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Autore: padme83    21/02/2019    17 recensioni
Al tempio c'è una poesia intitolata "la mancanza", incisa nella pietra.
Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate.
Non si può leggere la mancanza: solo avvertirla.

(Arthur Golden - Memorie di una Geisha)
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'We were closer than brothers'
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Soundtrack (eccezionalmente all’inizio, ma se non l’ascoltate prima o durante rischiate di perdervi buona parte del senso della storia): L’oiseau, ZAZ.
 
 
 
 
 
 
~ Così crudele e accecante ~
 
 
 
 
 
 
Al tempio c'è una poesia intitolata "la mancanza", incisa nella pietra. 
Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. 
Non si può leggere la mancanza: solo avvertirla.
(Arthur Golden - Memorie di una Geisha)

 
 
 

 
 

 
Ho visto la smorfia del suo dolore,
ho visto la gloria nel suo sguardo raggiante.
Anche io vorrei luce ed amore, 
ma se arriva deve essere sempre
 così crudele e accecante.
 
 
 
 
 
 
 
 
Parigi, 1927

 
La Ville Lumière è vestita a festa stasera.
Sfacciata, la città dai mille volti sembra volerti restituire lo stesso sguardo sprezzante che le rivolgi con malcelata, feroce soddisfazione mentre osservi dalla finestra la luna svettare maestosa oltre i comignoli puntuti di Boulevard de la Madeleine. Ha piovuto molto durante il pomeriggio. Una nebbia caliginosa, spessa come una coperta di lana grezza, dalla strada risale serpeggiando verso le mura dei palazzi, e avvolge ogni cosa fra le sue spire evanescenti, sfumando le luci che, dai lampioni, si srotolano pigre sopra i sampietrini consunti del marciapiede.
La casa è vuota, avvolta dalla penombra, silenziosa; tutta la tua corte si trova già al Père-Lachaise, intenta a preparare con la dovuta meticolosità il palcoscenico sul quale questa notte un’unica, extraordinaire étoile si esibirà nell’arringa più rivoluzionaria che la Francia abbia udito dai tempi di Saint Just e del suo discorso al processo di Luigi XVI.
La pendola, di lato al camino, batte undici lugubri rintocchi. Increspi le labbra in un ghigno bieco: ti piace farti attendere – un elegante ritardo in simili circostanze è l’ideale per creare nel pubblico la giusta carica di aspettativa – ma è ormai ora di raggiungere gli altri e dare finalmente inizio ad uno spettacolo che les parisiens ricorderanno per intere generazioni. Il tuo ingresso in scena sarà trionfale, drammatico, solenne. Degno di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Napoleone Bonaparte.
Ti avvii svelto verso l’ingresso della maison per recuperare cappello e soprabito ma, d'un tratto, un movimento ai margini del tuo campo visivo ti impone di fermarti: un’ombra pallida, al di là della porta socchiusa della sala da pranzo, si riflette per un attimo nel vetro della cristalliera. Afferri la bacchetta, già pronto a colpire, quando i frammenti sparsi di una conversazione tra Vinda e Lucrætia – qualcosa a proposito di quanto fosse vraiment plus raffiné una cameriera francese rispetto ad un banale e cencioso elfo domestico – ti riaffiorano con fastidio alla mente. Imprechi tra i denti, furibondo – detesti non avere tutto quanto sotto controllo, e le libertà che quelle sciocche si stanno prendendo (e che tu non ricordi affatto di aver loro concesso) cominciano sul serio a darti sui nervi. Avanzi deciso verso la povera malcapitata – una ragazzina magra, anonima, che non dà il minimo segno di essersi accorta della tua presenza – fermamente intenzionato a farla sparire con un sonoro schiocco di dita. Tuttavia indugi, per la frazione di un secondo, e resti immobile, le falangi strette intorno alla maniglia della porta, il tempo sufficiente ad accorgerti che la ragazza, convinta di essere sola, sta canticchiando fra sé una malinconica nenia in francese.
“Je connais les brumes claires, la neige blanche et les matins d'hiver.
Je voudrais te retrouver, le lièvre blanc qu'on ne voit jamais.
Mais l'oiseau, l'oiseau s'est envolé et moi jamais je ne le trouverai.”
Ed è proprio in questo momento – nell’istante preciso in cui un ricordo riemerge vivido dai flutti ribollenti della memoria –, che l’intero universo va in pezzi, e tu insieme a lui.
All'improvviso, semplicemente, tutto ciò che ti circonda smette di esistere – Parigi, il Père-Lachaise, Scamander, Credence, gli Auror, ogni cosa scompare senza lasciare dentro di te la benché minima traccia del suo passaggio. La realtà si crepa, si accartoccia, si sgretola davanti ai tuoi occhi, le pareti si sfaldano, il respiro si spezza, la vista sfarfalla, i muscoli si contraggono in uno spasmo violento. Resistere, in questi casi, non serve a niente – lo sai, per Dio, lo sai bene.
Abbassi le palpebre, in un muto cenno di resa, e ti lasci svanire, in completo abbandono, nel blu di un limpido cielo d’estate. Inspiri, e i polmoni vengono inondati dal profumo lussureggiante dei fiori di campo, degli alberi da frutto e dell’erba appena tagliata. Espiri, e sei altrove, in un altro mondo, in un altro tempo, in un’altra vita.
 
 
 
 
♦♦♦
 
 
 
 
È un’afosa mattina di luglio, e state passeggiando tranquilli in giardino, uno accanto all’altro, come d’abitudine, totalmente immersi in una delle vostre solite, accese, inesauribili discussioni. Parlare con Albus è facile, troppo facile, e lo è stato fin dal primo giorno, tanto che, più di una volta, hai avvertito nel profondo di te stesso l’insensata, assoluta, terrificante certezza di conoscerlo da sempre, anzi, da ben prima che entrambi nasceste, come se le vostre anime fossero unite da qualcosa che trascende la mortalità della carne, e che le spinge a perdersi e a ritrovarsi in eterno, di vita in vita, di era in era, attraverso il vorticare infinito del tempo. E anche lui lo ha sentito, su questo non hai alcun dubbio. Lo capisci dal trasporto con il quale si tende di continuo verso di te, dal modo in cui incatena il tuo sguardo al suo, quasi cercasse in te la conferma dell'esistenza di un mistero del quale ancora non conosce entità e forma, ma che è comunque sicuro prima o poi di riuscire a svelare.
È un grido acuto a interrompervi bruscamente, e a costringere lui a distogliere da te la sua attenzione: un’esile figura bionda sta correndo verso di voi attraverso il prato, incespicando nei suoi stessi passi. Albus le si avvicina rapido, apprensivo, e la bambina vola fra le sue braccia con la foga di un uccellino caduto dal nido, la veste azzurra stropicciata e il corpo minuto, acerbo, scosso da brevi singhiozzi spauriti.
«Cosa c’è chiya? Cos’è successo? Perché piangi?»
«Mi sono fatta male mentre coglievo una rosa, mi sono tagliata con le spine. Guarda…» Ariana mostra al fratello maggiore la mano sottile, laddove un rivolo di sangue vermiglio ne oltraggia il candore immacolato. «Era la più bella e la più bianca e volevo regalarla a te, perché è il tuo fiore preferito.»
Albus si china e la attira a sé con delicatezza, affondando il volto tra i suoi capelli arruffati, per celare – a lei? O a te? – il tremito commosso – addolorato? Colpevole? – che gli scuote le labbra; poi, scostandosi un poco, poggia il palmo aperto contro quello escoriato della sorella e, con un gesto esperto (e una formula silenziosa), cauterizza e guarisce lentamente la piccola ferita. Ariana spalanca gli occhi e contempla, piena di meraviglia, la pelle della mano di nuovo liscia e perfetta.
«Va meglio, adesso, chiya?»
«Un po’.»
«Solo un po’? C’è qualcos’altro allora che posso fare per te?»
La bambina alza il visetto appuntito verso di lui, scoccandogli un sorriso timido, adorante. «Puoi cantare, per favore?»
«D’accordo» risponde il ragazzo, divertito, carezzandole una guancia. «Cosa vuoi che canti?»
«La canzone che ci cantava sempre la mamma. La belle berceuse françaiscelle de grand-mère[1].»
«Ca va bien, ma solo se tu la canti insieme a me.»
Ariana gli passa le braccia attorno al collo, aggrappandosi alle sue spalle, mentre lui si siede a terra e distende le gambe snelle, lunghissime, facendola poi adagiare dolcemente sulle sue ginocchia. 
(Non sarà forse gelosia, Gellert, quest'artiglio spietato che ti si è appena conficcato nel petto?)
La ragazzina solleva il mento verso il cielo e comincia a cantare piano, in una limpida, quieta voce di soprano che sale come un argenteo filo di fumo verso le nuvole silenti.
“Si jamais je rencontrais ce bel oiseau qui s'est envolé,
s'il revient de son voyage tout près de toi le long du rivage.”
La voce di Albus è profonda, baritonale, e s’innalza calda e vibrante nell’aria, intessendo un armonico controcanto con il lamento tenue, simile al trillo di un campanellino, della sorella.
“Mais vois-tu, je lui raconterais combien pour toi je sais qu'il a compté.”
Una brezza leggera fa stormire le foglie, e la luce che filtra tra i rami crea una danza mutevole – abbagliante – d’oro e smeraldo: Albus ne viene investito in pieno.
La sua chioma fulva riverbera nel sole, aurea, e una corona di fiamme illumina le splendenti gemme preziose che il giovane porta incastonate nel volto.
È lui ad andare a fuoco, Gellert? O è il tuo cuore a bruciare?
 
 

 
♦♦♦
 
 
 
 
«Monsiuer? Excuse moi, monsieur, excuse moi.»
È la supplica della ragazza – poco meno di un pigolio strozzato – a offuscare lo sfolgorio del passato per restituirti, tuo malgrado, all’oscurità del presente. Se ne sta tremante a pochi passi da te, e nei suoi grandi occhi neri non scorgi altro che cieco terrore. È sul punto di svenire dalla paura e, per i demoni dell’Inferno, ne avrebbe tutte le ragioni. Dovresti punirla per ciò che ti ha appena forzato a rivivere; dovresti tagliarle la lingua, strappargliela con una tenaglia arroventata, oppure lanciarle una fattura irreversibile come quella che, in America, s’è preso al posto tuo il fedele Abernathy. Dovresti ucciderla all’istante, gettare il suo cadavere nella Senna e dimenticarti di lei – di tutto – il più in fretta possibile. Dovresti, sì, ma, dannazione, la verità è che non vuoi – non puoi – né agire contro di lei, né, tanto meno, dimenticare.
Incunei le unghie nei palmi, fino a farti male, fino a sussultare dal dolore.
E, alla fine, non è una maledizione a sciogliere il sigillo crudele che ti ustiona le labbra.
«Non temere, chiya» sussurri, portando d’istinto la mano destra all’altezza del cuore[2]. «Canta questa canzone tutte le volte che vuoi.»
 
 
 
 
♦♦♦
 
 

 
«Albus? Mais le bel oiseau un giorno tornerà a casa?»
«Certo, chiylla. Le rondini sanno bene come ritrovare la strada per tornare al proprio nido. Sempre
 
 
 
 
“C'est l'oiseau que tu aimais, l'oiseau jaloux, je l'ai deviné.
S'il revient de son voyage je lui dirai que tu l'attendais.”
 
 
 
 

 
 
{Words Count: 1550}
 
 
 


 

 
[1] “la bella ninna nanna francese, quella di nonna”: per giustificare il bilinguismo di almeno i due terzi dei fratelli Silente ho pensato ad una nonna – nello specifico, quella materna – di origini francesi (pardon, Bretoni). Kendra quindi sarebbe cresciuta perfettamente bilingue e avrebbe poi a sua volta parlato ai figli sia in inglese che in francese. Immagino che, dopo l’incidente, Ariana non sia regredita al punto da non essere più in grado di elaborare alcune semplici frasi o ricordare le strofe di una canzone che comunque la madre le ha cantato fino al giorno prima di morire. Ad Albus, ovviamente, il francese sale alle labbra con la stessa naturalezza della sua lingua madre ma, del resto, per uno che parla fluentemente il sirenese (e di sicuro capisce il serpentese), nessun idioma umano può presentare delle serie difficoltà.
[2] dove Grindelwald tiene il medaglione ^^
 
 
 
 






Nota:
 
Eeeeee buon pomeriggio gente!
 
Lo avevo detto che sarei tornata :P
 
Come chioserebbe un certo Signore Oscuro con il quale sia Albus che Gellert avrebbero parecchio di cui discorrere, quello che avete appena letto è “un flebile sprazzo di luce in un oceano di oscurità.”
 
Immagino che si sia capito quanto mi piaccia indagare la fragilità di Gellert, l’ambiguità che lo contraddistingue, il suo continuo oscillare tra luce e ombra.
Se Voldemort è un archetipo e, nella sua assoluta disumanità, rappresenta il male altro, il male fuori di noi, Gellert invece, che è maledettamente umano, dalla punta dei piedi alla radice dei capelli, incarna il male dentro di noi, ed è proprio questo a renderlo ancora più spaventoso e, beh, lo ammetto, parecchio affascinante (mai quanto Albus, ma questo è un altro discorso).
 
Un plauso virtuale va comunque alla sua straordinaria capacità di ripresa. La piccola cameriera si è salvata, ma lo stesso non si può dire di un discreto numero di gente al Père-Lachaise. Su qualcuno doveva pur sfogarsi, insomma.
 
Alcune ulteriori precisazioni:
 
- Aberforth non compare nel flashback perché, semplicemente, volevo mostrare un momento esclusivo tra Albus e Ariana. Immaginatelo quindi in altre faccende affaccendato, magari intento a dar da mangiare alle sue capre, operazione che richiede un po’ di tempo, soprattutto se ci sono dei capretti (lo so perché mio padre condivide con Aberforth la stessa passione). Per una volta Ariana non gli va dietro e preferisce girovagare attorno al fratello maggiore, che, comunque, venera.
 
- Ricordate la simpatica e tenera fanciulla che, nel film, uccide il bambino nella casa “occupata” di Parigi? Ecco, lei è Lucrætia (è il primo nome che mi è venuto in mente). All’inizio avevo pensato che Vinda facesse il discorso della cameriera francese direttamente a Gellert, ma poi ho realizzato che comunque la ragazza non dà l’idea di essere così tanto stupida per cui alla fine ho optato per una più credibile conversazione tra donne captata per caso e subito dimenticata da un Grindelwald che, per quanto maniaco del controllo, sempre uomo rimane e, come tutti gli uomini, quando sente delle donne cianciare di faccende domestiche scollega immediatamente il cervello.
 
- Chiya, chiylla = piccola, piccolina in darkovano. Fate sempre finta che sia gallese, scozzese o quel che volete voi.
  
Spero sinceramente che questo raccontino vi sia piaciuto. Se volete farmi sapere cosa ne pensate, ne sarei felice ^_^ Grazie a chi vorrà leggere – anche silenziosamente –, recensire, o inserire la storia in una delle liste messe a disposizione di EFP.
 
Bonus trackGiovanna d’Arco, Fabrizio De André (nella versione inedita con una strofa in più, da cui ho tratto il titolo).
 
A presto!

 
Un bacione :*

 
 

padme
   
 
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