Quante nuvole ha il cielo?

di Frieda B
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una nuvola tra le nuvole ***
Capitolo 2: *** Sangue di mucca ***
Capitolo 3: *** Il programma della lavatrice ***
Capitolo 4: *** Questo e molto altro ***
Capitolo 5: *** Giardino del paradiso ***
Capitolo 6: *** Dammi un bacio ***
Capitolo 7: *** Palloncini a forma di cuore ***
Capitolo 8: *** La follia degli occhi verdi ***
Capitolo 9: *** Piastrine militari ***
Capitolo 10: *** Vecchie storie e nuove storie ***
Capitolo 11: *** Lamponi e banane ***
Capitolo 12: *** Dov'è casa mia? ***
Capitolo 13: *** Sopportazione reciproca ***
Capitolo 14: *** La giusta epoca ***
Capitolo 15: *** Insicurezze ***
Capitolo 16: *** L'arrivo dell'angelo ***
Capitolo 17: *** Temporali in arrivo ***
Capitolo 18: *** Apparenze ***
Capitolo 19: *** Che cosa ho fatto? ***
Capitolo 20: *** Non è facile supplicare ***
Capitolo 21: *** O l'aureola o i denti aguzzi ***
Capitolo 22: *** Inseguimi ***
Capitolo 23: *** Fumare aiuta davvero? ***
Capitolo 24: *** Il primo regalo ***
Capitolo 25: *** Quel sorriso largo e sciocco ***
Capitolo 26: *** Sia fine che inizio ***
Capitolo 27: *** Nuove complicità ***
Capitolo 28: *** Felici e contenti ***
Capitolo 29: *** L'imprevisto ***
Capitolo 30: *** Solo un consiglio ***
Capitolo 31: *** Il cielo ci salverà ***
Capitolo 32: *** La sedia ***
Capitolo 33: *** Indecisione e disequilibrio ***
Capitolo 34: *** (Cattive) Sorprese ***
Capitolo 35: *** N° 6 ***
Capitolo 36: *** Una visita ***
Capitolo 37: *** L'ultima speranza ***
Capitolo 38: *** Alternanze ***
Capitolo 39: *** Aspettative ***
Capitolo 40: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Una nuvola tra le nuvole ***


   CAPITOLO I 
Una nuvola tra le nuvole




 Il suo ex coopilota si chiamava Andreas Schaefer.
Non era un tipo troppo loquace e questo a Karl stava più che bene, perché potevano lavorare senza sforzarsi necessariamente di fare conversazione, il che qualche volta poteva risultare forzato e imbarazzante.Talvolta, uscivano insieme ad altri militari, ma anche in quei casi le chiacchiere non andavano oltre qualche frase di circostanza. Non erano in competizione tra loro e sarebbe stato sbagliato dire che non si piacevano: erano solo molto diversi.
Andreas preferiva un volo tranquillo, aveva sempre paura di sbagliare ed era alquanto insicuro di sé.  Era un tipo basso e iperattivo, con un macabro senso dell'umorismo. Aveva un paio di tatuaggi sulle braccia e dei denti troppo bianchi per essere naturali.
Non avvisò nessuno della sua decisione di lasciare l'aviazione, ma quando se ne andò a Karl venne detto che era una decisione meditata e ragionata. Lui non disse niente, ma gli parve veramente maleducato che se ne fosse andato così, senza neanche un saluto.
    Forse non gli era ancora passata del tutto o forse era il suo grande senso di indipendenza che ogni volta gli faceva sperare di poter volare da solo. Ah, se avesse potuto pilotare da sé un aereo come quello! Non fu affatto felice di sapere che, dopo neppure un mese, gli avevano già trovato un rimpiazzo.
Ma gli ordini venivano sempre dall'alto e non potevano essere discussi o rifiutati.
Fu per questo che quando il comandante Lukas Breyer gli chiese di farsi trovare nell'hangar sei per le quindici, semplicemente annuì e non aggiunse altro.
Subito dopo il rancio, che consumò in fretta con una sorta di nervosismo, si diresse al luogo dell'incontro ed essendo enormemente in anticipo, prese i suoi strumenti e diede una controllata all'aereo. C'erano equipe qualificate che controllavano regolarmente ogni veivolo, e non è che lui non si fidasse, ma gli piaceva farlo anche personalmente, per scaramanzia, forse, o solo per noia.
Per le tre del pomeriggio, lui era ancora sotto il suo Grob G-120, l'aero d'addestramento di fabbricazione tedesca, bianco, come un’altra nuvola nel cielo. Aveva la tuta da pilota, una macchia di grasso sui polpastrelli delle dita ed una più piccola sotto l'occhio destro.
Lukas Breyer avanzò nell'hangar illuminato da luci al neon con un giovane al suo fianco. Karl non se ne accorse, se non quando il comandante attirò la sua attenzione chiamandolo. Allora sbucò fuori dalla pancia dell'aereo e balzò in piedi. Fece il saluto e l'uomo si distese in un sorriso.
«Eisner,» ripeté. «Ti presento il sergente Sebastian Kluge.»
Fu la prima volta che i loro occhi si incrociarono.
A Karl gli occhi verdi avevano sempre fatto impazzire ed i suoi erano di una tonalità particolarmente bella. Naturalmente non disse niente, ma tese la mano verso di lui perché la stringesse. Scoprì che le sue dita erano assurdamente fredde, e mentre pensava ciò, l'altro giudicava le sue incredibilmente calde.
Aveva stretto la sua mano con la destra, sebbene in un primo momento avesse teso la sinistra, perché, in tutta evidenza, era mancino. Karl notò questo dettaglio e se lo appuntò mentalmente, poi gli diede un'occhiata veloce. Più basso di lui di un paio di centimetri, forse più giovane di uno o due anni, un sorriso gradevole ma in modo strano, gli occhiali da sole infilati in una delle tasche della tuta da pilota, sul petto.
Il colonnello osservò entrambi i ragazzi e si complimentò tra sé per la scelta fatta.
«Sono certo che andrete d'accordo,» mormorò. «Adesso scusatemi, ma devo proprio andare.» Decise di lasciarli soli perché potessero conoscersi, i primi momenti erano essenziali in certe circostanze; Bastian lo ringraziò per il giro della caserma che gli aveva fatto fare personalmente, poi lo salutarono entrambi e l’ufficiale si congedò allontanandosi in fretta.
    Lui mise subito a suo agio. Infilò le mani in tasca ed iniziò a fischiettare qualcosa, mentre il suo sguardo chiaro rimbalzava da un angolo ad un altro, da un dettaglio ad un altro, come una pallina di gomma tirata in un momento di noia. Si avvicinò a passo distratto verso il G-120, allungò la mano sinistra e sfiorò delicatamente la carrozzeria. Vi si appoggiò stringendo le braccia sul petto ed incrociò i piedi. Fissò il ragazzo, non sembrava intenzionato a parlare, lui però non ne voleva sapere di stare zitto. Lo vide raccogliere la chiave inglese e lo strofinaccio da terra e riporli in una cassetta, chinato in avanti. Osservò le sue forme e poi, quando lo notò alzarsi anche se era ancora di spalle, scostò gli occhi sulle ruote dell'aereo.
«Allora,» esordì. «Ti chiami Karl, mi pare.»
Quello fece soltanto un cenno positivo col capo, non sembrava minimamente interessato a parlare con lui e questo lo fece rimanere un po' male. Ma non demordeva mai così facilmente.
«Io sono Bastian, invece. Ma puoi chiamarmi Bas.»
«Grazie della concessione,» mugugnò l'altro.
Le sue labbra si tesero in una specie di ghigno. “Fa il difficile” si disse, e proseguì: «Da quanto voli?»
«Da un po'.»
«Io da circa tre anni» spiegò. «Ne ho ventidue, comunque.»
Karl fece un cenno, lo stava guardando, fermo davanti a lui. Non disse altro.
«Dov'è finito il tuo ex?»
Rimase interdetto e si irrigidì di colpo. Non riusciva più neanche a pensare.
«Intendevo il tuo ex coopilota,»- chiarì lui con fare ovvio. Sorrise tra sé, ma cercò di tenere ferme le labbra. Aveva già capito tutto. “La cosa inizia ad essere interessante.”
Lui distolse lo sguardo e deglutì nervoso. «Non ne ho idea.»
«Scherzi?»
«No.»
«Ah...»
Si venne a formare un altro breve silenzio. Di nuovo, fu Bastian a romperlo: «Vuoi aiuto con questa bellezza?» Accennò al veivolo, al quale era ancora appoggiato.
«No» disse lui. «E' apposto.» Puntò gli occhi color scuri sui suoi. «Come mai qui?»
«Mi ha assegnato Breyer, no?»
«Intendevo in questa caserma. Dov'eri prima?»
«Non ad Amburgo.»
«Perché ti hanno cacciato?»
«Chi ti dice che mi abbiano cacciato?»
«Non ti hanno cacciato?»
«No.»
«Sei scappato, allora.»
«Pff. Non mi hanno cacciato. Me ne sono andato io.» Silenzio. Poi: «perché hai pensato una cosa del genere?» Sembrava offeso adesso.
Ad Eisner non importava. Era indifferente, solo un po' infastidito. «Intuito.»
«Riuscirai mai a non guardarmi come un appestato?» Alzò un sopracciglio.
«Forse,» fece lui. Si voltò e si diresse fuori dall'uscita dell'hangar, con le mani in tasca.
L'altro fece roteare gli occhi.

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Capitolo 2
*** Sangue di mucca ***


   Capitolo II
Sangue di mucca


 

   Bastian era un tipo socievole.
Aveva già fatto amicizia con i suoi compagni di camerata: Barthold, Joachim e Robert e aveva già trovato dei vezzeggiativi per tutti loro. Erano già diventati Bart, Achim e Rob  e sedeva con loro in mensa per il rancio della sera.
«E’ molto meglio della poltiglia che ci passavano nella vecchia caserma» disse con un sorriso, rispondendo alla domanda di uno di loro. Con lo sguardo poi si perse a guardare la mensa, quella grande sala in cui la moltitudine di soldati era seduta a consumare il pasto oppure ancora in piedi che aspettava il loro turno per riempire i vassoi.
Notò entrare Karl a passo spedito, da solo.
Non lo aveva ancora mai visto in compagnia di nessuno e la cosa gli parve strana.
«Dite un po’, ragazzi, conoscete il mio copilota, per caso? Karl Eisner… qualcuno di voi ci ha mai parlato?»
Joachim scrollò le spalle, guardandolo negli occhi, mentre Robert era tutto preso dal suo stufato che contemplava come in adorazione e Bart fece un no con la testa, mentre apriva la sua bottiglietta d’acqua e se la versava nel bicchiere.
Bastian annuì distrattamente e alzò la mano per attirare l’attenzione del suo copilota.
«Hei, Eisner! Perché non vieni a sederti con noi?»
Karl sembrò infastidito da quel richiamo ad alta voce, gli lanciò uno sguardo ed annuì distrattamente, perché non voleva essere troppo sgarbato nei suoi confronti. Riempì il suo vassoio con un piatto di riso e poi andò a sedersi proprio di fronte a lui.
«Ciao,» disse educato, a bassa voce.
«Heilà. Ti presento Bart, Achim e Rob. Lui è Karl, voliamo insieme,» spiegò guardando gli amici.
Loro salutarono con un certo entusiasmo, mentre Karl ricambiò annuendo e portando una mano alla fronte e facendo un cenno alla militare.
«Sergente,» fece Robert, guardando le mostrine del nuovo arrivato.
«Sergente,» confermò lui.
Consumò in silenzio il suo pasto, non dando peso alle chiacchiere e alle risa degli altri. Se non lo avessero invitato, probabilmente avrebbe mangiato da solo, come faceva per la maggior parte del tempo.
Bastian si accorse del suo atteggiamento e pensò fosse suo compito fare qualcosa.
«Da dove vieni?» gli chiese.
«Dalla Baviera. Un piccolo paesino in mezzo al niente.»
«Sei molto lontano da casa, allora.»
«Abbastanza.»
«Dall’altra parte del paese. E dimmi, vivevi in una fattoria? Dato che eri in mezzo al niente…  i campi… insomma. Quelle cose lì.»
Karl annuì appena. «Sì. I miei genitori hanno una fattoria.»
«Avete anche gli animali?»
«E’ quello che si ha in una fattoria,» borbottò senza guardarlo.
«E che animali avete?»
Lo trovò incredibilmente fastidioso. Achim li guardava e rideva.
«Galli, pulcini, maiali, due mucche.»
«Quindi fate quella cose del bere il latte… insomma… hai capito.»
Karl alzò un sopracciglio. Aveva degli occhi scuri molto profondi, intensi. «Dalle mammelle della mucca? Da bambini, certamente, come tutti i bambini cresciuti in campagna. E sai cos’altro si beve, della mucca?»
«Ha del porno questa risposta?» fece Bas, guardando gli amici in cerca di complicità. Loro risero.
Karl scosse la testa. Mandò giù un boccone. «Il sangue.»
«Il sangue?»
«Esatto. Quando la mucca sta morendo, le si taglia la gola e si invitano i bambini a berne il sangue.»
Bastian sentì un brivido attraversargli la schiena. «E’ una specie di storia dell’orrore questa?» mormorò ridendo ancora, ma con meno convinzione.
«No. Si dice che il sangue della mucca abbia delle sostante che fanno bene ai bambini. Che li fa crescere meglio.»
«Ah…»
Rob si alzò in piedi e prese con entrambe le mani il suo vassoio. «Io vi lascio. Molto interessante, ma vado a vomitare lì nell’angolo. Ci vediamo dopo.»
Achim guardò Karl curioso. «Ma è vera questa storia?»
«Lo è, ve lo confermo per la seconda volta. È vero, funziona così in campagna.»
Bastian scoppiò a ridere. Aveva una risata contagiosa. «Ma dai. È una storia bellissima.»
«E tu da dove vieni?» gli domandò lui.
«Non molto lontano. Ho fatto richiesta di trasferimento qui per essere più vicino a casa. Esigenze di famiglia,» spiegò scrollando le spalle. «L’altra caserma era vicino Magonza, nell’Assia.»
«Capisco.»
«Il tenente Breyer ha detto che avremo una prova di volo, lunedì prossimo.»
«Spero tu sia in grado di starmi dietro.»
Il sorriso di Bastian si trasformò in un ghigno. «Mi stai lanciando una sfida?»
Karl lo guardò negli occhi. «No. Ti sto chiedendo di cosa sei capace.»
«Lo scoprirai lunedì.»
«Domani all’hangar 6. Voglio parlarti, prima della prova ufficiale. Ci sono delle cose che devi sapere sull’aereo.»
«D’accordo, Eisner. Domani, alle 10?»
«Alle 10. Sii puntuale.»
Bastian sorrise. Si sentiva insolitamente entusiasta.
 
 

                Bastian era in ritardo.
Karl stava dando un’occhiata alla pressione delle ruote del veivolo. Aveva uno strofinaccio sporco in mano ed una macchia di grasso sotto l’occhio sinistro.
Quando l’altro arrivò, lo trovò appoggiato al muro, che fumava una sigaretta.
«Finalmente. È più di mezz’ora che ti aspetto.-
«Sì, sono qui adesso, tagliò corto lui. «Me ne offri una?»
«Non te la meriti,» rispose Karl gettando per terra il mozzicone di sigaretta. Lo pestò e poi tornò dentro l’hangar. Salì in groppa al piccolo aereo e attese che facesse altrettanto. Karl occupò subito il posto davanti, lasciando a lui quello dietro. Era abituato a volare così.
Seduto scomposto, lo guardò e cercò di spiegargli: «una volta ogni tre mesi circa metti un po’ d’olio qui, altrimenti rischia di bloccarsi, ti conviene non dimenticarlo; questo pulsante pigialo molto forte o non va. Per il resto è perfetto, non credo tu abbia bisogno di altre spiegazioni.»
Bastian accarezzò leve, pulsanti e ogni sorta di comando, come innamorato. Annuì distrattamente, poi alzò lo sguardo e lo puntò sul suo. «Mi hai fatto venire qui solo per dirmi questo?»
«E per dirti che tu stai dietro.» Karl ricambiò lo sguardo.
Bas accennò un sorriso più dolce ed allungò la mano sul suo viso, appoggiando il pollice proprio sulla macchia di grasso sul suo viso, ma l’altro si allontanò prima di ricevere quel contatto e malamente scostò il sul braccio.
«Che cazzo fai? Non toccarmi!»
«Stai calmo. Eri sporco.»
Karl si pulì il viso col dorso della mano destra.  «Bastava dirlo.»
«Certo. Bastava dirlo. Come per l’aereo. Non c’era bisogno che tu mi facessi venire fin qui. Cos’era, un appuntamento?»
«Tu sei pazzo,»borbottò Karl scendendo dall’aereo, seccato. «Qualsiasi cosa tu abbia in mente, scordatela. Ti saluto.» Detto questo, uscì dall’hangar.
 


   Lunedì mattina il cielo era plumbeo, sembrava lì lì per piangere, ma non lo avrebbe fatto.
Karl si era alzato presto e aveva fatto colazione nella mensa quasi deserta, quindi aveva controllato l’aereo come d’abitudine prima di un volo, per verificare le sue condizioni.
Bastian arrivò in ritardo anche stavolta. «Hei, eccomi. Scusa il ritardo.»
«Mi sto già iniziando ad abituare,» borbottò.
«Davvero? Quindi sono perdonato?»
«No, quindi la prossima volta ti dirò di venire qui un’ora prima di quanto non serva. Non sei perdonato per niente.»
«Peccato, ci speravo,» rise Bastian.
Salì a bordo del mezzo bianco e diede un’occhiata ai comandi, brevemente. «E’ tutto apposto,» disse.
«Lo so, li ho già controllati io.»
«Be’, non ho bisogno di una balia, quindi non farlo più, per piacere,» rispose lui con tono risentito.
   Quando arrivò Lukas Breyer, il loro comandante, sorrise loro e scosse piano la testa. «Non volerete con quello oggi.»
Loro due si guardarono confusi, finché Karl spostò lo sguardo su di lui: «signore?»
«Voglio prima che entrambi vediate come vola l’altro. Spostiamoci nell’hangar 11, volerete in solitaria per oggi.»
«Sì, signore,» dissero all’unisono.
Si spostarono nell’hangar 11 e Breyer disse che Bastian avrebbe volato per primo. Lui era emozionato e felice di poter volare, ogni volta come fosse la prima, e così scappò subito tra le nuvole. Decollò velocemente e salì sempre più in alto. Karl lo osservava curioso.
«Cosa noti, Eisner?» gli chiese il comandante.
«Mi sembra…»
«Spericolato? Folle?»
«Sì. Sta salendo troppo di quota, ma sembra sapere quello che fa.» Karl non aveva staccato gli occhi da lui per un solo momento. Adesso, però, li abbassò per guardare il suo superiore. «Perché io?»
«Perché ho scelto di mettervi in coppia?»
«Sì.»
«Perché volate alla stessa maniera.»
«Non posso negarlo,» mormorò lui.
«Schaefer era un bravo pilota, ma avevate due modi totalmente diversi di gestire il volo.»
 «Devo ammettere che il suo modo di volare…»
«Ti annoiava.»
«Sì, signore.»
 «Kluge è molto simile a te. Almeno in questo. L’altro aereo, quello pronto lì in fondo,» fece Breyer indicando l’unico aereo fuori dall’hangar che era già stato preparato. «Prendilo e raggiungilo.-
«Adesso?-
«Sì.- Prese poi la radio e avvertì Bastian Kluge sulla velocità e sull’altezza da mantenere, perché Karl stava per raggiungerlo.
Karl si mise le cuffie, gli occhiali, e si chiuse nel suo aereo. Carezzò i comandi e sorrise quando sentì le vibrazioni del motore.  Lo sentì muoversi sull’asfalto e subito dopo percepì la precarietà del cielo, la leggerezza delle nuvole e il vento che minacciava di slittare la sua rotta.
Bastian lo affiancò subito.
Lui non poteva guardarlo bene, non poteva distrarsi, ma con la coda dell’occhio gli parve di vederlo ridere. Poi tirò dritto e lo perse di vista per un paio di minuti. Lo cercò sul radar e lo trovò subito e cinque minuti più tardi s’accorse che gli stava venendo addosso.
«Sopra o sotto, Eisner?- disse Bas alla radio. Rideva.
«Io sopra e tu sotto, Kluge,- rispose Karl, serio ma con l’ombra di un sorriso sulla faccia.
Così i due aerei, che sembravano quasi stessero per schiantarsi, all’ultimo momento virarono da parti opposte.
Karl, tra sé, rise: era da molto che non si divertiva così tanto.
Breyer, dal canto suo, sorrise soddisfatto. “Bisognerà tenerli d’occhio,” pensò. “Sono bravi, ma anche molto pericolosi.” Poi prese la radio e diede segnale di tornare a terra.
Karl rientrò per primo, subito raggiunto da Bastian, che saltò giù dall’aereo ancora pieno di adrenalina.
«Allora?- chiese Breyer con un sorriso.
«E’ stato molto liberatorio, signore,» fece Bas con un sorrisone. Porse poi la mano a Karl. «E’ stato un piacere, l’ho adorato,»  confessò.
Karl strinse in modo fraterno quella mano ed annuì, senza dire niente. Guardò poi il comandante, che disse loro qualche parola ancora e si congedò.
Una volta rimasti soli, Bas scrocchiò le dita. «E’ stato così eccitante, non mi divertivo così tanto da una sacco di tempo.»
«Sì… anch’io. È stato interessante.»
«Ma,» continuò Bastian, «se sei uno abituato a stare sopra, sappi che le tue abitudini potrebbero presto subire una variazione di rotta, Eisner.» Lo guardò negli occhi e poi, con un mezzo cenno del capo ed un altro mezzo sorriso, si congedò da lui.
 

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Capitolo 3
*** Il programma della lavatrice ***


Capitolo III
Il programma della lavatrice


 
 
                Bastian scese dall’aereo che stava ancora ridendo.
Si era tolto le cuffie e gli occhialoni da pilota e subito si era messo gli occhiali da sole sul naso. Il sole era accecante quel giorno. «E’ stata una delle cose più divertenti della mia vita, Karl, ti ringrazio,» gli disse guardandolo negli occhi. Poi gli sorrise dolcemente.
Karl ricambiò lo sguardo e poi abbassò gli occhi sulle sue cuffie, le mise via e scese anche lui dal veivolo, senza rispondere.
Il tenente Breyer non era del loro stesso avviso.
«Che diavolo vi è saltato in mente?!» esclamò arrabbiato, guardandoli negli occhi.
Loro subito si misero sull’attenti cancellando il sorriso dalle loro facce.
«Volate insieme da tre mesi e ho già dovuto mettervi in punizione tre volte. Per ogni esercitazione ve ne inventate una, che voliate da soli oppure insieme. Oggi la vite orizzontale! Siete dei soldati o buffoni di corte?! Un’altra alzata di testa del genere e vi faccio degradare.»
La vena sul collo dell’ufficiale pulsava e le sue labbra tremavano di rabbia. Cercò di calmarsi con un gran sospiro, poi li guardò, di nuovo, ancora furioso.
«Domani coprirete il turno in lavanderia per tutto il giorno, un po’ di lavoro vi rinfrescherà le idee.»
«Sìssignore!» risposero entrambi all’unisono.
Quando Lukas Breyer si allontanò, Bastian si voltò verso il suo co-pilota e scoppiò a ridere.
«Che cazzo ridi? Siamo in punizione, finirà nel nostro fascicolo,» borbottò Karl, più serio.
«Non ti ho mica obbligato a fare quella manovra, avresti potuto impedirmela.»
«Ci saremmo ammazzati. Due piloti nello stesso aereo devono pensare come una sola persona. Tu hai cominciato e io ti ho seguito.»
«Non dirmi che non ti è piaciuto…»
Karl sospirò, rivolgendogli le spalle. «Certo che sì,» ammise. «Ma non voglio altri guai con Breyer. Il mio fascicolo era immacolato prima di conoscerti. Mi stai portando solo un mucchio di rogne.»
Quando si voltò se lo ritrovò davanti, i loro piedi quasi si incrociarono. Esitò, strinse le labbra e distolse lo sguardo dai suoi occhi. Appoggiò una mano al suo braccio e gli passò accanto, superandolo. «Ci vediamo domani mattina in lavanderia,» disse soltanto.
 
 
                Non credevano che la lavanderia aprisse così presto al mattino, ma furono puntuali.
«Se avessi saputo che fossi in grado di arrivare in orario soltanto se punito, ti avrei minacciato più spesso,» borbottò Karl guardando l’altro con la coda dell’occhio.
Bastian rise e si passò una mano sul viso.
Impiegò circa mezz’ora a capire come azionare la lavatrice, mentre Karl era decisamente più avvezzo di lui con queste cose.
«Che cavolo hai… Bastian!» esclamò ad un certo punto lui. «Che cazzo hai combinato?»
I suoi occhi scuri si posarono sulle prime divise che Bastian Kluge aveva tirato fuori dalla lavatrice, che si erano tutte sbiadite e rovinate.
«Cazzo... ho fatto quello che mi hai suggerito, com'è potuto succedere?»
Sospirò. «Sei un incapace. Lascia stare, ci penso io.»
Prese alcune divise dal cesto che l’altro aveva davanti e le infilò in lavatrice, azionando il programma corretto. «Sei totalmente inadatto alla vita. Lascia fare me, prima che Breyer ti rimandi da dove sei venuto.»
«Non è vero che sono inadatto alla vita,» bofonchiò lui. «E’ solo che non so fare la lavatrice.»
«Inciampi di continui sui tuoi piedi, non sei in grado di riparare il tuo stesso aereo…»
«Ci sono camerati che si occupano solo di meccanica, perché dovrei saperlo fare io?» lo interruppe.
«…E oltre a questo, ti sporchi sempre quando mangi. Sei un disastro. Hai bisogno di una balia. O di una badante.»
Karl si occupò di azionare tutte le lavatrici, poi si appoggiò su un tavolo attendendo che terminassero il ciclo di lavaggio.
Bastian non disse nulla, si appoggiò accanto a lui fissando un punto indistinto del pavimento, una mattonella come le altre che però sembrava aver attirato il suo interesse. Mentre l’oblò della terza lavatrice ruotando e muovendo i vestiti a ritmi regolari attirava lo sguardo del suo co-pilota, Bas si voltò e prima di potersene pentire, appoggiò una mano al suo braccio, per attirare la sua attenzione. Quando incrociò gli occhi dell’altro, si sporse appena per incontrare le sue labbra. Si scostò dal tavolino e gli prese il viso con una mano, prolungando il bacio e spostandosi di fronte a lui.
Karl, del tutto sorpreso, appoggiò una mano dietro di sé sulla superficie liscia del tavolo, per reggersi, e l’altra l’appoggiò al suo fianco, ricambiando il bacio. Bas intrecciò la lingua alla sua e lui lo lasciò fare.
Un rumore improvviso lo risvegliò improvvisamente da quel momento e lo fece alzare di colpo, allontanando l’altro.
«Cosa…?» domandò Bastian confuso.
Lui deglutì e con la mascella rigira si guardò intorno. «Mi sembrava di aver sentito qualcosa…» mormorò. Abbassò gli occhi distrattamente. «…La lavatrice. Ha finito.» Si allontanò da lui e si chinò leggermente per controllare che il ciclo di lavaggio fosse completo.
Bastian gli si avvicinò, gli prese il polso e lo costrinse a voltarsi. Lo fece indietreggiare di qualche passo e lo intrappolò costringendolo a mettersi tra sé e la lavatrice. Appoggiò le mani su di essa, accanto ai suoi fianchi, e lo baciò di nuovo.
«Bastian…»
«Non me ne fotte un cazzo di quelle divise di merda. Limonami e basta.»
Il bacio stavolta incontrò qualche resistenza.
Bastian allungò la mano sinistra sul suo viso e gli carezzò la guancia. «Cosa c’è?» sussurrò dolcemente, guardandolo negli occhi.
Karl ricambiò lo sguardo, titubante. «…Potrebbe entrare qualcuno, potrebbero vederci.»
«Il sesso tra commilitoni è garantito da regolamento[i]
«Non durante una punizione, però.»
Bas sorrise, scuotendo la testa divertito. «Vuoi che ci vediamo dopo, allora?»
Karl non sapeva cosa dire, così lui soggiunse con un certo sarcasmo: «hai paura che ti piaccia troppo?»
«Questa cosa mi ha già dato troppi problemi…»
«Questa cosa è quello che sei.» Bastian si allontanò da lui e prese qualche divisa in mano, distrattamente. «Ma se sei troppo complessato per ammettere a te stesso che sei…»
«So cosa sono,» interruppe Karl. «Ma so anche quanto mi è costato esserlo.»
Bas strinse le labbra e si allontanò. «D’accordo. E quindi cosa proponi? Vuoi fare finta di niente? Hai ricambiato quel bacio, all’inizio, però. Era quello che volevi.»
«Lo è. Non posso negarlo. Ma non voglio tutti i problemi che porterebbe.»
Bastian colmò di nuovo la distanza tra loro e lo baciò con passione una terza volta. Chiuse gli occhi ed appoggiò le mani sulla sua nuca, per stringerlo a sé. Testardo, vinse anche l’iniziale resistenza dell’altro, e quando fu più sicuro cominciò a giocare con la sua lingua.
Karl chiuse gli occhi a sua volta e si lasciò andare. Sciolto il bacio, si accorse di avere le braccia attorno ai suoi fianchi, così le riportò sulla lavatrice, dietro di sé.
«Quanti guai mi stai portando, sergente Kluge,» borbottò.
«Tutti guai piacevoli, però» fece lui con un sorriso.
«Non ne sono sicuro. Non ne sono affatto sicuro.»
 
[i] I rapporti sessuali tra i soldati dell’esercito tedesco sono regolarmente consentiti, ma solo se entrambi i partner sono consenzienti.

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Capitolo 4
*** Questo e molto altro ***


Capitolo IV
Questo e molto altro
 


                «Non credevo avresti accettato,» mormorò Bastian con un sorriso.
«Perché no?»
«Per quello che è successo tra noi in lavanderia tre giorni fa.»
Camminava con le mani in tasca, guardando distrattamente le macchine che scorrevano nel traffico, la medaglietta metallica sul petto.
Karl strinse le labbra, guardando davanti a sé. Quando il semaforo si colorò di verde, attraversò, forse un po’ troppo velocemente, quasi lasciandolo indietro. Sospirò appena, raggiungendo un viale alberato con poche persone.
Parlò a bassa voce. «Quello che è successo…»
«Ti è piaciuto?»
«…Sì. Mi è piaciuto.»
«Allora va bene così. Mi basta sapere quello.»
Bastian appoggiò la mano sul suo braccio e lo attirò a sé, in un vicolo stretto e ombreggiato.
Appoggiò la schiena la muro e lo strinse, appoggiando le mani sulle sue guance, subito dopo baciandolo.
Karl esitò, poi ricambiò il bacio, un po’ rigido. Incrociando i suoi begl’occhi verdi, fece subito un passo indietro.
«Non dovremmo.»
«Oh, sì, Eisner, dovremmo fare questo e molto altro.»
Karl si voltò a guardare verso la strada e lui appoggiò la mano sulla sua.
«Siamo molto lontani dalla caserma,» gli disse. «Non c’è pericolo ci vedano.»
Quella frase parve convincerlo.
Karl, infatti, colmò la distanza tra loro e prendendogli il viso lo baciò.
Bastian avvolse il suo collo con le braccia e lo strinse a sé, ricambiando il bacio, teneramente, felice.
                Più tardi, ripresero a camminare per quel viale, le fronde degli alberi si muovevano al vento, ogni tanto cedendo alla sua forza e cadendo sul marciapiede.
«Portami in un posto bello,» lo pregò. «Tu conosci la città meglio di me. Io sono appena arrivato.»
Karl annuì e gli fece strada. Imboccò una piccola stradina che sfociava in uno dei viali principali di Amburgo, proseguì allontanandosi sempre più dal centro e sempre più lontano dalla folla, dove la strada diventava affollata più di alberi che di persone. Prese poi un’altra stradina ed arrivò ad una piccola piazzetta.
C’era un parco, una fontana, un paio di panchine.
Sedette in una di queste, di metallo grigio, e alzò gli occhi. «E’ quasi il tramonto.»
«Pensavo avresti avuto più fantasia. Un bel posto, per me, è un posto dove si mangia o si scopa,» rispose Bastian sedendosi vicino a lui.
«In questo parco, su questa panchina, si vede il miglior tramonto della città. Ma cosa vuoi capirne tu? Sei un cittadino, sai solo di cemento e metallo.»
Rise. «Forse è vero. Tu sei il bravo campagnolo che ama la natura?»
Karl scrollò le spalle, appoggiando il gomito sinistro sullo schienale della panchina. «Quanto basta. Molto meno di quanto tu possa pensare.» Si accese una sigaretta e la portò alle labbra.
«Non è che penso a te così tanto tempo, veramente. Non so ancora che tipo sei. Perché non me lo dici tu? Dammi qualche indizio almeno.» Bas sedette scomposto, rivolto verso di lui.
«Non ho niente da dire. Sono cresciuto in campagna, non ero bravo a scuola, mi sono arruolato appena ho potuto. Tutto qui.»
«Ti mancherà casa tua. La natura…»
«No. Casa non mi manca. La natura sì, ma… posso trovarla anche qui. Mi va bene così.»
«Neanche a me manca casa,» confessò lui.
«Allora perché hai chiesto il trasferimento qui ad Amburgo? Hai detto di averlo fatto per essere più vicino alla tua famiglia.»
«Ho dovuto farlo. Mia sorella aveva bisogno di me.» Fece spallucce e ne seguì una breve pausa. Osservò dei bambini giocare con una palla rossa. «Mia madre soffre di depressione da sempre, praticamente, e nostro padre ci ha abbandonato. Si è rifatto una famiglia, non lo sento da secoli. Adesso mamma è stata ricoverata di nuovo e mia sorella non sapeva come gestire la cosa. Il ricovero, ma anche la casa. Aveva bisogno di me, quindi sono tornato qui.»
Karl non lo stava guardando. «Ho capito,» disse solo.
«Tu hai dei fratelli?»
«No, sono figlio unico.»
«Ah, che peccato.»
«Mi dispiace per tua madre. Immagino sia una situazione complicata.»
Bastian muoveva velocemente quegli occhi vispi e vivi. «Sì, be’, per la verità ci sono abituato, entra e d esce da centri specializzati quando avevo diciotto anni. Io per la verità mi sono arruolato subito dopo la scuola, non avevo voglia di stare dietro a questa situazione, volevo il mio spazio, e se non me ne fossi andato, avrei dovuto pensare a lei. Sono stato egoista, ho lasciato mia sorella da sola a badare a tutto questo.»
«Sì, sei stato egoista.»
Lui, suo malgrado, rise. «Ah, be’, grazie… mi rincuori.»
«Penso però che tu non debba obbligarti a prenderti tutte quelle responsabilità. Tua sorella è più grande di te?»
«Sì, è sposata, anche. Hector è un gran bravo ragazzo. Non avrei dato mia sorella in sposa ad un delinquente. Mio padre se n’è andato quando avevo dodici anni, perciò ho cercato di occuparmi di lei, anche se sa perfettamente badare a sé stessa, te lo assicuro.» Rise di nuovo, leggermente. «L’ho accompagnata io all’altare.»
«Perché mi racconti tutte queste cose?» Karl si voltò e lo guardò negli occhi, allontanando la sigaretta. La gettò per terra, calpestandola col piede per spegnerla.
Bastian abbassò la testa e puntò lo sguardo, distrattamente, sui propri jeans. «Non lo so. Forse perché sei il mio co-pilota. Forse perché abbiamo limonato in un vicolo poco fa.» Alzò gli occhi e li puntò sui suoi. Aveva un piccolo sorriso dolce sul volto.
«Da quanto ci conosciamo?»
Lui lo guardò senza capire. «Da circa… circa quattro mesi credo.»
«Quattro mesi. Sì, più o meno.»
«Sono stati i quattro mesi più confusi e pieni della mia vita. Non ho mai volato con nessuno come volo con te. È bellissimo volare con te, Karl, e non è una cosa che dico spesso.» Si avvicinò un po’ a lui. «Quanto è passato dalla tua ultima relazione? Ne hai mai avuta una con… un uomo?»
«Sì. Ma è passato molto tempo.»
«Non avere paura. Non voglio metterti nei casini in caserma. Non voglio finire nei guai nemmeno io, non posso farmi espellere da qui, devo stare vicino a mia sorella e la caserma più vicina da lei è a quindici ore di treno. Niente guai.»
«Niente guai. È una bella promessa, Kluge.» 
«Sono bravo con le promesse.»
«Anche a mantenerle?» Karl si voltò e lo guardò, piuttosto serio.
«Oh, questo lo vedremo.» Bastian rise, appoggiando la schiena alla panchina e guardando davanti a sé.

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Capitolo 5
*** Giardino del paradiso ***


Capitolo V
Giardino del paradiso


 
                «C’è una macchia lì.»
«Cosa?» Bastian sbadigliò.
Si sistemò su un fianco e gli circondò la vita con un braccio. Appoggiò il naso sull’incavo del suo collo. «Perché abbiamo perso così tanto tempo per farlo?»
Karl tirò via il lenzuolo. Si voltò e lo guardò negli occhi, scrollando le spalle. Non ricambiò l’abbraccio. «Perché il motel non aveva camere prima di oggi e non potevamo farlo in caserma.»
«Giusto. Mi ricordi perché non potevamo farlo in caserma?»
«Perché magari qualcuno avrebbe potuto pensare che ci piacesse.»
«Giusto. E ci piace?»
«Oh, sì, sono sicuro ti sia piaciuto molto…»
«Giusto. E qual è il problema se una cosa ci piace e gli altri sanno che ci piace?»
Karl sospirò. «Bastian, smettila. Ne abbiamo già parlato milioni di volte. Stai zitto cinque minuti, ma quanto diavolo parli…»
Bastian sciolse la presa e si mise seduto, scrocchiando le dita indolenzite. «D’accordo, non ti disturbo più. Vado a fare una doccia.»
«Sì, almeno le mie orecchie si riposano un po’,» borbottò lui. «Sei più fastidioso degli speaker radiofonici.»
Bas rise sentendolo e si chiuse in bagno. Karl, invece, chiuse gli occhi e si addormentò.
 
 
                In caserma le cose erano sempre uguali.
Stesso menù della domenica, stessi ordini sbraitati dagli ufficiali, stesse punizioni.
Lo sapevano bene loro, quel gruppo un po’ improvvisato, che si ritrovava ormai da quattro mesi a bere birra di scarsa qualità e di mangiare kebap nello stesso locale gestito da turchi.
Ogni volta che entravano, Achim iniziava a guardarsi attorno nervoso.
«Non c’è, non c’è nemmeno oggi,» disse quella sera, agitato.
«Dai tempo al tempo, magari è in cucina, salterà fuori,» fece Bastian ridendo.
«Chi cerca?» chiese Karl al suo orecchio.
Lui si voltò per guardarlo e mormorò: «Achim si è innamorato perdutamente della figlia del proprietario, Irem.»
«Ah…»
«Tu non capisci, Karl» fece Achim. «Il suo nome significa giardino del paradiso. Non è stupendo?»
«Eccola, eccola!» fece Bart. «Chiamala per le ordinazioni.»
«Cosa? Sei pazzo? Io non ci posso parlare con lei.»
Mentre litigavano per decidere chi dovesse chiamarla, Karl alzò la mano e le fece un cenno.
«Sta arrivando,» disse solo.
Bastian rise. «Trova il coraggio per dirle qualcosa, perché nessuno di noi dirà una parola.»
«Siete degli stronzi bastardi,» bofonchiò Achim.
Irem si avvicinò a loro con uno smagliante sorriso ed un taccuino rosa in mano. «Ciao, ragazzi. Vi porto il solito? Cinque kebap completi e cinque bionde, dico bene?»
Achim la guardava come un gatto innamorato, quasi incantato. Deglutì. «D-Dici benissimo, non bene. Come fai ad aver memorizzato già i nostri… i nostri soliti… i nostri soliti gusti?»
Robert scoppiò a ridere fortissimo e lui lo fulminò con lo sguardo.
Irem scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Prendete sempre quello, è facile. Frequentate il locale di mio padre da diverso tempo ormai.»
«Giu…giusto…»
«Vi porto le ordinazioni, allora.»
«Sì… grazie… sei così gentile…»
Lei rise e si allontanò e lui aggiunse: «oddio santissimo, è di un colore così bello lei.»
Tutti i suoi amici scoppiarono a ridere fortissimo, persino Karl sorrise divertito.
«Che cazzo di complimento sarebbe?» fece Bastian. «Oh, guarda, si avvicina suo fratello…»
Il fratello di Irem, Sefa, le tolse le birre dalle mani e la rimproverò. «Non devi servire tu quel tavolo di soldati. Ci penso io.»
Si avvicinò a loro ed appoggiò il vassoio sul tavolo. Aprì sgarbatamente la birra, guardando negli occhi Achim.
«Ve le porto io, le vostre ordinazioni,» borbottò, poi si allontanò.
Robert rise e bevve un sorso della sua birra, poi guardò Bastian. «E a te che tipa piace?»
«A me? Vuoi sapere cosa me lo fa alzare? Un pompino fatto bene,» rispose lui, bevendo dalla propria birra. Poteva sentire l’agitazione di Karl accanto a sé. Karl non rise di quella risposta, come invece fecero gli altri.
«Vuoi davvero sapere quali sono i miei gusti?»
«Sì, sono curioso.»
«Mi piace il cazzo.»
Robert scoppiò di nuovo a ridere. «Ah.»
Bart rise. «Io lo sapevo già.»
«Be’, ora lo sapete tutti,» mormorò Bas con una scrollata di spalle.
Sefa servì loro i panini e Karl da quel momento si fece più taciturno, rispondendo solo a monosillabi e seguendo a stento la conversazione.

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Capitolo 6
*** Dammi un bacio ***


Capitolo VI
Dammi un bacio
 
                «Karl?»
«Che c’è?»
«Tu mi picchieresti mai?»
«Sì, quando fai queste domande del cazzo, ad esempio.»
«Sono serio!»
«Anche io.»
«Sto leggendo su questo articolo online che nel 25% delle coppie omosessuali ci sono abusi.»
«Una coppia su quattro.»
Karl avvitò meglio un bullone dell’aereo.
«Già, una su quattro. E noi siamo quella o una delle altre tre?»
«Giuro che non la smetti di darmi fastid- aspetta, noi non siamo una coppia.»
Bastian lo guardò. «Non siamo una coppia?»
«Non siamo una coppia.»
«Abbiamo… fatto sesso un paio di volte.»
«Che ragionamento è? Allora se ti scopi uno poi te lo devi sposare?»
«No, ma… io credevo… mi picchieresti?»
Karl sbuffò e saltò giù dal veivolo. «Punto primo, se avessi voluto farlo, lo avrei già fatto. Punto secondo, sapessi difenderti benissimo.»
«Dici?»
«Dico.»
«Mi dai un bacio?»
Gli si piazzò davanti. «Noi non siamo una coppia.»
Bastian lo seguì dentro l’hangar, quando lui si allontanò. «Lo so, ma…» esitò. «È   vero. Non siamo una coppia, abbiamo scopato alcune volte, non ci mandiamo i messaggi carini del buongiorno e non mi baci quando mi vedi. Non siamo neanche mai usciti noi due da soli, a parte quella volta al parco.»
«Appunto. Non facciamo quelle cosa da coppia.»
«Però mi daresti un bacio? Almeno un abbraccio?» lo pregò con lo guardo.
Karl lo guardò, le mani sui fianchi. Si passò una mano sul viso. «Non chiedermelo. Non qui, siamo in caserma.»
«Quindi tutte le volte che vorrò un bacio dovrò aspettare che usciamo di qui? Anche stando tutto il giorno attaccati, volando sullo stesso aereo?»
«NON SIAMO UNA COPPIA!» sbraitò. «Perché continui a dire che dobbiamo baciarci?»
«Perché vedo come mi guardi,» sospirò lui dolcemente. «E perché hai detto che quel bacio fra noi ti è piaciuto.»
«Sì, ma mi stai portando all’esasperazione adesso.»
«Possiamo almeno… vederci fuori? Oggi abbiamo la libera uscita, alle 19. Andiamo a farci un giro. Ti prego, non posso sopportare di nuovo lo sproloquio di Achim su Irem,» rise piano per stemperare la tensione.
Karl appoggiò le mani all’aereo. «D’accordo. Ma non chiedermi più baci.» Prese la borraccia d’olio e stappò il tappo.
Bastian sorrise, annuendo. «Come vuoi, Eisner.»
 

                Più tardi, Bastian lo aspettò appoggiato al muro della caserma, con una sigaretta in bocca, vestito da civile. Lui si sorprese di trovarlo già lì. Gli si avvicinò subito e si fermò ad un metro da lui.
«Non puntuale, ma addirittura in anticipo. Devo preoccuparmi?» fece serio.
Bas rise scuotendo piano la testa e staccandosi dalla parete. «Ti preoccupi per me, quindi?»
«Affatto,» rispose asciutto. Fece una pausa. «Dov’è che vuoi andare?»
«A fare un giro. Nessuna trappola, abbassa le difese, Eisner.»
Arrivarono alla fermata dall’autobus, a tre minuti dalla caserma, e salirono. Sedettero uno davanti all’altro, Karl non lo guardò neppure un secondo durante la strada e quando l’altro gli fece cenno che erano arrivati, scese dopo di lui. Si guardò intorno, erano in una zona molto frequentata. Bastian lo trascinò subito dentro ad un locale, con la luce soffusa.
«Cos’è, un locale per froci?» domandò Karl sedendosi ad un tavolo.
«No, tranquillo. Ho capito che non hai le palle di dire che lo sei anche tu.»
«Ah, forse ora che hai capito, smetterai di darmi fastidio,» bofonchiò Karl ironico.
«Non parliamo di questo.» Bastian prese il menù e lo guardò distrattamente. «Avevo bisogno di uscire, è stata una brutta giornata oggi e stamattina ho ricevuto una chiamata dalla clinica dov’è ricoverata mia madre, quindi… volevo distrarmi un po’.»
Karl lo guardò, poi riabbassò gli occhi e irrigidì la mascella. «Mi dispiace averti trattato male stamattina.»
«Tu sei così, ormai l’ho capito. Parli poco, vai avanti a monosillabi, non ti frega niente di nessuno, vuoi solo stare al sicuro.»
«E’ così sbagliato?»
Bas scosse piano la testa. «No, tu vuoi proteggerti, perché in passato hai sofferto. Ti hanno pestato perché sei gay? Non credo, hai detto che ti sei arruolato presto, ti saresti ben difeso. Oppure ti hanno pestato in campagna e ti sei arruolato per scappare?»
Karl incrociò le braccia sul tavolo. «Cosa vuoi che ti dica? Vuoi giocare allo psicologo?»
«La seconda, vero? Per questo non vuoi tornare a casa.»
«Non sarebbe comunque qualcosa che ti riguarda.»
«Ho visto una cicatrice sulla tua schiena.» Bastian lo guardò negli occhi. «C’entra niente?»
Lui trattenne l’ennesimo sospiro. Lisciò il bordo del menù, distrattamente. «In parte hai indovinato. Mi sono arruolato per poter scappare da casa. Non volevo più vivere con la gente di campagna. Per stasera ti basta?» Alzò gli occhi per incrociare i suoi.
Bastian annuì. «Per stasera mi basta.»
«Ordiniamo qualcosa?»
«Sì, ordiniamo pure. Hai fame?»
«No, va bene una birra.»
«Sì, anche a me è passata la fame.»
Ordinarono due birre da mezzo litro e cominciarono a bere, rimanendo in silenzio per un po’.
Poi Bastian sorrise triste. «Non volevo farti deprimere. Mi dispiace.»
Karl bevve un paio di sorsi. «Come sta tua madre? Dimmi di lei.»
«Ha avuto un’altra ricaduta. Sarebbe dovuta uscire il mese prossimo, ma il medico ha posticipato di nuovo l’uscita.»
«Mi dispiace.»
«Anche a me. Achim è davvero innamorato di perso di Irem, eh?» rise.
Karl sorrise annuendo. «Suo fratello non lo lascerà avvicinare tanto facilmente, ma suo padre mi sembra più aperto.»
«Assolutamente sì. Achim si farà menare!» scoppiò a ridere, più spensierato.

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Capitolo 7
*** Palloncini a forma di cuore ***


Capitolo VII
Palloncini a forma di cuore
 
 
 
 
     Dalla camera accanto non proveniva più alcun rumore.
La coppia di mezz'età che l'aveva occupata per cinque giorni era partita quella mattina alle nove lasciando il letto disfatto. Un po' come era il loro in quel momento.
Dalla finestra alla sinistra del letto provenivano alcuni raggi di luce che filtravano dalla serranda e dalle tende ed illuminavano leggermente la stanza altrimenti buia. Le lenzuola erano celesti ed il copriletto glicine era caduto sul pavimento, coprendone una buona parte. Nel silenzio si sentì la risatina di Bastian.
Aveva i polsi bloccati da una presa forte e le gambe erano leggermente divaricate. «Lasciami, idiota» disse.
Karl scosse piano la testa e gli baciò il petto nudo, poi il collo, che leccò. La risata dell'altro cessò e divenne sorriso. Una delle sue mani si liberò, quindi andò subito ad affondarsi tra i suoi capelli scuri, che carezzò piano. Rigirò una ciocca più lunga tra le dita e lo guardò negli occhi.
«Stai violando l'articolo 50, soldato» sussurrò.
Karl si mise a recitarlo, sottovoce: «Il militare in abito civile non deve indossare alcun distintivo o indumento caratteristico dell'uniforme.» Tornò a baciarlo sul petto e si mosse in avanti, così il lenzuolo celeste scivolò sulla pelle e lasciò scoperta una porzione in più della schiena.
«Potrei fare rapporto» mormorò l'altro a fiori di labbra. Accarezzò le sue spalle per qualche istante, poi appoggiò la mano sulla sua mandibola e lo avvicinò a sé per baciarlo. Chiuse gli occhi.
«Dovrebbe farlo, Sergente Maggiore?.»
Karl appoggiò sul materasso e si chinò in avanti per ricambiare il bacio. Si fermò a giocare con la sua lingua, intrecciandola alla propria. Bastian gli tolse il berretto da sottufficiale e lo gettò ai piedi del letto.
«Non ha rispetto per l'uniforme,» fece Karl.
Rispose: «Stai accusando un tuo superiore, Eisner? Stai attento. Stai molto attento.»
Gli prese il volto tra le mani.
«Solo perché Breyer ha detto che avrai una promozione, non significa che ti risparmierò.»
Un bacio, poi un altro, poi fecero l'amore.
 
     «Quanto è bello il sesso?»
Karl si voltò e lo guardò storto. Portò le coperte sul suo viso, per nasconderlo, e bofonchiò: «coglione.»
Bastian rise dolcemente, si scoprì e gli salì in groppa. «Sarò anche un coglione, ma ti piace molto scoparmi.»
«Non farmi essere volgare,» rispose lui appoggiando le mani sui suoi fianchi stretti.
«Oh, mi piace quando sei volgare.» Bas si chinò sulle sue labbra e le baciò, dolcemente, poi cominciò ad accarezzargli i capelli. «E’ successo tutto così in fretta, che non ho capito nulla.»
«Non mi sorprende,» rise lui. «Ti rinfresco la memoria? Andreas Schafer ha lasciato l’esercito, contemporeamente ti sei trasferito nella mia caserma...»
«Nella tua caserma?»
«Sì, esatto.»
«Ma guarda un po’!» rise Bas e si scostò da lui. Si mise a sedere e iniziò a giochicchiare con la piastrina militare. «L’addestramento di questa settimana è stato molto intenso. Ieri ero sfinito. Mi sembra di non aver tempo per vivere, con tutti questi addestramenti. Pensi che bolle qualcosa in pentola?»
«A che ti riferisci?»
«Una missione all’estero, magari.»
«E’ possibile, sì.»
«Sono felice di sapere che, se partissimo e andassimo in territorio di guerra, il mio copilota saresti tu. Non mi fiderei di nessun altro. So come voli, so come pensi. Mi fido ciecamente del tuo modo di volare.»
Karl portò le braccia dietro la testa. Osservò il soffitto e rimase in silenzio.
«Non dici nulla?»
«Hai già detto tutto tu.»
«D’accordo, aggiungo qualcos’altro se non ti dispiace.»
Bastian si stese accanto a lui ed appoggiò il viso sul proprio cuscino. «Sai, è sempre stato il mio sogno avere un copilota che fosse anche il mio amante...»
«Che sogno erotico del cazzo.»
«Sono serio! Intendo... una persona di cui fidarmi ciecamente, che voli nel pazzo modo in cui volo io, con viti orizzontali alla massima velocità, che non abbia paura di schiantarsi al suolo e... che allo stesso tempo sia una amante passionale, un compagno non solo di volo. So che non vuoi che io faccia questi discorsi melodrammatici, ma...»
Karl si alzò e sospirò. Si tolse le coperte di dosso, afferrò i boxer e si rivestì. «Ma continui a farli.»
«Per te è solo sesso? Guardami negli occhi e dimmelo. Perché se è così, forse dovremmo chiuderla. Darci un taglio e cercarci un altro copilota.»
Bastian abbassò gli occhi e lui gli si sedette di nuovo vicino. Lo guardò in viso e sussurrò soltanto: «no.»
«Allora posso considerarti il mio fidanzato, Eisner?» domandò l’altro incerto, ma con un sorriso.
«Avrei un paio di condizioni.»
«Ah sì? E quali sarebbero?»
«Niente nomignoli, niente baci in pubblico e soprattutto, io sto sopra,» sussurrò saltando a cavalcioni su di lui.
Bastian appoggiò una mano tra i suoi capelli, l’altra sul petto, sulla pelle abbronzata, la pelle forte di campagna. Rise piano e sentendo le sue labbra sul proprio collo, alzò il mento per agevolarlo nel gesto.
«Ho anch’io un paio di condizioni.»
«Che palle...»
«Voglio almeno limonare con te due volte al giorno e un bacio extra per gli anniversari e i compleanno.»
«Fai le stesse richieste di una ragazzina,» bofonchiò Karl appoggiando le ginocchia accanto ai suoi fianchi. «Però ci sto. Un’ultima condizione.»
«Solo una.»
«Non smettere mai di pilotare un aereo nel modo folle in cui lo hai fatto finora.»
 
 
 
            La strada era deserta.
Era sera, il cielo era scuro ed i lampioni della luce illuminavano brevemente i loro passi. Videro una ragazza che correva col suo lettore musicale ed un ragazzo in bicicletta. Non c’era nessun altro.
«E’ la prima volta che usciamo da quando siamo ufficialmente fidanzati.»
«Se avessi saputo che lo avresti ripetuto ogni mezz’ora, non avrei accettato di venire,» borbottò Karl.
Bastian mangiucchiò la crosta al cioccolato del suo gelato in busta con molta attenzione. «Ti lamenti di continuo, sei insopportabile.»
«Io? Cristo santo, guarda, ti sei di nuovo sporcato col gelato. Ma come puoi essere così incapace di vivere?»
«Te lo avevo detto che non sono in grado di mangiare e camminare contemporaneamente.»
«Certo, richiede delle capacità troppo elevate per te.»
«Smettila di prendermi in giro, adesso. Mi tratti sempre malissimo.»
Karl si voltò per guardarlo storto. «Ti ho appena comprato il gelato.»
«Sì, è vero, e ti ringrazio. È davvero molto buono, anche se me ne sono fatto cadere addosso metà. Comunque era ottimo.» Fece una pausa. «E’ una cosa che fanno i fidanzatini di solito. Comprare il gelato o i cioccolatini o cose così. Mi comprerai anche i palloncini a forma di cuore?»
«Ti sembro il tipo che compra i palloncini a forma di cuore?»
«No,» ammise «ma non mi sembravi neanche il tipo che regala il gelato al suo fidanzato
«Ripeti di nuovo quella parola e giuro che...»
Bastian rise si sistemò il cappellino in testa. «Che?»
«Niente. Lasciamo stare. ...Guarda tu come ti sei sporcato...»
Karl infilò una mano in tasca e tirò fuori un pacchetto di fazzoletti stropicciato, ne prese uno e glielo porse. «Tieni. Cerca di imparare a mangiare, almeno.»
Bastian lo prese e si ripulì, finì il gelato e buttò via lo stecchino di legno. «Grazie.» Si sporse al suo indirizzo e gli baciò le labbra, un bacio velocissimo, che non trovò nemmeno il tempo delle lamentele di Karl, il quale sospirò per poi scuotere piano la testa, con disapprovazione.
«Sei un bambino…»
«Carino, che piace a tutti e adorabile?»
«No, sporco, rumoroso e rompiscatole.»
«Ah…»
A quel punto Karl si fermo, appoggiò una mano sul suo fianco e lo strinse a sé per baciarlo ancora. Erano soli, le fronde degli alberi erano immobili. Bastian gli circondò il collo con le braccia e ricambiò il bacio, prolungandolo.
«Facciamo che mi vuoi bene anche se sono un rompiscatole?» chiese.
«Facciamo che non me le rompi più, le scatole?»
«No.»
«Ok.»
Bas ridacchiò e ripeté: «ok.»
Karl svariò gli occhi e rimase a guardare il cielo, distratto. «E tu mi vuoi bene anche se ti insulto di continuo?»
«Diciamo che per il momento riesco a soprassedere.»
«Bene, allora.»
«Posso dire ai miei amici che stiamo insieme?»
«Perché? Cosa importa a loro?»
«Perché sarebbe bello essere libero di poter dire che sono col mio fidanzato, quando non posso uscire con loro, anziché inventare scuse, che per altro non sono capace.»
«E a chi dovresti dirlo?» Karl lo teneva per la vita.
«Achim, Bart e Rob. Per il momento.»
«Permesso accordato. Non una parola a nessun altro.»
«Ubbidisco, sergente. Ma ora ti ordino di dare un altro bacio al tuo superiore.»
«Questa cosa della promozione ti ha dato alla testa,» borbottò Karl prima di ubbidire e baciarlo, con gli occhi scuri socchiusi.
 

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Capitolo 8
*** La follia degli occhi verdi ***


Capitolo VIII
La follia degli occhi verdi
 
 
                Il primo fine settimana libero dopo tanto di quel tempo, che Bastian s’era dimenticato di avere vestiti che non fossero la divisa. S’infilò un paio di jeans ed una maglietta, prese una felpa ed anche il suo zaino e vi infilò dentro pochi oggetti: la torcia, il cellulare, la power bank, il lettore musicale, le cuffiette, la sua borraccia, e poco altro. Gli piaceva viaggiare leggero.
Barthold lo guardò e sorrise: «Tutto pronto, allora? Io ho appena chiuso il mio zaino.»
«Sì, sono pronto» rispose lui. «Non vedo l’ora di andare.»
«Karl verrà, poi, alla fine? Hai detto che non era sicuro.»
«Sì, verrà.» Non riuscì a trattenere un largo sorriso. «Porta da bere. Ho già detto a Robert che pensava alla spesa.»
«Posso chiedere se tra voi…» domandò Bart eloquente, mettendosi lo zaino in spalla.
Achim entrò nella camerata in quel momento interrompendoli. «È incredibile che mi fate svegliare alle sei pure nel mio primo week-end libero da settimane. Voi siete pazzi.»
Bastian rise di cuore. «Puoi anche non venire, eh. Noi però andiamo in campeggio. Sarà divertente, vedrai.»
«Hai preso la tenda, Bastian?» chiese Bart.
«Ah, no… accidenti, mi sono dimenticato di dirtelo. Potresti portarla tu?»
«Certamente, non c’è problema.» Lui la tirò fuori dal suo armadietto. «Dov’è finita la tua?»
«Per la verità, io non la porterò. Dormirò nella tenda di Eisner.»
Achim si mise a ridere. «Hai bisogno di profilattici, stellina?» lo prese in giro con voce flatuata.
«No, li abbiamo, ti ringrazio,» rispose lui come fosse la cosa più ovvia del mondo, tanto a suo agio che gli altri due non seppero cosa dire. Sorrise chiudendo lo zaino e silenziosamente lasciarono la camerata, attraversarono il corridoio senza parlare per non svegliare gli altri. Passarono dalla camerata di Robert, che si unì a loro senza farli aspettare e nel cortile del settore A trovarono Karl con lo zaino ai piedi e una sigaretta tra le labbra.
«Ciao!» lo salutò Bastian avvicinandosi a lui più di tutti.
«Buongiorno,» fece Karl. «Andiamo?»
«Un momento,» disse Robert. «Nella mia macchina non entriamo tutti con gli zaini. Non ci avevo pensato.»
«Non preoccuparti, ho la mia macchina,» rispose Karl.
Bastian mosse due passi lontano dagli amici. «Io vado con lui, gli faccio compagnia nel tragitto. Ci vediamo lì.»
«Conoscete la strada?» domandò Bart.
«Io la conosco,» rispose Karl.
                Il fuoristrada rosso di Karl era un vecchio modello con la carrozzeria arrugginita, che aveva conosciuto più spighe di grano e piccoli sassi che asfalto liscio da città. Nonostante l’aspetto, andava ancora bene e non dava troppi disturbi.
Si misero in marcia subito dietro Robert, la cui macchina era decisamente nuova e più confortevole e quando partirono, Bastian subito prese il controllo della radio, mettendo a tutto volume una canzone di Shakira e mettendosi a cantarla. Era stonatissimo, ma felice.
Karl rise scuotendo piano la testa. Aveva gli occhiali da sole scuri che usava per volare e anche Bastian aveva i propri appesi al collo. Uscirono presto da Amburgo immettendosi in autostrada, lui guidava tranquillo con un gomito sul finestrino abbassato ed il vento del primo mattino sul viso che lo svegliava.
«Hei, Eisner?»
«Non ce la fai a stare zitto per cinque minuti di fila, eh? Dimmi.»
«Inauguriamo la tenda subito dopo averla montata, vero?»
Karl rimase un attimo in silenzio e la sua espressione seria fissa sulla strada. «Credo di sì,» fece infine. «Glielo hai detto? Ai tuoi amichetti.»
«Lo sanno, non preoccuparti.»
«D’accordo. Loro e nessun altro, sia chiaro.»
«Hai la mia parola.»
Bastian allungò la mano e la poggiò sulla sua, sul cambio di marce, e lo guardò con un sorriso. «Erano tre giorni che non ci vedevamo.»
«Sì. Le mie orecchie sono state benissimo.»
«Che stronzo che sei,» borbottò lasciando la mano.
Karl alzò il volume della musica. Dopo circa venticinque minuti, il sole era abbastanza alto da illuminare per bene la strada. Non avevano perso di vista la macchina di Robert, che procedeva spedita.
«Superiamoli.»
«La mia macchina non ce la fa, la sua è molto meno vecchia.»
«Ti prego, ti prego, superali.»
Karl sospirò e premette il piede contro l’acceleratore. Dopo un paio di tentativi superarono quella vecchia Mercedes grigia e Bastian colse l’occasione per uscire la mano dal finestrino e fare un gestaccio in direzione dei suoi amici, scoppiando poi a ridere da solo per la bravata.
Alzò la musica quando incontrò una canzone che adorava, Counting stars, dei One Republic.
 
Lately I been, I been losing sleep
Dreaming about the things that we could be
But baby I been, I been prayin' hard
Said no more counting dollars
We'll be counting stars
Yeah, we'll be counting stars.

 
«È la mia canzone preferita. Everything that drowns me makes me wanna fly. Voglio tatuarmelo. Sai che significa, mio bel campagnolo?»
«Illuminami, pozzo di scienza.»
«Tutto ciò che può abbattermi, mi invoglia a volare. Non è stupendo?»
«Lo è, lo è. Quindi vuoi uno di quei tatuaggi tamarri enormi e colorati…?»
«Sì, un aereo che squarcia le nuvole e questa scritta tutt’attorno. Non è un’idea carina? Sul braccio, tutto il braccio pieno di nuvole!»
Karl rise. «Credo sia la cosa più tamarra e oscena che abbia mai sentito.»
«Secondo me non è così male…»
                Arrivarono vicino ad un bosco e cominciarono a rallentare.
Gli alberi si estendevano davanti a loro, a destra e a sinistra, e ogni tanto c’era qualche macchina parcheggiata. Erano le 10 e 12 di venerdì mattina. Sarebbe stato un fine settimana speciale, per loro, il primo che passavano totalmente insieme. Karl avrebbe voluto fossero soli, ma non disse niente, quando accettò l’invito.
Guidava piano, godendosi per lo più il paesaggio. Ad un certo punto, rise brevemente.
«Cosa c’è?» chiese Bas curioso.
«No, niente.»
«Dai, dimmelo.»
«Quei due stavano scopando. Quelli nella macchina blu.»
Bastian rise a sua volta.
                Quando Robert fermò la macchina, lui cercò un posteggio vicino e parcheggiò il fuoristrada.
Scesero con gli zaini e le tende e si riunirono con gli amici che erano andati più avanti a cercare un buon posto, un posto abbastanza largo per tutti. Karl montò in pochi minuti la sua tenda, mentre Bastian era distratto a fischiettare con un uccellino che era lì su un ramo a riposare e che lo ignorò bellamente.
«Pensi di fare qualcosa di utile?» gli chiese Achim.
«No, conto che farà tutto Karl,» rispose lui.
Karl infatti montò la tenda in pochi minuti e vi infilò dentro gli zaini, dopodiché Bastian gli prese la mano e lo trascinò da parte, mentre gli altri erano distratti. Si allontanarono di mezzo chilometro per essere sicuri di essere soli, dopodiché Bastian si voltò, gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Karl ricambiò il bacio e lo strinse a sé. «Non avevi detto che lo sapevano?»
«Sì, volevo evitare i tuoi borbottii a riguardo. Così puoi limonarmi in pace, ti pare?»
Si baciarono a lungo, stringendosi l’un l’altro, finché Bastian sciolse il bacio e lo abbracciò. «Volevo tanto un tuo abbraccio,» confessò. «Gli abbracci sono importanti.»
Lui lo strinse a sé annuendo distrattamente e gli carezzò la schiena una manciata di volte. «Torniamo di là?» disse poi. «Magari si chiedono dove siamo finiti.»
«Sì, torniamo.»
Tornarono ridacchiando per un aneddoto stupido raccontato da Bas, distanti mezzo metro l’uno dall’altro.
Robert, Achim e Bart si guardarono tra loro, senza dire niente, stando al loro gioco. Non avrebbero messo loro fretta, ma era ovvio che sapessero.
                Sedettero tutti sull’erba e organizzarono il pranzo, grigliando un po’ di carne che si erano portati dietro, Robert aveva rimediato un vano frigorifero e lo aveva messo nel portabagagli. Karl aveva portato due cassette di birra e tre bottiglie di super alcolici. Il pranzo fu talmente abbondante che dopo si concessero tutti un po’ di riposo. Bastian aveva portato un telo da stendere per terra e si sdraiò lì, invitando Karl a fare altrettanto. Rimasero stesi lì guardando il cielo e le fronde degli alberi muoversi a causa del vento. Ogni tanto Bas si girava e lo guardava negli occhi o gli sfiorava la mano.
A metà pomeriggio, Robert si avvicinò loro con due birre e rise vedendoli baciarsi. Era stato Karl a prendere l’iniziativa. Gli aveva preso il viso tra le mani e lo aveva baciato dolcemente, anche avendo notato Rob avvicinarsi.
«Finalmente, era il segreto più noioso della storia. Vi ho portato due birre,» disse il ragazzo e dopo aver dato loro le due bottiglie di vetro si allontanò.
Karl aprì entrambe le bottiglie a mani nude e bevve un paio di sorsi.
«Sai farlo coi denti?» chiese Bas.
«Sì.»
«Oddio, però non farlo, mi fa impressione,» pregò.
Bevvero le loro birre e alla sera Karl e Bart accesero due fuochi, erano i più veloci e bravi nel farlo, ogni fuoco era davanti ad una tenda. Karl aveva sistemato la loro più lontano possibile dagli altri, per avere un po’ di privacy anche se nel silenzio della sera dubitò che ci sarebbe stata.
                Davanti al fuoco, presero a grigliare dell’altra carne e a bere dell’altra birra.
Bastian sedette a gambe incrociate vicino a lui.
«Servirebbe della musica,» disse Achim. «Peccato che Robert abbia dimenticato la chitarra.»
A quelle parole, Karl si alzò, rientrò in tenda e tornò dopo meno di cinque minuti con qualcosa tra le mani.
«Che roba è?» chiese Robert.
«Un’armonica. Non è la stessa cosa della chitarra, mi rendo conto.»
«E tu la sai suonare?»  domandò Bastian.
Karl ne diede subito una dimostrazione. Suonò un pezzo breve, naturalmente non era niente che fosse troppo moderno, tuttavia era una melodia piacevole e ritmata.
«Vuoi, non sapevo suonassi uno strumento!» esclamò Bas entusiasta.
«Più che uno strumento, è un passatempo,» rispose lui. «Ce l’ho da quando avevo dodici anni, sai, le feste di paese non hanno grandi strumentisti.» Alzò le spalle.
«Posso provare?»
Karl gliela porse. «Stai attento, sei capace di tagliarti la lingua, tanto sei goffo.»
«Hei!» ma proprio nel dare quest’esclamazione e nel porgersi in avanti per prendere lo strumento, Bastian perse l’equilibrio e dovette aggrapparsi a lui, scoppiando a ridere.
Karl svariò gli occhi e lo aiutò a rimettersi sulle proprie gambe. «Sei proprio un disastro. Come fai a cadere da seduto?»
I tre amici risero guardandoli. Karl ripose in tasca quella graziosa armonica tutta marrone intagliata e non se ne parlò più. Mangiarono ancora qualcosa e con qualche buona chiacchiera e qualche altra bottiglia di birra, andarono poi nelle proprie tende.
                Bastian si accoccolò subito a Karl, cingendogli la vita col braccio sinistro.
«Possiamo dormire insieme due notti di fila. Non sei felice?» mormorò dolcemente.
«Dipende,» rispose lui voltandosi per guardarlo.
«Da cosa?»
«Da quanto hai intenzione di russare.»
«Che stronzo! L’altra volta ero raffreddato, per questo ho russato. Di solito non capita…»
Karl si mise su un fianco e lo guardò. «Non c’è una sola cosa di te che, da sola, attirerebbe la mia attenzione.»
«Cosa sarebbe questo? Un tentativo di flirtare? Pessima riuscita.»
Lui scosse la testa. «Riflettevo. Non so perché sto con te. Sei un rompiscatole incredibile, cadi da fermo, sei goffo e rumoroso.»
«Ma ho anche dei difetti,» mormorò lui, nascondendo l’imbarazzo in una risatina.
«Però con nessun altro avrei mai fatto quello che sto facendo stasera con te. Dormire nella stessa tenda, con dei camerati a due metri di distanza che sanno benissimo cosa sto per fare.»
«Ah sì? E cosa stai per fare?»
«Questo.»
Karl lo sovrasto e si chinò per baciargli il collo. Affondò la mano sulla sua schiena, scese sul fianco e poi, via via, più giù, mentre le labbra non si staccavano dalle sue.
«Ah, per la verità una cosa c’è.»
«Cosa?» mormorò lui distratto, con gli occhi socchiusi.
«Gli occhi. Gli occhi verdi mi hanno sempre fatto impazzire.»
«Quindi valgo solo i miei occhi?»
«Questo potrebbe essere il massimo del complimento che avrai mai da me. Goditelo e non ti lamentare.»
«Dimmelo meglio.»
«I tuoi occhi verdi mi fanno impazzire

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Capitolo 9
*** Piastrine militari ***


Capitolo IX
Piastrine militari
 
 
 
     Dalle sei del pomeriggio alla mezzanotte di ogni giorno, le caserme aprivano le porte ai soldati, i quali, se non avevano particolari compiti da svolgere, potevano uscire tranquillamente, a patto che tornassero per l'ora stabilita.
Così l'animo rimaneva elevato e la struttura militare non diveniva un istituto penitenziario.
Casomai qualcuno non volesse uscire, poteva usufruire della palestra o dello spaccio interno. Fumare, giocare a carte. Karl prima rimaneva spesso e, non avendo molto da fare, si allenava un po' o leggeva qualcosa.
Ma da quando Bastian era entrato nella sua scialba vita, portandosi dietro un sacco di buone iniziative e tre amici, si aveva sempre qualche cosa da fare.
Per esempio, quel giorno, decisero di andare al cinema.
     Alle 18:13 erano alla fermata dell'autobus, era la stessa che li conosceva da sempre, quella che accoglieva tutti i militari, di qualsiasi grado e generazione, giornalmente.
Accanto a loro cinque c'era solo una ragazza con una gonna rossa che reggeva le borse della spesa della nonna, una vecchietta piccola con enormi occhiali, ricurva sul bastone. Aveva i capelli bianchi, gli occhi neri e l'espressione furba.
Bastian aveva cercato più volte di stringere la mano del fidanzato, aveva cercato un contatto con lui ma non riusciva a trovarlo. Si piazzò davanti a lui e lo guardò negli occhi.
«Che hai?» chiese sottovoce.
«Niente» rispose quello corrugando la fronte. «Perché?»
«E allora, se non hai niente, perché non mi dai un bacio?»
L'autobus sarebbe passato tra tre minuti.
«Perché siamo proprio dietro la caserma.» Fece un cenno. «Non mi va che ci vedano, lo sai.»
«Sì, va be'...» lui sbuffò e ficcò le mani in tasca. Aveva dei pantaloncini grigi ed una camicia celeste con su delle minuscole palme stilizzate, bianche e blu. Le scarpe, anch'esse blu. Era abbastanza vanitoso... ed era sempre difficile farlo uscire in orario.
Si allontanò andando vicino la vecchia e la ragazza, leggermente infastidito.
Bart, Bert ed Achim si scambiarono un'occhiata.
Robert disse, per allentare la tensione: «Vi ricordate quando Bild pubblicava foto di donne in topless?»
Rispose svelto Joachim, con una specie di broncio sul volto innocente e minuto. «Assolutamente. Non potete capire quante diottrie ho perso con quella roba.» Gli altri due risero e lui continuò: «Peccato abbia smesso.»
«Già, l'8 marzo 2012.»
«Dio, Robert, sei inquietante» rise.
Bastian si era appoggiato ad un muretto lontano da tutti, ancora un po' nervoso. Tirò fuori un pacchetto e un accendino da una tasca dei pantaloncini e stava per accendersi una sigaretta, quando vide l'autobus avvicinarsi e pensò a quanto fosse stato stupido; era talmente sovrappensiero... comunque non avrebbe resistito a lungo senza fumare.
     La vecchia e la ragazza furono invitate a salire per prime sul mezzo di trasporto da quei cinque galantuomini, poi lui timbrò il biglietto e andò a cercarsi un posto tra i sedili in fondo. Sedette e ben presto concentrò l'attenzione dei suoi occhi chiari fuori dal finestrino, in silenzio.
Karl sentiva che se non avesse subito preso posto accanto a lui, la piccola freddura che si era creata non sarebbe tornata molto in fretta a temperatura ambiente. Non potendo permettersi che un estraneo occupasse il sedile, si accomodò svelto.
Rimase in silenzio per un po'. Poi sospirò via il suo, di fastidio, e rivolgendo le spalle al mondo, si voltò verso di lui.
«Mi terrai il broncio tutto il giorno perché non ti ho dato uno stupido bacio? Quanto sei immaturo.»
Bastian non rispose. Fece un cenno scocciato con la mano che poi si passò sulla coscia e sul ginocchio, distrattamente. Aveva appena deciso di stare zitto, quando le sue labbra, del tutto autonome, si schiusero e parlarono.
«Perché invece, a quasi venticinque anni, è maturo continuare a nascondersi, vero?»
L'altro rimase in silenzio per qualche secondo. La sua mente ultimamente gli giocava brutti scherzi. Gli si parò davanti l'immagine di un padre omofobo fino al midollo, un uomo di campagna anziano e bruto, con la cintura in mano e gli occhi a poco fuori dalle orbite. Tacque. Socchiuse gli occhi e poi mugugnò: «Non m'interessa quello che dici. In caserma non devono saperlo. Lo sai benissimo anche tu.»
«Ma non siamo in caserma!» sbottò lui.
«E la stessa cazzo di cosa, 'Stian.»
«Tu hai paura ovunque, Karl. Ovunque.»
«Non è affatto vero! Esageri solo perché sei arrabbiato e vuoi avere ragione.»
«Sì, certo» lo assecondò.
Dal finestrino lo sfondo scorreva a ritmi irregolari. Ora più veloce, ora più lento. Le persone per strada conversavano tra loro senza litigare e questo suscitò in lui una sorta di rabbia. Vedeva il sergente Eisner, alla sua destra, il suo fidanzato insomma, con le braccia strette al petto ed i muscoli della mascella irrigiditi. Gli piaceva l'insieme di lui in quel momento, lo trovava bello, ma non poteva dirglielo.
«Vuoi sempre aver ragione» lo sentì dire. Vide i suoi occhi scuri fissi davanti a sé, come se stesse ricordando qualcosa. Noto le dita strette intorno al braccio. Si sentì in colpa. A volte dimenticava quello che aveva passato. Cercò di sdrammatizzare e quindi di fare pace.
«Certo, perché sono un tuo superiore» mormorò e sorrise leggermente. «Dammi la tua piastrina, Eisner.»
Karl si rilassò di colpo e lo fissò senza capire.
«Allora, Unteroffizier?»  chiese sollecito l'altro.
Lui si tolse dal collo la medaglia con nome, cognome, gruppo sanguigno e matricola e la sistemò in una delle sue mani aperte. «Tieni.»
Bas la prese e se la mise anche lui al petto. Sulla propria, entrambe vicino al cuore, che splendevano un poco alla luce che filtrava dal finestrino. Soddisfatto, guardò tra i sedili, chiedendosi dove fossero gli altri tre, li scoprì dalla parte opposta dell'autobus.
«Te la ridarò quando torneremo in caserma, Eisner.»
Karl avrebbe voluto riaverla molto prima. Ma non volle ribattere per poi litigare ancora. Perciò annuì, e poi scrollò le spalle. «Se non la perdi prima» lo stuzzicò.
 
 
     Il cinematografo “Himmel und Hölle” aveva una vecchia insegna di legno dal sapore vintage. Ed un piccolo pannello rettangolare al neon. Sull'insegna, un angioletto ed un diavoletto chinati in avanti nella stessa posizione, con gli abiti dello stesso colore e la pelle anche, praticamente uguali fatta eccezione per le due piccole corna di uno e l'aureola dell'altro, reggevano il nome, scritto con l'inchiostro nero. La porta era a vetri e la maniglia rivestita in legno. All'interno, tutto ricordava altri tempi.
Quando entrarono, fu il proprietario ad accogliergli. Allisciò i baffi castani e si avvicinò a loro, calibrando bene i passi. «Miei cari signori» li salutò.
Aveva le maniche della camicia blu a righe sottili bianche tirate sui gomiti, lasciando in questo modo scoperte le braccia. Si vedeva bene uno dei suoi tatuaggi, sulla destra. Una schiera di angeli. Aveva un modo di fare paterno e affidabile. Quando continuò a parlare, nel suo tono di voce c'era una nota di dolcezza. «Da quanto tempo non vi si vede!» Sorrise. «Come state?»
Era il cinema più vicino alla caserma e quasi tutti i soldati lo frequentavano.
Philipp von Kochel ricordava i loro nomi e i loro volti. Aveva davvero un'ottima memoria. Circa quarantatré anni d'età, capelli scuri lunghi con qualche filo bianco, più sottile delle piccolissime righe della sua camicia.
I ragazzi lo adoravano, specie Bastian. «Salve!» esclamò. «Benone. Lei?»
«Oh, mio caro sergente maggiore!» gli scoccò un'occhiata furba. Non gli sfuggiva niente. Aprì le braccia imitando l'Altissimo e rispose, pacato: «Meravigliosamente.»
Sfiorò con le dita una delle bretelle blu e si avvicinò alle locandine, indicandole.
«Con quale film avete intenzione di deliziarvi quest'oggi?»
Barthold toccò con lo sguardo ogni locandina. «Bas, dillo che non vedi l'ora di... ecco, apppunto.»
Lo trovò davanti una locandina dai toni rossastri. “Planes 2: Immer im Einsatz.” Svariò gli occhi. «Sei prevedibile.»
«Lo riguardiamo? Vi prego, vi prego!»
Karl gli si affiancò ed ebbe subito da obiettare. «'Stian, no. È un film per bambini e lo abbiamo già visto. Non possiamo rivederlo ogni volta che lo rimettono in uscita. Me lo hai anche fatto rivedere in streaming! Non ci pensare neanche.»
Philipp esordì: «Nessun film è veramente solo un film per bambini.»
A Karl non piacevano le intromissioni, perciò non lo degnò neanche di uno sguardo.
Quello proseguì col suo dire: «Anzi, vi dirò: i cosiddetti “film per bambini” contengono i messaggi più profondi e belli. Ordunque, vi consiglio sentitamente questo “Planes 2.” Sempre che abbiate visto il primo, naturalmente.»
«Lo abbiamo visto e lo abbiamo trovato fantastico» mugugnò Bas. Poi volse lo sguardo verso il fidanzato. «Dai...» Cercò la sua mano e la strinse. «Dai...»
«Non farmi gli occhi dolci» brontolò l'altro.
Bastian sogghignò. Poi avvicinò le labbra al suo orecchio e disse qualcosa.
Nessuno sentì una sola parola.
Ma alla fine, Karl pareva convinto, anche se sospirava. Presero i biglietti usufruendo dello sconto che avevano in quanto militi ed attesero l'inizio del film, ma non poterono farlo comodamente seduti ai loro posti, perché in sala stavano ancora proiettando il film precedete e quindi per loro non ci sarebbe stato posto.
Nell'attesa Philipp intrattenne i suoi ospiti come il padrone di casa nel proprio salotto. Conversando cordiale e scambiando con loro chiacchiere di circostanza.
Bastian si complimentò per il tatuaggio, che a suo avviso era molto ben fatto e lui confessò che non era l'unico.
«Ho una schiera molto simile, ma di diavoli, tatuata sull'avambraccio destro; una croce sul petto e poco altro.» Sorrise. Gesticolava un poco quando parlava. Sollevò di più la manica della camicia sul braccio destro per mostrare ciò di cui parlava. Per lui i tatuaggi che aveva sulle braccia racchiudevano il mondo e, più precisamente, il dualismo bene-male insito nell'uomo fin dalle prime pagine della Sua storia. Ecco il perché del nome del cinema, Himmel und Hölle, inferno e paradiso; microcosmo e macrocosmo dell'uomo. Secoli di storia racchiusi in tre semplici parole. Dopo essersi inumidito le labbra, gli occhi nocciola saettarono sugli occhi verdi del suo giovane interlocutore. «Qualche tatuaggio?» sussurrò come se rivelasse un segreto.
Il ragazzo annuì: «vorrei. Alles, was mich entumutigt, mich zum fliegen veranlaesst. Tutto ciò che mi uccide, mi invoglia a volare. È la frase di una canzone, solo che l’ho tradotta in tedesco. Non so se tatuarmela in tedesco o in inglese. Devo ancora pensarci.»
«Che frase importante. Maestosa, oserei.» Puntò gli occhi nocciola sui suoi verdi. «E dimmi, giovanotto, credi che volare sia così semplice?»
Bastian lo guardò senza capire. «Ma certo» rispose svelto. «Io sono un pilota.» Tradì un po' della sua arroganza, Philipp ne ridacchiò. «Naturalmente, non mi riferivo alla tua carriera.»
«Ah... no?»
«No.»
«E a cosa?» Il sergente maggiore, giovanissimo, forse troppo per avere un grado così importante, esitò.
Philipp tacque un momento, con due dita scivolò sul suo petto (Karl lo fissava insistentemente), lo carezzò come se volesse rimuovere la polvere per poi prendere una delle due medagliette metalliche tra le dita. Lesse il nome. Karl Eisner.
«Bisogna avere il cuore leggero per volare.»
Bas era confuso, ma gli diede corda. «Lo so» rispose piano. «Bisogna amare il cielo. Il sole, la luna. Le stelle.»
«Se stessi- fece l'altro, lasciando andare la piastrina sottile che tintinnò sull'altra. «Bisogna amare soprattutto se stessi.»
«Certo. Non avere pensieri.»
«O avere quelli giusti.»
Il ragazzo esitò. E quasi a giustificarsi, disse: «Io sono un buon pilota, mi creda.»
Suscitò un'altra risata affettuosa nell'uomo. «Oh, ma io non lo metto in dubbio. In verità, io non parlavo di questo. Volete scusarmi?»
Sorrise paterno e si allontanò per salutare qualcun altro, una coppietta appena arrivata.
Il film sarebbe iniziato tra qualche momento e Bastian pareva sconvolto.
 
 
     Erano seduti.
Fila J, posti 12, 13, 14, 15 e 16. Le luci erano già spente, sul maxischermo erano proiettate alcune pubblicità. Bastian e Karl erano seduti vicini. Quest'ultimo mugugnò: «Siamo attorniati da bambini.» Sospirò e lasciò andare la nuca contro lo schienale.
«Non è così male» rispose Achim cercando di essere ottimista.
«Spero che i marmocchi non inizino a parlare.»
«'Stian, l'altra volta ti sei fatto rimproverare da una bambina di 4 anni e hai avuto pure il coraggio di guardarla male.»
Il sergente maggiore ridacchiò. «Era una bambina antipatica.» E appoggiò la testa alla sua spalla. Intrecciò le dita alle sue e puntò gli occhi chiari sullo schermo.
 

     Finito il film, salutarono Philipp ed uscirono dal cinema.
«Rob, torniamo in caserma a finire quella cosa?» chiese Barthold.
«Che dovete fare voi due?» insinuò Bas.
Era scesa la sera. C'era un piacevole venticello e la luna era a poco più che un terzo dal suo splendore.
Robert gli fece una smorfia e poi, insieme al coopilota, si allontanò. Ma prima chiese a Joachim che avesse intenzione di fare.
«Ah... torno con voi in caserma. Mi scoccia rompere le palle ai due piccioncini.»
Karl sorrise imbarazzato.
Bastian rise stringendosi a lui, in cerca di calore, affetto, protezione. «Guarda che abbiamo passato da tempo la fase da piccioncini.»
«Ammesso che l'abbiate mai avuta, Kluge,» fece Bart.
«Tu e Rob l'avete adesso, Riemelt?»
Qualche minuto dopo si separarono.
Bastian si voltò e baciò Karl. «Ce l’ho ancora la piastrina, hai visto? Non te l’ho persa.»
Karl gli cinse la vita e svariò gli occhi. «Mi stai stupendo,» fece ironico. Si chinò per baciarlo una seconda volta, si sentiva protetto dagli alberi alti.
Bas rise piano e gli portò le braccia al collo, lo strinse a sé e continuò a baciarlo, prolungando quell’unione. Tra i baci, sorrideva, poi lo baciava ancora, con gli occhi socchiusi, e ogni tanto gli carezzava i capelli. «Ti va se facciamo una passeggiata?»
«D’accordo.»
«E…»
«Puoi darmi la mano, sia mai che ti perdi per strada poi…»
Bastian gli diede un pugno sul braccio, ridendo. «Che stronzo!»
Dopodiché intrecciò le dita alle sue e cominciarono a camminare. Le due piastrine militari si muovevano allo stesso ritmo, sul petto di Bastian Kluge.
 
 

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Capitolo 10
*** Vecchie storie e nuove storie ***


Capitolo X
Vecchie storie e nuove storie
 



     Bastian avanzò piano verso la staccionata, a ritmo di musica, fischiettando tra sé. Col sorriso guardò il sole. Stava calando e tingeva il cielo d'arancio. Ridacchiò e balzò a sedersi su quello steccato in legno così sottile e scomodo, con agilità prese posto e lasciò i piedi a penzoloni. Si voltò, aveva le mani in grembo. Lo guardò negli occhi ed abbassò il capo vedendolo avvicinarsi.
Si appoggiò al suo petto ed incrociò il favore delle sue labbra. Erano calde e così morbide...
Gli carezzò i capelli scuri.
«Hai gli occhi che brillano» disse osservandoli.
Karl ricambiò lo sguardo, aveva le mani appoggiate accanto ai suoi fianchi ed era leggermente chinato in avanti. Non rispose al complimento e, con un velo d'imbarazzo, sfiorò il suo mento con la bocca. Lo sentì ridere e accarezzò la sua schiena con la mano destra.
«Mi era mancato stare un po' da soli.»
«Già» rispose. «Anche a me.»
«Ti va se facciamo una passeggiata?»
«D'accordo.» Si scostò da lui e gli tese le mani.
Bas rise. «Pensi che cadrò?»
«Penso solo che sei incredibilmente goffo ed impacciato.»
Si attardò ancora lì sopra, dondolando un poco i piedi. Lo guardò con affetto per qualche secondo.
Karl si voltò appena verso destra e poi pizzicò la base del naso con due dita, cercando di mostrarsi indifferente, ma quando riportò lo sguardo su di lui, notò che era già sceso e lui non se n'era accorto. Si era fatto vicino e adesso solo dieci centimetri li separavano. Colmò quella distanza offrendogli la mano.
«Di solito non lo fai» notò l'altro.
«Facciamo questa passeggiata senza lamentarci. Ti va bene?»
«Sì. Mi va bene.»
      Erano fuori città, avevano lasciato Amburgo quella mattina per stare un po’ da soli, in pace, lontani dalla caserma. Cominciarono a camminare e le loro dita s'incrociarono così bene, che non sembravano volersi lasciare. Non c'era nessuno attorno e ad entrambi sembrò di essere in una sorta di paradiso. Il grano danzava alto al ritmo del vento, con la musica del silenzio; le nuvole lentamente nuotavano nell'azzurro opaco del lenzuolo del cielo; il sole splendeva e bagnava la terra. Erano lontani da tutto e tutti ed era difficile, nella pace di quel posto, pensare a qualcosa di male.
Camminarono lentamente, i piedi uno davanti all'altro, in silenzio, con la prese ferrea delle loro mani. Karl prese poi l'armonica e, sedutosi sul tronco di un albero, cominciò a suonare, sotto richiesta dell'altro. Ne venne fuori una melodia dolce e nostalgica, che faceva da sfondo a quel momento. Bastian si accomodò vicino a lui ed appoggiò la guancia alla sua spalla coprendo i due smeraldi e non vedendo che il nulla. Accarezzò col pollice il suo ginocchio protetto dai jeans chiari e si strinse a lui. Ogni tanto gli diceva: «Non ti fermare» oppure: «mi piaci quando suoni» o ancora: «mi piace come suoni, questa musica è bella.» Terminata un'altra canzone, disse: «vorrei rimanere così in eterno.» Si distese sul tronco ed appoggiò la nuca alla sua coscia.
L'altro mise nella tasca della camicia a quadrucci l'armonica ed appoggiò la mano destra alla sua guancia sinistra, cominciando ad accarezzarla, anche se con lo sguardo non notava che il cielo bellissimo di un tardo pomeriggio d'estate. In un lampo, si chinò in avanti e gli baciò la fronte. E lo sentì ridere e non poté che dirsi soddisfatto e felice.
«Hei, 'Arl...»
«Sì?»
«Chi è Henner?»
Per un momento calò il silenzio, ma non un silenzio gravoso e pesante, bensì melanconico e dolce.
«Come conosci questo nome?»
«A volte, quando hai gli incubi, lo chiami nel sonno. Quelle poche volte che dormiamo insieme.»
Bastian gli prese la mano e cominciò a giocare con le sue dita.
«Sono stato bene con Henner, è stato importante per me sotto tanti punti di vista e mi è mancato per molto tempo. Ma sono passati anni ed ora non mi manca più. Ti va bene come risposta?»
Lo guardò. Alzò una mano per accarezzargli il viso, mentre con l'altra teneva la sua sopra il proprio petto. «E se io me ne andassi, ti mancherei?»
«Perché mi fai questa domanda?»
«Voglio sapere se sono importante.»
«Smettila di chiedertelo, abbi un po' di autostima, per Dio.»
«E' che non me lo dici mai.»
«Dovresti saperlo da te.» Scrollò appena le spalle.
Bas si mise seduto e lo guardò negli occhi. «Senti, Eisner...»
«Sì, lo so, e provo la stessa cosa,» rispose Karl, guardandolo negli occhi. Una risposta data d’istinto. Sentì il cuore accelerare il ritmo ed una strana sensazione nello stomaco.
Bastian sorrise. «Lo sai che...»
«Lo so.»
«Fammelo dire.»
«Non devi dirmelo.»
«E invece sì. Voglio farlo.» Si avvicinò a lui e socchiuse gli occhi, concentrandosi sulla forma del suo viso. La mascella, il mento, il profilo del naso... «Io ti amo.» Appoggiò le labbra alle sue.
Karl non rispose. Chinò il capo per ricambiare il suo bacio.
«Ti amo» continuò lui. «Non sto veramente bene che con te. Tu non provi la stessa cosa?...»
«È complicato.»
«Non deve esserlo, se non vuoi. Chiudi gli occhi. E pensaci. Hai tutto il tempo. Io ti aspetterò qui.»
Karl ubbidì. Serrò le palpebre e sulle sue labbra si dipinse un sorriso. “Se lo amo...” rifletté, “naturale, io lo ami.”
Tacque.
“Naturale, com'è naturale il volo per noi.”
Passò un dito sotto l'occhio destro.
“Come fa ancora a chiederselo?”
Si levò in piedi.
“Che stupido.”
Aprì gli occhi e gli prese il polso. Lo costrinse ad alzarsi e riprese il cammino. Bastian rimase in silenzio. Quando Karl lo tirò a sé, lo seguì senza chiedersi dove stessero andando. Semplicemente fidandosi.
 
 
            A mensa, quella sera, seduti al tavolo per il rancio, Karl era lì con loro.
Ormai era una consuetudine. Raggiungeva Bastian ed i suoi amici e cenavano e pranzavano insieme. Gli altri non ci trovavano niente di strano, era naturale che i copiloti passassero molto tempo insieme.
«Dove siete stati oggi, piccioncini?» bofonchiò Achim, tagliando poi in due un grosso pezzo di patata. «Bastian, sembri abbronzato.»
«Siamo stati fuori città. In campagna, in mezzo al niente, perciò non verrò a dirti cos’abbiamo fatto, volevamo un po’ di privacy,» rispose Bas ridendo.
Karl rimase in silenzio e bevve un po’ di birra.
«E la tua Irem?»
«Sono disperato, non la vedo da due settimane. Inizio a pensare che suo fratello la tenga in ostaggio.»
«Molto probabile,» disse con ironia Bart, che nel frattempo era diventato il migliore amico di Bastian. I loro letti in camerata erano vicini e rimanevano spesso svegli fino a notte tarda a parlare dei loro progetti, dei loro sogni, delle loro prime cotte, o di qualsiasi altra cosa. Bas non aveva mai avuto un amico così fidato.
«Possiamo fare una ricognizione area sopra il negozio, se ti può tornare utile. Dopodomani abbiamo un’esercitazione. A fine mese si saprà chi partirà per la prossima missione. Ancora non si conoscono i dettagli,» intervenne Karl.
«Siamo sempre gli ultimi a sapere le cose. Sono sicuro che la Bundeswehr[i] sa già tutto,» borbottò Achim. «Una ricognizione è una buona idea, ma faccio con il mio copilota, ti ringrazio.»
Tutti risero e terminarono il pasto tra altre battute.
            Karl e Bastian si concessero un’ultima sigaretta insieme nel cortile interno, c’erano altri soldati che come loro fumavano, non potevano baciarsi o toccarsi, ma potevano almeno parlare un po’ da soli.
«Ti va di conoscere mia sorella?» disse di punto in bianco Bas.
«Ingrid? Perché?»
«Perché tu mi piace e stiamo insieme e lei è mia sorella,» rispose con fare ovvio.
«Non lo so, ‘Stian…»
«Sei l’unico che mi chiama così, lo sai, Eisner?»
«Sì.» Karl gettò la cicca della sigaretta per terra. «Tua sorella sa di noi?»
Lui rispose ridendo. «Non le ho mai nascosto di essere gay. Quando a sedici anni, ebbi il primo appuntamento con Ferdinand, mi consigliò lei cosa indossare.»
«Bene. Ci penserò. Sono stanco, vado a dormire. Buonanotte.»
«Buonanotte,» rispose più dolce, tenendo la sigaretta tra le dita della mano sinistra.
Karl gli rivolse un’occhiata dolce, fece dietrofront e tornò agli alloggi.
 
[i] Bundeswehr è il nome delle forze terresti tedesche. Esiste una fortissima rivalità tra Bundeswehr e Luftwaffe, l’aeronautica. I piloti hanno spesso la nomea di femminucce tra i soldati della Bundeswehr.

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Capitolo 11
*** Lamponi e banane ***


Capitolo XI
Lamponi e banane



 
                Bastian si stiracchiò e finì con l’abbracciarlo.
«Sono felice che tu abbia deciso di venire da mia sorella, domani sera, sai? Lo so che per te è un sacrificio. Grazie.» Gli diede un bacio veloce.
Karl scrollò le spalle. «So che per te era importante.»
«Lo sai che giorno è oggi?»
«Mercoledì?»
«No.»
«Un giorno di sole?»
«Oggi sono esattamente otto mesi che stiamo insieme.»
«Ah,» fece «e io c’ero, quando otto mesi fa, hai deciso che eravamo fidanzati?»
Bas lo spinse via sciogliendo l’abbraccio, ridendo. «Che idiota. Sì. C’eri. E con oggi sono otto mesi. Dovremmo fare qualcosa di carino… uscire insieme o qualcosa del genere…»
«Potremmo fare sesso.»
«Potresti essere romantico e dolce per una volta?»
«Potremmo fare l’amore,» si corresse, ironico.
«Dico sul serio, Karl. Facciamo qualcosa per festeggiare.»
«Dobbiamo festeggiare il fatto che ci sopportiamo ancora dopo otto mesi? Mi sembra un bel traguardo.»
«Sei il solito arido di cuore,» borbottò Bastian mettendo il broncio.
Karl svariò lo sguardo. «Stasera ho il turno di guardia.»
«Ah, lo avevo dimenticato…»
«E domani sera siamo da tua sorella. Festeggeremo il mese prossimo. Ora devo andare.» Gli fece un mezzo saluto alla militare, con la mano sul capo e si allontanò.
 
 
                Il tenente Breyer era su tutte le furie.
Non faceva che urlare, come un padre arrabbiato per aver scoperto i suoi figli a combinare qualche guaio.
Karl ascoltava guardando fisso davanti a sé, con le mani dietro la schiena, le gambe leggermente divaricate. Bastian aveva una certa eccitazione negli occhi che comunque non riusciva a celare. Tratteneva un sorriso, però, per non peggiorare la situazione.
«Siete due incoscienti! Vi faccio degradare! Due squilibrati! Questa bravata vi costerà cara. Ricadrà su tutta la compagnia! I permessi premio e tutte le uscite sono sospese!»
Lukas Breyer si allontanò in grande fretta e quando fu via, Robert sospirò e Bart bestemmiò forte.
«Che cazzo, ragazzi, vi odio!» borbottò Achim.
Bastian scoppiò a ridere attirandosi brutte occhiate da tutti i suoi commilitoni. «Vi chiedo scusa… però…»
«È stato stupendo,» fece Bart. «Siete stati fantastici. Se volassimo tutti come voi due, sapete quanti antiaerei svieremmo? Siete due malati mentali, ma vi amo!» esclamò ridendo.
                Le acrobazie folli di Bastian e Karl facevano girare la testa a chiunque nella compagnia. Li invidiavano tutti, invidiavano il loro coraggio, il loro autocontrollo, la percezione millimetrica con cui si distanziavano quando volevano separati e la precisione di quando volavano insieme. Li invidiavano tutti anche se adesso, con la punizione collettiva, qualcosa sarebbe potuto cambiare.
 
 
                Riuscirono ad andare da Ingrid, tra una cosa e l’altra, due mesi e mezzo più tardi.
La rabbia di Breyer era rientrata subito perché in effetti aveva un debole per loro e credeva che potessero essere preziosi in missione, perciò lasciava loro delle libertà che nessun altro avrebbe potuto avere. Certo, qualche volta esageravano e doveva riprenderli, ma non era mai veramente arrabbiato con loro. Li aveva messi in coppia di proposito. Non si aspettava niente di diverso da loro due. Era esattamente quello che si augurava facessero.
                La casa di Ingrid era in una strada strettissima, al quarto piano senza ascensore, ma in una zona residenziale molto carina. Bastian e Karl si presentarono da lei con un leggero ritardo e quando lei aprì la porta, Bastian l’abbracciò subito.
«Ingrid!» la chiamò entusiasta.
Lei era poco più alta di Bastian, aveva i capelli castani tendenti al rosso, molto mossi, simili a quelli di Bastian che però erano lisci, e occhi verdi altrettanto accesi. Aveva un viso molto dolce e la carnagione chiara. Li invitò subito ad entrare.
«Ciao, Karl, giusto?»
A lui venne in mente la prima volta che vide Bastian, che lo salutò esattamente alla stessa maniera. Annuì. «Sì, Karl, piacere.»
«Bastian non fa altro che parlarmi di te. Prego, sedetevi.»
«Ah, non c’è Hector?» domandò Bas, leggermente arrossito, per cambiare discorso.
«No, è in tribunale.»
«Così tardi?»
Ingrid accese il bollitore elettrico. Annuì distrattamente, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sì, ha un caso difficile. È con il suo cliente.»
«Mio cognato è un avvocato,» spiegò Bas, sedendosi sul divano e tirando Karl accanto a sé.
«Sì, me lo avevi detto,» confermò lui.
Ingrid portò in tavola dei biscottini e sedette con loro. «Mi dispiace che proprio ora che siete riusciti a venire, lui non ci sia. Dovrebbe tornare a momenti.»
«Non preoccuparti, ci sarà tempo per incontrarlo,» rispose il fratello, rubandone subito un paio.
«Vi siete fatti mettere in punizione, eh? Mi ricordo quando andavi a scuola, avevi sempre mille punizioni diverse,» fece lei con tono di rimprovero.
Bastian si mise a ridere e Karl sospirò. «Prima che arrivasse lui,» spiegò «non ero mai stato punito. Il mio fascicolo era immacolato. Me lo ha sporcato.»
«Sebastian ha il super potere di trascinare tutti dalla sua parte,» mormorò Ingrid.
«Non chiamarmi così, ti prego, lo sai che lo detesto. Mi ci chiama solo la mamma.»
Lei annuì e rimase in silenzio un minuto. «Mi ha chiesto di te, sai? Forse potresti andarla a trovare una volta.»
«Sì, io… andrò da lei presto. Non guardarmi così, ci andrò davvero. Appena posso.»
Ingrid strinse le labbra ed annuì. Dato che era molto buona e non voleva litigare, cambiò argomento. Guardò Karl con un largo sorriso, aveva le labbra molto sottili e quando sorrideva sembravano quasi scomparire. «Tu hai lo stesso grado di Bas?»
«No, io sono solamente un sergente. Lui ha ottenuto da poco questa promozione. Del tutto immeritata,» fece Karl serio all’apparenza, ma in realtà scherzando.
Bastian lo capì e scoppiò a ridere. «Che stronzo! Non è vero. Sono un buon pilota e ho dato un ottimo contributo ad una missione nella vecchia caserma. L’avanzamento di grado ci mette sempre un po’ ad arrivare, la burocrazia è lenta,» disse mordendo il biscotto e subito dopo: «non era ai lamponi, vero?»
«Secondo te compro dei biscotti ai lamponi per mio fratello che è allergico? No. Niente lamponi né banane.»
«Sei allergico alla banana, anche?» mormorò Karl guardandolo con la coda dell’occhio.
«No, è che non mi piacciono le cose alla banana.» Silenzio. «So che essendo frocio non ci si crede, ma detesto le cose con la banana…»
Ingrid svariò gli occhi. «Sono dieci anni che fa la stessa battuta. Caffè o tè, Karl?»
«Caffè, grazie.»
«Come lo sopporti?»
«Non lo sopporto, infatti. Ma hai qualche consiglio per evitare che si sporchi quando mangia?»
«Non ha ancora imparato!?» domandò lei.
«No. Non è in grado di mangiare. E continua a cadere da fermo.»
«Questa alleanza non mi piace per niente,» borbottò Bastian ridendo piano.
«Sempre stato goffo e pasticcione,» mormorò Ingrid servendo un caffè l’uno ai ragazzi e mettendo in infusione una tisana. «I nostri genitori lo hanno anche fatto controllare, ma è sano.»
«Mio padre doveva farsi controllare,» bofonchiò Bastian.
«Bas, dai, smettila. Mi ha anche chiamato per sapere come stai…»
«E cosa gli importa?» Bastian si voltò verso Karl. «Mio padre ha lasciato mia madre da tantissimi anni, te l’ho detto, no? Subito si è formato un’altra famiglia, ha una figlia adolescente adesso. Noi per anni non l’abbiamo sentito, poi un giorno si è ricordato di noi due.»
«Non sapevo avessi un’altra sorella,» disse Karl.
«Quella non è mia sorella, è un’estranea,» puntualizzò lui. «Comunque, sono davvero buoni questi biscotti. Pensavo, Ingrid, perché non andiamo a cena fuori tutti e quattro insieme, qualche volta?»
«Sì, certo, potremmo farlo, quando voi potete. Ah, domenica vado a prendere la mamma, mangia qui, perché non vieni? Sei invitato anche tu, Karl, naturalmente.»
«Mi dispiace,» rispose pronto Bas. «Sono di turno, domenica non posso proprio.»
Karl sapeva che stava mentendo, ma non disse nulla.
Mangiarono qualche biscotto e fecero ancora qualche chiacchiera, ma si era fatto tardi e dovevano tornare in caserma. Hector non fece in tempo ma Bastian disse a Karl che lo avrebbe conosciuto presto, in un modo o in un altro.
«Hector racconta delle barzellette bellissime,» disse mentre aspettavano l’autobus.
«Perché non vuoi vedere tua madre?»
«Ah… fa caldino oggi, anche se le nuvole preannunciano pioggia.»
«Sì, credo pioverà.»
Bastian lo guardò. «Credevo avresti insistito o mi avresti rimproverato per aver cambiato argomento.»
«No, se non vuoi parlarne, è ok.»
Allora lui lo abbracciò e gli diede un bacio veloce. «Grazie. Comunque non ho voglia di passare un’ora della mia vita a cercare fazzoletti puliti per le lacrime di mia madre.»
Karl gli cinse le spalle ed annuì. «Lo rispetto. È una scelta tua. Ecco l’autobus.»
Salirono quindi sul mezzo pubblico, sedettero in fondo, a quell’ora era semideserto e nascosto dai sedili che li separavano dagli altri passeggeri, Karl gli prese la mano ed intrecciò le dita alle sue.
Bastian appoggiò la guancia sulla sua spalla e questo lo mise a disagio, ma nessuno lì sull’autobus ebbe nulla da ridere e così arrivarono in caserma sani e salvi.

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Capitolo 12
*** Dov'è casa mia? ***


Capitolo XII
Dov’è casa mia?
 
 
            «Raccontami» lo pregò. «Io ti ho raccontato dei miei ex. A proposito, quanti uomini ci sono stati a parte questo Henner?»
«Sei più fastidioso delle cicale in estate,» bofonchiò Karl.
«Henner è stato il tuo primo amore?» insistette lui.
«No. È stato il mio primo amante. Eravamo giovani, non sapevamo quello che stavamo facendo e ne abbiamo pagato le conseguenze.»
«I tuoi genitori non hanno mai accettato la tua omosessualità, vero? Tu vieni da un paese così piccolo e vivevi nelle campagne, i tuoi genitori sono anziani… Rödental. Non lo trovi neanche sulla mappa, se lo cerchi.»
«Sì, è vero. Contento?»
Karl sospirò e si alzò dal letto disfatto. Si accese una sigaretta e si mise a fumare.
«Perché fai così? Voglio solo conoscerti…»
«Tu perché non vai a trovare tua madre, invece?» sbottò guardandolo negli occhi.
Bas esitò. «Così sei ingiusto.»
«Sei tu ad essere ingiusto, Bastian. Non ruota tutto intorno all’arcobaleno carino che avevi attaccato in camera di quando eri un ragazzino. Il mondo vero, là fuori, non è disposto ad accettarti per quello che sei. Chiaro? È tutto molto più difficile per alcuni. Devi rispettare la mia volontà di non parlarne.»
Bastian ricambiò lo sguardo. «Ti hanno fatto del male, quando lo hanno saputo… hanno scoperto te ed Henner, magari?»
Karl appoggiò la sigaretta nel posacenere e tornò a letto portandolo con sé, sedette sul bordo e si passò una mano tra i capelli scuri.
«Non parliamone se non vuoi, va bene. Però vorrei che tu capissi che io sono pronto ad ascoltare la tua storia, che di me ti puoi fidare. Metti nelle mie mani la tua vita ogni volta che voliamo. Ogni volta che non seguiamo le regole, che viriamo ad alta velocità, quando facciamo la vite orizzontale. Fidati di me, Karl. Io sono il tuo fidanzato, il tuo co-pilota. Fidati,» supplicò.
Karl sospirò per l’ennesima volta e si voltò. Appoggiò la schiena sui cuscini, abbandonò il gomito destro sul ginocchio piegato.
«Henner fu il mio primo amante, è vero. Non so se l’ho davvero mai amato. Ero innamorato dell’idea che mi propose. Mi fece scegliere lui l’aviazione. Mi mostrò la via di fuga,» cominciò e subito lo guardò negli occhi. «Mi portò i dépliant della Luftwaffe, mi parlò dei piloti, del cielo. Io ero innamorato della libertà che non avevo mai avuto, delle nuvole, e volevo solo una buona scusa per lasciare quel postaccio in mezzo al nulla. Non c’era niente. Solo il grano e la cinghia di mio padre.»
Bastian sedette vicino a lui, per dargli conforto. «Non ne avevo idea. Mi dispiace.»
Lui mandò giù un boccone amaro e annuì distrattamente una sola volta. «Henner era più grande di me di qualche anno. Montava i cavalli, la sua famiglia aveva un maneggio. Mi insegnò a cavalcare.» Riaccese la sigaretta di prima e fece un tiro. Gliela passò.
Bas fumò a sua volta, un paio di volte, prima di restituirgliela.
«Ci vedevamo spesso dopo il tramonto. Io, dopo scuola, aiutavo i miei genitori con gli animali della fattoria, lui poi passava a trovarmi, quasi ogni giorno. La Baviera è molto religiosa, lo sai. E nelle campagne, ci si affida a qualunque cosa per benedire il raccolto e rendere lunga la vita degli animali. Un giorno, Henner venne a trovarmi nel fienile. Accadde lì la prima volta.» Fece un tiro.
Bastian sorrise. «Come fu?»
«Henner era molto più esperto di me, fu molto dolce. Non mi fece male.»
Il sorriso divenne più ampio e dolce. Gli carezzò il braccio, distratto. «Sono contento la tua prima volta sia stata tenera.»
«La tua no?» Karl si voltò appena per tornare a guardarlo.
«Sì, sì, lo fu anche. Fu con Ferdinand. Eravamo a casa sua, il suo gatto continuava a soffiarci e lui dovette chiuderlo in cucina,» rise al ricordo.
Karl non riuscì a ridere, ma si sforzò di accennare un sorriso. Guardò la parete dritto davanti a sé con uno strano interesse. «I miei genitori sorpreso me ed Henner, poco tempo dopo. Henner scappò via e non seppi più niente di lui. Nessuno lo vide più in paese né nelle campagne e io non mi azzardai mai a chiedere dove fosse finito. Non ebbi più notizie.»
«Ti sei sentito abbandonato da lui?»
«No. Sapevo che sarebbe successo, che non sarebbe durato in eterno. È stato bello quello che c’è stato, non avrei mai chiesto di più.»
Bastian si stese e portò un braccio attorno alla sua vita. Solito motel, solo un’altra camera al solito piano. Avrebbe tanto voluto un posto per loro. Per il momento, però, nello stesso letto con lui, stava davvero bene. «I tuoi genitori… si arrabbiarono molto vedendovi?»
Karl scosse la testa. «Non al momento. Forse gli serviva del tempo per capire come comportarsi, per capire cosa fare. Per un po’ di tempo, non dissero nulla e io credetti che la cosa fosse finita lì, con uno scappellotto nel fienile e basta.»
«Ho paura a chiedertelo, ma… invece cosa accadde, dopo?»
«Ero appena tornato da scuola. Mia madre mi mandò nel fienile dicendo di controllare i maiali, ma quando fui dentro, mi si chiusero le porte alle spalle. C’erano i miei genitori, due dei miei cugini, più grandi e robusti di me, ed il prete del paese.»
«Non dirmelo…» lo strinse più forte, in maniera molto protettiva.
«Il prete disse qualcosa a proposito del demonio, e praticò un esorcismo. Io non mi ribellai, sapevo che era inutile e anzi rischioso. Acconsentì e feci la sceneggiata che volevano che facessi. Rimasi chiuso nel fienile per tre giorni, al buio. Fu per questo che, appena preso il diploma, mi arruolai e ad oggi sono tornato in Baviera solo tre volte, quando è stato strettamente necessario.»
«Ed è stata la scelta migliore,» fece Bastian improvvisamente rianimato, balzando seduto. Si mise a cavalcioni su di lui ed appoggiò le braccia sulle sue spalle, per costringerlo ad allontanare le schiena dallo schienale del letto e per stringerlo a sé. «Non tornare, resta al sicuro con me.»
Karl, che aveva la sigaretta tra le dita, ricambiò la stretta col braccio libero ed appoggiò il viso all’incavo del suo collo, accettando di buon grado le carezze sulla schiena e tra i capelli.
«Non devi più tornarci, casa tua non è quella. Casa è dove stai bene. Con chi stai bene,» sussurrò Bastian.
Lui avrebbe voluto dire tante cose, dire che sapeva bene dove fosse la sua casa, con chi fosse, con chi si sentisse bene e al sicuro. Ma rimase lì, in silenzio, con gli occhi socchiudersi a chiedersi se davvero fosse degno di Sebastian Kluge, il buon pilota dagli occhi verdi che finalmente lo aveva costretto ad accettare l’amore verso un altro uomo, senza riserve.
«So che le camerate della caserma non potranno essere in eterno casa nostra. Cresceremo e vorremo un altro posto. Un posto nostro, senza turni di guardia,» fece Bastian.
Karl lo interruppe subito: «ma per il momento va bene così.» Lo guardò negli occhi. «Non ci serve altro.»
Lui annuì, dolce. «Sì, hai ragione. Per il momento abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno.» Appoggiò la fronte alla sua, socchiuse gli occhi e lo baciò un’altra volta.

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Capitolo 13
*** Sopportazione reciproca ***


Capitolo XIII
Sopportazione reciproca
 

            Bastian non aveva fatto che contare i giorni, le settimane, i mesi.
I primi otto mesi erano passati con un’eccezionale banalità, che era quello che cercava: una banale definizione di felicità. I baci, gli abbracci, il sesso. Un po’ di tempo per loro, un po’ per gli amici, un po’ per stare tutti insieme. Non aveva desiderato altro.
Aveva introdotto Karl nella sua famiglia, presentandogli sua sorella e, più avanti, anche ad Hector, suo cognato. Gli aveva parlato di sé, di sua madre, di suo padre, della sorellastra che aveva visto soltanto una volta. Aveva ascoltato le sue storie sulla campagna, sul suo primo amante (e amore, benché Karl si ostinasse a non definirlo così), l’aveva sentito suonare l’armonica e aveva volato con lui.
Avevano volato in maniera pericolosa, facendosi punire, facendo punire tutta la compagnia, e avevano avuto voli più tranquilli e sempre, sempre, avevano trovato una speciale sintonia sui ritmi del volo, senza neanche doversi parlare, senza guardarsi. Qualunque fosse la loro missione d’addestramento, la portavano a termine.
Ogni pasto lo passavano insieme e di questo Bastian non si stancava mai. Non gli pesava passare tanto tempo con lui e davvero erano molte le ore che trascorrevano fianco a fianco. Durante l’addestramento, le ore di volo, le ore in mensa, le ore in libera uscita.
Karl, dal canto suo, era sorpreso. Non aveva mai dato tanta importanza a nessuno prima di allora. Non si annoiava a passare del tempo insieme e non gli pesava aver ceduto un po’ della sua indipendenza e libertà com’era sempre successo invece in passato. Aveva rivelato una parte importante di se stesso a Bastian e anche ai suoi amici: non aveva mai fatto coming out prima. Bart, Rob e Achim non lo avevano giudicato. Non avevano detto proprio niente. Avevano accettato la cosa con tutta la normalità del caso.
            Era il giorno del loro primo anniversario.
Per gli undici mesi precedenti, non avevano mai davvero festeggiato. Non avevano mai avuto tempo, non avevano la libera uscita, avevano il turno di guardia, c’era questo o quello da fare.
Oggi, però, erano arrivati ad un anno.
Un anno.
Un anno volato tra le magliette sporche di gelato di Bastian, i borbottii di Karl e le sue mezze risate mal celate, un anno tra i piccoli gesti d’amore e i tanti piccoli litigi.
Quest’anno, Bastian, lo voleva festeggiare ad ogni costo.
Non era sicuro che lui sapesse che giorno fosse, gli chiese di raggiungerlo poco dopo pranzo, l’unico momento che avevano libero quel giorno. Gli diede appuntamento al solito parco lontano dalla caserma che li aveva accolti altre volte, quando avevano poco tempo, e tuttavia volevano passarlo insieme, finalmente da soli.
            Karl arrivò con mezz’ora di ritardo, con le mani nella tasca della tuta e gli occhiali da sole sul naso.
«’Stian?» lo chiamò avvicinandosi.
Bastian era seduto su una panchina. Si sollevò, vedendolo, un po’ emozionato, e andò ad abbracciarlo, con un largo sorriso. «Stavolta sei tu in ritardo.»
«Ho litigato con quel deficiente del meccanico,» borbottò lui dandogli un bacio veloce. Si tolse gli occhiali e li infilò nel taschino del giubbotto di pelle. «Insisteva che non fosse necessario disturbarlo per qualsiasi cosa, che noi piloti ci approfittiamo dei meccanici e bla bla bla.» Svariò gli occhi.
Bas rise appena e tornò a sedersi sulla panchina. Aveva un sacchetto di carta bianco accanto a sé. «I meccanici si lamentano sempre,» commentò distratto. «Non ti siedi?»
«Non voglio sedermi, sono stato seduto tutta la mattina in aereo. Mi dovevi dire qualcosa?» fece lui sbrigativo, appoggiando un piede alla panchina.
«Allora mi alzo io, dai…»
Bastian si alzò e appoggiò una mano sul suo fianco per dargli un bacio, più lungo.
«È passato un anno, sai? So che le date non le ricordi, ma… è passato un anno da quando stiamo insieme. Ed è letteralmente volato, è passato prima che me ne accorgessi. Ieri ci ho pensato e ho detto, cavolo, un anno. Ci siamo dati un bacio, abbiamo scopato, ci siamo detti che ci amiamo. È stato… un bell’anno questo, per me.» Lo guardò negli occhi.
Karl non capiva dove volesse arrivare. Ricambiò lo sguardo ed annuì. «Sì, è stato un anno lungo e pieno di sorprese. Non credevo saresti arrivato tu a soppiantare Andreas. Non credevo saresti stato in grado di stare al mio ritmo. Invece lo sei stato da subito.» Si frugò le tasche, prese una sigaretta e se l’accese. Cominciò a fumare. Gettò una nuvoletta di fumo alla sua destra, lontano dal viso dell’altro.
Bastian annuì e portò le braccia attorno al suo collo, in cerca di un suo abbraccio. «Abbiamo lo stesso ritmo. E ti ho fatto un regalo.»
«Un regalo?» chiese stupito lui. «Perché?»
«Perché ci siamo sopportati per un anno, ti pare poco?»
«No, sopportare qualcuno così a lungo non rientra nelle mie abitudini,» rispose.
Bas prese il sacchetto bianco e glielo porse. Con la sua pessima grafia, aveva anche scritto un bigliettino.
Karl sistemò la sigaretta tra le labbra e prese il bigliettino. Lesse con gli occhi: “non dico altri dieci, ma almeno per un altro.” Lo trovò molto dolce. Sistemò il bigliettino nella tasca del giubbotto per non perderlo.
«Ti sei impegnato un sacco,» borbottò imbarazzato.
«Sì, come puoi vedere sono anche incapace di impacchettare i regali,» rise l’altro.
La confezione era piccola, quadrata, e la carta rossa era davvero messa su un po’ a casaccio e con troppo nastro adesivo. La coccarda blu era scivolata in fondo al sacchetto. Karl abbandonò il sacchetto sulla panchina e scartò il regalo, reggendolo bene tra le mani. Era piuttosto pesante. La carta, scoprendosi, rivelò subito una piccola scatolina azzurra con delle nuvole bianche disegnate. Aprì il coperchio e rivelò un piccolo planisfero rotondo e blu scuro con una base in legno, tirandolo fuori non vide però città e regioni, ma stelle e costellazioni.
Non era molto bravo a manifestare le emozioni e non era granché con le parole. Quel bagliore nei suoi occhi, però, parlava da sé. «È davvero bello. Grazie,» disse soltanto. Si sporse e gli diede un bacio dritto sulle labbra.
«Guarda,» fece Bastian. «In realtà, è una lampada. Qui sotto c’è un bottoncino, cliccandolo una volta si accende e cliccandolo di nuovo si spegne. Si illuminano le stelle.» Cercò di mostrargli come fare, prendendo la scatola tra le mani, e subito gli cadde tra le mani. «Oh! Cazzo, spero non si sia rotto…»
Karl si chinò per prenderlo e sedette sulla panchina. «Siediti, dai.» Pigiò il minuscolo pulsante sotto il planisfero, ma questo non si illuminò.
«Cavolo, devo averlo rotto facendolo cadere.»
«Sicuro si accendesse?»
«Sì, l’avevo provato. Mi dispiace un sacco, era bellissimo l’effetto…»
«Dopo vedo se posso aggiustarlo. Magari si è scollegato il cavo interno. È molto bello anche così, non preoccuparti.»
Bastian sedette a sua volta, immensamente triste e col broncio. «Sono un disastro.»
Lui appoggiò la mano sul suo viso per farlo voltare al proprio indirizzo e lo baciò, socchiudendo gli occhi. «Grazie,» fece più accorto. «Mi dispiace non avere un regalo. Non mi ero reso conto fosse oggi. Pensavo fosse dopodomani.»
«Davvero? Pensavo non ne avessi proprio idea.»
«Credevo fosse giovedì, invece era oggi. Davvero. So quando ci siamo messi insieme e anche che è già passato un anno. Non tengo bene il conto come te, ma me lo ricordo.»
Allungò il braccio per sistemarlo sulla spalliera, attorno al suo corpo. Lo strinse un po’ a sé, osservando le costellazioni su quella piccola sfera.
«Comunque sei davvero un disastro.» Rise piano.
«Lo so, mi sento in colpissima. Guarda, si è scheggiato anche il supporto di legno. Che palle…»
«Non importa.»
Bastian si accoccolò un po’ al suo petto. Non sembrava molto convinto.
«Un anno,» ripeté Karl. «È un sacco di tempo. Quanto ancora potremmo stare, a sopportarci?»
«Non lo so, spero un po’. Magari un altro anno, e così di anno in anno. Finché io amo te e tu ami me, immagino.»
«Finché io sopporto te e finché tu sopporti me,» lo corresse.

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Capitolo 14
*** La giusta epoca ***


Capitolo XIV
La giusta epoca
 
 
            «Abbiamo mangiato moltissimo,» fece Bastian. «Mi ci vuole una lunga passeggiata.»
«Torniamo in caserma a piedi?» propose Karl, guardandolo con la coda dell’occhio. Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni. Fuori c’era un leggero sole coperto dalle nuvole. Annusò l’aria: no, non avrebbe piovuto.
«Sì, quanto sarà, un’ora di strada?»
«Penso di sì, più o meno.»
Cominciarono a camminare. Le strade erano stranamente solitarie, forse perché era domenica, forse perché iniziava a fare freddo. C’era una famigliola con un bambino in un triciclo rosso e la sorellina nel passeggino grigio e rosa, due vecchietti della stessa altezza e con la stessa faccia che si tenevano per mano ed una ragazza coi capelli lisci e lunghi che parlava al telefono, concitata, che andava si muoveva veloce con le sue scarpe arancioni fosforescenti.
Camminarono in silenzio per un po’.
Erano stati a pranzo da Ingrid ed Hector e di certo quei manicaretti fatti a mano erano di gran lunga migliori del rancio da caserma. Avevano divorato tutto. Ingrid era gentile e continuava a riempire i loro piatti ed Hector versava loro altra birra. Carne arrosto, tartine, patate. Un pranzo buono e genuino, col sapore di qualcosa di familiare, di famiglia.
«Sai,» fece Karl accendendosi una sigaretta. «Credo tua sorella sia incinta.»
«Che cosa? Te lo ha detto?»
«Ma cosa dici?» brontolò. «Perché avrebbe dovuto dirmelo? Ho detto credo, non ne sono sicuro.» Fece un paio di tiri. «Per due volte ha appoggiato la mano sul grembo.»
«Vorrei ben dire, l’ho fatto anch’io, hai visto quanto abbiamo mangiato? Dopo la passeggiata che faremo per tornare in caserma, ci servirà almeno un’ora l’uno nei bagni. Stasera niente rancio, sarò ancora sazio.»
«Neanch’io credo che cenerò,» rispose, eclissando sul resto. «Non ha bevuto la birra.»
«Mia sorella è quasi astemia.»
«Ha cambiato la ricetta originare. Non ha usato il vino. Lo ha detto lei stessa.»
«Mia sorella cambia spesso le ricette, è molto creativa, e poi ha usato un sacco di spezie, magari il vino si abbinava male!»
«Avrai notato che è ingrassata…»
«Stai dicendo che mia sorella è grassa?»
«Aveva i piedi gonfi.»
«Ok, ok! Forse hai ragione. Ma perché non me lo ha detto, se è incinta?»
Karl fece un cenno con la testa e gesticolò appena con la mano destra. «Non lo so, forse aspetta i risultati per averne conferma.»
Bastian sospirò. «Non è giusto che te ne sia accorto tu prima di me. Sono io suo fratello.»
«Be’, fa più attenzione la prossima volta, che vuoi che ti dica.» Lui fece un paio di tiri, svariando gli occhi al cielo.
 
 
            Tre giorni più tardi, mentre il cielo via via si oscurava, loro stavano ancora lavorando su certe mappe nell’hangar n.°6. Erano da soli, seduti per terra, a fissare quelle carte di navigazione vecchie di oltre mezzo secolo.
«Le adoro, sono così vintage,» fece Bastian. «Ormai è tutto sui monitor… dove le hai trovate?»
«Durante l’ultima punizione,» mormorò Karl a bassa voce. «Breyer mi ha spedito in fureria ad occuparmi di certe questioni e le ho trovate in un cassetto.»
«Non era una punizione.»
«No, hai ragione. Era un tentativo di non farci volare di nuovo insieme. Soprattutto durante l’ispezione del grande capo Himmelstrand.»
Bastian rise. «Sì, forse è vero. Un ottimo diversivo, mandarti lì. E le hai rubate?»
«A nessuno interessavano. Le rimetterò a posto, ero solo curioso. Guarda. Guarda la data su questa mappa. 7 maggio 1940. Era per la guerra.» Indicò con l’indice una data scritta a mano, un po’ sbiadita ma ancora leggibile.
«La Seconda guerra mondiale… che noia. Si parla sempre e solo di quella guerra.»
«Be’, è stata l’ultima tra quelle che hanno coinvolto un così ampio raggio di popolazione mondiale.»
«Tanto per ricordare al mondo che noi tedeschi siamo cattivi. Che noia,» ripeté. «A scuola non ci insegnano altro. Solo noi soldati portiamo orgoglio per la nostra bandiera.»
«Questo discorso sta diventando ambiguo,» fece Karl arrotolando la mappa con cura.
«Ma dai,» rise lui. «Sai che ci avrebbero spedito nei KZ[i] perché siamo froci.»
«Froci come la metà delle SS…» Karl si alzò in piedi e gli porse la mano. «Come la metà dei gerarchi di Hitler.»
«Non generalizzare. Soltanto Röhm e Speer e Becker erano dichiaratamente omosessuali.» Lui prese la sua mano e lo attirò a sé.
Karl cadde con le ginocchia attorno al suo bacino, a cavalcioni su di lui. «Già, soltanto un paio, vero?»
«Devi essere proprio frocio per avere una divisa come quella delle SS… così strette, e tutti i capelli biondi in ordine e bla bla.» Lui appoggiò la mano alla sua guancia e lo baciò. Si stese e lasciò che si stendesse su di sé. «Le contraddizioni del nazismo… hai mai pensato a cosa sarebbe successo se fossimo nati in quell’epoca?»
«Mi bastano i problemi della mia epoca, sinceramente,» rispose lui baciandolo ancora e ancora.
Bas rise ed appoggiò la mano alla sua cintura. «Be’, sono contento di essere nato in momento storico meno complicato.»
«Il fatto che non ci sia un regime totalitario, non lo rende semplice. La democrazia è complessa.»
«Lo insegnerai a nostro nipote?»
«Nipote?»
«Se mia sorella fosse davvero incinta, saresti lo zio Karl.»
«Sei tu lo zio, che c’entro io?» mormorò lui sbottonandogli i pantaloni. «E poi io a scuola non ho mica studiato tanto. Che vuoi che ne sappia di democrazia e dittatura.»
«Non avete fatto la classica e simpatica visita ai campi di concentramento, come tutti, più o meno otto volte in tredici anni di scuola?»
«Sì, ma cosa c’entra? …Possiamo smetterla di parlare di cadaveri, sarei pronto per scoparti.»
Bastian rise e si lasciò avvolgere dalle sue braccia.
            Più tardi, stavano fumando, guardando le stelle.
Karl era appoggiato alla parete dell’hangar. Bastian sembrava un po’ stanco.
«Tutto ok?»
Bas annuì. «Sì, sì, sto bene. Stavo pensando agli omosessuali uccisi nei campi di concentramento. Saremmo potuto finire così anche noi. Avremmo dovuto nasconderci, sperare di farcela. Forse avrebbe finito per sposare delle donne e saremmo stati infelici tutta la vita.» Il suo tono di voce era triste, lieve, malinconico.
Karl strinse le labbra ed annuì. «Credo che sarebbe quello che avremmo finito col fare,» disse. «Per sopravvivere. Ma non siamo costretti a farlo, oggi.» Si voltò e lo guardò negli occhi.
Bas gli rivolse un ampio sorriso. “Finalmente lo hai capito,” pensò. «Infatti,» mormorò soltanto. Allungò la mano, prese la sua ed appoggiò la guancia alla sua spalla.
«Hei?»
«Mh? …Anch’io.»
«Già. Anch’io.»
 
[i] I KZ, i Konzentrationslager, sono i campi di concentramento nazisti.

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Capitolo 15
*** Insicurezze ***


Capitolo XV
Insicurezze
 
 
     «Le nuvole sono chiarissime, oggi» borbottò Bastian, sistemandosi il microfono. «Prepariamo l’atterraggio, Eisner?»
«Sissignore,» rispose distrattamente lui.
Abbassò la leva blu alla sua destra, sollevò la mano per manipolare le luci in cabina, e controllò lo spazio aereo.
Il veivolo cominciò ad abbassarsi molto lentamente verso il suolo.
Bastian prese a fischiettare un motivetto allegro. «Avvertiamo del nostro arrivo.» Prese la radio e l’avvicinò alle labbra. «Qui sergente maggiore Sebastian Kluge, veivolo AX 837. Ci prepariamo all’atterraggio. Atterreremo per le ore 12 minuti 37, ora locale. Passo.» Mise da parte la radio ed ascoltò distrattamente la risposta. Si tolse le cuffie e sbadigliò. «Andiamo a mangiare da qualche parte, stasera?»
Karl chiuse il microfono, ma non tolse le enormi cuffie dalle orecchie. Annuì distratto. «Come vuoi.»
«Con te è sempre un come vuoi, fai tu, decidi tu. Che noia. Sei totalmente passivo.»
«No, non direi,» rispose, ironico.
Bastian lo guardò male, con la coda dell’occhio. «Riesci a non pensare al sesso per quindici minuti?»
«Facciamo per dieci.»
«Karl, sono serio, dai.»
«… Il microfono. Hai lasciato acceso il microfono.»
Bas Lo spense subito e poi scoppiò a ridere. «Cazzo, questa è proprio uno di quei guai che posso combinare io.»
«Non è divertente. Merda. Ci avranno sentiti?»
«Che abbiamo detto di male? Che vogliamo andare a mangiare qualcosa stasera.» Scrollò le spalle e tirò in su, distrattamente, una leva.
«Non abbiamo detto niente, certo. Solo che tu lo prendi là dietro.»
«Vedi, per te è sempre una questione di sesso. Ma che cavolo, Karl, davvero? È un anno che stiamo insieme e non fai altro che parlare di quanto sei bravo a scoparmi. Ogni volta che cerco di fare una conversazione più seria…»
«Cosa vuoi che ti dica?» ribatté l’altro, già esasperato.
«Comincia a dirmi che mi ami.»
«Te lo dico sempre.»
«No, tu dici “anch’io.” Non è la stessa cosa. Ma chi me lo ha fatto fare? Stare con uno così apatico. Inizio a pensare che non posso aspettarmi niente di più da te.» Appoggiò una mano vicino a tutti quei pulsanti, mentre con l’altra si reggeva il viso.
Karl tacque e lui ricominciò. «Vedi? Non sai neanche rispondere. Forse è meglio finirla qui.» Attese altri cinque minuti. Niente. Silenzio. «Perfetto. È meglio che la chiudiamo e basta allora.»
Atterrarono in silenzio.
A terra, un gruppo esiguo di soldati li aiutò a scaricare le grosse scatole di munizioni, cinque scatole verde militari alte più di un metro, che si muovevano su carrelli dotati di rotelle. Li scaricarono giù dal veivolo dell’esercito e le lasciarono lì, in buone mani, tra i loro camerati di stanza in Siria.
Poi, si rimisero in volo per tornare ad Amburgo. Passarono il tempo di volo quasi senza parlare. Bastian era molto nervoso, come lo era raramente. Karl forse non sapeva che dire e già di suo era un tipo dalle poche parole, così si chiuse nel suo silenzio. Si scambiarono solo pochi commenti, strettamente necessari per organizzare il decollo prima e l’atterraggio dopo.
 
 
            Bastian si accese la sigaretta che Bart gli stava porgendo. «Grazie,» mormorò a mezza voce. «Non so più cosa fare,» confessò. «Stiamo molto bene e il sesso è fantastico ma… non mi basta quello, ormai. Sono sempre io che gli propongo di fare qualcosa, di stare insieme, e lui non mi dice mai di no, ma allo stesso tempo non mi propone mai niente. Forse avrei bisogno di una persona diversa accanto.» Sospirò.
Bart sedette sul muretto vicino a lui. «Siete in pausa?»
«Non lo so nemmeno. Io mi sono arrabbiato, stamattina, e lui non ha detto niente. Siamo in pausa, stiamo ancora insieme… non ho idea di cosa stiamo facendo ed il suo silenzio non mi aiuta per niente. La settimana prossima è il suo compleanno e io non so nemmeno se saremo insieme per festeggiarlo. Non so cosa fare, né cosa pensare. Mi ama? Non mi ama? Vuole solo scopare? Io non ne ho idea, giuro.»
«Hai provato a chiederglielo?»
«Non risponde.»
«Non risponde perché tu fai di quei monologhi infiniti e non gliene dai spazio?» lo incalzò l’amico e camerata, sollevando un sopracciglio. Barthold aveva i capelli più biondi di quelli biondo cenere di Bastian e aveva gli occhi scuri. Era più alto e più robusto, con più muscoli. Bastian non passava molto tempo in palestra e adorava mangiare quei grossi hamburger imbottiti di patatine fritte e salse di vario tipo.
«Non è da escludere,» rispose accennando una risata imbarazzata. «Forse dovrei parlare di nuovo con lui. Grazie.»
«Dovere,» rispose Bart portando la mano alla tempia.
 
 
     Il giorno seguente, Bastian raggiunse Karl poco prima del rancio, nei pressi della mensa.
«Eisner?» lo chiamò per attirare la sua attenzione. «Posso parlarti un attimo? In privato.» Lo guardò negli occhi.
Karl annuì e si spostarono in un corridoio più isolato, quello che portava in fureria. A quell’ora non c’era quasi nessuno, perché quasi tutti i soldati avevano già avuto informazioni sui loro impegni giornalieri.
Bas inumidì le labbra e strinse le braccia al petto. «Hai pensato a quello che ti ho detto?»
«Alla tua sfuriata di ieri mattina? Sì.»
«Bene,» rispose innervosito. «Vedo che non hai capito niente.»
«Ho capito tutto, invece.»
«Quindi? Risposta?»
«Cosa vuoi che ti dica? Che faccia un monologo romantico per dirti quanto sono follemente innamorato di te?» chiese retorico.
Bastian tuttavia lo prese sul serio. «Aiuterebbe molto.»
«Sai che non è quello che avrai da me. Ormai mi conosci. Io non sono una persona romantica. Sono pragmatico, e parlo poco. Questo è quello che sono. Questo è quello che avrai da me. Non posso prometterti altro. Capisco che possa non andarti bene, che forse hai bisogno di qualcosa di diverso. Ma questo è quello che sono e non posso cambiarlo. Sei libero di dire che non ti va bene, di andartene.»
Il suo cuore batteva fortissimo. «Non ti frega nulla di me, allora?»
«Non ho detto questo.»
«E allora cosa? Vuol dire che non sentirò mai dalle tue labbra queste tre semplici parole, “io ti amo”? Che devo rassegnarmi e scendere a compromessi? Non vedi che scendo a compromessi per te da un anno?» sospirò.
«So che lo hai fatto molte volte. So quanto hai provato a farlo funzionare. Ma forse non funziona. Funzioniamo solo quando facciamo sesso.»
«Questo non è vero! Perché devi dire così? Ci sono stati dei momenti speciali. Il campeggio, le passeggiate al parco, le gite fuori città. Ti sei già dimenticato tutto? Davvero ricordi solo le volte in cui abbiamo scopato? Dio, mi fai incazzare! Perché fai così? Stai rovinando tutto! Stai montando su un gran casino!»
«Hai iniziato tu con la sceneggiata, stamattina!»
«Volevo solo cercare di spronarti, non ti avrei mai lasciato per davvero! Io ti amo. O te lo sei scordato? Ti sei scordato quante volte te l’ho detto, prima, dopo o durante il sesso? Riesci a ricordare solo le volte in cui sei venuto?»
Karl sospirò. «Cosa vuoi che ti dica, Bastian?»
«C’è almeno una cosa che ti piace di me, a parte il mio culo?»
«Certo, più di una» rispose e si sorprese di sentire quanto spontaneamente e dolcemente lo avesse detto. 
Bas distolse lo sguardo e bofonchiò imbronciato: «che non siano gli occhi. Ti sei già giocato questa carta.»
«Tu mi calmi moltissimo,» rispose Karl.
«Ti calmo?»
«Sì.»
«In che senso?»
«Mi dai sicurezza. Mi calmi quando sono nervoso, anche se non te lo dico, te ne accorgi sempre e mi distrai. Mi calmi. Sei molto bravo in questo. Quasi quanto sei incapace di mangiare senza sporcarti.»
Bastian si lasciò scappare una risata. «Sei un deficiente.»
«Sì, è vero.»
«Non mi avevi mai detto una cosa del genere. Devo sbraitare ogni volta per farmi dire qualcosa di carino?»
«Be’ a te piace fare la prima donna, quindi te lo lascio fare,» scrollò le spalle. «Andiamo a mensa? Inizio ad avere fame. Ho visto Achim, ha detto che c’è la pizza oggi.»
«Che stronzo del cazzo che sei.» Bastian rise e si mise a camminare accanto a lui, con le mani in tasca, fino alla mensa. Si era calmato, per il momento.
Per il momento.
Forse lo amava già troppo ed era pronto a perdonargli tutto.
Forse.
Karl lo guardò con la coda dell’occhio e si chiese: “quando salteranno di nuovo i suoi nervi? Cosa risponderò la prossima volta che vorrà da me un’altra parola dolce? Non sono alla sua altezza e non lo sarò mai.”
Ma non disse niente.

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Capitolo 16
*** L'arrivo dell'angelo ***


Capitolo XVI
L’arrivo dell’angelo
 
 
            Bastian stava cantando a mezza voce storpiando il testo di una canzone inglese. Achim gli andava dietro con una pronuncia persino peggiore della sua. Si passavano, a mo’ di microfono, il cellulare, seduti uno accanto all’altro in un pub affollato. Era venerdì sera e il posto era gremito, stracolmo di gente, di ragazzi e ragazze della loro età. A lui facevano male le guance, per quanto aveva riso. Scrocchiò le dita, al termine della canzone, perché aveva tenuto stretto il telefono e, forse, risentiva ancora un po’ del duro addestramento di due giorni prima.
«Com’è che Karl non è venuto?» chiese Bart al suo migliore amico e camerata.
Bas scrollò le spalle, abbassando lo sguardo sulla sua birra. Prese il boccale e lo portò alle labbra, bevendo un lunghissimo sorso prima di rispondere. «Abbiamo litigato,» mugugnò.
«Di nuovo?» domandò Robert ridendo. Aveva decisamente bevuto troppo.
«State più a litigare che a scopare, ultimamente,» fece Bart.
Lui annuì. «Sì, lo so. Lo so, non credete che non lo sappia. È stato un anno incredibile e adesso non facciamo che litigare, non riesco nemmeno a spiegarmelo. Per un anno abbiamo… scopato e riso e ci siamo divertiti ma adesso… qualunque cosa io faccia gli dà fastidio, è sempre più silenzioso. Non so davvero che dire.»
Bart storse il naso. «Avete provato a parlarne?»
«Io ho solo paura che per lui stia diventando una cosa troppo seria e che si tiri indietro,» rispose Bastian con gli occhi sul suo boccale mezzo vuoto.
«Non è che ha un altro?» buttò lì Achim, a bruciapelo.
«Cosa? No… oddio, no, non mi mettere in testa questa cosa,» fece lui quasi supplicandolo con lo sguardo. Sospirò e si passò una mano tra i capelli.
Bart gettò un’occhiata storta ad Achim, per rimproverarlo.
Finirono tutti da bere ed ordinarono di nuovo. E così per tutta la sera, cercando di dimenticare i brutti pensieri.
 
 
 
            «Mamma, che sbronza,» fece Robert massaggiandosi la nuca. «Mi scoppia la testa. Ci vuole un caffè.»
«Almeno tu non hai vomitato l’anima,» borbottò Achim appoggiando il viso sul tavolo della mensa. Erano seduti vicini, come sempre, e stavano consumando la loro colazione. Panini al latte e caffè, per cercare di alleviare il post sbornia.
«Se Werner ci ordina un allenamento extra oggi, penso che potrei finire col vomitargli sugli stivali,» aggiunse Achim, che aveva uno strano colorito giallastro.
Bastian accennò una risata. «Spero per te che non succederà. Sai che è molto vendicativo» mormorò. Ogni tanto si voltava e si guardava attorno.
«Non c’è,» fece Bart imburrando il pane ed addentando poi la fetta.
«Lo so che non c’è. Ma è strano, non salta mai la colazione,» rispose lui cercando di concentrarci sul suo panino al salame.
«Avete sentito di Mathias Keller?» domandò Robert bevendo del succo d’arancia. «Dio, ma cos’è? È aspro come l’inferno.» Con una smorfia disgustata, abbandonò il bicchiere sul tavolo, allontanandolo da sé.
Bas rise. «Chi è Keller?»
«Solo uno venuto da un’altra caserma. È arrivato ieri pomeriggio,» rispose Robert. «Ho sentito qualche voce su di lui. Dicono che sia così bello da sembrare rifatto e dolce da sembrare un bambino. Che la divisa stoni sul suo corpo da angelo.»
«Che razza di soldato è uno così?» chiese Bart ridendo più forte.
            Circa mezz’ora più tardi, Bastian decise di raggiungere Karl all’hangar n.°6 perché era certo di trovarlo lì. Era abbastanza tranquillo e disposto a fare pace. Erano circa le otto e trenta di sabato mattina, stava quasi per piovere e lui sentiva lo stomaco sottosopra per quanto aveva bevuto. Aveva decisamente esagerato con la birra, la sera prima.
Quando arrivò all’hangar, non lo trovò da solo. C’era un altro soldato con lui, che non aveva mai visto. Aveva dei corti riccioli dorati, i lineamenti perfetti, il naso sottile, gli zigomi alti, le labbra carnose. Li osservò parlare.
Karl aveva tra le mani uno scatolone e teneva la distanza di almeno un metro da quel soldato, ma continuava a parlargli. Quello rise, Bastian poté sentire la sua risata cristallina, sincera, molto dolce. Decise di avvicinarsi e poté vedere dei grandi occhi azzurri limpidi.
«Ah… ciao. Io ora devo andare. Ciao, Karl, mi ha fatto piacere parlare con te.»
«Ciao, Mathias.»
Quasi scappò via e Bas lo squadrò mentre si allontanava. Con le mani in tasca, si appoggiò alla porta dell’hangar, con una sigaretta in bocca. Tacque per circa tre minuti.
Karl mise via lo scatolone senza dire niente.
«Allora?» fece guardandolo.
«Allora cosa, ‘Stian?»
«Chi cazzo è quello?»
«Mathias Keller. È arrivato ieri sera in caserma.»
«E che cazzo vuole da te, quello?»
«Non riusciva a trovare l’hangar 3.»
«E cosa c’era da ridere?» fece un cenno col capo.
Karl svariò lo sguardo. «Sei geloso?»
«Devo esserlo?»
«No. Non dovresti. Per la cronaca, hai la faccia di uno che ha vomitato tutta la notte.»
«Già, e tu non eri lì. Eri con Faccia d’Angelo?»
Lui rise appena corrugando la fronte. «Cosa? Chi?»
«Mathias Keller. Eravate insieme?»
«Sì. Stavo tornando in camerata, ho incrociato Breyer e mi ha chiesto di mostrargli dove avrebbe dormito. La sua camerata è quella dopo la mia.»
Bastian fece una pausa. «Gli hai mostrato qualcos’altro?»
«Cristo, ‘Stian, smettila, mi stia annoiando. Va’ a farti una doccia, magari ti rinfreschi le idee.»
«Fottiti.» Girò i tacchi e se ne andò.

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Capitolo 17
*** Temporali in arrivo ***


Capitolo XVII
Temporali in arrivo
 
           
 
            Fumò la sua sigaretta guardando le nuvole. Le contò. Tre, sette, undici, quindici, ventidue… o ventitré? Sospirò nervosamente, gli veniva da piangere. Eppure avrebbe dovuto essere felice. Sua sorella gli aveva appena detto che sarebbe diventato zio. Era entusiasta di questo, aveva urlato di gioia al telefono, in una delle sue reazioni un po’ esagerate. Aveva sentito l’euforia invaderlo per circa un’ora. Poi si era spenta. Sì, perché lui e Karl non avevano ancora fatto pace, e non solo. Avevano eseguito un’esercitazione di volo in maniera pessima. Ogni volta che litigavano, il loro modo di volare ne risentiva. Breyer non sapeva più che fare. Era esausto di stare dietro ai loro capricci. Aveva detto, chiaramente, di lasciare fuori dal volo le questioni private. Ma loro non ci riuscivano. Era come se i litigi creassero dei muri tra le loro menti. Forse, poi, Bastian diventava troppo cattivo e faceva pesare il suo unico grado in più, per vendetta. Anzi, era sicuro. Ora si sentì stupido e profondamente in colpa, dopo questa nuova consapevolezza. Era immaturo.
Non aveva avuto ancora l’occasione di chiarire con Karl, ma ebbe l’occasione di parlare con Barthold, quando rientrò in camerata.
Bart aveva il letto vicino al suo e così a volte potevano parlare anche per tutta la notte, sussurrando per non disturbare i soldati coi quali dividevano la camerata.
«Hai fatto pace con Karl?» gli chiese.
Bastian scosse la testa. «È la terza volta che vado da lui per fare pace e litighiamo ancora di più.» Sospirò infilandosi sotto le coperte. Si passò una mano tra i capelli.
«Hai sentito di Keller?»
«Che altro ha combinato Faccia d’Angelo?» bofonchiò chiudendo gli occhi.
Bart rise. «Ah, lo chiami così? Comunque, pare che ci siano delle voci sul suo conto. È stato trasferito perché ha creato problemi nell’altra caserma. Sai, ha fatto un po’ la puttana. Ecco spiegato come uno con quella faccia sia già sergente maggiore a vent’anni appena compiuti. Ad un certo punto, pare che non gli sia più andato bene e abbia denunciato un ufficiale per abusi o cose così. Per questo lo hanno trasferito.»
«Lo sapevo che era una puttana,» bofonchiò Bas. «Ogni caserma ha la sua. Io credevo noi fossimo apposto con Nils e Hans.»
«Non dire assurdità, Hans si è messo con una modella ucraina.»
Bastian spalancò gli occhi e rise piano. «Cosa? Quando?»
«Lascia perdere Hans Habermas. Credi che siano vere le voci su Faccia d’Angelo? Per me no. Gli ho parlato, è così dolce e delicato. Secondo me sono cattiverie gratuite.»
«Secondo me no. È un bastardo, spero che bruci all’inferno.»
Stavolta fu Bart a ridere. «Perché lo odi tanto?»
«Quello non me la racconta giusta. Vedrai che casini porterà in caserma. L’ho visto con Karl, sai? Gli ha… chiesto informazioni.»
«Ma dai, Karl non lo farebbe mai. Tradirti, dico. Non essere stupido. Dove lo trova un altro come te?»
«Questo è il punto. Forse non vuole un altro come me. Be’, mettiamoci a dormire adesso. ‘Notte.»
«Buonanotte.»
 
 
            Bastian abbracciò Karl da dietro e rimase in silenzio per mezzo minuto.
«Possiamo fare pace, adesso?» sussurrò.
Karl sospirò ed annuì. Si voltò e lo strinse a sé. «Sì.» Si chinò per baciarlo.
«Non litighiamo più per quelle stronzate. Non ne vale la pena. Ok?»
«Ah-a.»
«Bene… sai, mia sorella mi ha chiamato. Ha ritirato gli esami ed è davvero incinta,» mormorò cercando di ritrovare l’entusiasmo.
«Davvero? Te lo avevo detto. Sono un osservatore molto più attento di te.»
«Andiamo a comprare qualcosa per il bambino, quando siamo entrambi liberi? Non so, una tutina, un ciuccio, qualcosa. Per festeggiare la notizia.» Prese la mano ed intrecciò le dita alle sue. Gli era mancato moltissimo il contatto con la sua pelle calda.
«Sì, va bene. Non c’è problema.»
Karl sciolse la presa e tornò ad oliare certi ingranaggi del loro aereo. «Devo sempre pensarci io?»
«Tu lo fai meglio,» rise lui avvicinandosi. «Hei, Karl? Hai sentito di Keller? Pare che sia una puttana.»
«Ah sì? E chi lo dice?»
Scrollò le spalle. «Voci.» Pausa. «A quanto pare lo hanno buttato fuori dalla caserma perché ha infastidito un po’ troppi ufficiali, provando a succhiarlo in giro.»
Non era vero. O non ne aveva la certezza. Aveva solo raccolto un po’ di informazioni e le stava ingigantendo per vedere la sua reazione.
«Be’, mi pare strano che qualcuno rifiuti un pompino.»
Non era la risposta che si aspettava. «Che… intendi?»
«Quale uomo ne rifiuta uno, scusa? Ogni caserma ha la sua puttana.»
«Ora noi ne abbiamo un po’ troppe,» borbottò lui quasi tra sé. «Quindi tu non lo rifiuteresti?»
«Ti sembro uno che rifiuta?»
«Vaffanculo, Karl. Sono serio.»
«Se vuoi farlo, di certo non mi negherò.»
Bastian non aveva voglia di litigare di nuovo, perciò non disse niente.
Quella risposta aveva forse amplificato un po’ i dubbi che nutriva nei suoi confronti, ma cercò di non essere paranoico e a passare una giornata tranquilla con lui. Quando poi, tre giorni dopo, uscirono per comprare qualche articolo per neonato, Bas perse la pazienza perché ad ogni domanda Karl scrollava le spalle e dava qualche risposta preconfezionata nel migliore dei casi, nel peggiore rispondeva a monosillabi. Ripresero in fretta a litigare. Bas si chiese se valesse la pena continuare così.

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Capitolo 18
*** Apparenze ***


Capitolo XVIII
Apparenze

 
 
            «È una persona dolcissima, Bastian. Davvero. Dovresti provare a parlargli almeno una volta!»
«È disponibilissimo e discreto. Sono tutte cazzate quelle sul suo conto, tutti pettegolezzi, e poi, chi le ha dette? Non sappiamo neanche chi sia la fonte.»
«Mathias Keller è un angelo, di faccia e di modi.»
Bastian non ce la faceva più.
Chiunque incontrasse continuava ad elogiare Mathias Faccia D’Angelo Keller. Era bravo, era bello, era gentile, era disponibile, la sua risata perfetta, la sua eccellenza nel canto, la sua pelle liscia, le sue dita sottili, i denti dritti e bianchi, i riccioli biondi.
Non voleva più sentire parlare di lui.
Tutti ne parlavano bene e più lo elogiavano, più lui non lo sopportava.
Continuava a dire: «non fidatevi. Una persona così tanto dolce e pura non potrebbe mai sopravvivere in una caserma. Ha le sue strategie e prima o poi ci pugnalerà alle spalle.»
I suoi amici ridevano di quelle parole, di quell’avvertimento, e così col passare delle settimane, Bastian cominciò a tacere e a sopportare stoicamente gli apprezzamenti su quell'uomo perfetto.
Non aveva più nominato Mathias Keller.
            Le cose con Karl non andavano meglio. Continuavano a litigare spesso, a gridarsi contro, ed il loro modo di volare peggiorava sempre di più, tanto che persino il tenente Lukas Breyer aveva minacciato di separarli. Aveva detto che li aveva coperti per troppe volte e che non poteva permettere che l’unità sfigurasse per colpa loro, che il rendimento collettivo venisse compromesso dalla loro incapacità di gestire i problemi personali. Le bravate che mettevano in atto, per quanto folli e pericolose, avevano sempre denotato una certa abilità del volo che non tutti avevano, ma le loro incomprensioni minacciavano di rovinare ogni cosa.
Bastian aveva reagito in maniera inaspettatamente violenta a quelle parole.
Rimasti soli, aveva tirato un calcio con forza alla parete metallica dell’hangar.
“Lo sapevo,” si era detto, “stava andando tutto troppo bene ultimamente, era ovvio che la situazione precipitasse.”
Si era poi seduto su una cassa di metallo e si era preso la testa tra le mani. Esasperato, esausto.
Karl non aveva detto una parola. Si era limitato a guardare la scena con la coda dell’occhio e a stringere le labbra.
Il loro rapporto era così peggiorato che Bastian aveva pensato più volte di chiuderlo definitivamente. Andò da lui, un giorno, per parlargli. Aveva le occhiaie, non aveva dormito, aveva pianto silenziosamente tutta la notte.
Lo trovò in sala comune che beveva un caffè.
«Ah… Karl, ti posso parlare un attimo?»
Quello annuì e lo seguì subito, senza esitare.
Si appartarono in una stanzetta vuota, un’appendice della sala comune con un paio di tavoli, qualche cartellone promozionale della Luftwaffe e qualche stampa con aerei tra i più moderni. A quell’ora non c’era nessuno. Era una stanza molto piccola e più isolata, che contava un tavolo da ping pong, un grosso televisore, un distributore di merendine e anche un piccolo frigo bar.
Bastian sedette scomposto ad un tavolo, appoggiò i gomiti su di esso, incrociando poi le braccia. Guardò il rivestimento di plastica del tavolino, bucato in un punto, come se fosse la cosa più interessante dell’universo.
«Ultimamente abbiamo litigato spesso, ci siamo allontanati,» cominciò col dire. Si sentiva allo stesso tempo calmo e nervoso: era agitato perché non voleva lasciarlo, ma allo stesso tempo pregustava la serenità che ne sarebbe derivata dalla sua decisione. Forse.
Karl, come sempre, non diceva nulla.
«Avevamo tanti progetti, volevamo fare tante cose insieme… e non abbiamo fatto nessuna di esse. A me francamente dispiace molto. Mi piaceva fare le cose insieme.»
Karl lo guardava, con le braccia al petto, la schiena sulla sedia, in silenzio.
Bastian esitò. «Non sono sicuro di sapere cosa vuoi per noi, se non me lo dici.» Alzò lo sguardò e cercò i suoi occhi nocciola.
«Ultimamente abbiamo fatto molte cose stupide,» fece lui. «Io ho fatto delle cose stupide. Forse possiamo ancora aggiustare le cose.»
Gli occhi di Bastian si illuminarono. Forse, dopotutto, non era ancora troppo tardi. Si animò di colpo e sorrise come un idiota. «Davvero? È quello che vuoi anche tu, allora?»
Non ne era sicuro. Aveva perso tutta la sicurezza che aveva di solito; voleva rimanere con lui, ma anche che la loro relazione fosse degna di essere vissuta, degna di tutti i sacrifici che avrebbe comportato. Doveva valerne la pena. Credeva che Karl non avrebbe detto nulla, che avrebbe accettato passivamente la sua decisione, come del resto faceva sempre. Ora, però, gli stava tendendo una mano. E lui non poteva che esserne felice.
«Sì, credo… che dovremmo provaci. Anche perché il nostro modo di volare è molto, molto peggiorato. Abbiamo il dovere di... tentare. Per l’unità. E per noi.»
Karl Eisner lo guardò negli occhi.
Bastian si alzò e andò ad occupare la sedia vicino a lui. «Lascia stare il volo per cinque minuti.» Appoggiò la mano sulla sua guancia e lo fece voltare verso di sé. Lo baciò a lungo, socchiudendo gli occhi. «Ti amo.»
«Anch’io,» rispose Karl e sembrava un po’ forzato, ma fu sua l’iniziativa di un secondo bacio, e fu dolcissimo in questo. Appoggiò una mano al suo fianco e lo strinse a sé.
Bastian si accoccolò per un po’ al suo petto, più sereno.
 
 
 
            Diluviava. Ed era strano.
Per tutto il giorno, c’era stato il sole. Gli occhiali da sole scuri si erano inzuppati, così come la sua uniforme. Eppure, Bastian si sentiva felice. Era felice perché stava tornando da Karl, per la prima volta dopo diverse settimane, senza ansie, senza bruciori allo stomaco, sereno, perché tutto era tornato come doveva essere tra di loro.
C’era solo un piccolo aeroplano che gli impediva la vista dell’hangar, abbandonato lì in attesa dell’utilizzo o magari di una revisione, nello spazio comune tra tutti gli hangar; vi appoggiò sopra una mano pronto ad aggirarlo per arrivare dal suo fidanzato. Aveva un gran sorriso sul volto.
Che morì sulle labbra quando vide Mathias Keller insieme a Karl.
Karl sembrava instupidirsi davanti a lui. Aveva una chiave inglese in mano e la stava ripulendo dal grasso di motore. Solitamente, era un’operazione veloce, ma stava impiegando parecchio tempo a farlo. Aveva gli occhi fissi su Keller e Keller rideva e si toccava i ricci e ad un certo punto si avvicinò a lui, appoggiò le mani sulle sue guance e lo baciò sulle labbra. E Karl non si mosse.
Bastian sentì gli occhi pungerli e le mani frenare per la rabbia. Decise di non muoversi di lì, di vedere tutta la scena. “Adesso lo mena” pensò. “Deve farlo. Allontanarlo, spingerlo, insultarlo.”
Ma Karl non fece niente di tutto questo.
Ricambiò il bacio ed appoggiò la mano sul suo fianco per prolungarlo.
Mathias Keller, Faccia d’Angelo, la personificazione di ogni virtù, era davvero il bastardo che Bastian credeva che fosse.
Questo fu il suo primo pensiero.
Avrebbe volut colpirlo, graffiare quel volto tanto perfetto e tanto bello, spingerlo via in quella pozza di fango che si creava davanti all’hangar n.°6 ogni volta che pioveva forte.
Continuava a tenere gli occhi fissi su di lui, su di loro.
Mathias Keller si allontanò dopo aver carezzato la guancia di Karl.
Bastian lo osservò rimanere fermo per qualche minuto. Poi decise di andarsene.

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Capitolo 19
*** Che cosa ho fatto? ***


Capitolo XIX
Che cosa ho fatto?
 

 
            Se Karl voleva giocare sporco, avrebbe giocato sporco anche lui.
Non disse niente, non fece scenate, aspettò per vedere fino a che punto sarebbe stato in grado di nascondere la verità e nel frattempo soffriva di più, perché gli dava la possibilità di fargli altro male. Ogni volta che ritardava, si chiedeva se fosse con Keller e qualche volta il dolore del tradimento diveniva insopportabile, ma si faceva coraggio, perché in qualche modo doveva spingerlo a parlare.
Passarono i giorni, vuoti e spenti, parlava poco e l’unica cosa che cercava di fare era trovare una sua confessione o qualche traccia di rimorso nei suoi occhi, voleva solo che gli chiedesse scusa e per un momento credette che forse avrebbe anche potuto perdonarlo, se avesse avuto delle scuse sincere e se queste si fossero sbrigate ad arrivare.
Poi cambiò idea.
E ad un certo punto, non riuscì più a fingere.
Cambiò drasticamente atteggiamento.
Iniziò a comportarsi in maniera diversa: iniziò a rispondergli male, ad allontanare i suoi baci e le sue carezze, per quanto rare; schivò le sue frasi ed i suoi occhi, non volle più guardarlo in viso e vedendo che non faceva niente per risolvere il rapporto, che continuava a fare finta di nulla e ad aspettare, si sentì frustrato e maggiormente umiliato.
Si aspettava una reazione forte da lui, pregava che lo stringesse e gli chiedesse scusa o che magari si arrabbiasse per le brutte risposte ricevute. Che facesse qualcosa.
E invece niente.
Per tre settimane, Karl non fece assolutamente niente.
Le cose rimasero in questa situazione di stallo ancora per un po', ma una mattina, il sottufficiale Eisner, finalmente si degnò di cercare risposte.
L'hangar n.°6 era deserto, c'era solamente Bastian Kluge seduto sull'aereo a sistemare un po' i motori e a fumare. Se ne stava lì silenzioso, arrabbiato col mondo a stringere tra le labbra l'estremità di una sigaretta, con così tanta forza da farsi quasi male.
Karl si avvicinò a lui con le mani in tasca e lo salutò, non ottenendo risposta soggiunse: «Non riuscivo a trovarti.»
Quello non lo guardò nemmeno. «Congratulazioni, mio piccolo cercatore, ci sei appena riuscito.»
«Cos'hai, 'Stian? Sei strano da un po'.»
Bastian sorrise per il nervosismo e buttò via la sigaretta. Strinse tra le mani il tessuto dei propri pantaloni militari, tanto che le nocche divennero bianche sotto la pressione. «Io? Nulla. Assolutamente nulla. E non mi chiamare così.» Tentò di moderare la voce, ma nel pronunciare l'ultima frase sputò veleno.
«Perché non vieni qui e ne parliamo?» Lui invece parlava col tono di un colpevole; a voce bassa e a labbra strette, come se stesse già confessando.
«Oh, con piacere, Eisner» ringhiò Bas tra i denti e saltò giù dall'aero. In un paio di lunghi passi, era gli era già davanti, brandendo un cencio lercio con la mano, puntandoglielo contro, malevolo.
«È da un po' che...»
«Che ti rispondo male? Povera stella!» anticipò ironico.
Lui strinse i denti e le braccia al petto. Puntò gli occhi scuri sui suoi verdi. «Dimmi chiaramente che diavolo succede.»
«Succede che mi sono rotto il cazzo di te, ah!, Cristo!, finalmente lo posso dire. Mi sono rotto il cazzo di, uhm, vediamo un po': dei tuoi sbalzi d'umore, delle tue risposte acide, del tuo non prendere mai in considerazione che quello che fai ha effetti sulle altre persone, del tuo menefreghismo totale verso i sentimenti altrui, della tua mancanza di tatto nei miei confronti, dei tuoi continui ritardi... devo continuare?» L'altro aprì la bocca per parlare, ma Bas proseguì comunque, interrompendolo: «Sì, devo. Mi dà sui nervi il fatto che nonostante tutto quello che ho fatto per te... tu ti mi tradisca col primo stronzo che passa. Mi fa schifo questo tuo... quello che hai fatto, quello che sei; mi fai schifo tu
Karl Eisner sentì una fitta al petto. Allora sapeva... sapeva tutto, forse, e chissà da quanto. E soprattutto si era tenuto tutto dentro. Forse se ne avessero parlato prima, avrebbe evitato di fare alcune cose che, invece, purtroppo, aveva fatto. Abbassò il capo e chiese scusa, umilmente, sincero. «Mi dispiace. Hai ragione. In tutto.»
«Lo so che ho ragione, cazzo!» sbottò lui urlando.
Buttò per terra lo strofinaccio consunto e si avvicinò all'aereo. Appoggiò le mani alla vernice grigia e si chinò in avanti, come se avesse la nausea e stesse per rimettere. Chiuse gli occhi e cadde attorno a loro un silenzio gravoso e pesante. Sospirò la sua amarezza e premette le dita contro il metallo, le punta divennero bianche. «Quante volte ci sei andato a letto?» domandò con tono stanco.
«Non ci sono andato a letto.»
«Karl, ti prego.» Non aveva più forze per continuare quella battaglia. Durava da troppi giorni, infinite ore. Aveva sbagliato, avrebbe dovuto parlargli prima, sarebbe stato meglio se addirittura fosse andato da loro, subito, quando li aveva visti baciarsi. Invece se ne era andato e aveva rimuginato da solo per infinite ore. Che stupido era stato.
«Una volta.»
«E con i preliminari?» Adesso sembrava rassegnato.
«Non ci sono stati preliminari.»
«Dritto al sodo... Sei un figlio di puttana.»
«Lo so.» Karl distolse lo sguardo. «Mi dispiace.»
«Giurami che è stato solo l'errore di una volta.»
«Te lo giuro. È successo solo una volta.»
Non si muovevano.
Erano completamente immobili.
Soltanto le labbra vibravano appena sotto il peso delle parole.
«Ma io vi ho visti baciarvi. Perché mi menti ancora? Dimmi tutta la cazzo di verità!» Bas sbatté la mano contro l'ala dell'aereo e si fece male, quindi la strinse al petto ma si allontanò quando l'altro venne in suo soccorso. Lo guardò negli occhi. «Voglio sapere tutto quello che avete fatto insieme.»
«Quel bacio. E al secondo... è seguito del sesso. E basta, te lo giuro.»
Lui portò la mano dolorante, che tremava, forse più per rabbia e frustrazione che per la botta vera e propria, sul viso, nascondendosi.
«La cosa che mi fa più ribrezzo è che... ogni volta che abbiamo fatto sesso nelle ultime settimane tu eri... completamente assente... completamente. Pensavi a lui! E io ho sbagliato a non spaccarti subito la faccia. A continuare a farlo con te. Sono stato un gran coglione.»
«No! Questo non puoi dirlo! Ne abbiamo parlato. Gli ho detto che è stato uno sbaglio e che non lo rifarei. Lui ha capito. 'Stian, io non... voglio perderti.»
Non gli aveva mai confessato una cosa simile.
Ma ora era troppo tardi.
«Mi hai perso il giorno che Mathias Faccia D'Angelo Keller è entrato in questa fottuta caserma. E ormai di noi non rimane più nulla. Quindi... tra di noi è finita. Considerati libero e vattelo a scopare di nuovo, se ti piace tanto. O scopati chi vuoi. Nils, Hans. Tutti e tre, magari.»
Bastian parlava con tono piatto e basso, come se stesse per scoppiare a piangere, ma non sembrava in procinto di farlo. In effetti non l'avrebbe fatto: non gli avrebbe mai dato quella che secondo lui per Karl sarebbe stata una soddisfazione. Non avrebbe versato una lacrima, sarebbe andato avanti a testa alta, continuando a ridere. Come aveva sempre fatto, come aveva sempre affrontato la vita.
Girò i tacchi e andò via.
Karl non lo seguì. Portò le mani sui fianchi, tirò la testa all’indietro e sospirò.
«Che cosa ho fatto?» si chiese socchiudendo gli occhi.

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Capitolo 20
*** Non è facile supplicare ***


 
Capitolo XX
Non è facile supplicare
 
 
 
Bastian era furioso.
Tradito, deluso, umiliato, si era trascinato da una stanza ad un’altra, dalla mensa alla fureria, dalle camerate ai bagni, dall’hangar allo spazio di addestramento, dal poligono agli uffici dei suoi superiori, con la speranza di incontrarlo il meno possibile. Cercava di non pensare. Mai, mai nella sua vita aveva subito un’umiliazione simile. Lo detestava per quello che gli aveva fatto.
Era spento, ormai, parlava pochissimo e dopo circa quattro settimane di silenzio, apatia, di imbarazzo e vergogna, in cui non aveva neanche voluto parlare con i suoi amici, finalmente confessò tutto a Bart.
«Mi ha tradito,» disse. «Con Faccia d’Angelo. Ci è andato a letto una volta sola.»
Non era riuscito a dire altro e Barthold, dal canto suo, stranito e sbalordito, lo aveva abbracciato.
«Non ti merita,» aveva risposto. «Hai fatto anche troppo per lui. Troverai una persona migliore, una che ti dia più di quello che Eisner ti avrebbe mai potuto dare.»
Bastian non riusciva a toglierselo dalla testa.
Un anno insieme.
Un anno di risate, scherzi, baci, sesso, di motel prenotati sempre per la stessa ora, stessa camera, un anno di passeggiate al parco, di sorrisi, un anno passato a sentirlo suonare l’armonica, un anno a tenergli la mano, a rubargli la piastrina militare. Un anno, anzi, un anno e mezzo.
Solo un anno e mezzo.
In ventitré anni vita.
Avrebbe potuto superarla.
Un giorno si disse che ce l’avrebbe fatta e quel giorno chiese ai suoi amici di uscire per bere una birra. Aveva bisogno di svagarsi, di non pensare.
Achim non era ancora riuscito a chiedere ad Irem di uscire, ma quantomeno finalmente riusciva a prendere da lei le ordinazioni e a parlarle un po’.
Ordinarono una porzione di kebap ciascuno con mezza litro di birra bionda a testa e mentre Achim guardava la pelle scusa di Irem come se fosse la cosa più bella e speciale del mondo, Bastian attese solo che lei lasciasse il vassoio al tavolo e andasse via per scoppiare a piangere. Non aveva ancora dato un morso al panino e non aveva neppure bevuto un sorso di birra.
«Bastian, hei, che succede?» chiese Achim accorto, appoggiando una mano sul suo braccio.
«Scusate,» fece lui, asciugandosi gli occhi. «È che sono piuttosto giù per adesso.»
«C’entra la rottura con Karl, vero?» domandò Robert avvicinandosi con la sedia al tavolo.
«Sì.»
Bart era vicino a lui, in silenzio.
Achim storse il naso. «A me non è mai piaciuto. Era uno stronzo, dai.»
«Avrei dovuto capirlo prima,» rispose Bas. «Magari prima che mi facesse le corna.»
Robert spalancò gli occhi ed esclamò: «che cosa!? Quello stronzo di merda! E con chi?»
«Keller,» rispose soltanto lui. Si asciugò gli occhi e bevve un sorso di birra.
«Assurdo, davvero assurdo,» rispose Achim, che era talmente sconvolto che la sua espressione risultava quasi divertita. Scosse la testa con disapprovazione, passandosi una mano sui capelli quasi neri. «Tutti amano Keller. Solo tu ci avevi visto giusto. Hai visto la puttana che è.»
Bastian sospirò ma il verso che venne fuori era più simile ad un singhiozzo. «Ve lo avevo detto che non mi convinceva per nulla.»
«Mi dispiace, Bas,» fece Robert, accorto.
Barthold intervenne solo allora. «Propongo una vendetta.»
«Pestiamolo,» propose Achim.
«No, diamo fuoco all’aereo e facciamo ricadere la colpa su di lui,» proruppe Robert.
Bastian accennò un sorriso e prese il suo panino pieno di kebap, insalata, pomodoro, cetrioli e cipolla e lo addentò. Mangiò giù sentendoli fare altre proposte. «Grazie, ragazzi, ma preferisco non fare nulla. Gli ho già dato troppa importanza.»
 «Che peccato,» sospirò Achim.
Robert bevve un lungo sorso di birra. «Ti ha almeno dato delle spiegazioni?»
«Che spiegazioni vuoi che dia? Voleva scopare e lo ha fatto, stop,» rispose Joachim.
Rob ribatté: «magari gli ha chiesto scusa, però. Ha cercato di rimediare.»
Bas lo guardò un momento negli occhi ed annuì. «Sì. Sì, ci ha provato. Ci ha provato davvero tanto, ma io non gli ho dato modo. Continua a cercarmi, a scusarsi, a dire che è stato lo sbaglio di una volta, che non lo rifarebbe, che è pentito… tutta una lunga serie di stronzate.»
«Per me è sincero,» intervenne Bart, il suo migliore amico, che conosceva la storia meglio di chiunque altro.
«Sincero? Da quando sei dalla sua parte?» fece Achim accigliato.
«Non sono dalla sua parte. Dico solo che ero con Bastian, una delle volte in cui lo abbiamo incontrato, e sembrava sinceramente provato, lo ha supplicato di perdonarlo. Uno come Karl non supplica e nemmeno dice ti amo tanto facilmente.» Bart tolse il cetriolo dal suo panino e poi gli diede un paio di morsi.
Robert bofonchiò: «avrebbe potuto pensarci prima.»
Bastian invece non disse niente, meditò solo sulle parole dell’amico.
 
 
 
Si rigirò la sfera tra le mani, seduto sulla branda della camerata.
Era deserta, a quell’ora erano tutti in mensa. Cos’avrebbe dovuto fare? Andare lì, di nuovo, come ogni giorno, e sperare di incontrarlo? Chiedergli scusa ancora e ancora? Si sarebbe mai convinto a perdonarlo? Si meritava il suo perdono?
Si distese a letto e con le dita continuò a rigirarsi la sfera con le costellazioni che Bastian gli aveva regalato mesi prima. “È bellissima,” pensò guardandola. Non aveva mai potuto accenderla, Bas aveva rotto l’ingranaggio interno proprio il giorno in cui gliel’aveva regalata. Era il loro primo anniversario. Il primo regalo che avesse mai ricevuto da un fidanzato. E aveva perduto tutto questo.
Era stato uno stupido.
Era terribilmente pentito. Non avrebbe mai dovuto farlo.
Sospirò. Infilò la sfera nel suo baule di metallo, al sicuro, perché nessuno la vedesse e rimanesse così una cosa sua, intima, una cosa dolce talmente preziosa da non condividerla. Nel baule, sotto ai vestiti, c’era anche una loro foto. La prese tra le dita, la osservò. Sorrideva leggermente mentre Bas gli baciava la guancia. Uno dei loro campeggi, che Bastian si ostinava ad organizzare, sebbene fosse incapace di adattarsi alla natura. Un pessimo soldato, forse, in questo senso. Era troppo goffo.
“Ho perso tutto quello che avevo,” pensò Karl. “Come ho potuto essere così cieco?”
Chiuse il baule con un colpo secco nascondendo per sempre il suo tesoro, ed uscì dalla camerata, andò dritto in mensa.
La mensa era gremita e trovarlo non fu semplice ma quando si mise in fila per il rancio, lo vide qualche passo più in là. Lo raggiunse, a mani vuote, quando lo vide in prossimità del tavolo, col suo vassoio di plastica.
«’Stian, posso parlarti un momento?» domandò, col cuore che batteva all’impazzata.
«No. E non chiamarmi così. Hai perso il diritto quando ti sei scopato Faccia d’Angelo.»
«Lo so, che ho perso ogni diritto di … parlarti, toccarti, o anche solo pensarti.»
«Non posso limitare i tuoi pensieri, ma almeno posso chiederti di non esternarli,» mormorò sottovoce Bastian, guardandolo negli occhi.
Quegli occhi verdi che aveva sempre adorato, dal primo giorno.
Non riuscì a dire niente.
Bastian, deluso ancora una volta dalla sua incapacità di parola, inumidì le labbra e disse: «domani chiederò a Breyer di trovarmi un altro co-pilota.»
Quelle settimane di volo insieme erano state veramente tremende.
Karl cercava solo di assecondarlo, ma non sembrava comunque funzionare. Ubbidiva e non prendeva mai iniziative. Ma non funzionava più.
«Ti prego, non lo fare, Bastian, ti supplico.» Appoggiò la mano sul suo braccio, proprio lì, davanti a tutti. «Almeno dammi la possibilità di spiegare. Dieci minuti dopo il rancio, non di più.»
«Mi dispiace, Karl, ma non credo ci sia niente da spiegare. Te lo sei scopato. Una scopata non capita, un bacio capita, perché è veloce, ma una scopata no. Non in caserma, poi. Non quando hai un fidanzato.»
«Sono stato uno stronzo, un pezzo di merda, ma dammi solo dieci minuti.» Lo pregò con lo sguardo.
Bastian scosse la testa. «Non c’è niente che tu possa dire che mi farebbe cambiare idea. Va’ da Keller o trovati un altro. Io non ci sto più.»
«…D’accordo. Lo accetto. Dopotutto hai ragione, non me lo merito. Ti lascerò in pace da oggi in poi, sta’ tranquillo.»
Non riuscì a guardarlo negli occhi. Si voltò e lasciò la mensa.
Bastian sedette al tavolo coi suoi amici e camerati.
«Stai bene?» chiese Bart dolcemente.
«Sì, io… credo di sì.»

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Capitolo 21
*** O l'aureola o i denti aguzzi ***


Capitolo XXI
O l'aureola o i denti aguzzi
 
 
 
        In realtà, non aveva la minima idea di che genere di persona fosse Mathias Faccia d’Angelo Keller. Non sapeva cosa gli piacesse fare o che tono avesse la sua voce. Non sapeva niente di lui.
Conosceva però qualcuna delle sue abitudini e quel giorno lo aveva visto entrare nei bagni con le mani occupate da piccoli oggetti.
Indeciso sul da farsi, aveva aspettato circa un quarto d’ora prima di seguirlo e più tardi lo aveva osservato dalla porta del bagno per circa mezzo minuto, prima di entrare.
Mathias Keller era davanti allo specchio, con alcune delle sue cose appoggiate al lavello. Aveva un rasoio, un flacone di dopobarba, una forbicina per unghie. Aveva passato il pettine sotto il getto dell’acqua del rubinetto e si era sistemato i riccioli biondi, adesso stava per tagliarsi le unghie, con molta attenzione.
Bastian lo affiancò. Per la prima volta lo vide da vicino: aveva davvero il viso di un angelo. Le gote rosa, i lineamenti morbidi, le labbra a forma di cuore. Cosa ci faceva vestito da soldato?
Aprì il rubinetto e si sciacquò le mani ed il viso.
«Non sapevo fossimo in un centro estetico,» disse nel tono più amichevole che riuscì a trovare.
«Mh? Ah, no, è solo l’essenziale,» rispose quello noncurante e si tagliò una pellicina sull'indice della mano sinistra.
«Questa caserma è piena di finocchi,» bofonchiò Bastian, passandosi una mano tra i capelli. «Ti può servire dello smalto trasparente? È importante, le unghie poi si sfaldano facilmente.»
Mathias non apprezzò quei riferimenti alla propria sessualità e lo guardò di sottecchi, mormorando sottovoce: «davvero, non ho nient’altro. Mi sto solo tagliando le unghie, solo per essere in ordine. Mi farò la barba e poi tornerò in camerata.»
«Sei sicuro che non vuoi che ti presti qualcosa?» insistette lui.
«No! Perché dovrei volere qualcosa da te? Non so neanche chi sei.»
«Ah, è vero. Bastian Kluge, tanto piacere. Non sai chi sono ma ti sei preso la cosa più importante che avevo,» esclamò con la voce che pulsava. I bagni erano deserti.
«D-Di cosa stai parlando?» balbettò Mathias.
Bastian si avvicinò e gli ringhiò in faccia: «non ti hanno insegnato che gli uomini impegnati non si toccano, puttanella?»
Mathias spalancò gli occhioni azzurri e boccheggiò un paio di volte prima di rispondere. «N-Non so di che diavolo stai parlando!» esclamò. Gli caddero per terra le forbicine e quando l’altro afferrò il bavero della sua divisa, indietreggiò cercando di liberarsi.
«Karl Eisner. Te lo sei fatto e sapevi che era impegnato. Perché sei una puttana.»
Bastian adesso lo stava spingendo contro il muro.
«No! Non lo sapevo! Non mi ha mai parlato di te, non sapevo neanche che tu esistessi! Non lo avrei mai toccato se avessi saputo…!»
«SEI UN BUGIARDO!» urlò. Abbandonò la presa soltanto per poter sferrare un pugno dritto al suo volto perfetto. «Tu lo sapevi!»
Mathias si portò subito la mano sul viso, tremando. «N-Non è vero! Non lo sapevo, devi credermi!»
Non sapeva se Faccia d’Angelo stesse mentendo. Non aveva dato a Karl la possibilità di spiegare e neppure di parlare, quindi non aveva davvero idea di come fosse andata tra loro. Ma per quanto fosse arrabbiato, non lo credeva tanto vile. Forse aveva solo bisogno di sapere che Mathias Keller era come uno stregone che preparava filtri d’amore. Che Karl non aveva potuto resistergli. Che era crudele e basta, come la strega delle favole.
«Karl me lo ha detto,» disse mentendo. «Mi ha detto che lo sapevi.»
Mathias strinse le labbra. «… è vero… ma… me lo ha detto dopo…»
Bastian gli sferrò un altro pugno, dritto sul naso, con tutta la rabbia che aveva. «Non è vero. Lo sapevi sin dall’inizio. Dillo! Dillo che sei un bastardo!» A stento si trattenne dal piangere.
«…Sì! È vero! È vero! Lo sapevo. E allora? Karl lo voleva. Me lo ha chiesto. Ha cercato da me quello che evidentemente tu non potevi dargli. Mi vuoi punire per questo? Perché non sai tenerti un uomo?»
Il sorriso di Mathias Keller si fece velenoso. Si asciugò il sangue che cominciava ad uscire dalle sue labbra col dorso della mano.
«Vuoi sapere una cosa? Gli è anche piaciuto. Forse tu non eri poi tanto bravo a farlo venire,» aggiunse.
A quelle parole, Bastian sentì la vista annebbiarsi. Afferrò nuovamente il bavero della divisa di Keller e cominciò a colpirlo sul viso, con il pugno sinistro, essendo mancino. Più e più volte, finché non vide quel sorriso scomparire deformandosi.
Si allontanò, lo guardò e sputò sulla sua divisa.
«Spero tu possa marcire all’inferno.»
Girò i tacchi ed uscì dal bagno.
Una recluta stava per entrare e se la ritrovò davanti, quasi si scontrarono. Afferrò la sua divisa e gli fece cenno di andare via e quel soldato dovette ubbidire e andarsene.
Si allontanò in fretta subito dopo.

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Capitolo 22
*** Inseguimi ***


Capitolo XXIII
Inseguimi
 
 
 
      «Ma come, tenente, non può farmi questo!» esclamò Bastian avvilito. «Per favore.»
Lo stava supplicando con gli occhi e con un tono di voce quasi patetico. Stava per mettersi a piangere, sapeva che non poteva continuare così. Non ce l’avrebbe fatta.
Il tenente Breyer fu irremovibile. «È la mia decisione, Kluge. Nessun altro co-pilota. Voglio che tu risolva i tuoi problemi con Einser e che torniate a volare,» disse guardandolo negli occhi. «Voi siete eccezionali, siete potenti. Non posso permettermi di dividervi. Siete esattamente quello di cui la Luftwaffe ha bisogno. Accanto a te, Einer è migliorato tantissimo. Potete fare grandi cose, siete due ottimi piloti. Perciò vedi di risolvere i problemi che hai con lui.»
«Non posso risolverli,» sussurrò Bastian con le lacrime agli occhi. «Per favore. Mi adatterò a chiunque.»
«Mi dispiace,» fece Breyer. «Non posso permettermelo. Ora vai.»
Lui ricacciò dentro le lacrime e deglutì. Annuì una volta, fece il saluto ed uscì dall’ufficio del tenente.
Si ritrovò mezz’ora dopo con la testa tra le mani, seduto su un muretto in solitaria, a piangere e fumare. Si asciugò velocemente gli occhi quando vide un gruppo di reclute avvicinarsi. Finse di cercare l’accendino tra le tasche della divisa, con lo sguardo basso, per non farsi vedere in lacrime. Loro gli passarono accanto, parlando concitati tra loro, e lui alzò gli occhi solo quando fu certo di essere da solo. Aveva ancora il viso bagnato, gli occhi arrossati.
Aveva picchiato Mathias Faccia d’Angelo Keller e questo lo aveva fatto stare un po’ meglio, ma non era sufficiente. Rimuginò sull’accaduto, spense la sigaretta e si alzò. Dopo qualche momento di meditazione, seppe esattamente cosa doveva fare.
Raggiunse l’hangar n.°6 in meno di dieci minuti, di corsa, si fermò, col fiatone, quando vide Karl seduto in un angolo a fumare. Aveva una brutta cera, le occhiaie, lo osservò passarsi nervosamente la mano tra i capelli e non riuscire a stare fermo.
Si avvicinò a passo deciso, ma quando arrivò vicino a lui, esitò. Avrebbe voluto scappare.
Karl, notandolo, lo guardò spalancando appena gli occhi scuri. «’Stian…» sussurrò. Gettò la sigaretta e gli si avvicinò subito.
Bastian lo guardò negli occhi. Inumidì le labbra e rimase immobile ed in silenzio per circa un minuto.
Neanche lui seppe che dire, ma per una volta, non aveva voglia di stare zitto. «Sei venuto a dirmi che non voleremo più insieme?...» sussurrò a fior di labbra.
Bas scosse la testa. «Breyer mi costringe a farlo.»
«…Mi dispiace che tu sia costretto a stare con me, se pot…»
Ma un pugno arrivò sul suo viso, con una violenza inaudita, dalla sinistra. Karl si toccò lo zigomo ma non disse niente. Non si ribellò nemmeno. «Me lo merito,» disse abbassando lo sguardo.
«Come hai potuto? Non hai pensato a come mi avresti fatto stare male?» suonò più come un’esclamazione che come una domanda.
Karl sospirò. «No. Non ho pensato a nulla, se non dopo aver finito. Mi dispiace tanto. Sono stato un coglione. Se avessi avuto un solo istante di lucidità, lo avrei rifiutato.»
«Ti ha avvicinato lui? Voglio tutta la verità, Karl, ti supplico, non sopporterei una bugia adesso.»
«Avrai la verità. Te lo devo.» Annuì. «Sì, mi ha avvicinato Keller. Sapeva benissimo ci fossi già tu nella mia vita, ma è stata colpa mia, non ho saputo dire di no. Sono stato stupido, ho rinunciato a tutto per un bel faccino vuoto. Keller è meno dolce di quanto sembri. Quando gli ho detto che era stato un errore, ha iniziato ad urlare e ha detto che mi avrebbe accusato di stupro. Ho cercato di calmarlo e ha detto che sarebbe venuto da te a raccontarti tutto.»
Bastian si passò una mano sul viso. «Sì, me lo aspettavo. Un faccino come quello non resiste in caserma, senza qualche asso nella manica. È un brutto figlio di puttana.» Sospirò e portò indietro la testa, guardando il soffitto dell’hangar. «Perché, Karl? Cos’è che non ti ho dato?»
«No, ‘Stian, non è questo. Non è quello che non mi hai dato. È che mi hai dato troppo ed io non ho saputo gestirlo. Non sapevo come gestire, nella mia testa, tutte quelle attenzioni. Stavi diventando troppo importante e ho avuto paura.» Karl abbassò gli occhi sulle proprie mani, giocherellava con l’accendino. «Suona molto più stupido, ad alta voce.» Distolse lo sguardo. «Ti meriti qualcuno che sappia amarti meglio di quanto io avrei mai potuto fare. Mi dispiace.» Tornò a guardarlo.
«Dispiace anche a me,» rispose Bastian con gli occhi gonfi di lacrime. «Avrei preferito qualsiasi altra cosa. Ma non questo. Ho sperato per tutta la vita di non passare quello che ha passato mia madre, con i continui tradimenti di papà e tu hai fatto lo stesso. Io non potrò mai perdonarti. Non voglio finire come mia madre, in una clinica, buttato su un letto per la depressione. Avresti potuto fare qualunque cosa, anche lasciarmi. Ma tu mi hai tradito.» Si accorse solo in quel momento che le lacrime avevano ripreso a scorrere dai suoi occhi. Aveva pianto così tanto in quei giorni che gli faceva male la testa e quasi sentiva uno strano ronzio nelle orecchie, ora che ricominciava.
L’unica cosa che avrebbe voluto in quel momento, era un suo abbraccio.
Odiava quello che gli aveva fatto, ma non riusciva ad odiare lui.
Nonostante tutto ciò che diceva, nonostante fosse convinto che non lo avrebbe mai perdonato.
Il suo petto era stato il luogo più sicuro che avesse conosciuto negli ultimi anni, si era sentito accolto e protetto e ora aveva perso per sempre quella sensazione.
Karl non osava toccarlo.
«Hai ragione, sono un bastardo. Non avrei dovuto farlo e non mi è piaciuto e tornando indietro, non lo rifarei nemmeno. Purtroppo, l’ho fatto. L’ho fatto e non posso cancellarlo. Qualsiasi cosa tu mi dicessi adesso, io per te lo farei. Per farmi perdonare e per riaverti.»
«Non c’è niente che tu possa fare,» disse Bastian asciugandosi gli occhi con la manica della divisa. «Mi serve tempo, ok? Ho bisogno di tempo. Adesso devo andare a farmi un giro, o rischio di impazzire.»
Ancora una volta, si voltò e andò via.
Karl avrebbe voluto inseguirlo, ma non voleva infastidirlo.
Bastian invece pregò di essere inseguito.

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Capitolo 23
*** Fumare aiuta davvero? ***


Capitolo XXIII
Fumare aiuta davvero?
 
 
       Barthold era disteso a letto e Bastian anche.
«Hei, Bas?» sussurrò lui, voltandosi per guardarlo. Con una mano, distrattamente, si accarezzava i capelli, sistemandosi il ciuffo.
«Hei,» fece Bas, voltandosi per guardarlo.
«Stanotte non hai dormito, eh? Si vede dalle occhiaie. E poi hai fatto un tale casino, ti sei agitato tutto il tempo.»
Bastian sorrise imbarazzato. «Si nota tanto? Non ho chiuso occhio…»
Bart rise piano. «Si nota, si nota. Hai… pensato tutta la notte a Karl, vero?»
Lui distolse immediatamente lo sguardo. «Pff, che dici. Che faccia quello che vuole. Ormai è una storia morta e sepolta.»
«Bastian.»
«…D’accordo, solo un po’. È normale, no? Siamo stati insieme un anno e mezzo. È… un po’ di tempo. Del tempo importante…»
«Non devi mica giustificarti.» Barthold si mise su un fianco per guardarlo meglio.
Bas non ricambiò lo sguardo. «Lo so, però… non lo so, non sono mai stato così male per qualcuno.»
«Perché con lui era diverso.»
«Già, lo era, o almeno credevo che lo fosse…»
«Ti manca.» Non era una domanda.
«Un po’.»
«Un po’ tanto.»
«Un po’ tanto, sì, ma ormai è andata, quindi… si tira dritto.» Bastian sospirò e si mise a giochicchiare con una sigaretta spenta. Dopo qualche minuto, se l’accese.
L’amico accennò un sorriso. «Fumare aiuta sempre.»
«Sì, aiuta almeno un po’.»
Fece una pausa, poi azzardò: «perché non torni con lui?»
«Cosa? Sei matto?»
«È quello che volete entrambi. Vi mancate. Tu manchi a lui e lui manca a te. Perché non dovreste?»
«Perché non potrei mai più fidarmi di lui.»
«Ti ha chiesto scusa mille volte. Non lo rifarà. C’ha parlato io, con lui. Mi ha detto che Mathias neanche lo ha più rivisto e vuoi sapere una cosa? Mentre parlavano, Keller è passato accanto a noi e non se n’è neanche accorto. Ti ama, Bastian. È stato solo un errore. Non eri tu a dire che potevi accettare il tradimento, a patto che fosse solo una scopata? È quello che è stato. Pensaci.»
«È ancora attratto da lui. Lo so, lo capisco.»
«Invece non capisci un cazzo. È a pezzi. Vuole solo tornare da te.»
«Anch’io sono a pezzi,» fece Bastian arrabbiato. Buttò via una nuvoletta di fumo grigio e spense la sigaretta. Non riusciva neanche più a fumare.
«Appunto per questo devi… Bas, devi tornare da lui.»
«No,» continuò risoluto.
«Perché no? Lo hai detto anche tu. Era solo sesso.»
«Facevamo sesso due o tre volte alla settimana, cosa gli mancava con me? Perché ha dovuto cercarlo altrove? Cosa gli mancava?» La sua voce fu un crescendo, seguito da una breve pausa silenziosa.
Barthold strinse le labbra e gli si formò una fossetta ai lati della bocca. «Hai ragione. Te lo concedo, hai più che ragione. Ma è pentito del suo errore.»
«Perché ci tieni tanto a farci tornare insieme?» Bastian lo guardò.
Lui sorrise. «Perché vi ho visti felici, insieme. Non mi piace vedere che stai soffrendo. Dimmi: ce l’hai più con Eisner o con Keller?»
Bastian dovette pensarci qualche momento. «Keller… no, Eisner. È lui che mi ha tradito. Quello è un figlio di puttana, ma Karl mi ha tradito. Doveva rifiutare le sue avances. E comunque, io ve lo avevo detto che non mi piaceva per niente.»
Seguì un altro breve silenzio. «Giusto con te, poi. L’unico che lo hai odiato da subito.»
«Che vuoi che ti dica, è tutta una questione di karma.» Si scrocchiò le dita.
«Bastian?»
«Che c’è?»
«Ammettilo. Ammettilo, che ti manca da morirci. …Non stare zitto, lo so che è così. Ti conosco meglio di chiunque altro qui dentro.»
«È perché ti ho raccontato troppe cose, dovrei ucciderti, sai troppo,» rise Bas.
Barthold ridacchiò a sua volta e si mise più comodo. «Che gli faresti? A Keller.»
«Lo ammazzerei, se potessi.»
«Vedi che ce l’hai soprattutto con lui?»
«Non ti ho detto che farei ad Eisner.»
«Cioè? … Eccolo di nuovo che non risponde. Sei un idiota. E non ridere!»
«Cosa vuoi che faccia, piangere?»
«Io non lo direi in giro.»
«Non si piange mai per gli ex.»
«Sono giorni che piangi, credi che non lo sappia? … Il tuo problema è l’orgoglio. Se non fossi così orgoglioso, torneresti da lui. Adesso, subito, o meglio, lo avresti già fatto da tempo. Hai questa… fissazione per l’orgoglio. Anche perché, a parte noi tre che siamo i tuoi amici, non lo sa nessuno. Dubito che quel pezzo di ghiaccio abbia degli amici.»
Bastian lo guardò di sbieco. «Attento a come parli del mio ex.»
Bart sogghignò. «Te lo difendi, eh? Intendevo che nessuno saprebbe nulla, tipo che ti sei tenuto le corna e via dicendo.»
«Non è che lo difendo, è che non voglio rinnegare quello che c’è stato. …Bart?»
«Sì? …Smettila di sospirare, Dio santo.»
«Mi manca.»
«Quanto?»
«Tanto.»
«Lo sapevo. Vai da lui.»
Bastian si sistemò sul cuscino e chiuse gli occhi. «Buonanotte.»
«Cosa? Hei, è appena passata mezzanotte!»
«Ho sonno, cazzo. Dormi.»
Bart svariò gli occhi e si mise, suo malgrado, a dormire.
 

 

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Capitolo 24
*** Il primo regalo ***


Capitolo XXIV
Il primo regalo
           
 
            «Ciao, Bastian.»
Ogni giorno volavo insieme, si addestravano insieme, lavoravano insieme. Lo salutava e poi non lo disturbava più. Era esausto. Aveva fatto di tutto. Ormai erano passate diverse settimane e tutto ciò che aveva provato a fare per rimediare al suo terribile errore, non era stato abbastanza. Lo aveva supplicato, lo aveva pregato, gli aveva chiesto scusa, aveva cercato di lasciargli i suoi spazi.
Ma i loro dialoghi si erano ridotti a un mezzo saluto.
Bastian non sempre ricambiava e comunque non lo aveva più guardato negli occhi.
Gli mancavano i suoi occhi.
Ciao Bastian, e poi nient’altro, neanche una misera briciola di quegli smeraldi.
Non sapeva più cosa fare, quando, un giorno, gli venne l’idea, l’ultimo disperato tentativo, di avvicinare Barthold e  chiedere consiglio a lui.
«Ciao, Barthold,» disse allora, affiancandolo in uno dei corridoi della caserma. Il sole splendeva alto e segnava mezzogiorno.
Barthold non se n’era nemmeno accorto. Era tutto intento a pensare a un buon regalo di compleanno per Robert e aveva quasi sussultato sentendosi nominare. «Ah, Karl, ciao.»
Per la verità, non avevano parlato neppure loro da tanto tempo.
Karl si era allontanato da tutti gli amici di Bastian, che non aveva mai sentito come propri.
Oggi però voleva giocarsi l’ultima carta.
«Hai un minuto?» chiese.
Bart strinse le labbra. «Sì. Ma ti prego di non mettermi in una posizione difficile. Sai che Bas è il mio migliore amico.»
Lui scosse piano la testa. «No. Non lo farò. Vorrei solo… un consiglio. Appunto perché sei suo amico. Il suo migliore amico.»
«Dimmi pure, in questo caso.»
«Finora ho fatto del mio meglio per rimediare. Ho provato a lasciargli i suoi spazi e…»
«Anche troppi.»
«Cosa?»
«Gli hai lasciato anche troppo spazio. Ma ti importa o no?»
«Sì! Mi importa eccome… cosa dovrei fare?» lo guardò speranzoso.
«Be’, va a riprendertelo! Conquistalo, lotta per lui. Bas è una primadonna, adorerà questo modo di fare. Fagli delle sorprese. Sforzati.»
Karl esitò. «Sorprese? Non sono bravo in queste cose…»
«Dovrai imparare, se ti importa riaverlo.» Barth lo guardò negli occhi, severo. «Adesso devo andare, Breyer mi aspetta nel suo ufficio.»
«Certo… ti ringrazio tantissimo. Ciao. E buona fortuna con Breyer.»
Barthold andò via, facendo un cenno con la mano. Karl si appoggiò alla parete e cominciò a pensare.
 
 
 
            L’hangar n°6 quel giorno aveva un odore strano.
Bastian arricciò il naso e si tolse gli occhiali da sole, mettendoseli in testa. Qualche filo di capelli si incastrò tra le minuscole viti della montatura e lui tolse gli occhiali liberandoli. Li mise in una delle tasche sul petto.
Si avvicinò al loro veivolo che emanava un forte odore di olio e saltò a bordo per controllare se ci fosse qualche perdita. Rimase interdetto nel trovare qualcosa sul sedile posteriore, che solitamente era quello che occupava lui. C’era una piccola scatola con un biglietto sopra, che recava il suo nome. Sollevò il coperchio e tirò fuori una piccola sfera bianca, che illuminò con un bottoncino laterale. Una luna perfetta brillava tra le sue mani. Sorrise, spontaneamente.
“Karl” fu il suo primo pensiero. “Il tuo primo regalo.”
Non riuscì a smettere di sorridere per un bel po’.    

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Capitolo 25
*** Quel sorriso largo e sciocco ***


Capitolo XXV
Quel sorriso largo e sciocco
 
 
 
            Bastian entrò in camerata e si buttò a letto, esausto.
Sbadigliò senza nascondersi e socchiuse gli occhi, ma solo per un attimo, subito balzò di nuovo in piedi e aprì il cassetto del suo comodino. C’era la sua luna, lì. Quella rotonda, luminosa, che Karl gli aveva fatto trovare sull’aereo. Non aveva capito come interpretare quel gesto o meglio, non sapeva come interpretare la reazione che quel gesto gli aveva provocato. Aveva rivisto Karl e non aveva detto niente. Persino lui, che non la smetteva mai di parlare, in quel momento, per paura di dire la cosa sbagliata, non aveva detto assolutamente niente.
Richiuse il cassetto e andò a prendere un cambio di vestiti per fare la doccia dal baule ai piedi del letto. Quando lo aprì, tuttavia, ogni sua intenzione decadde. Sorrise spontaneamente, un sorriso largo e sciocco. Prese tra le mani una busta rossa con un biglietto con solo un nome scritto sopra, il suo, gemello a quello posto sulla scatola con la luna.
Per una manciata di minuti, non riuscì neanche ad aprire il regalo.
Non poteva smettere di sorridere.
Aveva appoggiato senza pensarci il bigliettino sulle proprie labbra e aveva socchiuso gli occhi.
“Oh, Karl. Non riesco a credere che tu stia facendo tutto questo, adesso.”
Karl non aveva detto una parola, non si era firmato, ma era sicuro si trattasse di lui. Era evidente dal regalo che gli aveva fatto. La luna, così come lui gli aveva regalato quel piccolo cielo stellato per il loro primo anniversario.
Adesso, dopo aver assaporato lungamente il momento, si decise ad aprire la busta.
Per prendere qualche altro secondo, andò a sedersi sul letto. Esaminò il regalo.
Era una busta rossa appuntata in alto con due spille ed un vistoso fiocco giallo. Era abbastanza grande. Quando Bastian l’aprì, sbirciò immediatamente, e si portò una mano sul viso, scuotendo la testa divertito, non poteva crederci. Un regalo così dolce venire dalla mente di Eisner! Estrasse un piccolo aereo peluche con un’etichetta rossa che citava il nome di uno dei suoi cartoni animati preferiti.
«È il tuo compleanno, Kluge?» gli chiese un camerata che aveva il letto poco distante dal suo. Lo aveva osservato curiosamente, studiando ogni sua mossa. «Perché un regalo?»
«Ah… no, non è il mio compleanno. È solo una cosa che… è solo un regalo.»
Sorrise al suo indirizzo, per poi abbassare gli occhi sul suo peluche colorato e morbido. Non riusciva a smettere di sorridere, né di toccare quel piccolo oggetto. Non sapeva neanche cosa dire ed in effetti se fosse stato in sé non avrebbe nemmeno risposto a quel tipo, un certo Paul Gardner che gli aveva sempre dato fastidio. Tanto era sovrappensiero, però, che neppure si accorse che la domanda fosse sua, che fosse stato lui a parlare. Era come in uno stato di trance, troppo felice per parlare e intanto si chiedeva il motivo di tutta quella felicità.
“Dovrei essere arrabbiato con lui, non dovrei permettere a due regali di perdonargli quello che mi ha fatto,” si disse, ed il sorriso si spense un po’, mentre le dita lunghe e affusolate carezzavano le ali del piccolo pupazzo.
Barthold lo raggiunse più tardi e lo trovò ancora lì in contemplazione.
«Cos’è quello?» chiese.
«Un regalo di Karl,» sussurrò. «Un altro.»
«Forse ha capito cosa deve fare, eh?» sorrise Bart, sedendosi nel proprio letto.
Bastian annuì. «Sì, forse sì. C’è il tuo zampino? Perché sta magicamente facendo ciò che doveva fare.»
Lui si alzò in gran fretta. «Io devo andare a fare la doccia!» esclamò, per togliersi dall’impiccio.
Bas rise, ma la sua risata durò poco. «Però questo vuol dire che non è spontaneo…»
«Io ho solo detto che deve insistere, perché sei una primadonna del cazzo che vuole essere corteggiata.»
«Davvero?»
«Te lo giuro.»
«Grazie… spero davvero continui per questa rotta. Potrei anche perdonarlo.»
«Tu lo hai già perdonato. Guarda come ti brillano gli occhi…»
Bastian rise piano e rimise il peluche dentro la busta rossa. «Sto cercando di resistere. Non voglio che si arrenda così facilmente. Voglio che continui per un po’.»
«Non tirare troppo la corda, o mollerà.»
«Be’, per il momento voglio godermela. È giusto, no? Me lo deve.»
Bart annuì. «Onestissimo.»
«Sono felice, Bart. Vorrei che non avesse mai fatto quello che ha fatto. Se non lo avesse fatto, ma avesse fatto tutto questo… le sorprese, i regali. Sarebbe stato perfetto.»
Barthold appoggiò una mano sulla sua spalla. «Ritroverete il vostro equilibrio, vedrai.»
«Lo spero.» Bastian sorrise. «Achim è con Irem?»
«Domani sera. Anzi, voleva un aiutino sulla scelta del completo che sfoggerà e sulla scelta del locale in cui portarla. Ci aspetta in mensa per definire i dettagli.»
«Oh, gli consiglieremo. Andrà benone. Ne sono sicuro. Mi sento molto positivo, oggi. Come se tutto potesse andare per il verso giusto.»

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Capitolo 26
*** Sia fine che inizio ***


Capitolo XXVI
Sia fine che inizio
 
 
 
      Bastian trovò il terzo regalo una mattina di primavera.
Prendendo tra le mani la sua armonica, si sentì improvvisamente in colpa.
L’armonica era forse l’unico oggetto personale che Karl avesse portato da casa sua, dalla campagna, e non se ne separava mai. Adesso, invece, gliel’aveva regalata.
Stavolta c’era una breve lettera, accanto al biglietto sul pacchetto regalo.
 
 
‘Stian,
permettimi di chiamarti così un’ultima volta.
Mi dispiace dannatamente tanto per quello che ti ho fatto.
Come ultimo tentativo di farmi perdonare, ti regalo la mia armonica.
È l’oggetto più prezioso che ho e vorrei lo avessi tu, indipendentemente dalla tua scelta di perdonarmi. Non ci sono parole per difendermi e per pregarti di crederci ancora.
Vorrei che tu lo facessi.
Vorrei che tu ci credessi ancora in noi, ma capirò la tua decisione in ogni caso.
 
Karl.
 
 
Con il cuore pesante e lo stomaco agitato, Bastian si ficcò in tasca la lettera e l’armonica e corse all’hangar n.° 6. Quando lo vide, perse il cuore perse qualche battito.
Per la prima volta dopo mesi, lo salutò di sua iniziativa.
«Ciao,» disse.
Karl gli andò incontro, reggeva uno strofinaccio tra le mani. Esitò, nervoso. «Ciao. Sei venuto qui per il nuovo veivolo?»
«Cosa? Quale nuovo veivolo?»
«Breyer ha detto che ha un nuovo prototipo e vorrebbe che lo provassimo noi.»
Bastian spalancò gli occhi. «Davvero? Sembra fantastico! Quando possiamo provarlo?»
«Ah, giovedì prossimo, a quanto ho capito.»
Annuì e lo guardò. Rimase in silenzio per qualche secondo, per poi avanzare di un passo verso di lui, senza guardarlo negli occhi. «Senti, Karl…»
Karl avanzò di tre passi, guardandolo. «Sì?» le sue labbra si mossero appena, era agitatissimo.
Lui si frugò in tasca e tirò fuori l’armonica. Gliela porse. «Non è giusto. Devi tenerla tu.»
Karl la prese ed il contatto con la sua mano gelida lo fece rabbrividire. «Sì…» sussurrò sottomesso. Ripose l’armonica in una tasca. Con tono di voce sconfitto e triste, soggiunge: «immagino che non siano serviti, i regali.»
Bastian distolse lo sguardo. «Non è quello. Li ho tanto apprezzati. Ma non so se posso più fidarmi di te. Non sono sicuro che tu non possa provare ancora qualcosa per Faccia d’Angelo.»
«Mathias Keller è morto…»
«D’accordo, ma magari la prossima volta sarà un altro uomo… aspetta, cosa?» spalancò gli occhi. Adesso si che lo guardava. Era strano, quanto fosse facile guardarlo e sentirsi di nuovo legato a lui in maniera così forte. «Morto?» balbettò.
Karl annuì. Tirò lo strofinaccio su una cassa, in un angolo, senza preoccuparsene molto. «Si è suicidato.»
«Che stai dicendo? Non sapevo fosse lui. Ho saputo che hanno trovato un soldato morto, ma non avevo idea fosse un suicidio e… che fosse… Keller.»
Karl si appoggiò alle ali dell’aereo, con le braccia incrociate. «A quanto ho saputo, si è impiccato, in uno degli alberi del cortile, due notti fa. Lo hanno trovato ieri mattina.»
Bastian boccheggiò inutilmente prima che il suo cervello collegasse il turbine di emozioni con le informazioni che aveva. Mathias Keller era morto due giorni prima. Poco dopo aver trovato l’armonica nella sua stanza. Era morto, suicida, impiccato ad un albero, ed era stato trovato da qualche camerata il mattino seguente. «Mi dispiace,» sussurrò. Si sentì in colpa. Si era suicidato per colpa sua, perché lo aveva minacciato? No. Non poteva essere. Mathias Keller aveva diversi nemici e certe brutte nomine. Forse lui aveva contribuito, ma cos’avrebbe dovuto fare? Aveva sedotto il suo fidanzato! No… non sedotto… Karl era consenziente.
«Già,» si limitò a rispondere lui. Già. Cos’altro avrebbe potuto dire? Si trovava in una posizione difficile, imbarazzante. Normalmente, avrebbe detto che gli dispiaceva – e gli sarebbe dispiaciuto anche se si fosse trattato di un estraneo. Ma in questo caso ogni parola aveva il peso di un macigno. Gli dispiaceva? Umanamente, sì.
«E tu come stai?» gli chiese Bastian.
Esitò. Avrebbe voluto dare una risposta brillante, d’effetto, perché ogni parola che si scambiavano lì avvicinava o allontanava. Ma non era mai stato bravo con le parole, lui era quello dei silenzi. «Sto bene,» disse sincero. «Mi dispiace per Keller, nessun soldato dovrebbe arrivare ad impiccarsi in caserma. Avrà avuto le sue buone ragioni, immagino.»
Bas sentì una morsa allo stomaco, per i sensi di colpa. Aveva contribuito anche lui al suicidio? Continuava a chiederselo. «Sì… hai ragione. Dispiace anche a me. Non mi è mai piaciuto, ma non avrei mai pensato potesse ammazzarsi.» Trattenne a stento un sospiro. «Sicuro… di stare bene?» Infondo aveva passato momenti di intimità con Keller. Si sentiva un po’ confuso, non sapeva che genere di risposta gli sarebbe andata bene. Avrebbe voluto che Karl dicesse: non mi importa niente della morte di Keller, perché questo voleva dire che non aveva mai davvero avuto interesse nei suoi confronti. Che era stato solo sesso. Al tempo stesso, però, una frase del genere avrebbe fatto riemergere il vecchio e gelido Karl Eisner.
Karl si mise le mani sui fianchi e sospirò. «Sto bene. Ho accusato il colpo, ieri, sapendo la notizia, sono sincero, ma nello stesso modo in cui l’avrei fatto per un estraneo. Non mi mancherà, ma mi dispiace per lui, in quanto essere umano.»
Bas trattenne a stento un sorriso. Annuì. “Che strano,” pensò. “La prima conversazione che abbiamo da mesi e parliamo di Faccia d’Angelo.”
«Senti…»
Karl si avvicinò di qualche passo. «Dimmi.»
Lui sospirò. «Niente. Ora devo andare. Ci vediamo domani, per la sessione di allenamento al poligono.»
«D’accordo.»
Bastian si voltò e fece per andarsene, ma Karl lo trattenne chiamandolo per nome. Allora lui si voltò, lentamente, e Karl appoggiò la mano sulla sua mandibola. Cercò di non pensare a quello che stava facendo, perché altrimenti si sarebbe fermato. Carezzò delicatamente la sua pelle, col pollice, e colmò la distanza tra i loro visi, baciando le sue labbra.
Bas esitò a ricambiare il bacio. Era stato preso alla sprovvista. Lo voleva e non lo voleva. Forse voleva fargliela pagare ancora per un po’ – ma non riuscì ad essere forte abbastanza. Avrebbe voluto rimanere lì, a baciarlo, per ore. Si era accorto che Karl lo aveva baciato proprio vicino l’uscita dell’hangar, alla luce del sole, dove qualcuno passando avrebbe potuto vederli, cosa che non avrebbe mai fatto prima. Eppure, eppure!, continuava a pensare al tradimento. Cercò di scivolare via da quella presa, di sottrarsi al bacio. Karl però fece scivolare la mano dalla sua guancia al suo fianco per stringerlo a sé. Non era intrappolato, facilmente avrebbe potuto ribellarsi, se solo avesse voluto. A questo punto non era più sicuro di ciò che voleva e come spesso aveva già fatto nella sua vita, seguì l’istinto e ricambiò il bacio e prolungandolo. Portò le braccia attorno al suo collo, socchiuse gli occhi e lo strinse a sua volta. Senza volerlo, i suoi occhi si riempirono di lacrime che subito gli rigarono le guance. Quando Karl lo notò, sciolse il bacio con inaspettata dolcezza e gliele asciugò con le dita. Appoggiò la fronte alla sua.
«’Stian, io non so più come dirtelo. Io ti…»
«Anch’io,» fece Bastian interrompendolo. Lo guardò negli occhi e tornò a baciarlo. Nessuna nuova lacrima scese sul suo viso, il bacio fu più lungo, più dolce, più bello e consapevole del precedente. «Ma ti giuro su Dio che se lo fai di nuovo, te lo stacco a morsi.»
Karl annuì. «Hai la mia parola. Non succederà mai, mai più. Non voglio rischiare di perderti ancora. Sono stato un idiota, ho avuto paura di non poter essere alla tua altezza e ho rovinato tutto. Mi dispiace.»
«Questa è la tua seconda ed ultima possibilità, Einser,» mormorò Bastian asciugandosi gli occhi.
«Lo so. Grazie. Grazie,» ripeté lui e lo strinse a sé in un abbraccio. «Non ti deluderò.»
«Lo spero. Lo spero davvero, non potrei sopportarlo di nuovo…» rispose Bas lasciandosi andare in quella stretta. «Non di nuovo.»
 
 
 
        Bastian sedette al tavolo con loro.
Achim non la smetteva di parlare di Irem, con gli occhi che brillavano. Finalmente, ce l’aveva fatta. Le aveva chiesto di uscire ed era andata bene. Si sarebbero rivisti il giorno seguente per un nuovo appuntamento.
«Comprale dei fiori,» disse Robert.
«Sei troppo vintage, devi prendere dei buoni profilattici,» ribatté Bart ridendo.
Achim rise. «Non fare il maiale!»
«Scusate il ritardo,» fece Bas. «Ovvio che devi comprare entrambe le cose. Ma lei è musulmana, non te la da almeno fino al matrimonio.»
Achim svariò gli occhi. «Non aveva neanche il velo quando siamo usciti! Lo porta a lavoro per non sentire borbottare suo fratello. Com’è possibile che suo fratello sia più retrogrado di suo padre? Suo padre è un uomo così moderno e aperto, è assurdo.»
«Sarà perché è gay,» mormorò Bastian scrollando le spalle. I suoi amici lo guardarono sorpresi. «Ma dai, non ve ne eravate accorti? Avete visto come parla con lo chef e come guarda i ragazzi quando entrano nel suo locale? Suvvia, sono gay, so riconoscere gli altri gay. Ho una specie di gay-radar.»
Loro tre scoppiarono a ridere. Robert si passò una mano tra i capelli e disse: «non sono sicuro che questa non sia auto-discriminazione.»
Bastina rise a sua volta. Di sicuro, era stato molto più felice e sereno, negli ultimi giorni. «Ho una notizia, ragazzi.»
Achim lo interruppe, appoggiando seccamente il boccale di birra al tavolino, con gli occhi spalancati disse: «avete saputo di Keller?»
Gli altri si fecero più seri. «Sì, non si parla d’altro in caserma,» fece Barthold.
«Mi sento in colpa,» mormorò Achim.
«E perché, scusa?» gli chiese lui.
«Perché io e Robert… quando abbiamo saputo di quello che aveva fatto, per dispetto abbiamo scritto il suo nome nel Death Note[i]
Bastian e Bart scoppiarono a ridere fortissimo. «Che cosa!?»
«Avevamo scritto che si sarebbe impiccato e così ha fatto…» confessò Robert.
«Siete delle merde. Ma grazie, lo apprezzo molto. Anche se a me sarebbe bastato cambiasse caserma.» Scelse di eclissare sui propri sensi di colpa. «A proposito, volevo dirvi che io e Karl abbiamo… chiarito, diciamo.»
Achim lo guardò corrucciato. «Gli hai perdonato le corna? Sei stupido? Ti do una notizia, Bastian, non esistono gli unicorni. Lo rifarà e non venire a piangere da noi.»
Bastian rimase interdetto. Cercò Bart con lo sguardo, in cerca di aiuto.
Bart, d’altra parte, era un po’ deluso di non aver avuto l’anteprima della notizia, come era invece avvenuto altre volte, ciononostante appoggiò la mano sulla sua spalla e disse, affettuoso: «l’importante è che ti renda felice. O scriverò io il suo nome su quel fottuto quaderno nero.»
Bas sorrise, rasserenato. «Se lo fa di nuovo, glielo stacco a morsi.»
Una smorfia di dolore si dipinse sul volto di Robert. «Ahia… suona terribilmente doloroso.»
Bastian si mise a ridere e bevve qualche sorso dal suo boccale di birra.
 
 
 
[i] Death Note è un manga/anime che racconta la storia di un brillante studente del liceo che un giorno trova per strada un quaderno nero. Nella prima pagina si può leggere: “l’umano il cui nome sarà scritto su questo quaderno morirà.” Il possessore del diario può scrivere il nome di chiunque, accompagnandolo dall’orario e la causa del decesso, per assicurarsi la sua morte.

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Capitolo 27
*** Nuove complicità ***


Capitolo XXVII
Nuove complicità
 
 
 
      Karl gli baciò la tempia e sorrise lievemente.
Era la prima volta che passavano del tempo insieme fuori dalla caserma, da quando si erano rimessi insieme. Nessun motel stavolta. Il solito parco. Era sera, la luna era in cielo ad illuminare il sentiero degli innamorati. Si tenevamo per mano, camminando lungo la via, addentrandosi via via nel parco. Non c’era nessun altro, solo un gatto che rincorreva un topolino.
«Mercoledì prossimo siamo liberi,» mormorò Bastian, che intanto gli carezzava leggermente la mano col pollice. «C’è qualcosa che vorresti fare?»
Lui scrollò le spalle, salvo poi ricordarsi di quanto fastidio gli desse il fatto che non prendeva mai posizione né iniziative. «Ti andrebbe di vedere se il nostro motel ha una camera libera?»
Il pollice di Bas si fermò sulla sua mano. «No,» disse senza guardarlo. «Non mi va.»
Karl non si aspettava quella reazione, ma annuì. «D’accordo… allora cosa hai voglia di fare?»
“Qualsiasi cosa che non sia sesso,” pensò Bastian. “Era la cosa che sapevamo fare meglio insieme. Voglio sapere se siamo in grado di fare altro e non lo faremo prima che io riesca togliermi dalla mente che sei stato con Keller.”
Quello che disse fu, invece: «andiamo al cinema?»
«Sì, va bene. Ad una condizione: nessun cartone animato.»
«Che noia. D’accordo. Guardiamo un horror o un film d’azione, magari.»
            Passeggiarono fino alla fine del parco parlando di vecchi film e di registi famosi. Bastian poi lo aggiornò sulle condizioni di salute di Ingrid, sua sorella, che era incinta. Avrebbe partorito tra poco e aveva già tutto pronto: il fasciatoio, la culla, i pannolini. Disse che non era pronto per diventare zio, che si sentiva ancora troppo giovane, che avrebbe dovuto comprare un bel regalo al nascituro, un maschio, a quanto pare. Aveva ricominciato a parlare velocemente e tanto, come prima, e per un momento sembrò come se non si fossero mai lasciati.
Ad un certo punto, poco prima di ritornare, Bastian sedette su un muretto, mettendosi comodo.
«’Stian?»
«Mh?»
«C’era la vernice fresca…»
Si alzò in gran fretta e si voltò per guardare i pantaloni, adesso tutti macchiati. «Merda…»
«C’era anche il cartello, vernice fresca…»
Bastian scoppiò a ridere. «Questa è proprio una di quelle cose che combino io.»
Lui annuì ridacchiando piano. «Sì, è uno dei tuoi casini. Mi erano mancati…» Sorrise allungando la mano verso di lui.
Anche Bas sorrise. Prese la sua mano, si alzò e finì con l’abbracciarlo, stringerlo al proprio petto e baciarlo. Gli era mancato tanto. Era felice di essere di nuovo al suo fianco.
 
 
            Il pub era pieno. Irem era con loro, con una minigonna di pelle e i capelli arricciati e voluminosi. Achim teneva un braccio sulle sue spalle, fierissimo, e ogni tanto la baciava. Bart e Robert chiacchieravano fitti fitti di chissà cosa, e Bastian e Karl erano seduti tra loro, con una bottiglia di birra ciascuno mentre guardavano la band che suonava dal vivo. Si tenevano la mano, distrattamente.
«Sono bravi, vero?» mormorò Bas, voltandosi per guardarlo.
Karl incontrò le sue labbra e lo baciò. «Vero,» mormorò.
Lui rise piano e lo strinse a sé per prolungare il bacio. Aveva deciso di fidarsi, anche se gli era difficile. Karl non guardava quasi mai il telefono mentre erano insieme e anche se forse era un atteggiamento un po’ infantile, Bastian teneva d’occhio tutti i suoi social e non aveva trovato niente di compromettente. Con qualche scusa, ogni tanto prendeva il suo telefono. Karl aveva salvato la sua impronta digitale per permettergli di sbloccarlo ogni volta che voleva. Non aveva nulla da nascondere. In caserma, all’ora del rancio, rimaneva in mensa con lui e non guardava nessun altro. Gli diceva sempre dov’era e con chi. Sperò che questo bastasse a calmare la sua ansia, a farlo sentire più al sicuro, e sperò che non durasse in eterno. Non gli piaceva essere controllato, ma sentiva fosse necessario adesso. Almeno per un po’.
            Bas si mise poi a cantare una canzone estiva ad alta voce, usando il proprio cellulare a mo’ di microfono, accompagnando la band. Era stonato, ma felice. Bevve un boccale di birra e poi un altro. Verso mezzanotte, non sentiva più le gambe e la vista cominciò ad annebbiarsi. Gli salì la nausea.
«Hei, Karl, possiamo tornare? Non mi sento benissimo.»
«Sì, certo,» mormorò lui affiancandolo. «Usciamo, prendi un po’ d’aria.»
Infilò la mano nella tasca dei jeans e tirò fuori il portafogli. Estrasse due banconote e le porse a Bart. «Sono per le nostre consumazioni. Ci vediamo domani, ragazzi.»
Dopo qualche saluto veloce, uscirono dal locale. Bastian fu contento di prendere aria, ma dopo pochi passi si fermò a vomitare. Si appoggiò ad un muro, tra due cassonetti della spazzatura.
«Togliti da lì, la puzza ti farà stare peggio,» mormorò Karl facendolo spostare. Appoggiò una mano sul suo fianco, circondandogli la vita, per sorreggerlo.
Bas si chinò di nuovo per rimettere. «Ti ho vomitato sulle scarpe, scusa.»
«Solo un altro dei tuoi casini, che problema c’è?» mormorò Karl ironico. «Va meglio ora?»
«Credo di sì.»
Lo aiutò a tirarsi su. «Ti vado a prendere dell’acqua?»
Lui annuì. «Sì, grazie.»
Karl allora attraversò la strada e si avvicinò ad uno piccolo chioschetto di kebap. Comprò una bottiglietta da mezzo litro di acqua minerale e gliela portò. Bastian bevve un paio di sorsi, era pallido e sudato.
«Scusa, ma non hai bevuto solo due birre?»
«Che cazzo ne so, sì, erano le due solite bionde. Non so perché mi hanno fatto male.»
«Torniamo in caserma. Ce la fai?»
«Sì, credo di sì.»
Tornarono in caserma con il primo autobus disponibile e Karl accompagnò Bastian fino in camerata.
Le loro camerate avevano sei letti, sei armadietti, sei bauli e sei comodini. In quella di Bastian, oltre a lui, c’erano Bart, un paio di letti vuoti, un soldato fastidioso e saccente, che usciva poco e dormiva spesso, che si chiamava Paul Gardner. Quello che aveva fatto domande sui regali. Karl aiutò Bas a stendersi e a spogliarsi. Ignorò il soldato antipatico, che per fortuna stava già dormendo, e sfilò le sue scarpe e i suoi jeans.
«Domani avrai un gran mal di testa,» mormorò. «Cerca di dormire.»
«Ti prendi sempre cura di me, alla fine,» sussurrò Bas guardandolo. «Forse per te è troppo.»
«Non mi disturba farlo.» Prese il suo pigiama e glielo passò. Gli sfilò la maglietta e mise via i vestiti. «Adesso devi dormire. Ci vediamo domani mattina, ok?»
«Karl?»
«Che c’è, ‘Stian?»
«Non ti dà fastidio, vero?»
«Vero.» Sedette sul bordo del suo letto. «Non mi disturba.»
«Non ti disturba neanche che non faremo sesso per un po’?» domandò lui guardandolo negli occhi. Pigro e lento si rinfilò il pigiama. Sentiva gli occhi pesanti.
Karl scosse la testa. «Penso sia giusto così. Lo faremo quando te la sentirai di nuovo. Non abbiamo fretta.» Appoggiò una mano sulla sua.
Bastian annuì.
“E se cercasse altrove, quello che io non voglio dargli? Forse dovremmo farlo. Se io non volessi per troppo tempo, lo cercherebbe altrove,” pensò.
«Sei sicuro?» insistette.
«Sì. Ora riposati, domani sarà una lunga giornata.»
«Aspetta!... mi prometti che, se ci fosse un qualunque problema tra noi, ne parleremmo apertamente?» sussurrò.
«Sì. Basta bugie.» Karl gli sistemò le coperte e si alzò. «Buonanotte.»
«Sì, ‘notte.» Bas si mise su un fianco e si addormentò.
Il soldato, dall’altra parte della stanza, che fingeva di dormire, tra sé e sé, ghignò.

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Capitolo 28
*** Felici e contenti ***


CAPITOLO XXVIII
Felici e contenti
 
 
 
Tre anni e mezzo più tardi
 
 
 
      Bastian portò le braccia al suo collo e lo strinse a sé, baciandolo.
Le fiammelle delle candeline sulla torta scintillavano sopra la panna. Rise, vivace, e poi soffiò per spegnerle. Si spensero tutte tranne due. Tutti batterono le mani all’unisono. Karl sorrise e gli rubò un altro bacio, che lui prolungò. Ventisette anni. La piastrina militare gli brillava ancora sul petto, riflettendo le fiamme. Il tatuaggio sull’avambraccio destro era ben visibile, sul braccio scoperto. Il disegno pieno di un piccolo aereo militare nero in volo ed una scritta in inglese:
everything that drowns me makes me wanna fly. Tutto ciò che può abbattermi mi invoglia a volare. Una frase della sua canzone preferita, Counting stars. Suo nipote gli corse incontro, aggrappandosi ai suoi pantaloni, quindi lo prese in braccio. Infilò le mani in tasca per prendere l’accendino e riaccese le candeline.
«Aiutami a spegnerle, dai. Insieme ce la facciamo sicuro,» disse.
Soffiò insieme ad Albert e spensero tutte le candeline.
«Batti cinque! Bravissimo,» sorrise e lo mise giù.
Albert aveva gli stessi capelli rossicci di sua madre, Ingrid, ma gli occhi scuri del papà, Hector. Erano lì, felici, insieme agli amici di sempre. Achim ed Irem che si tenevano la mano, Robert e la sua fidanzata, Karola, mentre Bart si fumava una sigaretta, con un largo sorriso sul volto.
Erano tutti in piedi davanti ad un piccolo tavolo rotondo, sul quale troneggiava la torta ricoperta di panna con una scritta di cioccolato: Alles Gute zum Geburstag, cioè Buon compleanno. La panna era decorata da una pioggia di cioccolatini arcobaleni, coloratissimi, rossi, gialli, verdi, azzurri, viola.
«Sembrano i colori della bandiera lgbtq+,» mormorò Bas.
«Che genio,» fece ironico Bart, svariando gli occhi. «È fatto apposta, no?»
«Ah, dici che è perché sono frocio?»
Gli altri risero e Karl gli porse un coltello. «Tagliala e stai zitto, che è meglio.»
Bastian rise, prese il coltello dalle sue mani e gli diede un bacio sulla mandibola. Affondò la lama sulla panna morbida, la prima e la seconda volta, tirando fuori una fetta che rovesciò rovinosamente sul piattino di carta per metà e metà sul tavolo di legno del locale.
Karl sospirò, con un lieve sorriso divertito, e gli tolse il coltello di mano. «Lascia stare. Siediti. Hai bisogno di una balia, non di un fidanzato.» Aiutandosi con una forchetta, sistemò delle fette pressocché identiche di spessore nei piattini di carta, servendo tutti.
«Non l’avete presa ai lamponi, vero?» domandò Bas.
Era stato felice di quella sorpresa. Era uscito dalla caserma con l’idea di bere una birra con i suoi amici, nulla di più. Il suo compleanno sarebbe stato il giorno seguente, ma non aveva libera uscita e Karl aveva il turno di guardia notturno. Era stato triste all’idea di non poter festeggiare per bene. Invece, quella sera, Karl aveva organizzato una piccola festicciola, coinvolgendo Ingrid e la sua famiglia e i loro amici. Bart si era subito offerto di comprare la torta, mentre lui avrebbe pagato le loro consumazioni di tutti.
«Sì, Karl me lo ha detto venti volte, niente lamponi o banane. È un pandispagna al cioccolato con crema all’arancia.»
«Wow, sofisticato,» fece Bastian. «Mi piace.»
«Ho chiesto al tuo fidanzato, per non sbagliare gusti. Mi ha detto che ti piacciono le torte a cioccolato, come ai bambini.»
«A chi non piacciono le torte al cioccolato, scusa?» Affondò la forchettina nella torta e l’assaggiò. «Buonissima. Grazie ragazzi, vi voglio bene.»
Mangiarono la torta, poi Ingrid gli porse un pacchettino. «Questo è da parte nostra,» mormorò con un sorriso.
«Oh, addirittura un regalo. Aspetta, ora lo apro. Karl? Me la tagli un’altra fetta?»
Karl si era seduto proprio in quel momento e aveva appena affondato la forchetta nella sua fetta, per la prima volta. Sollevò lo sguardo e lo guardò sorpreso. Mise da parte il piatto e si alzò, per tagliare un’altra fetta di torta. «La balia,» ripeté. Gli porse la torta e sedette di nuovo, per mangiare finalmente la propria porzione.
Bastian rise piano, si sporse verso di lui e gli baciò la guancia. Aprì il regalo di Ingrid per non farla aspettare oltre, il bambino era stanco e dovevano tornare a casa, quindi prese il pacchetto e staccò la coccarda, poi lo spacchettò, con poca attenzione, strappando la carta. Lo strappo sulla carta rivelò il logo di una marca di scarpe sportive. Bas sollevò il coperchio e spalancò gli occhi.
«Oddio, sono stupende.»
Karl si sporse e le guardò. «Grazie, Ingrid, per avergli comprato delle scarpe di un colore decente. Appena arriviamo in caserma, butto vie quelle arancioni che ha. Sono orrende.»
Lui si voltò, per guardarlo male, ma sempre col sorriso divertito ad illuminargli il volto. «Che stronzo,» borbottò. Tirò fuori le scarpe blu dalla scatola e notò delle piccole palme più scure disegnate sopra. «Le amo.» Le guardò per bene e poi le rimise nella scatola, per non rovinarle. Si avvicinò a sua sorella per abbracciarla e la strinse forte. La fidanzata di Robert, Karola, scattò loro una fotografia, con la sua macchina fotografica.
Bart sorrise e spense la sigaretta nel posacenere. Erano nell’area fumatori. Prese un pacchetto regalo e glielo sistemò tra le mani. «Tieni. È da tutti noi.»
Bastian, interdetto, lo prese tra le mani, era piuttosto grande e molto morbido, sottile «Non c’era bisogno, avete già portato la torta,» mugugnò.
«La torta era una cosa mia,» mormorò lui. «Ora apri questo.»
Ubbidendo, Bas tolse l’adesivo dalla carta traslucida e aprì la busta. Tirò fuori uno zainetto verde bosco coi dettagli in cuoio, anche questo di una marca famosa. «Che bello, mi serviva uno zaino! Ogni volta che andiamo in campeggio o in giro, non ho mai dove mettere la mia roba.»
Achim rise. «Guarda che c’è dentro.»
Dentro lo zainetto, infatti, c’era un piccolo beauty di cuoio marrone molto semplice con lo spazio per il rasoio e le lamette da barba, per lo spazzolino e il dentifricio e con qualche contenitore trasparente da viaggio. C’era anche un portafogli verde scuro e di cuoio, abbinato allo zaino.
Robert sorrise, aveva un bicchiere colmo in mano. «Ti serviranno presto.»
Karl era seduto con le gambe leggermente divaricate e aveva in mano una busta. Gliela porse. «Il mio regalo.»
«Ma già hai pagato stasera, amore,» mugugnò Bastian avvicinandosi e prendendo titubante la busta. Sedette sulle sue gambe ed esitò ad aprirla. «Mi sento in colpa, non voglio che spendi così tanto.»
Karl lo strinse a sé e svariò lo sguardo. «Che rompipalle che sei. Apri e basta.»
Bastian aprì la busta e tirò fuori un foglio di carta. Lesse le prime righe e sorrise spontaneamente. «Davvero?» mormorò voltandosi verso di lui. «Partiamo?»
«Sì.»
«Brighton. La capitale gay del Regno Unito?»
«Volevi andarci da un sacco di tempo.»
«Lo so, ma le nostre ferie sono sempre organizzate male e siamo già a fine luglio… partiamo tra due settimane, quindi?»
«Esatto.»
Si sporse e lo baciò, un bacio lungo ed esagerato. I loro amici risero, Robert appoggiò una mano sugli occhi del piccolo Albert. «Meglio se questo non lo guardi,» disse.
«Non volo su un aereo civile da non so quanto tempo,» mormorò Bastian. «Sono felicissimo. Grazie.» Lo abbracciò e lo baciò ancora.
Rimasero a bere e ridere un'altra ora, prima di lasciare il locale, mano nella mano, allegri e spensierati.
 
 
            Una settimana più tardi, Bastian aveva cominciato a fare una lista, mentalmente, di ciò che avrebbe portato con sé a Brighton, in Inghilterra. I suoi pantaloncini beige, quelli a jeans, le scarpe nuove che gli aveva regalato sua sorella e ovviamente anche lo zaino verde bosco. Una felpa, nel caso facesse freddo, un paio di magliette e poco altro. Sebbene fosse molto vanitoso, preferiva viaggiare leggero. Era un soldato, dopotutto. Aveva bisogno di poche cose per sopravvivere. Di certo non avrebbe dimenticato i suoi occhiali da sole e le sue cuffiette per la musica. Era molto felice del viaggio, nei suoi momenti liberi non faceva altro che cercare sui motori di ricerca informazioni sulla città, sulle attrazioni, immaginava le foto che avrebbe fatto, i luoghi che avrebbero visitato, il cibo che avrebbero mangiato.
Ora era felice, con Karl.
Era felice, della sua vita.
Lui e Karl si amavano e non c’erano più stati tradimenti.
Ingrid e la sua famiglia gli erano sempre vicino.
I suoi amici erano fedeli e gli volevano bene.
Ogni giorno, le cose andavano meglio.
Sembrava essere tutto perfetto.
 
 
 
 
 
 
        Ma questo, purtroppo, non è il finale della nostra storia.

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Capitolo 29
*** L'imprevisto ***


Capitolo XXIX
L’imprevisto
 
 
 
            Bastian era seduto sui gradini della rampa di scale che portava agli alloggi del piano superiore. Gli tremavano un po’ le mani. Karl uscì dall’ufficio di Breyer e lo raggiunse, scuro in volto. Aveva dei fogli in mano.
«Partiamo tra cinque giorni,» mormorò stringendo le labbra.
Lui annuì senza dire niente.
«A quanto pare, si tratta di un’emergenza.»
«Sì, ha detto la stessa cosa anche a me. Perché ti ha trattenuto dentro?»
«Burocrazia. C’erano dei dati nel sistema non aggiornati, niente di serio,» sospirò. «Mi dispiace. Niente viaggio a Brighton.»
Bas si alzò e lo affiancò. «Dispiace anche a me. Questa sarà la nostra prima vera missione. Sono un po’ nervoso all’idea.»
«Siamo addestrati per questo e io sarò lì con te. Stai tranquillo.»
«È che adesso ho qualcosa da perdere,» rispose guardandolo tristemente negli occhi.
Karl si avvicinò a lui ancora di più e gli prese la mano. Intrecciò le dita alle sue. «Voleremo insieme. Cosa può andare storto?»
«Hai ragione. Ce la possiamo fare.»
«Certo che sì,» lo abbracciò brevemente. Erano da soli, alla fine di un corridoio, vicino alla rampa di scale. «Andrà tutto bene. Non sarà una cosa lunga.»
«Mi dispiace un sacco rinunciare al viaggio. Possiamo chiamare la compagnia aerea? Magari saranno clementi per due soldati, e ci spostano le date. L’albergo era da pagare in loco, no?»
«Sì, siamo ancora in tempo per disdire senza problemi, per quello. Vedremo per il resto. Dai, andiamo a ripassare.»
Bas ritrovò il sorriso. «Ripassare cosa?»
«Voleremo con un altro aereo, non dobbiamo dare un’occhiata ai comandi?»
«Sei sempre quello saggio, Eisner, che noia.»
Anche Karl, stavolta, si mise a ridere.
 
 
            Due giorni prima della partenza, l’agitazione era nell’aria. Un certo nervosismo si percepiva già guardandoli. Bastian era stato a salutare sua sorella, suo cognato e suo nipote. Disse loro di non preoccuparsi, perché sarebbe tornato presto a casa, sano e salvo. Un paio di mesi e sarebbe stato di nuovo lì con loro. Non voleva rivelare quel dettaglio, ma all’insistenza di Ingrid, dovette dire che sarebbe andato in Yemen. Lei sbiancò, ma cercò di mantenere un tono di voce discreto e stabile e non fece nessuna sceneggiata. Più tardi, però, gli scrisse di stare attento e di non farla stare in pensiero.
Karl invece non aveva nessuno da salutare e questo rendeva le cose meno dolorose. Sarebbe partito senza lasciarsi indietro nessuno. Il fatto che il suo fidanzato fosse anche il suo co-pilota, facilitava tutto quanto.
La loro complicità, in quei giorni, si giocò tra silenzi e mezze parole, più abbracci, più carezze, più tenerezze. Bas era nervoso.
Non era la loro prima missione, erano già partiti altre due volte ciascuno, una prima di conoscersi, una due anni prima, ma erano state missioni semplici, il loro compito era stata la ricognizione area, avevano dovuto scattare delle fotografie dall’alto per le nuove mappe del territorio nemico.
Questa volta era diverso.
Avrebbero dovuto bombardare un obiettivo militare, un deposito armi dei miliziani.
Erano pronti e non lo erano affatto.
Il fatto che non avrebbero visto delle persone morire per la mano loro, era certamente d’aiuto, ma entrambi, anche se non se lo dicevano e non lo avrebbero mai ammesso ad alta voce, si chiedevano se avrebbero ucciso qualcuno di lì a pochi giorni.
Breyer aveva detto loro di stare pronti a partire in qualunque momento ed effettivamente la partenza anticipò di un giorno.
Gli uomini della Bundeswehr, le forze terrestri dell’esercito tedesco, avevano bisogno di loro. Scappando da un’imboscata, erano indietreggiati sino alle file nemiche. Erano intrappolati su tre fronti e con poche munizioni. C’erano diversi feriti gravi e cinque cadaveri che nessuno poteva ancora sotterrare né piangere. Erano state mobilitate diverse squadre aeree, ognuna con un compito specifico. Qualcuno avrebbe bombardato a est, qualcuno a ovest mentre il sergente maggiore Kluge e il sergente Einser avrebbero bombardato a sud i mezzi corazzati dei miliziani yemeniti. Qualcuno, poi, alla fine, avrebbe tratto in salvo i soldati tedeschi a nord.
Non sarebbe stato niente di particolarmente complesso.
Non erano veramente in pericolo.
Secondo i dati, gli yemeniti, in quella regione, non avevano alcun mezzo di contraerea.
Karl non poteva fare a meno di chiedersi, però: e se invece lo avessero? E se, semplicemente, non lo avessero ancora tirato fuori? Non parlò dei suoi dubbi con Bastian, non voleva alimentare le sue ansie. Ognuno tenne per sé i suoi interrogativi e tirarono avanti, in qualche modo, fino al giorno della partenza.
 
 
            Quella mattina si svegliarono prima dell’alba.
Per la verità, Bastian non aveva proprio chiuso occhio, mentre Karl aveva dormicchiato qualche ora, approfittando del letto ancora comodo e della sicurezza della caserma in patria.
Presero i loro zaini e si ritrovarono all’hangar n.1, che non avevano mai visitato.
Dopo qualche chiacchiera forzata con altri camerati e qualche controllo di routine, salirono su un enorme veivolo, che portava, oltre loro e altri soldati, munizioni, armi, cibo in scatola.
Cercarono di dormire un po’, il viaggio sarebbe stato lungo.
Karl ci riuscì, si addormentò quasi subito, così come qualche altro soldato, Bastian ci mise un po’ più tempo, ma dopo un’ora si addormentò a sua volta con la testa sulla sua spalla.
            Arrivarono in Yemen dieci ore più tardi. Erano le quindici e ventidue, ora locale. Sull’aereo avevano mangiato, bevuto e usato i servizi igienici. Adesso quel posto iniziava a diventare stretto. Era enorme, c’era aria in abbondanza, ma l’ansia l’aveva soffocata tutta. Si stiracchiarono e quasi tutti, come prima cosa una volta a terra, cominciarono a fumare.
«Che caldo,» esclamò Bas, mettendosi poi la sigaretta tra le labbra.
Fumata una sigaretta e divorata mezza porzione di carne essiccata, vennero scortati fino alle loro tende, all’accampamento militare. Vennero presentati loro il maggiore von Crunch e il tenente Baumann, dopodiché ebbero un paio d’ore libere per fare una doccia e sistemarsi nelle brande.
Quel tempo servì loro per chiarirsi le idee.
Arrivò in fretta il rancio della sera. Consumarono un po’ di riso scotto nella mensa da campo.
«Sembra che non abbiamo fatto altro che mangiare, oggi,» mormorò Karl agli altri piloti. Qualcuno di loro rise e due o tre assentirono col capo. Dopotutto, quella prima giornata, era una giornata di transizione. Dovevano abituarsi all’aria nuova, ai superiori, e farlo in fretta, perché la mattina seguente sarebbero stati sui loro aerei, pronti per la missione.
Per scaramanzia e con solerzia, Karl volle conoscere il loro aereo, prima di andare a dormire. Carezzò le ali e controllò se le ruote erano gonfie abbastanza, se i comandi fossero ben oleati. Più sereno, tornò in tenda per cercare di dormire qualche ora. Non aveva fatto molto durante quella giornata, ma si sentiva comunque stanco. Il fusorario contava soltanto un’ora in più in Yemen.
«Com’è?» gli chiese Bas, nella branda accanto a lui.
«Un bell’aereo. Solido ed efficiente.»
«Sono più tranquillo, se lo dici tu,» mormorò sospirando. «Tu a scuola hai studiato meccanica, giusto? Mi fido più di te che dei meccanici.»
«Sì, ‘Stian, il mio è un diploma da meccanico. Per questo voglio sempre controllarlo io, il nostro aereo. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Si dice così, giusto?»
«Sì… cerchiamo di dormire. Domani, all’alba, avremo da fare.»
Contemporaneamente, si girarono su un fianco. Dal lato opposto dandosi la schiena.
Quella non era la caserma. Non conoscevano gli altri piloti e in quella tenda dormivano in trenta.
Era meglio mantenere le distanze.
E, dopotutto, non avevano molta voglia di amoreggiare.

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Capitolo 30
*** Solo un consiglio ***


Capitolo XXX
Solo un consiglio
 

 
            Le 7:37.
Tre Eurocopter Tiger affiancavano due Eurocopter EC 645.
Otto piloti erano lì, l’uno accanto all’altro, nervosi ed eccitati.
Karl era l’ultimo della fila. Fumava una sigaretta.
Bastian scrocchiò nervosamente le dita.
Il maggiore von Crunch sospirò gettando per terra la sua cicca consumata.
Si avvicinò loro e li guardò negli occhi, uno per uno, brevemente. Fece cenno di seguirlo, fino ad una scrivania di metallo accanto ad un proiettore e ad una lavagnetta sulla quale erano attaccate delle fotografie.
«Sarò breve. Le cose sono cambiate durante la notte. L’ultima ricognizione aerea ha evidenziato un cambiamento importante nella posizione dei miliziani. La postazione sud si è svuotata, i mezzi cingolati sono stati spostati durante la notte ad est. La squadra BRAVO bombarderà ad est in questo punto preciso,» disse il maggior indicando un punto sulla mappa a due sergenti maggiori. «Le coordinate sono state già inserite nel Tiger 12. Sarete i primi a sganciare l’attacco, alle 9:05. Ci vogliono trentasette minuti per raggiungere il deposito per i rifornimenti. Alle 9:43 la squadra DELTA bombarderà il deposito, che intanto si popolerà dei miliziani rimasti. Alle 9:52 la squadra ALFA e alle 10:03 la squadra CHARLIE preleveranno i superstiti. La squadra ALFA preleverà i feriti gravi, per un massimo di nove, e tornerà alla base. La squadra CHARLIE preleverà i soggetti rimasti. Non pensate di avere tempo e di fare le cose con calma.»
Tutti ed otto batterono i tacchi, all’unisono e si prepararono.
            Bastian e Karl erano la squadra CHARLIE. Il primo pilota, il secondo copilota.
Salirono su uno dei due EC 645. Si misero le cuffie e prepararono il decollo, con il microfono aperto. Non dissero niente. Si guardarono, un solo istante, mentre il sole si faceva sempre più alto e sempre meno rassicurante, rendendo il momento della missione imminente.
“Salvare vite e non ucciderne, siamo stati fortunati” si disse Bastian.
Attesero il segnale della torre di controllo.
«Torre di controllo Echo 02, rullate al punto di attesa pista 3 venti 120 gradi 10 nodi QNH 1013.»
Bastian e Karl accesero il motore e cominciarono a sentire i piedi vibrare, tremare. L’Eurocopter cominciò a muoversi, raggiungendo la pista tre. Cominciò a rullare aumentando via via la velocità.
«Torre di controllo Echo 02, punto attesa 3 pronto al decollo.»
Bastian strinse le labbra. Gli occhiali gli proteggevano gli occhi e grazie alle cuffie poteva sentire gli ordini dettati in inglese dalle forze NATO. «V1,» disse.
«Torre di controllo Echo 02, pista 3 autorizzati al decollo vento 120 gradi 10 nodi.»
Karl mandò giù un boccone vuoto e restò concentrato. Davanti a lui, la pista andava via via sostituita dal cielo.
«Trentacinque piedi raggiunti,» disse.
«Rilascio dei freni. V2 sincronizzata.»
Erano concentratissimi. Non dissero nessuna parola superflua.
«Traiettoria di decollo configurata,» mormorò Bastian.
Tirò un sospiro di sollievo. Il decollo era andato. Adesso la terra si allontanava sempre più, lasciandoli andare tra le nuvole. Bastian spense il microfono.
«Tutto ok?» sussurrò.
Karl annuì, senza dire niente. Era concentrato.
Bastian si riaccese il microfono ed attese.
Volarono sopra il territorio yemenita senza dire niente.
Seguirono le operazioni delle altre squadre tramite i comunicati via radio.
Alle 9:52 non avevano ancora notizie della squadra ALFA.
«Che cazzo stanno facendo?» sbottò Bastian un minuto più tardi.
Karl cercò il loro segnale sul radar ma non trovò nulla. «Sono appena spariti dal radar.»
«Cosa? … Torre di controllo Echo 02, qui squadra CHARLIE. Chiediamo permesso di intervenire, passo.»
Cos’avrebbero dovuto fare? Prendere il posto della squadra ALFA e salvare, per primi, i feriti gravi? La squadra ALFA portava con sé un medico, ma loro non avevano nessuno. Avevano nove posti liberi e diciassette soldati a terra. Mancavano cinque minuti esatto all’atterraggio e la Torre di controllo non rispondeva.
«Torre di controllo Echo 02, qui squadra CHARLIE. Chiediamo permesso di intervenire, passo,» ripeté Bastian.
Alle 10 in punto, Karl si voltò per guardarlo negli occhi. «Che facciamo?»
Bastian dovette decidere per entrambi. Si prese qualche secondo per riflettere. «Atterriamo. Preleviamo i feriti.» Poi alzò la voce: «Squadra CHARLIE prepara l’atterraggio, passo.»
«Sei sicuro, ‘Stian?» sussurrò Karl. «Dev’essere successo qualcosa alla squadra ALFA, forse dovremmo attendere ordini.»
«Hai il mio di ordine, Einser. Preparare l’atterraggio.»
Bastian era molto serio e Karl non poté fare che ubbidire. Preparò la procedura di atterraggio.
«Velocità ridotta.»
«Estrazione carrello.»
«Attivazione luci di atterraggio.»
Bastian tirò a sé la cloche a pochi metri da terra, Karl aprì gli spoiler e azionò i freni dei carrelli.
L’aereo si fermò sull’asfalto, sollevando la sabbia.
Aprirono lo sportello posteriore per lasciare entrare i soldati. Due soldati ne trascinarono un terzo reggendolo per le braccia, mentre quello zoppicava con entrambe le gambe sanguinanti. Il medico militare aiutò nel trasporto di un altro uomo incosciente.
«Signore, arriveranno altri rinforzi?» chiese un giovane caporale.
«Sì, soldato, arriverà a minuti un altro aereo. Portate sopra i nove uomini più gravi e…»
Le sue parole furono interrotte da un boato terribile.
Karl vide sollevarsi un terribile fumo da prua e scintille blu illuminare i comandi dell’aereo.
«Che cazzo…»
La cabina cominciò a riempirsi di fumo grigio quando uno forte scossone mosse l’aereo. Un secondo colpo. Bastian bestemmiò tra i denti e quando Karl si voltò vide il suo volto insanguinato. Un bullone era saltato via dal suo posto e un pezzo di metallo si era incrinato, sfregiando il suo volto all’altezza del sopracciglio destro, ma non sembrava essere una ferita grave. L’aereo però aveva iniziato ad accartocciarsi su se stesso e il punto in cui Bastian era seduto, sembrava sempre meno stabile.
«…’Stian, dobbiamo lasciare l’aereo,» disse Karl.
Bastian sembrava confuso e poco lucido. Perdeva sangue velocemente.
Lui strinse le labbra e diramò un allarme alla radio. Disse che erano stati colpiti e che stavano abbandonando il mezzo. Si alzò in piedi ed un terzo colpo fece esplodere i comandi.
Karl si affrettò e gli si avvicinò, gli tolse gli occhiali, le cuffie e lo liberò dalla cintura. Ordinò al giovane caporale di prima di aiutarlo e prima che quello potesse avvicinarsi, un quarto colpo si scagliò contro di loro, seguito da una raffica di mitragliatrice. La parete destra dell’Eurocopter precipitò brutalmente contro il sedile di Bastian. Karl non aveva mai visto niente del genere. Non aveva idea di come tirare fuori da lì il suo copilota, il suo fidanzato. Calciò il metallo dipinto di verde militare e un paio di soldati salirono subito sull’aereo per aiutarlo. In qualche modo, con un po’ di fortuna, Bastian venne liberato. Karl lo consegnò al medico militare e agli altri soldati. Si guardò le mani, erano sporche di sangue, non aveva idea da quale ferita fosse uscito, ma certamente non era sua.
«Portatelo giù,» ordinò. Recuperò l’estintore e spense il fuoco che minacciava di divampare sui comandi, prima di saltare giù dal veicolo.
Raggiunse la branda sulla quale giaceva inerme il sergente maggiore Kluge.
«Come sta?» chiese Karl al medico militare.
Il tenente Mahrren strinse le labbra e alzò gli occhi su di lui. La divisa era già macchiata di rosso. Riabbassò gli occhi e Karl li seguì.
Un voluminoso taglio orizzontale squarciava la schiena di Bastian fino a mostrare le ossa.
 
 
Tre giorni dopo
 
            Karl guardò il sottotenente Markus Pfeiffer supplicando.
«Per favore,» insistette. «Mi dica cos’ha. La supplico.»
L’ufficiale sospirò. Si tolse gli occhiali e si passò una mano sul volto stanco.
«Verrà trasferito a Berlino domani all’alba. Lo avremmo fatto prima, ma non era abbastanza stabile per sopportare il viaggio.»
«La situazione è così grave, signore?»
Karl incrociò le braccia al petto. Sul suo viso erano visibili delle occhiaie scure che gli cerchiavano gli occhi. Non aveva che un paio di lividi. Stava bene. Lui, stava bene, anche se non aveva dormito e aveva mangiato quel tanto che bastava a garantirgli la sopravvivenza.
Il sottotenente storse il grosso naso a patata. «Sì. Non mentirò. Sospetto trauma celebrare e trauma alla spina dorsale. A Berlino verrà operato subito dopo il suo arrivo.»
Karl distolse lo sguardo e si lasciò andare contro la parete dietro di sé, fissando il vuoto. Non riuscì a dire niente.
Markus Pfeiffer appoggiò una mano sulla sua spalla. «Vuole salutarlo? Prima della partenza.»
«Perché devo salutarlo?» chiese lui guardandolo. Aveva gli occhi lucidi. «Perché potrebbe essere l’ultima volta che lo vedo?»
L’ufficiale irrigidì la mascella. «È solo un consiglio. Solo questo.»
Poi si voltò e lo lasciò da solo.
Karl nascose il viso in una mano e scoppiò a piangere. Sedette per terra, cercando di riprendersi, ma non ci riuscì.

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Capitolo 31
*** Il cielo ci salverà ***


CAPITOLO XXXI
Il cielo ci salverà
 
 
 
 
Due mesi dopo
 
 
      Non credeva si sarebbe ridotto così.
S'infilò nei bagni della stazione di Amburgo e lasciò per terra il borsone cachi.
Osservò il proprio riflesso in uno di quegli specchi appesi alla parete: un po' sporchi e rovinati sui bordi. 
Ruotò il rubinetto dell'acqua e ne uscì un getto gelato, sorrise tra sé immaginando la reazione di Bastian a quella temperatura. Bagnò i polsi ed il volto e si asciugò con un po' di carta che poi gettò nel cestino accanto a lui. Sistemò la maglia grigia col simbolo blu e bianco dell'Aeronautica sui jeans, alzò la zip della felpa color petrolio e dopodiché, ripreso il borsone, uscì di lì. 
Aveva bisogno di mangiare qualcosa, perciò comprò un panino pronto al bar, controllò di avere il biglietto della corsa, ben custodito nel portafogli. Finì in un paio di morsi il panino e guardò l’orologio della stazione: le sedici e venti passate. Mezz’ora più tardi, salì sul terzo vagone e sedette sul sedile rossiccio. Era stanco. Chiuse gli occhi e si ritrovò a pensare alla strana piega che aveva preso quella giornata. Solo quello mattina era a circa 5 mila km di distanza. Ora, pronto a spostarsi ancora…
Alzò gli occhi per controllare che il suo modesto bagaglio a mano fosse ben posto sopra la sua testa e che non gli crollasse addosso, dopodiché si impegnò per mantenersi sveglio. Gli occhi si chiudevano soli. Prese il cellulare, aveva il 42% di batteria. Sperò che non si scaricasse prima di sera. Aveva bisogno di distrarsi. Prese le cuffiette bianche che gli aveva dato Bastian poco tempo prima e le mise nelle orecchie. Queste non cadevano via come accadeva con quelle che aveva prima, erano molto più comode. Diede un'occhiata alla playlist e gli venne da sorridere al pensiero che la maggior parte delle canzoni presenti, non le conosceva nemmeno. Tra di esse, c'era anche una registrazione vocale, che gli sembrò insolita. La selezionò e, confuso, rimase in ascolto. Una voce estremamente familiare esclamò: “Buongiorno!” e lui già si mise a ridere, solo nel vagone, nascondendo la bocca dietro la mano, distrattamente appoggiando il gomito sul tavolinetto minuscolo. Fissò fuori dal finestrino il paesaggio che iniziava a cambiare. Il treno si stava muovendo. La registrazione era lunga quasi tre minuti. Continuava: “Ahm, sono 'Stian... e mi sto annoiando. Che io sappia ti stai facendo la doccia, a meno che non ti stia masturbando a mia insaputa, e spero di no perché siamo in un motel, quindi quello che hai da fare lo puoi fare con me... Dio, quanto degrado c'è tra noi. Comunque, tanto per dirtelo, oggi è il sette settembre. Tra due giorni partiamo per lo Yemen e... credo che non sentirai questa registrazione prima del nostro ritorno. Quindi adesso, probabilmente sei in Caserma, nella tua stanza, da solo... e senti la mia voce... no, non ti faccio eccitare, tranquillo. Voglio solo dirti che mi piace tanto stare con te. E... niente, questo. …Se tu potessi vedere i miei occhi adesso... mi diresti 'anche io'.”
Capì che stava sorridendo. Poi lo sentì ridere. “Stai uscendo dalla doccia, se mi becchi col tuo telefono in mano mi uccidi, quindi... quindi nulla. Ciao.”
La registrazione terminava così.
Sorrise. Era in attesa di rivederlo, lo stomaco in subbuglio e il cuore che faceva strane capriole nel suo petto. Gli era mancato dannatamente tanto. Sentì che sarebbe andato tutto bene.
 
 
      Trovò l'ospedale impressionante.
Omogeneo, enorme, con finestre così piccole, che il sole non aveva abbastanza posto per entrare, pareva. E gli fece paura sentire così tanto silenzio.
Avrebbe dato qualunque cosa per rivedere Bastian in un altro posto, ma tirò dritto, e chiese di lui alla reception. Gli venne detto che l'orario di visita era ancora lontano, lui insistette, pregò la giovane infermiera e gli raccontò di essere appena rientrato da una missione, che poi era la verità, la guardò negli occhi, serio, e la convinse. Lei disse che poteva farlo entrare quindici minuti in anticipo, ma non di più, ed il sergente accettò di aspettarne trenta anziché quarantacinque nella sala d'attesa al pian terreno. Si abbandonò su una sedia ed appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Affondò il viso tra le mani e poi se ne passò una tra i capelli. La stanchezza gli si leggeva in volto. Pallido, con marcate occhiaie.
Notò con distrazione un soldato ed un'infermiera, un'altra, che flirtavano e pensò che fosse proprio il più vecchio dei cliché; poi un medico alzò la voce con un caporale e lui si zittì stringendo i denti; ed una donna venne portata d'urgenza in sala operatoria.
I minuti passavano come anni. Poi un'unica figura familiare si avvicinò a lui e lo fissò con perplessità. Lui ricambiò lo sguardo e dopo qualche secondo esclamò: «Ingrid.» Si alzò e le andò incontro.
Anche lei sembrava più magra rispetto all'ultima volta che l'aveva vista, più sciupata certamente, con i capelli ricci intrecciati sulla spalla, col viso dolce piccolo e chiaro; aveva una vestitino azzurro ed un cardigan verde pastello. La fede all'anulare della mano destra.
«Karl... quando sei arrivato?» chiese.
«Da circa venti minuti. Sto aspettando di poter salire.» 
La giovane donna sorrise leggermente in un modo che ricordava molto quello del fratello. «Gli hai detto che saresti venuto?»
«No. No, non sa nulla.»
«Sarà felice della tua sorpresa.»
In quel momento l'infermiera della reception si avvicinò a lui e gli fece un cenno. Così Karl riprese il suo borsone e, rimettendoselo in spalla, guardò Ingrid Kluge. «Vado.»
Lei annuì. Lo lasciò muovere dei passi poi, prima di allontanarsi, si voltò e pregò: «Non lo abbandonare, Karl.»
«Mh? Certo che no.»
«Qualsiasi cosa ti dica oggi.»
«Io... certo.»
Fece un cenno col capo e salì le scale. Si chiese cosa volesse dire ed intanto la distanza diveniva più corta, così come i suoi respiri, la tensione saliva ed il suo cuore arrivava in gola.
Stanza 108.
Era al secondo piano, sul corridoio di destra. In fondo.
Superò varie porte ed infine tremò la sua mano quando si poggiò sulla maniglia di quella giusta, quella che gli interessava. L'abbassò e schiuse la porta. Fece capolino e lo vide dormire. Il suo petto si alzava ed abbassava. Sembrava stare bene. Si infilò dentro e richiuse delicatamente la porta. Abbandonò il suo bagaglio in un angolo e silenziosamente si avvicinò ad una sedia in plastica lasciata accanto al letto. Non sapeva se fosse una buona idea svegliarlo. Lo avrebbe voluto, onestamente, e avrebbe voluto baciarlo e tenergli la mano. Ma lo vedeva disteso e col braccio fasciato, sereno, e gli parve di disturbare – per un momento pensò persino di tornare il giorno seguente. Erano quasi lo otto di sera. Era tardi. Si accomodò accanto a lui ed incrociò le braccia, meditando sul da farsi.
Ma non passarono che cinque minuti, che Bas strinse forte gli occhi. «Nh...»
Poi li aprì e li ristrinse confuso. «Cosa...?»
«'Stian» lo chiamò lui, piano. «Hei.»
 Si sporse un poco verso di lui, senza strisciare la sedia per terra. 
L'altro lo fissò un momento prima di capire. «Che cazzo ci fai tu qui...?» disse brusco.
Karl rimase interdetto. Aprì la bocca senza sapere cosa dire, poi riuscì a dire: «Che cazzo vuol dire che ci faccio qui? Sono venuto a vedere come stavi, no?» come se fosse ovvio.
Bastian distolse frettolosamente gli occhi già lucidi. «Come, insomma... quando sei tornato?»
«Oggi. Stamattina siamo atterrati in suolo tedesco. Verso le dieci. Sono passato un attimo in caserma, e poi ho preso il treno. Volevo vederti... Perché stai piangendo?»
«Perché sei un coglione» mugugnò asciugandosi le lacrime con la mano sinistra, senza guardarlo. «Ma cazzo, baciami almeno!»
Karl roteò gli occhi, però sorridendo, si chinò su di lui e gli baciò il labbro inferiore, con dolcezza. Appoggiò la fronte alla sua e chiuse gli occhi per qualche istante. Rimase così per un po', fino a quando sedette sul bordo del suo letto e puntò gli occhi sui suoi. Senza sfiorarlo. «Come ti senti?» domandò con un soffio di voce. 
Il sergente maggiore non riuscì a reggere quello sguardo sincero. Abbassò gli occhi. «Karl, devo dirti una cosa.»
«Cosa?»
«Prima promettimene una tu,» soggiunse deciso e lo fissò adesso intensamente. «Se non te la senti, quella è la porta. Ma vattene subito.»
L'altro corrugò la fronte: «Che diavolo stai dicendo?»
«Che non è vero che sto bene. Non è vero che l'operazione è andata bene. Non è vero un cazzo di niente.»
«'Stian, per favore, dimmi...»
«Non sento più le gambe.»
«…Cosa?»
«Mi dispiace per averti mentito, per telefono. Tu eri in missione, non volevo distrarti. Il braccio ha solo una piccola frattura, si rimetterà in fretta. Ma le gambe… Non volevo farti preoccupare, ho detto una stronzata, io...»
«Hai fatto più di una stronzata, non dicendomelo! Perché mi hai mentito?!-
Il sergente Eisner si alzò e si passò una mano sul viso. Si avvicinò alla finestra e guardò il cielo. Si sentì di colpo più calmo. La visione delle nuvole che si muovevano lente lo rassicuravano sempre, come quando da ragazzina, disteso tra i campi di grano, guardava lassù. Era fin troppo stanco per arrabbiarsi. E, inoltre, che senso avrebbe avuto urlare adesso? «Perché non mi hai detto niente?» continuò. 
«Perché eri in Yemen, Karl... dovevi rimanere concentrato.»
«Avrei voluto saperlo.»
«Lo so. Scusami.»
Appoggiò le mani al davanzale e guardò giù. Non erano poi così in alto; vide le persone rimpicciolite, ma perfettamente, poiché aveva un'ottima vista. 
Rimase in silenzio per un po'. Nessuno dei due parlò, finché lui stesso non si voltò e gli andò vicino. «Hai davvero pensato che avrei potuto lasciarti?»
«Lo penso ancora. Ma non te l'ho voluto dire davvero per la missione. Non dovevo distrarti per... nessuna ragione al mondo.»
«Che ti hanno detto i medici?»
«Mi vogliono operare di nuovo.»
Annuì e sedette sul bordo del letto, ma stavolta dandogli le spalle, le mani in grembo. «Quante possibilità ci sono che...?»
«Che non cammini più? Tante... Troppe.» Un altro breve silenzio. Quando Bastian tornò a parlare, la sua voce era rotta e gli occhi bagnati. «-Ho paura, Karl. Non voglio rinunciare alla mia vita. Ho solo 26 anni. Non voglio smettere di volare adesso. Sono un pilota, Cristo...»
Karl provò una dolorosa fitta al cuore. Lo guardo. Gli asciugò le lacrime e gli prese il volto tra le mani. «Anche se ci fosse una possibilità su un milione... tu sei quella possibilità. Tu sei forte, 'Stian. So che puoi farcela.»
«E se non ce la facessi? Se andasse tutto a puttane?»
«Rimarrei con te. Ed affronteremo tutto insieme.»
«Karl, io...»
«Ti amo» sussurrò. Gli baciò le labbra. «Perciò non preoccuparti. Non ti lascio solo. Rimango con te. Qualsiasi cosa accada.»
Fu solo in quel momento che Bastian capì. 
Si senti improvvisamente meno solo e sollevato. Ed infine riuscì a piangere al suo petto per un po', sfogando le lacrime che tratteneva da giorni. Lo sentì vicino, come mai era successo. Intravide una luce di speranza. Vi si aggrappò. Non aveva altro.
 
 

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Capitolo 32
*** La sedia ***


Capitolo XXXIII
La sedia
 



       Sospirò.
Non ce la faceva a reggere anche i suoi capricci.
“Ci mancava solo questa,” pensò quando il distributore fece bloccare la barretta energetica a metà strada e trattenne comunque le sue monete.
Rinunciò alla barretta e prese l'ennesimo caffè della giornata. Aveva perso il conto. Forse era il quarto o forse il quinto. Non se lo chiese. Bevve tutto d'un sorso il caffè amaro e gettò il bicchierino nel cestino dei rifiuti dell'ospedale.
Tornò in camera di Bastian, che tirava su col naso, con le braccia al petto e il broncio.
Strinse le labbra guardandolo e si avvicinò a lui.
«Facciamo pace?» gli chiese.
Lui annuì distrattamente. «Non ce l'ho con te.»
«Lo so,» rispose paziente. «Lo so benissimo.»
«Mi dispiace.»
Karl sapeva quanto fosse difficile per lui chiedere scusa. Bastian era una delle persone più orgogliose che conoscesse. Appoggiò la mano sulla sua e guardò il suo profilo, col sorriso stranamente all'ingiù.
Non disse niente.
Nella sua mente rimbombavano confuse le voci dei medici, delle infermiere, tutte quelle notizie che non aveva capito.
Il midollo spinale di Bastian era stato lesionato all'altezza della vertebre T9 e T10, comportando la perdita dell'uso delle gambe e della sensibilità dall'ombelico in giù. Le lesioni non erano così gravi, a quanto pareva, da compromettere il controllo sfinterico e forse, con un chirurgo particolarmente competente e dopo una serie infinita di operazioni, avrebbe potuto riprendere quantomeno a sentire, a percepire. La strada era lunga e tutta in salita, con statisticamente poche possibilità di successo.
Questa era la realtà dei fatti.
Probabilmente, con le statistiche a suo sfavore, Bastian non avrebbe mai ripreso a camminare e da quando lo aveva saputo, non aveva voluto più neanche provarci.
Forse avrebbe ripreso a camminare, diceva, ma non avrebbe mai più volato.
L'esercito gli aveva voltato le spalle e non aveva neanche pagato per lui.
A tempo debito, aveva saputo cosa fosse successo quel giorno in Yemen.
L'Eurocopter con i suoi camerati non era atterrato prima di loro perché aveva localizzato la contraerea nemica e aveva battuto in ritirata. Ecco perché erano atterrati per primi, con i feriti ancora da caricare a bordo. Dai piani alti gli avevano fatto sapere che non erano stati in grado di contattarli perché la radio risultava spenta e questo perché Bastian l'aveva spenta di propria iniziativa, solo per pochi istanti, per parlare con il suo copilota. La colpa di tutto era stata attribuita al sergente maggiore Bastian Kluge che, secondo il maggiore Baumann, aveva permesso che un veivolo dell'esercito fosse distrutto.
«Dovresti ringraziarci se non ti congediamo con disonore e ti permettiamo di farti curare nei nostri ospedali,» aveva detto.
Karl aveva appena scoperto tutto questo.
Le cure di Bastian sarebbero state costose. Forse il servizio sanitario avrebbe pagato per loro, ma come sarebbe stato il futuro, d'ora in poi?
Una graziosa infermiera di nome Heidi fece sapere loro che Bastian sarebbe stato congedato entro tre giorni e rispedito a casa.
Casa.
Bastian non aveva una casa.
Quando glielo avevano chiesto, aveva dato l'indirizzo di casa della sorella, sotto suggerimento di Ingrid stessa.
Lui aveva sempre vissuto in caserma, da quando aveva finito la scuola.
Si era sentito perso e confuso.
Si sentiva provato, disilluso, frustrato e tanto solo.
I suoi amici erano venuti a trovarlo in un fine settimana e lo chiamavano ogni giorno, ma non aveva più voglia di chiacchierare. Aveva smesso di rispondere alle chiamate e ai messaggi. Rimaneva tutto il giorno a letto, non potendo alzarsi, a guardare stupidi video tramite il cellulare. Aveva guardato un paio di serie tv e ascoltato molta musica. Aveva pianto tanto.
Karl adesso gli carezzava i capelli senza dire niente.
«Di pomeriggio ti porteranno la sedia a rotelle. Dato che sei stato congedato, sei un estraneo qui e devi andartene prima possibile. Lo so che non è giusto, ma è quello che dobbiamo fare. Torniamo ad Amburgo, 'Stian.»
Lui annuì distrattamente.
Cosa avrebbe avuto Amburgo in servo per loro? Chiuse gli occhi lucidi.
Karl si chinò per baciargli la tempia.
«Mi fai un favore?»
«Certo...» sussurrò.
«Quando mi portano la sedia, puoi lasciarmi solo?»
Spalancò appena gli occhi. «Ma... perché? »
«Perché mi vergogno. Non voglio che tu mi veda così.»
Sospirò e si passò una mano sul viso. «Permettimi di stare qui con te, invece. Non ti voglio lasciare solo.» Fece una pausa. «'Stian, ti prego, non mi allontanare. È un momento difficile per entrambi, per te soprattutto. Dammi l'opportunità di sostenerti. Non voglio che tu viva tutto questo da solo.»
Bastian annuì, senza guardarlo, e lui intrecciò le dita alle sue.
«Grazie...» sussurrò Karl.
L'infermiera Heidi bussò alla porta un'ora e mezza più tardi ed entrò spingendo una sedia a rotelle. Sorrideva, timidamente, quasi a scusarsi del disturbo.
Karl era ancora lì e così anche Ingrid.
Bastian guardò la sedia con occhi tristi e poi abbassò lo sguardo.
Heidi, con gentilezza, salutò i presenti. «Adesso vi faccio vedere come si usa. Queste due levette qui dietro servono a bloccare la sedia, in modo che non scivoli in avanti o in indietro quando deve stare ferma. Questi due pedali, dove si poggiano i piedi, possono essere piegati di lato in questo modo oppure rimossi, basta premere leggermente qui e sollevare. Il processo inverso per rimetterli. La pressione delle ruote non dev'essere mai inferiore a 5 BAR altrimenti sono troppo sgonfie e non superate mai i 7,5 altrimenti possono esplodere. È... tutto.»
Karl seguì ogni parola, con le braccia incrociate al petto, e alla fine annuì. Poi guardò Bastian. Appoggiò la mano alla sua spalla. «Te la senti di provarla?»
Lui non disse niente, aveva lo sguardo perso nel vuoto.
«'Stian, ascoltami,» mormorò sedendosi sul bordo del suo letto. Appoggiò la mano sotto al suo mento per farglielo alzare. «Non puoi camminare e lo abbiamo capito. Ma almeno, con quella, puoi spostarti da solo. Non devi stare per forza a letto tutto il giorno. Facciamo una prova. Dai.»
Si sporse per dargli un bacio, poi gli circondò la vita con un braccio. «Ti aiuto ad alzarti.»
Heidi avvicinò la sedia e sorrise a Bas, scostando delicatamente il lenzuolo. Aiutò Karl a farlo alzare e poi a farlo sedere.
Era scomodo e stava scivolando in avanti, ma quando Heidi disse a Karl come tirarlo su, lui insistette volendolo fare da solo. «Ce la faccio, disse ostinato.» E ce la fece. Si tirò un po' più su e si mise più comodo. Karl gli sistemò i piedi sui pedali prima che lui potesse protestare.
«Facciamo un giro qui in corridoio?»Propose Heidi sorridendo.
Bastian avrebbe voluto dire di no. E non disse nemmeno di sì. Non disse niente.
Si mosse un po' avanti e indietro sul posto e poi fece un giro per la stanza. Non l'avrebbe mai ammesso adesso, ma Karl aveva ragione. Almeno, poteva muoversi liberamente ed uscire da quella stanza. Fare una passeggiata da solo. Di colpo gli sembrò che quella sedia portasse con sé un mucchio di nuove possibilità e si sentì rincuorato.
Il pensiero di volare era tuttavia costante nella sua mente e, distratto da ciò, urtò il comodino, facendo cadere la bottiglietta d'acqua di plastica, poi si fece più avanti a urtò il letto con il ginocchio.
«Ci vuole un po' di pratica,» mormorò Heidi con le mani in grembo.
Karl raccolse la bottiglietta e la tenne in mano. «Tu già sei goffo di tuo, 'Stian, vediamo quanti guai puoi ancora combinare così. Secondo me tantissimi.»
Ingrid sorrise per quella battuta, che aveva alleggerito la tensione.
Bastian non la prese a male, anzi accennò un sorriso a sua volta. Apprezzava molto il suo gesto e tutto quello che stava facendo.
«Grazie,» disse all'infermiera, che si congedò poco dopo.
Karl e Ingrid poco dopo dovettero andare via perché l'orario di visite era terminato.
Bastian rimase solo e quella notte dormì dando le spalle alla sedia, perché gli faceva ancora un po' paura.
 

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Capitolo 33
*** Indecisione e disequilibrio ***


Capitolo XXXIV
Indecisione e disequilibrio

 

 

 

      Sperò che il tempo si fosse fermato anche aldilà delle pareti di quella stanza d'ospedale.
Socchiuse gli occhi e sospirò. Sperò che non ci avrebbe messo troppo tempo. Sperò che sarebbe riuscito ad adattarsi in fretta, ci avrebbe provato, sì, ci sarebbe anche riuscito. Lui doveva riuscirci.
Glielo doveva e se lo doveva.
Sperò solo che Karl non arrivasse prima di un paio d'ore. Lo sperò vivamente.

 

        Erano passate da poco le nove ed il sergente si sentì in un terribile ritardo. Con un forte senso di colpa, accelerò i passi sulle scale, volò da un gradino all'altro e col fiatone giunse alla porta. Bussò vivace. «Posso?» ma entrò prima di ottenere risposta.
Spalancò gli occhi non appena vide Bastian seduto su una sedia a rotelle con un gran sorriso soddisfatto. La sorella era lì accanto, come al solito.
«Tu... tu non dovresti stare a riposo? ...Ma che cavolo te lo chiedo a fare. Tanto era ovvio che non lo saresti stato» sospirò e richiuse la porta. Si avvicinò ed incrociò le braccia al petto. «Come ti trovi?»
«Pensavo peggio» ammise lui. Si spostò un altro po' nella stanza e ci prese gusto; così accelerò un po' e sbatté il ginocchio contro il comodino. Il sorriso si spense. «Non sento niente.»
Ingrid trattenne il respiro. Karl, invece, si mise vicino a lui e gli toccò la spalla. «Devi stare attento a non sbattere proprio per questo. Se ti facessi male, non lo capiresti. Non lo capiresti neanche se ti tagliassi. Perciò devi stare attento più di prima.» Gli parlò con tono serio. Poi cercò di sdrammatizzare: «So che ti riesce difficile, visto che sei molto goffo, ma...»
Bas riprese il sorriso e lo guardò storto. «Hei!» esclamò. Anche la sorella sorrise. «Vieni qui,» sussurrò. Incrociò il favore delle sue labbra. Sentì la sua mano tra i propri capelli e ridacchiò. Lo strinse dalla maglia e prolungò il bacio.
Ingrid si rilassò appena. «Bene» mormorò, «credo proprio che andrò a prendermi un caffè.»
«Vai, vai» fece il fratello, ed il sergente nascose l'imbarazzo dietro una risatina.
Rimasero soli e continuarono a baciarsi per almeno un paio di minuti. «Mi sei mancato, Eisner.»
«Anche tu, Kluge.»
«Anche se ci siamo visti tutti i giorni?»
«Non avevo ancora visto il Bastian che conosco.»
«Che intendi?» chiese spostandosi un po', guardandolo negli occhi.
«Che stai finalmente reagendo. Solo questo.»
«Eisner, ho avuto bisogno di elaborare le cose.» Karl sospirò. «Non prenderla sul personale, è che vederti depresso non mi piace. Capisci?»
«Sì.»
«Non mettere il broncio, Cristo.»
«Non bestemmiare!»
Lo guardò alzando un sopracciglio. E Bastian lo imitò, poi ridendo. «Okay, non sono credibile» mormorò.
«Per nulla.» Lo tirò a sé appoggiandosi alla sedia a rotelle, e se lo baciò.
«Hei! Non iniziare a prenderti queste abitudini» lo rimproverò lui scherzando e ricambiò il bacio. «Mi hanno chiamato Achim e Bart stamattina.»
«Davvero? Bene. E Robert?»
«Non lo sento da due giorni. E non sarò di certo io a chiamarlo per sapere come sta.»
«No,» infatti il sergente scosse la testa. È lui che deve cercare te.»
«Non voglio fare la vittima, ma... insomma, io lo avrei chiamato ogni giorno, se fosse successo a lui!»
«Lo so.» Avvicinò le labbra al suo collo ed appoggiò i denti.
Bastian rise sommessamente e spostò di lato il collo per facilitarlo. «Sei un disgraziato» sussurrò.
«A-ha...» Lo marchiò. Poi chiese: «Quando esci?»
«Penso dopodomani.»
«È una vita che sei qui.»
«Non dirlo a me... voglio tornare ad Amburgo. Anche se ho un po' paura.»
«Di cosa?»
«Dove andrò?... come farò a vivere così? Tu devi tornare in Caserma... e io che farò per il resto della mia vita? Mi annoierò a morte, ecco cosa.»
«Stai tranquillo. Ci sono io con te» gli carezzò il viso. «Mi stai facendo diventare troppo dolce, porca puttana...sei una merda, ti odio.»
Il sergente maggiore rise per l'ennesima volta.

 

 

      Bastian aprì gli occhi.
Non riusciva ancora a credere che finalmente sarebbe uscito da quello squallido ed asettico ospedale. La sera prima non riusciva a respirare, in quella stanzetta piccola e fredda; adesso aveva paura che i suoi polmoni non si abituassero in fretta a tutta quell'aria buona. Si voltò appena e vide la sedia a rotelle. Accennò un sorriso amaro. “Eh no” pensò tra sé, “io non ci rimango tutta la vita.”
Si mise suo malgrado seduto sul letto. Era in anticipo. Ancora nessuno era venuto a vederlo, ma non gli importava. Allungò la mano e prese il cellulare, aveva due messaggi, uno era dell'operatore telefonico, l'altro era di Joachim. Gli faceva coraggio. Gli strappò un sorriso e gli rispose, dicendogli e che si sarebbero visti presto e ne era contento, che era una bugia, perché aveva vergogna di farsi vedere così, ma non voleva dimostrarlo. Poi aprì una delle tante applicazioni sul cellulare e diede un'occhiata alle tante chat che aveva aperte. Barthold gli aveva mandato un messaggio vocale, il sottofondo era pura confusione, ma le sue parole allargarono ancora di più il suo sorriso. Di Robert, invece, ancora, non c'era traccia. “Peggio per lui” si disse, ed avvicinò la sedia montandoci sopra. Prese i vestiti e, non senza difficoltà, li indossò, si sistemò per bene. Quando il primario del reparto entrò per visitarlo si stupì di vederlo in piena attività.
«Sergente maggiore Kluge...» accennò un sorriso. «Mi sembra entusiasta di uscire.»
«Vuole scherzare? Non ce la faccio più a stare chiuso qua dentro!» mormorò il ragazzo ridacchiando.
«Immagino che non ci sia bisogno di chiederle come si sente.»
«Splendidamente, signore.»
«Ne sono felice,» assentì col capo. Si avvicinò verso di lui. «Si riguardi, sergente maggiore,» soggiunse con un tono leggermente più serio, quasi paterno; e continuò: «So che vuole guarire.» Si era preso a cuore quel soldato. Più di altri. Bastian era così. Era facile volergli bene. «Ma ciascuna cosa ha un suo proprio tempo.»
Lui annuì, smorzando appena il sorriso. «Lo so, signore. Grazie.» Gli porse la mano.
Il medico gli lanciò un'altra occhiata e andò via.
“Sarà dura” si ritrovò a pensare il giovane con un sorriso amaro, ma non ebbe tempo di autocommiserarsi oltre, che la porta si riaprì ed il profilo familiarissimo di un altro soldato gli fece scappare una mezza risata di felicità.
«Non sono ancora entrato e stai già ridendo.»
«No, è che... finalmente esco. Sono felice.» Allungò la mano verso di lui e, stringendo la maglietta verde militare se lo avvicinò; lo baciò dolcemente.
«Sei nervoso?» sussurrò l'altro dopo aver ricambiato il gesto.
«Perché dovrei?»
«'Stian.»
«Ah, cavolo. Smettila di capirmi con un'occhiata. Ti odio.»
Karl sorrise appena. Aprì l'armadio e, stupito, si voltò verso di lui. «...Scusa?»
«La valigia è pronta, già.»
«Ti avevo detto che ci avrei pensato io.»
«L'ho sempre fatto da solo, non vedo perché avresti dovuto aiutarmi tu stavolta.» Gli lanciò un'occhiata di sfida, incredibilmente soddisfatto.
Il sergente sospirò appena e gli si avvicinò, le braccia strette al petto. «Sei impossibile.»
«Per questo mi ami, no?»
«Per questo ti amo e sempre per questo vorrei soffocarti.»

 

 

 

     Amburgo era più bella di come se la ricordasse e questo lo rendeva triste.
Era appena arrivato a casa di Ingrid e quando suo nipote gli corse incontro, non riuscì a sorridergli. Frettolosamente gli carezzò il capo rossastro. «Ciao, tesoro,» mormorò distratto.
Nel tragitto tra la porta d'ingresso e la camera che Ingrid aveva preparato per lui, sulla sedia a rotelle, sbatté almeno tre volte tra porte, angoli e mobili della casa. Non disse niente. Non sentiva niente. Se n'era accorto, ma non aveva provato niente. Karl era con lui ed era stato zitto a sua volta. Aveva aiutato Ingrid a sistemare la stanza di Bas con le sue cose. Avevano evitato di esporre tutto ciò che riguardasse il volo e messe da parti i manuali, i libri, i poster, la divisa, i modellini di aerei, era rimasto davvero poco.
«Sono un po' stanco, vi dispiace se mi riposo? Il viaggio è stato infinito.»
Non li guardò negli occhi.
Doveva andare in bagno, ma non voleva chiedere aiuto a nessuno di loro. Aspettò che Karl se ne andasse e che Ingrid si mettesse a letto, per provare ad andarci da solo. Uscì dalla camera e affrontò il corridoio, entrò in bagno e chiuse la porta. Sospirò. Gli facevano male le braccia. Fece forza sulla sedia e sedette goffamente sulla tazza, reggendosi al muro e al lavandino.
Urinò, seduto, e quando tornò in camera, si mise a letto e scoppiò a piangere.

 

       Le cose non migliorarono almeno per le prime due settimane.
Di giorno, rimaneva da solo. Erano tutti a lavoro e suo nipote andava a scuola.
Per i primi tre giorni si alzò tardi, poi smise di volersi alzare. Era troppo faticoso fare la doccia da solo, lavarsi, vestirsi, usare il bagno. Ingrid gli lasciava sempre qualcosa di pronto ma lui non mangiava quasi mai. Era diventato apatico. Guardava tutto il giorno la televisione e mangiava patatine imbustate. Ogni volta che gli proponevano di fare una passeggiata, diceva di no.Quando gli amici volevano venire a trovarlo, diceva di no. Il giorno dell'appuntamento dal medico, diceva di non avere voglia. Ingrid era esasperata.
«Posso almeno accendere la luce?» chiese Karl, quando andò a trovarlo, e lo vide scuotere la testa.
Non sapeva più che fare. Non sapeva più come gestire questa situazione.
Trattenne un sospiro e si appoggiò alla piccola scrivania, senza sedia. Lo guardò. Era disteso su un fianco, sotto le coperte. Erano le 20:10 di venerdì sera. Si passò una mano tra i capelli e finì per appoggiare entrambe le mani sul bordo della scrivania.
«Cosa vogliamo fare, mh?»
«Non lo so, Karl, lasciami in pace.»
Karl esitò un momento. Poi annuì. Si allontanò dalla scrivania di tre passi e afferrò la giacca. «Va bene.»
Bastian lo guardò con la coda dell'occhio. «Te ne vai?»
«Sì.»
«Cosa?.. E dove stai andando?»
«Raggiungo gli altri al solito pub, rispose Karl indossando la giacca. «Mi sono rotto le palle di passare ogni fine settimana in una stanzetta al buio a vederti autocommiserarti. Quando avrai voglia di riprenderti la tua dignità, fammi un fischio.»
Disse così ed uscì.
Bastian, incredulo, non seppe cosa dire.
Non disse niente e rimane da solo per tutta la sera. Per una buona metà del tempo, si sentì arrabbiato. Lo aveva lasciato da solo, lo aveva abbandonato! Sapeva che sarebbe successo, che si sarebbe presto stufato. Poi subentrò il senso di colpa e cominciò a giustificare l'atteggiamento del suo fidanzato. Gli aveva reso le cose impossibili, erano tre mesi che non uscivano anceh solo per una birra e non aveva fatto altro che chiudergli il telefono in faccia, rispondere male o non rispondere affatto. Poi, dopo lunghe riflessioni, intorno alle dieci, dopo qualche lacrima, Bastian iniziò a chiedersi con chi fosse Karl. Si chiese se lo stesse tradendo o se lo avesse già tradito in quei mesi difficili, dove non si erano sfiorati, a stento si erano scambiati un bacio.
“Mi tradirà stasera o entro la fine del mese,” si disse.
Prese il cellulare e controllò i profili social dei suoi amici. Karl compariva in alcune foto. Era davvero con loro e questo lo faceva stare meglio. Bart, Achim e Rob lo avrebbero tenuto a bada. Il cellulare segnava le 22:01. Decise di mandargli un messaggio prima di pensarci troppo. Era sempre stato impulsivo.

 

 

“Sei ancora fuori?”

 

Karl gli rispose subito dopo.

 

“Sì. Sono con i ragazzi.”

“Domani o domenica, quando puoi, vieni da me?”

“Vengo immediatamente, ad una condizione però.”

“Quale?”

“Non ignorarmi.”

“Accordato.”

 

Karl arrivò a casa di Ingrid alle 22:47. Tra meno di un'ora e mezza sarebbe dovuto tornare in caserma. Quando entrò in stanza, non si tolse la giacca.
«Ciao,» disse.
«Ciao.»
Bas era seduto sul letto, con la luce spenta.
Karl accese la luce e lui strizzò gli occhi. «Volevi parlarmi?»
«Non volevo rimanere da solo,» confessò abbassando gli occhi.
«D'accordo.» Lui si tolse la giacca e si avvicinò. «Domenica pomeriggio sono libero. Posso venire, se vuoi.» Il suo tono era sostenuto.
«Mi farebbe piacere,» mormorò Bas.
«Ad una condizione.»
«Ti diverte questa cosa delle condizioni, eh?»
«Ti fai trovare pronto ed usciamo.»
Bas trattenne il respiro. «No... no, non posso.»
«Allora rimani da solo. Io ho voglia di uscire, perciò se vuoi, vieni con me. Ma prima ti fai la barba e anche una doccia. E la smetti di stare disteso in quel cazzo di letto. Pensaci, non devi darmi la
risposta subito.»
«Perché mi tratti così?»
«Vorresti che ti trattassi con pietà? Ti stai autocommiserando abbastanza da solo.» Aprì la finestra per far cambiare l'aria alla stanza. «Potremmo cenare fuori. Kebap e birra, come facevamo sempre.»
«Mi tratti male... che cosa ti ho fatto?»
«Ti tratto male solo perché voglio che tu abbia una vita normale?»
«Io non ho più una vita, Karl... è finito tutto, capisci?»
«Allora il tuo piano è rimanere per i prossimi quarant'anni chiuso in casa di tua sorella? Io non rimarrò con te qui, che sia chiaro. Pensaci. Pensa a quello che vuoi e se mi vuoi ancora nella tua vita.  Ora devo tornare in caserma. Ciao.»
Girò i tacchi e se ne andò. Salutò Ingrid con un cenno e uscì di casa.

 

         Bastian si era convinto. Non solo aveva accettato di uscire, ma aveva anche coinvolto i suoi amici. Non poterono andare al solito bar, perché questo era incredibilmente lontano, tuttavia trovarono un degno sostituto. Era un po' stanco e Karl lesse nel suo viso le poche ore di sonno, l'eccitazione repressa, la paura, la noia di quegli ultimi giorni. Aveva promesso ad Ingrid che lo avrebbe portato a casa sua per l'ora di cena e non avrebbe mancato all'impegno. Lei era un po' preoccupata, ma ormai si fidava di lui, anche se con riserva, dopotutto sapeva del tradimento.
Erano circa le dodici e mezzo del pomeriggio ed il sole non era affatto splendente nel cielo plumbeo d'Amburgo. Dopotutto si avvicinava dicembre. Natale, le decorazioni, le mille luci colorate, i fiocchi rossi sulle porte... loro due non sentivano neanche lontanamente la magia delle feste, quell'anno più che mai.
Sedettero vicino ad un tavolo e subito ordinarono delle belle bionde.
«Sai cosa, Bas» mormorò Bart, dopo essersi bagnato le labbra dal proprio bicchiere. «Almeno non dobbiamo andare in giro a raccattare un'altra sedia quando siamo tutti seduti in un tavolo da quattro.»
«Vero,» rispose lui «ma sai cosa, Bart? Non credo che saremo più seduti in cinque in un tavolo da quattro.»
«E perché no?»
«Tu vedi Robert?»
«No, è in caserma.»
«Anche voi dovreste esserlo.»
«Be', noi abbiamo preso un permesso per vedere te.»
Intervenne Achim. «Lui non poteva, l'ha preso l'altro giorno, non glielo avrebbero dato di nuovo.»
«Liberissimo,» rispose il sergente maggiore. «Però una chiamata poteva anche farmela.»
Scese un silenzio di stupore; Joachim e Barthold si guardarono spalancando gli occhi. Karl invece rimase in silenzio, perché sapeva già tutto ed aveva già ascoltato il suo sfogo.
Il suo fidanzato continuò: «Sono stato in ospedale quasi tre mesi. Mi ha mandato tre messaggi e mi ha chiamato una volta, ma in quel momento non me la sentivo di rispondere e non l'ho fatto; e
non ha riprovato più, nonostante gli avessi scritto espressamente il motivo per il quale non avevo risposto. Non so se si sia offeso o cosa, ma dato che si proclama tanto mio amico, avrebbe potuto quantomeno dirmelo. E invece se n'è altamente fottuto, per cui...» Prese il bicchiere e si bagnò le labbra. «Questa birra è fottutamente buona, porca puttana. Comunque sia, se fosse successo a lui, io lo avrei cercato, non dico ogni giorno, ma quasi. Mi sarebbe importato di lui. Invece a lui non importa di me.»
«Per me sbagli, 'Stian, te l'ho già detto,» rispsose Karl, che era stato in silenzio tutto il tempo. Aveva il volto appoggiato ad una mano, il gomito sul bracciolo della sedia in legno scuro, leggermente annoiato.
«Karl, lo sai benissimo che rapporto c'è tra noi. Aveva il dovere di chiamarmi.»
«Non puoi sapere perché non lo ha fatto» ribatté lui.
«Due minuti per mandare un messaggio penso che avrebbe potuto spenderli.»
«Ne devi parlare con lui.»
«Ah, quello indubbiamente!» Arricciò appena il naso. «Però sono felice di avervi visto, finalmente...» Sorrise guardando i suoi amici. «Dovete aggiornarmi su un po' di cose. Forza!»
Achim e Bart cominciarono a raccontargli le novità della caserma, tutti i dettagli delle loro storie d'amore e Bastian ascoltava assolutamente coinvolto.
Karl lo vide rilassato per la prima volta da mesi e tirò un sospiro di sollievo.

 

 

 

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Capitolo 34
*** (Cattive) Sorprese ***


 

Capitolo XXXIV
(Cattive) Sorprese

 

 

 

 

         Rimise lo spazzolino dentro il bicchiere. Guardò il proprio riflesso sullo specchio e rise soddisfatto tra sé. Si mostrò i denti, la lingua. Gli occhi. Verdi. Ancora belli. Si passò una mano tra i capelli tagliati da poco e sospirò estremamente felice. “Forza!”

Scese di casa e si mise in strada. Aveva imparato a controllare l'asfalto con la sua sedia. Ormai non aveva più paura di cadere, ruzzolare, inciampare, perderne il controllo. Aveva il cellulare in tasca, il capello sulla testa e si sentiva sicuro, fermo al semaforo. Mordicchiò distrattamente il labbro superiore e punterellò le dita sul bracciolo. Allo scattare del verde, attraversò sulle strisce pedonali e arrivò all'altra sponda. Ripeté l'operazione un paio di volte.
Sembrava stesse andando tutto bene. Sì: stavolta ce l'avrebbe fatta.
Erano giorni che non si sentivano, se non telefonicamente, per qualche momento. L'aveva fatta grossa – ma era pronto a scusarsi. La sua lingua si muoveva automaticamente a ripetere una canzone che gli era entrata in testa. Diceva: “Non ti lascerò cadere, non ti lascerò andare. La vita è così bella. Comincio a capire. La vita è così bella.” Doveva solo dare ascolto a quella canzone e tutto sarebbe andato bene. Arrivò alla solita fermata del bus. Quella che conosceva da anni, grigia, col tettuccio in vetro sporco, i manifesti attaccati sullo schienale. Quelli di oggi parlavano di uno spettacolo teatrale che avrebbero dato il prossimo venerdì, di un concerto di musica classica, di un centro assistenza per gli alcolizzati cronici. Bastian ne sfiorò un risvolto, e tirò dritto. Gli mancavano cinque minuti. Poteva andare da lui, o rimane lì. Era certo che sarebbe passato da quel marciapiede. Se fosse andato a trovarlo, certo. Ma erano giorni che non veniva e lui volle essere sicuro. Gli scrisse un messaggio.

“Vieni da me, oggi.”

 

Non era una domanda. Tenne sulle gambe assenti il cellulare in attesa di una risposta che non arrivò mai.
Si strinse nel giubbotto quando il vento incominciò a farsi forte. Si riparò alla fermata e sfregò le mani tra di loro. Iniziavano a screpolarsi le sue labbra. “Dove sei..?” si chiese. Si guardò nervosamente attorno. Erano passati trentacinque minuti. Il cellulare stava scaricandosi e non dava nessun avviso nuovo tra le notifiche. “Per favore, Karl” supplicò.
Alle 19:11 sentì la sua canzone preferita estremamente vicino. Rispose al telefono, con voce di freddo: «Pronto?» Gli battevano quasi i denti.
La voce dell'altro era furiosa. «Dove diavolo sei! E' almeno un'ora che ti aspetto a casa! Dove ti sei cacciato?»
A Bastian scappò un sorriso. «Che cazzo di strada hai fatto, coglione?»
«Dove sei?» disse ancora Karl con veemenza. «Che ti importa, che strada ho fatto?»
«È almeno un'ora che ti aspetto alla stazione del bus.»
Il sergente alzò gli occhi al cielo e anche a lui venne una specie di smorfia serena sulle labbra. «Arrivo» sussurrò infine.
Cominciò a piovere e non aveva altro riparo che il tetto della stazione stessa. Aveva le mani congelata e non riusciva più a scrivere al telefono. Strano non lo avesse visto passare, rifletté. Non aveva neanche visto nessun altro. Infilò le mani nelle tasche del giubbotto e cercò di scaldarle. Aveva il volto ghiacciato, poteva sentirlo. Inumidì le labbra sporgendosi appena sulla strada per vederlo arrivare.
Ci mise venti minuti scarsi. Sette in meno del previsto. Non aveva ombrello ma aveva una sciarpa – ed era strano, perché non ne portava mai con sé. Gli si avvicinò svelto, bagnato fradicio perché intanto si era messo a diluviare, con un giubbotto forse troppo leggero, eppure non pareva infreddolito.
«Sei un idiota,» disse fermandosi di fronte, con le mani in tasca anche lui.
Bastian rise ed accettò la sua sciarpa. Se la mise intorno al collo e storse il naso al pensiero di dover affrontare la strada del ritorno sotto la pioggia.
Karl sedette sulla panchina e accavallò le gambe. Fissò l'asfalto davanti a sé. Era ancora un po' arrabbiato con lui.
Sentendolo dire: «Mi sei mancato», gli scappò una mezza risata. Scosse la testa e scoprì appena i denti. «Sei un idiota» ripeté.
Bas si era girato ed gli era dinnanzi. Annuì. «Lo so. E mi dispiace.» Dietro quelle parole, e l'altro lo capì subito, c'era un mondo fatto di scuse; non avrebbe voluto farlo preoccupare ed esasperare
tanto.
«Lo credo bene» rispose lui. Prese una sigaretta e se l'accese, riponendo in tasca sia il pacchetto che l'accendino.
«Me ne dai una?»
«Ci manca solo che ti venga il cancro.» Un no.
«Più aspettiamo qui, più il diluvio universale si abbatterà su di noi. Dici che è la punizione perché siamo gay?»
«Dico che è la punizione perché sei una testa di cazzo, ed io ti assecondo pure» mugugnò con la sigaretta tenuta stretta tra le labbra. Senza guardarlo, si alzò e fece un cenno alla strada. «Andiamo a casa.»
«Mi bagnerò.»
«Muovi il culo, soldato.»
Lo sentì ridere e anche lui, inevitabilmente, si sentì più leggero.
A casa di Ingrid, la prima cosa che fecero fu asciugarsi. S'infilarono in bagno come due adolescenti e, come tali, si baciarono per diverso tempo. Risero piano, sottovoce. Non facevano l'amore da prima di partire per lo Yemen. Karl ne aveva voglia, Bas invece rifiutava l'idea, allontanava il pensiero per paura di doverlo affrontare. Erano già passati due mesi dall'operazione.
Il sergente sedette sul bordo della vasca e lo attirò a sé, appoggiando le mani sulla sua sedia. Questa era una cosa che lo faceva arrabbiare, e lo sapeva, ma non gli importò. Prese un asciugamano e glielo mise in testa. Massaggiò vigorosamente per asciugargli i capelli. Era a petto nudo.
«'Stian.»
«Mh?»
«Dimmi una cosa.»
«Dimmi.»
«Non ti si alza più per colpa mia o c'è qualcosa che dovrei sapere?»
Buttò lì la questione, ma serio e senza guardarlo, carezzandogli la testa, perché sapeva che prenderlo alla sprovvista, talvolta, era l'unico modo per farlo parlare. Eppure, cadde il silenzio.
Allontanò la tovaglia dal suo viso e l'appoggiò sulla vasca accanto a sé. Puntò gli occhi sui suoi, che adesso, erano bassi.
«Dimmi la verità.»
Bastian distolse lo sguardo mordendosi il labbro. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato e sapeva anche che non sarebbe bastato semplicemente cambiare argomento.
«Stai rovinando tutto.»
«Ah, io? Io starei rovinando tutto? Tu non mi dici cosa ti passa per la mente da tre fottutissimi mesi, ed io starei anche rovinando tutto!» sbottò il sergente.
Egli rimase calmo. Chiuse gli occhi, accorto. «Volevo solo passare una serata con te, mi sono lavato, vestito e pettinato, per quanto non avessi voglia di alzarmi dal letto, soltanto per te. Perché fossi comunque qui con me. Fiero... di me.» Il tono della voce, però, era tutt'altro che calmo. Era arrabbiato. Nervoso. Imprudente e poco cauto con le parole.
«E sono maledettamente contento che tu cerchi di riacquistare un minimo di dignità, ma ho bisogno di sapere che diavolo ti prende, Bastian, perché io non ti capisco più.» Si alzò in piedi e mosse alcuni passi lontano da lui, passandosi entrambe la mani sul volto. Lo sentì sospirare e bisbigliare qualcosa che non capì.
Cadde ancora una volta il silenzio, un silenzio asciutto e stracolmo di significato.
Infine il sergente maggiore parlò. Guardò le mattonelle bianche di fronte a sé e cercò di controllare al meglio la voce. «Ho parlato col medico. Ha detto che è normale.» Il cuore non era più nel suo petto. Si era spostato sulla gola. Perché batteva così forte?...
«È normale cosa? Che ti ha detto il medico?» sbottò Karl.
E lui, esausto, si voltò e lo fissò con crudele nervosismo. «L'impotenza, porca puttana, Karl, è di questo che stiamo parlando! Cristo...» distolse lo sguardo e stringe gli occhi – e le dita, sul raggio delle ruote della sedia...
Nessuno dei due parlò per almeno mezzo minuto. Non capivano se li facesse stare peggio o le parole o il silenzio.
«Quando sei andato dal medico?»
«Due settimane dopo essere tornato a casa.»
«Perché me lo dici soltanto adesso?»
«Ho pensato che se l'avessi saputo, saresti andato da qualche altra puttana in caserma.» Si strofinò il naso. Aveva gli occhi arrossati. Come se si preparasse a piangere.
Karl appoggiò la nuca alla porta del bagno, guardando il soffitto bianco. C'erano tante piccole macchie di umidità. Qualcuna più grande dell'altra. Tutte scure, come piccoli uomini nel deserto immenso o come piccole stelle in un cielo troppo scuro. Come i loro sogni, nella vasta realtà. «Avresti dovuto dirmelo prima.»
«Volevo illudermi ancora un altro po' che saresti rimasto con te.»
«Io rimarrò con te.»
«Ma ti prego, il sesso è la cosa che sappiamo fare meglio insieme.»
«Non c'è solo quello. Altrimenti saremo scopamici.»
«Abbiamo iniziato così.»
«Più o meno.» Fece una smorfia. «Sei la solita testa di cazzo, 'Stian. Possibile che tu non capisca? Io non me ne vado. Rimango con te. Ancora un altro po'.»
«Un po'? Un po' quanto, Eisner?» Si fissarono lungamente negli occhi. Profondi. Li trovarono limpidi.
Si scostò dalla parete e si avvicinò a lui. «Finché io riesco a sopportare te e tu riesci a sopportare me.» Lo guardò negli occhi. I suoi, verdi, piangevano.
«Allora mi sa che dovrai stare qui un bel po', perché io credo di poterti sopportare ancora per un bel po' di tempo.»
«Sai, credo sia lo stesso per me.» Gli si avvicinò e si chinò leggermente. Gli baciò la fronte. Bastian allungò le mani sul suo collo e lo strinse a sé.
«Karl...»
«Calmati, sono qua. Ti ho detto che rimango, che altro c'è?»
«E se non ci riuscissi più? Mi vorresti ancora?»
«Tutta la tua autostima è andata a puttane? Smettila di autocommiserarti. Io sono qui. Adesso non rompere più le palle e asciugati le lacrime.» Lo aiutò passando le dita sul suo viso, con una delicatezza imprevista. «C'è qualcos'altro che mi hai tenuto nascosto?»
«No. No, è tutto.»
«Davvero, soldato?»
«Sì, sergente... Ah, c'è ancora una cosa.»
Sospirò appena. «Dimmela.» Si sentì pronto.
«Voglio andare a vivere da solo.»

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Capitolo 35
*** N° 6 ***


Capitolo XXIV
N.° 6

 

 

 

              Karl aveva addirittura preso un paio di permessi. Breyer aveva capito che stava organizzando qualcosa e non solo non aveva fatto rapporto, ma lo aveva anche coperto e lasciato andare ogni volta senza chiedere spiegazioni. Non gli sarebbe stato mai abbastanza grato per questo.
Così, quel giorno, arrivò leggermente in anticipo, dopo cento pomeriggi di ritardi e quando citofonò al portone d'ingresso del palazzo e poi alla porta di casa, fu Ingrid ad aprirgli. Aveva un'orribile tuta di ciniglia marrone e i capelli rossicci raccolti in una pinza rossa. Karl non diede peso a quella tenuta da casa, salutò con discrezione come sempre e subito la seguì nel corridoio.
Ingrid bussò alla porta di suo fratello e lo avvisò: «Bas, c'è Karl.» Poi sparì in cucina a finire di preparare la cena per la sua famiglia.
Bastian mise da parte un libro che aveva da poco comprato e che non lo entusiasmava per niente e andò alla porta. Quando lo vide, gli fece un cenno e ricambiò il suo bacio lasciandolo passare. «Ohi. È presto. Come mai?»
«Sono felice di vederti anch'io» rispose ironico Karl. Avanzò in casa e si richiuse la porta alle spalle. «Sei pronto?»
«Pronto per cosa?»
«Hai cinque minuti per vestirti. Devo farti vedere una cosa.»
Curioso e divertito, Bastian s'infilò nella sua cameretta improvvisata e si cambiò con qualche fatica. Karl decise di aspettarlo in cucina e scambiò qualche parola con Ingrid. «Come stai?»
«Bene. Dove lo porti?»
«È pronto.»
A lei si illuminarono gli occhi. «Dici sul serio?»
«Sì.»
«Andate...?»
«Sì. Andiamo lì.»
Non passarono molti minuti, forse dodici o qualcuno in più, e furono di nuovo in strada. Era inverno inoltrato e continuava a piovere e Karl continuava a non usare mai l'ombrello. La campagna gli aveva regalato anticorpi per tutta la vita, diceva.
S'incamminarono sotto una pioggerellina fine, Bas coprì con un cappuccio di cerata il capo in modo da non bagnarsi. Passeggiavano vicino. Ogni tanto si guardavano. Un semaforo, le strisce pedonali, un incrocio. Il tabacchino, il negozio di scommesse, il piccolo supermercato. Si stavano allontanando da tutto ciò avesse composto la loro vita in quei mesi. Ne erano già passati così tanti... Bastian aveva iniziato la riabilitazione da una settimana circa, aveva i muscoli doloranti. Non aveva mollato un attimo. Avrebbe voluto fare di più, ma adesso non ce l'avrebbe mai fatta. Dopo mesi di immobilità totale, i suoi muscoli gridavano pietà ad ogni sforzo, ma era proprio quel dolore a farlo sentire vivo. E Karl, lui, lo aiutava con i suoi esercizi, stando attento che non esagerasse troppo per la tale voglia che aveva di riprendersi. Era felice si fosse convinto almeno a tentare, ma sperava che non avesse ambizioni troppo elevate o folli.
Si frugò in una tasca ad un certo punto: nel piumino nero, quella a destra. Ne estrasse due chiavi argentee particolarmente lucenti, con attaccato un piccolo portachiavi col simbolo della Luftwaffe. Si avvicinò ad un portone metallico verniciato di un giallo dorato ed inserì una delle chiavi nella serratura. Il portone scattò e si aprì. Bastian Kluge lo osservò con un sopracciglio alzato senza capire. Dove stavano andando? Chi abitava in quel condominio?
Poi lui si voltò e lo guardò, corrugando appena la fronte. «Ti muovi o vuoi rimanere là tutta la giornata? A bagnarti, per altro.» Aprì entrambe le porte dell'ingresso per consentirgli di passare con la sedia a rotelle. L'atrio del palazzo era modestissimo, con un paio di cassette per la posta a forma di nido d'ape pitturate di verde e di bianco, l'unica decorazione di quello spazio quadrato oltre ai due quadri appesi nella parete opposta, un paesaggio marino e uno di montagna. In fondo a destra, un ascensore piuttosto grande e dall'aspetto moderno completava l'ambiente. Vi entrarono quasi subito e Karl schiacciò il pulsante col numero 6.
«Mi spieghi che stiamo facendo?» gli fece l'altro.
Lui alzò impercettibilmente le spalle e mugugnò: «Ora lo vederai.» Così scese ancora un leggero silenzio fatto di eccitazione, curiosità, impazienza. Quando le porte automatiche si aprirono sparendo a destra e a sinistra, Karl uscì e si fece seguire. C'erano tre porte. Una a sinistra, una proprio di fronte l'ascensore, una seminascosta a destra. Inserì la seconda chiave nella prima.
«Che fai, mi trascini in una rapina?» ridacchiò sarcastico Bastian.
Karl spalancò la porta e gli fece un cenno. «Non vuoi entrare?» Lo fece passare per primo.
L'appartamento era un po' strano. Come se fosse stato vuoto per diverso tempo. Era però arieggiato, fresco e luminoso, con le tende spalancate e le serrande alzate, coi vetri rigati dalla pioggia; c'era un piccolo salottino con un divanetto grigio ed un paio di cuscini blu, una televisione modesta, una poltrona un po' vecchia, un tavolino ed una lampada; un ambiente spartano. C'era una piccola libreria sul corridoio, che contava pochi volumi, qualche ripiano era addirittura vuoto; la cucina era piccola, soprattutto perché c'era un tavolo per quattro a ridurne ulteriormente le dimensioni; il bagno aveva la sua dignità; e la camera da letto era grande, con mobili in legno e lenzuola pulite.
Bastian si fece un giro. Tornò da lui e lo trovò seduto sul divano con i gomiti sulle ginocchia, le maniche del maglioncino tirate sui gomiti e le chiavi appoggiate al tavolinetto rotondo in vetro con una rivista sopra.
«Allora... di chi è questa casa?» Non era male, pensò. E pensò che sarebbe stato meglio non fare commenti negativi; credette, e non sapeva perché, fosse importante dare l'impressione che gli fosse piaciuta.
«Di chi è?» gli fece eco l'altro. Accennò ad un mobiletto. «Di chi è quella foto incorniciata?» domandò.
Allora Bas si spostò appena e sebbene l'ambiente non fosse enorme, riuscì a muoversi straordinariamente bene, senza sbattere contro nulla. A casa della sorella, qualche volta, capitava. Sembrava che quell'ambiente fosse stato fatto proprio per permettere il movimento ad una persona nelle sue condizioni. Aggirò la porta e si piazzò davanti al mobile. Vide la foto. Erano loro. Loro due, abiti civili, che si baciavano. Ricordava benissimo il giorno in cui venne scattata quella foto. Non poté fare a meno di sorridere.
«L'ha portata tua sorella. Mi ha dato più di una mano, qui» gli spiegò.
La cornice era rossa, semplicissima. Bastian non ebbe il coraggio di voltarsi per almeno quattro minuti. Ma poi sorrise e si passò una mano sul volto. «Non ci credo» mugugnò.
Karl si alzò ed, avvicinandosi, appoggiò le mani sulla sua sedia. Si chinò in avanti e lo guardò. «Posso darti un pugno, se credi sia un sogno.»
«Posso dartene uno io?» rise l'altro.
Scosse la testa e si scostò. Sfregò la mano sinistra al braccio destro ed andò a prendere due birre dalla cucina. Gliene porse una già aperta. «Che ne dici?»
«Dico che forse sbaglio a dire che sei prevedibile» rise e bevve un lungo sorso di birra. «Ora raccontami tutto: da quanto tempo vi state organizzando a mia insaputa?»
«Almeno un mese e mezzo. Trovare la casa è stato più facile del previsto; mi ha dato una mano Bart. Ho detto che era per una persona che conosco. Quando l'ho trovata, Ingrid mi ha aiutato a pulirla e a mettere in ordine. I mobili erano già qui. Il proprietario dice che quando non ci serviranno più, possiamo darli a lui, li metterà in un magazzino o li venderà, non so, non ci riguarda. Possiamo buttare via quello che non ci serve o non ci piace.» Bagnò le labbra di birra.
«Un momento. Non ho mai visto te ed Ingrid andare via insieme.»
«Quando io ero con te, lei era qui e viceversa. Ha fatto tanto. Ieri, poi, ho fatto la spesa e ho portato qui alcune delle mie cose. Mancano le tue.»
Bastian allungò la mano verso la sua e gliela strinse appena, costringendolo poi ad avvicinarsi. Lo baciò sulle labbra. «E in caserma?»
«Non ho più diciotto anni. Il mio posto è qui, adesso.»
Gli venne di dire una cosa, ma la trattenne nella mente. “Solo ora, che sono ridotto così, vuoi vivere con me; e prima mi hai sempre negato questo mio diritto.” Non riusciva tuttavia ad essere arrabbiato. Aveva appena ricevuto un regalo bellissimo.
«Posso provare il letto?»
«Il materasso è nuovo» rispose Karl con un'occhiata furba.
«Tanto non mi si alza...»
Andarono comunque. Si distesero sul materasso forse un po' duro e chiusero gli occhi entrambi. Era comodo. Era più che un letto. Era il loro primo letto. Niente più fughe d'amore, niente più motel. Era l'inizio di una nuova pagina delle loro vita, l'inizio di qualcosa di nuovo, di magico, che sarebbe potuto andare benissimo o incredibilmente male, pensò Bas in quel momento.
«È comodo,» disse.
«Sì, 'Stian.»
«Per quel che sento. ..,Karl?»
«Sì?»
«Ti prometto che passerà.»
«Non metterti fretta.»
«L'impotenza. Farò una cura.»
«Una cura?» Si voltò verso di lui. «È possibile farne una?»
Bastian sorrise. «Sì. Ho parlato con il medico, l'ultima volta che sono andato a fare il controllo. Ha detto che possiamo tentare. Voglio... voglio provarci... Almeno posso dire di aver fatto tutto il possibile.»
Karl annuì e gli baciò la guancia. «Forse è meglio provare tra qualche mese. Ancora non ti sei rimesso del tutto. Ne riparleremo.»
Bas fece un cenno col capo, come a dargli ragione. Pensò che stesse sottovalutando quando male gli facesse quella situazione, ma era tanto, troppo felice per quella sorpresa e non poté che sorridere ed abbracciarlo. Sentiva che le cose non sarebbero che migliorate da quel momento in avanti.
«Il numero sei è il nostro numero fortunato.»
«Cosa?»
«Il nostro hangar era il numero 6. E adesso casa nostra è al sesto piano. È il nostro numero.»
Karl alzò gli occhi al cielo. «I soliti discorsi da ragazzina innamorata,» disse.

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Capitolo 36
*** Una visita ***


Capitolo XXXV
Una visita

 

 

 

         Acuì la vista su quell'articolo.
Il giornale era a mezzo metro da lui, su un altro tavolo, diverso dalla sua scrivania. Vi gettò un'occhiata veloce e si sollevò in piedi quando sentì il suo cliente arrivare. Lo invitò dentro la stanza e parlò con lui in tono strettamente confidenziale. Aveva letto solo qualche parola e visto di sfuggita un'immagine, ma gli era rimasta stampata nella mente, come un presagio.
Uscito dall'ufficio, diverse ore dopo, chiese alla segretaria che cosa avesse letto quella mattina. Lei si giustificò dicendo che non era niente di importante, lui insistette rassicurandola e così saltò fuori il giornale stampato su carta bianca, strana al tatto. Un quotidiano di scarsa rilevanza sociale. Non lo aveva mai sentito nominare prima. Forse era nuovo in commercio. Non era molto corposo. Lo prese tra le mani e leccò un dito, per poi sfogliarne le pagine fino alla numero nove. La notizia era chiara.

“Yemen: Sergente Maggiore rimane paralizzato.”

Saltò una manciata di parole e arrivò al terzo rigo. Cominciò a mancargli l'aria. La cravatta gli si strinse intorno al collo. Lesse più volte per sincerarsi del nome del soldato. Magari si era sbagliato.
Rilesse. Ancora una volta, e una terza.
«Herr, si sente bene? Le porto un bicchiere d'acqua?»
«Cosa.. io... no, sto bene così. Grazie, Kathrein.» Accennò un sorriso forzato.
Lui conosceva quel soldato.
Conosceva Bastian Kluge. Perché Bastian era suo figlio.

 

 

         Si aggiustò la cravatta azzurra sul petto e fissò corrucciato la carta rosata e sfocata che si rifletteva nel portone d'ingresso del palazzo. In mano, infatti, aveva un pacchetto di media grandezza che conteneva dei dolci dal gusto vario: lampone, banana, pistacchio, arancia.
Indugiò a lungo col dito vicino al citofono, non riusciva a trovare il cognome giusto e non sapeva a chi suonare per farsi aprire. Fortuna volle che una donna piccola e grinzosa si avvicinasse dietro di lui preparando una chiave piccola e lucente dieci centimetri prima della toppa del portone, ed entrando lo invitò ad imitarla con un sorriso di dentiera. Con fare imbarazzato e introverso, l'uomo varcò la soglia ed osservò l'atrio del palazzo. Sulla sinistra una bacheca di sughero con un paio di avvisi sopra troneggiava su tutta la parete e a destra una pianta secca rendeva l'ambiente cupo e triste. Arrivò all'ascensore e lasciò che la vecchia entrasse con lui. Se ne stava ricurva su un bastone, i capelli lisci e lunghissimi le ricadevano sulla schiena nascosta da un vestito scuro, a ciocche bianco sporco un po' in disordine.
«Che piano...?» disse lui in tono vago. E lei con la mano gli indicò il numero cinque. «Io sono al sesto» spiegò lui. La lasciò andare per prima. Non gli venne niente da dire per fare conversazione, perciò semplicemente tacque. Lasciò che scendesse un piano prima del suo e poi mormorò qualcosa con educazione. Frau Lehmann sorrise e mostrò la mano aperta in segno di saluto. Le porte si richiusero e la fecero sparire. L'ascensore riprese il suo corso ed in un paio di minuti fu libero di uscire.
La porta di fronte all'ascensore, gli avevano detto. Controllò le etichette e le targhe delle porte, ma non c'era niente ad indicare chi o che genere di coppia abitasse lì. Si fece coraggio e bussò. Se avesse sbagliato, avrebbe sempre potuto chiedere. Sicuramente tutti avevano notato i nuovi inquilini. Due uomini gay, uno dei quali su una sedia a rotelle, l'altro spesso in divisa...
Bastian aprì la porta e rimase stupefatto. Alzò entrambe le sopracciglia e la sua bocca si tirò in una smorfia ironica. Rimane in silenzio per qualche istante, indeciso se parlare o lasciarlo entrare o richiudere la porta. Richiuderla non sarebbe stato maturo e lo sapeva, ma era anche vero che non aveva voglia di discutere quel giorno.
L'uomo schiuse le labbra per dire qualche parola: «Lasciami entrare.» Aveva sempre interpretato bene i suoi pensieri.
Il ragazzo si tirò indietro sulla sedia a rotelle e gli lasciò il modo di varcare la soglia ed conoscere la sua casa.
Abitava lì da un paio di settimane ormai ed aveva trovato un suo equilibrio, sebbene la Caserma gli mancasse come l'aria, ed il volo più dell'ossigeno. Aveva sistemato, con l'aiuto del compagno, mobili, i soprammobili e le loro cose, stando sempre attento a lasciar i giusti spazi che gli consentissero una libera e comoda deambulazione. La situazione non era facile. Passava quasi tutto il giorno da solo senza niente da fare, lui che era sempre stato attivo ed energico. Aveva imparato ad uscire da solo e qualche volta provava ad andare al supermercato o pagare le bollette, ma i soldi iniziavano a scarseggiare sul suo conto. Non era mai stato un abile risparmiatore e non aveva la minima idea di come avrebbero fatto a mantenersi, lui e Karl, d'ora in poi.
Fabian Kluge richiuse la porta alle spalle e sul tavolinetto di vetro appoggiò il suo vassoio di dolci. Si sentì fortemente a disagio. Lisciò le mani tra loro e gettò un'occhiata alla carrozzina del figlio, quando lui era di spalle e non poteva vederlo. “Ridotto così” pensò, “a neanche trent'anni.” Trattenne un sospirò e prese comodamente posto sul divano.
«Fa come fossi a casa tua» lo invitò ironico Bas. Si avvicinò a lui, gli si mise proprio davanti, e sostenne il suo sguardo, duro. «Te lo ha detto Ingrid?»
«Chi se non lei?» Accavallò le gambe ed appoggiò un braccio sullo schienale del divano. Il suo disagio divenne presunzione. Ancora una volta. Lo vide annuire. «Ho letto di te sui giornali. Mi stupisce che io debba sapere di mio figlio da un quotidiano di scarsa importanza, piuttosto che dal Ministero della Difesa.»
«Mi stupisce che lei si ricordi di avere un figlio, Herr Kluge,» ribatté tagliente lui. Tamburellò impaziente le dita sui braccioli metallici della sedia ed, insistente, lo fissò.
«Non sei stanco di avercela con me, Bastian? Sei rimasto il bambino che sei sempre stato.»
«Se sei venuto in casa mia per insultarmi, puoi pure andartene.» Accennò alla porta.
Fabian sentì di aver sbagliato ancora una volta. Si passò una mano sul viso e distolse gli occhi celesti. «Avrei solo voluto saperlo per tempo.»
«Perché, saresti venuto da me prima? Magari terminata una riunione di lavoro, una delle tante? O appena finito di scoparti un'altra segretaria?»
A quel punto tornò a fissarlo e lo fece malamente: «Non ti permetto di parlarmi così! Io sono comunque tuo padre!»
«Perché non è così? Hai sempre messo le tue segretarie prima della tua famiglia. Hai idea di come sia ridotta mia madre per colpa tua?»
«Sei ingiusto, Bastian. Non puoi incolparmi di tutto quello che le è capitato.»
«Eri suo marito, avevi il compito di starle vicino.»
«Tu non sai neanche la metà delle cose che ci sono state tra noi!»
«Sentiamole, allora! Come se non avessi sentito abbastanza porcate durante la mia vita. Ah!... Merda.» Si passò una mano sul viso anche lui. Si allontanò un poco e si mise davanti la finestra. Non c'era il sole ad illuminarlo. Solo un lieve chiarore di cielo. Era bello, quel giorno. Azzurro... la sera prima aveva assunto una bellissima tonalità rosata.
Fabian si alzò e gli andò incontro. Non disse niente per qualche minuto e lasciò si calmasse. Guardò il cielo anche lui. «Ti manca, vero...?»
Lui annuì, e si sentì fragile, come se avesse dato la propria spada in mano al nemico disarmato. Inumidì le labbra e chinò impercettibilmente il capo.
«Credi potremmo mai parlare in modo civile?»
«Non c'è mai stato niente di civile nella nostra famiglia, a parte il matrimonio di mia sorella, s'intende.»
«Mi spiace non esserci stato quel giorno, né quello in cui l'hai portata all'altare. Avrei dovuto farlo io.»
«Sì, avresti dovuto farlo.» Sospirò. «Ho preso il tuo posto. Non era da sola.»
«Quest'Hector... è un bravo ragazzo?»
«Credi che avrei potuto lasciare mia sorella nelle mani di uno stronzo? Sì, è esattamente quello di cui Ingrid aveva bisogno.»
Suo padre si scostò da lui e prese posto su uno sgabello di legno. Tamburellò le dita sulla guancia, impaziente, forse nervoso. «Li ho presi nella miglior pasticceria della città.»
«Allora li assaggerò.» Non ne aveva voglia, ma si accostò al tavolino ed allungò le mani sul pacchetto. Ne scoprì il contenuto. «Sono lamponi?»
«Sì.»
«Sono allergico ai lamponi da quando avevo cinque anni.» Lasciò malamente la carta e strinse le labbra. Com'era possibile non ricordasse quanto fosse stato male quella volta che, a nove anni, aveva rubato una fetta di torta fatta dalla madre per un'amica, convinto fosse alla fragola? Ah, già. Lo ricordò di colpo: “era in riunione.” Sua madre se l'era cavata da sola.
«Ah... ce ne sono altri, all'arancia, per esempio. O alla banana.»
Evitò di puntualizzare quanto odiasse le banane ed annuì leggermente, fissando la glassa colorata di quei dolci con un certo sdegno. D'un tratto, gli era venuta la nausea. Fabian guardò l'orologio. Erano le sei e ventisette ed in poco più di mezz'ora non si erano ancora veramente parlati. Aveva una cena di lavoro alle nove e mezza, doveva tornare a casa, fare una doccia, cambiarsi, preparare della pratiche. Non poteva fare tardi. Ma non poteva neanche abbandonare di nuovo suo figlio.
D'un tratto sentirono entrambi tintinnare delle chiavi aldilà della porta, poi lui la vide aprirsi. Bastian aveva sentito ma non aveva voglia di guardare il compagno entrare da quella porta, sebbene solitamente non vedesse l'ora di rivederlo. Si sentiva a disagio. Avrebbe tanto sperato che ritardasse, per quella sera, e che non conoscesse mai suo padre.
Karl, ignaro dell'identità dell'uomo, si sentì preso alla sprovvista. «Ah... salve» mugugnò. Richiuse la porta. Era in divisa e aveva decisamente bisogno di cambiarsi.
Bas disse, svogliato: «Ti presento mio padre.» Aveva gli occhi fissi nel vuoto. «Fabian Kluge. “Papà,”» continuò con veemenza «ti presento il mio compagno. Karl Eisner.»
«Salve,» disse il militare.
«Buonasera» rispose bonario l'uomo. Karl ebbe l'impressione, per un attimo, che tutte le vicende raccontate da Bastian fossero state un po' gonfiate; quell'uomo distinto gli aveva risposto con garbo ed educazione e non lo stava guardando storto neppure un momento; tuttavia, al coltempo, avvertì il clima ostile. Perciò subito propose: «Vado a fare la spesa» per dar loro modo di chiarire e discutere da soli. Sarebbe stato un intruso. Sfiorò la sua spalla, affettuoso, ed andò a prendere la lista che aveva lasciato sul frigorifero.
«È finito il latte» gli fece notare l'altro, ancora non guardandolo.
«Compro qualcosa per stasera.» Ed in più gli venne da chiedere: «Ehm, saremo solo noi due?»
Bastian fu irremovibile: «Sì.» Così lui uscì di casa dopo un saluto veloce all'estraneo, il quale, adesso, si sentiva davvero tale.
Infatti, se prima aveva sentito anche solo per un istante che le cose sarebbero potute cambiare, adesso pensò che non sarebbe mai dovuto venire. Si levò in piedi tenendo le mani dapprima sulle ginocchia, poi congiunte. «D'accordo, io vado.»
«Non mi chiedi neanche da quanto stiamo insieme...» Bastian sorrise, amaramente. Appoggiò la fronte sulla mano sinistra e coprì gli occhi verdi, adesso socchiusi.
«Sembrate uniti,» sviò il padre. «E questo è ciò che importa. Ti rispetta?»
«Forse sono io che non rispetto lui. Che devo dirti, sarà di famiglia.»
«Bastian» lo chiamò serio. «Non sbagliare come ho sbagliato io.»
«Stai tranquillo. Io non sono come te.»
«Stammi bene» mormorò. A passo svelto uscì di casa.
La porta si richiuse e Bas sospirò.

 

 

         Karl si era fermato un momento a comprare le sigarette al tabacchi di fronte casa.
Quando lo vide, invece di voltare a sinistra verso il supermercato, riattraversò e lo chiamò: «Herr Kluge.» Con tono chiaro, severo. «Devo parlarle un attimo, si fermi.»
Fabian si girò e si voltò verso di lui. «Ah... sei tu. Karl, giusto?»
«Giusto, signore.» S'imbarazzò nel constatare quanto il gergo militaresco facesse parte di lui. Disse: «Le dico una cosa.»
«Mh?» Alzò un sopracciglio.
«Non è gradito in casa nostra. Non se deve farlo stare così.»
«Ho diritto di vedere mio figlio.»
«Aveva molti diritti, signore, ma li ha persi nel momento in cui lo ha abbandonato.»
«Non so cosa ti abbia raccontato, ma...»
«No, non mi interessa la sua versione.» Fece un cenno con la mano. «Solo, non lo faccia soffrire ulteriormente. Ne sta già passando troppe, non crede?»
L'uomo annuì con gravità. «Hai ragione.»
«Bene. La saluto.» Alzò il mento e si mosse in direzione del supermercato





N.B. Herr è la parola tedesca per signore. Herr Kluge -> signor Kluge.
Kluge in tedesco vuol dire furbo, astuto.
Eisner vuol dire di ghiaccio. 
E' effettivamente una coincidenza. Avevo scelto i cognomi perché mi piacevano e solo dopo tempo ho scoperto il loro significato. Alla fine, calzano perfettamente ai personaggi!

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Capitolo 37
*** L'ultima speranza ***


Capitolo XXXVII
L'ultima speranza

 

 

          Inaspettatamente, la convivenza con lui fu semplice.
Karl non se lo sarebbe mai aspettato. La mattina si svegliavano insieme e facevano colazione, dopodiché si vestiva e dopo un bacio veloce andava in caserma. Tornava alla sera, guardavano un film o giocavano a carte e poi si mettevano a tavola. La confusione della camerata, adesso, lo avrebbe infastidito. Quella era casa sua e si sentiva a suo agio lì.
Per Bastian le cose erano più complicate.
La mattina riusciva ad alzarsi solo per fargli compagnia durante la colazione, dopodiché, rimasto solo, faticava a trovare come riempire il suo tempo. Faceva la doccia e nei giorni dispari, per un'ora, il fisioterapista gli faceva compagnia. Sebbene non fosse per nulla bravo ai fornelli, provava a cucinare qualcosa, che solitamente finita carbonizzata o era immangiabile. Era disordinato per natura, ma avevano pochi soprammobili e riordinare adesso gli serviva a tenersi occupato.
Era una vita spenta, triste.
Aveva anche un po' paura di uscire da solo. Non lo aveva mai fatto, c'erano sempre Karl o Ingrid con lui, ma quel giorno, si costrinse a farlo.
Era il primo giorno di sole del mese e decise di approfittarne. La sera prima non aveva piovuto e le strade erano asciutte. Poteva farcela. Prese la giacca – per fortuna, tutto in casa era realizzato su misura per lui e non fu difficile. Se la infilò e uscì richiudendosi la porta d'ingresso alle spalle. S'infilò in ascensore col cuore agitato. In poco minuti, era fuori. Oramai a casa gli mancava l'aria, aveva bisogno di fare quel passo, per quanto fosse spaventato. Continuava a dirsi che le gomme delle ruote avrebbero potuto scivolare, bucarsi, rovinarsi. Cos'avrebbe fatto, in quel caso? Eppure, finora, non era mai successo. Quando usciva con la sua famiglia, le cose andavano sempre per il verso giusto e queste preoccupazioni non esistevano neppure, nella sua mente. Poteva farcela anche da solo. Uscì in strada e cominciò a camminare. Ogni sussulto della sedia lo metteva in ansia, ma tenne ben solide le mani sulle ruote e proseguì sul marciapiede. Il cuore sobbalzò quando un ciclista gli urlò di spostarsi. Non si era accorto di essere finito sulla pista ciclabile e quando si spostò di colpo, quasi investì un passante anziano, che si arrabbiò molto. Si scusò farfugliando qualcosa e poi si allontano dalla strada principale per riprendere fiato. Sospirò. Decise di cambiare strada, aveva bisogno di qualcosa da fare, di avere un obiettivo, qualcosa di concreto da fare, non valeva la pena uscire solo per fare una passeggiata. Scelse quindi di raggiungere il supermercato.
Lo raggiunse senza altri incidenti, per fortuna, ed entrò. Tirò un sospiro di sollievo notando le corsie erano larghe e semideserte. Cominciò a guardarsi attorno, distrattamente, chiedendosi cos'avrebbe potuto comprare. Si fermò nel corridoio centrale e fissò desideroso un pacco di biscotti al cioccolato sul ripiano più alto. Non ci sarebbe mai arrivato lì, allungando la mano. Fece una smorfia e ripiegò su una confezione di merendine all'albicocca che sapeva Karl avrebbe apprezzato.
Un commesso del supermercato lo osservò con la coda dell'occhio e lo vide indugiare di nuovo su quei biscotti al cioccolato. Ne prese una confezione e gliela porse con un sorriso, senza dire niente.
Bastian la prese tra le mani e gli rivolse un largo sorriso.
«Grazie. Oggi nessuno è stato gentile con me,» mormorò. «Adoro questi biscotti.»
«Sì, sono davvero ottimi,» rispose il commesso. Sentendosi chiamare, poi, si voltò verso destra. «Ah, mi scusi, devo andare,» disse guardandolo. «Buona giornata.»
«Buon lavoro! E grazie,» fece Bas accennando ai biscotti.
Dato che non aveva portato molti soldi con sé, si limitò a prendere del pollo ed un paio di lattine di birra in offerta. Pagò e si mise il sacchetto in grembo. Tornò a casa, abbastanza soddisfatto di sé e quando, più tardi, Karl rincasò, gli raccontò di questa uscita come un grande successo.
Karl era sfinito ma lo baciò e disse che era fiero di lui.

 

 

          Nonostante tutti i progressi, le giornate non trascorrevano mai abbastanza velocemente.
Bastian andava sempre più intristendosi. Oramai, chiaramente, era Karl a mantenerlo. Non glielo aveva mai fatto pesare, non lo aveva mai sottolineato né aveva detto una parola di troppo a riguardo, eppure Bastian si sentiva in colpa. Non avrebbe mai pensato di arrivare al punto di doversi fare mantenere. Senza un lavoro, poi, non trovava motivo per alzarsi dal letto ogni mattina.
La casa, poi, aveva le sue mancanze. Era davvero molto piccola e dopo i primi mesi lì, cominciò a sentirla stretta, a sentirsi soffocare. Dopo l'entusiasmo iniziale, si accorse che non era un granché. L'androne del palazzo era sporco e sulle pareti del bagno c'era la muffa. Le difese immunitarie di Bastian erano debilitate per tutte le medicine che aveva preso e spesso aveva la tosse o gli saliva qualche linea di febbre. Karl aveva organizzato il bagno perché riuscisse a lavarsi da solo, mettendo un paio di appoggi che gli consentissero di passare dalla sedia a rotelle al box doccia, nel quale aveva sistemato una sedia. Aveva fatto tutto da solo, sistemato tutto perché fosse a misura di Bastian, ma le cose erano complicate. Le bollette, la spesa, le medicine, ausili e presidi. Tutto ciò che era necessario, comportava anche una spesa.
Dopo i primi tre mesi e mezzo di convivenza, Bastian decise che trovare un altro lavoro avrebbe giovato ad entrambi. Innanzitutto, avrebbe avuto qualcosa da fare durante il giorno e non avrebbe più passato intere ore in solitudine. In secondo luogo, avrebbero avuto un'altra entrata e magari avrebbero anche potuto avere una casa più bella. La sua mente vagava velocemente e in fretta immaginava scenari poco concreti e irreali. Una grande casa con giardino, una vasca da bagno su misura per lui, un salone in cui riunire gli amici il sabato e la famiglia per natale, e magari prendere anche un cane.
Quando si mise a cercare lavoro, però, i sogni ci misero poco a crollare.
Non c'era niente per lui. Forse perché sapeva fare molto poco. Non aveva titoli. Certo aveva alcune indiscutibili qualità e abilità – sapeva lavorare in gruppo, sapeva dare ordini, sapeva adattarsi ai cambiamenti. L'addestramento militare era servito, ma solo in minima parte. Non sapeva fare nient'altro. Non aveva mai imparato a fare nient'altro, perché l'unica cosa che volesse fare era pilotare aerei militari. Fece dei colloqui di lavoro ma andarono male e si scoraggiò subito. Dopo l'ennesimo rifiuto, smise di provare. Si sentiva umiliato e decise di rimanere a casa, da solo, dove si sentiva tutto sommato al sicuro e protetto. Ma anche se continuava a ripetersi questo, una parte di lui si sentiva un fallimento. Se da una parte, quella casa era diventata il suo rifugio amorevole, dall'altra parte era anche la sua prigione. A volte, si svegliava nel cuore della notte sudato, in preda agli incubi e spesso, durante il giorno, gli mancava l'aria. Nonostante ciò, non riusciva a passare molto tempo fuori casa. Aveva cominciato a fare la spesa da solo quasi tutti i giorni, ma per il resto aveva poche occasioni per uscire, perché aveva ancora paura di farlo. Là fuori, non era al sicuro. Non si sentiva al sicuro.
Vedendo lo stato depressivo in cui stava cadendo, Karl capì che doveva fare qualcosa. Lo vedeva sorridere sempre meno e i suoi incubi erano sempre più frequenti. Si rese conto che la situazione era grave quando, nel fine settimana, Bastian non riusciva ad uscire di casa per colpa degli attacchi di panico. Uscire fuori lo terrorizzava, ma stare dentro casa lo stava uccidendo lentamente.

 

 

         «No, ti supplico, non farlo,» fece Bastian avvicinandosi a lui. Lo guardò con gli occhi tristi e tese la mano. «Già ieri sei arrivato in ritardo. Oggi è sabato, non lasciarmi solo per tutta la mattina.»
Karl lo guardò con pena. «Devo fare una cosa importante. Dammi un'ora. Un'ora e sarò di nuovo qui, d'accordo?»
Bas, suo malgrado, annuì. «Ok...» sussurrò distogliendo lo sguardo.
Rimasto solo, come spesso accadeva, il suo umore peggiorò. Si sentiva fragile. Rispose ai messaggi di testo dei suoi amici, cercando conforto nella loro amicizia. Tirò in su col naso perché non voleva piangere, ma non riuscì a trattenersi. Si asciugò le guance con i dorsi della mani e si avvicinò al divano. Si issò con le braccia per distendersi là e accese la televisione, guardò distrattamente fino al ritorno del suo compagno.
Karl rincasò quarantacinque minuti più tardi. Aprì con le proprie chiavi e lo cercò subito con lo sguardo. Aveva un scatola in mano, con un paio di buchi sopra, ed un sacchetto. Sorrideva. «Hei?» Gli si avvicinò e sistemò la scatola sulla sua pancia.
«Cos'è, Karl? Non ho voglia di scherzare, dai...» mugugnò e si scostò appena per togliersi di dosso la scatola, rischiando di farla cadere per terra.
Karl la prese al volo. Sollevò il coperchio e infilò la mano dentro. Tirò fuori una piccola palla di pelo bianca e grigia con lunghe orecchie morbidissime. «Posso fidarmi o lo butti giù di nuovo?»
Bastian spalancò gli occhi e lo guardò. Si mise seduto e accolse tra le braccia il piccolo coniglietto curioso, che annusava l'aria. Si mise subito ad accarezzarlo. «Ma cosa... è... è nostro?»
«No,» fece Karl scuotendo la testa. Mise da parte la scatola. «È tuo. È un maschio. Puoi scegliere il suo nome.» Prima di richiudere la porta, prese la grossa gabbia che aveva lasciato sul pianerottolo e la portò in casa, appoggiandola in un angolo. Dopodiché, sedette accanto a lui, sul divano.
Bas sorrise e subito dopo scoppiò a piangere. Tirò in su col naso, continuando a coccolare il coniglio. «Grazie...»
«Ho visto che eri abbastanza depresso negli ultimi giorni...» gli carezzò la guancia.
«La fisioterapia procede bene, ma per il resto non vedo progressi in niente. Non sono riuscito a trovare un lavoro... vorrei provare a fare una nuova operazione.»
«Il dottore ha detto...»
«Lo so cos'ha detto, ma io voglio provarci. Lui non mi vuole aiutare. Mi ha anche impedito di fare la cura per l'impotenza!»
Karl esitò. «Se vuoi, possiamo provare a chiedere un consulto ad un altro dottore. Andiamo da qualcun altro.»
Bas annuì. «Sì, grazie... voglio provare tutto ciò che posso... per favore.»
«Ok. Andremo da qualcun altro.»
Bastian avvicinò al viso il coniglietto e lo guardò negli occhi. «Leni. Ti piace come nome? Devo darti qualcosa da mangiare, piccolo Leni, hai fame?»
Karl andò a prendere una carota dal frigo. Ne spezzò una parte e la porse a Bas, che la diede a Leni. «Sembra piacergli,» disse sorridendo. «Che bellino che sei... grazie, Karl. Sono sicuro che gli piacerà stare qui.
Lui sorrise. «Spero che vi troverete bene insieme.»
“Leni, sei la mia ultima speranza,” pensò.

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Capitolo 38
*** Alternanze ***


Capitolo XXXVIII
Alternanze

 

 

           Il commesso del supermercato aveva un grosso naso a patata e i capelli tanto scuri da sembrare, sotto la luce del neon appeso al soffitto, blu. Indossava la maglia gialla e rossa della grande catena di supermercati tedeschi e delle scarpe da tennis un po' rovinate. Aveva i denti storti, ma un sorriso gradevole. E poi, era suo complice. Aveva detto di chiamarlo Chris e lui aveva accettato.
Chris era un tipo gentile e dopo aver visto Bastian quasi ogni giorno nel loro supermercato, aveva deciso che lo avrebbe aiutato. Lo aveva visto diverse volte soffrire nell'incapacità di prendere da solo le cose e ogni volta che poteva lo aiutava in silenzio, e poi gli rivolgeva un sorriso o gli faceva l'occhiolino. Dopo aver preso per la quarta o quinta volta il pacco di biscotti al cioccolato dal ripiano più alto, decise che li avrebbe sistemati in uno scaffale più alla sua portata. Così quando Bastian, un giovedì mattina, arrivò nella corsia centrale, li trovò alla sua altezza.
«Sei stato tu, vero?» gli chiese dopo averlo cercato per almeno dieci minuti, avvicinandosi.
Chris era appena tornato dal deposito e aveva un grosso scatolone in mano. Annuì, con un piccolo sorriso. «Spero non ti sia offeso.»
«Scherzi? Anzi, volevo ringraziarti. Piacere, io sono Bastian.»
«Puoi chiamarmi Chris.»
E da quel giorno, furono amici.
Bastian andava al supermercato quasi ogni giorno, a meno che non diluviasse, e solo per passare un po' il tempo. Chris sembrava averlo capito e così quando lo vedeva andava a salutarlo. All'inizio lo faceva solo per tenerezza, poco a poco però scoprì in lui una persona piacevole.
Quella nuova amicizia fece bene a Bastian, che dopo una chiacchierata con lui, tornava a casa col morale sollevato. Inoltre, a casa, ormai, non era più solo. Ad aspettarlo c'era Leni, il coniglietto che aveva monopolizzato l'appartamento. Bas gli permetteva spesso di stare fuori dalla gabbia, divideva con lui l'insalata e le carote e passava molto tempo a coccolarlo e prendersene cura. Gli faceva bene. La sera, ogni tanto, lui e Karl bisticciavano, perché Karl non voleva che Leni si infilasse nel loro letto; ma la mattina, quando Bastian era più depresso, era proprio Karl a prenderlo dalla gabbia e portarlo a letto, per rianimarlo un po'. La presenza di Leni gli aveva fatto bene, gli aveva ridato un po' di gioia. Era una sorta di pet therapy e funzionava.
«Sai che, in campagna, i conigli li mangiamo?» gli diceva ogni tanto Karl per dargli fastidio.
«Non ci provare nemmeno,» rispondeva lui, stringendo il coniglio al petto. «Leni non si tocca.»
E Karl rideva.
La situazione era sempre molto altalenante. Certo l'animale aveva portato un po' di felicità e aveva rallegrato l'atmosfera in casa, ma Bastian continuava ad avere momenti di infinita tristezza e angoscia e gli attacchi di panico non erano migliorati. Forse grazie a Leni e magari anche per merito di Chris non erano peggiorati e questo sembrava già essere un grande risultato.
Un giorno, facendogli visita, Barthold, seduto sul divano con Leni in braccio, fece una proposta al suo migliore amico.
«Potresti fare dei corsi. Sarebbe più facile trovare lavoro con qualche attestato.»
La prospettiva di trovare un altro lavoro spaventava Bastian, perché rendeva ancora più concreto l'infrangersi della carriera da pilota, ciononostante sapeva che sarebbe impazzito di lì a poco, senza niente da fare tutto il giorno. Seguì il consiglio. Il giorno dopo, in una delle tante mattine solitarie mentre il suo compagno era in caserma, diede un'occhiata su internet. Fece una lunghissima ricerca che andò avanti per una settimana, mandò anche un paio di curriculum, senza successo. Alla fine, però, trovò un corso che sembrava incuriosirlo. Era un corso da programmatore informatico, che della durata di sei mesi e che aveva sede non troppo lontano da casa sua. In quell'occasione, tirò fuori un gran sorriso. Si appuntò il numero di telefono e l'indirizzo, promettendo a se stesso di andare a chiedere informazioni il prima possibile e un attimo dopo, si vestì ed uscì di casa, per evitare che in un momento di sconforto rinunciasse all'idea.

 

 

         Il corso era aperto a tutti e non c'era alcuna agevolazione economica per i portatori di una disabilità. Bastian raccolse tutte le informazioni necessarie e quando Karl tornò a casa, quella sera, lo aggiornò.
«Purtroppo non è proprio economico,» disse con un sospiro. «Ma è l'unica cosa che ho trovato, che mi sembri concreta e realizzabile. Io ho da parte ancora qualcosa e riuscirei a pagarlo. Voglio però sapere cosa ne pensi tu.» Lo guardò negli occhi.
Karl ricambiò lo sguardo e per la terza volta verificò il programma di studio, gli obiettivi formativi gli sbocchi occupazionali ed il tipo di attestato che garantiva il corso. Diede una rapida occhiata alle proposte di lavoro che trovò in rete e sembrava che avrebbe avuto buone possibilità di trovare un impiego. Alla fine disse: «iscriviti. Sembra una buona idea.»
Bastian ne parlò con Ingrid e persino con Bart, per raccogliere altri pareri e alla fine decise di iscriversi. Sebbene sentisse l'eccitazione dell'inizio di una nuova avventura, una parte di lui piangeva per l'impossibilità di proseguire la carriera da pilota.

 

 

        La sala d'aspetto era stretta ma molto lunga. Rettangolare.
Quella volta, andò da solo. Non aveva più bisogno di qualcuno che lo accompagnasse. Quando la segretaria del dottor Voigt lo invitò ad entrare, lui non esitò a farlo e a stringere la mano al dottore.
Era la prima volta che vedeva quell'uomo, era sulla sessantina coi capelli a mezzaluna e le lentiggini sulla testa. Gli espose la situazione: raccontò dell'incidente di volo in Yemen, dei due interventi chirurgici ai quali era stato sottoposto nell'arco dei primi sei mesi di convalescenza, il primo dei quali gli aveva salvato la vita ed il secondo gli aveva permesso di mantenere il controllo sfinterico.
«Ho due richieste,» disse poi.
«Mi dica, la ascolto.»
«So che c'è una minima possibilità che io torni ad avere sensibilità sulle gambe. Non a camminare, ma a sentire. Voglio operarmi e tentare.»
«Bene,» rispose il dottor Voigt. «E la seconda?»
«Voglio una cura per l'impotenza.»
Il dottore annuì e si alzò dalla sua sedia in pelle sintetica nera. Rovistò nei cassetti di una credenza in legno con gli sportelli in vetro e tirò fuori una manciata di scatole. Tornò a sedersi e valutò di
nuovo la sua cartella clinica, attentamente, per almeno dieci minuti. Gli fece qualche domanda e dopodiché gli porse una scatola.
«Provi questi. Con precauzione. Mezz'ora prima dell'attività sessuale, lontano dai pasti. L'effetto può durare per circa quattro ore. Non più di una pillola al giorno. Un sovradosaggio può causare vertigini, cefalea, indigestione, dolore alle braccia o alle gambe. Nei casi più gravi, può comportare disturbi del sonno, infezioni respiratorie, e peggioramento della vista. Non più di una pillola al giorno,» ribatté guardandolo negli occhi. «Provi questi e mi dica come si trova.»
Bastian gli rivolse un largo sorriso felice. «La ringrazio, dottore... e per l'intervento?»
«Mi faccia valutare la situazione. Ne riparliamo tra un paio di settimane.»
«La ringrazio, dottor Voigt... la ringrazio davvero tanto.»

 

 

        Bastian non disse niente a Karl.
Da solo a casa, aveva preso l'abitudine di provare a prendere una di quelle pillole per conoscere la reazione del suo corpo. Il suo corpo reagì nel migliore dei modi, ma subito dopo iniziava a girargli la testa, gli venivano le vertigini e gli saliva la nausea. Decise di ignorare i sintomi.
Aveva iniziato il corso da programmatore e aveva spostato l'appuntamento con il fisioterapista perché non interferisse. In questo modo aveva qualcosa da fare ogni giorno, dal lunedì al venerdì, ed il fine settimana lo dedicava a Karl e agli amici.
Il suo umore era nettamente migliorato. Il corso gli piaceva, imparava sempre qualcosa di nuovo e si teneva occupato. Aveva anche conosciuto delle persone simpatiche, nessuna delle quali sulla sedia a rotelle, e una volta o due aveva passato con loro la pausa pranzo.
Quando era a casa da solo, dopo aver fatto tutti i compiti del corso e dopo che il fisioterapista andava via, dopo essersi occupati di Leni e dopo aver fatto la spesa al supermercato, Bastian prendeva una nuova pillola e provava e riprovava.
Un sabato pomeriggio, disteso a letto con Karl, provò con lui.

 

 

 

 

 

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Capitolo 39
*** Aspettative ***


Capitolo XXXIX
Aspettative



        Nonostante facesse finta di non accorgersi dei sintomi e li ignorasse, la cura per l'impotenza lo stava devastando. Aveva capogiri continui e la nausea era talmente forte che gli impediva di mangiare. Aveva cercato di nascondere il tutto a Karl, ma quando un giorno, per l'ennesima volta, disse di non sentirsi bene, Karl si alzò da tavola di scatto, andò in camera e frugò nel suo cassetto per tirar fuori una confezione di pillole che conosceva bene. Lesse il foglietto illustrativo e poi tornò da lui, in cucina. Sollevò il coperchio della pattumiera e gettò la confezione semivuota.
«Che stai facendo? Riprendila subito!» esclamò Bastian avvicinandosi in fretta.
Karl gli bloccò il passaggio. «No. Ti stanno facendo male.»
«Non è vero! Smettila!»
«Puoi anche prenderle, ma io non scopo con te a queste condizioni,» ribatté lui, quasi brutale.
Bas appoggiò i gomiti sul tavolo e affondò il viso tra le mani. «Non farmi questo... non voglio tornare ad essere un vegetale...»
«Tu non sei un vegetale. Fai tante cose e le fai tutte da solo. Questa cura non è quella giusta per te, 'Stian,» mormorò lui cominciando ad accarezzargli i capelli. «Vedrai che troveremo quella giusta. E forse l'intervento chirurgico risolverà questo problema. Dobbiamo aspettare la risposta del dottor Voitg. Si sistemerà tutto, vedrai.»
«Si sistemerà tutto? Karl, questa casa sta cadendo a pezzi e non possiamo permetterci un trasloco, tanto meno un altro appartamento.»
Lui accusò il corpo, ma non lo diede a vedere. «Lo so. La casa non è il massimo.» Sospirò. «Hai chiamato il padrone di casa per dire dell'umidità?»
«Sì, ieri. Gli ho spiegato la situazione. Ho detto che al piano di sopra si è rotto un tubo e l'acqua è penetrata da noi e che c'era già della muffa. Ha detto che non può farci niente, adesso, l'unica cosa che può concederci è di non lamentarsi se ce ne andiamo prima della scadenza di contratto.»
Annuì. «Ok. Ci serve una nuova casa. Tu hai sempre la tosse. Dobbiamo trovare un posto in cui stare meglio di così. L'ascensore è sempre guasto e tu rimani bloccato in casa continuamente. Troveremo un posto migliore, vedrai.»
Bastian lo guardò negli occhi. «Me lo prometti?»
Lui annuì. «Hai la mia parola. Quando finirai il corso, troverai un lavoro e avremo sicuramente un'entrata in più.»
«Dobbiamo aspettare tanto?»
«Purtroppo sì, 'Stian. Lo sai bene anche tu, che coi soldi che abbiamo da parte potremmo permetterci il trasloco, magari, e qualche mese di affitto, ma a lungo andare non riusciremmo a pagare nemmeno le bollette...»
«Mi sento così in colpa...»
«No. Non ti sentire in colpa,» disse, deciso. «Andrà tutto bene, te lo prometto.» Lo strinse a sé, forte forte.
Bastian si accoccolò al suo petto e sospirò, speranzoso.

 

 

Quando l'ascensore si guastò di nuovo, Bastian rimase bloccato nell'androne del palazzo. Era appena tornato dall'ennesimo pomeriggio di corso da programmatore ed era insolitamente soddisfatto dei progressi che aveva avuto. Rimanere lì fermo per ore, però, lo gettò di nuovo nello sconforto. La sua vita era una continua altalena che non si fermava mai. Dopo un attimo di gioia, ce n'era uno di dolore. Pieno di disagio, aspettò che Karl tornasse per aiutarlo e via via che passavano gli inquilini era sempre più imbarazzato nel dover dare spiegazioni.
Il figlio della signora Lehmann andò a trovarla quel pomeriggio per fortuna, era un ragazzone muscoloso e alto e si offrì di aiutare Bastian a salire al sesto piano.
Umiliato e provato, Bas lo ringraziò con una mezza parola e prima anche che il ragazzo suonasse il campanello di casa della madre, la sua dirimpettaia, era già dentro casa, ben nascosto dalla porta d'ingresso. Prese tra le braccia Leni, che era il suo unico conforto, e lo coccolò per almeno mezz'ora prima che fosse in grado di togliersi la giacca e le scarpe. Quando il cellulare squillò gli ci vollero almeno cinque minuti per trovarlo, ma vedendo il numero dello studio medico Voigt rispose immediatamente.
«Pronto?»
«Herr Kluge?» Sono il dottor Edgar Voigt.
«Dottore... buonasera. Sì, sono io. Mi dica.»
«Ho analizzato il suo quadro clinico e commentato con un caro collega le sue radiografie. Sono certo che un'operazione chirurgica, nel suo caso, possa portarle ad un beneficio. Se è d'accordo, possiamo fissare una visita approfondita e, se è il caso, l'intervento.»
«Sì!» rispose Bastian prima ancora di avere il tempo di pensare a quelle parole. «Sì, va benissimo, mi dica quando devo venire da lei.»
«Può venire giovedì mattina.»
«Va bene, sì, ci vediamo giovedì mattina.»
«Alle nove e trenta.»
«Sarò lì già dalle otto,» confermò entusiasta. «Dottore? Dovremmo parlare delle... pillole per l'impotenza... ho avuto degli effetti collaterali...»
«Troveremo un'altra soluzione. A giovedì.»
«Grazie... grazi mille... a giovedì.»
Bas mise giù il telefono e prese tra le mani Leni. «Hai capito, Leni? Forse posso tornare a sentire... e magari mi si alza pure da solo. Ti rendi conto di che bella notizia sia?» Gli baciò il nasino umido e lo strinse al petto.

 

 

           Ogni tanto si concedevano del tempo fuori casa con gli amici.
Sabato sera erano andati in centro città per bere una birra. Il fuoristrada di Karl era sempre più vecchio e sempre più lento, ma si sforzava ancora di camminare. Grazie a questo, raggiunsero un pub in centro, dove c'erano Achim e Bart ad aspettarli, mentre fumavano una sigaretta. Entrarono tutti insieme e ordinarono subito un paio di birre e per un po' fu come ai vecchi tempi. La musica alta, le risate, l'alcol e le foto stupide scattate col cellulare. Ad un certo punto, li raggiunse Robert.
Bas si irrigidì e lo salutò con un mezzo sorriso appena accennato, subito dopo abbassando lo sguardo. Rob cercò di fare come se niente fosse. Era raro che si facesse vedere ormai, anche perché la sua fidanzata aveva litigato a morte con Irem e con Achim, qualche mese prima. I rapporti si erano inevitabilmente incrinati. Quando però la radio del locale mise su un pezzo che aveva fatto da colonna sonora ad una delle loro avventure in tenda nei boschi, la tensione si sciolse. Cominciarono a cantare e a ridere come se non fosse mai successo nulla.
«Ho bevuto troppo, devo andare in bagno,» mormorò Bastian.
Si allontanò dopo aver adocchiato l'etichetta dei servizi igienici su una porta e passò tra i tavoli un po' troppo vicini tra loro del locale. Ormai aveva imparato a muoversi bene, però, era più sicuro di sé e così sgusciò bene tra una sedia e l'altra. Si fermò solo davanti ad un uomo con la testa rasata che, scostandosi dal proprio tavolino per appoggiare la caviglia al ginocchio e stare comodo, aveva ostruito il passaggio verso il bagno. Immediatamente dietro di lui, c'era il bancone con il barman.
«Scusa, potresti spostarti e lasciarmi passare? Devo usare il bagno.»
«Che cosa devi fare, tu?»
«Devi usare il bagno, è dietro di te. Spostati, per favore,» insistette Bastian.
Quello si mise sguaiatamente a ridere. «Fa' il giro del tavolo, che cazzo mi importa? E poi in quelle condizioni manco ti serve il bagno. Cos'è, non hai il pannolino?»
I suoi amici scoppiarono a ridere e Bas si zittì, umiliato. Non era da lui subire in silenzio e dopo un attimo di esitazione, il sergente maggiore che era ancora nascosto da qualche parte nel suo corpo, ruggì di rabbia.
«Senti un po' stronzo, sono finito su questa sedia lottando perché tu potessi dire queste puttanate in questo bar del cazzo, e questo perché ero un soldato e ho lottato per la democrazia, quindi ora muovi il culo e mi fai passare,» sbottò.
Il tizio rasato lo scrutò dalla testa ai piedi e si mise a ridere. «Un soldato? Tu?»
«Sissignore, veterano congedato con onore. Sono tornato vivo dai territori di guerra, non mi spavento di certo del primo pezzo di merda che trovo sul mio cammino.»
Karl osservò la scena per mezzo minuto, dal proprio tavolo. Quando intuì che qualcosa non andava, si alzò e li raggiunse.
«C'è qualche problema?»
«Ah, ecco, zoppo e pure finocchio,» apostrofò il tizio rasato.
Prima che potesse rendersene conto, Karl lo afferrò per la collottola e sbatté la sua testa contro al tavolo, direttamente in direzione del piatto. Il viso rasato del tizio si sporcò di maionese e salsa barbecue.
«Un'altra mezza parola e la prossima volta la tua faccia finisce contro coltello e forchetta,» ringhiò.
A quel punto, il barman chiamò la sicurezza, il tizio rasato ed i suoi amici furono invitati a lasciare in fretta il locale, cosa che fecero tra imprecazioni e colorite bestemmie.
Bas andò in bagno alla svelta, ma sentì subito il forte desiderio di tornare a casa. Tuttavia, era spaventato dal fatto che quel gruppo di teste rasate potesse aspettarli al parcheggio per farla pagare a lui e a Karl, quindi rimasero ancora un'ora al locale e quando furono pronti per andare, chiese ai suoi amici se potessero uscire con loro. Al parcheggio, per la verità, non c'era nessuno ad aspettarli, e quando salirono in macchina, Karl fece un lunghissimo giro per rientrare a casa, casomai qualcuno li stesse seguendo. Per fortuna però, nessuno diede loro fastidio per il resto della serata e nemmeno nei giorni a venire.

 

 

 

           Il dottor Voitg lo aveva visitato e aveva approvato l'intervento chirurgico per il prossimo mese. Nell'attesa, gli aveva proposto un'altra terapia per l'impotenza, che era stata un fallimento addirittura peggior del precedente. Bastian era svenuto entrambe le volte in cui aveva preso le pillole e così Karl aveva chiamato il dottore per avere dei chiarimenti.
«Fino all'intervento chirurgico, sospendiamo ogni terapia di questo tipo,» aveva risposto il dottore.
Bastian era di nuovo giù di morale. L'unica nota positiva erano gli amici che aveva incontrato al corso per programmatore, coi quali ogni tanto condivideva non solo il pranzo ma, adesso, occasionalmente, anche una birra il giovedì sera. Qualche volta Karl si univa a loro, altre volte no, perché era stanco o non aveva voglia, ma sempre – sempre – diceva di andare, anche da solo, perché sapeva che gli faceva bene quella compagnia.
Quel venerdì mattina, Bastian non si voleva alzare dal letto. Continuava a tossire insistentemente.
Karl sospirò e dopo averlo pregato mille volte, disse: «ti porto Leni,» e prelevò il coniglio dalla sua gabbia. Gli carezzò le orecchie, distratto. «Te lo porto, ma sia chiaro, tra un'ora ti chiamo e voglio sapere che sei in piedi, a fare colazione. Chiaro? Anche lui deve mangiare. Non dimenticartelo.» Sistemò l'animale al suo petto ed uscì di casa.
Era sfinito.
Esausto.
Non ce la faceva più.
Da qualche settimana, aveva iniziato a fare gli straordinari. Tutti gli impegni extra che poteva scegliere di prendere in caserma, li prendeva. Questo gli aveva portato un extra anche nella busta paga, che era esattamente quello che cercava, ma anche tanta stanchezza in più. Tornava a casa tardissimo, a volte dopo cena e a volte direttamente durante la notte. Era irritato dai capricci di Bastian, che lo rimproverava di non esserci mai, perché faceva tutto questo esclusivamente per lui, perché potessero permettersi una casa migliore. La tosse con cui lo aveva tenuto sveglio durante quelle poche ore di sonno che poteva concedersi lo preoccupava. Il medico di base era andato a casa a visitarlo e aveva detto che aveva un principio di bronchite e di conseguenza l'intervento chirurgico era stato rimandato. Bastian era stato devastato dalla notizia e Karl era veramente esausto, non sapeva più da dove attingere le risorse.
Quando lo chiamò al telefono, un'ora e mezza più tardi, fu contento di sapere che si era alzato. Gli credette perché sentì il sottofondo della televisione, che avevano solo nel salotto, dove Bas faceva colazione quando rimaneva da solo.
Durante la giornata lo chiamò un altro paio di volte per sincerarsi delle sue condizioni e quando la sera rincasò, portò con sé le buste di un fast-food americano, dal quale non ordinavano mai.
«Oddio, avevo proprio bisogno del cibo-spazzatura,» mormorò Bastian baciandolo.
Cominciarono a mangiare due ore in ritardo rispetto al solito, in silenzio, entrambi stanchi ma rinfrancanti dalla novità di quella cena.
«Grazie per la cena.»
«Volevo farmi perdonare. Sto tutto il tempo fuori casa, per ora.»
«So che lo fai per gli straordinari. E vedo quanto sei stanco,» mormorò Bas appoggiando la mano sulla sua. «Grazie.»
«Non devi ringraziarmi.»
«Karl... senti... io lo so che è dura stare con me e non è piacevole, adesso... ma ti prometto che torneremo a fare sesso.... non... non cercarlo altrove, ti supplico. Ti prometto che dopo l'operazione riuscirò di nuovo a farlo e le cose andranno meglio!»
Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi.
Karl lo guardò dapprima confuso, poi appoggiò una mano sulla sua guancia per costringerlo a voltarsi. «Non ho niente da cercare altrove. Quello che mi serve è tutto qui. A casa mia, casa nostra.»
«Ma tu hai bisogno di fare sesso e io... non posso dartelo...»
«Ho visto quanto ci hai provato. 'Stian, te l'ho promesso tanto tempo fa. Non ci sarà mai più nessun tradimento tra noi. Non ho nulla da cercare altrove. Ho qui tutto quello di cui ho bisogno.»
Bastian annuì e si sporse per baciarlo. Karl ricambiò affettuoso il bacio.
«Senti....» fece Bas. «Ho pensato che forse c'è una soluzione per... avere una casa migliore. E per tante altre cose.»
«E cioè?»
Esitò. Strinse le labbra e lo guardò negli occhi. «Sposiamoci.»
«Cosa?» rispose istintivamente Karl.
«Ascolta. Se ci sposassimo, avremmo diritto a richiedere un alloggio militare e dato che io ho una disabilità certificata, questo alloggio ci verrebbe dato in fretta. Avremmo una casa migliore, spendendo la stessa cifra o addirittura di meno. Per altro, se tu fossi mio marito, potresti starmi vicino durante l'operazione. E se qualcosa andasse male...»
«Niente andrà male. Non pensarci nemmeno, è un'operazione a basso rischio.»
«Il rischio c'è sempre, non prendiamoci in giro. Quindi... pensaci.»
Karl sospirò, passandosi una mano tra i capelli. «Ci penserò.»
Bastian, deluso, non riscontrò la reazione che sperava.

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Capitolo 40
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

Due anni più tardi


         «Adesso smettetela, voi due!» esclamò Bastian arrabbiato.
Zoppicò con le stampelle verso l'enorme gabbia che aveva comprato di seconda mano per i suoi due coniglietti. La teneva in salotto e occupava gran parte della parete accanto alla porta d'ingresso. Dentro c'erano un paio di ciotole e tanti piccoli giochi, ma Leni e Oskar tentavano sempre di evadere. Evidentemente, li aveva viziati troppo.
«Devo andare alla fisioterapia, non posso di starvi dietro adesso,» disse guardandoli.
Aprì lo sportello della gabbia e con fatica riprese i due coniglietti, il primo era una graziosa pallina bianca e marrone ed il secondo era una palletta color miele, e li rimise in gabbia.
«Dovete smetterla di mangiare i fili, altrimenti Karl si incazza con me, poi. Fate i bravi,» mormorò più dolcemente. Sospirò e si riposò un attimo, prima di afferrare le chiavi di casa ed uscire dalla porta.
Sul pianerottolo, incrociò subito lo sguardo del sergente Gisela Grahm, in divisa, coi capelli lunghi legati in una crocchia composta alla base della nuca.
«Oh, buongiorno,» la salutò con un sorriso.
«Entra in ascensore con me, Bastian?» mormorò lei, cordiale.
«Sì, grazie.»
Gisela tenne la porta aperta e lo lasciò passare per primo, poi richiuse le porte dell'ascensore. «Fa caldo oggi, vero?»
Bas annuì. «Sì, fa caldissimo,» rispose reggendosi sulle stampelle.
«Esce per fare una passeggiata?»
«No, mio marito mi aspetta fuori, oggi è di nuovo giorno di fisioterapia.»
«Ne ha ancora per molto?»
«Spero sinceramente di no,» mormorò con un sorriso.
Arrivati al piano terra, scesi di quattro livelli, Gisela uscì per prima e tenne le porte aperte per lasciarlo passare. Lui sorrise e la ringraziò.
Erano stati tutti gentili sin da subito, alla residenza, forse perché conoscevano la sua situazione, che poteva essere quella di tutti loro. Un veterano rimasto invalido. Bastian, poi, si faceva volere bene facilmente. Rideva spesso, era di buon umore, e aveva tanta energia e forza. Adesso che si era ripreso e le cose andavano meglio, era di nuovo lui. Divertente e goffo. Il solito Bastian.
Uscì fuori all'aria aperta. C'era il sole e la bandiera tedesca troneggiava sull'ingresso della residenza B. Karl lo aspettava appoggiato al solito fuoristrada.
«Non mi aiuti a scendere?» gli chiese, in cima ai gradini.
«Sì,» fece lui e si avvicinò per togliergli una stampella. «Scendi.»
«Hei! Sei crudele. Ridammela, non so scendere con una sola!»
«Lo so. Ora sbrigati, siamo in ritardo.»
Bastian scelse lentamente i gradini, reggendosi al corrimano, poi si infilò in macchina. Aveva un leggero fiatone. «Hai prenotato per stasera?»
«Sì. Sono tre settimane che mi ricordi che è il nostro secondo anniversario e che dobbiamo festeggiarlo.»
«È importante, scusa! Due anni fa non potevo neanche alzarmi in piedi. Guarda ora dove sono. E tutto grazie a te.» Appoggiò la mano sulla sua e lo guardò negli occhi. «Karl...?»
«Anch'io,» sussurrò Karl e lo baciò, velocemente ma teneramente. «Questo weekend dovremmo pulire un po' casa.»
«Non credevo che avremmo passato così tanto tempo a pulire,» fece Bas ridendo e mettendosi la cintura.
«Una casa più grande richiede più tempo da dedicare alla pulizia.» Karl mise in moto e partì. «Com'è andato il controllo di tua sorella? Che ha detto il ginecologo?»
«Che idiota, mi sono dimenticato di dirtelo! È una bambina.»
«Una bambina?» Sorrise. «Ho vinto io la scommessa.»
«Cavolo, è vero,» sbuffò Bas. «Mi raccomando, ricordami di chiedere le ferie al capo, lunedì mattina, altrimenti mi dimentico pure quello e rimaniamo a casa tutta l'estate.»
«Non ci provare nemmeno. Io le ho già prese. Dobbiamo andare a Brighton, quest'anno.»
«Assolutamente. Brighton ci aspetta e questa volta non mancheremo.»
Bastian accese la radio e appoggiò il gomito sul finestrino abbassato. Si mise a canticchiare, stonato com'era sempre stato, con la sua pessima pronuncia inglese, una canzone dopo l'altra. Aveva di nuovo i suoi soliti occhiali da sole sul naso ed era sereno, finalmente, dopo tanto penare.
«Sono sceso in ascensore con Grahm,» gli disse dopo un po'.
«Ah, Gisela. È una brava ragazza. Suo marito è uno psicologo, cura i soldati con disturbo da stress post-traumatico, lo sapevi?»
«Davvero?» mormorò sorpreso. «Non lo sapevo. Ecco perché...»
Karl lo guardò con la coda dell'occhio. «Mh?»
«Ogni volta che lo incontro mi riempie di domande,» rispose lui ridacchiando. «Mi ha anche detto, più volte, che per qualunque cosa, posso bussare alla loro porta. Io che pensavo che ci provasse!»
«Che idiota che sei. Vuoi cambiare stazione? Questa musica fa schifo.»
Bastian cambiò stazione. «Oh, questa è bella! Ah, dobbiamo andare a comprare il regalo per il compleanno di Irem, siamo invitati.»
«Siamo invitati ogni anno, 'Stian. Che le regaliamo? È una donna, non sappiamo cosa piace alle donne, per questo siamo froci.»
Rise, di nuovo. «Non so, ci inventeremo qualcosa. Chiederò ad Achim. Io non vedo l'ora che si sposino! Perché perdono tempo? Dovrebbero sposarsi.»
«Da quando siamo sposati, non fai altro che augurare il matrimonio a chiunque vedi in coppia, te ne sei reso conto?»
«Be', significa che il matrimonio mi ha reso felice, no? Soprattutto da quando posso di nuovo scopare come una persona normale.» Ad un semaforo rosso, si sporse verso di lui e lo baciò. «Anche se il nostro è stato un matrimonio molto semplice, con una cerimonia veloce e pochi invitati, per me è stato perfetto. C'erano i nostri migliori amici, la mia famiglia, e le nostre promesse sono state carine. Ricordo ancora la tua. “Per anni sei stato il mio compagno ideale, un gran rompipalle, ma affettuoso e attento, un amante leale e intraprendente e speciale.” Mi hai dato del rompipalle nella promessa di matrimonio. Cosa potevo chiedere di più bello?» rise.
Karl rise a sua volta. «Ho anche detto che ti amavo e che ero disposto a prendermi cura di te per tutta la vita. Cosa che ho fatto e che continuo a fare.»
«Vero.» Fece una pausa. «Dovrebbero sposarsi anche Robert e Franziska.»
«'Stian, si sono fidanzati tre mesi fa!»
«Ma lei è quella giusta! Ti ricordi che antipatica era quella di prima? Ci aveva fatti litigare. E anche Barthold e Beatrix sono molto carini insieme.. mi aspetto nipoti da tutti loro entro i prossimi cinque anni. Noi la nostra parte l'abbiamo fatta. Abbiamo due conigli.»
«Oh, certo, bambini e conigli sono la stessa cosa...»
«Più o meno!» esclamò.

 

 

             Karl sospirò e continuò a massaggiare delicatamente il suo braccio. «Va meglio? Avresti potuto chiamarmi, ti sarei venuto a prendere.»
«Non volevo disturbarti mentre lavoravi.»
«Hai tutto il viso gonfio, domani ti spunterà un grosso livido.»
«Penseranno tu mi abbia picchiato.»
«Non so se è la quarta o quinta volta che cadi durante la fisioterapia e ti riduci così,» borbottò tenendo un pacco di patate surgelate sul suo viso.
Bastian rimase sul divano a riposarsi, disteso, adesso poteva farlo, perché il divano nuovo era spazioso e molto comodo. «La quarta.»
«Hai fame?»
«No, sono solo stanco.»
«Vuoi che ti prepari una camomilla?»
«No. Vorrei andare a riposarmi, sono distrutto.»
«Ti accompagno.» Lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò a letto. Gli rimboccò le coperte. «Sicuro che non vuoi ti porti un tè con qualche biscotto o qualcosa da mangiare? Vuoi un panino?»
«No, ti ringrazio. Gioco un po' col telefono e mi riposo.»
«D'accordo. Mangio qualcosa, sistemo in salotto e torno. Leni e Oskar hanno mangiato?»
«Ah, no, e controlla se hanno l'acqua, per favore.»
«Sì, ci penso io.»
Karl tornò in camera un'ora più tardi, aveva cenato, aveva lavato i denti, pulito il bagno perché di giorno non aveva tempo per farlo, controllato i loro coniglietti, sistemato i cuscini del divano e lavato i piatti. Bastian dormiva profondamente dalla sua parte del letto, così dovette accontentarsi di cambiare lato. Si distese accanto a lui e gli circondò la vita con un braccio, stringendolo a sé. Gli baciò la fronte e si addormentò a sua volta, dopo averlo guardato dormire per un po'.
            Il mattino dopo, Bastian aveva un enorme livido sullo zigomo.
«Penseranno che ti ho menato... non uscire di casa per oggi,» disse Karl ridendo, durante la colazione.
«Devo andare a lavoro,» gli ricordò lui. «Oggi il mio capo ha un appuntamento con un grosso imprenditore che vorrebbe programmato un sistema di sicurezza per il suo database informatico. Pare che abbia clienti molto esigenti a cui sta davvero a cuore la privacy... chissà se finiamo indagati per qualche traffico illecito!»
«Speriamo di no! Ad ogni modo, notizie del risarcimento? Non mi hai più detto dell'appuntamento con Martin del sindacato.»
«Ah, sì, ho appuntamento con l'avvocato la settimana prossima.»
«Bene. Speriamo che riescano a farci avere quello che ti spetta,» mormorò. Si alzò e gli diede un bacio veloce. «Vado in caserma. Ci vediamo stasera.»
«Sì. ...Hei? Non fare tardi.»
«Te lo prometto.»
Karl uscì di casa, scese le scale a piedi e salì svelto in macchina del suo fuoristrada, che non si accese subito. Ormai, era un vecchio catorcio. Se l'avvocato del sindacato fosse riuscito a racimolare un po' di soldi dalla causa che avevano in corso contro la Bundeswehr, ne avrebbe usati una parte per comprare una nuova macchina e quel vecchio e malandato mezzo rossiccio sarebbe finalmente andato in pensione.
“Speriamo che Martin faccia il miracolo,” pensò quando finalmente riuscì a mettere in moto, non senza un sospiro.Partì. In caserma, come ogni giorno, avrebbe portato a termine il suo lavoro nel minor tempo possibile, per tornare presto a casa da Bastian, per prendersi cura di lui, come aveva sempre fatto, s
in da quando si erano conosciuti. Volare senza di lui non era la stessa cosa ed il suo nuovo co-pilota non era alla sua altezza. Karl Eisner sapeva che nessun altro pilota sarebbe mai più stato all'altezza del sergente maggiore Bastian Kluge, ma ormai aveva imparato una cosa: tutta la libertà del mondo, garantita dalle nuvole, non avrebbero mai riempito la sua vita nel modo in cui lo faceva suo marito. Non lo aveva più lasciato solo, non lo aveva mai più tradito e sapeva che non lo avrebbe mai più fatto.
Bastian viveva la sua vita giorno dopo giorno, un passo alla volta, letteralmente, e sebbene cercasse di non crearsi aspettative, alla fine i suoi progetti erano sempre esageratamente ambiziosi. Era felice di quello che aveva ottenuto in due anni. Una casa comoda, la compagnia di suo marito e di Leni ed Oskar, che proprio Karl gli aveva regalato, in momenti diversi, gli amici, la sua famiglia ed il lavoro. Che non era quello che aveva sempre desiderato. E anche se volare era la cosa che più gli mancava al mondo, in fin dei conti, credeva di potersi comunque ritenere felice.

 

 

FINE
Grazie per aver letto fino a questo punto!

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