Chercher un peu de rêve

di Koa__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La ballata della piccola John ***
Capitolo 2: *** L'Accordéoniste ***
Capitolo 3: *** When you’re smiling ***
Capitolo 4: *** Le petit carillon ***
Capitolo 5: *** Cuore di Barbarossa ***
Capitolo 6: *** The Captain and The Laggard ***
Capitolo 7: *** You kiss me once (I’ll kiss you twice) ***
Capitolo 8: *** Remember ***
Capitolo 9: *** Hurt ***
Capitolo 10: *** Il detective con il cuore di glitter ***
Capitolo 11: *** L’oiseau ***
Capitolo 12: *** Come galleggiare nel dormiveglia ***
Capitolo 13: *** Le cento fragilità ***
Capitolo 14: *** La geniale imperfezione di Sherlock Holmes ***
Capitolo 15: *** Improvvisazione ***
Capitolo 16: *** Marriage d’amour ***
Capitolo 17: *** Ode a uno schiavo morente ***
Capitolo 18: *** To Love's End ***
Capitolo 19: *** La Stoltezza del Soldato ***
Capitolo 20: *** Restless world and moonlight kisses ***
Capitolo 21: *** Un caso difficile per Sherlock Holmes ***



Capitolo 1
*** La ballata della piccola John ***


La ballata della piccola John





 
"In the arms of the angel
Fly away from here
From this dark, cold hotel room
And the endlessness that you fear
You are pulled from the wreckage
Of your silent reverie
You're in the arms of the angel
May you find some comfort here"
Angel, Sarah McLachlan

 


 
 
 
Non lo sai com’è successo. Ed è sciocco, e ridicolo, e ti senti un idiota. Dovresti vergognarti di te stesso perché, per quanto geniale tu sia o brillante ti vanti di essere, adesso fatichi a formulare persino un banale ragionamento. Dovrebbe essere la cosa più facile del mondo, ma più gli istanti passano e più il peso di ciò che stai facendo ti grava sull’anima, distruggendoti. E hai la sensazione che il tuo palazzo mentale sia ormai seppellito sotto ai mille pezzi di una felicità brutale, che spazza via ogni cosa peggio di quanto non abbia fatto il vento dell’est. Per quale assurdo motivo quel tuo stupido cuore batte tanto alla svelta, proprio non lo sai. Hai scarsi ricordi degli istanti appena passati e quelli che possiedi sono vaghi e confusi. Sai che c’era lui (perché sai sempre quando lui c’è) e che era tutto preso a rovistare in quella cameretta oberata di giocattoli e disordinata di vita, là dove dorme Rosie Watson. Ricordi che tentava malamente di reggere la bambina tra le braccia, sperando al contempo che non si svegliasse e poi… più niente, il nulla più assoluto. Un abisso nero ti ha avvolto e stretto a sé. Un attimo dopo, John te la lasciava in braccio, pregandoti di tenerla. E il tempo a quel punto s’è fermato, perché era la prima volta e lui neanche se ne dev’esser reso conto. Non hai capito più nulla, hai notato vagamente un suo sorriso nascere e poi venir nascosto, il suo divertimento nel vederti impacciato. Una dolcezza che non sai descrivere che dilagava in uno sguardo forse arreso da troppo tempo all’infelicità. Quindi poche parole a giustificare quel gesto sconsiderato: «Mendeleev dev’essere rimasto in soggiorno» ha detto, riferendosi a quell’orrendo pezzo di stoffa che Rosie sembra addirittura adorare. Forse perché ha il tuo odore, sì, sarà questa la ragione per cui lo stringe a sé le volte in cui sei troppo preso da un caso o in cui sei a Baker Street. Probabilmente quel Mendeleev, che non sa assolutamente pronunciare, le ricorda te. Assurdo. Ma è una bambina di appena tre anni e di pensieri razionali non ne ha davvero. John, tuttavia, sembra tenere prepotentemente al fatto che Rosie dorma col suo peluche preferito e quindi te lascia lì, e poi sparisce nel corridoio. È allora che ti ritrovi solo. Con la piccola Watson tra le braccia. Lei che respira piano, rapita dal sonno. A fidarsi di te come soltanto John è stato capace di fare. Così dannatamente Watson anche in questo, pensi con una punta di sorriso che nasce mentre sparuti ricordi d’infanzia s’affacciano timidamente.

Rosie che è così come John nella maniera in cui riesce a rubarti pezzi di cuore e a sparpagliarli ovunque.

Nonna diceva che ogni bambino è un angelo che durante il sonno fa ritorno in paradiso. Un’immagine che la tua ferrea razionalità ha sempre ritenuto relativamente ridicola. Gli angeli sono solo disegni su un muro e Dio è un’invenzione dell’uomo, il quale spiega con miti e leggende ciò che l’ignoranza gli impedisce di comprendere altrimenti. Anche a cinque anni avevi il coraggio di dirlo ad alta voce, facendo valere le tue idee. Non aveva il minimo senso ciò che nonna diceva, eppure l’ascoltavi. Lei che era tutta presa a raccontarti di nuvole ed esserini con le ali e tu che rimanevi lì per delle ore, a roteare gli occhi e a sentir ciarle insensate soltanto perché sapevi che prima o poi ti avrebbe dato della cioccolata. Un atteggiamento opportunistico da parte tua, oltre che imprevedibile in un bambino così piccolo. Nessuno mai pensava che potessi avere un secondo fine. Stupidi illusi. Nonna non aveva la tua intelligenza, né quella furbizia che hai decisamente ereditato da tua madre e che neanche a Mycroft è toccata. Nonna, che credeva davvero che fossi un piccolo angelo, un vero dono del Signore (come diceva sempre). Le volevi bene, questo è ovvio dopotutto. Però restava il fatto che se ne uscisse con fantasiose teorie. Era convinta davvero che tu tornassi su nelle nuvole mentre dormivi. Illusa, pensi di nuovo. No, il sonno non è niente di simile. Non c’è paradiso, non ci sono piccoli angeli, le rispondevi con fare piccato e vagamente saccente. Dormire è una sospensione periodica della coscienza e della volontà, ribattevi tutto impettito e ripetendo a pappagallo parole lette in un libro e imparate a memoria. Hai ancora in mente la reazione inaspettata di lei nel sentirti parlare a quel modo. Il suo ridere, e ridere, e ridere. Ed era dolce. Stranamente arrendevole. Ti domandavi spesso perché non facesse valere le proprie obiezioni, invece che accarezzarti i riccioli e andarsene, tornando dopo qualche minuto con una tazza di cioccolata calda e fumante. Una parte di te ancora se lo chiede, forse quella che non è mai cresciuta.

I bambini sono davvero angeli?

Non sai davvero per quale motivo ci stai pensando adesso e perché questo ricordo d’infanzia t’è bruscamente tornato alla memoria, balzando fuori da una qualche stanza del tuo affollato palazzo mentale. Sarà per la piccola John che ti dorme tra le braccia. Per quella fiducia incondizionata che solo i bambini sembrano avere verso chi amano. Sarà per come ha rilasciato la testa indietro e per quei suoi ricci biondi che ti solleticano il braccio. Sarà perché è così piccola e serena o magari perché, un angioletto, lo sembra per davvero. Sarà per la canzoncina che hai preso a mormorare. A bocca chiusa. Leggera, Angel ti suona per i corridoi del palazzo mentale. Neanche sai come fai a conoscerla, ma non t’importa. Conta solo lei e la maniera in cui la culli, a ritmo di una melodia che diventerà sua. E che le canterai tutte le sere. La ballata della piccola John.

Perché sei così felice?

È un gesto assurdo, senza importanza. Non ha senso. È roba da idioti. Sarà, magari, perché lei c’entra con John? Sarà per quella lacrima che non hai davvero capito da dove arrivi, ma che sai andar a morire sulle labbra. Sarà, forse, per John che s’è appena fermato sulla soglia e che ti fissa a occhi sgranati. Un accenno di sorriso. L’infelicità del tutto scomparsa. Sarà, magari, perché sembra faticare a respirare anche e lui.
«La cosa più bella che abbia mai visto» sussurri, senza smetter di guardarla.
«È esattamente quello a cui stavo pensando.»
«Sarà» balbetti, e intanto continui a cullarla, e nel mentre John s’avvicina e una musica che non c’è sembra quasi riuscire ad aleggiare fra voi. È la ballata della piccola Watson che si tende e vi spezza il fiato. «Sarà che è tua figlia e che qualsiasi cosa ti riguardi non posso che amarla.» La voce ti trema appena mentre lo dici, il cuore palpita e la paura d’aver rovinato ogni cosa per un istante ti serpeggia dentro. Non vince. Per la prima volta in vita tua, non hai paura di rovinare tutto. E come potresti? Ora che hai la piccola John tra le braccia ti senti invincibile e sai di poter fare tutto.

«Buonanotte, piccola John.»

No, non finisce lì. Dio, certo che no! Tutto non termina nel momento in cui la posi nel lettino con Mendeleev accanto. Questo è soltanto l’inizio. Ci sarà tempo per le parole, per chiedergli di tornare a Baker Street. Per baci e amore. Un matrimonio. Adesso non importa. Ora c’è solo una piccola Watson che canta la sua splendida ballata.
 




Fine
 
 


 
Note: Questa cosa fluffosa e sdolcinata è stata scritta per la #26promptschallenge del gruppo Facebook “Hurt/Comfort Italia – Fanfiction e Fanart”. Il tema di questa settimana è dedicato al sonno, il prompt recita: “26 prompts challenge : 1/26: SONNO: 1. Fenomeno periodico di sospensione più o meno completa della coscienza e della volontà, indispensabile per il ripristino dell'efficienza fisica o psichica”.
La citazione fa parte del testo della canzone che è linkata in alto, che oltre ad aver ispirato la stesura della storia, mi ha dato l’idea anche per il titolo. L'ambientazione, come avrete notato, è dopo The Six Thatcher, ma non tiene conto degli episodi successivi.

(Questa storia potrebbe diventare una raccolta, non lo so ancora. Ma ci sto pensando).

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Capitolo 2
*** L'Accordéoniste ***


Doverose note iniziali: Avevo bisogno di scrivere e ne ho approfittato per trasformare “La ballata della piccola John” in una raccolta, perché credo possa essere utile avere un posto dove buttar dentro roba. Potete considerarle come legate una all’altra in maniera discontinua e volutamente disarmonica. Il titolo che le ho dato: “Chercher un peu de rêve” viene dal testo della canzone L'Accordéoniste, che ha dato anche il titolo a questa drabble. Il prompt invece è di Giorgia e recita: John chiede a Sherlock di suonare per Rosie per farla addormentare… finirà per addormentarsi solo John.
 




 
L'Accordéoniste






Ride, la piccola Watson e nel suo agitarsi ti accende il cuore di battiti. Lei che nel farlo è così come John, che non puoi non sorriderle in rimando. Ride, la piccola Rosie, incurante del tuo suonare con impegno sulle cadenze di una ninna nanna dal sapore retrò.

«Ti prego, suona qualcosa per farla addormentare.»

Te l’ha domandato lui, a voce affaticata da una giornata infernale e chiedendotelo mentre sprofondava in poltrona con la bambina in grembo. Uno sbadiglio a nascere e morire, occhi addolciti da quel sentimento che tra voi canta sfumature differenti. C’entrano tutte con l’amore, ovviamente, ma questo è un altro discorso e sai che se ci rifletti adesso, rischi di sbagliare qualcosa. Non lo vorresti mai, mantener fede alla promessa fatta è vitale.

«Per favore, Sherlock.»

Le sue parole ti girano ancora in testa, così come il tuo sapere per certo che non sarebbe servito. Una consapevolezza che si accentua attimo dopo attimo, perché non hai bisogno di guardarla per sapere che è ancora sveglia. Ci voleva una favola, rimugini, ma la verità è che sei debole. Ti è bastato un “ti prego” per obbedire a John. E quindi ora suoni. Anche se di malavoglia. Ben poco soddisfatto di te stesso perché, questa nenia, dell’Accordéoniste non ha davvero nulla se non un vago ricordo di note e una melodia non dissimile, seppur più lenta. Ma tu suoni lo stesso. Dolce e attento, delicato sui passaggi più complicati e quando tutto finisce, è un russare leggero a invadere il soggiorno. Voltarsi è un attimo, per capire che è accaduto ti serve anche meno. La risata che, invece, adesso invade il soggiorno, pare non voler smettere di riecheggiare. Dovrai svegliarlo con un bacio, pensi sorridendo. Poi ricominci un’altra Accordéoniste improvvisata.
 


 
Fine

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Capitolo 3
*** When you’re smiling ***


When you’re smiling



 

“But when you're cryin', you bring on the rain
So stop that sighin', be happy again
Keep on smilin', 'cause when you're smilin'
The whole world smiles with you”
 
 


Rideva. Oh, lo faceva così bene che ogni tanto avevo la sensazione che il mondo potesse andare avanti soltanto grazie a quello. Che il mio stesso patetico respirare fosse alimentato dal suo sorridere così dolce. Dal danzare lieve per il soggiorno con Rosie tra le braccia. Dalla maniera in cui i suoi ricci s’agitavano, mossi appena. Insomma, che potessi vivere unicamente grazie al suo sorriso. Un pensiero alquanto sciocco, decisamente insensato. Lui mi avrebbe certamente preso in giro. Ma poi avrebbe riso. Farlo divertire sarebbe stata comunque una vittoria.

Rideva spesso. Di me e delle mie disavventure sentimentali. Delle donne che gli presentavo. Rideva anche la sera, le volte in cui davanti a un bicchiere di vino finiva per elencare ogni difetto trovato in loro. Donna, Sabrina, Judy, Kate… Tutte le cose che dovevo per forza sapere me le snocciolava spietatamente una dopo l’altra. Se non volevo dare a mia figlia la madre sbagliata, diceva, dovevo per forza starlo a sentire.

Rideva sempre. Con Rosie non faceva altro. Rideva per farla felice, sosteneva con sufficienza prima di licenziarmi con un’alzata di spalle e darmi dell’idiota. Probabilmente sorrideva un po’ anche per se stesso, mi aveva detto Mrs Hudson un pomeriggio. Un poco pensierosa mentre serviva tè e biscotti, spiando alla sagoma slanciata che sostava di fronte la finestra, con un pizzico di tristezza nelle pieghe del sorriso. Quel giorno fu decisamente severa nella maniera che ebbe di rimproverarmi con un’occhiataccia e, anche se sul momento non capii perché ce l’avesse tanto con me, fu proprio grazie a quelle parole che iniziai a osservarlo. Sì, Sherlock sorrideva spesso. Lo faceva per non farmi capire cosa provava per me. Per nascondersi ai miei occhi e non farsi vedere. Rideva perché, per una volta, sperava proprio di non essere al centro dell’attenzione. Rideva e suonava, e raccontava storie, ed era bellissimo, e geniale, ma poi si rattristava e io non vedevo nulla. Non capivo nulla.

Comprenderlo fu devastante. Notare la sofferenza sapientemente celata dietro a grandi sorrisi, mi fece quasi morire. Il senso di colpa, poi, fece tutto quanto il resto.

«Non ridere.» Glielo dissi una sera. Con Rosie addormentata da poco nel lettino e Sherlock in piedi, al centro della stanza. Mr Fibonacci stretto in una mano. Louis Armstrong che suonava da un vecchio vinile, in salotto. Le lucine colorate a tingerci di violetto e un’espressione di stupore nello sguardo. Forse, anche del timore a farlo indietreggiare di un passo.
«Non sorridere così» ripetei ed ero senza controllo. Senza più razionalità. Completamente perso in quel discorso insensato che facevo a me stesso da tempo, ma che non avevo mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce. Lo feci in quel momento. Al buio. Sussurrandolo. Probabilmente più per nascondere la vergogna che provavo, che per poter finalmente dire che sapevo.

«Ogni volta che sorridi è una pugnalata al petto.»

«John» sussurrò, e non aggiunse altro. Non fu necessario che si mettesse a spiegare. Avevo capito. E lui lo sapeva. In fondo, sebbene io non avessi mai intuito nulla circa i suoi sentimenti, ci conoscevamo troppo bene per continuare a far finta di niente. Per assurdo, il merito fu del senso di colpa. Di quel pugno allo stomaco che sentivo ogni volta che pensavo a quanto lo avevo fatto soffrire. Del malessere che provavo nel vederlo nascondersi, nell’osservare come abbassava il volto o cambiava stanza per non farmi vedere quella fitta di dolore attraversargli lo sguardo. Non me lo meritavo, il suo sorriso. Questa era la verità. Non meritavo niente, e lui invece era ancora lì. A darmi tutto. A divertire mia figlia, a ridere con me. A farsi piacere le donne che gli presentavo. Come se gli andasse bene l’idea che mi sposassi di nuovo. Ad amarmi incondizionatamente. Ad amarmi tanto da farmi mancare il respiro.

«Dovresti sorridere solo quando sei davvero felice e non fingere di esserlo.» Fu tutto allora. Quell’ogni cosa che non avevo trovato in nessuna mai, e che non avevo visto nemmeno in Mary. Accadde in un attimo. Bastò una briciola del coraggio che dicevo d’avere, ma che mi era sempre mancato, per avvicinarmi a lui. E per stringerlo in un abbraccio che di amichevole non aveva che un affetto sconfinato, ormai sostituito da qualcosa di più grande.

«Hai mai pensato che potrei essere felice anche così, John?»

«Dimmi che è così, Sherlock» annuii con convinzione. Mormorando quelle parole a voce tenuta bassa. Con convinzione e una determinazione tale che sento ancora oggi fremermi dentro. «Dimmelo e giuro che non ti bacio come sto per fare. Dimmelo e non ballerò con te proprio qui e adesso. Dimmelo se è vero che non sarai felice con me, se non l’hai sempre desiderato.»

No, non aggiunse altro. Non lo disse mai. Ma il sorriso che mi regalò immediatamente dopo bastò a farmi capire ciò che dovevo fare. Volevo baciarlo lì e in quel momento, trascinarlo nel soggiorno e ballare con lui. Sentirlo ridere, questa volta per nascondere niente se non un lieve imbarazzo appena nato. Non feci in tempo neanche a pensarlo, le sue labbra mi raggiunsero per prime. La sua risata fece il resto.

No, il senso di colpa non svanì mai del tutto. Ma per uno strano scherzo della mente lo associai a Louis Armstrong. Da quel giorno ascoltammo solo Miles Davies.
 



Fine
 
 

 
Note: Il titolo e la citazione appartengono alla canzone “When you’re smiling”, nella versione di Louis Armstrong che mi ha ispirato anche nella scrittura.

Questa storia è stata scritta per la: 26 prompts challenge - Sherlock Edition : prompt 2/26 #SENSODICOLPA del gruppo “Aspettando Sherlock 5”.
1. In psicologia il senso di colpa è un sentimento umano che, collegato alla colpa, intesa come il risultato di un'azione o di un'omissione che identifica chi è colpevole, reale o presunto, di trasgressioni a regole morali, religiose o giuridiche, si manifesta a chi lo prova come una riprovazione verso sé stessi.
2. Un doloroso sentimento di disistima di sé, accompagnato solitamente da un sentimento empatico verso una persona sofferente, combinato con la coscienza di essere la causa di quella sofferenza.

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Capitolo 4
*** Le petit carillon ***


Le petit carillon
 
 


 
 
Pioveva dell’inverno. Pioveva di quella fine, tipicamente inglese. Pioveva e avevi l’impressione che l’acqua riuscisse a scavare fin dentro le ossa, raggelando il tuo animo tormentato di serenità. Pioveva ma tu eri felice, e tanto da non riuscire a scrollarti di dosso quel sorriso che sapeva dare al tuo sguardo note di dolcezza. Felice. Eri felice. E sorridevi. E benedicevi il giorno in cui tutto aveva avuto inizio, anche allora pioveva. Ed era inverno. Anche adesso eri felice, come allora. Tanto che avresti voluto afferrarla e abbracciarla così, di slancio. Poi farle fare una piroetta e quindi un’altra ancora, fino a farvi girare la testa. Crollare entrambi a terra, ridendo come matti. Felice, ti ci sentivi per davvero. Ed era una sensazione strana, come se un qualcosa ti stesse nascendo dentro. Quasi avessi finalmente trovato il tuo posto nel mondo.


«Questa non ci sta!» disse lei a un certo momento, lamentandosi con quel suo vigore tipicamente watsoniano che amavi riscoprire tra le pieghe della voce. Rosie, che riusciva a sorprenderti soltanto come suo padre era mai stato in grado di fare, si lasciò cadere sul tappeto. Un delizioso broncio si face largo su quel suo viso di tratti sottili. Aveva gettato lontano un cofanetto, a suo dire non era riuscita a infilarlo nello scatolone e ora sembrava fissarlo con odio. E tu, da pessimo individuo qual eri, odiosamente ridevi.

«Facciamo che la tengo io» le avevi risposto, recuperando il piccolo oggetto. Soltanto allora te n’eri accorto perché non era un qualcosa di comune, ma di legno pregiato, con intarsi dorati e una ballerina dal candido tutù che danzava a ritmo di una musica dolce, le volte in cui lo si apriva. Era un carillon. Ed eri certo di sapere anche da dove provenisse.
«Mycroft!» mormorasti, accarezzando appena la superficie liscia. E chi altri? Nessuno avrebbe mai speso più di cinquecento sterline per un oggetto da regalare a una bambina di quattro anni. Lui invece doveva esserci andato di persona, da qualche parte a Portobello Road, tra antiquari e vecchi giocattolai, a scegliere persino la melodia più adatta. Optando per una vagamente malinconica, di quelle che suonavano le giostre dei primi del secolo con tanto di cavalli e buffi ometti dal berretto rosso che regalavano canditi.

«È molto bella.»
«Papà dice che gli ricorda te» disse Rosie, accennando a giocare distrattamente. Forse senza aver coscienza del peso delle proprie parole.
«Perché?»
«Perché tutte le cose bellissimissime gli ricordano te. Lo apre e sorride, ma non lo so perché lo fa.» Un sorriso ti nacque sul volto, proprio mentre la piccola John riprendeva a giocare. Quindi lo sguardo andò ad abbassarsi e le guance, ormai arrossate, disegnavano tutto il tuo fastidioso imbarazzo. Eri felice di tante cose. John sarebbe tornato a Baker Street, per te sarebbe andata già bene così. Ma eri così ottusamente contento, che non avevi pensato al motivo per il quale aveva deciso di farlo. Praticità, ti eri detto. Comodità, avevi ribadito convincendoti che non ci fosse altro.

Sciocco.

«Tutto bene?» Lui giunse allora, a musica finita. Arrivò dopo che la ballerina ebbe smesso di girare e la musica di farla ballare. Fu tutto un sorriso, odore di cioccolata appiccicato addosso. Ora o mai più, ti disse la voce del tuo insopportabile fratello, che risuonava nel palazzo mentale. Ora o mai più, Sherly. Trovare il coraggio fu semplice, dirlo, bello in altrettanta maniera. Non ti servirono grandi discorsi, né parole pompose. Solo le tue mani che porgevano a John il piccolo carillon e il tuo sguardo, di nuovo alto, a scrutare il suo.
«Anche a me tutte le cose bellissimissime ricordano te.» Capire ciò che stava dietro al significato di quella confessione, fu il tempo di un sorriso. Il suo e quindi il tuo, assordato dal cuore che martellava nel petto e che ti stordiva. Capirlo fu annuire e dire che lo amavi, pur senza pronunciare mai parole del genere. Capirlo fu profumo di cioccolata e le grida festanti di Rosie, che s’allontanavano verso il soggiorno. Capirlo fu il tempo di un bacio, scambiato di fretta. Rubato, quasi. Mentre fuori ancora pioveva dell’inverno.
 
 
 

 
Fine





 
Note: Le petit carillon, l’ho trovata su Youtube, ma non so a chi appartenga, né di chi sia.
Sto sperimentando in questo periodo, è una cosa che ho bisogno di fare e ve lo beccate perché mi farete da cavie. Scrivere in questo modo non è stato facile, anzi, sono più gli errori che ho commesso durante la stesura che le cose che ho azzeccato per due frasi di fila. Quindi se avete qualcosa che vi va di dire riguardo a questo approccio allo stile, ditelo pure con libertà perché sono come una spugna in questo periodo.
Grazie a tutti coloro che in questi mesi hanno recensito questa raccolta.
Koa

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Capitolo 5
*** Cuore di Barbarossa ***


Cuore di Barbarossa
 
 



 
 
“Sul caldo mare che ci ha fatto incontrar,
un vento gelido mi porta il dolor,
la bianca luna che ci ha fatto sognar
si è spenta come il sole d'or!”


 



Succede per caso. In un attimo. Capita, perché gli Watson ti rendono la vita imprevedibile e ormai dovresti esserci abituato. È Rosie, questa volta è lei a sfuggire al tuo controllo. Si divincola, corre. Grida, ride. Che carino, urla indicando la vetrina di un negozio di animali. Possiamo prenderlo? Chiede, e il suo sguardo è implorante. Espressivo. Impregnato di una speranza che ti spezza il cuore a dover spegnere.
«Non credo che tuo padre sia d’accordo.» Una giustificazione, nient’altro se non una bugia. Perché è assurdo che lei ti abbia indicato proprio un cane come quello.

Gli somiglia, pensi.

Barbarossa, sussurri piegando la testa da un lato mentre prendi a fissarlo. Ha occhi grandi. La lingua a penzoloni, scodinzola felice. È identico all’immagine di quel cagnolino con il quale non sei cresciuto, ma che ancora popola il tuo palazzo mentale. Del cuore di Barbarossa, là dentro non ce n’è traccia. Perché i tuoi ricordi non sono nulla se non follie di una mente impazzita dal dolore. Logorata dal tradimento. Hai sostituito il tuo compagno di giochi con un animale, convincendoti per tutta la vita che quella fosse la realtà. Credi che, in psicologia, quel che è successo alla tua memoria abbia un nome. Non lo ricordi. Neanche te ne importa. Sai solo che non credi alle coincidenze. “Raramente l’universo è così pigro” mormora il tuo Mycroft fittizio, parlandoti con fastidiosa saccenza, mentre tu ti ritrovi a sfiorare la vetrina con le punte delle dita. Rosie ti guarda, lei non sa. Non capisce. A stento ci riesce John. Probabilmente piange quando gli comunichi il tuo no perentorio, di certo è scontenta dall’esser stata trascinata via.

Vigliacco.

Poi ci ritorni davanti a quella vetrina. Il giorno dopo e quello dopo ancora. Osservi il bel cagnolino scodinzolante e intanto cerchi di figurare te stesso a grattargli le orecchie. Ci sono mattine in cui esci di casa sicuro che lo comprerai, altre in cui invece ci passi semplicemente davanti e non ti fermi. Tenti di convincerti che è soltanto un animale e che non t’importa nulla di lui.
 
Bugiardo.

La realtà è che, vederlo, ti fa tornare alla mente Barbarossa. Il ricordo è doloroso, fa male. Brucia persino la confusione che il tuo cervello ancora non sa riordinare. C’è lui, dentro al tuo palazzo mentale. Ha il pelo fulvo. Corre e abbaia, ed è lo stesso che a tratti diventa lo sfortunato Victor Trevor. Voi, una spiaggia. Il mare. Tu che ti atteggi a feroce pirata. Poi tutto quanto scompare. Un vento gelido ti porta dolore, il sole si spegne. Resta solo il buio. E il frammento di un piccolo Barbagialla che, con lo spadino di legno e il cappellone sopra la testa, cerca invano il suo Barbarossa.
 
Ancora fa male. Non pensarci non serve a niente.
 
Il fatto succede di pomeriggio. Uno di quelli pigri e annoiati, senza la minima traccia di un caso decente. Devi badare alla piccola Rosie perché John è uscito a fare non sai cosa. Non l’hai ascoltato mentre ti parlava; oggi sei troppo annoiato persino per questo. Ti ritrovi steso sul divano a pizzicare le corde del violino. La tazza del tè che Mrs Hudson ti ha portato per rinfrancarti lo spirito, giace sul pavimento. Vuota. Ora c’è Rosie a riempire la stanza, è seduta al tavolo e fa un puzzle. Parla da sola. Canta anche. Cerca di coinvolgerti, ma tu sei troppo distratto per fare il papà.
«Finito!» trilla la bambina a un certo momento, battendo le mani e ammirando il proprio lavoro con quel pizzico d’orgoglio che le gonfia il petto. Stai quasi per alzarti e farla contenta, quando un cigolio al piano di sotto attira la tua attenzione. È John che chiude le porta e sale i gradini, ma lo fa molto più lentamente del solito. Fai subito caso ai passi non ritmati da quella cadenza militare che non ha mai perso. Che ha di tanto pesante con sé? La spesa? Nah, non credi. Sei curioso. Perché non si precipita da te, a sorriderti come soltanto lui è capace di fare?

A baciarti e basta.
 
È dopo che capisci, quando finalmente compare sulla soglia del soggiorno noti che tra le braccia regge una grossa scatola di cartone.
«Un regalo» dice e ha la stessa felicità nel tono della voce, che Rosie ha usato poco fa per il suo puzzle. Rosie, che lo raggiunge. Che non lo bacia sulla guancia come John vorrebbe, ma che subito apre lo scatolone e che urla quando vede quello che c’è dentro.

«Un cane!»

Ed è sufficiente a farti balzare in piedi. Neanche parli, semplicemente guardi quella grossa scatola ormai aperta e la buffa palla di pelo rossiccia che sbuca da dentro. Non è semplicemente un cane, è quel cane.

«Mi pareva piacesse a tutti e due.»
 
John sorride, e tu lo ami. Lo abbracci in un impeto di non trattenuta contentezza, e non hai parole. Non sei capace di trovarle, credi di esser diventato un idiota ma non t’importa. Lasci che siano i gesti a fare il tutto. Quel bacio, per esempio, dato su labbra di poco sfiorate. Un “Oh, Watson” rilasciato sussurrando, tra un sospiro e l’altro. La felicità spazza via il dolore. Barbarossa non c’è più, ti dici, è morto anni fa per colpa della tua disturbata sorella. E quel cane non era altro che una fantasia. Ma adesso esiste ed è reale. Sono vere le risate della piccola Rosie. Lo è lo scodinzolare incessante. La pipì sul tappeto. John che impreca, trattenendosi a stento. E tu che ridi come non facevi da tempo. Rovesciando la testa indietro. Ti amo, John Watson. Gli dici prima di sentenziare che sì, quello è Barbarossa.
 
 
 
 
 
 
“Si é spento il sole chi l'ha spento sei tu
da quando un altro dal mio cuor ti rubò.
Innamorare non mi voglio mai più
e nessun'altra cercherò
io cercherò...
Amare un'altra non potrò”


 
 
 
 
 

 
Fine
 
 
 
 
 
 
Note: Doveva essere una drabble… mi è uscita una semi-songfic. Mi è stata ispirata da questa fanart che ho trovato su Tumbrl (e che non è mia). Doveva essere diversa da così, ma ieri su Facebook ho trovato una canzone di Vinicio Capossela e mentre ne ascoltavo anche altre, sono stata folgorata da: Si è spento il sole. Io… beh, avevo deciso di non far più certe cose, ma in questo caso se potete (o volete) ascoltatela durante la lettura o anche solo per capire come ho scritto, perché la sintassi è molto legata al ritmo della canzone.

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Capitolo 6
*** The Captain and The Laggard ***


Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Mycroft Holmes, Greg Lestrade, Un po’ tutti
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo
Note: Post s4

Questa storia partecipa al contest “Una sana risata” AmahyP sul forum di Efp.

 



 
 
The Captain and The Laggard

 
 
 
“Just stop, 'cause I really love you
Stop, I been thinkin' of you
Look in my heart and let love keep us together”

 
 
A Meiousetsuna,
un ringraziamento per il ben pensiero estivo.
 


 
Se qualcuno gli avesse chiesto per quale motivo il suo futuro marito si stava impegnando tanto per organizzare una festa, probabilmente John Watson avrebbe replicato soltanto con un lungo silenzio. La verità, imbarazzante, era che non ne aveva la minima idea. Sebbene non si trattasse di uno dei casi che seguivano quotidianamente, era successa la stessa cosa che capitava sempre. Nel tentativo di capire cosa stava succedendo, rimaneva indietro finendo con l’arrancargli appresso. Adesso, però, era tutto più complicato. C’entravano i sentimenti e quelli incasinavano sempre le cose. Per esempio, era convinto che l’idea del matrimonio non piacesse affatto a un uomo come Sherlock Holmes. Più volte gli aveva detto che non comprendeva che cosa ci fosse di speciale, era soltanto una firma su un contratto mentre il banchetto e gli invitati li considerava una perdita di tempo. Perciò si era sorpreso così tanto il giorno in cui gli aveva fatto la proposta. Era una sera come tante, forse eccessivamente movimentata da un brutale assassino, ma non si trattava di nulla fuori dall’ordinario. Erano da poco arrivati sulla scena del crimine, stava esaminando il colorito della pelle del morto quando uno “Sposami” era riecheggiato nell’aria come uno sparo. A quel punto John aveva sollevato lo sguardo, incredulo. Si trovavano davanti a un cadavere bello che ammazzato, riverso sul pavimento di un ufficio delle tasse e lui gli domandava di sposarlo? “John, sposami” aveva aggiungo Sherlock Holmes mentre, attorno a loro, yarder curiosi rimpallavano lo sguardo dall’uno all’altro in attesa di una qualsiasi risposta. Probabilmente erano volate anche delle banconote e un: te l’avevo detto, mormorato dal sergente Donovan. Ma John non aveva prestato troppa attenzione a loro perché, cavolo, era stato troppo occupato a dirgli di sì. Perché certo che gliel’aveva detto, e che cos’altro avrebbe potuto rispondere uno che da più di un anno non faceva che aspettare il momento giusto per fare la stessa, maledetta, domanda?

Da quel giorno erano passati più di sei mesi, eppure ancora non riusciva a capacitarsi di quel che stava succedendo. Sherlock voleva sposare lui, non era incredibile? Non era pazzesco che un uomo che aveva giurato di essere sposato col proprio lavoro, ora desiderasse farlo con lui? Sarebbe stato più saggio parlargliene ed esprimere in maniera pacata la propria incredulità, ma aveva evitato d’introdurre l’argomento perché non voleva litigare a un passo dall’altare. Già bastavano le mezze frasi acide che snocciolava di tanto in tanto agli sfortunati avventori di Baker Street, per scatenare fior di discussioni. E più si avvicinava il fatidico giorno e più Sherlock era nervoso, nelle giornate buone lo vedeva arcuare un sopracciglio e quindi cacciar via lo stupido ficcanaso di turno mentre, in quelle peggiori, prendeva a strillare come una perfetta regina del dramma. Ragion per cui, la stragrande maggioranza degli sfortunati che regolarmente frequentava il 221b, aveva finito col rinunciare a chiedere per quale motivo il più scorbutico investigatore di Londra avesse preso una simile decisione. Nessuno dei loro amici avrebbe mai potuto pensare che Sherlock Holmes fosse un tipo da matrimonio. Ancora meno avrebbero creduto di lui che, per i mesi successivi all’annuncio dato sul Times in maniera formale e rigorosa, si sarebbe lanciato in un’organizzazione degna di un wedding planner. Anima viva avrebbe mai dovuto assistere a un monologo del suddetto consulente investigativo sulla sfumatura giusta organza da utilizzare, soltanto lui e Mrs Hudson avevano avuto questo piacere. Perché, per prima cosa, che diavolo era l’organza e poi com’era possibile che uno a cui importava soltanto di chimica e cadaveri, interessasse tanto? E no, nessuno di loro si sarebbe facilmente dimenticato di quel delirante mattino di gennaio e tanto meno avrebbero scordato il giorno cui toccò la scelta di vino e antipasti al salmone. Tuttavia, poteva dire d’esserci passato e, soprattutto, di essere sopravvissuto. Aveva trascorso gli ultimi mesi assistendo il suo molto attivo fidanzato nella scelta di centrotavola e musica, ma anche di temi e colori, e location e, Dio, uccidimi subito! Aveva sbottato un giorno mentre impazziva dietro alla forma da dare ai tovaglioli. Insomma, il loro sarebbe stato un matrimonio con pochi invitati, a che cosa serviva tutto quello? Piccolo, ma raffinato, aveva precisato Sherlock con aria di sufficienza. Come a dire: guarda che idiota che non capisce che lo sto facendo per lui.

«Sarà perfetto.» Era così che lo aveva definito in quel sempre più terrificante mattino di gennaio. Aveva appena finito d’impartirgli lezioni di danza e ora sedeva alla propria poltrona, intento a sorseggiare del tè e a leggiucchiare la prima pagina del Times.
«Sai, non devi farlo per forza.» L’occhiataccia che gli scoccò non preannunciava nulla di buono e tanto che John rimase ben più di un attimo imbambolato al centro del soggiorno, con la propria tazza fumante ancora stretta tra le mani e un’espressione da beota in volto. Lo conosceva da anni, stavano insieme da più di due e ancora faticava a cogliere alcune sfumature; era forse arrabbiato? O deluso? Quella frase lo aveva ferito? Nah, era quasi sicuro d’avergli fatto inconsapevolmente del male e che in realtà, dietro a della finta superiorità, si nascondesse un cuore spezzato. Aveva imparato molto bene quanto fragile potesse essere il suo animo, delicato all’interno tanto quanto stronzo appariva agli occhi del mondo intero.
«Voglio dire» riprese, schiarendosi la voce. Doveva correggere il tiro e fargli capire bene che cosa gli passava per la mente «non è necessario che facciamo tutto questo. Potremmo andare in comune, io, te e Rosie e sposarci là senza dir niente a nessuno. Lasciamo perdere centrotavola e fiori.»
«Tu lo vuoi davvero?» La domanda arrivò a bruciapelo ed era carica di quella schietta sincerità tipica di Sherlock Holmes. Lui era il genere di persona che diceva sempre ciò che pensava, senza badare alle conseguenze che le proprie parole avrebbero potuto avere sugli altri. Non si preoccupava di dover piacere per forza, ma diceva soltanto ciò che gli passava per la mente. L’uomo del quale si era innamorato era proprio così: sincero e onesto, stava dando tutto solo per farlo felice e la consapevolezza di quanto si stesse impegnando lo investì di così tanti sentimenti, che per un istante non fece che ripetersi quanto fosse idiota. Era sicuro che fosse una domanda retorica e che Sherlock sapesse già la risposta, ma il dubbio lo colse ugualmente. Stava forse pensando che non lo voleva più sposare? O che non apprezzava tutto l’impegno messo nell’organizzazione? Perché non era affatto così, anzi, gli piaceva l’idea d’avere un bel matrimonio e la notorietà di cui godevano aveva anche permesso loro di risparmiare qualcosa. No, si ripeté, lo voleva davvero e amava l’idea che Sherlock se ne stesse occupando. La prima volta non aveva badato troppo alle sottigliezze. Al ricevimento ci aveva pensato Mary, facendo tutto quanto da sé. A lui era toccato a malapena assaggiare torte e creme e offrire il proprio parere, puntualmente ignorato. Adesso invece era diverso, il suo futuro era diverso. Questo matrimonio lo era. Sì, Sherlock era un maniaco dei dettagli. Era odioso e petulante, ma non era mai lui a decidere. Come se non gl’importasse per davvero. Quasi contasse soltanto l’opinione di John. Ed era questo ciò lo inorgogliva e preoccupava al tempo stesso.
«Ti sto dando esattamente quello che vuoi» mormorò Sherlock con fare sagace, prima di seppellirsi dietro alla copia giornaliera del Times e prendere a leggere gli annunci mortuari.
 «Io» balbettò, imbarazzato. Era vero, lo voleva. Desiderava un bella cerimonia seguita da una festa divertente, niente di esagerato, né pomposo. E poi era un romantico, aveva una sciocca idea del giorno delle sue nozze. Non che lo avesse proprio sognato, però ci aveva fantasticato giusto un pochino. Quindi sì, se lo avessero celebrato in una squallida sala del comune e con due testimoni presi a caso, se ne sarebbe pentito. Questo era quello che voleva, decise infine.
«Come pensavo» riprese Sherlock, sogghignando appena, prima di fargli notare che Lord Harris era deceduto in circostanze misteriose. Per lui la discussione sembrava essere già finita.
«Ma tu, ah, tu le detesti queste cose» sbottò, lasciandosi cadere goffamente sul divano. Sapeva d’esser stato, come al solito, sconfitto dall’odioso aver sempre ragione che il suo Holmes perennemente aveva. Riusciva a metterlo a tacere anche stando in silenzio o limitandosi a un’espressione torva dipinta in viso. Ormai era diventata un’abitudine, ma questa volta sentiva che avrebbe dovuto farsi valere almeno un pochino. Sì, desiderava tutto quello e con altrettanta forza non voleva che il suo fidanzato fosse costretto ad alcunché. Quindi era ben deciso, assolutamente determinato nel far valere le proprie ragioni e…
«Amo di più te.» E… niente. Gliel’aveva detto con quella sua sincerità disarmante che riusciva a lasciarlo senza parole. Lo aveva mormorato appena, dando quasi più peso ai gioielli di Mrs Cavendish o a un’ennesima rapina in banca. Forse avrebbe dovuto ribattere di nuovo o perlomeno provarci, ma al contrario non fece nulla. Il discorso, quel giorno, si chiuse lì. Non guardarono altri video su Youtube su come piegare i tovaglioli e non discussero di organza e calle. Fu allora che si rese conto che per poter essere felice gli bastava avere Sherlock accanto. Sì, sarebbe stato tutto stupendamente perfetto. Se lo sentiva.



 
*


 
John era quasi certo che ci fosse lo zampino del suo futuro cognato dietro al loro sposarsi ai giardini di Kensington. Occorrevano infatti dei mesi prima di riuscire a trovare un giorno libero e a maggio, poi, era praticamente impossibile avere un intero sabato per poter celebrare un matrimonio. * Sapeva che Sherlock ci aveva messo gli occhi sopra e a dire la verità nemmeno a lui dispiaceva, il problema era che non avrebbe mai osato sperare tanto. Sconsolati, avevano iniziato a vagliare anche altre ipotesi ed era stato allora che s’era messo in mezzo Mr “ho un incarico minore nel governo” Holmes. Non che lo avesse espressamente dichiarato, e quando mai. Mycroft Holmes difficilmente diceva le cose come stavano, preferiva agire nell’ombra invece che parlare apertamente. Era stato di sicuro lui a muovere i fili, d’altronde in quale altro modo avrebbero potuto avere Kensington se non grazie al suo potere? John non aveva neanche avuto bisogno d’indagare, gli era bastato annuire a fronte di quel: sembra che i giardini siano liberi per la fine di maggio, per comprendere ogni cosa. Ora della fine era anche discretamente contento perché, accidenti, era un posto incantevole. C’era tanto verde e moltissimi fiori e aiuole, fontane e statue. Grazie all’organizzazione perfetta che avevano messo in piedi avrebbero avuto una giornata fantastica. Oh, assolutamente perfetta. Perché sì, sarebbe stata anche perfetta. Ne era certo.
«Quel dannato deve aver potere anche sul tempo» disse quel giorno, parlando fra sé, dopo aver sollevato lo sguardo al cielo. Proprio malgrado gli toccò ringraziare segretamente sua Pomposità, perché il sole era alto e, nonostante non fossero neanche le undici, faceva già molto caldo. Per fortuna un venticello fresco soffiava appena, rinfrescando quel tanto che era sufficiente. A spiare al di là del viale che conduceva all’altare improvvisato, poteva scorgere una piccola orchestra d’archi che suonava brani appositamente scelti da Sherlock. Oltre le siepi, invece, si notava con facilità un via vai già molto fremente di camerieri al lavoro. Tutto perfetto, si disse sorridendo di un’idiota e ottusa felicità. Tutto bellissimo e al proprio posto. Ma la cosa che preferiva di più, oltre al suo futuro marito, erano i fiori e di quelli ce n’erano ovunque. Fiori dappertutto. Camelie e rose delle più svariate tinte di pesca ornavano l’arco sotto al quale si sarebbe celebrato un rito rigorosamente civile. Senza riuscire a levare gli occhi da tutto quello, John comprese che non avrebbe voluto sposarsi in nessun altro luogo al mondo. Era decisamente il più bel giorno della sua vita. E l’aveva già detto che era tutto perfetto?

Era arrivato con un’ora e mezza d’anticipo, fra traffico e imprevisti aveva ritenuto più saggio muoversi per tempo. Non che gli fosse pesato, anche perché quel mattino si era svegliato molto prima delle sette. L’assenza di Sherlock, andato da dormire da suo fratello per mantenere: le tue sciocche tradizioni sul non vedersi prima, John, aveva pesato eccessivamente sul suo sonno. Era stato difficile tenere a freno l’eccitazione, per non palare del fatto che non era riuscito a mettere a tacere tutti gli scenari orribili su cui aveva ipotizzato, e tutti riguardanti un fallimento totale della cerimonia. Stare da solo non era un qualcosa che era più abituato a fare e tra il suo futuro marito che mancava e Rosie che aveva dormito da Molly, non aveva avuto nessuno da spupazzare per poter scacciare i cattivi pensieri. Fortuna che a una certa ora la sveglia era suonata. Una volta alzato, poi, aveva fatto le cose con calma: colazione, doccia, un occhio al telegiornale e due chiacchiere con Mrs Hudson, il tutto condito con un enorme sorriso stampato in volto e che da giorni non lo abbandonava. E ora invece se ne stava lì, in una delle tende che avevano fatto mettere. Ce n’era una per sposo e alcune anche per gli invitati, in questo modo avrebbero potuto attendere l’inizio della cerimonia evitando così il sole o eventuali intemperie. Sedeva su un minuscolo divanetto e da minuti batteva forsennatamente un piede a terra, agitato. Sì, era decisamente nervoso. Dannatamente in ansia, per essere precisi. Mancava meno di un quarto d’ora all’evento e ancora non aveva sentito il vocione del suo fidanzato sbraitare ordini e a destra e a sinistra. Era arrivato, vero? Ovvio, tentò di convincersi, sicuramente non aveva cambiato idea.
«Tutto perfetto» si disse, dando un’occhiata all’orologio per l’ennesima volta. A quel punto sentì una morsa strizzargli lo stomaco e si rese conto d’essere spaventato a morte. La sua era paura, ripeté a se stesso. Ma non come quella che sentiva quando stavano affrontando un criminale particolarmente pericoloso, niente di simile a ciò che aveva provato in Afghanistan dopo che gli avevano sparato. Ed era assolutamente lontano dal provare ciò che aveva passato dopo la morte di Mary. No, questo era puro terrore. Sia chiaro, era assolutamente certo della forza del loro legame. Stavano insieme da tanto tempo e dopo che Sherlock gli aveva confessato di amarlo, John si era reso conto che non si trattava di un sentimento nato all’improvviso. Lo adorava da sempre, era così che gli aveva detto quel giorno. Quello del loro primo, meraviglioso, bacio. Forse, tra di due, era proprio il suo fidanzato a dover temere che John cambiasse idea. Eppure, perché non riusciva a scacciare quell’0rrenda sensazione? Aveva come il sentore che Sherlock fosse nei guai. Mancavano soltanto tredici minuti all’inizio ma lui era già lì, vero? E gli invitati? Anche loro erano tutti arrivati? Qualcuno si era perso? E Rosie? Avrebbe dovuto spargere dei petali sulla via dell’altare, ma se non avesse capito quel che c’era da fare? In fondo era ancora così piccola e se fosse caduta durante il tragitto? No, era impossibile. D’altra parte era la più intelligente bambina del mondo, come ripeteva sempre Sherlock a delle spazientite maestre d’asilo. Quella era semplicemente paranoia. Solo panico da altare. Di un tipo mai provato prima, tra l’altro.

«Ehm.» La voce di Mycroft lo fece sussultare vistosamente. Questi faceva capolino dall’apertura della tenda e ora lo guardava con la più brutta espressione che John avesse mai visto addosso a un membro occulto del governo inglese. Era sicuro che non si fosse preoccupato a quel modo nemmeno per il medio oriente o per la crisi in Corea. Tanta ansia doveva essere un’esclusiva tutta per loro. Ma tu guarda che onore, si disse, ghignando amaramente.
«Oddio, che succede?» pigolò, ansioso e lasciando da parte la facile ironia che si poteva fare sul suo futuro genero. Era davvero troppo semplice prenderlo in giro, e poi non era proprio dell’umore giusto. «Ha cambiato idea? Non vuole più sposarsi? È piombata a Londra Irene Adler e ha deciso di fuggire con lei?»
«Niente di tutto questo, John. E poi, Irene Adler? Suvvia, non essere sciocco» lo rabbonì Mycroft, raggiungendolo «è solo un po’ in ritardo.»
«Cosa vuol dire che è in ritardo?» gli chiese, senza capire. «Era a casa tua, giusto? Dovevi portarcelo tu qui, te lo sei perso, Mycroft? Ti sei perso il mio fidanzato?» urlò e la sua voce riecheggiò appena nella piccola tenda. «Cristo santo, eppure non passa certo inosservato. Alto, capelli ricci e un culo da favola. E poi tu non eri quello con i potentissimi mezzi del governo?»
«Sì, dovevo portarlo io qui ed era il piano originario, ma c’è stato un imprevisto e la tabella di marcia si è, come dire in modo che tu possa capire? Si è fottuta» concluse con un espressione inorridita in viso, sembrava disgustato dalla sola idea di aver usato un linguaggio così triviale e probabilmente lo era per davvero.
«In che senso la tabella di marcia si è fottuta? E poi quale imprevisto?» ribatté un John, terrorizzato tanto quanto era arrabbiato. Possibile che non riuscisse ad arrivare puntuale nemmeno il giorno delle sue nozze? Ma d’altra parte, era assolutamente plausibile per un uomo che avrebbe avuto l’ultima parola anche con Dio in persona.
«Ecco» mormorò questi, indugiando appena. Teneva lo sguardo basso e giocherellava con la punta dell’ombrello che aveva conficcato nel terreno erboso. Dannato ombrello! Ma non lo mollava mai? John desiderò seriamente spaccarglielo sopra la testa e poi obbligarlo a parlare. «Ieri sera l’ispettore Lestrade lo ha chiamato e Sherlock è uscito di casa senza dirmi dove andava. Però non devi preoccuparti, è con Gregory. Il vestito è nella sua tenda e io ho gli anelli e le sue promesse.» Respirando a fatica, John si lasciò cadere sul piccolo divanetto. Era tutto a posto, lo aveva detto Mycroft. E Mycroft sapeva quando tutto andava bene. Cos’era un po’ di ritardo in fondo? Nulla. E allora perché inalare aria stava diventando sempre più difficile?
«Mi stai dicendo che il mio testimone e il mio probabile futuro marito (e dico probabile, perché non garantisco di non ammazzarlo con le mie mai appena lo vedo), non sono ancora arrivati? Ma lo sai quanto manca?» sbraitò, rovistandosi nei pantaloni e recuperando il cellulare che, però, gli fu prontamente strappato di mano. Doveva chiamarlo e dirgli di muovere il suddetto culo da favola e portarlo immediatamente lì. Mycroft però non sembrava essere della sua stessa idea.
«Meglio che ci pensi io, non credi? Nello stato d’animo in cui sei potresti dire qualcosa di cui ti pentiresti e non vogliamo mandare tutto all’aria per un leggero ritardo, dico bene?

Dannati, dannatissimi Holmes. Pensò John imbronciandosi come un bambino. Aveva ragione, come sempre un Holmes aveva ragione e a lui toccava ammetterlo. In questo caso era Mycroft e non Sherlock, ma ciò non cambiava poi molto la realtà dei fatti. La verità era che avrebbe potuto dire di tutto in un momento come quello, era spaventato, arrabbiato e la commistione di quei sentimenti era molto pericolosa. In preda alla paura non sapeva che cos’avrebbe potuto fare. E non era difficile capire il motivo, mancavano meno di dieci minuti alla cerimonia e Sherlock non si era ancora fatto vivo. Se fosse stato un giorno qualsiasi, in cui dovevano fare una cosa non importante come cenare o guardare un film, non avrebbe detto nulla. Quella era la loro vita e il quotidiano era fatto soprattutto d’imprevisti, di casi in piena notte, di mattinate a guardarlo dormire fino a mezzogiorno mentre lui rassettava nemmeno fosse stato la dannatissima Cenerentola e trotterellava in giro per casa, cercando di ordinare quel casino atomico che lui e Rosie seminavano ovunque. John se l’era scelto non soltanto perché lo amava, ma perché la loro vita fuori dagli schemi era uno degli aspetti che preferiva. Rendeva tutto più eccitante e avventuroso. Quello però era il giorno del loro matrimonio. Possibile che non poteva, per una volta, mettere da parte gli omicidi e lasciare che la classe criminale inglese finisse in secondo piano, almeno per un’ora? Sì, seduto su quel piccolo divanetto, John Watson si ritrovò a sbuffare come una locomotiva impazzita. In bilico come stava tra la ragione e la voglia di spacciargli la faccia, si rese conto che in parte lo stava addirittura giustificando. Era il suo mestiere, d’altra parte. Se avesse lavorato in ospedale avrebbe potuto incappare nello stesso identico problema. Sì, era così e quello era soltanto un minuscolo intoppo in una giornata perfetta. Tutto era a posto: gli invitati c’erano, l’officiante pure e poi anche orchestra, addobbi e fiori. Mancavano soltanto il testimone e lo sposo, ma per il resto era tutto perfetto. Oddio, perfetto… perfetto un cazzo!

«L’ispettore Lestrade mi ha assicurato che Sherlock si ricorda che oggi è il giorno del suo matrimonio, e questa è la prima buona notizia» gli fece sapere Mycroft, dopo aver parlottato per un po’ al telefono. Voce bassa, aria sommessa e sguardo rigorosamente puntato a terra a evitare il suo. «Stanno tutti e due bene, adesso sono a Scotland Yard e ne avranno ancora per una trentina di minuti, forse addirittura meno.»
«Ma col traffico di Londra ci impiegheranno almeno tre quarti d’ora per arrivare!»
«Per questo invierò loro un elicottero, non ti devi preoccupare» concluse, infine, dirigendosi verso l’uscita, sulla quale però tentennò indugiando per un istante. Sembrava indeciso e quando si voltò indietro, quel tanto che era sufficiente a mostrare la sua espressione, John si rese conto che era teso. Gli fece uno strano effetto vederlo tirato a quel modo, sembrava essere sul punto di dire qualcosa, ma senza che avesse il coraggio sufficiente per farlo. Probabilmente, lì sulla soglia ci rimase per minuti interi. Nessuno di loro sembrò saperlo con esattezza, né rendersi conto che sarebbe stato meglio parlare e riempire gli spazi che li dividevano. A essere chiare furono invece le parole che disse poco più tardi, e che strapparono il silenzio: «Non c’è niente e nessuno che mio fratello ami più di te, questo ricordalo sempre. Adesso vado a dire a Miss Hooper di portare qui Rosie, così ti distrai un po’.» Detto questo, Mycroft Holmes prese l’uscita e sparì dalla sua vista.


 
*


 
Tre quarti d’ora più tardi arrivò la buona notizia: l’elicottero era atterrato e Sherlock era vivo (anche se per poco), sano e soprattutto già vestito di tait e cravattino. A portare la lieta novella fu un affannato, e dalla faccia orribile, ispettore Lestrade. John era sicuro che lo avrebbe raggiunto prima o poi, d’altra parte era il suo testimone e come minimo gli doveva una spiegazione per tutto quel ritardo. Perciò si era preparato un breve e risoluto discorso, in cui lo avrebbe sgridato per bene. Insomma, come cavolo gli era venuto in mente di uscirsene con un caso a dodici ore dalle nozze? Aveva tutti i diritti di cazziare gente a destra e a sinistra come gli pareva e non solo non si sarebbe fatto troppi scrupoli, ma questa volta si sarebbe fatto valere. Ne era sicuro. O forse no, già perché nell’attimo stesso in cui lo sguardo si posò sulla sua figura, cambiò radicalmente idea. Lestrade aveva l’aria distrutta, era evidente che non avesse dormito. Tra le occhiaie pesanti che gli segnavano il viso, i capelli spettinati e il nodo del cravattino tutto storto, era certo che avesse fatto una bella corsa per non tardare ulteriormente. Quel poveraccio doveva aver fatto l’impossibile per portar lì Sherlock a un orario decente. Per questo non disse nulla, perché nonostante fosse sull’orlo di una crisi isterica rimaneva comunque una brava persona. Tutto quel che fece fu abbracciarlo e stringerlo in una presa fraterna. Sentire i muscoli tesi di Greg distendersi vistosamente e quindi un sospiro uscirgli dalle labbra, bastò a farli esplodere in una risata.
«Credevo mi odiassi» mormorò questi, lasciandolo andare.
«Oh, non ti preoccupare, odio tutti e due allo stesso modo. Siete stati due idioti a farmi spaventare così.»
«Andiamo, dottore che ti devi sposare» scherzò Lestrade, prima di dargli una sonora pacca sulla spalla. Sì, si doveva sposare, si disse mentre lasciava la tenda e dirigeva verso l’altare. Si doveva sposare con un Holmes. Sarebbe diventato anche lui un Mr Holmes. Che Dio mi salvi, pensò roteando gli occhi al cielo mentre lasciava finalmente quella stupidissima tenda.

Tutto era perfetto. O quasi. Il ritardo non aveva cambiato poi molto del programma del matrimonio, sì, proprio quello che era stato stilato da Sherlock con scientifica precisione. La sola differenza stava nell’orario, era già passato mezzogiorno, il sole era molto più forte e gli invitati decisamente più accaldati. Poco male, avrebbero bevuto di più al rinfresco. Tutto era molto poco perfetto insomma, e andava decisamente bene così. Rosie aveva fatto il proprio ingresso vestita in un bell’abitino azzurro. Tutta fiocchi e nastri colorati, aveva lanciato petali lungo il tragitto che portava allo stupendo altare decorato con rose e camelie. Oh, era una vera delizia, al punto che aveva intenerito tutti quanti e che John stesso aveva faticato a trattenersi dal raggiungerla e abbracciarla. Specialmente dopo che lei l’aveva salutato con la manina, nell’attimo stesso in cui aveva iniziato a percorrere la navata improvvisata. Quando era stato il suo momento, si era sentito le ginocchia tremare e il coraggio venir meno. Aveva ricambiato il saluto di Rosie con un cenno e un sorriso, ma poi l’emozione aveva preso il sopravvento. Entrare sulle note di un brano che aveva composto Sherlock pensando al loro amore, era stato bellissimo. La musica era un qualcosa di estremamente dolce e delicato, romantica, come l’aveva definita Mrs Hudson tra un sospiro estatico e l’altro. Aveva camminato lentamente, John Watson. Gustandosi ogni istante, beandosi di ogni cosa. Col fiato appena trattenuto e l’emozione che cresceva passo dopo passo mentre, dietro di sé, sentiva il suo futuro marito scalpitare. Già e proprio lui. John non aveva voluto guardarlo, nonostante Sherlock gli avesse inviato più di trenta di messaggi, e tutti di scuse. Aveva declinato l’invito di raggiungerlo nell’altra tenda per parlare e aveva evitato persino di rispondergli, mandando Greg a fare da intermediario. Non era arrabbiato, non più di tanto e comunque non per davvero. Semplicemente voleva tener fede a una promessa. La sera prima, mentre lo salutava dandogli la buona notte, John si era convinto del fatto che avrebbe posato gli occhi su di lui soltanto quando sarebbero stati sull’altare insieme. Forse era un pensiero sciocco e infantile, ma guardare il suo futuro marito mentre percorreva il piccolo viale adibito a navata mentre faticava a trattenere l’emozione, era stato stupendo. Meglio di come se l’era immaginato e senz’altro bellissimo. Sherlock era entrato a braccio con i suoi genitori. Mamma e papà Holmes avevano camminato insieme a lui fino alla fine, dopodiché lo avevano lasciato, anche se non prima di avergli regalato un bacio sulla guancia in segno d’augurio. Era stato allora che si erano guardati per davvero negli occhi. Ed era stato sempre lì, che John aveva notato un’espressione di tensione sul volto di Sherlock. Non era indifferente all’essere arrivato in ritardo, così come aveva ingiustamente creduto per un frangente. Al contrario sembrava visibilmente sconvolto all’idea di averlo fatto soffrire.

«Mi dispiace» sussurrò senza farsi sentire. Oh, Dio! Aveva quello sguardo da cucciolo abbandonato che lo faceva capitolare ogni volta, e ora come avrebbe fatto ad avercela con lui? No, John non rispose e non perché non sapeva quali parole usare. Non disse nulla perché era certo che niente sarebbe uscito mai più dalle sue labbra. Aveva dimenticato come si faceva a pronunciare un discorso sensato. L’emozione gli stringeva la gola e un accenno di lacrima, malamente ricacciata indietro, pungeva gli angoli degli occhi. Non poteva che essere la felicità, a giocare certi scherzi. Perché era tutto vero. Tutto perfetto, nel suo essere molto poco perfetto.

«Amici.» ** L’officiante era una persona fidata, questo stando alle parole di Mycroft che da buon testimone si era preoccupato (forse persino troppo) che la suddetta persona fosse adeguata alle circostanze. John era convinto che fosse perlomeno dei servizi segreti, addestrata come una qualunque delle spie al suo servizio. Insomma, una specie di James Bond in gonnella e con un bel sorriso cordiale stampato in viso. Si trattava di una signora molto ben vestita, sulla cinquantina. Accento del nord, bella presenza e una voce precisa e sicura. Sapeva esattamente quali erano le loro richieste ovvero una formula veloce e senza fronzoli. Niente sciocchezze sentimentali, aveva precisato più volte il suo ipercritico fidanzato.
«Siamo qui riuniti per celebrare il matrimonio di John e Sherlock secondo quello che è il rito civile. Prima di passare alla formula vera e propria, gli sposi vogliono fare le reciproche promesse. John, prego.» Fu allora che si ricordò che doveva fare un breve discorso e che, le parole, le doveva usare per davvero. Mettere da parte l’emozione fu la cosa più difficile che gli era capitato di fare quel giorno, tanto che dovette schiarirsi più volte la gola. Non che se ne fosse dimenticato, ma era stato talmente preso dall’ansia e dalla paranoia, oltre che dalla rabbia, che aveva finito col dimenticarsi ogni cosa. Greg, pronto e preciso, gli porse quel fogliettino sopra al quale aveva scarabocchiato appunti. Però gli bastò un’occhiata per capire che in quel momento sarebbe stato del tutto inutile. C’erano belle frasi, alcune anche ricche di significato e c’erano anche discorsi sull’amore e sul tempo da passare insieme, roba sulla vita e sull’invecchiare. Tutte belle cazzate, insomma. Perfette e splendide paroline trovate su un libro del genere: “cosa devi promettere al tuo matrimonio senza peggiorare già la tua pessima situazione”. Quando l’aveva scritta si era anche convinto d’aver fatto un buon lavoro e d’aver trovato la giusta dose di romanticherie, ma rileggendolo velocemente si disse che non ne aveva bisogno. Non gli servivano frasi fatte scaricate da internet o lette in un libro, per dirgli che lo amava. Quindi se lo ricacciò in tasca e semplicemente sollevò lo sguardo su di lui. Soltanto in quel momento notò che Sherlock era teso e imbarazzato, aveva le guance chiazzate di un rosso acceso e gli occhi rivolti a terra. Ed era, beh, semplicemente stupendo.

«Sei adorabile» disse a voce ben alta mentre questi arrossiva con ancor più violenza «e io non so se ho più voglia di prenderti a pugni perché sei arrivato in ritardo, o di abbracciarti e chiederti che caso eclatante possa averti fatto dimenticare che giorno era oggi. Mi viene da ridere e sai perché? Perché so che tu muori dalla voglia di dirmelo tanto quanto io ne ho di ascoltarla, quindi al diavolo. Più tardi sapremo come ingannare il tempo tra una portata e l’altra.» La sala esplose in una risata sommessa, le sue parole avevano colpito tutti e specialmente Sherlock che si era lasciato andare un timido sorriso. «La verità è che mi fai diventare matto, Holmes. So che in molti si domandano come faccia io a stare con te, ma non sanno che siamo molto più simili di quanto credano e che non c’è niente che tu non faccia che non farei anch’io. Ti amo perché sei strano, e lo sai, e non azzardarti a negarlo. Con te è normale parlare di cadaveri mutilati mentre si mangia, cosa che farebbe schifo a chiunque. Invece io rimarrei ad ascoltarti per delle ore e so che è lo stesso anche per Rosie. Ci hai conquistati tutti e due, Sherlock Holmes e mi dispiace se ci ho messo anni per capirlo, ma ti prometto non farò altro per il resto delle nostre vite. Tenterò di comprenderti sempre, prometto che mi occuperò di te e ti supporterò finché potrò.» Sì, John Watson era quasi certo che Mycroft si fosse commosso, ma doveva essere un’illusione ottica. O forse no. Chi poteva dire di comprendere davvero quell’uomo? Sherlock aveva gli occhi lucidi, ma anche di questo non ne era sicuro. Era talmente stordito, che non sapeva bene cosa fosse reale e cosa invece no. Seppe soltanto che la voce dell’officiante fu in grado di riportarlo con i piedi per terra e che quando aprì gli occhi, il suo splendido quasi marito stava già per parlare.
«E ora tocca a te, Sherlock.» John lo vide annuire molto velocemente, e quindi rifiutare le promesse che Mycroft gli stava porgendo. Anche quelle scritte in un foglio di piccole dimensioni, anche quelle ricacciate in tasca. Non importanti.
«Avevo scritto un bel discorso» esordì, a voce sottile ma ferma. «Se lo leggessi saresti anche fiero di me, sembra scritto da una persona di normale. La verità è che adesso mi rendo conto che quelle parole non mi appartengono e che non so cosa dirti. La notte scorsa continuavo a ripetere a me stesso che non potevo sposarmi e che, se ti amavo veramente, non dovevo venire qui oggi. Per questo ho chiamato Lestrade e mi son fatto dare un caso, avevo bisogno di smettere di pensare al matrimonio. Mi dà fastidio ammettere i miei limiti, ma la realtà è che sono terrorizzato, John. Non so ancora com’è possibile che tu abbia deciso di sposare me. Tu hai detto che siamo uguali, ma in fondo lo sai che non è vero. Vivere vicino a me è un disastro disordinato, io sono un disastro. Sono suscettibile, irascibile, ho un pessimo carattere… Sono sempre stato così e sia mio fratello che i miei genitori te lo potrebbero confermare. Mi ero convinto che non avrei avuto nessuno nella mia vita, se non loro. Ma poi sei arrivato tu. Delle volte credo che tu sia pazzo, adesso penso che lo siamo tutti e due. Se ti ricordi l’avevo già fatto un voto, ti avevo promesso che avrei tenuto al sicuro la tua famiglia, ma ho fallito. E adesso mi chiedi un altro voto che sicuramente infrangerò in qualche modo, finendo col deluderti. Ho deciso che non ne farò nessuno, niente giuramenti e solo una promessa. La più insensata e illogica delle promesse. Razionalmente non ha alcun senso e se questo fosse un film t’imporrei di spegnere e di non far vedere a Rosie certe schifezze. Perché non ha nessun senso dire che ti amerò per sempre. Così come non ne ha il fatto che tu abbia deciso di sposare me. Non ce l’ha e sfido chiunque a trovare una logica.»
«Eppure eccoti qua» mormorò John, senza trattenere un sorriso. Dio, aveva così voglia di baciarlo che dovette trattenersi a fatica dall’abbracciarlo.
«E dove altro vuoi che vada, Watson?»

«John Hamish Watson, vuoi tu prendere William Sherlock Scott Holmes come tuo legittimo sposo e amarlo, onorarlo e promettere che gli starai accanto in ogni momento della vita, in ricchezza e in povertà, fino a che morte non vi separi?»
«Lo voglio.»
«E tu, William Sherlock Scott Holmes vuoi prendere il qui presente John Hamish Watson come tuo legittimo sposo e amarlo, onorarlo e promettere che gli starai accanto in ogni momento della vita, in ricchezza e in povertà, fino a che morte non vi separi?»
«Ovvio che lo voglio» disse, facendo ridere entrambi.
«Vi dichiaro ufficialmente uniti in matrimonio, potete baciarvi adesso.» E no, John non se lo fece ripetere due volte e, attiratolo verso di sé, lo strinse in un abbraccio forte e deciso e immediatamente prese a baciarlo. Già aveva la sensazione che fosse tutto diverso e che i loro baci ora fossero più intensi. Oppure era semplicemente colpa di tutta quell’emozione che non era più capace a trattenere e aveva sfogato in un toccarsi vorace. Gli era parso quasi di sentire un gridolino da parte di Greg, il solito a prenderli in giro ma in realtà non ci aveva fatto troppo caso.
«Stupido idiota» gli disse, senza più lasciarlo andare mentre gli invitati li applaudivano. «Stupido, stupidissimo idiota» ribadì, baciandolo di nuovo mentre Sherlock stirava le labbra in un sorriso.
«Anch’io ti amo, marito.»

Era quella la felicità? Si domandò John appoggiando il capo sulla sua spalla, ore più tardi, mentre si esibivano nell’ennesimo ballo della giornata. Doveva essere proprio fatta così, perché non riusciva a trovare altre parole per descrivere come si sentiva in quel momento. Felice come l’idiota innamorato che era. Senza riuscire a immaginasi niente di più bello che stare tra le sue braccia e spettegolare sugli invitati. Mai niente e nessuno lo aveva mai fatto sentire in quel modo, amato così tanto che a pensarci gli mancava di nuovo il fiato. Il suo Sherlock che era lì che lo stringeva, chiedendogli di andare via perché aveva voglia di fare l’amore.
«Chi se ne importa degli invitati?» aveva detto, tentando di trascinarlo in un luogo un po’ più appartato. La felicità erano le loro risate, un po’ ubriache e decisamente stanche. Felicità doveva decisamente essere il vedere Mycroft Holmes tentare di chiedere di ballare a Lestrade, imbarazzato e rosso in viso, mentre evitava saggiamente il suo sguardo. La felicità era stare tra le braccia di Sherlock, ondeggiando appena e ridere del vedere Greg pestare i piedi a Mycroft.
«Lestrade è peggio di te» scherzò, baciandolo su una guancia e sospirando.
«E tuo fratello ti somiglia in tutto e per tutto» ribatté, notando l’imbarazzo tirato del suo viso.
«Se è così, allora sono decisamente fortunati, John.»
«Decisamente» si sentì rispondere.

Poi, solo baci.


 
 
Fine
 
 
 
*Questo passaggio è puramente ipotetico, ho presunto che i giardini di Kensington siano un luogo esclusivo, ma è più un espediente narrativo.
**Nella parte che segue si celebra il rito del matrimonio civile inglese. Non sono riuscita a trovare niente di specifico, tutte le mie conoscenze in proposito arrivano da film che mi è capitato di vedere.
 
Note: La citazione in alto viene dalla canzone Love will keep us together di Captain and Tennille. Il titolo richiama il nome del duo americano, il “Captain” era infatti Daryl Dragon mentre “Tennille” era sua moglie: Toni Tennille. L’ho adattato tenendo Captain per John e chiamando Sherlock “laggard” che in inglese vuol dire ritardatario.
Koa

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Capitolo 7
*** You kiss me once (I’ll kiss you twice) ***


You kiss me once (I’ll kiss you twice)




 

“When I'm with you it's paradise
No palace on earth could be so nice
Through the crystal waterfall
I hear you call”





È fuggito come un codardo. Non ha saputo fare niente di più sensato che prendere la porta e scappare. Se n’è andato incurante di tutto, della logica, della ragione, del buon senso. È uscito con addosso ancora pigiama e vestaglia, si è precipitato giù per le scale e ha iniziato a correre sul marciapiede, con indosso niente se non piedi nudi. Lui a ridere come uno scemo. Senza frenare le lacrime. È gioia. Di certo niente che c’entri con la tristezza. Si è messo a correre e basta, con il palazzo mentale impazzito e nessun reale motivo per avere così tanta fretta. Correre e basta. Sotto agli sguardi attoniti di passanti sconvolti. Correre sotto al cielo terso di una Londra di pieno agosto, col vento fresco della sera tarda a sbattergli contro. Infilandosi in vicoli stretti e bui e poi inerpicandosi su per scale antincendio. Tutto per poter salire lassù. Nell’unico luogo che sarebbe riuscito a calmare i suoi pensieri disordinati. Ha bisogno di mettere fine al caos, sistemare i ricordi. Tenere a bada i sentimenti e quella sensazione che ancora gli striscia sulla pelle. Non sa cosa sia, è un brivido e un’eccitazione che non se ne va. Alla quale si rifiuta di pensare. Ha un disperato desiderio d’inspirare a pieni polmoni, chiudere gli occhi e ascoltare il cuore pulsante di Londra. Riprendere a vivere, dopo quello che è successo, gli sembra impossibile.


E ora se ne sta lì, seduto sul cornicione di un palazzo infilato tra Saint Paul e deliziose casette più basse. C’è proprio la grande cupola che fa capolino tra un tetto e l’altro. E poi, finestre spalancate su momenti di vita altrui. Cose non importanti, ma che stranamente riescono a mettere a tacere le tante voci che urlano nella testa. Sente anche una musica che suona da una radio, in un sottotetto caotico e arredato malamente. La canzone è alquanto idiota, parla di gente che si tiene per mano e di un paradiso… Tzé, come se l’amore fosse quello! Eppure, stranamente sta funzionando. Non c’è riuscito il violino e nemmeno la meditazione. Ci riesce una canzoncina stupida che riverbera nella piccola casetta di una sconosciuta. Sì, funziona, si ripete. E quindi si lascia andare, chiude gli occhi e inspira lentamente mentre, inevitabile, un sorriso gli nasce d’improvviso. È felice e non sa dire neanche perché. Anzi, lo sa perfettamente ma è meglio non pensarci. Adesso deve concentrarsi, smettere di ragionare e nient’altro. Lasciarsi investire da Londra e permetterle di curarlo. Solo loro e nessun altro.


Non dura a lungo. Ma questa volta non è la concentrazione a mancare, è che sente rumore di passi alle spalle. Una volta si era detto che avrebbe riconosciuto il suo Watson in mezzo a milioni di persone. Eppure, quando se ne rende conto ormai è troppo tardi. John sta lì e lui non ha neanche il coraggio di guardarlo negli occhi. Sarà arrabbiato? Spaventato? O una commistione, pericolosa, di entrambe le cose? E quando questi gli si siede accanto e prende a dondolare i piedi giù nel vuoto, neanche riesce a sollevare il viso. Dovrebbe spiegarsi, parlare. Guardarlo in faccia. Dirgli che è tutto sbagliato (che lui è tutto sbagliato) e non dovrebbero trovarsi lì. Però non fa nulla se non rilasciare un sospiro teso. E la radio ancora suona.


«Beh, non dici niente?» domanda, ma Sherlock è talmente confuso che neanche sa distinguere le sfumature della sua voce. Dannati sentimenti! «Non mi chiedi come ho fatto a trovarti?»
«Non fare domande sciocche, John» borbotta, agitando una mano per aria. È la sua espressione annoiata e infastidita dal dover dire ovvietà. La stessa che ha una strana persa su John, che prevedibilmente prende a sorridere. A Sherlock tanto basta per continuare: «Prima hai chiamato Lestrade, il quale ha chiamato Mycroft che ha chiamato un tizio all’MI6 che gli ha detto che ero venuto qui. Ti sei complicato la vita inutilmente, avresti potuto seguire la scia di sguardi inorriditi della gente quando mi vedeva correre scalzo e con indosso la vestaglia.»
«Per forza» scherza ridendo appena, e manda indietro al testa, e chiude gli occhi, ed è bellissimo. Dovrebbe urlarglielo, ma non lo fa. Sente di non avere il permesso di dire certe cose. «Sei in pigiama e senza scarpe. È vero che la gente guarda ma non osserva, però…»


John scherza, ride e la prende alla leggera. Spiandolo come riesce a fare, sperando di non essere notato, Sherlock capisce che neanche è arrabbiato. Magari lo è stato. Di certo non è venuto per domandare spiegazioni, lo ha fatto per stargli vicino. Per fargli capire che c’è. Per dirgli che qualsiasi sia la ragione della sua fuga risolveranno tutto insieme, se solo glielo permetterà. Ed è questo il punto, Sherlock non crede di meritarselo. John è troppo per lui. Finirà col deluderlo o ferirlo e neanche si renderà conto d’averlo fatto. È a questo a cui pensa da settimane e che nelle ultime ore non ha fatto che tormentarlo. Sa che dovrebbe confessargli tutto quanto e farla finita prima che sia troppo tardi. Avrebbe anche un discorso adatto, da qualche parte nel palazzo mentale, ma di nuovo non riesce a parlare. C’è una parte di se stesso che non vuole lasciarlo andare e che gli dice che non ha nessun senso metter fine a tutto ancor prima che cominci. Oh, è terribile quando anche i sentimenti pretendono d’avere una logica. Quando nessuna argomentazione riesce a spuntarla con questo sentimento che gli divora via tutta l’anima. Neanche con la razionalità più distaccata riesce a controbattere. E infatti fallisce, e cede.
«John…»
«Forse dovresti chiedermi che cosa provo in questo momento, ma faremo prima se te lo dico io.»
«John!» Ribatte, ma non sa nemmeno che cosa vuole dire. Il suo discorso sensato muore lì, davanti al sorriso del suo John, un sorriso appena accennato e che trema subito. Che sparisce, inghiottito da un’espressione di seria dolcezza. C’è così tanto nell’uomo che ha davanti, che il famigerato spirito d’osservazione di Sherlock Holmes se ne va liberamente a farsi fottere.
«Quando mi sono svegliato» lo interrompe di nuovo, non sembra intenzionato a lasciarlo parlare. O forse sono proprio le intenzioni di Sherlock, ad apparire misere. John è determinato, convinto, guarda avanti a sé e parla a voce ben ferma. Ha l’aria di chi ha capito tutto quanto. Sherlock lo invidia, lui invece non ha capito niente. E questo lo terrorizza.
«Non c’eri mi sono spaventato» riprende «ti ho cercato dappertutto e quando ho capito che eri uscito mi sono anche un po’ incazzato. Ma poi ho provato a ragionare, mi sono detto che sei tu e che sei completamente imprevedibile e mi sei sempre piaciuto anche per questo. Inoltre credo di capirti, almeno un po’. Io sono nella stessa tua identica situazione. Ho una paura fottuta.»
«Non è soltanto quello, John, è tutto. Tutto quello che è successo. Io… dovevo mettere in fila i pensieri» annuisce e per la prima volta riesce a guardarlo negli occhi. Si vedono. Sorridono.


«Abbiamo fatto l’amore, Sherlock e nemmeno io riesco ancora a crederci. Anch’io ho paura di mandare tutto quanto a puttane, di rovinare la migliore amicizia che abbia mai avuto. Ma ormai dobbiamo farci i conti, non possiamo ignorarlo. Farlo, distruggerebbe entrambi.» Sherlock questa volta non risponde. Abbassa il capo, volge lo sguardo altrove. C’è ancora quella soffitta non troppo lontana da loro. E quella canzone che adesso John canticchia sottovoce. John che guarda lontano, oltre Saint Paul. John, a cui Sherlock non riesce a staccare gli occhi di dosso, non più. Sa perfettamente cosa deve dire, ma radunare le parole giuste è difficile. E quindi sospira, chiude gli occhi e tenta maldestramente di fare ordine. La radio è ancora accesa, pensa abbandonandosi per un frangente alla musica.
«Me lo sono immaginato tantissime volte e sempre ripetevo a me stesso che tra noi non sarebbe cambiato nulla e che mi sarebbe andata bene anche la storia di una notte. Pur di averti così vicino avrei accettato anche di non poterti più toccare o baciare. Odio ammetterlo, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo così tanto! È cambiato tutto, John. Io e te, non sarà più come prima e questo lo sai anche tu.»
«Questo discorso che significa?» chiede e Sherlock la nota allora, la maschera di tranquillità incrinarsi e cedere appena. La voce trema e le mani si stringono a pugno, in un gesto di tensione che gli ha visto fare troppe volte.
«Che la vita non è una canzone e che tu dovresti proprio baciarmi, dottore.» In risposta, solo una risata. Leggera, sottile. Appena sussurrata. Il loro cercarsi è come Sherlock lo ricordava, intenso, passionale. Infinitamente dolce. John è premuroso, gli spegne il sorriso con un tocco fugace e poi lo riaccende quando accenna a quella dannatissima e sdolcinata canzone d’amore. Mi baci una volta, io ti bacio per due, sembra dirgli. Pare che si chiami Laguna qualcosa. Sherlock non lo sa, non ha sentito. Adesso vive dei battiti del cuore di John Watson, adesso ascolta soltanto quelli. Adesso ha solo lui. E Londra.
 
 

 
 
Fine
 
 
 

Note: Il titolo, la citazione e la canzone che ascoltano durante la storia è Paradise, dal film Laguna Blu.
Non sapevo se avrei pubblicato o meno questa flash, l’ho scritta qualche giorno fa tutta di getto ma dato che sto lavorando a una storia molto complessa e che mi sta portando via tanto tempo, non ero sicura che sarei riuscita ad aggiustarla. Specie se si considera che ho fatto un casino con i verbi nel primo paragrafo! ^.^’

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Capitolo 8
*** Remember ***


Remember
 
 


 
 
Dream…
 
 


 
 
Le immagini ti scivolano tra le dita. I ricordi riaffiorano, come alghe sbattute sulla riva dopo un mare in tempesta. Vecchie reminiscenze di un passato lontano riemergono d’improvviso e ti sconvolgono la mente, e ti distruggono il cuore, e al contempo lo allietano di una dolcezza che avevi dimenticato. Oh, non ricordavi davvero quanto stupendamente doloroso fosse l’amarlo. Ed è bastato un niente affinché anche le emozioni riprendessero a torcerti viscere e cuore. Un istante soltanto.

È successo per via di Mycroft, al solito preciso. Lui e la vita di John stesa in rapporti concisi, ritratta in decine di fotografie come quella che adesso tieni stretta tra le dita. Lui che ora ti guarda, incerto sull’insistere o meno con una battuta di spirito. E poi tu, a sorridere e tremare appena, mentre osservi quel John orribilmente baffuto e ti ritrovi a pensare che riesce a essere ancora più bello di quanto il tuo cervello non riuscisse a ricordare. Certo che quei baffi… Ah, eppure bastano a fartelo amare di nuovo. Perché non sono soltanto i ricordi a venire a galla, non è soltanto quel che è stato di voi, là a Baker Street, ad emergere. Tornano anche i sentimenti, quelli volutamente seppelliti dietro la ferrea volontà di non lasciarsi trascinare. Due anni lontano, due anni ad aggrapparsi all’idea di un futuro assieme ma mai ricordando ciò che era stato. Torna tutto quanto adesso. Torna con quel pollice ad accarezzare un volto impresso su di una foto. Tornano i sentimenti, mai scomparsi ma sì, seppelliti in un angolo remoto del palazzo mentale. Tornano e con loro torni anche tu. Da John, di nuovo. Credi si chiami vita, non lo sai. Di certo è respiro e battito di cuore, e un sorriso che non se ne va più via.
 
 



 
Fine
 
 



 
Note: L’ho scritta ieri tutta di getto, per l’iniziativa #scritturalampo del gruppo Parole tra le dita. Il prompt era #ricordo o #ricordi. Lo scopo dell’attività è quello di scrivere qualcosa di breve, senza pensarci troppo. Per il titolo, mentre ci ragionavo sopra mi è tornata in mente Remember di Harry Nilsson, che in realtà credo le dia un tono più malinconico e struggente che in un primo momento non volevo neanche tirar fuori, ma che ora mi piace un pochino.
 
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito tutti i capitoli fin qui.
Koa

 

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Capitolo 9
*** Hurt ***


Hurt



 

Thank you for all you've done
 
 



Scioccamente, sei sempre stato convinto che fossero le parole, più di tutto, ad avere la capacità di ferire. Loro e basta. Dopo i pugni, le pallottole e le bugie, le parole sono in grado di distruggere e nessuno lo sa meglio di te. Tu che hai ucciso, insultato, picchiato… Ora, però, è il silenzio a far male. Lo è il ticchettio assordante dell’orologio da polso, un suo regalo, che ti porti addosso persino la notte. Fa male il dolce suono del respiro di Rosie, la luce giallastra proiettata sul muro da una di quelle lampade colorate. Fanno male i suoi pupazzi, sparpagliati ovunque sul letto. E fa male anche il cuore. Quello che ancora possiedi, anche se ti pare incredibile, e che batte irragionevolmente al centro del petto e che, imperterrito, non sembra voler smettere di ricordarti che hai ancora troppo dolore caricato addosso. Ormai hai capito che il tormento che senti è direttamente proporzionale all’amore che provi per lui. Lo stesso sentimento che tieni fastidiosamente incastrato in gola, assieme a quel nodo di lacrime amare che non sei neanche più capace di versare. Dovresti dirglielo ma tu, oh patetico stronzo, questo, non lo farai mai.

Fa male. Ed è lui a dilaniarti l’anima. Lui con la sua muta presenza a fianco. Lui con il tamburellare delle dita delle mani, mai davvero ferme, che picchiettano sul pavimento. Lui che si preoccupa e che è perfetto nel suo essere stupendamente strano. Lui che accompagna Rosie all’asilo e le prepara lo zainetto. Lui che pedina le sue insegnanti e che ha già un piano pronto per quando avrà le sue prime mestruazioni, o per il discorso sul sesso. Lui che è lì, sempre e che la ama in quella maniera speciale che, ai tuoi occhi, lo rende bellissimo. Fa male. Fa male il fatto che sia perfetto e che tu lo sia così poco. Tu che ti crogioli nel tuo malessere e che ti senti sbagliato, rotto e mai abbastanza. Tu che non riesci neppure a dormire tranquillo per una semplice influenza di tua figlia. E sì, dovresti dirglielo. Ma non lo fai e nel silenzio della stanza tua e di Rosie, semplicemente lo guardi. Lui siede a terra e osserva, rapito, il giocare delle ombre sul soffitto. Di tanto in tanto ti spia e una volta o due hai creduto stesse per dirti qualcosa, tuttavia tace e immediatamente riprende a guardare altrove. Fa male anche il suo silenzio, fa male la tua incapacità di fare la cosa più giusta.

Poi, d’improvviso, un sospiro. Rosie si gira nel sonno, emette un versetto e il piumone le scivola via. Ed è allora che Sherlock si solleva da terra, agile e silenzioso come un gatto le si avvicina rimboccandole le coperte. Poi, un bacio sulla fronte e quindi un sorriso, colorato dalla luce giallognola proiettata sul muro. Ride ed è bellissimo. E no, non dovrebbe essere qui. Non è il padre di Rosie, eppure si comporta come se lo fosse. Non state insieme, ma delle volte sembra che ti consideri suo marito. Perché? Perché proprio tu? Che cos’hai di così attraente? Lui che è un genio e che potrebbe avere chiunque con uno schiocco di dita. Lui che potrebbe passare questa stessa notte in una lussuosa suite del più grande albergo di Londra in compagnia di un bastardo qualsiasi, sceglie invece di sederti accanto e di rimboccare le coperte a una figlia non sua. Perché? Non ne hai idea, ma non te ne sorprendi neppure. Da che da che lo conosci hai sempre sbagliato tutto con lui. L’hai offeso, insultato, umiliato, mai davvero capito. Picchiato. Hai sbagliato così tanto, John Watson e adesso, adesso lui è lì e tu… Cristo! Sei così troppo innamorato di Sherlock, tanto che non sei capace più di far nulla tranne che continuare a ripensarci, come se rimuginare facesse la differenza. No, non la fa mai. Il silenzio non cambia niente.

«Perché?» Sherlock sorride, si volta verso di te ma in quell’istante la sua espressione cambia e si fa cupa. Forse ha capito o magari non l’ha fatto e brancola nel buio. Non sei certo di nessuna delle due ipotesi.
«Perché io, Sherlock? Perché sei qui con me? Lo sai benissimo che Rosie ha solo una banale influenza stagionale e che fra qualche giorno già starà meglio, quindi come mai sei qui?» domandi e lui non risponde. Al contrario si volta appena verso la finestra, oscurata dalle pesanti tende che riparano dalla luce. Il sorriso si è smorzato, le dita hanno smesso di tamburellare. Qualsiasi musica stesse sviolinando nel suo palazzo mentale, ora è cessata. Il silenzio è svanito. S’è dissolto nel rumore della pioggia, in quello del suo respiro accelerato. Nel tuo protenderti in avanti. Nei vostri cuori che, stupidamente, adesso battono un po’ più all’unisono.

«Oh, John!» Ed è un sussurro che squarcia quel silenzio fatto di anni di non detto e di parole ricacciate indietro. Un sussurro che ti riporta in vita e ti dà il coraggio per farlo, perché devi. Perché quella bambina che vi dorme accanto si merita anche questo. Perché lo meriti tu e anche lui.
«Sono qui perché importante per te e se è importante per te, allora lo è anche per me. Lo so che è soltanto una banale influenza, ma tu non riesci mai a dormire quando lei è malata o ha un problema. E quindi finisci con l’auto commiserarti e col fare pensieri idioti, tipo che io non vi voglio qui e altre sciocchezze del genere.»
«Io…» Ma lui non ti fa continuare, si solleva sulle ginocchia e ti tira verso di sé. L’abbraccio che ti dà è caldo, affascinante. Profuma di dopobarba e sudore. E lo ami. Ami posare la testa sul suo petto, ami le sue braccia che t’accarezzano la schiena. Ami lui.

«Non vorrò mai nessun altro se non voi due, John.»

«Sherlock.» Ma le parole che tanto volevi dire muoiono in un singhiozzo. Si perdono tra le lacrime che ora non riesci a smettere di versare. Hai provato a piangere così tante volte senza riuscirci e lo fai invece adesso che sei tra le sue braccia. Il solo posto al mondo in cui vorresti stare. L’unico in cui sai che, piangere, non è poi così male. E quindi lo stringi, intanto che versi una a una le lacrime che gli bagnano la vestaglia. Piangi e le dita artigliano la sua schiena. I ricci solleticano la tua fronte. Il suo fiato t’accarezza la guancia. L’ombra di un bacio avanza lenta.
«Perdonati» mormora al tuo orecchio «perdona entrambi, John.»

Non sei mai riuscito a farlo, neppure dopo così tanti anni. Ma adesso è tutto diverso, è lui che te lo chiede e tu lo vuoi fare, anzi lo devi fare. Lo farai subito. Lo fai adesso intanto che lo baci. Una, due, tre volte. Lo baci in quel cercarsi frenetico, salato, disperato, a tratti passionale. Lo baci di chi non ha mai baciato. Lo baci di chi sa che è l’ultima persona che bacerai in vita tua. Lo baci di chi ama, di chi non ha mai fatto altro se non adorarlo che vi conoscete. Lo baci di chi l’ha ammesso soltanto dopo anni. Lo baci di chi avrebbe dovuto dire grazie già molti anni fa, ma non l’ha fatto. Lo baci della pioggia, del sole, di Rosie, di questa notte fredda di tardo inverno. Lo baci e basta ed è talmente bello che a te pare di morire e di tornare a vivere. Sherlock.

«Grazie per tutto quello che hai fatto.»

E lui non risponde, sorride e ti abbraccia di nuovo. Dopo, un altro bacio. Ancora e ancora. E quindi l’ennesimo. Intanto che le tue mani lo cercano ovunque. E ancora piangi, ma non importa. Il peso ti sta abbandonando, il dolore svanisce. Vivere inizia a non far più male.
 


 
 
Forgive all your mistakes
 
 
 
 


Fine
 
 
 
 
 
Note: Era un secolo che volevo scrivere qualcosa sulla canzone di Christina Aguilera Hurt, ma non avevo mai il prompt giusto e poi, all’improvviso, me n’è arrivato uno che recitava: “Rosie si ammala e i suoi papà si prendono cura di lei per tutta la notte. Ancora non stanno insieme, ma vegliare fianco a fianco, da soli, nel silenzio, li porterà a confrontarsi su ciò che non si sono detti”. Ringrazio Sonia, alias MissAdler per il prompt e il supporto.
Koa

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Capitolo 10
*** Il detective con il cuore di glitter ***


Il detective con il cuore di glitter
 
 
 


 
“(Do I wanna know?) If this feeling flows both ways”
Arctic Monkeys
 
 
 


Per quanto avesse provato a farti credere d’avere un cuore di pietra, Sherlock Holmes era sempre stato tutt’altro. Sensibile, premuroso, attento… E l’aveva nascosto così bene che non ti eri mai accorto di nulla. O meglio non avevi voluto vederlo, al punto che per tanto tempo l’avevi definito un sociopatico, una persona senza sentimenti. La macchina calcolatrice che pensava soltanto al lavoro e non aveva amici né qualcuno da amare. Te n’eri detto convinto, perché era più facile pensare che fosse lui il problema e non tu a non essere adatto. La verità era che lo credevi irraggiungibile, specialmente per un uomo semplice e anche un po’ banalotto come John Watson. Il soldato ferito nell’orgoglio che era tornato da una guerra nella quale aveva visto morire una parte di se stesso, e che non aveva più niente per cui vivere. Un medico a cui non andava neanche più di curare i malati perché incapace di guarire persino se stesso. L’uomo che Sherlock aveva salvato, in una qualche incomprensibile maniera ma che c’era riuscito anche grazie ai suoi casi strambi, alle corse in giro Londra. C’era riuscito con le rispostacce date a sconosciuti impazienti, con la genialità ostentata, con le risate sulle scene del crimine. Lo aveva fatto con quella parte meravigliosa di se stesso che ti aveva concesso di vedere fin da subito e che tu ti eri rifiutato di guardare con maggior attenzione. No, Sherlock non l’aveva mai avuto un cuore di pietra e da quando tu e Rosie siete tornati a Baker Street, te ne sei reso conto.

 
Sono passati tre anni ormai e nel vostro rapporto non è cambiato niente. Tu ti dividi tra i due lavori che fai e tua figlia a cui dare attenzioni mentre lui è sempre il solito strano, lunatico e pazzo genio che ti fa diventare matto. È sempre tutto preso dalle sue cose, dagli esperimenti e dai delitti misteriosi. Sherlock con le scritte sui muri e i puzzle da risolvere. Lui con tre cerotti alla nicotina sul braccio, quando il caso è da otto. No, è sempre lo stesso e grazie a Dio non cambierà mai. La differenza l’ha portata Rosie. Per lei, con lei, Sherlock fa cose meravigliose. Ride e gioca, racconta favole della buona notte, l’aiuta a vestirsi ed è con lei quando non vuole mangiare. Sherlock che è capace di restare incantato per minuti interi a fissare un cuore di glitter stampato su un braccio, ma tu questo non lo sai. Perché non lo vedi. Tutto ciò di cui sei certo lo intuisci e ci riesci grazie a quel: «Così guarisci» che gli ha appena detto Rosie, premendo con forza il trasferello sul braccio scoperto. Ma neppure questo sai, perché non sei lì con loro e perché senza sapere neppure il motivo ti sei fermato a metà della scalinata, incapace di muovere un passo in avanti. Se scendessi di qualche gradino noteresti la scatola di cerotti alla nicotina, intonsa, sul tavolo. Quella che gli hai comprato per impedirgli di rimettersi a fumare. Tu tutto questo però non lo vedi, lo percepisci soltanto. Lo intuisci grazie al parlare di Rosie, che non tace mai. Ed è lì che lo senti, l’uomo dal cuore di glitter che adesso parla di amore con una bambina di quattro anni, e che non sa che sei acquattato in cima alle scale e che stai ascoltando tutto. Tu che adesso non respiri, che ti siedi sui gradini senza frenare il tremore. Tu che ora l’hai capito. Finalmente.


«Anche papà ce l’ha il cuore» trilla Rosie, felice «così adesso vi potete sposare.»


Lui a questo non risponde, sospira pesantemente e tu puoi quasi sentire gli ingranaggi del suo cervello muoversi, in cerca di una via d’uscita. Sa di non poter sviare il discorso, non è possibile raggirare Rosie in nessuna maniera. Diventerebbe petulante e finirebbe col seguirlo dappertutto e lui ha un caso importante di cui occuparsi, quindi non ha tempo. Forse è per questo che decide di non far morire il discorso, in effetti non ne sei sicuro. Dopo anni ancora puoi ammettere di non capire del tutto Sherlock Holmes.
«Rosie, abbiamo già fatto questo discorso. Tu devi capire che io e tuo papà non ci sposeremo.»
«Ma perché?» domanda lei ed è lamentosa, e quasi ti viene da ridere. Non lo fai e soltanto perché le parole che Sherlock snocciola poco più tardi ti impediscono anche solo di respirare.
«Lo sai perché le persone si sposano?»
«Sally Fisher dice che è perché dormono insieme, ma per me non è vero. Sono come Anna e Kistof! [1] Loro non dormivano insieme e si sono sposati perché si amavano. Sono come tu e papà.»
«Rosie, non è così. Mi piacerebbe, ma non siamo come loro.»
«No, lo siete. Io lo so e lo sa anche nonna Hudson, zio Mycroft, zio Greg, zia Molly. Tutti tutti lo sanno.» Di nuovo lo senti sospirare, ma al contrario di poco fa questa volta la sua risposta è immediata.
«Rosie, se fosse per me… io amo tanto il tuo papà e lo sai. Ti ho anche già detto che non ho mai amato nessuno come amo lui, ma devi capire che ci sono molti modi di amare una persona e delle volte amare significa mettersi in disparte, e fargli vivere la vita che desidera. Lui ha bisogno di una donna al suo fianco, come lo è stata tua madre. Presto ne troverà un’altra e io gli sarò vicino proprio come ho fatto quanto ha sposato la tua mamma.»
«Ma tu poi però sei triste!»
«Sì, è vero: sono tanto triste. Ma io non conto niente, piccola John. Però sappi una cosa, anche quando ve ne andrete io ci sarò sempre per te e per il tuo papà. Qualsiasi cosa a qualsiasi ora. Sempre, piccola John.»
 

Eccolo, l’uomo dal cuore di glitter. Se ne sta appollaiato su uno sgabello della cucina e guarda Rosie negli occhi. Lei, che siede sul tavolo e che ha ancora stretta tra le dita la cartina coi trasferelli. Lei che adesso è triste e che cerca, nell’abbraccio di Sherlock, quel conforto che tu non saresti in grado di darle. Perché adesso non sei capace neppure di muovere un passo. Hai la mente annebbiata e il cuore che fa male, lo stomaco si torce e le gambe cedono facendoti crollare di nuovo sui gradini. Sherlock ti ama, lo ha detto proprio adesso e tu l’hai sentito. L’ha detto davvero e ti sembra di morire alla sola idea. Ci hai sofferto per tanto tempo, a lungo hai creduto di non essere degno di lui né che fosse possibile essere oggetto dei sentimenti di un uomo tanto meraviglioso. Perché in fondo l’hai sempre amato ma hai fatto di tutto per negarlo, dimenticartelo, soffocarlo. Cancellarlo dal tuo cuore e farlo sparire dalla testa. È per questo che sai che non gliel’avresti mai detto. Anzi, se fosse stato per voi avreste vissuto tutta la vita senza dirvi mai parlarvi e invece eccovi qua, con Rosie che è la vostra molecola impazzita. La variabile che non siete in grado di prevedere. Lei che se ne sta seduta sopra a un tavolo che sorride non appena ti vede. Lei che strizza il braccio di Sherlock con forza e ti fa vedere il tatuaggio, quel cuore glitterato che sembra brillare con un po’ più di forza adesso. E tu che sorridi, che le scompigli i capelli ma non le rispondi. Sherlock, le tue attenzioni sono tutte per lui. Lui che adesso strabuzza gli occhi e che è dominato dalla paura da una paura viscerale che gli scorre in volto e che non sa nascondere. Un terrore che non vuoi vedere e che ti preoccupi di cancellargli dalla faccia. Farlo è facile, semplice come dirsi ti amo. Difficile come dirselo davvero, quel dannatissimo ti amo.
«Ho sentito tutto» dici. Lui trema, suda quasi e sembra morire per un istante. Ma poi il suo volto si trasfigura di sorpresa e sei tu a riportarlo in vita, lo fai con quel sorriso che non accenni a tirar via. Sorridi e lui fa altrettanto, finalmente avete capito. E no, non basta questo. Anzi servirà ben altro. Parole, discorsi, baci… adesso però niente di questo vi serve, basta il vostro guardarvi e quei cuori di glitter a suggellare una promessa.
 
 

 
Fine
 
 



[1] Sarebbero Anna e Kristoff, di Frozen. Ho creduto che una bambina di quattro anni potesse avere difficoltà coi nomi stranieri.
 
Note: Questa storia l’ho scritta di getto, ispirata anche dalla canzone degli Arctic Monkeys: “Do I wanna know?” (che sono tipo la mia nuova fissazione). Era un’idea che avevo in testa da tempo e l’occasione è arrivata grazie al prompt di Sonia alias MissAdler che recitava: “Sherlock è alle prese con un caso complicato, ha bisogno di fumare ma ha promesso a John di non farlo più. Non ha cerotti alla nicotina e gira per casa come un isterico. John non lo sopporta più ed esce insieme a Rosie per comprargli i cerotti. Per lei compra un libricino di adesivi glitterati. Quando torna a casa consegna a Sherlock la scatola, ma poco prima che lui si applichi il primo, la bimba gli attacca un adesivo a forma di cuore (o altro) sull’avambraccio.”
 
Il prompt lasciava intuire che fosse meglio una narrazione classica alla terza persona, ma io ho optato per una di un altro tipo. I problemi di Sherlock sono appena accennati, così come l’introspezione su John. Il perno di tutto resta la parte centrale che il dialogo tra Sherlock e Rosie, tutto il resto è volutamente sfumato.
Grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito fino a questo momento.
Koa

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Capitolo 11
*** L’oiseau ***


 L’oiseau
 
 




“Je connais les brumes claires
La neige blanche et les matins d'hiver
Je voudrais te retrouver
Le lièvre blanc qu'on ne voit jamais
Mais l'oiseau, l'oiseau s'est envolé
Et moi jamais je ne le trouverais”
 
 



Non aprire gli occhi, non guardarlo. Non annusare l’aria in cerca del suo profumo. Non sorridere, non pensare. Non fantasticare su ciò che potrebbe essere, non ripensare a ciò che è stato. Perché in ogni respiro, in ogni più piccolo frammento di te stesso non esiste nient’altri che lui. E quindi taci, chiudi gli occhi e azzera la mente. Non parlare, non respirare, non fare nulla. Non accennare nemmeno il più piccolo gesto. Non innamorarti perdutamente di lui, non cadere nella tentazione di prendere il violino e metterti a suonare. Perché lo faresti per lui e non devi, lui vive nelle note di una partitura invecchiata e dai bordi ingialliti. Vive negli spazi, sul rigo, sta nell’armonia e lì vi mette le radici. Perché tutte le melodie del mondo assumono la sua forma, sempre. E non sorridere, perché lui vive anche negli echi di quelle risate che, delle volte, ti pare di sentir riverberare nella tua mente distrutta. E non piangere su ciò che non sarà mai, il futuro non esiste ancora e non vale la pena versarci una lacrima. Non farlo. Non innamorarti perdutamente di lui, non giocare con sua figlia. Non pensare a lui mentre bevi il tè, quando mangi cinese o ascolti distrattamente la televisione. E non vedere il suo volto specchiarsi nelle piastre di petri che osservi al microscopio. Non amarlo come invece fai.

 
Jawn!
 

Chiudi gli occhi, chiudili e respira. Fai soltanto questo. E intanto spera, spera che passi. Spera che si cancelli la tua mente e che il tuo palazzo mnemonico sparisca. Spera che John Watson se ne vada e al contempo non farlo. Spera che venga lì da te e ti abbracci, spera che ti baci e ti stringa a sé. Spera che riesca a vedere ciò che si nasconde nel tuo cuore indurito. Spera che veda quei grumi di pensiero che ti nascono e muoiono in una ruga della fronte. Spera che scorga in un qualche modo tutti i sogni che fai. Spera che sappia vivere al tuo fianco per tutta la sua vita. Spera che impari ad amarti, ad accettarti, a conquistarti. Spera che ci sia sempre per te. Che ti ami come vorresti.
 

John.


Apri gli occhi e guardalo. Respiralo, osservalo, deducilo come soltanto tu sai fare. E precedilo, offrendogli il bicchiere di whiskey che vuole, ma che non ha il coraggio di chiederti. Guardarlo, sorridilo, amalo. Bacialo. Fallo, Sherlock, fallo adesso e senza aspettare. Fallo di slancio, imploralo. Lasciati stringere, spogliare, amare. Lasciati prendere. Offriti completamente, come non hai mai fatto con nessuno. Dagli tutto di te stesso. Permettigli di farti suo, di essere geloso e possessivo. Permettigli di corteggiarti e, dolcemente, conquistarti.
 

Jawn, io…
 

Svegliati, Sherlock. Svegliati. Svegliati perché niente di quello che hai pensato sta succedendo davvero. Tutto accade dentro la tua mente, come sempre. No, non ci stai facendo l’amore. Lui non è pronto. Lo sai. Lo vedi dal modo in cui ti guarda, da come tenta di parlarti ma non lo fa. Dalla maniera in cui si tira indietro, cancellando quelle frasi che gli nascono e muoiono sulla punta della lingua. Lui ti vuole, forse ti ama. Ma ha paura. E ormai l’hai capito, perché i segnali del corpo non mentono. Non lo fanno mai. Loro sono onesti, sinceri, vivono di ciò che sono e non si nascondono. È la ragione a celare, lei a camuffare maldestramente un battito del cuore. Sono le parole a dire bugie, a minimizzare una verità scomoda. Ma il corpo, il corpo di John Watson è limpido come una giornata di primavera. Bellissimo come il sole che s’infiltra tra le foglie di un ciliegio e ti accarezza la pelle del viso. È bello, bello e basta. Bello come Londra, come un delitto complicato. Bello come non dovrebbe. Bello come un qualcosa che finisce col farti male. È la tua droga, la tua soluzione al sette percento. È il tuo “ogni cosa” e tu, ormai, hai imparato a conoscere anche le cose che non dice.
 

Amami, John. Quando lo vorrai, quando lo accetterai.
 

Lo aspetterai, aspetterai che sia pronto e lo amerai quando lui lo vorrà. Perché non hai nessuna scelta se non arrenderti a te stesso e sperare che questo dolore che hai al petto passi. E quindi guardalo, fallo adesso e sorridigli. Ma non dire niente, non respirare, non suonare, non pensare. Non fare altro se non startene affossato in quella tua comoda poltrona. Lento, a stuzzicare le corde di un violino che non verrà suonato, non stanotte. Sorridigli e poi abbandonati a ciò che provi, lascia che sia il dolore a cullarti e nient’altro. L’attesa ne verrà la pena, ne vale sempre la pena. Io gli dirò che lo stai aspettando.
 
 
 
 
 
“Je lui dirais que tu l'attendais”
 



 
 
 
 
Fine
 
 
 

Note: La canzone: L’oiseau (da cui ho preso ispirazione per il titolo e a cui appartengono le citazioni), tratta dal film Belle e Sebastien, è una stupenda canzone che ho trovato nella fan fiction: “Così crudele e accecante” di Padme83. Dopo aver letto quella storia me la sono subito salvata perché è stupenda e questa sera, riascoltandola, ho buttato giù di getto questo testo che mi girava in mente già da ieri sera. È stato tutto molto istintivo e veloce. Se vi va vi consiglio d'ascoltarla durante la lettura. Infine, trovate il testo in francese e una traduzione in inglese: qui.
Grazie a tutti coloro che hanno letto fino a qui e chi ha commentato le storie precedenti.
Koa

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Capitolo 12
*** Come galleggiare nel dormiveglia ***


Come galleggiare nel dormiveglia






 
Pericolosamente, realtà e sogno si confondono. S’allacciano  e rincorrono. Non sai più cos’è vero e che cosa invece no. Eppure sorridi, stupidamente. Anche se non dovresti perché tu sei Sherlock Holmes e odi sentirti in questo modo. Eppure sorridi. Lo fai in un sonno che è quasi veglia. Lo fai perché c’è una legge alla quale non si scappa e dato che sai che le sensazioni non sono mai irreali, non davvero. E tu sei troppo intelligente per ignorarle, per non dedurre ogni cosa di ciò che ti circonda, catalogandolo nel tuo palazzo mentale con meticolosa precisione. L’odore è il suo, quello di John. Il calore che si è creato sotto le coperte ti riscalda sino alle punte dei piedi, che s’arricciano al pensiero di quanto sta succedendo. Che è un niente se non dormire, dormire e basta. Un dormire, sufficiente a farti sentire stupidamente felice. Perché John è lì con te, nella tua stanza e ti dorme accanto. Ti vive addosso, e dentro, e forse neppure lo sa. John che ha un cuscino che è il suo e che ha riempito metà del tuo armadio con pile di abiti piegati con rigorosa e militaresca precisione. John che ha ribadito che è soltanto per comodità e per dare a Rosie una stanza tutta sua, e tu che hai annuito convinto che avesse ragione. Sicuro che non ci fosse differenza tra il dividere un letto e un appartamento. Tu che ti sbagliavi e che da giorni non dormi bene, tu che crolli perché esausto e soltanto al mattino quando lui è ormai al lavoro. Tu che non puoi non pensare alle implicazioni che questo vostro dividere un letto sta portando, anche se non vorresti. Eppure il sonno non arriva, non lo fa mai. Non la notte almeno. E intanto lui dorme al tuo fianco e tu sorridi, perché John Watson sa essere ligio al dovere anche mentre è nel mondo dei sogni. Dorme in un piccolo spazio. Si agita poco. Non parla, non russa. Probabilmente non c’è nemmeno e tu stai solamente sognando. D’altronde, a galleggiare nel dormiveglia non sei nient’altri che tu. Tu che ora lo senti muoversi impercettibilmente. Parlare, forse. Mormorii incomprensibili, ma che hanno il potere d’attirare la tua attenzione. John si dimena. Un incubo, deduci immediatamente. Uno che ti riguarda, dato che biascica il tuo nome e che a un momento urla un: “No” piuttosto secco che si espande per la stanza, facendoti sobbalzare. John suda di terrore, insegue qualcosa che non potrà mai raggiungere. E soffre, quasi piange. Allunga un braccio verso l’alto come a voler afferrare un qualcuno che non potrà mai prendere. Tu lo guardi, e non sai che fare. E soffri come un dannato perché hai capito perfettamente di che natura è il suo incubo. Ma come aiutarlo? Come? Sei la causa dei suoi deliri notturni, non avresti neppure il diritto d’avercelo nel letto.



Sherlock.
Sherlock, non…
Sherlock, non buttarti.

 


La sua voce ora è più chiara, tanto che se non fossi sicuro che sta sognando penseresti che è sveglio. No, John dorme e piange. E si dimena pericolosamente. Scalcia, quasi. Ha bisogno di te, ora. E tu non sai che fare. Svegliarlo sarebbe l’ipotesi peggiore, non faresti che peggiorare il suo stato emotivo. Dovresti tentare di tranquillizzarlo, provarci almeno. Il tuo primo pensiero va al violino, in passato lo hai già usato e sai che lui si calma sempre quando intoni una melodia delicata. Ma adesso non vuoi. Perché dovresti alzarti, andare in soggiorno, e accordare lo strumento, e in verità non desideri sposarti da dove stai. Quindi pensi a qualcos’altro, qualcosa che con Rosie funziona sempre e lei è una Watson. Una piccola John. E avere in comune il patrimonio genetico dovrà pur significare qualcosa. E quindi t’avvicini, con calma e studiata lentezza. Prima è un braccio che corre a cingergli la vita e poi la sua testa si posa contro al tuo petto. È un abbraccio lieve, delicato. Non è niente e al tempo stesso è tutto, tutto quanto. È quello che provi, quello che prova lui. Quello che non vi siete detti e che se fosse per voi non vi direste mai. È un abbraccio che serve, perché lui si calma e probabilmente anche tu. Perché ora respiri, sempre più lentamente. Tu che piano t’addormenti e che non ti preoccupi di quello che succederà domattina: le implicazioni che ci sono e che ormai sono evidenti, i discorsi che farete. Non pensi al bacio che vorresti dargli, a quello che vorrebbe darti lui. Non pensi a quello che t’è mancato da sempre e che John ha riempito semplicemente entrando nella tua vita. Non pensi e presto lo abbracci, stringerlo a te è così facile. Facile come galleggiare nel dormiveglia.
 


John.
Il mio John.




Fuori ha preso a piovere, lo sai per via del ticchettio che le gocce fanno sui vetri. Lo sai per i lampi che illuminano la stanza a giorno. Per il tuono che romba subito dopo. Per Rosie che non si agita, se non in un respiro un po’ più pesante del normale, e che ascolti grazie al baby monitor perennemente acceso sul comodino di John. Sì, fuori piove e tu accentui l’abbraccio, sotto le coperte. Al caldo. Sospiri appena, e il tuo cuore palpita. E i sensi si lasciano andare. Cullato da quella sensazione meravigliosa che altro non è che il desiderio d’essere amati in quel modo. Nel modo in cui abbracci e baci e dormi sotto le coperte con qualcuno accanto. Forse, forse ci penserai domani alle conseguenze. Per ora non t’importa. Per ora c’è solo la pioggia, che è adesso è meglio di un qualsiasi Bach tu abbia mai ascoltato in vita tua. La pioggia che ne sa più di Chopin e che fa impallidire Mozart. Voi e lei, il respiro di Rosie in lontananza. Quello di John che ti dorme addosso e che accentua la stretta che ora ha su di te. John che ti ama e che ti bacerà perché sì, lo farà. Appena si sveglierà. John che sarà facile come respirare, come galleggiare nel dormiveglia.
 
 




Fine
 
 




Note: Buttata giù di getto questa sera, con questo stile per me molto facile da usare. Solo per il bisogno di scrivere qualcosa di diverso rispetto alla long a cui sto lavorando ora e che mi sta risucchiando le energie.
Grazie a tutti coloro che hanno letto sin qui e soprattutto a chi ha lasciato una recensione a tutti i capitoli precedenti.
Koa

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Capitolo 13
*** Le cento fragilità ***


Le cento fragilità
 




“E tu
Chissà dove sei
Anima fragile
Che mi aspettavi immobile
Senza ridere”

 
 




 
 
Domenica, 24 aprile
 
 

[Ore 18.32]

John, dove sei?
John, sei ridicolo.
No davvero, John, dimmi dove sei?

 
[18.33]

No, non era una domanda.
Dimmi dove sei.


[18.34]

Dimmi almeno perché ti sei arrabbiato.
Se non so per cosa scusarmi come faccio poi a farlo?
Se non vuoi tornare per me, fallo almeno per Rosie.
 
 
[18.35]
 
Sono due minuti e ventotto secondi che tua figlia mi domanda dove sei.
Nostra figlia.
Cosa le dico?
Sei uscito sbattendo la porta.
Avevi i pugni contratti e l’espressione omicida.
Quando fai così è perché sei furioso con me.
Ma io non ho fatto niente.
 
 
[18.36]
 
Era per l’esperimento?
Guarda che ho pulito la cucina.
(E l’avrei fatto comunque).

 
[18.38]

Oppure è perché stanotte ho dormito sul divano?
Sai che sto lavorando a un caso.
Anzi, io non volevo nemmeno dormire.
È il sonno che è arrivato senza avvisarmi.
Il sonno è un po’ come te, viene quando meno me l’aspetto.
 
 
[18.40]
 
L’hai capito il doppio senso?
Dai, ammettilo: ti ho fatto ridere.
Almeno un pochino?
 
 
[18.41]

No, davvero, John. Torna a casa.
Non so più come fare.
Parliamone.
 
 
[18.45]

Non eri tu a dire che una relazione matura è basata sul dialogo?
Bel dialogo, sparisci e non so il motivo.
 
 
[18.50]

Ti informo che hai rotto Rosie.
Sono cinque minuti che non smette di piangere.
Deve aver capito male quando le ho detto che non saresti tornato più.
 
 
[18.51]

Credo d’essere stato io a romperla.


[18.52]

La sto cullando.
Me lo avevi insegnato tu ricordi?
Avevi detto che per ogni genitore è un gesto che viene istintivo.
Per me non lo è stato. Forse perché all’inizio non mi sentivo suo padre.
Ma ora mi ci sento.
 
 
[18.54]

Sono riuscito a calmarla, le ho dato il cubo di Rubik.
Se lo risolve è un genio migliore di quanto pensassi.
 
 
[19.01]
 
Lo sai che ti amo, John?
È che questo silenzio mi spaventa.
 
 
[19.02]

Non è una cosa che mi va particolarmente di ammettere.
Ma è così.
Quando sparisci e non so dove sei, penso sempre che te ne sei andato.
E che ho fatto qualcosa per mandarti via senza rendermene conto.
Penso che è assurdo che tu abbia deciso di amare uno come me.
Forse è per questo che ipotizzo sempre il peggio.
 
 
[19.04]
 
Credo tu sia ridicolo ad esserti innamorato di un sociopatico ad alta funzionalità.
E credo che… sto diventando sdolcinato!
Se Mycroft intercettasse questi sms mi ricatterebbe per il resto della vita.
 
 
[19.05]

Sempre se li capisce.
Mycroft non è un asso in amore.
Ha sposato Lestrade!
 
 
[19.07]
 
Dimmi che tornerai, John.
E che mi risponderai.
Dimmi che non hai deciso davvero di andartene.
 
 
[19.15]

Rosie ha risolto il cubo di Rubik, più o meno.
Sta scollando i quadratini uno a uno e poi li incolla al posto “giusto”.
Tu avresti fatto lo stesso.
D’altra parte è tua figlia.
 
 
[19.20]

Credi che mi somiglierà mai in qualcosa?
Mrs Hudson dice che ha le mie espressioni quando ragiona su un problema.
Io non me ne sono mai accorto.
Credi sia vero?
 
 
[19.21]

Io credo sia piuttosto come te invece.
Furba, intelligente, dolce, sensibile.
Ha lo strano potere di farmi cadere ai suoi piedi senza neanche parlare.
Ha l’assurda capacità di farmi innamorare.
 
 
[19.22]

Credo che ce l’abbia scritto nel codice genetico.
In fondo è una Watson.
Tutti gli Watson finiscono col piacermi, tu, Rosie… Tua sorella!
 
 
[19.27]

Sei uscito da un’ora e mi chiedo dove sei.
Avrei potuto dedurlo, ma non l’ho fatto.
Quando te ne sei andato ero troppo distratto, sono uno stupido idiota.
 
 
[19.28]
 
Quanti pezzi di vita tua ho perso, John?
Ho passato anni dietro al terrore di non essere ricambiato.
E abbiamo passato anni a farci del male.
Ma questo…
 
 
[19.29]

Voglio stare più attento a quello che fai.
A ciò che dici.
Al modo in cui respiri.
A come mi guardi, a quando ti arrabbi.
Quando ti arrabbi sei bellissimo.
 
 
[19.31]
 
Ti amo, John. Torna da me.
Mi sono talmente abituato a vivere con te che…
Che è spaventoso pensare a come potrei fare senza.
 
 
[19.32]
 
Sono troppo sdolcinato.
Neanche mi riconosco più.
Tu mi hai cambiato, John.
Anzi no, io sono cambiato da quanto ti conosco.
Un tempo non m’importava di nessuno.
Ora cullo una bambina.
 
 
[19.33]
 
Sposami.
Lo so, non ha senso e sembra estemporaneo. Però sposami lo stesso.
Sposami perché sì. Perché non voglio che succeda questo.
Voglio essere sicuro che tu sia sicuro.
Non so cosa fare.
 
 
 
 
*

 
 
 
Domenica, 24 aprile
 

 
[19.45]

Cento messaggi, Sherlock?
Davvero? Cento?
 
 
[19.46]

Ora li leggo tutti.
Conoscendoti presumo tu non abbia sentito niente di quello che ti ho detto.
Son dovuto tornare in studio perché l’infermiere ha fatto un casino.
Mi erano saltati tutti gli appuntamenti di domani.
Quell’idiota…
 
 
[19.47]

Ora prendo la metro, una ventina di minuti e sono a casa.
 
 
[19.50]

Sbrigati. SH
 
 
 
 
*

 
 
 
Non eri preparato. Perché niente potrà mai preparati a Sherlock Holmes. Anche se ormai dovresti sapere com’è vivere al suo fianco, perché ci stai insieme da quasi un anno e lo conosci da non sai più quanto tempo. Quindi dovresti proprio saperlo, perché Sherlock è fatto così. È sopra le righe. Un pazzo scriteriato che arriva a farti fare delle cose che, Dio, tu vuoi forse più di lui. Sherlock è, beh, assolutamente meraviglioso in ogni cosa che dica o faccia. E non sai come ci riesca, però è ancora capace di sorprenderti. Ma se a certe cose eri preparato, come i cambi d’umore, il disordine o la passionalità prorompente che arriva a dimostrarti nei momenti più impensati (oltre che nei luoghi meno opportuni); alla sua fragilità non hai ancora fatto l’abitudine. E te la sbatte in faccia puntualmente le volte in cui ti distrai. Quando stai pensando ad altro, perché assorbito dalla quotidianità di Baker Street o dal tuo lavoro allo studio. Capita spesso da quando siete insieme e sei certo che succedesse anche prima, eri solo tu a non vedere niente. E succede sempre alla stessa maniera: da un niente, in una sera come tante, Sherlock ti scoppia fra le mani e tu non sai di preciso cos’hai fatto o come sia potuto accadere di nuovo. Ha il cuore così sensibile, ti ha detto un mattino Mrs Hudson scrollando il capo di fronte all’ennesima luna storta di uno Sherlock annoiato. Forse dentro di te non ci hai mai davvero creduto, perché lui sembra così distaccato, superiore a un certo tipo di sentimenti, che non hai realmente pensato potesse lasciarsi travolgere dalle emozioni come invece riesce a fare. Ed è per questo che anche ti ritrovi lì seduto con la meraviglia impressa addosso, su un lercio sedile della metro che ti sta portando casa, a leggere cento messaggi uno di fila all’altro. Cento istanti di vita al 221b di Baker Street. Cento fragilità messe tutte insieme. Una dopo l’altra. E che ti fanno scoppiare il cuore perché là dentro ci sono cento pezzi di Sherlock Holmes, e tu li ami tutti quanti. Cento lacrime forse nemmeno cadute, di certo trattenute. Cento messaggi scritti di fretta, con la mano destra e intanto che faceva altro. Come l’occuparsi di Rosie, coccolarla, calmarla, spaventarla a morte con le sue paranoie… dovresti essere arrabbiato per diverse cose in effetti. Perché non ti ascolta mai e perché ha riversato i suoi dubbi addosso a vostra figlia. Sì, dovresti proprio essere incazzato e probabilmente un po’ lo sei, anche se forse sei più che altro preoccupato. Non per lei, però. Rosie è forte, è un po’ come Mary e la parte più coraggiosa di Sherlock fusi insieme in una singola persona. Lei se la caverebbe da sola anche adesso che ha quattro anni e mezzo. No, quello per cui hai paura è Sherlock. Questa fragilità, questa insicurezza che ha verso se stesso, il suo credere che prima o poi ti farà fuggire, ti sconvolge. Perché è così convinto che finirà col farti del male? Perché è tanto insicuro di ciò che provi? Forse dovresti dimostrargli che credi davvero nel vostro rapporto. Magari con un gesto eclatante, come un matrimonio, lui si convincerebbe di quanto lo ami e del fatto che vuoi vivere tutta la vita accanto a lui. Una proposta, pensi scorrendo uno dopo l’altro quei meravigliosi e al tempo stesso devastanti cento messaggi. Ma un matrimonio come lo prenderebbe? Lui è sempre stato così indipendente. Così libero. Odia le costrizioni, detesta il dover fare una cosa solo perché “è così che si deve fare”. Come prenderebbe un’unione di questo tipo? Non lo sai e parlarne francamente ti spaventa.
 

«Che razza di idiota.»

 
Parlare ad alta voce è come uno schiaffo, squarcia il silenzio ti fa piombare dritto nella realtà. La metro non è piena a quest’ora della sera, nel tuo vagone non c’è quasi nessuno. Una vecchietta e un ragazzo alzano la testa quanto ti sentono parlare, ma subito la riabbassano, stai guardando il cellulare. Non gl’importa a chi tu ti riferisca, finché non si tratta di loro e va tutto bene dato che neanche a te importa di loro, non devi neanche sforzarti a fingere che non esistano. Ora c’è solo Sherlock, anche se non è lì fisicamente. Anche se sta a casa col telefono in mano a fremere di ansia. Aspetta te, come ha sempre fatto. Anzi, delle volte hai la sensazione che aspetti te da tutta la vita. Altre, invece, credi che anche tu stia diventando troppo sdolcinato. E infatti sorridi al pensiero. Mentre ti scriveva i cento messaggi era convinto d’esserlo diventato e forse si odia per questo, o meglio, s’imbarazza. Si imbarazza sempre quando diventa romantico, è convinto che ci sia qualcosa di male in questo o che qualcuno riderà di ciò che dice. Una parte di lui è convinta che essere sentimentali sia “poco nel personaggio”. Lo stronzo menefreghista che tutti conoscono, lo ami anche quando si mette da parte e permette a un altro Sherlock di venire fuori. Uno timido, dolce, così premuroso e attento che ti fa impazzire alla sola idea di quante cose di te ha imparato in questi anni. Credi ti conosca meglio lui, di quanto tu non conosca te stesso. A parte stasera. Stasera ha proprio toppato, lo ha fatto alla grande pensi sorridendo fra te mentre ancora scorri i messaggi.

 
Li leggi tutti. Uno dopo l’altro passandoli lentamente. Ognuno è una carezza gentile e al tempo stesso un pugno allo stomaco. Fanno male tutti, anche quelli più spiritosi. Fa male pensare alla sua immensa fragilità, al modo in cui non sa ancora bene come comportarsi in una relazione. Fa male che si sia convinto che tu possa sparire da un giorno all’altro senza dargli spiegazioni. Eppure è dolce perché sembra quasi un bambino dal modo in cui parla o reagisce. Li leggi con calma, quei cento messaggi. Immaginandoti cosa stava facendo mentre li scriveva, quale espressione aveva in viso. In che modo arricciava le labbra o increspava la fronte. E quindi li leggi ancora, uno dopo l’altro. Camminando verso casa. Senza togliere lo sguardo dallo schermo del cellulare, stando attento ad attraversare la strada, scusandoti con dei passanti a cui vai involontariamente addosso. Li leggi e ridi, e qualche volta ti commuovi perché non sei mai preparato al modo in cui Sherlock ti ama. E di certo non lo sei a quello che ti dice alla fine. E sei già a Baker Street quando lo leggi. Quello: sposami che se ne sta accampato sullo schermo e non ne vuole sapere d’andarsene da lì.


«Oh, Sherlock» sussurri in direzione del vento che porta via le tue parole e un accenno di lacrima che punge gli occhi. Intanto che i passi si fermano e la mano resta a mezz’aria, bloccata con le chiavi in mano che tintinnano appena. Sai già cosa rispondere, ma è che la felicità è talmente tanta che ancora non ci credi. Ed è incredibile, ma quello sposami sta ancora lì qualche minuto più tardi. Lo schermo si è spento, ma sai che se spostassi il dito ti comparirebbe nuovamente davanti. Te l’ha chiesto davvero? O è magari la tua immaginazione che gioca strani scherzi. Non sopporteresti d’essertelo inventato di sana pianta, ed è per questo sblocchi il telefono ed è un sollievo quanto capisci che è ancora lì che ti guarda: Sposami. Sposami lo stesso. Ha aggiunto subito sotto e quasi ti viene da ridere e forse ti commuovi, e di certo ti senti un idiota, ma non t’importa. Vuoi dirgli che lo vuoi, che desideri tutto da lui, specialmente il dire sì a un altare. E quindi lo fai. Spalanchi la porta del 221b, trovandolo immerso in un’irreale calma. Le scale sono avvolte dalla penombra, non una luce proviene dal piano di sopra né un rumore. Mrs Hudson sta davanti alla tv, lo intuisci facilmente dal volume troppo alto. E Sherlock è sicuramente su da qualche parte, a suggerirtelo è il cappotto appeso all’ingresso che indossa anche se è la fine di aprile, perché è sempre tanto freddoloso! Imbocchi le scale senza accendere la luce e sali i gradini mettendo un piede avanti all’altro senza nascondere un certo impeto. Sherlock non sta suonando il violino, il che è strano dato che in genere la musica lo calma. Non c’è traccia di Rosie, il che significa che lei è già a letto. Ti sei perso la buona notte, ma forse è meglio che lei ora non ci sia.
 
 
«John?» La sua voce taglia il silenzio come un coltello. Non c’è tensione da parte tua, solo un forte e bruciante desiderio di dire di sì. Ma da parte sua, la tensione, la percepisci per davvero. Forse è agitato, magari spaventato da quello che adesso potrebbe succedere fra di voi. Sherlock siede a terra, appena sotto la finestra. Stringe le ginocchia al petto e quella sua vestaglia azzurrina lo copre a malapena, i lembi ricadono sul tappeto alla stessa maniera di come farebbe il mantello di un supereroe. È un’idealizzazione del suo personaggio che lui detesta, dice che gli eroi non esistono e che senz’altro lui non sarebbe uno di loro. Ma tu non sei d’accordo. Tu lo sai cos’è un eroe, e no non parli degli Avengers. Tu ce l’hai davanti ogni singolo giorno, un eroe e lui non sai proprio come faccia a non capire quanto fantastico sia. Quanto eroico sappia essere in ogni più piccola cosa che fa. È per questo che dirai di sì, perché lo ami. Perché lo vuoi. Perché hai bisogno che tutti sappiano che è così e che sarà per sempre. E quindi lo dici, con voce tremante ma non incerta. Sei rotto dall’emozione, lo è la tua voce rauca, lo è quella lacrima che ti riga la guancia. Lo è nelle dita che tremano appena.


«Sì.»
«Ho perso un po’ il controllo, lo ammetto.»
«Sì.»
«Non ti sono stato a sentire, ma stavo pensando al caso e alle prove e…»
«Sì.»
«Le cose che ti ho detto le pensavo davvero, anche la parte sul matrimonio.»
«Sì.»
«Se tu non lo vuoi, possiamo anche far finta che non sia successo.»
 

Non ha mai sollevato la testa. E anche adesso continua a guardare in basso, giocherella con i lembi della vestaglia, quasi si stesse annoiando per davvero. Sai che non è così e soprattutto sai quanto sia agitato in questo momento. Evita di guardarti perché teme di dedurre qualcosa di negativo, ha paura di cogliere sul tuo volto sentimenti di rifiuto e sai che non sopravvivrebbe a uno proprio adesso. Nonostante le parole comprensive nei confronti tuoi e di ciò che desideri, sei sicuro che un no, ora, lo distruggerebbe. Ma tu non badi a questo, perché la tua risposta in teoria gliel’avresti già data. Anche se non ha capito. E forse non capirà mai, a meno che tu non faccia un passo in avanti. E infatti lo fai. Uno, due e poi tre, sino anche non te lo ritrovi raggomitolato ai tuoi piedi. Che ti scruta appena da dietro quei ciuffi ricci che gli ricadono sulla fronte. Lui che sbatte le ciglia e si morde del labbra, incerto su cosa dire o fare. Ti osserva per un istante o due e poi abbassa di nuovo lo sguardo. Lui è sempre così veloce a capire le cose, ma stasera è strana e tu non sei pienamente convinto di quanto abbia effettivamente colto e quinti t’inginocchi. E non t’importa che tu ti senta un decrepito e che le ginocchia protestino per la durezza del pavimento. Lo devi fare.


«Sei deliziosamente lento stasera, Sherlock Holmes.» Forse basta questo o magari no. In effetti non te lo domandi nemmeno, anzi, poco dopo smetti del tutto di ragionare perché Sherlock finalmente ti guarda negli occhi. Li vedi sgranarsi, vedi le iridi vibrare appena e le labbra spalancarsi in un moto di sorpresa. Hai detto di sì, e lui finalmente l’ha capito.
«Tu hai…»
«Accettato di sposarti? Assolutamente sì, se la proposta è ancora valida naturalmente.»


Sherlock è un uomo impetuoso e passionale, è un lato di lui che hai scoperto soltanto dopo che vi siete messi insieme, ma che in effetti è stato davanti ai tuoi occhi per tutto il tempo. Tu eri semplicemente troppo ottuso per vederlo. Ma in effetti Sherlock è passionale in tutto ciò che fa, dal lavoro alle strane idee che gli vengono. Ce ne mette sempre un pochino. Ma quella per te, è stata inattesa e assolutamente gradita e tu la adori. E in parte ti stupisce ancora oggi. Nel bacio che ti dà subito dopo che ha capito, ce n’è tantissima. Sherlock ti afferra per la vita, ti spinge sul pavimento e poi affonda la lingua nella tua bocca. È un bacio feroce, carico di liberazione. È travolgente nella maniera in cui ti strappa via i vestiti di dosso e come inizia a fare l’amore con te. Non ha dolcezza. C’è una punta di premura e attenzione per le tue necessità in lui, ma più che altro i suoi gesti lasciano trasparire quasi esclusivamente furia. Una che non hai nessuna intenzione di spegnere, ma che al contrario alimenti lasciandoti andare a lui come con nessuno hai fatto. Gli permetti tutto, di toccarti, di prenderti, di cavalcarti, di sconvolgerti. Di ridurti in mille pezzi e poi ricomporti, pazientemente. Come se fossi un suo puzzle, un suo divertimento alla noia. Gli concedi tutto, anche pezzi della tua anima. Anche pezzi di te stesso che non hai mai dato a nessuno prima. Sì, vi sposerete. Come, quando… nella tua testa tutto è vago e niente è definito. Ne parlerete, lo direte a tutti, organizzerete, discuterete e alla fine vi sposerete. Succederà fra qualche mese e sarà fantastico. Questo, però, è un momento solo per voi e tu non pensi a tutte queste cose, ti lasci andare e basta. Fino anche non finisce e anche quando succede subito ricomincia. E tu se lì di nuovo a permettergli tutto, a concedergli tutto. Tutto quello che merita, sperando che basti.

 
 
 
*




Domenica, 25 aprile
 
 
 
[00.02]

Congratulazioni!


[00.19]

Come fai a saperlo, Graham?


[00.21]

Congratulazioni, fratello caro.
Auguro una vita felice a te e a John.


[00.24]

Ma fottiti!
E smettila di spiarci.
E soprattutto dì al tuo concubino che domani mattina lo voglio qui.
Alle otto.
C’è da lavorare.
 
 
[00.31]

Scusalo, Mycroft.
Grazie a te e a Greg.
Siamo molto fel…





Fine
 
 
 

Note: Avevo bisogno di staccare un pochino dall’altra storia che sto scrivendo e così tra ieri e oggi ho prodotto questa. Ringrazio chi ha seguito questa raccolta fino a qui e chi ha recensito.
La citazione proviene da Anima Fragile, di Vasco Rossi.
Koa

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Capitolo 14
*** La geniale imperfezione di Sherlock Holmes ***


La geniale imperfezione
di Sherlock Holmes
 


 
 
 
  


 

“In all the good times I find myself 
Longin' for change 
And in the bad times I fear myself”
̶  Shallow  ̶


 
 
 
 

Ci sono momenti in cui la felicità è inappropriata, in cui provarne non dovrebbe essere lecito né giusto, eppure non se ne può fare a meno. Perché la felicità ti entra dentro e ti si aggrappa al cuore e non ne vuole sapere di lasciarti andare. Ed è meravigliosa e terrificante al tempo stesso, è una perfetta dissonanza che fa male soltanto a pensarci. Perché la tua, di felicità, arriva nel momento peggiore ovvero quando tu e Sherlock avete ormai toccato il fondo. Anzi, tu lo hai toccato e in una maniera che ti costringe a serrare gli occhi e a incamerare aria, così da placare il dolore che sale nel rivangare quella scena. Lo hai picchiato a sangue, incolpandolo della morte di Mary quando sapevi, oh dentro di te lo sapevi eccome, che non ne aveva alcuna responsabilità e che la promessa fatta al vostro matrimonio era impossibile da mantenere. Nessuno ne sarebbe stato in grado, nemmeno Mycroft Holmes con tutto quell’ingombrante potere che si porta costantemente appresso. Per quale motivo avrebbe dovuto riuscirci Sherlock? La verità è che sei stato superficiale e non hai saputo guardare oltre. Lo hai idealizzato, lo hai creduto invincibile e ti sei convinto che ogni sua parola fosse intrisa di un’aura di divinità. Quel che diceva, le deduzioni che faceva, le osservazioni che snocciolava ridacchiando sulla scena di un crimine, tutto era fatto di pura, semplice e straordinaria verità. Perché lui è geniale e meraviglioso. Lui ha dannatamente sempre ragione, anche quando ha torto marcio. Lui è perfetto e fantastico. Lui è un mostro, lo è in molte delle cose che fa come raggiungere l’overdose soltanto per convincerti a perdonarlo, però è il tuo mostro. Tuo e di nessun altro. Tuo, pensi stringendo il bordo del tavolo della cucina così forte che le nocche sbiancano e le dita tremano. Inspiri rumorosamente e quindi serri gli occhi, in cerca di una calma che non arriva se non a fatica. I ragionamenti ti si sono inceppati su quella parola minuscola, il cui peso è in grado di scavarti dentro. Tuo, Sherlock, non lo è stato mai. Non davvero, non in quel senso. E in fondo neanche lo meriteresti.
 

Qualcosa in te sta cambiando e te ne accorgi ogni giorno con un po’ più di forza. Non ci hai riflettuto ancora per bene, ma è mentre fai ritorno nella sua stanza con acqua fresca e un panno pulito, alla metà di una notte travagliata, che ti rendi conto di essere felice. Qui e adesso, lo sei davvero. Eppure non dovresti perché Sherlock sta male e non solamente nel corpo distrutto dalla droga, sta male perché lo hai ferito così in profondità che le volte in cui aggancia lo sguardo al tuo il suo dolore ti trapassa da parte a parte. No, non dovresti proprio essere felice, soprattutto se si considera che finalmente ti sei reso conto di chi sei veramente. John Watson non è altri che uno stronzo ingrato, un cieco bastardo che aveva tra le mani la cosa più bella e non è stato capace di notarla. Felice? È orribile sentirsi in questo modo e specialmente in questo momento. Perché Mary è morta da poco più di un mese ed è piuttosto probabile che tua figlia finirà col dimenticarsi di chi è suo padre, dato che per l’ennesima volta l’hai affidata a chissà chi. Tuttavia, e nonostante il male che ti divora, non riesci a fare a meno di pensare a come potrebbe essere la tua vita di nuovo a Baker Street, con Sherlock accanto. Magari potrebbe essere diversa da quella di un tempo, più intima e familiare. Hai il diritto di fantasticare su una cosa simile? No, certo che no e in un barlume di lucidità comprendi che lasciarsi andare è pericoloso, oltre che ingiusto. Eppure la felicità arriva ugualmente e lo fa senza preavviso, non si fa vedere e ti ruba un soffio o due di un sorriso abbozzato. Risate che però si smorzano quasi subito, ricacciate indietro da un martoriarsi violento di labbra oltre che dallo guardo abbassato per la vergogna. C’è un pianto lieve che ti bagna gli occhi e tenta in tutti i modi di spegnere quel divertimento dolce. E ci prova, a distruggerlo. Lo percepisci da come il dolore tenta di scavare. Lo senti entrare e fallire. Perché la felicità non se ne va e tu ti ritrovi a ridere e a piangere al tempo stesso, sferrando pugni contro al muro.
«Cristo!» Imprechi sottovoce, trattenendo un urlo strozzato. Non ne hai nessun diritto. Non avresti nemmeno quello di guardarlo o di parlare con lui, ancora meno dovresti permetterti di far galoppare certe fantasie riguardo a un vostro ipotetico futuro insieme. Però lo fai e, anzi, non sai come smettere. Forse lui è la tua, di droga. Lui è il tuo qualcuno, ovvero ciò a cui ti viene immediato pensare le volte in cui ti chiedono se c’è qualcuno nella tua vita. C’è qualcuno nella tua vita, John Watson? Ti domandi intanto che le nocche sbiancano e il fiato si spezza, di nuovo. C’è Sherlock, mormori infine, strappandoti una confessione. Da quel freddo pomeriggio di gennaio non esiste nient’altri che lui. Lui è la persona di cui non puoi fare a meno, sebbene tu ci abbia provato. Hai tentato troppe volte di allontanarlo, di dimenticarlo e di vivere senza pensare a dove stava o cosa faceva quando non eravate insieme. E nonostante tu ti sia impegnato a fondo, non ci sei mai riuscito e al contrario la sua assenza ti ha fatto soltanto del male. Adesso però non vuoi pensare a tutto questo, non puoi permettere allo sconforto di prendere il sopravvento. Aiutarlo è l’unica cosa buona che tu possa fare ed è da questo che devi ripartire. È con Sherlock Holmes che ti sei fermato quando è morta Mary e forse anche prima, andando indietro e scavando nella memoria comprendi che la tua vita è ferma dal momento in cui lui si è gettato dal tetto del Barts. Quella volta sei morto con lui e da lui devi ripartire, qui e ora. E devi farlo dalle piccole cose come trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, tergergli la fronte sudata, ripulirgli la bocca dalle incrostazioni di vomito o somministrargli un blando sedativo per fare in modo che possa dormire almeno un paio d’ore. Puoi pensare di comprargli le sigarette così che senta meno i morsi dell’astinenza, le sue preferite gli farebbero senz’altro piacere. Oppure potresti chiedere alla signora Hudson di portarti quella bottiglia di Chivas Regal che ha messo da parte per un momento speciale. Forse lo farai, quando riuscirà a trattenere qualcosa nello stomaco. Adesso il minimo che tu possa fare è restargli accanto finché non albeggia, e poi anche oltre. Hai detto a Molly di non venire più e hai pregato la vostra padrona di casa di salire a dargli un’occhiata nei momenti in cui anche tu mangi e dormi. Ed è ciò che fai da tre giorni a questa parte. Ha funzionato, è incredibile ma ci sei riuscito. Sherlock ha superato la fase critica e sta molto meglio. Tu invece stai sempre peggio, solo che non lo dai a vedere. O almeno lo speri, non ti farebbe piacere se Sherlock si preoccupasse anche del tuo stare a pezzi.
 
 
 
La tua psicologa sostiene che il primo passo per guarire è l’accettazione. [1] Esattamente quella di cui avreste bisogno entrambi. La tua, ovviamente, non la sua. Sherlock ha già ammesso d’essere un drogato e di sentirsi dipendente da quella merda, anzi è stato proprio in quel momento che hai giurato che non l’avresti lasciato solo neanche per un attimo. Hai anche deciso che avresti ricominciato a fidarti di lui, questo però non l’hai detto. Gli hai invece promesso che quando ne sarebbe uscito avrebbe potuto trascorrere del tempo con Rosie e non una decina di minuti in un caffè, il giorno del suo compleanno, ma qualcosa di molto più concreto. A quel punto potresti anche pensare d’introdurre il tuo ritorno a Baker Street. Per intanto tutto questo è ancora lontano. Ti farai bastare la sua forza di volontà e il coraggio col quale sta affrontando l’ennesima disintossicazione. Perciò adesso non è più lui a dover fare promesse ma tu, perché non è la sua ammissione quella che stai aspettando. Quella di cui anche Sherlock ha bisogno, sebbene faccia di tutto per negare di volere le tue scuse. La tua psicologa saprebbe cosa dirti e quali nervi scoperti toccare per farti smuovere dal torpore che t’ha colto, ma non vai nel suo studio da tempo ed è anche probabile che in questa occasione neppure ti sarebbe utile. Ora ti è sufficiente serrare gli occhi e placare il respiro per afferrare la radice del problema. Permettere alla calma di prendere possesso delle tue emozioni è difficile, ma è quanto devi fare per giungere alla verità. Già, la verità. La verità è che ti senti come un bambino che sta imparando a camminare. Ci provi, cadi e ti fai male ma poi ti rialzi e intanto che lo fai ti rendi conto che non sai nemmeno come si faccia a stare al mondo. Probabilmente perché fino adesso, al mondo, non hai saputo proprio come starci. Eri convinto di sapere tutto e di essere l’unico a vedere quanto era straordinario Sherlock Holmes, il solo a essere in grado di percepire le cose belle dove chiunque vedeva arroganza e stramberie. Eppure sei stato il più cieco di tutti e soltanto ora te ne rendi conto. E adesso che il tuo eroe è caduto e che osservi da vicino la vera faccia dell’uomo che per anni hai idealizzato, ritenendolo un eroe indistruttibile, ti accorgi che la perfezione non è che un’idea da raggiungere e non una condizione nella quale vivere. Perfetto, Sherlock non lo è e non è nemmeno invincibile e il fatto che sia proprio lui a giacere davanti a te su di un letto sfatto, colto da una stanchezza che lo rende quasi apatico, ne è la prova definitiva. Ha fallito miseramente ed è proprio questo a fartelo sembrare ancora più straordinario. Lo splendore di un tempo è scomparso e al suo posto è rimasto il fallimento di un uomo meraviglioso, eccezionale e ovviamente anche geniale, ma pur sempre un essere imperfetto. Ed è strano, ma questa notte hai come la sensazione di riuscire a capirlo meglio e proprio per questo di trovarlo ancora più affascinante. Sherlock è affascinante? Oh, per te lo è sempre stato, solo che non hai mai avuto il fegato di ammetterlo.
 
 
Naturalmente non è stato merito tuo. La scintilla è scoccata altrove, in ospedale. Dopo averlo salvato dalla furia omicida di Culverton Smith sei tornato diverse volte a trovarlo, giusto per assicurati che stesse bene. Quella sera era la terza consecutiva che varcavi la soglia della sua stanza ed eri ben deciso a fargli presente che quanto accaduto con il “Cereal killer” non cambiava assolutamente niente fra voi. Avevi tutto un tuo discorso in testa che eri pronto a vomitargli addosso, caricandolo sicuramente di ulteriore dolore, poiché in nessuna maniera saresti stato disposto a perdonare quanto ti aveva fatto. Poi, inaspettatamente, è accaduto l’impensabile. Ovviamente l’intuizione non è partita da te, al contrario. Tu come al solito non stavi capendo niente di quanto stava succedendo. Vedevi Sherlock disteso su quel letto, attaccato a un dedalo di tubi che gli fuoriuscivano da ogni parte del corpo e non pensavi ad altro che uscire da lì alla svelta, perché ogni occhiata che gli dedicavi era come una coltellata nel cuore. E intanto il senso di colpa ti soffocava, rendendoti incapace di ragionare lucidamente. Fuggire, pensavi soltanto a questo. A fare il tuo stupido discorso e poi a sparire per sempre dalla sua vita. Eppure non sei scappato come desideravi e il merito è stato unicamente del gelido signor Holmes. Ancora lo rivedi, rigido e impettito sull’uscio di quella camera d’ospedale, già pronto a tornare al proprio lavoro dopo una fugace visita al fratello. Mycroft col suo ovvio giudicarti dipinto in faccia. E se ti concentri rivedi anche l’ombra di Lestrade nel corridoio e ricordi perfettamente il loro esser palesemente più sereni. Era stato facile notare un accenno di serenità tra le pieghe dello sguardo, il loro esser certi che da quel momento in avanti ci saresti stato tu a proteggere Sherlock. Ricordi la tua confusione, il tuo domandartene il motivo. Perché? Per quale ragione Mycroft, Greg e persino Mary erano così convinti che gli saresti stato vicino? Tu non lo volevi affatto. Tu desideravi ancora andartene e non tornare mai più. E stavi per dirglielo, per dire a Mycroft che quella era l’ultima volta che vi vedevate, quando è accaduto. Ed è stato in quel momento che la tua vita è cambiata.


«Ti rendi conto, dottore, che ogni cosa che mio fratello ha fatto negli ultimi anni l’ha fatta per te? Lo ritenevo un particolare più che ovvio, ma ho la sensazione che tu non l’abbia ancora capito.» Ha detto proprio così, Mycroft Holmes. Se chiudi gli occhi ancora riesci a vedere il vago senso di disgusto che provava nel guardarti, oltre che il suo odioso giocherellare con la punta dell’ombrello tra le fughe del pavimento. Devi aver anche percepito un sospiro di Lestrade in lontananza intanto che, addosso, ti si piantavano con forza gli occhi di chi è stanco di vedere il proprio fratello ridotto a quel modo da un irriconoscente medico militare. Perché la colpa è tua e Mycroft te la stava dando tutta e tu l’hai odiato davvero, hai detestato lui, quel suo fottutissimo ombrello e anche quel cavolo di ospedale. E hai odiato un po’ anche Lestrade che taceva e non interveniva per difenderti. Eppure è servito, non sai come né perché ma ti ha aiutato a capire. Da quel momento ogni tassello è andato al proprio posto e l’universo ha ripreso a girare. L’omicidio di Magnussen, il volo dal Barts, quell’overdose che lo ha gettato tra le mani di un assassino seriale, ma anche piccole cose come la maniera in cui si preoccupava per te, come si premurava di sapere tutto sulle donne con cui uscivi prima di Mary. Credevi che fosse egocentrismo o un suo infantile desiderio di voler distruggere la felicità altrui, ciò che non sapevi era che lo faceva per te. Così che tu non perdessi tempo appresso a persone bugiarde o poco interessate, ma tu anche per questo ti sei arrabbiato. Non lo capivi e hai continuato a non riuscirci per degli anni perché non sei altro che uno stronzo, John Watson. Per questo fossi ostinatamente convinto del contrario, non hai mai saputo parlare quella sua lingua meravigliosa fatta di gesti silenziosi e grandi discorsi trattenuti, di sguardi abbassati e troppe verità ricacciate indietro. Non hai mai visto chi c’è realmente dietro quello sguardo adombrato da un velo di tristezza. Ed è ciò di cui più ti penti.
 

È Mycroft che devi ringraziare, alla fine è così che stanno le cose. Mycroft che senz’altro aveva i suoi tormenti ai quali badare e che, probabilmente, colpevole ci si sentiva molto più di te. Tuttavia, se non fosse stato per lui non saresti stato capace di aprire gli occhi e vedere finalmente chi è l’uomo che per anni hai considerato il tuo migliore amico. Chi credevi di conoscere, ma del quale invece non sapevi proprio nulla. Sherlock è una persona fuori dal comune e tremendamente ordinaria al tempo stesso. È intelligente, svelto, spericolato e pazzo, ah sì, è un pazzo furioso e ai tuoi occhi questo aspetto del suo carattere lo ha sempre reso dannatamente ammaliante. Però è anche dolce e premuroso, mille volte più sensibile di te. Sherlock è un amante del tè e dei puzzle, meglio se con delitto. Inoltre ha uno spiccato senso di giustizia e adora mettersi nei guai, e di questa parte ne sei assolutamente sicuro. In fondo su molti aspetti siete anche piuttosto simili. Come dicevi, quindi, è anche tanto ordinario. Sta tutto qui ciò che ti sfuggiva? In questo e basta? Non sai se ci sia dell’altro che tiene nascosto dentro di sé, però quel che sei riuscito ad afferrare negli ultimi giorni ti ha permesso di guardarlo in maniera differente e di comprendere che tutto questo lo sta facendo per te. Si è drogato per te, si sta disintossicando per te e questa volta sarà definitivo. Non te lo sei fatto giurare, no. Non hai bisogno di belle parole, tu sei certo che andrà così. Hai iniziato a crederci nell’esatto istante in cui hai visto la determinazione di cui era impregnato il suo sguardo, una risolutezza d’intenti mescolata malamente a una sofferenza palpabile e che lo coglie anche adesso che i suoi occhi si sono posati su di te. Tu con una bacinella d’acqua e un panno pulito, fermo sulla soglia della sua stanza. Tu col volto stanco e troppe parole premute nel tuo cocciuto silenzio.
 
 
Nel vederti il suo corpo si tende, che sia mosso da un ennesimo spasmo? Oppure è la tua presenza a turbarlo? Senz’altro non ha più niente nello stomaco, quel poco che gli hai dato da magiare ore fa lo ha già rimesso. Ormai pare non esser fatto d’altro che di bile, del veleno del fallimento che già ha preso a divorare la brillantezza del suo sguardo, velato dal pianto.
«Sei sfinito» osservi, impietosito dal tremare vistoso delle sue mani. Lavargli via la fatica non è niente, eppure serve perché le sue espressioni si distendono appena. La frescura dell’acqua agisce al pari di un calmante, lava il sudore e parte della stanchezza, ridà smalto ai suoi occhi adombrati. La fase più brutta è passata e questo è il pensiero positivo al quale t’aggrappi disperatamente. Ci sono stati momenti orribili, non lo neghi. Come quello in cui sei stato costretto a farti chiudere in camera assieme a Sherlock da una spaventatissima signora Hudson, pregandola di non aprire per nessuna ragione. O anche quando hai dovuto usare tutta la tua forza per tenerlo inchiodato al letto perché non uscisse e andasse a prendersi la droga. Non sarebbe potuto fuggire da nessuna parte comunque, Mycroft ha sistemato due dei suoi fuori dal 221b, pronti a intervenire in caso di problemi. E se anche fosse stato in grado di svignarsela sarebbe stato inutile, Mycroft ha pensato anche a questo e, probabilmente aiutato da Lestrade (ma non ne sei certo), ha minacciato ogni singolo spacciatore di Londra. Sherlock non troverebbe un grammo di cocaina né un blando antidolorifico. Però tu l’hai trattenuto lo stesso, fermo sopra quel materasso e lo hai fatto con tutta la brutalità e la dolcezza di cui eri capace. Lo hai fatto piangendo perché il tuo, di dolore, era altrettanto impossibile da sopportare. Dopo d’allora è arrivato il vomito, i tremori, gli spasmi, le lacrime e quella grida che ti sembrano ancora riecheggiare nel silenzio. Tanta fatica però a qualcosa è servita, adesso di voi non è rimasta che la parte migliore.


«Anche tu» mormora, in un fiato. «Non saresti dovuto rimanere, potevi chiedere a mio fratello di mandare qualcuno.»
«Non voglio che tu faccia questa cosa con un estraneo» gli fai presente intanto che strizzi il panno nella bacinella e ti prepari a lavarlo anche sul petto «e poi non mi va che Mycroft sia coinvolto più del necessario. Ad ogni modo è il minimo che io possa fare per te dopo quel giorno in obitorio.» È quanto sputi fuori alla fine, accennando a quei tagli che ormai sono quasi del tutto spariti. Lo vedi annuire, comprensivo, lo sguardo si addolcisce di un sentimento dal retrogusto amaro e scomodo. Forse sa quel che ti sta passando per la testa, anzi magari ha compreso il tuo stato d’animo da ben prima di te. Quel che ti fa più rabbia, però, è che non c’è rancore sul suo volto e nessuna traccia di sofferenza o arrabbiatura. Non ti odia come dovrebbe. Eppure sta male, il che è perfettamente intuibile dalla maniera in cui gli s’increspano i ragionamenti al semplice ricordo o da come la sua voce trema quando riprende a parlare.
«Io te l’ho lasciato fare, John, questo lo devi sapere. Mi volevo punire per aver fallito» dice e questa volta lo sguardo l’ha puntato direttamente su di te. A te che ora tormenti quel panno intriso d’acqua e che hai portato gli occhi altrove, troppo codardo per reagire o anche solo per starlo a sentire. Ed ecco che il desiderio di fuga torna a farsi vivo, ti attanaglia le viscere in una morsa dolorosa, spingendoti alla fuga. Ma questa volta non lo ascolterai e non soltanto perché non puoi pensare di lasciarlo, ma perché se te ne andassi ora, lo perderesti per sempre e non sei disposto a non averlo nella tua vita. Questo è il tempo di parlare, di affrontare quanto per settimane hai testardamente evitato.
«Non è stata colpa di nessuno» riprende Sherlock «abbiamo sbagliato entrambi in qualcosa e ci siamo fatti così tanto male che meriteremmo di detestarci a vicenda e nient’altro. Io dovrei odiare e te e tu dovresti fare lo stesso con me, ma non è questa la soluzione. Non lo è mai. Mary non lo vorrebbe e lo sai anche tu. Quindi lasciamo da parte ciò che ci siamo fatti, superiamolo e andiamo avanti, John. Per me, per te e soprattutto per Rosie.»
«Io…»

Ma il tuo parlare s’interrompe sul nascere, cosa volevi dire proprio non lo sai. Tu cosa? È di Mary che vorresti discutere? Sherlock l’ha menzionata, il che significa che è disposto ad affrontare l’argomento. Ma tu? Tu sei pronto per questo? Senz’altro è a lei che stai pensando in questo frangente e cosa c’è su tua moglie che non hai già sezionato fin nel dettaglio? Lo sai chi hai sposato e quindi tanto vale confessarlo, almeno a te stesso. Mary Morstan era una donna che il nome se l’è creato al pari dell’identità, lei ha scelto di chiamarsi Watson e tu sei fiero che l’abbia fatto, nonostante tutto. Mary era una bugiarda e questo ormai è al di sopra di ogni ragionevole dubbio, ma era anche una donna il cui bisogno di stabilità era quasi disperato, potente tanto quanto il desiderio di fuga che il suo istinto alimentava. Aveva però anche tante qualità e non dimenticherai mai che proprio grazie a lei hai superato il dolore per la morte di Sherlock. Con lei ti sei sposato nella speranza che funzionasse e per lei, alla fine, hai pianto tutte le tue lacrime. Ora lo vedi con chiarezza, adesso che il male più soffocante se n’è andato ti è rimasta addosso soltanto la certezza di quello che siete stati. Vi siete voluti bene, ma il vostro matrimonio era destinato a fallire e dentro di te ne sei sicuro. Lei col suo individualismo, col non avere un senso di unità familiare pur cercandolo con disperazione, pur aggrappandocisi col cuore. E tu col tuo non sentirti adatto a niente, tanto meno alla paternità e di sicuro non al matrimonio. Col tuo sentirti imbrigliato dentro a un legame che non t’apparteneva ormai più, col tuo tradimento fatto di pensieri, ma non per questo meno infido. Hai amato Mary e Rosie ne è la prova vivente, ma ancora oggi ti senti incapace di definire con una parola colei che è stata tua moglie. Amata? Beh, potevi fare di meglio questo è ovvio. Cattiva? No, non lo era, ma non era neppure buona. Né bianca né nera. Né da una parte né dall’altra. Lei era tutto questo e molto di più, forse perché è così che sono le persone. Mai del tutto malvagie e mai pienamente angeliche. È così anche Sherlock Holmes e sei così persino tu.
«Lei ha cercato di vivere alla più non posso e ha fatto l’impossibile per preservare ciò che avevamo costruito» confessi alla fine, cedendo a te stesso «e per tutto il tempo in cui siamo stati sposati ci si è gettata con anima e corpo. Peccato non sia bastato.»
«Quando hai fatto un lavoro come il suo non rimani vivo a lungo, Mycroft non sbaglia mai» osserva Sherlock tirandosi meglio a sedere. La nausea sembra essergli passata, ma le luci ancora spente e il tono appena sussurrato della voce ti permettono di capire che non si è ripreso del tutto. Hai smesso di lavarlo, il panno l’hai gettato da una parte e già un po’ te ne penti, dato che ami l’idea di prenderti cura di lui.
«Mary ha agito sempre da sola» prosegui «ma non perché fosse una donna cattiva. Dentro di me ho sempre saputo che desiderava il bene per Rosie e per me, nonostante tutto era così. Al tempo stesso però… è come quando sei nell’esercito. Puoi togliere la divisa, ma non smetti mai di essere un soldato e per Mary era la stessa cosa. Lei ha vissuto nella maniera in cui l’hanno abituata a essere e le persone come lei, come noi, non cambiano mai. Per questo si è messa in mezzo tra te e quella pallottola, perché forse Mycroft aveva ragione e chi ha fatto quel tipo di vita non vive tanto a lungo. E lei lo sapeva, era sicura che prima o poi sarebbe successo e allora tanto valeva salvarti la vita.» Dentro di te hai sempre saputo che era questa la verità, ma certamente dirlo ti fa un altro effetto. Stranissimo effetto, tra l’altro. Hai la sensazione di sentirti quasi un estraneo, un qualcuno che non conosci. Chi è questo John Watson proprio non lo sai. Eppure non è nemmeno questa la verità che ti fa tremare o, almeno, non tanto quanto ciò che stai per dire.
«Non hai ucciso tu Mary Watson e mi dispiace infinitamente d’averlo pensato» dici, in un fiato, annaspando quasi per la fatica «l’ha deciso lei e non pensare neanche per un attimo che io abbia desiderato che morissi tu al suo posto. Ti ho già seppellito una volta e non intendo farlo una seconda. La verità è che me la sono presa con te perché era più facile, forse inconsciamente sapevo che non mi avresti lasciato comunque. Odiavo te perché ero troppo codardo per odiare me stesso, era più semplice così ma ho finito col ferire anche tutti quanti, persino la signora Hudson e per questo domando scusa.»
 

Non ti lasci andare alle lacrime, non più. Lo hai fatto, Dio solo sa se non hai pianto a sufficienza in quest’ultimo periodo. Ma confessare tutto ciò che hai dentro e farlo sussurrando, così come l’ammettere d’aver sbagliato su tutta la linea, aiuta ad alleggerirti e ci riesce davvero. Addirittura hai la sensazione di sentir scomparire quel peso che ti gravava sul petto. Già stai meglio, anche se ancora non piangi. Anche se ne avresti dannatamente bisogno. Anzi a stento sorridi. Uno stirarsi di labbra amaro, s’accenna tra le tue espressioni invecchiate dal male che hai vissuto. Un divertimento dolce e appena abbozzato che Sherlock spazza via definitivamente. Ha la voce ancora troppo bassa, al punto che il suo parlare sembra quasi uno dei suoi mille ragionamenti, fuoriuscito per errore. Gli occhi, invece, sono inscuriti dal buio. Li ha puntati su di te e ti fanno vibrare ancor di più. Non ci sono luci accese in quella stanza e forse questo è parte del vostro problema. A Sherlock danno fastidio e tu ormai hai imparato come muoverti. Eppure non siete completamente nascosti a voi stessi. Di luce ne filtra abbastanza dalle imposte, tanto da illuminare i vostri profili. Inoltre, il cono giallastro proveniente dalla cucina e che rischiara parte del corridoio, riesce a fare il resto. È per questo che sei riuscito a notare la sua tristezza, ora fattasi più evidente.
«Hai commesso degli errori, John, sei umano. E ne ho commessi tanti anch’io.»
«Sherlock» piangi il suo nome a voce roca, lui però ancora non ti ascolta.
«Anzi, io ne ho commessi più di te. Avrei dovuto coinvolgerti nella faccenda di Moriarty» dice, spiazzandoti completamente e al punto che sollevi lo sguardo di scatto cercando, come un disperato, di comprendere se stia o meno dicendo il vero. Mentire? No, non lo farebbe. E poi perché dovrebbe su una questione di genere? Perché stia rivangando quella vecchia storia, però, davvero non lo sai.
«Avevo pensato anche di dirtelo e girare con te il mondo in cerca di criminali, sarebbe stato divertente. Mycroft era anche pronto con un piano per farti scomparire senza destare alcun sospetto, ma all’ultimo ho rinunciato. Se ti avessi rivelato le mie intenzioni, non solo saresti stato ancora più in pericolo, ma non ti avrei dato alcuna scelta. Ti saresti sentito obbligato a seguirmi.»
«Sentirmi in obbligo?» replichi, ripetendo quelle sue stesse parole con uno stupore palpabile. È forse impazzito? D’accordo, comprendi il discorso sull’essere in pericolo, lo capisci davvero ma per il resto è ridicolo che abbia pensato che non lo volessi davvero o che ti saresti sentito costretto.
«Ti avrei seguito a occhi chiusi, Sherlock e non perché obbligato. Lo avrei fatto per starti vicino, per finire il lavoro che avevamo iniziato insieme. Avrei voluto aiutarti in questa tua impresa folle e sì» annuisci, stirando un sorriso che si addolcisce al sol pensiero. «Sarebbe stato molto divertente.»
 

Anche Sherlock sorride, ma il suo divertimento dura soltanto un attimo. Dopo abbassa lo sguardo e lo porta altrove, vuole sfuggirti e vuole farlo di nuovo e ad aiutarlo ci sono le ombre. Si sta comportando esattamente come hai fatto tu fino a un attimo fa. Ma questa volta non glielo permetterai e non lo consentirai neanche a te stesso. Essere qui e fare questo insieme è come una promessa, vi siete giurati sincerità. Dentro di te senti che l’unica maniera che avete di salvarvi è quella di non scappare più dal giudizio dell’altro. Qualsiasi pensiero lo tormenti, tu gli starai vicino. Tu che ora gli accarezzi una guancia e che sorridi, incoraggiandolo. E Sherlock che cede, annuendo e serrando le palpebre così da riprendere il filo di una respirazione regolare.
«Avrei dovuto dirtelo subito che uccidere Magnussen era la sola maniera perché tutti noi ne uscissimo puliti. Non mi avrebbero mai incriminato, e lo sapevo. Magnussen era una sciagura troppo grande per questo paese, chiunque sia oggi al potere mi è segretamente riconoscente di quello che ho fatto. Però tu devi capire, John» aggiunge, insistendo con un vivo calore addosso che raramente hai visto su di lui. «Ci avrebbe annientati. Avrebbe usato Mary per distruggere me, te e chiunque volesse. Persino Mycroft! Non l’ho ammazzato perché volevo, non sono un assassino. L’ho fatto perché dovevo così come tu hai sparato al tassista subito dopo avermi conosciuto, è stata legittima difesa. Mentre eravamo ad Appledore, poco prima di sparare, ho pensato alla bambina che tu e Mary aspettavate e mi sono chiesto che razza di futuro le avremmo dato se lo lasciavo vivere.»
«Sherlock» lo interrompi ancora, anche se ormai hai capito che non ti darà retta. Non lo fa mai, di sicuro non comincerà ora. Lo sai perché ha ucciso Magnussen e per quanto tu abbia segretamente pensato che fosse un assassino, poi hai capito che la verità era ben diversa. Mycroft è stato drammaticamente chiaro anche su questo aspetto, Sherlock lo ha fatto per te. Per difender te, Mary e il frutto del vostro amore. E allora? E allora è vero che è come la vicenda del tassista, all’epoca non hai esitato nel premere il grilletto. Sherlock ha fatto lo stesso per voi.
«E poi anche tutto questo, intendo la droga…» insiste, agita le braccia. Gli occhi sono ancora fissi sul copriletto, illuminato di tanto in tanto da qualche fascio di luce rada. La voce scura, tremante. Le dita che tamburellano frenetiche le une sulle altre sono il segno evidente della sua agitazione.
«Io ho sbagliato, John, lo so bene e se tornassi indietro agirei diversamente. Dovevo venire a casa tua, buttare giù la porta e obbligarti a guardarmi negli occhi e a dirmi che ero un assassino. Ci saremmo ammazzati di botte e insulti, ma almeno avremmo parlato in modo chiaro fin da allora e io non sarei ridotto in questo stato.»
«Oh, quanto ho sperato che lo facessi» ammetti e soltanto in quel momento trovi il coraggio di guardarlo apertamente negli occhi. Lui che adesso guarda te, e tu che un po’ te ne innamori.
 
 
Sherlock è sfatto dalla stanchezza, è sudato e trema ancora. Non è finito un bel niente e proprio in quegli attimi ti accorgi che la strada per la disintossicazione è ancora piena di ostacoli. Non t’importa quanto ci vorrà, tu sarai con lui. Non lo lascerai più andare via e questa certezza ti dà una forza incredibile.
«E invece eccoci qua» mormora, voltando lo sguardo dall’altra parte e sfuggendoti ancora. Un ampio sorriso triste gli deforma i tratti del viso e tu ti ritrovi a domandartene il motivo. È triste? Per quale ragione dovrebbe esserlo?
«Eccoci qui con te che ti senti moralmente obbligato a starmi vicino perché ti senti in colpa e che, diciamocelo, sei davvero troppo buono mentre io che… che sono arrivato a perderti in tutti i modi in cui si può perdere qualcuno.» Deglutisci a fatica, infastidito dal peso delle lacrime che ti si sono aggrappate alla gola, soffocandoti. Vorresti piangere e ridere al tempo stesso, perché non lo sai dove questo discorso potrà portarvi e una parte di te ne ha una paura fottuta. Ciò di cui sei sicuro è che non ti ha perso, sei ancora qui nonostante tutto quello che avete passato. Sei qui dopo i sensi di colpa, il dolore e le accuse. Tu, John Watson, sei ancora a Baker Street e non vedi l’ora di farti perdonare per la tua assenza, per i tuoi dannatissimi sbagli e soprattutto per il tuo aver vissuto da cieco durante tutto il tempo in cui siete stati insieme.
«Sono qui perché lo voglio, Sherlock e perché la signora Hudson ha ragione: mi sei rimasto solamente tu e sarei un pazzo a cacciarti via di nuovo. E sono qui anche perché desidero aiutarti a stare meglio, anzi, questa è la sola cosa buona che ho fatto di recente. Sì, alcune delle azioni che hai commesso in passato sono mostruose, ma se è così allora… allora sei il mio mostro, Sherlock. Mio e di nessun altro. E non me ne vado, io voglio stare con te.» Nell’impeto ti sei avvicinato e gli hai stretto una mano fra le tue. Nella foga lo stai guardando negli occhi e gli sorridi appena. Credi davvero a quanto stai dicendo, non sono favole per tenerlo buono. Sono tutte cose alle quali hai già pensato in passato, dovevi solo dirle ad alta voce.
«Baker Street è la mia casa, lo è sempre stata e voglio starci con Rosie in futuro e quando lo vorrai. Quindi no, non mi sento in obbligo. Al contrario io ho bisogno di essere qui, per chiederti scusa ogni dannato giorno della mia vita e per conoscere tutto quello che di te non ho mai capito. Ci sono arrivato, sai? Ho visto cose di te in questi giorni che non avrei mai immaginato e non vedo ora di scoprirne altre.» Lo sussurri appena e poi lo baci delicatamente sulla fronte, in un gesto d’affetto che lui ricambia stringendoti la mano a propria volta e allacciando le dita con le sue. Sherlock che ha chiuso gli occhi e ispirato per placare i tremori. Un bacio sulla fronte, soltanto questo. Per ora è perfetto così, pensi. Magari in futuro arriverà qualcosa di più consistente, per quanto lo desideri non vuoi forzarlo in niente e specialmente non adesso. O almeno di questo sei convinto, già perché Sherlock Holmes non agisce mai come ci si aspetta. Lui ti stupisce, e sconvolge, e ti prende in contropiede nell’attimo stesso in a esser catturate sono le tue labbra, in un tocco lieve e rapido, quanto disperato. Leggero e impalpabile come un soffio, il suo bacio ti cattura, ti ammalia e poi t’abbandona. E alla fine sorride, Sherlock Holmes. Lo fa a te e a te soltanto. Sospira e si lascia andare di nuovo tra i cuscini. Le vostre dita sono ancora intrecciate.
«Resta per sempre» ha detto e no, non lo sai davvero dove vi porterà tutto questo e se effettivamente quella vita insieme a Baker Street si avvererà. Non sai se sarete una famiglia, una coppia o chissà che altro, ma sai di non volerlo più lasciare. Sai che quel “per sempre” vale anche per te. E per ora tanto ti basta.



 

Fine
 
 


 
[1]Solo per far presente che in questo periodo della sua esistenza, la psicologa di John non è più Ella, ma Eurus travestita. Il che va a collocare questa fan fiction esattamente tra la scena a Baker Street, con l’abbraccio tra Sherlock e John, e quella in cui Eurus punta la pistola contro John.

 
Note: Devo ringraziare MissAdler per il prompt che mi ha dato e che recitava: “Post tld. Introspettivo. Sherlock si sta disintossicando e John gli sta vicino sia come medico che come amico e, sebbene sia ancora turbato da tutto quello che gli è successo, non può fare a meno di riflettere sull’importanza che Sherlock ha per lui, desiderando di stargli ancora più vicino, nonostante si senta profondamente in colpa.”
Shallow (link: https://www.youtube.com/watch?v=bo_efYhYU2A) è la canzone di Lady Gaga del film “A star is born” dal cui testo è tratta la citazione che ho usato e che mi ha aiutata durante la stesura della storia.
Koa
 

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Capitolo 15
*** Improvvisazione ***


Improvvisazione
 
 
 

 
 
Scrivere, hai bisogno di scrivere. Devi farlo ora. Ne hai un desiderio impellente, quasi sfibrante e che ti scava dentro divorandoti lo stomaco, bruciandoti le interiora. Percepisci sulla pelle la voglia d’imprimere della musica su un brandello di carta, la senti accarezzarti allo stesso modo di come avverti l’aria sfiorarti porzioni di pelle ignorate dalla vestaglia. Non sai da dove arrivi il prurito, è sorto all’improvviso e ora ti ritrovi nel bel mezzo della notte a rovistare tra fogli e spartiti gettati alla rinfusa sul tavolo del soggiorno, nella speranza di riuscire a trovare un pentagramma vergine. Non hai un’idea precisa della melodia che vuoi comporre, probabilmente verrà da sé come capita il più delle volte. Adesso devi soltanto riversare cose tra le righe.
 

Cose.

 
Quante ridicolaggini! Cielo, è assurdo che tu non riesca nemmeno a essere preciso. Anche se, in effetti, non dovresti stupirtene. Dato il disastro che si è creato nel tuo palazzo mentale, è un miracolo se riesci a rimanere in piedi. Nel tuo cervello sta imperando il caos ed è lo stesso sconvolgimento che t’impedisce perfino di stare fermo. Sei come mosso da una frenesia che ti agita le mani, le cui dita non hanno cessato un singolo e dannato istante di tamburellare sulla cassa armonica del violino. Non ti sei preoccupato neanche di pizzicare le corde, no, eri troppo preso da te stesso. Quel che miseramente stavi facendo altro non era che tentare di far rientrare pensieri impazziti dentro ai più consueti ranghi. Non ci sei riuscito. Bisognerebbe dire che ci hai provato, a fare ordine, ma pare che questa notte tu non riesca a ottenere nulla di concreto. E come potresti? A stento ti puoi definire lucido. Dannazione, Sherlock, che ti prende? Mai sei stato così in crisi. Persino quella volta in cui ti spararono riuscisti a mantenere una freddezza tale, da dedurre quale tipologia ferita avresti avuto in base al calibro della pistola. Eppure ora sei fuori di te. Cos’è successo di tanto grave? Cosa? Ma tu lo sai di che si tratta. Naturalmente sì, è ovvio. Perché tu sei Sherlock Holmes e sai sempre tutto. Il punto è che ancora ti rifiuti di accettare d’aver fatto una cosa del genere.


Forse, invece che crogiolarti in questo indugiare, sarebbe stato meglio se avessi suonato. Suonare serve sempre. O magari anche l’ascoltare un Chopin improvvisato, anche quello è utile ogni tanto. Perché non l’hai ancora fatto? Come mai non hai imbracciato il violino o acceso lo stereo? Ah, certamente. Lo hai fatto per lui. O forse loro? No, lei non c’è. Dorme da Molly questa notte, una serata fra donne. Com’è possibile che te ne ricordi soltanto adesso? Fatto sta che lo ha fatto per lui, che non stai suonando per non svegliarlo. Incredibile, Sherlock e decisamente fuori dagli schemi. Questo modo di comportarti è lontano mille miglia dal fare e dall’agire del gelido Mr Holmes. Tutti credono che è così che sei, e un po’ ci ti sei convinto anche tu. Non una volta ti sei fatto scrupoli nel prendere in mano quel dannato strumento a qualsiasi ora del giorno e della notte. La scusa è che Rosie ha il sonno pesante e tu poi suoni piano per non svegliarla. Questa notte non avresti motivo per non farlo, eppure ti stai trattenendo. Com’è possibile? La causa è quello strano sentimento che da ore ti serpeggia su per il cuore, vero? È qualcosa di nuovo e al tempo stesso di assolutamente spaventoso. Assomiglia alla protezione, ma non ha contorni piacevoli, al contrario hai la sensazione che ti stia pesando in maniera eccessiva. Il perno attorno al quale ruotano i tuoi tormenti è naturalmente John. Non è insolito per te l’aggirati nella penombra alle quattro del mattino, eppure, oggi il 221b riecheggia di sonorità differenti da quelle a cui sei abituato. A un certo punto di questa strana notte, ti sei ritrovato in soggiorno con lo strumento appoggiato alla spalla, una sigaretta ancora spenta che ti penzolava dalle labbra e i pensieri brutalmente divisi tra quello che avresti tanto desiderato fare, e ciò che invece sapevi non poter azzardare neanche a ipotizzare. Non stai suonando e l’unico motivo valido che ti viene in mente è che non lo vuoi svegliare, ma non perché preferisci restare immerso nella tua comoda solitudine. Al contrario vorresti che John fosse con te, accoccolato ai piedi della poltrona di fronte al camino acceso. Vorresti che ti guardasse e ti sorridesse. Eppure lo tieni a distanza. Per quale ragione? Perché hai davvero bisogno che John riposi?


Lo sai perfettamente qual è il vero motivo. Devi solo trovare il coraggio di ammetterlo. La realtà è che sei furioso con te stesso e coi tuoi stupidi sentimenti. Perché non dovrebbe esser cambiato nulla, eppure è tutto diverso. Possibile che ti sia illuso tanto? E che quel che hai fatto abbia radicalmente mutato il tuo essere? Ogni cosa sarà diversa da oggi in avanti, te lo ha ripetuto persino lui, ma di certo non intendeva niente di simile. Come poteva pensare che andassi fuori di testa?


Non vuoi svegliare John, dunque. Perché? Il tuo acuto senso logico davvero non se lo spiega ed è proprio perché non riesci a trovare una risposta, stai quasi per dar retta a una parte di te che solitamente resta ben nascosta e a cui mai dai voce. È un lato del tuo essere che in molti definirebbero brutale, Mycroft lo chiamerebbe pericoloso. E invece tu, dall’alto della tua immensa logica, lo consideri niente più che puro istinto. Lui lo sa. Il tuo istinto conosce ogni particolare di quanto hai fatto, di quello che sei stato capace di dire ed è lì esclusivamente per ricordartelo e perché tu abbia ben presente che non sei in grado di gestire le emozioni. Non sei abituato ad avere a che fare con la passione e proprio per questo i tuoi tentativi di razionalizzarla sono miseramente falliti. Abbandonarsi a certi istinti è stato anche troppo facile, accettarli è tutt’altra cosa. Ed è difficile, e fa male. Perché ti senti sbagliato. Storto. Pazzo.


Tu che ti curi del sonno di qualcuno, sarà poi vero? Non è che stai facendo tutto questo soltanto per evitarlo? O che non sei ancora pronto ad accettare quant’è accaduto? In effetti sarebbe più plausibile considerando chi sei, a te non interessa il bene di nessuno. Se ti va di fare una cosa non badi ai sentimenti di chi ti sta attorno. Questo perché non hai mai avuto modo di prenderti cura di un essere vivente, o di imparare cosa siano le esigenze degli altri. Sei un egocentrico nel senso più totale del termine. Conti unicamente tu. Tu che dormi, che occupi un stanza o che decidi cosa fare la sera. Tu e tu solo. Il benessere di un altro individuo non è mai neanche esistito. Ma è davvero così o è quanto ti convinci di essere? No, perché poi è arrivato John Watson. Lui non si limitato a cambiare il tuo mondo, lui ha sradicato ogni certezza che avevi gettandola alle ortiche. Un giorno è successo che hai iniziato a condividere la vita e non è stato tanto male, anzi, hai scoperto che prenderti cura di lui e, adesso anche di Rosie, ti donava sensazioni piacevoli. Calore, su tutto. Felicità. Gioia. Uno strano senso di appagamento. Certo, cambiare pannolini è stato ben più complesso che smantellare una rete criminale internazionale. Ma anche di quello non ti penti. John è vivo, sta bene e credevi che fosse, almeno in un certo qual senso, finita lì e che badare alla sua sicurezza fisica o a quella di sua figlia fosse sufficiente. Quel che ti sta capitando ora è diverso. Profondamente diverso e questa volta non c’entrano pannolini e pappette, è assai probabile che abbia a che vedere coll’aver fatto l’amore ieri sera. Sì, è proprio questo che è successo. È stata la prima volta. La vostra, la tua. La sua con un uomo. Anche adesso e dopo ore, al tenue ripensarci arrossisci miseramente. Perché cavolo se è stato fantastico e, oh, se chiudi gli occhi riesci persino a vederti mentre ti dimeni e inarchi, ti vedi fremere, e gridare, e… Che fai ora? Riprendi il controllo? Inspirare profondamente non servirà a niente, ormai è tardi. Hai fatto l’amore con il tuo migliore amico ed è stato bello, eccitante, fantastico, sorprendente. È stato un qualcosa di mai provato prima. E non si torna indietro, Sherlock, non da questo. Te l’ha detto il tuo Mycroft mentale e lui, così come quello vero, non sbaglia mai.


Se ti sforzi di capire com’è nata ti rendi conto che ha avuto inizio in un modo del tutto innocente. Ricordi che stavi suonando e che eri proprio lì, dove te ne stai ora. In piedi di fronte alla finestra, John rideva e tu avevi voglia di tè alla pesca. Poi forse c’è stato un bacio, ma non era come uno di quelli che hai dato in passato. È stato più che altro come un’esplosione nucleare. E non lo sapevi, che potesse essere piacevole l’aver addosso le mani di qualcuno o che si potessero fare certe sconcezze con la sola bocca né che John fosse tanto vigoroso. Virile. E forte. E che le sue dita fossero in grado di farti impazzire, così come la lingua che… Scrivere. Devi scrivere e devi farlo adesso.


Di notte, il soggiorno del 221b di Baker Street ha le luci accese. Di notte, quando è estate e le finestre restano aperte, puoi sentire una Fantasie Impromptu riecheggiare lungo la via e poi perdersi tra i rumori di Londra. Ci sono notti in cui non c’è nessuno, al 221b di Baker Street, perché il consulente investigativo Sherlock Holmes è in giro per la città a fare il suo strambo mestiere. Altre volte, invece, c’è silenzio e Holmes dorme sul divano con una coperta che il suo dottore, non visto, gli ha gettato addosso a una certa ora. Questa non è una di quelle notti e quando John entra in soggiorno, capisce subito che qualcosa non va. Non è normale che tu te ne stia rannicchiato in un angolo, seduto tra fogli e spartiti scribacchiati, nudo e coperto a stento da una vestaglia che ti sta appoggiata sulle spalle. Anche il violino lo hai abbandonato da qualche parte: non ti serve al momento. Adesso devi scrivere, comporre. Cancellare. Devi canticchiare e sentire come suona il violino nel tuo palazzo mentale, ora ordinato. È vitale che tu imprima su carta quello che hai fatto con John, la passione a cui ti sei lasciato andare, la lussuria che ancora adesso ti domina i pensieri.
«Sherlock?» È la sua voce che spezza il fruire impazzito dei tuoi pensieri, che blocca la mano che disegna con foga diesis e bemolli a lato di note impresse in piccolo tra i righi. Soltanto quando senti il tuo nome e ti rendi conto che c’è lui.
«John!» esclami, con una punta di frenesia, mentre il tuo sguardo scintilla di una luce diversa. Gioia. Liberazione. Amore?
«Posso chiederti cosa diavolo stai facendo?» domanda, con una certa titubanza. Perché è abituato alle nottate a fare chissà che, ma questo pare troppo persino per un tizio strano come te. E infatti quasi indietreggia, si ritrae come spaventato. Poi desiste e invece che andarsene o lasciarsi intimorire, si sofferma un istante a osservarti. Lo fa con attenzione. Lo sai, lo senti. Percepisci i tuoi occhi su di te, è un breve istante durante il quale il cuore ti accelera e le guance diventano assurdamente color porpora mentre il fiato si fa più corto. Un frangente è, in cui ti senti studiato e dedotto. Un momento che ti premuri di spezzare quando trovi finalmente il coraggio di ricambiare il suo sguardo. John non capisce immediatamente cosa stai facendo, ma poi nota i fogli sparsi a terra e la penna appoggiata sopra l’orecchio, e allora comprende. E sorride. Perché sarà anche da matti, ma sei pur sempre Sherlock Holmes e sei il suo pazzo preferito.
«Vuoi sentirla?» gli domandi, con un’aspettativa che trasuda dalle parole, così come dai tuoi occhi.
«Beh, sono le quattro e dieci del mattino e Rosie per fortuna non c’è quindi non corri il rischio di svegliarla come invece fai sempre» sbuffa lui, divertito «ma certo che sì!» In risposta gli sorridi, poi afferri la partitura e con un balzo sei già di fronte alle finestra con il violino al braccio. John è in poltrona quando inizi a ruotare i bischieri e la sua espressione è di pura beatitudine. La situazione è quasi ridicola, in effetti. Eppure, se qualcuno entrasse in questo momento non farebbe caso al fatto che Watson è in mutande, né che il più celebre detective di Londra è nudo di fronte alla finestra o che la vestaglia giace malamente caduta tra spartiti vergini. No, se qualcuno invadesse il soggiorno del 221b di Baker Street in questo momento non potrebbe far altro se non venir rapito da note meravigliosamente dolci, fuoriuscire da un violino frettolosamente accordato. Perché ci sono molti modi di fare l’amore, delle volte è correre per un vicolo buio mano nella mano, altre è gettarsi da un tetto. Questa notte, è riversare in musica un’ora di passione.
 


 
Fine


 
 
 
Note: Questa storia devo averla scritta nel 2016 e sta nascosta da anni nel mio computer, faceva parte di una raccolta che poi ho eliminato. Di quella raccolta un paio di storie sono su AO3, le altre invece le ho eliminate tutte. Tranne questa. L’ho ritrovata un paio di settimane fa per puro caso, l’ho letta e non mi è piaciuta. Poi mi sono messa a scrivere altro e a questa non ci ho più pensato. L’ho trovata stamattina intanto che facevo ordine e ho creduto che con qualche modifica avrei potuto pubblicarla qui. In questa versione c’è Rosie, ma non è presente al momento. Spero che a voi sia piaciuta, a me scatena sentimenti contrastanti.
Comunque grazie a tutti coloro che hanno recensito questa raccolta sino a questo momento e anche chi ha letto.
Koa

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Capitolo 16
*** Marriage d’amour ***


Marriage d’amour
 




 
 
 
L’ho scritta per MissAdler,
Un bacio a Setsy






 
Guardavano la luna, tenendosi per mano. Respiravano nel silenzio della notte. In cima alla collina, col mare affacciato. Sgattaiolare tra i profumi della Provenza. Fuori dalle loro case, lontani da Mycroft e Harriet. Dai loro genitori. Fuggire in una notte d’estate, soltanto per vedersi. E nel buio, ritrovarsi. Il primo bacio a quindici anni, coi rossori sulle guance. Gli sguardi aggrappati. Gli animi spigliati e timidi. Il tempo a svanire, la lingua a balbettare parole ridacchianti d’amore. E quelle mani, ancora intrecciate. E poi correre, uno accanto all’altro col fiato a spezzarsi e il calore a bruciare. Raggiungere quella collina soltanto per poter toccare la luna e quindi crollare sull’erba fresca di rugiada.

Amarsi con l’intensità della prima adolescenza.

Come saranno le stelle da vicino? Gli domandò. Troppo calde perché tu ci possa stare a contatto, gli rispose. E poi risate, le loro. Quelle di sempre. Quelle d’ogni estate. I ricordi a mescolarsi a sogni di vita futura. A speranze mai dome. Un anno dopo l’altro, a morire d’inverno. Rinascendo d’estate nei colori caldi della Francia.

Che bella la luna, disse Sherlock quella notte. Quella dei suoi quindici anni. Quella del suo primo bacio. Lo disse sorridendo e allungando una mano verso l’alto, dominato dall’infantile speranza di raggiungerla. Un illogico sogno, retaggio di quand’era bambino e correva con John tra quei prati di uve e lavanda nella speranza di poterla raggiungere. Andiamo, John, la luna e là a un passo. Urlava e poi correva, accelerando. Ricordarsene allora e sorridere d’imbarazzo. Che bello che sei tu, gli rispose John. Poi lo baciò. Il suo secondo bacio.

Avere quindici anni e la luna dentro a una tasca. Il mare a guardarli. Il futuro davanti. Nutrire in sé l’animo dei pirati più indomiti, alimentare un cuore sempre più selvaggio. Guardarsi e ancora guardarsi, senza mai smettere. Tenersi per mano tra il chiarore della notte.

 

Fine
 



 
Note. Marriage d’amour, Paul de Senneville
È una piccola cosa che ho scritto tra le note del cellulare intanto che la pasta cuoceva. La dedico a due persone speciali, senza di loro il fandom di Sherlock sarebbe un posto molto più triste.
Koa

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Capitolo 17
*** Ode a uno schiavo morente ***


Ode a uno schiavo morente
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 

Nell’agitarsi di un’estate tardiva e con la calura d’agosto che ancora fatica a lasciar la presa su Londra, Sherlock Holmes passivamente muore. Pigro, si lascia andare alle ombre più nere e tetre del proprio animo perso, e lo fa appassendo di un dolore sordo e soffocante. Sangue e carne gli son rimasti, ossa che pulsano in un’anima fragile come vetro. Ma non è niente di più se non polvere. Polvere, che gli si posa aggraziatamente sul corpo raggomitolato in una posa innaturale. A tratti dolorosa. Eppure così bella, che sembra uno schiavo morente dalla pelle del marmo. Una statua a cui dedicare odi e poesie, per la quale perdere pazzamente la testa.
 
Quanto lontana è dalla comune concezione di essere umano, l’immagine a cui s’è volutamente abbandonato? O della di lei decenza? Nemmeno è in grado di rendersi conto se è vivo oppure già morto. È nudo, e questo lo sa. E gli batte il cuore in petto. Addirittura respira, ma ormai non ne è più certo. Non sa niente, se non che ha addosso l’odore dolce della morte. Un aroma leggero che gli si adagia armoniosamente su quella pelle diafana in toni malsani. Ha ben poche certezze, una scarsa consapevolezza di se stesso però è sicuro di giacere scompostamente sul divano del soggiorno di un 221b silenzioso e vuoto. A stento percepisce il ticchettio dell’orologio in cucina o le macchine che sfrecciano in strada, i cui rumori filtrano appena dalle persiane dischiuse. Non sa che ore siano o quale giorno della settimana possa essere, e forse nemmeno lo vuol sapere. È troppo silenziosa, casa sua, quieta tanto da esser fastidiosa al semplice pensarci. È così povera di vita, caos e chiacchiere che è costretto a chiudere gli occhi per non vedere. Per non sentire un’assenza che brucia.
 
Dov’è John?
 
Non lo ricorda, e magari lui gliel’ha persino detto prima di uscire. Che sia la droga a ottenebrargli i sensi? No, ha smesso con quella roba, lo ha fatto per John. John e per la piccola Rosie, e Sherlock Holmes mantiene le proprie promesse. Sempre.
 
“Ma entrambi sappiamo che non è vero” cantilena il velo di follia che gli dimora nel cuore e che pare aver una voce simile a quella di Moriarty. Non può dirsene sicuro e prima che riesca a pensarci nuovamente, la razionalità prende il sopravvento e quell’eco torna da dove è venuto. “È il dolore a ottenebrarti la mente” insinua quindi suo fratello maggiore, sbucato dal nulla e che gli parla con fare petulante. Come di consueto, Mycroft Holmes veste impeccabilmente. Se ne sta ritto e fermo al centro del soggiorno, rotea gli occhi verso l’alto come se disapprovasse non soltanto gli stupidi enigmi del piccolo Barbagialla, ma quasi ripudiasse la sua stessa esistenza. Mycroft che s’appoggia all’ombrello, il cui manico è stretto in una mano e che sospira senza trattenere ulteriore disapprovazione. Sarà anche un’allucinazione, pensa Sherlock ridendo, ma suo fratello riesce a essere comunque alquanto detestabile.

“Te lo avevo detto io, di non farti coinvolgere dal dottor Watson” continua, prima di svanire e anche lui scompare in un niente.
  
Aprendo gli occhi la realtà torna a vibrare, così come quel malessere sordo che gli divora le interiora e che si rende conto esistere per davvero. Non si tratta più di un qualcosa di vago e indefinito, adesso è reale. Batte come il cuore, mangiato da sensi di colpa. Ma per uno strano scherzo del destino, succede proprio allora. Nell’attimo stesso in cui si dice certo di non farcela più e che dovrà sicuramente andarsi a cercare quell’astuccio, Sherlock sente la sua voce. Questa volta, capisce in un sussulto d’emozione che gli torce lo stomaco e fa impazzire il palazzo mentale, non è una fantasia del suo cervello. Non un’infantile illusione, scaturita da un’immaginazione eccessivamente fervida. Perché c’è John Watson, a un passo dalla porta. John che lo guarda con un’ombra di spavento e speranza, mescolate assieme in un’espressione confusa.
 
«Sherlock» sussurra, di nuovo indugia sulla porta attardandosi nel corridoio. In un parlare appena un poco trattenuto dai dubbi. John che evita di entrare e nel contempo stringe con forza le buste della spesa che ha con sé. John che si mordicchia le labbra, insicuro nella scelta d’aprir bocca o meno. Così poco se stesso, eppure così lui.
 
Sempre in una meravigliosa contraddizione.
 
«Non sono fatto!» Tenta immediatamente di giustificarsi, balzando a sedere e barcollando un poco. Anche se ha accarezzato l’idea di prender dell’eroina, spera che John non lo creda capace d’infrangere una simile promessa.
«Lo so» annuisce, prima di entrare in un soggiorno ancora buio «però stai male e…»
«Sto perfettamente» ribatte Sherlock con un contegno che sente di non possedere del tutto, prima di raggiungere il centro del soggiorno e imbracciare il violino. Non ha voglia di suonare, ma la musica è da sempre un rifugio nel quale riacquistare pace e tranquillità. Ora, si dice, dovrebbe suonare per John e per Rosie. Per tentare di lenire il dolore. Sarebbe utile, eppure non lo fa e lì rimane, immobile e senza neanche posare le dita sulle corde. Confuso e con i lembi della vestaglia che ondeggiano lenti, mostrando una nudità non volgare. Con i ricci agitati da ansia e brezza estiva che gli scorrono addosso. Con lo sguardo di John Watson a prendersi tutto ciò che di buono gli è rimasto da offrire. Anche se meno di niente.

Poi, dal nulla, una nota. Pesante quanto una lacrima e nemmeno perfettamente intonata. Una nota che suona un violino scordato, al pari di quel se stesso che non è più capace a trattenere il pianto. Un’altra a vibrare sul cantino con più decisione. Quindi un’altra ancora, e un’altra, e un’altra come in una cascata. Un turbinio incontrollato di sentimenti che vanno a creare una melodia mai sentita. Quando l’ha composta? Mai, si dice. Perché non l’ha fatto. Gli è nata ora, in testa assieme a quel piano disperato che lo mangia dentro e che bagna legno e crine. Ogni pausa e sincope vibra assieme a quel suo cuore che, bastardo, ha deciso di farsi sentire proprio ora.
 
«John.»
 
Grida. E intanto le lacrime gli rigano il viso, offuscandogli la vista e annebbiando i sensi mentre un pulviscolo sottile aleggia nell’aria e lieve, e leggero, e delizioso delimita i contorni di ciò che non esiste. Non più. Polvere, c’è. Polvere sulle porte, sui vetri delle finestre. Polvere mescolata a lacrime versate copiose, polvere tra singhiozzi e devastanti tremori. Polvere sul violino, ora caduto a terra assieme a un archetto gettato lontano. Polvere sulle buste della spesa da poco abbandonate a terra. Polvere tra gli alambicchi della cucina, su libri già letti e spartiti malscritti. Polvere tra le spire di un abbraccio prepotente, nato dal cuore di un John Watson dilaniato di riflesso.
 
«Chi è, Sherlock? Chi ti fa soffrire? Eurus? Mycroft?» sussurra, Watson il soldato e a maggior forza impone la propria presenza. «Chi è? Sono io? Sono io, Sherlock?»
«Non sei tu» sussurra lui in rimando, ancora stretto tra le sue braccia. «Non sei mai tu, e se fossi tu sarebbe la tua assenza.»
«E allora cosa?»
«Tutto, John. Eurus, Mycroft. I miei genitori. Victor» aggiunge infine, trattenendo lacrime in fondo alla gola. Lacrime ovunque, addosso. Dentro. Danzano attorno a loro. Lacrime che si quietano. Dopo, soltanto polvere. Polvere sulle labbra di un bacio. Mentre l’abbraccio stringe e il pianto si fa più intenso. Mentre il peso degli ultimi mesi crolla addosso a un Sherlock Holmes dall’anima non più morta. Un bacio, alla fine che sa di lacrime e tè mentre la morte di Victor diventa reale, così come la follia di un qualcuno che dovrebbe chiamar sorella, ma di cui ricorda a stento i contorni del viso.

«Ci sono io» dice John, in un mormorio di poco percettibile. «Ci sono io.» ripete, e sì, Sherlock lo sa e di rimando sorride. E allora lo vede, uno spiraglio che s’apre. Forse un raggio di sole che filtra tra le persiane chiuse. La speranza che prende la forma di un bacio e il calore di un abbraccio. A quel punto la polvere inizia a svanire e la morte si ritrae, sconfitta.


 
 
 
 
Fine
 

 
 

Note: Lo schiavo morente, fa pare di una serie di sculture di Michelangelo Buonarroti, definite appunto schiavi.
Il brano che ho linkato credo mi abbia ispirata durante la stesura, credo. Non ne sono sicura perché sono passati degli anni da quando l'ho buttata giù. Questa storia l’avevo pubblicata anni fa su Efp, cancellandola il giorno dopo perché non mi convinceva affatto. All’epoca l’avevo cambiata, trasformando anche il titolo e pubblicata solo su AO3. L’ho trovata per caso e ho pensato di aggiungerla a questa raccolta.
Grazie a tutti quelli che hanno recensito ogni storia sin qui.
Koa

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Capitolo 18
*** To Love's End ***


 
To Love’s End
 



 
 
Sangue sulle dita
veleno sulle labbra
il dolore era impresso di solitudine
 
 
 


 
Per hikaru83


Sarebbe stato più saggio smettere di amarlo, ma se ciò fosse stato possibile non si sarebbe trovato col cuore a pezzi e una voglia matta di raggiungere la luna, poiché là nessuno lo avrebbe più trovato. Vivere nello spazio ed essere fatto di antimateria, magari avrebbe lenito il suo dolore. Eppure Sherlock voleva lui, lo voleva pazzamente. E allora suonava di note stonate un violino scordato, suonava di una melodia sciocca e banale. Suonava riversandoci millenni d’amore inespresso, mettendoci tutta la sensibilità di cui era capace. La fragilità dell’anima che gli distruggeva ogni certezza. Lui non avrebbe capito, ma forse andava bene anche così.
 



 
Per K_MiCeTTa_K
 

Lei sapeva. Lei che aveva gli occhi vispi di sua madre e la medesima forza di spirito di suo padre, sapeva. E dall’alto dei suoi cinque anni, lo giudicava. E non capiva. Perché un bambino non comprende per quale ragione chi si ama non possa essere felice. Lei che non afferrava il senso delle sue spiegazioni, ignorava ogni ragionamento logico. Lei che logica non lo era affatto, ma che sapeva essere stupendamente obiettiva.
«Tu lo ami.» Lei, implacabile, spietata. Lei così come Mary. Lei che aveva ragione. «Dillo a papà» aveva ripetuto. Lei così come John, e infine lui che non riuscì a dirle di no.
 



 
Per MissAdler
 
 
Fu con l’arrivare dell’inverno che sbocciò l’amore. Come un fiore che sbuca dalla neve, il loro sentimento nacque dal gelo. Dalla sofferenza che avevano provato, dal male che s’erano fatti. Perché lo amava, e una notte gliel’aveva sussurrato. E John che non aveva risposto, che aveva fatto passare giorni, e poi settimane. E Sherlock che c’era morto nell’attesa, accettando con pacata rassegnazione la fine di tutti i suoi sogni.

Poi giunse l’inverno, e con esso la sua confessione. Fiumi di dolore esternato, l’inadeguatezza del suo sguardo, la sofferenza delle sue parole. Lacrime e rabbia. Il male di vivere che trasudava da ogni respiro, così come la consapevolezza di non essere abbastanza. Stupido, John Watson, gli rispose. Poi lo baciò.
Arrivò con l’inverno, e fu per sempre.
 
 



 

Note: C’era una sfida su Facebook, chi commentava doveva citare un pezzo di una mia storia e io dovevo indovinare da quale storia fosse tratta. In caso contrario avrei dovuto scrivere una drabble per ogni persona che mi aveva battuto, mi hanno battuto tre persone (perché fondamentalmente non ricordo nulla di ciò che ho scritto). Ho pensato di creare un filo conduttore e di scrivere tre drabble per le tre persone che mi hanno battuto, in un’unica storia. In realtà questa è la primissima cosa che scrivo dopo mesi, da ottobre precisamente. Quindi sto provando credo tutte le sensazioni del mondo.
Due cose: l’haiku in cima è mio. “To love’s end” è il tema di Inuyasha, che mi ha aiutata nella stesura della storia. Lo potete trovare a questo link.
Un grazie a chi ha letto e recensito l’intera racconta sin qui.
Koa

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Capitolo 19
*** La Stoltezza del Soldato ***


Note introduttive: In questo periodo sto facendo ordine ovunque, è un mio modo di gestire certe situazioni emotive, ma fatto sta che ho trovato questa nella mia chiavetta. Questa storia è vecchissima, la scrissi di getto e doveva essere tipo… il 2015? È ambientata in epoca vittoriana, come il canone, ma è un AU nel vero senso della parola. John è un ex soldato (Ma non un dottore) e Sherlock un aristocratico, allontanatosi dalla propria famiglia.
 
 




 
 
 
La Stoltezza del Soldato
 




 
 
 
 
Ci sono notti, notti come questa, in cui non dormo e durate le quali mi perdo in contemplazione del soffitto nonché dello scorcio di cielo stellato che si riesce ad ammirare da Regent’s Park. Ci sono momenti in cui non ho bisogno d’altro, se non di sentire il respiro spezzarsi nel gelo dell’alba. Il battito del mio cuore che galoppa sotto il ritmo sempre più accelerato dei miei passi. Ci sono sonni che non vengono e sogni dalle spaventevoli forme confuse. E poi risvegli bruschi, sudore che cola dalla fronte e pupille dilatate dal terrore. Non sono i ricordi della guerra, a tormentare i miei squarci di sereno. Non più, oramai. Loro sono svaniti da quando t’ho incontrato. Oggi sono ben differenti e di ben altra importanza.


Io ho visto la morte da vicino, so che consistenza ha. Ne conosco l’odore e persino il sapore e lo ricordo ancora adesso: sapeva di sangue, sudore e sabbia. L’ho guardata negli occhi, la fine e affrontata con quella che tuo fratello definirebbe: la stoltezza del soldato. Ma non ne ho paura, almeno non più. Quel che temo, al di là di ogni sensatezza, al di sopra di logica e ragione, è di perderti, Sherlock. Ho paura di commettere un errore, un qualcosa che t’allontani o che tu un giorno possa stancarti di me. So che tu credi sia ridicolo ma io sono certo che la realtà, la mia realtà, sia molto meno paradisiaca della tua. Tu possiedi l’enorme difetto di non comprendere chi tu sia veramente o di quale effetto tu abbia sugli altri. Sei eccessivo e neppure te ne rendi conto. Sei così tanto, così troppo! Così brillante, straordinario. Così fantastico! E non capisco davvero cosa tu abbia trovato d’interessante in un uomo semplice, banale e ordinario come me. Con tutta l’onestà di cui sono capace, corretto è dire che nulla ci accomuna e no, non si tratta di banali sfumature caratteriali, ideologie diverse o maniere opposte di concepire l’esistenza in questa società inglese che tu, seppur nobile, detesti con tutto te stesso. Al contrario, i miei timori nascono altrove. Su tutto, da ciò che siamo. Da quelle radici che con determinazione ti ostini a negare d’avere e sì, mi riferisco alla tua famiglia, Sherlock. Una casata che, nonostante i tuoi sforzi, è colei che t’ha formato. È la tua origine e ciò che ancora adesso ti pretende. Quel che un giorno ti porterà via da me. Sono conscio del fatto che detesti la tua nobiltà, oltre che a quel titolo che con tanta foga t’ostini a nascondere ogni volta qualcuno ne fa cenno, ma è ciò che sei. Ed è chiaro quanto il sole che splende nel cielo, che non sei un uomo comune. Sei e resti un nobile, un uomo il cui titolo viene prima d’ogni altra cosa. Nonostante i tuoi lodevoli sforzi di non dargli alcun peso rimani figlio di una nobile e antica famiglia.


Cosa ci accomuna?


Me lo domando ogni volta che ti concedi a me, in notti come questa. Me lo chiedo mentre ti accarezzo e intanto serro le palpebre, appena un poco convinto di non meritarti. La risposta ai miei tormenti arriva al primo mattino, quando scorgo i tuoi lineamenti far capolino dalle lenzuola sfatte. Non c’è sensatezza nel nostro stare insieme. Nulla ci accomuna se non questa passione travolgente e un nostro sfacciato amarci così tanto evidente che, a sol nasconderlo, pare ridicolo. Venerarsi non basta. I sogni di una vita futura da vivere insieme resteranno tali. E lo sappiamo entrambi. L’idilliaco presente che ci siamo costruiti un giorno non sarà sufficiente e ci si sgretolerà ogni felicità tra le mani. D’altronde, chi sono io? John Hamish Watson, un reduce zoppo che con ostinazione tiene ancora alla propria divisa, ma che non ha una famiglia e che senza quella stanza in cima alle scale, là al 221b di Baker Street o questo nostro strano lavoro, farebbe la fame. Prima di te non ero nessuno e tale resterò anche dopo che mi avrai lasciato. Perché avverrà, io lo so. Io ne sono certo e, che io sia dannato, se a oggi non ritenga quel giorno come l’ultimo della mia vita. Visto? La mano mi trema al sol figurarmi la porta che si chiude dietro il tuo portamento imperioso, mentre già alcune lacrime mi velano lo sguardo. Non voglio vederti andar via ma in un futuro avverrà, forse domani o magari tra un anno e io non potrò fare nulla per trattenerti. Sappi, però, che io finirò con te e che cesserò di essere quel che tu hai pazientemente formato nell’esatto istante in cui ti vedrò salire sulla carrozza, diretto lontano dalla mia vita. D’altra parte chi sono io, Sherlock e che cosa posso offrirti? A te? A un Holmes? Hai un’intelligenza che spaventa gli sciocchi, una sfacciataggine che fa inorridire gli ottusi ben pensanti di palazzo. Possiedi una bellezza che farebbe sfigurare la più splendida delle principesse e una compostezza da far impallidire una regina. Hai una parvenza di gelo nello sguardo che ridurrebbe il peggiore dei criminali a carne molla tremolante, un’oscurità che in pochi conoscono e che farebbe rabbrividire il demonio in persona. Eppure sei divino e angelico, al pari del più splendente dei serafini. Non avrei dovuto innamorami di te, ma e che io sia maledetto, è stato inevitabile. E anche se ci separeranno o se la tua ostentata libertà intellettuale non sarà sufficiente, io benedico il giorno in cui t’ho incontrato.


Ti amo, Sherlock Holmes.


Ti amo veramente. Ti amo pazzamente, come un marinaio ch’è stato incantato da una sirena e ora ne è schiavo. Ti amo profondamente e al punto da non pentirmi di nulla. Al punto d’uccidere. O di morire. Tanto da lasciarti andar via, un giorno, se mai me lo chiederai. E ho così paura che questo succeda, da ritrovarmi a scribacchiare alle tre di una notte gelida, io seduto su di una panchina del Regent’s Park, vergando parole che mai avrò il coraggio di pronunciare ad alta voce.


Vedi? La mano trema di nuovo, accade nel momento in cui capisco che non hai atteso il mattino e che mi sei venuto a cercare. Fai sempre così. Mi rincorri con lo sguardo. Mi cerchi. Mi trovi. Mi stani. Mi conquisti con una parola, mi rendi schiavo con un gesto. Già ti scorgo, in lontananza e quasi ho paura. Che ti dirò? Perché sei tu, io lo so. Riconoscerei la tua sagoma tra mille. Con quel ridicolo cappello e una coperta di lana gettata sopra al cappotto, ignorante degli sguardi della poca gente che a malapena noti, incurante di quello che possono pesare di te. O sei così libero, Sherlock. Come puoi esserlo? Come riesci a ignorare la società e i suoi dettami? Sì, sei tu che adesso cammini svelto verso di me. Preoccupato. Ansioso. Drammaticamente teatrale, come tuo solito. Tu, che appena i nostri sguardi s’incrociano, mi sorridi e io, sciocco soldato innamorato, mi ritrovo a fremere. Che tu non abbia ragione? E che non valga la pena di lottare come un leone? Non ne ho idea. So solo che quando mi sei vicino, le paure scemano e…
 
 

 
*


 

 
«Di notte in un parco, Watson? Davvero? A scrivere poi? E non dirmi che sei uscito di casa con questo freddo per una di quelle tue ridicole storielle da dare allo Strand Magazine. Almeno spero tu mi abbia menzionato o che mi abbia conferito l’importanza che merito.»
«No, non è un nuovo racconto. Sono solo… sciocchezze. Sono solo sciocchezze.»
 
 
 



 
Fine
 
Note: Un ringraziamento a tutti coloro che hanno letto e recensito tutti i capitoli di questa raccolta. Come vedete è molto eterogenea, è più che altro un posto in cui ficcare dentro di tutto. Tipo il panino che ti fai alle nove e mezza la sera perché hai un fame immonda, ecco.
Koa

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Capitolo 20
*** Restless world and moonlight kisses ***


Note introduttive: Si tratta di una song-fic incentrata sul testo della canzone When I fall in love, cantata da Nat King Cole per la prima volta nel 1952, sarebbe utile ascoltare il brano durante la lettura (sebbene non sia fondamentale). Questo è il link. Altre note in fondo.



 
 
 
 
Restless world and
moonlight kisses
 
 





Hai così poca cognizione di te stesso, che a chiudere gli occhi ti sembra quasi di galleggiare. D’avere la leggerezza degli angeli, la consistenza impalpabile delle nuvole, l’animo spensierato di un bambino. Hai così poca cognizione di te stesso che a tratti quasi dimentichi dove ti trovi. Ti scordi di tutto, concentrandoti soltanto sulla consistenza del suo corpo premuto contro al tuo. Sarà che stai ballando su una pista di ghiaccio con John stretto al petto e sarà che non c’è nessun altro oltre a voi due, ma il cuore è un tumulto di tremiti e sospiri, rilasciati come a voler scacciar via la pesantezza. Sarà che non capisci più niente da tanta è l’emozione.

«Avrei dovuto dirtelo anni fa.»

John tra le tue braccia è impacciato ma felice, tace e ride appena. Ti ha detto che ti ama. E tu sei rimasto lì, imbambolato. Col suo respiro addosso, le mani calde attorno alla vita e le dita allacciate alle sue in un groviglio senza inizio o fine. Ti senti l’idiota più idiota al mondo e non t’importa neanche. Il suo canticchiare allegro ti fa vibrare labbra e palpebre. Ma sarà che gli appena detto d’amarlo, e ancora non ci credi.
 
 


 
When I give my heart It will be completely
Or I’ll never give my heart

 
 


Avevi una razionalità, un tempo c’era. La ricordi vagamente e sai che aveva a che fare con la logica e forse anche con una specie di metodo deduttivo. Ora però è svanita, andata e i fili di pensieri che ti si tendono nella mente e si diramano ovunque tra sensi e battiti, hanno una radice proprio assurda. La colpa è dell’atmosfera suggestiva di una vigilia di Natale che riesce a coinvolgerti per la prima volta in tutta la vita. La colpa è delle luci del palco che vi illuminano entrambi di un orrendo violetto, e che ti ritrovi ad adorare. Ami il fatto che faccia un dannato freddo e ami persino questa canzone dolciastra e strabordante di quel romanticume falsato che in genere detesti.
 

 
 
In a restless world like this is
Love is ended before it's begun
And too many moonlight kisses
Seem to cool in the warmth of the sun



 
John mormora a voce bassa quelle poche strofe. È una musichetta semplice e assai banale, la logica suggerirebbe che Brahms o Chopin sarebbero più adatti alla situazione. Eppure, oh, è stupefacente la maniera in cui la sussurra! Ti fa battere il cuore e tremare un non ben precisato qualcosa dentro ed è per questo che ti pare d’esser sospeso a mezz’aria, avvolto dal nulla. Abbracciato a mirabolanti illusioni; che sia un sogno? Non t’importa, comunque sia è la sensazione più bella che tu abbia provato e questo groviglio che sale dallo stomaco e t’affanna la gola, assomiglia dannatamente alla felicità. La tua, la sua. Una beatitudine appena agguantata e che non hai intenzione di lasciar andare.



 
And the moment I can feel that
You feel that way too (I feel that way too)
Is when I'll fall in love (I fall in love)
With you

 

 
 
«Sarà per sempre. So che fatichi a crederlo, ma io lo so. So che sarà per sempre perché non ho mai amato nessuno prima di te. Non ho mai fatto per un’altra persona quel che ho fatto stanotte per te.»
«Baciarmi sotto la luna?» chiede John, sorridendo appena.
«Non ti ho baciato» rispondi invece tu, confuso e vagamente saccente.
«E allora che aspetti?» Ridi e lui con te, perché eri talmente preso da te stesso e dai tuoi pensieri d’aver scordato certi passaggi fondamentali, o forse sei troppo arrugginito in faccende sentimentali per sapere quali sono i passaggi necessari. Probabilmente una parte di te contava su di lui e sulla sua esperienza, e infatti è John a prendere l’iniziativa. Nemmeno ti dà il tempo di rendertene conto che t’afferra per il bavero del cappotto, attirandoti a sé con una foga che vi fa pericolosamente vacillare. Solo allora lo baci. Ed è strano, lento, morbido. Umido e appassionato. È vorace, sensuale e poi di nuovo più dolce. È un imprevisto baciarsi mentre Nat King Cole ancora canta di voce suadente. Buffo, pensi, sta iniziando a nevicare.
 

 
 
When I fall in love it will be forever

 
 
 
Pattinare, e farlo a mezzanotte. Pattinare e un po’ ballare, a ritmo di una musica lenta, col corpo che si scioglie mentre i fili intricati dei pensieri s’attorcigliano attorno a un’unica, meravigliosa, prospettiva. Una che per ora ricacci in un angolo della mente, ignorandola perché a certe alte cose penserete a casa. Pattinare in una Somerset House deserta, con lo sfarfallio delle luci ancora accese, e intanto perderti in quel toccarsi intimo. Pattinare e baciarsi a occhi aperti. Quasi insicuri. Pattinare con le ginocchia che tremano e le carezze che non bastano. Pattinare, e ballare, e cantare e nel contempo baciarsi. Pattinare e per un istante, uno soltanto, temere che sia stato tutto un sogno. E allora tremare e avere paura. Pattinare e cadere dentro a un abisso di dolce follia. A svegliarti è la neve che cade a bagnare la punta del naso e la risata leggera di John.
«Ti amo» dici, ma sarà che sei impazzito. Sarà che, di cognizione di te stesso, ancora non ne hai.
 
 



 
 
Fine
 






Note: Ci sono molte piste di pattinaggio all’aperto a Londra, la più suggestiva secondo me è quella di Somerset House

Altra storia recuperata dalla mia cartella delle fan fiction, questa al contrario di alcune delle precedenti che ho recuperato dai meandri del mio computer, era già pubblicata su AO3, ma non qui su Efp. La storia risale al dicembre del 2017. Al momento rileggere storie così vecchie mi è molto d’aiuto e ho pensato che tenerle nel cassetto fosse un peccato.
Grazie a chi sta leggendo e a chi recensisce.
Koa

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Capitolo 21
*** Un caso difficile per Sherlock Holmes ***


Un caso difficile per Sherlock Holmes
 
 



 
 
 
 
Una piccola dedica a Prisca,
per il suo compleanno

 

 

 

Il suo muoversi è fluido, furtivo, un affrettarsi agile di chi sa perfettamente come comportarsi in situazioni di pericolo. Sherlock Holmes scivola tra i vicoli del centro destreggiandosi tra passanti che di tanto in tanto lo scrutano con una punta di timore mista a incomprensione. Lui è nato per questo, lo sa ed è come se se ne ricordasse ogni volta che adotta un mascheramento o che si perde per le vie della città a inseguire questo o quel criminale. Sarà anche il meno intelligente degli Holmes, ma questa è la vita che s’è scelto e non la cambierebbe per nulla al mondo. D’altronde come non godere del brivido della caccia che gli corre giù lungo la schiena ogni qual volta si ritrova a svelare un mistero? Il cervello, sovraccaricato d’informazioni, prude elaborando scenari plausibili e intanto le dita formicolano, agitate dalla tensione. È un caso complesso, quello in cui si è impavidamente lanciato. Difficile è discernere i fili che conducono a un’ipotetica soluzione, così come il vedere una rosea svolta. Eppure è eccitato e nervoso, e scalpita sebbene sappia che non può permettersi dei passi falsi. Non ora che è così vicino alla meta. Sherlock freme e pulsa della voglia di schiodarsi da quell’odiosa mascherata che ha messo in atto, una goccia di sudore gli cola giù per la fronte scendendo lungo la tempia, sino a morire in quella finta barba bianca che si è appiccato al volto. La camminata, resa più lenta dal bastone che utilizza per una sorta di coerenza, a un occhio esperto parrebbe proprio quella di un uomo prestante e giovane. L’aspetto, al contrario, mostra tutt’altro e in questo soleggiato sabato pomeriggio di marzo, nessuno bada a lui. Ad anima viva importa di quell’ometto sull’ottantina di anni, ritorto su se stesso che con un’insolita fretta prosegue lungo il marciapiede fischiettando un motivetto allegro. Nessuno fa caso a un anziano, né si preoccupano di notare che l’ingobbamento delle spalle è fasullo e che le mani non sono rugose come dovrebbero, ma lisce e giovanili. È un interessante controsenso, il fatto che quella stessa idiozia che deride e condanna, gli venga utile nei casi in cui si deve celare tra la folla. Per questo sorride e, non appena il pensiero gli attraversa la mente, si lascia andare a una risata leggera. Non lo riconosceranno, non conciato in questo modo. Perciò sogghigna mentre gli occhi, vigili e attenti, brillano di un’insolita luce e intanto pensa alla pericolosità del piano che ha attuato. Se John venisse a sapere del casino in cui è cacciato o se anche qualcuno lo riconoscesse, smascherando la sua presenza, la sua vita sarebbe finita. A questo però non vuole pensare, non deve lasciarsi distrarre: basterebbe un piccolo errore per mandare tutto quanto a monte.  


Sherlock rallenta il proprio passo, sparendo in un vicoletto laterale senza uscita nel quale si acquatta. Soltanto allora, mentre si appoggia contro alla muraglia di mattoni illuminata da uno scorcio di sole che gli riscalda il viso, si rende conto che l’obiettivo si è fermato e che ora sosta lì, a pochi metri. Non credeva che sarebbe andata a finire in questo modo, anche se, d’altronde, i suoi movimenti sono talmente imprevedibili che persino lui fatica a dedurre in quale direzione e con che intenti possa muoversi il soggetto. Neanche Moriarty gli ha mai dato così tante grane, questo lo deve ammettere. Ma d’altronde, il casino nel quale si è cacciato è ben più pericoloso di quello che ha dovuto affrontare finora. E si dà dell’idiota perché avrebbe dovuto capire che sarebbero finiti lì, uno contro l’altro, faccia a faccia nell’angolo più insospettabile di tutta Londra. Prima o poi sarebbe successo.


Sherlock strizza gli occhi, assottiglia lo sguardo e intanto cerca di carpire il labiale. È troppo distante per riuscire a sentire quello che si stanno dicendo e i suoni del traffico oscurano una voce furbescamente sottile. Per questo quando percepisce il cellulare vibrare nella tasca della giacca, sussulta violentemente.
«John!» esclama tra i denti, maledicendo se stesso. Non aveva pensato a lui, dannazione e se capisce dov’è, la vita di Sherlock può dichiarasi finita per sempre.


Sherlock… Dove diavolo sei?

Caso. Molto impegnato. Ci sentiamo dopo. SH

Non c’è nessun caso, Sherlock. Dimmi dove sei.

Sto facendo una cosa importante. SH
 

 
L’ultimo sms lo digita frettolosamente, ricacciando il telefono in tasca senza preoccuparsi di leggere gli altri messaggi, di certo ben più aggressivi, che gli stanno ripetutamente arrivando. Non ha tempo per questo, non adesso. Non ora che sente così vivo e vibrante l’odore della paura che gli scivola addosso mentre l’adrenalina prende a scorrere sotto pelle, e poi su per le vene entrandogli in circolo come fosse una potente droga. Per quanto di John adori persino le urla e i rimproveri, questo non è momento di flirtare con lui. L’obiettivo ora è tutto ciò che conta. Un obiettivo che non s’è mosso e che se ne sta assieme ai propri compagni, lì dove lo ha lasciato non meno di un minuto prima. Si chiede cosa diavolo stanno aspettando e che cos’hanno da parlottare fra loro in una maniera tanto fitta. Senza dubbio stanno complottando una qualche cosa. Certo, in apparenza non stanno facendo niente di grave, ma Sherlock sa che devono avere uno scopo, è senz’altro è così. Sono astuti e in grado di muoversi velocemente, così come di scomparire da un momento all’altro nella folla del centro di Londra. Sarebbero capaci di mescolarsi a frotte di turisti giapponesi e passare inosservati o infilarsi dentro a un bus e scomparire per sempre. Per questo non può permettersi di perdere la concentrazione. Sherlock è certo che il pedinamento potrebbe fallire miseramente, d’altronde l’obiettivo s’è mescolato tra una folla di propri simili dal quale si tiene saggiamente a una certa distaccata distanza, pur fingendo di essere di compagnia. Chiacchiera amichevolmente e di tanto in tanto ride persino, esternando una qualche battuta che il gruppetto ritiene spiritosa. Oh, quanta malefica intelligenza! È geniale, constata. Assolutamente geniale e…
«Idiota!» Esclama una voce alle sue spalle d’improvviso. Sherlock in un primo momento sussulta, perché non l’ha proprio sentito arrivare, poi però chiude gli occhi lasciandosi cadere contro al muro, sconfitto. Riconoscerebbe quel tono in mezzo ad altri mille. L’inflessione della voce, che non ha perso quel militaresco rigore e un accenno di dolcezza che dimora indomito dietro l’apparenza severa, possono appartenere soltanto a John. Il rimprovero fatto con un divertimento nemmeno troppo velato dietro a un contegno ormai scarso. Sherlock riconoscerebbe il modo di parlare di John Watson anche da sordo, ne è certo. Così come sa quanto sia arrabbiato in questo momento. Non riuscirebbe a rabbonirlo neanche con l’espressione più indifesa e tenera che è in grado di produrre, figurarsi se ce la farebbe a rabbonirlo con una balla. Il suo dottore non è mai stato uno stupido.
«Jo-John?» balbetta vergognosamente, distogliendo lo sguardo che porta vigliaccamente a terra «come hai fatto a capire che ero io?»
«Per favore…» sbotta lui, ridendo appena. «Riconoscerei il tuo fondoschiena tra altri cento. Cosa fai qui?» gli chiede adesso, abbassando la voce mentre lo trascina più in là ne vicolo, strattonandolo delicatamente. «Avevamo detto che oggi, proprio perché è oggi, saremmo rimasti a casa e invece tu sparisci all’improvviso.»
«Ti ho detto che avevo da fare.»
«Ma certo» ride, sarcastico. «E per via di questo “caso” di cui io non so nulla, tu ti conci come tuo nonno e ti aggiri vicino a quello stesso cinema dove, casualmente, Rosie è andata con le amiche. Sei fuori di testa? Lo avevamo promesso, Sherlock.»
«Tu lo avevi promesso, non di certo io» risponde, mortalmente offeso mentre si toglie la barba e la caccia malamente nella tasca della giacca. «Non capisco davvero come tu faccia a star tranquillo. Ha solo sette anni e già le permettiamo di uscire da sola.»
«Ma non è sola!» esclama John, esasperato. «Ha le sue amiche e Tom e Sue si occupano di loro. Anche le altre mamme erano d’accordo, tutti erano d’accordo. Cinema, McDonald e questa sera pigiama party a casa di Ellen. Ma no, Sherlock “mamma chioccia” Holmes deve pedinarle per chissà quale motivo. Guarda che ti vieto di acquattarti sotto casa dei Jones per spiare la camera delle bambine come un guardone, Sherlock e giuro che chiamo Lestrade questa volta.»
«Ma potrebbe succederle di tutto e specialmente con quei due idioti di baby-sitter che si sono trovati. Potrebbero rapirla o farle del male, o potrebbe mancarle qualcosa per la notte. Non sono tranquillo.»
«Ha il suo telefono nel quale ci sono quei quattro numeri che le servono, tra cui il tuo. Sa come chiamare la polizia e i soccorsi, e sa che se non trova nessuno di noi c’è sempre lo zio Greg. Sherlock, dobbiamo fidarci di Rosie. Dobbiamo lasciarla andare.»
«Lasciarla andare…» ripete, con incredulità. Come se avesse sentito la più terribile delle offese.
«Cristo, cosa farai quando avrà il primo fidanzato? Lo torturerai in cerca di informazioni?»
«Per allora avrà quarant’anni, non preoccupiamocene adesso.»



John ride, si massaggia la radice del naso prima di permettere a stesso di cadere indietro contro al muro sporco di quel vicolo semi nascosto dietro al cinema, nel quale Rosie è appena entrata con quel piccolo gruppetto di ragazzine sue care amiche. Sì, ride, John. Lo fa, anche se il divertimento scema quasi immediatamente, smorzato da quel tenue languore che gli prende la bocca dello stomaco e che si fa vivo ogni qual volta Sherlock, il suo Sherlock, lo sorprende in questo modo. Sherlock di cui è sempre più stupidamente innamorato e che si prende cura della piccola Rosie in una maniera perfetta e straordinaria che mai, mai, avrebbe ritenuto possibile. Il modo in cui ne è geloso gli riscalda il cuore, come ha cura anche del più piccolo particolare che la riguarda, dallo studio alle trecce, addirittura. John adora letteralmente il suo essere severo soltanto in apparenza le volte in cui la deve rimproverare, per poi lasciarsi miseramente incantare da una qualche piccola moina, cedendo incondizionatamente. Per questo, dopo che è sparito da casa, lo ha trovato senza fatica e neanche si è stupito quando lo ha visto acquattato in un vicolo, intento a spiare l’entrata del cinema. Sapeva che la prima uscita di Rosie da sola sarebbe stata traumatica da accettare per Sherlock ed è per questo che non se la sente di arrabbiarsi con lui. Per la stessa ragione, qualche attimo più tardi lo afferra per la vita, stringendolo in una presa delicata, prima di spingerlo contro al muro.



«Ehi» sospira, baciandogli una guancia liscia mentre intreccia le dita alle sue.
«È che è difficile» lo interrompe Sherlock. «Per certi versi è il caso più difficile che io abbia mai affrontato.»
«Lo so, piccolo.»
«E se non avesse più bisogno di me?» prosegue sempre più agitato. «Lo so che ha solo sette anni, ma crescerà, diventerà adulta e se ne andrà di casa e noi saremo troppo vecchi anche per fare sesso e poi moriremo.» John sorride, lo bacia di nuovo, questa volta concentrandosi sulle labbra alle quali dedica scientifiche attenzioni. Il tocco che gli concede è delicato ma fugace, non permette a entrambi di esserne completamente soddisfatti.
«Paranoia?» scherza cercando di stemperare la tensione con ironia, prima di dedicarsi nuovamente a un qualche rapido bacio che questa volta dedica a una delle guance, sbarbata di fresco.
«Paranoia» annuisce Sherlock.
«Quindi torniamo a casa?» chiede John, speranzoso. Ma Sherlock ancora non ne sembra convinto e, caparbio, porta lo sguardo altrove. Non aggiunge nulla, ne si lancia in accorate giustificazioni dei propri intenti. Sa che ha sbagliato e questo è quanto.
 «La madre di Ellen porterà Rosie a casa domani dopo le dieci. Sai cosa vuol dire questo, vero? Anche un genio come te ci può arrivare.»
«Mh» mormora, stirando un sorrisino lievemente malizioso che si va a perdere in un ennesimo bacio a fior di labbra.
«Sesso in cucina, Sherlock. Sesso sul divano, sesso in corridoio, sesso contro i vetri della sala. Sesso ovunque. Tu che giri per casa completamente nudo, tu che suoni completamente nudo. Lo sai che sono passati due anni e mezzo dall’ultima volta che abbiamo avuto una notte di libertà da Rosie e dal lavoro, sì?» Questa volta Sherlock non risponde, ma una luce è cambiata e gli accende lo sguardo di una rinnovata consapevolezza. Evita di lanciarsi in discorsi o di perdere altro tempo, si limita ad afferrare John per un braccio e a tirarselo dietro mentre accelera il passo.
«In sette minuti saremo a Baker Street. Muoviti» grida, ordinando in maniera decisamente perentoria, prima di svoltare l’angolo. Dopo qualche istante, come se fosse dominato da una fretta indemoniata, Sherlock inizia a correre.



Il cuore di John si scalda nell’attimo in cui lo vede indugiare e quindi fermarsi per poter concedere un’ultima occhiata al cinema dov’è entrata Rosie. Succede solo per un attimo, ma in quei frangenti uno scorcio di quella fragilità che John ha imparato ad amare, fa capolino ed è lì e in quel momento che realizza che non saprà sanarla se non malamente. Non basta lo stringergli la mano, non serve baciarlo. Non quanto John vorrebbe. Tuttavia ci prova lo stesso. Gli rimane avvinghiato addosso fino a che non lo sente rilassarsi, fino a quando non lo sente scivolar via da quello scomposto abbraccio. Dopo, Sherlock vortica su stesso e in un plateale agitarsi di mani sopra la testa, gli dice di sbrigarsi. Un delizioso: «Oh!» si lascia scappare mentre vede quel pazzo scriteriato di Sherlock Holmes allontanarsi in direzione di Baker Street. Amarlo è così facile.



 

 
Fine
 
 

 
Note: Questa storia fu scritta da me nel gennaio del 2017, ovvero subito dopo l’uscita della quarta stagione, era stata pubblicata su AO3 qui ed era finita in Orphan Account (non so dire il come) e quindi ho sempre rinunciato all’idea di postarla anche su Efp. Qualche giorno fa ho contattato l’amministrazione per chiedere se potevo pubblicarla anche su Efp e dato che mi è stato dato il consenso, eccomi qui. Avrei voluto caricarla la prossima settimana, perché ora sono impegnata dalla Thressome, ma volevo fare una sorpresina (piccola piccola) a Prisca per il suo compleanno.
Per il titolo ho in parte preso ispirazione dal film “Il caso difficile del commissario Maigret”. L’idea per scriverla mi era venuta leggendo una serie di Tweet in cui ci si immaginava Sherlock nel ruolo di padre/mamma chioccia.
Grazie a tutti coloro che sono giunti sin qui.
Koa

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