Ludovico indiavolato

di Semperinfelix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Canto I ***
Capitolo 2: *** Canto II ***



Capitolo 1
*** Canto I ***




 

Nel tempo in cui pestilenzia avanza,
che è inver castigo pe' nostri peccati,
affinché non perdiate la speranza,
per vedervi voi ogn'ora segregati,
di lasciare alfin sani vostra stanza,
mentre siete l'un de l'altro privati,
per merto mio più grato svago avrete,
che 'l capo batter contro la parete.

Vorria dunque a lorsignorie contare,
come pur fecero un die altri cantori,
di storielle, fabule e nove rare,
che non ne trobereste de migliori.
Non più de Orlando e di suo lungo amare,
né de Ranaldo e de l'altri signori,
bensie como la brama de confisca
fu cagion de guai che mai finisca.

Avvenne adunque che per sventura
se trovò re Ferrante(1) travagliato
non da morbo, carestia o iettatura,
né da' saracini como in passato,
ma da mal di ben altra natura:
avea Carlo de Franza decretato
sì d'al mondo mostar la sua possanza
di Napoli ridurre in sudditanza (2).

Per fronteggiar il periglio incombente
ha senz'altro Ferrante adunato,
in gran copia arme e aiuti subitamente,
che vien da Italia, Spagna e da ogne lato,
sì da scacciar indietro el re fetente.
Son costoro che l'hanno affiancato,
marchesi e duchi e conti e gran signori,
che il mondo abbia i condottier migliori.

Ma se accorrono in sì gran frequenza
a condurre armati in copiosa schiera,
non per certo è senza ricompenza,
che se così fosse, come non era,
sarebbe Ferrante di aiuti senza.
Credean forse il reame una minera,
d'oro, gemme e ricchezze a mai finire,
e che venendo doveano arricchire.

Era però per troppe guerre e acquisti
rimasto il re senza in bocca un dente,
cosicché, essendo i tempi duri e tristi,
non poteva dar loro altro che niente.
Teme 'l dunque che se si fosser visti,
come di fatto era veramente,
da lui falsamente illusi e beffati,
tutti indietro se ne sarian tornati.

Or sappiate c'ha il re per suo maniero,
un castel cotrutto in mezz'al mare,
ch'ai ripidi scogli fa da cimiero,
dov'el con sua corte sole abitare,
né vi conduce strada o sentiero,
ma sol per nave vi si pò approdare.
Qui pensa adunque il furbo re Ferrante,
por rimedio astuto al dinar mancante.

Ognun nel bel castello invita a cena
e quando è ciascuno ingordo sazio,
d'impinzar sua pancia oltremodo piena,
«Signori, a cuor sincero vi ringrazio»,
comincia a dire, con voce serena,
«che mi evitate un sì acerbo strazio,
di essere in mia vecchia età privato
del tron che per trent'anni ho conservato.

Non reputate però che io sia ingrato,
piuttosto che re previdente e saggio,
se quando il periglio sia passato,
né oro né ricche terre a voi daggio,
come pur altrimenti avria usato,
se mi trovassi ancor ne l'antico agio,
perocché, sebben ne sia assai geloso,
vi darò il bene mio più prezioso».

Chiama allora in stanza una fanciulla
di sì grazioso e gentil sembiante,
che splendor del sole varrebbe nulla,
se messo lo si fosse a lei davante.
La prese Ferrante ancora in culla,
e crebbela come fosse sua infante,
'sendo dai genitori abbandonata,
poiché a torto femmina la era nata (3).

Il crine tiene ognor ricolto in trezza,
qual vespro è bruno allor che il volge a sera,
sì lunga che li piedi le carezza,
e del candor di latte la pelle era.
Ciascun quel che vede oltremodo apprezza,
così d'averla per sé solo spera,
ché maggior beltà non avrian trovato
nel pien di maggio in zardin incantato.

«Essa è Beatrice, mia amata nipote»,
la presenta Ferrante, il nonno fiero,
«e io prometto darla con degna dote,
quantunque mi angusti il sol pensiero,
a colui che pruovi sue virtù note
di nobile e valoroso guerriero,
dappoi che armato disceso in battaglia,
più de l'altri i franzosi sbaraglia».

Ora aveva el re servito in brocca
un vin fatato, ch'ognun innamora
de la prima donna che l'occhio tocca. 
Più potente è, per com'il core fora,
dei dardi che 'l puttin Cupido scocca,
così che par che ognun d'amore mora. 
Aveva il cuoco in veritate
per error le dosi esagerate.

Fra tutti più de l'altri ha inver bevuto
un cavallier il qual vien da Melano,
che più non l'avria fornito imbuto,
per como il tracannò sano sano. 
Così, non appena ebbe veduto,
della fanciulla il bellore inumano,
l'amoroso foco il cuor gl'invola,
e più non sa pur dire una parola.

Egli ha per proprio nome Lodovico (4),
e fin da fanciullo è detto Moro,
questo ogn'orbo, non solo io el dico,
per aver l'occhi azzurri e il crine d'oro. 
Adesso è di Ferrante buon amico,
ancorché inimici un tempo foro,
non per virtù o per bontà impellente,
ma per esser lui duca assai potente.

«Neppur depredando il mondo intiero
troverem, maestà, maggior ricchezze»
risponde a nom di tutti il cavalliero,
«che le dolci e gentili sue fattezze,
le quali, non ve ascondo il mio pensiero,
più che terre o che oro apprezze. 
Amor ne spinge ad accettar la sfida:
combattendo, adunque, si decida!»

Tutti quante pien di acclamazione,
Gonzalvo, Diego e Beltran de Ispania,
e altri che ancor non è da far menzione,
fra cui li condottier de Grecia e Albània,
fiduciosi applaudiro il suo sermone,
e ancor li cavallier de l'Alemania,
giudicando ognuno aver presto vinta,
colei che in core Amore avea dipinta.

Frattanto ha Carlo i suo' fanti forniti
de alabarde, cannoni e colubrine,
tutti son feroci e in guerra accaniti,
e in larga schiera seco oltre il confine
li conduce, ver gli italici liti,
giù pe' valichi delle terre alpine. 
Fra i villani ognun ver loro addita,
ben sanno che la pace è ormai finita.

Venuto è il gran dì de la battaglia:
Ferrante nel suo campo ha ragunato,
de la Lega l'audace soldataglia. 
Ognun ver l'inimico è incamminato,
per mostrar quanto sua possanza vaglia. 
Or scorti son dall'uno e l'altro lato:
Ciascun della croce sua fronte segna;
pria dell'aspro furor la quiete regna.

Li Cimbri, gettati in ginocchioni,
la terra bacian tutti co li grugna,
e i trombettier, coi loro accesi suoni,
i soldati eccitano alla pugna. 
Par che il terren di zoccoli risuoni,
mentre ognun correndo sua spada impugna. 
Grandissimo romore in ciel si leva,
e par già che sangue la terra beva.

Il primo a gettarse ne la mischia,
fra quei di Serenissima laguna,
è un che del periglio se ne infischia,
poiché conobbe i turchi ancora in cuna. 
Così, senza pensar, sua vita rischia,
ch'altro non teme che ira di Fortuna,
e vuole abbrancar la dama fiorita,
che a l'adulterio ognor lo invita.

Dai suoi fu questi chiamato Mercuro (5),
dappoi che venne dalle greche acque,
essendo in guerra rapido e sicuro,
avvegnaché Mäurizio il nacque. 
E sì l'abbaglia il suo pensiero impuro,
per quanto inver la fanciulla il piacque, 
che scordata ha la sua promessa sposa,
dacché scorso ha il viso de la rosa.

Appresso vien Melchiorre Trevisano (6), 
capitano rinomato e franco, 
e per natura fiero Veneziano, 
che di guerra non mai è sazio o stanco, 
e non invidia il paladin Tristano. 
Lì accanto a lui, dal lato manco, 
seguon due cavallieri assai prestanti (7), 
giunti al re nemico poco distanti.

Son Francesco, di Mantova marchese, 
e suo zio Rodolfo, assai virile, 
uomo l'uno di non poche pretese, 
l'altro ai dardi d'amore assai ostile, 
dappoi che un dì il suo onore offese, 
la moglie sua snaturata e vile, 
col cui sangue ei fe' la neve rossa 
poi che Lussuria le scavò la fossa (8).

Nondimeno non potendo soffrire, 
della fanciulla soave visione, 
poi che vide ella casta nel vestire, 
e sanza alcuna contaminazione, 
volendo per sé moglie pura avire, 
fece indi questa deliberazione:
o al nipote la vergine sottrarre, 
o ad ambedui il cor dal petto trarre.

Di lor più forti ancora, e più agguerriti,
son due cavallieri, prodi cugini (9),
di spirito indomiti e compiti,
fin da fantolini a la guerra inclini.
Dal medesmo nome sono uniti,
e per pugnar loro sempre vicini,
affinché non sia il racconto perverso,
ne convien chiamarli in modo diverso:

Il maggior, di Napoli il difensore
ed erede al trono designato,
onde ossequiar del padre il genitore,
dacché nacque Ferrandino è chiamato.
L'altro in età, non in virtù minore,
che è di Beatrice fratello adorato,
affettuosamente è detto Nandino,
anch'egli abbandonato da bambino.

Sono poi li cavallier de Bologna
guidati da un giovine virtuoso: (10)
Annibale, che la vittoria agogna,
fra i Bentivoglio il più impetuoso.
Il padre invero pel figliolo sogna
contrarre il matrimonio assai prezioso.
Almen lui, ch'ei da sé nol puote fare,
ché una moglie stallo ad aspettare.

V'è pur fra l'altri il giovinetto Astorre (11)
che piccolin fu signor de Faenza,
dacché la vita al padre volle torre
la madre perfida e priva di decenza.
Ancora vede che dal petto scorre
del padre il sangue ne la sua innocenza,
e perciò in battaglia infuria cruento,
che crede vendicare il tradimento.

Fra le schiere v'è però un tal guerriero,
che ogn'altro in impeto sorpassa,
sì che par redivivo Achille altiero,
e quei che stanno innanzi occide e scassa:
per tal ragione questo condottiero
da ognun è detto Capitan Fracassa (12).
Del sangue altrui è sua spada avara:
non per nulla se chiama Mortamara.

Vien per ultimo il duca Lodovico, 
che avanti ne la pugna ha mandato 
Galeazzo, suo genero e amico (13), 
di lui assai più ardito e preparato, 
il qual cognosce suo timore antico, 
e ha deciso, essendo già sposato, 
la donna addurre in vece sua a Milano 
ed ei guardarla solo da lontano.

Ora sappiate che da fancïullo, 
ebbe Lodovico un grave spavento, 
poiché il fratel suo, duca fasullo, 
essendo folle uomo e assai violento, 
solea prendere un orrido trastullo 
nel mutilar la gente a suo talento (14). 
Le grida ha ancora in testa, e le sevizie, 
né può patir sangue, morti o ingiustizie.

Così sol soletto è col suo Ciuchino, 
che ciuco è detto per combinazione, 
poiché in verità esso è buon ronzino, 
e il vero ciuco è il suo signor padrone: 
che sia vigliacco e pure un po' cretino, 
ben si vede da come è in su l'arcione, 
che par che cada e di tremar nasconda, 
e Trincarotta ha in mano ancora monda.

E comunque tuttavia è pur tranquillo
che niuno scopra il vergognoso inganno,
perché il genero porta il suo vessillo,
e l'elmo e la corazza scambiati hanno,
così l'infamia, che pur gli è assillo,
li altri intiera a Galeazzo danno.
Dite se il gesto è ignobile e meschino:
pur v'è in questo chi 'l supera perfino.

Benché se pugni infatti da ogni parte
perché alcun la vita non gli toglia,
stassene re Carlo a la disparte,
che di combatter non ha proprio voglia,
e lascia che a mostrare in guerra l'arte
siano il conte Lignino e La Tremoglia,
o La Palisse e il cugin d'Orleante,
o ancor Cesare Borgia il gran furfante (15).

Però Ferrante ha la bella nipote
condotto in campo con questo espediente:
perché rimirando sue dolci gote,
non sentano i suoi né botte né niente,
neppur se alcuno in capo li percote,
tanto è in loro foco d'amore ardente.
Così senza neppur troppo travaglio
l'inimici mandarno a lo sbaraglio:

Fuggono essi disordinatamente
al di là del fiume che il pian divide,
e in mezzo al ponte immantinente
un sol cavallier rimaner decide:
Morte non teme e non teme niente,
ché all'Onnipotente sua vita affide.
Elmo non ha, e non indossa corazza,
e pure in sul quel ponte sol se piazza (16).

Quel cavaliere, di bianco vestito,
ver l'inimici sua spada mulina,
di essi ne affronta un numero infinito,
ch'a cento a cento vegnon con ruina:
tiene a bada ognun senza esser ferito,
e l'audaci tutti a morte il destina.
Frecce, lance, picche piovvon dirotte:
balzando le schiva e il fiume le inghiotte.

In brieve dirimpetto a lui s'avanza
di corpi alta una montagna al suolo:
l'inimici perdono lor baldanza,
sicché coperta è, per uno solo,
la ritirata a tutti quei de Franza,
e respinto è de l'italiani il stuolo.
La principessa, che pur questo vede,
a quel veder, per non poter, non crede.

Benché un poco bassa di statura,
è essa figliola già di quindici anni,
né de duchi né de principi ha cura,
né la impietosiscono i loro affanni,
ma del nonno solamente ha premura,
cosicché non pensa ai propri danni
e per lui compiacer fe' promissione
di sposar de la battaglia il campione.

Ma or che veduto ha il cavaliere ardito,
vedeste como la si strugge in core!
Il viso bianco se fa colorito
e sente in corpo un gran calore.
Da come il cor balza in gola impazzito
la crede avere un mortal malore,
e vuol saper chi sia costui che vede
che neppure innanzi a morte cede.

Adunque viene il giovine gagliardo,
cavalier senza macchia né paura,
da ch'il conosce chiamato Baiardo.
Gli è di nobile e genuina natura,
e di Franza il vero e il sol baluardo,
ma se mai qualcuno, per sua sventura,
il vero nome errando pronunzia,
gravi disastri per lui il cielo annunzia.

Mal fece il re che in campo l'ha menata,
quella giovinetta dal viso adorno,
non solo perché la si è innamorata,
ma perché Carlo, che sta lì dattorno,
sua beltà sopraffina ha ben notata,
e non passa invero un solo giorno
che chiede il re potere incontrare
e con lui senz'arme parlamentare.

Accetta Ferrante la sua richiesta,
poiché il è scaciato ma non sconfitto,
e in periglio pur sempre il regno resta.
Fra i due campi, a metà del tragitto,
un padiglione a erigere s'appresta.
Dunque per un pacifico convitto
qui s'incontrano i due re senza scorta.
Ognuno pochi uomini con sé porta:

Orbene ha Carlo voluto il cugino,
imperciocché solo non vuol restare,
e l'altri capitani a sé vicino,
mentre Ferrante pensò ben portare
li soi nipoti e il cantinier col vino.
Beatrice, che in tenda non volle stare,
spera sia il bianco cavallier venuto,
ma tutti guarda e pur non l'ha veduto.

Mal fece, ahimè, saper non poteva
quante doglie e guai d'ora in avante
per quel sol capriccio aver doveva!
Assai la guarda infatti l'Orleante,
che a stento cosa umana gli pareva,
né distoglie l'occhi pur un istante.
Ha infatti il duca moglie sciatta e brutta:
quan Beatrice vede, la vole tutta.

Non è pure il solo che la desira:
La Palisse, il Lignino, La Tremoglia,
ciascuno assorto la donna rimira
e ciascuno di goderne ha voglia,
perfino il Valentino ora sospira,
ch'ella i miseri d'ogni pace spoglia!
Aveva il cantiniere assai sbadato
il vin buon scambiato col vin fatato.

«Ho mosso invero contro voi le armi»
a cominciare allora è Carlo indotto
«per questa pingue terra procacciarmi
ma certo non è da re saggio e accorto,
come molti sogliono giudicarmi,
ai buon cristiani fare ingiusto torto,
quando si può in altro modo accordarsi
acciocché niuno abbia a lamentarsi.

Vostra maestà può farsi sicura
che dacché io ebbi negli occhi riflessa
la dolcissima e angelica figura
di questa virtuosa principessa, 
non ebbe più la mia bontà misura
e ogni ostilità da parte ho messa.
Dite: conoscete voi il duol selvaggio
che nel cuore perpetuamente aggio?

Se in giovinezza foste innamorato,
e aveste per qualcuna zelosïa,
certo quel che io provo, avete provato,
perciò me vogliate per cortesïa
dar vostra nipote in concubinato,
ché se sposarla potessi, il farïa,
ma per trovarmi io già in catene,
darle non posso altro che il mio bene».

Sappiate ora che questo scostumato
Carlo Magno era detto non invano,
non per virtù o per animo elevato,
ma perocché era alto quanto un nano.
Le gambe ha storte e il naso smisurato,
e un tremore incessante ne le mano.
La testa ha poi grossa fuor de misura,
così mostruoso è che fa paura.

Vile assai saria stato, e sozza cosa,
accostar marrubbio fetido e olente
ad una fresca e profumata rosa,
over lezzo di farinel fetente.
Come Beatrice ode la proposa,
il bel viso sbianca in men di niente,
e piuttosto ch'essere in sua balïa,
chiede a Dio che presto morte le dïa.

È re Ferrante cinico e spietato,
ha ucciso, incarcerato e sempre ogni
torto crudel nel sangue vendicato,
ma ancorché finir la guerra agogni,
il ben che le vuole è sì sconfinato,
che mai le daria nulla che le rogni.
Così, all'osceno e indecente sermone,
subito rende giusta responsione:

«Detto mi è stato di voi in veritate
che solete innamorarvi assai spesso
e se davver stoltamente sperate
il mio ben più prezioso aver concesso,
è bene che la bocca v'asciugate
fin da adesso, ch'io ho inver promesso
darla in sposa legittimamente
fra i miei al condottier più promettente.

Villana non è, né d'infimo rango,
anzi nacque fra porpora e oro
né consento che macchiate col fango,
la sua virtù candida e il suo decoro,
perciò saldo al proposito rimango
di darla a colui fra tutti costoro
che per merito si dimostri degno
e di sposarla si prenda impegno».

Pensate adesso se non fu acerba,
per quel francese vizioso e arrogante,
questa risposta dura e superba!
né può tollerar l'affronto umiliante,
ma nuovo rancore in petto serba,
e così, in preda a furore accecante,
non si ritiene, ma in piedi scatta
e un'altra sentenza a quella adatta:

«Tutto v'avrei dato immantinente,
per aver de la dama il fiore incolto,
e nondimeno preferiste niente.
Superbo foste, e però tra non molto
perderete il pane e anche il dente».
Don Ferrante non gli dà pur ascolto,
bensì lascia che coi suoi se ne vada,
ed egli altrettanto prende sua strada.

Tuttavia avea Carlo disegno fatto
a sua insaputa orrido e meschino
d'ottener la fanciulla con un ratto
affinché quella, come l'ermellino
che allorché in inganno col fango è tratto
per non lordare il suo biancor divino
si lascia infin dal cacciator pigliare,
s'avesse così di lui a innamorare.

Dunque aspetta che la tenebra scenda
e il cugino manda con due sgherri
al campo nemico affinché la prenda.
Stanno però due guardie coi ferri
a protezione della di lei tenda,
perché niuno di nascosto l'afferri,
e seco dorme anco il fratel Nandino
che veglia come un toro il vitellino.

Ora s'appressano i tre con cautela
per non far di lor presenza accorgere,
ma l'impresa assai ardua si rivela:
quasi è l'or che il sole debba sorgere,
e udir non vonno alcuna lamentela
che poi debba loro il re rivolgere,
perciò le guardie ferono alla schiena
e a Nando il duca un colpo in capo mena.

Si sveglia la donzella spaventata,
per li romor che d'improvviso sente,
una man la bocca le ha otturata,
per modo che gridar non le consente,
mano e piede la meschina è legata
e in un sacco la gettano piangente.
Quindi lo caricano in su la groppa
del cavallo che indietro galoppa.

«Aiuto! Aiuto!» crida disperata,
«Ahimè, chi sete? Ove me portate?
Nandino, accorri! Ch'io son sequestrata!
Deh, lassatemi! Abbiate pietate!»
E quanto pur si vede ignorata
tanto più strilla e chiama lo frate.
«Taci!» le grida il duca prepotente
«Morto è il frate tuo! Non te sente».

Pensate voi qual penoso sconforto
afflisse allora la miseranda,
non appena seppe ch'egli era morto! 
De seguirlo anch'ella a Dio domanda
e maledice chi gliel'avea estorto.
Non da Carlo intanto, ma a un'altra banda,
la porta il duca, e tolta da l'arcione
la mena seco al proprio padiglione.

Dal sacco egli allora fuor la tira,
e mentre le dispiega la ragione,
in tutta sua eccelsa beltà l'ammira.
Indossa ella solo un camicione
che 'sendo sottile lo sguardo attira,
e ben comprende che ha l'occasione,
per stoltezza di chi l'ha catturata,
di vedersi subito liberata.

«Se voi mi menaste al vostro signore»,
comincia perciò a dirgli smaliziata,
«commettereste certo un grave errore,
ché quando sua sete avrà saziatata
non penserà anche al vostro fervore
e sarà stata mia virtù sprecata.
Per primo invece alla fonte attingete,
che per certo non ve ne pentirete».

Ascolta il duca i suoi dolci prieghi,
sì seducente è nel suo cattivare,
che non trovereste chi le si nieghi,
e sì bisognosa d'amore pare,
quando allettante chiede che la sleghi
che subito la vuole accontentare:
le mani e i piedi lesto le dislaccia
e pur le offre da baciar la faccia.

La donzelletta invece, assai molesta,
getta la maschera e il favor gli rende,
nell'anguinaia un calcio gl'assesta
sicché agonizzante in terra il stende,
poi a fuggir senza esitar s'appresta:
la sua robba e il suo cavallo prende
e nel bosco galoppando si getta,
né vi è pur chi la riprenda in fretta.

Notte non era e non era pur giorno,
all'orizzonte un lieve chiarore
il sole spargeva tutto dattorno:
si desta Nandino dal suo torpore,
e quando s'avvede del grave scorno
più non ragiona dall'aspro dolore,
ma pur ringhiando in sul cavallo monta
e all'intero campo il misfatto conta.

Appena sono gli uomini avvisati
dell'oltraggio a la fanciulla pudica,
a tal punto si sentono indignati
che tutti quante in men che non si dica
armati sono e in sella balzati,
per vendicarsi contro li nemica,
né si saria placato il loro sdegno
prima d'aver di sangue il ferro pregno.

Arrivano, e una strage fanno dunque
nella gran baruffa che si scatena,
ogni tenda aprono e ammazzano chiunque,
ognuno e spade e mazze e pugni mena.
La principessa cercano dovunque
per porre fine a la sua ingiusta pena,
ma solo trovano pur l'Orleante
che ancora in terra sta dolorante.

Riconosce Nando il suo aggressore
e quei che la sorella gl'ha rapito,
gli monta in corpo un tal furore
che già per il collo lo ha ghermito
e inizia a picchiarlo con vigore.
«Canaglia! Manigoldo! Pervertito!
Se non mi rendi adesso mia sorella
ti scanno e ti strappo le budella!»

Tanto lo batte e tanto lo percote
che quello oltre al ratto gli confessa
di come sia rimasto a mani vote
e come l'ingannò la principessa,
ma su dove adesso sia, il capo scote,
e chiede che grazia gli sia concessa.
Nando si riserba finirlo dopo,
che ora gli pare di schiacciare un topo.

Vemente in sella monta e dà di sprone,
che salvar la sorella adesso occorre,
gli viene appresso un intero squadrone
con Galeazzo, Fracassa e pure Astorre:
deciso ha infatti il re che ne l'agone
la vinca chi per primo la soccorre.
Partiti sono tutti i cavallieri,
perfino i francesi e i loro scudieri.

Ciascuno a conquistarla s'è deciso:
pien di ardore sono e pien di speme,
che per ritrovare il suo dolce viso
ognuno spasima e ognuno freme;
ma pur l'uno avrebbe l'altro ucciso,
che d'arrivare tardi infatti teme.
Da ogne canto si misero a cercare:
or può il poema nostro incominciare.

~~~

Note al Canto I:

(1) Ferrante d'Aragona, re di Napoli e figlio di Alfonso il Magnanimo.
(2) L'impresa del regno di Napoli di Carlo VIII di Valois avvenne effettivamente nel 1494 e si concluse più o meno con un disastro nel 1495, ma qui è collocata fuori dal tempo
(3) Si tratta di Beatrice d'Este, secondogenita di Ercole duca di Ferrara, che Ferrante crebbe appunto come fosse sua figlia poiché i genitori non si rallegrarono troppo della sua nascita.
(4) Ludovico Maria Sforza, duca di Milano, era soprannominato Moro per avere i capelli neri e la carnagione scura, e il primo a rifilargli questo nomignolo fu già il padre. Non era particolarmente avvezzo alla guerra e alle armi, per non dire del tutto incapace.
(5) Mercurio Bua Spata, nato in Grecia ma di antica stirpe albanese, fu condottiero della Serenissima Repubblica di Venezia.
(6) Melchiorre Trevisan fu anch'egli condottiero e provveditore della Repubblica Serenissima.
(7) Si tratta di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, e di suo zio Rodolfo.
(8) Stando a quanto si dice, nel giorno di Natale del 1483 Rodolfo Gonzaga sorprese la moglie, Antonia Malatesta, in flagranza di adulterio col suo maestro di danza, uccise l'amante con un colpo di stocco, poi trascinò la moglie ancora nuda in cortile, la sodomizzò e solo dopo averla obbligata a chiedere perdono la finì con un colpo di daga alla testa. Ora non tutti sono d'accordo nel ritenere che i fatti si siano veramente svolti così, quel che è certo però è che le Malatesta sono una brutta razza.
(9) Sono Ferrandino d'Aragona, nipote di Ferrante, principe eccezionale e veramente amato da tutti per le sue qualità, e Ferrante d'Este, fratello di Beatrice che loro madre Eleonora partorì e lasciò a Napoli insieme alla sorella durante un suo soggiorno alla corte del padre.
(10) Annibale Bentivoglio, primogenito di Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza.
(11) Astorre III Manfredi, signore di Faenza. La madre, Francesca Bentivoglio, uccise per odio il marito Galeotto Manfredi in una congiura quando il figlio aveva appena tre anni.
(12) Gaspare Sanseverino, detto Capitan Fracassa o anche il nuovo Achille, era figlio del famoso Roberto e condottiero letteralmente indistruttibile.
(13) Galeazzo Sanseverino, fratello di Fracassa, aveva sposato la figlia di Ludovico: Bianca Giovanna Sforza.
(14) Galeazzo Maria Sforza era sadico e perverso, nonché leggermente pazzo, suo diletti usuali erano: stuprare le mogli dei propri sudditi, costringere le amanti alla prostituzione, mutilare/castrare i suoi amici, condannare a morte innocenti, sguinzagliare i cani contro gli ambasciatori, e, ultimo ma non ultimo, ammirare i cadaveri nei sepolcri.
(15) Si tratta di Luigi di Lussemburgo conte di Ligny, Luigi de La Tremoille, Jacques Chabannes de La Palice, Luigi d'Orléans e Cesare Borgia, quest'ultimo il famigerato figlio del Papa.
(16) È Pierre Terrail de Bayard, Cavaliere senza macchia e senza paura, l
eale, giusto e misericordioso, ultimo vero esponete della cavalleria antica e dei i suoi valori. Divenne famoso per l'impresa sul ponte del Garigliano, in cui effettivamente affrontò da solo, si dice addirittura senza elmo e senza corazza, circa quattrocento cavalieri spagnoli, riuscendo a garantire ai suoi la ritirata.

 

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Capitolo 2
*** Canto II ***


 



O eteree figlie di Egeria scorrente,
O voi Camene(1) dal lieto sembiante,
cessar fate ogni angustia da la mente
e smenticare il mal d'ora in avante
a tutta questa generosa gente
che m'ha prestato orecchio in quest'istante.
Ristorate adunque la mia memoria
perché prosegua la promessa istoria.

Pur vuole il mio augusto genitore
ch'io muti veste et abbandoni il canto,
meglio saria che io mi tragga il core
e il getti al vento sanza alcun rimpianto
perché quel che il chiede, o car lettore,
è di sprecar mia vita in doglia e pianto.
Villana nacqui, e sotto mala stella,
altro non ho che questa mia favella.

E se pur non me bastarà una vita,
volendo Iddio le mie giornate corte,
a far sì che sia esta istoria finita,
non di certo me fermarà una morte,
ma quando sia la prima età fornita,
riederò al mondo per altre porte.
Signore è il Tempo, ma il Destin decide
se avvolto fia il fil che Moira(2) recide.

Lasciammo adunque in gravosi affanni
nel primo canto i cavallieri erranti,
dappoi che fu smarrita con inganni
la fanciulla da certi lestofanti
che la lassarono con pochi panni.
Ora sempre vanno cercando avanti
che mai non veggon l'ora d'arrivare
nel loco ove essa si potea trovare.

Ben ricordarete che nel boschetto
è la dama fuggita como il vento
dal padiglion del duca maledetto,
e lungamente, con grave tormento,
cercato avea di ritornare al tetto,
né mai poté trovar l'accampamento.
Ormai è sorto il sol che in cielo splende
allor che in prato da caval discende.

Stanca è la bestia per la corsa folle,
sicché lasciarla riposar necesse
ché già più oltre proseguir non volle;
la dama disperata se concesse
di sedere in su l'erbetta molle,
e il pianto stilla como se piovesse,
mentr'ella mesta si lamenta e duole
fra margherite, dalie e fresche viole.

«Ahi me misera», dicea, «me tapina!
sperduta son fra li solinghi colli
per questa stella di Fortun meschina
che ria m'ha gettata in mezzo ai folli
li qual me vonno aver con la rapina!
Ahi, non è questo ciò che io volli!
Mio danno fu il nascer di bella cera,
che se brutta fossi, cossì non era!»

Un'allodoletta cantando lieta
dal ciel discende a lei proprio davanti
che parea ne avesse una gran pieta
a vederla strutta in mezzo ai pianti.
La principessa in brieve si racquieta,
e tanto è sorpresa che per lei canti
l'augelletto dal morbido piumaggio
che le ritorna in sul viso il raggio.

Allora allora in la verde radura
giunge galoppando un cavalliere
e un altro il segue con gran premura,
de l'elmi alzate hanno le visiere
sicché Beatrice, che pur ebbe paura,
come li vede non se può tenere,
ma «o fratel caro!» crida «o cugino!»
e gioiosa corre al suo Nandino.

Quel subito il destriero abbandona
e la sorella strigne ne le braccia
che quasi di letizia non ragiona.
Da le spalle il mantello se dislaccia
e a Beatrice prestamente il dona,
perché il freddo del mattin l'agghiaccia
ed ella indossa solo il camicione
che le rende ben scarsa servigione.

Poi ch'ebbe fatto, subito la invita
a montare al suo destriero in groppa
ma l'altro, che ve' persa la partita,
trattien le briglie e il passo gl'intoppa,
che non vuol già che sia cossì finita.
Bevuto han da la medesma coppa
e se l'un la vuol per geloso affetto,
l'altro ha fiamma viva che gli arde il petto.

«Furbo se' che te la meni appresso,
che come sia dal nostro avo veduto
che per primo al campo seco fai ingresso
tu avrai vinto, et ogni altro perduto,
ma già m'hai beffato fin troppo spesso!
Non t'illuder che resterommi muto,
Orsù, prendi tua spada, a duel ti sfido!
Che se a me darla non vuoi, ben t'occido».

Cossì irato ladro e ribaldo il chiama,
che la cugina vuole ad ogni costo,
e dal manco lato estrae sua lama.
Nandino risponde con l'arme tosto,
che la sorella non men di lui ama,
e a cederla non è giammai disposto.
«Ben veggio che hai il senno tuo smarrito,
avanti dunque, accetto il tuo invito».

Non vi fu supplica o priego cotanto
che l'inducesse a rinnegar la prova,
né de la donna li commosse il pianto,
o pur richiamo che talvolta giova.
Ella l'uno così ama e l'altro quanto
poter amare in vita alcuno trova,
ne può tollerar che per un affronto
l'un sia a l'altro a cavare il sangue pronto.

Poi che a i lor destrieri montarno in sella
le spade han torte con gran fracasso
ma or seguitar conviene altra novella,
perciò i cavallier a la sfida lasso
e torno a Carlo, che per la donzella,
misura la sua tenda a passo a passo.
Ha tema infatti che qualche ribaldo
sfogato vi avrebbe l'animo caldo.

Allora presto al suo cospetto chiama
il bianco cavallier nomato Baiardo,
di costei il solo che non ha brama
e non ne soffre il celestiale sguardo,
poi che del vin non ha bevuto drama;
a lui il re, falso mentitor bugiardo,
una vil menzogna piangendo inventa
acciocché Baiardo ad aiutar consenta.

Onde il dice che è sua mogliera morta
per mal non conosciuto né curato
ne la passata notte, e che sopporta
a stento il duol che gli ha causato
nel cuore un caso di cotale sorta,
e tuttavia nolente ha pur giurato
per mal minore a re Ferrante torre
in moglie la nipote come occorre.

«Se liber fussi di seguir mia vïa»,
dice allora il depravato, «pur ïo
solo me rimarrei, in l'abbazïa,
vedovello ogn'ora a pregare Iddïo,
ma or tu, onesto, dimmi: che re sarïa
se per contentare un mio sol disïo
tutto il regno lasciassi a lo sbaraglio,
con suo danno, e acerbo scorno e guaglio?

Costretto son per questa maledetta
di Fortuna, colei che mi è imposto
d'altrui maritare, non che m'alletta
già il pensiero, ma pur son disposto
onde terminare esta guerra abietta
per vostro ben sacrificarme tosto.
Pur mi fu iernotte la donna sottratta
da qualcun che vuol la nostra disfatta!

E però ti prego che un simil danno
tu mi voglia con tua virtù evitare,
e se non per me, per quel re tiranno,
che vorrà Francia tutta soggiogare,
ché se mai a la nipote male fanno
que' ribaldi, egli vorrà me accusare
e ben averà scusa manifesta
per venirne in Francia a gran tempesta».

Questo il cavaliere audisce e sente,
gl'affidaria Carlo sua intera vita,
suo tesor, sua roba e tutta sua gente,
perché il conosce di onestà inaudita
e chi a Baiardo s'affida, mai se pente.
Mostrando allora l'impresa gradita,
«maestate» il responde «ciò non temete
ben vi prometto che giustizia avrete».

Cossì detto veemente in sella monta
e ver la selva corre a briglia sciolta
già ha l'anima a l'impresa pronta
né averà pace sino a che avrà tolta
la fanciulla a quei che le fanno onta,
ma di lui ve conterò un'altra volta.
Ora torniamo invece ai due cugini
che fan la guerra sui loro equini

Già ha Nandino colpito a la testa
due volte il cugino, lì ne la tempia
rotto ha il cimiero e strappato la vesta,
e ancor prosegue con la lotta empia
non di men Ferrandino, che or lo desta,
di taglio ferisce e quasi lo scempia.
Spezzato gli ha quel con la spada il scuto
e quasi a forza di sella abbattuto.

Pien di furore solleva sua spada,
sferra il colpo e ne la spalla il coglie,
ben crede che Nandino in terra cada,
ma ciò non viene, che quel si ricoglie,
e ancor si batte, che così gli aggrada.
Beatrice pur dal chiamar non si scioglie
ma sempre insiste ed acuisce il pianto,
così s'ode sua voce in ogne canto.

In breve viene seguitando il suono
quel Mercurio, il feroce stradiotto,
che sentito ha d'arme il frastuono
e sempre è quegli di battaglie ghiotto,
ma ben il vede che di miglior dono
l'ave Fortuna col guidare edotto.
Pur gli viene appresso l'amico Lecha,
anch'egli come lui di stirpe grecha.

Or saprà chi è del mondo esperto
che dir greco o fiorentino(3) è il stesso,
tal usanze hanno, ch'io mi sconcerto,
qual io sentì dire sul loro amplesso,
onde a ognun conviene, io v'avverto,
che sia il dereto al riparo messo.
In ciò è Mercurio di ben altra razza:
le femine ama, e li homini ammazza.

Quando si vede offerta l'occasione
d'aver per sé la principessa presa,
subito al suo destriero dà di sprone,
a la donna va, che è sanza difesa,
e quella piglia et isa in su l'arcione.
I due cugin, che stanno a la contesa,
Quan le grida odono, e il scorno e il furto,
lo sguardo voltano e arrestano l'urto.

«Deh, lassa, lassa!» grida a quel Nandino,
«in altro loco riprenderem poscia,
adesso vien, non perdiamo il cammino!»
e sì ringhiando se batte la coscia.
A ciò concorda pur l'altro cugino,
che di lui pruova non meno angoscia.
Così vanno appresso a quei furfanti,
che li han rubati proprio davanti.

Giungono i greci dinnanzi a un ponte
che a l'andata certo non era suto,
onde convengon che venendo al Monte,
devono avere il cammino sperduto.
Stavvi a guardia d'esso proprio di fronte,
un gigante enorme, scuro e zannuto.
Questo a la donzella faceva orrore,
sicché le par redento il rapitore.

In una mano tiene una clava,
ne l'altra una rete che ha intrecciato,
di vimini e corda, sopra cui sbava,
e sempre il passo a chiunque ha negato,
cosicché loro il cammino intralciava,
né vi è modo di passare il fossato
se non dal ponte, cui sotto scorre
un fiume che molte miglia percorre.

Mercurio smonta quindi da la sella
e ver la fanciulla se volta e dice:
«Vogliate, o mia dolce rondinella,
mia dea, mia rosa, mia amata Beatrice,
voi per cui il mio cuor d'amor favella,
farmi una sol volta in vita felice,
prima che affronti quella bestia scura,
col darmi un bacio per buona ventura».

Pur quella se volta altrove sdegnata,
«Messere, non sì sprovveduta e sciocca
me crediate, che fui ben insegnata,
e certo non concedo la mia bocca
a un che m'ha rapita e sequestrata!»
Cotali parole crudele scocca
a quello che tutto mortificato
ancora spera d'essere baciato.

«Orsù, colombella, orsù» ritenta
«che potrei rimanere storpio o peggio,
non che il morire ancor me spaventa,
ma se per voi morire invero deggio,
acciocché giammai io me ne penta,
un solo bacetto in la guancia chieggio».
E pur di poco il duro cuore smuove,
che forse non avria trionfato un bove.

E però ancorché sé sdegnosa finga,
non mai vi è femmina che adulata
alfin resista a cortesia e lusinga
per quanto sia con alcuno adirata,
e se talvolta verecondia spinga
a rifuggire carezza o basata,
pur il pudore a la vergine doce
che ciò che è onesto all'onor non nuoce.

Adunque se china la principessa
verso il cavalier che da la faccia
tolta ha già la barba scura e spessa,
in quanto sa che a lei assai dispiaccia,
e ciò rinnegando sua usanza istessa
per il crudo amor che l'arde e ghiaccia.
Ella un bacio in su la guancia imprime,
leggiero e casto e dal sentor sublime.

Pur lo stradiota ancor non s'accontenta
ma il viso le afferra e forte stringe
e di baciarla su le labbra tenta.
La donna prontamente lo respinge
e uno schiaffo gli rifila violenta,
talché le dita in faccia gli dipinge.
«To'» dice adirata «eccote la mancia,
e ora basta cianze, impugna la lancia!»

L'accontenta il cavaliere animoso
e verso il gigante se muove armato,
quello getta un grido spaventoso
e con la rete gli tende un agguato.
Mercurio evita il tranello insidioso
e pronto di lancia si scaglia irato,
credendo con tal colpo tramortirlo,
ma pur ci prova, e non riesce a ferirlo.

Gl'afferra infatti il gigante la lanza
con una mano, e da terra il solleva.
Gli dà Mercurio un calcio ne la panza,
mentre a lui contro la clava batteva,
in terra si getta e a stento la scanza
che per poco in capo il percoteva.
La Scannaturchi sfodera allora,
così è nomata sua spada uccisora.

Con essa un fendente al gigante scaglia,
superba è l'arma, e di fattura fina,
sicché non avendo piastra né maglia
como s'addice a natura ferina,
ambedue le gambe di netto il taglia
e quello in tre pezzi nel fiume ruina.
Mercurio ride e se volta trionfante
pur gli converria guardarsi le piante.

D'avere vinto appunto se crede,
ma non s'è ancor del periglio avveduto
che avviluppata attorno a un piede
ha la rete, che il gigante abbattuto
seppur annegando ancor non cede,
onde consegue che lo sprovveduto
dal laccio è stretto del mostro immondo
che seco morente il trascina a fondo.

«Mi nago!» cridava «Agiudo! Agiudo!»
e annaspando la mamma chiamava,
Lecha de l'armore se spogliò ignudo
e prontamente in fiume se gettava,
dunque che nuotar sapesse concludo.
Così Beatrice che sciolta restava,
invito non attende, ma il destriero
ruba e soletta riprende il sentiero.

Lungo la via a un castello perviene
che tutto è sol di cristallo costrutto,
ma ora cambiar novella ne conviene
e andiamo a Lodovico, che sperdutto,
doppo aver vagato tra tante pene,
ai Campi Flegrei s'è alfin redutto.
Il genero non ha, onde se dispera,
che se lui avesse, sperduto non era.

Qui Giove combatté contro i Titani
qui ebbero i numi ai giganti ribelli
l'ossa rotte e fracassati i crani,
qui la muta terra par rinovelli
l'aspra contesa fra gli dei pagani
e la violenza inaudita de' duelli
di cui saggiata ebbe la furia estrema,
e ancor fuma e romba e paurosa trema.

Qui s'ode dal profondo ogni tanto
il rombo sordo salire e i lamenti
di quei Titani che con gran rimpianto
imprigionati sono fra i tormenti
nel Tartaro oscuro ove con schianto
precipitò Iddio l'agnoli cadenti
che a Lui si rivoltarno infidi e ingrati,
onde in demòni ei furon mutati.

Qui lungo le desolate pendici
se andava il duca dolente dolendo:
«Ahi, chi mai a questi campi infelici
condusse me che mia diva inseguendo
al costo di fatiche e sacrifici
volea sottrarre a un destino tremendo
e poscia con lei, mia sposa, regnare
e goder de le gioie che Amor può dare?

Ahi, Fortuna tiranna, meretrice!
Sempre dei mortali acerba inimica!
Perché, se talvolta fai uno felice
poi lo sommergi di doglia e fatica
e pur l'abbatti sin da la radice?
L'umano patire sol te nutrica,
e i pianti e i lamenti e gli amari läi
che tu disperando all'uomini däi.

Adunque grasse le tue bestie pasci
di amore, gioia, e gaudio e speme vana,
e senza noiarle pascolar le lasci,
e dolce appari, e generosa e piana,
ma poi, quando vuoi, ogni cosa sfasci,
e come madre che i suoi figli sbrana
così crudele contro noi ti abbatti,
e tristi rendi, e dal dolore matti.

E me dunque fra tanti, disgraziato,
che il più felice ritenevo a torto
dappoi che avevo per virtù trovato
colei che regina era e sol conforto
di chiunque sia dal suo candor toccato,
contro me hai tua iniquità ritorto,
ché dal mio angelo, da l'anima mia
separato m'hai, e confuso la via.

Non vi è al mondo strazio più acerbo e crudo
del saper colei che ami in altrui mano
e non poterle far riparo e scudo,
saperla in periglio ed esser lontano!
Ahi, me infelice, di che ancor m'illudo?
Non v'è remedio al tormento inumano!
Mai imparar volli arte di spada o lancia,
onde me lagno e me batto la guancia!»

Così gemendo Trincarotta scaglia
contro una roccia che sta nel terreno
la qual ferendo benché dura taglia,
e trema il suolo insino al Miseno,
mentre s'apre in terra una gran faglia.
Allor s'oscura a notte il ciel sereno
e dalla ferita escono a frotte
i prigioni che le catene han rotte.

Cosa mai abbia fatto e che sia successo
ei nol sa, ma vedendo i mostri tanti,
sprona il suo Ciuchino per espresso
e sempre corre rifuggendo avanti.
Tra le rovine di un tempio dismesso
che gravato è dai secoli pesanti,
si rifugia come ultimo partito
e ben stima già d'essere finito.

Allor dal cielo sfavillante scende
un baglior di foco che a lui ne viene
per modo che un colpo quasi il prende
e poco manca che di paura sviene.
Il lume innanzi a lui si ferma e splende,
e spada e armatura indosso tiene.
«O sciocco» lo chiama, smorzando il foco
«come esser può che imparasti sì poco?»

Riapre l'occhi il Moro lacrimoso
che conosciuta ha di colui la voce
che per lui fu padre caro e affettuoso
per l'altri duca e condottier feroce,
e scorge il sembiante dal lume ascoso
che è come fiamma che però non noce,
e tanto è dall'incontro instupidito
che a parlar tenta, ma ha pur fallito.

«Mi vuoi tu dire perché di vergogna
vuoi coprire quei che t'ha generato?
Io che da vivo, dovunque si pogna
sempre fui pronto a infuriare armato,
e pure da padre, come bisogna,
a combatter ho a voi figli insegnato.
E tu dunque a che pro ti chiami Sforza
se già un misero venticel ti torza?

E pur la colpa è de la tua madre
che t'ha nel troppo studio rammollito
con le sue cure tenere e leggiadre,
onde da buono mi sei instupidito
e disonori il nome di tuo padre,
essendo tu dal periglio fuggito.
Adunque vuoi dal nascondiglio alzarte
e da uomo quale sei seguire Marte?»

«Perdonate, padre, la mia mancanza»
risponde pallido e tremante il figlio,
«che star non vorrei a grattarme la panza,
bensì affrontare da uomo il periglio,
e però il volere ha poca importanza
quando non si ha né zanna né artiglio.
Non son come voi, o l'avo o i miei germani
che foste arditi e in forza disumani».

'Scolta Francesco le sciocche scusanze,
così era quello spirito nomato,
e allor per rinnovargli le speranze
«Allietati, figlio» dice «mandato
fui per ovviar a le tue mancanze
da la Vergine la qual t'ha donato
fra i rimedi del cielo il più potente
che te farrà guerriero eccellente».

Ciò dicendo da la scarsella träe
un'ampolla di liquido ripiena
che al figliolo sorridendo däe.
«Questo è il sudor che colò da la schiena
e da la fronte ricca di beltäe
che quel fior sorto in terra levantena
sparse quel dì che il dragone sconfisse
pria che martire tre fiate perisse(4).

Una pulzella lo serbò e lo colse,
la qual fu dappoi a suo tempo santa,
e allorquando morte infin l'avvolse
fu nascoso in un tempio ne l'anta
giacché così far Costantino volse
essendo la sua potenza cotanta
che chi l'adopra potrà egli solo
rivoltare una montagna al suolo.

Adunque un giorno la reliquia scovai
che giaceva ne la chiesa al chiuso,
perché non causasse e disastri e guai
finendo a qualche aduno al male aduso.
Io stesso, dappoi che la recuperai
ne feci in la battaglia grande uso.
Adesso morto sono e a te la dono
purché ne faccia anco un uso buono.

Ne la fronte spargendo una sol goccia
ti sentirai possente e pien di forza
e saldo e duro come una roccia
a cui niuno può intaccar la scorza.
Alzati adunque, il timor non ti noccia,
va e rendi onore al nome degli Sforza!»
Così finito ch'ebbe il suo sermone
sparve improvviso come incantasione

Dappoi che fu dal genitor lasciato
Lodovico il suo buon consiglio ascolta
e proprio fa come gli fu insegnato:
da l'ampolla ha una sol goccia tolta
e si è la fronte del sudor bagnato
tosto dal cuor sente la paura sciolta
e farsi il suo spirto focoso e ardente
talché battaglia chiede immantinente.

Ma già è stato il canto lungo assai
e io non ti voglio, o lettor, tediare
un'altra fiata se vieni scoprirai
come dovette la battaglia andare
e tutti gli altri cavallieri vedrai
novi cimenti insidiosi affrontare
Ma adesso va, lettor, con Dio e riposa
che la poesia è bella, ma faticosa. 

~~~

 

Note al canto:

(1) Le Camene sono le Muse latine, cui Numa Pompilio aveva consacrato il bosco presso la fonte di Egeria.
(2) Le tre Moire, Cloto, Làchesi ed Atropo, tessevano il filo della vita, ma in Omero la Moira è una sola.
(3) Con fiorentino si intende sodomita
(4) Si tratta ovviamente di San Giorgio

Ringraziamo anche qui Hoel che pur in un campo diverso dal suo ci dà sostegno e aiuto!

 

 

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