perso anche lui! Ma grazie all’aiuto di un uccellino…”

Quetzalcoatl volò sopra tutti loro, facendo appena in tempo a salutarli prima di schiantarsi contro una parete, bucandola.

“… trovarono la via d’uscita dalla foresta. Spuntarono allegramente in riva al lago, dove il polipo…”

“Io non ho più voglia di vivere dopo tutto ciò.” Commentò Hastur, a mollo nell’acqua.

“… ed il fagiano…”

“Questo è intollerabile!” Sbraitò Uriel, infiammando la sua spada ed iniziando a distruggere il palco “Noi esseri divini dovremmo essere regali, non dei buffoni che si dilettano in queste pagliacciate!”

“… festeggiarono tutti assieme! Evviva! Fine!” Concluse Baphomet con un grande sorriso, mentre Hel continuava ad applaudire alla velocità di un jet e Prometheus accorreva a soccorrerli, vedendo l’intera impalcatura crollare sugli attori.

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Capitolo 38
*** Chapter 38: The Beginning of The End (Of The World, As We Know It) ***


Angolo Autore (in cima al capitolo stavolta):

 Non vi rubo molto tempo prima della lettura, ma necessitavo dare la parola al nostro sponsor: Raid Shadow Legen- NO!

Scherzi a parte, se vi piace questa storia a base di torneo tra dèi ed umani, ed amate leggere di personaggi ben caratterizzati, combattimenti dinamici e descrizioni di uno che di scrittura se ne intende, allora date uno sguardo alla storia del mio amico Davide, qui ___bad_apple___: “Record of Ragnarok: Angel of the End”

(non per vantarmi, ma mi occupo della revisione dei capitoli e sono il primo consigliere del su citato scrittore, quindi permettetemi se ne vado fiero) Sul serio, leggetela!

Ok, now get back to action!



Chapter 38: The Beginning of The End (Of The World, As We Know It)

Dalla ferita, come per magia, il sangue si stava trasformando in bracieri fluttuanti verso l’alto. Era uno squarcio sulla pelle dove la spada di fuoco di Uriel aveva percorso una rozza linea, prima di perdere la stretta del suo portatore e ricadere al suolo assieme al suo cadavere.

Charlotte si sentì svanire, esattamente come la sua essenza stava bruciando via dal suo corpo. Faceva dannatamente più male della morte, ma non era per questo che piangeva.

La risata di Merlino la straziava più di tutto, e del colpo di spada dell’arcangelo che aveva appena ucciso.

“Tutto come i miei piani!” Aveva appena finito di gracchiare il mago, coprendosi la faccia con le mani.

“Non dovevi farlo… Charlotte.” Dante digrignò i denti, come se provasse la sofferenza della ragazza.

Lei non aveva fatto nient’altro che evitare che l’ultimo baluardo di speranza per l’umanità perdesse in battaglia, ma a quanto pare, persino quel gesto che aveva creduto così sincero non era nient’altro che la volontà del mago impiantata in lei. Voleva fare la cosa giusta, eppure ciò che desiderava Merlino non era affatto giusto.

“No.” Disse soltanto la figura ammantata, chiudendo le palpebre. “Doveva eccome. È grazie a questo piccolo sacrificio che ci muoveremo passo dopo passo verso il finale di questa storia.”

Il poeta non aveva idea di cosa stesse dicendo, né di cosa intendesse con “piccolo sacrificio”. Charlotte stava morendo davanti ai loro occhi, siccome Uriel, prima di spirare, l’aveva colpita con la sua spada.

Mordred corse a soccorrerla, nel mentre lanciando uno sguardo preoccupato anche a suo padre. Trovò Arthur pressappoco incolume, il quale gli fece gesto di non pensare a lui intanto che recuperava le forze.

“Volevo solo essere un’eroina… e almeno una volta vedere il risultato delle mie gesta.” Sussurravano le labbra della francese, stesa tra le braccia del Cavaliere in Nero e con uno sguardo assente, perso nell’immensità di un cielo tempestoso.

“Ma è difficile rimanere in vita e combattere per qualcosa di così grande come la pace… se poi, per ucciderci basta poco. Forse è per questo che noi umani, a differenza degli dèi…” Un tremulo sorriso si dipinse sul suo volto, non più immacolato a causa delle lacrime che scorrevano lungo le guance rosse.

“… quando compiamo qualcosa di grande, ci sentiamo così speciali ed importanti, e veniamo ricordati nella storia.”

Quando le divinità udirono queste parole, non poterono non rimanerne colpiti.

Nella loro assoluta onnipotenza, si erano sempre chiesti perché gli umani gioissero e ringraziassero così tanto piccole conquiste terrene, mentre invece avevano smesso di lodare le loro creazioni essenziali.

Il cielo, la terra, la vita: poteva tutto ciò passare in secondo piano, di fronte ad una semplice vittoria?


“Perché… perché stai ridendo?” Tutto venne interrotto da una voce, la quale rimbombò nell’aria quanto nelle fondamenta dell’arena, quando questa tremò.

Merlino era rimasto solo nella sua tribuna e così, guardando davanti a sé, dalla parte opposta dell’arena poté vedere materializzarsi da una pozza di fango e catrame la titanide Gaia.

“Non hai vinto tu, stavolta!” Gridò, mentre i suoi capelli sferzavano ovunque come tentacoli neri. L’ammasso di pericolosità che emanava era malsano, tanto quanto erano iniettati di sangue ed odio i suoi occhi.

“Per te avrebbe vinto Arthur, ed invece Charlotte ha interrotto lo scontro, uccidendo Uriel! Dimmi cosa c’è da ridere!!” Dopo aver aumentato ancora d’intensità il volume della sua voce, qualsiasi spettatore fu costretto a tapparsi le orecchie, mentre fremeva per la paura.

Infine, il terremoto si placò. Gaia posò le mani sulla balaustrata, chinando il capo per nasconderlo tra la matassa dei suoi capelli.

“Infatti…” E quando tirò su la testa, mostrò un volto contorto in un sorriso mostruoso: “Hai perso!”

I suoi occhi erano strizzati in alto dagli zigomi, i quali si erano allargati per far spazio all’apertura ai limiti del possibile della sua bocca ghignante, creando ombre e rughe lungo i lati del viso.

In quella maschera di orribile soddisfazione, la titanide gioiva come mai aveva fatto nella sua vita.

“Non hai vinto tu e non vincerai tu, perché dopo una simile scorrettezza il punto per questa battaglia non ti potrà mai e poi mai spettare di diritto! Piuttosto… ce lo aggiudicheremo noi dèi, arrivando ad un totale di cinque vittorie contro le vostre tre! Non c’è bisogno che ti spieghi io che ormai non hai più niente da ridere, siccome sei spacciato!”

Ed a quel punto scoppiò lei stessa in una stridula risata, pari allo stridio dell’acciaio o al fischio del vapore.

“M-Ma… che significa?!” Sussultò confuso Prometheus, tra i tanti confusi dopo quella dichiarazione. “Gaia e Merlino non erano alleati?”

Eppure adesso, davanti agli occhi di tutti, Gaia stava ridendo della disgrazia del suo precedente alleato, festeggiando allo stesso tempo per la vittoria che stringeva in pugno.

 

“Non ridevo per quello, sta tranquilla.” La spiazzò tuttavia il magus con un sorrisetto arrogante.

Dopodiché volse il suo sguardo verso il basso, tra le tribune dell’umanità, e più nello specifico tra quelle dei combattenti.

“E non mi importa nemmeno che tu mi abbia tradito. Questo perché i miei desideri si possono considerare avverati grazie… a lui!”

Venendo centrato dagli occhi di tutti i presenti in quell’arena, l’uomo ammantato si lasciò sfuggire uno sbuffo, segno di quanto poco fosse contento che la sua copertura fosse già andata a rotoli.

Merlino proseguì, senza più nemmeno guardare la titanide: “Sai Gaia, la vittoria di Arthur mi sarebbe servita per un motivo specifico: richiamare tutta la speranza dell’umanità! Nel momento dello spareggio e dello scontro finale, avrei usato la loro ambizione e volontà di sopravvivenza per sopperire all’unica evocazione che non ero mai stato in grado di compiere… ovvero l’ultimo combattente umano di questo torneo…!”

In contemporanea, il mantello cadde al suolo.

Zarathustra!

Venne rivelato un giovane uomo dai lineamenti armoniosi ed immacolati come quelli di un ragazzino, e che infatti corrucciava il suo volto molto espressivo per rivelare le sue più genuine emozioni.

Aveva due occhi che parevano perle, incorniciati da lunghi capelli, i quali proseguivano anche lungo la sua schiena, divisi in due code grazie a degli anelli dorati. La chioma era di un colore scuro indefinito, forse blu, viola, o così scuro da sembrare nero pece, tuttavia in questo colore indefinito si scorgevano bagliori lucidi, dando l’impressione di un cielo notturno puntellato di stelle.

Il tema stellato veniva ripreso anche sottoforma di tatuaggi sul suo corpo, coperto appena da una tunica porpora aperta sul davanti, e sulle gambe da pantaloni sirwal con un mantello arrotolato lungo la vita.

“Sai… è davvero scortese questa tua presentazione.” Anche se una frase del genere sembrava del tutto sconveniente, le iridi del profeta iraniano brillarono subdolamente quando parlò, serissimo.

“Come hai fatto?” Continuò imperterrito Merlino, squadrandolo come un ossesso “Come hai fatto ad arrivare fin qui prima che ti evocassi con tutto il potere dell’umanità?”

Zarathustra a quel punto fece spallucce, mostrando un’espressione del tutto inadatta all’importanza che stava assumendo in quel punto critico degli eventi.

“Semplice: siccome non ne potevo più di aspettare, mi sono evocato da solo!”

A quel punto persino il magus non seppe come proseguire, ed ammutolì per lo shock. Non fu sicuro nemmeno di aver sentito bene, fin quando l’altro non riprese a parlare:

“Merlino caro, tu credi di possedere grandi doti di predizione solo perché riesci a guardare avanti nel futuro di qualche millennio?” La sua bocca si spalancò in un sorriso sbarazzino, infantile.

“Bhe, sorpresa sorpresa: non è niente in confronto a quello che so fare io! Questo spiega come mai tu non sia riuscito a considerare la mia apparizione proprio adesso… quindi è inutile che ti dai tante arie.” Parlando come se stesse litigando con un suo amico, il nuovo arrivato stava lasciando di stucco tutti i presenti, i quali assistevano alla cosa più incredibile da quando era iniziato il torneo.

“Ho predetto questo momento prima ancora della mia nascita, e per tanto mi sono preparato…” Stavolta il bagliore nei suoi occhi divenne più malizioso. “Ho volto le Sefirot a mio comando proprio per scappare al tuo controllo, forgiandomi un “sistema di protezione” che solo io potessi sbloccare per portare la mia anima in questo torneo liberamente.”

Alla parola “Sefirot”, Merlino sgranò gli occhi. Il suo sorriso vittorioso era ormai un lontano ricordo.

“Sto parlando dell’Undicesima Sefirot: Dahat, la Sintesi di Tutte Le Sefirot!” Proclamò Zarathustra, distendendo le braccia: “Ovvero tutto ciò che mi serve per sabotare il tuo piano di distruzione del Creato… tu che sei il Male e la rovina sia degli umani, che dell’ordine tra il divino ed il mortale…”

Merlino era pietrificato dallo sgomento, tuttavia sul suo viso pulsavano venature nere per la rabbia che si contorceva al di sotto della pelle come un serpente affamato. Strinse i pugni e lasciò che la sua vera natura, ora che era stata svelata, confluisse in un’aura miasmatica di morte, infettando l’aria circostante.

“… Angra Mainyu!”

 

Quel nome giunse a molti come nuovo, tuttavia non furono in pochi a dover rimuginare e bisbigliare in un mormorio che crebbe sempre più agitato, ed infine in preda al panico.

Dèi e umani parevano pronunciarlo con paura, come se fosse un qualcosa di troppo pericoloso anche solo da rappresentare con la parola, pena la loro vita. Dopotutto, come era risaputo, non si poteva prendere con leggerezza il nome del Male incarnato.

“Come già detto…” Spiegò intanto Baal a Ptah, riprendendo un discorso che lo stesso Signore dei Demoni aveva anticipato ai tempi dell’ottavo scontro: “Alla sua nascita Merlino, o come è giusto chiamarlo, Angra Mainyu, era già destinato a distruggere il Concilio degli Dèi. Gli umani non vedevano in questa minaccia un pericolo alla loro esistenza, ed anzi vollero adorarlo proprio perché rappresentava una scappatoia dal timor di Dio che da sempre li rendeva impotenti…”

“E cosa centra quel Zarathustra con tutto ciò?” Domandò la dea della creazione egizia.

“Si dice che con le sue promesse Angra Mainyu abbia inseminato nell’uomo la vanagloria e la hybris che tanto hanno fatto infuriare gli dèi, costringendoli ad infierire tremende punizioni su di loro, senza mai però poter toccare il diretto responsabile. Per la prima volta il mondo stava raggiungendo il disastro per colpa di una ribellione degli umani contro gli dèi… quando infine arrivò lui.” Il demone rosso guardò Zarathustra, il quale era in piedi a schiena dritta e con gli occhi puntati sul suo nemico mortale.

“Zarathustra professò la pace e l’armonia tra gli umani, salvandoli da quella che sarebbe stata la prima distruzione totale della razza umana, e senza nemmeno bisogno di un torneo per averne la certezza.”

“Quindi ha salvato il culo ai mortali, sventando il piano di Merlino!”

“Esattamente, ed ora invece…” Baal assottigliò lo sguardo, preparandosi ad una qualsiasi reazione da parte del magus, o meglio, del principio del Male.

 

“Allora è così, lo hai ammesso.” Sibilò Angra Mainyu tra le labbra quasi serrate. La sua sagoma era diventata irriconoscibile, avvolta com’era da una coltre di oscurità densa ed oleosa, lasciando visibili solo due occhi rossi scarlatti.

“Sei qui per scontrarti con me e porre fine una volta per tutte a questo nostro conto in sospeso… bene! Perché il mio obbiettivo, una volta che fossi riuscito ad evocarti, sarebbe stato proprio vendicarmi di avermi messo i bastoni fra le ruote fino ad oggi!”

Mortali ed immortali rimasero sconvolti da quella dichiarazione, in primis Prometheus e Gaia, i quali per la prima volta scoprivano i veri intenti del magus.

“Quindi tu volevi solo riuscire ad evocare Zarathustra… per ucciderlo?” La titanide madre terra non sarebbe mai riuscita ad immaginare un piano così deviato e perverso, al costo di sacrificare l’intera umanità.

Anche Hel, la regina dei morti, comprese allora di quale potentissima anima persino lui facesse fatica ad evocare. E tutto questo solo per una risoluzione dei conti, ai confini del creato.

“Nah! Volevo solo darti fastidio una volta per tutte, niente combattimento tra me e te.”

Ciò che però Zarathustra disse, causò alla mascella di tutti i presenti un comico dislocamento fino al suolo, spiazzando in modo inimmaginabile l’atmosfera di cruda e fredda tensione creatasi.

“EH?!”

E più di tutti Angra Mainyu sussultò: “EEEH?! C-Ch-Che cosa significa, SCUSAMI?!” con gli occhi fuori dalle orbite.

Il profeta ridacchiò tra sé e sé, indifferente: “Ma sì, non bisogna arrivare a tanto! Il mio era un semplice scherzo, uno tra tanti in queste migliaia di anni. Piuttosto…”

E ritornò sul suo viso un’aria molto più curiosa, nel frattempo che si sgranchiva le braccia con dello stretching: “Io voglio il sacrosanto decimo scontro che era stato promesso!”

Quella affermazione, soprattutto in seguito a quanto era stato tirato in ballo in così poco tempo, fu a dir poco incredibile.

La personalità di Zarathustra era esplosiva ed imprevedibile, come un uragano che rovesciava qualsiasi aspettativa per proporre con drammaticità o pressappochismo qualcosa di importantissimo, dettato dalla sua mera emotività.

“C-Come… che vuol dire decimo scontro?” Gaia ripeté quelle ultime due parole come un mantra, cercando di carpirne il senso fino all’esasperazione.

“Questo non è possibile!” Strillò infine, con le mani tra i capelli “Che sia stata opera tua o di Merlino, l’intervento di Charlotte è stata comunque una scorrettezza! Il punto spetta a noi dèi!”

“No.” Disse soltanto il profeta, saltando giù nell’arena di peso.

Sotto gli sguardi confusi di tutto l’universo, avanzò verso Arthur e Mordred e guardò Charlotte. Frammenti del suo corpo svanivano di secondo in secondo, tramutandosi in luce tra le dita delle mani dei cavalieri che la reggevano. Erano entrambi in lacrime, entrambi troppo stanchi per soffrire ancora e per patire un’altra guerra del genere.

Di fronte a tutto ciò, il profeta non poté far altro che congedarli con le mani sulle loro spalle, ed una frase sussurrata: “Grazie.”

Il cadavere della quinta combattente del Ragnarok si era dissolto, quando ormai i due si trascinarono a fatica fuori dal campo di battaglia.

“Cosa diavolo intendi fare?! Non puoi combattere perché non vi meritate alcuno scontro!” Gridò Gaia, rivolgendosi di nuovo ad un qualcuno che non aveva orecchie per le sue proteste.

Si sedette per terra a gambe e braccia incrociate, assumendo un broncio capriccioso: “No, io sto qua.”

 

La titanide non era ancora sul punto di arrendersi, ma una voce dal cielo pose fine alla sua inutile battaglia:

“Tecnicamente…”

Gaia tremò: non c’era nessuno al di sopra di lei, siccome le tribune degli organizzatori del torneo erano poste più in alto di tutte le altre nel colosseo. Come era possibile allora che una presenza incombente sulla sua testa la schiacciasse come una pesante pressione atmosferica?

“Si potrebbero calcolare entrambi gli interventi di Charlotte Corday come infrazioni del regolamento… se solo nel regolamento di questo torneo fossero state previste delle sanzioni da applicare a simili casi. Questo non è stato fatto, e quindi lascia molto a desiderare la decisione di assegnare punti dopo delle conclusioni inaspettate degli scontri.”a

Quando le nuvole si spalancarono, formando come delle fauci che parevano pronte ad inghiottire il mondo sottostante, il sole perfettamente allo zenit squarciò l’oscurità. Eppure, al centro della sua luce proiettata sul campo di battaglia, un’ombra stava discendendo lentamente.

“A questo punto mi sento di contraddire certe decisioni di assegnare punti, in merito ad interventi al quanto inaspettati. Come ad esempio l’uccisione di Quetzalcoatl al seguito dell’assegnazione della vittoria degli dèi, il tentativo di assassinio di Dante Alighieri dopo la resa dichiarata di Hastur, ed ancora, la morte di Uriel previa alla conclusione del suo combattimento per mano di un intruso… per tanto sarebbero da annullare quei punti assegnati… quindi meno due per gli dei, e meno uno per gli umani.”

Quella figura si inforcò gli occhiali sul ponte del naso, facendone risplendere le lenti per la luce che lui stesso emanava. Fatto ciò, terminò la sua rassegna:

“Però io credo che così si perderebbe lo scopo originario di questo torneo, ovvero di far combattere fino alla morte umani contro divinità! Ma allora cosa rappresenta la resa di Charlotte Corday, se poi è riuscita nell’intento di eliminare uno degli déi più forti del creato?”

Atterrò infine al centro dell’arena.

“Per tanto, propongo di annullare qualsiasi squalifica, assegnando un punto all’umanità per l’uccisione messa a punto da Charlotte Corday, e rendendo non valido il risultato del nono scontro. Ciò porterebbe umani e dèi ad un pareggio di quattro vittorie, quindi.”

Ad un certo punto, superata la sorpresa iniziale, i presenti si resero conto di un dettaglio non indifferente:

-Ma questo qui, nel mentre ci riempie di paroloni, sta rigirando le regole a favore suo?!-

 

“Tu…” Balbettò la titanide, la quale non aveva scollato gli occhi di dosso da quella figura discesa dal cielo, e che proprio in quegli occhi anelava un viscerale panico.

“Tu… sei arrivato…?” Non riusciva a crederci.

Come era giù successo, furono in pochi a riconoscerlo, ma coloro che ci riuscirono rimasero senza fiato: si trattava di Zeus, Nix, Herebus, Odino, Ptah e Baal, ovvero tra le divinità più antiche che avessero presieduto in passato il Concilio degli Dèi.

“Ma chi è questo esibizionista qui?! E che vuole?!” Sbraitò una divinità, ignorando chi avesse davanti. Prontamente alle sue spalle si manifestarono due giovani, prendendolo sottobraccio e con le loro bocche praticamente attaccate alle sue orecchie.

“Oi, oi, bastardo…! Hai già un piede nella fossa!” Ringhiò il maschio, con un’acconciatura a pompadour e vestiti tipici del banchō, lo stereotipato teppista giapponese.

“Non osare parlare male di nostro padre, o ti gonfiamo di botte!” Terminò per lui la sua controparte femminile, con le labbra rigonfie a becco d’anatra ed una gonna scolastica allungata come una sukeban, anch’essa stereotipica teppista giapponese.

Per la salvezza del dio che era stato preso di mira, colui che aveva attirato tutte quelle attenzioni rivolse ai due un gesto liquidatorio con la mano, senza nemmeno guardarli.

“Izanagi, Izanami... comportatevi bene.” Disse, reciso.

Al che, i due dèi progenitori del Giappone si sedettero stravaccati, obbedendo ma pur sempre ridacchiando con aria di chi non riusciva a contenere la trepidazione.

“Dai paparino, falli tutti neri!”

“Sto solo facendo una proposta, abbiate pietà di me e statevi calmi.” Sbuffò lamentoso quell’altro, per poi portarsi una mano alla fronte, disperato: “Una volta tanto che esco con i miei figli e già hanno portato il mio stress a livelli inverosimili… ecco perché per miliardi di anni non ho sentito la loro mancanza.”

Le lenti illuminate dei suoi occhiali gli rendevano gli occhi imperscrutabili, e così l’unico dettaglio degno di nota sulla sua faccia erano i corti capelli bianchi e fumosi che gli discendevano lungo le tempie.

Indossava una giacca haori color acquamarina, in tinta con la gonna-pantalone verde scuro che gli copriva le gambe, fino ai sandali geta in legno. Ciò che però rendeva il suo aspetto senza dubbio stravagante era un agglomerato di vapore, luce ed energia sconosciuta che si attorcigliava dietro le sue spalle, formando un semicerchio che inscriveva la parte superiore del suo corpo.

Dopo essersi ripreso con un profondo sospiro liberatorio, volse lo sguardo verso colei che lo aveva interpellato.

“Gaia.” Disse soltanto, richiamandola all’attenzione.

“Cosa ci fai tu qui?” Ripeté lei, persa nei suoi pensieri e con lo sguardo fisso nel vuoto “E cosa stai cercando di fare? Tu non puoi… non hai più alcun diritto di prendere decisioni…”

“Tu dici?” Dopo essersi inforcato gli occhiali con il dito medio, il dio sollevò il capo verso di lei ed inglobò il suo riflesso in due occhi trasparenti come l’aria.

“Eppure, in quanto decimo sfidante, penso di essere in diritto di scegliere cosa fare del turno che mi è stato messo a disposizione.”

Il modo in cui parlava era distaccato e meccanico, come se fosse un attore tutto impostato che leggeva il suo copione, tuttavia lasciava sempre trasparire una fortissima convinzione in ciò che diceva.

“Quello è il decimo sfidante?!” La rivelazione colpì chi non l’avesse ancora capito come un fulmine a ciel sereno.

“Quindi è… Amenominakanushi!

 

“Oh oh oh!” Ridacchiò Zeus, ritornato nel suo atteggiamento da vecchietto placido. “Erano miliardi di anni che non si faceva vedere.”

Odino, al suo fianco, annuì: “Dalla creazione di tutto quanto, per esattezza… non ci sono dèi che possano testimoniare di esser nati prima di lui. Per questo è stato il primo presidente nella storia del Concilio degli Dèi.”

L’altro continuò a ridere, stavolta però facendosi più malevolo: “E fa sempre piacere rivederlo… questo però non vale per Gaia, che se non ricordo male proprio dall’origine dei tempi con lui ha un conto in sospeso.”

Intanto le altre divinità organizzatrici come Baal e Ptah si stavano guardando l’un l’altra, indecisi sul da farsi.

“Chaos.” Ameno si rivolse d’un tratto al vortice di confusione, anch’esso cardine degli dèi. “Tu che dici? Qual è il tuo parere?”

Ma come al solito non ci fu risposta, nell’eterna indeterminazione di Chaos.

“E certo, ti pareva. Sei proprio un bell’amico su cui contare…” Sospirò rassegnato l’altro, come se si conoscesse da una vita con l’origine stessa della creazione.

“Allora mi dovrò rivolgere a qualcun altro. Chi comanda qui, ormai?”

Il signore dei demoni e la dea che aveva creato l’Egitto si fecero avanti, cercando in tutti i modi di non palesare la loro titubanza.

“Ehm, sì… noi crediamo…” Ptah cercò il consenso dell’altro con una fugace occhiata “Che tu non sia costretto a farlo.”

“C’è anche questa volta qualcosa sotto.” La aiutò Baal “Se hai assistito al resto del torneo, saprai che Gaia e Merlin-ehm, Angra Mainyu, sono soliti a truffi ed ingann-…”

“Non ho idea di cosa stiate parlando, io sono appena arrivato e non so niente di ciò che avete fatto.” Lo interruppe il Dio Primo con indifferenza.

“So soltanto che sono stato chiamato in causa per battermi nell’ultimo scontro. Ho compreso appena che si tratti di decidere le sorti dell’umanità, giusto?” E percorse con lo sguardo tutte le tribune riempite da esseri umani che lo guardavano confusi.

“Quindi è questa l’umanità…” Mormorò a bassa voce, rimuginando.

“Non farlo, ti prego!” Tuonò la voce di Prometheus, il quale si era sporto sulla balaustra per richiamare l’attenzione del bizzarro, quanto eccentrico, dio.

“Non devi dare adito a questa inutile battaglia per portare la distruzione dell’umanità! Otterresti solo ciò che quei due vogliono!”

Amenominakanushi fu zittito per qualche secondo soltanto, per poi replicare storcendo la bocca:

“Ma a me non interessa distruggere l’umanità. Voglio solo fare ciò che io voglio, ovvero prendere parte al combattimento per il quale sono stato nominato. Ora scusami… ehm, qual è il tuo nome? Comunque, non hai idea della strada che mi sono fatto per arrivare fin qui! Dirmi di tornare indietro ora mi sembra inutile, non l’avete ancora compreso?”

Sempre dall’arena a quel punto scoppiò una fragorosa risata.

“Sei fantastico!” Piegandosi in avanti per le risate, Zarathustra sembrava molto divertito dall’apparizione di quel nuovo sfidante. Raddrizzandosi con uno scatto di reni, balzò in piedi ed atterrò sui talloni con una posa rilassata.

“Voglio proprio battermi con te!”

“E bhe…” Rispose l’altro, notandolo per la prima volta “… è il motivo per cui siamo qui, quindi mi pare ovvio.”

In quel così confuso momento della storia, sia umani che dèi, e generalmente tutti gli spettatori dell’universo, compresero quanto poco fossero importanti questioni come intrighi, destino e regole per quei due.

Sia Amenominakanushi che Zarathustra, per quanto si nascondessero dietro una coltre di buone intenzioni, o non lo ammettessero direttamente, in realtà volevano solo una cosa: soddisfare il loro bisogno di menare le mani nel final showdown per antonomasia.

 

“Quindi il decimo scontro si disputerà comunque!” Il dio del creato lanciò un fischio, e alle sue spalle i suoi figli scattarono sull’attenti.

“Prendi, padre!” E gli lanciarono qualcosa di enorme, grande il doppio di lui.

Ciò nonostante riuscì senza problemi ad afferrare al volo e successivamente a far mulinare quella gigantesca lancia. Aveva un’asta sottile e intrecciata da scanalature raffiguranti nuvole, carpe koi e macchie che sembravano isole. La lama a filo unico la rendeva a tutti gli effetti una naginata, ed al di sotto di essa era attorcigliata una collana con diademi di giada verde lucente.

“È la prima volta che vediamo papi con la Amenonuhoko (Lancia Gioiello del Cielo)!” Strepitarono dall’eccitazione Izanami ed Izanagi, proprio come due fan davanti al loro idolo.

Proprio quella lancia, utilizzata da loro per creare il Giappone dal mare amorfo del mondo all’inizio dei tempi, era stata donata da colui a cui adesso era ritornata. Eppure, per quanto non l’avessero mai visto utilizzarla, compresero all’istante che solo nelle sue mani poteva usufruire del pieno potenziale.

“Tu combatti disarmato, Zarathustra?” Domandò il dio, dopo aver saggiato peso e velocità dell’arma che gli era tornata tra le mani dopo tempi immemori.

Il suo avversario si stava ancora sgranchendo le articolazioni, distratto.

“Credo di sì, non vi viene in mente nulla, Amenominaka…” Si interruppe, corrucciato. “Senti, hai un nome troppo lungo: facciamo che ti chiamo Ameno e basta!”


“Ma questi due stanno facendo tutto da soli?!” Strillarono allora Adramelech e St.Peter, i due annunciatori che erano stati messi in secondo piano da tutto quel conseguirsi assurdo di eventi.

Qualcuno però scelse di intervenire, saltando nell’arena esattamente tra i due imminenti sfidanti.

Si trattava di sei figure, le quali a coppie di tre piombarono davanti a Zarathustra ed Amenominakanushi.

“Non farlo, o potresti portare all’estinzione dei tuoi simili!” Il titano Prometheus puntò il dito contro l’umano, ragguardandolo con tono categorico.

Fermarlo, per lui come per Sun Wukong, al suo fianco, era un bisogno impellente prima del collasso dell’armonia che tanto avevano cercato di preservare.

Hel, dalla distanza, guardò preoccupata suo fratello Fenrir unito a quei due per arrestare l’avanzata di Zarathustra. Il Lupo del Ragnarok era una delle creature più potenti e temute persino tra gli dèi, ciò nonostante era rimasto cieco e sordo dopo il settimo scontro.

“Vuoi capirlo o no che si può evitare tutto questo?! Non combattete, piuttosto alleiamoci per sconfiggere quei due!” Propose invece Dante al dio. Il poeta era ancora tremendamente scosso dalla morte di Charlotte, ed era prossimo ad esplodere dalla rabbia se tutto ciò per cui si era sacrificata la ragazza fosse stato reso vano.

I due decimi combattenti valutarono le proposte, dopodiché:

“Nah, non sono così stupido da correre questo rischio. Non perderò!” Sorrise Zarathustra, tirando dritto con le mani in tasca.

“Se pensi che qualcuno del genere mi impensierisca, allora hai sbagliato.” Rispose secco Ameno, scostando Dante e proseguendo per la sua strada.

In quel momento, i sei dèi e umani vennero così tanto oltraggiati da non riuscire più a contenere la loro rabbia.


Scorching Bright Light!” Il pugno di Prometheus si illuminò di luce propria e percorse un arco nell’aria, piantandosi nella faccia di Zarathustra con un gancio dalla potenza di una meteora.

O meglio, sarebbe successo questo se il più giovane non avesse assecondato il movimento del suo braccio, quindi piegando la testa per lasciarsi appena sfiorare dalle nocche incendiate. Dopodiché, sfruttando l’inerzia del movimento ondulare, poggiò una mano sulla spalla distesa del titano e con l’altra afferrò il braccio dal polso, che ormai stava perdendo inerzia.

“Sta calmo!” Gli disse, mentre piegava il braccio di Prometheus per continuare il suo stesso attacco e ridirigerlo contro di lui come se glielo avesse letteralmente lanciato contro.

Il titano venne travolto dall’esplosione dello Scorching Bright Light, il quale, come una cannonata, fu sufficientemente forte da sollevarlo da terra e scagliarlo all’indietro.

“Brutto bastardo! Non capisci proprio niente tu, eh?!” Zarathustra avvertì questa voce alle sue spalle appena una frazione di secondo dopo.

Sun Wukong si era materializzato dietro di lui grazie all’estrema velocità della sua nuvola dorata Kinton, pronto a falciargli la testa con un colpo di bastone. Il profeta però non si distrasse, e notò al contempo come attorno a sé si stesse serrando una gabbia formata dalle catene di Fenrir.

“Secondo me invece siete stati voi a non comprendere il sacrificio di Charlotte.” Al che saltò all’indietro, interrompendo lo Scimmiotto con una testata nel naso ed evitando di venir imprigionato.

Dopodiché prese Sun Wukong allungando una mano dietro la testa, mentre con l’altra afferrò un anello di catena. Facendo forza su entrambe le braccia, riuscì a tirare verso sé il Lupo, e quando fu a portata di tiro gli abbatté addosso lo Scimmiotto, facendo cozzare i rispettivi crani prima di incassarli nel pavimento.

 

In contemporanea, Dante si era scagliato su Amenominakanushi armato della sua falce.

Invocò: “Forma del Paradiso!” e ali da angelo gli spuntarono sulla schiena.

Grazie alla Previsione sapeva che sarebbe riuscito ad affondare il suo colpo più potente, ed anche se l’avversario fosse stato in grado di contrattaccare, con il Contrappasso gli avrebbe restituito ogni colpo.

“Candida Rosa della Fine del Mondo!”

Ma la falce impattò contro la fronte del dio scaturendo un fiume di energia, senza però riuscire a penetrargli la carne. Questo perché, come il poeta si accorse un secondo troppo tardi, la punta della lama era stata fermata dal ponte degli occhiali indossati dall’altro.

“Questo attacco serve per danneggiare il tuo nemico in base ai peccati da lui commessi, non è così?” Attraverso il suo stesso riflesso nelle lenti di Ameno, Dante vide il proprio volto impallidire. Gli era stato letto nel pensiero.

“Ma io non ti ho fatto nulla, sei tu che vuoi interrompermi.” 

E così il poeta si ritrovò nella traiettoria di qualcosa di enorme: una pressione mastodontica che oscurò il sole e lo inghiottì nella sua ombra. Era troppo tardi quando comprese di essere in rotta di collisione con un attacco mortale scagliato da Amenominakanushi, e che mai più avrebbe rivisto la sua amata Beatrice.

Ci fu uno scintillio sulla lama dell’Amenonuhoko, e poi il buio.

Vlad vide Dante stramazzare al suolo, e mantenendo il sangue freddo issò la sua grande lancia sul fianco, piegando le ginocchia per preparare la carica.

Il suo sguardo andò in contro a quello del suo bersaglio, il quale tuttavia non si sentì affatto minacciato.

“È una lancia molto bella.” Commentò senza doppi fini, nel momento in cui venne raggiunto e travolto dalla pressione generatasi all’urlo di Vlad:

“Kazıklı Voyvoda!”

“Ma per quanto tu sia forte, il suo peso la rende inadatta a sostenere a pieno l’affondo se posizionata attorno al tuo baricentro. Consiglierei una posizione sopraelevata, per esempio da quelli che voi chiamate cavalli… già sembrerebbe essere fatta apposta. Poi io non ne so nulla, eh, ho solo detto ciò che vedo.”

Tuttavia, per quanto lo scatto del combattente fosse stato travolgente nel suo impareggiabile affondo, la punta della sua lancia era rimasta in stallo, pietrificatasi a contatto con quella di Amenominakanusi. A dirla tutta, però, l’Amenonuhoko era sorretta parallela al terreno solo tra il dito indice e medio del suo utilizzatore.

Proprio quando Vlad si destabilizzò per lo shock, alla perdita di concentrazione si sommò quella dell’equilibrio: semplicemente ruotando il polso, Ameno aveva sottratto la sua lancia allo stallo per sbilanciarlo in avanti. Questo diede dimostrazione di quanta poca forza il dio avesse impiegato finora, e allo stesso tempo di quanto controllo muscolare possedesse.

Salvarsi era smisuratamente fuori portata per l’umano, il quale infatti venne raggiunto da un colpo alla nuca. Il sipario calò anche per lui, lasciando soltanto un ostacolo davanti al Dio Primo.

Masutatsu Oyama era immobile come una statua, assumendo una guardia frontale per poter piazzare i piedi ben saldi per terra, ed assicurarsi l’avversario davanti a sé. Insomma, si aggrappava a poche certezze per non perdere il controllo, e quindi anche se stesso.

Lui era stato il primo combattente di quel torneo, e a differenza degli altri aveva avuto più tempo per tornare in forze ed assimilare i rischi di un duello contro un dio. Ciò nonostante, colui che aveva davanti non emanava la stessa aura dei suoi nove predecessori.

Era diverso: in un denso liquido scuro di perversioni, sadismo e vanagloria, quella divinità in particolare spiccava all’attenzione come una goccia bianca, per niente diluita e imprescindibilmente costante.

-Forse proprio per questo mi terrorizza…- Doveva controllare la respirazione o sarebbe morto, pensò.

Ovviamente Ameno non poteva non averlo notato.

“Allora, non c’è bisogno di-!“

“Bodishattva Fist!”

Il pugno fulmineo del karateka squarciò l’aria, eseguendo un perfetto attacco da una posizione rigida: era come un vulcano che di colpo aveva spalancato il suo cratere per eruttare tutta la sua piena potenza.

Tuttavia il Dio Prima si mosse in contemporanea, estendendo un braccio in avanti e flettendo le dita della mano. Con esse, ferree ma al contempo così precise e delicate, intercettò il pugno di Masutatsu e ne afferrò il dito mignolo.

In questo modo l’inerzia del movimento si rivolse contro il karateka, costringendolo a torcere il proprio braccio e a nullificare completamente la propria potenza. La Mano Divina sudò freddo: la presa alle dita era stata eseguita così perfettamente, da eclissare qualsiasi altro artista marziale avesse incontrato ed affrontato nel corso della sua vita.

Eppure non era finita lì.

L’arto del dio si gonfiò di colpo come se qualcuno ci avesse soffiato dentro dell’aria, un palloncino di carne e muscoli che brillava dall’interno. Ciò che si espandeva all’interno del suo braccio, Ameno lo comprese all’istante, era stato causato dal contatto con Masutatsu.

Il karateka non aveva lo sguardo di qualcuno che si era arreso, ma anzi, al pieno delle sue rinnovate forze, ringraziò ancora una volta la Sefirot Gevurah per averlo salvato. Da lì in avanti il corso degli eventi si sarebbe potuto diramare in due opzioni: nel primo caso, se Ameno si fosse mosso per sciogliere la sua stessa presa, l’esplosione si sarebbe innescata nel suo braccio; nel secondo caso, se fossero rimasti in contatto, il potere della Sefirot avrebbe contagiato anche il resto del corpo del Dio Primo per poi farlo esplodere.

In entrambi i risultati, Amenominakanushi non sarebbe uscito illeso da quello scontro.

 

Eppure, al contrario di quelle previsioni, l’essere divino diede prova ancora una volta della sua nonchalance e prontezza di riflessi: semplicemente roteando il braccio e piegando il gomito ad angolo retto, fu capace di rovesciare il suo avversario, costringendolo in ginocchio con un movimento sinuoso senza nemmeno un briciolo di forza. Poggiando il palmo contro quello del suo avversario, scaricò tutta l’energia accumulata sotto pelle in Masutatsu, ridirigendo quindi il flusso dell’esplosione al suo utilizzatore.

“Sei stato il più forte di tutti…” Il Dio Primo aveva di nuovo le lenti degli occhiali illuminate “…perché mi hai obbligato a ferirti anche se non lo volevo.”

Il karateka si riprese dall’intorpidimento che aveva paralizzato il suo corpo, e con stupore cercò di decifrare le parole dell’avversario. Dopodiché, quando gli venne liberata, osservò la propria mano: sul palmo, dove era stata riflessa l’energia dell’esplosione di Ghevura, risaltava una piccola abrasione nera.

Ovviamente lui sapeva di essere immune alle esplosioni da lui stesso emanate, eppure nel momento in cui l’energia gli era stata ridiretta contro, la sua pelle si era leggermente ferita. E, per quella banalità, ora il Dio Primo che aveva dato sfoggio della sua supremazia assoluta, gli faceva i complimenti.

Masutatsu constatò anche come Dante e Vlad fossero semplicemente svenuti: Ameno doveva averli colpiti con il dorso della lama. Una mossa da maestro se eseguita contro un normale avversario, ma in quel caso inquantificabile dato il livello di potere dei due combattenti umani sconfitti.

“Quindi è così…” Disse abbattuto, poggiando il pugno per terra.

“Non c’è verso di farvi desistere.” Completò Prometheus, rialzandosi assieme a Sun Wukong e Fenrir.

Zarathustra si dondolò avanti e dietro, tra le punte dei piedi ed i talloni: “Mettiamola così: tutto ciò che vi resta da fare è avere fiducia, quindi… perché non fidarvi? È sempre meglio della disperazione!”

E con ciò, il profeta si diresse verso il portale destinato all’umanità per prepararsi in vista dello scontro. Sollevando lo sguardo incontrò quello di Merlino, o meglio Angra Mainyu, lassù in alto. Il Male incarnato era odio puro nei suoi confronti, e perciò sapevano entrambi che si sarebbero scontrati molto, ma molto presto.

Al contrario Amenominakanushi, quando si diresse verso il lato delle divinità, trovò Gaia intenta a guardarlo con una smorfia stizzita in volto, come di disprezzo. Ormai le titanide si era spinta a vedere persino il Dio Primo come l’ennesimo scarafaggio da schiacciare per poter completare il suo cammino.

 

In ogni caso, i due prossimi sfidanti passarono l’uno al fianco dell’altro, verso direzioni opposte.

“Ci vedremo al match. E stavolta non mi tratterrò come con quei bambini!” Sogghignò Zarathustra, provocatorio.

“Spero tu sappia fare di meglio che parlare e basta…” Amenominakanushi guardò dritto davanti a sé con sguardo torvo.

Il mondo non attendeva altro che quello scontro. Nessuno avrebbe potuto prevedere come sarebbe andata, ma una cosa era certa: da lì a poco si sarebbe conclusa un’era per dare il via a qualcosa di totalmente nuovo ed inaspettato.

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Perdonatemi per l’estremo ritardo. Blocchi dello scrittore a parte, come ho già comunicato sul gruppo Discord per i lettori inglesi, la mia linea telefonica ha deciso di abbandonare il mio computer.

Sinceramente, proprio in questo periodo dove conviene molto rimanere a casa il più possibile, non vorrei che si ripetesse la stessa situazione che c’era in casa mia durante il lock-down: due mesi senza wi-fi.

Vabbè, parlando di cose concrete e che sicuramente vi interessano di più… i combattenti finali sono stati rivelati! Yaaay!

Spero vi piacciano, anche se riconosco che sono decisamente fuori dal comune. Insomma, Zara è un ragazzino istintivo che ha voglia di menare le mani per seguire la sua incompressibile filosofia di vita, mentre Ameno è un testardo completamente incapace con le relazioni sociali e con la mania di apparire come il classico personaggio snob, figo ed intelligente.

Direi che se ne vedranno delle belle, non credete?

P.S: Vi lascio il link del gruppo Discord ufficiale della storia: (https://discord.gg/FHNr7A7) per chi volesse seguirla anche in inglese, o comunque vedere le cover art che realizzo per gli scontri. Ah, a proposito, ho completata quella del quinto scontro, al capitolo 17.

 

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Capitolo 39
*** Chapter 39: I'm Waiting Here For You, And I'll Remind You Of The Pain Forevermore ***


Chapter 39: I’m Waiting Here For You, And I’ll Remind You Of The Pain Forevermore

Nel distante angolo di spazio che mai sarebbe stato visto da umani o da dèi, una creatura senza più nome vedeva crescere suo figlio. Era stato il primo figlio che avesse mai amato, ed anche il primo figlio avuto dopo aver perso tutto ciò che era un tempo, per poi divenire il nulla all’interno del vuoto cosmico.

Idee e pensieri galleggiavano nell’enorme spazio tra il mondo dei mortali e quello degli immortali: sogni, speranze, augurii, promesse, desideri. Tutto ciò era braci della Fiamma della Sapienza, il Record of Ragnarok.

E come tutte le braci, per quanto possano danzare splendenti, finiranno sempre per ricadere in basso, ed accumularsi nella cenere.

“Padre, quando sarà per me il momento di distruggere il Concilio degli Dèi?!” Domandò il bambino nato nella cenere, guardando con entusiasmo il volto stanco ed annerito del genitore.

Voleva conoscere il “quando”, perché sapeva già il “cosa”. Era il motivo della sua nascita dopotutto. Avrebbe scalato quelle ceneri cadenti per raggiungere la cima dei Cieli, dove gli immortali che tanto si spintonavano per tentare di sorreggere l’ordine si sarebbero inchinati al suo volere.

Eppure era solo un bambino, con nient’altro da vivere se non il suo destino. La maledizione di suo padre.

“Angra Mainyu.” Gli rispose un giorno quel padre in cui tanto riponeva fiducia. “Tu non sconfiggerai mai gli dèi, e non distruggerai il Concilio.”

In quel momento, tutto ciò per cui aveva vissuto quel bambino si ridusse in frantumi, ed il suo castello di speranze, sogni e promesse si frantumò nella cenere.

“P-Perché?” Domandò tra le lacrime di disperazione.

Suo padre non sapeva il “quando”, ma sapeva il “cosa”.

“Perderai. Verrai sconfitto da dèi… e umani.”

 

 

I miti riportano Gaia come una dea primordiale forgiatasi attraverso il tradimento e la vendetta, ma queste storie nacquero fin troppo tempo dopo le reali vicende. Infatti, in quel momento non ci poteva essere nessun testimone, perché la creazione di tutto era appena incominciata.

Solo pochi protogenoi poterono vantare di assistere alla costruzione di un suolo da governare, ed un trono nei cieli da cui osservare il creato. Il Primo Concilio degli Dèi contava a tutti gli effetti i primi incaricati di gestire con i loro enormi poteri il suolo della Terra.

“Perché ti vedo così triste?” Gli domandò al sorgere del sole l’unico dio che potesse rischiarare il suo volto dalla solitudine delle ombre notturne. In momenti come quello, quando lui le asciugava una lacrima con il suo dito splendente, Gaia realizzava di essere davanti al dio più bello del creato.

E proprio Urano aveva scelto lei come sua compagna, giurandole amore e fedeltà per sorreggere assieme le leggi cosmiche del neonato universo.

“Urano, io…” Provò a confessargli timidamente: “Io non sono abbastanza forte per esistere a questo mondo.”

Il titano spalancò i suoi occhi brillanti come stelle, colpito nel profondo dall’angoscia delle parole di Gaia.

“Io sono stata assegnata qui, su questa Terra che un giorno miliardi di creature chiameranno casa… ma non sono degna di questo compito.”

“Perché dici ciò?” Notando come lei si fosse chiusa in se stessa, allora il giovane si sedette affianco a lei, avvolgendola in un abbraccio con il suo manto stellato. Fianco a fianco, i capelli verdeggianti di lei si baciavano con quelli silvestri di lui, e nei fiumi cristallini si rifletteva lo splendore degli astri.

“Io regnerò sempre al tuo fianco, non ti lascerò mai quanto è vera la legge che noi stessi abbiamo istituito… ti rispetterò per sempre, perché tale è il nostro regno!” Sembrava un cavaliere, fiero e leale.

“È proprio questo il problema.” Ma persino il suo splendore nobile veniva ostacolato dall’impenetrabile e stagnante animo nero di Gaia: la titanide gli rivolse uno sguardo che non lasciava trasparire nessuna emozione, come fosse una morta dagli occhi aperti.

“Io amo solo te. Amerò solo te. Non potrò mai amare nessun altro… neppure coloro che un giorno abiteranno il mio regno, e pretenderanno che il loro amore venga ricambiato.”

Per la prima volta nella storia, la Madre Terra odiò i suoi figli: quelli più prossimi alla nascita, che ospitava in ventre, e persino quelli futuri, i quali un giorno avrebbero sicuramente sofferto per tale anticipata maledizione.

Urano impallidì, e provò terrore.

Incubi nefasti che lo accompagnarono fino a quando, immerso in una notte che persino lui non riusciva a scacciare, si guardò riflesso nello specchio: il suo volto bellissimo era finito irrimediabilmente deturpato dalla paura. Ovunque chiudesse gli occhi per riposare, si sentiva trascinato nelle profondità abissali di un organismo che lo avvolgeva stretto per soffocarlo, da lì all’eternità.

Poi guardò sua moglie. Lei dormiva.

Ed infine i suoi appena nati figli. Anche loro dormivano.

Sarebbero stato potenti, tra le prime divinità mai generate. Ma sarebbero cresciuti e morti privi dell’amore di una madre. Provò ancor più pena per loro, che per se stesso.

 

 

Stava ancora attraversando il deserto quando realizzò di aver visto montagne, oceani, foreste ed innumerevoli tramonti. Il neonato mondo era stato percorso dai suoi passi, ma non aveva incontrato nessuno. Come nello spazio in cui era stato rinchiuso, non c’era stato nemmeno un volto con cui confrontarsi, o una voce da sentire e che gli dicesse ciò che lui voleva.

E mentre aspettava, e aspettava, e aspettava, ed il mondo cambiava, e si distruggeva, e rinasceva, lo percepì come un brivido sulla pelle.

L’umanità lo aveva riconosciuto. Non lo potevano vedere in quella forma, ma lo sentivano, lo riconoscevano, e gli potevano dare un nome.

Angra Mainyu era un mostro, pur non sapendolo, e non voleva essere ucciso dall’umanità.

Suo padre gli aveva inculcato l’idea che le divinità lo odiassero, e per questo lo avevano gettato via, lontano da tutto. Allora, forse, quei nuovi esseri che popolavano il mondo su cui si trovava ora, potevano essergli amici. E, sempre forse, diventando loro amico avrebbe prevenuto la sua disfatta qualora avesse provato a percorrere il suo destino.

Perché quello era ancora il suo destino, il motivo della sua nascita.

Così quel mostro che inconsapevolmente era odiato da qualsiasi creatura vivente, urlò “ti amo!” all’umanità.

Ma essa non ricambio, e lo odiò ancor di più. L’idea del Male era nata, assumendo le sembianze di ceneri sorridenti.

“In fondo odio e amore non sono la stessa cosa?” Angra Mainyu, o Merlino come in futuro sarebbe stato chiamato, aveva appena predetto come quell’odio che l’umanità nutriva per lui l’avrebbe mossa a danzare nel palmo della sua mano.

Doveva solo aspettare, ed avrebbe atteso ben oltre la nascita di colui che era destinato a sconfiggerlo, per eclissare una volta per tutte i due mondi che non lo avevano accettato.

 

 

Il suo dolore era immenso quanto il suo dominio. Gaia strepitava, aggrappata ai cancelli della Pianura Celeste mentre le sue lacrime si riversavano sulle guardie, intente a contenerla oltre quel suolo sacro.

La sua potenza scatenata nella sofferenza aveva già causato danni inimmaginabili, lì sulla terra, e persino le divinità non volevano incrociare il suo cammino in quello stato.

“Perché?! Perché l’avete esiliato?!” Si sgolava, tendendo le mani in avanti come per poter ancora cingere un corpo che ormai non esisteva più: non poteva più essere abbracciato, né sedersi accanto a lei.

Gli dèi la guardarono innervositi, e con voce tremante provarono a risponderle a tono:

“Urano ha ucciso il suo primogenito! E avrebbe continuato, se noi altri non l’avessimo interrotto!”

“Esatto! È stato deciso, di tempestivo accordo, di esiliare la sua anima!”

Quella notte Gaia aveva perso suo marito, assieme a suo figlio Crono. Poteva ancora sentire il peso di quei corpi morti tra le sue braccia: un freddo mai provato prima, come si addiceva alla morte di una divinità.

“M-Ma! Meriterà la redenzione! Non è stato nemmeno convocato il Presidente del Concilio per la decisione finale!” Disperata più che mai, ella si accasciò al suolo, con le braccia trattenute dalle guardie ed il viso che continuava a sgorgare lacrime sul terreno.

“Che succede? Mi sento chiamare da stamattina, ma non sapevate che ero occupato? Stavo giusto giusto creando il Giappo- oh! Che succede, Gaia?”

Con casualità e nonchalance, il più potente dio tra i presenti discese le gradinate fino al cancello.

Amenominakanushi si presentava in vestaglia e pantofole, con in mano una tazza di the fumante, motivo riconducibile all’appannamento dei suoi occhiali.

“Perché piangi?”

Quella domanda provocò un brivido freddo in Gaia. La gentilezza di Ameno le ricordò suo marito, e non poté trattenersi dal gemere tra i singhiozzi.

“La prego! La supplico! Li rivoglio indietro… quando ho partorito C-Crono, i-io… ho finalmente sentito che qualcosa a questo mondo mi appartenesse per davvero. Era finalmente qualcosa di mio… e mio soltanto.”

L’abbraccio di suo marito e la prima vista del volto di suo figlio: si trattava di ricordi indelebili nella sua mente, eppure li sentiva svanire tra le dita come granelli di sabbia rapiti dal vento.

“Che noia…”

Due semplici parole in risposta ad un dramma. Due occhi pigramente posati su di una dea distrutta e supplicante, ma che potevano vedere solo qualcosa di assolutamente privo di stimoli ed emozioni.

Ameno le voltò le spalle, con grande sorpresa non solo della titanide, ma di tutte le divinità circostanti, e si incamminò da dove era venuto.

“Non avete altro che richieste da quando ho creato tutto questo… e pensare che l’ho fatto solo per capriccio. Se avessi saputo che sarebbe stato così tedioso avere a che fare con tutti questi “per favore” e “ ti prego”, non l’avrei fatto. Ma andiamo… ti prego? Ovvio che mi preghi. Non potete fare altro che pregarmi… come se mi bastasse solo quello, e non avessi bisogno anche di un, chennesò, un the per andare avanti nella mia vita.”

Si ripulì le lenti dalla condensa mentre il suono morbido delle sue pantofole a forma di peluche lo accompagnava lontano. Lontano da tutti e da tutto.

In quel momento tanto significativo quanto assurdo nella storia, il Dio Creatore si disinteressò completamente del suo operato, e preferì sparire dalla circolazione per affidare ad altri le sue mansioni.

 Gaia non poté far altro che rimanere lì, e soffrire. Soffriva lei come soffriva l’intero pianeta, schiacciato da un qualcosa di ben più forte: la gravità della sua miseria.

 

 

L’atmosfera nell’arena del Valhalla non era mai stata così tesa, ed allo stesso tempo mescolata ad un vortice di dubbi e paura. Nell’incertezza comune, qualsiasi evento sarebbe stato possibile.

Vi era solo una certezza: le due figure, ora al centro del campo di battaglia, avevano la fine del mondo riflessa nei loro occhi iniettati di sangue.

Schiena contro schiena, Gaia e Angra Mainyu avevano gli sguardi puntati verso le porte da dove sarebbero entrati in scena i loro sfidanti. L’aura di morte che emanavano era tale da contorcere lo spazio, crepando sempre di più la terra sotto i loro piedi e congelando l’aria circostante.

Il Male incarnato aveva abbandonato le sue precedenti sembianze umane, con le quali l’avevano conosciuto i Cavalieri della Tavola Rotonda ed Arthur, per rivelare una mostruosità informe e fumosa. Guardarlo era come scrutare nell’abisso, ed ogni genere di aberrazioni ed incubi sgorgavano dalla sua carne, fondendosi e contorcendosi per trasformarlo nell’incubo supremo.

Fobetore si strinse nelle spalle rabbrividendo, assistendo alla paura originale, nata prima ancora che gli uomini potessero sognarla. Persino Nyx, la notte e Herebus, le tenebre, parevano non aver mai visto niente di simile in vita loro.

Al contrario, Gaia si gonfiava e palpitava come un gigantesco cuore verde, un organo in simbiosi con il suo elemento: terra, petrolio, fango e minerali purissimi emergevano dal nucleo incandescente del suo essere ad ogni vibrazione emessa, potente come tutti i terremoti mai sprigionati da una terra che si ribella.

La sua quieta era però silenziosa ed all’apparenza innocua, per quanto un occhio esperto avrebbe ben capito che in quella creatura era racchiusa la potenza di un pianeta, condensata ed accumulata sulle spalle della titanide da tempi ormai immemori.

Ptah, la dea della creazione egizia che aveva popolato il suolo terrestre, non avrebbe mai immaginato di vedere la manifestazione della forza di ciò che, da sempre, aveva considerato solo un terreno da coltivare e sul quale gli umani avrebbero proliferato. Strinse Ammit tra le braccia come un peluche, sperando per il meglio.

Intanto, assistendo a quell’emanazione di primordiale forza distruttiva, il signore dei demoni Baal rispose con un sospiro. Era torvo, appoggiato di schiena al trono dove galleggiava Chaos.

 

Ladies and gentlemen… sembra che non ci sia alcun modo di far spostare Angra Mainyu e Gaia dall’arena.” Comunicarono i presentatori Adramelech e St.Peter, chiaramente impacciati e a disagio dopo non aver ottenuto alcuna risposta in merito dalle divinità organizzatrici.

“E allora fate entrare in campo gli sfidanti, che c’è da aspettare?!” Due figure balzarono all’improvviso davanti ai microfoni, strappandoli di mano ai due addenti ai lavori. Si trattava delle due divinità vestite da teppisti giapponesi, Izanami ed Izanagi.

“Oi, oi! Entra paparino, che ci siamo rotti di aspettare!”

“Sì, noi vogliamo vedere le mazzate ignoranti!”

E alle urla dei due entusiasti dèi fondatori del Giappone, i portali si sollevarono in una nuvola di polvere.

Zarathustra affondò i piedi nudi nella terra, percependo in una scarica elettrica tutta la sofferenza che aveva impregnato quel campo: sangue, morte, dolore, passioni e speranze. Socchiuse delicatamente le palpebre, entrando in trance per qualche istante.

“Non mi piace il modo in cui state mancando di rispetto a ciò che umani e dèi hanno provato a costruire, qui…” Quando li spalancò di scatto, il suo volto si era corrucciato minacciosamente.

Dall’altra parte, Amenominakanushi entrò in scena dedicando appena un’alzata di occhi per i suoi problematici figli, per poi riportare l’attenzione su Gaia. Lasciò oscillare l’Amenonuhoko appena per farla scivolare giù dalla sua spalla, lungo il braccio e ancora più in basso, dove sfiorò appena il suolo con la punta della lama.

“Non mi piace ripetermi, e tantomeno sprecare il mio tempo. Sono cose che mi danno noia.”

Bastò quell’ultima parola per far scattare qualcosa dentro la titanide. Lì, nel profondo del suo cuore, o nucleo, dov’era sopita la vendetta antica quanto la storia stessa del mondo.

Allo stesso tempo, Angra Mainyu si era finalmente parato davanti uno scenario che, dalla sua discesa nel mondo, aveva visualizzato innumerevoli volte. Era la sua predizione, non un miraggio. Se avesse allungato la mano, avrebbe potuto toccarlo, lui, il distruttore del suo sogno.

Ed infatti allungò il braccio, rivestendolo con tutto il suo potere malvagio. Il male che zampillava la sua essenza era il più potente dei veleni, generato dall’odio e dalla corruzione di un destino perfetto.

Gaia invece spalancò il suo ventre, eiettando con un’energia sismica spaventosa tutta l’ira della natura. Una corrente oceanica nera come la pece trascinò al di fuori intere foreste e catene montuose, ma tutto ciò era stato compresso in un unico raggio di energia.

“Frashokerti!” Al profeta bastò un singolo pugno per far piegare in due quell’ammasso distorto di malvagità, strappandolo dal terreno e lasciandolo sospeso sul proprio arto, dal quale pulsavano nervosamente le vene sopra i muscoli evidenziati nello sforzo.

“Chikyū no Katachi (Terraforma!)” La naginata del Dio Primo fendette l’aria, anticipando l’attacco della titanide nella frazione di secondo prima che lei potesse muoversi. La velocità fu tale da sorprendere gli spettatori, siccome parve quasi che il suo attacco non avesse sortito nessun effetto, quando all’improvviso la natura che componeva Gaia cominciò a turbinare e a contorcersi tra spasmi di dolore.

 

“N-Non può… finire così!” Eppure, al termine di quello scontro atteso da tutta l’eternità, la fine della sua storia era giunta: Angra Mainyu venne respinto verso l’alto da una corrente di pressione atmosferica, una colonna generata dallo spostamento d’aria del pugno di Zarathustra.

“U…ra…no.” La materia che componeva Gaia implose, collassando sul suo stesso nucleo in un battito di ciglia. Si librò un suono appena udibile, alla pari di un soffio, dopodiché la titanide, riportata ad una più debole forma umanoide, percepì come tutte le sue energie l’avessero abbandonata.

In quell’esatto istante precipitò al suo fianco il corpo di un giovane dai capelli color cenere, piombando in un piccolo cratere. Egli ansimò in preda al panico, ancora convinto di star morendo, quando al contrario era stato lasciato intatto, fatta eccezione per la materia oscura che prima lo avvolgeva.

Era già finita: questa la constatazione nella mente dei due che ora riversavano nella loro stessa vergogna, sconfitti.

“Bhe, non volevo liquidare così brutalmente un climax che chissà quanti si aspettavano da tempo… ma che ci posso fare?” Si scusò Ameno, guardando con la coda dell’occhio il pubblico.

“Mi è stato chiesto indirettamente di fare sul serio…”

“Quindi anche tu sei tipo che non riesce a trattenersi di fronte ad una sfida?” Lo punzecchiò il suo sfidante, provocatorio. “Bene, sarà meglio così per…”

“Ma parli proprio sempre? Pensavo di essere sceso quaggiù per combattere, non per chiacchierare.”

Al seguito di quella brusca interruzione, da entrambe le estremità del campo di battaglia l’atmosfera venne deflagrata. Molto più intensamente di come avevano fatto Gaia e Angra Mainyu, due auree traboccanti di intenti omicidi riuscirono a deformare lo spazio circostante: tremò la terra e l’aria sembrò andare in pezzi.

L’informale divertimento dei due combattenti aveva lasciato posto a qualcosa di aldilà di ciò che umani e déi avevano provato fino a quel momento: era un bisogno naturale, imprescindibile di lottare, senza necessitare una spiegazione.

 

La titanide ed il magus vennero portati via, ormai privi di sensi, sulle gambe tremanti dello staff. Di fatto, la sola presenza di quei due al centro del campo di battaglia rendeva impossibile per chiunque anche solo spiccicare delle parole o guardarli direttamente.

“OOOIII!! Finalmente si fa sul serio, paparino!” Tuonarono però delle voci, rimbombando tramite l’amplificazione degli impianti nel colosseo.

Izanami ed Izanagi, ormai dopo aver rubato il posto ai precedenti annunciatori del torneo, sbraitavano ai microfoni tradendo tutta la loro eccitazione.

“Fallo nero! Polverizzalo! Smolecolarizzalo! Disintegralo! Metabolizzal-”

E tra i sospiri affranti di loro padre, Zarathustra invece scoppiò a ridere, non riuscendo a rimanere serio con una presunta telecronaca del genere.

“Fatemi spazio.” Sentenziò però qualcuno nella stessa sala di trasmissione occupata dai due fratelli.

“Eh? Ma che cazzo fa…” Ma Arthur ignorò qualsiasi protesta, sedendosi di peso accanto a loro e prendendo in mano un microfono.

Il Re Cavaliere, reso cieco dalla luce divina mostratagli da Uriel, si grattò con imbarazzo la barba, masticando un discorso stentato per qualche secondo, prima di sospirare:

“Nel corso di questo torneo è stato detto che noi esseri umani andiamo avanti nelle nostre vite, dall’inizio dei tempi, armati solo della nostra insignificante esistenza… a testa bassa, adattandoci alle piaghe che il fato ci riserva, e senza certezza alcuna nel domani. Eppure, se c’è qualcos’altro che ho scoperto in questo torneo… è che neanche gli dèi posseggono quella certezza.”

Dal letto su cui era adagiato tra le braccia di sua sorella, Fenrir sollevò a stento il capo, non potendo proiettare altra emozione nei suoi occhi, se non tristezza.

“La vita di un umano e quella di un dio non è molto diversa, in fondo… e se davvero loro ci avessero creati per farsi ubbidire e temere ciecamente, allora io non credo che saremmo così… imperfetti, proprio come sono loro.”

Prometheus ed Epimetheus si scambiarono un’occhiata con Zeus che forse voleva rivalutare l’intero motivo dell’esistenza di loro dèi.

“E ciò che ci rende imperfetti è solo e soltanto una forza di volontà, la quale ci conduce in strade simili: tradimenti, inganni, vizi, amori… sconfitte.”

I quattro dèi soli mesoamericani potevano quasi percepire la presenza di Quetzalcoatl tra loro, mentre Sun Wukong assaporava quella vera vita degna di essere vissuta presentatagli solo da Ramsess.  C’era chi, come Vlad, rimpiangeva di aver ucciso l’unico che si fosse immolato per trasformarlo in un mostro meno mostruoso, ed un Gilgamesh che non odiava più né umani, né dèi, ma rivoleva soltanto Enkidu al suo fianco.

Masutatsu, che credeva non fosse possibile perdere altro nella sua vita, rise dell’ironia della sorte: uno come Guy Fawkes, proprio nel momento in cui aveva gettato all’aria la sua stessa esistenza, era diventato completo più che mai.

“Io non credo davvero ci sarà una fine a questa nostra imperfezione, e gli uomini continueranno a creare gli déi come essi generano gli uomini. Però, se proprio dobbiamo raggiungere una conclusione…” Ed il cavaliere si voltò verso i due déi creatori del Giappone: “… facciamolo insieme, come tutto ha avuto inizio.”

 

Per la prima volta dall’inizio del torneo, la cupola che segretamente metteva al riparo gli spalti dai combattimenti divenne visibile, presentandosi come un puzzle di pannelli luccicanti. Questi, risplendendo sempre più forte al punto da costringere gli osservatori a distogliere lo sguardo, presero a ruotare attorno al centro del campo di battaglia: sempre più veloce, quel tornado di luce raggiunse la sommità del cielo, per poi sgretolarsi in frammenti.

Oramai, nel campo di battaglia di terra e polvere, imbevuto di sangue e sofferenza, non c’era più nessuno.

Al posto degli sfidanti, degli schermi olografici mostravano a tutti gli spettatori dove essi fossero stati spostati.

 

“Come tutto ha avuto inizio, eh?” Rimuginava il Dio Primo “Io c’ero quando tutto ha avuto inizio… e né gli umani, né delle comuni divinità, possono immaginare cosa fosse davvero… l’Inizio.”

“Ora sei tu quello che si sta distraendo, però.” La voce di Zarathustra lo richiamò all’attenzione, facendogli rendere conto di dove si trovassero ora.

L’aria attorno a loro era molto più satura di ossigeno, in uno spazio non delimitato dalle mura circolari dello stadio. Le uniche mura in vista, infatti, erano pareti alte decine di metri, appartenenti a palazzi ed edifici vari. La strada di cemento sulla quale poggiavano era costellata di qualche vettura abbandonata, ed un cielo imperscrutabile rendeva impossibile definire l’orario: tuttavia, i lampioni non erano ancora accesi.

Si trovavano in una città del mondo umano, al momento disabitata siccome, ovviamente, tutti gli esseri umani della Terra stavano guardando proprio loro, ma da tutt’altra parte.

Quello sarebbe stato il loro campo di battaglia: l’intero pianeta, senza limitazioni.

“Mi piace questo posto!” Esclamò il profeta, con gli occhi lucenti come stelline, emozionandosi per qualsiasi meraviglia moderna che riuscisse a vedere.

“E questo cos’è?! E questo? Oooh, e questo come funziona??” Si domandava saltando da una macchina ad un bancomat, oppure ammirando con somma emozione un tombino.

“Sai che se perdi, nulla di tutto questo esisterà più?” Gli domandò il dio, al che lui cercò di ritornare serio e sbottò:

“Se volevi provocarmi al punto da farti gonfiare di botte senza pietà, ci sei riuscito alla grande adesso.”

“Ma fammi il piacere…”

GI tre annunciatori avvicinarono i microfoni alla bocca e, in un tripudio di speranza e timore, scandirono per l’ultima volta le parole:

“CHE IL RAGNAROK ABBIA INIZIO!!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Mi dissocio dal ritardo nell’aggiornamento… no, sisghé, vi devo le mie scuse in realtà. Ho iniziato un nuovo anno all’università, e sono stato sommerso di lavoro con un progetto personale che, se vi va, potete sbirciare se cercate su Google: Danganronpa Repented Tartaros.

Ve la butto lì… non manca molto alla conclusione di questa storia!

Alla prossima!

P.S: Ah, ed il titolo è una citazione di ben due canzoni: “Everlong” dei Foo Fighters, e “I Will Fail You” dei Demon Hunters.

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