Un incontro inaspettato

di Milich996
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Verso la Terra ***
Capitolo 2: *** Verso la Terra parte 2 ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Il viaggio ***
Capitolo 5: *** L’ARRIVO ***
Capitolo 6: *** ESPLORAZIONI ***
Capitolo 7: *** Incontri ***
Capitolo 8: *** Ti darò la caccia ***
Capitolo 9: *** Sospendere le ostilità ***
Capitolo 10: *** Posso fidarmi di te? ***
Capitolo 11: *** Casa mia è casa tua ***
Capitolo 12: *** Dobbiamo salutarci ***
Capitolo 13: *** Restiamo separati ***
Capitolo 14: *** Aiutami ancora (parte 1) ***
Capitolo 15: *** Aiutami ancora (parte 2) ***
Capitolo 16: *** Una scoperta di morte ***
Capitolo 17: *** Faccia a faccia con l’orrore ***
Capitolo 18: *** Dobbiamo andare ***
Capitolo 19: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Verso la Terra ***


1. VERSO LA TERRA (PARTE 1) Ormai era tutto pronto. Tra poche ore entrambi i soli sarebbero saliti oltre Ka’hj-van, la Montagna Sacra. Se non ricordava male, erano stati gli dei a farne dono alla sua gente. Questo diceva la tradizione. E forse era vero: altissima e imponente, dominava la valle sottostante dove lui e il suo clan vivevano. Jar’lath era un leader temuto e rispettato; proveniva da una famiglia importante, i cui membri, ormai da molti secoli, si alternavano alla guida del clan. Tra gli innumerevoli trofei, poteva vantare le teste di ben 3 regine degli Xenomorfi. Quelle disgustose creature erano la preda per eccellenza. Gli Yautja le cacciavano da sempre. La seconda regina gli era valsa la leadership del clan. La terza gli aveva garantito gloria imperitura. E oltre a lui, nella sua famiglia c’erano molti abili combattenti. Ad esempio una delle sue sorelle, Dy’m-fna, nonchè la sua seconda in carica. Destinata un giorno a sostituirlo, era uno dei migliori guerrieri che avesse mai visto: si fidavano ciecamente l’uno dell’altra. Jar’lath non temeva la morte; nella cultura Yautja contavano solamente l’onore, la caccia, i trofei. Non c’era spazio per la paura o qualunque altra forma di debolezza. E comunque ormai stava invecchiando: i suoi dreads, un tempo di un nero piuttosto intenso, stavano diventando sempre più grigi. La sua forza fisica non era cambiata gran che, ma stranamente gli sembrava di essere diventato un po’ più tollerante con gli altri. Specialmente con uno dei suoi nipoti più giovani: Yn’gve, il figlio di un’altra delle sue sorelle. Jar’lath non era mai stato un tipo particolarmente religioso, eppure ogni giorno doveva pregare Paya, affinchè lo aiutasse a non perdere la pazienza. Non tutti dovevano per forza diventare guerrieri, questo lo sapeva. Esistevano moltissime altre occupazioni che potevano essere intraprese per rendersi utili alla comunità. Ma ciò non valeva per i maschi della sua famiglia. “Kainde-lou-dte’kalei K’cha’ku”, ovvero l’uccisore, colui che massacra le regine. Questo era il soprannome che si era guadagnato il suo bisnonno, tanto per fare un esempio. E poi era arrivato Yn’gve. Una volta raggiunta l’età necessaria, lo aveva affidato ai mentori del clan, affinchè lo addestrassero. Ma i risultati erano stati al di sotto delle aspettative: a tuttora risultava piuttosto indietro rispetto agli altri giovani maschi del clan. Come se ciò non bastasse, agli allenamenti preferiva di gran lunga passeggiare nelle ampie zone verdi situate ai piedi della Montagna Sacra; qualche volta si spingeva fin dentro la foresta che ricopriva una parte del pendio: era capace di sprecare un’intera giornata in quel modo. Altre volte invece, usciva dalla Valle e si dirigeva verso Nord, a bordo di una piccola navicella adatta agli spostamenti brevi. Qualche volta lo aveva perfino accompagnato: a circa mezz’ora di viaggio, c’erano i resti di antiche città, che si estendevano per diversi chilometri. Costruzioni senza nome, senza più uno scopo: testimonianze di un’epoca ancora primitiva, dove la tecnologia era ben lungi dal raggiungere il suo sviluppo attuale. Chissà perchè a Yn’gve quella roba piaceva così tanto. Jar’lath trasalì: ormai i due soli erano sorti, e la luce del giorno inondava la sua camera da letto. Non voleva partire: non gli piaceva il Pianeta Blu, e detestava i suoi abitanti. Ma aveva promesso a sua sorella Maj’me-h di prendere il figlio sotto la sua ala, e di addestrarlo personalmente. Jar’lath non sarebbe mai stato un buon maestro, e lo sapeva bene; non riusciva a comunicare, nè a trasmettere le sue conoscenze. Ma alla sorella non importava: lo aveva talmente supplicato, che alla fine lui aveva ceduto. Ormai, dopo tante incursioni, conosceva bene il Pianeta Blu: in alcune zone gli umani non volevano abitare (o comunque ce ne vivevano pochi); inoltre gli animali, pur essendo feroci, restavano comunque alla portata degli Yautja meno preparati. Sì, poteva funzionare. Si sarebbe assentato solo per qualche settimana; in sua assenza, sua sorella Dy’m-fna e suo fratello minore Seag’h-dhe (terzo per importanza nel clan) lo avrebbero sostituito. Erano molto uniti loro tre, quasi in simbiosi: si sostenevano sempre a vicenda. Ma adesso doveva proprio alzarsi. C’erano ancora un mucchio di faccende da sbrigare prima della partenza. Edit. •Le espressioni del linguaggio Yautja sono state prese da Internet (Yautja Language ->DeviantArt.com)

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Capitolo 2
*** Verso la Terra parte 2 ***


Jar’lath si alzò dal letto brontolando. Ogni minuto che passava, malediceva sempre più l’idea di mettersi in viaggio verso la Terra. Comunque non poteva rimangiarsi la parola data. Mentre si dirigeva stancamente verso lo scanner, si slacciò il panno che teneva allacciato alla vita; poi, come faceva sempre ogni mattina, accese l’apparecchio. Regolò le impostazioni e premette un piccolo tasto alla base del dispositivo. Apparvero così i soliti due ologrammi: il primo era una riproduzione esatta di se stesso, compresi i colori della pelle e tutte le altre caratteristiche; il secondo forniva dei semplici dati sulla sua salute attuale. Si osservò distrattamente. Quella cicatrice enorme era sempre là: gli impediva di andare avanti, di perdonare.
Un segno ampio, memoria di una ferita che gli era quasi risultata fatale. Partiva dal centro della schiena, attraversava il fianco destro e terminava la sua corsa sull’addome. Quasi senza pensarci, sollevò una mano e ripassò la parte finale dello squarcio con l’indice. Naturalmente anche l’ologramma fece lo stesso. Jar’lath rise fra sé e sè, invidiando un po’ quella figura inanimata: niente responsabilità, niente nipoti incapaci, niente viaggi su pianeti di quart’ordine.
“Pauk!” (Fu*k) pensò, ricordando la sua situazione. Spense l’ologramma e appoggiò il palmo della mano sinistra su una porta di metallo situata subito accanto. Dagli stipiti partirono alcuni raggi IR, che riconobbero le sue impronte digitali. La porta si aprì, scorrendo lateralmente in un’incavo, posto all’interno della parete. Entrò in una nuova stanza, dalle dimensioni più ridotte, adibita all’igiene personale.
Era piuttosto spoglia, con una pianta a base quadrata. Alle estremità più distanti dalla porta, si trovavano delle coppie di anelli di metallo, perfettamente simmetrici. Una coppia per lato: un cerchio sul soffitto e uno sul pavimento. Jar’lath raggiunse l’anello sulla destra: si posizionò al suo interno e dopo qualche secondo iniziò iniziò a scendere dell’acqua.
Subito avvertì una piacevole sensazione di fresco lungo i dreads; piccoli rivoli presero a scorrergli lungo il viso, passando sopra un’altra evidente cicatrice... Partendo dalla fronte, solcava la tempia sinistra, a pochi millimetri dall’occhio. Era stato fortunato a conservare la vista. Ma quei due profondi segni rappresentavano un marchio indelebile delle passate imprese; per lui erano motivo di profondo orgoglio.
Finito di bagnarsi, passò al secondo anello, per l’asciugatura. Dall’enorme finestra posta sulla parete laterale, entrava prepotentemente la luce del giorno. Bisognava sbrigarsi, o sarebbe arrivato tardi. Uscì dal bagno, si diresse alla zona di fronte al letto e di nuovo mostrò il palmo di una mano. Gli apparve un grande spazio, pieno di vestiti pregiati. Scelse un panno dai colori vivaci e se lo allacciò in vita. Richiuse la stanza con un semplice comando vocale e si avviò, sospirando, verso l’uscita della camera da letto. Subito si ritrovò in un corridoio; per fortuna il suo spazio personale non finiva lì. L’ampio corridoio passava attraverso numerose stanze, adibite ognuna ad una funzione diversa. C’era quella per mangiare, quando voleva restare solo. C’erano quella delle armi, quella dei trofei e così via. Tutte le sale, naturalmente, erano molto ampie. Jar’lath indugiò per un attimo davanti alla stanza delle armi... valeva davvero la pena attingere alla sua vasta collezione personale, per una missione così stupida? In fondo c’era pur sempre l’Armeria comune, una generosa risorsa extra, messa a disposizione di tutti i guerrieri che lo desideravano. Massì, avrebbe preso da li il necessario per se e per suo nipote.
Sbuffando riprese il cammino, oltrepassando una sorta di porta a vetri. Ecco, ora era entrato negli spazi comuni. Il corridoio proseguiva dritto, ma Jar’lath iniziò a scendere una scalinata alla sua destra: dal primo piano (dove si trovava), raggiunse il pianterreno. Davanti a lui si estendeva, in senso orizzontale, un altro corridoio; da quest’ultimo si dipanavano molti altri passaggi: era così, il Palazzo. Immenso, il nucleo centrale della città. Un dedalo di sale e stanze, collegate fra loro da innumerevoli percorsi. Non mancava nulla in quella struttura; c’era ogni genere di comfort che la tecnologia poteva garantire. Jar’lath si diresse verso l’Atrio: la prima sala in cui ci si imbatteva una volta entrati nel Palazzo. Aveva concordato con suo nipote Yn’gve di trovarsi li, per poi andare assieme all’Armeria.
Naturalmente, nel breve tragitto che lo separava dall’Atrio, non mancarono le seccature. Dovette impartire le ultime direttive e affrontare il Capo del Consiglio. Huw, uno Yautja viscido e senza spina dorsale. Le sue cosiddette “battute di caccia” erano state sempre di scarso rilievo (così come quelle degli altri consiglieri). Ma appartenevano tutti a famiglie importanti, e nel mondo di Jar’lath non bisognava farsi troppi nemici.
Ogni volta si limitava a lasciarli parlare, e poi decideva assieme ai suoi fratelli, Dy’m-fna e Seag’h-dhe.
Huw esordì con voce melliflua “Gkaun-yte (hallo), mio signore. Desolato di interrrompervi a poche ore dalla vostra partenza... Tuttavia vorrei rammentarvi di tornare in tempo per la stagione degli accoppiamenti. Voi più di chiunque altro dovreste capire che la discendenza...”
Il consigliere continuava a parlare, ma ora la sua voce sembrava solo un fastidioso ronzio di sottofondo. Jar’lath non ascoltava, impegnato com’era a cercare di reprimere la rabbia. Quell’essere spregevole proprio non voleva mollare. Avrebbe continuato a perseguitarlo finché non avesse scelto una compagna. O meglio, qualcuna imparentata con lo stesso Huw; era una disgustosa strategia politica, e, tra l’altro, del tutto inutile. Il leader guerriero preferiva restare solo. Una scelta fatta molto tempo prima, quando ancora era giovane. E la ferita sul fianco doveva guarire, ma alla sua compagna di allora, Aib’hilin, non era importato. La sua prima compagna. Jar’lath ricordava perfettamente di come lei gli avesse voltato le spalle senza esitare, scegliendo un altro maschio. Qualcuno forte e coraggioso, in grado di abbattere qualunque preda: Dubh’gh-las, uno dei cugini di Jar’lath. E così il futuro leader, una volta tornato in salute, si era concentrato sulla carriera. Fino a raggiungere la vetta.
No, non si sarebbe impegnato mai più.
Huw stava ancora parlando. Quando ebbe finito, l’altro si limitò ad assentire con un breve movimento del capo e si congedò educatamente. Infine raggiunse l’Atrio, dove il nipote lo stava già aspettando. Senza neanche guardare il giovane Yautja, lo zio gli fece cenno di seguirlo. Con passo svelto, in mezzo alla confusione generale tipica della vita di palazzo, si diressero attraverso una serie di corridoi, che terminavano in una specie di garage. Salirono su una navetta, e Jar’lath si mise alla guida. Attraversarono la città, diretti verso Sud, dalla parte opposta rispetto alle antiche rovine. La loro destinazione si trovava appena oltre la catena montuosa che circondava la vallata: un enorme complesso formato da torri ed altri edifici di altezza variabile. Era una fortezza blindata che fungeva da armeria, conteneva degli hangar per le navi spaziali e anche numerose piste per i decolli e gli atterraggi.
Una volta entrati, fu assegnata loro una navicella adatta alla missione: sembrava piuttosto modesta, ma conteneva tutto il necessario per il viaggio. I due alieni si prepararono in silenzio, caricando a bordo armi, viveri e le rispettive armature. Avrebbero indossato le protezioni una volta sbarcati sul Pianeta Blu. Senza ulteriori indugi, Jar’lath chiuse il portellone della navicella, accese il motore e partì. Mentre lasciavano la loro atmosfera, entrambi gli Yautja si augurarono di non incontrare gli umani.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


Mentre Jar’lath era in viaggio con suo nipote, qualcun altro, sulla Terra, stava controllando pigramente la posta al computer. Lara Bennet si trovava nel suo comodo ufficio, che condivideva assieme al collega (e migliore amico) David Wyatt, in quel momento assente. Si conoscevano fin da bambini: entrambi dotati di un’intelligenza tale, da consentire loro di ottenere una laurea a soli 15 anni. Durante gli studi universitari, avevano attirato l’attezione del loro attuale capo, Marvin Alloran. Direttore di un famoso centro di ricerca (con museo annesso) a a New York, era sempre a caccia di giovani talenti per arricchire il suo entourage. Lara se lo ricordava ancora, il giorno in cui era venuto a trovarla al Campus per la prima volta. Un afroamericano davvero affascinante, alto circa 2 metri, colto e molto gioviale. Si era sentita subito a suo agio con lui, e anche in David aveva suscitato la medesima impressione. E dopo 10 anni, eccoli lì a lavorare per il signor Alloran: lei come antropologa forense, e David come uno dei responsabili dell’intero sistema di computer della struttura. In realtà, Lara faceva poche consulenze per la polizia: il capo preferiva lasciarla andare in giro per il mondo, appresso allo scavo archeologico di turno. Il più delle volte veniva anche David. Comunque, quella mattina, la posta era più noiosa del solito. Sospirando, lesse le varie richieste di consulenza, gli inviti a delle conferenze, ecc... Ma presto sarebbero partiti per il Messico, ad esplorare un sistema di grotte sotterranee. Lei, David e anche gli altri: Samanta, una tirocinante dell’istituto, e Mike, rinomato geologo e chimico. Tutti e 4 assieme, costituivano un gruppo davvero affiatato, nell’immenso mare di professionisti che ogni giorno gravitavano attorno al centro di ricerca. Improvvisamente David Wyatt, un giovane alto, dai lineamenti abbastanza regolari, gli occhi blu e i capelli scuri perennemente in stato confusionale, fece il suo ingresso nell’ufficio. Come di consueto teneva in mano due contenitori di caffè. Si sedette alla scrivania, ne porse uno all’amica e le domandò: “Allora, oggi ti tocca fare lezione all’università? O devi catalogare le ossa che gli altri hanno portato dal Perù?...Io ho delle manutenzioni, che tedio, vorrei morire...ma prima di farlo vado sul sito dei droni”
Già, tra le altre cose, David apparteneva ad una delle famiglie più ricche dello Stato. Di lui si poteva senz’altro dire che aveva un cuore d’oro, una certa tendenza al lamento e le mani bucate. Laura sbuffò, fissandolo con un misto di condiscendenza e rassegnazione.
“Ne abbiamo già parlato, a che ti serve il drone?”
“Che ne so, ci facciamo le battaglie, tanto ne abbiamo già uno. Hahahaha...E poi, vogliamo parlare di quel kimono che ti sei fatta arrivare dal Giappone?”
“Spendiamo troppo”
“Dici? Guadagnamo davvero bene e non abbiamo nessuno. Zero compagni, zero figli. C’è tempo per mettere la testa a posto” Non aveva tutti i torti: lei e David vivevano assieme in un appartamento troppo grande, e le relazioni che avevano intrapreso con altre persone erano sempre finite male. Meglio continuare con le loro follie...

Intanto, nello Spazio, Jar’lath si era stufato di guidare la navicella e aveva inserito il pilota automatico. Voleva dare un’occhiata al veicolo, per controllare che tutto funzionasse correttamente. Fece per alzarsi dal sedile, quando i suoi occhi gialli si posarono sul nipote. Rimase pensieroso a fissarlo. Dalla sala di comando poteva scorgere l’ampio vano dove stavano le loro brande: due semplici tavole metalliche fissate alla parete, sopra cui era stata applicata una specie di pellicola spessa circa 20 cm. Si trattava di una dotazione standard, per rendere i giacigli più comodi. Infine, una serie di tessuti poco pregiati fungevano da coperte. Non esistevano porte, su quel veicolo: tutto quello che separava lo zio dal nipote era un corridoio lungo una quindicina di metri.
Yn’gve riposava, placidamente sdraiato sulla propria branda, fissando l’ologramma di un testo scritto; c’erano ancora troppe distrazioni in giro: bastava un comando vocale e dalla parete partivano quelle dannate proiezioni. Qualunque cosa si volesse, bastava caricarla sul computer di bordo e poi chiedere. Storie da leggere, sequenze di battaglie da rivedere ancora e ancora, pianeti alieni esplorati secoli addietro...e adesso Yn’gve era immerso in chissà quale mondo, forse proprio in quello delle antiche rovine vicino alla Valle. Città un tempo brulicanti di vita, dove alcuni Yautja combattevano per l’onore del proprio Clan e per compiacere Kayana, la dea della guerra; e dove altri invece pregavano Dto-hult’lah per avere terreni fertili e un raccolto abbondante. Ne più ne meno di quello che facevano loro. “Che cosa leggi?” Domandò infine al nipote.
“La stora del nostro Clan, di come siamo arrivati nella Valle”. Ecco, ci aveva visto giusto. Più o meno. La storia degli antenati, di come man mano si erano spostati attraverso il pianeta, alla ricerca di insediamenti migliori; fino a prendere possesso della Valle, dopo aver sconfitto i gruppi di Yautja che vivevano già in quella zona. Vincere o perdere, la gloria o il disonore: non c’erano alternative. Qualcuno doveva trionfare, mentre qualcun altro venire spazzato via e dimenticato. E questo sarebbe valso sempre.
Perfino lui, il grande Jar’ath, in gioventù aveva conosciuto la bruciante sensazione della sconfitta...sul pianeta Dto (Foresta), uno dei tanti Pianeti Nani situati ad una distanza ragionevole dal loro. Ma adesso non c’era tempo per ricordare: bisognava iniziare al più presto l’addestramento di Yn’gve. O non avrebbe mai superato il “Kainde Amedha Chiva”, il rito di passaggio necessario per dimostrare al Clan di avere raggiunto l’età adulta. Desiderava il meglio per suo nipote: che potesse tornare vittorioso da tutte le battaglie, che il suo nome fosse associato alle più gloriose gesta, che riempisse di ambiti trofei quante più stanze possibili...lo voleva per tutti i suoi numerosi nipoti. Ma forse per Yn’gve era già tanto sopravvivere al rituale. Che cosa doveva fare con lui?

Sorseggiando il caffè, Lara finì di leggere la posta. Poi salutò l’amico e si diresse verso il seminterrato. Il loro ufficio si trovava al primo piano, ma non aveva voglia di scendere le scale. Ultimamente non aveva voglia di fare nulla. Purtroppo però, mancavano ancora diverse settimane al viaggio in Messico, e le restavano da analizzare numerose ossa.
Prese l’ascensore, giungendo così a destinazione. Il seminterrato non era male: ampio, pulito e bene illuminato. Era dotato di alcuni laboratori all’avanguardia, un magazzino per i reperti, un archivio e diverse altre stanze che garantivano la perfetta efficienza del reparto. Sembrava quasi un piccolo regno. Percorse il corridoio principale: chiunque fosse incaricato dell’arredamento, si era decisamente sbizzarrito; le mura erano banche e spoglie, mentre le mattonelle di marmo apparivano bianche con delle venature grige.
Le luci sul soffitto poste ad intervalli regolari, conferivano al tutto una nota di vivacità che non guastava.
Come spesso faceva, Lara rise da sola per i suoi stessi pensieri. Per fortuna a quell’ora c’era poca gente, e nessuno se ne accorse. La ragazza raggiunse il magazzino e si mise a cercare i reperti che doveva studiare. Prese un contenitore con dentro il teschio di una donna.
Improvvisamente si sentì chiamare da una vocina stridula: “Ciao tesoro, hai un minuto?”
Lara sospirò, invidiando il teschio che riposava nella scatola. Almeno quella donna sconsciuta non doveva ascoltare nessuno. Simulando interesse, si voltò verso la sua interlocutrice. Jennifer Evans, che, come di consueto, aveva scelto di indossare un filo interdentale. I suoi abiti non lasciavano proprio nulla all’immaginazione, ma così facendo si era assicurata una relazione con il vice-direttore, nonchè qualche immeritata prospettiva di carriera.
“Dimmi tutto” rispose Lara, esibendo un falso sorriso
“Dovresti cambiarti e salire al secondo piano, il signor Alloran vuole parlarti.
“Questi sono i miei vestiti...” disse Lara, cercando di mantenere la calma.
Ecco chi era Jenny: una persona altezzosa, superficiale e, professionalmente, beh, meglio stendere un velo pietoso. “Dai tesoro, dovresti curare di più la tua immagine...” “Ok grazie del messaggio!” tagliò corto Lara, rimettendo a posto il teschio. “Allora vado subito”, aggiunse, affrettandosi verso l’ascensore. Non vedeva l’ora che quella scocciatrice sparisse dal suo campo visivo.

La navicella procedeva a velocità regolare: i due potenti motori situati sullo scafo del veicolo, vicino alla coda, li stavano conducendo sempre più vicino al Pianeta Blu. Adesso Jar’lath era stanco, e desiderava riposarsi un po’. Dalla cabina di pilotaggio, distingueva chiaramente bagliori di luce cristallina, che risplendevano nell’oscura immensità dello spazio. Stelle. Stelle ovunque intorno a loro. Bisognava conoscere la strada: perdersi era un attimo. Ma i corpi celesti mutavano di continuo: scomparivano per poi rinascere da qualche altra parte, in una specie di perpetuo ciclo. E in mezzo a questo continuo divenire, persistevano le rotte tracciate dagli Yautja nel corso dei milleni. Rotte sicure verso altri pianeti e altre galassie: Jar’lath ne conosceva la gran parte, ma i segreti più profondi del cosmo erano appannaggio degli Anziani. Un Consiglio formato dai guerrieri più vecchi, gelosi custodi del sapere antico. Il leader si alzò e raggiunse il nipote. Si distese sulla branda rimasta vuota e chiuse gli occhi. Contava di dormire almeno un po’, prima di ritornare a guidare la navetta. E lentamente i suoi sensi cominciarono a venir meno; e le stanze dei ricordi spalancarono le loro porte, facendogli rivivere in sogno ciò che avrebbe preferito dimenticare. La sconfitta. Il disonore. Il sapore del sangue. Suo cugino Dubh’gh-las che si allontanava ridendo, mentre lui giaceva a terra agonizzante, con uno squarcio enorme sul fianco. E infine dhi’ki-de (“sonno” che precede la morte). Il buio. Qualcuno però doveva averlo trovato e soccorso. Si era risvegliato molti giorni dopo in Infermeria, a bordo dell’Astronave Madre. Stavano tornando a casa. Accanto a lui, solo i due fratelli Dy’m-fna e Sag’h-dhe.
Il dolore. Un dolore lancinante, come se diverse ki’cti-pa (wristblades) lo stessero trapassando.
“Stanno tutti festeggiando Dubh’gh-las” gli aveva detto ad un certo punto la sorella.
E lui aveva replicato, con un filo di voce “ Per cosa? L’ho sentito implorare aiuto, nella foresta. Ho affrontato quel Kainde Amedha, alla fine non si muoveva. Pensavo di averlo uccis...hhm...aghh”
Dolore. Incessante. Non riusciva a parlare, faticava perfino a respirare. Allora Seag’h-dhe, posandogli una mano sulla fronte, aveva aggiunto “Hai sottovalutato la bestia. Le hai dato le spalle per soccorrere Dubh’gh-las; e la bestia ti ha ferito quasi a morte. E Dubh’gh-las ne ha approfittato per vibrare il colpo finale. Non ha infranto la legge. Adesso pensa a guarire”. Pensa a guarire...Pensa a guarire...Jar’lath si svegliò di soprassalto. Era tornato al presente. La navicella, il viaggio verso la Terra. Si mise seduto sulla branda. Yn’gve dormiva. Sospirando, andò verso la cabina di pilotaggio.

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Capitolo 4
*** Il viaggio ***


Lara Bennett raggiunse l’ufficio del signor Alloran, situato al secondo piano.
“Desideravi vedermi?” Chiese la ragazza.
“Accomodati Lara” disse l’uomo, da dietro una moderna scrivania. Il suo tono era pacato come al solito. E mentre la giovane prendeva posto, il direttore non potè fare a meno di squadrarla. Ormai considerava lei e David come suoi stessi figli. Erano sicuramente due brillanti ragazzi, ma alle volte sembravano un po’ fuori dal mondo. E poi Lara, davvero bellissima, così alta, con quei grandi occhi verde smeraldo e i lineamenti delicati. Teneva raccolti i lunghi capelli castani in uno stretto chignon, che nascondeva gli ampi boccoli naturali. In compenso, si notava benissimo la parte inferiore della testa, mantenuta costantemente quasi rasata a zero. Non faceva nulla per mettersi in risalto; indossava in prevalenza jeans, maglie di cotone anonime e scarpe da ginnastica. Per non parlare della discutibile passione per le arti marziali e gli sport un po’ rischiosi: arrampicata, brevetti per le immersioni, corsi di speologia e altre attività che Alloran preferiva ignorare. E gli altri tre compari non erano da meno. Ma a conti fatti, a lui dovevano rispondere solo del rendimento lavorativo. Su quello che facevano nel tempo libero, non poteva mettere becco.
Adesso la ragazza lo fissava, aspettando di conoscere il motivo della convocazione.
“Allora, mia cara. Si tratta del dottor Collins. Ecco...vedi...” “Aahh, no, un’altra volta!” Esclamò Lara, chiudendo gli occhi e rivolgendo il viso al soffitto. Poi sprofondò nella sedia e tornò a guardare il suo capo, con aria stanca. Marvin Collins. Un adorabile anziano signore, amico intimo del signor Alloran. Una delle massime eminenze nel campo dell’Antropologia. Stimato autore di numerosi libri e trattati, amante della cultura, delle bevande alcoliche e di alcune particolari piante che fumava regolarmente. Fin qui tutto ok.
Purtroppo era anche fissato con i complotti da parte del Governo e sulla concreta possibilità che un giorno sarebbero arrivati gli alieni.
“Lo so...” continuò Alloran “...ma ha quasi 80 anni, e stavolta ha deciso di isolarsi per qualche settimana in montagna, nello Utah, dentro uno chalet di sua proprietà...”
“Se ne va in vacanza allora”
“No, non so...vuole mettere in ordine in delle sue carte...e TU lo aiuterai”
“Devo andare in Messico”
“Tornerai in tempo”
“Perchè io?”
“Mi devi un favore. Il marito di Mike viene di straforo in Messico. “Quale straforo, ci serve un consulente” disse Lara, simulando un po’ di sdegno per l’insinuazione del capo.
“Fa l’insegnante di musica al Conservatorio”
“Forse Toltechi e Aztechi non si dilettavano con gli strumenti?” Il direttore sospirò, aprendo un cassetto della scrivania. Estrasse un mazzo di chiavi e lo appoggiò davanti alla ragazza. “Tu hai dimestichezza con boschi, rocce, escursioni e altra roba simile. Questa è la tua copia delle chiavi dello chalet.
Prenditi il resto della giornata e vai a fare i bagagli. L’aereo parte domani mattina presto: ho già provveduto a farti il biglietto a noleggiare un fuoristrada per quando arrivi. L’indirizzo te lo mando via e-mail entro stasera. Salutami lo Utah ...”

Mancava davvero poco alla Terra. Presto il Pianeta Blu sarebbe apparso nel loro campo visivo. Per l’addestramento di Yn’gve, Yar’lath aveva scelto una zona montuosa, dal clima un po’ rigido. L’ideale per temprare un po’ il carattere del giovane Yautja. Ma adesso il leader aveva fame: ci voleva uno spuntino. Guardò distrattamente suo nipote. Dormiva ancora. La madre lo aveva decisamente viziato troppo. Sospirando, Yar’lath slacciò una sorta di catenina ornata da pietre preziose, che teneva al collo. Poi, come faceva d’abitudine, raccolse dei dreads, e li fissò con la collanina sulla parte alta del capo. Così legati gli davano molto meno fastidio. Si alzò e percorse circa metà corridoio. Alla sua sinistra c’era la mensa, una modesta sala dotata di un tavolo con delle sedie, un piccolo angolo cottura ed una dispensa per conservare cibo.
La loro razza era onnivora. Ma la pietanza che andava per la maggiore, e cioè la carne, poteva essere consumata sia cruda che cotta, a seconda dei gusti.
Quando le circostanze glielo permettevano, Yar’lath preferiva arrostirla bene: trovava che il sapore fosse di gran lunga più buono. Ed era anche un ottimo cuoco. Ma per i viaggi brevi come il loro, conveniva portare del cibo già pronto. Carne essiccata e acqua.
Andò dritto alla dispensa e prese un po’ di provviste. Si sedette al tavolino lì accanto e cominciò a mangiare. Mentre con la mano portava pezzi di cibo alla bocca, iniziò a pianificare il loro soggiorno sulla Terra. Secondo i suoi calcoli, sarebbero arrivati con il buio. Dovevano comunque rendere invisibile la navicella, e sperare che il rumore non attirasse gli umani. No, quello era improbabile: la zona prescelta era piuttosto in alto su un monte: i Pyode Amedha (soft skin, humans) avrebbero dovuto arrampicarsi al buio, lungo un pendio che, pur essendo accessibile, alternava tratti boscosi ad aree rocciose e letti di ruscelli. E distava molti chilometri dal primo insediamento di quelle inutili creature. Non avrebbero udito il rombo dei motori, o, al limite, lo avrebbero scambiato per una frana.

Dym’fna aveva maledetto in silenzio la decisione del fratello di partire, fin da subito. Non che non fosse in grado di sostituirlo: era una cacciatrice esperta, molto intelligente ed intuitiva, temuta e rispettata. Ma le faccende del Clan richiedevano una pazienza che lei temeva di non possedere. Soprattutto con il Consiglio. Soprattutto con Huw.
Quest’ultimo la tampinava da giorni. Insisteva per presentarle sua nipote Mór.
“È una wei-ghe’h (female) giovane e sana. Colta. Bella. Credo che potreste prenderla al vostro servizio, o per una delle vostre sorelle”. Le aveva ripetuto in svarate occasioni. Così andava quel mondo. Bisognava farsi strada, arrivando il più vicino possibile alla leadership del Clan. Se non con la gloria delle proprie gesta, allora con la politica. E Mór era solo la pedina di un gioco molto più ampio, ordito da Huw. Offriva un corpo giovane e vigoroso, in grado di assicurare una discendenza a Yar’lath. Una discendenza diretta, che di fatto mancava.
Dym’fna era preoccupata: la decisione finale, se accasarsi o meno, spettava a suo fratello. E se avesse ceduto al fascino di Mór? Ma non poteva scansare il Capo del Consiglio in eterno. “Fate venire vostra nipote, domani pomeriggio, nei miei appartamenti” gli aveva risposto una volta “Sarò lieta di fare la sua conoscenza”.
Almeno, si disse Dym’fna, così facendo avrebbe potuto tenere d’occho Mór.

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Capitolo 5
*** L’ARRIVO ***


Laura Bennet stava guidando lungo una serie infinita di tornanti, che, stando al navigatore, avrebbero dovuto condurla verso la sua destinazione finale.
Il viaggio in aereo era stato piacevole, soprattutto grazie alle cuffie wireless, di quelle belle grandi, che avevano impedito qualsiasi spunto di conversazione con i vicini di posto. Ma una volta atterrata, ad attenderla c’erano vento, freddo e un delizioso cielo color grigio scuro. E dopo circa tre ore e mezza eccola là, in mezzo ai boschi; l’ultimo centro abitato si trovava ormai alle sue spalle da circa 20 minuti. Come cavolo si chiamava?...Ridge... qualcosa...vabbeh, ma che importava? Era piccolo, ma sembrava che ci fosse tutto il necessario. Una tavola calda, un supermercato, un distributore di benzina, un piccolo ambulatorio medico, una farmacia, e altri due o tre negozietti. Le era parso perfino di intravedere un asilo (o una scuola elementare), con le finestre tappezzate dai disegni dei bambini.
Aveva fatto una sosta per riempire in serbatoio e fare un po’ di spesa. La gente le era sembrata cordiale. Ma la destinazione della ragazza si trovava ad almeno altri 40 minuti di strada. E poi, quasi sicuramente, la attendeva ancora un tratto sullo sterrato, dentro il bosco. Lo chalet del signor Collins, come molti altri da quelle parti, era piuttosto isolato. La pace e la quiete delle zone montuose si addicevano perfettamente all’esperimento che l’antropologa intendeva condurre nel tempo libero; aveva portato con sè alcuni semi di una pianta, nota agli eperti di vegetazione con il nome di “Northern Lights”. Chissà se delle mani esperte sarebbero state in grado di far germogliare quelle sementi, anche a delle temperature non ottimali...
Meglio smetterla. Comunque, aveva anche le cartine, i filtri e tutto il necassario per garantirsi un po’ di relax durante le settimane successive.
“Mah, forse questo viaggio non sarà così orribile” pensò. Tuttavia, non vedeva l’ora di arrivare e riposarsi. Provò ad accendere la radio. “FZzzzzzzRrrrrrr” Niente, non prendeva. Proprio come il cellulare. Pazienza. Guidò per quasi un’ora prima di giungere ad un tratto di strada pianeggiante. Dopo qualche centinaio di metri, sulla sinistra, c’era una piccola area di sosta.
Da lì, partiva una strada sterrata, che si addentrava nel bosco. “Eccoci finalmente” pensò la ragazza “Ancora poco e sarò arrivata”.
Diresse la jeep nel parcheggio, e poi nel percorso tra gli alberi. Non trovò sbarre o cancelli: solo un cartello con sopra scritto “Proprietà privata, vietato l’accesso”.
Continuò lungo quel percorso sconnesso per circa 2 chilometri, fino a raggiungere un’ampia radura. Al centro, protetto da una recinzione in ferro battuto, alta circa 1 metro e mezzo, sorgeva lo chalet. Lara scese dalla jeep, aprì il cancello e la porta del garage. Quindi parcheggiò il mezzo. Si guardò attorno. Là dentro c’era spazio per almeno due fuoristrada. Accanto a lei, il pannello di controllo per attivare acqua, luce e gas.
“Bene” si disse “non resta che vedere com’è questo posto”.

La navicella entrò nell’atmosfera terrestre senza particolari problemi. Come previsto, ormai il cielo era scuro. La vita su quel primitivo pianeta dipendeva da un unico sole; ecco perchè in alcune zone le notti e il freddo duravano più a lungo che in altre. Ma prima o poi, anche il Pianeta Blu sarebbe diventato una tomba silenziosa: ogni cosa che lo riguardava sarebbe lentamente svanita. E gli innumerevoli e complessi legami che vincolavano i suoi atomi, si sarebbero sciolti, restituendo gli Elementi al cosmo.Nessuno avrebbe sentito la mancanza degli umani.
Adesso Yn’gve stava seduto accanto allo zio, dentro la cabina di pilotaggio. La navicella, nel frattempo convertita alla modalità “cloaking”, continuava ad abbassarsi, centimetro dopo centimetro. Una fase cruciale, piena di insidie: bisognava tenere conto delle condizioni atmosferiche e della conformazione del paesaggio. Volendo, si poteva affidare l’intera procedura al computer di bordo; ma Jar’lath era un pilota esperto, e trovava molto più interessante condurre lui stesso il velivolo. Arrivati nei pressi di una grande montagna, il radar del veicolo individuò una sorta di altopiano: come una piattaforma naturale, priva di vegetazione; il leader spense lentamente i motori principali, (responsabili del volo vero e proprio) e accese quelli per il decollo in verticale; ne regolò la potenza, facendola decrescere man mano, e combinando la loro spinta con dei dispositivi frenanti.
Il tutto garantì ai due Yautja una discesa perpendicolare rispetto al terreno. Erano arrivati. Yar’lath disattivò la modalità cloaking e spense i motori. Quindi aprì il portello della navicella e scese a dare un’occhiata in giro.
Subito un freddo intenso lo avvolse: sebbene la sua fosse una razza resistente, capace si sopravvivere alle temperature più estreme, avvertì la necessità di coprirsi di più. Dopo tutto indossava solo il panno attorno alla vita, con cui era partito. Ai piedi, invece, portava dei sandali alti fino al ginocchio. Yar’lath restò per un po’ in silenzio. Attorno a lui, solo il buio della notte terrestre, nella quale si potevano a malapena distinguere le sagome degli alberi. Nessun rumore. Il loro arrivo era passato inosservato.
Lo Yautja rientrò nella navetta, chiudendo il portellone. Adesso lui e suo nipote dovevano mangiare e poi mettersi a dormire. L’indomani sarebbe cominciato l’addestramento.

Mór se ne stava in piedi davanti a lei, in silenzio, consapevole della propria bellezza. Dym’fna l’aveva ricevuta nella propria ala del Palazzo, come promesso. E adesso si trovavano l’una di fronte all’altra, nella sala degli ospiti. La giovane femmina teneva la testa leggermente piegata in avanti, lo sguardo basso. Portava i lunghi dreads neri intrecciati, e impreziositi da diversi gioielli. Non era molto alta ( poco sotto i 2 metri), ma il vestito che indossava metteva in risalto il corpo giovane e tonico; la pelle, in prevalenza verde, aveva delle gradevoli sfumature marroni e bianche. I puntini neri sparsi un po’ ovunque, le regalavano un aspetto ancora più sensuale. Ma erano gli occhi, dei grandi occhi viola, a renderla davvero irresistibile. Nessun’altra wei-ghe’h (female) del Clan possedeva uno sguardo simile.
La bellezza come merce di scambio. Ma Dym’fna non aveva le prove che fosse tutta una macchinazione di Huw. C’era solo questa giovane ambiziosa, che, con il capo chino, fingeva di portarle rispetto.

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Capitolo 6
*** ESPLORAZIONI ***


Allo chalet non mancava nulla. Al piano terra si trovavano il garage, e una stanza che sembrava una specie di deposito; scaffali, mensole e mobili custodivano utensili di vario genere: bastoni da passeggio, ciaspole, corde, cassette per gli attrezzi, ecc...C’era anche un congelatore abbastanza capiente, ma spento e con la spina staccata. Fissandolo, Lara si ricordò di un vecchio caso di cui le aveva raccontato il signor Alloran; riguardava per l’appunto un congelatore, e poi due fattorie confinanti, un vicino che sentiva delle voci e una mannaia. La ragazza sollevò con cautela il portello del contenitore...niente, solo buio e polvere. Sollevata per non essersi casualmente imbattuta in una delle ex mogli del signor Collins, proseguì con l’esplorazione.
Al primo piano trovò un ampio soggiorno con una TV a cristalli liquidi, schermo circa 65 pollici e leggermente ricurvo. Quasi come essere al cinema. Di fronte, un moderno divano angolare che pareva dire “Sdraiatiii...”.
“Tra poco, divano, tra poco”, gli aveva risposto mentalmente Lara.
E poi l’ampia vetrata (balcone annesso) che dava sul giardino, gli scaffali con i libri...sembrava troppo bello per essere vero. A parte il soggiorno, c’erano la cucina, un bagno, con una vasca per l’idromassaggio incorporata alla doccia e infine uno studio; qui dentro, oltre una cassaforte e una scrivania in mogano, Lara vide una ricca biblioteca. Al secondo piano, tre camere doppie con i letti, un altro bagno uguale all’altro e una sala relax (dove il vecchio si era decisamente superato): pareti e soffitto in legno, caminetto, idromassaggio, un elegante sofa e la zona bar. La giovane scelse una camera, lasciò i bagagli e tornò in soggiorno con il suo pc portatile. Si adagiò sul divano e controllò la posta.
Magnifico. Il numero dei partecipanti aumentava a dismisura. E poi, due settimane in mezzo al nulla: come avrebbe potuto impiegare il tempo libero? Decise di fare una passeggiata nel bosco, per schiarirsi le idee.
Proprio di fronte allo chalet iniziava un piccolo sentiero, che svanì dopo poche centinaia di metri, una volta in mezzo agli alberi. Lara camminò tra radici sporgenti, cespugli bassi, muschi e aghi di pino. Qua e la anche dei ceppi di tronco secchi. Il terreno continuava, un po’ in salita e un po’ in piano. Ad un certo punto, dopo circa 10 minuti, vide un grosso masso davanti a lei. Ormai era avvolto dalla vegetazione, eppure non c’entrava nulla col paesaggio. Sembrava piovuto lì direttamente dallo spazio. Era alto circa due metri: invece di aggirarlo, la ragazza scelse di arrampicarcisi; una cosa da nulla, per lei, ma almeno riuscì a divertirsi per qualche secondo. Poi, dopo altri 5 minuti di cammino, il paesaggio iniziò a cambiare. Gli alberi divennero progressivamente sempre più scuri e marcescenti. Sembrava il risultato di un incendio, o di una qualche malattia, chissà...il terreno era privo di vegetazione. Indecisa sul da farsi, la giovane rimase in piedi; tutto sommato poteva continuare l’esplorazione il giorno seguente. Adesso aveva proprio voglia di un bell’idromassaggio. E di fumare erba davanti alla TV.
Sbadigliando, si avviò verso lo chalet.

Mentre l’antropologa era intenta a prendere confidenza con il territorio circostante, gli alieni, avevano dato inizio alla loro battuta di caccia. Si spostavano un po’ saltando tra gli alberi e un po’ restando a terra. Usavano i bio-elmi per respirare e scannerizzare l’ambiente circostante.
Jar’lath indossava poche protezoni; l’armatura gli copriva solo una spalla (dove era montato sivk’va-tai, il plasmacaster), e metà busto, più o meno fino all’altezza delle prime costole. Un sistema di cinghie e anelli la teneva saldamente in posizione. Alla vita portava allacciata una semplice cintura in metallo, che fungeva da supporto per un coltello. Poi c’erano i due pesanti bracciali, uno per ogni avambraccio: contenevano altri dispositivi, quali: ki’cti-pa (wrist blades), il registratore, il proiettore di ologrammi, e perfino un potente esplosivo incorporato. Per concludere, ai piedi indossava delle calzature metalliche alte fino alle ginocchia. Yn’gve invece aveva optato per un’ awu’asa (full body armour). Per non parlare delle armi. Davvero esagerato, considerata la situazione si scarso pericolo in cui versavano. Adesso stavano oziando da un po’, seduti sopra un grosso ramo, in alto tra gli alberi. Nessun rumore. Nessun Animale.
Suo nipote invece pareva davvero eccitato. Come qualunque Yautja in giovane età. La trepidazione dell’attesa, le aspettative riposte nella lotta, la sete di vittoria...
Chissà quale epico confronto con le creature terrestri si stava immaginando adesso. Da dietro la maschera, Yar’lath mosse rapidamente su e giù le mandibole; anche il suo stomaco iniziò a vibrare: non riusciva a smettere di ridere. Cercò allora di farlo sommessamente, per non far rimanere male Yn’gve.
Ad un tratto, udirono un rumore proveniente da alcuni cespugli sottostanti. Subito regolarono la visione sul bio-elmo, per capire di che cosa si trattava.
Lo scanner presente nelle maschere rilevò un animale non molto grande, a quattro zampe e con il corpo tozzo. Era coperto da una specie di pelo, e per difendersi disponeva di denti aguzzi e due zanne esterne ricurve.
Yar’lath li conosceva bene, quegli esseri. Le dimensioni potevano variare, alcuni erano davvero grossi; ma quello sotto di loro non aveva nemmeno raggiunto l’età adulta. Quando erano feriti emettevano un verso stridulo.
Per gli umani, rappresentavano un pericolo. Ma per gli Yautja erano solo un buon pasto. Il leader decise comunque di testare il nipote, se non altro per conoscerne le reali capacità. Così, fece cenno al giovane parente di occuparsi della preda, indicando anche il mezzo più opportuno: una piccola lancia dalle punte retrattili (che Yn’gve teneva fissata all’armatura, sulla schiena). Elettrizzato, l’allievo recuperò l’arma e, premendo un pulsante del manico, la aprì. Subito le punte aguzze schizzarono fuori, con un “Clik”. Calibrando bene la distanza, Yn’gve piombò sul bersaglio e lo trafisse.
Yar’lath tirò un sospiro di sollievo. Forse forse le basi c’erano. Osservò il nipote estrarre, trionfante, la preda dai cespugli...e venire improvvisamente caricato da un altro di quegli animali, stavolta molto più grosso del primo. Sembrava comparso dal nulla: l’urto contro Yn’gve, mandò quest’ultimo a terra, facendogli perdere la ki’cti-pa (lancia).
La creatura ringhiava e gli stava sopra, tentando di ferirlo con zanne e denti. Lo Yautja, di riflesso, cercò di parare i colpi con uno dei due bracciali; Yar’lath non voleva intervenire: un domani, al posto di quei due animali, ci sarebbero stati dei kainde amedha. Suo nipote doveva imparare a cavarsela. Con la mano libera, il giovane guerriero riuscì a recuperare un coltello che teneva fissato a uno dei calzari in metallo. La bestia tenatava di morderlo e calpestarlo con le zampe. I colpi che Yn’gve ricevette gli facevano davvero male; ciò nonostante riuscì ad affondare la lama diverse volte. L’animale gridò, mentre il cacciatore continuava ad infierire con l’arma. Infine, solo silenzio. E il sangue.
Yar’lath era compiaciuto; certo, suo nipote avrebbe dovuto liberarsi della seconda creatura molto più facilmente, ma si trattava comunque di un buon inizio.
Con un balzo, il leader raggiunse il proprio discepolo, e lo aiutò a rialzarsi. Il giovane era un po’ malconcio e con qualche ferita superficiale. Nulla di cui preoccuparsi. Disse al nipote:
“Bene, ti sei comportato con onore; hai ucciso il tuo nemico e procurato del cibo. Adesso torniamo alla navicella, domani cercheremo altri animali e vedremo aumentare la tua resistenza fisica”.
I due Yautja cenarono presto e andarono a dormire. O meglio: Yar’lath si addormentò, mentre l’altro era ancora su di giri per l’impresa compiuta. Pensava che suo zio stesse andando troppo piano; lui era il grande Yn’gve, e poteva cacciare come qualunque altro guerriero nella Valle. Ma se avesse ascoltato il vecchio, non avrebbe mai avuto dei trofei prestigiosi, da esibire al loro rientro a casa. Doveva provarci da solo: in fin dei conti le terre degli uomini non presentavano grossi ostacoli. Allora era deciso, alle prime luci dell’alba sarebbe andato a caccia per conto proprio.

• Armi Yautja: Sito “Xenopedia Predator Fandom”

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Capitolo 7
*** Incontri ***


Quando Yar’lath si svegliò, notò subito il letto vuoto del nipote. Strano che fosse già in piedi. Il piccolo successo del giorno prima doveva averlo senz’altro reso più intraprendente. Sbadigliando, li leader andò a lavarsi e a prepararsi in una stanzetta apposita, proprio di fronte alla mensa. Una volta finito, attraversò il corridoio e andò a fare colazione. Ma in mensa non c’era nessuno. Sulla navicella regnava il più assoluto silenzio. D’un tratto, lo Yautja ebbe un presentimento: tornò di nuovo nella stanza da letto, per controllare il vano degli armamenti. Proprio come aveva immaginato, mancavano le cose di Yn’gve. “Ell-osde’pauk, s’yuit-de!!” (F*ck you, idiot) gridò, imprecando contro il nipote.
La rabbia gli stava montando dentro, pronta ad esplodere. Tentando di dominarsi, corse fuori nel freddo del mattino. Attorno a lui, solo i boschi e il fruscio della brezza di fine estate. Cosa diavolo credeva di fare Yn’gve? Quelle terre, nel corso dei secoli, erano costate la vita ad umani e Yautja. Andare in giro da soli, senza possedere un’adeguata preparazione, era pura follia.
Yar’lath decise di rientrare nella navicella: avrebbe atteso per qualche ora il ritorno del nipote, prima di uscire a cercarlo. Ma verso l’ora di pranzo, ancora nulla. Allora, rese il velivolo invisibile e partì. Vagò per ore tra gli alberi, incontrando solo qualche piccolo animale. Scese parecchio rispetto al punto in cui erano atterrati, e ormai il sole iniziava a tramontare. Meglio cercare un riparo per la notte.
Continuando a camminare, scorse in lontananza una specie di radura, con al centro quello che sembrava un insediamento degli uomini. Poteva essere un’opzione; non gli interessava uccidere gli occupanti: si sarebbe nascosto da qualche parte. E se qualcuno lo avesse attaccato, tanto peggio per lui.
Così, in modalità cloaking, raggiunse la struttura, quando ormai faceva buio. Tutto attorno all’abitazione c’era una specie di recinzione non molto alta, a base di un materiale duro e freddo. Gli umani non sapevano proteggersi.
La scavalcò facilmente ed entrò nello spazio interno.
La costruzione aveva 3 piani: quello in mezzo era illuminato. Incuriosito, decise di studiare gli occupanti. Scalò facilmente il muro, fino ad una struttura esterna, piuttosto ampia, dove gli umani avevano lasciato quelli che sembravano delle sedie e un tavolo. Sulla terra tutto era così primitivo!
Guardò dentro la stanza illuminata: vide una di quelle inutili creature, in piedi, che si guardava attorno esitante. Una Kalei’Pyode’a (young female); Yar’lath la osservò meglio: sembrava piuttosto alta, per una femmina della sua specie. Apparentemente, possedeva una massa muscolare armoniosa, e ben sviluppata. Qualcuno l’aveva forse addestrata? Di sicuro era molto giovane.
Magnifico...Il codice d’onore Yautja gli impediva di uccidere femmine e cuccioli di qualsiasi specie. Umani inclusi. Doveva entrare in quell’abitazione e non farsi scoprire, o la Kalei’Pyode’a avrebbe rappresentato un problema.

Lara se ne stava in piedi, al centro del soggiorno, i grandi occhi verdi socchiusi, con fare penieroso. Poco prima le era arrivata un’altra mail dal signor Collins. “Carissima Lara, mi rendo conto che due settimane sono un tempo abbastanza lungo, da trascorrere nell’isolamento della montagna. Pertanto, oltre al lavoro che già devi svolgere per me, ti invierò, quasi ogni giorno, dei simpatici indovinelli. Ecco il primo. Ho nascosto due armi da fuoco, due taglio e un’arma bonus in giro per casa. Tranquilla, l’ho fatta facile. Trovale entro un’ora. Poi fammi sapere se ti piacciono. Buon divertimento!.” Fino a quel momento, aveva rinvenuto solo un teaser elettrico, in uno dei bagni: contava come arma bonus? In ogni caso, lo aveva posizionato sul tavolo del soggiorno...Per qualche strano motivo, trovava la situazione intrigante. Ma adesso doveva concentrarsi: a tale scopo, decise di fumare un po’ di erba. Grazie all’abilità garantitale da anni e anni di pratica, l’antropologa confezionò una canna perfetta in poco tempo. Poi, indossò un giubbotto con cappuccio, che si trovava adagiato sullo schienale del divano, e andò verso il balcone. La vetrata constava di una metà scorrevole: Lara iniziò ad aprirla, mentre subito fuori, in un angolo, Yar’lath sostava nascosto nel buio. Adesso la Kaley’Pyode’a era davvero vicina. Lo Yautya poteva distinguerne bene il viso, attraverso la maschera: un volto insolitamente simmetrico, considerata la specie a cui apparteneva...oh, ma nel nome di Paya, a che idiozie stava mai pensando? Se quella creatura possedeva un minimo di intelligenza, lo avrebbe senz’altro scoperto. Bisognava trovare una soluzione. Al più presto.
Improvvisamente un rumore catturò l’attenzione di Yar’lath. Un rumore di passi. Un altro Pyode Amedha era giunto all’insediamento. Un maschio, stavolta, e decisamente più anziano di quella che stava dentro.
Che tipo di rapporto avevano?
Adesso l’umano sostava davanti alla recinzione.
All’interno della casa si udì un suono acuto, della durata di qualche secondo. Il sono si ripetè altre due volte, ad intervalli regolari. Allora la Kaley’Pyode’a aveva smesso di aprire la strana porta trasparente (per fortuna), e si era voltata. Poi, aveva guardato da vicino l’immagine offerta da un piccolo apparecchio attaccato al muro; infine aveva schiacciato un pulsante del medesimo apparecchio, ed era uscita dalla stanza. La porta trasparente era rimasta un po’ aperta. Fuori faceva freddo. Yar’lath avrebbe potuto resistere tranquillamente anche all’aperto, tutta la notte. Gli bastava lo spazio dove si trovava in quel momento. Ma due umani erano un rischio.
Se il maschio aveva già reclamato la giovane femmina come propria, di sicuro avrebbe fatto del proprio meglio per difenderla. Non che avesse una benchè minima speranza contro uno Yautja; ciò non di meno, una volta sfidato, il leader del Clan avrebbe dovuto reagire. Per una questione d’onore. E alla fine si sarebbe ritrovato con un umano morto e un’altra urlante, magari rintanata in qualche nascondiglio dell’abitazione...
Yar’lath scosse la testa velocemente, per cancellare dalla mente tutti quei pensieri.
Forse la cosa migliore era aspettare ancora un po’, per vedere come si sarebbero comportati i due Pyode Amedha. Adesso il maschio era scomparso. Lo Yautja udì alcuni rumori provenire dall’interno, e poco dopo gli umani fecero il loro ingresso nel soggiorno.

Lara, un po’ sorpresa per la visita, soprattutto considerata l’ora, disse gentilmente all’uomo di accomodarsi. Era una situazione insolita, e, anche se il suo ospite sembrava cordiale, decise di non abbassare la guardia.
Si ricordava vagamente di lui: in quel piccolo supermercato, dove si era fermata a fare le provviste...già, avevano parlato del più e del meno...
“Non l’ho mai vista da queste parti, da dove arriva? Si ferma per molto? Ah, il cottage più in su, si si, proprio un gran bel posto...” La ragazza aveva risposto ad una serie infinita di domande; poi, Pete (così aveva detto di chiamarsi) l’aveva salutata, esortandola a chiedere aiuto in città per qualsiasi cosa. E ora eccolo lì, piantato in mezzo alla stanza, alto poco meno di lei, ma piuttosto robusto. Una folta barba grigia gli incorniciava il viso, lasciando intravedere solo il naso largo e i piccoli occhi marroni.
Indossava un ampio giaccone verde scuro e un po’ malconcio. E fu proprio quello ad attirare l’attenzione dell’antropologa. Emanava un odore che aveva già sentito diverse volte, in passato. Una puzza dolciastra e penetrante. Il suo ospite aveva trascorso del tempo vicino a qualcosa che marciva, probabilmente un animale. Non era insolito imbattersi in delle carcasse, da quelle parti.
“Allora, come mai si trova qui? Posso offrirle qualcosa?” Domandò la ragazza, tanto per sbloccare quell’insolita situazione.
“No, volevo sapere se va tutto bene...da sola in mezzo al bosco...può succedere di tutto...” Il tono dell’uomo era strano, quasi gelido.
Lara si sentiva sempre più a disagio. “La ringrazio, ma me la sto cavando bene...qui ho tutto quello che...”
Ma non riuscì a completare la frase; come in preda ad una sorta di raptus, il suo interlocutore le mise le mani al collo, facendole perdere l’equilibrio.

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Capitolo 8
*** Ti darò la caccia ***


Da fuori, l’enorme alieno stava osservando la scena. Il destino della Kaley’Pyode’a pareva segnato, ma non era questo il vero problema. Piuttosto, le azioni dell’umano sembravano quelle di un ic’jit (bad blood). Aggredire una femmina indifesa era un atto disonorevole, e, nel mondo degli Yautja, le conseguenze potevano essere l’esilio o addirittura la morte.
Decisamente, quel maschio adulto gli avrebbe dato solo problemi: meglio occuparsene subito. Ma quando stava per entrare, Yar’lath assistette, non senza un certo stupore, alla reazione della Kaley’Pyode.

Ormai l’aggressore era quasi sopra di lei, le mani sudice strette attorno al suo collo. E quell’odore disgustoso, dolciastro, che le dava la nausea...ma cercò di ignorarlo. Grazie al cielo, Lara possedeva ottimi riflessi, e, mentre stava cadendo sul divano, sferrò un colpo direttamente sul pomo d’Adamo dell’uomo. Questi, istintivamente, mollò la presa e si accasciò sul divano, annaspando in cerca di aria. La ragazza rotolò in disparte, evitando così l’aggressore, e si rialzò in piedi. Non capiva. Proprio non capiva il comportamento di Pete. Che diavolo gli era preso? Restò immobile, spalle alla parete dove c’era la TV, aspettando la mossa successiva del suo avversario.
Doveva assolutamente immobilizzarlo e chiamare la polizia. La reazione dell’uomo fu rapida e improvvisa, ma non abbastanza da prendere alla sprovvista la giovane.
“Lurida Pu**ana!” le gridò, scagliandosi nella sua direzione. Ma Lara conosceva davvero bene le arti marziali; sfruttando la velocità dell’uomo, si scansò, afferrandogli contemporaneamente una mano. Con un movimento fluido poi, gli torse il braccio, e fece in modo di sbattergli la faccia contro la parete. L’uomo barcollò, e cadde a terra, in una maschera di sangue. Ma non era sventuto.
Lara arretrò un po’, verso la porta della stanza. Sempre senza abbassare la guardia, cominciò a considerare le sue opzioni. Poteva stendere quel tizio e avvertire la polizia. Ma se c’erano dei complici ad aspettarlo vicino alla casa? E quanti potevano essere? Non voleva confrontarsi con un esercito di montanari. Meglio chiudersi in casa, abbassare tutte le saracinesche e... “Dannata...” l’uomo era di nuovo in piedi. Molto probabilmente aveva il naso rotto, ma entrambe le braccia sembravano funzionare bene.
Adesso le mostrava i denti, in preda alla rabbia. Tenendo lo sguardo fisso su di lei, estrasse dalla tasca del giaccone un coltello a serramanico.
“Forza, divertiamoci un po’...” le disse con un sorriso malvagio. Ma la minaccia non ebbe seguito.
Improvvisamente l’uomo urlò. Un grido secco, orribile, mentre il viso gli si contraeva in una morsa di dolore. L’ istante dopo era morto. Eppure non cadeva a terra: se ne restava lì, in piedi, con la testa penzolante e il sangue che gli sgorgava dal torace. Lara assistette all’intera scena terrorizzata. Non riusciva a muoversi, nè a gridare.
Dopo qualche istante, la forza misteriosa che sorreggeva il cadavere scomparve, lasciando collassare il corpo sul pavimento.
Alcuni sottili raggi di luce bluastra, iniziarono di colpo a balenare nella stanza, come una lunga serie di cortocircuiti. Che lasciarono intravedere dapprima una sagoma gigantesca, e poi una creatura enorme, alta più di 2 metri, muscolosa, il volto coperto da una maschera di metallo e la pelle simile a quella dei rettili.
Al posto delle unghie, su mani e piedi c’erano artigli; se ne stava in piedi, immobile: da un certo punto di vista, il suo fisico assomigliava, nella struttura, a quello di un essere umano. Dalla testa gli spuntavano lunghe appendici di un colore strano (a metà tra il grigio e il nero), piene di anelli ornamentali. Indossava una sorta di armatura, che copriva parte del suo corpo, lasciando in piena vista gli enormi muscoli. Portava dei pesanti bracciali, da uno dei quali si dipartivano due lunghe lame, ancora sporche di sangue.
Lara non sapeva cosa fare: adesso quella creatura avrebbe ucciso anche lei?
Scappare non era una buona mossa. Oltre alle spade sul polso, l’alieno portava, sopra una spalla, una sorta di piccolo cannone. Se avesse deciso di spararle, l’avrebbe fatta a pezzi. Di attaccarlo, ovviamente, non se ne parlava. L’unica opzione valida era stare ferma, dimostrandogli che intendeva arrendersi.
La ragazza iniziò ad inginocchiarsi lentamente, portando entrambe le mani verso l’alto; ma Yar’lath, con un gesto fulmineo, la afferrò per una spalla e iniziò a stringere. Subito Lara avvertì un dolore lancinante propagarsi nella parte superiore del corpo: a fatica riusciva a respirare. Ma cercò ugualmente di tenersi in piedi.
Lo Yautja la osservava impassibile.
Quella particolare Kalei’Pyode’a lo incuriosiva. Certo era fragile, avrebbe potuto spezzarle facilmente tutte lossa...eppure...aveva qualcosa...delle... risorse.
Forse poteva tornare utile...come un piccolo animale che, conoscendo le foreste, lo avrebbe aiutato a rintracciare Yn’gve... Per riuscire nel suo intento, comunque, doveva prima sottometterla. Stroncando brutalmente ogni tentativo di ribellione o di fuga...

Lara era sul punto di svenire; il dolore non le dava tregua. Bisognava inventarsi qualcosa, o quella specie di varano alto due metri e passa l’avrebbe uccisa.
Improvvisamente si ricordò del teaser, frutto della sua piccola, perversa caccia al tesoro. Stava ancora lì, sul tavolo, dove lo aveva lasciato. Perchè non lo aveva scaricato contro il maniaco, nella lotta di poco prima? Beh, tanto meglio! Adesso aveva una possibilità...
Ignorando il dolore, usò il braccio e la mano liberi per afferrare l’apparecchio. Quindi chiuse gli occhi e scaricó tutta la potenza del teaser sull’addome della creatura. L’alieno, colto di sorpresa, emise un verso simile ad un ruggito e mollò la presa, accasciandosi sulle ginocchia. Restò a terra, rannicchiato e dolorante.
Lara non perse tempo: accanto al cadavere del montanaro, c’era ancora il coltello a serramanico; lo afferrò e corse fuori dallo chalet il più velocemente possibile. Carica di paura e di adrenalina com’era, a malapena realizzò il momento in cui si addentrava nel bosco.
Yar’lath si rialzò un paio di minuti dopo, furioso. Della femmina umana nemmeno l’ombra. Ruggì, in preda all’ira.
L’aveva colpito. Una miserabile Kalei’Pyode’a. Adesso le avrebbe dato la caccia. M-di H’chak! (No mercy).
Si lanciò all’inseguimento della ragazza. Grazie allo scanner del bio-elmo, vide alcune tracce fresche, che andavano in direzione degli alberi. Non poteva essere lontana. Giunto al limitare del bosco, scelse di usare i rami. Così le sarebbe piombato addosso dall’alto.
Bisognava ammettere che la giovane femmina possedeva dello spirito, ma lui non aveva tempo di giocare con gli umani. Perciò la faccenda sarebbe finita lì.

Lara camminava svelta, sfruttando la luce della luna per non inciampare. Che idea stupida, quella di fuggire. E per andare dove poi? La sua conoscenza del territorio corrispondeva a circa un km in linea retta.
Si fermò: adesso aveva raggiunto la base del grande masso; conveniva cercare un nascondiglio lì vicino e aspettare: magari quella stupida iguana neanche l’aveva seguita...
“Crack” Un rumore non molto lontano da lì, la fece sobbalzare. Sembrava provenire dai rami alti degli alberi. Nessun uccello (o altro animale) che viveva in quel bosco, pesava abbastanza da provocare un suono del genere.
D’un tratto, la ragazza rabbrividì, terrorizzata...che fosse...lui? La stava inseguendo? Quella bestia sapeva forse arrampicarsi? Serviva un nuovo piano, o non sarebbe uscita viva dal bosco. Istintivamente cominciò a correre, aggirando il masso. E poi ancora avanti, mentre, dalle fronde, giunse un nuovo rumore, stavolta più vicino.
Presto l’avrebbe raggiunta, piombando su di lei con le enormi lame affilate...o forse...se davvero usava i rami...allora...la foresta! La foresta di alberi morti! Erano secchi, marci...non potevano reggere...no...impossibile...
Rischiando di cadere in ogni istante, Lara proseguì la sua corsa disperata, raggiungendo il posto appena in tempo. Si posizionò davanti ad un grosso pino, morto ormai da un po’, e attese. Chissà se la trappola avrebbe funzionato!

Yar’lath l’aveva individuata quasi subito. Attraverso il bio-elmo, la sagoma della Kalei’Pyode’a risultava ben visibile: dapprima aveva corso, ma ora doveva essere stanca, perchè si era fermata improvvisamente. “Strano” pensò lo Yautja “sembrava addestrata meglio”.
Quasi un peccato che fosse già finita... adesso se ne stava acquattata sotto un grosso albero, come un animale in trappola; Non pareva affatto la stessa femmina vista poco prima nell’abitazione.
L’alieno raggiunse l’ultimo pino, quello che offriva “riparo” a Lara... Ma il legno su cui appoggiò il peso era ormai corrotto dalle piogge e dal freddo. Yar’lath si sentì trascinare verso il basso: colto di sorpresa, urtò violentemente un ramo sottostante, ferendosi la schiena; infine, pochi secondi dopo, giaceva a terra, (per la seconda volta, quella sera) immobile, stordito e piuttosto dolorante.

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Capitolo 9
*** Sospendere le ostilità ***


Lara tirò un sospiro di sollievo, guardando la creatura. Quell’essere, se ne stava pressochè immobile. Emetteva solo dei deboli versi, come tanti “clik” in sequenza...Forse cercava di comunicare? Con il cuore a mille, l’antropologa gli si avvicinò, per ascoltare meglio. Stava rischiando grosso, prima le era andata bene per pura fortuna.
“Click Click Click...” Senza dubbio si trattava di una qualche forma di linguaggio.
Ancora piena di adrenalina, la ragazza sembrava non rendersi conto della situazione: aveva guadagnato minuti preziosi, un vantaggio che chiunque avrebbe utilizzato per tornare indietro, accendere la jeep e sparire. Invece, come in trance, Lara salì a cavalcioni dell’alieno e lo osservò meglio.
La pelle era davvero spessa, proprio come nei rettili, principalmente di un bel verde scuro; ma c’erano anche sfumature di verde chiaro e marrone. Infine, parte del torace e della pancia apparivano bianchi. Dei bizzarri puntini neri ricoprivano qua e là tutto il corpo.
Lara pensò di essere impazzita: quei colori le piacevano.
“Click Click, Click Clik Click...” La misteriosa creatura si stava riprendendo. Tentò anche dei movimenti, ma poi cacciò un breve ruggito. Probabilmente di dolore.
L’antropologa interruppe l’esame: stava davvero scomoda in quella posizione. E quando abbassò lo sguardo per capire la causa, realizzò di trovarsi proprio sopra l’organo riproduttivo della mistriosa creatura Era un maschio. Decisamente. Impossibile sbagliare. Strani pensieri le affiorarono in mente: isomma, d’accordo, l’attrezzo era piuttosto grande...ma probabilmente Jennifer l’avrebbe a malapena sentito ... “Hahahahahahahahahaha” Lara scoppiò a ridere, rotolando in disparte.
E mentre stava ancora ridendo, non si era accorta che Yar’lath la osservava.

Gli aveva teso una trappola. Rannicchiandosi sotto un albero marcescente. Come un animale ferito e spaventato. E lui, il potente Yar’lath, per la seconda volta aveva creduto alla debezza della Kalei’Pyode’a.
Come mai non si era accorto di quelle piante così vecchie e logore, quando, poco prima, aveva raggiunto l’insediamento degli umani? Aveva camminato fra tronchi e rocce, senza considerare minimamente il paesaggio.
Senza reputare alcuna cosa, in quella parte del pianeta, degna della sua considerazione. Fino ad ora. La giovane femmina era imprevedibile e combattiva. Per un attimo i ruoli si erano capovolti: lui una preda, e lei sopra di lui esultante...Nemmeno la sua prima compagna Aib’hilin, durante le notti trascorse assieme, aveva ostentato una simile impudenza.
E infine, la Kalei’Pyode’a avrebbe potuto ucciderlo; invece eccola la, adesso, sdraiata a circa un paio di Nok (unit of measurement, approx 13 inches) da lui. Così andava con gli umani: creature volubili, illogiche e spesso violente con i propri simili...Tuttavia, quella femmina chiassosa e sfrontata era stata un degno avversario. Meritava di vivere, a prescindere dal codice d’onore Yautja.

Non appena si accorse che Yar’lath la stava guardando, Lara si fece subito seria. D’un tratto, realizzò la situazione. Sola, in un bosco, di notte e al freddo. A poco più di un metro da lei, un alieno enorme, armato fino ai denti. Apparentemente, la caduta dall’albero gli aveva procurato solo qualche grossa botta; un essere umano, invece, sarebbe morto, per le svariate fratture e lacerazioni agli organi.
Quell’essere pareva proprio indistruttibile. E lei? Non ne aveva ancora avuto abbastanza? Davvero intendeva continuare a scappare, sfidando la sorte?
No...adesso era arrivata al capolinea. Eppure il suo rivale appariva riluttante: si limitava ad osservarla.
Approfittando della sitazione di stallo venuta a crearsi tra loro, la ragazza elaborò un nuovo piano. Forse non era troppo tardi per arrendersi. In fondo, sembrava una creatura evoluta e senziente. Una tregua insomma...come strategia faceva acqua da tutte le parti, ma dopo tutto, quali alternative aveva? Lentamente, Lara si mise in ginocchio, alzando le mani.
“Non intendo affrontarti” disse a Yar’lath “Non sono una minaccia, mi capisci?”
Lo Yautja restò impassibile. Dio, che situazione snervante! La comunicazione sembrava impossibile; ma Lara aveva ancora un asso nella manica: la lingua dei segni. Una mossa disperata, certo, ma arrivati a quel punto... Gesticolando lentamente, ripetè quello che aveva affermato poco prima.
L’alieno parve esitare un attimo, poi sollevandosi, emise un lamento gutturale. L’antropologa sussultò: le avrebbe risparmiato la vita?
Con grande sorpresa della ragazza, Yar’lath restò semplicemente seduto. E continuò a fissarla. Non sapendo che fare, la giovane proseguì, accompagnando le frasi con i relativi segni.
“Non sono una minaccia. Posso offrire cibo e un posto sicuro per la notte. Tra poco pioverà e farà molto più freddo...”
Ma che razza di discorso stava facendo? Sembrava una stupida. Possibile che non le fosse venuto in mente nulla di meglio?

“Che femmina impossibile” pensò lo Yautja. Certo che la capiva: aveva sentito parlare la sua lingua fin troppe volte, nel corso dei secoli. E conosceva abbastanza quei gesti con le braccia. Anche gli Yautja ne utilizzavano di simili.
E poi nel bio-elmo c’era un traduttore simultaneo, per le principali lingue degli umani...Dunque adesso si arrendeva? Gli offriva del cibo? Come mai questo cambio di strategia? Forse era giunta al limite delle proprie possibilità? O magari si trattava di un’altra trappola? Non poteva escluderlo: gli umani sapevano essere davvero estenuanti...
Nel nome di Paya...la Kakei’Pyode’a continuava a parlare...ma non esisteva un pulsante per farla smettere?
Eppure, (gli seccava anmetterlo) quella bizzarra creatura aveva ragione: la cosa più sensata era cercare un riparo. Lui doveva mangiare e riposarsi: l’indomani avrebbe ripreso le ricerche.

Sulla via del ritorno, l’insolito duo camminava in silenzio; Lara precedeva di poco Yar’lath, quasi facendogli da guida. Non provò neanche una volta a tentare la fuga: al contrario, procedeva lentamente, in modo da non irritare il suo compagno di viaggio. Le sembrava che si fosse ripreso bene...
Lo Yautja sentiva dolore un po’ ovunque, ma le fitte peggiori gli arrivavano dalla schiena. Come se avesse avuto 100 dah’kte conficcate nella spina dorsale. Probabilmente era anche ferito. Ciò non di meno, continuò il tragitto senza lasciar trasparire alcun che; per una questione d’onore.

Giunti sulla porta di casa, Lara si ricordò del cadavere.
“Gesù” pensò “Come potrò mai spiegare la morte di quell’uomo? Nessuno crederà mai che sia stato un alieno”.
L’antropologa stava ancora meditando sulla spiegazione da fornire alla polizia, quando, arrivati in soggiorno, lo Yautja si caricò il corpo su una spalla.
“Aspetta” disse la ragazza avvicinandoglisi “Dove lo porti? Non...”
Per tutta risposta, Yar’lath si girò verso di lei, emettendo un fragoroso ruggito: era stata ampiamente avvertita. Terrorizzata, la giovane fece qualche passo indietro, verso la finestra, tenendo lo sguardo basso. Lo Yautja la guardò ancora qualche istante, e poi uscì dalla stanza. Subito dopo, Lara udì un rumore di passi che scendevano le scale, in direzione del giarage...
Che voleva farne di quel cadavere? Qualche strano rituale? L’antropologa decise di spiare il suo “ospite” dal balcone, per capirne le intenzioni. Ciò che vide, instillò un nuovo senso di paura in lei; la creatura, arrivata nel giardino di casa, lasciò cadere a terra il corpo senza vita dell’uomo. Poi, estrasse una specie di fialetta da uno dei bracciali, e versò poche gocce del contenuto sul cadavere. E questo cominciò a dissolversi.
Mentre Lara assisteva al macabro spettacolo, l’essere girò improvvisamente la testa verso di lei, guardandola in silenzio. L’aveva scoperta.
Spaventata, la ragazza rientrò subito nel soggiorno. Si sedette sul divano, cercando di riordinare le idee... Adesso non c’era più alcun morto. Solo macchie di sangue sul muro (dove l’aggressore si era rotto il naso, durante la loro lotta) e sul pavimento. Doveva ripulire la scena o chiamare comunque la polizia?
Arrivati a quel punto però, l’avrebbero sicuramente sospettata di omicidio, e anche di aver fatto sparire il corpo. E poi c’era sempre il problema del nuovo amico intergalattico...sembrava intenzionato a restare.
Rimaneva dunque solo un’opzione: lavare tutto e, se glielo avvessero chiesto, fingere di non avere mai visto l’uomo che l’aveva aggredita. Sospirando, Lara andò in cucina a prendere il necessario per far sparire il sangue.

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Capitolo 10
*** Posso fidarmi di te? ***


Una volta rientrato in casa, sporco e stanco, Yar’lath si lasciò cadere sul divano del soggiorno. Avava una gran voglia di togliere l’armatura e la maschera; di liberarsi delle armi e poi di mangiare. La Kalei’Pyode’a se ne stava rannicchiata a cancellare le ultime tracce di quel Tarei’hsan (unworthy opponent). Allora ogni tanto riusciva anche a starsene zitta e a rendersi utile...e nel pensare ciò, il leader del Clan iniziò a ridere, muovendo a piccoli scatti le mandibole, come al solito.
Incuriosita dal rumore, Lara si voltò nella sua direzione.
“E adesso che diavolo gli prende?” Pensò allarmata. Di quell’essere non riusciva a capire nulla, era un autentico mistero.
Irritato con se stesso, per aver abbassato momentaneamente la guardia davanti ad una miserabile Kalei’Pyode’a, Yar’lath si ricompose; qundi, con l’enorme mano, tracciò nell’aria il segno per la parola “Mangiare”...
Perplessa, Lara annuì di rimando; quindi, abbandonò le pulizie e uscì dalla stanza. Rientrò poco dopo, con delle succulente bistecche e una brocca d’acqua fresca.
Senza farsi alcuno scrupolo, Yar’lath si tolse la maschera per consumare il pasto.
Era curioso di vedere la reazione della Kalei’Pyode’a. Avrebbe urlato? Avrebbe tentato un patetico assalto? La fissò con i penetranti occhi gialli e attese...
“Oh-mio-Dio!” pensò l’antropologa, mentre in lei riaffiorava l’impulso di scappare nel bosco. Quell’essere era semplicemente indescrivibile. La prima cosa che saltava agli occhi erano quattro grosse zanne esterne (una per angolo della bocca), avvolte in parte da una sorta di membrana. Poteva muoverle a piacimento. In secondo luogo, non aveva labbra: solo gengive, da cui spuntavano denti aguzzi. Apparentemente, non esisteva nemmeno il naso. E delle strane appendici grigiastre ricoprivano tutta la testa, ad eccezione della parte superiore; lì, risaltava una specie di corona ossea.
Un po’ rettile, un po’...non ne aveva idea...
Ma più lo guardava, più si abituava al suo volto; dopo lo spavento iniziale non provò più nè repulsione nè voglia di sparire. Com’era possibile? Doveva essere impazzita.

Nel breve tempo rimasto solo, Yar’lath aveva fatto il punto della situazione.
La Kalei’Pyode’a possedeva indubbiamente del coraggio... Credeva, anzi no, era convinto che sarebbe scappata di nuovo... Stavolta l’aveva osservata bene: non gli piacevano nè il colore chiaro, nè la morbidezza della sua pelle. Ma il lungo corpo muscoloso e la perfetta simmetria del viso, nel complesso, la rendevano quantomeno accettabile.
Degli innumerevoli umani incontrati nel corso della sua lunga vita, lei era uno dei pochi per cui non aveva provato ribrezzo. Il problema principale, comunque, restava ancora Yn’gve. Doveva trovarlo al più presto. E se quell’idiota aveva rotto il trasmettitore? Altrimenti perchè non gli aveva ancora mandato una stramaledetta richiesta d’aiuto?
Oppure (ancora peggio) poteva aver danneggiato la maschera: senza bio-elmo, gli restava circa una settimana...
Sospirando, Yar’lath si augurò che il nipote stesse bene.

Yn’gve aveva vagato nel bosco fino al tramonto, senza incontrare forme di vita.
Una volta calato il sole, dalla vegetazione circostante erano echeggiati alcuni fruscii, ma li aveva imputati al vento e a qualche animale di poco conto.
E poi dal nulla, alle sue spalle, un poderoso ruggito...
L’orso si levò sulle zampe posteriori, superando in altezza lo Yautja (ancora molto giovane, e non pienamente sviluppato). Zanne e artigli contro dah’kte (wristblades)...
I due contendenti si scagliarono l’uno contro l’altro. Il plantigrade mordeva e lacerava; Yn’gve cercò di parare i colpi come poteva, e in un paio di occasioni, riuscì anche ad affondare le lame nel fianco dell’orso.
Il sangue di entrambi si mescolò, assieme ai loro ruggiti.
Presi dalla foga di quel combattimento mortale, caddero accindentalmente in una sorta di buca.
Durante il volo di 4 metri, Yn’gve urtò la testa, ferendosi ancora. Per fortuna, una volta atterrato, riuscì a restare vigile; allora, veloce, rotolò in un angolo e sparò dal plasma caster, in direzione dell’orso (senza nemmeno prendere la mira con il bio-elmo). Per miracolo, il colpo andò a segno, spappolando parte del cranio dell’animale. Una lotta dura, non priva di conseguenze.
Le zanne dell’orso erano affondate in buona parte nell’armatura di Yn’gve; tuttavia, in un paio di occasioni gli avevano procurato dei solchi nelle coscie e nelle braccia; gli artigli del plantigrade erano finiti sui dreads, sui fianchi e avevano lacerato la schiena. Infine, la caduta aveva causato una discreto taglio alla testa. Adesso, il giovane Yautja giaceva là, sanguinante, al freddo. Provava un intenso dolore e si muoveva a malapena. Doveva chiedere aiuto, Ma aveva paura della reazione di suo zio. In fin dei conti aveva disobbedito a un ordine diretto del Capo Clan...Quale punizione gli sarebbe toccata?
I pensieri di Yn’gve iniziarono a farsi sempre più confusi, la vista annebbiata. Presto, intorno a lui, tutto si fece buio.

Mór camminava leggiadra attraverso i corridoi del Palazzo, nel quartiere dell’anziana Ang’hara-d, zia di Yar’lath.
Alla fine Dym’fna aveva scelto di metterla a servizio presso qualcuno della famiglia. Una direttiva semplice, che avrebbe accontentato un po’ tutti.
“Stupida vecchia”, aveva pensato Mór, alla richiesta di Ang’hara-d di andare a prenderle dei naxa (type of fruit).
Ma non poteva esimersi dai veri compiti, nè mostrarsi sgarbata: un passo falso le avrebbe precluso la possibilità di farsi notare da Yar’lath.
Stava per raggiungere la dispensa privata di quel settore del Palazzo, quando si imbattè in Dubh’gh-las. Con un ghigno, quest’ultimo le bloccò la strada. Mòr sussultó per la sorpresa. “Allora” chiese lo Yautja, sarcastico “come ti trovi a badare a mia madre?”
“Che ci fai qui?” Gli rispose brusca la giovane aliena
“Volevo vedere come procede il nostro piano...” E nel dire ciò, mise una mano al collo di Mòr, facendola arretrare, spalle al muro.
La Wei-ghe’h (female) iniziò a tremare leggermente. La potenza e la sfrontatezza ostentate da Dubh’gh-las, la eccitavano ogni volta. Tentò di sembrare il più indifferente possibile, ma adesso il cuore aveva aumentato il numero dei battiti.
La sua pelle prese ad emanare l’inconfondibile aroma dolciastro del desiderio sessuale; allora, chiudendo i grandi occhi viola, sussurrò con un filo di voce:
“Non...possiamo...sentiranno il tuo odore... su di me”
Dubh’gh-las non disse nulla. Adesso la sua attenzione era rivolta al vestito di Mòr: piuttosto semplice, con uno spacco laterale. Lo Yautja ne approfittò, inserendo la mano libera tra le cosce della giovane Wei-ghe’h.
Quest’ultima emise un gemito di piacere, abbandonando ogni tentativo di resistenza. La presa di Dubh’gh-las attorno al suo collo restava salda, togliendole un po’ l’aria. E, nel contempo, lei avvertiva l’altra mano, che aveva iniziato a massaggiarle il sesso. Si lasciò sfuggire un altro lamento, stavolta più forte del primo.
“Stupida” le disse freddo lo Yautja “So bene quello che posso prendere”
E poi si inginocchiò deciso, mentre, con entrambe le mani, le sollevava il vestito. Istintivamente la giovane aliena scostò una gamba, per fargli spazio.
Dubh’gh-las affondò il volto tra le sue cosce, continuando a darle piacere. Mòr, aggrappandosi ai dreads scuri del compagno, si spostò leggermente, per offrirgli un’angolazione migliore. Infine, trascorso quanche minuto, la Wei-ghe’h lanciò un ultimo, definitivo e prolungato lamento, accasciandosi laggermente sopra Dubh’gh-las. Entrambi rimasero in quella posizione per diversi secondi, prima di rialzarsi.
Il guerriero Yautja si rivolse alla compagna “Adesso vai nel bagno degli ospiti, lavati e copri l’odore con i profumi. Poi vai a soddisfare le richieste di mia madre”.
Tenendo lo sguardo basso, Mòr fece un breve cenno di assenso e se ne andò, in silenzio.
Mentre la guardava allontanarsi, lo Yautja ripensò al loro piano. Certo, quella femmina era davvero bella, ma il solo aspetto non bastava con Jar’lath. Suo cugino cercava ben altro. Meglio un’azione drastica: magari una caccia in cui, per disgrazia, tutti e tre i fratelli (Dym’fna, Seag’h-dhe e, naturalmente, Yar’lath) avrebbero trovato la morte. Allora sarebbe toccato a lui, il valoroso Dubh’gh-las, quarto per importanza nel Clan, ereditare il potere.
A soddisfarlo, due concubine: Aib’hilin e Mòr.
Poteva già contare sull’appoggio di alcuni membri del Consiglio (incluso il Capo), e dei guerrieri ad essi imparentati.
No, non esisteva alcun motivo per sedurre Yar’lath e dargli un erede: era un progetto stupido, degno di un idiota come il Consigliere Huw.

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Capitolo 11
*** Casa mia è casa tua ***


Sulla Terra, intanto, Lara cercava di mantenere la fragile tregua con il proprio ospite. Non appena rientrò nel soggiorno con il cibo, avvertì lo sguardo duro e carico di sospetto dello Yautja. La ragazza mise in tavola una generosa porzione di carne grigliata, e un recipiente pieno d’acqua fresca. Poi, con una mano, riprodusse il segno corrispondente alla parola “cibo”. Il profumo era davvero invitante, ma Yar’lath rimase immobile a fissarla, per nulla convinto...La carne poteva essere stata contaminata di proposito; purtroppo per la Kalei’Pyode’a, lui non si lasciava ingannare facilmente.
“Tu mangi prima”, le disse, usando i segni.
La ragazza fece spallucce e rispose con il gesto per “Va bene”.
“Peggio per te, stupida lucertola” pensò, mentre si avventava sul cibo.
Yar’lath continuò a guardarla per qualche istante...sul suo pianeta le femmine mantenevano sempre un certo contegno, mentre questa qui sembrava un Kainde Amedha a digiuno da giorni. E poi era chiassosa, testarda, sgraziata... insomma, una costante sfida alla sua pazienza.
La cena venne consumata in silenzio. Durante il pasto, entrambi si scambiarono brevi occhiate furtive, dettate dalla mera curiosità.
Improvvisamente, fuori, nel cielo, comparve una luce, seguita da un rumore intenso, come di un violento scoppio. Yar’lath conosceva bene quei fenomeni atmosferici: di lì a poco, sarebbe cominciata a cadere acqua.
Gli umani la chiamavano “pioggia”.
“Non ci voleva!” pensò “Chissà se Yn’gve sarà stato in grado di trovarsi un riparo”.
Concluso il pasto, lo Yautja espresse il desiderio di esser lasciato in pace. Al buio.
C’era ancora tanto da sistemare, e non voleva avere attorno la giovane umana dagli occhi verdi. Assurdo, quel colore così intenso gli ricordava alcune gemme, con cui sua madre era solita adornarsi...
“Oh, nel nome di Paya, basta distrazioni....” si disse. Nel frattempo era rimasto solo; allora, indossò nuovamente il bio-elmo. Quindi, eseguì un rapido controllo sulla funzionalità degli armamenti e si sdraiò sul divano.
Era una superficie comoda, anche se, in lunghezza, non riusciva a contenerlo pienamente. Sentì la femmina umana sistemare alcune cose nella stanza accanto e spegnere la luce. Poi un rumore di passi, stavolta diretti verso l’alto. C’erano dunque delle altre stanze...forse un deposito segreto di armi...
Yar’lath attese in silenzio qualche nuovo rumore, pronto a regire, se necessario.
Niente. Nessuno sarebbe tornato da lui, quella notte. Cullato dal ticchettio incessante della pioggia, suo malgrado, si addormentò.
E la coscienza si dissolse ancora, cedendo lo spazio al sogno. Quel meledetto sogno, che lo tormentava quasi ogni notte...eppure stavolta...sembrava...diverso...
Yar’lath se ne stava lì, a pochi passi da suo cugino Dubh’gh-las; quest’ultimo invocava aiuto, mentre il Kainde Amedha ormai sopra di lui, si apprestava ad ucciderlo...Yar’lath però non era tornato giovane: al contrario, era già il leader del Clan, con i dreads quasi sbiaditi e le grosse cicatrici.
Quando si stava preparando ad assalire la Xenomorfo con il ki’cti-pa (combistick), una voce alle sue spalle lo aveva fermato: “Sei impazzito? Usa questo...”
Dietro di lui, la Kalei’Pyode’a gli stava porgendo il piccolo dispositivo che rilasciava scosse elettriche. Stranamente, la presenza dell’umana (che tra l’altro riusciva a parlare la sua lingua), gli era sembrata del tutto normale.
“Non posso, Lou-dte kale (child-maker, slang for “female”), stai indietro!”
Ma che gli prendeva? Non era da lui esprimersi in termini così dozzinali.
“Usalo, tanto quel coso nero non ti vede”
E Yar’lath aveva ubbidito, uccidendo così il Kainde Amedha. Poi, era rimasto a guardare suo cugino, che giaceva a terra illeso. Trascorso qualche istante, la femmina umana lo aveva raggiunto, dicendogli:
“La carne è pronta, andiamo a mangiare”
Mentre si allontanavano, ogni cosa era infine svanita, lasciando solo il buio.
Lo Yautja si svegliò di soprassalto, alle prime luci dell’alba, con le immagini del sogno ancora impresse nella memoria. Una sensazione di angoscia lo opprimeva: come aveva potuto lasciare che la Kalei’Pyode’a entrasse nelle stanze dei suoi ricordi?
O forse era solo l’aria malsana di quell’ inutile pianeta: atomi di ossigeno che gli avvelenavano lentamente i polmoni... Basta, avrebbe rintracciato suo nipote e sarebbero ripartiti il prima possibile.

Durante la notte, Yn’gve aveva oscillato tra lo stato di veglia e quello del sonno.
Con il passare delle ore, il freddo della notte era diventato sempre più intenso, a causa dell’acqua che cadeva incessantemente. Il terreno non sembrava in grado di assorbirla in maniera efficace: attorno a lui si erano create delle pozze. Ad un certo punto, convinto che sarebbe morto, aveva considerato la totale resa.
Suo zio non sarebbe mai arrivato: era la punizione per aver trasgredito.
Rispettare gli Anziani, obbediere al Leader del Clan, rendere omaggio agli Dei.
Queste erano le prime leggi del codice d’onore Yautja. E lui ne aveva infranto una...
Ma poi ripensò alla madre, la dolce Maj’me-h, l’unica che continuava ad incoraggiarlo. E all’enorme dolore che la sua morte le avrebbe procurato.
No, doveva guadagnare tempo...Forse l’animale che aveva ucciso, l’avrebbe aiutato a ripararsi almeno un po’: in fin dei conti era grosso e possedeva molto pelo.
Ignorando le intense fitte di dolore, raggiunse l’orso; quindi, ne trascinò il corpo fino all’angolo più vicino, utilizzandolo come una specie di coperta. Puzzava, quella bestia. L’odore era disgustoso. Stremato, chiuse gli occhi, addormentandosi di nuovo. Se l’indomani fosse stato ancora vivo, avrebbe cercato di contattare suo zio, affrontando le conseguenze.

Si avvicinava la stagione degli accoppiamenti; Dy-m’fna era preoccupata. Presto i guerrieri maschi avrebbero iniziato ad emettere il n’dui’se, ovvero il particolare e intenso odore muschiato che indicava eccitazione e aumento dell’aggressività. A quel punto, la maggioranza di loro avrebbe cercato una potenziale compagna (guerriera o no). Facendo sfoggio dei trofei, oppure ingaggiando lotte con altri pretendenti, di pari livello nella società.
L’esigua percentuale di Yautja che, come lei, aveva scelto il matrimonio, si concentrava sul prestigio agli occhi del Clan e sull’educazione dei figli. Perfino dopo che era rimasta vedova, Dy-m’fna non aveva cercato un nuovo compagno.
I guerrieri più giovani, invece, vittime del fuoco della competizione, rischiavano di provocare qualcuno di rango superiore.
Bisognava tenerli concentrati sulle cose importanti. Così, ogni anno in quel periodo, venivano portati su uno dei tanti satelliti naturali, che orbitavano attorno al pianeta Yautja . Nello specifico, il loro satellite si chiamava Luar-ke 3: al 60% ricoperto da una fitta vegetazione e dalle paludi, offriva un valido banco di prova contro alcuni grossi carnivori (paragonabili per letalità ai Kainde Amedha). Un’ottima occasione per cominciare a distinguersi dunque...Ma chi avrebbe accompagnato quelle teste calde?
Di solito, Yar’lath mandava il loro fratello Seag’h-dhe, ma adesso la situazione era un po’ diversa. Non solo per l’assenza di Yar’lath stesso...Qualcosa si muoveva nel Palazzo. Qualcosa di indefinito, che non riusciva a spiegarsi.
Il suo istinto puntava dritto verso il Consiglio, e anche verso Dubh’gh-las.
Suo cugino. Un essere a dir poco rivoltante.

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Capitolo 12
*** Dobbiamo salutarci ***


Mentre il sole si stava levando nel cielo, Yar’lath tornò a sentire gli strani rumori provenienti dal piano di sopra. La Kalei’Pyode’a stava sicuramente tramando qualcosa, ormai non c’era dubbio.
Bisognava fermarla.
Avendo dormito con tutta l’armatura, non fu un problema passare in modalità cloaking. Quindi iniziò ad esplorare il resto dell’abitazione.
Trovò quasi subuto le scale, e iniziò a salire. Adesso i rumori si erano fatti più nitidi: sentiva chiaramente scorrere dell’acqua...
“L’ulij-bpe Kakei’Pyode’a !!” (crazy young human female) pensò lo Yautja, mentre la rabbia iniziava di nuovo a montargli dentro. Perchè quella creatura dagli occhi verdi insisteva così tanto nel provocarlo?
Come aveva ipotizzato la sera prima, nella zona alta della casa c’erano altre stanze. Yar’lath seguì il rumore di acqua, simile ad uno scroscio; proveniva da dietro una specie di porta (la più lontana dalle scale) rimasta socchiusa.
Il leader del Clan rise sarcastico tra sé e sé: davvero l’umana pensava di avere la meglio su di lui, facendo tutto quel chiasso e senza nemmeno chiudersi bene all’interno del suo rifugio? La credeva più intelligente: quella, sarebbe stata senza dubbio la caccia più breve della storia...
Lentamente, lo Yautja si fece strada all’interno della sala...ma quello che vide lo lasciò di sasso. La Kalei’Pyode’a stava in piedi, dentro una contenitore dalla forma strana, in parte trasparente. Era priva di qualsiasi indumento, e un getto d’acqua continuo le cadeva addosso...Ecco svelato il mistero: si stava semplicemente lavando.
Yar’lath non riusciva a muovere un dito. La fissava, incapace di fare dietrofront. Adesso poteva vedere ogni centimetro di quel corpo così muscoloso, eppure perfetto nelle proporzioni. Gli strani, sofffci dreads marroni che le coprivano la testa erano liberi, per la prima volta da quando l’aveva incontrata. Cadevano lungo le spalle, fino in fondo alla schiena. Teneva i grandi occhi verdi chiusi, e con le mani si massaggiava il petto. C’era uno strano disegno nero sulla sua spalla, come una sorta di bracciale...poteva essere il marchio del suo Clan? Allora anche lei apparteneva a qualche tribù. Poco male.
Nonostante le indubbie qualità, non era comunque abbastanza. Sopravvivere a una caccia, rappresentava solo una parte della loro complessa struttura sociale. Gli umani invecchiavano presto, e perdevano progressivamente le loro abilità. Infine, dubitava che quel corpo, seppur giovane e ben sviluppato, fosse in grado di reggere una gravidanza e un parto Yautja.
Mentre pensava ciò, Yar’lath avvertì una sensazione indefinita, come una sorta di leggero groppo, a livello dello stomaco... “Pauk, s’yuit-de!” (f*ck, idiot) si disse mentalmente: quei pensieri, erano un insulto agli Dei e al suo stesso Clan... E allora perchè a lui non sembravano così sbagliati?
Scosse la testa, come per svuotare la mente. Doveva uscire da quella stanza, lasciare quella casa, abbandonare il Pianeta Blu. Si ritirò lentamente, non visto, tornando al piano di sotto. Occorreva un nuovo piano.
In fondo, la Kalei’Pyode’a non gli serviva. Poteva continuare a cercare da solo.
E prima o poi Yn’gve gli avrebbe inviato quello stramaledetto segnale.

Lara uscì dalla doccia un po’ più rilassata di prima; l’acqua calda era stata un toccasana per il suo organismo. Tuttavia, mentre afferrava gli asciugamani, sentì nell’aria qualcosa di insolito...sembrava un leggero odore muschiato, pungente, ma non sgradevole. La ragazza cominciò a guardare in giro, cercando di scoprire la fonte. Si faceva un po’ più intenso nei pressi della porta. Eppure non c’era nessuno. “Strano” pensò “Forse sarà qualche vecchia tubatura”.
Finito di prepararsi, sospirò in silenzio, all’idea di dover affrontare di nuovo l’alieno.
Non faceva altro che darle ordini. Ma almeno, eseguirli senza protestare, le aveva prolungato la vita.
Eppure si rese presto conto, non senza un certo stupore, che le era piaciuto cucinare per lui. Aveva cenato volentieri assieme a quell’essere, senza provare repulsione per le enormi mandibole esterne. Anzi! Ciascuna delle due sottostanti, possedeva una sorta di piccolo sperone aggiuntivo: che simpatica bizzarrìa. Ferma, in piedi vicino alle scale, cominciò a fantasticare su cosa si provasse, nel tuffare una mano tra quelle strane appendici grigiastre...Erano morbide? E lui avrebbe avvertito il movimento delle sottili dita umane, perse dolcenente in quell’insolito mare? Le ci volle un grande sforzo per tornare alla realtà. Doveva cocentrarsi, e stare allerta. L’unica cosa su cui fantasticava quella lucertola, probabilmente, era con quale tipo di arma l’avrebbe uccisa.
Misurando ogni singolo passo, scese le scale ed entrò nel soggiorno. Non c’era nessuno. E anche nella casa, sembrava regnare il più assoluto silenzio.
La ragazza avvertì una morsa allo stomaco: se ne era andato? Doveva scoprirlo: esplorò ogni angolo dell’abitazione (trovando, peraltro, le armi nascoste dal signor Collins) ma senza esito. Allora, corse fuori in giardino: il sole brillava nel cielo azzurro, e davanti a lei si estendeva il bosco. Proprio come quando era arrivata lì, il giorno prima.
E adesso? Sarebbe tornato? O si trattava di un addio? Lara non sapeva bene come reagire: l’idea di non vederlo più le sembrava così...strana! Si passò una mano sul il viso, e poi scosse la testa.
C’era altro a cui pensare: il guerriero alieno non aveva provocato danni alla struttura; ciò non di meno bisognava pulire a fondo, cancellando ogni traccia del suo passaggio...

Yn’gve aprì gli occhi quando il sole era già sorto. Gli sembrò impossibile di essere ancora vivo. Evidentemente Cetanu, il dio della morte, aveva deciso di risparmiarlo.
Era sporco di fango, infreddolito e debilitato dal digiuno e dal sangue perso nella lotta con la bestia. Ma doveva provare ad uscire dalla buca.
Con enorme sforzo, si liberò della carcassa dell’orso. Poi, dopo un paio di tentativi, riuscì a mettersi in piedi. Le ferite, seppur rimarginate, gli procuravano delle fitte lancinanti. Facendo appello alle energie residue, si arrampicò lungo la parete fangosa; gli artigli naturali di cui era provvisto, garantivano una discreta presa.
Alla fine, emerse dalla fossa puzzolente. Strisció fino ai piedi di un grosso pino e si accasciò sul terreno. La vista gli si stava offuscando di nuovo; sollevò a fatica una mano e aprì uno dei bracciali. Dentro c’era una sorta di piccolo computer. Lo accese, e, prima di svenire, premette alcuni pulsanti: il segnale di emergenza era stato inviato.
Mentre il suo corpo giaceva inerme, Yn’gve sognò di trovarsi di nuovo a casa, assieme a sua madre e a sua nonna. Suo padre e i suoi fratelli erano quasi sempre via, per mantenere l’onore della famiglia.
Sognò le lunghe passeggiate con le sorelle, ai piedi della Montagna Sacra; oppure vicino al grande lago, che Ju’dha-sain’ja, il dio delle acque, nella sua infinita magnificenza aveva regalato al Clan della Valle...
Ma qualcosa premuto contro la maschera interruppe i suoi ricordi: sembrava una sorta di naso, il naso di un animale. Emetteva un rumore strano. Yn’gve non aveva il coraggio di aprire gli occhi, per vedere di che bestia si trattava...

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Capitolo 13
*** Restiamo separati ***


Trascorsero alcuni interminabili secondi. Il giovane Yautja decise di non muoversi: avrebbe estratto le spade all’improvviso, cogliendo l’animale di sorpresa.
Uno strano lamento riecheggiò nell’aria...confuso, Yn’gve aprì gli occhi. La misteriosa creatura adesso gli stava sul petto, con le zampe anteriori; era piuttosto piccola, e con il muso un po’ schiacciato. Non aveva zanne: solo dei piccoli denti all’interno della bocca. Muoveva freneticamente a destra e a sinistra una sorta di appendice, posta alla fine della schiena.
“Che strano essere” pensò il guerriero “Sembra un cucciolo di qualche specie terrestre...”
Almeno era inoffnsivo. Adesso il sole scaldava di più; Yn’gve iniziò a sentirsi male, e decise di togliere la maschera. L’aria fresca gli avrebbe giovato un po’: per fortuna si era ricordato di prendere il respiratore ausiliario.
Si trattava di una sorta di disco, che conteneva circa 140 inalazioni. Una sola di queste, gli avrebbe garantito ben 12 ore di copertura, consntendogli di adattarsi all’atmosfera del pianeta.
Ma non riusciva a ricordare se anche suo zio ne aveva preso uno...
Lentamente, tolse il dispositivo dalla cintura; poi sfilò anche il bio-elmo, e diede una profonda inalata.
Il cielo era azzurro e alcuni timidi raggi di sole gli illuminarono il viso: iniziò a sentirsi meglio. Il nuovo amico gli salì sul petto e si sedette sulle 4 zampe.
Non pesava nulla, ed era interamente coperto da una folta pelliccia grigio scura.
“Strano che non sia scappato” pensò Yn’gve...In fondo lui doveva sembrare una specie di mostro enorme, verde, pieno di zanne e artigli.
Forse quel cucciolo cercava semplicemente qualcuno disposto a nutrirlo.
Forse si era perso...un po’ come lui. E anche come suo zio. Suo zio Yar’lath era un grande leader, ma non riusciva ad uscire conflitto che lo attanagliava. Aveva amato molto Aib’hilin, e continuava a volerle bene. In silenzio. Nonostante tutto. Il giovane Yautja chiuse gli occhi, per allonatanare quei pensieri. Tornò a concentrarsi sul compagno dalle zampette pelose. Chissà se restava ancora della carne secca da offrirgli? Frugò in una sacca, anche questa appesa alla cintura. Ne estrasse alcuni pezzi di cibo, e li porse all’animale. Il cucciolo diede una breve annusata e poi divorò tutto quanto. Divertito, Yn’gve ripetè un’altra volta l’operazione.
Concluso il pasto, la palla di pelo grigia si avvicinò al viso dello Yautja, leccandolo ripetutamente. Poi, come se niente fosse, gli si addomentò sul petto.
Con una delicatezza atipica per la sua specie, il giovane guerriero prese ad accarezzare l’animaletto. Decise che se ne sarebbe preso cura.

Yar’lath si spostava svelto, seguendo le coordinate suggeritegli dal segnale. Il bio-elmo ritrasmetteva tutto, come una sorta di navigatore. Volendo sondare meglio il territorio, c’erano anche gli ologrammi del bracciale.
Desiderava ritrovare Yn’gve al più presto possibile. Perchè, da quando aveva lasciato l’insediamento degli uomini, si sentiva strano. Faticava a concentrarsi, e poi c’era quel peso...difficile descriverlo...come una leggera pressione, distribuita tra lo stomaco e il petto.
Non avrebbe mai dovuto togliersi la maschera: nel breve intervallo di tempo, trascorso a cenare con la Kalei’Pyode’a, i polmoni gli si erano impregnati di chissà cosa...in fondo non conosceva le abitudini dell’umana. Ma era pronto a giurare che fossero deplorevoli...Lei, tutto sommato, aveva un buon odore. Quasi dolce, simile ad un’infiorescenza che cresceva nella foresta della Montagna Sacra.
Ma, nella stanza, aveva chiaramente avvertito anche dell’altro, come una pianta bruciata. Perchè dare fuoco alla vegetazione, dentro la propria dimora?

Niente, da quando aveva incontrato quella femmina, era andato come previsto...
Pensava di conoscere gli umani, di sapere esattamente cosa aspettarsi da loro.
Li teneva sempre a bada, senza il minimo sforzo. ...Con la Kalei’Pyode’a... impossibile fare previsioni...prima le scosse elettriche...poi un’ottima cena...
Nemmeno Aib’hilin aveva mai cucinato per lui. Lo considerava degradante, lasciando ogni volta il compito ai domestici. E nei pochi anni trascorsi assieme, aveva sempre insistito per fargli rimuovere chirurgicamente gli speroni delle mandibole inferiori...non le erano mai piaciuti, li odiava. Li considerava un tratto poco raffinato... Gli speroni ereditati dal bisnonno... Eppure, alla fine, lui aveva deciso di accontentarla. Se non fosse stato per l’incidente quasi mortale, le sue zanne esterne sarebbero state diverse adesso...
Yar’lath sospirò...Faceva ancora male, ricordare certe cose... Così assorto nei suoi pensieri, procedette in salita, lungo un pendio. Il terreno era umido e scivoloso, ma non gli diede particolari problemi.
Giunto circa a metà del dislivello, il segnale di Yn’gve divenne più forte. Ormai non poteva mancare molto.

Lara passò l’intera mattinata a sistemare lo chalet. Finì verso l’ora di pranzo. Senza ricevere visite. Questo le suggeriva una cosa importante: l’uomo che la notte prima l’aveva aggredita in casa, con tutta probabilità non aveva complici. Stupendo. Ottimo.
Allora perchè non riusciva ad esultare? Perchè, conoscere il destino dell’altro visitatore, le sembrava più urgente? Chissà dove si trovava adesso: da qualche parte nel bosco, oppure su un’astronave, diretto al suo pianeta?
La ragazza entrò nuovamente nel soggiorno. Era quasi immacolato.
Guardò il divano: davvero un essere così enorme (2.20 m ?) poteva aver dormito su una superficie del genere?
Ripensando a quando l’aveva afferrata per la spalla, l’antropologa si portò istintivamente la mano alla clavicola: ancora le faceva male, e, di lì a poco, sarebbe comparso il livido. Poi, la sua memoria andò, senza volere, all’istante nel bosco in cui gli era salita a cavalcioni....
Una sorta di piccola scossa le attanagliò lo stomaco. Restò ferma ad immaginare l’esatto contrario...restare bloccata sotto di lui, avviluppata in quegli enormi fasci di muscoli pulsanti. Tuffare una mano tra le appendici grigiastre, e usare l’altra per giocare con i due speroni...
“Buon Dio, ma che accidenti mi prende?!” esclamò Lara, trasalendo.
Basta. Doveva tornare alla cara vecchia realtà. Al signor Collins e le sue assurde richieste. Alla cittadina ad un’ora da lì: con la scusa di fare provviste, avrebbe cercato di capire se la scomparsa del maniaco era già stata notata.
Detto, fatto.
Infilò il giubbotto e le scarpe e si mise alla guida della jeep. Mentre imboccava la strada tutta curve, che conduceva al centro abitato, la ragazza crercò di elaborare uno straccio di piano. Bisognava restare concentrati, e raccogliere qualsiasi indizio, senza farsi notare ulteriormente. In fondo era la straniera, la turista dello chalet: tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lei.
Giunta al piccolo supermercato di Rocky Ridge (ecco come si chiamava la città!), parcheggiò l’auto ed entrò nell’esercizio. I pochi clienti, tutte signore sulla mezza età, parlavano del più e del meno.
Nessuno menzionò un certo uomo scomparso. Porre domande esplicite sarebbe stato troppo rischioso. Decise allora di sondare l’unica tavola calda del posto.
Era un locale piuttosto spartano ma accogliente: un bancone (dietro cui si intravedeva la cucina), i tavoli, le grandi finestre che davano sulla strada...
Lara ordinò un caffè e tese l’orecchio. Niente di particolare: il tempo, la zona industriale situata più a valle, qualche partita di football...
Stesso risultato in un piccolo negozio di articoli sportivi; per non deludere il commesso speranzoso, acquistò una canna da pesca. “Shopping compulsivo, David sarebbe fiero di me” pensò la ragazza, mentre, con il palmo della mano, cercava di sopprimere una risata.
Tornata alla jeep, accese il motore e partì alla volta dello chalet. “Bene” si disse “Almeno per adesso non ci sono novità...”

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Capitolo 14
*** Aiutami ancora (parte 1) ***


Era ormai il primo pomeriggio, quando Yn’gve, dopo aver perso i sensi un’altra volta, aprì gli occhi. Il cucciolo grigio aveva cambiato posizione: adesso dormiva beatamente accanto a lui. Il giovane guerriero soffriva per le ferite e la sete.
Improvvisamente avvertì di nuovo quell’odore. L’odore delle creature con le zanne, uccise da lui il primo giorno. Il cucciolo si svegliò di colpo, emettendo il suo strano verso, simile ad un lamento. Poi, si nascose sotto un cespuglio lì accanto.
Stavano arrivando.
“Ci siamo” pensò Yn’gve “È la fine. Che il potente Cetanu venga a prendermi subito!” Aveva paura: sapeva che quelle bestie intendevano sbranarlo.
Girò piano la testa e li vide, distanti pochi metri: due, piuttosto grossi. E loro videro lui. Un istante dopo scattarono, ringhiando. Improvvisamente, dalle cime degli alberi, proruppero due esplosioni ravvicinate. Tutto quello che il giovane Yautja vede poi, in una frazione di secondo, furono dei brevi lampi e le teste degli animali esplodere.
Mentre stava ancora cercando di metabolizzare l’accaduto, suo zio era già in piedi accanto a lui. Yn’gve rimase immobile, senza osare alzare lo sguardo.
In silenzio, aspettava di conoscere il suo nuovo destino.

C’era solo l’imbarazzo della scelta: insubordibazione, mancanza di rispetto, disonore sull’intera famiglia...Yar’lath non sapeva da che parte cominciare.
E adesso? Tecnicamente, poteva considerare suo nipote un ic’jit (bad blood).
La rabbia iniziò a crescere.
Nel nome di Paya, perchè!? Perchè, i giovani dovevano essere così stupidi? Perchè tutti quanti loro, su quello stramaledetto pianeta, sfidavano di continuo la sua pazienza?
Osservò attentamente il nipote: sembrava messo davvero male. Le ferite rischiavano di provocare un’infezione. In più non camminava, anzi, nemmeno stava in piedi. Avrebbe dovuto caricarselo in spalla. Fino all’astronave.
Impossibile arrivarci prima del buio. E se fosse piovuto di nuovo? Un’altra notte fuori e Yn’gve sarebbe morto: necessitava di cure, cibo e riposo....
Dove andare? Suo malgrado, lui conosceva solo un posto... Kalei’Pyode’a...Come avrebbe reagito stavolta, alla vista di DUE Yautja? Urlando? Scappando dai suoi simili, a chiedere aiuto? Assalendoli con qualche arma?
Da lei, si aspettava una reazione: era piena di spirito... Nel pensare questo, la pressione dentro al petto tornò ad opprimerlo. Gli sembrò anche di percepire l’odore di fiori emanato dalla pelle dall’umana.
Un fruscìo dal cespuglio accanto a loro, fece trasalire Yar’lath. Il piccolo animale grigio sbucò fuori dal nascondiglio, andando ad accoccolarsi vicino a Yn’gve. Istinivamente, il leader del Clan estrasse le dah’kte (wristblades), deciso a trafiggere la bestiola. “H’ko!! “(No) Lo supplicò il nipote, con le ultime forze “È mio amico!!”
“Yn’gve!! Ki’cte!!!” (I have enough) urlò Yar’lath, ormai al limite della sopportazione.
Furente, ritrasse le lame e diede le spalle al giovane “discepolo”, per alcuni minuti.
Sbollita la rabbia, caricò il giovane sulla schiena. Il cucciolo grigio, ottenne invece un passaggio sull’enorme mano di Yar’lath.
Lo Yautja più anziano camminò diverse ore, cercando di non pensare alla fatica. Suo nipote, con l’armatura addosso, non era affatto leggero.
Fortunatamente non incontrarono alcun animale.
Quando il sole iniziò a tramontare, giunsero alla radura dove stava lo chalet.
“Appena in tempo” pensò Yar’lath. Non ne poteva più.
Adesso però doveva capire come entrare nell’insediamento. Era tentato dal dare un taglio alla faccenda, usando il plasma caster. Un colpo secco per aprire un varco nella recizione. Un secondo tiro e avrebbe distrutto anche la porta della casa. E tanto peggio per la Kalei’Pyode’a. Ornai lui aveva esaurito la scorta di pazienza...
Avanzò lentante verso lo chalet. Giunto a pochi metri da esso, adagiò Yn’gve e il cucciolo a terra. Quindi usò lo scanner del bio-elmo per prendere la mira. Il piccolo cannone posizionato sulla spalla, si orientò automaticamente nella direzione prescelta. Stava per sparare, quando Lara uscì sul balcone a fumare dell’erba.
Non appena Yar’lath la vide, tutti i buoni propositi di conquista svanirono; l’unica cosa che gli rimase, più forte di prima, fu quella misteriosa pressione tra lo stomaco e il petto.
Tempo dopo, avrebbe imparato a darle un nome...
Il leader del Clan si limitò a fissare la ragazza, aspettando di essere riconosciuto.

Inizialmente Lara non si accorse degli alieni; era assorta nei suoi innumerevoli pensieri, primo fra tutti l’omicidio. Poi il fatto di dover restare sola, dopo quanto accaduto. Forse avrebbe fatto meglio a tornare a New York...sì...
Abbassò distrattamente lo sguardo in direzione del giardino. E allora lo vide.
Alto, muscoloso e arrogante, come al solito.
E la stava guardando, impassibile.
L’antropologa sentì crescere la paura dentro di sè, di nuovo, proprio come al loro primo incontro...
Quell’essere ci aveva ripensato, non desiderava testimoni in giro.
“Che razza di idiota sono stata” pensò “ Come ho potuto...pensare che...Dio, per un attimo mi è perfino mancato...stupida idiota!”
Non sapeva cosa fare. O meglio: il suo ex inqulino sarebbe entrato comunque. Toccava a lei decidere in che modo, se in maniera “pacifica” oppure no.
Che situazione!
Ma nemmeno ricorrendo a tutte le armi del signor Collins, esistevano delle possibilità di successo. Suo malgrado, doveva collaborare un’altra volta, almeno per il momento.
Usando i gesti, gli disse “Aspetta”
Poi, si affrettò ad aprire il garage e il cancello esterno.

Guardandola correre verso di se, Yar’lath ebbe un sussulto: la strana pressione dentro di lui, iniziò a trasformarsi lentamente in una sorta di leggero crampo...Tempo un secondo ed eccola lì; tra loro due solo un ridicolo sbarramento, di un qualche materiale duro.
Un’improvvisa folata di vento, gli portò l’odore simile ai fiori della Montagna Sacra. L’odore della Kalei’Pyode’a. Il crampo nel petto divenne più forte.
“Pauk” Pensò. Quali che fossero le deprecabili abitudini della Kalei’Pyode’a, avevano senza dubbio ricominciato ad intossicarlo.
Doveva resistere. E portare dentro Yn’gve.
Non appena Lara spalancò il cancello, Yar’lath sollevò il nipote tra le braccia e si affrettò ad entrare nell’abitazione. Per un istante, sfiorò con il possente braccio la ragazza: un leggero brivido gli corse lungo tutta la schiena.
L’antropologa, dal canto suo, rimase immobile, a dir poco basita. “Due...” sussurrò angosciata, con un filo di voce “Ce ne sono due di quei cosi...”
Un debole lamento attirò la sua attenzione. Ai suoi piedi, il cucciolo dalla folta peluria grigia le stava scodinzolando...
“Mi correggo...due cosi intergalattici e un lupo...”
Tra rettili e canidi, più che uno chalet ormai sembrava uno zoo. E poi di nuovo quell’odore muschiato nell’aria...non le dispiaceva, anzi! Però che diamine...
Sospirando, prese in braccio il cucciolo; quindi, una volta richiusi cancello e garage, raggiunse gli alieni.
La scena che le si parò davanti nel soggiorno era a dir poco surreale.
L’essere più alto, quello che lei conosceva, stava lentamente rimuovendo l’armatura al compagno (più basso e meno muscoloso) sdraiato sul divano.
Oltre alle differenze nella struttura fisica, Lara notò anche il diverso colore delle appendici; quelle del nuovo inquilino erano di un bel nero intenso.
“Uno vecchio e uno giovane” pensò la ragazza. Ma tutto sommato, nonostante l’età avanzata, il suo “amico” si conservava bene...
Un profondo ruggito la fece tornare alla realtà: l’alieno sul divano pareva soffrire molto. Era sporco e presentava lacerazioni (alcune gravi), sparse un po’ su tutto il corpo. Nel rimuovere l’armatura, alcune di esse si riapirono, lasciando sgorgare del liquido verde fosforescente.
“Deve essere il loro sangue...” concluse Lara, tra sè e sè. Le faceva pena. Andava lavato e medicato.
Tempo addietro, su insistenza di David, avevano frequentato il corso necessario per diventare paramedici e fare del volontariato negli ospedali.
E benchè non conoscesse nulla riguardo la biologia di quegli alieni, le molte ore trascorse ad aiutare altri esseri umani le diedero il coraggio di tentare...
Lentamente, si avvicinò al guerriero ferito, protendendo una mano.
Yar’lath se ne accorse subito. Per farla desistere, si tolse la maschera e le ringhiò contro, aprendo le braccia e spalancando le mandibole esterne. Un messaggio chiaro: non avvicinarti. Ma Lara non intendeva mollare: dapprima alzò entrambe le mani, in segno di resa.
Con voce calma, aggiunse “Lavare ferite”, accompagnando la frase con i segni appropriati. Poi, dopo aver fatto cenno a Yar’lath di seguirla, ripetè ancora:
“Lavare ferite”, indicando il piano superiore.
Lo Yautja, sorpreso dalla reazione della giovane, abbandonò la postura di minaccia. La guardò esitante, per qualche secondo. Infine, prese in braccio il nipote e le indicò di fargli strada.

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Capitolo 15
*** Aiutami ancora (parte 2) ***


Le delicate (e dolorose) operazioni di primo soccorso, si svolsero nella sala con bar e idromassaggio. Amante del lusso sfrenato, il signor Collins aveva acquistato una vasca (o, per meglio dire, minipiscina) dalle dimensioni ragguardevoli (quasi 2m x2). Lara, neanche voleva immaginare a cosa servisse tanto spazio; almeno peró, riusciva a contenere il ferito.
La ragazza aprì l’acqua sotto lo sguardo duro di Yar’lath.
Evitò di tappare la vasca, in modo da ottenere un delicato flusso continuo.
Poi cedette il posto agli alieni.
Il leader del Clan adagiò il nipote, e ordinò a Lara di cooperare. Ci volle diverso tempo: alla fine, Yn’gve venne messo a riposare in una delle camere da letto.
L’antropologa provò a medicarlo con un gel apposito, da applicare sulle ferite al posto dei cerotti, ma non ottenne il permesso.
Piuttosto, Yar’lath le comandò di preparare la cena. Per la prima volta da quando si erano incontrati, Lara avvertì non più paura, ma risentimento. Ancora non si fidava di lei. La reputava un’incapace da relegare ai fornelli...Mentre scendeva le scale, credendo di non essere udita, sussurrò tra i denti: “Come desideri, dannato vecchiaccio”.

Le oltraggiose parole dell’umana, giunsero nitide al sensibile orecchio di Yar’lath.
Insultare gli dei, gli anziani e il leader era inconcepibile per gli Yautja. Ma quelle parole, uscivano addirittura fuori da un’insignificante Kalei’Pyode’a.
Il guerriero iniziò a tremare, mentre la respirazione divenne più affannosa. La rabbia lo travolse, inondando ogni fibra del suo essere.
Non capiva, quella miserabile femmina, che se ancora era viva, lo doveva alla pietà che lui le aveva riservato?
D’un tratto, la vista gli si annebbiò; la muscolatura divenne tesa, mentre con un gesto fluido della mano estrasse le lame.
E poi la realtà scomparve, in una sorta di amnesia temporanea. Riuscì a percepire solo un tremendo tonfo, simile a qualcosa che sbatte a terra.
Trascorsi alcuni minuti, lentamente tornò in sè. I respiri divennero più regolari e i muscoli si rilassarono...Alla rabbia di poco prima, subentrò la paura: che cosa aveva fatto? Accecato dall’ira, aveva forse ucciso la sua Kalei’Pyode’a?
Guardando in giro non vide nessuno; si trovava ancora al piano superiore, vicino alle scale. Il pugno chiuso, le lame conficcate in una parete.
Ormai del tutto rinsavito, capì una cosa importante: per nessuna ragione al mondo, avrebbe mai fatto del male all’umana.

Dalla cucina, Lara udì il frastuono infernale. Simile ad un terremoto.
“Che diavolo avrà distrutto adesso?” Pensò, ormai esasperata “Di questo passo, domani non esisterà più alcuno chalet!”
Ma era inutile ragionare con simili creature.
Tornando a marinare la carne, si interrogò meglio circa la loro natura. Erano violenti e brutali. A giudicare dalle armature e da tutto il testo, sembravano dediti alla guerra o alla caccia. Verso qualunque forna di vita.
Da quanto tempo, una specie così letale imperversava sulla Terra?
Erano presenti, quando gli eserciti degli uomini avevano combattuto le due Guerre Mondiali? Oppure, tornando indietro nei secoli, qualcuno di loro aveva forse assistito all’assedio di Costantinopoli, del lontano 1453?
O a quando Alessandro Magno assoggettava i popoli, costruendo il suo vasto impero? Lei sospettava di si...
E come i contadini, un tempo, calavano le falci sul grano maturo, così quegli esseri mietevano i loro macabri trofei, aggirandosi non visti, tra gli innumerevoli conflitti del pianeta. Suo malgrado però, l’antropologa non provava avversione per i due viaggiatori: conoscevano i segreti delle stelle, mentre lei si sarebbe arrabattata con problemi di minore inportanza, per il resto della vita...

Terminato di cucinare la carne, Lara portò da mangiare e da bere gli alieni; finse di non notare i nuovi, grossi buchi nel muro. Non capiva nulla di edilizia: si augurò semplicemente che la casa non venisse giù durante la notte.
Yar’lath prese il vassoio con la cena e le bevande, senza proferire verbo.
Era ancora molto arrabbiato con lei, ma, al contempo, avvertiva sempre quel leggero crampo tra lo stomaco e il petto.
Si ritirò nella camera, lasciando la porta socchiusa.
La ragazza tornò al piano di sotto: sarebbe rimasta a dormire nel soggiorno, lontano da quei cacciatori.
Sdraiata sul divano, sprofondò quasi subito in un sonno ristoratore.

Yar’lath cedette al nipote anche la propria razione di cibo, aiutandolo a nutrirsi. Il giovane Yautja divorò tutto quanto e bevve l’acqua di entrambi.
“Ha fame. Buon segno.” Pensò il leader del Clan, sollevato. Ma del resto, la Kalei’Pyode’a era un’ottima cuoca, impossibile rifiutare quello che preparava...
Il vecchio guerriero osservò la stanza: per fortuna era grande. Le loro cose se ne stavano ammassate in un angolo. Quanto a loro due, indossavano solo una sorta di mutande, in un materiale leggero, simile al cotone. I gonnelli in pelle, invece, vennero buttati alla rinfusa sul pavimento.
Fuori pioveva di nuovo: sì, quel rifugio aveva decisamente salvato la vita a Yn’gve.
Ma suo nipote non era ancora fuori pericolo. Bisognava somministrargli una medicina Yautja, in grado di prevenire le infezioni e accelerare la guarigione.
Purtroppo, la dose da iniettare si trovava nel kit medico, rimasto sulla navicella.
Quindi, l’indomani, al sorgere del sole, sarebbe dovuto partire, lasciando il figlio di sua sorella nelle mani della Kalei’Pyode’a... Una mossa rischiosa, ma alla fin fine non c’erano altre opzioni. Stanco, Yar’lath usufruì dell’inalatore: non aveva nessuna voglia di passare la notte indossando la maschera. Poi, si sdraiò con cautela accanto al nipote: il letto era comodo, e sembrava reggere il peso di entrambi.
Allora chiuse gli occhi, e placidamente si addormentò.
Il giorno dopo, i raggi del sole gli illuminarono il volto, svegliandolo.
Yn’gve riposava ancora: meglio lasciarlo in pace.
In silenzio, indossò l’equipaggiamento e scese al piano di sotto, dove trovò Lara, intenta a bere del caffè; non sapendo bene cosa fare, provò a parlarle.
“Gkaun-yte, N’-ithya sain’ja!” (Hallo, Earth warrior)
Ma tutto ciò che l’antropologa udì, fu una serie indistinta di “Click”.
“Dio mio, che vorrà adesso?” Pensò, voltandosi verso l’alieno.
Era là, in piedi, sulla porta del soggiorno. Alto, maestoso, con quell’enorme cicatrice su un fianco.
E anche Lara avvertì, per la prima volta, un crampo allo stomaco. Una contrazione di cui conosceva fin troppo bene la causa. Lui, quel viaggiatore così misterioso e letale, iniziava a piacerle davvero...
No, impossibile...lo stress le giocava brutti scherzi... La ragazza salutò lo Yautja, usando il segno per “Ciao”. Prima di rendersene conto, tuttavia, le mani avevano aggiunto “Come stai?”
Entrambi rimasero in silenzio.
Il primo a rinsavire da quell’assurdo incantesimo fu Yar’lath. Lottando contro l’odore intossicante di Lara, le comunicò a gesti le istruzioni per la giornata. “ Io vado. Torno sera. Tu resti qui, aiuti”
Infine, dopo che la ragazza ebbe aperto il garage e il cancello, lo Yautja sparì nel bosco.

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Capitolo 16
*** Una scoperta di morte ***


Corse come non mai attraverso gli alberi. Un po’ per Yn’gve, un po’ per liberarsi dell’odore simile ai fiori, che alla lunga gli dava gli stessi effetti del c’ntlip (type of alcoholic drink). Che, poco prima, aveva acceso il suo desiderio.
La bruciante passione, il fuoco nelle vene: sensazioni provate da giovane, giacendo assieme ad Aib’hilin.
Perchè adesso tornava tutto fuori? Il veleno saturava l’aria del Pianeta Blu. E, naturalmente, la Kalei’Pyode’a, vivendo lì, ne era intrisa.
Per un singolo istante aveva bramato di starle sopra, muovendosi dolcemente in quel fragile corpo umano.
Resistere agli effluvi in cui lui e Yn’gve si trovavano immersi, richiedeva uno sforzo enorme. Bisognava andarsene. Partire. Non tornare più.

Rimasta nello chalet, Lara decise di controllare l’inqulino intergalattico.
Quando entrò nella stanza da letto, lo trovò sveglio. I loro sguardi si incrociarono.
“Come stai?” Gli chiese la ragazza, mediante i segni.
Ma in risposta ottenne i soliti versi “Click Click Click...”
Allora, provò a percorrere la strada dello stomaco: uscì dalla camera e tornò con acqua e biscotti. L’offerta risultò alquanto gradita.
Inaspettatamente, l’alieno le tese la mano: con il cuore in gola, Lara si sedette accanto a lui e gliela strinse delicatamente.
Retarono così, in silenzio, per alcuni istanti.
L’antropologa provò ad accarezzare l’enorme mano con il proprio pollice.
Quell’essere le faceva pena: sembrava davvero molto giovane, alto circa 1.95 cm. Se paragonato all’altro, pareva ancora in fase di crescita.
Era come se il signor Alloran l’avesse portata nei boschi, ancora adolescente, ad affrontare orsi, lupi e quant’altro. Che crudeltà.
Il vecchio alieno scorbutico, doveva avergli applicato un gel denso e bluastro sulle ferite più gravi; adesso apparivano rimarginate, sotto una spessa pellicola scura.
Yn’gve rispose alle carezze, emettendo dei versi simili a deboli fusa: stava iniziando a rilassarsi. La femmina umana gli piaceva. Era di natura gentile. E anche lui.
Decisamente, sperava in una vita diversa da quella di suo zio e suo padre.
Lara lasciò quella mano, simile alla zampa di un rettile, e prese ad accarezzargli la fronte. La fusa aumentarono di intensità. Yn’gve chiuse gli occhi, allargando placidamente le mandibole inferiori (più piccole e sottili rispetto a Yar’lath). Incoraggiata, la ragazza immerse le dita tra i lunghi dreads neri; seguì una serie di effusoni, alternate a giocose grattatine.
Tentava di consolarlo, come faceva sempre con i suoi nipoti, quando correvano da lei piangendo per svariati motivi. Passò dolcemente i pollici su tutte e 4 le mandibole, su e giù, un paio di volte.
Yn’gve accettò ogni singola carezza, pregando Paya affinchè l’umana gentile non smettesse.
D’un tratto, Lara pensò: “Forse gli piacerebbero dei frutti di bosco. Fragoline, lamponi...” Capiva da sola che, con quel carattere, se avesse insistito a cacciare, non sarebbe durato a lungo. Le dispiaceva per lui.
Smise per un attimo con le attenzioni, e provò a mimargli un paio volte l’intenzione di uscire a trovare cibo.
Yn’gve comprese la richiesta della ragazza. E, sebbene a malincuore, la lasciò andare. Solo gli dispiaceva da morire, non poter essere lì con lei.
Un’ora dopo Lara camminava nel bosco.
Con sè aveva un cestino quasi pieno di vari piccoli frutti.
Ripensando a Yar’lath, disse a voce alta “Questa sì che è una caccia, altro che i suoi trofei del ca**o...hahahahahahahahaha..” e, ridendo, si accasciò accanto ad un ceppo.
Che fare? Meglio rincasare, o proseguire? Le piaceva passeggiare: grazie ad una bussola, agli opportuni segni lasciati lungo il percorso e il suo ottimo senso dell’orientamento, sapeva perfettamente come tornare allo chalet.
Oltre ad uno zainetto (con dentro l’essenziale), per difendersi aveva il fucile del signor Collins, più una specie di lancia retrattile (su insistenza del suo nuovo amico).
Decise di procedere ancora una mezz’oretta: in fin dei conti il lupo avrebbe garantito strenua sorveglianza e adeguata compagnia.
*Risate sconnesse*
E fu poco dopo che notò quel vago odore...Lo aveva già sentito, dolciastro e rivoltante. L’odore della morte.
Allarmata, ne rintracciò la fonte; credeva di imbattersi nella carcassa di qualche animale, ma ciò che vide le gelò il sangue nelle vene. Resti umani, quasi scheletrificati: una mano e circa metà avambraccio.
“Dove sarà il resto del corpo?” si chiese, tremando “Che sia stato un animale? O...” Allora ricordò il suo aggressore, lo strano uomo il cui giaccone puzzava di...marcio...di...cadavere?
“Dio no!” esclamò angosciata “Non può...” C’era forse un collegamento? Cosa succedeva in quei boschi? Doveva provare a scoprirlo.
Una spedizione del genere avrebbe richiesto l’intera giornata; perciò si sarebbe mossa l’indomani, prima dell’alba.
Poco importava come l’avrebbero presa le due lucertole.
Nel bosco regnava un silezio innaturale: non un animale, non un alito di vento.
L’antropologa, ancora tremante, avvolse i resti in alcuni fazzoletti.
Quindi, li mise nello zaino e tornò in fretta allo chalet.

Yar’lath rientrò nel tardo pomeriggio. Aveva approfittato della sosta all’astronave per lavarsi, ecc...
Una volta giunto nella camera di Yn’gve, finse di non notare il cestino vuoto e i pezzettini, di quelli che sembravano piccoli frutti, tra i denti del nipote.
Finse di non percepire l’odore della Kalei’Pyode’a sulla faccia e i dreads del giovane parente; e di non vedere il ki’cti’pa (combistick) abbandonato per terra, anzichè appoggiato al muro, dove lo aveva lasciato.
Capì subito cosa era successo in sua assenza; ma adesso doveva curare Yn’gve.
E non sarebbe stato piacevole.
Meglio farlo in fretta.
Tirò fuori dal kit medico una sorta di cilindro nero, stretto e con due pulsanti.
Si avvicinò al nipote, che lo guardava con la paura negli occhi.
“Coraggio” gli disse.
Quindi, appoggiò il cilindro sulla pancia di Yn’gve; poi premette in sequenza i due pulsanti: il primo rilasciò un ago e il secondo la medicina. Il giovane Yautja ruggì dal dolore, contraendo i muscoli e inarcando la schiena.
Finita la somministrazione, Yar’lath rimise il cilindro, ormai vuoto, nel kit medico.
Il nipote avrebbe sofferto ancora molto, per almeno un giorno. Ma le ferite si sarebbero rimarginate in brevissimo tempo, consentendo loro di partire.

Dubh’gh-las incontrò Me’i-kal, un importante guerriero figlio di uno dei membri del Consiglio. Era uno Yautja ancora giovane, ma possedeva già svariati prestigiosi trofei. E non condivideva la linea scelta da Yar’lath per guidare il Clan.
Lo considerava troppo tollerante, troppo empatico.
La violenza rappresentava l’unica vera strategia possibile. Per questo intendeva aiutare Dubh’gh-las ad uccidere Yar’lath e gli altri due fratelli, Dym’fna e Seag’h-dhe.
Soli, sulle rive del lago ai piedi della Montagna Sacra, misero a punto i dettagli del loro piano.
“Allora quando?” Chiese Me’i-kal
“Dopo la stagione degli accoppiamenti...”rispose l’altro
“Dunque alla Grande Caccia...in quanti siamo?”
“Noi e i parenti di altri tre membri del Consiglio. Circa una ventina in totale.
Poi c’è il gruppo degli ic’jit (bad blood), che abbiamo assoldato. Saranno già la quando arriveremo. Altri venti...”
“Funzionerà? Se ne sopravvive anche uno solo di quei tre, siamo tutti morti”
“Funzionerà...tu fai la tua parte” disse Dubh’gh-las...non vedeva l’ora di togliere la vita ai suoi cugini, specialmente a Yar’lath.

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Capitolo 17
*** Faccia a faccia con l’orrore ***


Durante la notte, Lara non chiuse occhio. La attendeva un’indagine rischiosa. Ma se c’era un assassino (o degli assassini) da quelle parti, bisognava fermarlo.
Aveva nascosto i resti del giorno prima nel garage, sperando che i due alieni non curiosassero in giro.
“Come reagirà quando domani mattina non mi vedrà?” si chiese la ragazza; i suoi pensieri erano rivolti al guerriero più anziano. “E se non dovessi tornare più...?”
Ogni istante in cui pensava a lui, il crampo allo stomaco aumentava. Come mai non provava repulsione...orrore, al solo pensiero di quelle fattezze da rettile (per non menzionare le zanne)?
Un chiarore rossastro nel cielo interruppe i suoi pensieri...Era quasi l’alba. Tempo di partire...Munita di una torcia, quasi correndo, si diresse verso il luogo dove aveva rinvenuto la mano e l’avambraccio. Stavolta con sè aveva solo il fucile, lo zaino e una bomboletta spray di colore bianco, trovata nel garage.
Avrebbe lasciato un piccolo segno sugli alberi, ogni 50 metri circa, in modo da non perdere la via.
Circa un’ora dopo, anche Yar’lath si svegliò. Yn’gve dormiva profondamente: le ferite stavano già guarendo (anche se gli sarebbero rimaste delle cicatrici).
Dopo aver indossato il gonnellino in pelle, scese le scale. Desiderava parlare con la Kalei’Pyode’a, senza un motivo particolare.
Magari sentire di nuovo il suo odore di fiori.
Bastava saper controllare gli effetti secondari di quel profumo.
Restava pur sempre una sostanza tossica.
Una volta nel salotto, lo trovò deserto. Non gli ci volle molto per rendersi conto della situazione. Un ruggito carico di risentimento echeggiò attraverso lo chalet, svegliando Yn’gve e il piccolo lupo, accanto a lui.
La rabbia, mista alla sofferenza per il tradimento ricevuto, offuscò tutti i sensi di Yar’lath. Respirava a fatica: come se avesse avuto tutte le lame del Clan conficcate nel petto. Tornato nella camera, indossò l’equipaggiamento (sotto lo sguardo terrorizzato del nipote) e partì.
“Mo’ke Ellos’de Pa’ya-te Kch-k’cha’ku M-di’s’ke’i!!” (you are nothing but a trophy that is yet to be cleaned) ruggì furente, entrando nel bosco.
Basta. Basta con gli umani. Nessuno di loro meritava di vivere. “Dove sarà andata?” Si chiese, scannerizzando gli alberi, con il bio-elmo.
Fu allora che vide i segni lasciati da Lara con la vernice.
Come una scia, che indicava il cammino.
“Vuoi che ti segua, dannata Kalei’Pyode’a? Pensi di attirarmi dove stanno aspettando i tuoi simili?” ringhiò Yar’lath.
Bene, sarebbe stata una caccia interessante...L’ultima, per quella femmina.

Giunta al luogo del macabro ritrovamento, Lara si guardò attorno, disgustata. La terra emanava ancora un tanfo putrido. “E adesso dove cavolo vado?” meditò. L’unica era procedere a casaccio, per qualche ora. Poi sarebbe tornata indietro. Dal suo enorme alieno. Le mancava. Lui e il suo pessimo carattere.
Avvertì l’ennesimo crampo.
Sospirando, riprese la marcia. Cercando ogni sorta di indizio tra alberi, terra e rocce. Un possibile sentiero, residui organici, qualunque cosa.
E fu così che, mentre risaliva un terreno particolarmente scosceso, in mezzo a muschi, radici e ceppi umidi, il vento le portò di nuovo l’odore. Inconfondibile.
Di morte.
Cercando di respirare solo con la bocca, avanzò, fino a guadagnare la cima. Da lì, scorse in lontananza quella che sembrava una piccola cascina.
Il cuore le martellava nel petto: qualunque cosa avesse trovato, l’avrebbe affrontata da sola.
Iniziò la discesa, lungo un sentiero che portava alla costruzione. La puzza cresceva via via di intensità; una volta raggiunta la piccola baita fatiscente, l’aria era fetida.
Per attenuare l’odore, si tolse la bandana che usava per coprire i capelli, e la annodò sul volto, lasciando scoperti solo gli occhi. Imbracciando il fucile, Lara entrò. E vide l’inferno.
Un uomo (o quello che ne rimaneva) giaceva a terra, su un pavimento lurido, dove qualcuno aveva rovesciato piatti, posate, bicchieri e cibo (ormai avariato).
Il tavolo e i pochi altri mobili erano danneggiati. Ragnatele e insetti morti ovunque.
Il cadavere versava in uno stato tremendo: l’antropologa ne sapeva abbastanza di montagna per riconoscere in quello scempio l’attacco di un grosso animale. Probabilmente un orso affamato.
La stanza era piena di sangue.
Terrorizzata, in procinto di vomitare, la ragazza proseguì con l’esplorazione...
Un bagno, una cucinetta, le stanze da letto: a dir poco rivoltanti. E poi l’ultimo stanzino, chiuso a chiave.
Lara sparò alla serratura della porta in legno, e si trovò di fronte ad una specie di tavolo da lavoro. Completamente sporco di sangue rancido.
Sopra, alcuni resti: una testa e una zampa di cinghiale. Per terra, lì accanto, degli attrezzi: una sega, una mannaia, un seghetto. Tutti indubbiamente utilizzati.
“Un cacciatore?” Si chiese Lara.
Vicino al tavolo, scorse un bidone abbastanza capiente. Dentro, altri pezzi di animali, e un’altra cosa, che fece urlare la ragazza: ovvero, parte di un torso umano.
Doveva fuggire da lì, e chiamare la polizia. Al più presto.
Iniziò a mancarle l’aria, la stanza le girava. Quell’odore, i morti...era troppo.
Cercando di raggiungere l’uscita, inciampò in una cassetta degli attrezzi; l’atterraggio fu brusco, tanto che Lara si ferì la testa. Riuscì a rialzarsi, ma era confusa, e dimenticò per terra il fucile. Barcollando, tornò in soggiorno: il cadavere, il fetore...e una foto vicino ad una finestra. Un’immagine che prima le era sfuggita...
Due uomini, fucili in spalla, posavano ridendo. Uno assomigliava alla vittima dell’orso. L’altro...Dio, l’altro era il pazzo che l’aveva aggredita!
Un’ipotesi orribile, agghiacciante, iniziò a farsi strada nella mente dell’antropologa; ipotesi confermata dal ritrovamento, dentro un mobile, di soldi, oggetti personali e documenti delle varie vittime. Diciotto persone...Aggredite in casa, nei boschi, per strada, ovunque capitasse. Gente uccisa, derubata e poi fatta sparire. Nel modo più aberrante.
Lei doveva essere la numero diciannove.
La vista di Lara iniziò ad offuscarsi. Non respirava.
Corse fuori e si accasciò sul prato, priva di forze.
In quel momento udì un ruggito. Alzò debolmente la testa: un enorme orso la stava puntando.
“Già...”pensò” Sarà tornato a completare il pasto!”
Inziò a piangere: non sarebbe mai riuscita a salvarsi. Stava per morire sbranata.
Si rannicchiò, tra le lacrime, in attesa del primo morso... Ma tutto ciò che udì, fu un ringhio del plantigrade, seguito da un’esplosione.
Tremante, Lara si voltò: la testa dell’orso era sparita. Una figura gigantesca iniziò allora a camminare verso di lei, una sagoma piuttosto familiare.
“Sei qui...” sussurrò la ragazza, prima di svenire.

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Capitolo 18
*** Dobbiamo andare ***


Yar’lath aveva seguito le tracce della Kalei’Pyode’a fino alla collina, dove si interrompevano. Una volta giunto in cima, lo scanner del bio-elmo aveva rilevato la presenza della capanna. Allora lo Yautja si era affrettato a raggiungela, con l’intento di cogliere la Kalei’Pyode’a e gli altri umani di sorpresa.
Ma alla vista di Lara, semisvenuta e in procinto di essere sbranata, tutta la rabbia era svanita di colpo. Lasciando spazio alla paura. La paura di perderla.
Yar’lath aveva sparato senza esitare, come una sorta di riflesso incondizionato.
E adesso se ne stava inginocchiato accanto alla ragazza. Il bio-elmo rilevava un leggero trauma alla testa. Il leader del Clan provò a scuoterla leggermente.
“Forza, umana!” Le disse, nella propria lingua. Non ottenne alcuna reazione.
Un senso di angoscia gli pervase l’anima: e se non fosse riuscito a svegliarla?
Ormai a corto di idee, si tolse la maschera. L’aria era putrida, sarura di un odore che lui conosceva...quello delle cose morte. Perchè la sua Kalei’Pyode’a avrebbe dovuto seguire una simile traccia? Poco importava, dovevano andarsene. Delicatamente, Yar’lath la sollevò con un braccio, stringendola a sè.
Le quattro mandibole esterne, presero poi ad accarezzarla, come se fosse la cosa più fragile e preziosa dell’universo.
Che cosa rappresentava esattamente quella creatura per lui? Avrebbe voluto tenerla così, vicina, per sempre.
D’un tratto, un flebile lamento attirò l’attenzione di Yar’lath... Era Lara, stava rinvenendo; la giovane, aprì gli occhi e vide lo Yautja...
“Sei arrivato” gli sussurrò. Poi, immerse la piccola mano tra i dreads grigi dell’alieno e cominciò a grattare dolcemente.
Il cuore di Yar’lath aumentò le pulsazioni. Rimase immobile, come pietrificato, mentre le soffici dita umane percorrevano un lato del suo volto, fermandosi alle mandibole.
“Perdonami...” disse la ragazza, facedo scivolare pollice e indice più volte su quelle strane zanne esterne, in particolare sullo sperone inferiore. Lo accarezzò ancora e ancora, aggiungendo, poco prima di svenire:
“Che forza, questo spuntone!..”
Il leader del Clan comprese ogni singola parola pronunciata da Lara.
Come in trance, la strinse ancora di più a sè, portando l’enorme mano verde scura rimasta libera, sopra la testa di lei, in un gesto di protezione.
“Chi sei davvero tu?” le chiese piano “Chi ti ha mandato da me?”
Il vento sollevò nuova aria fetida, facendolo trasalire.
Dovevano tornare indietro. Non c’era nulla per loro, lì. Solo morte.

Yar’lath camminò tentendo Lara tra le braccia, per quasi tutta la strada. Non voleva che si affaticasse, dopo quanto aveva passato.
Man mano che si allontanavano dal covo fatiscente, lo Yautja tornò a percepire sempre meglio l’odore di fiori emanato dalla ragazza.
Stava diventando una droga necessaria, per lui.
“È tutto sbagliato”pensò, sospirando. Ma non poteva impedirsi di provare qualcosa per quella Kalei’Pyode’a così testarda e chiassosa.
Con gli occhi verdi come le gemme del suo Clan.
Sperava davvero che non fosse amore, ma solo qualcosa dettata dall’ammirazione (per le doti da guerriera), e dalla riconoscenza. Per aver contribuito a salvare Yn’gve.
No, lui era il Leader. E questo comportava dei doveri e delle responsabilità. L’umana non poteva far parte della sua vita: sarebbe stato un grave insulto agli dei e un disonore per l’intera famiglia.

Raggiunto lo chalet, Lara si ritirò in una delle camere da letto e chiuse la porta.
Yar’lath la lasciò stare; preferiva che stesse lontana da lui, come all’inizio, quando si erano appena incontrati.
Piuttosto, riversò le attenzioni sul nipote. La medicina aveva fatto effetto. L’indomani, pur non completamente guarito, Yn’gve sarebbe stato in grado di tornare all’astronave.
Erano dunque giunti alla fine di quella spedizione disastrosa.
“Domani torniamo a casa. Partiremo presto.” disse Yar’lath al giovane parente.
“Lei... viene con noi?” s’informò Yn’gve, titubante
“Come potrebbe?! È un’umana...Basta con questi discorsi”
“È gentile, e profuma di...”
“Ki’cte! Non è una di noi! Non farmi pentire di averla risparmiata!”
Così terminò la conversazione. E poi, ore dopo, anche l’assurda giornata. Nel buio della camera tuttavia, Yn’gve non intendeva darla vinta allo zio.
“Tu le vuoi bene, vero?” Gli chiese ad un certo punto.
Dopo un po’, Yar’lath rispose:
“Il suo posto è qui. Tra i suoi simili”
“Non è quello che ti ho chiesto...”
“Yn’gve...”sospirò lo zio, esausto “Ki’cte...” (enough)

La mattina dopo, Lara si alzò presto. Desiderava ringraziare il suo ospite per averla salvata dall’orso.
Ma in casa non c’era nessuno. Degli alieni nemmeno l’ombra: avevano portato via ogni cosa, incluse le armi.
L’unico rimasto era il cucciolo di lupo, che ululava nel soggiorno. Stavolta non sarebbero tornati. Mai più. Lara lo sapeva.
Lentamente tornò nella camera che avevano occupato i due viaggiatori, e si sdraiò sul letto. C’era un forte odore muschiato, pungente, l’odore del suo guerriero.
Quel maschio così alto e forte, venuto da chissà dove a rivoltarle la vita. In pochi giorni.
L’antropologa avvertì un groppo alla gola, mentre gli occhi iniziarono a diventarle umidi. Strinse il lenzuolo in una mano e cominciò a piangere.
Desiderava vederlo un’ultima volta, anche se sapeva da sola che era pura follia.
Un alieno. Un’altra specie, completamente diversa dagli umani. Ognuno doveva restare nel proprio mondo.
E del resto, una volta tornato al suo pianeta, lui l’avrebbe dimenticata.

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Capitolo 19
*** EPILOGO ***


Sulla Terra = Lara avvertì la polizia, il signor Alloran e il vecchio Collins. Quest’ultimo, pieno di sensi di colpa, non disse nulla riguardo ai danni presenti nello chalet. Era talmente ricco, che i costi delle riparazioni per lui rappresentavano pochi spiccioli. Giunte alla baracca fatiscente, le forze dell’ordine fecero gli opportuni rilievi.
Parte dei resti delle vittime (e degli animali) venne rinvenuto in una specie di pozzo, costruito ad una trentina di metri dalla proprietà. Vennero identificate 18 persone, scomparse nel corso degli ultimi 4 anni.
Ma non si potè escludere che altra gente fosse stata uccisa, lasciando agli animali e agli elementi, il compito di far sparire i corpi. Questo perchè la mano e l’avambraccio rinvenuti da Lara, non trovarono riscontro con alcun DNA, tra quelli delle vittime rinvenute nel pozzo. O con i documenti nella cascina.
Si ipotizzò che il signor “John Doe” fosse morto da quasi un anno.
Lara chiese di poterne cercare l’identità, nel tempo libero. Il signor Alloran si dimostrò molto comprensivo, e acconsentì.
La ragazza tornò subito a New York, dove si ricongiunse con gli amici.
La spedizione in Messico la aiutò a superare l’accaduto, e a tornare alla normalità.
Ps. Lei e David adottarono il cucciolo di lupo.

Sul Pianeta Yautja = Una volta rientrati, Yn’gve venne subito portato nell’ospedale del Clan, per gli accertamenti. Trascorse la notte nell’avanzatissima struttura; il giorno dopo lo dimisero, e completò la degenza nel Palazzo.
Yar’lath dichiarò alla famiglia che il giovane si era comportato bene, uccidendo 4 animali (gli regalò il secondo orso)...
Nessuno fece domande aperte circa il ritorno anticipato o altro.
Ma qualcosa non quadrava.
Yar’lath, agli occhi di tutti, pareva cambiato. Era diventato più taciturno, e, pur occupandosi egregiamente degli affari del Clan, tendeva a passare il tempo nella sua ala del palazzo.
Dopo un po’, il Consigliere Huw divenne inquieto: la stagione degli accoppiamenti era praticamente dietro l’angolo, e il leader del Clan non aveva ancora degnato di uno sguardo la giovane Mòr...
“Cosa sarà successo sul Pianeta Blu?” cominciò a chiedersi, sospettoso.
Una sera, la sorella di Yar’lath, Dy’m-fna, prese coraggio e andò a trovare il fratello nei suoi appartamenti. Venne ricevuta nella sala principale (tipo un soggiorno).
“Che cos’hai, mei’hswei (brother)?” gli domandò
“Nulla...” rispose Yar’lath, stanco “Adesso vai, mei-jadhi (sister)...non dovresti essere qui”
Il quertiere del capo-Clan, di solito era precluso a tutti, salvo emergenze particolari.
Ma Dy-m’fna non intendeva lasciar perdere.
“Stai soffrendo, mei’hswei, dimmi perchè...C’entra forse il Pianeta Blu?”
“Ti pergo di andare, ora, mei-jadhi...stai tralasciando i tuoi doveri verso il Clan” disse Yar’lath, con un filo di voce.
Dy-m’fna obbedì, sospirando. Il fratello non avrebbe parlato.
Ma lei intuiva che c’era sotto qualcosa di grosso, qualcosa contro cui cercava disperatamente di combattere...di fatto, esisteva solo una forza capace di piegare anche gli animi più refrattari...
Suo fratello si stava forse innamorando di nuovo?
Ma di chi? Forse di Aib’hilin? O, peggio ancora, della giovane Mór?... Alla fine l’aveva notata?... Oppure, di qualche altra femmina...Poteva essere chiunque...nel nome di Paya, Yar’lath sapeva essere davvero testardo...
Richiudendo la porta, Dy-m’fna gli diede un’ultima occhiata. E capì che il cuore del suo amato mei’hswei, era ormai altrove.

Ps. Continua come nuova storia.

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