Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Gonzaga
(campo di transito Dulag 152), 19 dicembre 1944
Hermann
sedeva sulla poltrona. Le gambe accavallate e il secondo bicchiere di vodka in
mano. Aveva già indossato la sua divisa da SS-Obersturmführer, intuendo che
qualcosa da lì a poco sarebbe accaduto. Il silenzio di quella notte propagava
nell’aria un triste presagio di morte che s’insinuava in tutto il suo essere.
Gli faceva paura il silenzio negli ultimi tempi poiché lo costringeva a fare i
conti con se stesso, a fare a pugni con l’uomo che era diventato: un debole a
causa di una donna, a causa di un’ebrea. E lei dormiva ancora, completamente
nuda, semicoperta dal lenzuolo bianco che esaltava il colore olivastro della
sua pelle e il colore nero dei suoi capelli. Dormiva beatamente, rannicchiata
su se stessa, nella sua acerba e strafottente bellezza che, per l’ennesima
notte, lo aveva sedotto e vinto. La odiava per lo stesso motivo per cui
l’amava. Tra le braccia di Sarah metteva a nudo la sua vulnerabilità,
ritrovandosi fragile nel suo bisogno di dipendere da un altro. Era un qualcosa
che lo tormentava ma che, allo stesso tempo, gli dava piacere e non poteva fare
a meno di ricercarlo ancora. Viveva ormai dimentico delle vere ragioni per le
quali si trovava a Fossoli, delle sue responsabilità, del suo grado, del suo
progetto di ascesa militare, dei suoi ideali di superiorità ariana, aspettando
un’altra notte per aggrovigliarsi nei fili di una passione malata e della sua
esistenza in subbuglio, per lasciarsi morire tra le pieghe di quelle lenzuola.
Sarah
allungò la mano, credendo di trovarlo ancora al suo fianco e si sdraiò,
emettendo un lieve gemito. Poi sedette e, stringendo forte al petto il
lenzuolo, lo fissò lungamente con espressione disfatta. Hermann aveva il potere
di farle toccare il cielo con un dito e, subito dopo, farla risprofondare nel
baratro della solitudine, tra le ombre dell’incertezza. Il legame che le
garantiva la sopravvivenza si era trasformato in un amore senza il quale non
poteva vivere. Lo amava pur sapendo che tutto ciò fosse sbagliato e
irrazionale, folle e immorale, non corrisposto e senza futuro e a
confermarglielo erano quegli occhi verdi che sembravano guardarla di nuovo con
disprezzo.
“Che
succede?” gli domandò con un fil di voce, scorgendo nel suo sguardo fiero e
sprezzante un velo di paura.
“Rivestiti,
che ho un brutto presentimento!” rispose Hermann, riprendendo quel suo tono
autoritario.
“L’ultima
volta che lo hai detto il campo è stato quasi distrutto[1]”,
fece Sarah atterrita mentre il tenente si alzò di scatto.
“Non
controbattere e sbrigati!” disse per poi dirigersi verso la piccola finestra.
Spostò
la tendina: attraverso i vetri bagnati dal freddo, tutto sembrava normale e
tranquillo, avvolto da un sottile velo bianco che gli richiamava alla mente
profumi e ricordi degli inverni in Germania, fino a quando l’eco di una
sparatoria[2]
non squarciò feroce il silenzio e frenò i suoi pensieri, ormai già approdati a
un passato tanto vicino per gli anni trascorsi quanto lontano per come li
percepiva. Vide le due sentinelle cadere uccise e la neve sotto i loro corpi
tingersi velocemente di sangue e i partigiani, un numero smisurato, correre
verso il campo di transito. Con respiro affannoso, caricò in fretta la pistola
e la ripose nella fondina sul fianco, voltandosi e rivolgendo lo sguardo a
Sarah che adesso era in piedi sull’uscio della porta, tremante di paura nel suo
cappotto di due taglie più grande. Anche lui aveva paura. Le andò incontro, con
la fulminea e tormentata decisione che, qualsiasi cosa fosse successa quella
notte, ne avrebbe fatta l’occasione giusta per metterla in salvo per salvare se
stesso. Facendola scappare dal campo avrebbe ritrovato se stesso, liberandosi
da ciò che in realtà amore non era. Era forse ossessione, evasione per
sopravvivere a quel latente senso di colpa per le crudeltà viste e inferte, un
diversivo alla solitudine di una realtà quotidiana stravolta da un incarico militare
diverso in una terra straniera, un gioco fomentato dall’inconscio fascino del
proibito, pensò.
E
fuori lo scenario si presentò apocalittico: i partigiani, furenti e armati fino
ai denti, avevano attaccato in contemporanea i tre presidi della Guardia
nazionale repubblicana, della Brigata nera e del campo di transito mentre i
fascisti, i tedeschi e i prigionieri correvano disorientati per quell’attacco
imprevisto e urlavano, chi per dare ordini, chi per paura, accompagnati
dall’incessante sottofondo di spari ed esplosioni. Sarah piangeva sommessamente
aggrappata al braccio di Hermann che si guardava attorno confuso tra il bisogno
di proteggerla e il desiderio di reagire all’attacco nemico. Le prese il viso
tra le mani e, con un bacio, le rubò l’ultima lacrima. Nessuno avrebbe fatto
caso a loro.
“Sarah,
ascoltami”, disse, costringendola a guardarlo negli occhi, “adesso dovrai
scappare.”
La
ragazza, stravolta da paura e tristezza, dissentì con il capo e abbassò lo
sguardo e, prima che Hermann potesse controbattere spazientito e arrabbiato, si
ritrovarono con tre mitra puntati contro. Il tenente rivolse un rapido sguardo
ai partigiani, che si guardarono tra di loro interdetti da quell’insolita
scena, per poi ritornare a Sarah.
“Quando
questa maledetta notte sarà finita”, riprese con tono più calmo e persuasivo,
“ci saranno ritorsioni contro i prigionieri e, se mi uccideranno, chi ti
proteggerà? Devi scappare, Sarah.”
“Insieme…
Scappiamo insieme… Lascia tutto e vieni via con me”, fece la ragazza concitatamente,
tenendosi forte alle sue braccia.
“Non
capisci?” continuò, scuotendola un po’. “Io non posso tradire la mia patria, la
divisa che indosso, gli ideali di una vita intera.”
“Ed
io cosa sono stata per te?” A questa domanda, seria e rotta da deboli
singhiozzi, rimase per la prima volta senza una risposta pronta e Sarah diede
al silenzio un’interpretazione che la illudesse ancora.
Una
forte esplosione li riportò alla realtà e ricordò loro la minacciosa presenza
dei tre partigiani. Uno di loro si avvicinò di più a Hermann e con il mitra gli
premette forte sulla mostrina da colletto fino a farlo inginocchiare dolorante.
Alzò
le braccia in segno di resa mentre Sarah iniziò a urlare disperata, supplicando
i partigiani: “No, vi prego! Non fategli del male, mi ha salvato la vita!”
In
un simile frangente, il tenente avrebbe reagito tirando fuori la sua pistola e,
invece, restò immobile per proteggerla da un ulteriore pericolo e, in quella
posizione di sottomissione, capì di amarla veramente.
“è una prigioniera, portatela via!”
urlò.
L’amava
e adesso era disposto a lasciarla andare non per riprendere in mano la propria
vita ma per salvarla a lei. Poi un colpo alla nuca con il calcio del mitra e
tutto divenne buio. Per il forte shock, Sarah non proferì né un urlo né parola
alcuna e tutt’attorno i suoni e i rumori cominciarono a giungere alle sue
orecchie attutiti e ovattati. Tremante, sudata e ansimante, mentre la vista
perdeva nitidezza, permise a due mani di afferrarla con forza fino a condurla di
corsa fuori dal campo verso un’amara salvezza.
“Notte scura,
notte senza la sera,
notte impotente,
notte guerriera.
Per altre vie,
con le mani le mie
cerco le tue,
cerco noi due.”
Pierangelo
Bertoli & Tazenda, Spunta la luna dal monte
[1]In riferimento
al campo di Fossoli trasferito a Gonzaga in seguito ai bombardamenti.
[2]In riferimento
alla battaglia sostenuta dai partigiani modenesi e reggiani nella notte tra il
19 e il 20 dicembre 1944.
Capitolo 2 *** Tristemente prescelta, felicemente amata ***
Capitolo
2
Tristemente
prescelta, felicemente amata
“Ciò che ero
solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo:
lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità.
È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo
tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In
me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò,
se posso; se no, t’amerò contro voglia».”
Francesco
Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Napoli,
maggio 1946
Ogni
mattina alla stessa ora, quando il sole iniziava a regalare il suo calore e
l’asta del pesce era ormai conclusa, Matteo alzava gli occhi dalla rete che
stava riparando e lei era lì, appoggiata alla ringhiera della banchina, con lo
sguardo fisso verso il mare, avvolta da un alone di misteriosa e intrigante
malinconia. Forse era il suo rituale prima di andare al lavoro, dato che
indossava una divisa da cameriera. La camicetta bianca esaltava il colore nero
dei suoi lunghi capelli e la gonna nera a campana si adattava perfettamente
alle forme del suo corpo. L’eleganza nel portamento donava agli abiti che
indossava particolare classe e dignità. Un forte scappellotto lo riportò alla
realtà.
“Mattiuccio,
acàla ’a capa e fatìca!”[1]
lo rimproverò il compare e Matteo accennò un sorriso per nascondere il suo
imbarazzo.
Anche
la ragazza, guardando quella scena, sorrise per poi andare via in fretta.
“Faresti
meglio a togliertela dalla testa, la romana non è pane per i tuoi denti”,
continuò il compare con tono canzonatorio. “è
una tipa un po’ altezzosa che sta sempre sulle sue, lavora al Gran Cafè.”
“Compàr,
site addiventato ’nu carabinièr?”[2]
lo interruppe Matteo e il discorso si concluse con una risata collettiva.
Il
giorno dopo, Matteo era seduto a uno dei tavolini del Gran Cafè.
Sarah
raggiunse in gran fretta il Gran Cafè, un bar poco lontano dalla banchina e a
due passi dalla spiaggia, velocemente legò i capelli in uno chignon e indossò
il grembiule bianco. Sempre carina e sorridente, lavorava con grande
professionalità; educata e precisa, a volte assumeva un’espressione così seria
da farla sembrare quasi presuntuosa. Tirò fuori il blocchetto dalla tasca della
gonna e iniziò a prendere le ordinazioni ai tavolini all’aperto. Lavorava sodo
per costruirsi una nuova vita in quella provata ma ridente città della
provincia di Napoli, per mandar via i pensieri tristi e dimenticare gli anni
della guerra, per dimenticare la sua prigionia a Fossoli. Di Hermann non le
restava altro che il rumore atroce di un colpo alla testa e la mera speranza in
una sua fortuita sopravvivenza. In fondo, era a lui che doveva la propria vita.
Dopo
la battaglia partigiana di Gonzaga, Sarah era stata accolta da una famiglia
modenese e aveva vissuto nascosta nel buio del loro seminterrato insieme a una
bambina ebrea di cinque anni che divenne la sua ragione di vita in quegli
interminabili mesi; finita la guerra, aveva fatto ritorno a Roma ma lì il
dolore per l’assenza dei suoi cari era troppo opprimente e insieme ad Hannah,
una sua vicina di casa e amica d’infanzia, anche lei sopravvissuta ai campi di
concentramento e sola, decise di partire alla volta della terra del sole e del
mare, dei pescatori e dei naviganti, dove un vecchio conoscente di suo padre
aveva offerto loro lavoro e ospitalità. E in quella terra di persone semplici e
cordiali, benedetta da Dio con ogni bellezza che la guerra non aveva potuto
deturpare, il suo cuore trovava un po’ di pace.
Il
Gran Cafè cominciò ad affollarsi, avvolto dai raggi del sole che ne penetravano
le tende, mentre la radio trasmetteva una canzone dal ritmo dolce e malinconico
e, sebbene lei non conoscesse la lingua napoletana, riuscì a capire che parlava
di maggio, di amore, di un addio e di un ritorno[3].
Dal palazzo di fronte vide una donna stendere energicamente un lenzuolo bianco
e un ricordo, né felice né triste, si fece strada tra i suoi pensieri.
Campo di Fossoli,
maggio 1944
Affacciata
alla finestra della stanza di Hermann, Sarah osservava i bambini giocare
all’acchiapparella rincorrendosi attorno alle loro mamme frettolosamente intente
a lavare e stendere il bucato. Anche il sole si divertiva rincorrendo con i
propri raggi i passi svelti dei bimbi che ridevano più forte e arrossendo i
volti distesi, quasi contenti delle donne inconsapevoli del loro tragico
destino. Sarah sapeva. Sapeva della tragica destinazione dei convogli ferroviari
verso Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück. Sapeva che a quelle donne,
che si affaccendavano per l’imminente partenza, il bucato sarebbe stato tolto e
che quei bambini probabilmente non avrebbero visto un’altra primavera. Destino che
a lei era stato risparmiato. Lacrime di gratitudine e di senso di colpa si
mescolarono sulle sue guance mentre un abbraccio l’avvolse da dietro.
“Non
permetterò a nessuno di portarti via da me. Tu sei mia.”
Il ricordo della voce decisa e suadente
di Hermann, sussurrata al suo orecchio, le attraversò con un brivido lungo
tutta la schiena e si sorprese nel ritrovarsi desiderosa di sentirsi ancora al
sicuro, protetta come in quella mattina assolata di metà maggio a Fossoli.
Tristemente prescelta, felicemente amata. Ritornò subito in sé e, distolto lo
sguardo dal balcone di fronte, continuò il giro per i tavolini.
Matteo arrotolò le maniche della
camicia, impacciato in una tenuta per lui troppo elegante, preoccupato per la
persistente ed inevitabile puzza di pesce che la quantità eccessiva di profumo
non aveva di sicuro debellato. Ai suoi occhi, che non avevano smesso di
fissarla, la misteriosa ragazza era sembrata allontanarsi verso un altro
pianeta in un rapido viaggio che le aveva portato via il sorriso. Quando fu
vicina al suo tavolino, le parole gli si impastarono in bocca come mai gli era
capitato prima. Non aveva mai visto creatura più perfetta.
Sarah riconobbe subito nel volto di quel
giovane uno dei pescatori che intravedeva ogni mattina alla banchina. I capelli
scuri e ricci, scarmigliati gli coprivano in parte il viso un po’ stanco,
precocemente segnato dal sole e dalla salsedine mentre gli occhi marroni si
sgranavano in un’espressione di irrequieto stupore. Il giovane pescatore era lì
per lei, intuì, già pronta a mettersi sulla difensiva.
“Che cosa desiderate, signore?” gli
chiese in tono altero, corrugando la fronte e suscitando imbarazzo in Matteo.
“Un caffè espresso, grazie”, biascicò,
mentre in cuor suo avrebbe voluto dirle altro, chiedere il suo nome, conoscerla
di più e lo fece.
“Posso conoscere il vostro nome?”
domandò con cuore a mille e, intanto, la canzone d’amore lasciò il posto a
un’altra che assomigliava più al chiasso delle voci dei venditori ambulanti[4].
Sarah sospirò, alzando gli occhi al
cielo in un’espressione infastidita, ma dovette rispondergli per non apparire
scortese nei confronti di un cliente.
“Sarah”, disse, addolcendo il tono della
voce.
“Complimenti, è un nome bellissimo,
molto elegante.” La risposta del giovane piena di ammirazione le riportò alla
mente un altro ricordo.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Sull’attenti
e tremante di paura, Sarah non osava alzare lo sguardo, limitandosi a guardare
del tenente solo gli stivaloni neri. Iniziò a girarle lentamente attorno e a
parlarle con voce bassa e autoritaria.
“Da
questo momento sei al mio servizio, ti occuperai solo di me. Tutti i giorni
dovrai tirare a lucido la stanza e il bagno, lavare e stirare le mie uniformi,
soddisfare ogni mia necessità.”
Sarah
era sempre più confusa e impaurita mentre una scia di profumo di ambra e
muschio le penetrava nelle narici.
“In
cambio sarai risparmiata al trasferimento, avrai doppia razione di cibo al
giorno e, se farai la brava, ti porterò io qualcosa dalle cucine degli
ufficiali”, concluse con tono beffardo per poi afferrarla per il mento,
costringendola a sollevare il capo.
Sarah
s’imbatté in due occhi verdi privi di un’espressione decifrabile: erano belli e
feroci, ghiacciai che sembravano sciogliersi pian piano.
“Qual
è il tuo nome?” le domandò severo e sprezzante.
“Sarah”,
rispose con un fil di voce, incespicando nelle lettere.
“è un bel nome, quasi reale”, fece il
tenente, lasciandosi rabbonire nel tono e nello sguardo.
“Il caffè arriverà fra un attimo!”
esclamò Sarah il cui sorriso tirato, forzato deluse Matteo.
E il caffè arrivò subito ma a
portarglielo non fu Sarah.
“Potrei avere carta e penna gentilmente?”
chiese alla cameriera con un nodo alla gola.
“Perché
indimenticabile ancora sei per me
anche
se i giorni passano più duri senza te.
Tutte
le cose che farò avranno dentro un po’ di te
perché
lo so dovunque andrai in ogni istante resterai
“T’amo e non
t’amo come se avessi nelle mie mani le chiavi della gioia e un incerto destino
sventurato. Il mio amore ha due vite per amarti. Per questo t’amo quando non
t’amo e per questo t’amo quando t’amo.”
Pablo Neruda,
Sonetto XLIV
Immagine dal film “Schindler’s List”
Il
ricordo del primo incontro con Hermann, come un vortice, attanagliò lo stomaco
di Sarah che si precipitò nel bar, intenta a farsi sostituire. Il giovane
pescatore, senza volerlo, aveva fatto riemergere in lei molteplici sentimenti:
il dolore e la malinconia, il senso di colpa e la vergogna di un amore malato,
la paura e la repulsione di essere ancora desiderata.
“Hannah,
scusami, potresti sostituirmi ai tavolini fuori? Credo di non sentirmi molto
bene e ho bisogno di andare al bagno”, chiese alla sua collega e amica.
“Certo!
Ma vuoi che ti accompagni? Non hai una bella cera”, fece Hannah con
apprensione, notando il suo improvviso pallore.
“No,
non preoccuparti, vado da sola”, rispose per poi correre in bagno e, piegatasi
sul lavandino, vomitò.
Vomitò
con forza come per liberare le proprie viscere dal ricordo di Hermann, della
sua voce calda e autoritaria in un italiano stentato, del suo profumo intenso e
avvolgente, dei suoi occhi insondabili come l’oceano, delle sue mani che
l’avevano salvata facendole del male.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Tenendola per il mento,
il tenente iniziò a muoverle il viso da un lato all’altro, squadrandola con
seria attenzione.
“Quanti anni hai?” le
domandò, mantenendo un tono di sufficienza mentre Sarah cercava di tenere lo
sguardo fisso su un punto che non fosse il verde dei suoi occhi glaciali.
“Venti”, rispose con
voce fioca e rotta dalla paura.
Poi le passò il pollice
sulle labbra, socchiudendogliele leggermente e facendole ingoiare l’odore forte
del guanto in pelle. Il respiro di Sarah divenne più affannoso.
“Puoi sederti”, le
disse con improvvisa e sospetta gentilezza, indicandole il letto.
Si tolse il cappello, i
guanti, la giacca e, allentando il colletto della camicia, proseguì risoluto: “Con
quanti uomini sei stata?”
Sarah trasalì di
vergogna e paura e capì le vere intenzioni del tenente.
“Nessuno”, balbettò,
domandandosi come avrebbe potuto salvarsi da quel pericolo.
Il tenente emise un
ghigno sarcastico.
“Voi stupide ebree
italiane, che giocate a fare le puritane, siete le peggiori di tutte”, disse,
versandosi un bicchiere di vodka.
Sarah si alzò di
scatto, mossa da un coraggio che non credeva di avere in un simile frangente.
Soffrire la fame, il freddo, abbandonarsi all’incertezza di una nuova
destinazione, forse in un campo di lavoro forzato in Germania, sarebbe stato
meglio che perdere se stessa.
“Io rinuncio a
qualsiasi trattamento di favore”, esordì impaurita ma, allo stesso tempo, con
tono deciso mentre l’espressione del tenente divenne ancor più dura,
accendendosi di rabbia.
Di certo non si
aspettava una reazione del genere e, con uno schiaffo fortissimo, la scaraventò
a terra.
“Come osi sputare nel
piatto che ti offro da mangiare?!” le urlò contro, incespicando nel suo
italiano.
Sarah rimase immobile,
pietrificata dal dolore e dalla paura a guardare, attraverso il velo di
lacrime, le gocce di sangue dal naso cadere sul pavimento.
“Sarah!
Sarah! Stai bene?!” fece Hannah preoccupata, picchiando forte alla porta del
bagno.
Quella
voce amica la riportò alla realtà presente.
“Sì!”
rispose stordita, sciacquandosi vigorosamente la bocca. “Un attimo, Hannah!”
Aperta
la porta, Sarah si ritrovò addosso due occhi sgranati di apprensione.
“Il
signor Gennaro dice che puoi tornare a casa, se non ti senti bene”, le disse
Hannah, scrutandola impensierita.
“Sì,
credo proprio che tornerò a casa”, ribatté Sarah con un sospiro, portando le
mani sulla fronte e poi fra i capelli, nel tentativo di sistemare dietro alle
orecchie i ciuffi sfuggiti dallo chignon.
“Ah!
Quasi dimenticavo.” Hannah frugò nella tasca della gonna, tirando fuori e
porgendole un biglietto. “Ho trovato questo per te.”
Sarah
prese il biglietto e, a sua volta, lo conservò in tasca, senza neanche
chiedersi di cosa si trattasse.
“Grazie”,
rispose in tono quasi assente.
Tornata
a casa, Sarah si sfilò le scarpe e, con la schiena appoggiata alla parete del
corridoio, si lasciò scivolare a terra. Sciolse lo chignon scompigliato e, con
entrambe le mani, massaggiò la testa appesantita, incapace di aggrapparsi a un
pensiero che non fosse Hermann. Per quanto si sforzasse di mandarlo via, lui
restava lì, tra le pieghe del suo cuore, in ogni angolo del suo corpo, fino a
raggiungere le profondità del suo essere, diviso tra angoscia e nostalgia.
Amava ancora il suo carnefice e questa era l’assurda e vergognosa verità che da
due anni cercava di nascondere a se stessa. Lo amava fra il tormento dei sensi
di colpa e del suo sentirsi sporca, fra il dolore per le ferite da lui inferte
e il rimpianto di ciò che erano diventati assieme. Mise la mano nella tasca
della gonna in cerca del biglietto, in cerca di un diversivo ai suoi pensieri
e, apertolo, lesse le poche parole di una scrittura imprecisa e piena di errori
ortografici.
«Per
Sarah. Perdonatemi se vi ho mancato di rispetto. Da Matteo.»
Accartocciò
il biglietto e, con uno sbuffo, lo gettò, lanciandolo lontano sul pavimento.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Afferrandola per il
braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal pavimento.
“Tu farai quello che
voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio fino a quasi imprimere le
dita nelle sue ossa.
Sarah sapeva benissimo
di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro tanta violenta forza ma
era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la sua integrità. Tra
lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il tenente l’afferrò da
dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le mancò il respiro e
credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla ricerca smaniosa delle
sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per zittirne le flebili urla. Poi
il tenente le strappò di dosso il vestito, graffiandole la pelle, lacerandole
l’anima e, come se pesasse poco più di una piuma, la gettò sul letto,
schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò ancora di resistergli
scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette arrendersi dopo due forti
schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore accresceva, chiuse gli occhi per
evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le orecchie per non sentire i suoi
spasimi di piacere. Tra le sue mani era come una bambolina di pezza da girare e
rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a quando non fu stanco di giocarci.
Strisciando
sul pavimento, Sarah raccolse il biglietto e, stiratolo, lo lesse di nuovo. Si
sentiva sola ma, nonostante fosse una pazzia, non riusciva a immaginarsi
accanto a un uomo che non fosse il suo Hermann.
Matteo
distolse lo sguardo dalla rete che stava riparando per rivolgerlo alla
ringhiera della banchina ma, questa volta, Sarah non era lì.
“T’avev
ritt je”[1],
gli disse il compare con tono canzonatorio, calpestando il suo dispiacere.
“Ci innamoriamo
ancora una volta e di nuovo si apre la spirale del cuore e dentro corrono
melodie, risate, fiori e ali, e il mondo è come una festa e al centro c’è solo
il nostro danzare.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal web
Napoli,
giugno 1946
Per
Sarah i giorni passavano tutti uguali, nella monotonia di un lavoro diventato
ripetitivo e senza grandi aspettative, nella solitudine alleviata soltanto da
una vuota chiacchierata con la sua amica Hannah prima di andare a dormire, nel
combattimento interiore per ricacciare la nostalgia dei momenti tristemente
felici che furono con il suo Hermann. In questo tumulto di ricordi, aveva perso
il sorriso e la gioia di vivere, limitandosi a sopravvivere e negando a se
stessa anche le più piccole gioie quotidiane, come contemplare il mare al
mattino. Aveva paura di incontrare di nuovo il giovane pescatore poiché,
inspiegabilmente, già il solo pensiero di lui le rimandava alla mente il lato
peggiore di Hermann. A volte si sentiva osservata, pedinata e sapeva che era
Matteo che aspettava il momento opportuno per avvicinarla, conoscerla e,
intanto, lei si preparava a chiudergli il cuore.
Finito
il lavoro, Sarah si lasciò abbagliare dai colori rosso e arancio del tramonto e
un’inaspettata sensazione di pace le attraversò il cuore, spingendola verso il
luccichio dorato del mare. Si tolse le scarpe e la sabbia, ancora riscaldata
dal sole della giornata, le fece raggiungere in fretta il bagnasciuga. Regalò a
se stessa un lieve sorriso e iniziò a camminare verso il lato opposto alla
banchina, con l’acqua, non troppo fredda, che le arrivava alle caviglie e le
bagnava l’orlo della gonna. Era da tempo che non si sentiva così bene. Aveva
superato di qualche passo il Miranapoli, un raffinato albergo a picco sul mare,
quando iniziò ad avvertire di nuovo quella sgradevole sensazione di essere
seguita e si volse, ritrovandosi di fronte il giovane pescatore, a piedi
scalzi, coni pantaloni color marrone arrotolati al ginocchio,
la camicia bianca, larga, un po’ sbottonata alzata fino al gomito, i capelli
più scarmigliati e gli occhi sempre sgranati in un’espressione di stupore.
“Quando
smetterete di seguirmi?” gli domandò infastidita, quasi sprezzante per poi
riprendere il suo cammino.
“Quando
smetterete di fuggire da me?” ribatté Matteo con voce pacata, restando al
proprio posto.
Di
sottofondo le urla in dialetto delle mamme contro i loro figli che non volevano
saperne di uscire dall’acqua.
Sarah
si volse di nuovo e, con tono quasi di sfida, portando le mani ai fianchi,
disse: “Che cosa volete, sentiamo?”
Matteo
amò quel suo ostentato atteggiamento da smorfiosetta e desiderò sfiorarle le
labbra, inarcate in un sorrisetto derisorio. Sapeva che qualcosa di speciale,
di diverso si nascondeva dietro il suo modo di fare, di parlare e, al solo
pensiero, ne era affascinato.
“Vorrei
soltanto parlarvi… Dirvi quanto siete bella”, le rispose palpitante di emozione
ma Sarah alzò annoiata gli occhi al cielo che, intanto, iniziava a imbrunire.
“Chiedervi
di incontrarci per un gelato o quello che volete”, concluse Matteo mentre
Sarah, con espressione seriosa, infilò le scarpe.
“Non
ho tempo per queste cose”, disse, lasciandolo nella delusione di una speranza
malamente troncata.
Corse
verso la strada con il peso del suo cuore accartocciato, indurito, spaventato,
incapace di riaprirsi e accogliere il bene di un altro e con gli occhi
inumiditi di tristezza e rimpianto per aver mostrato al giovane pescatore ciò
che in realtà lei non era.
Si
avvicinava la festa del Santo Patrono e la città era tutta in fermento. Di
sera, la Cattedrale si gremiva e dai vicoli addobbati con fiori, luminarie e
lenzuola alle finestre riecheggiava sempre il suono di tamburelli, chitarre e
mandolini. Sul lungomare erano state allestite le giostre e le bancarelle di
dolciumi e giocattoli e dappertutto si respirava un’aria di fremente gioia per
la prima festa patronale dopo la fine della guerra. Una gioia che aveva il
profumo di libertà, di nuove speranze e voglia di ricominciare e che tentava in
ogni modo di contagiare Sarah. Il suo viso iniziò a distendersi in
un’espressione più serena mentre Hermann tornava a essere un ricordo lontano.
Matteo aveva smesso di seguirla e, se guardava nelle profondità di se stessa,
si sorprendeva a sentirne la mancanza.
Uscita
dal Gran Cafè, insieme alla sua amica Hannah, Sarah fu travolta dalla musica di
tamburelli, fisarmoniche e triccheballacche. Sulla spiaggia, un gran numero di
persone avevano improvvisato una danza a ritmo di pizzica-tarantella, scandita da
una voce che cantava in dialetto antico.
Due
ragazzine, ridendo a squarciagola, le sfrecciarono davanti dirette verso la
spiaggia mentre Hannah, afferrandola per un polso, esclamò entusiasta: “Andiamo
anche noi!”
“No,
Hannah, io sono un po’ stanca. Voglio tornare a casa”, fece Sarah con tono
annoiato.
“Dai,
Sarah, non fare la guastafeste, andiamo!” insisté Hannah, strattonandola un po’
e Sarah si lasciò convincere dalla sua espressione quasi supplichevole.
“E
va bene”, disse con un sorriso di resa.
Correndo,
raggiunsero l’allegra compagnia e iniziarono a ballare l’una di fronte
all’altra. Il ritmo di quella danza ricordava tanto il saltarello romano e la
mente di Sarah andò alle sagre di quartiere e alle feste di paese, a quando la
presenza della sua famiglia era un qualcosa di scontato e la solitudine neanche
un pensiero lontano. Ma non permise alla malinconia d’insinuarsi ancora nel suo
cuore e decise di essere felice, almeno per quella sera.
Seduto
sulla sabbia, insieme ai suoi amici, Matteo la vide e fu subito un colpo al
cuore che spazzò via ogni traccia di orgoglio. Stralunato, la guardava muoversi
in una danza di capelli che fluttuavano come alghe del mare, danza di sguardi e
di sorrisi che scintillavano ai raggi della luna, di guance arrossate dal
calore dei fuochi accesi sulla spiaggia, danza di forme che sussultavano a ogni
salto e giravolta che ne scopriva le ginocchia. Incurante di un altro possibile
rifiuto, si alzò e, come ipnotizzato dal suono dei tamburelli e dal ritmo delle
sue movenze, si diresse verso di lei. Si antepose alla sua amica che subito
capì e indietreggiò, scomparendo tra la folla danzante.
Sarah
si ritrovò davanti il giovane pescatore. Si sorprese ma non ebbe paura, non
spense il suo sorriso, non rattristì il suo sguardo e continuò la sua danza
insieme a lui. Un filo di barba su un viso già abbronzato, i capelli più ricci
che cadevano sulla fronte imperlata di sudore, un’espressione vispa in due
occhi color marrone come la terra in cui disperdere la sua tristezza e le mani
protese verso di lei pronte ad accogliere le sue. Sarah lo vide bello in
quell’aspetto un po’ rude e trasandato e, mentre il ritmo dei tamburelli diventava
più incalzante, sentì un qualcosa mai provato prima, come un formicolio nello
stomaco, la mente svuotarsi da ogni pensiero e ricordo di Hermann e il cuore
battere più forte, fortissimo, fino ad abbattere il muro che impediva a Matteo
di entrare. Gli permise di stringere le sue mani e ballarono insieme. Gli
sguardi allegri e complici, i sorrisi più larghi, le mani intrecciate fra un
saltello e una giravolta, entrambi ebbero la sensazione di ritrovarsi da soli,
sotto un cielo stellato, davanti a un mare immenso, illuminati dalla luce dei
falò. Finita la musica, Sarah corse verso la riva del mare, ridendo, felice
come non mai, libera, viva, con la speranza che Matteo la inseguisse e così fu.
Si fermò sulla sabbia bagnata e si volse indietro: il giovane teneva le mani
poggiate sulle ginocchia e, piegato in due, tentava di regolare il respiro.
“Allora?”
le domandò sorridente e ansimante. “Posso offrirvi un gelato?”
“No”,
rispose con il fiato corto, ostentando un’espressione seriosa e suscitandogli
l’ennesima delusione.
“Zucchero
filato!” esordì divertita, con la spensieratezza dei suoi vent’anni ritrovati e
Matteo rise in un profondo sospiro di liberazione.
“Si turnata, si
turnata
e je me so’
perze ancora
dint’ ’e capille
tuoje,
je t’apparteng
ohiné.
Te voglio bene,
je penz assaje
cchiù ’e te
e te staje zitt
ohiné.”
Alunni del sole,
Tarantè
***
Campo
di concentramento di Sachsenhausen (Lager sovietico speciale n. 7), 9 giugno
1946
Prigioniero
in uno dei campi che fino a pochi anni prima aspirava a comandare, Hermann era
legato a una sedia in una stanza buia, tremante e sudando freddo. Smagrito e
rasato, con il viso tumefatto da sangue e lacrime, qualche osso fratturato e
cicatrice da ustione, e un solo pensiero che lo teneva ancora in vita: Sarah.
Uno dei due soldati russi lo slegò dalla sedia, facendolo cadere esausto sul
pavimento e gli assestò un calcio nello stomaco. Hermann si rannicchiò in
posizione fetale e il russo lo finì con uno sputo in faccia.
“Sporco
nazista!” esclamò disgustato.
Delirante
per le torture, le percosse, la fame, la sete e le violenze psicologiche,
Hermann guardò la sua mano violacea aggrapparsi al pavimento sudicio e di colpo
si ritrovò tra le lenzuola bianche del
suo letto a Fossoli, con le dita che viaggiavano lungo la schiena nuda di Sarah
fino ad affondare nei suoi lunghi capelli. Intanto, dalla camera di un fascista
giunsero le note della canzone “Lili Marleen” e lui iniziò a canticchiarla
ripetendone le parole nel suo italiano stentato. Sarah si volse, sorridendogli
con aria dolce e assonnata e il soldato russo lo zittì con un altro calcio.
Capitolo 5 *** Palpiti di vita e sussurri dal cuore ***
Capitolo
5
Palpiti
di vita e sussurri dal cuore
“La memoria è
necessaria, dobbiamo ricordare perché le cose che si dimenticano possono
ritornare: è il testamento che ci ha lasciato Primo Levi.”
Mario Rigoni
Stern
Immagine dal web
La
luna, adagiata su un angolo di cielo stellato, si specchiava nel mare scuro e
calmo della sera mentre, dal Vesuvio, le luci scintillavano sull’acqua una
festosa moltitudine di colori. In lontananza, la musica dei tamburelli e il
fragore delle voci allegre tentavano invano di elevarsi al suono dolce delle
onde che timidamente s’infrangevano sulla riva, spruzzando gocce salate in viso
e nello zucchero filato. La brezza infreddolì la pelle sudata di Sarah che,
improvvisamente impacciata, non sapeva cosa dire e si limitava a sorridergli,
impiastricciandosi le dita e la bocca della dolce nuvola bianca. Un profondo
sussulto di vita le attraversò il corpo, mentre il cuore le batteva forte di
felicità, guardando il luccichio in quegli occhi scuri, grandi, rassicuranti
spalancati su di lei. D’altra parte, anche Matteo restava in silenzio per non
rovinare la magia di quel momento e, continuando a mangiare lentamente lo
zucchero filato, si saziava dei suoi sguardi e dei suoi sorrisi complici che
gli lasciavano immaginare un futuro insieme. Ma la magia svanì presto. Un
improvviso lampo di tristezza apparve negli occhi di Sarah, color marrone
chiaro come guscio di castagna matura e, di nuovo, sembrò isolarsi dalla realtà
per raggiungere un altro pianeta. Era il pensiero e il ricordo di Hermann, il
richiamo della sua voce e il desiderio delle sue braccia che irrompeva in lei
con un tonfo alla bocca dello stomaco, una morsa stringente al cuore, un nodo
alla gola e brividi di freddo che bruciavano alla schiena. Si alzò lentamente
con aria sconvolta.
“Devo
andare. Si è fatto tardi”, disse, suscitandogli meraviglia e dispiacere.
“Ci
rivedremo?” ribatté Matteo con voce quasi supplichevole mentre Sarah gli
rivolse uno sguardo impassibile.
“Non
lo so”, lo freddò per poi scappare via.
Correva
Sarah, tra i colori e i profumi di una città in festa, sfiorando l’allegria di
persone danzanti e dimentiche di un difficile passato non troppo lontano.
Correva con aria persa e stravolta, verso una notte insonne, di testa nascosta
sotto il lenzuolo e lacrime silenziose sul cuscino, di ginocchia strette al
petto, tormentato e oppresso da un groviglio di sentimenti. Si sentiva sola ma
non aveva permesso al giovane pescatore di varcare la soglia della sua
solitudine. Provava nostalgia per Hermann e, allo stesso tempo, ne aveva
repulsione mentre di Matteo temeva e desiderava un nuovo incontro. Si sentiva
in colpa per come lo aveva trattato e aveva paura che lui iniziasse a
detestarla. Strinse i denti di rabbia contro se stessa e contro Hermann che,
seppur assente, continuava a manovrare la sua esistenza, impedendole di vivere.
Il
giorno seguente ricorreva la festa del Santo Patrono e, questa volta, fu lei a
cercare Matteo tra le migliaia di persone devotamente in processione, spinta
dal bisogno di fare chiarezza nelle proprie emozioni. Affiancata dalla sua
amica, Sarah camminava decisa nel suo voler mettere alla prova il proprio cuore
per sentirne la reazione e capire se, rivedendolo, avrebbe provato di nuovo quel
palpito di vita capace di sobbalzare via il ricordo di Hermann.
“Chi
stai cercando, Sarah? Il tuo bel pescatore?” proruppe Hannah con tono vagamente
ironico, notando i suoi continui tentativi di scorgerlo tra la folla,
sollevandosi sulle punte e alzando il collo.
“Ti
prego, Hannah, sta’ zitta”, rispose Sarah in mezzo ai denti,infastidita.
“Sei
davvero antipatica”, concluse Hannah ed entrambe torsero il naso in una
medesima espressione di ostentato sdegno.
E,
intanto, la statua del Santo proseguiva lenta, ondeggiando solennemente sulle
spalle dei portantini tra i quali Sarah finalmente lo intravide. Il portamento
fiero e orgoglioso, i muscoli del collo e delle braccia contratti per lo
sforzo, lo sguardo attento e concentrato, qualche ricciolo ribelle che cadeva
sulla fronte aggrottata e rigata di sudore e di nuovo il cuore di Sarah si
mosse in un sussulto veloce. Lontana dalla sua amica e a pochi passi dalla
statua, tenne stretta questa emozione nel petto, conservandola durante tutto il
rito nella Cattedrale e, quando la celebrazione fu terminata, decise di
aspettare Matteo seduta su una delle panchine della piazzetta. Quando il cuore
riprese i suoi battiti normali, Sarah iniziò a chiedersi quali fossero le
ragioni che la trattenevano lì, seduta su quella panchina all’ombra di un
albero, a fissare il portone della Cattedrale. Stava aspettando qualcuno che
nemmeno conosceva, con il quale aveva condiviso soltanto una danza, uno
zucchero filato e poche parole e che aveva saputo fomentare e, allo stesso tempo,
zittire il richiamo di Hermann. Irrequieta, alzò lo sguardo e cercò un po’ di
pace negli sprazzi di cielo azzurro che apparivano tra la danza delle foglie
mosse dal vento leggero. Poi si volse verso il mare: una tavola piatta,
immensa, di un blu cristallino che luccicava ai raggi del sole, accarezzata
dolcemente dalla brezza del primo pomeriggio. Davanti alla visione di quella
bellezza, Sarah rasserenò il viso fino a quando non riapparve vivo il ricordo
di Hermann, delle loro mani saldamente intrecciate nella danza della passione,
dei suoi baci caldi e appassionati che accendevano in lei l’illusoria speranza
che fosse vero amore. Si alzò di scatto dalla panchina, come per fuggire da se
stessa e dai ricordi che quello scenario incantevole aveva bruscamente ridestato.
Ma subito una voce familiare, attutita dall’imbarazzo la fermò, chiamandola per
nome. Si volse e ogni ricordo svanì nelle fossette del sorriso di Matteo. Le
emozioni iniziarono a rincorrersi come farfalle nello stomaco e la mente ad
annebbiarsi, confondendo i pensieri e la percezione di sé nella realtà. Era
come se non fosse più lì.
Matteo
le porse la mano in un gesto gentile e rassicurante e, con voce calda e un po’
roca, le disse: “Vieni con me.”
Timidamente
ma senza tentennare troppo, Sarah mise la mano nella sua e, ricambiando la
stretta, ribatté in un sussurro: “Dove mi porti?”
“Al
mare.” A questa risposta dal tono dolce e sicuro, Sarah rimase per un attimo
perplessa dato che si trovavano già a pochi passi dal mare ma si fidò di lui e
gli permise di condurla di corsa alla banchina, nella sua barca.
Il
cuore batteva all’unisono con i palpiti del motore mentre guardava con occhi
socchiusi dal vento lo sguardo serio e concentrato di Matteo alla guida della
barca. La brezza del mare diventava sempre più forte, portandosi via il dolore
e donandole l’ebrezza di un’inspiegabile felicità, pizzicando sulla pelle e
facendole sollevare e attorcigliare i lunghi capelli. Entrambi ne risero e le
labbra di Sarah si aprirono in un largo sorriso, tra gioia e imbarazzo.
Parlarono con lo scambio silenzioso di sguardi e di sorrisi e, in poco tempo,
raggiunsero una spiaggetta racchiusa tra scogliere e sovrastata dalla montagna.
Prendendola per le mani, Matteo la aiutò a scendere dalla barca e lei inciampò
tra le sue braccia, soffocando un’esclamazione di soggezione. Si guardò attorno
con occhi sgranati di meravigliato stupore: il fondale roccioso rendeva l’acqua
cristallina e le pietre sulla spiaggia si mescolavano in mille forme e colori.
Sedettero sui ciottoli in riva al mare e, contemplando quello sprazzo di
bellezza, nella sua luce intensa e nella sua aria pulita, la mente di Sarah
andò improvvisamente ai mesi trascorsi nel buio e nella polvere del
seminterrato aspettando nascosta la fine della guerra. Fu grata a Dio per
essere sopravvissuta e perché l’aveva condotta in quell’angolo di paradiso
incastonato tra mare e monti. Subito grosse e irrefrenabili lacrime le rigarono
il viso senza passare inosservate.
“Tutto
bene, Sarah?” le domandò Matteo con apprensione.
“Sì”,
rispose con un sorriso, confidandogli la parte più allettante di verità, “adoro
questo posto.”
In
una carezza, Matteo le spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli arruffati
dal vento in barca, in un gesto di tenerezza e conforto, per sollevare il velo
di malinconia che aveva improvvisamente coperto i suoi occhi e che solitamente
precedeva la sua fuga. Questa volta ne seguì un sorriso da bambina, poi Sarah
prese a raccontargli di Roma, delle estati torride in città troppo lontane dal
mare, del solo refrigerio presso le fontane e all’ombra dei monumenti. La sua
mente sembrava aver azzerato gli anni della guerra ed Hermann era come non
fosse mai esistito, mentre lei tornava ad essere la ragazzina seduta sulla
fontana a fantasticare il vero amore e un futuro roseo.
E
Matteo l’ascoltava con interesse e ammirazione, sorridendo di tanto in tanto ai
suoi accenti d’ironia, poi la interruppe: “Possiamo essere amici?”
Sarah
sapeva che questa non era la sua vera intenzione e, in fondo, anche lei
desiderava qualcosa di più.
“Sì”,
rispose flebilmente, con un sorriso pacato e felice.
Non
era più sola.
Campo
di concentramento di Sachsenhausen (Lager sovietico speciale n. 7)
Due
mani lo afferrarono sotto le ascelle, scuotendolo dal sonno e, gettatolo
gravemente a terra, lo trascinarono fuori la baracca. Privo della più minima
forza fisica, Hermann sentì che questa volta non sarebbe sopravvissuto alle
torture dei russi e, mentre strisciava lungo il corridoio, in un tragitto che
aveva imparato a conoscere bene, decise di abbandonarsi alla morte ormai
vicina. Ma il soldato russo non varcò la porta della famigerata stanza,
deviando a sinistra e proseguendo lungo un altro corridoio. Lo trascinò ancora
per un po’, poi, sollevatolo con violenza, lo spinse in quello che doveva
essere un ufficio. Hermann emise un rantolo e l’uomo seduto alla scrivania, di
fronte all’ufficiale sovietico si girò e si alzò di scatto, rivolgendogli uno
sguardo sconvolto. Alla vista di suo padre e dei suoi occhi che diventavano
lucidi di commozione e pietà, la prima emozione fu di vergogna e la sua mente
andò al loro ultimo incontro: al suono del tappo che saltava dalla bottiglia di
champagne per festeggiare la sua nomina a SS-Obersturmführer e supervisore di
un campo di concentramento, delle risate orgogliose di suo padre e di sua madre
che correva felice e indaffarata in cucina a sfornare la cena. Furono gli occhi
e la voce del sangue a dare conferma all’uomo che quel mucchio di ossa che si
reggeva a malapena in piedi, in vestiti logori e pelle livida, con aria persa e
impaurita era suo figlio.
Gli
prese il viso tra le mani e, con voce rotta dalla commozione, gli disse:
“Coraggio, adesso è tutto finito. Ti riporto a casa.”
La
vergogna lasciò spazio a un sentimento che Hermann aveva dimenticato e che
assomigliava alla felicità. Era finalmente libero, libero di ritrovare Sarah.
Capitolo 6 *** Come miele era il colore dei tuoi occhi ***
Capitolo
6
Come
miele era il colore dei tuoi occhi
“Così ti amo
perché non so amare altrimenti che così,
in questo modo
in cui non sono e non sei,
così vicino che
la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che
si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.”
Pablo Neruda,
SonettoXVII
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Berlino, gennaio 1944
Hermann tratteneva un
sorriso di superba felicità, mantenendosi impettito in un atteggiamento di
calma fierezza mentre il capitano gli annunciava il suo avanzamento di grado e
dovette regolare il respiro quando iniziò a dirgli che, di lì a pochi giorni,
avrebbe comandato un campo di concentramento. I suoi sogni di ascesa militare,
di potere e autorità sugli altri si stavano realizzando, superando addirittura
le sue aspettative.Ma
subito la contentezza svanì e il sorriso trattenuto divenne una smorfia di delusione;
vide i suoi sogni trasformarsi in un incubo e la sua promozione in un castigo.
“… Fossoli. È un campo
di concentramento italiano, in provincia di Modena”, proseguì il capitano,
mentre Hermann continuava a trattenere le sue emozioni in un contegno fiero e
fermo. “Diventerà un campo di transito per i prigionieri destinati ai nostri
lager.”
Da quel momento, iniziò
a sentirsi come in una bolla e, salendo lentamente le scale di casa, si
accarezzava la mostrina da colletto. Per un attimo ebbe quasi la sensazione di
soffocare: non voleva lasciare il suo paese e sprecare la sua promozione,
duramente ottenuta, per lavorare in mezzo a italiani, voltabandiera e nullafacenti,
spaghetti e mandolino. Aperta la porta di casa, fu accolto da un profumo di
arrosto al forno e dallo stappo di una bottiglia di champagne, da suo padre che
con grande gioia e una certa riverenza gli porgeva una coppa piena fino
all’orlo e da sua madre che lo guardava con occhi sfavillanti di entusiasmo e
ammirazione.
“Congratulazioni,
figliolo!” proruppe suo padre, gonfio di orgoglio. “Abbiamo saputo del tuo
avanzamento di grado e della tua immediata nomina a comandante di un lager!…
Quasi non potevamo crederci!”
Intanto sua madre, con
uno scatto e un’esclamazione di preoccupazione, corse in cucina a recuperare
dal forno la cena.
“Anch’io”, ribatté
Hermann, la cui voce bassa di afflizione mista a risentimento ne palesò
l’insofferenza.
Suo padre spense il
sorriso e, con aria seria e apprensiva, gli domandò: “C’è qualcosa che non va,
Hermann?”
“Non è un lager ma un
campo di transito in Italia”, rispose mentre sua madre poggiò l’arrosto sul
tavolo e si fermò a guardarli, sorpresa da quel discorso.
“E allora? Qual è il
problema? Proprio non capisco il tuo malcontento. Avrai un compito ancora più
importante. Il tuo sarà un ruolo fondamentale nel sistema delle deportazioni e
della Endlösung der Judenfrage[1]. Queste cose dovresti insegnarle
tu a me”, quasi lo rimproverò suo padre, rientrando nei panni di ex membro
della Gestapo, ai suoi tempi conosciuta come Dipartimento 1A della polizia di
Stato prussiana. “Devi accettare questo trasferimento con la determinazione e
la forza d’animo che ti contraddistinguono e per le quali sei stato promosso. E
sta’ sicuro che questo è soltanto il primo gradino della tua carriera, il
trampolino di lancio verso una carica militare più alta. Io ne sono più che
convinto.”
“Sì, hai ragione”,
rispose Hermann, abbozzando un sorriso ma non ne era ancora pienamente sicuro.
Le parole di suo padre
lo aiutarono pian piano a rientrare in se stesso, a riprendere il controllo
delle proprie emozioni, a ritrovare le forze e l’entusiasmo, trasformando la
delusione di un’aspettativa soddisfatta a metà in motivazione per raggiungere i
vertici più alti della gerarchia delle SS. E quando fu sul treno diretto verso
il campo di Fossoli, con le ambizioni dei suoi trent’anni, era già convinto
nell’affrontare a muso duro il suo incarico di comandante, le sue responsabilità,
i suoi subalterni e quelli da lui considerati vigliacchi italiani fascisti e
sudici prigionieri ebrei, forte nei suoi ideali di superiorità ariana.
Berlino,
20 giugno 1946
Un
panno ghiacciato gli si posò sulla fronte, facendolo svegliare di soprassalto.
Hermann aprì gli occhi e, per primo, gli apparve sfocato il volto di sua madre.
Ne riuscì a scorgere un’espressione di sgomento e preoccupazione che non le
aveva mai visto prima e che velava di tristezza i suoi occhi, stanchi di troppe
lacrime versate per un figlio che credeva morto. Pian piano, le immagini
divennero più nitide e vide suo padre di spalle che, inveendo contro i russi e
gli inglesi, batteva un pugno alla parete per poi affondare nel braccio la
testa.
“Ti
prego, Karl, così peggiori soltanto la situazione”, disse sua madre in un
lamento e, d’improvviso, un senso di oppressione premette sul petto di Hermann,
fermandogli per un attimo il respiro.
La
vista e l’udito iniziarono a offuscarsi e lui a perdere la cognizione di sé e
della realtà, contorcendosi negli spasmi delle convulsioni febbrili.
“Karl!
Karl!” La voce spaventata di sua madre gli arrivò come un suono ovattato e,
come un filmato a rallentatore, vide i suoi genitori chinarsi su di lui,
muovendo le labbra in parole di concitata apprensione che però Hermann non
riusciva più a sentire, e spostarlo su un lato.
In
un ultimo spasmo, sgranò lo sguardo nel ricordo di due occhi color miele e un
nome gli si annodò nella gola: Sarah.
Campo di Fossoli, 12
febbraio 1944
Il clima in Italia era
generosamente più mite, tanto da far sembrare quel mattino invernale un
preludio di primavera. Orgoglioso nella sua divisa da SS-Obersturmführer,
Hermann fumava una sigaretta con aria superba e ghigno soddisfatto, nell’attesa
che dalla stazione ferroviaria di Carpi arrivassero al campo di Fossoli altri
camion carichi di prigionieri. Come sempre, al loro arrivo seguivano momenti di
confusione da rimettere in ordine con l’abbaiare rabbioso dei cani, le urla di
minaccioso disprezzo e lo schiocco intimidatorio del frustino.
“Muoversi! Muoversi!
Più veloci!” urlava Hermann e, strattonando duramente un prigioniero, nella
confusione, una ragazzina gli inciampò tra i piedi.
Tremante, si alzò, con
una calza rotta e qualche macchia di fango rappreso sul cappotto rosso, che ben
si adattava al colore nero dei suoi capelli, arruffati per la caduta. Per un
attimo, lo guardò con occhi sgranati e luccicanti di paura,occhi color marrone chiaro, che
divennero come miele alla luce di un raggio di sole ed Hermann, il tenente che
aveva ricevuto il compito di comandare un campo di concentramento, riuscì a
mantenersi a stento nel suo atteggiamento di disprezzo. Poi, di scatto, la
ragazzina abbassò lo sguardo e indietreggiò, unendosi a un gruppo di bambini
affiancati da un anziano sacerdote.
“Signor tenente, la
prego”, biascicò il prete.
“Questi ragazzini sono
italiani, cittadini di Roma, di religione cattolica. Credo ci sia stato un
errore. Ho qui tutti i certificati di nascita e di battesimo. Guardi, la prego”,
concluse, porgendogli i documenti ma Hermann non li prese, limitandosi a
ridergli in faccia con ghigno ironico.
“Nessun errore!”
ribatté, rientrando nel suo tono severo e sprezzante. “Questi ragazzini sono
ebrei che lei teneva nascosti nella sua chiesa ed io non ho tempo da perdere!”
Poi si rivolse subito
ai suoi soldati, per impartire gli ordini: “Portate il prete al Campo Vecchio[2]. I ragazzini rimangono al Campo
Nuovo[3].”
“La prego, non mi
separi dai miei bambini!” implorò a voce alta l’anziano sacerdote, mentre i due
soldati lo portavano via con la forza.
Intanto, uno dei più
piccoli iniziò a piagnucolare e la ragazzina, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio con un sorriso ostentato, lo prese in braccio per poi accodarsi
alla fila dei prigionieri, seguita dai bambini.
“Più veloci! Muoversi!”
Hermann aveva ripreso il suo lavoro con la durezza di urla e strattoni e,
all’improvviso, si sorprese a ricercare con lo sguardo, tra le file di ebrei,
quel cappotto rosso che abbracciava la ragazzina dai capelli neri e gli occhi
color miele.
Berlino,
21 giugno 1946
La
prigionia nel lager sovietico lo aveva distrutto, fisicamente e moralmente,
prostrandolo in uno stato di mancanza di forze e svuotamento di se stesso, ma
ciò che più lo tormentava era il pensiero di essere libero senza poter
ritrovarsi con Sarah. Hermann non riusciva a muoversi dal letto e, a stento,
sollevò il braccio per guardare l’ago per la flebo posizionato sul dorso della
mano, livida, smagrita. Per un attimo, ebbe la sensazione di vedere e di
sentire la mano di Sarah intrecciarsi alla sua, mani piccole e fredde che,
nelle infinite notti a Fossoli, sapevano anestetizzare il suo ego e
sciogliergli l’anima. Troppo tardi aveva rinunciato ai suoi ideali di purezza e
al suo amor di patria, per i quali si era poi condannato all’inferno di
Sachsenhausen, troppo tardi aveva capito di non poter vivere senza di lei.
Campo di Fossoli, 16
febbraio 1944
L’ufficio di Hermann
affacciava proprio sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il
cappotto rosso e, dalla sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini:
l’età della ragazzina era, sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni
e, dai modi, sembrava essere di buona famiglia; la mattina usciva dalla
baracca, raccoglieva i capelli in uno chignon scarmigliato e si sbracciava le
maniche del vestito color marrone chiaro, per aiutare le donne nelle faccende
domestiche; parlava poco, limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo
pranzo usciva di nuovo, con i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto
rosso e, ferma sull’uscio della baracca con le braccia incrociate, per una
buona mezz’ora, teneva d’occhio i bambini mentre giocavano. Ed era questo il
momento in cui Hermann si soffermava a guardarla, lasciando che i pensieri
spaziassero in fantasie nella cascata dei suoi lunghi capelli e nella
generosità delle sue forme, nell’espressione triste e impaurita di due occhi
sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo inseguivano la notte fino a
degenerare in desiderio smanioso di averla.
“Agli ordini, signor
tenente!” Scattò sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.
“Nell’ultimo convoglio,
qualche giorno fa, è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di
bambini”, disse Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e
portandosi davanti alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”
E, quella sera stessa,
la ragazza era al centro della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa,
tremante, in una divisa da cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga
ciocca che le copriva mezzo volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann
entrò, a passo lento e autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.
“Le tue mani
mai,
il tuo corpo
mai,
la tua mente mai
più.
Il tuo nome mai,
i tuoi occhi
mai,
la tua voce mai
più.
Come sabbia sei
nel mio pensiero,
aquila che ormai
non ha più cielo
e cade in volo.”
Valentina
Giovagnini, Il passo silenzioso della neve
[2]Campo di
concentramento, amministrato dalla Questura di Modena e gestito dagli italiani,
per antifascisti, partigiani, giovani renitenti alla leva, operai in sciopero,
detenuti comuni, civili di nazionalità nemica e persone che fornivano aiuto ai
perseguitati.
[3]Campo di
transito, amministrato e gestito dai tedeschi, per ebrei e oppositori politici.
Aspetto che i
ricordi di te diventino più morbidi, più sfumati, meno taglienti.
Ancora ci si può
far male, se provo a guardarci dentro.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Campo di Fossoli, 17
febbraio 1944
Hermann sollevò la
testa dal cuscino e, passandosi una mano fra i biondi capelli, si stiracchiò
dal sonno con un sospiro soddisfatto. Girando lo sguardo attorno, la vide,
seduta per terra, con la schiena appoggiata alla parete, come una bambola rotta.Bianca, come di
porcellana senza alito di vita, con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, le
guance livide e i capelli aggrovigliati, come rami intrecciati, stringeva un
lembo di sottoveste, sporco di sangue, tra le sue intimità. La ragazza era
stata sincera sulla sua verginità e lui ne aveva violato l’innocenza, senza
pietà. Qualcosa di simile al rimorso sembrò vibrargli dentro, restituendogli un
po’ di umanità verso quel corpo che aveva desiderato, intrappolato con
l’inganno di un compromesso, preso con violenza, usato e che adesso giaceva per
terra come morto, sporco di lividi e sangue, immobile, rannicchiato nel suo
dolore.
Tenendo lo sguardo
fisso su di lei, Hermann lentamente si ricompose, sollevandosi i pantaloni e,
alzatosi dal letto, le si avvicinò. In uno slancio di compassione, la prese in
braccio e la ragazza, come se il suo corpo fosse realmente privo di vita,
lasciò la testa ciondolare all’indietro e le braccia aprirsi e penzolare mollemente
nel vuoto. La portò in bagno e la mise nella vasca, aprendo i rubinetti. I suoi
occhi, che non avevano più il colore caldo del miele, erano ancora spalancati e
persi nel vuoto in un’espressione indecifrabile, mentre, come filamenti, il
sangue iniziava a colorare l’acqua. Hermann chiuse i rubinetti e, continuando a
guardarla, nei capelli diramati dall’acqua e nelle forme che trasparivano dalla
sottoveste bagnata, rientrò nella sua risoluta strafottenza di nazista: quella
ragazza era un’ebrea, un qualcosa senz’anima, senza valore, che lui poteva
usare a suo piacimento. Abbottonandosi la camicia, uscì dal bagno e dalla
stanza per poi guardare a destra e sinistra nel corridoio.
“Kellnerin[1]!” richiamò l’attenzione di una
cameriera che passava di lì. “C’è da ripulire in bagno!”
Hermann aveva già
ripreso il suo atteggiamento di orgoglio e di disprezzo.
Berlino,
21 giugno 1946
Al
ricordo di Sarah, distesa in quella vasca, con lo sguardo assente e il corpo
paralizzato dalla sua violenza, abbandonata come uno straccio sporco, due
grosse lacrime gli solcarono il viso. Una era per lei, l’altra per i suoi
errori. Hermann alzò gli occhi e, guardando la sacca della flebo, emise un
sospiro tremante che gli morì in gola. Era strano come il lager di Sachsenhausen,
disumanizzandolo, lo avesse reso più umano, capace di guardare ai ricordi da
un’altra prospettiva, di rendersi conto dell’inutilità dell’odio razziale, per
il quale aveva sacrificato i migliori anni della sua vita, di entrare nelle
ferite inferte a Sarah e di piangerne di rimorso. E adesso, che era solo,
libero da ogni vincolo ideologico e senza difese, diede il nome di amore ai
sentimenti vissuti a Fossoli. Hermann alzò un po’ la mano e rivolse un altro
sguardo all’ago della flebo. Presto, la febbre sarebbe passata e avrebbe
ritrovato le forze per mettersi in viaggio e riabbracciare la sua Sarah.
Napoli
Era
da un po’ di giorni che Sarah si svegliava di buon umore al pensiero di Matteo e,
con il sorriso sulle labbra, iniziava a contare le ore che la separavano dal
loro prossimo incontro. Durante il giorno, a casa, a lavoro, per strada,
brividi di felicità, all’improvviso, la scuotevano al ricordo delle loro
passeggiate al tramonto che sfociavano nel rincorrersi giocando ad
acchiapparella in riva al mare e dei loro giri in barca con la promessa di
farle vedere un giorno le bellezze di Sorrento.Con Matteo,
Sarah aveva trovato un amico e ritrovato la spensieratezza di fanciulla,
vivendo, senza nemmeno accorgersene, una tappa che, a causa di Hermann, era
stata costretta a bruciare. Inconsapevolmente innamorata, pendeva sognante dai
suoi racconti di mare e di pescatori, sorrideva con aria serena alle sue risate
per le battute di Pulcinella, guardando lo spettacolo dei burattini e si
compiaceva di quel suo timido e goffo corteggiarla.
Inseguita
da Matteo, Sarah correva a perdifiato sul bagnasciuga, ridendo a squarciagola e
sfogandosi in gridolini di felicità. La brezza d’inizio estate spruzzava in
viso gocce salate e la sabbia, sollevandosi al loro veloce passaggio, pizzicava
alle caviglie. Nello sfondo degli ultimi bagliori del sole, correvano senza una
meta ma con l’obiettivo di tenersi stretta quella felicità, protraendola all’infinito
per non relegarla a un semplice ricordo. Poi Sarah fuggì in strada e, fermando
la sua corsa davanti a un palazzo diroccato, si volse verso Matteo, ormai a
pochi passi da lei. Guardandolo con aria vispa, s’infilò le scarpe e, per un
attimo, abbassò lo sguardo. Nemmeno il tempo di rialzare gli occhi che Sarah
subito li chiuse all’inaspettato tocco di due labbra appoggiate alle sue. E il
bacio di Matteo sapeva di acqua di mare e dei profumi portati dal vento
dell’estate, di fuochi accesi sulla spiaggia e di albe stellate, della
tenerezza di un’esperienza non ancora maturata, poiché quello doveva essere senza
dubbio il suo primo bacio, e sapeva anche del ricordo di Hermann. Indietreggiando
a occhi socchiusi, Sarah allontanò le labbra dal bacio gentile di Matteo e,
senza accorgersene, entrò nella casa abbandonata, mentre la memoria del cuore
la riportava al primo bacio di Hermann, profondo e determinato, passionale e
travolgente, che aveva dilatato i suoi sensi e le sue emozioni, fino a farla
sentire desiderata e amata, illusoriamente.
Frenato
di colpo il ricordo, che le aveva lasciato sulle labbra un sapore agrodolce,
Sarah si guardò attorno e, senza nemmeno sfiorare il discorso del bacio di
Matteo, come se fra loro non fosse successo nulla, gli chiese smarrita: “Dove
siamo qui?”
C’erano
fogli dappertutto, su scrivanie e in mobili posizionati alla rinfusa e, alle
pareti, vi erano disegnate delle svastiche, malamente cancellate. L’abbandono e
la sporcizia regnavano ovunque, nel tetrore di quella grande stanza.
“Qui
c’erano i tedeschi. Era il loro stazionamento durante la guerra”, rispose il
giovane, tristemente meravigliato per la tanta facilità con la quale Sarah si
era fatta scivolare addosso le emozioni del suo bacio, per lui il primo e sfogò
il suo dispiacere in parole di rabbia verso i nazisti, i nazifascisti, l’8
settembre, l’attacco ai cantieri e l’occupazione della città.
Alle
orecchie di Sarah, la voce di Matteo arrivava come un suono lontano, ovattato,
indecifrabile e, nella sua mente, si concatenavano i ricordi di Hermann, dell’arroganza
nel suo sguardo glaciale e nella sua voce imponente, nel suo portamento fiero e
nel suo passo risoluto,della crudeltà nei suoi modi di fare e
degli slanci di tenerezza verso di lei, che la facevano sentire al sicuro e che
rendevano amabili finanche le sue brutture.
“Matteo”,
lo interruppe Sarah, con voce afflitta. “Io sono ebrea”, disse, più per
ricordarlo alla se stessa di Fossoli che per confidarlo a Matteo.
E
negli occhi scuri del giovane vide un improvviso lampo che, intensificandosi,
esprimeva un groviglio di sentimenti, di stupore, di tristezza, di compassione,
di imbarazzo, di paura.
Rimasto
senza parole a quella rivelazione, distolse lo sguardo da Sarah, dai suoi occhi
lucidi e quasi imploranti di una risposta, per rivolgerlo a una finestra senza
vetri e, con voce spezzata, riuscì soltanto a dire: “Si sta facendo buio. Devo
andare a lavorare.”
Uscì
in gran fretta e Sarah, ferma sull’uscio, seguì con lo sguardo la sua corsa
sulla spiaggia verso la banchina, fino a quando non divenne un puntino lontano,
indistinguibile tra la folla di pescatori. Era certa che non lo avrebbe più
rivisto e, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime trattenute, si sorprese
dolcemente innamorata di Matteo e ancora prigioniera del suo folle amore per
Hermann.
“La memoria è
uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei
brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni.”
Primo Levi
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Matteo
correva verso la banchina, chiedendosi perché mai fosse fuggito in quel modo
lasciando Sarah con chissà quale idea sbagliata sul suo conto. La rivelazione
della ragazza aveva aperto un varco nella sua memoria, facendo riemergere dei
ricordi dolorosi, caduti in quello stato di oblio per mezzo del quale lui, come
tante altre persone, aveva fronteggiato i traumi dell’immediato dopoguerra.
Correndo, mentre il vento schiaffeggiava in viso, poteva avvertire di nuovo
dentro di sé e sulla propria pelle il dispiacere provato, quando ancora
frequentava la scuola di avviamento al lavoro, per l’inspiegabile
allontanamento di un suo compagno di classe, all’indomani delle vergognose
leggi razziali, compagno che non rivide mai più. Davanti agli occhi della mente
gli passavano le immagini di quegli ignobili cartelli esposti nelle vetrine dei
negozi e sulle porte dei locali con la scritta “vietato l’ingresso ai cani e
agli ebrei” e nella sua testa riecheggiavano gli orribili e, a quei tempi,
inverosimili racconti di ciò che accadeva agli ebrei in Germania. Sarah era
ebrea. Correva Matteo, forse per scappare da quel senso di inadeguatezza,
immaginando le sofferenze che la ragazza di cui si era innamorato aveva patito,
anche a causa dell’indifferenza di tanti italiani, e della sua; o forse fuggiva
per la paura di una nuova ondata di odio razziale che avrebbe potuto
coinvolgere anche lui, intraprendendo una relazione amorosa con Sarah; correva
Matteo, mentre la testa gli si riempiva di domande, a cui il suo cuore aveva
già dato una risposta.
Berlino
Sua
madre spalancò le finestre per lasciar entrare l’aria buona e leggera d’inizio
estate ed Hermann socchiuse gli occhi alla luce di un raggio di sole, mentre
suo padre si apprestava ad aiutarlo a sollevarsi. Sedutosi sulla poltrona
accanto al letto, seguì con lo sguardo sua madre che apriva l’armadio, alla
ricerca della biancheria pulita, rovistando tra le sue uniformi e i cimeli di
una vita che ormai non gli apparteneva più, il cui ricordo poteva soltanto
suscitargli paura e tristezza.
“Perché
avete ancora quella roba?” domandò Hermann, rivolgendo lo sguardo a suo padre e
fu lui a rispondergli.
“Sono
i ricordi di un passato glorioso e la speranza di un ritorno al potere”, disse
con tono di sufficienza, come se quella fosse la cosa più scontata al mondo.
I
suoi genitori erano ancora nazisti.
“Un
passato vergognoso che non sarebbe mai dovuto esistere e che non potrà mai più
ritornare”, ribatté Hermann, stringendo di rabbia i denti.
“Figliolo,
quale lavaggio del cervello ti hanno fatto i russi?” fece suo padre, con
un’espressione di meraviglia mista a compassione e la sua memoria andò alle
notti di Fossoli, a quando, tra le braccia di Sarah, ogni ideologia nazista e
ogni suo progetto non avevano più alcuna importanza e lui smetteva di essere
l’acerrimo comandante del campo.
“L’ho
capito ancor prima dell’arresto che tutto ciò fosse una pazzia, ma non riuscivo
ad ammetterlo a me stesso”, confessò Hermann, mentre gli occhi pian piano gli diventavano
lucidi. “Non sono state le botte dei russi a farmelo capire, ma l’amore. Io mi
sono innamorato di una ragazza ebrea.”
Questa
volta, fu sua madre a rispondergli, con un tonfo sul pavimento.
“Birgit!”
urlò suo padre, correndole in aiuto.
Sua
madre era svenuta ed Hermann ne rimase impassibile, mentre, con gli occhi della
mente, rivedeva il viso di Sarah incorniciato tra le sue mani, illuminato di
bellezza e passione e in procinto di stendersi in un dolce e ampio sorriso,
prima di rotolarsi assieme ridenti tra le lenzuola.
Napoli,
luglio 1946
Era
ormai da una settimana che Matteo non si faceva più vivo e Sarah aveva smesso
di sorridere, intrappolata in un vortice di interrogativi, che ruotavano
attorno a un’unica domanda, al “perché” il giovane fosse fuggito in quel modo. Era
bastato soltanto dirgli di essere ebrea per farlo allontanare per sempre da
lei, forse impaurito, e non riusciva neanche a immaginare una possibile
reazione, di Matteo o di qualsiasi altro uomo, se avesse confessato della sua
storia con Hermann. Nessuno mai l’avrebbe compresa nel suo incoerente groviglio
di sentimenti, o più voluta a causa della sua disonorabilità ed era destinata a
una vita di solitudine; nessuno l’avrebbe sposata e mai avrebbe realizzato il
suo sogno di famiglia, al quale ambiva sin da bambina, ed era condannata a un
futuro di tristezza. Era il giorno del suo compleanno e Sarah lo aveva proprio
dimenticato, così persa nei suoi malinconici pensieri.A
ricordarglielo fu la sua amica, che la svegliò con un caffè e un fazzoletto[1]
e, con un’allegra canzoncina di buon compleanno, riuscì a strapparle un lieve
sorriso. Non era poi così sola.
Poi,
con espressione vispa, Hannah le sventolò davanti agli occhi, spalancati di
perplesso stupore, una busta da lettera, dicendole: “Sei stata molto fortunata,
Sarah. Il signor Gennaro ti ha concesso l’intera giornata di riposo e, in più,
ti manda questa.”
Le
porse la busta e, quando l’aprì, Sarah quasi si commosse nel vedere all’interno
due giorni di paga.
“Fossi
in te stamattina andrei al mare”, proseguì Hannah, sorridente.
“E
poi andrei a comprarmi un bel vestito per questa sera”, concluse, alludendo a
una possibile sorpresa.
Con
gli occhi lucidi, stordita dall’emozione, Sarah aveva dei buoni motivi per non
essere triste in quel giorno. E iniziò con l’ascoltare il primo consiglio della
sua amica, indossò il costume da bagno e un vestito, entrambi color turchese,
prese la sua vestaglietta a stampa floreale e corse in spiaggia. La folta
presenza e l’euforica allegria dei bagnanti facevano sembrare la guerra, con
tutte le sue drammatiche conseguenze, soltanto un ricordo lontano e poco
importava se, alle loro spalle, ci fossero ancora cumuli di macerie e case
diroccate.Con un sorriso a fior di labbra d’inguaribile
malinconica, Sarah guardava la vita continuare, nei bambini che giocavano nella
sabbia e negli adulti che prendevano il sole, nei ragazzi che facevano caciara[2]
e nelle ragazze che ridevano al loro corteggiamento, nelle forze dell’ordine
che di tanto in tanto sorprendevano qualche donna con indosso quel tanto
chiacchierato costume da bagno chiamato bikini, nei pescatori che accostavano
le loro barche alla riva per vendere il pesce appena pescato. E, mentre la
folla di bimbi curiosi e di persone interessate ad acquistare si avvicinava
spedita all’imbarcazione, i suoi pensieri non potevano che andare a Matteo, ai
loro giri in barca e alle loro passeggiate al tramonto, al suo timido bacio e
alla sua inspiegabile fuga. Socchiuse gli occhi, che bruciavano per la luce del
sole e il calore di lacrime trattenute e poi, aggrappandosi al suono rilassante
delle onde e al brusio felice della gente, decise di lasciarsi scivolare quel
dolore e tenersi del giovane pescatore un bel ricordo. Pian piano, rasserenò il
viso e, aprendo lo sguardo al golfo di Napoli, alle sue isole e al suo Vesuvio,
indirizzò i pensieri alla festa che l’attendeva di lì a poche ore, stringendosi
forte a quella sensazione di entusiasmo. Fantasticando sulla sorpresa che il
signor Gennaro e i suoi colleghi avevano in serbo per lei, tra un tuffo in
acqua e una chiacchierata con qualche cordiale signora, il suo umore si
risollevò e anche Sarah sembrò contagiarsi di quella strana e collettiva
spensieratezza della prima estate dopo la fine della guerra. Verso mezzogiorno
il sole iniziò a scottare e la sete a farsi sentire. Sorridente, mise la sua
vestaglietta a stampa floreale e si avviò in fretta verso il chioschetto per
comprare una limonata. Prese la bibita, ringraziò l’allegro e anziano acquafrescaio
e, sorseggiando lentamente, si volse verso gli incalcolabili chilometri di spiaggia
e la movimentata vita dei suoi bagnanti. Ma la visuale di Sarah fu subito
ostacolata dall’improvvisa comparsa di due ragazzi che le piombarono davanti
con un’aria ridicola di spavaldi conquistatori.
“Ciao,
lo sapete che siete bellissima? Vi possiamo conoscere?” proruppe uno dei due,
quello un po’ più alto.
Alla
loro espressione sottilmente maliziosa, Sarah, dapprima, s’infastidì, poi
rimase impietrita mentre la sua testa e i suoi sensi associavano quella scena a
una situazione già vissuta, a Fossoli, qualche giorno prima dell’eccidio degli internati
politici. Anche allora era luglio, anche allora l’aria era tremendamente calda.
Sarah uscì di corsa
dalla baracca. Dentro, il caldo era opprimente, per l’eccessivo affollamento e
per il sole che, inesorabile, batteva sul tetto e penetrava dalle finestre e da
ogni possibile fessura. Ma a spingerla fuori era stato anche, e forse
soprattutto, un senso di oppressione che le aveva reso difficile respirare e
scalpitante la voglia di fuggire. Di notte, Hermann sembrava amarla per davvero
ma, di giorno, era come se lei non esistesse. Ferma sull’uscio, Sarah tentava
di farsi vento soffiandosi in viso con un fazzoletto, fino a quando non le si
fermarono davanti due soldati delle SS. Frenò il più minimo movimento e ogni
suo malinconico pensiero, a quelle risatine e a quegli sguardi maliziosi verso
di lei che traducevano perfettamente il loro dialogo in tedesco. Il cuore le
batteva forte, mentre il timbro di voce e gli occhi dei due soldati si
avvampavano sempre di più nel fermento della malizia, e avrebbe voluto
indietreggiare, nascondersi nella baracca, ma temeva una loro violenta reazione.
I tedeschi, infatti, negli ultimi tempi, erano diventati più cattivi. Poi
quello più alto fra i due, continuando a parlare e sghignazzare con il suo
commilitone, le mise una mano fra i capelli, arricciandole una ciocca attorno
al dito, e Sarah, sempre più ansimante di vergogna e paura, sperava che Hermann
apparisse da un momento all’altro per salvarla da quella situazione, per
difenderla, proteggerla. E, anche se i minuti, i secondi che scorrevano
sembravano per lei infiniti, quel momento non tardò ad arrivare. I due soldati
scattarono sull’attenti. Sui loro volti c’era adesso un’espressione di sorpreso
imbarazzo e legittimo timore, davanti alla figura austera di Hermann e al suo
sguardo severo, lo stesso che per un attimo rivolse anche a lei. Poi iniziò a
parlare in tedesco ai suoi subalterni, in un crescendo di voce sempre più
incalzante e autorevole e, alle ultime parole, pronunciate quasi urlando, i due
soldati batterono di nuovo i tacchi e andarono via.Rimasti da soli, Hermann la fissò
per alcuni istanti ma, davanti ai suoi occhi lucidi di sgomento per ciò che le
era appena accaduto e quasi imploranti di una qualsiasi parola gentile, non
rabbonì lo sguardo e, afferrandola per il braccio, la indirizzò verso
l’ingresso della baracca.
“Devi uscire da qui
solo per venire da me, hai capito?” la rimproverò, con voce bassa e dura,
stringendole forte il braccio fino a farle male.
Sarah annuì con un
cenno della testa, contorcendo il viso in una smorfia di dolore, mentre Hermann
la spinse nella baracca. Si accarezzò dolorante il braccio e, pian piano,
quella smorfia di dolore si trasformò in un mezzo sorriso, nel ripensare agli
occhi adirati di Hermann come a occhi infuocati di gelosia e nel cogliere, dal
suono della sua voce incollerita, le vibrazioni di mute parole d’amore,
fantasie con le quali nutrì il suo cuore affinché sopravvivesse fino a sera. E
fece della sua immaginazione una certezza quando seppe che Hermann aveva punito
quei due soldati facendoli marciare per quattordici chilometri, scortati in
macchina da un sottoufficiale.
Con
l’espressione di chi sembrava aver visto un fantasma, Sarah scappò via,
lasciando quei due ragazzi in uno scambio di sguardi attoniti. Correva per
sfuggire e, allo stesso tempo, andare incontro al suo bisogno del verde
profondo di quegli occhi glaciali e dell’accento tedesco di quella voce
imponente, di sentirsi protetta da quelle mani forti. Sarah aveva ancora
bisogno di Hermann e, fra i suoi ricordi, il giovane pescatore era diventato
quello più lontano.
“Fui tuo, fosti
mia. Tu sarai di colui che ti amerà,
di colui che
raccoglierà nel tuo orto ciò che io ho seminato.”
Pablo Neruda,Farewell
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
Sarah
decise di non darla vinta alla tristezza, di non cedere alla nostalgia di
Hermann e, quasi con avida rabbia, afferrò dal comodino i suoi due giorni di
paga e uscì di nuovo, con l’intento di fare qualcosa per se stessa per
liberarsi dalla malinconia. La sua prima tappa fu in un piccolo negozio di
abbigliamento, dove la sua attenzione era già stata attratta da un vestito nero
con tanti piccoli fiorellini rossi, esposto in vetrina.Provò
l’abito e lo specchio le rimandò l’immagine di un viso un po’ scurito dal sole
e spento dallo sconforto, di un corpo più tondito dall’aria buona del sud e
piegato dai ricordi del dolore e dell’amore. Fu come vedere sulle proprie
spalle tutto il peso che portava dentro di sé della sofferenza per ciò che
aveva vissuto durante la guerra, il disprezzo della gente, la separazione dalla
famiglia, e per ciò che avrebbe voluto continuare a vivere nel campo di Fossoli
con il tenente Hermann. Ma il vestito le stava bene e Sarah tentò ancora di
aggrapparsi a quel sottile filo di entusiasmo per la festa a sorpresa che
l’attendeva di lì a poco tempo e così sfuggire alla tristezza del suo passato.
E si obbligò a riuscirci.
Fece
una giravolta davanti allo specchio e, sorridendo compiaciuta alla propria
immagine riflessa, si rivolse alla seriosa e compassata negoziante. “Lo prendo…
E prendo anche quei sandali con la zeppa in sughero”, disse, indicando uno
scaffale vicino alla porta.
Uscì
dal negozio con indosso il vestito e i sandali nuovi e, fermatasi davanti a un
salone di parrucchiere, decise che era arrivato il momento di cambiare qualcosa
di sé, per iniziare a scucirsi di dosso quel pezzo di vita, fradicio di
infinite lacrime e logoro di folli rimpianti. Sarah guardava dallo specchio i
suoi capelli fluttuare sul pavimento e le mani di Hermann, che amavano tanto affondarvici
dentro, diventare un ricordo un po’ più lontano. Sentì di essere libera e si
forzò a sorriderne, mentre il loquace parrucchiere le portò i capelli a una
lunghezza media, sistemandoglieli in un’acconciatura con onde e riga laterale e
persuadendola a farsi applicare in viso un velo di trucco e colorare di rosso
le labbra e le unghie. Uscì dal salone e, prima d’incamminarsi verso casa, alzò
le spalle in un profondo respiro: si sentiva più bella, più forte, pronta a
ricercare la felicità nella propria vita, pur senza un uomo al suo fianco, pur
senza Hermann.
“Ma
guardati, Sarah, sembri un’attrice di Hollywood!” esclamò piena di entusiasmo
Hannah, che la stava aspettando sull’uscio di casa, prendendola per mano e
facendole fare una mezza giravolta.
“Esagerata!”
rispose Sarah con una risatina ironica e, varcata la porta d’ingresso, il cuore
le sobbalzò e le sue labbra si aprirono in un sorriso a trentadue denti al
rimbombante e gioioso urlo di “sorpresa”.
Se
l’aspettava, ma vederli tutti lì, il signor Gennaro con la moglie e tutta la
sua famiglia, i suoi colleghi e i clienti più affezionati del Gran Cafè, che le
si avvicinavano sorridenti per farle gli auguri e porgerle un regalo, fu
comunque una grande e incontenibile emozione. Quelle braccia protese verso di
lei per abbracciarla, quegli sguardi che riflettevano un affetto sincero, quei
baci sulla guancia che sigillavano tenere e incoraggianti parole di auguri la
facevano sentire a casa e le restituivano il calore di una famiglia. Era
proprio vero: tante persone le volevano bene e non poteva più dirsi sola.
Dopo
la cena, costituita da un’allegra spaghettata, in tutta la casa si sparse un
profumo di caffè e di dolci e, da lontano, iniziarono a giungere le note di “’O
surdato ’nnammurato”, una canzone dal ritmo vivace e dal significato struggente,
tanto famosa che anche Sarah aveva ormai imparato.
E,
mentre il suono di quella voce tonante e avvolgente, accompagnata da chitarra e
mandolino, si faceva sempre più vicino fino a risuonare nella casa, Sarah,
pensando che fosse un’altra sorpresa del signor Gennaro e dei suoi colleghi,
allargò il sorriso e disse alla sua amica: “No, pure la serenata? Non ci posso
credere!”
All’ultima
nota, tutti applaudirono mentre Hannah si alzò di scatto per andare ad
accogliere il giovane e corpulento cantante e, da dietro le sue grosse spalle,
apparve Matteo, ben pettinato e vestito e con in mano un mazzo di fiori. Il
cuore di Sarah accelerò di un battito per lo stupore di rivederlo e nel
ricordare i loro giri in barca, le loro corse in spiaggia, il suo bacio a fior
di labbra, ma il suo sorriso si spense, palesando il risentimento per la sua
inspiegabile fuga e la sua assenza protratta per ben una settimana. Davanti
allo sguardo di Matteo, che la fissava con l’espressione di chi sembrava aver
avuto una visione celestiale, Sarah abbassò gli occhi e, intanto, la musica
riprese, più lenta, più triste. Il cantante iniziò a dare voce e gestualità al
tormento di una passione descritta come più forte di una catena e i pensieri di
Sarah non poterono che andare a Hermann. Sulle note di quella struggente
canzone, gli occhi di Sarah e di Matteo cominciarono a muoversi, abbassandosi e
rialzandosi, nascondendosi e ricercandosi, in una danza di sguardi lucidi, per
lei di malinconia e tristezza, per lui di sospirante attesa. D’un tratto, la
moglie del signor Gennaro le si avvicinò e, sedendosi accanto, la prese per
mano.
“Vai,
Sarah. Non aver paura, è un bravo ragazzo.Mio marito ha preso
informazioni su di lui, vai”, le sussurrò all’orecchio, strattonandole
lievemente il polso, nel tentativo di farla alzare.
Ma
Sarah svincolò la mano, incrociò le braccia con un broncio quasi da bambina e
non si mosse dalla sedia. Alzarsi da quella sedia, avvicinarsi a Matteo,
accettare i suoi fiori significava rassegnarsi all’idea che Hermann fosse
morto, lasciar morire il ricordo dei suoi occhi verdi di smeraldo per due occhi
color terra, delle sue mani morbide e bianche per due mani scure e callose,
della sua pelle dal profumo orientale che evocava luoghi sconosciuti per una
pelle dal perenne odore di alghe e salsedine, dimenticare il suono della sua
voce, il sapore delle sue labbra, le loro notti di passione a Fossoli e lei non
era poi così sicura di volerlo fare realmente, di volersi realmente liberare da
quelle catene. Fu colta da un improvviso senso di vuoto nel petto e il cuore
iniziò a batterle più in fretta, agitato dalla prospettiva di un futuro di
solitudine e si sentì di nuovo fragile. Fu la paura a spingerla ad alzarsi e ad
andare verso Matteo, con l’andatura e l’espressione di chi sembrava andare
incontro a una condanna. Prese i fiori, senza nemmeno un sorriso e, mentre le
sue labbra disegnavano un debole “grazie”, due grosse lacrime le caddero dagli
occhi. Sarah guardava Matteo, i suoi occhi scuri spalancati di interrogativi e
le sue labbra asimmetriche socchiuse di ammirazione, e pensava a Hermann,
all’ultima immagine che aveva di lui, inginocchiato con espressione persa e
impaurita davanti ai fucili partigiani. E, intanto, il cantante interpretò gli
ultimi versi:
Capitolo 10 *** Come sassi sulle onde del mare ***
Capitolo
10
Come
sassi sulle onde del mare
“L’amore ti
cambia i battiti del cuore, la direzione del sangue, ti fa crescere invisibili
strutture alari dentro le ossa, ti cambia persino il senso del gusto. Non ti
riconosci più. O forse è solo in quel momento che ti riconosci davvero.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
“Non
erano lacrime di gioia quelle, vero?” fece Matteo, con la voce spezzata dallo
sconforto e Sarah alzò la testa, rivolgendogli lo sguardo in un’espressione
quasi d’insofferenza.
Una
ciocca le copriva un occhio e, con le spalle appoggiate al muro fuori casa,
teneva le mani dietro la schiena e i piedi incrociati.
“Perché
mai avrei dovuto gioire?” ribatté indispettita e, muovendo un po’ la testa,
scostò dal viso i capelli. “Sei fuggito senza una spiegazione, sei scomparso
per una settimana e adesso riappari con tanto di fiori e serenata.”
Sarah
carpì dal suono risentito della propria voce un’assordante nota di affetto, che
la spiazzò e le fece paura.
“Mi
dispiace, Sarah, non volevo sembrarti insensibile o chissà cos’altro”, riprese
Matteo, più mortificato, più emozionato. “È solo che mi sono tornate alla mente
tante cose e avevo bisogno di fare chiarezza nei miei sentimenti. Io mi sono
innamorato di te dal primo momento che ti ho vista, appoggiata alla ringhiera
della banchina, mentre guardavi il mare.”
Gli
occhi di Sarah divennero più lucidi, più dolci e, senza sapere come, si ritrovò
con le mani nelle mani di Matteo, che, con sguardo somigliante al suo, proseguì
il discorso: “Il signor Gennaro mi ha detto che sei stata in un campo di
concentramento a Fossoli e che sei riuscita a scappare durante una rivolta dei
partigiani. Mi dispiace davvero tanto, Sarah, per quello che hai dovuto
subire.”
Sarah
poté udire il battito accelerato del proprio cuore, mentre davanti agli occhi
della mente le passarono in un attimo tutte le immagini, belle e drammatiche,
della sua storia con Hermann e tentò di rivelarla a Matteo.
“Matteo,
io devo parlarti”, biascicò, ma fu subito interrotta dalla comparsa del signor
Gennaro sull’uscio di casa.
“Sarah,
devi rientrare per il taglio della torta”, disse, con un fare severo che divise
di colpo le loro mani.
Sarah
guardò Matteo con occhi lucidi di parole trattenute, di drammi vissuti, di
ferite aperte e lui, con un’espressione empatica, rispose: “Domani sera, vicino
alla cassa armonica.”
Berlino
Era
da un po’ di giorni che Hermann aveva ripreso a mangiare da solo, ad
alimentarsi senza l’aiuto della flebo e il dolore, che prima avvertiva in tutto
il corpo, andava via via mitigandosi. Fumando una sigaretta, dopo una lunga e
forzata astinenza, si guardava intorno alla stanza, alla ricerca di un
qualcosa, un oggetto, una sensazione, che lo facesse sentire a casa. Ma quella
non era più casa sua e coloro che lo avevano messo al mondo, ancora avvinti
dalla mentalità nazista, non erano più la sua famiglia. O forse era lui a non
essere più lo stesso. La sigaretta non gli dava più piacere e la spense nel
posacenere sul comodino. Continuando a guardarsi attorno, poteva soltanto
rivedere le immagini della sua storia con Sarah, in un concatenarsi di momenti
belli e drammatici, e sulle labbra si ritrovò il sapore salato del loro ultimo
bacio. Era Sarah la sua famiglia e lui doveva ritornare a casa, tra le sue
braccia.Iniziò a chiedersi dove fosse in quel momento e,
mentre la sua mente si aggrovigliava in congetture, il suo cuore scalpitava
sempre più nel desiderio di ritrovarla. Forse Sarah era rimasta a Modena e
adesso stava preparando la cena per suo marito, uno dei partigiani che l’avevano
salvata da Fossoli, o forse era tornata a Roma e adesso stava aiutando sua
madre a portare i piatti in tavola, prima di sedersi con i suoi affetti e la
sua fanciullezza ritrovati. In entrambe le ipotesi, Sarah sorrideva e lui era
soltanto un triste capitolo della sua vita che aveva ormai dimenticato. Il
pensiero di averla ormai persa per sempre divenne sempre più forte, in
un’escalation di paura, ansia, irrequietezza che lo spinse, con una forza che, dopo
Sachsenhausen, credeva irrecuperabile, ad alzarsi dal letto e a recuperare
dall’armadio una valigia.
Napoli
“Io
e la mia famiglia non eravamo né fascisti né antifascisti e non eravamo fra
quelli che hanno combattuto per cambiare le cose”, iniziò a dire Matteo, con
una punta di mortificazione nella voce e nello sguardo. “Le leggi razziali ci
mettevano tristezza ma eravamo troppo presi dalla nostra sopravvivenza. Con lo
scoppio della guerra, eravamo diventati molto poveri e a casa nostra si pensava
soltanto a cosa e se avremmo mangiato l’indomani.”
Sarah
guardò commossa il suo viso, velato dall’ombra di tristi ricordi e, nella
cornice dei suoi disordinati ricci neri, ne colse la bellezza tra i colori
rosso e arancio del cielo al tramonto. Passeggiando sul bagnasciuga, si
ritrovarono nei pressi del Miranapoli, l’albergo a picco sul mare, e si
fermarono lì, dove il fondale era meno sabbioso e i ciottoli davano pizzicore
ai loro piedi nudi. Le onde si infrangevano delicate sugli scogli, che sulla
riva formavano un semicerchio, che sembrava accoglierli come in un abbraccio, e
spruzzavano su di loro gocce d’acqua leggere e sottili come la rugiada.
In
un improvviso slancio di affetto, Matteo le prese il viso tra le mani,
incorniciando il luccichio dei suoi occhi color miele e il tremore delle sue
labbra rosate e, con espressione seria, ribadì: “Io non sono scappato perché mi
hai detto delle tue origini.”
“Lo
so”, rispose Sarah, in un sussurro.
L’aria,
i suoni, i colori tutt’attorno creavano fra i due l’atmosfera giusta per un
tenero bacio, che però non avvenne. Prima che le labbra di Matteo potessero
sfiorare le sue, Sarah si scansò un po’, lasciando scivolare il viso sulla sua
spalla, dove trattenne una lacrima.
“Mi
dispiace”, biascicò e, alzando lentamente il capo, s’imbatté in due occhi scuri
che, luccicando di stupore e delusione, la mortificarono ancor di più.
Con
dita tremanti, gli prese le mani e, con voce rotta dalla commozione e occhi
velati di lacrime, gli disse: “Matteo, tu sei un bravo ragazzo e, prima che fra
di noi le cose diventino più serie, devi sapere la verità.” Con un profondo
sospiro, Sarah si preparò a dirgli di Hermann. “Hai mai sentito parlare di
Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück?”
“Sì,
di Auschwitz sì”, ribatté Matteo, afflitto.
“Fossoli
era un campo di transito e le persone che finivano lì erano destinate a questi
campi di sterminio nazisti. E anche io lo ero. Ma, appena arrivai a Fossoli,
piacqui subito a un ufficiale tedesco che comandava il campo.” Sarah emise un
altro sospiro e gli lasciò le mani, mentre temeva e sperava che Matteo
scappasse via di nuovo, stavolta davvero per sempre. “La prima volta abusò di
me ma poi accettai il compromesso.”
Forse
fu il pudore di vederle riaprire quella ferita o la paura di scoprire di lei un
lato incompatibile con la ragazza che aveva davanti a far sì che Matteo la
interrompesse, prendendole di nuovo il viso tra le mani e dicendole: “Sarah,
non è necessario tutto questo. Non m’importa di quello che hai dovuto fare per
sopravvivere. M’importa di te, adesso.” Con i pollici iniziò ad accarezzarle le
guance calde e arrossate. “Della ragazza straordinaria che ho qui di fronte a
me.”
Le
parole di Matteo, dal tono tenero e deciso, spiazzarono Sarah, lasciandola
confusa e dibattuta in una tempesta di sentimenti contrastanti di delusione e
di gratitudine.Lui non l’aveva giudicata e nemmeno
aveva preso parte al dolore del suo passato. Lui non era il grande amore della
sua vita ma aveva aperto le braccia per stringerla a sé, per accoglierla
nonostante il suo disonore. Forse nessun uomo lo avrebbe più fatto. Lui
l’avrebbe curata dall’ossessione per Hermann e dai vuoti della solitudine.
Sarah si abbandonò nell’abbraccio di Matteo e, a quel suo sentirsi amata, il
suo cuore rispose con un sussulto d’amore. Poi, tenendo premuta la guancia sul
suo petto, rivolse lo sguardo verso l’orizzonte imbrunito dal crepuscolo della
sera e affidò al mare i suoi ricordi, come sassi lanciati sulle onde.
Capitolo 11 *** Ebrea per un quarto (Prima parte) ***
Capitolo
11
Ebrea
per un quarto
Prima parte
- Improvvisamente sola, improvvisamente più grande -
“Nelle
intenzioni fasciste, [in Italia] la caccia all’ebreo non avrebbe dovuto essere
meno accanita che nella Germania alleata, ma è stata ampiamente vanificata
dalla sensibilità umana degli italiani, dalla indifferenza politica di allora,
e dal discredito di cui il fascismo si era ormai coperto.”
Primo Levi,
Perché non ritornino gli olocausti di ieri
Roma,
gennaio 1944
Il
grande Crocifisso dominava la navata centrale della chiesa e, fissandolo, come
se tutt’attorno non ci fosse nessuno, i pensieri di Sarah si rincorrevano
veloci, spaziando nei ricordi di avvenimenti recenti e concludendosi in
“perché” da rivolgere a Dio, anche Lui ebreo, anche Lui perseguitato.
Solo
pochi mesi prima aveva scoperto di essere ebrea, che nelle sue vene scorreva
per il 25% sangue ebreo, quando, dopo il 16 ottobre, a casa sua s’iniziò a
respirare una strana aria di tensione e paura. Nonostante suo padre avesse
difeso la Patria durante la Grande Guerra, nonostante lei e la sua famiglia
vivessero da onesti cittadini e buoni cristiani, si ritrovarono improvvisamente
apolidi e, subito dopo, ricercati dalla polizia tedesca e da quella italiana.
Tutto era successo così in fretta da non sembrarle vero.
Da
un giorno all’altro, suo fratello aveva smesso di essere un ragazzo,
quell’amico con il quale lei scherzava, litigava e giocava, per diventare
improvvisamente uomo, imbracciare un fucile e sparire nella Resistenza. Sua
madre ne portava già il lutto.
Ogni
notte, intravedeva suo padre nel buio della cucina, seduto con i gomiti
poggiati sul tavolo e la testa fra le mani, alla ricerca di una possibile
soluzione per sfuggire all’ignoto destino crudele che li attendeva mentre sua
madre gli stava accanto, passandosi da una mano all’altra un fazzoletto con il
quale, di tanto in tanto, asciugava una lacrima. Prima che potessero perdere la
casa, i suoi genitori avevano deciso di intestarla a un certo Gennaro, un amico
napoletano che suo padre aveva conosciuto al fronte tra gli orrori delle
trincee e che adesso possedeva un bar vicino al mare di una città della
provincia di Napoli.
Da
quel momento in poi, lei e la sua famiglia iniziarono a vivere come fantasmi,
passando di casa in casa, fino a quando la lista di amici fidati non si
concluse con il caro don Franco, l’anziano parroco della loro parrocchia.
“Padre,
come riuscite a conciliare ciò che predicate con tutto questo?” fece suo padre,
senza rabbia ma con una punta di rassegnazione nella voce.
Sarah
era tornata nella realtà presente e, per un attimo, alzò lo sguardo verso la
cantoria, dove lei cantava ogni domenica, fino a quando alcuni, tra coro e
assemblea, non cominciarono a guardarla male e adesso sapeva che il motivo non
era una sua possibile stonatura.
“Cari
figlioli, non confondete il silenzio della Chiesa con l’indifferenza”, rispose
il sacerdote, mettendo le mani sulle spalle dei suoi genitori per incoraggiarli.
“Stiamo in silenzio per poter agire meglio: è la nostra resistenza passiva. Il
Santo Padre ci ha dato tutte le indicazioni per mettere in salvo quante più
persone possibili.”
“Sarah
starà al sicuro?” intervenne sua madre, con voce spezzata.
“Non
temete, la madre superiora le ha già preparato dei documenti falsi. Fra dieci o
quindici giorni una suora verrà a prenderla e, nel frattempo, resterà qui con i
bambini. Ma adesso pensate a voi, don Luigi vi sta aspettando”, ribatté più
sicuro l’anziano parroco, per poi avvicinarsi a un’altra coppia di genitori,
intenti a salutare il loro bambino.
Sarah
non poteva credere che ciò che stava vivendo fosse vero ed entrò come in una
bolla, restando immobile agli abbracci e alle carezze d’addio dei suoi
genitori, muta e sorda alle loro ultime parole d’affetto e incoraggiamento. Se
ne pentì, in seguito.
Smarrita,
impaurita, riusciva a udire soltanto i singhiozzi disperati di quel bambino e
pensava che anche lei avrebbe voluto fare lo stesso, come il piccolo,
ribellarsi all’imminente e straziante distacco. Ma non versò neanche una
lacrima per non dare un ulteriore dispiacere ai suoi genitori, che continuavano
a guardarla con occhi velati di lacrime e ad accarezzarle il viso con mani
tremanti. Li guardò andare via con sguardo perso, implorante un finale diverso
e, con un sospiro, trattenne una lacrima, stringendosi nel suo cappotto rosso.
Sarah si ritrovò improvvisamente sola, improvvisamente più grande.
“Fatti
forza, figliola”, le disse don Franco, poggiandole una mano sulla spalla, “con
l’aiuto di Dio supereremo tutto.”
Ma,
per lei, era difficile anche solo sperarlo.
Due
settimane dopo, Sarah sedeva sui gradini dell’altare. La chiesa era fredda e
illuminata soltanto dalle candele votive. Nuvolette di fumo le uscivano dalla
bocca mentre il freddo del marmo le oltrepassava il cappotto, dentro il quale
si era stretta un po’ di più, arrivando fino alle ossa.
In
canonica aveva tutto il necessario per vivere dignitosamente ma la mancanza del
tepore di casa sua e dei suoi affetti familiari era troppo forte, quasi
soffocante e il piagnucolare dei bambini più piccoli non l’aiutava a distrarsi
da questa sua insofferenza. Per questo si era rifugiata nel silenzio della
chiesa.Ma
anche il silenzio non le era d’aiuto.
Sarah
alzò lo sguardo verso la porta principale della chiesa dalla quale un tempo,
che sembrava già lontanissimo, sognava di entrare vestita di bianco. Adesso non
sognava più, ma solo sperava di avere un futuro davanti a sé, di ricongiungersi
presto con la sua famiglia, di rivedere suo fratello sano e salvo, che quella
suora sarebbe arrivata da un momento all’altro per portarla in un posto più
sicuro e che la guerra, con tutte le sue follie, sarebbe presto finita.
All’improvviso,
un forte colpo alla porta la fece sobbalzare dai gradini e, per alcuni istanti,
rimase impietrita. Ogni suo pensiero era come ghiacciato, annullato sul
nascere. A un secondo colpo più forte, sobbalzò di nuovo e, all’udire il rumore
di passi svelti e pesanti e il vociare concitato fra italiani e tedeschi, corse
verso la canonica. Don Franco era già accorso sull’uscio e le si fermò davanti
affannato, pallido come un fantasma, sconvolto, con gli occhi spalancati e le
labbra tremanti e la lunga corona del rosario attorcigliata dalle dita al
polso, stretta come un’arma.
“Sarah,
nell’armadio alla destra della mia scrivania c’è un passaggio che porta in
soffitta”, le disse, con voce bassa e spezzata.
“I
bambini sono già lì, raggiungili presto e non fate alcun minimo rumore”,
concluse più preoccupato, mentre Sarah annuì sgomenta per poi correre verso il
rifugio segreto.
Trovò
i bambini in silenzio, seduti per terra, rannicchiati al muro, impauriti. I più
grandi tenevano tra le braccia i più piccoli, cullandoli lievemente per non
farli piangere e Sarah, trafelata e con gli occhi pieni di lacrime trattenute,
si unì a quell’abbraccio disperato. Il suo cuore sobbalzava, i suoi occhi si
chiudevano, a ogni tonfo di oggetti pesanti rovesciati a terra, a ogni
schiamazzo che si faceva sempre più vicino, mentre una ragazzina le si
stringeva al collo.
Dalla
chiesa, giungevano le urla dell’anziano sacerdote: “Non potete farlo! Questa è
la casa del Signore! Dio vi punirà!”
Ma
quelli non avevano alcun dio da temere e, mentre i loro passi si affrettavano
sulla scala che conduceva alla soffitta, Sarah sapeva che presto la sua vita
sarebbe precipitata in un incubo senza possibilità di risveglio. Con violenza,
la porta fu aperta. La ragazzina urlò forte, tanto da stonarle un orecchio. E
l’incubo ebbe inizio.
“Un giorno il
denaro ha scoperto la guerra mondiale.
Ha dato il suo
putrido segno all’istinto bestiale.
Ha ucciso,
bruciato, distrutto in un triste rosario.
E tutta la terra
si è avvolta di un nero sudario.”
Sarah
aveva smesso di piangere. Tutti nel treno, stretti come sardine, erano stanchi
e non versavano più lacrime. I bambini, assieme ai quali era stata arrestata,
dormivano, mentre don Franco pregava sommessamente, in un frenetico movimento
di labbra, senza rosario, spezzato e perso durante la colluttazione in chiesa
da quelli che non avevano alcun dio da temere.
“Dove
ci portano?” gli aveva domandato Sarah, conoscendo già la risposta e, intanto,
guardò uno dei bambini più piccoli, chiedendosi cosa avrebbe mai fatto un
bimbetto come lui in un campo di lavoro forzato in Germania.
Li
avrebbero uccisi tutti, come aveva detto suo fratello prima di andar via, e a
confermarglielo era stata la risposta di don Franco, priva di una qualsiasi
illusoria speranza: “Prega, figliola, prega.”
Si
sentì attanagliare il petto da una morsa di paura e rassegnazione, mentre il
sovraffollamento e la puzza nel treno, destinato in realtà al trasporto di
animali, diventavano sempre più opprimenti.Poi, anche lei, un po’
per stanchezza, un po’ per evasione, chiuse gli occhi e si ritrovò bambina, a
correre sulla spiaggia di Santa Marinella, inseguita da suo fratello.
Era
il ricordo della loro unica vacanza al mare. Poteva ancora sentirne gli odori,
vedere i suoi piedi immersi nella sabbia, udire le risate di suo fratello e le
proprie.
Non
avrebbe mai più rivisto il mare, suo fratello, i suoi genitori. Sarebbe morta
lontana dai suoi cari, in una terra straniera e ostile, più dell’Italia,
nell’inferno di un campo che, probabilmente, non era soltanto di lavoro forzato,
senza mai conoscere l’amore, senza che il suo grembo conoscesse mai il battito
di una vita. I sogni che coltivava sin da bambina si erano infranti,
decomponendosi in fretta e rilasciando lo stesso puzzo che imperava nel treno,
spirando tra i gemiti di persone innocenti condannate a morte e gli strepiti di
un vagone fatiscente.
“Sarah!
Sarah! Svegliati!” fece l’anziano sacerdote, scuotendole un po’ il braccio.
Sarah
aprì gli occhi, confusa, scarmigliata e, come tutti gli altri, balzò in piedi.
Il treno si era fermato.
“Vieni
a vedere, Sarah!” proseguì don Franco, con voce di concitata euforia,
invitandola a guardare attraverso una fessura del vagone. “Il Signore ha
ascoltato le nostre preghiere: siamo ancora in Italia!”
Un
raggio di sole sembrò illuminare il cartello della stazione di Carpi, facendolo
brillare di mille colori, mentre una voce maschile dal tono pacato e dalla
dizione impeccabile, rivolgendosi proprio all’anziano sacerdote, disse: “Qui
vicino c’è un campo di concentramento italiano con personale italiano.
Sicuramente rimarremo lì fino alla fine della guerra. Ormai manca poco.”
Gli
occhi di Sarah, che continuavano a fissare il cartello attraverso la fessura,
si velarono di commozione.
“Hai
sentito, Sarah?” fece don Franco, anche lui palesemente commosso, ponendole una
mano sulla spalla. “Possiamo ancora sperare.”
Ma
le porte del treno furono aperte con violenza da quelli che non erano soldati
italiani.
E
i tedeschi urlavano, un po’ nella loro lingua e un po’ in un italiano stentato,
spingevano, strattonavano, picchiavano e aizzavano i loro cani ad abbaiare rabbiosamente
contro i malcapitati. Era forse come quella di Fossoli l’accoglienza
all’inferno?
Durante
il breve tragitto in camion, il volto di don Franco si era corrugato in
un’espressione preoccupata e impaurita che non aveva più cambiato, i bambini
erano sempre più stremati e insofferenti, mentre Sarah continuava con fatica ad
aggrapparsi al conforto di essere ancora in Italia.
Si
sentì piccola piccola tra le baracche di un campo che le sembrò grande quanto
un’intera città, ancor più fragile nella confusione di una moltitudine di
persone disorientate, spaventate, maltrattate da soldati crudeli che sembravano
più grossi di quello che in realtà erano.
E,
davanti a lei, un tedesco, con indosso una divisa diversa dagli altri, colpì
con il frustino un uomo, per poi strattonarlo con violenza. L’uomo rischiò di
inciampare, ma a cadere fu lei. Le mani di Sarah sprofondarono nel terreno
fangoso e, per un soffio, non sfiorarono gli stivaloni neri dell’ufficiale. In
quei pochi e interminabili secondi, poté sentire i battiti accelerati del
proprio cuore, che pulsava forte contro la terra sulla quale era distesa, e il
respiro farsi più corto e affannoso.Quasi volle piangere,
non per il dolore della caduta, ma per la paura di ciò che le sarebbe accaduto,
una volta rialzatasi.
Prima
che don Franco potesse porgerle una mano per aiutarla, Sarah si fece forza
sulle braccia e sulle ginocchia indolenzite e, tremante, si rialzò lentamente.
La prima cosa che vide, alzando un po’ lo sguardo, furono due spalle larghe su
di un corpo alto e imponente. Ma non le arrivò nessuno schiaffo, nessun colpo.
Impaurita e confusa, osò alzare ancor di più lo sguardo e s’imbatté in due
occhi verdi, le cui sfumature le ricordarono i colori del mare che aveva
rivisto in sogno.
Un
breve scambio di sguardi e gli occhi di Sarah, come distese di grano tra le
mani del vento, s’incrociarono con le profondità oceaniche di quegli occhi
smeraldo. Il viso cereo e severo dell’ufficiale, per un attimo, sembrò
addolcirsi e anche la sua postura, fiera e sprezzante, andò rilassandosi.
L’inferno non doveva essere poi così terribile, se chi ne era a comando
possedeva quegli occhi e aveva avuto pietà di lei.
“Mi sentivo sì
innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una
giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i
peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.”
Primo Levi, I
sommersi e i salvati
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
Napoli,
luglio 1946
L’abbraccio
di Matteo racchiudeva in sé il profumo della brezza marina, che, leggerissima,
soffiava sulle pagine della vita di Sarah, nel tentativo di voltarne il tormentato
capitolo di Fossoli, che ancora sanguinava nell’incoerente intreccio tra dolore
e rimpianto.
Con
la guancia premuta sul petto di Matteo, Sarah guardava il mare calmo della sera
e sentiva ancora il dolore per la perdita di suo fratello, di sua madre, di suo
padre, di don Franco e dei bambini, suoi compagni di sventurato viaggio, e la
nostalgia degli occhi verdi di Hermann, crudelmente belli.
Strizzando
un po’ gli occhi per trattenere le lacrime, strinse di più le mani attorno ai
fianchi di Matteo. Quell’abbraccio poteva essere per Sarah la morbida culla
della sua salvezza o la recinzione spinata di una nuova prigione e poteva
uscirne come da grembo verso la rinascita o come da precipizio verso
un’esistenza spaccata a metà tra il ricordo agrodolce di Hermann e l’amore acerbo
del giovane pescatore.
Fu
pervasa da un improvviso senso di colpa, questa volta non verso i suoi cari,
per essere indegnamente sopravvissuta, ma verso Hermann, per quelle braccia che
la stringevano e che non erano le sue.
Strizzò
ancora gli occhi: forse, quando li avrebbe riaperti, alzando lo sguardo verso
il volto di Matteo, avrebbe rivisto gli occhi verdi, d’insondabile oceano, di
Hermann e il suo viso cereo e severo, di celata dolcezza; la spiaggia si
sarebbe trasformata nel terreno fangoso di Fossoli e l’infinito orizzonte del
mare sarebbe mutato nei suoi confini spinati, di un inferno che, di notte,
diventava per lei un illusorio paradiso. Ma sapeva che tutto ciò fosse una
pazzia, una distruttiva fantasia della sua piccola mente fuorviata dagli eventi
passati e adesso ammalata.
Quando
alzò lo sguardo, vide due occhi marroni, che la guardavano attraverso un velo
di tenerezza e commozione e, in un sussulto, spinse il suo cuore ad aprirsi a
quell’amore puro e acerbo, che la sua adolescenza non aveva mai conosciuto.
Matteo
era la sua cura, la sua salvezza.
“Mi
aiuterai a guarire?” gli chiese, con voce flebile e spezzata, guardandolo
profondamente negli occhi.
In
precedenza, il giovane pescatore si era precluso la possibilità di conoscere
l’intera verità e, credendo che Sarah si riferisse alle ferite di un passato
che accomunava tanti dei sopravvissuti ai campi di concentramento, lasciò che
le lacrime inondassero la terra dei suoi occhi e scivolassero lungo le sue
guance scurite dal sole.
“Sì,
io mi prenderò cura di te”, le disse, prendendole il viso tra le mani e
avvicinando, ancora una volta, le labbra alle sue.
Sarah
sapeva che Matteo non avrebbe mai compreso pienamente il dolore che
l’affliggeva, ma s’innamorò delle sue lacrime, delle sue parole, e accolse il
suo tenero bacio. Una lacrima le rigò il viso e lasciò che Hermann morisse per
quelle labbra che avevano il sapore del mare e che lei baciò con passione tra i
bagliori color indaco del cielo al crepuscolo della sera, alba della sua nuova
vita.
Berlino
Hermann
aprì la valigia sul letto e, afferrando dall’armadio un mucchio di vestiti a
caso, li gettò nervosamente al suo interno, appiattendoli. Solo pochi gesti e
già sentì le forze venir meno. Per un attimo, si fermò a guardare le proprie mani,
sprofondate tra i vestiti nella valigia, un po’ tremanti, ancora troppo deboli,
ed esitò. Forse non era ancora fisicamente pronto per affrontare il viaggio
verso l’Italia, gli inevitabili controlli delle autorità militari delle potenze
occupanti in Germania, l’estenuante ricerca della sua amata tra le città
italiane.
Ma
il pensiero di Sarah era la sua forza e le braccia che lo attendevano sarebbero
state la sua cura.
In
fretta, tolse il pigiama e si vestì, per poi chiudere la valigia, con uno
scatto deciso, rumoroso.
“Hermann!”
lo chiamò suo padre, stupito e sconvolto. “Cosa stai facendo?!”
“Torno
in Italia”, rispose con tono di sufficienza, senza rivolgergli lo sguardo e
rovistando freneticamente nei cassetti del comodino, alla ricerca dei suoi documenti.
“Sei
impazzito?! Nelle tue condizioni?!” continuò suo padre, avvicinandosi. “E poi,
per quale motivo?! Per rincorrere una sottana ebrea?!”
Il
tono della sua voce era diventato più severo, più pungente ed Hermann strinse
le mani a pugno, accartocciando nel cassetto due mucchietti di fogli inutili.
Rivolse
a suo padre uno sguardo infuocato, accorgendosi anche della silenziosa presenza
di sua madre sull’uscio della camera, e replicò: “Non capisci?! Il nazismo è
finito, definitivamente! Non esistono più differenze tra ebrei e non ebrei,
anzi non sono mai esistite!”
“è per colpa di quelli come te che
abbiamo perso la guerra. Avrei dovuto lasciarti marcire a Sachsenhausen”,
ribatté suo padre, tra biasimo e disprezzo, mentre sua madre accostò il
fazzoletto alla bocca per trattenere le lacrime.
A
quelle parole, Hermann non si lasciò ferire e, afferrata dal letto la valigia,
sfidò suo padre con sguardo altrettanto sprezzante, dicendo: “Meglio nelle mani
dei russi che in casa di borghesi che giocano ancora a fare i nazisti.”
Fece
per andarsene, ma suo padre lo fermò, mettendosi davanti e prendendogli le
braccia.
“Tu
non uscirai da questa casa”, affermò perentorio e, allo svincolarsi di Hermann,
iniziò fra i due una colluttazione.
La
valigia cadde per terra, aprendosi e sparpagliando il contenuto, mentre Birgit,
ferma sull’uscio, tratteneva a stento i singhiozzi nel fazzoletto. Volarono
indumenti, effetti personali, fogli e volò anche qualche schiaffo, ma Hermann
non se ne accorse nemmeno, abituato ormai al trattamento diSachsenhausen.
Vedeva solo Sarah davanti agli occhi, immaginando il momento in cui l’avrebbe
riabbracciata e si faceva forza, pur sapendo di essere ancora troppo debole e
di non riuscire a tenere testa neanche a suo padre. Infatti, l’ex SS-Obersturmführer
ruzzolò sul pavimento.
“Va
bene.” Karl sembrò arrendersi alla tenacia di suo figlio. “Va’ pure. Ritorna
dalla tua ragazzetta ebrea. Ma prima devi vedere una cosa”, disse, sollevandolo
bruscamente per un braccio, per poi trascinarlo verso il comò.
Lo
costrinse a sedersi davanti allo specchio e, alla violenza di questo movimento,
Hermann avvertì un dolore alla schiena e pensò che forse non ce l’avrebbe mai
fatta a mettersi in viaggio.
“Guardati”,
lo esortò suo padre, stavolta con tono più calmo, più persuasivo, mentre lo
specchio rifletteva l’immagine deforme di un viso e di un corpo smagriti,
lividi, “cosa vedi?”
Sconvolto,
gli occhi di Hermann si velarono di lacrime: no, non poteva essere lui quel
mucchio di ossa, senza capelli, con espressione triste e smarrita da reduce, da
sopravvissuto.
“Credi
che lei ti riconoscerà? Cosa penserà di te?” continuò suo padre e, pensando che
il tempo avrebbe curato la sua ossessione, rincarò la dose mostrandogli una sua
foto in divisa. “Di chi credi si sia innamorata? Del comandante di Fossoli? O
di ciò che ne resta?”
Quelle
parole sembravano essere l’eco dei suoi pensieri e, intanto, si fece vivo,
quasi percepibile sulla pelle, il ricordo delle dita di Sarah che affondavano
nelle sue spalle, larghe e forti; dei suoi piedi che, nell’intreccio
appassionato dei loro corpi, gli sfioravano le gambe, ancora coperte dai
pantaloni dell’uniforme.
“Rimettiti
in sesto e poi, se è questa la tua decisione, potrai partire”, concluse suo
padre con tono fermo e, rimasto solo davanti allo specchio, Hermann cercò nel
verde dei propri occhi un po’ di sé.
Ma,
attraverso il velo di lacrime, trovò soltanto il ricordo di due occhi color
miele che lo guardavano, mendichi di protezione e di sicurezza, ciò che a Sarah
non avrebbe potuto più dare in quelle condizioni.
L’ufficio di Hermann affacciava proprio
sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il cappotto rosso e, dalla
sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini: l’età della ragazzina era,
sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni e, dai modi, sembrava essere
di buona famiglia; la mattina usciva dalla baracca, raccoglieva i capelli in
uno chignon scarmigliato e si sbracciava le maniche del vestito color marrone
chiaro, per aiutare le donne nelle faccende domestiche; parlava poco,
limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo pranzo usciva di nuovo, con
i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto rosso e, ferma sull’uscio della
baracca con le braccia incrociate, per una buona mezz’ora, teneva d’occhio i
bambini mentre giocavano. Ed era questo il momento in cui Hermann si soffermava
a guardarla, lasciando che i pensieri spaziassero in fantasie nella cascata dei
suoi lunghi capelli e nella generosità delle sue forme, nell’espressione triste
e impaurita di due occhi sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo
inseguivano la notte fino a degenerare in desiderio smanioso di averla.
“Agli ordini, signor tenente!” Scattò
sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.
“Nell’ultimo convoglio, qualche giorno fa,
è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di bambini”, disse
Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e portandosi davanti
alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”
E, quella sera stessa, la ragazza era al centro
della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa, tremante, in una divisa da
cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga ciocca che le copriva mezzo
volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann entrò, a passo lento e
autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.
Capitolo
14
Un
dono della Provvidenza
“Pensare che
separati da treni e da nazioni tu e io dovevamo semplicemente amarci, confusi
con tutti, con uomini e con donne, con la terra che pianta ed educa i
garofani.”
Pablo Neruda
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
16
febbraio 1944
La
vita a Fossoli procedeva decisamente meglio di quanto Sarah avesse immaginato,
in una tranquillità spezzata soltanto da voci, provenienti soprattutto dal
Campo Vecchio, dov’era stato portato don Franco, che presagivano un
trasferimento in Germania. Ma lei, nonostante ne avesse paura, stentava a
crederci: perché farli attendere lì e non deportarli subito? Non avrebbe avuto
alcun senso.
Il
cibo scarseggiava ma questa mancanza veniva sopperita dal buon cuore degli
abitanti delle zone circostanti che, con grande coraggio, riuscivano a far
entrare nel campo anche medicine e capi di vestiario.
In
una moltitudine di dialetti italiani e stili di vita diversi, tra i prigionieri
vi era una forma di solidarietà e sostegno reciproco che, al cuore di Sarah,
infondeva pace e una certa sicurezza. Maria, una donna sulla quarantina, che
condivideva la sua stessa baracca, le aveva regalato un paio di calze nuove.
Proveniva
da Bologna e, sposata con un pianista ebreo, aveva seguito la stessa sorte del
marito. I due non avevano figli – o forse, più semplicemente, non ne parlavano
poiché nascosti in qualche rifugio segreto –, eppure in loro traspariva un
particolare istinto materno e paterno verso i bambini della baracca e verso di
lei. Nei loro occhi brillava un sentimento di bontà incondizionata. Al suo
arrivo, Maria, con delicatezza di madre, le aveva medicato il ginocchio
sbucciato per la caduta, aiutandola anche a pulire il cappotto dalle macchie di
fango. In quella baracca, Sarah aveva ritrovato un po’ di calore familiare.
Seppur
temuta, la presenza dei tedeschi non era poi così ingombrante e non troppo
pesanti erano le mansioni da svolgere. Sarah aiutava le altre donne della
baracca nelle faccende domestiche e, a volte, riusciva addirittura a sorridere.
Anche i bambini, con i quali era arrivata a Fossoli, insieme a don Franco,
sembravano più sereni, fuori dal buio di una canonica, liberi – per modo di
dire – di giocare con i loro coetanei, sotto un generoso sole pomeridiano.
Guardandoli,
si strinse di più nel cappotto, nel ricordo di suo fratello, dei loro giochi da
piccoli, delle loro chiacchierate poi da grandi, domandandosi dove lo avesse
condotto la Resistenza e se fosse ancora vivo. Le mancava la sua famiglia. D’un
tratto, si sentì osservata, in una sensazione sempre più pressante: forse erano
gli occhi vigili dei soldati armati sulle torrette, ma non osò sollevare la
testa e, con espressione impaurita, scossa, continuò a guardare i bambini
rincorrersi e giocare.
Sarah
stava pettinando i capelli alla ragazzina più grande del suo gruppo di bambini,
quella che aveva urlato in soffitta all’arrivo dei tedeschi. Si chiamava Agnese
e i suoi capelli erano castani, riccissimi.
“Ahi!”
si lamentava la piccola di tanto in tanto, a causa dei nodi.
“Shh”,
la rassicurava Sarah, cercando di fare più piano, “abbiamo quasi finito.”
Quando,
all’improvviso, entrò nella baracca un soldato delle SS, spalancando con
violenza la porta che sbatté alla parete e urlando il suo nome: “Bonanni
Sarah!”
Sarah
scattò in piedi, lasciando cadere la spazzola sul letto dov’era seduta con
Agnese e divenendo come di pietra. Il sangue le si gelò nelle vene, mentre la voce
del soldato arrivava alle sue orecchie come un rumore lontano. Di quel
discorso, scandito aspramente in un italiano stentato e intervallato da parole
in tedesco, per lei già incomprensibili, riuscì soltanto a capire che il
tenente Von Wildenberg Hermann, al comando del Campo Nuovo, l’aveva convocata
per quella sera stessa. Perché? Cosa aveva mai fatto? Voleva piangere, sparire,
tornare a casa sua. Come un lampo, le passò davanti agli occhi l’immagine del
suo capitombolo all’arrivo a Fossoli, del fango schizzato a causa delle sue
mani sprofondate nel terreno e tremò di paura al pensiero che il tenente
volesse posticipatamente fargliela pagare per avergli macchiato i suoi begli
stivali lucidi, o per aver avuto poi l’ardire di incrociare il suo sguardo.
Cosa le avrebbe fatto?
Quando
il soldato andò via, Maria le si avvicinò e, ponendole una mano sulla spalla,
le chiese dolce e apprensiva: “Sarah, cara, hai capito cosa ti ha detto?”
Sarah,
ancora immobile e confusa, dissentì debolmente con la testa, senza neanche
guardarla, e la donna proseguì: “Il comandante del campo ti vuole a servizio
come cameriera.”
Sarah
si tranquillizzò un po’, ma non emise alcun sospiro di sollievo.
Perché
il tenente aveva scelto proprio lei e non una donna come Maria, oppure una
delle tante giovani staffette partigiane nelle cui vene non scorreva neanche
una goccia di sangue ebreo? Sarah indossò la divisa da cameriera – che una
donna sulla cinquantina, forse una cuoca, dai tratti del viso severi e
spigolosi, le aveva consegnato – e, aggiustandosi una calza, un pensiero brutto
affiorò nella sua mente. Ma subito lo mandò via, al ricordo delle leggi
razziali: il tenente non avrebbe mai potuto approfittare di lei.
“Io
non voglio andarci”, sussurrò, accennando un broncio quasi da bambina.
Sarah
aveva ugualmente paura di presentarsi a quell’ufficiale tedesco.
“Sarah,
io non credo che questo sia un invito. E non credo che tu abbia molta
possibilità di scelta”, le disse Maria con tono serio, aiutandola a sistemare
una ciocca di capelli che non voleva proprio saperne di stare ordinata nello
chignon. “Non avere paura. Ho sentito dire che le cameriere godono di svariati
privilegi. L’inverno è lungo, Sarah. E, oltretutto, hai sentito anche tu quelle
voci che parlano di un possibile trasferimento in Germania. Lavorare come
cameriera ti garantirebbe la permanenza qui.”
Poco
lontano, seduto su una sedia, vide il marito di Maria lanciare verso di loro
uno sguardo strano, che non gli aveva mai visto prima, tanto eloquente quanto
indecifrabile, in un misto di preoccupazione e biasimo, di compassione e
nervoso, il cui significato lo avrebbe compreso solo in seguito.
“Perché
proprio io?” replicò Sarah ancora spaesata, intimorita e con le lacrime agli
occhi.
“Consideralo
un dono della Provvidenza”, fece la donna con un’espressione rassicurante e,
con un mezzo sorriso, le sistemò la ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Coraggio.
E mi raccomando”, continuò più seria e apprensiva, “occhi bassi e parla solo se
interrogata.”
Sarah
annuì, ma non era per nulla risollevata.
Di
sera, l’atmosfera al campo era tetra e spettrale, quasi inquietante, in
quell’oscurità illuminata soltanto dalla luce gialla di pochi lampioni e delle
torrette di sorveglianza. Una folata di vento le percosse il viso, facendo
sfuggire altri capelli dallo chignon, mentre il suo passaggio richiamava
l’attenzione di un gruppetto di soldati della Guardia nazionale repubblicana,
al di là del filo spinato, nella zona che divideva i due campi.
Uno
di loro fischiò malizioso, un altro si mise a canticchiare con ironia: “L’amore
coi fascisti non conviene. Meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non
ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera. Ce ne freghiamo.”[1]
Un
altro ancora, ostentando del rammarico, disse: “I tedeschi si prendono sempre
le più carine.”
Di
nuovo, nella mente di Sarah affiorò quel pensiero brutto, al quale si aggiunse
il ricordo dello sguardo strano del marito di Maria. Affrettò il passo e
incrociò le braccia, stringendosi forte nella sua divisa da cameriera, per
proteggersi dal freddo, come per nascondersi dagli sguardi di quei fascisti e
soffocare i suoi brutti pensieri.
Quando
giunse all’edificio occupato dai tedeschi, che non era molto distante dalla sua
baracca, un soldato delle SS la condusse al primo piano e, quasi al termine del
lungo corridoio, la chiuse in una stanza e, prontamente, andò via. Sussultando
allo sbattere della porta, Sarah sgranò gli occhi, mentre il cuore accelerò i
suoi battiti: la stanza in cui si trovava non era un ufficio, o un qualsiasi
altro luogo consono a un colloquio, ma una camera da letto. Di nuovo, le tornò
alla mente lo sguardo del marito di Maria e, più pressante, il pensiero che il
tenente potesse approfittarsi di lei. Aveva tanta paura e tanta vergogna di
stare lì. Dopo pochi secondi, sentì l’avvicinarsi di passi lenti e pesanti e,
stendendo le braccia lungo i fianchi, iniziò a tremare come una foglia.Voleva
piangere, sparire, tornare a casa sua. Allo girare della maniglia, Sarah emise
un verso strozzato, come un sussulto e, subito, abbassò la testa. Il tenente
era entrato.
Occhi bassi e parla
solo se interrogata.
“Tu di me hai
questo tempo,
io di te ancora
non lo so.
Tu di me hai la
voglia di cadere,
io di te il mare
in un cortile.
Io di te non
riuscirei mai a liberarmi,
tu di me non
riesci a farne a meno e non ne parli.
Io di te mi sono
innamorata che era aprile,
tu di me hai
notato qualche cosa che era già Natale.”
Emma Marrone, Io
di te non ho paura
[1]Riferito a “Le
donne non ci vogliono più bene”, un inno dei militi fascisti durante la
Repubblica sociale italiana.
Capitolo 15 *** Bianco è il colore dei miei sogni infranti ***
Immagine dal film “Schindler’s List”
Dal capitolo 3:
Campo di Fossoli, febbraio 1944
Afferrandola per il braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal
pavimento.
“Tu farai quello che voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio
fino a quasi imprimere le dita nelle sue ossa.
Sarah sapeva benissimo di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro
tanta violenta forza ma era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la
sua integrità. Tra lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il
tenente l’afferrò da dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le
mancò il respiro e credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla
ricerca smaniosa delle sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per
zittirne le flebili urla. Poi il tenente le strappò di dosso il vestito,
graffiandole la pelle, lacerandole l’anima e, come se pesasse poco più di una
piuma, la gettò sul letto, schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò
ancora di resistergli scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette
arrendersi dopo due forti schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore
accresceva, chiuse gli occhi per evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le
orecchie per non sentire i suoi spasimi di piacere. Tra le sue mani era come
una bambolina di pezza da girare e rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a
quando non fu stanco di giocarci.
Capitolo
15
Bianco
è il colore dei miei sogni infranti
“A volte due
persone, per combaciare, devono prima rompersi in mille pezzi.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
17
febbraio 1944
Era
quello il prototipo geneticamente perfetto di razza ariana? Dormiva ancora la
belva umana che non aveva disdegnato di approfittarsi di una ragazza ebrea.
Perché lo aveva fatto, se i nazisti consideravano quelli come lei “vermi che si
annidavano nei cadaveri in dissoluzione”, “coloro che avvelenavano tutto il
mondo”, nemici pericolosi e ripugnanti? Trovò la risposta nella domanda stessa
e si diede della ingenua per non averlo compreso prima: se l’obiettivo dei
nazisti era quello di strappare agli ebrei ogni dignità, con lei vi erano
riusciti alla grande.
Sarah
ruzzolò dal letto e, strisciando lentamente per terra, tremante per il dolore, raggiunse
una parete.Non c’era parte del corpo che non le facesse male,
un angolo della propria anima che non bruciasse per le ferite. Sedette sul
pavimento freddo, appoggiando le spalle al muro e, chiudendo forte gli occhi in
una smorfia di dolore, si strinse la sottoveste fra le intimità. Non era così
che aveva immaginato la sua prima volta.
Schiaffi,
invece di baci. Ingiurie, invece di dolci parole. Sangue e lacrime, al posto di
carezze e sospiri. La violenza, al posto dell’amore. Come sigillo, un vile
compromesso, anziché una promessa, per diventare la concubina di un nazista,
anziché una sposa virtuosa.
Ferita
nell’innocenza, si sentiva sporca, umiliata, oltraggiata nel corpo e
nell’anima, squarciata e trafitta fin dentro le viscere. Senza più lacrime da
versare, sgranò gli occhi in un’espressione di vuoto e iniziò a vedere la belva
nazista, sdraiato mezzo nudo sul letto, i mobili e tutt’attorno nella stanza come
ombre sfocate. Poi vide tutto bianco.
Bianco,
come le lenzuola che sua madre ricamava per lei da vent’anni, ovvero dalla sua
nascita.
“Arriverà
l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana”, le aveva detto un
giorno sua madre, mentre ripiegava il corredo nella cassapanca, notando la
malinconia sul suo viso adolescente.
Bianco,
come l’abito che non avrebbe mai indossato. Bianco, come i confetti che, alle
sue amiche del quartiere, già sposate, non avrebbe mai potuto ricambiare. Bianco,
come il riso che nessuno le avrebbe mai lanciato, fuori a una chiesa le cui
porte per lei non si sarebbero mai più riaperte, neanche per accogliere il suo
feretro. Sarebbe morta, o forse lo era già, schiacciata, soffocata dal peso di
quell’uomo infame, e il suo corpo sarebbe stato gettato in una fossa comune, in
un posto sperduto d’Italia.
Pensieri
di morte si rincorrevano veloci nella sua mente, fino a quando, ritornata in
sé, non si accorse di trovarsi in una vasca da bagno, con due occhi scuri puntati
addosso che la guardavano impietositi.
“Pòra
fia, anim”[1],
le disse la donna, mentre, con una spugna in mano, si apprestava ad aiutarla a
lavarsi, “quando ci avrai fatto l’abitudine, non farà così male.”
Sarah
scoppiò in lacrime, mentre un senso di nausea le attanagliò lo stomaco. Meglio
essere morta, pensò.
Sorrento,
settembre 1946
Con il permesso e la benedizione del
signor Gennaro, Sarah e Matteo avevano ricominciato a vedersi e uscire insieme.
La loro relazione poteva già essere definita un fidanzamento ufficiale.
Quel giorno, Matteo aveva mantenuto la promessa
fatta a Sarah di portarla a visitare “la terra delle sirene” e, adesso,
passeggiavano mano nella mano tra i caratteristici vicoli della città,pieni
di negozietti e botteghe artigiane. Sospinta dall’aria frizzante di fine
estate, che danzava sugli orli del suo vestito color cielo, Sarah si sentiva
leggera, viva, libera, felice e non riusciva a smettere di sorridere. Di tanto
in tanto, si fermavano a qualche bancarella, per assaggiare caramelle al gusto
di limoncello e provare cappelli di paglia, facendo espressioni buffe e poi
riderne. Sarah ne scelse uno e Matteo insisté per regalarglielo.
Camminando lungo stradine in discesa,
giunsero in una piccola insenatura che lasciò Sarah a bocca aperta: il porto di
Sorrento era un quadro variopinto. Le casette dei pescatori, con i loro colori
e panni stesi alle finestre, si affacciavano sul mare che luccicava polvere
d’oro, mentre la spiaggetta di sabbia vulcanica sembrava brillare d’argento
sotto i raggi del sole di mezzogiorno. All’ombra di una chiesa lì vicina, a
pochi passi dal mare, mangiarono il pane appena sfornato e poi, sempre mano
nella mano, risalirono verso le strade della città.
Un senso di pace accarezzava il cuore di
Sarah, i cui occhi erano spalancati in uno sguardo luminoso e sognante e,
dentro di sé, sentì vibrare la spensieratezza di una ragazzina al primo amore,
quando, risalendo un vicoletto incorniciato da piante di limoni, Matteo
improvvisamente la strinse in un abbraccio e le diede un bacio sonoro sulle
labbra. Ma, in fondo, era Matteo il suo primo, vero amore. Matteo le sorrise
con aria vispa e Sarah, ricambiando il sorriso, arrossì sulle gote. Lo amò, tra
i profumi di zagare e ginestre.
Dopo non molto, giunsero in una villetta,
che altro non era che una suggestiva terrazza a picco sul mare circondata da
fiori e piante e con una stradina che conduceva al mare, e si appoggiarono alla
ringhiera ad ammirare il panorama mozzafiato del Vesuvio, delle isole e della
spiaggia sottostante. Qualcuno faceva ancora il bagno.
Estasiata da così tanta bellezza, Sarah
alzò gli occhi verso la tela azzurra del cielo e, per un attimo, si sorprese a
ricordare Hermann con un senso di gratitudine. Intanto, Matteo cercò la sua
mano sulla balaustra e lei gli sorrise, intrecciando le dita alle sue. Era
grazie a Hermann se adesso si trovava lì, in quel posto meraviglioso, accanto a
un giovane uomo dolcemente innamorato, e non tra le fuligginose nuvole del
cielo grigio di Auschwitz.
“Sarah”, proruppe Matteo con espressione
tenera e seria, prendendole anche l’altra mano, “io ti amo e voglio trascorrere
il resto della mia vita con te, che sei unica e straordinaria, la ragazza più
bella, dolce e gentile che abbia mai conosciuto.”
Gli occhi di Sarah luccicarono,
divenendo come cristalli dorati e il cuore iniziò a batterle forte, mentre
Matteo proseguì più serio: “Vedi, Sarah, io non ho molto da offrirti. Ho solo
queste mani”, le strinse fortemente alle sue, “per lavorare in un mare spesso
ostile e che, a volte, non dà nulla. E ho questo cuore per amarti.”
Matteo avvicinò le mani di Sarah al
proprio cuore e subito gliele lasciò, per poi inginocchiarsi e suscitarle
stupore. Frugò nelle tasche dei pantaloni e Sarah, intuendo la sua intenzione,
già portò le mani alla bocca per trattenere l’esplosione di emozioni.
Quel momento valeva tutti gli anni di
attesa, tutte le lacrime versate a Fossoli per il caro prezzo della sua
sopravvivenza, tutti i giorni e le notti spesi a credere in ciò che in realtà
amore non era.
E Matteo tirò fuori dalla tasca un
anello, un antico gioiello di famiglia e, con voce spezzata, pronunciò quelle
parole che Sarah sognava sin da bambina: “Sarah, vuoi sposarmi?”
Sarah scoppiò in pianto, in singhiozzi
di gioia. Lo abbracciò, si abbracciarono. Lacrime incontenibili bagnavano il
suo viso e la guancia di Matteo, incollata alla sua.
“Sì! Sì! Sì!” ripeté Sarah con
entusiasmo e un bacio appassionato sigillò quel momento, in cui il tempo e lo
spazio sembrarono fermarsi, annullarsi attorno a loro, per loro.
Non c’era più nessuno, né persone con il
loro brusio né panorama con i suoi profumi, suoni e sensazioni, né terra né
mare. Poi un’improvvisa folata di vento tiepido rubò il cappello di Sarah,
riportandoli alla realtà. Con goffi movimenti di braccia, tentarono invano di
afferrare il cappello che finì giù, nella stradina che conduceva in spiaggia e
Matteo, con uno scatto, si mosse a recuperarlo.
“Lascia perdere, Matteo!” fece Sarah
apprensiva, mentre, tra riso e pianto, lo guardava rincorrere il cappello lungo
la stradina.
Quando fu a metà strada, Matteo riuscì
finalmente ad afferrare il cappello e, da lontano, lo sventolò vittorioso.
Appoggiata alla ringhiera, Sarah rise più forte e alzò gli occhi al cielo,
mentre tutto in lei traboccava di felicità. Un gabbiano spiccò il volo.
Arriverà
l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana.
“Ma
si sveglierà il tuo cuore
in
un giorno d’estate rovente
in
cui il sole sarà.
E
cambierai
la
tristezza dei pianti in sorrisi lucenti,
tu
sorriderai.
E
arriverà
il
sapore del bacio più dolce
e
un abbraccio che ti scalderà.”
Emma
Marrone & Modà, Arriverà
[1]“Povera figlia,
coraggio”, in dialetto milanese.
Capitolo 16 *** Un treno per Auschwitz (Prima parte) ***
Capitolo
16
Un
treno per Auschwitz
Prima parte
- “Piccolina, cosa ti hanno fatto?”-
“Nel 1944,
quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita
dall’orrore e dalla cattiveria. Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella
fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di
Auschwitz.”
Liliana Segre
(1930 - vivente), reduce della Shoah e senatrice a vita italiana.
Immagine dal web
17
febbraio 1944
La
donna dall’accento milanese le rattoppò gli strappi della divisa da cameriera
e, con non poca difficoltà, l’aiutò a vestirsi. Come una bambola gessata, Sarah
sedeva immobile e assente sulla sedia, con lo sguardo fisso nel vuoto e il
respiro così lieve e impercettibile da farla sembrare davvero senza più vita.
Se, invece di vestirla e pettinarla, quella donna l’avesse uccisa, lei non se
ne sarebbe neanche accorta.
“Pòra
tosa”[1],
fece la cameriera più apprensiva, “come ti chiami?”
La
donna ripeté la domanda più volte, ma Sarah rimase ferma nel suo impenetrabile
silenzio. Una parte di lei era già morta.
“Fia
méa”[2],
riprese la cameriera, aiutandola ad alzarsi e finendo di sistemarle il vestito
addosso, “se fai così, è peggio.”
Poteva
esserci qualcosa di peggio? Poteva esistere un dolore più grande, più lacerante
di quello? Gli occhi di Sarah, persi nel vuoto, tornarono alla realtà,
velandosi di lacrime e guardando la donna con aria disperata.
“Va’
a riposare, cara. Per oggi, farò io il tuo lavoro”, concluse la cameriera più
comprensiva e già iniziò a rassettare la camera.
Barcollante
e con la vista offuscata per il forte stress, la stanchezza e le lacrime, Sarah
si trascinava tra le baracche del campo, sperando che nessuno facesse caso a
lei. Tremava di vergogna al solo pensiero di dover rientrare nella sua baracca,
di incrociare facce amiche e mostrare loro i segni tangibili delle botte e le
tracce invisibili dell’abuso. Allentò un po’ lo chignon, coprendosi il viso con
qualche ciocca di capelli e, a testa bassa, passò spedita accanto al gruppetto
di donne, intente a conversare fra loro e strofinare il bucato nella tinozza.
Ma Maria la vide e scattò in piedi, chiamando il suo nome con voce preoccupata
e seguendola nella baracca.
“Sarah!”
La donna la chiamò ancora e più volte, ma Sarah non si volse e andò a
rannicchiarsi nel suo letto, sotto una coperta vecchia e logora, in posizione
fetale.
La
scena richiamò l’attenzione di alcuni uomini presenti nella baracca, tra i
quali c’era anche il marito di Maria.
Sedendosi
accanto, la donna le accarezzò lievemente la guancia e, con voce spezzata, le
disse: “Piccolina, cosa ti hanno fatto?”
Sarah
scoppiò di nuovo in lacrime e, intanto, il marito di Maria, con uno scatto, si
mosse velocemente verso la porta della baracca.
“Ma
io lo ammazzo quel maiale nazista!” urlò, accentuando per rabbia la sua cadenza
bolognese.
Due
uomini napoletani, rispettivamente padre e figlio, lo fermarono.
“Masi’
pazzo?Vuo’
fa’succédere
’o quìnnecediciòtte?”[3]
fece il più anziano, prendendolo di petto e, intanto, anche Maria gli andò
incontro per calmarlo.
“Davide,
per l’amor del cielo”, sussurrò la donna, come un lamento e gli prese le mani.
Ne
seguì un lungo silenzio, spezzato soltanto dai singhiozzi sommessi di Sarah,
mentre sguardi d’impotente compassione furono su di lei, che avrebbe voluto
sparire di vergogna e paura.
In
piedi, davanti alla finestra del suo ufficio, Hermann fumava una sigaretta e
osservava fuori. Come al solito, dopo pranzo, i bambini giocavano allegramente
fuori la baracca ma, questa volta, a guardarli, sull’uscio socchiuso della
porta, non era Sarah. Espirando con aria saccente, il fumo della sigaretta
appannava i vetri e sbiadiva i colori della sua visuale. Hermann non riusciva a
togliersi dalla testa quella ragazza e la immaginava ripiegata nel suo letto, rannicchiata
nella poca luce della baracca e nel buio della sua sofferenza, raggomitolata
nella sua sincera e pudica bellezza che si scontrava con il suo essere ebrea.L’innocenza
che aveva violato gli suscitava un sentimento che non riusciva a comprendere –
o meglio, non voleva – e che assomigliava più alla tenerezza che alla
compassione. Al contempo, la ragazza aveva risvegliato in lui pulsanti e
incontenibili sensazioni, paragonabili a quelle della sua adolescenza, e la sua
bramosia non era ancora sazia. Hermann espirò l’ultimo tiro di sigaretta.
Quella ragazza ebrea sarebbe stata di nuovo sua, ma non come la notte
precedente.
Per
tutto il giorno, Sarah era rimasta nel suo letto, in silenzio e immobile nella
sua posizione fetale, senza toccare né cibo né acqua, nonostante la materna
insistenza di Maria.
“Saretta,
ti hanno picchiato quei soldati cattivi?” le aveva domandato innocentemente un
bambino, con aria triste e regalandole una caramella.
Ma
Sarah non rispose, non si mosse e la caramella, che il piccolo conservava da
giorni, rimase sul cuscino.
“Sarah
deve riposare. Va’ a giocare”, esordì con tono fermo Maria, facendo allontanare
il bambino, prendendolo per mano.
E,
intanto, Sarah, non riuscendo ancora a trovare un perché a ciò che le era
accaduto, iniziò a darsi delle colpe. Forse, all’arrivo a Fossoli, quando aveva
incrociato lo sguardo del tenente, i suoi occhi, invece di esprimere timoroso
stupore, si erano lasciati andare inconsapevolmente a un’espressione ammiccante;
forse, il suo vestito era troppo corto, il colore del suo cappotto troppo
appariscente o, forse, lo era lei, senza che se ne fosse mai accorta. Addosso,
sentiva ancora il peso soffocante di quel corpo, la pressione di quelle mani
che l’accarezzavano con violenza, il soffio di quel respiro affannoso e
quell’odore maschile che la sua innocenza non aveva mai conosciuto fino ad
allora. Avrebbe voluto strapparsi di dosso i vestiti, la pelle, arrivare fino
alle ossa e sradicare dalle viscere l’infamia con la quale il nazista l’aveva
marchiata per sempre. All’ennesima fitta bruciante, Sarah si raggomitolò su se
stessa, sollevando di più le ginocchia e stringendo forte le mani tra le gambe.
Come una supplica, desiderava e invocava, dentro di sé e con un linguaggio da
bambina, la confortante presenza dei suoi genitori e quasi riuscì a percepirla
in una carezza di Maria che, amorevolmente, la esortava ad assaggiare almeno un
cucchiaio di minestra prima che diventasse fredda. Era già l’ora di cena.
“Sarah,
è da ieri sera che non mangi. Prova almeno un cucchiaio, dai”, ripeté la donna
per l’ennesima volta, con il cucchiaio a mezz’aria e Sarah, arrendendosi alla
sua amorevole insistenza, si lasciò imboccare.
La
minestra, diventata ormai tiepida, le lasciò sulle labbra un sapore amaro e,
dopo pochi cucchiai, non ne volle più. Affondò di nuovo la testa nel cuscino e,
intanto, la porta della baracca fu aperta di colpo e con la stessa violenza del
giorno prima. La stessa voce che urlava il suo nome, lo stesso soldato che
l’avrebbe condotta a una seconda morte. Sarah trasalì di paura, ma non si mosse
dal letto.
“Signore,
la ragazza è molto stanca. Forse ha anche la febbre.” Davide, seguito da sua
moglie, si era avvicinato al soldato, parlandogli con tono sicuro.
“La
prego, chieda al comandante se può iniziare domani mattina a lavorare”,
intervenne Maria, la cui voce spezzata assomigliava più a un lamento che a una
protesta.
Ma
il soldato dissentì, alzando e inasprendo di più il tono della voce: “Ho
l’ordine di portarla adesso dal comandante e gli ordini non si discutono!”
“Ordini?” Davide ridacchiò sarcastico, mentre
gli animi di tutti iniziarono a scaldarsi.
Sarah
intuì la gravità della situazione e, prima che potesse accadere qualcosa di
tragico nella sua baracca, decise di alzarsi per andare incontro al suo
inevitabile destino. Tanto nessuno, pur volendo, avrebbe potuto salvarla da
quella condanna. In silenzio e a testa bassa, per la paura e la vergogna di
incrociare gli sguardi, passò lentamente in mezzo ai suoi compagni di sventura
e, varcata la porta, seguì il soldato.
Gli
stivali del soldato che affondavano nel terreno umido e il suo equipaggiamento
che sfregava sull’uniforme erano per Sarah come il suono di una marcia funebre,
la sua. Il suo cuore sembrava essersi fermato, così come il respiro, mentre,
come un automa, seguiva il soldato lungo i corridoi dell’edificio occupato dai
tedeschi. Ma la paura accelerò di nuovo i battiti del suo cuore, i respiri e i
pensieri, quando il soldato la condusse in quello che doveva essere l’ufficio
del tenente. E lui era in piedi dietro la scrivania, intento a mettere in
ordine dei fogli. Sollevò la testa e la sua impeccabile capigliatura biondo
grano e il soldato, con un battito di tacchi, andò via, lasciandola da sola in
mezzo alla stanza. Tenendo la testa bassa e attraverso la ciocca di capelli che
le copriva gli occhi, intravide il tenente sistemare l’ultimo foglio e farsi
lentamente davanti alla scrivania, appoggiarvi all’indietro le mani e
incrociare i piedi.
“Dunque”,
iniziò con tono deciso, “credo proprio che abbiamo iniziato con il piede
sbagliato.” L’accento ruvido tradiva la sua volontà di parlarle con voce più
gentile.
Fece
una pausa, mentre Sarah tentò invano di regolare il respiro in quei pochi
secondi che le parvero lunghi un’eternità.
“Vedi”,
riprese il tenente, “io non sono un mostro e non è mia abitudine stare con una
donna, anche se tu sei un’ebrea, usando la violenza e voglio darti la
possibilità di scegliere.”
Per
un fugace istante, Sarah pensò che forse avrebbe potuto salvarsi e, intanto, il
tenente tornò dietro la scrivania, rovistando accuratamente tra i fogli e
continuando perentorio il suo discorso: “Qualcosa mi dice che posso fidarmi di
te e che quello che sto per dirti rimarrà un segreto fra di noi, che non lo
dirai agli altri prigionieri.”
Alzò
lo sguardo, aspettandosi un contraccambio da parte di Sarah, ma lei rimase
ferma e china, tremante, come un pulcino impaurito.
Trovato
il foglio che stava cercando, il tenente le si avvicinò, parlandole con tono
più solenne e autorevole: “Tra qualche giorno partirà un treno perAuschwitz
e il tuo nome è sulla lista dei deportati.”
Sotto
gli occhi di Sarah, per un attimo infinitamente lungo, passò quella lista piena
di nomi, di persone innocenti, di vite spezzate. Cos’era Auschwitz? Non aveva
mai sentito quel nome ma ebbe subito la sensazione che si trattasse di un posto
terribile, più dei campi di lavoro forzato in Germania, di cui tutti parlavano.
E
il tenente, alla sua muta domanda, non tardò a rispondere: “Auschwitz è un
campo di concentramento tedesco in Polonia. Al suo confronto, Fossoli è un
albergo di lusso.” Ridacchiò ironico. “Appena arrivi, ti fanno spogliare
davanti a tutti, anche davanti agli uomini e davanti ai soldati”, proseguì serio
e crudele, iniziando a girarle intorno e squadrandola, ripetendo così una scena
già vissuta, “poi ti tagliano i capelli.”
Le
si fermò davanti e, mettendole una mano fra i lunghi capelli neri, ne
attorcigliò una ciocca attorno al dito. Puliti, sembravano brillare di
sfumature color rame. Poi lasciò che i capelli ricadessero sul petto, vergini
colline di terre prima di lui inesplorate, che palpitavano a ogni respiro
affannoso, a ogni battito accelerato per la paura. Se lo avesse capito prima,
forse le mani di Hermann, la sera precedente, avrebbero goduto di più di quel
viaggio. Ricercò un altro contatto fisico e, con uno scatto, le prese una mano.
Era gelida.
Salì
poi sull’avambraccio, senza stringere troppo e, con tono quasi minaccioso,
continuò: “Ti incidono un numero sul braccio e quel numero diventa il tuo nome.
Ti tolgono ogni cosa e più nulla ti appartiene, neanche la tua stessa vita. E
ti costringono a lavorare, fino allo sfinimento, fino a quando di te non rimane
più niente.”
Guardandola
fissamente in viso, richiamò invano il color miele dei suoi occhi, per poi
afferrarle il mento e costringerla ad alzare lo sguardo.
“Sarebbe
un peccato”, disse con ostentato rammarico, “in fondo, sei una bella ragazza.”
Bella.
Questa parola, pronunciata da un criminale nazista che aveva abusato di lei,
per Sarah sapeva di sporco, di cinismo e volgarità. No, non doveva essere lui
il primo uomo a dirglielo e nel mezzo di uno spaventoso discorso impregnato di
odio e di morte.
Due
grosse e silenziose lacrime rigarono la guancia livida di Sarah e si posarono
sulla mano di Hermann, il cui cuore sembrò rallentare di un battito per quegli
occhi dorati, lucidi di pianto e sconvolti dalla paura, per quel viso segnato
dai suoi schiaffi. Bella.
Dicendoglielo, lo pensava realmente.
Prima
che potesse cedere a sentimenti di tenerezza e compassione, mostrandosi in
qualche modo debole, le lasciò sprezzante il mento e riprese a parlarle con
freddezza e risoluta arroganza: “A te la scelta. Se deciderai di stare con me
in maniera civile, cancellerò il tuo nome da questa lista”, disse, sventolando
un po’ il foglio sotto i suoi occhi, “in caso contrario, sarai la prima a
salire su quel treno.”
Diede
uno sguardo all’orologio da polso e, gonfio di sé, aggiunse: “Sono le otto. Hai
dodici ore di tempo per decidere, a partire da adesso.”
Hermann
era così sicuro di quale sarebbe stata la scelta della ragazza.
Capitolo 17 *** Un treno per Auschwitz (Seconda parte) ***
Capitolo
17
Un
treno per Auschwitz
Seconda parte
- “Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini.”
-
“Non sono mai
riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad
Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si
divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello… Non sono mai riuscito a
entrare in una piscina, perché ho visto un prete ortodosso massacrato e
annegato dai carnefici.”
Alberto Sed (1928
- 2 novembre 2019), reduce della Shoah eCommendatore dell’Ordine al merito
della Repubblica italiana.
Immagine dal web
“Sei
ancora qui? Non avrai mica già deciso?” fece il tenente, rivolgendole un ghigno
ironico, mentre si versava un bicchiere di vodka.
Sarah
non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come incollati al pavimento e la
sua mente, in preda al terrore, non faceva altro che ripetere quel terribile
nome.Auschwitz.
La
domanda del tenente, cinica e allusiva, la riportò alla realtà e, in un
sussulto di paura, rispose: “No, signore.”
In
fretta, uscì dall’ufficio, mentre Hermann, riposando la bottiglia di vodka sul
mobiletto, alzò gli occhi al soffitto.
“Es
ist wirklich absurd”[1],
la derise, per non ridere di se stesso, di quei brividi che si rincorrevano
lungo la sua schiena.
Sarah
camminava velocemente verso la sua baracca, con un nodo alla gola che si
sarebbe sciolto presto in lacrime, con la testa che quasi sembrava esploderle
ripensando al vile ricatto del tenente. Dodici ore di tempo non erano
sufficienti per fare i conti con se stessa, con i propri valori morali. La
Polonia era una nazione fredda e lontana, chissà quanti giorni di viaggio, da
affrontare in un treno sporco, maleodorante e fatiscente; Auschwitz un luogo
terribile e ignoto, dove forse i suoi genitori, suo fratello e i suoi cari si
trovavano già a soffrirne le pene. Più della morte, Sarah aveva sempre temuto
la sofferenza. Entrata nella baracca, si ritrovò davanti Maria, con
un’espressione apprensiva e disperata sul viso, e le si gettò al collo,
esplodendo in un pianto convulso. Tra quei singhiozzi disperati, avrebbe voluto
urlare, a lei e a tutti, la verità sui “trasferimenti” e l’angoscia nella quale
il tenente l’aveva fatta sprofondare. Non voleva salire su quel treno, che
l’avrebbe condotta sicuramente verso una tragica fine, e nemmeno cedere al
compromesso dell’ufficiale nazista.
Tra
le braccia di Maria e con la testa poggiata sulla sua spalla, Sarah aveva
smesso di piangere. Sedute sul letto, rannicchiate in quell’angusto angolo
della baracca illuminato dalla fioca luce di una candela smorta, entrambe
fissavano il vuoto nello scorrere silenzioso di una notte insonne, breve e
infinita per Sarah.
Maria
emise un sospiro e, accarezzandole la testa, iniziò a parlarle: “Io e Davide ci
siamo sposati che avevamo all’incirca la tua età.” Ridusse la voce quasi a un
sussurro, attenta a non svegliare nessuno. “A quei tempi, si respirava già il
clima di odio che ci ha poi condotti qui ma, quando dissi ai miei genitori
delle origini ebraiche di Davide, loro non batterono ciglio. Non temevano i
giudizi e i pregiudizi della gente. Ci sposammo con rito cattolico. Davide
volle convertirsi al cristianesimo per proteggermi, per proteggere la famiglia
che avremmo costruito. Dopo neanche un anno di matrimonio, stringevamo già tra
le braccia la nostra piccola Rosa, il nostro piccolo fiore, la nostra unica
figlia, la gioia del nostro cuore.” Fece una pausa, lasciandosi andare a un
sorriso malinconico. “Tu le assomigli moltissimo. Aveva i tuoi stessi occhi e,
negli ultimi tempi, il tuo stesso sguardo un po’ perso. Era una ragazza solare
e piena di vita, allegra e riflessiva. Le piaceva scrivere e studiava per
diventare maestra di scuola materna. Un pomeriggio, subito dopo lo scoppio del
conflitto in Italia, la trovammo riversa sul pavimento della sua stanzetta e,
dopo tanti accertamenti, i medici ci diedero la notizia che nessun genitore
dovrebbe mai sentire. Rosa si era ammalata di un male incurabile.” La voce di
Maria divenne più rauca e spezzata. “Iniziò la sua guerra contro la malattia.
Lottava con tutte le sue forze per restare aggrappata alla vita e continuò a
lottare, anche quando la malattia la costrinse in un letto. Si aggravò, proprio
nei giorni in cui a Bologna iniziarono gli arresti[2]
e, alla nostra disperazione, si aggiunse altra disperazione. Per troppo tempo
ci eravamo illusi che ci fosse qualche speranza per gli ebrei convertiti e i
loro figli e non avevamo mai preso in considerazione l’idea di andare via e
mettere al sicuro la nostra Rosa. Ormai era tardi e non potevamo spostarla dal
suo letto. Lo avrebbero fatto i tedeschi.” Maria si fermò un attimo per
asciugarsi una lacrima.“La sua vita era ormai appesa a un
sottilissimo filo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro, nel giro di
qualche settimana o di pochi giorni, e farla soffrire durante l’arresto sarebbe
stato inutile e crudele. Così ci disse il dottore, l’unico che era rimasto al nostro
fianco, e ci raccontò anche dei violenti interrogatori nella caserma e dei
treni che partivano verso ipotetici campi di lavoro. Tutto questo l’avrebbe
uccisa e ci convinse a farla andare via in modo sereno. La chiamò «la dolce
morte». Io e Davide non avremmo mai pensato di dover prendere una decisione
simile, spezzare la vita alla nostra unica e amata figlia, farle del male per
il suo bene.”
Maria
non resisté più ed esplose in un pianto sommesso, mentre Sarah iniziò a capire
dove volesse arrivare la donna con la sua straziante confessione. Non era
soltanto lo sfogo del suo dolore.
Infatti,
dopo un lungo silenzio intervallato da singhiozzi trattenuti, Maria, riprendendo
ad accarezzarle i capelli, le disse: “Non sentirti giudicata per la tua
eventuale scelta, Sarah. Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini,
complici di quest’assurda persecuzione. E, se qualcuno un giorno dovesse farlo,
sarà soltanto un povero ipocrita.”
Sarah
guardava la candela ridursi pian piano a un mucchietto di cera informe, mentre,
nella sua testa, le parole tonanti e minacciose del tenente s’intrecciavano con
quelle di Maria, di un racconto doloroso dall’epilogo tristemente accomodante.
La fioca fiammella si spense alle prime luci dell’alba e, con essa, l’ultimo
barlume della sua resistenza al vile ricatto dell’ufficiale nazista. Per
salvarsi da Auschwitz, anche lei avrebbe scelto la morte, lasciando morire
tutto ciò in cui aveva sempre creduto. A differenza di Rosa, la sua non sarebbe
stata una morte dolce e immediata, accompagnata dagli affetti più cari, ma
continua e violenta, per mano del nemico. Ormai già compromessa, Sarah decise
di sacrificarsi al tenente per continuare a sopravvivere a Fossoli.Nessuno
avrebbe potuto giudicarla, neanche la propria coscienza che, in quel momento,
si dimenava e piangeva. Sistemò lo chignon e la divisa da cameriera – per lei,
da condannata –, aggiustandosi la gonna sui fianchi e stirandone gli orli con
le mani, e ignorò le fitte di dolore che ancora le attanagliavano il basso
ventre. Rivolse uno sguardo a Maria, vinta dal sonno e dai ricordi allo
spuntare del sole, e un senso di forza vibrò sulle corde della sua fragilità.
Era la disperata voglia di vivere che, dentro di sé, spingeva per ergersi sulle
sue paure e farla uscire da quella baracca a testa alta, con dignità.
Era
il 18 febbraio e mancavano quattro giorni alla partenza per Auschwitz.
Hermann
distolse lo sguardo dalla porta della baracca, dalla quale Sarah non era ancora
uscita, per rivolgerlo al suo orologio da polso. Mancavano cinque minuti alle
otto e iniziò a dubitare del proprio intuito. Dentro di sé, si agitò un senso
di irrequietezza, al pensiero che la ragazza non avesse ceduto al suo
compromesso. Che cosa avrebbe potuto più inventarsi per dissuaderla?
Continuando a guardare fuori dalla finestra, prese una sigaretta e iniziò a
girarla nervosamente tra le dita, senza accenderla. Come avrebbe potuto
rimangiarsi la parola data e cancellare ugualmente il suo nome dalla lista dei
deportati? E la ragazza ancora non usciva. Ma, in procinto di accendersi la
sigaretta per stemperare la tensione, finalmente la vide e sensazioni di
stupore ed eccitazione gli serpeggiarono addosso come scariche elettriche.
Confuso e impietrito, si domandò cosa gli stesse accadendo, trattenendo la
sigaretta spenta tra le labbra e fissando l’incedere deciso di Sarah verso
l’edificio occupato dai tedeschi, verso di lui. Quando la ragazza scomparve
dalla sua visuale, Hermann ritornò in sé e, con uno scatto, si allontanò dalla
finestra per andare a sedersi dietro la scrivania. Sfilò la sigaretta dalla
bocca e cercò di darsi un contegno, rientrando nel suo atteggiamento di
sprezzante fierezza.
“Sei
in ritardo”, le disse con tono severo, fingendo di guardare l’orologio e
scrutandola di sottecchi: con la testa meno china e la schiena più dritta, la
ragazza sembrava diversa dalla sera precedente, quasi arrabbiata. “Attenta che
non succeda più.”
“Mi
scusi, signore, non succederà più”, rispose con una voce indecifrabile, che non
esprimeva né timore né sicurezza, come se una parte di lei fosse in quel
momento assente.
“Bene,
mettiti subito a lavoro”, concluse Hermann più autorevole ed emise una specie
di ghigno, ripensando all’infallibilità del proprio intuito.
Sarah
si dileguò, mentre lui si stiracchiò sulla poltrona, nel tentativo di scrollarsi
di dosso quelle strane sensazioni che di nuovo gli percorrevano il corpo e gli
confondevano la mente. Sospirò, come per liberarsene; raddrizzò le spalle sullo
schienale della poltrona e riportò lo sguardo sulla scrivania, alla sigaretta
che non aveva più acceso e alla lista dei deportati. Su quest’ultima trattenne
lo sguardo, poi appoggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mani sotto al
mento. Hermann decise di non cancellare ancora il nome della ragazza dalla
lista.
“D’un altro.
Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il
suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.”
Pablo Neruda
Immagine dal set del film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”
La
cameriera dall’accento milanese, che l’aveva soccorsa dopo la violenza, si
chiamava Giuditta e anche lei era di origine ebraica. Fu molto paziente nel
spiegarle gli orari e lo svolgimento delle attività lavorative e nel ripeterle
lo stesso concetto più volte, quando Sarah sembrava distrarsi ed estraniarsi
dalla realtà. Era il pensiero, la paura di ciò che le sarebbe accaduto quella
sera e per chissà quante altre sere ancora. Per quanto si sforzasse di essere
più forte e di farsi coraggio, ripensando anche al triste racconto di Maria,
una parte di lei avrebbe voluto tirarsi indietro, rinunciare a quello sporco
compromesso e seguire lo stesso destino degli altri prigionieri. Ma il pensiero
di Auschwitz la terrorizzava ancor di più e la spingeva a non cedere al
ribrezzo, alla vergogna e alla paura di ciò che l’attendeva di sera con il
comandante del campo. Per distogliere la sua mente da quei pensieri fissi e
martellanti che si ingarbugliavano fra loro, Sarah lavorò sodo tutto il giorno
senza fermarsi un attimo, neanche per mangiare e svolgendo mansioni che non le
competevano, aiutando le altre cameriere e le cuoche in cucina, fino a quando
la stanchezza non la stordì e fuori si fece buio. Si avvicinava il fatidico
momento.
Sarah
sostava nella penombra del lungo corridoio,con le spalle
appoggiate alla parete e gli occhi rivolti alla porta di quell’ignobile stanza.
Iniziò a tormentarsi le mani, poi emise un sospiro tremante e portò la testa
all’indietro contro il muro. Fissò per un po’ il soffitto. Mai, nella sua
giovane vita, avrebbe immaginato di trovarsi in una situazione simile, in un
campo di concentramento, costretta a prostituirsi. Pensò che questo fosse il
termine più giusto. Un nodo le strinse la gola, ma non si sciolse in lacrime,
neanche quando sentì l’avvicinarsi del tenente. Più che impaurita, adesso era
stanca e rassegnata. Volse lo sguardo verso il corridoio, mentre udì il suono
duro della sua voce impartire, probabilmente, gli ultimi ordini della giornata
a qualche soldato che batté i tacchi, urlando “Heil Hitler!” Poi riprese il
pesante calpestio dei suoi stivali, facendosi sempre più vicino e tonante in
quel tetro silenzio, e Sarah rivolse di nuovo lo sguardo alla porta chiusa
della camera da letto. Il fatidico momento era giunto, in quella temibile ombra
silenziosa in divisa, fermatasi alla sua sinistra. Dopo averla squadrata per
alcuni interminabili secondi, il tenente aprì la porta, facendole segno di
precederlo, e ne seguì una scena già vista. Si tolse il cappello, i guanti, la
giacca e allentò il colletto della camicia, mentre Sarah, divisa tra sentimenti
di apatia e irrequietezza, non sapeva come comportarsi. Si sentiva fragile e
confusa, nella sua inesperienza di ragazza che non aveva mai conosciuto neanche
il sapore di un bacio. Dentro di sé, sperava e pregava che non fosse troppo
violento, guardando di sottecchi l’ansiosa bramosia nei suoi gesti e nelle sue
espressioni facciali e aspettando la sua prima mossa. L’avanzare lento del suo
corpo, che propagava nell’aria una scia di ambra e muschio, di vodka e
nicotina, la fece indietreggiare, come in una danza a passo di paura e
imbarazzo, e cadere inerme sul letto. La spogliò, accarezzandola con mani
frementi e, con uno scatto impetuoso e uno spasimo soffocato, l’afferrò per le
gambe, costringendola alla sua virilità.Il pensiero di
Auschwitz impediva alla bocca di Sarah di urlare, ai suoi occhi di piangere, ai
suoi piedi di scalciare, al suo corpo di dimenarsi, di ribellarsi al dolore e
all’umiliazione di essere usata per il piacere di un criminale nazista. Avrebbe
voluto sparire da quella terribile situazione e ci riuscì, fuggendo dalla
realtà per rifugiarsi in ricordi e sogni della sua vita passata. Con
espressione assente e occhi fissi tra il soffitto bianco e la fronte del
tenente imperlata di sudore e la sua capigliatura biondo grano, adesso non più
tanto perfetta, Sarah tornò adolescente; alle sue prime infatuazioni; ai primi
sguardi, timidi e furtivi, scambiati nei corridoi o nel cortile della scuola e
tra i banchi della chiesa; ai suoi primi rossori; alle risatine entusiaste con
le sue amiche, guardando assieme le fotografie dell’attore statunitense Gary
Cooper e fantasticando un giorno di incontrarlo, prima di nasconderle nei loro
diari; a un giro di lento con il suo cuscino, sulle note della canzone “Ma
l’amore no”, sorpreso e interrotto dall’ilarità di suo fratello che si meritò
una cuscinata in pieno viso; al lancio di una monetina nella Fontana di Trevi,
a occhi chiusi e di spalle, augurandosi di trovare al più presto il vero amore.
E
il tenente solcava con violenza la terra del suo corpo indifeso, sradicando i suoi
sogni – che altro non erano che aspettative di una vita normale –, senza che Sarah
ne provasse più dolore. Ma, soltanto, sentiva il forte cigolio del letto e il
respiro affannoso dell’ufficiale. I nazisti si erano presi tutto di lei: la sua
famiglia, la sua casa, la sua libertà, la sua dignità e lo stupore, la magia,
il tenero imbarazzo, la dolce paura, le parole sussurrate all’orecchio, le
timide effusioni d’affetto che, nella sua immaginazione di ragazza, avrebbero
coronato la sua prima volta, dopo aver indossato un elegantissimo vestito bianco
dalle mille sottane.Era un’intimità, un incontro poetico,
quasi sacro, di due corpi e due anime, frutto di quell’amore vero che, sin da
bambina, paragonava all’immensità del mare e alla forza delle sue onde, all’infinità
del cielo e allo splendore dei suoi astri; un’intimità sciupata, ceduta a
quell’uomo brutale che non aveva neanche il coraggio né la voglia di guardare
in faccia. Al pensiero dei suoi sogni infranti, Sarah non riuscì più a
trattenersi e, in un singhiozzo strozzato, lasciò che due grosse lacrime
scivolassero veloci dai suoi occhi, bruciando sulle tempie e perdendosi tra i
capelli.
Sorrento,
settembre 1946
La
maestosità e l’imponenza del Vesuvio e delle isole, meravigliose sagome che ritagliavano
una parte di cielo, e la vastità e il luccichio del mare si offrivano pian
piano ai colori di un tramonto indimenticabile.
“Ti amo, Sarah”, le disse Matteo
all’orecchio, in un sussurro che le arrivò dritto al cuore, accarezzandole
l’anima. Il respiro del giovane era ancora affannato per la corsa lungo la
stradina che conduceva in spiaggia, per recuperarle il cappello.
Un’altra lacrima di gioia rigò la
guancia di Sarah e Matteo gliel’asciugò, raccogliendola in un lieve bacio.
“Anche io ti amo, Matteo”, rispose Sarah
con voce spezzata dall’emozione, continuando a guardare il suggestivo panorama
del Golfo di Napoli, appoggiata alla ringhiera, mentre il suo futuro sposo
l’abbracciava da dietro. Non riusciva ancora a crederci e rivolse uno sguardo all’anulare
sinistro, dove scintillava l’anello, forse un po’ troppo grande per la sua
piccola mano.
A un altro timido bacio sulla guancia,
seguirono altre dolci parole sussurrate all’orecchio: “Ho trovato già una casa,
quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina. È da ristrutturare, ma è
spaziosa. E ci uscirà anche una stanza per i nostri figli.”
E Matteo le restituiva i sogni di
bambina, apprestandosi e affrettandosi a realizzarli, ricuciva la sua
innocenza, ricostruiva ciò che nella sua vita e nel suo intimo era stato
distrutto, e lei, felice e innamorata, tornava a essere la ragazza di un tempo,
quella prima di conoscere il tenente Hermann.
Campo di Fossoli, 18 febbraio 1944
Il tenente si fermò a mezz’aria sul
corpo inerme di Sarah e dilatò gli occhi in un’espressione adirata. La rabbia,
con la quale si sentì osservata, richiamò la ragazza alla realtà e, per una
frazione di secondo, i loro sguardi s’incrociarono. Impaurita, Sarah strizzò
gli occhi e portò le braccia in avanti, tra il petto e le guance, in un gesto
istintivo, come per proteggersi da una sua eventuale reazione violenta.
“Non tollero che mi si prenda in giro”,
proruppe severo il tenente, scandendo ogni parola e inasprendo così il suo
accento, per poi battere forte i pugni sul materasso, a pochi centimetri dai
fianchi di Sarah, la quale tremò.
“Alzati immediatamente”, proseguì
Hermann risoluto e, aggiustatosi concitatamente i pantaloni, con uno scatto,
balzò dal letto.
Prese dal comodino la confezione di
sigarette e, con dita tremanti per il nervosismo, ne accese una, mentre la
ragazza era già scattata in piedi, pallida e tremante nella sua sottoveste
bianca e stropicciata.
Aspirò la prima boccata di fumo e si
espresse con parole di ironia e disprezzo, per non cedere alla bellezza di
quegli occhi che, come gemme dorate, luccicavano di paura e smarrimento: “Se la
mia intenzione era quella di stare con un cadavere, avrei provveduto
diversamente.” Un’ebrea non poteva avere degli occhi così belli. “Così non
andiamo proprio bene, ragazzina”, disse, in un crescendo di voce sempre più
incalzante.
Alle orecchie di Sarah, le parole
minacciose del tenente arrivavano come un suono lontano e la sua mente, come
annebbiata, non riusciva a formulare nessun pensiero, nessuna risposta con la
quale potersi giustificare.
Espirando un altro tiro di sigaretta,
Hermann mandò fuori altra cattiveria: “Non credere di poterti salvare,
comportandoti in questo modo.” Un’ebrea non poteva essere così bella, con i
capelli tutti scompigliati e la faccia mezza livida. “Sappi che non ho ancora
cancellato il tuo nome dalla lista”, confessò e la ragazza sgranò gli occhi,
guardandolo con un’espressione di terrore.
Era il pensiero di Auschwitz che le gelò
il sangue nelle vene e iniziò a farla sudare freddo, mentre le sue labbra
provavano ad aprirsi in parole spezzate, biascicate: “Signor tenente, mi
dispiace, io…”
Le palpebre si fecero pesanti, la vista
divenne sfocata e il corpo oscillò, perdendo il suo equilibrio.
“Io…” Provò ancora a esprimersi, ma si
ritrovò nel buio di un vagone diretto verso Auschwitz.
Sarah era svenuta e fu un bene per
entrambi.
Immagine dal film “Il club del
libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”
“Fummo quello
che non si racconta né si ammette, ma che mai si dimentica.”
Frida Kahlo
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
Berlino,settembre 1946
Hermann
sostava sul portico di casa, con la spalla sinistra appoggiata a una delle due
colonne e la sigaretta tra le dita, ridotta quasi a un mozzicone. L’ultima
boccata di fumo si dissolse nell’aria grigia e fredda della sera, tipicamente
berlinese.
In
Italia, il clima doveva essere ancora estivo.
Con
un’acuta fitta di dolore, la cicatrice dietro la nuca gli preannunciava
l’avvicinarsi dell’autunno e gli ricordava quanto fosse stato idiota a non
fuggire insieme a Sarah durante la battaglia partigiana di Gonzaga. Per
continuare a perseguire gli assurdi ideali di superiorità ariana e il suo sciocco
amor di patria, aveva rinunciato al grande amore della sua vita.
Gettò
la sigaretta sui gradini e, portando le dita sulla cicatrice, strinse i denti
in una specie di ringhio, brontolandosi per il dolore, poi rivolse lo sguardo
verso il fondo della strada. Cumuli di macerie si ergevano ancora ai lati dei
marciapiedi sui quali, un tempo, le persone passeggiavano tutte in ghingheri,
felici e orgogliose, esibendo la loro fedeltà al nazismo con la svastica al
braccio. Adesso, come fantasmi, quelle stesse persone si aggiravano in vestiti
logori e a testa bassa, ripiegate sotto il peso di una colpa che avrebbe
gravato per sempre sulle loro coscienze.
E
la sua coscienza pesava delle migliaia di persone transitate per Fossoli, prima
di finire nei campi di sterminio, e dei sessantasette uomini di cui aveva
guidato il plotone di esecuzione, durante un’alba estiva, presso il poligono di
tiro di Cibeno. Quella sera, dopo una lunga e faticosa giornata, tornato nella
sua camera, Sarah lo aveva respinto, spintonandolo e colpendolo con un cuscino
e dandogli dell’assassino, con le lacrime agli occhi e con la voce carica di
disperata rabbia. E lui aveva incassato i colpi, conscio di aver eseguito un
ordine insensato e di aver fatto uccidere persone innocenti, tra le quali vi
era anche un ragazzino di soli sedici anni[1].
Ripercorrendo
le sensazioni di allora, capì quanto avesse temuto di perderla in quei momenti
e ancora lo attanagliò la paura, pensando che Sarah potesse ricordarlo per il
suo lato peggiore, come un criminale nazista, o peggio, andando a ritroso, come
il suo stupratore.
Hermann
rabbrividì per i sensi di colpa e il nostalgico desiderio di quegli occhi dolci
e dorati, come gocce di miele; di quelle labbra morbide e rosate, così
teneramente esitanti ai suoi primi baci; di quella cascata di capelli neri che,
sfiorati dalla luce, brillavano di sfumature color rame; di quelle mani
delicate e affusolate, da riscaldare prima di farsi accarezzare.
Incrociò
le braccia e si strinse nella camicia, ancora un po’ troppo larga, nonostante
avesse ripreso qualche chilo. Stentava ancora a riconoscersi e ad accettarsi in
quel nuovo corpo, senza più muscoli e pieno di cicatrici, marchio indelebile
delle torture inflittegli dai soldati russi. Ed era quello stesso corpo – con
il quale, un tempo, aveva percorso la pelle olivastra, vellutata e illibata di
Sarah – che, adesso, smagrito e indebolito, gli impediva di tornare da lei.
“Hermann!”
La voce di suo padre, accompagnata da una mano sulla spalla, lo ridestò
bruscamente dai suoi pensieri. “Tutto bene?”
“Sì”,
rispose frastornato e la sua espressione palesemente sconvolta ne rivelò la
bugia.
“Non
si direbbe, sei pallido come un fantasma”, fece Karl, dando un accento severo
al suo tono apprensivo, “vuoi che chiami il dottor Schneider?”
Nessun
medico, neanche un luminare come Schneider, grazie al quale stava rimettendosi
in sesto piuttosto velocemente, avrebbe potuto curare la sua malattia e, con
molta naturalezza e senza alcun pudore, lo lasciò intendere anche a suo padre,
dicendo malinconico: “Non avrebbe nessuna cura.”
Karl
sospirò profondamente ed emise uno sbuffo disperato, portandosi le mani alle
tempie. “Ancora con questa storia? Io non ne posso più”, ribatté e
l’esasperazione comparsa improvvisamente sul suo volto fece credere a Hermann
che fosse in procinto di prenderlo a schiaffi.
Di
suo padre aveva ereditato gli occhi, l’intuito e la caparbietà e sapeva
benissimo che avrebbe fatto o detto qualsiasi cosa pur di dissuaderlo dal
ritornare in Italia.
“Prova
a ragionare solo per un attimo”, riprese, infatti, mentre il suo tono diventava
pian piano più morbido e persuasivo, “sono passati due anni e, come te, anche
lei potrebbe essere cambiata. Hai detto di averla abbandonata e non credi che
potrebbe serbare del rancore e non volerti più?” Ed ecco che suo padre iniziava
a dare voce alle sue paure. “Potrebbe aver ritrovato qualche membro della sua
famiglia o avere un altro uomo accanto. Perché sconvolgerle la vita? Dopo tutto
quello che ha passato, poverina.”
Hermann
emise un ghigno e, scuotendo il capo in segno di dissentimento, disse ironico:
“Ma quanto sei ipocrita. Vorresti farmi credere che t’importa qualcosa di lei?”
Poi si fece d’un tratto serio e lo guardò intensamente negli occhi. “Io tornerò
in Italia, con o senza il tuo aiuto.” Ma sapeva benissimo che senza i contatti
di suo padre sarebbe stato tutto più difficile.
Karl
lo sfidò con sguardo altrettanto tagliente e, sfogando la tensione in un
profondo sospiro, ribatté: “E va bene, ti aiuterò. Non sopporto più vederti
ridotto in questo stato.” Le parole di suo padre si rincorrevano lente in un
intreccio di rassegnazione e disprezzo. “A causa di un’ebrea.”
Con
uno scatto rabbioso, gli volse le spalle e rientrò nel portone, lasciando
Hermann da solo, deluso ma risollevato, pronto a perdersi ancora nei rimorsi e
a rifugiarsi nel ricordo di Sarah.
Napoli
“Se
continui così, finirai per distruggere il tuo meraviglioso anello”, proruppe
Hannah, ostentando dell’ironia.
Distesa
sul letto, senza la benché minima intenzione di addormentarsi, Sarah non faceva
altro che girare e rigirare l’anello di fidanzamento attorno al dito,
fissandolo con aria vaga e sognante e ripensando a ogni singolo istante vissuto
nella magia di Sorrento, “la terra delle sirene”, insieme a Matteo e
fantasticando sul giorno seguente, quando avrebbe visitato la loro futura casa,
quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina.
Alzò
un po’ la testa dal cuscino e rivolse all’amica un ampio sorriso rilassato,
dicendole: “Sai, Hannah, non è affatto vero quello che si dice sui pescatori.
Lui è così sensibile, gentile, romantico. È speciale.”
Hannah
sospirò estasiata, poi si girò su un fianco e, appoggiando il gomito sul
cuscino e la testa sulla mano, le chiese: “E lui è il tuo primo amore?”
In
un attimo, i pensieri di Sarah e i battiti del suo cuore rischiarono di
deragliare verso Hermann.
“Sì”,
rispose con un sorriso, mantenendo lo stesso entusiasmo e credendoci realmente.
“Ti
prego, Sarah, raccontami ancora”, riprese Hannah e la sua espressione
assomigliava tanto a quella di una bambina desiderosa di riascoltare la favola
della buonanotte, “raccontami ancora come ti ha chiesto di sposarlo.”
Sarah
si aprì in un altro largo sorriso e accontentò il desiderio della sua amica.
“Eravamo nella villetta di Sorrento, davanti a un panorama spettacolare. Lui mi
ha preso le mani e mi ha detto: «Sarah, io ti amo e voglio trascorrere il resto
della mia vita con te, che sei unica e straordinaria, la ragazza più bella,
dolce e gentile che abbia mai conosciuto. Vedi, Sarah, io non ho molto da
offrirti. Ho solo queste mani per lavorare in un mare spesso ostile e che, a
volte, non dà nulla. E ho questo cuore per amarti». Ha portato le mie mani al
suo cuore. Batteva fortissimo. Poi si è inginocchiato, ha preso l’anello dalla
tasca e mi ha chiesto: «Sarah, vuoi sposarmi?».” La sua voce tremava per
l’emozione, mentre il suo animo vibrava d’amore per Matteo.
Ma,
quella notte, Sarah non sognò soltanto il suo futuro sposo.
“Te lo direi che
ho freddo,
che ho paura
e che ti ho
sempre amato.”
Michele
Zarrillo, Adesso
[1]In riferimento
all’Eccidio di Cibeno. All’alba del 12 luglio 1944, sessantasette internati
politici del Campo di Fossoli furono fucilati dalle SS al poligono di tiro di
Cibeno (Carpi), come ritorsione per l’attentato contro alcuni soldati tedeschi
a Genova. Una rappresaglia immotivata poiché condotta contro prigionieri inermi
e in un’area lontana dal luogo dell’attentato. Tra le vittime, il più giovane
aveva sedici anni.
L’immagine è tratta dalla docufiction “Figli del
destino” che racconta la storia di quattro bambini italiani ebrei, vittime
delle leggi razziali fasciste del 1938, tra i quali Liliana Segre.
Capitolo
20
Pane
e marmellata
“Accade
facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”
Primo Levi, Se
questo è un uomo
Campo
di Fossoli, 19 febbraio 1944
~ Tre giorni alla
partenza per Auschwitz ~
Quando si svegliò, Sarah
non aprì subito gli occhi. Abbracciata dal calore del letto e dal delicato
profumo di lisciva delle lenzuola, lasciò che l’immaginazione la riportasse
nella sua cameretta.
Fra qualche minuto, suo
fratello si sarebbe alzato per andare al lavoro, blaterando, con voce un po’ rauca
per il sonno, di essere in ritardo, mentre sua madre, facendo rumore in cucina
con cassetti e stoviglie, avrebbe preparato loro una lauta colazione.
E credette di trovarsi
davvero a casa sua, quando il buon profumo della colazione le solleticò realmente
le narici, facendole brontolare lo stomaco e intensificare la salivazione.
Escludendo quei pochi
cucchiai di minestra che Maria le aveva imboccato, era da ben tre giorni che la
ragazza non toccava cibo.
Un senso di amaro le si
appiccicò al palato e deglutì più volte la saliva, prima di schiudere
definitivamente le labbra e aprire con estrema lentezza gli occhi. Poggiato sul
comodino, vide un vassoio di rame con sopra una teiera e una tazza in
porcellana; un tovagliolo ricamato sul quale erano adagiati dei biscotti e
delle fette di pane; un piccolo vasetto, anch’esso di porcellana, con della
marmellata che, a giudicare dal colore e dal profumo, sembrava essere di
fragole.
Da quanti mesi non ne
assaggiava un po’?
Una volta, in canonica,
era stato consegnato un pacco di viveri contenente anche dei vasetti di
marmellata, ma Sarah aveva preferito cedere la sua porzione ai bambini.
All’ennesimo brontolio di
stomaco, fu quasi sopraffatta dalla tentazione di allungare una mano verso il
vassoio e, anche se il braccio le uscì involontariamente fuori dalle coperte,
resistette, all’improvviso e spaventoso ricordo della sera precedente. Quella
non era la sua cameretta, non era la sua casa e il suo nome era ancora sulla
lista dei deportati verso Auschwitz.Mossa dalla paura, si liberò di scatto
dalle coperte, trattenendo un verso che assomigliava a un singhiozzo e si mise
a sedere, ritrovandosi di fronte il coronamento dei suoi incubi peggiori. Il
tenente era già pronto nella sua divisa linda e impeccabilmente stirata e i
capelli ben pettinati con la riga laterale e lucidi di brillantina. Fermo
sull’uscio del bagno,con la spalla sinistra appoggiata allo stipite della porta e
le braccia incrociate, chissà da quanto tempo la stava osservando con quel suo
sguardo furbo e allusivo, magari per sorprenderla con la mano nel vassoio. Balzò
dal letto caldo e per un soffio non inciampò nel lenzuolo che, nella furia del
movimento, le si era attorcigliato attorno alla caviglia.
Le labbra di Hermann si
curvarono in un sorriso di tenerezza, per quella scena che gli aveva ricordato
il loro primo incontro, ma la ragazza, ovviamente ignara di ciò, lo interpretò
come un ghigno derisorio.
Il freddo del pavimento
intirizzì i piedi nudi di Sarah, mentre l’aria rigida e umida dell’alba le
sferzò le gambe, percorrendo velocemente il resto del suo corpo, coperto
soltanto dalla leggerissima sottoveste bianca.
Hermann si trattenne a
guardare la cascata di capelli neri che, liberati dallo chignon, si dividevano
a metà: una parte ricadeva sul petto e l’altra dietro la schiena, lasciando
scoperto il sensuale incavo di una clavicola perfetta. La vide inclinare le
spalle all’indietro, in un atteggiamento difensivo; poi fece risalire lo
sguardo sul suo viso livido e corrucciato, incrociando i suoi occhi velati di
sonno e paura. Si staccò dallo stipite della porta e, tenendo le braccia
conserte, si ricompose nella sua postura dritta e fiera.
“Ieri sera sei svenuta e
il tuo stomaco ha brontolato tutta la notte”, le disse, deciso a nascondere la
sua insolita apprensione in un tono asettico piuttosto che parlarle con
ostentata durezza. “Devi mangiare, se vuoi sopravvivere. Ti ho fatto portare la
colazione.” Con un cenno della testa, le indicò il vassoio sul comodino e,
intanto, gli occhi immensi e lucidi della ragazza si sbarrarono, esprimendo dapprima
sospetto, poi meraviglia e, di nuovo, timore. “Mangia, poi rimetti in ordine la
stanza e vai a riposarti nella tua baracca”, concluse e, nonostante l’accento
grave, quelle parole risuonarono più come un invito che come un ordine, anche
alle proprie orecchie.
Sarah restò confusa dal
gesto premuroso del tenente e dal suo tono vagamente gentile, che cozzavano con
l’aggressività e le minacce di qualche ora prima.
Ma, nel giro di pochi
secondi, Hermann, temendo di sembrare debole, assunse di nuovo un’espressione
cupa e riprese severo: “I tuoi genitori non ti hanno insegnato a dire «grazie»,
quando ti viene offerto qualcosa?” Fece una pausa e la vide sussultare di
paura. “Non vorrei essere io a dovertelo insegnare adesso.”
La ragazza schiuse
lievemente le labbra e biascicò quel «grazie» con voce strozzata.
“Bene”, concluse
lapidario e andò via, chiudendo la porta e lasciandosi alle spalle il ricordo
di una notte trascorsa quasi del tutto insonne mano nella mano con lei ad
ascoltarne i gemiti di tristezza e i brontolii della fame.
Era stata Sarah a
ricercare involontariamente, durante il sonno, quel contatto, scambiando la
presenza del tenente per quella dei suoi genitori. “No, non mi lasciate, vi
prego”, aveva, infatti, sussurrato in un lamento, portando con decisione la
mano sulla sua ed Hermann aveva risposto stringendogliela.
Rimasta da sola, Sarah
emise un sospiro di liberazione e, a peso morto, sedette sul letto, iniziando a
fissare il vassoio con la colazione. Strinse forte le braccia attorno allo
stomaco e, nonostante fosse in preda ai dolorosi crampi della fame, dovette farsi
ugualmente coraggio prima di toccare quel cibo acquistato a caro prezzo. Prese
un biscotto e iniziò a mangiarlo, prendendo piccoli morsi e masticando
lentamente, ma senza assaporarne il gusto, mentre si chiedeva se il suo corpo e
la sua vita valessero così poco e, allo stesso tempo, così tanto. Era confusa,
stanca, impaurita e affamata. Si apprestò a spalmare la marmellata su una fetta
di pane e pensò che, se non voleva soccombere e finire su quel treno diretto
verso Auschwitz, avrebbe dovuto adattarsi a quella situazione, dimenticando la
Sarah di una volta e prestandosi al gioco meschino del tenente. Portò la fetta
di pane alle labbra e, al primo piccolo morso, le papille gustative danzarono
al sapore dolce della marmellata e quasi si commosse.Avrebbe compiaciuto
l’ufficiale tedesco, semmai, assecondando i movimenti frenetici del suo corpo e
imitandone i sospiri affannosi. Ma, subito, un singhiozzo strozzato le esplose
nella gola, assieme al boccone che aveva ingoiato, per poi sfociare in un
pianto sommesso. Sarah ebbe vergogna e paura della donna che sarebbe diventata.
“Sono consapevole che tutto più non
torna.
La felicità volava, come vola via una
bolla.”
Ermal Meta & Fabrizio Moro,Non mi avete fatto niente
La
dolcezza della marmellata si perse nel sapore salato e amaro delle lacrime che
scendevano copiose e silenziose lungo le sue guance, bagnandole le labbra, ma
Sarah continuò lentamente a mangiare, ignara di essere osservata. Ricordò di
aver sognato i suoi genitori e rivide l’espressione preoccupata impressa sul
volto di sua madre e lo smarrimento che traspariva dagli occhi di suo padre al
momento del loro addio, sotto lo sguardo del grande Crocifisso, nella navata
centrale della chiesa. Immaginò il loro dolore e la delusione di Samuel, suo
fratello, se l’avessero vista in quelle condizioni, mezza nuda, sul letto di un
nazista, a mangiare il cibo destinato ai soldati. Se solo avesse seguito Samuel
nella Resistenza, a quell’ora si sarebbe trovata a combattere il nemico e non a
condividerne le lenzuola. Ma, vigliacca qual era, il pensiero di supportare le
brigate partigiane, come tante altre ragazze della sua età, non l’aveva nemmeno
lontanamente sfiorata alla partenza di suo fratello. Bevve l’ultimo sorso di tè
diventato ormai freddo e, tremante, posò la tazza sul vassoio, trattenendo un
pianto più disperato.
Entrato
nel suo ufficio, prima di sedersi alla scrivania, Hermann frugò nelle tasche
alla ricerca delle sigarette e si accorse di aver lasciato il pacchetto sul
comodino. Scrupolosamente osservante dei propri gesti e rituali quotidiani, si
stupì non poco di tale dimenticanza e, a passo sostenuto, si diresse verso la
camera da letto. Pensò che Sarah, considerata la fame che le aveva tormentato
lo stomaco per tutta la notte, avesse già finito di mangiare e che, in quel
momento, stesse rassettando la stanza. Ma, avvicinatosi alla soglia, udì un
lamento sommesso, simile al miagolio di un gattino e spinse delicatamente la
porta fino ad aprire un piccolo spiraglio. La vide di spalle, seduta sul bordo
del letto, ancora in sottoveste e con la colazione davanti. Mangiava a rilento
e non voracemente, come aveva immaginato, mentre i singhiozzi trattenuti le
scuotevano le spalle e la testa, facendo ondeggiare i capelli. Indugiò
sull’uscio, non sapendo come confrontarsi con quegli occhi lucidi ed eloquenti,
con quelle labbra mute e tremanti e, per la prima volta nella sua vita, si
scoprì vigliacco davanti alla fragilità e alla forza di una ragazza la cui
esistenza era stata catapultata in un incubo e lui era uno dei mostri. Il
delicato tintinnio della tazza, che Sarah aveva posato sul vassoio, lo riportò
alla realtà e, scuotendo un po’ il capo come per liberarsi da pensieri che non
gli appartenevano, si costrinse a ricordare i numerosissimi impegni della
giornata e a farne un alibi per non rientrare nella stanza. Fra soli tre
giorni, sarebbe partito il primo convoglio diretto verso Auschwitz e, sotto il
suo comando, tutto doveva filare alla perfezione. Non poteva perdere altro
tempo e, mentre la schiena della ragazza fu scossa da un singhiozzo più forte, l’SS-Obersturmführer
chiuse lo spiraglio e si allontanò dalla porta. Indossò di nuovo la sua corazza
d’indifferenza, ma non aveva più voglia di fumare.
“Sarah!
Sarah!” Al di là del filo spinato che divideva il Campo Nuovo dal Campo
Vecchio, una voce familiare la chiamò, ma Sarah fece finta di non sentirla e
continuò a camminare più velocemente verso la sua baracca.
Se
si fosse fermata, don Franco, anche solo con uno sguardo, avrebbe capito tutto
e lei non voleva.
“Sarah!
Sarah!” Il sacerdote perseverava nell’intento di parlarle e Sarah, sentendo il
suo respiro farsi più affannoso per l’incedere troppo veloce, considerata l’età
avanzata, non ebbe altra scelta che rassegnarsi a quel confronto e a
un’eventuale condanna.
Assai
trafelato, in una tonaca sgualcita e impolverata, con la barba incolta e il
viso segnato da mille preoccupazioni, don Franco sembrava più invecchiato dal
suo arrivo a Fossoli.
La
guardò con un’espressione infinitamente triste: le guance livide e gli occhi
privi di luce gli confermarono la veridicità di quanto aveva sentito sulla
povera Sarah e rimase senza parole, come quando, qualche giorno prima, un uomo
e una donna gli confessarono di aver praticato l’eutanasia sulla loro figlia
malata terminale per sottrarla alle sofferenze dell’arresto e della
deportazione. Nel vortice della follia antisemita, dell’uomo contro l’altro
uomo, cos’era giusto e cos’era sbagliato?
“Sarah”,
iniziò a parlarle con voce spezzata, “perdonami. Non sono riuscito a proteggere
te e i bambini.”
Quel
«perdonami», rivoltole da un ministro di Dio, suonò strano alla ragazza che
avrebbe voluto – e, forse, dovuto – rispondere con un «non è colpa vostra», ma
rimase in silenzio, poiché aveva bisogno di sentirselo dire per tutto il male
che le era stato fatto. Corrucciò la fronte in un moto di rabbia, ripensando
all’abuso subito e fece per andarsene.
“Sarah!”
Don Franco la fermò, chiamandola con voce più forte e angosciata. “Non
permettergli di farti diventare ciò che non sei.”
Gli
occhi di Sarah si velarono di lacrime. Don Franco sapeva già tutto e, con un
fil di voce, ponendo la domanda prima a se stessa, gli chiese: “Chi sono io?”
“Tu
sei quella bambina, poi quella ragazza che correva verso la chiesa con il suo
libro dei canti e che, sorridente, saliva in cantoria con gli occhi e il cuore
pieni di sogni e speranze”, ribatté don Franco, anche lui con gli occhi
inumiditi dal pianto trattenuto, “quella ragazza che, con grande amore e
pazienza, nonostante la paura, mi ha aiutato a prendermi cura dei bambini in
canonica.”
Ma
Sarah dissentì con la testa e, profondamente angosciata, quasi sul punto di
piangere, disse: “No, quella bambina e quella ragazza sono morte lì dentro.” E,
atterrita, rivolse lo sguardo all’edificio occupato dai tedeschi per poi girare
definitivamente le spalle a don Franco.
“Non
lasciarle morire, Sarah!” proruppe l’anziano sacerdote, non in tono di
rimprovero, ma come una supplica disperata, mentre la ragazza camminava in
fretta verso la sua baracca, senza fermarsi, senza voltarsi. “Non lasciarle
morire”, ripeté più rassegnato.
Quando
fu nella sua baracca e sul suo letto, con la testa sotto la coperta, Sarah poté
finalmente dare libero sfogo a tutte le lacrime che aveva trattenuto; lacrime
di paura e rassegnazione, di rabbia e vergogna, di sconforto e confusione;
lacrime convulse, irrefrenabili, sonanti che non rimasero a lungo inascoltate.
All’ennesimo singhiozzo, infatti, sentì un qualcuno salire sul letto e premerle
sulle gambe. Scostò un po’ la coperta dal viso, ritrovandosi davanti il faccino
di Giulio, il bambino più piccolo, che la guardava con un’espressione triste e
interrogativa e, invano, tentò di frenare le lacrime, tirando su col naso un
paio di volte.
“Sarah,
perché piangi?” domandò innocentemente il bimbo. “Ti fa ancora bua?”
Senza
rendersene conto, Sarah si ritrovò ad annuire e il piccolo, piegatosi su di
lei, le diede un bacio sulla guancia, quella più livida.
“è passata?” riprese il bimbo, mentre
Sarah, commossa, non riusciva a trattenere le lacrime ed emise un singhiozzo
più forte.
Alla
mancata risposta della ragazza e al suo incontenibile pianto, il piccolo Giulio
rattristì di più lo sguardo, poi si fece pensieroso e, un attimo dopo, assunse
un’espressione allegra. “Il mio papà mi ha promesso che, quando torniamo a
casa, mi compra un cavalluccio grande così!” disse e, sulle ultime parole enfatizzate,
spalancò le braccia più che poteva. “Se vieni a casa mia, ti faccio fare un
giro, però non devi piangere più”, concluse serioso.
Sarah
sorrise debolmente al tentativo del bimbo di consolarla, immaginandosi
l’improbabile ed esilarante scena. “Va bene”, sussurrò, asciugandosi le lacrime
con il dorso della mano, “non piango più.”
Il
piccolo era riuscito nel suo intento e ricambiò con un largo sorriso per poi
accovacciarsi accanto a lei. Sarah lo abbracciò e, baciandogli la fronte, pregò
Dio che i nomi di Giulio e degli altri bambini non fossero sulla lista dei
deportati verso Auschwitz. Dopo pochi istanti, vinta dalla stanchezza fisica e
mentale, mentre il piccolo riempiva il silenzio della baracca canticchiando una
dolce nenia inventata, la ragazza chiuse gli occhi e, senza accorgersene, dormì
fino al giorno seguente, fino a quando una sirena non fischiò all’impazzata.
Io sono questo essere che
geme, che brucia, che soffre.
Io sono questo essere che
attacca, che urla, che canta.
No, non voglio essere così.
Aiutami a rompere queste
porte immense.”
Pablo Neruda, Riempiti di me
Immagine
tratta dalla locandina del film “L’uomo dal cuore di ferro”
Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944
~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~
Al
tonante fischio della sirena, Sarah spalancò di colpo gli occhi e balzò a
sedere sul letto. Con terrore, immaginò che quell’allarme preannunciasse
l’arrivo dei bombardieri, ma fu un altro pensiero a farla rabbrividire. Le luci
del crepuscolo mattutino penetravano dalle finestre della baracca, posandosi su
volti stropicciati dal sonno di persone che, concitatamente, si preparavano a uscire,
alcune coprendo il pigiama che avevano indosso. Si rese conto di aver dormito
per un giorno e una notte di fila e, di conseguenza, di non essersi presentata
per una giornata intera né al lavoro né al tenente. Le possibilità di scampare
al trasferimento ad Auschwitz diminuivano
sempre di più. Girando ancora intorno lo sguardo, atterrita, cercò la presenza
rassicurante di Maria e la vide mentre, in ginocchio, aiutava il piccolo Giulio
– che, piagnucolante e assonnato, si strofinava gli occhi – a indossare il
cappottino. Balzò giù dal letto e, ignorando un capogiro, in gran fretta,
s’infilò le scarpe e il cappotto.
“Maria!” la chiamò, correndole incontro e lei si
volse, prendendo in braccio il bimbo che subito si accoccolò sulla sua spalla,
desideroso di dormire ancora.
Per alcuni istanti, le due donne si parlarono con
uno scambio di sguardi carichi di tensione, poi fu Sarah a rompere
quell’eloquente silenzio. “Cosa sta succedendo?” domandò sconvolta.
Gli occhi nocciola di Maria divennero
improvvisamente più lucidi e, con voce rotta dalla preoccupazione, rispose:
“Credo che vogliano comunicarci qualcosa di…”
Neanche il tempo di terminare la frase, che Sarah
subito la interruppe, incalzando con un tono più concitato: “Perché non mi hai
svegliata ieri sera?”
“Ci ho provato, cara, ma ti sei girata dall’altro
lato. Eri stanca morta”, le disse, tentando di assumere un timbro di voce e
un’espressione in viso più sereni per rassicurarla e, intanto, il piccolo
Giulio aveva già ripreso a dormire.
“Sbrigatevi, dobbiamo uscire”, intervenne Davide perentorio
e agitato, ponendo una mano sulla spalla di sua moglie e, velocemente, lo
seguirono.
Quando la sirena smise di fischiare, nel campo
piombò un silenzio quasi surreale. I tedeschi avevano posizionato davanti al
loro edificio una specie di palco costituito da due tavole di legno sovrapposte
e un folto numero di soldati armati lo circondava. Sarah sentiva nelle orecchie
le pulsazioni del proprio cuore e l’ansimare del proprio respiro che, nell’aria
fredda del mattino, formava nuvolette di fumo bianche. Sul palco, dietro al
microfono e affiancato da un sottoufficiale, si ergeva la figura del tenente. Ben
dritto, con le mani dietro la schiena e con indosso il lungo cappotto
dell’uniforme, sembrava più alto, più imponente, più minaccioso e Sarah dovette
sforzarsi di allontanare dagli occhi della mente la terribile sequenza dei
momenti vissuti con lui per essere presente a ciò che stava accadendo. Ma, al
soffio di un respiro esalato al microfono, fu di nuovo trafitta dal ricordo del
suo ansito e del cigolio del letto e lasciò che quel dolore le scavasse ancora
nel corpo e nell’anima, fino a quando il tenente non iniziò a parlare.
Con voce metallica e glaciale calma, pronunciò
poche parole che, di colpo, la fecero sprofondare in un’angoscia profonda,
forse mai provata prima di allora, lacerandole il cuore: “L’SS-Scharführer
Weber Jörg, adesso, leggerà i nomi dei prigionieri che lasceranno il campo. La
partenza è prevista fra due giorni e avete un tempo più che sufficiente per
raccogliere le vostre cose.” E, subito, indietreggiò di un passo per lasciare
il microfono al sottoufficiale che, senza perdere tempo, iniziò a leggere da
quei fogli che Sarah aveva già visto.
Soltanto lei, in mezzo a centinaia di persone
un po’ smarrite e confuse dall’inaspettato annuncio, era tristemente a
conoscenza della verità e, con la morte nel cuore, si mise in un ascolto
profondo dei nomi dei deportati verso
Auschwitz, contandoli e aspettando rassegnata il proprio turno. Arrivata a
cento, perse il conto e strinse forte il braccio attorno alla vita di Maria,
quando sentì pronunciare i nomi della donna, di suo marito e dei bambini con i
quali era arrivata a Fossoli. Era certa che anche il suo nome fosse su quella
lista, dal momento che, per un giorno intero, non aveva svolto il suo lavoro di
cameriera e, soprattutto, non aveva mai soddisfatto realmente i bisogni del
tenente.
Hermann lasciò il
microfono al sergente maggiore e, mentre questi iniziava a leggere i nomi dei prigionieri
destinati adAuschwitz, fu libero
di ricercare con lo sguardo Sarah. Aveva cancellato il suo nome dalla lista la
mattina precedente, prima di farle portare la colazione e, affinché la sua
presenza non lo distogliesse – esattamente come stava accadendo in quel momento
– dagli impegni e da se stesso, le aveva permesso di riposare tutto il giorno.
Non fu difficile scorgere la sua figura, la perfezione in mezzo alla bruttezza
di centinaia di esseri per lui inferiori, avvolta nel cappotto rosso.
Rosso, come lo
sfondo della bandiera nazista, simbolo di supremazia della razza e di potenza che,
da una torretta di sorveglianza, vide ondeggiare forte a un’improvvisa folata
di vento. Ne udì il rumore, mentre la voce del sottoufficiale arrivava alle sue
orecchie come un eco lontano, un suono indistinto e i suoi occhi tornavano a
Sarah. Era in virtù di quel potere che si era avvalso il diritto di farla sua
con ricatto e violenza.
Rosso, come il
sangue d’innocenza rubata impresso sul lembo della sottoveste bianca che lei
stringeva fra le gambe all’indomani della violenza, seduta sul pavimento, con
le spalle appoggiate al muro e gli occhi fissi nel vuoto. E, intanto, la vide
stringersi a una donna bionda che teneva in braccio un bambino piccolo,
affiancata da un uomo dai capelli neri, folti e spettinati. Mai era successo
che una ragazza lo respingesse e che lui si comportasse in modo così abietto.
Rosso, come il
colore attribuito alla passione che, forse, avrebbero potuto vivere assieme, se
solo avesse cambiato il suo approccio verso Sarah, accompagnandola per mano nei
meandri del desiderio, a lei ancora sconosciuto. Desiderò farla sua, sentendosi
suo. Desiderò sentire le carezze delle sue mani sul proprio corpo e farle
esplorare quel nuovo mondo. Ma, d’improvviso, si costrinse a ritornare in sé, mentre
il sergente maggiore aveva già iniziato a leggere l’ultimo foglio della lista.
Con gli occhi velati
di lacrime e fissi sul sottoufficiale, Sarah attendeva che, da un momento
all’altro, questi pronunciasse il suo nome. Attendeva sempre più rassegnata,
tra angoscia per le persone – soprattutto, per quei poveri bambini – nominate
per la partenza verso Auschwitz e paura per il destino che avrebbe con loro
condiviso. Ma il suo nome non fu mai pronunciato, mai divenne un numero inciso
sul braccio né lei cenere trasportata dal vento.
Berlino, ottobre
1946
Seduto sulla sedia, accasciato
allo scrittoio della sua stanza, Hermann si era addormentato sopra una distesa
di libri tradotti in italiano, dizionari e fogli sui quali aveva esercitato la
sua dimestichezza nella lingua straniera, stanco per lo studio ma, soprattutto,
tramortito da un vortice di ansia e di entusiasmo. Il giorno seguente, suo
padre avrebbe incontrato degli amici,come lui, ex membri del Dipartimento 1A
della polizia di Stato prussiana e, successivamente, della Gestapo. Grazie alle
conoscenze di suo padre, avrebbe ottenuto tutti i documenti necessari per
espatriare in Italia e, con la testa poggiata su “I dolori del giovane
Werther”, sognò il fatidico momento in cui avrebbe ritrovato la sua Sarah.
“L’altro, il tiranno
delle tue lenzuola, ti strappa fuori da ogni movimento e precipita cupo nel
ricordo.”
Alda Merini
Immagine
dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli,
ottobre 1946
~
Un
mese al matrimonio ~
“Basta
ca ce sta ’o sole, ca c’è rimasto ’o mare, nanénna a core a core, na canzone pe’ cantá. Chi ha
avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato, simmo ’e Napulepaisá”[1],
canticchiava
Matteo, verniciando di beige rosato l’ultima parete
della camera da letto.
Aveva
impiegato l’intera mattina per riuscire a ottenere quel colore e fare una
sorpresa alla sua futura sposa che, sicuramente, si aspettava il monotono
bianco o, al massimo, un giallo pallido. Non vedeva l’ora di mostrarle il
risultato del suo lavoro. A breve, come i pomeriggi precedenti, sarebbe
arrivata con un caffè, un bacio e una miriade di sorrisi, sprigionando
nell’aria una scia del suo buon profumo ai fiori di mughetto e imprimendogli
nella mente e nel cuore l’immagine della sua radiosa bellezza. A volte, pensava
di non esserne degno e che, come gli ripeteva spesso il suo compare, Sarah
fosse troppo per un povero pescatore come lui. Se Matteo le aveva chiesto di
sposarlo, lei aveva fatto sì che la sua proposta diventasse un’immediata
concretezza.
Sarah
aveva messo in vendita l’appartamento di famiglia per pagare, subito e
interamente, la casetta dal tetto rosso affacciata sul mare che avrebbe abitato
con il suo sposo, scontrandosi con il dissenso del signor Gennaro che sperava
ancora nel ritorno dell’amico conosciuto in trincea durante la Grande Guerra. Inizialmente, anche lui, urtato nel suo
orgoglio di maschio e temendo una figuraccia con i suoi futuri suoceri, qualora
fossero ritornati dai lager nazisti, aveva dissentito, ma Sarah era stata più
forte. Il suo guscio di ragazza dolce e sensibile nascondeva in realtà una
donna testarda e determinata il cui carattere era stato forgiato dalle
ingiustizie e dagli abusi subiti. Ma Sarah non si era limitata soltanto
all’acquisto della casa e, con parte dei soldi rimasti, gli aveva anche
regalato una barca, offrendogli così un’indipendenza lavorativa, una
responsabilità a cui lui, però, non si sentiva ancora pronto e che lo
costringeva a diventare improvvisamente più adulto, più uomo. Temprata dalla
sofferenza del passato, Sarah era forte e lo era molto più di Matteo.
La loro decisione di sposarsi subito, senza prima
conoscersi di più ma sospinti da un sentimento d’amore e spinti da uno slancio
del cuore, aveva suscitato la disapprovazione sia del signor Gennaro sia della
famiglia di Matteo, mentre le malelingue del paese mormoravano di un matrimonio
riparatore. Ovviamente, non lo era. Il desiderio che Matteo aveva della sua
futura sposa era grande quanto il rispetto che nutriva per lei e non ne avrebbe
mai approfittato, pur sapendo della sua non più illibatezza. Temendo di poterle
riaprire una ferita e di offenderla nella sua sensibilità e nella sua dignità
di donna, non le aveva mai chiesto di quell’ufficiale tedesco. A volte, quando
era da solo con i suoi pensieri, mentre riparava una rete o riposava sulla
battigia oppure, come in quel momento, ristrutturava la loro casetta, si
ritrovava a immaginare con rabbia le violenze e le porcherie che la sua dolce
Sarah aveva subito per mano di quel criminale nazista, per lui senza nome né
volto, ma sapeva che, se le cose fossero andate diversamente, non l’avrebbe mai
incontrata. Beneficiario di una felicità frutto di un compromesso, forse, se la
vita gli avesse messo davanti quell’essere degenere, lo avrebbe anche
ringraziato, prima di ucciderlo con le proprie mani. Ma questo non sarebbe mai
accaduto, poiché quel tedesco era soltanto un fantasma del passato, un brutto
ricordo sepolto sotto cocci, ceneri e macerie di un mondo da ricostruire, di
una vita – quella di Sarah – rinata e a lui donata.
“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha
dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato”,
continuava a canticchiare Matteo, dando alla parete le ultime pennellate, “simmo ’e…” Si zittì e fermò il suo lavoro, quando,
rivolgendo lo sguardo alla finestra davanti a sé, nella cornice del luccichio
del sole che si specchiava sul mare increspato del pomeriggio e s’infrangeva
sulle barche ormeggiate in banchina, la vide arrivare con il vassoio del caffè
tra le mani.
La luce del sole faceva brillare i riflessi ramati
dei suoi capelli adornati su un lato da un fermaglietto argentato e che, adesso,
un po’ più corti e ondulati, si posavano a malapena sulle spalle coperte da una
giacchetta color panna; mentre la brezza del pomeriggio faceva danzare gli orli
del suo vestito azzurro.
Azzurro, come il mare che lui navigava e che,
generoso, era sempre stato il suo sostentamento e il suo rifugio; azzurro, come
il cielo che lui contemplava e che, rassicurante, aveva sempre raccolto i suoi
pensieri, paure e speranze.
Matteo adorava quel vestito che Sarah aveva
indossato per la prima volta il giorno della sua proposta di matrimonio a
Sorrento e ne rievocava il ricordo, i momenti e le sensazioni, il profumo di
zagare e salsedine, il suo batticuore di ansia e felicità, il sapore del pane
caldo, dei baci avvolgenti e delle lacrime dolci della sua amata.
Sorrise incantato dinanzi a quella visione
celestiale che, lentamente e in modo sinuoso, si apprestava a salire i gradini
di casa. Poi ritornò in sé e, in fretta, posò il pennello su un barattolo di
vernice e si pulì le mani con uno straccio per raggiungerla in cucina.
“Matteo!” Sarah lo chiamò con voce particolarmente
allegra, felice per ciò che avrebbe dovuto fare di lì a poco e, mentre
appoggiava il vassoio sul tavolo, lui apparve dalla camera da letto,
pronunciando il suo nome quasi in un sussurro.
Gli occhi luminosi e le ciglia incurvate dal
rimmel, il sorriso raggiante e le labbra colorate di un rosa delicato avevano
abbagliato Matteo, attraendolo verso di lei come una calamita. Le andò incontro
e l’accolse, salutandola con un dolce “ciao, amore” e un bacio sonoro sulla
guancia un po’ arrossata dal caldo.
Bevve quasi di un sorso il caffè diventato ormai
freddo e, intanto, Sarah si soffermò a guardare i suoi capelli scuri e ricci
impiastricciati di polvere; i suoi avambracci, abbronzati e scoperti dalle
maniche arrotolate, imbrattati di vernice; i suoi occhi marroni, segnati da
profonde occhiaie di sonno arretrato, fissi su di lei in un’espressione di
tenerezza e vagamente vispa che la ragazza adorava.
“Ti sei cambiata”, fece Matteo, posando la tazzina
sul vassoio, senza distogliere per un attimo lo sguardo da lei, “oggi non torni
al lavoro?”
“Te l’ho già detto ieri”, rispose, fingendosi
risentita, ma il timbro di voce gentile e il sorriso incollato sul viso
tradirono il suo tentativo, “oggi ho appuntamento con la sarta per provare di
nuovo l’abito. Stavolta mi accompagna la moglie del signor Gennaro, perché
Hannah non può muoversi dal Gran Cafè.” Sarah divenne più seria e si apprestò a
prendere il vassoio dal tavolo, dicendo: “Anzi, è meglio che mi sbrighi. Non
vorrei farla aspettare.” L’emozione per l’ennesima prova dell’abito da sposa
era mutata in un senso quasi di irrequietezza.
“Aspetta!” Matteo la fermò, afferrandole
delicatamente un polso. “Ho una sorpresa per te”, disse e, prendendola per
mano, fece tornare il sole sul suo viso, “chiudi gli occhi.”
“Va bene”, sussurrò Sarah, mentre il giovane le
restituiva il sorriso e, con una smorfia, chiuse gli occhi, lasciandosi guidare
verso la camera da letto.
“Adesso puoi aprire gli occhi, amore.” Alla dolce
esortazione di Matteo, gli occhi di Sarah si aprirono, rimanendo incantati nel
vedere quelle pareti rosate. “Allora, come ti sembra?” le domandò, già
compiaciuto della sua reazione.
“è meraviglioso!”
ribatté e, esalando un gridolino di gioia, gli si gettò al collo, baciandolo
sulle labbra. “Tu sei fantastico!”
Matteo le prese il viso tra le mani, restituendole un
bacio travolgente il cui impeto la fece indietreggiare verso l’uscio.
Sarah si scosse nel ritrovarsi con le spalle
incollate alla porta che sbatté lievemente contro il muro e si stupì nel vedere
le mani di Matteo ferme a mezz’aria sul suo petto.
“Posso, Sarah?” le chiese con il rispetto e la
gentilezza che lei, conoscendolo, sapeva avrebbero preceduto la loro intimità,
attenzioni fisiche e carezze più audaci che, già da qualche settimana, la
ragazza desiderava e pudicamente attendeva dal suo amato.
Ma, forse, non era quello il momento giusto per
permettergli di lasciarsi andare, tra il disordine di una casa in
ristrutturazione e la sua fretta per l’imminente appuntamento con la sarta, e
rispose con un titubante “sì”.
E Matteo non riuscì a scorgere il velo di tristezza
dietro le sue ciglia socchiuse, mentre stringeva tra le mani la morbida coppa
dei suoi seni e non si fermò, quando lei espresse la sua incertezza,
ritraendosi alle carezze e dicendo: “Credo che non sia questo il momento,
Matteo.”
“Sei bellissima, amore mio. Sei tutto ciò che ho
sempre desiderato nella mia vita”, rispose lui, sordo alle parole di Sarah e
ignaro che le sue mani stessero riaprendo vecchie cicatrici e rievocando
assurdi rimpianti.
Il forte odore di vernice fresca e di polvere di
gesso sparso nella stanza e quello acre di sudore emanato dal corpo di Matteo
iniziarono a confondersi con un profumo di ambra e muschio; la guancia scura e ispida
di barba incolta che la pungeva, sfiorandole il viso, divenne pelle cerea e
liscia d’impeccabile rasatura; le mani callose, la cui ruvidezza oltrepassava
la stoffa del vestito, raggiunsero le generose curve dei suoi fianchi, mutando
in dita morbide che non avevano mai conosciuto la fatica dei lavori manuali.
Sarah gemette di paura e nostalgia, al ricordo di Hermann che prendeva possesso
della sua realtà presente con Matteo.
“Basta, Matteo, devo andare. La signora Carmela mi
sta aspettando”, lo implorò, afferrandogli le braccia.
Ma il giovane, animato da un irrefrenabile e
smanioso desiderio che sembrava averne strappato via la consueta delicatezza,
non ascoltò la sua richiesta. “Lasciala aspettare”, ribatté e Sarah quasi volle
piangere, sentendosi inchiodata al legno di quella porta.
“No, basta, Matteo”, ripeté più volte, in un tono
di lamento, tentando invano di divincolarsi. Poi, con una forza che entrambi
non credevano potesse avere, la ragazza lo spinse via da sé. “Ho detto basta”,
urlò, dandogli uno schiaffo in pieno volto, “Hermann!”
E fu lo stupore e non il dolore a fargli portare e
trattenere la mano sulla guancia, mentre rielaborava il nome con il quale da
Sarah era stato respinto e chiamato.
Di quel tedesco Matteo conobbe, dunque, il nome e,
sfocato e senza fattezze, scorse il volto nel lampo di rabbia comparso negli
occhi di Sarah prima che s’inondassero di lacrime. E vide quell’ombra in divisa
riemergere da cocci, ceneri e macerie e occupare minacciosa la distanza che fra
loro si era creata.
“Azzurro come te,
come il cielo e il mare.
E giallo come luce del sole.
Rosso come le cose
che mi fai provare.”
Modà & Jarabedepalo,
Come un pittore
[1]“Basta che c’è il sole, che c’è rimasto il mare, una ragazza cuore a
cuore, una canzone da cantare. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato,
ha dato, ha dato, dimentichiamoci il passato, siamo di Napoli paesano.”
“Simmo ’e Napulepaisá” è una canzone napoletana del 1944, interpretata da Vera
Nandi al volgere del termine della seconda guerra mondiale.
La canzone racconta la voglia di rinascita del popolo napoletano e il desiderio
di lasciarsi alle spalle i tragici eventi della guerra.
Capitolo 24 *** Nell’abbraccio del nemico (Prima parte) ***
Capitolo 24
Nell’abbraccio del nemico
Prima parte
- “Non mi lasciare.” -
“Che hai, che abbiamo,
che ci accade? Ahi il nostro amore è una corda dura che ci lega ferendoci
e se vogliamo uscire dalla nostra ferita, separarci, ci stringe un nuovo nodo e
ci condanna a dissanguarci e a bruciarci insieme.”
Pablo Neruda, I versi
del capitano
Immagine dal film “L’amore
oltre la guerra”
Sarah sentì gli occhi inondarsi di lacrime,
mentre un tremore improvviso e incontrollabile le percorreva tutto il corpo,
arrivando fino all’anima. Quale nome le sue labbra avevano pronunciato? Quale
gesto la sua mano aveva compiuto? Attraverso il velo di un pianto frenato a
stento sotto le ciglia incurvate dal rimmel, guardava Matteo trattenere la mano
sulla guancia che gli aveva colpito e, nonostante la sua visuale fosse
offuscata, riuscì a scorgerne in volto l’espressione di sbigottimento. Con uno
schiaffo, reazione inconscia e violenta, aveva ricambiato le effusioni amorose
del suo futuro sposo e i suoi sacrifici per finire i lavori di ristrutturazione
della casa in tempo per il matrimonio, il sonno arretrato, i pasti saltati; con
il nome di un altro, ricordo assopito nel cuore e riemerso dalla mente, aveva
chiamato l’uomo che amava e che contraccambiava il suo amore, coronando il suo
sogno e scegliendola come sposa, malgrado il suo passato. I sensi di colpa le
strinsero il petto come una morsa, mentre si domandava cosa stesse provando
Matteo in quel momento. Immaginò che dietro il suo sguardo stupito si
nascondesse una profonda delusione e che la sua immobilità preannunciasse un
moto di rabbia. Comprensibile, dato il trattamento ricevuto, pensò ed ebbe
paura. La stessa paura che attanagliava lo stomaco del giovane, vorticando
attorno a quel senso di vuoto che gli trasmetteva la perseverante fissità degli
occhi umidi e del corpo tremante di Sarah. Era la paura di aver perso il cuore
della persona amata.
Nella mente di
Matteo, profondamente turbato da quel nome da straniero con il quale dalla sua
donna era stato chiamato, un pensiero affiorò e le due terre dei suoi occhi
iniziarono a bagnarsi di una pioggia di lacrime. Forse quel tedesco non le
aveva circuito soltanto il corpo ma anche la mente e il cuore, facendola
innamorare e legandola a sé in un rapporto più intimo che andava al di là del
suo appagamento fisico tanto da farsi chiamare per nome e dare del tu. Per un
attimo, gli sembrò di vedere l’intreccio dei loro corpi nudi muoversi alle note
armoniche del desiderio e le espressioni di piacere avvicendarsi sul viso della
sua Sarah e rabbrividì, immaginando che una parte di lei fosse ancora tra
quelle lenzuola, consenziente e voluttuosamente partecipe, nell’abbraccio del
nemico. La sentì più lontana e, mentre toglieva la mano dalla guancia, la fuga
di Sarah in cucina confermò la sua sensazione, concretizzandola.
“Sarah”, la chiamò
in un sussurro, mentre lei fuggiva per nascondersi ai suoi occhi velati di
pianto trattenuto e alla vergogna per averlo in qualche modo tradito, pensando
e nominando Hermann.
La seguì in cucina
e, a ogni passo, si scuoteva dalla mente l’immagine di Sarah che i suoi
pensieri avevano vergognosamente deformato. La guardò poggiare le mani sul
tavolo e piegarsi sofferente e si sentì in colpa, convincendosi che la sua
eccessiva insistenza le avesse ricordato la violenza subita da quel nazista con
il quale aveva soltanto stipulato un vile e freddo compromesso per la
sopravvivenza, nient’altro.
E, intanto, Sarah
chiuse le mani a pugno e, in un moto di rabbia verso se stessa, le sbatté su
quel tavolo attorno al quale non avrebbe mai mangiato con il suo sposo, ne era
dolorosamente certa. Due colpi simultanei, non troppo forti ma sufficienti a
far sobbalzare il vassoio e rovesciare la tazzina; poi un singhiozzo strozzato
le sfuggì dalla gola, liberando un pianto disperato.
“Sarah”, la chiamò
ancora, preoccupato per il gesto di stizza e mortificato per le lacrime da lui
provocate, “amore mio.” La voce gli si strozzò in gola, mentre le sue braccia
avrebbero voluto protendersi verso di lei, quando le fu ormai vicino.
“Perdonami”,
biascicò Sarah, con la voce spezzata dal pianto, asciugandosi il viso con il
dorso della mano e tenendo lo sguardo basso sul vassoio.
“No, perdonami tu.
Sono stato un idiota, n’omm ’e nient[1]”, ribatté Matteo
e, intanto, la ragazza, estremamente provata, tolse anche l’altra mano dal
tavolo e gli si fece davanti.
Senza sfiorarla,
avvicinò le mani alle sue braccia e fu lei a cercare rifugio sul petto del suo
amato. La strinse a sé, accogliendone il pianto che riprese diventando sempre
più convulso.
“No, non devi
piangere più. Non te lo meriti”, le disse e deglutì per trattenere la
commozione, mentre sentiva il proprio cuore battere all’unisono con i suoi
singhiozzi. Non l’avrebbe persa.
Un braccio le
cingeva i fianchi e una mano sulla nuca le teneva ferma la testa scossa dai
forti singhiozzi. Il cuore di Matteo batteva all’impazzata sotto quella camicia
già inzuppata delle sue lacrime e imbrattata di rimmel.
“Non mi lasciare”,
gli chiese, ancora avvinta dalla paura di perderlo e lui la strinse più forte,
avvicinando la guancia alla sua e affondando le labbra nei suoi capelli.
“Chi ti lascia, Sarah?
Chi ti lascia?” rispose e una lacrima sfuggì a rigargli l’altra guancia.
Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944
~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~
Il sottoufficiale
terminò la lettura della lista e sovrappose bene i fogli, prima di
riconsegnarli al suo superiore con un battito di tacchi e il saluto nazista. Il
nome di Sarah non era stato pronunciato, ma lei non ne provò alcun sollievo. Al
contrario, si sentì stringere il petto in una morsa di ferro e una grossa
lacrima le scivolò lenta lungo la guancia livida per gli schiaffi e un po’
arrossata dal freddo, mentre guardava il tenente riprendere la lista e scendere
solennemente i gradini di quel palco improvvisato per l’annuncio nefasto. Esser
stata risparmiata dalla deportazione ad Auschwitz e, probabilmente, dalla morte
non la faceva sentire una privilegiata ma doppiamente condannata, al dolore per
la perdita delle persone e dei bambini con i quali aveva legato e
all’umiliazione per il disconoscimento di se stessa e dei suoi valori più
profondi, al tormento della solitudine e del vuoto per l’orizzonte di un futuro
che non riusciva più a intravedere davanti a sé.E quelle catene, che già da prima la tenevano
prigioniera, la strinsero così forte tanto da smorzarle il respiro e
paralizzare ogni fibra del suo corpo, ad eccezione degli occhi che, atterriti,
seguirono i passi del tenente fin dentro l’edificio occupato dai tedeschi. A
lui sarebbe stata per sempre vincolata; le sue mani sarebbero state i duri
lacci di una prigionia senza fine, obbligandola a ciò che lei non voleva.
Ritornò in sé e distolse bruscamente lo sguardo verso un punto indefinito, mentre
Maria – con in braccio il piccolo Giulio – e Davide, come tutti gli altri
prigionieri, si voltarono a testa bassa per tornare lentamente nella baracca e
prepararsi alla partenza. Rimase ferma lì
ancora per un po’, da sola, circondata da un tetro silenzio, spezzato soltanto
dal rumore di passi trascinati, a cercare dentro se stessa la forza per non
soccombere.
Durante tutto il
giorno, Sarah costrinse il suo cuore a diventare come pietra per non cedere
all’angoscia per l’imminente separazione dai suoi nuovi affetti e, nonostante
non avesse appetito, si sforzò di mangiare. Non avrebbe dato al tenente la
soddisfazione di sentire il suo stomaco brontolare, com’era già successo e,
quando in cucina una cuoca le diede una mela, mangiò assaporando addirittura il
gusto e riuscì anche a sorridere a una battuta di una cameriera. Ma la
determinazione che Sarah si era imposta ridivenne disperazione, quando su
Fossoli calarono le ombre scure della notte e lei dovette attraversare il lungo
corridoio che conduceva alla stanza del tenente. La porta socchiusa, la luce
soffusa: lui era già lì.
“E se il nostro poi
non fosse amore, giuro,
io non ti lascerei.
Se pensassi che di me
non te ne importa niente.
Anche se non fossi un angelo
io non ti cambierei.
Perché sei bella, bella, bella,
bella come sei,
sei bella come ti vorrei.”
Capitolo 25 *** Nell’abbraccio del nemico (Seconda parte) ***
Capitolo 25
Nell’abbraccio del nemico
Seconda parte
- “Io ti proteggerò.” -
“Dentro di me ci sono delle stanze piene di buio, e
altre inondate di luce, corridoi incerti e finestre piene di stupore, e tu sei
la prima persona a cui dono una mappa.”
Fabrizio Caramagna
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Il
tenente era in piedi vicino al mobiletto, con il solito bicchiere di vodka in
mano e avvolto nella nube di fumo della sua sigaretta che, ridotta ormai a un
mozzicone, spense nel posacenere, mentre lei entrava nella stanza. Della divisa
aveva già tolto il cappello, i guanti e la giacca, segno di una consuetudine
interrotta e, nell’aria, la fragranza del suo profumo orientale sembrava sovrastare
l’odore di nicotina, come se ne avesse spruzzato da poco altro. Il primo
stupito “perché” si fece strada tra i pensieri di Sarah. Conscia di essere
osservata, pativa quegli sguardi, pur non scorgendone l’espressione – giacché
teneva la testa china –, mentre il sottofondo del silenzio era ulteriore fonte
di imbarazzo e umiliazione. Lo intravide avvicinarsi lentamente e allentare il
colletto della camicia e ne imitò il gesto, iniziando a sbottonarsi la
camicetta, prima che fosse lui a strappargliela di dosso.
Poi,
d’improvviso, sentì una voce morbida, quasi un sussurro, e due mani raccogliere
delicatamente le sue. “Aspetta”, le aveva detto il tenente e le sue labbra un
po’ screpolate dal freddo – sofferto al mattino, durante l’interminabile
lettura dell’elenco – si erano schiuse in un’espressione di stupore. “Vieni
qui”, la invitò, conducendola a sedersi con lui sul bordo del letto e si portò le
sue gelide mani alla bocca, riscaldandogliele col fiato. Strano e intenso fu
per Sarah il tocco di quelle labbra vellutate che sfioravano i suoi palmi.
E, in una lenta discesa, il tenente le guidò
le mani sul proprio corpo, una sulla coscia, l’altra sul torace. Il cuore gli
batteva forte e Sarah si stupì che anche un ufficiale delle SS, macchina da
guerra finalizzata alla morte, potesse averne uno di carne; poi sollevò lo
sguardo e, oltre la valle verde dei suoi occhi, riuscì a scorgerne addirittura
un’anima.
Hermann le lasciò una mano per accarezzarle la
guancia sinistra, quella più livida, promettendosi che non le avrebbe mai più
fatto del male, ma lei si ritrasse leggermente e chiuse gli occhi, strizzandoli
e contraendo il viso in una smorfia di paura, aspettandosi forse uno schiaffo.
“No, non avere paura”, le disse,
massaggiandole con il pollice lo zigomo violaceo, “non voglio farti del male,
Sarah.”
All’udire il proprio nome pronunciato dal tenente per la prima volta, gli
occhi della ragazza si aprirono, emanando un luccichio di stupore. Ed Hermann
lo riconobbe: era lo stesso sguardo che gli aveva rivolto, quando le loro
strade si erano incrociate per la prima volta, quello stesso sguardo che lo
aveva subito inebetito, sedotto e avvinto.
“Fidati di me”, proseguì, assumendo un tono ancor più rassicurante e, dalla
guancia, la mano passò lentamente dietro la nuca. “Ti do la mia parola che non
ti accadrà nulla di male. Hai visto stamattina?”
“Sì, signore”, rispose Sarah, ma non c’era tremore nella sua flebile voce.
“Hermann”, la corresse prontamente, “quando siamo da soli, puoi chiamarmi
per nome e dare del tu. Accorciamo le distanze.” E, sulle ultime parole, le
prese la mano – che lei gli teneva ancora appoggiata sulla coscia – e la
condusse alla sua virilità.
Sarah sussultò d’imbarazzo e, con occhi sgranati e labbra socchiuse, mostrò
in viso un’aria d’innocente pudore; ma nessun cenno di paura, neanche quando una
mano fu sotto la sua gonna per ricercare, in un lento viaggio scandito da carezze
gentili, la sua intimità. Dal basso ventre, una scossa di calore si propagò per
tutto il corpo e la spinse ad aprirgli la sua porta, mentre la mano dietro la
nuca, con massaggi concentrici, affondava sempre più nei suoi capelli fino a
scioglierli, fino a sciogliere i nodi della sua resistenza. Chiuse gli occhi e
si abbandonò sul letto. Poi lei non fu più lei e non vide più un nemico davanti
a sé. Si finse in un’altra vita, lontana da Fossoli, dalla guerra e tra le
braccia di un vero amore, mentre lui si preparava a cogliere il suo fiore come
fosse il primo amore.
“Non avere paura, Sarah. Io ti proteggerò”, ribadì Hermann e la tenerezza
nelle sue parole e la sensuale delicatezza delle sue dita che le percorrevano
un lato del corpo, scendendo lungo la curva del fianco e risalendo verso la
collina del seno e ripetendo più volte questo lento cammino, facilitava la sua
immaginazione. “Vieni con me”, aggiunse e un sussurrato “portami via” fuggì
dalle labbra di Sarah che si aggrappò alla sua camicia, scostandone i lembi e
affondando i polpastrelli nella sua pelle tonica di muscoli definiti.
Sfumature di piacere si dipinsero sul viso della ragazza, mentre essere da
lui spogliata non generava più uno strappo all’anima; poi, a sua volta, lo
aiutò a liberarsi di ciò che rimaneva dell’uniforme ed Hermann la vide
arrossire sotto i lividi. Lo accolse dentro di sé e, stavolta, per l’acerrimo
comandante del campo, non fu un possesso per la sola soddisfazione del proprio
desiderio ma un concedersi a lei per donarle il piacere di sensazioni mai
provate prima. E furono lontani da Fossoli, dalla guerra, dalle sofferenze
subite e inferte, dalle differenze ideologiche che li dividevano, dalle loro
stesse vite fuori di lì e Sarah volle fingersi da lui amata. Al culmine della
passione, un gemito uscì dalle loro gole quasi simultaneamente e la ragazza lo
soffocò, premendo con forza le labbra sulla spalla del suo amante. Il piacere
sembrò mozzarle il respiro e fu come morire e rinascere e morire ancora.
Trattene lacrime che non riuscì a comprendere, mentre Hermann sollevò la
coperta per coprire entrambi e stringerla in un abbraccio da nascondere alla
propria coscienza nazista.
“Quando morsi la mela del peccato, quando mi feci
baciare le ciglia allora, allora mi meravigliai che il mondo fosse gonfio di
paura e così il clavicembalo del mondo mi morì tra le mani e fu fuscello.”
Alda Merini, A un amore giovane
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Le
labbra socchiuse di Hermann si posarono lentamente sulla tempia di Sarah. Lo
sentì deglutire, mentre tentava di riprendere fiato. Gli ansiti sommessi
effusero un rilassante calore sulla sua pelle e il braccio che le cingeva
l’addome, sfiorandole delicatamente i seni, trasmise conforto al suo animo.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quel senso di protezione, mentre
l’armonica mescolanza dei ritmi del respiro e del cuore di Hermann le facevano
da nenia. Senza accorgersene, adagiò il capo sulla sua spalla e, accoccolatasi
volontariamente contro di lui, un sonno leggero la portò lontano.
Il
momento più bello per Hermann era stato quando Sarah, aggrappandosi alla sua
schiena, aveva soffocato un urlo di piacere premendogli con forza le labbra
sulla spalla tanto da fargli credere che volesse morderlo. Non gli sarebbe
dispiaciuto.
Aveva
quasi avvertito disperazione nello sfogo di una passione che a nessuno mai era
stato concesso di fomentarle per potergliela poi appagare e questo lo
infervorava ancor di più. Aveva ceduto un attimo dopo di lei e, adesso che
respiri e battiti erano tornati regolari, avrebbe voluto ricominciare tutto
daccapo partendo col riscaldarle le mani – tentativo, tra l’altro, fallito.
Aveva goduto nel riempire di tenerezza il suo bisogno di protezione, nello
sfiorarla nella sua fragilità e far emergere il desiderio dal suo ingenuo
candore e quella sensazione di benessere non gli era ancora passata.
Nessun’altra
donna gli aveva mai fatto provare quelle emozioni, neanche la sua fidanzata
storica con la quale aveva condiviso ben otto anni di vita, prima di lasciarsi
di comune accordo; erano come vibrazioni sulla pelle e nella mente, capaci di abbattere
le sue più inconsce difese, sradicandolo dalla realtà di sé e del mondo
circostante. Ma Sarah non era come tutte le altre donne e non perché fosse
ebrea e questo lo aveva già intuito dalla dignità che preservava nonostante avesse
perso tutto, beni materiali e affettivi, nonostante la prigionia, le botte – le
sue –, la fame.
Volse
lo sguardo verso il comodino e allungò un braccio per afferrare il pacchetto di
sigarette, facendo scivolare il capo di Sarah dalla sua spalla e destandola dal
sonno. La morbida chioma scura gli scorse sulla pelle come una carezza,
destabilizzandolo ancora una volta.
Al
lieve movimento di Hermann, Sarah si svegliò quasi di soprassalto. Attraverso
gli occhi socchiusi, lo intravide accendersi una sigaretta e ipotizzò che
quello fosse il segnale per farle capire che doveva andar via. Sentì uno strano
senso di malinconia dilagarle dentro, mentre, scostando lentamente la coperta,
si apprestava a lasciare il calore del letto e dell’abbraccio di un uomo che,
per un breve e infinito lasso di tempo, aveva dimenticato essere il comandante
del campo. Si sedette sul bordo del letto e, prima di raccattare i suoi
indumenti sparsi tra le lenzuola e sul pavimento, indugiò per qualche istante,
frenata dall’insensata aspettativa che lui le chiedesse di restare ancora lì.
Poi legò i capelli e, mentre lo udiva aspirare ed espirare il fumo
rumorosamente, volse leggermente la testa di lato, mostrandogli un profilo
imbronciato di sonno e delusione. Iniziò pian piano a raccogliere i vestiti e i
brandelli di sé, guardandolo di sottecchi e scorgendo un’espressione
soddisfatta e, di nuovo, comparire strafottenza nei suoi occhi e il ghigno
cinico sulle labbra. Si vestì, coprendo la riapparsa vergogna di essere nuda e,
una volta infilate le scarpe, raccolse anche gli indumenti di Hermann per poi
sistemarli con cura sullo schienale della sedia.
“Sarah”,
la chiamò, tirandosi su con le spalle per appoggiarsi meglio allo schienale del
letto, “oggi sei stata molto brava.”
La
sua voce sembrava aver perso ogni accenno di sensuale dolcezza per
riappropriarsi di un accento ruvido, fastidioso alle orecchie di Sarah che ne
colse la solita inflessione sprezzante e autoritaria.
Allungò
un braccio verso il comodino, aprendo un cassetto e frugandoci dentro e,
intanto, Sarah si sorprese con imbarazzo a fissare lo sguardo sui suoi muscoli
contratti per il movimento.
“Tieni”,
le disse, porgendole una tavoletta di cioccolato sul cui incarto era stampata
l’aquila nazista.
Su
di essa, Sarah trattenne per un attimo lo sguardo, prima di rivolgerlo a quel
mezzo sorriso – che, ancora una volta ed erroneamente, tradusse come derisorio
– e sprofondare nel baratro dell’umiliazione, di nuovo e più rovinosamente.
Hermann, o meglio,
l’SS-Obersturmführer Von Wildenberg, aveva così ripristinato
le distanze e ristabilito la gerarchia tra il comandante del campo e la povera
ragazza ebrea, ricordandole che tra loro non esisteva altro che un semplice
contratto. Il compito di Sarah era quello di accontentarlo, sottomessa e
compartecipe alle sue necessità e, in cambio, lui le garantiva la permanenza a
Fossoli, doppia razione di cibo al giorno e – qualora l’avesse ritenuta più
“brava” e meritevole – qualcosa di buono dalle provviste dei tedeschi. Come
aveva potuto dimenticarlo? Come aveva potuto godere e riposare tra le sue
braccia? Si pentì di essersi lasciata andare, tra voluttuosità e tenerezza, e
provò vergogna per avergli mostrato quel lato sconosciuto, nascosto anche a se
stessa. Avrebbe dovuto fingere, proprio come aveva fatto il tenente Von
Wildenberg, seducendola con l’inganno di parole e carezze gentili e facendole
credere che potesse esistere una realtà diversa, meno dura attorno a sé e
dentro di lui.
“Grazie”,
biascicò, prendendo la tavoletta di cioccolato ed Hermann non riuscì a scorgere
l’ombra di amarezza comparsa negli occhi di Sarah, né lei seppe cogliere nel
suo sguardo la luce di un sentimento nascente.
“Sarah”,
la chiamò di nuovo, fermando il suo incedere lento verso la porta e quel «resta
ancora qui con me» che avrebbe voluto dirle rimase sospeso tra il cuore e
la gola dalla quale uscì: “Domani farò più tardi, puoi aspettarmi qui.” E diede
alle parole pronunciate lo stesso valore di quelle non dette.
Aspirò
un altro tiro di sigaretta, mentre Sarah annuiva abbassando la testa e, espirando,
la lasciò andare via in una nuvola di fumo. Un senso di vuoto iniziava già a
scavargli dentro.
“Perché
tu possa ascoltarmi le mie parole si fanno sottili, a volte, come impronte
di gabbiani sulla spiaggia.”
Pablo
Neruda, Perché tu possa ascoltarmi
Immagine dal film “Il club del libro
e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli, ottobre 1946
~ Un mese al matrimonio
~
Quando
sentirono bussare alla porta di casa, Hannah sbuffò pesantemente, tirandosi il
lenzuolo sulla testa e lasciando così intendere a chi delle due sarebbe toccato
alzarsi per andare ad aprire.
“Sei
sempre la solita pigrona”, le disse Sarah, in tono scherzoso e, con uno
sbadiglio poco aggraziato, lasciò il tepore del letto.
Prese
dallo schienale della sedia la sua vestaglia color rosa pallido e la indossò,
mentre raggiungeva l’ingresso a piedi nudi e con i bigodini in testa,
chiedendosi chi fosse a quell’ora del mattino. Preoccupata e annoiata, abbassò
cautamente la maniglia della porta e, strizzando un po’ gli occhi per
riprendersi dal sonno, aprì uno spiraglio. Subito, la sua espressione si colorò
di stupore e un largo sorriso si disegnò sulle sue labbra.
“Matteo!”
La voce di Sarah fu una miscela di contentezza e incredulità per l’inaspettata
apparizione del giovane ai primi bagliori del mattino e con un enorme mazzo di
fiori e una scatola di cioccolatini tra le mani.
Il
pomeriggio precedente, dopo l’incidente del nome e il loro muto chiarimento,
Sarah era andata via da Matteo con gli occhi ancora bagnati di lacrime e, a
causa del conseguente mal di testa, aveva rimandato la prova dell’abito da
sposa. E questo il giovane lo aveva saputo tramite il signor Gennaro che,
scorgendo al lavoro lo stato d’animo della ragazza e intuendo che lui
c’entrasse qualcosa, lo aveva anche rimproverato severo e con tanto di indice puntato
contro, dicendogli: “Per me Sarah è come una figlia e, se la farai soffrire, te
la vedrai con me. Sono stato chiaro?” E Matteo si era limitato ad annuire
mortificato, mentre, al senso di colpa per l’accaduto, si aggiungeva la paura
che Sarah non volesse più sposarlo, dal momento che aveva annullato
l’appuntamento con la sarta. Ma, adesso, i dubbi che lo avevano tormentato
durante la pesca notturna, impedendogli poi di riposare per presentarsi da lei
di buon mattino con fiori e cioccolatini da regalarle come richiesta di
perdono, affondavano nel luccichio dei suoi occhi stupiti, gioiosi che
riflettevano amore. Sorrise risollevato, perdendosi nel suo radioso sorriso.
Sarah
si soffermò su quegli occhi scuri e profondi, rassicuranti, belli – anche se
cerchiati da troppo sonno arretrato – e su quel sorriso che dava forma a due
attraenti fossette sulle guance; poi si portò una mano alla testa ricordando di
averla ricoperta di bigodini e, d’un tratto imbarazzata, sussurrò: “Scusami,
sono…” Stava per dire «in disordine».
“Bellissima”,
la anticipò Matteo. “Volevi dire «bellissima»”, concluse in un tono a metà tra l’affermativo
e l’interrogativo.
Sarah
abbassò lievemente e per un attimo lo sguardo, sorridendogli lusingata e,
aprendo di più la porta, lo invitò a entrare. Fecero colazione insieme ad
Hannah, poi Matteo l’accompagnò al Gran Cafè e l’andò a prendere durante la
pausa pranzo per mangiare una deliziosa pizza a portafoglio, seduti su una
panchina del lungomare – ovviamente, Sarah si sporcò la gonna di sugo ed
entrambi ne risero divertiti, mentre tentavano di rimediare al pasticcio. Approfittando
di un tempo ancora estivo, passeggiarono verso il porto e, senza accorgersene,
discutendo sugli ultimi preparativi del matrimonio, superarono il Cantiere
Navale, le Terme Comunali e la Corderia Militare per ritrovarsi davanti alla
spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna – la stessa
che, all’inizio dell’estate, aveva visto sigillare la loro amicizia. Mano nella
mano, si avvicinarono alla riva del mare e, stanchi per aver camminato la
bellezza di due chilometri e mezzo, sedettero sui ciottoli levigati dall’acqua.
Sarah si accoccolò fra le gambe di Matteo, con la schiena contro il suo petto e
la testa sotto il suo mento, con le braccia e le mani saldamente intrecciate
alle sue. E il giovane la strinse sempre più forte in quell’abbraccio, fin
quasi a formare con lei un solo corpo, una sola vita, nella quiete di una
spiaggia deserta, mentre a parlare erano soltanto il soffio del vento, lo
sciabordio delle onde e il garrito di qualche gabbiano. Sarah chiuse gli occhi
alla meravigliosa visuale del Vesuvio, delle isole e della città in lontananza,
lasciandosi accarezzare in viso dalla brezza che profumava di sale e di
rinnovate speranze e baciare ripetutamente e con delicatezza la guancia dalle
labbra di Matteo. E fu lui a rompere il silenzio.
“Sarah,
permettimi di renderti felice”, le sussurrò all’orecchio. Dopo gli ultimi
eventi, aveva, infatti, dovuto ammettere a se stesso che lei non lo era
realmente, tormentata ancora dal suo passato.
“Ma
io lo sono”, rispose con tono dolce e sicuro e, volgendo leggermente il viso di
lato, donò gli occhi al suo caldo sguardo, “con te.” E confuse quella
sensazione di pace e di benessere che l’avvolgeva con una gioia interiore, la
magia dell’innamoramento con un amore già maturo e consolidato.
Matteo
avvicinò le labbra alle sue e lei accolse il suo bacio ardente a occhi chiusi,
mentre le palpebre pizzicavano per i raggi del sole e lo scaturire di lacrime
d’emozione. Il mondo sembrò fermarsi, il tempo scorrere troppo velocemente e
andarono via da lì solo dopo quando, ben nascosti in mezzo agli scogli, vissero
ciò che, il giorno precedente, era stato loro impedito dal fantasma di Hermann.
E fu tenerezza e stupore il loro lasciarsi andare al desiderio di scoprirsi
l’un l’altra.
“Perché
ti amo. Perché sarai la mia sposa, la mia stessa carne”, disse il giovane,
prima che la mano di Sarah giungesse a quietare la sua libido.
“Ballo con te
nell’oscurità,
stretti forte e poi
a piedi nudi noi,
dentro la nostra musica.
Ti ho guardata ridere
e sussurrando ho detto:
«Tu stasera vedi sei perfetta per me».”
Ed Sheeran &
Andrea Bocelli, Perfect Symphony
***
Berlino
A
un forte colpo sullo scrittoio, Hermann sobbalzò, alzando di scatto la testa
dal libro sopra il quale, come qualche giorno prima, si era assopito. Sotto la
mano di suo padre, vide i documenti che da ormai troppo tempo stava aspettando.
“Dato
che ti piace così tanto, ti chiamerai come lei: Bonanni.” Karl diede voce al
risentimento e al disprezzo che nutriva adesso verso suo figlio e con i quali
gli aveva sbattuto sotto il naso quei fogli. “Bonanni Ermanno”, precisò e la
sua voce assunse un’inflessione più grave, “e vedi di inventarti una storia che
sia quantomeno credibile.”
Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La
guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno
alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento
nazisti.
Capitolo 28
Un atto di generosità
“Un gesto d’amore cuce cielo con cielo, soglia con
soglia e vita con vita. Un gesto di violenza cuce solo nero con nero e dentro
quel buio non si innesta nessun fiore, nessun colore e nessuna formula di
serenità.”
Fabrizio Caramagna
Napoli
“Non
preoccuparti, Hannah. Ho già parlato con il signor Gennaro. La prossima
settimana, mi accompagnerai anche tu per l’ultima prova dell’abito”, la
rassicurò Sarah, mentre, aiutata dall’amica, ripiegava accuratamente la
biancheria del corredo in una delle valigie che, il giorno seguente, avrebbe
iniziato a portare nella sua nuova casa.
“Sono
felice che tu abbia trovato l’uomo della tua vita”, riprese Hannah e la sua
voce assunse un tono più malinconico, “ma, allo stesso tempo, sono triste
perché penso che rimarrò da sola.” Fece una pausa e, lasciando emergere il
trauma rimosso della separazione dai suoi affetti, aggiunse: “Di nuovo.”
Sarah
la guardò negli occhi e vi scorse un velo di smarrimento, lo stesso che ricopriva
il suo sguardo nel momento in cui, dopo la guerra, l’aveva ritrovata seduta sui
gradini esterni al portone del loro palazzo a Roma, senza più una famiglia,
senza più una casa.
Come
allora, le prese una mano e gliela strinse forte e, premendo fino ad affondare
le loro mani nel letto sul quale erano sedute, disse: “Non rimarrai da sola,
Hannah. Io ci sarò sempre per te. Poi continueremo a lavorare insieme, a fare
passeggiate e compere insieme.” Sarah sorrise e strappò un lieve sorriso anche
all’amica.
In
silenzio, ripresero a piegare il corredo e a sistemarlo nella valigia e Sarah
iniziò a mettere da parte, sul letto, alcuni capi di biancheria.
“I
miei genitori non sono stati previdenti come i tuoi”, intervenne Hannah, dopo
un po’ e con una punta di amarezza nella voce, “quando ritornai a casa… Che
stupida.” Scosse la testa e, sorridendo tristemente, proseguì: “Pensavo che
fosse ancora mia.”
Dopo
aver fatto cadere la maschera di ragazza spensierata, ironica e sicura di sé,
Hannah sembrava in procinto di aprirsi al racconto del suo passato e Sarah ebbe
paura. Sì, perché, se l’amica le avesse raccontato delle sue ferite nascoste e
indelebili, come quel numero inciso sulla pelle che, in estate, le aveva
impedito di denudare le braccia e prendere il sole in spiaggia indossando
soltanto il costume da bagno, lei si sarebbe sentita in dovere di confessarle
la verità sulla propria sopravvivenza, della sua torbida relazione con un ufficiale
delle SS, uno di quelli che ad Hannah avevano strappato tutto. Era certa che
non glielo avrebbe mai perdonato.
“Non
potevi saperlo”, ribatté Sarah e tentò di sviare il discorso, anticipando ciò
che aveva già intenzione di fare quella sera stessa. “Prendi, Hannah, questi
sono tuoi”, disse, mentre, sorridendole con tenerezza, le porgeva i capi di
biancheria che aveva messo da parte per lei.
Hannah
sgranò gli occhi in un’espressione stupita, sconvolta e, portando in avanti e
agitando le mani, dissentì con voce spezzata dalla commozione: “No, Sarah. Non
posso accettare. Li ha cuciti tua madre. Sono un suo ricordo.”
“Hannah,
tu sei diventata una sorella per me e lei sarà sicuramente contenta nel
vederci, da lassù, dividere il corredo.” Sarah biascicò le ultime parole,
trattenendo le lacrime; poi, riprendendo un tono più allegro, aggiunse:
“Consideralo anche un regalo di buon auspicio.”
Entrambe
sorrisero ampiamente e Hannah le si gettò al collo, stringendola forte.
“Grazie, Sarah”, esclamò, ingoiando un singhiozzo di gioia.
E,
improvvisamente, Sarah si ritrovò ad abbracciare una bambina dai capelli ricci
e castani, con il naso e le guance pieni di lentiggini, sul retro della sua
baracca a Fossoli, nella nebbiolina di un mattino invernale. Sentì lo stesso
freddo sulla pelle, nel petto lo stesso senso di colpa.
Campo di Fossoli, 21 febbraio 1944
~ Un giorno alla partenza per Auschwitz ~
“Come
faremo, se il viaggio sarà lungo? Non avremo nulla da mangiare. Come faremo con
i bambini, Davide?” Maria sistemava nella valigia i loro pochi effetti
personali ed esprimeva al marito le sue preoccupazioni riguardo all’ignoto che
li attendeva.
“Non
preoccuparti, cara”, le rispose Davide, avvicinando la fronte alla sua in un
tenero gesto di conforto, “oggi proveremo a mettere da parte qualcosa.”
Naso
contro naso, occhi negli occhi, i due sposi rimasero fermi in quella posizione
a scambiarsi sguardi e respiri per un tempo sospeso che sembrava dilatarsi
nell’infinito. Guardandoli da lontano, Sarah percepì il coraggio che riuscivano
a trasmettersi l’un l’altra e provò invidia. Nonostante fossero stati colpiti
dalla malattia e dalla morte della giovane figlia, dalla persecuzione
nazifascista e, adesso, dalla deportazione verso Auschwitz, Maria e Davide
erano forti in virtù di quell’amore che nessuno avrebbe potuto strappare loro e
che lei – pensava, già rassegnata – non avrebbe mai conosciuto. Ed era bello
quell’amore che né il dramma del lutto né la follia dei nazisti avevano saputo
far sfiorire, ma che, addirittura, era riuscito a sbocciare facendosi dono per
gli altri, per i più piccoli rimasti senza genitori.
Sarah
mise una mano nella tasca della gonna, ricordandosi della tavoletta di
cioccolato e non esitò nella sua decisione di darla a Davide e Maria per i
bambini.
“Maria”,
esclamò, avanzando verso di loro, separandoli e riportandoli alla realtà
circostante, ma la vergogna frenò i suoi passi e il suo intento.
Maria
e Davide sapevano benissimo a quale prezzo avesse pagato quel cioccolato e, con
molta probabilità, non lo avrebbero nemmeno accettato.
Attirata
ormai l’attenzione su di sé, Sarah non poté fare altro che rivolgere loro una
domanda di cui conosceva già la risposta: “Vi prenderete cura dei bambini?”
Maria
le si avvicinò e, accarezzandole una guancia, le rispose con tenerezza: “Ma
certo.” Poi forzò un sorriso e aggiunse più seria: “E tu prenditi cura di te
stessa.”
Sarah
abbassò tristemente lo sguardo, indietreggiando di un passo, conscia che il
dolore che serbava dentro l’avrebbe consumata fino a farla ammalare, e scorse
anche Davide chinare la testa, a braccia conserte. L’uomo palesava così il suo disagio
per non aver potuto salvarla dalla violenza del tenente.
Allontanatasi
da loro, da quel silenzio velato d’imbarazzo e da quegli sguardi che,
erroneamente, percepiva di biasimo, Sarah si guardò attorno alla ricerca di
Agnese, la ragazzina più grande tra i bambini con i quali era arrivata a
Fossoli insieme a don Franco. Data l’ingenuità della sua età, lei non avrebbe
sospettato nulla sulla provenienza del cioccolato, non l’avrebbe commiserata,
giudicata o condannata e, non trovandola nella baracca, uscì fuori a cercarla.
Fu
davvero una strana coincidenza che, proprio in quel momento, Hermann si alzasse
dalla scrivania per sgranchirsi le gambe e distrarsi un po’ a guardare fuori
dalla finestra e la vedesse uscire dalla baracca, guardarsi intorno con fare
circospetto e avvicinarsi a una ragazzina con i capelli ricci e castani e il
viso pieno di lentiggini. Decise di lasciar perdere le sue scartoffie e
accendersi una sigaretta, mentre la guardava parlare alla bambina e porgerle la
mano con un’espressione forzatamente sorridente. Con blanda curiosità, seguì
con lo sguardo i loro passi fin verso il retro della baracca e, intensamente
desideroso di rivederla ancora una volta, attese che Sarah riapparisse.
“Agnese,
adesso, sei tu la più grande. Quindi, dovrai prenderti cura tu dei più
piccoli.” Sarah le parlò con tono tenero e deciso e la ragazzina, risoluta e
fiera nell’aver assunto un ruolo di mamma verso i bambini, suoi compagni di un
destino ignoto e crudele, con espressione accigliata, ribatté: “Lo sto già
facendo.”
“Brava.”
Forzò un altro sorriso e tirò fuori dalla tasca della gonna la tavoletta di
cioccolato. “Prendi”, le disse, porgendogliela, “puoi dividerla con i bambini,
se vi verrà fame durante il viaggio di domani.” E la prima bugia si nascondeva
dietro a quel «se».
Con occhi sgranati di
stupore, Agnese fissò per alcuni istanti l’incarto del cioccolato sul quale era
raffigurata l’aquila nazista; poi, rivolgendole uno sguardo pregno di sospetto,
le domandò sottovoce: “L’hai rubato ai soldati?”
Ad esser stata derubata
era Sarah, derubata dell’innocenza, dei sogni, della speranza, degli affetti,
della vita stessa, ma lei si sentiva come se avesse rubato quella tavoletta di
cioccolato a chi, come Agnese, l’indomani e per chissà quanti altri giorni
ancora, non avrebbe avuto nulla da mangiare. E, forse, a suggerirle quell’atto
di generosità non era stato tanto lo spirito altruistico che da sempre la
contraddistingueva, bensì un latente senso di colpa e lo confermò la sensazione
di liberazione provata, quando il cioccolato non fu più suo.
“No, no”, rispose,
tentando di nascondere il suo agitato imbarazzo dietro a più ampi sorrisi e
mentì con la prima cosa che le passò per la testa: “Un soldato mi ha visto
piangere e me l’ha regalato.”
“Ah”, fece Agnese, alquanto
perplessa. “Allora non sono tutti cattivi?”
“No, non lo sono”,
disse, ma, stavolta, Sarah non riuscì a sorriderle, ricordando la violenza e la
doppiezza di Hermann e pensando che, forse, ad Auschwitz, Agnese l’avrebbe ricordata come una bugiarda.
La ragazzina sembrò convincersi, rilassò le
espressioni del volto e, presa e nascosta la tavoletta di cioccolato nella
tasca della giacca, le si gettò tra le braccia, spintonandola con una forza
improvvisa che la fece indietreggiare di qualche passo e offrendo la scena del
loro abbraccio allo sguardo attento di Hermann.
“Uh”, esclamò Sarah, lasciandosi sfuggire una fioca
risata, “piano.”
“Grazie, Sarah”, sussurrò Agnese e la strinse ancor
più forte.
“Amami,
compagna. Non mi lasciare. Seguimi. Seguimi, compagna, su quest’onda di
angoscia. Ma del tuo amore si vanno tingendo le mie parole. Tutto ti prendi tu,
tutto. E io le intreccio tutte in una collana infinita per le tue mani bianche,
dolci come l’uva.”
Pablo
Neruda, Perché tu possa ascoltarmi
Immagine
dal film “L’amore oltre la guerra”
Giacché scomparve sul
retro della baracca, durò pochi istanti la visione di quell’abbraccio veemente,
carico di affetto che a Sarah aveva strappato una risata – fioca, ma che gli
era parso di sentire fino a lì, attraverso il vetro della finestra chiusa. Era
chiaro quanto lei avesse un forte ascendente sui bambini e sapesse farsi voler
bene da tutti – sempre se gli ebrei potessero provare del bene, pensò.
Dal retro della baracca,
riapparve dapprima la bambina con i capelli ricci e le lentiggini in viso e,
nonostante la distanza e la fitta nebbiolina che aleggiava nell’aria
offuscandola, Hermann la vide sfregarsi la tasca della giacca, come per
assicurarsi che qualcosa vi fosse ben nascosta e capì allora il motivo di
quell’abbraccio. Di certo, Sarah aveva regalato alla ragazzina la sua tavoletta
di cioccolato, ma perché?
La sua generosa rinuncia
gli destò meraviglia, quasi ne fu sconvolto e, poggiando la mano sul davanzale,
trattenne la sigaretta all’ingiù, tra l’indice e il medio. Smise di fumare per concentrarsi su un momento che non
avrebbe tardato ad arrivare. Subito dopo, infatti, anche lei, dalla parte
opposta rispetto alla bambina, riapparve e la vide come fascio di luce che,
abbagliante, squarciava l’oscurità della caligine e dei pensieri, sfociando in
un crescente delirio. Iniziò a dubitare della sua origine ebraica e a perdersi
in congetture. Sarah sembrava non presentare alcuna caratteristica, né fisica
né morale, attribuita agli ebrei, anzi la sua tenacia e il suo spirito di
sacrificio – che, adesso, ben trasparivano da un incedere con portamento fiero
e sguardo determinato – la rendevano più somigliante a una donna ariana.
Sin da bambino, in famiglia, a scuola e nella Gioventù
hitleriana – a cui suo padre non tardò a iscriverlo non appena fu aggiunta la Deutsche
Knabenschaft[1] –, gli era stato insegnato che la specie umana si
suddivideva in una razza superiore, composta da uomini e donne valorosi che
incarnavano la perfezione psicofisica, la purezza di sangue e la nobiltà
d’animo e una razza inferiore, bastarda e parassita, fatta di esseri ripugnanti
e avari, dediti a manovrare l’altro secondo i propri interessi ed era
inverosimile che Sarah potesse far parte di quest’ultima. Da sempre, sapeva che
al mondo esistevano l’ariano e il non ariano, il puro e l’impuro, ma, forse,
tra le due razze doveva esserci una specie intermedia che gli scienziati
nazisti non avevano ancora scoperto e lei ne era il prototipo. Inoltre, Sarah
gli dava l’impressione di essere una donna dolce e guerriera, sognatrice e
concreta, capace di donare tutto di sé alle persone che amava e lo confermava
il suo gesto di altruismo verso una bambina, probabilmente, sconosciuta fino a
qualche settimana prima. Desiderò essere lui il destinatario di quell’amore, poi,
d’improvviso, i pensieri si dissolsero, quando la sigaretta, ridotta ormai a un
piccolo mozzicone, si spense tra le dita, scottandolo. Solo per un attimo aveva
distolto lo sguardo, ma Sarah era già sparita dalla sua visuale.
Il cuore le batteva forte nel petto, mentre si apprestava a
compiere un gesto contrario alla sua indole e ai suoi valori. Sempre attenta a
chiedere il permesso per qualsiasi cosa, a volte, persino a casa sua, Sarah non
aveva mai rubato nulla nei suoi vent’anni di vita. Ma si fece coraggio, sapendo
che fosse per una giusta causa, affinché Agnese e gli altri bambini non
soffrissero la fame durante il viaggio verso Auschwitz e, dopo essersi
assicurata che nessuna delle cameriere la stesse osservando, prese dal ripiano
della cucina due fette di pane per poi nasconderle nella tasca del grembiule.
“Sarah!” Una voce, seppur bassa, squillò nel suo orecchio,
mentre una mano le cinse prontamente il polso. “Che cosa stai facendo?”
Si volse tremante, imbattendosi nello sguardo preoccupato di
Giuditta, la cameriera milanese che l’aveva soccorsa dopo la violenza di
Hermann.
“Sei impazzita?” incalzò la donna, pur mantenendo un tono di
voce basso.
Sarah sentì le guance accendersi e gli occhi inumidirsi per
la vergogna e, nel tentativo di giustificarsi, biascicò ingenuamente: “Non l’ho
fatto per me.”
“Non ha importanza”, ribatté Giuditta e diede alla sua voce un’inflessione
più severa, “se lo scopre il tenente, ti ammazza di botte.”
“Non lo farà.” Volte a rassicurare se stessa, le parole
guizzarono dalle labbra senza che Sarah se ne accorgesse.
“Cosa te lo fa pensare?” le domandò la donna, assumendo un
piglio di curiosità.
“Me l’ha promesso.” A questa risposta, pronunciata come fosse
un’ovvietà, Giuditta riprese con un’altra domanda: “Hai ancora la faccia piena
di lividi e credi già alle sue parole?” L’espressione della donna si fece più
seria e, al contempo, quasi supplichevole. “Sarah, lascia che ti parli come a
una sorella più piccola. Lo so che per te è stata la prima volta”, fece una
pausa e sospirò, “ma quello che succede fra te e quell’ufficiale nazista non ha
nulla a che fare con il sentimento. È uno scambio, un vicendevole usarvi. Lui
ti usa per espletare i suoi bisogni di maschio e tu devi usarlo per garantirti
una sopravvivenza più dignitosa, fino a quando la guerra non sarà finita.
Attenta, Sarah, a non farti prendere troppo, a non lasciare brandelli del tuo
cuore sparsi in questo campo, quando sarai finalmente libera.”
Le parole di Giuditta furono come un susseguirsi di buffetti
sulle guance che, a poco a poco, la ridestavano, restituendole una
consapevolezza che andava inconsciamente perdendosi nel tentativo, forse, di
fuggire dalla dura realtà.
Nonostante ne portasse ancora i segni, Sarah sembrava aver
già dimenticato gli schiaffi e la violenza del tenente, sostituendoli con il
ricordo di carezze gentili, lievi sospiri e parole sussurrate. Si era
abbandonata tra le braccia del suo nemico, dimenticando che uomini come Hermann
le avevano portato via il calore di una famiglia, di una casa e, se guardava
meglio dentro di sé, poteva scoprirsi desiderosa che giungesse presto la sera
per cedere di nuovo all’inganno di quella scintilla di bene scorta nei suoi
occhi verdi. Si sorprese a immaginare di incorniciargli il viso tra le mani, di
fissarlo dritto negli occhi e lacrime di rimorso le appannarono lo sguardo.
Napoli, ottobre 1946
“Grazie, Sarah”, ripeté Hannah, guardandola con gli occhi
luccicanti di lacrime trattenute, mentre stringeva al petto la pila di
biancheria regalatale dall’amica. Ma, subito dopo, il suo sorriso commosso si
spense e, assumendo un’espressione seria, tornò sull’argomento, chiedendole:
“Credi che andranno all’inferno?”
“Chi?” Troppo presa dai suoi ricordi, Sarah mostrò in volto
un’aria confusa e Hannah, stupita dalla sua incapacità di comprenderla al volo,
ribatté: “Chi ci ha portato via le nostre famiglie.”
“Io non credo siano stati tutti uguali.” Sarah rispose di
getto, senza pensare che le sue parole avrebbero potuto far scaturire un’altra
domanda pregna di curiosità: “Come fai a saperlo?”
Hannah si mise in attesa nella speranza, forse, di sentire
una risposta volta a mitigare la rabbia per ciò che aveva patito a Mauthausen
e, intanto, gli occhi di Sarah si velarono di lacrime per il silenzio che stava
infliggendo alla sua cara amica.
Un prolungato silenzio che fu interrotto proprio da Hannah
che, con uno scatto, balzò dal letto e, forzando un tono allegro, disse: “Va
bene, non pensiamoci più. Vado a preparare una bella cioccolata calda.”
Si diresse in cucina, iniziando a canticchiare “’Na gita a li
Castelli” e permettendo che Sarah ritornasse a Fossoli, in una mattina di
luglio che non aveva né colori né profumi dell’estate, nella sua baracca fatta
da Hermann sgombrare per parlarle alla svelta, prima che un’altra sera
giungesse a sorprenderli ancora lontani l’uno dall’altra. Stretta forte al suo
petto, aveva avvertito un sussulto, come un singhiozzo trattenuto, mentre, con
voce roca e tremante, dichiarava di amarla. Sentendolo per la prima volta
commosso, vulnerabile, quasi intimorito all’idea di averla persa, era riuscita
a perdonargli l’esecuzione di sessantasette uomini[2].
Il ricordo di quell’abbraccio le portò via la magia del
pomeriggio vissuto con il suo futuro sposo e si sentì sporca verso di lui,
verso Hannah, verso la sua famiglia e tutte le altre vittime innocenti del
nazismo.
“E la tua luce è morbida.
La patina orrida ch’ora copre il cielo
non compromette la vista ottima.
La verità è una strada a doppio senso e ci s’invortica.
Il fuoco non è uno, sono due per ogni orbita.
E ogni circonferenza è illusione ottica.
L’idea di questa perfezione è dittatura cosmica.
Le paranoie in testa fanno aerobica.
La fantasia mi riordina la mente, non la logica.”
Rancore, Luce (tramonti a nord est)
[1]Sezione aggiunta
alla Gioventù hitleriana nel 1928 per i ragazzi dai 10 ai 14 anni.
[2]Puoi rileggere la
nota di chiusura al capitolo 19 “Gocce di miele”.
Capitolo 30 *** L’ebrezza di una notte idillica ***
Capitolo 30
L’ebrezza di una notte idillica
“Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del
proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non
è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri
e dei santi.”
Primo Levi
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
“E
ti do un altro consiglio, Sarah”, riprese Giuditta, più apprensiva, “vedi
quella?”
Con
un cenno della testa, le indicò una cameriera molto giovane dai capelli biondo
cenere e gli occhi smeraldini che, seduta al tavolo con le gambe accavallate,
conversava, sprizzando un inappropriato buonumore.
Sarah
notò ogni particolare, nonostante il velo di lacrime che le appannava gli occhi
e assentì con un lieve movimento del capo.
“Quella
sta con il sergente maggiore. Fa la spia su tutti. Fossi in te, starei attenta
a non farmi sorprendere da lei in situazioni come questa”, la mise in guardia
Giuditta.
Sarah
capì di dover essere più prudente, meno ingenua in futuro. Una volta andati via
i suoi compagni di baracca, probabilmente, non avrebbe potuto fidarsi più di
nessuno, neanche di se stessa. Infatti, si promise di non donare più la propria
anima alle ipocrite carezze di Hermann, di dargli il proprio corpo senza fare
con lui l’amore, pur sapendo che non avrebbe mantenuto la promessa.
Le
ombre della sera calarono su Fossoli come stormi di avvoltoi su quanti
ignoravano che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui poter ancora poggiare
la testa su un cuscino e sperare in un futuro meno amaro. Nonostante sapesse
del trasferimento ad Auschwitz, anche Sarah non ne immaginava l’orrore e, prima
di recarsi nella stanza del tenente, diede le due fette di pane ad Agnese. Stavolta,
la bambina non chiese spiegazioni per quello che sarebbe stato l’ultimo pane
offertole con amore.
Tra
le baracche del campo, il vento e l’aria particolarmente fredda lasciavano
presagire una nevicata e, non appena varcò la soglia dell’edificio occupato dai
tedeschi, Sarah fu accarezzata in viso da una piacevole sensazione di calore,
mentre una dolorosa fitta di irrequietezza la colpiva nel petto. Sperò di
uscire al più presto da lì. Come le aveva già lui preannunciato la sera precedente,
Hermann non era ancora nella sua camera e, in attesa che arrivasse, iniziò a
camminare avanti e indietro per la stanza, poi a girare su se stessa fin quando,
stanca più mentalmente che fisicamente, non si fermò a fissare il letto,
indecisa se sedersi o meno. Infine, scelse la prima opzione. Agitata al
pensiero che la cameriera bionda l’avesse vista rubare le due fette di pane,
prese a tormentarsi le mani che teneva in grembo, poi si lasciò scivolare su di
un lato e, appoggiata la testa sul braccio, permise al suo animo e alle sue
palpebre di riposare, «solo un attimo», si disse. Quello che accadde dopo non
molto lo visse come un sogno, stordita dal tepore del sonno, inebetita dal
tocco delicato di una mano sul suo fianco che l’aveva ridestata e dal verde
limpido di due occhi riflessi nei suoi.
“Stai
gelando”, fece Hermann, a mezz’aria su di lei che, intanto, si era distesa al
suo tocco, “potevi metterti sotto la coperta.”
Sarah
non sembrò meravigliarsi di tale gentile e premurosa concessione e, mentre lui
cercava la sua mano per intrecciarvi le proprie dita, ribatté in un dolce
sussurro: “Ti stavo aspettando.”
E
fu Hermann a stupirsi, quando le dita di Sarah si incastrarono con decisione tra
le sue stringendogli la mano, prima che i loro corpi diventassero un intreccio
nudo di braccia e respiri, di gemiti e fianchi, di gambe e tremiti, di battiti
e sguardi.
Giunti
al culmine di quel fervido desiderio sospinto dal ritmo di gesti armonici e
delicati che si alternavano a movimenti più decisi e concitati, Hermann fissò
lo sguardo negli occhi di Sarah, socchiusi e lucidi di piacere e, affinché la
sua coscienza nazista non facesse in tempo a prevalere sulle sue emozioni, si
affrettò a dirle: “Resta con me questa notte”, fece una pausa e, dandole libero
arbitrio, le restituì la dignità di essere umano e di donna, “se vuoi.”
E
fu, forse, questo il momento in cui Sarah si innamorò. Senza esitare, gli
scostò lievemente una ciocca di capelli dalla fronte imperlata di sudore e non
vide più i tratti malvagi del nazista, ma soltanto il viso di un bel giovane
uomo. Gli rispose sorridendogli per la prima volta e, con lo stesso lieve
sorriso, compiaciuto e rassicurato, si addormentò tra le sue braccia.
Le
ombre della notte non si erano ancora diramate del tutto che, attraverso le
timide luci del crepuscolo mattutino che tentavano di penetrare dalla finestra,
Sarah lo vide di spalle, completamente nudo. Si era svegliata, sentendolo
scivolare via dalla sua schiena e dalle lenzuola, ma fingeva di dormire ancora
per godersi i postumi dell’ebrezza dei sensi e delle emozioni provata quella
notte e per contemplare adesso la visione offertala all’alba di pelle cerea e
muscoli scolpiti, di un corpo perfetto e atletico paragonabile a quello di una
statua greca. Con il volto seminascosto da un lembo della morbida coperta, lo
guardò mentre allungava le braccia verso l’alto per stiracchiarsi i muscoli
dorsali e, iniziando dai trapezi, ne seguì la contrazione verso il basso fino a
posare audacemente lo sguardo sul suo fondoschiena. Hermann emise un sospiro e
abbassò le braccia rilassandosi, mentre lei chiuse gli occhi e si tirò la
coperta sulla testa, imbarazzata di fronte a quelle forme che aveva conosciuto
soltanto al tatto e per quel fremito che l’aveva attraversata nel vedere per la
prima volta un uomo nudo.
Si
alzò dal letto soltanto quando lo sentì uscire dalla stanza e chiudere
lentamente la porta dietro di sé. Sarah aveva teso l’orecchio dallo scorrere dell’acqua,
mentre lui iniziava a lavarsi, al fruscio dei suoi movimenti nel vestirsi che
divenne rumore quando calzò i pesanti stivali e agganciò il cinturone del
fodero attorno alla vita. Non era più l’imbarazzo a trattenerla a occhi chiusi
sotto le lenzuola, ma la paura di dover affrontare il suo possibile
cambiamento, uno sguardo, una parola o un gesto che l’avrebbe catapultata di
nuovo nella dura realtà. Fuori da quel letto, Hermann era il comandante del
campo e lei la prigioniera ebrea e nessuna fantasia avrebbe potuto smussare gli
spigoli del mondo reale. Sul comodino dal suo lato del letto, vide un sacchetto
di biscotti alle mele, il compenso e l’offesa per una notte che aveva creduto
idillica. Protendere la mano sarebbe stato il primo passo verso il ritorno
nell’incubo della realtà.
“Io donna, io persona
avvilita come un oggetto,
come bambola da letto.
Io non voglio essere schiava
e neppure esser padrona,
voglio essere soltanto
una donna, una persona.”
Mia Martini, Io donna, io persona
[1]Nel
convoglio diretto verso Auschwitz, tra i 650 deportati, viaggiava anche Primo
Levi che ha rievocato la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine del
famoso libro Se questo è un uomo e nella poesia Tramonto a Fossoli.
Come
al solito, la giornata era iniziata con un bel sole e in allegria. Lungo il
breve tragitto che da casa conduceva al Gran Cafè – era abitudine delle due
ragazze percorrere un viale alberato del lungomare per andare al lavoro, dopo
aver contemplato per qualche istante il reciproco specchiarsi del cielo nel
mare e del mare nel cielo nella suggestiva cornice del Golfo di Napoli –, Sarah
prendeva in giro la sua amica per aver bruciato il caffè a colazione
definendolo «una
ciofeca» e Hannah le rispondeva rinfacciandole scherzosamente gli spaghetti
scotti del giorno precedente. Tra un punzecchiamento e una risata, entrambe si
promisero in cuor loro di conservare e coltivare sempre quei momenti di
spensieratezza.
Giunte al Gran Cafè,
Sarah entrò per prima e fu subito accolta da un delizioso profumo di paste e
torte appena sfornate e dal gioviale «buongiorno» del ragazzo dietro al bancone
che, rivolgendosi a entrambe, aggiunse repentinamente: “Vi preparo un caffè?”
Sarah guardò in faccia
l’amica e, ostentando dell’ironia, esplose in una risata abbastanza squillante
e decisamente poco aggraziata. “Dopo il caffè che ha preparato Hannah
stamattina, credo che non ne berrò più almeno per un mese”, gli rispose, mentre
indossava il grembiule.
Hannah si finse
arrabbiata e, lanciandole contro il grembiule che non aveva ancora indossato,
le disse in romanesco: “Ma statte zitta. Menomale che te sposi perché nun te
reggae più.”[1]
Risero tutti, anche la
ragazza che era dietro al bancone dei dolci e che aveva assistito da lontano al
divertente teatrino; poi, d’un tratto, il giovane addetto alla caffetteria
divenne serio e fece un cenno con la testa verso Sarah, come per indicarle la
presenza di qualcuno alle sue spalle e lei, simultaneamente ad Hannah e
all’altra ragazza, riprese il suo abituale contegno, immaginando già di chi si
trattasse.
“Vi sembra questo il
modo di comportarvi?” Il signor Gennaro raccolse il grembiule dal pavimento e,
scuotendolo lentamente su e giù con la mano ben tesa in avanti, proseguì il suo
rimprovero: “è così che lavorate
nella caffetteria più celebre della città?”
Sarah teneva lo sguardo
abbassato e le mani giunte dietro la schiena in un intreccio quasi innaturale,
imbarazzata per esser stata scoperta a bighellonare e, allo stesso tempo,
sorrideva dentro di sé, intenerita dall’incapacità dell’uomo di mostrarsi
severo verso i suoi dipendenti che considerava come figli.
“Scusateci, signor
Gennaro.” Hannah parlò a nome di tutti, mentre riprendeva il suo grembiule
accingendosi subito a indossarlo, anche lei imbarazzata.
“Stanno arrivando i
primi clienti, va’ a prendere le ordinazioni ai tavolini fuori”, le disse e un
mezzo sorriso sotto i suoi baffi grigi ne rivelò la consueta transigenza. Poi
la sua fronte avvizzita si corrucciò in un’espressione preoccupata e, con tono
di voce grave, si rivolse a Sarah: “Vieni con me.”
Sarah pensò subito a
qualche problema riguardante le nozze, dal momento che la sera precedente il
signor Gennaro e il suo futuro suocero erano andati a concordare gli ultimi
dettagli con il proprietario della trattoria vista mare da lei scelta per il
ricevimento e considerato il fatto che i genitori di Matteo obiettavano ogni
sua decisione.
“C’è stato qualche
problema a «La terrazza»?” chiese, infatti, allarmata che qualcosa, o meglio
qualcuno, potesse rovinare il gran giorno e frenò il suo e l’incedere del
signor Gennaro verso la sala interna del Gran Cafè, rimasta arredata come
all’epoca dell’inaugurazione avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento.
“C’è una persona che ti
sta aspettando.” A questa dichiarazione, Sarah sgranò gli occhi e il cuore le
sobbalzò nel petto facendo sussultare visibilmente anche il suo corpo nelle
spalle che si sollevarono e si abbassarono in un tremito incontrollabile. Poi
un brivido freddo le percorse la schiena quando l’uomo sembrò confermare il suo
presentimento, dicendole ancor più serio e apprensivo: “Ha fatto un lungo
viaggio per venire fin qui a trovarti. È molto provato e potresti non
riconoscerlo subito.”
Prima di sprofondare
nuovamente nel baratro dei ricordi delle lacrime di dolore e degli spasimi
d’amore, in una domanda appena sussurrata, Sarah cercò un’ulteriore conferma:
“Chi è?”
“Non gli ho chiesto il
nome, ma è qualcuno che hai conosciuto a Fossoli”, rispose il signor Gennaro e,
scorgendo sul volto della ragazza un profondo turbamento, di cui non immaginava
neanche lontanamente il vero motivo, le consigliò: “Non farti vedere così
agitata. Quell’uomo ne avrà passate tante.”
Il presentimento divenne
certezza e le dimensioni della sua vita presente sbiadirono come se fossero
esse ad appartenere al passato. La sognante e trepidante attesa del matrimonio,
l’entusiasmo per la luna di miele a Ischia, il volto tenero del vero amore
negli occhi e nel sorriso di Matteo, l’innocente intimità nelle loro fughe
d’amore, le irritanti e apparentemente insormontabili divergenze con i suoi
futuri suoceri, i momenti spensierati di una gioventù ritrovata insieme alla
sua amica Hannah, l’ordinarietà di un’esistenza adesso normale. Tutto era
pronto a portarle via per sottometterla di nuovo al tormento di un amore malato
e sentì che una parte di sé, ancor prima di rivederlo, voleva già cedere a
quell’uomo che la stava aspettando nella sala ottocentesca del Gran Cafè, dopo
aver fatto un lungo viaggio per ritrovarla e tornare da lei.
«Hermann», sussurrò
dentro di sé e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il suo cuore iniziò
a battere così forte da rimbombarle nelle orecchie.
Intanto, il signor
Gennaro aveva ripreso a camminare, costringendola così a seguirlo nella sala
interna e, superati gli unici due clienti seduti sulle poltrone rivestite di
velluto beige e il pianoforte a coda laccato in mogano, si fermarono.
“Sarah”, esclamò l’uomo
che, alzatosi di scatto, travolse con le ginocchia il tavolino, facendo
oscillare la tazzina di caffè sul piattino.
Sarah stentò a
riconoscerlo, tanto era cambiato nell’aspetto: il corpo smagrito, i capelli
diradati, il viso scavato, gli occhi spenti di chi aveva visto l’inferno ed era
tornato indietro per raccontarlo, per tener fede a una promessa fatta poco
prima della partenza infausta. Ma non era con lui l’altra metà del suo cuore.
D’altra parte, anche
l’uomo non riconobbe subito in lei il volto della ragazza disperata, nascosto
da un groviglio di capelli e lividi, malamente afferrata dal terreno innevato e
fangoso del campo e strattonata dalla mano del nazista che l’aveva abusata. Era
questa l’ultima immagine che aveva di Sarah.
“Davide?” Esalò un
sospiro tremante, più risollevata che non fosse Hermann anziché lui fosse
ancora vivo.
“Torneranno
gli innocenti tutti pieni di compassione
per
gli errori dei potenti fatti senza esitazione,
senza
lividi sui volti, con un taglio sopra al cuore.
Prendi
un ago e siamo pronti, siamo pronti a ricucire.”
Negramaro,
Fino all’imbrunire
[1]“Ma stai zitta.
Menomale che ti sposi perché non ti sopporto più.”
Capitolo 32 *** L’infausto giorno della partenza ***
Nella foto, come immagino Davide e Maria.
Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La
guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno
alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento
nazisti.
Capitolo 32
L’infausto giorno della partenza
- In Davide e Maria, l’abbraccio di un padre e una
madre -
“Parte
del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è
non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa
agli occhi dell’uomo.”
Primo
Levi, Se questo è un uomo
Sarah si gettò tra le
braccia di Davide che l’accolse stringendola forte a sé e fu lui il primo a
prorompere in lacrime, commosso per aver ritrovato l’unica sopravvissuta dei
suoi compagni di baracca a Fossoli e per essere riuscito a tener fede alla
promessa fatta da sua moglie a quella ragazza così somigliante alla loro amata
figliola per l’età e il colore degli occhi. Maria, l’altra metà del suo cuore,
non era più con lui, volata via nel cielo nero di Auschwitz nell’estate del
’44.
Davide pianse lacrime
liberatorie, senza vergognarsene, mentre Sarah, anche lei singhiozzante, gli si
stringeva al collo, lasciando da parte quel senso di pudore che avrebbe potuto
esserci nell’abbracciare così calorosamente un uomo che non fosse il suo
promesso sposo. In lui, abbracciò un padre, un fratello e la speranza di veder
ritornare i propri cari e la speranza e la paura di sapere Hermann ancora vivo.
Intuì quale amara sorte fosse toccata a Maria e rimase a lungo in
quell’abbraccio che, a Fossoli, nell’infausto giorno della partenza verso
Auschwitz, era stato loro disumanamente negato.
22 febbraio 1944
Nella camera che aveva
iniziato a rassettare, aleggiava ancora un profumo di sapone e crema da barba
al quale si univa l’inconfondibile fragranza di ambra e muschio. L’uniforme che
aveva posato nella cesta portabiancheria, per andare poi a lavarla, ne sembrava
ancora pregna.
Metteva in ordine e
spolverava Sarah, muovendosi per la stanza come un automa, volutamente incapace
di ascoltare i propri pensieri per eludere il confronto con la parte di sé che
avrebbe voluto sfiorare ancora la pelle nuda che indossava quel profumo dalle
note orientali.
Avvicinatasi alla
finestra, passò lo strofinaccio sul vetro e, sentendo l’eco di molti passi e un
fitto vociare dall’accento tedesco provenienti dal campo, guardò in basso.
Provò un senso di vergogna per aver dimenticato che giorno fosse, tanto presa
dal ricercare e rifuggire le sensazioni suscitatele da Hermann.
Rivolse lo sguardo verso
la sua baracca e vide dapprima uscire i bambini, piccole vittime innocenti e
inconsapevoli che, tenendosi per mano, si unirono alla fila dei prigionieri che
i soldati conducevano ordinatamente al cancello. Posò la sua attenzione
sull’appariscente capigliatura riccia di Agnese e una fitta di rimorso la colpì
nel petto, propagandosi a tutte le sue membra. Se solo non fosse rimasta a
dormire tra le braccia del tenente, avrebbe potuto darle quei biscotti alle mele
che, vinta dalla fame e dalla golosità, aveva mangiato fino all’ultimo. Le
diede la nausea il proprio egoismo e ricordò l’avvertimento di don Franco di
non trasformarsi in una persona diversa e proprio lui, facilmente riconoscibile
dalla tonaca, intravide in lontananza, dal Campo Vecchio, salire su uno dei
camion diretti verso la stazione di Carpi. Arrivato ad Auschwitz, si sarebbe
ricongiunto con i suoi bambini, condividendone lo stesso terribile destino.
Un attimo dopo, vide
uscire dalla baracca anche Maria e Davide e, quando l’uomo avvolse con un
braccio le spalle di sua moglie in segno di conforto, le apparve davanti agli
occhi l’immagine dei suoi genitori, mentre, stretti l’un l’altra, abbandonavano
la chiesa, lasciando sola lei. Forse era ancora in tempo a prendersi
quell’abbraccio mancato, a proferire loro le parole non dette per il forte
sbigottimento e rammarico dell’imminente distacco, sotto lo sguardo del grande
Crocifisso che dominava la navata centrale della chiesa. Con decisione, gettò
lo strofinaccio sul davanzale della finestra e, di corsa, uscì dalla camera da
letto e dall’edificio occupato dai tedeschi per raggiungere Davide e Maria e,
in loro, abbracciare suo padre e sua madre un’ultima volta.
Le scarpe di Sarah
affondarono nel terreno del campo, a tratti fangoso e imbiancato dalla leggera
nevicata notturna, mentre la veemenza dei suoi movimenti allentò lo chignon,
facendole ricadere i lunghi capelli sulle spalle. S’intrufolò nella fila e,
avanzando tra i prigionieri, riuscì ben presto a trovare chi, disperatamente,
cercava.
“Maria”, la chiamò,
fermandola per un braccio e lei, stupita e allarmata, replicò: “Sarah!”
“Vai via, Sarah”,
intervenne Davide con tono severo e apprensivo, temendo una reazione da parte
dei soldati delle SS al loro fermarsi, rallentando così la fila.
E, nelle sue parole,
Sarah percepì erroneamente l’asprezza del rifiuto, di un secondo abbandono.
“Non mi lasciate, vi prego”, disse, rivolgendosi più ai suoi genitori che a
loro.
Con determinazione e tenerezza,
Maria le prese il viso tra le mani e, guardandola profondamente negli occhi –
che le ricordavano tanto quelli di sua figlia –, proferì la promessa che, due
anni dopo, avrebbe portato suo marito a Napoli: “Quando tutto questo sarà
finito, verremo a cercarti, te lo prometto.”
E non fece in tempo a
sigillare la sua promessa con quell’abbraccio rincorso e sperato da Sarah che
la mano di un nazista afferrò la ragazza, allontanandola bruscamente da Maria e
scaraventandola a terra. Piegatosi su di lei, il soldato le urlò contro nella
sua madrelingua, schizzandole saliva sul viso, prima di colpirla ripetutamente
col manganello sul braccio che Sarah aveva messo istintivamente davanti per
ripararsi. Lacrime e grida le si bloccarono in gola tanto fu lancinante il
dolore, ma esso non valicò il senso di colpa nell’intravedere il soldato
avventarsi su Davide – fattosi avanti nel vano tentativo di difenderla – e su
gli altri prigionieri la cui marcia verso il cancello era stata rallentata a
causa sua, mentre di Maria riusciva soltanto a udire la voce modularsi in
parole supplichevoli.
Poi, all’improvviso, una
mano dalla forte presa la sollevò dal terreno, afferrandola per il braccio già
dolorante e facendole contorcere il viso in un’espressione di sofferenza. Dal
profumo che le inondò le narici, capì subito chi fosse e lui impresse le dita
ricoperte dal guanto in pelle nella sua carne, aggiungendo dolore al dolore,
quelle stesse dita che la sera precedente si erano posate dolcemente sul suo
corpo. E non c’era alcun velo di dolcezza sul verde dei suoi occhi, adesso
vitrei e dilatati dalla rabbia, né vi fu un’intonazione gentile dalle sue
labbra che si aprirono in parole dal sapore sprezzante.
“Ma sei impazzita?” Il
tenente parlò con tono di voce basso e furioso e, strattonandola, la spogliò
della dignità che lui stesso le aveva restituito. “Vuoi forse andare con loro,
stupida ebrea?”
Al dolore, si aggiunsero
la delusione e la paura e quell’assurdo senso di colpa per aver rovinato un
sentimento nascente in Hermann che, intanto, resosi conto di stringerla troppo
forte, allentò la presa e distese i muscoli facciali contratti in
un’espressione adirata.
Sapeva benissimo che le
sue parole avrebbero allontanato il cuore delicato di Sarah, ma non si
trattenne nel continuare a dirle, senza addolcire la voce: “Torna subito al
lavoro. Dopo facciamo i conti.” E la lasciò andare via.
Capitolo 33 *** Trentacinque chilometri da Berlino ***
Capitolo 33
Trentacinque chilometri da Berlino
“Più
non s’incanteranno i miei occhi nei tuoi occhi, più non s’addolcirà vicino a te
il mio dolore. Ma dove andrò porterò il tuo sguardo e dove camminerai porterai
il mio dolore. Fui tuo, fosti mia. Che altro? Insieme facemmo un angolo nella
strada dove l’amore passò.”
Pablo
Neruda, Farewell
Immagine dal film “Il club del libro
e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli, ottobre 1946
Nel racconto della sua
prigionia ad Auschwitz, Davide omise i particolari più atroci, parlandole
principalmente della sua reale conversione al cristianesimo avvenuta proprio in
quei giorni e di come fosse sopravvissuto grazie al suo talento di compositore e
musicista, suonando il pianoforte per gli ufficiali delle SS. «I nazisti
amavano la musica», le aveva detto con un tono intriso di sarcasmo e amarezza,
mentre Sarah pensava a quanto fossero simili lei e Davide. Entrambi avevano
ceduto al nemico una parte di sé per continuare a vivere.
Davide posò sul piattino
la tazzina vuota del caffè e riprese a parlare, assumendo un’intonazione
preoccupata: “Sei pallida e, da quando sono qui, non hai smesso di tremare.”
Con Davide e Maria, era
sempre stato così. Entrambi possedevano la capacità di accorgersi dello stato
d’animo di chi stava loro di fronte e il dono di saper leggere negli occhi. Il
loro era uno sguardo penetrante, comprensivo e mai accusatorio, che induceva
però ad abbassare gli occhi per sfuggire alla verità di se
stessi.
“è che…”
Sarah fece una pausa e, allontanando dalle labbra la tazzina del caffè che non
aveva ancora bevuto, gli confidò: “Credevo fosse qualcun altro.” E alzò lo
sguardo dal tavolino finemente intarsiato per incontrare gli occhi scuri e
stanchi di Davide.
“Ah, di questo non devi più preoccuparti”, ribatté
l’uomo risoluto, intuendo a chi si riferisse, “quell’infame non potrà più farti
del male.”
E lei dilatò lo sguardo in un’espressione
interrogativa, mentre una parte del suo cuore si lasciava trafiggere
dall’appellativo usato da Davide.
“È stato dichiarato morto”, sentenziò l’uomo
apatico e lapidario e le parole continuarono a uscirgli dalla bocca come un
fiume in piena che ruppe gli argini e travolse Sarah, facendola annegare in sentimenti
che lei stessa aveva voluto sommergere. “Dopo Fossoli, fu messo in congedo per
qualche mese a seguito di un lieve trauma cranico.”
Nelle orecchie le riecheggiò il rumore del
colpo assestatogli alla nuca dal calcio di un’arma partigiana e il tonfo del
suo corpo attutito dalla neve.
“Poi fu richiamato a Berlino e ricevette la
nomina di capitano. Gli assegnarono un lavoro nel Dipartimento economico e
amministrativo delle SS, ma non riuscì mai a svolgerlo, dato l’arrivo
dell’Armata Rossa”, proseguì Davide e, mentre sentiva il proprio cuore
accartocciarsi, non le venne da chiedersi perché lui sapesse così tanto e non
scoprì mai la sua ossessione per la ricerca di giustizia che nascondeva nello
zaino tra i fascicoli degli aguzzini incontrati sul suo cammino. “Fu catturato
dai soldati russi e portato in un campo di concentramento a trentacinque
chilometri da Berlino. Lì ha finito i suoi giorni.”
L’inammissibile flebile speranza che fosse
ancora vivo si era spenta e un brivido di sconcerto le si propagò in ogni
angolo del corpo, immaginandone le possibili cause di morte e sentendo
nell’anima una vecchia corda vibrare assieme a quella del dolore per la tragica
notizia.
“I sovietici non sono stati molto teneri con
i tedeschi.” La voce dell’uomo le arrivò alle orecchie come un suono ovattato,
lontano e non riuscì a coglierne l’intonazione vagamente soddisfatta. Sulla
tazzina abbassò lo sguardo che si perse nel caffè e, mentre gli occhi le si
inumidivano di lacrime, incrociò le braccia, stringendo la propria sofferenza
di un lutto da metabolizzare, di ricordi da elaborare.
“Sarah, Sarah.” Preoccupato, Davide la chiamò
più volte e invano nel tentativo di riportarla alla realtà.
22 febbraio 1944
“Sarah, Sarah.” All’udire il proprio nome
pronunciato da Giuditta con preoccupata insistenza, Sarah scosse bruscamente lo
sguardo dal tè che nella tazza aveva ormai smesso di fumare. La donna glielo
aveva preparato nel tentativo di rincuorarla, ma lei era rimasta ferma con le
braccia incrociate ad attenuare il dolore causato dai ripetuti colpi di
manganello e dalla forte presa di Hermann, sopraffatta dalla malinconia per la
partenza dei suoi compagni di baracca e dall’angoscia per l’insulto e la
minaccia da lui proferiti con violenza.
Dandole della stupida ebrea, Hermann l’aveva
riportata indietro, al momento dell’abuso – qualche attimo prima, infatti,
l’aveva apostrofata con il medesimo appellativo – e, con quel «dopo facciamo i conti»,
sembrava volesse infrangere la sua promessa di non farle più del male e la
propria speranza nell’immaginare una realtà meno dura. Dopo un’intera notte
vissuta tra le sue braccia, pur temendone l’inevitabile cambiamento del quale
irragionevolmente s’incolpava, era più difficile immaginarlo nelle vesti di
carnefice, almeno verso di lei.
“Forse dovresti andare
in infermeria”, esordì Giuditta, mentre, stando in piedi di fianco a lei,
asciugava un piatto, “il braccio potrebbe essersi fratturato. Se vuoi, ti ci
accompagno io.”
Neanche il tempo di
valutare la sua proposta, che la porta della cucina fu spalancata con tale
violenza da far scivolare dalle mani di Giuditta il piatto che andò a
frantumarsi in tanti pezzi sul pavimento e mettere in allerta le altre cameriere
presenti.
Per ultima, giacché
dolorante, anche Sarah si mise sull’attenti, all’udire il suono della sua voce
autoritaria che tuonava di rabbia.
“Fuori tutte”, proruppe
il tenente e Sarah restò al proprio posto, ben sapendo del perché Hermann fosse
lì, incredula e spaventata per così tanta veemente fretta nel voler sistemare
con lei i conti. “Ferma”, intimò poi a Giuditta, vedendola in procinto di
abbassarsi per raccogliere i cocci, “ci pensa Sarah.” E, con un cenno della
testa verso il pavimento e i suoi occhi lucidi e spaesati, le fece capire che
doveva pensarci subito.
Sarah obbedì al suo
muto, tracotante comando e tremò quando Hermann iniziò a battersi il frustino
sullo stivale, proseguendo con un ritmo cadenzato ai pensieri che gli
vorticavano nella mente. Avvertiva dentro di sé l’inadeguatezza di una parte
che si costringeva a recitare.
Sussultò solo al primo
colpo e proseguì a raccogliere i cocci con espressione marmorea e mani ferme,
nonostante la visibile fatica nel muovere il braccio e la tremenda
consapevolezza che, non soddisfatto del lavoro svolto dal suo subalterno,
l’avrebbe punita anche lui, magari facendole assaggiare lo schiocco del suo
frustino, aggiungendo lividi sui lividi, dolore al dolore, lacrime urlate
contro la muta delusione per una promessa in parte già infranta con parole
d’ingiuria e di minaccia e, in ultimo, con il suo costringerla a quella
posizione mortificante.
Hermann smise di battere
il frustino e iniziò a parlare, mentre Sarah lentamente si alzava, lasciandosi
sfuggire una smorfia di sofferenza, davanti alla quale lui faticò a restare
indifferente.
“Ti ho dato la mia
parola e non vorrei essere costretto a rimangiarmela”, disse in un crescendo di
voce sempre più alta e perentoria, “non tollero comportamenti sovversivi nel
mio campo.”
Forse fu in virtù di
quell’intimità vissuta insieme e a cui lei aveva dato un’importanza, che Sarah
osò giustificarsi, rispondendogli coraggiosamente, seppur biascicando: “Non era
mia intenzi…”
Non era sua intenzione e
lui lo sapeva, come anche sapeva quanto sarebbe stato difficile riaprire la
porta del suo cuore al calar della sera, mentre la interruppe, urlando:
“Silenzio!”
Sarah sobbalzò,
strizzando gli occhi per la paura e, stavolta, chiudendo le mani a pugno, fu
lei a darsi della stupida.
“Ti ho forse dato il
permesso di rispondermi?!” aggiunse più incollerito, ma subito dopo cedette e,
sbuffando, come per liberarsi dal peso di se stesso,
cambiò atteggiamento.
Si strofinò la fronte
con il pollice e l’indice, spostando un po’ di lato il cappello che gli ombrava
i lineamenti e socchiuse per un attimo gli occhi, prima di rabbonire
l’espressione e il tono di voce.
“Passeranno in molti per
questo campo e non puoi affezionarti a tutti. Siamo in guerra e, se vuoi
sopravvivere, devi pensare solo a te stessa”, la mise in guardia e, da
apprensiva, a ogni parola, la sua voce tornava ad assumere un’inflessione più
severa, “e non voglio che tu dia le cose che io ti porto agli altri ebrei.”
Sarah sbarrò gli occhi
in un’espressione terrorizzata, ripensando al cioccolato che aveva dato ad
Agnese e temendo di aver messo la ragazzina in una qualche situazione di
pericolo.
“E non fare quella
faccia”, riprese Hermann con un tono più pacato ma di disappunto, “non è mia
abitudine togliere i dolciumi dalle mani dei bambini. Non sono così sadico come
credi”, fece una pausa, mentre nel cuore di Sarah s’intrecciarono molteplici
sentimenti, “e adesso vai, vai in infermeria che non mi piace quel braccio.”
Confusa ma risollevata,
si avviò verso la porta con residui di paura da scrollarsi di dosso e lacrime
da ricacciare indietro.
“Sarah!” Hermann la fece
voltare di nuovo verso di sé, richiamandola con voce decisa e suadente.
Napoli, ottobre 1946
“Sarah!” Chiamandola con tono di voce più alto e
deciso, Davide la riportò alla realtà presente e, mentre gli rivolgeva di nuovo
lo sguardo, una lacrima fuggevole le scivolò lungo la guancia.
“Non pensarci e
perdonami,
se ti ho portato via un
poco d’estate
con qualcosa di fragile
come le storie passate.
Forse un tempo poteva
commuoverti ma ora è inutile credo,
“L’amore
è un gioco con delle regole strane. Puoi perdere più del dovuto e amare più di
quanto avresti pensato.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine
dal film “La conseguenza”
“Sarah”, riprese Davide
apprensivo, pronto a porle la fatidica domanda, “non mi dire che…”
E non c’era bisogno di
fargli aggiungere altro, poiché Sarah sapeva perfettamente cosa stava per
chiederle. Davide aveva letto bene nei suoi occhi, nel suo cuore.
“Sì”, ribatté
prontamente e la sua voce divenne un roco sussurro, “è successo.”
Sarah si era legata al
suo aguzzino in un sentimento amoroso e, adesso, per la di lui dipartita, una
seconda lacrima le rigava il viso pallido. Il dolore che traspariva dai suoi
occhi color miele e dal suo corpo inerte fece stringere il cuore di Davide che
si pentì per la compiaciuta freddezza con la quale le aveva dato la notizia,
tragica per lei. “Mi dispiace”, le disse.
Un istante dopo, Sarah
interruppe la sua silenziosa immobilità e, intrecciando sul tavolino le mani e ponendo
su di esse lo sguardo, iniziò a tormentarsi le dita per trattenere un pianto
che, se esploso, sarebbe stato interminabile. Si fermò non appena giunse
all’anulare sinistro e, estraniandosi dalla confessione qualche attimo prima
proferita e ostentando indifferenza per la notizia appresa, sollevò il capo per
incontrare gli occhi di Davide e mostrargli un’espressione diversa.
“Tra due settimane mi
sposo”, esordì seria, quasi austera, più per ricordarlo a se stessa che per
annunciarlo a Davide. Poi l’emozione vibrò nella sua voce e addolcì il suo
sguardo, mentre, commossa, gli chiedeva: “E vorrei che mi accompagnassi tu
all’altare.”
“Ne sarei onorato e
felice”, le rispose, frenando a stento le lacrime al pensiero della sua povera
figliola e di una nuova paternità simbolicamente donatagli da Sarah.
Ma lo stato d’animo
della ragazza non aveva smesso di turbarlo.
Berlino
Nulla era andato secondo
i suoi piani. Al confine con la Svizzera, i documenti e l’esitazione mostrati
da Hermann non avevano convinto gli agenti francesi e soltanto grazie al
provvidenziale, umiliante intervento di un suo ex subalterno, che lo aveva
prontamente riconosciuto, era potuto tornare a casa, risparmiandosi un altro
calvario.
«Hauptsturmführer[1], non lasci la Germania.
Presto il Großdeutsches Reich[2] risorgerà dalle rovine»,
gli aveva detto il ragazzo poco più che ventenne con un tono tra il
supplichevole e l’esaltato, seppur sottovoce.
Sentendosi chiamare
rispettosamente – quasi devozionalmente – con il grado delle SS che non aveva
mai potuto esercitare, una scossa di orgoglio e compiacimento gli percorse la
spina dorsale e, anche se non aveva alcuna intenzione di restare in Germania
per perseguire un’ideologia sconfitta nella quale non credeva più e ritardare
il ricongiungimento con la sua Sarah, si sorprese ad annuire, contraendo i
muscoli facciali nell’espressione fiera e altera di un tempo.
«Heil Hitler», gli
soffiò l’ex soldato all’orecchio nel salutarlo ed Hermann ricambiò con la
stessa risolutezza, ma non permise a quel veleno d’insinuarsi ancora nelle sue
vene.
E adesso, a una
settimana dalla mancata partenza, era di nuovo a letto, febbricitante e in
preda a una forte tosse che, a tratti, pareva togliergli il respiro e con sua
madre che, ponendogli un panno bagnato sulla fronte, si prendeva cura di lui
con la freddezza e il distacco di chi svolge soltanto un mero dovere verso un
estraneo. Ma, in fondo, per Birgit, il suo unico figlio non era mai tornato
dalla guerra e, in un angolo della casa, conservava ancora l’altarino a lui
dedicato con tanto di fotografia in divisa, cero e vasetto con i fiori.
La sentenza del dottor
Schneider gli arrivò come una doccia fredda e lo sconvolse: la diagnosi di
polmonite lo condannava a rimandare il suo ritorno in Italia, a sentire il
proprio corpo debilitarsi una seconda volta, a ripetere gli sforzi per
rimettersi in sesto, a prolungare la permanenza in quella casa abitata da
sconosciuti e la lontananza dalla sua amata.
«Tutti questi
impedimenti», lo aveva ragguardato suo padre a braccia conserte, con una nota
di cinica soddisfazione nella voce, «non credi che siano un segno?» Karl
sembrava quasi contento nel vedere suo figlio costretto di nuovo a letto,
anziché saperlo alla ricerca della sua amante ebrea. In realtà, sperava ancora
che il tempo lo avesse rinsanito dalla sua ossessione.
Ed Hermann finì col
credere a quelle parole e, provato da un crollo emotivo, iniziò a temere un
possibile rifiuto da parte di Sarah, motivo per il quale, forse, il destino gli
aveva impedito di partire. E nella testa, sprofondata nel cuscino appoggiato contro
la spalliera del letto, i pensieri diventavano tormento, chiedendosi cosa le
avrebbe raccontato, se fosse tornato da lei.
Si augurò di morire al
più presto, giurando a se stesso di non provare mai più a cercarla, poiché come
le avrebbe spiegato il suo compiacimento per la nomina a Hauptsturmführer e la
sua risolutezza nel far ritorno in Germania, senza neanche assicurarsi che lei
stesse bene con i partigiani? Della Battaglia di Berlino sarebbe stato più
onorevole raccontarle della sua iniziale, strenua resistenza al nemico o del
suo nascondersi in un canale di scolo delle fogne, intuendo l’imminente
sconfitta? A lei che non si era mai scomposta, brava a contenere le emozioni di
sofferenza, come avrebbe confessato tutte le lacrime che non aveva saputo trattenere
a Sachsenhausen sotto le percosse dei russi e, in ultimo, il suo visibile
tentennamento per paura al confine sorvegliato dai francesi che gli era costato
la partenza?
Mosso da un impeto d’ira
verso di sé, per l’uomo vigliacco e fisicamente troppo debole che era
diventato, raccogliendo le poche forze che la polmonite ancora gli consentiva,
allungò un braccio verso il comodino e rovesciò tutto ciò che vi era sopra, tra
cui alcune scatole di medicine e un bicchiere vuoto. Questi cadde per terra,
frantumandosi in mille pezzi e ripetendo lo stesso rumore di un piatto che
s’infrangeva sul pavimento della cucina di Fossoli.
Nella mente gli
risuonarono lo schiocco cadenzato del suo frustino sullo stivale e l’eco della
sua voce dura e astiosa contro Sarah. Ne rivide gli occhi lucidi ma fieri e
l’espressione orgogliosa, mentre, piegata sulle ginocchia ma non spezzata dal
dolore al braccio e dalla paura che lui ben riusciva a incuterle, raccoglieva i
cocci nel grembiule. A differenza sua, lei non recitava alcuna parte e, allo
scomparir del sole sulle baracche, nella luce soffusa della sua stanza divenuta
loro alcova, non nascose il suo dissenso. Si chiuse a una sua carezza tra le
gambe e a lui si negò, incoraggiandolo così a intraprendere la strada che
condusse al loro primo bacio. E fu amore, senza farlo.
Fossero passati altri
cent’anni, lui l’avrebbe ritrovata.
Nella foto, tratta dal film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Matteo e Sarah «nella
spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna» ai
capitoli 5 e 27.
Capitolo 35
Il cuore e i suoi inganni
“Chi t’insegnò i passi che fino a me ti portarono?
Quale fiore, pietra, fumo ti mostrarono la mia dimora?
Certo è che tremò la notte paurosa,
l’alba empì tutte le coppe del suo vino
e il sole stabilì la sua presenza celeste,
mentre il crudele amore m’assediava senza tregua
finché lacerandomi con spade e con spine
aprì nel mio cuore una strada bruciante.”
Pablo Neruda, Aspro amore
Campo
di Fossoli, 22 febbraio 1944
Sarah
si volse lentamente, mostrandogli un’espressione triste e spaesata,
interrogativa. Il tono con cui l’aveva chiamata, pronunciando il suo nome,
s’era addolcito, lasciandole intendere cosa stesse per chiederle.
“Ti
aspetto dopo cena”, le disse infatti, con quell’aria allusiva e insolente che
lei ben conosceva, come se nulla fosse successo, incurante del suo malessere
fisico e, soprattutto, emotivo.
E,
questa volta, fu Sarah a ripristinare le distanze e ristabilire la gerarchia
fra di loro. “Sì, signore”, rispose, quasi in tono di sfida e nemmeno si curò
di nascondere la sua espressione corrucciata.
La
parte forse più razionale di sé si augurò di averlo innervosito, così da
scansarsi la notte con lui. Questi, invece, non si scompose e accennò uno dei
suoi sorrisi sornioni. “Hermann”, la corresse.
“Sì”,
fece una pausa, confusa dalla sua doppia personalità e nauseata per la troppa
tensione accumulata e all’idea di abbandonarsi tra le sue braccia dopo tutto
ciò che era accaduto – la deportazione di innocenti che aveva eseguito, la
crudeltà con cui le aveva parlato –, “Hermann.”
Reggendosi
il braccio dolorante, andò via e il nodo che le si era stretto alla gola si
sciolse soltanto in infermeria, quando il medico, con non molta delicatezza, le
avvolse un bendaggio stretto intorno alla zona contusa, lievemente per fortuna.
Lacrime di delusione poterono così liberarsi, nascondendosi tra quelle
scaturite dal dolore fisico e non ne avrebbe provato rimorso. Dalla piccola
finestra, s’intravedevano già le prime luci del tramonto a preannunciare la
notte bugiarda e voluttuosa alla quale, in un modo o nell’altro, si sarebbe
sottratta.
Napoli,
ottobre 1946
Il
molo situato di fronte all’ex stazionamento dei tedeschi non era molto
frequentato dai pescatori che preferivano attraccare al poggio antistante alla
Cattedrale, lì dove aveva visto Matteo per la prima volta, mentre nella barca
riparava le reti.
Sarah
aveva camminato a lungo, ritrovandosi senza neanche accorgersene nella cornice
del loro primo bacio e, adesso, sedeva con i gomiti sulle ginocchia e la testa
tra le mani a piangere la morte di Hermann, laddove in mezzo al mare terminava
la banchina. L’enorme sfera arancione del sole che scendeva dietro l’orizzonte
delle isole faceva da unico spettatore alle sue copiose, irrefrenabili lacrime.
Tormentata
dal rimorso di non aver fatto, di non esser stata abbastanza per convincerlo a
spogliarsi della sua divisa durante la Battaglia Partigiana di Gonzaga, confusa
dal susseguirsi dei ricordi d’amore e di dolore, nemmeno davanti alla
consapevolezza che non si sarebbe mai più ricongiunta alla sua famiglia aveva
pianto in quel modo. Lo sciabordio delle onde che s’infrangevano contro il molo
tentava invano di sovrastare il suono dei suoi singhiozzi disperati.
Le
lacrime di Sarah si dissolsero lentamente, quando la brezza della sera,
accarezzandole il viso, divenne il tocco di due mani sulle guance e di un bacio
all’angolo della bocca. L’ultimo bacio, le ultime carezze, sotto gli occhi
perplessi di un trio di partigiani con i fucili puntati.
Sistematasi
a gambe penzoloni sulla banchina, iniziò a fissare sotto di sé l’acqua del mare
e un brutto pensiero si fece spazio nella sua mente che, adesso, vagava nel
vuoto. Scivolare giù, sprofondare nelle acque scure e calme del crepuscolo
sarebbe stata l’espiazione della colpa per non essere riuscita a salvarlo,
quando, a Gonzaga, ne aveva avuto la possibilità, la strada che l’avrebbe
ricondotta a lui per condividerne l’eternità e riscrivere il passato.
La
morte di Hermann aveva riportato in vita un sentimento che, dal suo cuore
ancora sanguinante per le ferite d’amore, ogni tanto boccheggiava, ma che era
pur sempre vivo.
Il
rumore di una barca a motore che solcò veloce la superficie tranquilla del
mare, lasciando dietro di sé una scia di schiuma bianca e grigia, la scosse dai
suoi pensieri. Seguì con lo sguardo l’imbarcazione, mentre il suo cuore tornava
a Matteo, al loro imminente matrimonio, alla loro bellissima casetta dal tetto
rosso affacciata sul porto, alla propria immagine riflessa nello specchio della
sartoria con indosso l’abito bianco in stile anni ’20, ad Hannah che, più di
un’amica, era una sorella, al signor Gennaro e alla moglie che continuavano a
prodigarsi per lei come per una figlia, a Davide che l’avrebbe accompagnata
all’altare.
Indietreggiando
e sedendosi meglio sulla banchina, si aggrappò di nuovo alla vita per le
persone che l’amavano e per Hermann che la vita gliel’aveva salvata, da
Auschwitz e dal vuoto d’amore.
22
febbraio 1944
La
luce soffusa della stanza avvolgeva la sua figura dritta vicino al mobiletto. I
capelli biondo grano spettinati, una bretella abbassata e un lembo della
camicia fuori dai pantaloni gli conferivano un’aria vagamente scanzonata che lo
rendeva più umano, meno diverso dagli altri uomini. Senza la sua divisa con il
fregio del teschio a rievocare la morte e da solo con lei, sembrava esserlo
realmente.
“Cosa
ti ha detto il dottore?” Hermann la guardò di sottecchi per nascondere un
piglio apprensivo, mentre riempiva un bicchiere di vodka. I movimenti erano
tesi e rallentati dal cruccio di non sapere come approcciarsi a lei,
consapevole del suo stato d’animo dopo quello che era successo.
“è una lieve contusione”, biascicò
Sarah, guardando un punto impreciso dinanzi a sé, tra la parete e le sue
spalle, “tre, quattro giorni di riposo e starò bene.” Dentro di sé, l’impulso
di fuggire lottava già contro il desiderio di restare.
“Non
volevo essere troppo duro con te”, si giustificò inaspettatamente, sancendo
così il vincitore nella lotta, “ma, oltre questa stanza, abbiamo dei ruoli da
rispettare.” Le porse il bicchiere e subito cancellò dal viso l’espressione
accigliata che un attimo prima aveva ostentato. “Tieni, ti farà sentire
meglio”, le disse e, dietro quel tono asettico, tentò ancora di mascherare le
sue reali emozioni.
Nonostante
avesse dissentito con un cenno della testa, essendo astemia, Hermann le
avvicinò il bicchiere alla bocca e lei si ritrovò a intingervi con esitazione
le labbra, poggiando involontariamente la mano sulla sua. Solo un sorso e
avvertì bruciore alla gola, quasi dolore e indietreggiò, arricciando il naso e
strizzando gli occhi per il disgusto. Non si sentiva affatto meglio, né con il
braccio né con la mente che aveva preso ad ascoltare il cuore e i suoi inganni.
Sentì il suono del bicchiere posato sul mobiletto e il tocco di una mano calda
che prendeva la sua fredda per condurla a sedersi assieme sul bordo del letto e
tenne gli occhi chiusi al soffio di un profondo respiro sul collo, mentre le
abili dita furono sotto la sua gonna.
Gli
trattenne la mano, colpendogli e afferrandogli il braccio e un lamento uscì
dalle sue labbra tremanti. “No”, sussurrò e un velo di lacrime le coprì gli
occhi dilatati per la paura delle conseguenze del suo ardire. Ma, stavolta, non
si sarebbe concessa volontariamente a lui che rimase per qualche istante
interdetto, prima di incorniciare tra le mani il suo viso provato dalla dura
giornata, inducendola a guardarlo negli occhi.
“Tranquilla”, le disse
con tenerezza e decisione e già avvertì il tremore abbandonare lentamente il
corpo di Sarah, “non faremo nulla che tu non voglia fare.”
Le prese una mano e
gliela baciò ripetutamente, piano, fino a sfiorarle i polpastrelli, fino a
suscitare in lei un tremito nuovo che abbassò le sue lunghe ciglia nere,
inumidite dalle lacrime trattenute e dischiuse le sue labbra di rosa. E fu
pronto a liberare il cuore. Per un attimo eterno, si fermò a respirare il
respiro della sua bocca e chiuse anche lui gli occhi, mentre univa le labbra
alle sue.
“Sento
qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre.”
Francesco
Petrarca
Immagine
dal film “L’amore oltre la guerra”
Era da ben due anni che
Hermann non baciava una donna, attribuendo al bacio un valore d’indiscussa
importanza rispetto all’amplesso e astenendosi dal concederlo a signorine di
postriboli e avventure di una notte o poco più. Nello scambio di sapori e
respiri, vedeva racchiusa la massima espressione d’intimità fisica da riservare
a una relazione sentimentale stabile, di fiduciosa complicità e condivisione di
vita.
In quel momento, il
cuore si era ribellato alla ragione e il crescendo di emozioni lo aveva spinto
inconsapevolmente a violare la «legge per la protezione del sangue e dell’onore
tedesco», mentre prendeva con dolcezza il viso di Sarah tra le mani per dare
intensità al bacio. Non aveva esitato nell’abbassare le proprie difese, nello
spogliarsi della maschera di se stesso per offrirsi al
muto dialogo dell’amore e sugellare la recondita volontà di appartenere a lei.
Poté avvertire il suo
corpo irrigidirsi e i suoi occhi spalancarsi, come se stentasse a credere alla
realtà di quello che, considerandone l’innocenza, doveva essere per Sarah il
primo bacio. Non glielo avrebbe rubato. Indietreggiò nella ricerca travolgente
del sapore della sua bocca per donarle la magia che sapeva appartenere
all’immaginario di una ragazza ancora acerba e chiuse le labbra per sfiorare le
sue con tocchi leggeri, ripetuti che lei, timidamente, ricambiò quasi subito,
fino a lasciarsi andare.
Con gli occhi semiaperti
per sbirciare le sue espressioni facciali e coglierne, dietro le ciglia chiuse,
l’anima di un sentimento amoroso, gli posò sul petto i palmi delle piccole mani
e aprì un poco la bocca per assecondare il desiderio di Hermann che, adesso,
era anche il suo.
Lo scorrere delle dita
tra i suoi capelli, che, dallo chignon, si liberarono sulle spalle, diede il
ritmo alla passione di un bacio che lei accolse tra stupore e tremore e che,
emozionata e inesperta, seppe restituirgli soltanto a notte inoltrata nel
continuo scambio di aneliti e nell’armoniosa fusione dei battiti dei loro cuori
vicini nell’abbraccio, sciolti dalle carezze.
E l’amore aveva il
sapore, adesso, dolce del malto della vodka e il profumo muschiato delle guance
rasate di fresco; l’odore di nicotina non impregnava più le sue narici né il
dolore avvolgeva l’anima sua, protetta fra le braccia di Hermann.
Senza andare oltre,
cullati e appagati da tante effusioni e stanchi per la giornata, quasi simultaneamente,
chiusero gli occhi e si addormentarono stretti l’uno all’altra, fronte contro
fronte, mano nella mano. E non furono più due corpi uniti da un contratto per
la sopravvivenza su di un letto macchiato di disonore, ma un’anima sola fuori
dal tempo e dallo spazio di un mondo che li voleva nemici.
Le tenui luci del nuovo
giorno sorpresero Sarah rannicchiata in posizione fetale al centro del letto
con i piedi rivolti verso il bordo e la coperta – tirata un po’ su da Hermann
per non svegliarla, quand’era ancora buio – a scaldarle la schiena. Si svegliò
con il braccio ancor più indolenzito, ma stralunata e con un motivetto allegro
nella testa, con i vestiti addosso solo sgualciti da una notte di tenera
passione e spogliata dei suoi dubbi. Sul comodino, una tavoletta di cioccolato
che non avrebbe più visto come umiliante pagamento.
Napoli, ottobre 1946
~ Una settimana al
matrimonio ~
La nota di tristezza sul
suo viso, incorniciato dal Juliet capveil[1], stonava con il
bellissimo vestito bianco in stile impero con maniche lunghe in pizzo e un
leggero strascico e, per assurdo, nessuna delle donne presenti seppe coglierla,
troppo prese da lei e dal suo apparire. Fissandosi nello specchio della
sartoria, Sarah ricercava dentro di sé e nel luccichio dei suoi occhi quelle
emozioni che credeva l’avrebbero accompagnata nell’ultimissima prova dell’abito
da sposa.
Hannah raccoglieva nel
fazzoletto silenziose lacrime di commozione, immaginando l’ingresso della sua
amica in chiesa e fantasticando sul proprio, mentre la sarta le spiegava
solerte i passaggi della vestizione e la cura che avrebbe dovuto impiegare
nell’aiutarla. Accerchiata, Sarah si sentiva già soffocare dalla nuova vita che
aveva voluto ricucirsi addosso per dimenticare il passato.
“Il Signore mi ha donato
solo figli maschi”, esordì la moglie del signor Gennaro con un’espressione
serena, prendendo dalla sua borsa un cofanetto. Da lì, estrasse un prezioso
filo di perle e glielo mise delicatamente al collo. “Questa l’ho indossata al
mio matrimonio. Adesso, è tua.” La signora Carmela concluse con un sorriso che
Sarah non seppe ricambiare, né ringraziò per quel dono, preannuncio, secondo
una vecchia credenza popolare, di lacrime e tristezza nella sua vita futura.
La sarta iniziò a
girarle intorno, sfiorando il vestito e illustrandone gli eleganti dettagli
alla moglie del signor Gennaro e alla futura suocera – la cui presenza Sarah
aveva accettato per non dispiacere Matteo –, compiacendosi dell’ottimo lavoro
svolto per “’a guagliona cchiùbell
’ro rion[2]”.
“A me sembra tutto molto
eccessivo”, intervenne donna Filomena con un tono di sufficienza, riferendosi
all’intera organizzazione del matrimonio. Come al solito, la futura suocera non
si era trattenuta nell’esprimere un giudizio negativo che la signora Carmela
subito contraddisse, affermando un po’ altera: “La cerimonia in Cattedrale
richiede un abito come questo.”
La sarta trovò un buon
pretesto per continuare a pavoneggiarsi per l’abito confezionato, mentre Hannah
fissava l’amica con sguardo sognante, senza accorgersi della tristezza che
incupiva i suoi lineamenti. A nessuno sembrava importare e la solitudine, di
nuovo, strinse in una morsa il cuore di Sarah che tentò di liberarsi,
aggrappandosi inconsciamente ai ricordi d’amore di cui Matteo non faceva parte.
“Ma certo! Infatti,
avrebbe potuto scegliere di sposarsi nella Chiesa della Beata Vergine del
Carmelo, come le avevo suggerito io”, insisté donna Filomena, facendo
inalberare la moglie del signor Gennaro che ribatté: “Siete forse impazzita, ’onnaFilumè[3]?! Quella chiesa è
ancora danneggiata dai bombardamenti.”
Il battibeccare delle
due donne e le parole di compiacimento della sarta iniziarono ad arrivare alle
orecchie di Sarah come un suono fastidioso, poi lontano e sempre più
indecifrabile e fu pervasa da un’ansiosa voglia di fuggire da lì, mentre gli
occhi che pizzicavano di lacrime trattenute le si aprivano a verità che, fino a
quel momento, aveva finto di non vedere sulla famiglia di Matteo e su di sé.
Desiderò spogliarsi del
candido abito per vestire la scura divisa da cameriera e la cintura
dell’abbraccio sicuro di Hermann che, da dietro, le cingeva la vita,
sussurrandole all’orecchio parole rassicuranti. E il desiderio si rifletté
nello specchio come proiezione di un momento già vissuto, portando via voci e
immagini della realtà circostante, ma, subito dopo, Sarah tornò in sé e nel
presente. Scosse e chinò la testa.
Aveva bisogno di parlare
con qualcuno che, conoscendo il suo vissuto e giustificando le sue scelte,
potesse aiutarla a comprendere il suo stato d’animo e affrontare i fantasmi del
suo passato. E chi altro meglio di Davide sarebbe stato capace di farlo?
“E
i venti del cuore soffiano
e
gli angeli poi ci abbandonano
con
la voglia di volti e di parole,
seguendo
fantasmi d’amore,
i
nostri fantasmi d’amore.”
Fiorella
Mannoia, I venti del cuore
[1]Molto
in voga negli anni ’20, il Juliet cap veil era composto da un berretto che fasciava
il capo della sposa come una cloche da cui partiva un lungo velo.
Capitolo 37 *** Quando le farfalle smetteranno di librare ***
Nella foto, dal set del film “Il club del libro e
della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in
luna di miele a Ischia.
Capitolo 37
Quando le farfalle smetteranno di librare
“Tua moglie, una conchiglia di mistero, donna che si
difende alle parole, come Petrarca ne farei una dea.
È donna che ricerca smarrimenti che cerca un’acqua
torbida di morte per poi ridiventare sirenetta.
Hai mai capito tu quelle ali unite di troppo maneggevole
farfalla che vorrebbe volare oltre i momenti di questa terra gonfia di
confini?”
Alda Merini, Tua moglie, una conchiglia di mistero
Gli
occhi di Sarah si erano aperti e, improvvisamente, aveva compreso il reale
motivo di così tanto astio nei suoi riguardi. L’ostilità della famiglia di
Matteo, che si esprimeva in un continuo disappunto, non era generata dalle sue
origini ebraiche e da un loro possibile, recondito sentimento fascista né dalla
vergogna per le chiacchiere di paese sul presunto matrimonio riparatore, ma dal
rifiuto a lasciar andare il loro primogenito, fonte di sostentamento economico
per i figli più piccoli.
La
delusione, frutto dell’acquisita consapevolezza, strinse alla gola un nodo di
rabbia che si sciolse in parole di provocazione indirizzate alla futura suocera
che, materialista, avrebbe voluto per lei un austero matrimonio di dopoguerra.
Ricacciò indietro le lacrime e, ostentando un’aria fiera e altera, si rivolse
alla sarta, dicendo: “Se il ricevimento finirà più tardi, avrò freddo e mi
servirà una stola di pelliccia. Riuscirete a procurarmela in tempo?” E non
aveva esitato al pensiero di dover dare in pegno un cimelio di famiglia per
permettersela.
La
sua dispendiosa richiesta zittì il parlottio delle donne e riportò Hannah alla
realtà. Sul volto di tutte, attraverso lo specchio, vide disegnarsi
un’espressione di stupore e, mentre donna Filomena, profondamente contrariata,
torceva il naso, i propri lineamenti si contorsero in un ghigno soddisfatto che
non le apparteneva. Ne ebbe quasi paura.
“Cara
figlia, avresti potuto dirmelo prima”, ribatté la sarta in un tono misto di
biasimo e sconforto, temendo di non riuscire ad accontentarla, “ma farò tutto
il possibile.” Sorrise per nascondere la sua preoccupazione e rassicurarla,
mentre Sarah preferì vedere riflettersi allo specchio l’ombra della tristezza
nei propri occhi, anziché il velo di cattiveria che le deturpava il viso, il
cuore.
Non
era più sicura di voler sposare Matteo e sapeva di non poter attribuire
l’intera colpa al rapporto conflittuale con la sua famiglia, poiché c’erano di
mezzo il fantasma dell’altro e il ricordo di un amore passato, ma che lontano
dal cuore non era.
“Gennaro
mi ha proposto di suonare nel suo caffè”, la informò Davide, camminando con lo
sguardo chino per ammirare le decorazioni in mosaico di anfore, pesci e
cavallucci marini che ornavano la pavimentazione di quel tratto del lungomare,
“credo che rimarrò qui per qualche mese, poi farò ritorno a Bologna.”
Sarah
lo guardò volgere gli occhi al panorama serale del Golfo di Napoli e
dischiudere le labbra a un lieve sospiro malinconico e, mentre lei, palpitante,
cercava le parole giuste per confidargli i dubbi e la verità del suo cuore, fu
lui per primo a confessare il proprio tormento, dicendole: “Questo posto sarebbe
perfetto per ricominciare, ma lì ho tutto ciò che mi resta di mia figlia e
della mia famiglia.” Si riferiva alle spoglie mortali della sua amata figliola.
Fermarono
il loro lento incedere vicino alla ringhiera del lungomare e Davide,
poggiandovi i gomiti, guardò le onde del mare portare a riva il ricordo di una
giornata estiva sulla Riviera Romagnola a costruire castelli di sabbia con la
sua piccola Rosa, sotto lo sguardo sereno e divertito di Maria che, seduta al
riparo dell’ombrellone, li osservava dietro il suo ampio cappello di paglia. Si
rivide, come la scena di un film in bianco e nero, mentre ricambiava il sorriso
a sua moglie.
Con
le braccia penzoloni fuori dalla ringhiera, giunse le mani e, rivolgendole un
abbozzo di sorriso pregno di rassicurazione, introdusse il discorso: “Ma dimmi,
Sarah, di cosa volevi parlarmi?”
Sarah
sospirò tristemente e, voltatasi a braccia conserte, poggiò la schiena al
parapetto, con forza, tanto da avvertirne il colpo. Fuggì lo sguardo di Davide
per meglio trovare il coraggio di parlargli. “Mancano pochi giorni al
matrimonio e non sono più sicura di voler fare davvero questo passo.”
“Il
matrimonio è un passo importante. Fra qualche giorno prometterai davanti a Dio
di condividere per sempre la tua vita con l’uomo che ami”, ribatté e il suo
sorriso fu da Sarah accolto, ma non ricambiato. “Il matrimonio rappresenta lo
spartiacque nella vita di una persona, c’è un prima e un dopo e i dubbi che ti
assalgono in questo periodo sono frutto di un cambiamento che senti già avvenire
dentro di te e nella coppia”, affermò, pur sapendo che quei «dubbi», in realtà,
avessero il nome dell’ufficiale nazista che aveva condannato la sua amata
moglie a divenire cenere e anima effuse nel cielo grigio di Auschwitz. Si
sforzò a non indurire il volto.
“è proprio la possibilità di un
cambiamento che mi preoccupa. Matteo non ha una personalità forte e, quando le
farfalle nello stomaco smetteranno di librare, potrebbe essere influenzato
dalla sua famiglia contro di me. Ma c’è dell’altro”, fece una pausa e un altro
sospiro, distogliendo lo sguardo da Davide per indirizzarlo al cielo terso
della sera, dove forse lui era a scontare le colpe in uno dei meandri
brucianti, “metà del mio cuore appartiene a un altro uomo.”
Conoscendo
già la verità, Davide non si scompose né permise al risentimento verso il
tenente di accompagnare le sue parole. “Se non sei pienamente convinta su
Matteo, prenditi del tempo e non avere paura di rinviare le nozze. La gente
troverà sempre un pretesto per sparlare. Ma non permettere che sia un ricordo
idealizzato a condizionare le tue scelte e a relegarti a una vita
d’infelicità”, le disse in tono paterno, fermo e, allo stesso tempo, pacato,
“parlarne con Matteo potrebbe essere «la prova del nove» per comprendere se è
lui l’uomo giusto per te.”
Improvvisamente,
Sarah proruppe in un pianto convulso e, dimenticando le volte in cui ci aveva
già provato, disperata, dichiarò: “Non ce la faccio.”
“Sì
che ce la fai”, la incoraggiò, stringendola paternamente in un abbraccio che le
malelingue del paese non tardarono a infamare, “sei molto più forte di quello
che credi.” E, dietro i capelli, le parole sussurrate all’orecchio furono
equivocate per il gesto di un bacio.
Sarah
conosceva il sentimento della gelosia. In un’afosa mattina di luglio, lo aveva
visto dardeggiare negli occhi verdi di Hermann; lo aveva sentito far male per
le sue dita impresse a stringerle un braccio e strattonarla nella baracca; lo
aveva amato, eguagliandolo a un tenero istinto di protezione che, al calar di quel
giorno, l’aveva indotta a liberare le recondite fantasie dell’amore.
Ma
ciò che vide negli occhi di Matteo non era il fuoco della gelosia e nemmeno ne
avvertì l’impeto in una tirata di capelli, reazione inaspettata e improvvisa
scaturita dalla paura del giudizio altrui.
A
causa dello strattone e per lo sconcerto, Sarah lasciò cadere in terra al
porticato della loro casa gli ultimi capi di biancheria da sistemare e la
volontà di aprirgli il cuore sul suo passato.
“Ti brucerai, piccola stella senza cielo.
Ti mostrerai, ci incanteremo mentre scoppi in volo.
Ti scioglierai dietro una scia, un soffio, un velo.
Ti staccherai perché ti tiene su soltanto un filo, lo
sai.”
“Mai in vita mia dimenticherò la tua presenza. Tu mi
hai presa quando ero spezzata e mi hai riparata. Su questa terra troppo piccola
dove potrei mai voltare il mio sguardo?”
Frida
Immagine dal film “Il club del libro e della torta di
bucce di patata di Guernsey”
“Dove
sei stata?” le domandò Matteo, dandosi un tono autoritario e recitando
malamente una parte che qualcun altro gli aveva imposto.
Sarah
si portò una mano alla testa e, aggiustandosi il fermaglietto argentato che
adornava su un lato i capelli, prese del tempo per regolare i battiti del cuore
e quietare il turbamento dell’animo che, altrimenti, le avrebbe spezzato la
voce e mozzato il respiro, mentre diceva: “Al lavoro e dopo mi sono fermata a
parlare con Davide del matrimonio.”
“Abbracciati?”
Un tremolio nella voce tradì il suo ostentato atteggiamento pungente e
inquisitorio che Sarah capì subito essere frutto dell’assillo di parenti e
amici e, con un tono inasprito da tale consapevolezza, rispose: “Davide potrebbe
essere mio padre.”
“è un uomo ed è un’offesa al mio onore
farti vedere dalla gente in atteggiamenti compromettenti e neanche mi piace la
tua decisione di continuare a lavorare dopo il matrimonio.” In un crescendo
d’impetuosità, visibilmente forzata, le parole di Matteo avevano il suono di
catene legate ai polsi e il sapore amaro di una delusione che riempì i suoi
occhi di lacrime e spezzò la sua flebile voce in singulti.
“La
cosa che più mi rattrista è che tutto questo ragionamento non è farina del tuo
sacco”, prese a dirgli, mentre lui, tornato in sé, aveva già capito la gravità
dell’errore commesso, dando scioccamente retta ai consigli di chi lo aveva
esortato a comportarsi da uomo. “Chi ti ha suggerito di maltrattarmi e di
parlarmi così? Tua madre? Il tuo compare?” proseguì Sarah in tono alterato,
provocatoria e lo sguardo gli si inumidì per il timore di perderla. “Io ho
bisogno di un uomo che sappia ragionare con la propria testa.”
Sulle
ultime parole, si sfilò dal dito l’anello di fidanzamento e, lanciandoglielo
contro, fece della paura di Matteo una realtà, devastante per entrambi. “è finita”, gli disse in un impeto
d’ira, senza tuttavia crederci troppo e, voltandogli le spalle, si preparò a
fuggire dal suo sogno spezzato.
I
piedi di Matteo si cementarono in terra al porticato e le parole di scusa gli
morirono in gola, dalla quale uscì soltanto flebile il suo nome. “Sarah”, la
chiamò, tendendo la mano come a implorarla di tornare indietro, ma lei era già
lontana.
Alle
sue spalle, nessun forsennato inseguimento, nessuna parola urlata al vento che
tentasse di persuaderla a restare e, quando ebbe varcato e sbattuto la porta di
casa, appoggiandovi bruscamente la schiena, la delusione dell’abbandono lasciò
il posto al senso di colpa e alla paura della solitudine. Prese fiato,
guardandosi attorno. Le luci spente indicavano l’assenza di una spalla amica su
cui piangere, ma del resto Hannah non l’avrebbe nemmeno capita, pensò.
Si
sentì soffocare tra le mura di una casa vuota e stringere il cuore nella morsa
del pentimento per l’errore che credeva aver commesso. E fu l’ultimo frammento
di orgoglio rimastole a impedire al suo bisogno d’amore, mascherato dal
desiderio di amare, di ritornare subito da Matteo e chiedere, anziché offrire,
un perdono.
Campo
di Fossoli, 23 febbraio 1944
~
Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~
Sarah
chiuse la porta dietro di sé e, appoggiandovi contro le spalle, si fermò a
guardare l’interno della baracca, dove non vi era più nessuno. Nessuna voce
pregna di disperata speranza, nessuna risata di ingenua fanciullezza e il
motivetto allegro che aveva in testa dal risveglio mattutino lasciò il posto al
suono triste del silenzio. Nessuna piccola anima di cui prendersi cura, nessun
cuore saggio a cui raccontare la nascita di un sentimento amoroso che, forse,
Maria non avrebbe neanche appoggiato e, davanti alla prospettiva del vuoto, le
farfalle che libravano nello stomaco per il primo bacio chiusero le loro ali.
Altre
persone sarebbero arrivate, intrecciando storie di vita e destini, poi mandate
via e il senso di solitudine che iniziava ad attanagliarla non generò
sconforto, bensì un’incalzante, soffocante voglia di tornare tra le braccia di
Hermann. E visse con tormento le ore che la separavano dalla fine del giorno,
reso ancor più lungo dal peggioramento del dolore al braccio.
“Cos’hai?
Sei pallida.” A Hermann non era sfuggita l’espressione sofferente di Sarah che
aveva spento il colorito della sua pelle olivastra. La divisa scura da
cameriera e le ciocche dei capelli neri, sfuggite da un più morbido chignon,
facevano sembrare il suo viso ancor più cereo. Preoccupato, inarcò un
sopracciglio, mentre la guardava reggersi il braccio contuso e sedette sul
letto accanto a lei.
Adesso
che lo aveva di fianco, in camicia e bretelle, disinvoltamente seduto con una
gamba piegata sotto l’altra, il dolore le impediva di concentrarsi sulla sua
agognata presenza. “Mi fa troppo male”, rispose con la voce spezzata da un
brivido di freddo, reso visibile dall’improvviso tremolio del corpo.
“Hai
fatto qualche sforzo?” incalzò e l’accento grave non tradì il suo tono
apprensivo.
Sarah
dissentì, scuotendo lievemente la testa, con occhi persi da bambina, stanca e
febbricitante ed Hermann riprese, dicendo: “Quel medico non mi piace. Fa’
vedere a me.” Per renderle più convincenti, accompagnò tali parole con un
movimento della mano verso di sé. “Non sarò un dottore, ma molte cose le ho
imparate sulla mia pelle.”
Si
sforzò di non deviare lo sguardo su quanto traspariva dalla sottoveste bianca,
mentre Sarah, toltasi con il suo aiuto la camicetta, mostrava un braccio gonfio
e bluastro a causa dell’eccessiva compressione del bendaggio. Lo aveva
immaginato.
“La
fasciatura è troppo stretta”, le disse serio e, con espressione concentrata,
iniziò a sciogliere il bendaggio, “ti sta bloccando la circolazione del
sangue.”
Seguirono
attimi di silenzio, di parole dette con gli sguardi. Gli occhi di Sarah si
chinarono sulle dita ben curate di Hermann, intente a toglierle con delicatezza
le bende, per poi sollevarsi alle sue ciglia chiare e incrociarne lo sguardo
velato da un’ombra di dispiacere. Si sentì confortata dall’empatia che seppe
cogliere nel verde dei suoi occhi e lo guardò con gratitudine.
Lentamente,
un bacio umido si posò sul braccio contuso a lenire il dolore e una carezza del
pollice sulla guancia livida fu medicina alla ferita dell’anima. Un senso di
protezione s’effuse dallo sguardo, adesso, amorevole di Hermann e Sarah si
lasciò andare, appoggiando la testa sulla sua spalla, una mano sul suo cuore.
Le braccia forti che dolcemente la cinsero, attente a non stringerla troppo,
empirono il vuoto di entrambi.
Napoli,
ottobre 1946
Il
paese ancora dormiva, quando lei uscì alle prime timide luci dell’alba, diretta
verso la banchina. Seduta sui gradini della loro casa, avrebbe atteso Matteo al
ritorno dalla pesca e, vedendolo attraccare al molo la barca, con un balzo, si
sarebbe alzata per corrergli incontro. Temeva che non l’avrebbe perdonata.
Invece,
da lontano, vide lui sui gradini del portico, seduto con la testa tra le
ginocchia. Aveva vegliato tutta la notte sulle ceneri del loro amore, aveva
pianto tutte le lacrime, sue e quelle da Sarah trattenute, girando e rigirando
tra le dita l’anello di fidanzamento.
La
sua figura rannicchiata incarnava la disperazione dell’abbandono e Sarah si
sentì ancora più in colpa. Rallentò i celeri passi e, avvicinatasi senza che
lui se ne accorgesse, gli sedette accanto.
Allo
scricchiolio del legno, Matteo sussultò e, vedendola dietro il velo di lacrime
e torpore, pronunciò debolmente il suo nome. “Mi dispiace, Sarah”, proseguì con
enfasi sempre più incalzante di rammarico, “non so cosa mi sia preso. Scusami,
sono un idiota.” Concluse, passandosi le mani fra i capelli ricci e tirandoli
un po’, come a volerseli strappare.
Sarah
gli pose le punte delle dita sul braccio, poi salì lentamente più su,
appoggiandogli il palmo sul dorso della mano per confortarlo, per farsi
confortare.
Intrecciò
le dita alle sue e, guidando la sua mano verso il proprio viso, gli disse:
“Scusami tu, non volevo metterti in ridicolo davanti alla gente né parlarti in
quel modo”, fece una pausa e lasciò scivolare la testa sulla sua spalla, “ho
riflettuto e credo che smetterò di lavorare, quando avremo un figlio.”
Senza
che lui glielo chiedesse esplicitamente, sottomise se
stessa e la propria volontà a un compromesso per timore di perderlo.
“Perché
vuoi ancora sposarmi, vero?” La paura traspariva chiaramente dalla voce
tremolante, spezzata e gli occhi di Sarah, tristi e socchiusi, non riuscirono
ad aggrapparsi a quelli di Matteo, stanchi e vaganti nel vuoto. Qualcosa si era
spezzato ed entrambi lo sapevano, pur ignorandolo.
“Certo”,
le rispose con un sospiro liberatorio. “Certo che lo voglio.” Ribadì più
determinato, abbracciandola e posandole un lieve bacio sulla testa.
E
Sarah si aggrappò a lui con tutte le forze, premendo il viso contro il suo
petto e stringendogli la camicia, disperatamente grata per quel vuoto d’amore
che credeva potesse Matteo colmare.
“Per
pesare il cuore con entrambe le mani
ci
vuole coraggio e occhi bendati,
su
un cielo girato di spalle.
La
pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto
(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata
alla moglie Lucia Morpurgo)
Immagine dal web della Cattedrale di Castellammare di
Stabia, comune della provincia di Napoli, dov’è ambientata la storia.
6
novembre 1946
Un
tiepido raggio di sole si posò sul suo viso coperto dal velo e abbassò le sue
lunghe ciglia finemente truccate. Fermò per un attimo lo sguardo sulla punta
della sua scarpa Mary Jane in satin bianco, mentre si accingeva a salire il
primo gradino dell’ampia scalinata in piperno di Soccavo della Cattedrale. Poi
alzò gli occhi al parapetto della facciata, dove l’orologio con le due piccole
campane segnava le undici. Era stata fin troppo puntuale.
Si
aggrappò più saldamente al braccio sinistro di Davide e questi pose la mano
destra sulla sua, in segno di maggior vicinanza e premuroso sostegno alle sue
emozioni. Sarah fece un bel respiro per liberarsi della tensione e gli dedicò
un largo sorriso che, voltatasi indietro, divenne un riso di gioia, incrociando
lo sguardo attento e commosso di Hannah, elegante nel suo abito in velluto
color verde scuro, china sui gradini a distenderle per bene il leggero
strascico del vestito. Era pronta a incamminarsi verso la realizzazione del suo
sogno.
Con
espressione più decisa, raddrizzò la postura delle spalle e fissò lo sguardo
verso l’arco centrale incastonato nelle due colonne capitellate
che, a breve, avrebbe solennemente attraversato. Il cuore le batté forte come
un tamburo, la mente si perse nella realtà della favola sognata da bambina e
lei entrò come in una bolla di candida luce, quando, salendo i gradini più in
alto, iniziò a vedere la sagoma in abito scuro del suo promesso sposo ad
attenderla davanti all’altare maggiore.
Salendo
un ultimo gradino, varcò la soglia della Cattedrale e, con maestosità e
potenza, l’organo a canne intonò la marcia nuziale di Mendelssohn. E Sarah
avanzò, camminando elegantemente, a passi lenti e sicuri, sulla lucida
pavimentazione in marmi bianchi e grigi dalla forma ottagonale e quadrata della
navata centrale. Tra gli sguardi di commossa ammirazione – e, purtroppo, anche
dardeggianti d’invidia che, per fortuna, lei non colse –, avvertì la presenza
visibile dei suoi affetti perduti e sorrise ai volti felici di sua madre e di suo
fratello Samuel, di Maria con in braccio il piccolo Giulio e di Agnese
affiancata dagli altri bambini.
E
Matteo era impeccabile nel suo smoking midnight blue
con fusciacca e papillon di raso, con i capelli più corti e ben pettinati
all’indietro, le labbra sorridenti e lo sguardo incantato verso la sua futura
sposa. Completamente perso nella meravigliosa visione vestita di bianco,
neanche si era accorto dell’avvicinarsi di Davide per stringergli la mano.
“L’affido
a te come mia figlia. Abbi cura di lei”, gli sussurrò all’orecchio, salutandolo
con due baci sulle guance e una leggera pacca sulla spalla e Matteo rispose,
annuendo con vigoroso entusiasmo.
Davide
si rivolse poi verso Sarah e, dietro a un’espressione seria, nascose la sua
profonda commozione, mentre, con un gesto delicato, le sollevava il velo.
Prendendole il viso tra le mani, la baciò sulla fronte e, quando la giovane
alzò la testa e lo sguardo, vide in lui le fattezze dell’uomo che l’aveva messa
al mondo e una lacrima guizzò veloce da un occhio a rigarle la guancia, a
liberarle il cuore dalla mancanza di suo padre. E fu Matteo ad asciugargliela
con un lieve bacio, sigillo del giuramento che, a breve, avrebbero pronunciato
dinanzi a Dio, sprovveduti e innamorati.
Raggiunti
l’inginocchiatoio e le sedute a loro riservati, l’organo iniziò a suonare l’Ave
Maria di Bach-Gounod e i testimoni di nozze, Gennaro e Carmela, tamponarono già
coi fazzoletti le prime lacrimucce.
Il
commovente sottofondo musicale, il suggestivo ambiente della Cattedrale, le
difficoltà del passato che facevano sembrare la realtà del presente e la
prospettiva del futuro un sogno idillico amplificavano le emozioni dei futuri
sposi e, quando l’anziano sacerdote si volse verso i fedeli per celebrare il
rito del matrimonio, per un attimo, Sarah rivide don Franco come ricordo sereno
delle tante volte che da ragazzina, durante le Messe domenicali, dall’alto
della cantoria, lo aveva immaginato presiedere le proprie nozze e sentì la sua
benedizione.
Esortati
dal sacerdote a darsi la mano destra, gli sposi espressero il loro consenso
davanti a Dio e alla Chiesa, inibiti dalla forte emozione, dagli sguardi
insistenti e commossi degli invitati, dalle lacrime e dai sorrisi da
trattenere.
“Io,
Matteo, prendo te, Sarah, come mia legittima sposa e prometto di esserti fedele
sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e
onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”
Il
tremore scuoteva le dita delle loro mani unite, spezzava la voce flebile di
entrambi.
“Io,
Sarah, prendo te, Matteo, come mio legittimo sposo e prometto di esserti fedele
sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e
onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”
L’anziano
sacerdote benedisse e consegnò gli anelli che Matteo e Sarah si scambiarono,
divenendo marito e moglie.
Una
pioggia di riso e di petali bianchi – quest’ultimi idea di Hannah, condivisa da
Davide – e un lungo applauso accompagnarono l’uscita degli sposi dalla
Cattedrale e i sorrisi poterono finalmente esplodere in risa, assieme alle
lacrime di gioia che Sarah e Matteo nascosero agli invitati festanti,
proteggendosi scherzosamente l’un l’altro dal lancio piuttosto fastidioso dei
chicchi.
Strada
Panoramica, Trattoria “La terrazza”
Avrebbe
voluto più tempo per loro, stare abbracciata al suo sposo e godersi dal
terrazzo il panorama, nonostante l’aria pungente dell’autunno. Avrebbe voluto
una musica diversa dal classico repertorio napoletano, come le canzoni in stile
jazz e swing del Quartetto Cetra. Avrebbe voluto un comportamento più sobrio da
parte degli invitati di Matteo il quale, adesso, sedeva un po’ brillo al tavolo
dei suoi amici ubriachi già da un pezzo e, sbracato, scherzava con loro, senza
più fusciacca né papillon né tantomeno la giacca, con i capelli di nuovo ricci
e scompigliati.
Il
sorriso non colorava più il viso di Sarah che si era allontanata dai discorsi
di Davide e Hannah sulla musica contemporanea al pianoforte, strumento che la
ragazza aveva smesso di studiare con l’avvento delle leggi razziali fasciste.
L’uomo si era proposto di darle qualche lezione e lei, da quel momento, aveva
iniziato a volergli bene e non come gliene voleva la sua amica.
A
braccia conserte, Sarah guardava Matteo, ma lui non si accorgeva del suo
sguardo imbronciato e malinconico, attraverso la nuvola di fumo prodotta dalle
sigarette dei commensali chiassosi e dietro lo sporadico passaggio di coppie
danzanti al ritmo della canzone “Funiculìfuniculà”.
Sentendosi
trascurata e desiderosa di attenzione, nel giorno in cui la sposa avrebbe
dovuto essere la protagonista assoluta, decise di non aspettare la fine del
ricevimento per il lancio del bouquet e afferrò dal tavolo i suoi fiori d’arancio,
mentre si alzava risolutamente dalla sedia.
Ostentando
un sorriso gioviale e un atteggiamento più sereno, chiamò Hannah,
interrompendole il dialogo con Davide. Subito, seria ed entusiasta, la sua
amica si adoperò per organizzare l’emozionante momento, chiedendo
all’orchestrina una musica d’atmosfera e radunando le ragazze nubili alle
spalle di Sarah che, sbirciando all’indietro, prese bene la mira, affinché
fosse lei a ricevere il bouquet. E così avvenne.
Rise
di gusto, felice per la gioia che aveva saputo donare a quella che considerava
una sorella acquisita e si apprestò a unirsi all’abbraccio delle ragazze che
avevano circondato euforicamente Hannah. Ma, prima che potesse compiere il
primo passo verso di lei, il rumore di due colpi secchi, di due pugni sbattuti
su una tavola imbandita la fece voltare. Vide allora il compare di Matteo,
sedutogli accanto, che, alzatosi barcollante, diede un altro pugno, il terzo,
sul tavolo. Le vettovaglie sobbalzarono di nuovo, tintinnando e facendo, con il
loro suono, da preludio a un inno fascista.
“Faccetta
nera, sarai romana e pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana.” Con voce rotta
dall’ubriachezza e ostentando un timbro da tenore, l’uomo non ci mise molto a
coinvolgere nel suo lucido delirio i giovani commensali, fatta esclusione di
Matteo che se ne stava inerte e serafico. “Noi marceremo insieme a te e
sfileremo avanti al duce e avanti al re. Noi marceremo insieme a te e sfileremo
avanti al duce e avanti al re!”
Gli
occhi di Sarah si velarono di lacrime e le sue spalle s’irrigidirono, all’udire
gli ultimi versi di quell’inno pregno di razzismo e sessismo che, decantando il
colonialismo italiano fascista nell’Africa orientale, le rievocava
discriminazioni e persecuzione subite per mano della dittatura nazifascista.
Le
risate sguaiate e l’animato chiacchierio degli invitati e la musica
dell’orchestrina – adesso, alle prese con l’interpretazione della “Tarantella
Luciana” – iniziarono ad arrivare alle sue orecchie come un suono ovattato e
sempre più lontano e il ricordo dei suoi affetti perduti tornò a essere avvolto
dall’ombra dell’angoscia per la loro prematura, indubbiamente terribile morte.
Per
un attimo, indirizzò lo sguardo ad Hannah, assicurandosi che non avesse udito
l’allegro e vergognoso coretto fascista e, fortunatamente, la vide ancora tutta
presa dalla sghignazzante euforia che la circondava; poi i suoi occhi furono
verso Matteo, nella speranza che reagisse in favore dei valori che li
accomunavano, in suo favore, conoscendone i patimenti sofferti a causa del
regime. Sentendosi osservato, il giovane le rivolse lo sguardo e, senza neppure
accorgersi del suo malessere, non lo trattenne su di lei, distratto dallo
strattone di un amico, la cui battuta gli aprì le labbra a una risata.
Preoccupata
come per la sua amica, Sarah si guardò attorno, alla ricerca di Davide,
trovandolo all’impiedi, scattato forse per
intervenire, forse per lo sconcerto e i loro occhi si incontrarono in un
profondo ed empatico dialogo. Pian piano, la musica sembrò svanire e la realtà
che li accerchiava – fatta di persone che brindavano, scherzavano, cantavano e
ballavano – divenire una sequenza d’immagini sfocate. E furono l’uno lo
specchio dell’altra, mentre entrambi trattenevano le stesse lacrime.
Nello
sguardo di Davide, Sarah vide riflessi i propri sentimenti di delusione,
amarezza, rabbia, disperazione, paura, sconfitta e sparì dalla sua visuale, al
passaggio di coppie ridenti e danzanti. Era scappata via.
“E ho capito che non serve il tempo alle ferite,
che sono sempre meno le persone unite,
che non esiste azione senza conseguenza.
Chi ha torto e chi ha ragione quando un bambino muore?
E allora stiamo ancora zitti che così ci preferiscono,
“Siamo stati vaccinati fortemente da vent’anni di
fascismo e prima ancora da società molto chiuse. [...] La patria ha dato tante
delusioni.”
Piero Angela
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Correvano
i piedi, avvolti nelle candide scarpe, correvano i pensieri, lungo la strada
che, in leggera discesa, conduceva al mare. Correva Sarah, reggendosi lo
strascico con una mano chiusa a pugno, piangendo lacrime asciutte, mentre
tentava di ricacciare dagli occhi della mente le facce paonazze per l’ebrezza
di vino, il labiale sguaiato degli amici di Matteo che intonavano “Faccetta
nera”, il suo sorriso imperturbabile, il suo sguardo disattento e noncurante
verso di lei. Correva Sarah, senza aver fissato una meta precisa, con un tacco
dondolante e l’abito sgualcito, il cuore a pezzi.
Non
era intervenuto Matteo, non aveva impedito che i ricordi tornassero, mediante
l’eco di note stonate, nelle vesti del rimorso per i gesti mancati, per le
parole non dette.Di nuovo, la tormentò il pensiero di non
essersi abbandonata nell’ultimo abbraccio dei suoi genitori e di non aver dato
a suo fratello l’addio, né detto un grazie a don Franco per averla protetta e
nascosta insieme ai bambini, sacrificando la vita fino al martirio ad
Auschwitz, la cui atroce realtà aveva taciuto ai suoi piccoli amici che mai
sarebbero diventati adulti, alimentando in loro false speranze con il silenzio
e le bugie. Troppo poco aveva ringraziato Maria e mai avrebbe potuto ricambiare
l’affetto dimostratole, fino a mantenere, in Davide, la sua promessa.
Correva
Sarah, passando disorientata accanto alle pareti scoscese della collina boscosa
che sovrastava il mare, come quando, trascinata dai partigiani, percorse tra la
fitta boscaglia fuori dal Dulag 152 di Fossoli i
primi celeri passi di una libertà malaccetta, perché era sola, lontana dal suo
amato. Era stata lei a lasciarlo, privo di sensi, prono sul terreno innevato,
senza avergli ricambiato l’ultimo bacio. Neanche un ti amo si eran detti tra gli aneliti dell’amore, mentre i loro corpi
si univano per l’ultima volta, prima che la notte si empisse del frastuono di
spari e urla, del fiotto di sangue e lacrime. Non era riuscita a salvargli la
coscienza dall’ideologia nazista, né la vita dalla prigionia sovietica e
neppure un pensiero gli aveva rivolto nel giorno del suo matrimonio.
Correva
Sarah, fin quando non si ritrovò, scalza e affannata, in riva alla spiaggetta –
che Matteo le aveva fatto scoprire, vivendo assieme i più bei momenti, dapprima
di amicizia, seduti sugli umidi ciottoli, poi d’intimità, nascosti tra gli
scogli – e, di nuovo, fissando il tenue ondeggiare delle acque del mare, la
pervasero pensieri di morte.
Berlino
La
sua salute sembrava deteriorarsi giorno dopo giorno. La febbre persisteva,
mentre aumentavano la tosse e l’affanno. Alternando momenti di disperazione, ad
altri di speranza, Hermann restava saldamente aggrappato alla vita, forte del
pensiero che, prima o poi, avrebbe ritrovato la sua amata.
“Non
lasciarmi morire”, sussurrò col fiato corto, rivolgendosi a sua madre e
afferrandole la mano posata sul letto, affamato d’aria e bisognoso del conforto
di un contatto umano. Era uno di quei momenti in cui pensava di non farcela.
Figlia
di un colonnello, comandante del reggimento di cavalleria dell’Esercito
Tedesco, severamente educata a valori nazionalisti e ideologie antisemite,
ciecamente devota al Reichskanzler[1],
più di quanto non lo fosse ancora suo marito, Birgit
ritrasse spazientita la mano e, con tono perentorio, disse: “Siamo già tutti
morti.” Si alzò di scatto e, riferendosi al Führer, aggiunse: “Con lui.”
Di
suo figlio – che, con la stessa caparbietà che lo aveva trattenuto nel suo
grembo oltre il termine della gravidanza, rifiutandosi di venire alla luce, si
ostinava a non lasciare questo mondo – faticava a prendersi cura, facendolo
soltanto per ubbidire al volere di suo marito e, adesso, una nuova cicatrice le
aveva impresso, più in alto a quella sul ventre, invisibile, sul cuore a
ricordarle la denazificazione della Germania, la fine di un mondo in cui lei
desiderava ancora vivere – a volte, immaginandolo.
“Basta,
basta”, si lamentò Hermann, girando la testa sul cuscino a destra e a sinistra,
con gli occhi strettamente chiusi, per liberarsi del fantasma di se stesso che vedeva riflesso nella presenza di sua madre.
Pensò
che non poteva essere morto, se ancora riusciva a
immaginare un finale diverso per quella notte di dicembre in cui la neve bianca
si tinse di rosso sangue, vaneggiando di essersi spogliato della divisa nazista
per indossare i panni dell’eroe agli occhi del mondo che sarebbe sorto dopo la
guerra, agli occhi della sua amata e fuggire mano nella mano con lei tra la
boscaglia di Gonzaga. Gli sembrò di udire il calpestio dei loro passi veloci su
foglie e rami secchi innevati e il respiro di Sarah, affannato per la corsa,
fondersi con il proprio, ansimante a causa della polmonite.
Napoli
“Sarah!”
Sentendosi chiamare da una voce trafelata, la giovane si volse. Il suo respiro
stava tornando regolare, assieme ai battiti del cuore che, però, rimaneva
stretto in una morsa di dolore.
Di
nuovo, i loro occhi si incontrarono in quel muto ma eloquente, empatico
dialogo, poi fu lei a rompere il silenzio, dicendogli profondamente afflitta:
“Ho sbagliato tutto.” E aprì un poco le braccia, come in segno di resa,
lasciandole mollemente ricadere sull’abito bianco.
“Sei
ancora in tempo”, rispose Davide, conscio di averla accompagnata, in realtà, a
un patibolo, “e io appoggerò la tua scelta.”
Si
era pentita di aver sposato Matteo, riponendo in lui le aspettative di una vita
da sempre sognata e investendo sul matrimonio i beni di famiglia, ma rifiutava
l’idea di poterlo lasciare per rincorrere un fantasma. Hermann non c’era più e
nessuno, né Matteo né un altro uomo – con il quale, forse, sarebbe stato anche
peggio –, avrebbe potuto colmare il vuoto che le aveva lasciato nel cuore.
Sorpassando
celermente Davide, dopo aver ricambiato la sua espressione arcigna con uno
sguardo stupito, il giovane sposo, affaticato nelle ginocchia e nel respiro,
con la disinvolta inconsapevolezza della gravità di ciò che era accaduto a “La
terrazza”, le si avvicinò.
“Sarah”,
la chiamò con tono spaesato, non riuscendo a spiegarsi il perché della sua fuga
dal ricevimento e del velo di lacrime e rabbia che ricopriva i suoi bellissimi
occhi color miele e lei, ritraendosi per schivare la mano intenta a sfiorarle
un braccio, gli disse: “Non mi toccare!”
“Perché?
Cosa ho fatto?” La indispettì ancor di più l’atteggiamento puerile, esternato
con voce desolata e sguardo lucido per il rifiuto e l’ebrezza del vino, ma non
riusciva a restare indifferente al suo aspetto scanzonato di capelli ricci e
tratti meridionali; ciononostante, non stemperò l’asprezza, mentre gli
rispondeva: “Niente, niente. Non hai fatto niente. È questo il problema.”
Poi,
reggendosi il vestito con entrambe le mani, gli si fece più vicino e, con aria
di sfida, a pochi centimetri dalla sua faccia sbigottita, iniziò a cantare: “Faccetta
nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina.”
E,
mentre la sua sposa ostentava un timbro di voce maschile e greve, finalmente,
Matteo capì e le sue labbra si curvarono in un mezzo sorriso imbarazzato. “Ti
prego, Sarah”, disse, accompagnando le parole con il gesticolare, “erano
ubriachi e non sanno neanche cosa significa.”
“Ma
tu sì.” All’ostinato risentimento, il giovane sbuffò e, con espressione seria e
tono austero, ribatté: “Vent’anni sono tanti e, per molti, non è semplice
abbandonare la mentalità fascista.” Parve giustificarli. “Ma tu lo sai, lo sai
che Gennaro, il tuo caro Gennaro che consideri come un padre e ci hai anche
aperto le danze oggi”, proseguì in un crescendo di stizza, invece di
rasserenarla e far sì che le lacrime non bagnassero il suo viso impallidito per
la delusione, “lo sai che fuori al suo locale aveva un cartello grande così con
il divieto d’ingresso ai cani e agli ebrei e che era sempre in prima fila alle
adunate fasciste? Lo sai?”
Una
verità che Sarah aveva già immaginato, poiché sapeva da sempre della facciata
fascista del signor Gennaro per proteggere i suoi amici ebrei e i loro beni, ma
era stato crudele a svelargliela in quel modo e ne rimase impietrita. “Avrei
perso tutto, la casa, i soldi, il corredo e non starei qui, se non fosse stato per
lui”, biascicò, con la voce spezzata dal pianto.
La
rabbia che l’animava era scemata per la delusione e questa aveva ceduto il
passo a una profonda tristezza che la introdusse in uno stato d’inerzia. Quel
vuoto che sentiva dentro era diventato una voragine e lei sprofondò.
Alle
braccia di Matteo che le si erano gettate al collo, non si ribellò né ricambiò
la stretta e, alle sue parole di scusa – suono muto e indistinto alle orecchie
di Sarah – intervallate da singulti, non rispose, ma le accolse, cedendovi e
condannandosi.
“Poi c’era la notte. E la notte del lager è una cosa
di cui non si parla mai. E la notte del lager è invece importantissima, perché
si sentono le grida di quelli che vanno al gas, si sentono i richiami delle
mamme che non perdono i bambini, i bambini in tutte le lingue d’Europa, dei
mariti che han perso le mogli. E noi sapevamo dove andavano: era la notte.”
Liliana Segre
Immagine tratta dalla miniserie televisiva “La guerra
è finita”
Sulle
ultime parole, in difesa del signor Gennaro, d’un tratto, gli occhi di Sarah
avevano smesso di piangere, spalancandosi in un’espressione immota, come
immobile era il suo corpo avvolto nell’abito bianco, adesso, sgualcito. Con un
abbraccio, Matteo l’aveva afferrata, affinché non sprofondasse nella dimensione
di vuoto che il suo sguardo rabbuiato stava contemplando e in cui lui stesso
l’aveva spinta con parole crudeli e, prima ancora, al ricevimento, con il
proprio atteggiamento vile.
Copiose
e inarrestabili, gli sgorgavano lacrime di rimorso dagli occhi serrati e parole
di scusa dalle labbra tremanti, mentre ascoltava i battiti del suo cuore non
scandire più il ritmo dell’amore, attraverso un corpo che, tra le braccia,
percepiva quasi cedevole, a causa del male fattole. Ferendola, si era ferito,
giacché di lei ne aveva provocato l’allontanamento, più profondo di quello
fisico.
“Torna
da me, amore mio. Torna da me, ti prego”, la implorò tra i singulti e,
lentamente, le mani di Sarah si posarono sulle sue braccia. Per riaffiorare dal
buio dell’angoscia e riprendersi la speranza nel futuro, si era aggrappata
all’ultimo barlume d’amore che ancora provava per Matteo e, seppur velato di
malinconia, un luccichio di vita riapparve nei suoi occhi, quando lui le prese
dolcemente il viso tra le mani.
E dolce parve lo
sguardo che lei gli rivolse, mentre, sommessamente, rinnovava la promessa,
confermando la sua condanna: “Io non ti lascerò mai.” Più che il sentimento, fu
la rassegnazione a vibrare nelle sue parole, ma nessuno dei due se ne accorse e,
intanto, con tremore, le braccia di Sarah si aprirono per ricevere e donare
l’abbraccio. Finalmente, irreparabilmente.
Della
guerra contro l’uomo erano stati i giovani a pagare il prezzo più alto, con il
sangue versato sul campo di battaglia o sulle strade dell’insurrezione, con il
loro futuro compromesso dai traumi subiti. Da lontano, Davide aveva visto le
loro labbra scagliarsi l’uno contro l’altra in parole
di stizza, le loro mani negarsi a gesti di vicendevole cura; li aveva visti
ferirsi – a causa delle ferite inferte loro, direttamente o indirettamente,
dall’odio ideologico –, lasciarsi, senza nemmeno accorgersene, ritrovarsi,
forse, scoprendosi reciprocamente diversi nel mondo nuovo e sempre uguale.
La
scena del loro abbraccio pregno di disperata speranza lo stava riportando
laddove la sua vita si era interrotta, tra le braccia di Maria, prima che la
mano nazista li separasse nel tumultuoso momento dell’arrivo ad Auschwitz. Da
lì, privato del suo bene più prezioso, dopo la sua adorata figliola, sarebbe
iniziata una lunga battaglia interiore contro la disumanizzazione, per restare
un essere umano e, assieme al corpo da nutrire, far sopravvivere l’anima,
alimentandola con i ricordi della vita precedente fatta di valori ed emozioni.
Quella futura non sarebbe stata più la stessa, né per lui né per l’umanità
ferita e ferente.
Guardando
la sagoma della giovane coppia sullo sfondo del cielo e del mare, si era
accorto che, salvatosi dalla morte, non aveva ancora ripreso in mano la sua
vita, giacché il suo unico progetto per il futuro era quello di ritornare a
Bologna per piangere sulla lapide di Rosa. Poco più che quarantenne, non
riusciva ad abbracciare il pensiero di reinventarsi, forse, perché,
nell’inferno di Auschwitz, anche lui era un po’ morto.
“Andiamo,
amore?” All’esortazione di Matteo, pronunciata con voce e sguardo di tenerezza,
Sarah incupì gli occhi e arricciò le labbra, prima di rispondergli in un tono
quasi di sfida: “Io non ci torno lì.” Aveva perdonato lui, non i suoi amici e
temeva che Matteo volesse far ritorno al ricevimento.
Ma
lui le incorniciò di nuovo il viso tra le mani e la confortò dapprima con un
sorriso, poi dicendole risoluto: “Io non intendevo di tornare a «La terrazza»,
ma a casa nostra.” E Sarah ribatté, sorridendo tra stupore e soddisfazione al
suo inaspettato ardire, al suo voler tralasciare per lei uno schema
prestabilito, gli invitati, il cambio d’abito, il taglio della torta, la
distribuzione dei confetti, a ciò che per Matteo doveva essere un qualcosa di
folle.
E,
davanti a quel lato che sapeva non appartenergli, la giovane s’illuse che il
suo sposo potesse essere sempre così.
Mano
nella mano, li guardò allontanarsi, dimentichi della sua presenza. Una parte di
sé non condivideva la loro scelta, mentre l’altra vedeva racchiusa,
nell’intreccio delle loro mani e nel sincronismo dei loro passi, il coraggio di
dare vita al futuro. Con la forza della giovinezza, sfidavano il passato e i
suoi strascichi, resistendo a se stessi per la volontà
di far resistere il sentimento di bene che provavano l’uno verso l’altra. Col tempo, forse, avrebbero imparato anche ad
amarsi.
Davide
udì una voce che, tremolante, lo chiamava per nome e si volse verso la sua
figura tesa di mani giunte sotto il ventre a tormentarsi le dita, avvolta nell’abito
di velluto color verde scuro. Nei suoi occhi marroni, c’era quel velo di
sofferenza che lui ben conosceva e, nel suo sorriso appena abbozzato, la voglia
di ricominciare. La ragazza spostò dietro l’orecchio i capelli castani sfuggiti
dallo chignon, poi la mano tornò nella posizione iniziale.
“Hannah”,
fece con un’intonazione vagamente sorpresa e non sapeva ancora che in lei
fossero racchiusi la grinta che gli avrebbe fatto desiderare di riprendere
l’insegnamento all’accademia musicale; i sospiri e i tormenti di un amore
sbagliato per la sua morale, data la differenza d’età, che, paradossalmente, lo
avrebbero fatto sentire più vivo, di nuovo uomo nella sua completezza; la
vitalità che avrebbe moltiplicato i suoi anni.
“Si
sono chiariti?” Hannah portò le labbra segnate dal rossetto rosso sbiadito
all’interno della bocca, ma non era di Sarah e Matteo che voleva parlare.
Sentir
cantare “Faccetta nera”, pur avendo ignorato l’ebro coretto per non rovinare il
matrimonio alla sua cara amica, aveva suscitato in lei un impellente e
disperato bisogno di raccontare, per la prima volta, nella sua interezza, il
terribile vissuto a Mauthausen e di raccontarlo a
Davide.
“Sembrerebbe
di sì”, le rispose in un sospiro e incrociò le braccia, sorridendo lievemente
al loro ridere, mentre Matteo tornava indietro per raccogliere tra i ciottoli
le scarpe di Sarah.
“Davide”,
lo chiamò di nuovo e con voce più tremante, intrisa di malinconia e lui le
rivolse uno sguardo apprensivo. “Io sono pronta a raccontare”, disse tutto d’un
fiato, temendo di poter cambiare idea e, scoprendosi l’avambraccio sinistro,
gli mostrò ciò che era stata a Mauthausen.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla
soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.”
Pablo Neruda, Giochi ogni giorno
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
La
chiave girò nella toppa. La mano grande di Matteo racchiudeva quella affusolata
di Sarah per compierne assieme il gesto e varcare la soglia della nuova vita da
marito e moglie. L’impazienza correva nelle vene di lui, l’emozione pulsava nel
cuore di lei ed entrambi avevano ancora addosso l’adrenalina per esser fuggiti
dal ricevimento.
Come
da usanza, Matteo prese in braccio la sua sposa e, con un piede, aprì e
richiuse la porta. Il pavimento in legno scricchiolava sotto i suoi passi
appesantiti, seppur la giovane tra le sue braccia non fosse poi così pesante,
diretti verso la camera da letto, mentre le risate di Sarah echeggiavano tra le
pareti fresche, alcune ancora spoglie di una casa da ultimare che profumava dei
fiori di calendula dalle sfumature gialle e arancioni posti nel vaso sul tavolo
della cucina. Per terra, all’ingresso, erano già pronte le valigie per la luna
di miele a Ischia, ma non avrebbero aspettato l’arrivo sull’isola per vivere la
prima notte di nozze.
Sarah
lasciò scivolare le mani dal collo di Matteo, mentre lui l’adagiava ai piedi
del letto, ponendosi al suo fianco e poggiando il proprio peso su un lato, i
propri occhi su un corpo di donna, le cui nudità ancora celate dai candidi
abiti, fino a quel momento, aveva soltanto intravisto, sfiorato, immaginato. Senza
più remore, le dita poterono accarezzare il pendio del suo florido seno che
palpitava a ogni respiro affannoso, a ogni battito accelerato e fu bravo ad
accorgersi che, dietro il silenzio delle sue risate ammutolitesi quasi
all’improvviso, si nascondeva un’espressione stanca, triste. Trattenne la mano
e si mise a sedere e Sarah, come lui, turbata dalla propria sensazione di
malessere e disagio, lo seguì.
Si
scambiarono uno sguardo interrogativo. La giovane era intimorita dal non
comprendere cosa le stesse accadendo, ma, in quegli occhi un po’ persi che non
riuscivano a riflettersi nei suoi, Matteo vide la paura di concedersi,
riconducibile alla violenza subita, e, a sua volta, ne fu impaurito, gravato
della tensione per quella che sarebbe stata la sua prima volta.
“Aiutami
con la cerniera, ti prego”, fece Sarah a fior di labbra, dandogli lentamente le
spalle, temporeggiando e acuendo così l’imbarazzo in Matteo il quale quasi
balbettò: “Ah… Certo.”
Ma
l’ansia non poté inibirlo, quando, abbassandole con accortezza la lampo del
vestito, le toccò lievemente la pelle liscia e olivastra, contemplandone poi la
schiena dritta e aggraziata, sulla quale non ricadevano i capelli, ancor più
corti e dai riflessi color rame più accesi. Solo adesso se ne accorgeva. Capelli,
onde morbide e ribelli, che tentò di spostare su un lato del collo per
baciarglielo, ma non fece in tempo, giacché Sarah si volse e a lui non rimase
altro che imprimerle un bacio sulla rosea bocca. Bacio che la giovane non seppe
ricambiare con la stessa passione e al quale presto si sottrasse.
“Sei
ubriaco”, gli disse a mo’ di rimprovero e la sua fu più una scusa per prendere
altro tempo. Gli occhi lucidi, infatti, la contraddissero.
“Non
ho bevuto molto”, ribatté Matteo con l’espressione di un bambino che tenta di
giustificarsi per evitare il castigo, l’astinenza da lei.
“Ti
preparo una bevanda calda al limone.” Seria e risoluta, Sarah fece per alzarsi,
ma lui la trattenne per un braccio, moderando la forza della presa e il tono di
voce, mentre le diceva: “Aspetta.” Sapeva che insistere sarebbe stato un errore
e che avrebbe dovuto fare tutto il possibile per rassicurarla. “Ci penso io. Tu
rilassati e mettiti a tuo agio.”
A
tale premura, forse, Sarah non si sarebbe sentita in colpa, se solo avesse saputo
che, in un futuro molto vicino, l’indifferenza ne avrebbe preso il posto.
Rimasta
da sola e restando seduta, si sfilò il vestito, abbassandolo per le maniche e
prese a grattarsi un braccio, con le spalle curve in avanti, gli occhi e la
mente vaganti nel vuoto. A darle prurito non era stato il tessuto in pizzo che
per tutto il giorno le aveva fasciato le braccia, bensì un senso di nervosismo
scaturito dall’incomprensione del proprio turbamento.
Campo
di Fossoli, 23 febbraio 1944
~
Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~
Con
un’interiezione di dolore, Sarah ritrasse indietro le spalle e, istintivamente,
tentò di allontanargli la mano, morbida e ben curata, intenta a fasciarle il
braccio contuso.
“Un
po’ deve stringere, altrimenti non serve a nulla.” Sentire l’inflessione
apprensiva nella sua voce dall’accento tedesco le faceva sempre un certo
effetto, una sensazione dolce e amara allo stesso tempo che giungeva fin sotto
la pelle, dentro le ossa a lenirne il dolore e oltrepassava le nude pareti del cuore
pregno di mancanze.
Diffidando
che la fasciatura adoperata dal medico del campo fosse pulita, Hermann aveva
preso dal suo armadietto dei medicinali delle bende nuove. Una scusa per
prendersi cura di lei, il desiderio inconscio di abbandonarsi a un gesto
d’amore che s’eran nascosti dietro le parole farfugliate nella sua madrelingua
contro il dottore ebreo, mentre raggiungeva il bagno per rovistare tra la
scorta di medicine.
“Così
va meglio?” Quand’ebbe finito, sfiorando l’avambraccio, la mano scivolò lentamente
sulla sua e le labbra si posarono sul suo collo. Le vibrazioni delle parole
sussurrate all’orecchio, il calore dei baci umidi impressi sulla pelle le
suscitarono brividi mai provati che fecero tremare di piacere la sua voce,
mentre gli rispondeva in tono lascivo: “Sì… Va meglio.”
Un
bacio appassionato sulla bocca, il desiderio dell’appagamento dei propri sensi,
il bisogno di provare ancora, all’infinito quei brividi sulla pelle che la
svuotavano dai mali presenti e alleggerivano il proprio essere spinsero Sarah a
sdraiarsi, ad abbandonarsi sul letto, a lui, a se stessa. E fu più lei a
guizzare dalla sottoveste che Hermann a sfilargliela.
Da
esperto amatore qual era, il giovane uomo seppe ascoltare e soddisfò la sua
muta richiesta d’amore, tracciandole una linea invisibile di baci lungo il
corpo di forme e carnagione mediterranee. Partendo dal centro del collo, le
labbra percorsero l’incavo tra i seni, scendendo sul pendio dell’addome che,
assieme alle espressioni del viso, si era contratto al morbido tocco e
veleggiando sul tondo ombelico, fino a raggiungere il basso ventre e poi ancora
più giù.
Con
gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte in una mescolanza di gemiti e
sorrisi, fino ad allora, Sarah non immaginava che una donna potesse essere amata
in quel modo, ma non ebbe neanche il tempo di stupirsene che le sue mani erano
già affondate nei capelli biondo grano di Hermann ad accompagnarlo nell’istinto
passionale.
Quasi
non si scottò la bocca con la bevanda calda, troppo impaziente Matteo di unirsi
alla sua sposa che, dalla cucina, stava osservando, mentre, seduta davanti allo
specchio del comò, dopo aver indossato una lunga vestaglia di seta bianca dalle
maniche larghe – sensuale momento che non si era fatto sfuggire –, spazzolava i
capelli. Metà bevanda finì nel lavello.
Avvicinatosi,
mantenendo un contegno riguardoso, le porse una mano che Sarah, visibilmente
riluttante, accettò e strinse più forte, mentre da lui si lasciava adagiare sul
letto. Lentamente, con dita tremanti, le sollevò l’orlo della candida
sottoveste, senza neanche slacciarle la vestaglia e abbassò la cerniera dei
pantaloni. L’unione dei corpi non fu armoniosa fusione di menti e cuori.
Paralizzata
Sarah dalla rassegnata consapevolezza che, consumato il matrimonio, non avrebbe
più potuto revocare la promessa del per sempre e dall’imbarazzo di poter
mostrargli la propria esperienza, frenato Matteo da paure tra loro contrastanti
di suscitarle brutti ricordi e di ridestarle vecchie emozioni, di farle male e
di sembrarle poco virile, entrambi furono incapaci di esprimersi nell’intimità,
come lo erano già stati in amore con le verità taciute e inascoltate.
Il
cigolio del letto e gli ansiti di Matteo riempirono il silenzio nella stanza e
tra di loro, mentre Sarah, a occhi chiusi, stringeva tra le mani lembi di
coperta, forzandosi in sensazioni che, con lui, non arrivavano.
Se,
con Hermann, aveva imparato a essere se stessa, con Matteo, imparò ben presto a
fingere.
“L’amore, come il desiderio, è ciò che rende viva la
vita.”
Massimo Recalcati
Immagine dal film “La conseguenza”
Distesa
sul fianco, dandogli le spalle, Sarah già dormiva e non la ridestò, né a lui
infastidì, la musica proveniente dal Campo Vecchio. Si sentiva leggero, come
non gli succedeva da tanto, troppo tempo e, con l’indice e il medio, partendo
dal fondoschiena, percorse delicatamente il suo corpo nudo, indugiando su ogni
segmento della colonna vertebrale, fino a raggiungere il collo e, da lì,
scivolare giù veloce per ripetere lo stesso viaggio.
«Dammi
una rosa da tener sul cuor, legala col filo dei tuoi capelli d’or.» Il
grammofono suonava la canzone “Lili Marleen” ed
Hermann ne ripeté le parole, sbagliandone ad alcune la pronuncia.«Forse
domani piangerai, ma dopo tu sorriderai. A chi, Lili Marleen?
A chi, Lili Marleen?» Come se fosse tornato
adolescente, lo animò un desiderio di giocosità, mentre, canticchiando a bassa
voce, le labbra si curvavano nel sorriso e le dita s’intrecciavano tra i lunghi
capelli neri.
Sarah
iniziò a stiracchiarsi sotto le lenzuola bianche e, emettendo un profondo
sospiro, da lui interpretato come un gemito sensuale, si volse, mostrandogli la
tenerezza di un sorriso assonnato. I suoi zigomi non erano più segnati dai
lividi.
Era
marzo. Fuori dal campo, alle prime carezze della primavera, gli alberi
rifiorivano e, in lontananza, si poteva addirittura scorgere il color oro delle
mimose. Una mattina quasi non cedette alla tentazione di raccoglierle per lei.
I
treni di deportazione partivano dalle stazioni ferroviarie di tutta l’Europa
diretti ai lager nazisti e molti, in Italia, eran
quelli che transitavano prima per Fossoli. La Wehrmacht aveva invaso
l’Ungheria, mentre le truppe sovietiche si apprestavano a liberare l’Ucraina.
Presto, la guerra avrebbe preso una piega sfavorevole per i tedeschi e questo,
in un primo momento, non sembrò interessargli, troppo preso dall’eccellere nel
proprio ruolo di comando e dal combattere i propri sentimenti.
Da
nemici, Sarah ed Hermann erano diventati amanti ed entrambi, rifiutando la
possibilità di completarsi l’un l’altro al di fuori di quella stanza, facevano
esperienza dell’amore che spezza, in un rapporto fatto di possesso e di
allontanamenti, di tormento per le loro differenze ideologiche e di esaltante
desiderio.
Il
primo «ti amo» arrivò nel mese delle rose. Anch’esse non disdegnarono di
sbocciare, donandosi alla vista degli abitanti di Fossoli.
Passato
per caso davanti alla propria camera, Hermann si era fermato sull’uscio a
guardare Sarah, mentre, dalla finestra, osservava il frenetico movimento che,
sempre, contraddistingueva il campo nei giorni precedenti alla partenza di un
convoglio. Da lontano, scorse di profilo la sua espressione rabbuiata e, non
sapendo ancora cosa fosse l’empatia, la interpretò come paura di essere
anch’ella deportata. Le si avvicinò con l’intenzione di rassicurarla e Sarah si
accorse della sua presenza dietro di sé solo quando l’avvolse nell’abbraccio.
Tra
le braccia, ne contenne il sussulto, poi il singhiozzo che le sciolse il nodo
di lacrime e, all’orecchio, le disse: “Non permetterò a nessuno di portarti via
da me. Tu sei mia.”
Le
parole sembrarono non aver sortito alcun effetto, giacché lei non smise di
piangere, anzi continuò più forte. Lentamente, la fece voltare, prendendola per
mano e, nel movimento, l’aria intorno a loro si riempì di melanconica
tenerezza.
Slancio
di braccia e impeto del cuore, la strinse forte al petto e le dichiarò i propri
sentimenti: “Perché ti amo.”
Il
pianto si quietò. A questo, le parole erano finalizzate, si giustificò con se stesso, invano, poiché la mattina seguente una rosa rossa
le lasciò sul comodino accanto al sacchetto di biscotti.
In
primavera, quando i nuovi documenti falsi validi per l’espatrio furono pronti,
i postumi della polmonite abbandonarono il suo corpo e, con essi, il
conseguente umore depresso. A maggio, Hermann avrebbe ricercato il suo amore,
iniziando dalla capitale italiana.
La
vasta rete di amici e conoscenze di suo padre arrivava fino al Vaticano e,
grazie all’aiuto di un esponente del clero cattolico anticomunista, dopo aver
trovato Sarah, sarebbe partito alla volta dell’Argentina, dove già lo attendeva
un lavoro come impiegato di banca e un piccolo appartamento pronto da abitare
con lei.
Hermann
aveva pianificato la loro nuova vita insieme, dando per scontato il consenso
dell’altra parte, sicuro che, a lui, fosse ancora legata dal vincolo di un
amore mai dimenticato.
Svegliata
dal rumoroso russare di Matteo, Sarah spalancò di colpo gli occhi,
indirizzandoli all’orologio sul comodino che segnava le sei e un quarto. Lui
doveva essersi ritirato da poco e subito profondamente addormentato, senza
neanche togliersi bene di dosso la puzza del pescato. A volte, le dava la
nausea l’odore della sua pelle.
Per
il primo Natale insieme, gli aveva regalato un profumo dalle note orientali
dell’ambra, la cui scelta, nell’elegante boutique del corso, era stata
condizionata dal risveglio dei ricordi. Un regalo che Matteo non aveva saputo
apprezzare, considerandolo uno spreco di soldi e rivelando di sé un lato
materialista.
Sarah
si mise a sedere e, nella penombra della stanza, gli rivolse uno sguardo
insofferente. Decise di lasciare il letto, prima che suonassero le campane
delle sette, per iniziare una nuova giornata e, trascinandosi le pantofole
bianche, raggiunse il comò. Sedette sulla poltroncina con il rivestimento in
velluto rosa e, guardando allo specchio il proprio volto segnato dalla
tristezza, tolse il primo bigodino.
Sempre,
al risveglio, si sentiva sull’orlo delle lacrime e, di mattina, si preparava,
svogliatamente, motivata soltanto dal dover presentarsi ben curata al lavoro e
dal far dispetto alla famiglia di Matteo, in particolare alla suocera che
criticava il suo indossare ogni domenica, per la messa e il pranzo da lei, un
abito diverso. Da lui, aveva smesso di aspettarsi complimenti, ricevendo come
forma di attenzione solo il biasimo per un’altra spesa inutile, superflua come
l’acquisto di un cappotto nuovo, rosso.
Per
colore e modello, esso era perfettamente identico a quello regalatole dai suoi
genitori, lo stesso che indossava al suo arrivo a Fossoli. Vedendolo esposto
nella vetrina, passando sul marciapiede opposto alla boutique, non aveva
esitato ad attraversare in fretta la strada e a chiedere il prezzo alla
negoziante, sospinta dal ricordo delle sensazioni provocatele dall’esser
guardata con anelito da due occhi verdi.
Almeno,
Matteo non le impediva di gestire la propria paga – cosa che, invece, accadeva
alla ragazza addetta al bancone dei dolci, il cui marito non le permetteva di
tenere in tasca neanche una lira – e, in fondo, a lui piaceva che gli amici lo
invidiassero per la sua bella ed elegante moglie.
Agli
occhi della gente, il cui chiacchiericcio si era spostato su Hannah e Davide,
apparivano come la coppia perfetta e nessuno poteva immaginare che, dietro
quell’ostentata felicità, si nascondesse il dramma della solitudine e
dell’insoddisfazione.
Un
figlio tardava ad arrivare e, tra i due, a desiderarlo di più era Matteo,
giacché, per Sarah, l’arrivo di un bambino – nonostante lo sognasse, fin da
quando ne aveva memoria – rappresentava, adesso, la perdita della propria
libertà. Non che lui si sforzasse più di tanto a farne uno, avendo imprigionato
la loro vita matrimoniale in meccanismi abitudinari e costretto, dopo la prima
settimana di nozze, la loro unione coniugale a un incontro prefissato per la
domenica mattina. Stessa ora, stesso repertorio.
Avevano
già cessato di esistere le danze al chiaro di luna attorno ai fuochi accesi in
spiaggia, il loro ridere dietro lo zucchero filato alle battute di Pulcinella,
le passeggiate al tramonto in riva al mare, i giri in barca, le fughe d’amore
nel loro nascondiglio tra gli scogli e sapeva che, con il ritorno della
stagione primaverile, ormai alle porte, non ci sarebbe stata alcuna rinascita.
Le
sembrava strano ricordare come si sentisse più viva, quand’era circondata
dall’ombra della morte che aleggiava sulle vite sospese degli abitanti di
Fossoli, più forte, quando Hermann la teneva nel limbo del suo amore, senza la
certezza di un futuro insieme.
Con
dita fiacche, tolse anche l’ultimo bigodino e, continuando a fissare la propria
immagine riflessa nello specchio, esplose in un pianto sommesso che Matteo,
immerso nel suo sonno, non avrebbe ascoltato.
E
le lacrime divennero quasi preghiera, mentre si domandava se le anime avessero
orecchi.
(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata
alla moglie Lucia Morpurgo)
Immagine dal film “Il pianista”
Napoli,
marzo 1947
A
tarda sera, quando ormai anche l’ultimo cliente del Gran Cafè se n’era andato,
le dita di Davide continuavano ad accarezzare i tasti del pianoforte a coda
laccato in mogano, eseguendo una sua composizione. L’armoniosa melodia non
quietava il frastuono dei suoi pensieri.
Amava
Hannah che, per la giovane età, avrebbe potuto essergli figlia e, in una sera
come quella, nel silenzio della sala vuota, l’aveva baciata, mentre guidava la
sua mano nella Sonata No. 16 di Mozart. Seduti sulla panchetta, i loro corpi eran troppo vicini, i loro cuori irrimediabilmente legati
dal passato.
Lei
gli aveva raccontato ogni cosa, finanche di quanto fosse grata a se stessa per aver ceduto alle dolcezze dell’amore con il
fidanzatino perduto in guerra, prima che, a Mauthausen, accettando la proposta
di una Kapò, finisse nel postribolo frequentato dai Funktionshäftlinge[1],
sotto la falsa identità di una studentessa tedesca antinazista. Lui, invece, le
aveva omesso la vera causa della morte di sua figlia, accennando soltanto a una
grave colpa che pesava sulle sue spalle.
Lo
sviluppo struggente della melodia lo condusse adagio verso le note dell’Ave
Maria di Schubert che iniziò anche a cantare.
Si
sentiva in pace con la sua defunta moglie, interpretando come un segno
l’essersi ritrovato a Napoli e, quindi, l’aver conosciuto Hannah per mantener
fede a una promessa da lei fatta a Sarah. Non era il senso di colpa che,
giustamente, avrebbe potuto provare verso Maria e neanche l’imbarazzo per
l’enorme differenza d’età con la donna che amava a impedirgli di ricominciare
una nuova vita, ma l’incapacità, ovvero la mancata volontà, di perdonare se stesso per aver acconsentito all’eutanasia della sua
adorata figliola.
Il
calore della voce baritonale, la passione nelle note perfette stringevano il
cuore delle due ragazze, fermatesi dietro un pilastro della sala interna ad
ascoltarlo.
“Tu
sai cosa lo tormenta, non è vero?” La voce di Hannah era rotta dalla commozione
e dal patimento d’amore, mentre gli occhi di entrambe contemplavano la bellezza
da lui emanata.
“Credo
di sì”, rispose Sarah e sospirò, “ma dev’essere lui a raccontartelo.” Nelle
parole dense di malinconia per la sofferenza provata dall’amica, vibrava una
sorta d’invidia originata dal senso di fallimento per la sua vita matrimoniale.
Destinataria
lei stessa della sensibilità di Davide e testimone, a Fossoli, della
delicatezza nel modo di rapportarsi alla moglie, Sarah sapeva che, una volta
riappacificatosi con il passato, questi avrebbe accolto Hannah, donandole la
più bella storia d’amore.
Li
lasciò soli e, recatasi nel reparto caffetteria, si rattristì, all’udire il
signor Gennaro che commentava l’egregia esecuzione musicale con il giovane
addetto al bancone e intento a ripulirlo. “Quell’uomo è sprecato qui”, disse
rammaricato, seppur conscio di quanto la presenza di Davide avesse alzato di
livello la clientela del Gran Cafè.
Sarah
era consapevole che, prima o poi, gli eventi della vita l’avrebbero costretta a
un nuovo addio, a separarsi nuovamente dai suoi affetti, da un padre, da una
sorella e, con Matteo, non avrebbe potuto nemmeno sfogare il suo dolore, dato
che lui non li vedeva di buon occhio.
Sulle
ultime note dell’Ave Maria, le luci della caffetteria e del laboratorio di
pasticceria si spensero. Il suono dei passi che Davide aveva udito alle sue
spalle divenne presenza al suo fianco.
Le
fece spazio sulla panchetta e, non appena fu seduta, senza tentennamenti, prendendole
le mani tra le sue, le disse: “Hannah, tempo fa ti ho accennato di un peccato
che mi tormenta.” La sua voce era velata per lo sforzo fatto nel cantare e
l’emozione, i loro occhi erano già pozzanghere d’acqua, i loro sguardi come
fiumi che si riversano l’uno nell’altro. “Adesso anch’io sono pronto a
raccontare.”
Nella
comprensione di Hannah, trovò il perdono di sé. Le sue lacrime furono asciugate
dai baci di due labbra acerbe e dalle carezze sul viso di polpastrelli di seta.
Sul cuore della giovane donna che, alla sua tragica confessione, aveva reagito
con la maturità di chi la vita ha costretto a crescere in fretta, Davide poggiò
il capo in una dolce tregua, prima che la tenerezza sfociasse in passione. Al
loro toccarsi, il fianco di Hannah sfiorò il pianoforte, lasciando sfuggire una
nota stonata che fece da apertura all’armoniosa sinfonia d’amore di gemiti e
sospiri.
Nonostante
la liberazione del cuore e l’appagamento dei sensi, quella notte fu portatrice
di un nuovo tormento. Nel suo continuo girare e rigirare la testa sul cuscino,
Davide si chiedeva cosa lo differenziasse dagli uomini che entravano nei Sonderbauten[2]
per sentirsi vivi, persone e, sebbene fosse stato l’amore a guidare il loro
atto carnale, provava un senso di colpa verso Hannah, come se di lei avesse
reciso il fiore dell’innocenza.
Una
fitta pioggia iniziò a battere sulle finestre. Era il cielo che piangeva al
posto suo. Al boato di un tuono, sobbalzò dal letto e si rivestì in fretta. Era
pronto a ricominciare con Hannah la sua nuova vita.
Fradicio
di pioggia, bussò alla porta della donna che amava. Il paese addormentato non
poté vedere la sua corsa né udire il ritmo forsennato dei suoi passi e del suo
respiro che, alla vista di Hannah vestita di seta e di stupore, parve fermarsi,
come il cuore che sembrò perdere un battito. E, al cuore, motore della vita,
assoggettò i movimenti del suo corpo, prendendole le mani e piegandosi su
entrambe le ginocchia.
“Hannah,
vuoi essere mia moglie?” La proposta di Davide non fu accompagnata dal luccichio
di un anello, ma dal sigillo eterno di un bacio posato sul dito anulare
sinistro con labbra bagnate di lacrime e brina.
“Sì, io ti prendo così,
tu sei chi mi dà pace,
nella pace che è qui.
Sì, io ti prendo così,
tu sei chi mi dà il cielo,
sotto il cielo di qui.
Sì, io ti dico di sì.”
Claudio Baglioni, Io ti prendo come mia sposa (2009)
***
Il tuono la ridestò,
rimbombando come una delle tante bombe che furono sganciate sul campo di
Fossoli tra l’agosto e il novembre del ’44, provocandone la chiusura e il
trasferimento a Gonzaga.
Come allora, con il cuore
in gola e gli occhi dilatati nel buio della stanza, Sarah sedette di scatto sul
letto e, allungando una mano al suo fianco, ricercò la presenza di Hermann.
Impiegò pochi secondi per
tornare nella realtà presente, ma, ancora trafelata dallo spavento provato, non
la sfiorò il pensiero di suo marito, sorpreso in mare dall’improvvisa tempesta.
[1]“Detenuti-funzionari”,
prigionieri di fiducia, come i Kapò, ai quali veniva affidata la sorveglianza
degli altri internati e che godevano di diritti speciali.
[2]“Edifici speciali”,
bordelli nei campi di concentramento.
Capitolo 45 *** In una normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio ***
Nella foto, come
immagino Hermann e Sarah nel 1947.
L’immagine è tratta
dal film “La conseguenza”.
Capitolo
45
In una
normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio
“Se tu sapessi com’è
terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo
illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il
ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi. Le
mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata
vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto.”
Frida
All’inizio del mese di maggio, Hannah e Davide
avrebbero convolato a nozze secondo il rito cattolico nella Chiesa della Beata
Vergine del Carmelo. A causa della vedovanza di lui e dello scandalo che la
loro notevole differenza d’età aveva suscitato nel paese, la cerimonia si
sarebbe svolta in forma strettamente privata, alla presenza di pochissimi
intimi, ovvero il signor Gennaro e la moglie che avrebbero fatto da testimoni
e, ovviamente, Sarah e Matteo.
La sposa avrebbe vestito di bianco, con un
abito semplice e romantico, scelto insieme alla sua amica e alla signora
Carmela, senza strascico e con una coroncina di fiori tra i capelli a reggere
il velo donatole da Sarah, lo stesso che aveva indossato al suo matrimonio.
Dopo il rito, non ci sarebbe stato alcun
banchetto né viaggio di nozze, ma d’altronde di ogni giorno insieme Davide e
Hannah avrebbero fatto una festa nel reciproco rendersi felici e, solo in
seguito, sarebbero partiti per concretizzare il loro progetto di vita e non più
tornare indietro. Una partenza che, quando fu il momento, Davide decise di
rimandare, pensando di poter scongiurare le disastrose conseguenze del ritorno
inaspettato di colui che era stato suo nemico e che, a Fossoli, gli aveva dato
un’anticipazione della crudeltà nazista.
Solo dinanzi all’irreparabile tragedia, Davide
si arrese e partì con il cuore gonfio di dolore e quello di Hannah da
sorreggere.
A settembre, Davide avrebbe fatto ritorno a
Bologna, dove, in seguito alla sua domanda, gli era stata nuovamente conferita
la cattedra all’accademia musicale, mentre Hannah sarebbe tornata tra i banchi
di scuola per riprendere gli studi liceali interrotti a causa delle leggi
razziali. Era stato lui a convincerla, lasciando primeggiare il suo lato
paterno.
Seppur fossero due lavori dignitosi e loro
immensamente grati al buon Gennaro, Davide non avrebbe più fatto da
intrattenitore musicale in una sala da tè né lei sarebbe rimasta per sempre una
cameriera.
Giacché le voleva un bene dell’anima, il
sentimento d’invidia che si era annidato nel cuore di Sarah non sfociava in
rabbia verso la sua amica, bensì in un senso di tristezza per la mancata
realizzazione di sé e, a volte, come luttuosa cantilena, le tornavano alla
mente le ultime parole rivoltele da don Franco. Non gli aveva dato ascolto, né
allora né mai e, lasciando morire i sogni di bambina e sotterrando i suoi
talenti, sentiva di esser diventata ciò che non era, ovvero una persona
inasprita, incapace di gioire della gioia di un’amica.
Il rifiuto di Matteo a partecipare al
matrimonio non l’aiutava a vivere il suo coinvolgimento nei preparativi e
l’attesa del gran giorno pacificata con se stessa.
Fu in una normale,
monotona e sonnolenta domenica pomeriggio, dopo il pranzo, durante la
partita a briscola con suo padre e il compare, che lui diede alla famiglia la
notizia dell’invito ricevuto, mentre Sarah, vestita di rosa, sedeva in terra a
giocare con la cognata più piccola.
“E vui ca’ facite? Ce jate?[1]” Pur non sapendo parlare il dialetto, Sarah
comprese perfettamente la domanda proferita dal compare con un’intonazione
allarmata e, lasciando la bambola di pezza, rivolse accigliata lo sguardo verso
suo marito e l’attenzione a ciò che avrebbe risposto.
“Certo che no”, rispose Matteo, in maniera
seria e senza distogliere lo sguardo dalle carte, ed esultò per aver vinto il
giro.
All’improvviso grido di vittoria, Sarah
sobbalzò, mentre gli occhi le si empivano di lacrime per la sconfitta di una
guerra che era stanca di combattere.
“Facite buon[2]”, intervenne quasi prepotentemente donna
Filomena, con la sua stazza robusta, sempre fiera nel suo ruolo di massaia e,
portando a tavola il caffè, proseguì in italiano, affinché la nuora potesse
capire bene: “Non potete essere complici di un matrimonio disonorevole.”
Sarah immaginava dove sarebbe andato a finire
il discorso.
“Ci sono tante vedove di guerra della sua età
e lui si risposa proprio con una ragazzina?” Anche la moglie del compare
s’intromise, infierendo sui futuri sposi e ferendo Sarah che, seppur inerme,
dentro ribolliva. “Avranno almeno vent’anni di differenza. Potrebbe essere suo
padre.”
“Di certo, lei non è una bambina e ha guardato
ai propri interessi”, riprese la madre di Matteo, incalzando con le sue calunnie.
“Prima della guerra, lui faceva il professore e scriveva musica. Era una
persona importante e, quando le cose si sistemeranno…” Lasciò il discorso in
sospeso e, strofinando pollice e indice, alluse a un interesse economico.
“A iss ’o tengproprij’ngann[3]”, affermò il compare, inalberatosi e
continuando a giocare. “Ha visto la ragazza sola, senza famiglia e se n’è
approfittato”, si concesse una pausa, per meglio lasciar scivolare quella
goccia capace di far traboccare l’intero vaso, “come stava per fare con Sarah.”
Sarah non riuscì più a trattenersi e scattò in
piedi, pronunciando a voce alta il nome di suo marito con un tono di
rimprovero. Su di lei, fu indirizzata un’attenzione fatta più di sguardi
irritati che stupiti e, intimorita dal sentirsi tutti contro, trattenne nelle
mani chiuse a pugno le parole che avrebbe voluto urlare in difesa dei suoi
amici.
Come laghi d’inverno, le lacrime si
ghiacciarono nei suoi occhi, poi scintille infuocate divennero le sue pupille
di miele verso colui che, ancora una volta, fu cieco al suo dolore, ma riuscì
soltanto a dirgli: “Io torno a casa.” Seppur pervasa dall’ira, la sua voce
fuoriuscì fioca e tremolante e lui ne fu sordo.
“Finisco questa partita e andiamo via”,
ribatté, serenamente concentrato sulle carte, aizzando il fuoco dentro di lei,
la quale riprese più decisa: “No, Matteo, io vado via adesso.”
Afferrò dallo schienale della sedia la sua
giacchettina color panna, mentre si riappropriava del suo spirito combattivo.
Senza salutare nessuno, si diresse verso la porta d’ingresso e, prima che
potesse sbatterla alle sue spalle, per Matteo iniziò già una paternale.
“La lasci andare via così?” Sua madre fu la
prima a intromettersi, seguita dalla moglie del compare che, però,
sdrammatizzò: “Non si capisce più niente, Filumè.”
“Pecchénun ’a vai a piglià? È mugliereta, t’adda rispettà[4]”, fece suo padre e il compare non poté che
ribadire: “Se non ti rispetta, ca’ omm sì?[5]”
Con sguardo fisso e duro, Matteo si alzò e la
sedia stridette sul pavimento contemporaneamente allo sbattere della porta.
Uscì di casa, a larghe falcate, portando con sé insicurezze e frustrazioni e,
con la rabbia da esse scaturita, fermò l’incedere di sua moglie, prendendola
per un braccio.
“Devi smetterla di farmi vergognare”, ringhiò,
strattonandola verso di sé, “hai capito?”
Fremente di risentimento, Sarah non si
sorprese neanche dell’inaspettata violenza, ma ad essa si ribellò,
divincolandosi e urlando un perentorio «lasciami», per poi riaffermare
decisamente: “Io torno a casa.”
“Tu torni dentro con me”, insisté lui a mo’ di
comando, con più forza e un altro strattone.
“No!” Al diniego di Sarah, la sua mano si
mosse in fretta, scagliandole un potente schiaffo che l’ammutolì, dapprima per
il dolore, poi per lo stupore e la delusione.
Era quello l’uomo che, in realtà, aveva
sposato e lei più non era la ragazza di un tempo, quella che, nel luglio del
’44, fu capace di tener testa al comandante di Fossoli.
Capitolo 46 *** La strage degli innocenti (Prima parte) ***
Immagine dal web
Capitolo 46
La strage degli innocenti
Prima parte
- Quando l’alba si tinse di rosso -
“Carissimi
genitori la presente è per comunicarvi che sto bene come spero di voi tutti.
Domattina partirò da Fossoli la destinazione che vado non ne sono ancora a
conoscenza. Non appena arrivo a destinazione non mancherò di darvi mie notizie,
in tutti i modi non fatevi pensiero che sto molto bene, e spero sempre di
rivedervi tutti nella nostra cara casa.”
Dall’ultima
lettera di Felice Lacerra, la vittima più giovane dell’Eccidio di Cibeno.
Campo
di Fossoli, 11 luglio 1944
~
Un giorno all’Eccidio di Cibeno ~
“Sta
forse discutendo gli ordini, tenente Von Wildenberg?” Dall’altra parte del telefono,
l’insinuazione dell’SS-Hauptsturmführer riecheggiò
come un suono metallico e distante.
Nella
mano sinistra, Hermann stringeva la cornetta, mentre, con l’indice e il medio
dell’altra, allentava il colletto della camicia, bisognoso d’aria e
temporeggiando, alla ricerca di parole che non lo compromettessero.
“No,
signore”, rispose in tono riverente ma deciso, “mi domandavo soltanto quale
fosse il vero motivo, dato che l’attentato di Genova è già stato vendicato.”
La
brillantina trasudava dall’attaccatura dei capelli, facendo luccicare sulla
fronte cerea piccole gocce di sudore, una delle quali scivolò lungo la guancia
e la colpa non era da imputare unicamente al caldo che arroventava l’ufficio e
la divisa.
“Inoltre,
signore, credo che ci sia un errore, perché nella lista dei prigionieri
condannati c’è anche un minore di sedici anni”, aggiunse Hermann che, pur
udendo il suo interlocutore sbuffare in tono spazientito, temeva più la
reazione di Sarah che un provvedimento disciplinare.
“Nessun
errore, tenente. Esegua gli ordini senza farsi tante domande né scrupoli.” Poi
il capitano diede alla sua voce un’inflessione meno severa, mentre gli diceva:
“Tra i giovani ufficiali delle Schutzstaffel, lei è
uno dei migliori. Farò finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.”
All’alba
dell’indomani, Hermann avrebbe dovuto guidare il plotone di esecuzione di
settanta internati politici e, presso il poligono di tiro di Cibeno, venti
prigionieri ebrei ne stavano scavando già la fossa.
“Danke, Hauptsturmführer.” Alle
orecchie di Sarah, la voce di Hermann parve stanca e rassegnata, come, del
resto, la sua espressione che poté scorgere attraverso la porta socchiusa
dell’ufficio. Il suo profilo era madido di sudore, mentre parlava al telefono
in piedi, vicino alla scrivania.
Ipotizzò
che avesse appena ricevuto notizie riguardanti l’avanzata nel centro-nord degli
Alleati che già, il 4 giugno, avevano liberato Roma, la capitale, la sua
patria.
Alla
bella notizia, Sarah, pur se una parte di sé desiderasse ardentemente la
sconfitta dei tedeschi nella mera speranza di ritrovare i propri cari, non era
riuscita a unirsi ai silenziosi festeggiamenti e agli abbracci commossi dei
suoi compatrioti, come lei prigionieri a Fossoli, ma aveva ricercato il
conforto tra le braccia di Hermann, conscia che, con l’avanzare delle truppe di
liberazione, si faceva sempre più vicina la possibilità di perderlo.
«Il
Großdeutsches Reich non si arrenderà mai», le aveva
detto sicuro e orgoglioso, sebbene gli occhi ne svelassero la preoccupazione,
ma non era questa la risposta che Sarah si aspettava, avendo lui intrecciato le
dita alle sue con disperata tenerezza.
“Heil Hitler.” Hermann salutò, senza neanche sforzarsi nel
consueto dinamismo, per poi riagganciare il telefono e volgere lo sguardo alla
porta, sentendovi bussare. Di Sarah aveva già scorto l’ombra di corpo sinuoso
nella divisa da cameriera, di braccia leggermente protese in avanti a reggere
il vassoio.
“Avanti.”
Al suo permesso a entrare – pronunciato in italiano, sapendo già che fosse lei
–, Sarah aprì la porta con la spalla, avendo le mani occupate dal vassoio e,
mentre ne contemplava il lento movimento trasudante fascino, per un momento,
sentì di odiarla, ritenendola colpevole della sua perplessità per gli ordini
ricevuti.
La
guardò poggiare il vassoio con il bicchiere di limonata sulla scrivania nella
silenziosa austerità imposta loro dai ruoli che ricoprivano, fin quando non
giungesse la sera per tornare a essere soltanto un uomo e una donna. Intreccio
di corpi, groviglio di emozioni.
Con
un fazzoletto, tirato fuori da una tasca interna della giacca dell’uniforme
sbottonata, Hermann si asciugò la fronte imperlata di sudore e, spostando lo
sguardo su un punto indefinito della scrivania, invano si sforzò di parlarle
con la tracotanza di chi comanda. “Domattina, all’alba, settanta internati
politici partiranno per la Germania”, le mentì con le stesse parole che, di lì
a poco, avrebbe destinato ai condannati, “e andranno in un campo di lavoro.”
Si
piegò leggermente per afferrare il pacchetto di sigarette poggiato sulla
scrivania, prima che i loro occhi potessero incrociarsi, rivelando
l’inquietudine dell’uno e lo sconforto dell’altra, poi aggiunse: “Dovrò alzarmi
presto e preferirei che non venissi da me stasera.”
A
tale richiesta, Sarah si stupì, giacché mai, né prima né dopo un trasferimento
di prigionieri, Hermann si era sottratto a trascorrere la notte con lei,
seppur, non sempre, data la stanchezza di entrambi, sfociasse nell’amplesso e,
dietro la nuvola di fumo della sigaretta, non fece in tempo a intercettare il
suo sguardo per accertarne la sincerità. Con passo greve e svelto e il consueto
saluto nazista, entrò nell’ufficio il sergente maggiore e lei, distolti di
scatto gli occhi dal suo amato e accennandogli un inchino, afferrò il vassoio e
uscì in fretta.
Una
notte di ansietà, fra insonnia e sudore, precedette l’alba che si tinse di
rosso, del sangue degli innocenti. Sotto il manto scuro del cielo notturno, uno
dei settanta condannati trovò la salvezza, altri due fuggirono verso
l’orizzonte dei campi, ma non prima di aizzare una rivolta al poligono di tiro.
Hermann sapeva che non sarebbe stato facile.
Calce
viva fu cosparsa sui sessantasette fucilati, mentre in lui, oltre la rabbia per
l’imprevista ribellione che aveva dovuto sedare e l’irrequietezza per
l’ulteriore mole di lavoro che ne sarebbe conseguita, covava il cruccio per
l’esecuzione di quell’ordine errato, ingiusto.
Portò
il pollice e l’indice sul labbro inferiore spaccato da un pugno. Anche della
mancanza di prontezza nei riflessi attribuì la colpa a Sarah e, intanto, nel
silenzio imposto ai venti prigionieri ebrei, ripose la speranza, affinché
nessuna voce arrivasse al campo a farle conoscere la verità.
Buio
si fece il mattino e, per lei, crepuscolo dell’amore, quando a Fossoli risuonò
sommessamente l’annuncio della strage di uomini innocenti.
Uscendo,
un brusio inquieto di persone riunite davanti alla baracca di fronte alla sua
la indusse a fermarsi stupita e preoccupata e vide un uomo tappare la bocca a
una donna per impedirle di urlare. Era il grido di madri, mogli, sorelle,
figlie a cui erano stati strappati figli, mariti, fratelli, padri.
Dibattendosi,
la donna fu trascinata nella baracca e non bastò la forza di un solo uomo.
“Li
hanno ammazzati tutti, ma state zitti, per carità.” La voce flebile e
tremolante passò di bocca in bocca, fino a raggiungere Sarah.
Con
lacrime silenziose, si unì al dolore della sua gente e non poté che provare
odio verso colui che ne era stato il responsabile.
“Anche se addormentata, il mio costante volgermi è
ricco di rivelazioni, il mio largo stupore è maturante un attacco improvviso di
perfetti ignorati strumenti, la mia voce prepara i toni della profezia, il mio
corpo ogni grado di scintilla vitale, le mie labbra la parola finale cui
converge il brivido del sangue.”
Alda Merini, Anche se addormentata
Immagine
dal film “L’amore oltre la guerra”
Napoli, 20 aprile 1947
Sul volto di Matteo, non
c’era alcun segno di pentimento e, nei suoi occhi, restava immoto un lampo
astioso.
L’insistente
rifiuto di Sarah a rientrare in casa dei suoi genitori non era stato la causa
scatenante dello schiaffo – forte, quasi da dolergli la mano –, ma soltanto la
scintilla che aveva fatto esplodere la sua rabbia repressa. Eppure, neanche
allora lasciò che il muro di parole non dette, di spiegazioni non reclamate
crollasse.
A
ferirlo nell’orgoglio di uomo non era certamente la disubbidienza di sua
moglie, in quanto, di lei, lo aveva fatto innamorare il carattere indomito che,
dopo il matrimonio e fino a quel momento, s’era però assopito dietro l’ombra di
un perenne broncio di tristezza e insoddisfazione.
Era
cambiata Sarah, divenendo quasi apatica, soprattutto nell’intimità,
trasformandosi in una donna completamente diversa dalla ragazza dolce e
passionale che aveva conosciuto nel loro nascondiglio tra gli scogli. Distesa
immobile sul letto, neanche le mani levava nel gesto di una carezza o per
stringersi a lui e, a volte, era come se fingesse.
Della
sua demotivazione nell’atto coniugale, all’inizio, aveva attribuito la colpa al
trauma per la violenza subita a Fossoli, almeno fin quando Sarah non iniziò a
parlare nel sonno e, tra mormorii incomprensibili, proferire languidamente il
fastidioso nome di quel nazista.
Il
dubbio che fra sua moglie e quell’essere degenere si fosse instaurato un legame
sentimentale riapparve più prepotentemente, tanto che, stavolta, non finì nel
dimenticatoio ma nell’oblio di un latente delirio che lo indusse a nascondere
le sue paure dietro un ragionamento sconclusionato. Il fantasma che agitava le
notti di Sarah era colpevole della loro incapacità a procreare, avendo di lei,
quand’erano a Fossoli, avvelenato il grembo col suo seme malevolo e rendendolo
a lui un’impenetrabile terra.
All’insaputa
di sua moglie, fece addirittura entrare in casa uno scaccia malasorte armato di
incenso e cornetti rossi e farneticante una litania di scongiuro, mettendo in
imbarazzo se stesso, dato che, a differenza della sua
famiglia, Matteo neanche credeva nella scaramanzia. Fu solo una coincidenza se
il rito sortì l’effetto desiderato e la presenza dell’altro smise di
intrufolarsi nel loro letto, giacché le labbra dormienti, perciò inconsapevoli,
di Sarah non ne pronunziarono più il nome – almeno momentaneamente.
In
quello schiaffo, gesto esprimente il contrario dell’amore e generante
umiliazione, aveva in realtà sfogato il suo sentirsi non amato e apprezzato, ma
non una lacrima vide solcarle il viso impallidito, poi arrossato dal colpo
ricevuto e dalla rabbia che ne era conseguita.
Gli
porse l’altra guancia e, guardandolo di sottecchi, ostentando la sua fierezza,
dischiuse le labbra in parole di sfida: “Dammene un altro. Più forte. Così dentro
sentiranno quanto sei uomo.” Nella voce e nel portamento, era un tremore di
foglia agitata dal vento di una dura e inimmaginabile realtà.
A
tale provocazione, Matteo reagì con un gesto che, nelle notti inquiete di sua
moglie, aveva inconsciamente desiderato e represso. Le tappò la bocca con una
mano e premette forte per ridurla al silenzio, mentre con l’altra continuava a
strattonarla, intimandole: “Zitta, devi stare zitta.”
Neanche
questo si aspettava Sarah e quasi le mancò il respiro, ma fu sua volontà
lasciar soffocare la parte di sé battagliera.
“Ora
torniamo dentro, aspetti che finisco la partita e ti stai zitta”, incalzò e,
liberata dal bavaglio di pelle ruvida e callosa, gli permise di spintonarla
verso la porta.
Rientrando
in casa, preceduta da Matteo, spossata nell’anima e nel corpo, nessuno
s’interessò a lei, noncuranti del suo incedere barcollante a testa china, dei
suoi capelli spettinati che lasciavano intravedere sul viso le impronte
rosseggianti – che l’indomani si sarebbero tramutate in lividi visibili agli
occhi di chi le voleva bene, nonostante lo spesso strato di cerone –, ma non si
stupì, giacché erano stati loro a metterglielo contro. Soltanto provava
amarezza e disagio nel sentirsi accusata, sbagliata, umiliata, degradata, come
un riverberarsi di sensazioni già vissute ai tempi della persecuzione
antisemita.
Con
espressione cupa e respiro accelerato dalla rabbia, Matteo tornò alla sua
postazione e alle sue carte, attorniato da padre e compare, mentre lei,
lentamente, prendeva posto in mezzo alle donne. Il silenzio creatosi nella
stanza sembrava riflettere un certo imbarazzo per il comportamento forse
inaspettato del giovane che l’aveva ridotta in quello stato. Finanche la sua
cognata più piccola, lasciata da sola in terra a giocare, aveva smesso di far
parlare fra loro le bambole.
Per
stemperare la tensione e distrarsi dal dolore sempre più pungente al viso,
Sarah iniziò ad appallottolare la giacchetta color panna che teneva sul grembo
fasciato dal vestito rosa e, pian piano, rivide le sue mani che stringevano un
lembo del grembiule bianco sul fondo nero della divisa da cameriera.
Nel
vuoto del suo sguardo, riprese forma l’immagine di Hermann in uniforme, con le
mani giunte dietro la schiena un po’ ricurva, di spalle rispetto a lei che
sedeva sul letto in preda a un rancore intrattenibile. Attraverso lo specchio
del comò, guardava le sue labbra carnose spaccate dalla mano di chi, all’alba,
si era aggrappato con forza alla vita e i suoi occhi verdi socchiusi in
un’espressione arcigna.
Berlino
“…
Sette, otto, nove, dieci.” Con il viso contratto per lo sforzo, Hermann teneva
il conto delle flessioni in italiano.
Esercitava
la sua pronuncia, per meglio poter passare inosservato al suo ritorno in terra
italica, intanto che tentava di restituire al corpo, reduce da prigionia e
malattia, il vigore di un tempo, perché lei lo riconoscesse, allenandosi con la
ferrea tenacia di chi si prepara alla battaglia.
“Magari un giorno l’universo accoglierà la mia
richiesta
e ci riporterà vicini.
Tra l’aldilà e il mio nido di città c’è molta
differenza
anche se provo a non vederla.
E giro il mondo e chiamerò il tuo nome per millenni
Capitolo 48 *** La strage degli innocenti (Seconda parte) ***
Immagine dal web
Capitolo 48
La strage degli innocenti
Seconda parte
- Quando l’amore gli smussò le asperità -
“Un giorno troverò
qualcuno che ama
le parti più
impresentabili di me,
i miei arcobaleni
spezzati,
i lupi feroci che
accudisco nel grembo,
i mostri a cui canto la
ninna nanna,
le fantasie che non oso
confessare
neppure a me stesso.
E quel giorno forse
troverò la pace.”
Fabrizio Caramagna, Se
mi guardi esisto
Campo
di Fossoli, 12 luglio 1944
~ Giorno
dell’Eccidio di Cibeno ~
Di
sottecchi, attraverso lo specchio del comò, Hermann la guardava appallottolare
nervosamente il grembiule bianco che teneva ancora indosso.
Il
silenzio che, con minacce, era stato imposto ai venti prigionieri ebrei – i
quali avevano scavato e ricoperto la fossa comune – gli impediva di credere che
la ragione del malessere di Sarah fosse l’esecuzione dei sessantasette
internati politici.
Stanco
per la dura giornata di lavoro e agitato da quel che non sapeva ancora essere
il tarlo del rimorso, rifiutò di perdersi in congetture e, ignorando i suoi
occhi gonfi dal pianto e il respiro affannoso che le faceva palpitare
visibilmente il petto, iniziò a spogliarsi, partendo dalla giacca. Era
preoccupato per lei, ma di più gli premeva lasciarsi alle spalle quella brutta
giornata mediante l’appagamento dei desideri carnali.
Egocentrico
qual era, mentre sbottonava la camicia, volle ipotizzare che proprio l’essersi
negato la sera precedente fosse la causa dello scontroso silenzio di Sarah – la
quale neanche gli aveva chiesto il perché di quel labbro spaccato – e pensò a
quanto sarebbe stato facile farsi perdonare.
Quando
si volse con la camicia aperta sul torso nudo, muscoloso e i pantaloni
slacciati a lasciar trasparire la zona pelvica, il suo aspetto aitante non
sortì alcun effetto su di lei che, soltanto, provava rabbia e disgusto per la
sua strafottenza, domandandosi come facesse a comportarsi come se nulla fosse
accaduto. Certamente, non si aspettava di ritrovarlo tra i rimorsi della
coscienza, ma quantomeno scosso per aver fatto uccidere degli esseri umani e
gli rivolse uno sguardo dardeggiante.
Avvicinatosi,
Hermann la chiamò per nome con tono rassicurante e protese le mani per
carezzarla e lenire il suo malanimo. Una parte di sé ne aveva già riconosciuto
la vera causa scatenante.
“Non
mi toccare”, gli disse furente, scansandosi e mettendo i palmi in avanti. “Come
puoi far finta di niente?”
Il
silenzio diede voce allo stupore per l’inaspettata reazione. Poi, di nuovo,
tentò invano un contatto fisico e, stavolta, non fece neanche in tempo a
pronunciare il suo nome, zittito dal perentorio diniego: “No, Hermann!”
“Dopo
il crimine che hai commesso”, riprese Sarah con maggior sdegno e la voce le
s’incrinò nel trattenere le lacrime, mentre diceva: “Erano innocenti. Perché li
hai uccisi?”
Lei
conosceva la verità. Rimase spiazzato e, per la prima volta nella vita, non
sapendo come comportarsi, tergiversò, riassumendo la tracotanza del comandante.
“Chi te l’ha detto?”
“Neanche
sotto tortura te lo direi”, rispose così solo per provocarlo, giacché,
offuscata dalla nebbia del dolore, non si era prodigata nel vedere a chi
appartenesse la voce udita al mattino, divulgatrice della straziante notizia.
“Io
ho solo eseguito gli ordini”, si giustificò Hermann, ignorando la sua
provocazione e senza mostrare alcun segno di cedimento nella voce e nello
sguardo.
Gli
occhi di Sarah, invece, si persero nel vuoto, mentre, come in un lamento,
sussurrava: “Sessantasette vite umane. Persino un ragazzino di sedici anni.
Come si può?”
Lei
sembrava sconvolta dall’amarezza. Ancora una volta, provò a rassicurarla,
sfiorando con la punta delle dita la nudità delle sue braccia e il suo animo
con un’inflessione di voce più pacata, sussurrandone il nome quasi in un
sospiro. Di rammarico per Sarah, ma non ancora di resa verso la propria
coscienza per il delitto compiuto.
“Non
mi toccare”, ripeté lei con maggior foga, ritraendosi prontamente e afferrando
di fianco a sé un cuscino, arma bianca che, colpendolo, assieme a parole
disperate, iniziò a smussare le sue asperità, “sei un assassino. Hai ucciso
delle persone innocenti. Neanche di un ragazzino hai avuto pietà. Sei un
assassino.”
“Devi
calmarti, Sarah, o ti sentirà tutto il campo.” Hermann ritentò un approccio
pacato, seppur deciso che, con uno spintone dalla forza inaspettata, fu
respinto.
“Non
mi faccio toccare da te. Sei un assassino”, insisté e la spinta inferta la
indusse ad alzarsi, “io torno nella mia baracca.”
Il
suo cuore era già andato via. All’ennesimo rifiuto, il desiderio d’amore si
tramutò in istinto di prevaricazione. Un fuoco in lui s’accese e la trattenne,
afferrandola violentemente per un braccio.
“Tu
resti qui con me”, fece perentorio e la strattonò verso di sé.
Il
dolore rimase celato dietro la rabbia che le contraeva il viso.
“No,
lasciami”, si oppose lei, divincolandosi, “voglio tornare nella mia baracca.”
Incurante
della sua richiesta, Hermann non lasciò la presa, anzi diede ad essa più forza,
mentre ripeteva: “Tu resti qui con me”, fece una pausa, prima di concludere con
parole di cui si sarebbe presto pentito, “è un ordine!”
Tre
parole che zittirono e immobilizzarono entrambi per un tempuscolo che parve
un’eternità.
L’ira
smise di dardeggiare dai loro occhi e si guardarono l’un l’altra attraverso un
rugiadoso velo di sbigottimento e tristezza. Hermann aveva compreso l’errore e
allentato pian piano la stretta, fino a lasciarle il braccio e fu lei a rompere
il silenzio.
“Ah…
A questo siamo ritornati”, disse, trattenendo lacrime di risentimento, “allora,
signor tenente, le comunico che non sono più disposta a sottostare ai suoi
ordini.” Le parole si susseguivano in un crescendo di fermezza. “Aggiunga pure
il mio nome alla prossima lista dei deportati, perché io non soddisferò più le
sue necessità.”
Napoli, 20 aprile 1947
Mentre
continuava ad appallottolare la giacchettina color panna che teneva poggiata
sul grembo, ricordò che quella sera era andata via da lui, senza voltarsi
indietro, senza remore, pur amandolo, nonostante odiasse il suo ruolo.
Da
giovane prigioniera, non si era arresa e aveva combattuto per far valere la
propria volontà e, adesso, da donna libera, restava seduta inerme a testa
china.
Si
distrasse dai ricordi e dai pensieri quando, d’improvviso, sentì ostruirsi una
narice e vide una goccia di sangue, poi velocemente un’altra e un’altra ancora
imbrattare la giacchetta. Frastornata, sollevò il capo e, portando la mano
sotto il naso a raccogliere sul palmo altre due gocce di sangue, s’imbatté
nello sguardo impassibile di suo marito. Questi non mostrò alcun segno di
apprensione o pentimento, né lei versò una lacrima per se
stessa o per la fine del loro amore.
“Tu, tu sai comprendere
questo silenzio che determina il confine fra i
miei dubbi e la realtà.
Da qui all’eternità, tu non ti arrendere.
Portami via dai momenti,
da questi anni violenti.
Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più
energia,
“Ho conosciuto in te le meraviglie meraviglie
d’amore sì scoperte che parevano a me delle conchiglie ove odoravo il mare e le
deserte spiagge corrive e lì dentro l’amore mi sono persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore che (ben sapevo) amava una chimera.”
Alda Merini, Le rime petrose
Fu
la moglie del compare a porgerle, con un’interiezione di preoccupazione – che,
alle orecchie di Sarah, parve di pura ipocrisia –, un fazzoletto, consigliandole
erroneamente di mettere la testa all’indietro, non per cattiveria ma per
ignoranza – e anche di questo lei dubitò.
Imponendosi
di non dare loro la soddisfazione di vederla in preda al panico, piegò la testa
in avanti e strinse le narici con mano ferma e sicura, nonostante il profondo
turbamento causato dal sangue, nonostante l’acutizzarsi del dolore, nonostante
la ferita dell’anima. L’indifferenza di Matteo faceva più male del suo
schiaffo.
Di
fronte all’ostentata forza d’animo di Sarah, lui restò fermo, finché non si
rese conto di aver perso la partita e un altro pezzo del suo cuore, forse
irrimediabilmente. Eppure non riusciva a provare rimorso per lo schiaffo
datole.
Nel
far ritorno in sé, la rabbia deviò verso se stesso e,
alzatosi di scatto dalla sedia, con gran foga, lanciò sul tavolo le carte che
gli erano rimaste in mano, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo attonito e
interrogativo.
La
perdita di sangue si era fermata e Sarah aveva allontanato il fazzoletto dal
naso. Per un attimo, temette un’ulteriore reazione violenta da parte di suo
marito e, stavolta, dinanzi a tutti, presagendo già il loro perseverare nel
menefreghismo. Istintivamente, spinta da un impulso difensivo, anche lei si
alzò.
“Torniamo
a casa, Sarah”, disse, senza rabbonire la voce e lo sguardo e provò una
sensazione di disagio, quando, accorciando fisicamente la distanza creatasi fra
di loro, le cinse i fianchi con un braccio, lo stesso che le aveva alzato
contro, per esortarla ad andare via.
Campo
di Fossoli, 15 luglio 1944
Quattro
notti d’insonnia e senza amore, tre giorni lontani l’uno dall’altra, lui per
orgoglio, lei per delusione.
Oltre
che assassino, Hermann era pure bugiardo. Trattandola come qualsiasi altro
prigioniero, le aveva mentito sul destino dei settanta internati politici e,
ancor prima, sui suoi sentimenti, facendole credere di aver instaurato con lei,
seppur nascostamente, un rapporto alla pari. Invece, era per lui soltanto come
un oggetto fra gli oggetti di sua proprietà, prigioniera e sgualdrina da usare
a suo piacimento, un sottoposto a cui impartire gli ordini e il protrarsi della
sua assenza gliene dava conferma.
Forse,
Hermann aveva accolto la sua provocazione e, adesso, non essendo previsti
nell’immediato trasferimenti di prigionieri verso la Germania, stava
escogitando un modo per sbarazzarsi di lei. Forse, più semplicemente, l’aveva
già dimenticata, sostituendola magari con la bella cameriera bionda dagli occhi
chiari, italica al cento per cento e amante del sergente maggiore, che,
approfittando del suo allontanamento dalla servitù, non si era fatta sfuggire
l’occasione di rassettargli la camera e servirgli i pasti. Preoccupata per la
sua sorte, era stata Giuditta a darle questa informazione.
La
parte di sé legata ancora all’illusione di un sentimento amoroso rifiutava di
credere alle proprie supposizioni, mentre l’altra, sopraffatta da una
ragionevole amarezza, la teneva segregata nella baracca, nonostante la calura
di metà luglio, a tagliare le maniche dei vestiti con i quali era arrivata a
Fossoli, prima di liberarsi di quelli regalatele da lui, assieme alla rosa
rossa che, a maggio, aveva fatto seccare.
Non
era abituato a sentirsi dire di no. Viaggiando a ritroso nella memoria, poteva
imbattersi in un ragazzino a cui, nonostante la rigida educazione impartitagli
talvolta attraverso punizioni corporali, non era stato negato nulla. Seppur ben
temprato ad affrontare quella che sarebbe stata la sua vita militare, nessuno
gli aveva mai dato la possibilità d’imparare come comportarsi qualora le cose
fossero andate in un modo diverso da quello previsto, desiderato.
Prima
di Sarah, nessun’altra donna lo aveva mai rifiutato, merito della sua posizione
sociale e attrattiva fisica e, preso alla sprovvista da quel che, in fondo, era
un prevedibile diniego, aveva reagito, avvalendosi del suo ruolo di comando per
trattenerla a sé. Eppure non si sarebbe approfittato di lei una seconda volta.
Dietro
la bramosia dell’appagamento carnale, si nascondeva un muto bisogno d’incontro
e di presenza, di sentirsi amato. Forse, per convincere Sarah a restare,
sarebbe bastato mostrarle il suo lato più vulnerabile, lasciando che le ragioni
del cuore motivassero la sua richiesta, sicché essa non diventasse un ordine ma
un grido d’aiuto. Forse, avrebbe dovuto piegare il suo orgoglio e giustificarsi
dell’esecuzione di quegli innocenti, riconoscendo dinanzi a lei che lo vedeva
come un dio di essere soltanto una piccola pedina in qualcosa più grande di lui
a cui aveva giurato obbedienza e lealtà, «fedeltà assoluta fino alla morte».
Forse, non era troppo tardi per rimediare all’errore di averla persa.
Dapprima
fisso nel vuoto, lo sguardo si focalizzò sulla porta socchiusa dell’ufficio e,
di scatto, Hermann si alzò, facendo sobbalzare la cameriera bionda che aveva
appena posato sulla scrivania il vassoio con il bicchiere di limonata e della
cui presenza non si era neanche accorto. Agguantò il cappello dell’uniforme e
percorse i corridoi dell’edificio, poi le zolle di terra e fango che lo
separavano da lei, indossando la sua truce maschera.
Quando
spalancò con veemenza la porta della baracca, tutti si misero in allerta,
reduci dal trauma per la fucilazione dei loro compagni, fuorché Sarah che, pur
alzatasi istintivamente di scatto dal letto dov’era seduta a rammendare gli
orli delle maniche, mantenne una parvenza di calma per mostrarsi a lui
indifferente.
“Uscite
tutti.” A tal comando, benché sapesse di non esserne destinataria, si avviò
anch’ella verso la porta e, come aveva già previsto, Hermann la fermò.
“Tu
no.” La voce ancora greve, mentre gli ultimi prigionieri lasciavano la baracca,
la mano davanti al suo petto, così vicina da sfiorarla e provocarle un
sussulto, gesto che già innestò una battaglia contro se
stessa per non cedervi.
E
furono soli nel reciproco guardarsi. I lineamenti di Hermann si distesero,
mostrando un volto segnato da notti insonni e pasti saltati, mentre un velo
rugiadoso gli calava sugli occhi a rivelarne la malinconia. Invano, Sarah
perseverava nell’ostentare fermezza, giacché, senza che se ne rendesse conto,
ciò che vedeva era anche il suo riflesso.
Distolse
lo sguardo e fece per andarsene, ma, di nuovo, lui la fermò, mettendole innanzi
la mano. Stesso gesto, diverso atteggiamento, accompagnato da una voce quasi
supplichevole. “Aspetta”, le disse.
“La
prego, signore, ha dato l’ordine di uscire. Mi lasci andare come tutti gli
altri.” Fuori la baracca, via da Fossoli, ma l’accento vibrante di lacrime
trattenute rivelava che questo non era ciò che realmente voleva.
“Sarah,
ascolta, io non avevo altra scelta.” Più che le parole, fu la remissività nel
suo tono di voce a trattenerla. “Ho fatto un giuramento e tradirlo
significherebbe finire sotto corte marziale. Neanche tu vuoi questo.”
Assentì
con lo sguardo. Non voleva perderlo, ma la ragione le teneva ancora chiuso il
cuore nella morsa del dolore e dello sdegno.
“Mi
dispiace, Sarah. Sappi che non ti avrei costretta a stare con me”, proseguì,
fino a toccare le corde giuste, quelle di entrambi, “avevo soltanto bisogno
della tua presenza.” Una pausa, per prendere fiato e maggior coraggio, diede
enfasi alla sua dichiarazione. “Io ho bisogno di te.”
Protese
leggermente le braccia, mentre lei già cedeva all’illusione, abbandonandosi in
un lento scivolare sul suo petto.
“Io
ti amo.” Le parole gli fuoriuscirono dalla bocca come un suono strozzato. Rade
volte gliel’aveva detto, senza mai commuoversi, sempre offrendo a se stesso false motivazioni che giustificassero il suo
parlare. Delle volte era per consolarla, altre per compiacerla e, adesso,
sarebbe stato per persuaderla.
Era,
invece, l’espressione di un sentimento vero, forte la cui consapevolezza – in
quel momento, ancora vaga e sfuggevole – gli suscitò un trattenuto pianto di
liberazione.
Anche
Sarah dovette accorgersene, poiché lo strinse più forte, aggrappandosi alla sua
giacca, come per legarsi per sempre a quell’emozione così rara e difficilmente
ripetibile.
“Anch’io
ti amo, Hermann”, gli disse e fu lei a piangere sommessamente le sue lacrime.
“Troppo cerebrale per capire che si può star bene
senza complicare il pane,
ci si spalma sopra un bel giretto di parole vuote ma doppiate.
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando
dormo taglia bene l’aquilone,
togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare
in pace.
Liberi com’eravamo ieri, dei centimetri di libri sotto
i piedi
per tirare la maniglia della porta e andare fuori.”
Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come
immagino Sarah ed Hermann nel 1947.
Capitolo 50
L’inizio della fine
“Ma questo amore, amore, non è finito,
e così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra.”
Pablo Neruda, Amore mio, se muoio e tu non muori
Nella
debolezza di un singhiozzo malamente trattenuto, la forza di farle dimenticare
il suo peccato di collaborazione alla strage dei sessantasette innocenti.
Questi sarebbero a lui riapparsi come fantasmi, quando, confrontandosi col
passato, la consapevolezza della colpa generò pentimento.
Come
se non ci fosse stata alcuna interruzione, l’abbraccio cambiò sfondo. Dalla
finestra della camera di Hermann, il vento caldo dell’estate portò le note di
una musica lontana, forse solo immaginata – giacché alle orecchie d’ambedue non
giungeva la medesima melodia –, sulle quali i loro corpi presero a ondeggiare,
stretti l’uno all’altro per un tempo indefinito, ristorandosi dopo la lunga,
seppur breve, separazione.
Danza
di anime, fusione dei cuori e, sprofondato nel suo petto fasciato dalla
camicia, il viso di Sarah era, adesso, asciutto di lacrime. Un melanconico
stupore le balenò negli occhi, quando lui la fece distanziare, prendendola
delicatamente per mano. Voleva, infatti, che quel momento, così lontano dalla
realtà di Fossoli, perdurasse all’infinito.
Nello
spazio stretto di un abbraccio, Hermann aveva sperimentato una sensazione di
libertà e si abbandonò alla leggerezza dell’essere, facendola girare su se stessa. Roteò la gonna del vestito a fiori di prato,
regalo suo e fluttuarono i lunghi capelli semi raccolti, come in una sequenza
d’immagini a rallentatore che culminò con la visione di un lieve sorriso di
sollievo.
Ricambiò,
sorridendole più ampiamente e lei ne impresse negli occhi l’immagine che al
cuore avrebbe riportato nei momenti più bui, quando la consapevolezza della
sconfitta tedesca esacerbava l’animo di Hermann e la paura della loro fine la
affliggeva, svigorendola.
Tra
agosto e novembre, l’avvicinarsi degli Alleati e l’intensificarsi delle
attività partigiane furono determinanti per il trasferimento del campo a
Gonzaga, decretando l’inizio della fine che, già annunziata e scandita dal
rumore delle bombe aeree alleate, trovò compimento in una notte di dicembre,
col sangue di lui sulla neve, la sua nuca fracassata dal calcio del mitra di un
partigiano.
La
pellicola si riavvolse, come un film muto a ritroso e, volteggiando sorridente
in senso contrario, era di nuovo fra le sue braccia a ondeggiare sulle note del
cuore che cantava una melodia senza parole né suoni, accompagnata dal solo
leggero soffio della brezza estiva.
Napoli,
20 aprile 1947
Durante
il tragitto verso casa, l’accompagnava un silenzio di vuoto e d’assenza. Matteo
non era più l’amore.
Si
spegneva il suono di fondo del mare e del vociare delle persone godenti il
primo sole di primavera, soffocato dal ritmo affannoso del suo respiro. Lei era
qualche passo avanti, lontana dal cuore.
Maschera
di un profondo dolore, la rabbia le corrugava il viso arrossato dallo schiaffo
e dal riuscito tentativo di zittirla, tappandole con forza la bocca e muoveva i
suoi passi in un incedere risoluto che lui neanche si sforzava di sostenere,
sopraffatto da una sensazione di disagio che ambedue ignoravano fosse vergogna.
Lei non poteva immaginarlo, lui, invece, accettarlo per orgoglio.
Tremanti,
le dita di Sarah faticavano ad aprire la serratura della porta di casa e il
fastidioso tintinnio di metallo del mazzo di chiavi non faceva che accrescere
la sua concitazione. Scalpitava per nascondersi da lui, dalla verità sul suo
matrimonio.
Un
cigolio accompagnò l’agognata apertura della porta e, prima che Matteo potesse
sfiorarle un braccio, lo allontanò col gomito, in un gesto manchevole di forza
ma pregno di dispregio.
A
passo spedito, si diresse verso il bagno e, sbattendo la porta alle sue spalle,
sospirando pesantemente, promise a se stessa che mai
più si sarebbe fatta toccare da lui e che lo avrebbe ripagato con lo stesso
silenzio che le era stato imposto.
Lanciò
nel lavandino la giacchettina color panna e prese a strofinarla energicamente,
più per sfogarsi e temporeggiare che per l’urgenza di togliere le macchie di
sangue e sul suono dell’acqua corrente si concentrò, affinché smettesse di
udire la voce di Matteo che invocava il suo nome.
D’altronde,
lui sperava di restare inascoltato, non sapendo cosa dirle, giacché una parte
di sé credeva di essere nel giusto e fu essa ad allontanarlo dalla porta.
Raggiunse la camera da letto e, concitatamente, indossò gli abiti da lavoro,
smanioso di sedare in mare la sua tempesta interiore. L’altra parte di sé
temeva che avrebbe potuto farle di nuovo del male e lo sollecitava a sfuggire
da lei, da se stesso.
Con
movimenti quasi impercettibili, Sarah riapparve, presentandosi a lui scalza,
con indosso il vestito rosa schizzato d’acqua, col volto cereo come quello di
un fantasma e lo sguardo fisso nel vuoto. Sedette ai piedi del letto e
congiunse in grembo le mani, chinando il capo e preparandosi a infrangere la
promessa del silenzio.
“Ti
dirò soltanto una cosa, poi non sentirai più la mia voce.” Le parole le
fuoriuscivano dalla bocca tremule e austere al tempo stesso. “Puoi anche
ammazzarmi di botte, ma io andrò al matrimonio dei miei amici.”
Alzò
la testa e rivolse gli occhi verso l’uscio della stanza, dov’era Matteo fermo e
inerme a subire la propria rabbia di cui lei ignorava la vera causa scatenante.
Con
un tono di voce inasprito da quell’ostentata fierezza che le teneva frenato il
pianto, lo sfidò, dicendogli: “Tu non sai cosa ho dovuto affrontare nella
vita.”
“O
chi”, ribatté e fu lui a rievocare il fantasma del passato nella sacralità
della loro camera nuziale.
Con
uno scatto stizzoso, le volse le spalle e, stringendo forte denti e pugni, a
lunghe falcate, percorse il corridoio.
Sarah
capì subito a chi si riferisse, domandandosi, tuttavia, perché lo avesse
velatamente menzionato in quel frangente. Lo sbattere della porta di casa la
fece sobbalzare nel materasso e riemergere dal vortice dei ricordi, dov’era già
sprofondata.
La
pellicola della sua vita si riavvolse velocemente per poi rallentare, fino a
fermarsi sul fotogramma di una giravolta. E fu di nuovo fra le braccia di
Hermann.
Nella GIF, tratta dal film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in luna di
miele a Ischia.
Capitolo 51
Come suo padre
“Il processo di filiazione contiene questo paradosso:
la vita umana è attraversata dalla vita dell’Altro, porta dentro di sé non solo
un patrimonio genetico come marca biologica della sua provenienza, ma anche le
parole, le leggende, i fantasmi, le colpe e le gioie delle generazioni che
l’hanno preceduta. È fatta, costituita interamente, dalle tracce dell’Altro.”
Massimo Recalcati, Il segreto del figlio
Matteo
In
malo modo, aveva mandato via il giovane aiutante, retribuendogli le ore di
lavoro perdute, per restare da solo con se stesso, in mezzo al mare, sulla
barca che portava il nome di sua moglie, mentre la notte incombeva a schiarire
i pensieri.
Non
s’adoperò nel pescare, ma, sdraiato nell’imbarcazione, con le braccia
incrociate dietro la testa e l’espressione arcigna che andava via via
mitigandosi col dondolio lento delle onde, fissò gli occhi verso il cielo
stellato per un tempo indefinito.
Guardandosi
dentro, comprese che, senza accorgersene, in balia della volontà altrui,
intrappolato nello sforzo di essere come gli altri volevano, stava diventando
come suo padre e quegli uomini che, sin da piccolo, aveva rifiutato di prendere
come modello di riferimento nella sua vita, e in quella matrimoniale in
particolare.
Aveva
lasciato che l’istinto della violenza prendesse il sopravvento, sotto la spinta
delle proprie frustrazioni e l’influenza di una mentalità patriarcale
retrograda, rozza e si angustiava per la fatica a imboccare la strada del
pentimento e nel rendere più vivida alla memoria l’immagine del viso arrossato
di Sarah, del suo naso sanguinante.
Essendone
il primogenito, ricordava sua madre nei primi anni di matrimonio, l’ardore e la
giovialità della sua giovinezza piegati dalle male parole e dalle mazzate di
suo padre, il precoce sfiorire della sua bellezza coi tratti delicati del viso
e del carattere che s’indurivano con la fatica del lavoro domestico e delle
gravidanze e con gli stenti che una prole numerosa, inevitabilmente,
comportava. A questa vita stava condannando Sarah e se stesso.
Ponendo
nella dimenticanza gli eventi a cui aveva assistito da bambino, s’era precluso
di essi l’elaborazione, ma, assorbiti inconsciamente, ne aveva accolto il
retaggio. La catena non si sarebbe spezzata.
Un
fulmine sull’isola d’Ischia, dov’erano depositati i bei momenti della luna di
miele, precedé il lampo che gli restituì alla memoria un ricordo più lontano
nel tempo.
Si
rivide ragazzino, mentre, nascosto e accucciato nello sgabuzzino in cucina,
guardava attraverso una fessura della porticina la lite fra i suoi genitori, i
ripetuti tentativi di sua madre di sottrarre suo fratello a una punizione
troppo dura per la marachella compiuta che spettava anche a lui, essendone
complice.
Non
ricordava esattamente che cosa avessero combinato per suscitare una reazione
tanto iraconda, ma rammentò alla perfezione sua madre strattonata per i capelli
e scaraventata contro il tavolo, le sue braccia protese istintivamente in
avanti per proteggere dall’urto il ventre gravido, sul quale, ritrovato
l’equilibrio, adagiò poi una mano con espressione sofferente e rassegnata.
Fu in quel momento che, con un linguaggio da bambino, aveva
pregato dentro di sé la Madonna, affinché non diventasse come suo padre, ma, se
tale eventualità ci fosse stata, di non permettergli di avere figli.
Una preghiera che somigliava più a un giuramento, frutto di
un pensiero troppo maturo per la sua età che non riuscì a metabolizzare,
obliato al dolore fisico ed emotivo della severa e ingiusta punizione paterna.
L’onnisciente Provvidenza e non il peccato di concupiscenza
che, talora, ipotizzava avesse commesso Sarah con l’ufficiale tedesco impediva
loro di procreare. L’esaudimento di una preghiera e non l’espiazione di una
colpa. Il lato oscuro di sé e non l’ombra di un fantasma. Lui stesso e non
quell’Hermann. Poiché sarebbe diventato come suo padre, anzi già lo era.
Fra le dita, come se fosse una sensazione reale, poté
avvertire l’intrecciarsi dei capelli di Sarah, mentre, sul pianerottolo della
casa che avrebbero abitato, glieli tirava, in preda alle suggestioni della
gelosia, condizionato dalle opinioni altrui. Riguardando a tale evento, ne
riconobbe l’inconscia emulazione e, in lui, rivide suo padre, in Sarah, sua
madre nella scena del litigio a cui aveva nascostamente presenziato da
ragazzino. E volle ritornare in quell’angusto sgabuzzino per poter meglio
delineare, col medesimo lampo di discernimento d’allora, la verità su se stesso,
guardando da una fessura, ovverosia come spettatore, alla propria vita.
Comprese il vero motivo della sua profonda avversione verso
Davide per il quale avrebbe dovuto provare soltanto compatimento, dato il
tragico vissuto ad Auschwitz e, prima ancora, a causa delle leggi razziali,
scoprendosi completamente indifferente rispetto alla scelta di prendere in
sposa una donna più giovane e solo in minima parte geloso del rapporto amicale
con sua moglie.
Colto e dai modi raffinati, sensibile e dalle ampie vedute,
in lui vedeva il padre che avrebbe voluto per se stesso e l’uomo che sapeva non
sarebbe mai diventato. Frustrazioni queste dalle quali originava l’invidia che,
alimentando la propria disistima, s’esplicitava attraverso un più ammissibile,
onorevole sentimento di gelosia.
Sarebbe rimasto fermo sulla sua posizione, ma non avrebbe
impedito a Sarah di partecipare alle nozze, usandole violenza, come lei gli
aveva lasciato intendere di credere.
Si tormentò nel pensare a quale idea sbagliata si fosse fatta
su di lui, poi un altro pensiero abitò la sua mente. Riconobbe di non voler
ascoltare la verità sulla relazione di sua moglie con l’ufficiale tedesco per
evitare di affrontare il confronto che, indubbiamente, avrebbe retto, se questi
fosse restato un nazista stupratore.
Non si accorse del chiarore purpureo apparso nel cielo ad
annunziare il sorgere del sole e il suo mancato rientro a casa diede adito al fraintendimento,
interpretato, infatti, da Sarah come un abbandono.
“Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di
ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i
tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le
tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le
spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le
sue unghie strappate.”
Oriana Fallaci, Un uomo
Sarah
Immagine dal film “La conseguenza”
Dalle
finestre, le tendine bianche lasciavano filtrare timidamente il luccichio del
sole appena sorto sulle acque tranquille del mare. Lo sciabordio delle onde
sulla banchina era un suono quasi impercettibile, sovrastato dall’allegro
cinguettio degli uccellini. La pace del creato e l’allegrezza delle sue creature
non le ristoravano più l’animo, arrecandole, addirittura, fastidio. Il Creatore
si era dimenticato di lei.
Per
troppo poco, aveva assaporato con Matteo la dolcezza dell’amore, per poi
ingurgitarne tutto in una volta la parte più amara. La storia sembrava
ripetersi, ma al contrario.
Seduta
davanti allo specchio, con lo sguardo perso e gli occhi arrossati di sonno
perduto e lacrime versate durante tutta la notte, fissava un punto indefinito
della propria immagine riflessa. Al di là dei lividi su una pelle troppo
delicata, benché fosse di colorito olivastro, e delle ferite di un cuore
fragile, nonostante ne ostentasse la fortezza, oltre il turbinio dei pensieri
che finivan nella rimembranza malinconica dell’amore
che fu con Hermann, riemerse una voce, parole che s’articolavano fino a render
più vivido il ricordo.
Della
vita prima di Fossoli conservava una memoria sbiadita e, sullo sfondo confuso e
indistinto di una piazza, qualcosa di simile a una scia d’ombra velata le roteò
davanti agli occhi, riassumendo le sembianze di suo fratello nell’atto di
voltarsi verso di lei.
«L’ha
fatto prima, lo farà ancora», le aveva detto, assistendo alla lite tra
fidanzati, loro conoscenti, conclusasi con gli schiaffi del giovane contro la
compagna.
Assieme
alla coppia, prese forma anche la visione della Barcaccia e si ritrovò
seduta sulla scalinata di Trinità dei Monti, un paio di gradini più su
rispetto a Samuel.
La
scena le aveva suscitato disagio e turbamento, offrendo, invece, a suo fratello
lo spunto per una riflessione suggerita da quell’innato spirito partigiano che
gli conferiva una maturità maggiore, sebbene fra i due fosse lui il più
piccolo.
«La
lotta per l’uguaglianza tra gli esseri umani inizia dal rifiuto di ogni forma
di abuso di potere. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma anche ciò che
hai visto è un atto di discriminazione. È il prevaricare dell’uomo sulla donna,
del più forte sul più debole e, ogni volta che ciò accade, l’umanità compie un
passo indietro nel raggiungimento del mondo nuovo, di giustizia e libertà.»
Parlava
Samuel in un crescendo di fervore, poi la sua voce divenne a un tratto
apprensiva, o forse quelle che seguirono eran parole
dettate or ora dalla propria mente. «Non sottometterti, ribellati a chi ti
costringe all’infelicità. Fuggi da uomini come questi, da chi ti fa del male.
Perché chi ti ama non ti picchia. Perché l’ha fatto prima, lo farà ancora.»
Suo
fratello, la piazza si dissolsero in una nube indistinta nella quale
risiedevano, vorticando, vaghi ricordi di fanciullezza, di quando guardava con
innocenza alla vita, ignorandone i mali. Strizzò gli occhi dinanzi alla vista
del proprio viso che aveva quasi dimenticato essere livido e, nuovamente, le si
contrasse dall’amarezza.
Aveva
ragione Samuel ma solo in parte, poiché, se il discorso poteva, forse, valere
per Matteo, non era, invece, valso per Hermann. Questi, dopo che s’era reso,
verso di lei, colpevole di una delle violenze più odiose, aveva saputo donarle
un amore romantico e passionale che, implicito, si esplicitava nell’illiceità
di una rosa rossa lasciata sul comodino, di un giro di danza su quelle note che
soltanto loro potevano udire, di un piacere che le era permesso di raggiungere,
giacché egli traeva piena soddisfazione dall’appagarla.
Adesso,
puranche l’averla lasciata fuggire con i partigiani riconobbe come
un’esplicitazione dell’amore e, rivedendo la scena da tale prospettiva, poté
addirittura scorgervi un ardimentoso, inconscio tradimento verso la madrepatria
e, in esso, a sua volta, il preludio di un pentimento per il male commesso in
nome dell’ideologia antisemita. Ne presunse l’apice prima della morte a Sachsenhausen, momento nel quale, fu certa, aveva rivolto a
lei gli ultimi pensieri.
Provò
commozione nel pensare che l’amore aveva in qualche modo salvato entrambi. A
lui, l’anima. A lei, la vita dalla quale, però, non aveva saputo cogliere
l’occasione di riscatto.
Sentì
guarire la ferita dell’abbandono infertale da Hermann, mentre l’altra,
ovverosia quella della presenza assente di Matteo, già da tempo sanguinava.
Pensava
a quanto si sentisse più donna, quando, per il mondo avvelenato dal
nazifascismo, non era considerata nemmeno una persona, più amata e protetta nel
vincolo profano di una relazione clandestina, quando, agli occhi della sua
gente, poteva apparire come una prostituta e una collaborazionista.
Allungò
una mano verso il porta trucchi e ciò che, sino al
mattino precedente, aveva utilizzato per esaltare la propria naturale bellezza
e femminilità serviva, adesso, a nascondere le brutture di un matrimonio per il
cui fallimento iniziò ad attribuirsi le colpe.
S’era
vera la coesistenza del bene e del male in ogni uomo – e lo aveva visto in
Hermann –, lei aveva tirato fuori da Matteo la parte peggiore col suo
comportamento ribelle.
Perché
era lei quella sbagliata che aveva rifiutato il ruolo esclusivo di massaia,
continuando a lavorare al Gran Cafè dopo il matrimonio, offendendolo così nella
dignità di uomo capace di mantenere la famiglia. Perché era lei quella che,
puntualmente, lo spazientiva, non avendo cura d’interpellarlo prima di una
compera inutile, superflua che appagava il suo desiderio di apparire più bella
e qualche inconscia mancanza. Perché era lei quella algida che aveva finanche
smesso di sorridergli, richiudendosi in un silenzio che non esprimeva sottomissione
ma distacco. Perché era lei quella che, colpevole di non sentire più il
desiderio di mettere al mondo un figlio e impedendone così il concepimento, lo
stava privando della gioia e dell’orgoglio di diventare padre.
Quello
schiaffo se l’era meritato – proseguì nei suoi deliranti pensieri –, perché non
era una brava moglie, né sarebbe stata una buona madre, qualora lo fosse
diventata.
Coi
sensi di colpa assolse dall’errore Matteo che tornò ad essere il ragazzo dolce
e gentile che la teneva accoccolata fra le gambe in riva al mare, inebriandola
con promesse di felicità delle quali lei, soltanto lei, aveva impedito la
realizzazione. E tornò ad amarlo.
Di
nuovo, aveva confuso per fremito d’amore la paura dell’abbandono che le si
agitava dentro.
Lo
avrebbe amato, nonostante tutto, tentando di smussare le proprie asperità per
adattarsi a lui, semmai fosse rientrato a casa.
Un
pianto incontenibile sciolse la maschera di trucco che, tastando freneticamente
sul ripiano del comò alla ricerca del cerone fra il disordine dei cosmetici,
già si apprestava a rifare, mentre la rassegnazione le metteva indosso
un’immagine di donna diversa dalla propria essenza.
Si
guardò allo specchio e, con le striature nere sulle guance e i lividi
ricomparsi, si vide triste e muto pagliaccio, caricatura di se
stessa. Ma fu solo per un attimo, poiché s’era già persa.
Nella GIF, tratta dal film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah nel giorno della
proposta di matrimonio.
Capitolo 53
Un matrimonio sbagliato
“Perché la mancanza d’amore è la mia pestilenza.”
Alda Merini, Quando tu non ci sei
Girava
tra i tavolini della sala interna, nascondendo il dolore dietro una maschera di
sorrisi forzati, mentre sfuggiva agli sguardi di quanti le volevano bene,
conscia che, con il suo viso pesantemente truccato rispetto al solito e i suoi
capelli privi di volume, giacché non aveva indossato i bigodini durante la
notte, e acconciati con la riga dal lato opposto per camuffarvi il livido più
marcato, avrebbe dato adito alla loro intuizione. Ma fu l’ombra di tristezza
che le aleggiava attorno a richiamare l’attenzione dapprima di Davide.
Mentre in sottofondo
suonava “Parlami d’amore Mariù”, di colei che era per
lui come una figlia lo tenevano in apprensione le spalle ripiegate, l’incedere
lento, i gesti incerti e quell’espressione che ricordava di averle già visto in
un tempo lontano e che, adesso, attraverso il proprio sguardo inquieto, aveva
anche Hannah intercettato.
Raccoglieva le
ordinazioni Sarah, stringendo forte taccuino e matita per trattenere le mani
dal tremare e, quando l’esecuzione musicale fu terminata, indirizzò gli occhi
brucianti di sonno perduto e di lacrime che aveva ancora da versare verso il
pianoforte.
“Dovresti provare prima
tu a parlarle”, suggerì Davide a fior di labbro alla sua futura sposa,
anch’ella preoccupata, pensando che con l’amica si sarebbe aperta più
facilmente, mentre il bicchiere d’acqua che gli aveva porto rimaneva sospeso in
aria dinanzi al suo volto.
Hannah assentì con un
cenno del capo, soltanto a lui percettibile, ed entrambi si voltarono simultaneamente,
mossi da un istinto empatico, ritrovando lo sguardo affranto di Sarah, per poi
riprendere a parlarsi con gli occhi.
Fu
l’angoscia che la logorava dentro, ripercuotendosi sul suo corpo e alterando la
sua lucidità, a farle interpretare quel tacito dialogo fatto di sguardi intensi
e di delicate movenze come un’ostentazione del loro amore e, intanto che
guardava Davide raccogliere il bicchiere, la tristezza per l’altrui bene le si
tramutò in un moto di stizza.
Con
uno slancio improvviso, fuggì da se stessa, dalla
constatazione del proprio fallimento e dai consequenziali sentimenti negativi,
dirigendosi rapidamente verso i bagni col desiderio di nascondersi e, al
contempo, di farsi trovare per ritrovarsi, tornando ad essere come prima.
Sbatté
la porta alle sue spalle, sottraendosi agli sguardi attoniti del signor Gennaro
e dell’addetto alla caffetteria e ai commenti di biasimo di qualche cliente
intento a consumare al banco, distratto e infastidito dal suo scatto.
Aprì
il rubinetto, poggiando il palmo di una mano sul bordo del lavandino in
ceramica bianca con decorazioni floreali dorate in rilievo e il dorso
dell’altra sulla fronte. Il suono dei singhiozzi trattenuti si fondeva con lo
scrosciare dell’acqua, finché non lo interruppe un colpo deciso alla porta che
fu aperta e lei si volse alla voce allarmata che aveva invocato il suo nome.
Come
lavacro, le lacrime avevano sciolto il trucco, spazzato via la menzogna,
rivelando i segni di un matrimonio sbagliato, la vera essenza di un uomo che
Hannah credeva perfetto. Con l’amica, aveva sognato su quell’amore romantico,
allontanandosi un poco alla volta dalle bruttezze del genere maschile
conosciute nel postribolo di Mauthausen, prima che Davide le dissipasse per
sempre. Mai avrebbe pensato di sorprenderla in un incubo, a confrontarsi
nuovamente con la realtà della sofferenza.
E
Sarah non poté scorgere commiserazione nei suoi occhi, giacché questi le
restituirono il riflesso del proprio dolore. Come aveva con lei partecipato
alla gioia, così ne avrebbe condiviso il pianto.
Per
rispetto e turbamento, in punta di piedi e senza proferire parola alcuna,
Hannah le si avvicinò e, dinanzi allo sguardo che comprovava il fallimento
della propria vita e, al contempo, infondeva quell’affetto che, indurita da un
recondito, inconfessabile sentimento d’invidia, aveva smesso di cogliere e
accogliere, Sarah si commosse profondamente.
Sulla
spalla amica, le lacrime non soffocarono, oltrepassando coi singhiozzi le
spesse mura, sovrastando la musica allegra del pianoforte che Davide, adagio,
interruppe, mentre fra i clienti in sala s’incrementava lo stupito mormorio.
Quand’egli,
sospinto dall’apprensione che gli corrugava la fronte in un’espressione
adirata, accorse celermente sull’uscio del bagno, il signor Gennaro era già lì,
con le braccia incrociate, nella trepidante ma paziente attesa di comprendere
l’accaduto che l’abbraccio di Hannah celava, tra l’intreccio dei loro capelli
che ricoprivano il volto livido.
Scemando
in respiri contratti, il pianto si quietò, mentre la voce spezzata di Sarah
s’elevava nella confessione di una verità distorta che s’era imposta di credere
per continuare ad amarlo. “Mi ha lasciato, Hannah”, si rivolse solo a lei, pur
sapendo della presenza degli altri, “non è tornato a casa stamattina. È colpa mia.”
Soffocò
in gola un singhiozzo ed eruppe in un sommesso grido d’aiuto rivolto, stavolta,
a coloro che s’era scelta come figure paterne cui, per un attimo a loro
bastevole, sollevando un po’ il viso, mostrò i segni della punizione per quello
che credeva il proprio errore. “Io non sono una buona moglie”, sibilò.
Pensava,
infatti, che, assumendosi la colpa, l’avrebbero aiutata a farlo tornare. A
casa, ad amarla.
Padre
di una figlia precocemente perduta e padre di una figlia femmina mai nata,
Davide e Gennaro, che su Sarah riversavano il loro sentimento paterno di
responsabilità e protezione, si guardarono in faccia, scambiandosi il medesimo
sguardo. Generando un’emozione simile alla rabbia, in entrambi, eran vibrati l’amara delusione verso Matteo che avevan creduto fosse il marito giusto e il senso di colpa
per avergli affidato quella figlia già duramente provata dalla vita. Ma solo
uno gli avrebbe parlato.
Nella foto, come immagino Lucia e il sergente
maggiore Jörg.
L’immagine è tratta dal film “Suite francese”.
Capitolo 54
Lacrime e lividi
“Non t’amo se non perché t’amo e
dall’amarti a non amarti giungo e dall’attenderti quando non t’attendo passa
dal freddo al fuoco il mio cuore.
[…] In questa storia solo io muoio
e morirò d’amore perché t’amo, perché t’amo, amore, a ferro e fuoco.”
Pablo Neruda, Non t’amo se non
perché t’amo
Non si accorse dello scorrere del tempo,
finché il sole caldo di mezzogiorno non sfiorò le sue ciglia socchiuse nel
dormiveglia inquieto e le campane della Cattedrale suonarono a richiamare i
fedeli al saluto alla Vergine, Matteo a far ritorno dalla sua sposa.
La stanchezza derivante dal sonno
perduto e l’emicrania per le troppe ore trascorse in barca, in balia
dell’umidità del clima marino avevano sgombrato la sua mente da ogni pensiero, stordendolo
e acquietando quel suo sentimento di rabbia repressa che cheto restò, fin
quando non scorse in lontananza chi lo attendeva sul porticato di casa, coi
baffi grigi a dargli un’aria distinta e severa, le mani sui fianchi e gli occhi
dardeggianti a preannunciare l’imminente rimprovero.
Nonostante l’insistenza di Davide nel
volergli parlare, Gennaro era rimasto irremovibile nella propria decisione che
tale compito a lui spettava, non solo perché presumeva che qualsiasi discorso
fatto dal maestro di pianoforte non avrebbe sortito nessun effetto su Matteo,
accortosi di come questi non lo vedesse di buon occhio a causa delle malelingue
del paese, ma anche e soprattutto in virtù della promessa fatta all’amico,
compagno di trincea di prendersi cura dei suoi beni. E Sarah era il più
prezioso.
Seppur una parte di sé desiderasse
temporeggiare per ritardare l’incontro, Matteo accelerò con rabbioso vigore la
cadenza dei remi, autoconvincendosi di essere nel giusto verso Sarah per
vincere il timore della paternale e del giudizio di chi gliel’aveva affidata
come una figlia.
Senza rivolgergli lo sguardo, ormeggiò
la barca di fianco alla banchina e, con mani tremule ma celeri, nascondendo
l’espressione corrucciata dietro uno scompiglio di capelli ricci bagnati
dall’umidità, legò le funi alle colonnette. Fingendo di non averlo visto, si
apprestò a pulire le reti che neanche aveva usato e percepì la sua figura dirigersi
verso il molo con austera lentezza.
Più che per vergogna, si nascondeva per
orgoglio e non sollevò il capo nemmeno quando Gennaro fu troppo vicino, sicché
questi dovette fingere un colpo di tosse per attirare su di sé l’attenzione,
prima di rivolgergli un «buongiorno» tra il serio e il canzonatorio.
“Buongiorno a voi”, ricambiò il saluto,
imitandone l’intonazione, ma lo tradì un accento irritato che il distogliere lo
sguardo, facendo finta di rassettare le reti, non fugò dall’attenzione di
Gennaro.
“Tien ’na bella faccia tosta, guagliò”[1],
ribatté e le parole – a cui il dialetto conferiva maggior enfasi – s’impregnavano
di delusione, mentre pensava a come Matteo lo avesse, fino a quel momento,
ingannato con una parvenza da bravo ragazzo.
Per la bontà e la buonafede dei suoi
sentimenti, non certo perché fosse un buon partito, economicamente e
socialmente parlando, gli aveva, infatti, concesso la mano di Sarah, pur se ne
disapprovasse la frettolosa scelta resa possibile dalla di lei risolutezza nel
mettere in vendita la casa di famiglia.
Quei beni che aveva sottratto agli
artigli del nazifascismo eran comunque finiti in mano
sbagliata, pensò Gennaro pervaso da un senso di colpa verso l’amico che
preferiva credere solo disperso e, indicando la casa con un cenno della testa,
concluse più autorevole: “Trasimm, t’aggiaparlà.”[2]
Tutto sembrava arrecarle fastidio: l’apprensione
nelle parole della moglie del signor Gennaro, mentre insisteva affinché
riposasse; l’eccessiva gentilezza in quelle di Hannah – artifizio col quale
tratteneva il nodo di lacrime per la sorte dell’amica –, mentre s’offriva di
svolgere il lavoro al posto suo.
Aveva già rifatto il trucco Sarah e, di
nuovo, indossato la maschera di donna forte, stavolta per nascondere l’orgoglio
ferito. Mai avrebbe voluto rivelare il fallimento del suo matrimonio, lo
sgretolarsi dei suoi sogni alle persone a lei più care – soprattutto, a chi ne
aveva inizialmente disapprovato la brevità del fidanzamento – e in un modo poi
così disperato, tra lacrime e lividi.
Inibita da un certo timore reverenziale,
non era riuscita a contraddire la signora Carmela, ma, rimasta da sola con
Hannah, frenò le sue mani in procinto di sollevare il vassoio dal bancone con
un gesto rude, inaspettato.
“Faccio io”, esclamò risoluta, mentre le
afferrava il polso, colpendoglielo. E il colpo riecheggiò nell’aria, innanzi
all’assente presenza di spettatori distratti, e nel cuore, già conscio
dell’errore.
Incontrando lo sguardo rugiadoso
dell’amica, gli occhi di Sarah, un attimo prima dardeggianti, ne assunsero la
stessa espressione di stupore e un varco s’aprì nella sua memoria. Aveva già
vissuto una scena simile.
Campo di Fossoli, 16 luglio 1944
Al solo vederla di spalle coi capelli
biondi raccolti in un perfetto chignon con la treccia, quasi a voler pavoneggiarsi
di sembianze ariane, sentì ribollire in sé un inconfessato sentimento di sdegno
e gelosia che si esplicitò con la rabbia di un gesto irriflesso, quand’ella si
accinse a sollevare il vassoio dal ripiano della cucina.
Avvicinatasi fulminea e silenziosa,
Sarah le colpì il polso, afferrandoglielo e, con una forza sprezzante, le
allontanò la mano che batté contro il fianco, mentre il vassoio ricadeva
rumorosamente sul ripiano.
Alcune donne presenti si dileguarono,
altre, compresa Giuditta, guardavano di sottecchi la scena, senza la benché
minima intenzione di intervenire per timore di una punizione conseguente
all’eventuale litigio e tutte furon prese da
meraviglia dinanzi al comportamento di Sarah della quale pensarono di non
potersi più fidare, com’era per l’amante del sergente maggiore.
Dal giorno dell’ingiusta esecuzione
subita dagli internati politici, perdurava, nell’animo di tutte, un profondo
stato di turbamento e vulnerabilità, perfino in quello della tanto determinata cameriera
bionda. Solo Sarah, sebbene fosse oltremodo empatica, sembrava aver dimenticato
la strage di cui era stato vittima anche un ragazzino di sedici anni, obliando
la tragica realtà, le incertezze sul futuro e l’angoscia di morte per
rincorrere illusioni d’amore.
“Faccio io”, disse e si concesse il privilegio
di un tono altero, sentendosi forte della protezione di Hermann, “il signor
tenente non ha più bisogno dei tuoi servizi.”
Sul volto dell’altra, il cipiglio
corrucciato per l’indelicato gesto subito, di colpo, svanì per lasciar posto a
un’espressione di stupore, la stessa che, incontrando i suoi occhi color
smeraldo, luccicò, quasi simultaneamente, come impercettibile velo di lacrime
trattenute, anche nello sguardo di Sarah, sconcertata dalla propria reazione.
In essa riconobbe la tracotanza riconducibile ad Hermann al quale era finita,
in quel momento, ad assomigliare, mostrando di sé un lato violento,
prevaricatore che non le apparteneva e affibbiandosi il marchio di donna da
temere, con l’affermazione, seppur inconscia e implicita, del proprio ruolo di amante
del comandante del campo.
Ed ebbe paura di se stessa, ricordando
anche il monito di don Franco a non trasformarsi in ciò che non era.
Intanto, onde evitare un possibile coinvolgimento
nella situazione che andava surriscaldandosi, le poche donne rimaste in cucina
si apprestarono ad uscirvi e la cameriera bionda rivolse loro uno sguardo e un
sorrisetto ironici, più per stemperare la tensione che per schernirle.
“Voi mi vedete come una menefreghista,
una traditrice”, esordì e ruppe quel silenzio che, nella sua eloquenza, si
prestava a mostrar di lei la vera essenza, rivolgendosi unicamente a Sarah con
un tono sempre più lapidario, “come un’arrivista, una poco di buono e fate
bene, ma non sono sempre stata così.”
Inaspettatamente per entrambe, sulle
ultime parole, la voce s’era incrinata e un’espressione di tristezza mista a
rassegnazione aveva disteso i tratti del suo viso. Il silenzio riprese a
svelarne il lato vulnerabile.
Poi, d’un tratto, dinanzi al crescente
stupore di Sarah, in un’alternanza di risolutezza e commozione, confessò: “Per
vigliaccheria ho vestito i panni di staffetta partigiana e mi sono ritrovata a
combattere una guerra che non m’apparteneva e che – non me ne volere – non m’importava
granché.” Fece una pausa, alzando le spalle, forse, soltanto per poterle
riabbassare in segno di resa. “Ma la preferivo alla mia.”
Emise un esile sospiro, prima di
proseguire, dicendo: “Non ho avuto il coraggio di affrontare il fallimento del
mio matrimonio e sono andata via di nascosto. Senza dire una parola, senza
chiedergli il perché.”
Spostò il colletto della camicia e volse
lievemente il capo verso destra, mostrandole una cicatrice di forma circolare
sul collo, indubbiamente riconducibile a una bruciatura di sigaretta, ma Sarah
equivocò su chi ne fosse l’artefice.
“Io cercherò di fare qualcosa per te”, affermò,
tornando ad essere quella di sempre, con un tono empatico e, allo stesso tempo,
risoluto, pur sapendo che ad Hermann non sarebbe importato nulla.
Le labbra dell’altra si aprirono a una
fievole risata sardonica, nervosa per poi esprimersi con mestizia: “Non è stato
lui.” Si fermò per emettere un sospiro, stavolta, più profondo. “La cosa brutta
è che da uomini come questi, dal tuo nemico te lo aspetti – e anche lui mi ha
picchiata –, ma non dall’uomo che ami e che dice di amarti.”
La spiazzò, suscitandole una sensazione
d’imbarazzo che divenne, nuovamente, di stupore, quand’ella, in modo improvviso,
riprese il suo contegno altezzoso e la sua voce da oca giuliva, mentre,
cambiando discorso, le diceva: “Sei una brava persona, Sarah. Fuori di qui,
avremmo potuto essere amiche.” E le porse la mano per presentarsi. “Lucia.”
Mai
s’innamorarono Lucia e Jörg ai quali toccò la sorte che fu da Sarah ed Hermann
elusa. Morì il sergente maggiore nei primi attimi della battaglia partigiana di
Gonzaga e lei finì su un treno diretto a Ravensbrück, uno degli ultimi treni di
deportazione partiti dal territorio italiano.
Esitante, Sarah le strinse la mano e,
con un sospiro di meraviglia mista a rammarico, esalò la sua risposta: “Sì,
avremmo potuto.”
Nella foto, dal set del film “Il club del libro e
della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in
luna di miele a Ischia.
Capitolo
55
Parlarsi
“L’amore è un
gesto di disarmo. Esso ci impone sempre di parlare la lingua dell’altro, di
imparare un’altra lingua, una lingua differente dalla nostra. L’amore non è mai
amore per l’eguale ma per il prossimo in quanto figura dell’alterità.
[…] Quando dichiaro
l’amore a qualcuno, quando dico «ti amo», dichiaro di amare nell’altro proprio
quello che non so capire, che mi sfugge, il segreto inaccessibile della sua
vita. Per questo si ama innanzitutto la libertà dell’altro. È la meraviglia
dell’amore: amare l’assoluta libertà della lingua dell’altro.”
Massimo
Recalcati
Il
signor Gennaro entrò per primo in casa, palesando il suo malumore con
un’andatura spedita e, al contempo, pesante. Di colpo, frenò i suoi passi
dinanzi al tavolo di una cucina impeccabilmente in ordine, a dimostrazione
della condotta irreprensibile di Sarah, nonostante il trattamento ricevuto. E fu
proprio nell’osservare il vaso con i fiori freschi di calendula dalle sfumature
gialle e arancioni posizionato al centro della tavola su un candido centrino
ricamato che la sua irritazione accrebbe, ancor prima che Matteo aprisse la
bocca.
“Se
siete venuto a dirmi che ho sbagliato, potete anche risparmiarvelo”, gli disse,
mentre udiva i battiti sempre più accelerati del proprio cuore fondersi con un
intercalare arrogante che lui stesso non avrebbe mai e poi mai pensato potesse
appartenergli, soprattutto nei confronti di una persona estranea e matura.
Si
volse prontamente il signor Gennaro e, mentre il sopracciglio gli s’inarcava in
un’espressione sorpresa e irata, dovette trattenersi dal dargli uno schiaffo,
ben sapendo che tal gesto istintivo avrebbe potuto compromettere l’efficacia
della sua paternale. Lo lasciò quindi parlare.
“Perché
lo so già”, proseguì Matteo, pronto a sfogarsi, ma senza scendere nei
particolari, “ma voi non sapete che cosa devo sopportare ogni giorno con
Sarah!”
Si
riferiva alla mancanza di sentirsi da lei amato, voluto e benvoluto,
all’umiliazione di sentirsi secondo rispetto a quel nazista, ma fu un azzardo,
poiché l’altro, non potendo giustamente immaginarlo, lo colpì con dure parole.
In egual modo dettate da un istinto di rabbia, ad esse lo schiaffo sarebbe
stato di gran lunga preferibile.
“Che
cosa devi sopportare ogni giorno con Sarah, eh? Sentiamo!” Il signor Gennaro
non riuscì più a contenersi e sfogò il proprio risentimento in un crescendo di
tono, finché le parole non divennero offensive. “Che è una buona moglie e una
gran lavoratrice? Che contribuisce al sostentamento economico della famiglia?
Che ha venduto i suoi beni per comprare ’sta casa ca’ te mantene linda e pinta
e chella barca ppe fatte fa’ ’o padrone?[1]”
Puntò
energicamente l’indice verso la finestra, pur se, da lì, la barca non fosse
visibile, per poi indirizzarlo accusatore contro Matteo che restava impietrito,
con gli occhi stralunati e umidi, nel sentirsi rinfacciare ciò che, a Sarah,
non aveva mai chiesto.
“Se
non era per lei, avevi voglia di restare alle dipendenze del compare e chissà
fra quanto vi sareste sposati”, proseguì Gennaro, in procinto di assestargli un
colpo ancor più duro del quale si sarebbe presto pentito, “solo per questo l’avissa tenere accussì a chella guagliona.[2]”
Stese una mano con il palmo rivolto all’insù. “Perciò, sta’ attento quando
parli di Sarah, pecché nun tien’ nient’ e nunsi’nisciuno[3]”,
incalzò, puntandogli di nuovo il dito contro, “e bada bene a come la tratti e che
non si ripresenti mai più al lavoro con la faccia impiastricciata di trucco per
nascondere un tuo livido.”
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Le parole gli echeggiarono lentamente, cupamente
nella testa, schiacciandolo ad ogni sillaba scandita. Umiliato, ferito in
quell’orgoglio maschile già abbastanza compromesso, Matteo non controbatté né
si mosse di un millimetro. Soltanto s’intensificò il luccichio nei suoi occhi e,
di colpo, impallidì in viso.
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Eran le lapidarie parole di una società per
la quale non valeva nulla, di un padre deluso, pentito di avergli affidato una
figlia che non meritava, perché lui davvero «non aveva niente e non era nessuno».
Pensò che finanche quell’altro – Hermann –, seppur nel male, fosse meglio di
lui, avendo, difatti, salvato Sarah avvalendosi proprio del suo importante
ruolo nella società di allora.
«Nun
tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Con parole dure e sferzanti, più dolorose e
umilianti di uno schiaffo in pieno viso, gli aveva strappato via la maschera
dell’arroganza, rivelando il volto e gli affanni di un ragazzo vulnerabile qual
era realmente. Gennaro capì di aver esagerato. Poggiò una mano sullo schienale
della sedia accanto a sé e, mentre, chinandosi, esalava un sospiro di
pentimento, un verso strozzato sfuggì dalla gola di Matteo.
Pianse e, tra i singhiozzi malamente
trattenuti coprendo il viso con una mano, il signor Gennaro seppe cogliere, in
parte, le ragioni del suo malanimo.
Sospirò di nuovo, stavolta più
profondamente e riprese a parlargli con un tono pacato e comprensivo: “Immagino
quanto possa essere difficile vivere accanto a una persona sopravvissuta. Sarah
ha perso gli affetti più cari, ha sofferto l’arresto e la prigionia senza
motivo, ha subito umiliazioni e privazioni, ha rischiato di essere deportata adAuschwitz
e di perdere la vita com’è accaduto alle migliaia di altri.”
La voce gli s’incrinò e tacque per
contenere la propria commozione, dando a Matteo il tempo di ricomporsi. Questi
portò la mano alla fronte, stringendo i capelli ricci fra le dita e tirandoli
un po’, gesto col quale era solito esprimere il suo disagio. Si asciugò poi il
viso con la manica della camicia beige stropicciata da vento e salsedine e,
tirando su col naso, soffocò un ultimo singhiozzo.
“A volte, sembra estraniarsi dal
presente, perché in passato ha vissuto un tempo sospeso”, proseguì il signor
Gennaro, aggiungendo un’intonazione seria e apprensiva alla sua voce. “Devi
saper comprenderla e per poterlo fare è necessario che vi parliate, sempre. Ma
questo vale per tutte le coppie. Io e mia moglie stiamo insieme da oltre
quarant’anni: sei figli maschi, due guerre mondiali, una gravidanza finita
male, un locale da portare avanti e tante difficoltà che, se non ci fossimo
parlati, non avremmo mai potuto superare. Tante volte abbiamo discusso,
litigato e lo facciamo ancora, ma non siamo mai arrivati al punto dove siete voi
dopo soli sei mesi di matrimonio.”
Sorrise per non piangere, mentre gli
occhi scuri di Matteo deviavano nel vuoto.
Gennaro gli si fece più vicino e,
ponendogli una mano sulla spalla, trattenne un sospiro, prima di avviarsi alla
conclusione: “Ho sbagliato a parlarti in quel modo, ma Sarah è come una figlia
per me e voglio che tu impari a controllare i tuoi istinti. Da questo si misura
la vera forza di un uomo.”
“Su, coraggio!” Tal saluto, accompagnato
da due pacche sulla spalla, destò Matteo dal suo immobilismo.
Rimasto da solo, si volse di lato e
indirizzò lo sguardo inumidito dalle lacrime verso la camera da letto, mentre
udiva i passi del signor Gennaro allontanarsi e la porta di casa aprirsi per poi
richiudersi. E fu subito sera.
Vide Sarah di profilo, seduta ai piedi
del letto, ripiegata su se stessa, con indosso la sua lunga vestaglia di seta
bianca dalle maniche larghe che, apertasi sul fianco, le lasciava una gamba
scoperta e si avvicinò all’uscio della stanza.
Non si era scomposta Sarah al rumore
della porta d’ingresso che s’apriva e si richiudeva, ma, quando i passi lenti e
strascicati di Matteo si fermarono sulla soglia della camera da letto, non poté
che sollevare il capo e rivolgere a lui lo sguardo.
Negli occhi color miele le rilucevano le
lacrime trattenute e sulla guancia impallidita si presentava il livido a
rinfacciargli l’errore. Che cosa le aveva fatto?
“Abbiamo
già un vissuto che, a dire il vero,
somiglia
più ad un conflitto.
Il
cuore spesso offeso da un dito che
tu
mi hai puntato al petto.
Se
gli occhi non riescono
a
raccontarti ciò che vedi,
proverò
io a dirtelo,
perché
all’evidenza non ci credi.”
Emma
Marrone, Mi parli piano
[1]Che ha venduto i
suoi beni per comprare questa casa che ti mantiene pulita e ordinata e quella
barca per farti fare il datore di lavoro?
[2]Solo per questo
la dovresti tenere così (tenere su un piedistallo) quella ragazza.
Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come
immagino Sarah ed Hermann nel 1947.
Capitolo
56
Arrendersi
Prima parte
- Come petalo di margherita caduto in terra -
“Mi piaci quando
taci perché sei come assente.
Distante e
dolorosa come se fossi morta.
Allora una
parola, un sorriso bastano.
E son felice,
felice che non sia così.”
Pablo Neruda, Mi
piaci quando taci
Danza
di sguardi rugiadosi sullo sfondo della luce soffusa propagata dal lume sul
comodino, Sarah abbassò gli occhi sul mazzo di fiori che Matteo teneva
penzoloni in una mano e anch’egli vi rivolse lo sguardo. Se n’era quasi
dimenticato e comprese quanto fosse stata fuori luogo l’idea di ripresentarsi a
lei con dei fiori. I loro occhi s’incontrarono ancora, prima che lo sguardo
deluso e insofferente di Sarah ritornasse sul pavimento. Altrettanto
amareggiato verso di sé, Matteo guardò di nuovo il mazzo di fiori e lo scosse
leggermente, come a voler sottolineare a se stesso l’errore.
Le
bianche margherite persero così alcuni dei loro bei petali bordati di rosa che
si riversarono ai piedi di Matteo, unendosi alle ceneri del suo matrimonio
infelice per la cui salvezza non sarebbe bastato chiederle scusa né
giustificarsi attribuendo la colpa a un terzo. Di questi, tuttavia, avrebbe
potuto parlarle indicandolo come uno dei motivi della propria infelicità e si
sentì pronto a tale confessione.
Sentimenti
contrastanti albergavano e si scontravano nell’animo di Sarah e, giacché non
aveva provato alcun sollievo nel rivederlo, capì quanto la speranza ch’egli non
tornasse fosse più forte rispetto alla paura di averlo perso, sicché l’apatia e
la rassegnazione presero a dominare su quella combattiva volontà di parlargli,
di chiedergli il perché scaturita dal ricordo di Lucia.
Il
mazzo di fiori coi petali strapazzati dal malcontento di Matteo finì su una
seggiola accanto alla porta e, intanto, in lui veniva meno il coraggio infusogli
dal signor Gennaro del cui discorso prese a ricordare, in un crescendo di
tormento, soltanto le parole che lo avevano ferito sminuendo il suo valore.
Si
avvicinò a Sarah lentamente, a testa china, piegato sotto il peso della
disistima verso di sé, dell’afflizione di sentirsi immeritevole di lei, della
paura di perderla e ne fu sopraffatto.
Non
provò stupore né compatimento e neppure compiacenza Sarah al tonfo delle
ginocchia di Matteo che batterono sul pavimento innanzi a lei. Soltanto sentiva
nel cuore l’eco del vuoto, spento anche l’ultimo palpito d’amore.
Matteo
si era inginocchiato malamente in terra, quasi a volersi punire e un singhiozzo
strozzato, soffocato, premendo la guancia ispida sul ginocchio nudo di Sarah,
ne aveva preannunciato il pianto.
Al
primo suono rauco, più somigliante a un colpo di tosse, Sarah restò turbata e,
da esso derivanti, le lacrime convulse le sottrassero ragione e intenzioni. Il
suo cuore trasalì e confuse per battito di rinnovato amore quel ch’era mero
sussulto di compassione la quale si radicava nel sentimento di bene.
Matteo
versò allora tutte le lacrime trattenute per pudore ed orgoglio in presenza del
signor Gennaro e, nel pianto che andava quietandosi, biascicò: “Mi dispiace.”
Ma,
forse, lo era più per se stesso. E questo Sarah dovette accorgersene, poiché
fermò la mano a mezz’aria sul suo capo in un gesto esitante.
Pensò
a quanto, come Lucia, fosse stata manchevole di coraggio, mentre la domanda –
quel «perché» che, se pronunciato, avrebbe potuto spingere Matteo ad aprirsi –
rimaneva incastrata tra il cuore e la gola. Di lei, però, non avrebbe imitato
l’ardire di andar via e si arrese all’infelicità.
Per
un istante, chiuse gli occhi per sottrarsi alla realtà a cui s’era già da tempo
rassegnata e sospirò debolmente, prima di infrangere la promessa del silenzio
che gli aveva fatto la sera precedente.
“Anche
a me”, rispose in un sussurro e affondò le dita nello scompiglio dei suoi
capelli ricci, carezzandogli la testa.
Un
alito di vento si levò, l’ultima sferzata di fresco, prima dello stabilizzarsi
della bella stagione, che intirizzì, da sotto la vestaglia di seta bianca, la
pelle nuda delle gambe di Sarah e drizzò i folti peli delle braccia di Matteo,
scoperte dalle maniche della camicia arrotolate fin sopra ai gomiti.
Danzarono
le tende in organza alle finestre di casa e vorticarono, sparendo verso il
corridoio, i petali caduti in terra. La brezza di mare batté alla porta
d’ingresso e, accompagnati dallo sciabordio delle onde che s’infrangevano con
maggior forza contro la banchina, i sospiri del vento fecero da preludio agli
ansiti d’amore.
Perché
quella stessa notte Sarah venne meno ad un’altra promessa – quella fatta a se
stessa – e cedette alle carezze di Matteo, mentr’egli usava il proprio corpo
come strumento per chiederle perdono.
A
nulla valsero il ricordo di Lucia, la paternale del signor Gennaro e l’amor
carnale fu il fallimentare epilogo di un discorso fra i due mai cominciato.
Per
la prima volta, Sarah raggiunse con Matteo l’ebrezza dei sensi, accogliendo
come disperata passione quello smanioso fremito suscitato dalla paura di
perderla, per poi sentirsi ancor più sola, vuota e violata.
Infastidita,
quasi umiliata dallo sguaiato sospiro di appagamento di Matteo, Sarah si volse dall’altra
parte del letto e una lacrima le scivolò sulla guancia livida, mentre guardava
il mazzo di fiori appoggiato sulla seggiola perdere un altro petalo il quale
volteggiò nell’aria, prima di cadere anch’esso in terra.
“Cercando solo
te, io vivo, poi tu mi fai morire
per un nuovo
amore, per i silenzi che mi hai dato e che ti porti via.
Ed ora che mi
chiami «amore mio» potrei anche perdonarti,
Capitolo 57 *** Di svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi ***
Nella
foto, come immagino Hermann nel 1947.
L’attore
è Alexander Skarsgård, protagonista del film “La conseguenza”.
Capitolo
57
Di
svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi
“La
guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua
razionalità, la «comprendiamo». Ma nell’odio nazista non c’è razionalità: è un
odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco
funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo
capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia.”
Primo
Levi, Se questo è un uomo, 1947 (in Appendice, 1976)
Berlino,
25 aprile 1947
Non
ci sarebbe stato modo di sfuggire a ciò che i suoi avevano già pianificato.
Accettando l’invito e coinvolgendolo a una festa segreta di ricchi, nostalgici
nazisti, avrebbero giocato la loro ultima carta per convincerlo non tanto a
restare, quanto piuttosto a riabbracciare l’ideologia, forse, pensando e
sperando che qualcosa o qualcuno, o soltanto il ritrovarsi, riconoscendosi in
quel mondo gli avrebbe fatto cambiare idea.
Aveva
risposto subito con un diniego Hermann, giacché, in lui, v’era non solo il
rigetto verso quella gente ma anche la paura di un’eventuale ronda da parte
delle milizie occupanti e di finire nell’ennesimo guaio che avrebbe posticipato
la sua partenza. Il pensiero di tale eventualità lo angosciava ancor più del
ricordo delle violenze subite nel lager sovietico.
Da
bravo persuasore qual era, merito anche di una carriera da poliziotto, suo
padre non ci mise molto per convincerlo.
“Quella
gente, come la chiami tu, mi ha aiutato a ritrovarti e a tirarti fuori da Sachsenhausen.
Mi hanno prestato dei soldi”, incalzò Karl, sbattendo il pugno sul tavolo e,
ansimante, quietò poi il tono della voce, “che molti di loro non rivogliono
neanche indietro, perché sei sempre stato stimato e apprezzato.”
Se
con tali parole suo padre si fosse fermato, Hermann avrebbe dato lì per lì il
proprio assenso, rivestitosi per un lungo attimo stordente di quella tracotanza
della quale nel lager sovietico, tra umiliazioni e percosse, era stato
spogliato, invece continuò, infierendo su ciò che proprio non riusciva ad
accettare: “Anche dopo che è venuta a galla quella merda.”
Un
cipiglio irato gli incorniciò lo sguardo perso nel vuoto e, mentre si alzava,
lasciando stridere la sedia contro il pavimento, pur egli rispose sbattendo il
pugno sul tavolo, ma la profonda disperazione ne trattenne la forza che, di lì
a poco, avrebbe espresso chiudendo con violenza la porta della sua stanza.
La
gente di quel mondo cui anche Hermann aveva appartenuto, a differenza di suo
padre, era stata capace di perdonargli la storia d’amore con Sarah, giacché
essi non la ritenevano tale. Taluni lo avevano giustificato, definendola un
ricordo distorto per sfuggire alla dura realtà del lager sovietico, altri una
sbandata dovuta alla tensione per una guerra ormai persa, attribuendo a lei il
ruolo di valvola di sfogo per irrefrenabili pulsioni maschili e di maliarda
quale ritenevano fosse una donna ebrea, ma tutti, alla confidenza di Karl, ne
avevano irriso l’esagerazione.
Neanche
fosse stata l’ultima donna sulla faccia della terra, Karl non avrebbe violato, né
allora né mai, e neppure col pensiero, uno dei capisaldi dell’ideologia
nazionalsocialista, giacendo con un’appartenente alla razza impura, e si
stupiva della leggerezza e dell’ironia, talvolta sfocianti in volgari battutine,
con le quali i suoi amici affrontavano l’argomento.
Seppure
fosse risorto dalle rovine, il nazismo avrebbe avuto connotati diversi e Karl viveva
nella tacita e, a sua moglie, inconfessata malinconia, rimuginando dentro di sé
tal pensiero, consapevole che anch’egli era cambiato, giacché un tempo non
avrebbe mai e poi mai, e così schiettamente, confessato il reato di oltraggio
razziale compiuto da suo figlio.
Questi,
intanto, sciolse l’intreccio di dita e sollevò dal pavimento lo sguardo
corrucciato. Si alzò dal letto sul cui bordo era seduto e s’arrese al volere
dei suoi, sentendo il richiamo di quel mondo che pensò potesse corrispondere al
proprio cambiamento e dal quale, inconsciamente, desiderava ricevere ancora gli
onori.
Intenzionato
ad annunciare la sua decisione, si avvicinò in fretta alla porta della stanza e
impugnò la maniglia.
Un
maggiordomo in giacca bianca aprì loro la porta della sontuosa casa, una villa
fuori città che sembrava esser stata immune dalla furia della guerra e dove i
suoi abitanti, anch’essi rimasti incolumi dal conflitto, poi ignorati dalla
giustizia del dopoguerra, vivevano un tempo sospeso, in attesa della seconda
vita del nazismo, fra nostalgia del passato e palpitante aspirazione di fondare
un nuovo movimento politico che ne rianimasse l’ideologia.
In
smoking nero lucido con papillon, bretelle e fusciacca ad enfatizzare un fisico
asciutto e, adesso, con muscoli appena accennati, Hermann posò lo sguardo
incredulo sull’enorme drappo rosso con la svastica che sovrastava il camino di
una sala già gremita di persone eleganti e gaudenti e il suo cuore fremette,
scosso dal timore del passato che tornava e, al contempo, da un tremore di
nostalgia.
Incrociò
gli occhi di suo padre,due pozzi verdi, un tempo più
rassomiglianti ai suoi, ora velati dall’età in una mescidanza di malinconia e
severità, il quale, alla sua espressione interrogativa, rispose, ammonendolo
come se fosse un bambino: “Non dire nulla che ti faccia vergognare.”
Seppur
per motivazioni diverse, Sarah era il chiodo fisso di entrambi.
Consegnarono
i soprabiti e, procedendo nel sontuoso e immenso spazio della sala in stile
ottocentesco, sebbene fosse rimasto qualche passo indietro, Hermann poté notare
l’espressione corrugata di suo padre rilassarsi in un cordiale sorriso, mentre
s’avvicinava ai padroni di casa in primis, e all’altra gente poi, seguito da
sua madre che, anche lei sorridente, con indosso una gonna lunga fino al
ginocchio e coi capelli biondi tinti per l’occasione, pareva ringiovanire in
quel mondo.
Rimasto
indietro e distanziatosi dai suoi, Hermann si confuse fra la gente alla ricerca
di un angolo dove poter fare da tappezzeria e, con in mano una coppa di
champagne offertagli da un cameriere di passaggio, lo trovò nel più angusto
spazio della sala, tra la parete e il tendaggio di velluto color rosso
bordeaux.
Le
persone eran per lui come ombre sfocate, i loro discorsi filonazisti gli arrivavano
alle orecchie come un trambusto ovattato che s’elevava al vecchio valzer
viennese suonato dal grammofono.
In
una seconda coppa di champagne, affondò l’angoscia e il desiderio di un ritorno
al passato, suscitatigli da quel mondo e, sebbene la mente fosse in confusione
e l’animo in lotta, prevalse in lui la consapevolezza.
E
comprese Hermann l’impossibilità di sperimentare l’ebrezza dell’egocentrismo,
della superiorità e del potere, senza dover considerare un altro essere umano
inferiore e sopraffarlo. La scelta era tra il riabbracciare quel mondo in toto
o non farlo per niente e tornare a Sarah da uomo libero, liberato completamente
dal veleno del nazismo che, subdolo, s’insinuava ancora nelle sue vene, ma lui
non aveva alcun dubbio.
Al
di là dei pensieri che gli affollavano la mente, dinanzi al vuoto che i suoi
occhi fissavano, prese forma un’immagine di donna a lui familiare, di spalle,
in abito lungo color oro con lustrini e orlo a sirena stile charleston che le
aveva già visto indosso, nella consueta posizione asimmetrica e sensuale con
una mano sul fianco e il gomito proteso leggermente all’indietro, coi capelli
biondi raccolti in uno chignon impreziosito da un fermaglio gioiello, regalo
suo.
Conversava
con le altre donne che l’accerchiavano e che, quasi subito, avendolo
riconosciuto, con simultanei cenni del capo, la esortarono a voltarsi. Lo fece
e, fermatasi di lato, già gli mostrò un paio d’occhi azzurri,quelli
che un tempo Karl e Birgit sognarono per i loro nipotini, spalancati in greve
stupore.
Era
Else, la sua fidanzata storica.
“Ciao
tu, animale stanco,
sei
rimasto da solo, non segui il branco,
balli
il tango, mentre tutto il mondo
muove
il fianco sopra un tempo che fa
tikibombombom.
[…]
Mai più, è meglio soli che accompagnati
da
anime senza sogni pronte a portarti con sé, giù con sé.”
L’attrice è Diane Kruger,
dal film “Bastardi senza gloria”.
Capitolo
58
Arrendersi
Seconda
parte
-
“Sul bel Danubio blu” -
“La memoria umana è veramente qualcosa di strano. Sfioro un
braccio e trovo la voce di un’altra persona. Tocco dei volti e i loro occhi si
allontanano. Scopro un cielo azzurro e tutte le forme intorno si nascondono.
Attraverso un ponte e non c’è nessun fiume sotto. Come sono inafferrabili
taluni ricordi nel loro essere appesi a niente, forme in continuo movimento che
restituiscono il niente in un niente più grande.”
Fabrizio Caramagna
Il
vecchio valzer viennese suonato dal grammofono,i discorsi
filonazisti e le risate frivole della gente parvero zittirsi in un silenzio
irreale, intervallato in maniera quasi ipnotica dal fruscio dell’orlo del
vestito di Else sul pavimento e dal tintinnio dei suoi bracciali in oro, mentre
a lui s’avvicinava lentamente, sinuosamente.
La
scia di Chanel N°5, il suo profumo da sempre, la precedé, per empir poi di
vecchie sensazioni lo stretto, forse, per Hermann, disagevole spazio che fra
loro s’interponeva.
Quattro
anni e lei sarebbe parsa la stessa, se non fosse stato per lo spesso strato di
rouge che celava due guance smagrite e la fresca vedovanza per la quale non
aveva mai portato il lutto.
Fondato
già su un debole amore, il matrimonio si disfece assieme alla Germania nazista.
Terrorizzato dall’arrivo dell’Armata Rossa, svuotato della speranza del
delirante sogno d’“impero millenario” in cui Else, invece, non smetteva
ossessivamente di credere, il giovane Sturmbannführer[1] si
tolse la vita con una pillola di cianuro e mai ricevette perdono per quel che
lei considerava gesto egoista, sentendosi abbandonata, e, in primis, vile verso l’amor di patria che tanto li aveva uniti.
Finì per odiarlo.
Alzandosi
sulle punte delle sue décolleté di raso color bronzo impreziosite da una
fascetta di strass, gli si aggrappò alla spalla ed
Hermann credette nel saluto di un bacio sulla guancia che già s’apprestava
istintivamente a ricambiare.
Invece
gli avvicinò le labbra rosse all’orecchio e, dischiudendosi quel tanto che
bastava per sussurrare, la sua bocca produsse il suono come di un bacio, prima
di chiedergli con voce seducente: “Ti andrebbe di ballare con me, Hermann?”
Scandì ogni parola, ma si trattenne qualche secondo in
più sull’ultima, per far sì che il suo nome gli arrivasse
all’orecchio come un sospiro, richiamo ammaliante di un silenzioso desiderio
che lo avvinse e, mentre il grammofono suonava le prime note del valzer “Sul bel Danubio blu”, la sua mano si ritrovò a
stringere quella di Else e fu subito al centro della sala – lui che, dapprima,
s’era nascosto all’ombra di un tendaggio per sfuggire all’attenzione della
gente.
Else
era un concentrato di ricordi dei suoi vent’anni. Danzar con lei era il
rievocare la fatica e la gratificazione dello studio prima, della carriera
militare dopo, il tremore e il coraggio di deviare il percorso di vita col suo
passaggio dalla Gestapo alle SS, affascinato più dalla divisa di suo suocero
che da quella di suo padre, il brivido d’orgoglio di sentirsi riconosciuto
dalla società dell’epoca, di credersi superiore rispetto a buona parte della
popolazione mondiale.
Ma
Else era anche la spensieratezza di un amore giovanile con la trepidante,
acerba curiosità di scoprire l’altro sesso e se stesso nella sfera dell’intimità,
la tenerezza di passeggiate mano nella mano al chiaro di luna, di romantiche
cene a lume di candela, gli eccessi di un bagno nudi nel lago Schlachtensee, di
una fuga ad Amsterdam, il tentativo d’imparare l’arte della fedeltà da entrambi
spesso tradita, di rado la sua manchevolezza perdonata. Eppure ne sorrise al
ricordo, mentre s’apprestava a farla volteggiare e il tempo si fermava,
dilatandosi.
Lui
ed Else erano stati amici, complici, fidanzati, conviventi, amanti – nel senso
stretto della parola, proprio durante la sua festa di nozze –, insieme avevano
scoperto l’amore nelle varie sfaccettature e superatone il fallimento, senza
considerarlo una sconfitta, senza rancori.
Facendola
girare su se stessa, l’abito color oro che le stringeva i fianchi si accorciò,
allargandosi e roteando in una gonna svasata con stampa a fiorellini, dallo
chignon, le bionde ciocche si liberarono, fluttuando in lunghi capelli neri
dalle tenui sfumature color rame, e tornò a lui – che rivide anche sé, di
sottecchi, sbracato in stivali, camicia e bretelle – con le fattezze e il
sorriso di colei con la quale aveva imparato ad amare, sperimentando il
sentimento della gelosia e la paura di perdere la persona amata, restandole
fedele. Le sorrise come nel luglio del ’44 e furon soli nella sua stanza a
Fossoli.
La
musica s’era zittita in una silenziosa melodia inventata e, assieme alla sontuosa
sala, eran spariti gli sguardi attoniti di chi un tempo li aveva invidiati e di
quanti su di loro avevano sognato.
Uno
scroscio di applausi lo riportò alla realtà, ma fu Sarah e non Else a prenderlo
per mano, la sua voce a invitarlo a salire su per le scale: «Vieni con me».
Come in un sogno, le parole vibrarono senza che lei aprisse bocca, la sua immagine
apparve sfocata e le sue labbra incurvate nel dolce sorriso che sfavillava
negli occhi color miele lo convinsero a seguirla, infervorandolo subito dopo a
precederla.
Da
lontano, Birgit aveva assistito alla scena e, al vedere come Hermann guardava
Else, nei suoi occhi eran rifulsi stupore e speranza. Lo sentì di nuovo suo
figlio, mentr’egli imboccava di corsa le scale mano nella mano col primo amore
sulle note di un più vivace valzer.
A
differenza di sua moglie, Karl aveva percepito la scena in modo diverso e
guardato ad essa col volto indurito dalla severità e, non vedendo in Else
un’ancora di speranza, bensì la possibilità di uno scandalo per quel figlio che
già era sulla bocca di tutti, fece un passo in avanti verso la scalinata che
portava alle stanze nell’intento di fermarlo.
Ma
una mano si appoggiò sulla sua spalla e una voce gli parlò con il tono ironico
e rassicurante che solo un amico di vecchia data avrebbe potuto permettersi:
“Suvvia, Karl! Non fare l’antiquato, ché sono stati insieme per tanti anni.” A
parlare fu proprio il padre di Else, ma Karl non si stupì di tal linguaggio,
conoscendone la mentalità più libertina. “E poi fidati”, proseguì, “sentire di
nuovo il profumo di una donna ariana gli rimetterà in ordine le idee.”
Nello
champagne, Karl intinse appena le labbra e la coppa rimase a mezz’aria,
sospesa, come anch’egli era tra il desiderio di credere a tali parole,
scabrose, se pronunciate dal padre di lei, e il suo senso della realtà.
Conosceva troppo bene l’ossessione di suo figlio per Sarah e non mutò di
espressione, mentre lo guardava voltarsi indietro e sorriderle ancora.
La
mia sete, la mia ansia senza limite, la mia strada indecisa!
Oscuri
fiumi dove la sete eterna continua,
e
la fatica continua, e il dolore infinito.”
Pablo
Neruda, Corpo di donna
Sugli
ultimi gradini, Hermann si volse indietro e le sorrise. Le rosee labbra si
curvarono in un rasserenante sorriso, si sollevarono le guance or floride,
segno di una buona salute e lui ne fu rincuorato, scintillarono gli occhi color
miele sotto le folte ciglia scure, mentre una luce evanescente l’avvolgeva,
come in un sogno, come un miracolo.
Poi,
d’improvviso, il volto gli si corrugò chiedendosi come avesse fatto a
ritrovarla e perché fossero lì, sui gradini scheggiati, fra le pareti grigie,
nello sfondo cupo dell’edificio occupato dai tedeschi a Fossoli, ma fu solo per
un fuggevole istante.
Non
gli importò darsi una risposta né fare delle congetture, giacché ciò che
contava era che lei fosse lì, viva e godente di buona salute, felice e, a
quanto pareva, condiscendente perdono nei suoi riguardi, a stringere la sua
mano come ad aggrapparsi al passato e, al contempo, incoraggiare entrambi a un
futuro nuovo insieme.
La
sua bocca si riaprì in un sorriso incantato che lo distrasse e al quale lei
rispose con una risata vispa e cristallina che non le aveva mai sentito, prima
di precederlo per guidarlo verso la sua stanza, la loro alcova a Fossoli.
Aprì
la porta, irrompendo entrambi con frenetico entusiasmo in un ambiente che
profumava di acqua di rose e lisciva, e, mentr’egli
la richiudeva, sciolse l’intreccio delle loro dita.
Rise
ancora e fece eco una risata dal timbro civettuolo che lo ridestò da quel sogno
ad occhi aperti, catapultandolo in una lussuosa sala da bagno con rivestimenti
in onice bianco e finiture in oro rosa e spegnendogli il sorriso.
Distante
qualche passo e di spalle, la figura di donna si rivestì del lungo e fasciante
abito color oro con lustrini e orlo a sirena stile charleston e, portando le
unghie smaltate di rosso fra i biondi capelli raccolti nello chignon adesso
scompigliato, si acconciò il fermaglio gioiello, prima di voltarsi lentamente
per ostentare sensualità e finti risolini di divertimento.
“Oh
Hermann, Hermann”, esordì Else, fingendo anche un respiro ansante, un suono che,
unitamente a quello delle risate, rendeva la situazione piuttosto irritante.
Lei già lo era, non essendo Sarah.
“Credo
di averci perso l’abitudine”, disse e, troppo improvvisa per poterla definire
una reazione naturale, le risate si spensero e il respiro tornò regolare. Di
colpo, a dimostrazione della sua farsa.
“Allora?”
Else riprese a parlare con un tono imperioso, di biasimo, portando le mani ai
fianchi. “è vero quello che dice
la gente?”
Dinanzi
a tale atteggiamento, incrociò le braccia e si rivestì della tracotanza
appartenutagli un tempo e, pur sapendo dov’ella volesse andare a parare,
rispose con un’altra domanda: “E cosa dice la gente?”
“Che,
quand’eri in servizio a Fossoli, avresti perso la testa per un’ebrea.” Fece una
pausa, lunga abbastanza da poter imprimergli nella mente l’immagine della sua
espressione di disprezzo. “E che, adesso, ti staresti preparando a un viaggio
in Italia per ritrovarla.” Di nuovo, si zittì per comporre le labbra a un riso
ironico. “Il colmo sarebbe venir a sapere che vorresti anche sposartela.”
Il
silenzio come risposta, gli occhi dilatati in un’espressione rugiadosa
lasciarono intendere un assenso e tal era, ma furon, in realtà, la reazione a
un’irragionevole delusione che lo sopraffò, quand’ella, con atteggiamento
beffardo e voce ancor più da oca giuliva, riprese: “Ma dai! Non mi dirai che è
vero? Oddio!”
Il
senso di delusione assunse così i contorni della rabbia la quale dardeggiò nei
suoi occhi verdi e mosse stizzosamente i suoi passi verso di lei. Un fulmineo
lampo di stupore le rifulse negli occhi color oceano che tornarono subito a
raggelarsi per l’innata sua presunzione, sebben egli le fosse troppo,
minacciosamente vicino.
“Ci
rivediamo dopo quattro anni e, nonostante tu sappia – perché tu lo sai, la
gente ti avrà sicuramente detto anche questo – dove sono stato e tutto quello
che ho passato nelle mani dei russi, non mi chiedi neanche come sto.”Di
rancore, ringhiava la voce di Hermann, a tratti, spezzandosi e incespicando
nelle parole. “Siamo stati insieme per ben otto anni, Else, abbiamo vissuto
sotto lo stesso tetto come se fossimo sposati. Te ne rendi conto?”
“E
tu? Te ne rendevi conto, mentre mi tradivi con la mia amica d’infanzia, oppure
quando andavi a sollazzarti con la cantante di quel cabaret da quattro soldi?”
Nella voce di Else, non v’era nessun tremolio di rancore, né velo di rabbia nei
suoi occhi, ma soltanto gli parlò, assumendo un tono di sufficienza e
guardandolo con aria di sfida.
Di
Hermann stavolta fu il cuore a incespicare, al ricordo dell’uomo che era stato
e con il quale, dimenticatosene nel far guerra al sé nazista, non aveva ancora avuto
modo di confrontarsi, ma non lasciò trapelarlo né
mostrò alcun cenno di esitazione, mentre, restituendole lo sguardo, le
rispondeva col medesimo tono: “Come te ne rendevi conto tu, mentre te la
spassavi con quello che sarebbe diventato tuo marito.”
“No,
ti prego. Di lui non ne voglio sentir parlare.” Con i gesti che rimarcavano la
risolutezza della voce, la mano accompagnò le parole, finché non si pose sul
suo petto, con le dita a strofinargli il papillon. “Non adesso”, concluse, in
tono lascivo.
Come
da copione, l’alchimia fra loro fu accesa,
ridestata dal tocco ammaliante e seducente di donna, dalle sue labbra rosse
socchiuse in un’attesa sensuale, dall’elisir avvolgente del suo Chanel N°5 che
fecero emergere l’ego di Hermann.
Questi
iniziò a sudare, incapace di trattenersi da ciò che, molto probabilmente, anche
con un’altra donna sarebbe accaduto, considerata la lunga astinenza.
“Cos’è
che vuoi da me?” Nel tono della voce e nelle espressioni facciali, Hermann
sforzò austera indifferenza, mentre le dita affusolate di Else percorrevano
lentamente il suo addome, tracciando un’immaginaria linea sinuosa.
“Ricordare
il passato con te”, rispose languida e le parole gli arrivarono all’orecchio
come un lieve sussurro, alle giunture come brivido libidinoso, ma, poco prima
che la mano potesse giungere alla meta, di colpo, gliel’afferrò, allontanandola
bruscamente dal suo corpo.
“Noi
ci perdiamo, a volte, ed affanniamo per i vicoli ciechi del cervello,
sbriciolati in miriadi di esseri senza vita durevole e completa; noi ci
perdiamo, a volte, nel peccato della disconoscenza di noi stessi.”
Alda
Merini, Santi e poeti
Un
lampo balenò negli occhi di Else, mentre lo sguardo di Hermann riluceva della
medesima ira.
Benché
ne avesse risentito dell’urto, fu per riprendersi dallo sbigottimento e non per
dar sollievo a quel lieve dolore ch’ella si massaggiò il polso, facendo
tintinnare rumorosamente, intenzionalmente i suoi bei bracciali in oro.
“Io,
invece, non ne ho voglia”, ribatté Hermann serio, più di quanto la situazione
necessitasse.
Un
sorrisetto malizioso le si dipinse sulle labbra e, con un dito sotto il mento,
prese a squadrarlo dalla vita in giù, prima di spezzare l’interminabile istante
d’imbarazzo, alzando il sopracciglio dell’ironia.
“Beh”,
disse e poggiò le mani sui fianchi, manifestando un atteggiamento sprezzante e
un ostentato senso di superiorità, “non si direbbe.”
Denotando
un’instabilità spiazzante, irritante, Else avvicinò di nuovo la mano
ingioiellata e smaltata al viso e, col gesto di coprirsi la bocca, fece finta
di soffocare una risata sguaiata, derisoria che urtò la sua suscettibilità.
“Cos’hai
da ridere?” Sulle labbra, Hermann sentì vibrare il risentimento, eppure tali
parole fuoriuscirono in tono lapidario e negli occhi rifulse il disprezzo. Verso
di lei, verso di sé per le scelte affettive del suo passato. Quello, prima di
Sarah.
“Allora
erano tutte vere quelle storielle che, ai nostri tempi, si raccontavano tra
ragazzi.” Al tono interrogativo di tali parole spezzate dai singhiozzi del
riso, egli rispose guardandola fissamente con occhi sgranati di rabbia per
l’incapacità di comprendere di cosa stesse parlando e per l’umiliazione già da
troppo tempo percepita.
“Va
bene, va bene, te le riassumo in termini più eleganti: «conosci intimamente
un’ebrea e sarai destinato a perdere la tua virilità».” Scimmiottando un
atteggiamento maschile, Else lo aveva spinto al limite della tolleranza e
fomentato la reazione che non tardò ad arrivare e della quale, molto
probabilmente, sin dall’inizio, s’era posta l’obiettivo.
Eppure
frutto di un’intuizione che s’avvicinava alla verità era la sua insinuazione.
Per l’ossessione d’amore e in buona parte anche in conseguenza della
disumanizzazione subita nel lager sovietico, Hermann aveva sperimentato un calo
della libido e la cosa non sembrava turbarlo minimamente.
La
carezza di donna, della donna un tempo amata e dinanzi alla quale non avrebbe
potuto restare del tutto indifferente aveva riacceso la scintilla. Le sue
parole, crudele reminiscenza di quel mondo che pareva non volesse mai lasciarlo
andar via tra impedimenti e l’inganno del pensiero di superiorità che tornava
inconsciamente ad attrarlo, avevano divampato il fuoco.
Ridestato
dalla rabbia, di essa si nutrì l’ego, quella parte di sé che in passato lo
conduceva a ricercare l’amore in modo contrario all’amore, con atteggiamento malsano
e ferente, per mera soddisfazione delle pulsioni.
L’afferrò
per le braccia, bloccandola contro il lavabo ed ella rispose dardeggiandolo con
uno sguardo di sfida che all’istante svanì, ammansito dal desiderio.
La
fece voltare, piegandola. Al gesto repentino, l’esili braccia candide, nude
batterono sul marmo onice, sicché i bracciali ne graffiarono la pelle ed Else
si guardò allo specchio digrignare i denti in una smorfia di fastidio, ma non
lo percepì come violenza e si sottomise al bisogno di pacificare l’inquietudine
del suo vuoto interiore.
Fu
violenza. Generata da impulsi di dominio e di possesso, volta al raggiungimento
della soddisfazione libidica, di essa si era avvalso la prima volta con Sarah.
Sopraffatto dall’istinto di prevaricazione, di controllo lo guidava adesso una
volontà punitiva verso Else, alla quale s’affiancava spasmodico l’intento di
mettere alla prova la sua mascolinità.
E
fu violenza anche verso se stesso. Struggendosi nel
sottofondo degli ansiti, dello strofinio dei corpi, del tintinnio dei bracciali,
delle note lontane dell’ennesimo valzer, disconosceva l’uomo ch’era riuscito a
diventare.
Per
aver tirato fuori la parte peggiore di sé, avrebbe poi incolpato quel mondo in
cui s’incarnava il veleno dell’ideologia ed Else col suo atteggiamento
voluttuoso, sensuale, provocatorio.
Finì,
lasciandola inappagata, sporca e lei che fino a un attimo prima aveva espresso
il proprio consenso attraverso una fin troppo accentuata mimica del piacere si
sentì improvvisamente vuota, violata.
Lacrime
di rabbia le inumidirono gli occhi e, benché si volse di scatto, attese una sua
mossa, prima di colpirlo con la durezza della parola, mentre l’orlo a sirena
dell’abito ricadeva a fatica sulle gambe.
“Ecco
un’altra notizia che alla gente piacerà”, esordì Hermann cattivo, tracotante,
aggiustandosi la fusciacca sui fianchi con aria dura e strafottente e anche
nell’aspetto parve ad entrambi essere ritornato l’uomo di un tempo. “Mi ha dato
più lei in pochi mesi che tu in tanti anni.”
Il
solo nominarla iniziò a scavargli dentro, smussandogli le rinnovate asperità e
prese coscienza Hermann dell’errore appena commesso.
Un’ombra
di cedimento apparì nel suo sguardo, ripercuotendoglisi sul portamento e furon
segnali di vulnerabilità per Else la quale gli ringhiò contro: “Sei un
vigliacco. Tu non hai mai amato nessuno. Nessuno! Solo te stesso. Perché non
sei venuto allo scoperto prima con lei, eh? Perché sei solo un vigliacco e
avevi paura di essere condannato da un tribunale nazista.”
Le
parole, come acqua di un fiume in piena, lo travolsero, scavandogli una
voragine nell’interpretazione dei ricordi.
“Un
vigliacco che torna da eroe”, incalzò Else, dando enfasi alle parole con la gestualità,
“esonerato dai giudizi della nostra gente, perché creduto impazzito a causa
della prigionia sovietica.”
E
i ricordi di quando anche il giorno era notte innanzi agli occhi tumefatti
bruciarono le cicatrici sulla pelle e tentò di fuggirvi, ma non si chiuse la
porta alle spalle, non la ostacolò nell’inseguirlo col rancore che sapeva di
meritare.
“Vattene,
vattene pure!” Spettinata, stropicciata, Else si fermò a urlare sulla rampa di
scale e la sua voce fu eco nel silenzio di un grammofono spento, nel trambusto
interiore dei fantasmi del passato di Hermann. “Ma non pensare di tornare da
eroe anche da lei che ti sputerà in faccia!”
Non
si prefigurò la scena, poiché sapeva che Sarah non l’avrebbe mai fatto, ma fu
il ricordo di tale violenza subita a Sachsenhausen a frenarlo, sconvolto, a
metà della scala. Un attimo di lucidità lo sorprese nel delirio e si accorse
che gli occhi di tutti erano puntati su di lui. Ne colse lo stupore e
l’indignazione.
Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di
filo metallico.”
Pablo Neruda, Qui ti amo
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Unisono
al brusio della gente immersa in un’atmosfera attonita di calici sospesi a
mezz’aria, di Else riusciva a udire il battito accelerato del cuore e gli
pareva di vederne il petto ansante di rabbia.
Il
tempo s’era fermato e, in quegli attimi dilatati e ovattati, taceva nella mente
il pensiero, mentre l’animo si empiva di tormento.
Di
coloro che aveva innanzi, eleganti maschere in abiti lunghi e smoking che
nascondevano, neanche tanto velatamente, divise macchiate del sangue innocente,
non temeva il giudizio e da essi si estraniò definitivamente, quasi sentendone
lo strappo, ripudiando in toto il suo passato, suo padre, sua madre, dei quali
aveva finanche dimenticato la presenza nella sala.
Piuttosto
si tormentava domandandosi come Sarah lo avesse giudicato in quella situazione
ch’egli valutò essere di tradimento.
“Sei
solo un vigliacco, traditore della patria, amico degli ebrei”, continuò a
inveire Else, ridestandolo già alla prima battuta.
Con
il sottofondo delle sue parole urlate invano a ripetizione, impotenti di
scalfirlo, Hermann riprese a scendere le scale a muso duro, come a sfidare,
ignorandoli, gli sguardi e le labbra socchiuse ai bisbigli della gente senza
più volto riconoscibile, mentre pensava a quanto avesse bisogno di Sarah per
essere un uomo migliore.
Giù
dalla scalinata, con il suo incedere disinvolto, si fece spazio tra l’incredulità
della gente, da taluni ostentata, finché qualcuno non lo afferrò per il bavero
della giacca, tirandolo a sé e, incrociandone gli occhi ch’erano uguali ai suoi,
nei lineamenti deformati dalla rabbia, riconobbe il volto di suo padre.
Un
luccichio di sbigottimento balenò nei suoi occhi, mentr’egli,
strattonandolo, gli chiedeva a denti stretti: “Ma cosa diavolo hai combinato?”
Immaginava,
infatti, considerata l’evidenza, che, con Else, suo figlio fosse andato ben
oltre un semplice diverbio ideologico.
Cristalli
impenetrabili, i suoi occhi lo guardarono con un’espressione indecifrabile, un
misto di rassegnazione e stupore, come se fosse stato colto da una rivelazione
e, deviando subito dopo lo sguardo nel vuoto, con voce inespressiva, gli disse:
“è ora che io me ne vada.”
Via
da lì, da Berlino, da se stesso. Lo capì anche suo
padre che s’arrese, rassegnandosi a tale volontà.
I
pugni chiusi a stringergli la giacca lentamente s’aprirono per lasciarlo andar
via e i loro occhi s’incrociarono un’ultima volta, quella definitiva. Lo
avrebbe poi rivisto esanime, rimpatriato grazie alla compassionevole empatia di
chi, come lui, padre era stato.
Napoli,
7 maggio 1947
Aveva
pianto Davide nel pronunciare il voto nuziale, commosso, forse, più che durante
la celebrazione delle sue prime nozze, senza remore né adolescenziale paura dei
giudizi altrui, con la gratitudine di chi, sopravvissuto, guardava agli eventi
della vita come un dono, consapevole della reale portata del sacramento del
matrimonio in virtù dell’età della maturità raggiunta e della conversione al
cristianesimo ora veramente avvenuta.
I
suoi occhi ancora rilucevano, mentre a tavola conversava col suo consueto modo
pacato con uno dei figli del signor Gennaro al quale aveva fatto seguito tutta
la famiglia, nuore e nipoti annessi. Del più piccino fermò il giocoso
andirivieni, afferrandolo scherzosamente e facendogli il solletico, prima di
rivolgere l’attenzione alla sua sposa che per l’intimo banchetto aveva scelto
di svestire l’abito bianco per indossare un più serioso tailleur color avana
chiaro con grossi bottoni e tasche e corredato di cappello Borsalino in stile Ilsa Lund di Casablanca.
Ed
essi s’esibirono in un tu per tu di vicendevoli sguardi e parole sussurrate che
scavò in Sarah un vuoto più grande. Nella sua solitudine si rinchiuse,
incrociando le braccia sul petto e così stringendosi nel vestito a fiori giallo
che, rievocante l’esultanza della primavera, nascondeva l’inverno del suo
cuore. Matteo non era lì e lei, tra tutte quelle coppie riunite attorno al
tavolo, era l’unica non accompagnata.
Sulla
sua assenza aveva mentito giustificandola per motivi di lavoro, ma Sarah non
era brava a dire bugie e la tradì il sorriso di tenera commiserazione verso di
sé che vide riflesso sul volto degli altri e ne provò umiliazione.
Non
le aveva impedito di partecipare alle nozze Matteo, eppure era riuscito, in un
certo qual modo, ad allontanarla dagli amici, giacché, a causa delle sue
manchevolezze, s’intensificava verso di loro il latente, raggelante sentimento
d’invidia.
Quanto
più si allontanava dagli affetti della sua vita presente, tanto più si
riavvicinava al ricordo di Hermann, romanticizzando il passato.
Fu
in quel momento, dinanzi al romantico e sensuale parlarsi bocca a bocca degli
sposi, circondata, quasi soffocata dall’affiatamento delle altre coppie, sul
sottofondo dei gridolini festosi dei bambini e del rumore dei loro celeri
piedini, che, chiedendosi come si fosse comportato in tale circostanza, iniziò
a immaginarlo al suo fianco.
Figlio
della moderna Berlino, non si sarebbe scandalizzato per quella unione e,
partecipando con lei al ricevimento nuziale, da uomo acculturato qual era,
avrebbe saputo sostenere una conversazione con Davide e il figlio del signor
Gennaro avvocato.
Affidando
all’immaginazione la volontà di sopravvivere al senso di solitudine e
abbandono, egli divenne così reale tanto da percepirlo seduto accanto a sé,
dapprima sentendone il profumo dalle inconfondibili note di ambra e muschio,
poi guardandolo di sottecchi in abiti civili, ovvero con indosso uno smoking
chiaro, nel gesto di accendersi una sigaretta.
Fece
per versarle il vino nel bicchiere, ma Sarah dissentì, sollevando una mano.
“No, grazie. Lo sai benissimo che sono astemia”, gli disse e udì la propria
voce ovattata.
Nube
sfocata di sogno ad occhi aperti essa svanì al
tocco gentile di una mano sulla spalla e si ritrovò innanzi il volto
preoccupato di una delle nuore del signor Gennaro che, con un’intonazione di stupore,
le chiedeva: “Tutto bene, Sarah?”
D’imbarazzo
ella impallidì e, pronunciando un flebile, inattendibile «sì», distolse lo
sguardo nel vuoto, il cuore verso i ricordi.
Da
allora, fece di Hermann il pensiero che le strappava un sorriso nella monotonia
dei giorni e, da languido sussurro, il suo nome divenne grido nelle notti di
sonno inquieto.
Capitolo 62 *** La pellicola dei ricordi (Prima parte) ***
Nella foto, come immagino Agnese.
L’attrice è Giulia Roberto, dalla docufiction “Figli
del destino”, nel ruolo di Lia Levi sopravvissuta alla Shoah.
Capitolo 62
La pellicola dei ricordi
Prima parte
- Agnese -
“Vorrei tu fossi qui.
O io lì.
O noi dovunque.”
Fabrizio Caramagna
Stazione
di Roma Termini, 24 maggio 1947
Dopo
mille chilometri e più, ventiquattr’ore di viaggio, tre infiniti e tortuosi
anni di vita, i piedi di Hermann toccavano di nuovo terra italica. Con valigia
in pelle alla mano, il cappello Panama nell’altra e nell’incavo del braccio la
giacca color beige in tinta con i pantaloni e il panciotto rigorosamente
sbottonato come aperti erano anche i primi bottoni della camicia bianca, con
qualche chilo in meno e ruga d’espressione in più, gli occhiali da sole a
nascondere le occhiaie e altresì, inconsciamente, il suo passato da SS che gli
occhi avrebbero potuto riflettere, scese dal treno.
Un
pensiero che mai gli aveva sfiorato la mente lo trafisse come una freccia
dritta al cuore, costringendolo a fermarsi tra il caotico andirivieni della
gente nell’ora di punta: non sapeva dove cercarla. Preso dalla foga di
ritornare al più presto in Italia e ossessionato dal desiderio di ritrovarla,
non s’era mai fermato a pensare che di Sarah non conosceva nemmeno l’indirizzo
di casa. Di lei, in effetti, sapeva poco o niente.
A
Fossoli, aveva letto e riletto più volte il dettagliato resoconto del suo
arresto e pensò che unico punto di riferimento dal quale iniziare concretamente
a cercarla potesse essere la chiesa situata nel rione Castro Pretorio, non molto
lontano da lì, dov’era stata catturata dalle SS insieme ai bambini e al prete,
traditi da una soffiata di un parrocchiano delatore. Al Grande Reich, Sarah era
costata 1.500 lire, quanto un bambino.
Tutto
ciò che un tempo era banale normalità, adesso gli suscitava ribrezzo e ancor
più il pensiero che anch’egli l’aveva comprata con la promessa di una
sopravvivenza più dignitosa, con una tavoletta di cioccolato, un paio di calze
nuove.
Roma
era immensa, rutilante, tra la suggestione di antiche rovine e lo struggimento
di macerie belliche, chiassosa e, da ogni volto il cui sguardo tentava di
schivare, sembrava irradiarsi la voglia di tornare a vivere. Com’era diversa
dalla malinconica e disperata Berlino, divisa tra le potenze occupanti,
schiacciata dal senso di colpa.
Dalle
mura in laterizio, all’esterno la chiesa si presentava in puro stile
neoclassico, sobria, con due iscrizioni sulla facciata dedicate alla Vergine.
Esitò prima di entrarvi giusto il tempo di quietare il tremore di non saper
cosa aspettarsi, di poter sbagliare nel relazionarsi con chi avrebbe incontrato,
magari tradendosi con un accento troppo marcato o l’eloquenza di uno sguardo a
un determinato argomento.
L’interno
della chiesa si riproponeva nella medesima semplicità, creando un’atmosfera
intima e di raccoglimento che induceva a rivolgere lo sguardo al Crocifisso
dominante la navata centrale. Fonti di distrazione a un eventuale dialogo
interiore iniziarono ad essere l’andirivieni di una perpetua intenta ad
adornare l’altare con paramenti rossi e lo strepito di note prodotto
dall’organaro alle prese con l’accordatura dell’organo a canne sulla cantoria
in controfacciata.
Rivolse
lo sguardo indietro, verso l’alto, lì dove sapeva che Sarah aveva cantato sin
da bambina, finché non divenne apolide. Era stata lei a confidarglielo in un
momento la cui dolcezza valeva sicuramente la pena ricordare, eppure, tra le
immagini, quelle più belle della loro storia, che presero a scorrergli veloci
nella mente, non riusciva a focalizzarne il ricordo.
Con
eguale velocità, a ritroso, la pellicola dei ricordi si riavvolse, interrotta
improvvisamente dalla perpetua, una donna all’incirca della sua età, con capelli
riccissimi color castano ramato che fuoriuscivano dal velo in pizzo bianco, i
tratti del viso morbidi e le guance ricoperte di lentiggini. Fu pervaso dalla
strana e assurda sensazione di averla già vista da qualche parte.
“State
cercando qualcuno?” La cadenza austera sembrava collidere con lo sguardo ch’era
pregno di accoglienza.
Sospirò
mutamente per liberarsi dalla residua paura dell’errore, prima di risponderle
sereno e sicuro: “Sì, dovrei parlare con il parroco.”
“Domani
celebreremo la Pentecoste e il parroco è molto impegnato in questo momento”,
disse, mentre enfatizzava il diniego scuotendo il capo, “potreste ripassare con
calma lunedì mattina.”
S’impanicò
all’idea di dover ancora attendere e posticipare di nuovo il ricongiungimento
con Sarah e ancor di più lo turbò il pensiero che, in fin dei conti, il prete
potesse non saperne affatto di lei e ch’egli potesse addirittura essere don
Franco, miracolosamente sopravvissuto ad Auschwitz.
“Io
non posso aspettare.Ho fatto un lungo viaggio per venire fino
a qui”, dichiarò, senza nascondere la sua agitazione, rivelando così un accento
straniero che non sfuggì all’attenzione della donna.
Ancor
prima delle parole, furono gli occhi ad esprimere il sospetto. “Voi avete un
accento particolare. Da dove venite? Come vi chiamate?”
Non
esitò Hermann nel recitare il copione che aveva preparato e ripetuto più volte,
conscio del fatto che, prima o poi, qualcosa, come il suo aspetto nordico o il
suo accento troppo tedesco, lo avrebbe tradito.
“Vengo
dalla Svizzera, ma, prima del ’38, io e la mia famiglia vivevamo a Bolzano. Mio
padre, ebreo, nativo di Roma, s’era trasferito lì da ragazzino per lavoro e
aveva conosciuto mia madre, austriaca. A casa parlavamo regolarmente il
tedesco. Sono tornato in Italia per cercare mio zio, il fratello di mio padre e
come unico indirizzo di riferimento ho questa chiesa. Potete aiutarmi? Sono
Bonanni, piacere”, disse, porgendole la mano.
La
donna sgranò gli occhi in un’espressione mista tra meraviglia e sconcerto e,
mentre continuava a tenergli la mano, ribatté con voce afona, tremante: “Quindi
voi siete il cugino di Sarah?”
Trasalì,
sforzandosi di non darlo a vedere, agitato da quell’improvvisa, strana tensione
che aveva pervaso la sua interlocutrice e, adesso, anche lui al pensiero che
alla sua Sarah potesse essere accaduto qualcosa di brutto.
“Sarah
fu deportata al campo di Fossoli insieme alla mia povera figliola ed è stata
l’unica della sua famiglia e del gruppo di bambini affidati alla protezione di
don Franco ad aver fatto ritorno”, disse la donna, avendo interpretato come
assenso il suo silenzio ed egli ne comprese lo stato emotivo.
Innanzi
a sé v’era una madre che viveva nel limbo del lutto, tra l’attesa del ritorno e
la realtà della perdita e, osservandone le fattezze, rivide una bambina con i
capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Era la madre della
bambina a cui Sarah aveva regalato la sua tavoletta di cioccolato e per la
quale, insieme ad altre cinquemila anime, lui aveva decretato la condanna al
viaggio fatale. Agnese.
“Ma
che io sappia non è più qui”, concluse la donna, riferendosi a Sarah e non fu
tanto per tal rivelazione ch’egli deviò lo sguardo e ritrasse la mano.
Capitolo 63 *** La pellicola dei ricordi (Seconda parte) ***
Capitolo 63
La pellicola dei ricordi
Seconda parte
- “Ma l’amore no” -
“Lontano, qualcuno canta. Lontano.
La mia anima non si rassegna d’averla persa.
Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.”
Pablo Neruda
Chiesa
di Santa Maria del Rosario di Pompei, Roma
Ritrasse
la mano Hermann, colto da una fulminea sensazione di vergogna legata al senso
di colpa. La sua mano stringeva quella di una vittima, resa da lui tale,
essendo corresponsabile nei crimini del regime nazista contro il popolo ebraico
ch’ella, adesso, simbolicamente rappresentava in toto e nel trasferimento della
figlia ad Auschwitz, fatale per una ragazzina così piccola.
Se
solo la donna avesse saputo la verità su colui che aveva innanzi, non gli
avrebbe parlato con modi affabili e voce vibrante di empatica apprensione.
“Circa
un annetto fa Sarah ha fatto pervenire una lettera al parroco, nel caso la sua
famiglia e suo fratello fossero ritornati. Si è trasferita a Napoli, in una
città che si chiama… Mmh”, s’interruppe, portando un dito sotto il mento per
sforzarsi di ricordare, “il nome ha a che fare con il mare.”
Le
palpebre strette a focalizzare vanamente il ricordo non esularono lo sguardo
della donna dall’incontro con due occhi spalancati, rugiadosi d’improvvisa
delusione ch’ella credé esser soltanto paura di non riuscire a ricongiungersi
con la persona cara.
La
stanchezza del viaggio, la frustrazione per il mancato ricongiungimento con Sarah
tolsero lucidità alla mente e fu incapace Hermann di riflettere che il parroco
avrebbe saputo dirgli con esattezza dove lei fosse, come infatti lo rassicurò
la donna.
Ella
tolse il dito da sotto al mento con movenza ed espressione quasi di chi vien
colto da un’illuminazione per proferire l’ovvia verità: “Don Carmine ha la
lettera e vi dirà precisamente dove si trova adesso Sarah. Vado a chiamarlo.”
Le
ultime parole pronunciate su un celere passo ed egli fu subito solo in un
silenzio interiore di vuoto che gli provocò inquietudine.
Era
paura di ritrovarsi a fare i conti con il proprio passato senza poter porre
rimedio al corso degli eventi ed ecco che gli ritornava alla mente l’immagine
di sé innanzi all’anziano sacerdote che parroco fu di quella chiesa e che
invano presso di lui intercedé per la salvezza dei bambini, supplicandolo
infine, almeno, di non separarlo da loro. E fra essi c’era Agnese la cui madre,
ignara della sua vera identità, adesso, correva per aiutarlo.
Il
senso di colpa per le crudeltà un tempo inferte, la vergogna per le menzogne or
ora proferite, per di più avvalendosi del buon nome di Sarah, lo attanagliavano
alle viscere in una morsa bruciante, ma sapeva che cedervi avrebbe significato
farsi scoprire e mai più ricongiungersi a lei.
Si
lasciò distrarre dalla vibrazione di una nota stonata e rivolse nuovamente lo
sguardo indietro verso la cantoria e al tempo passato e fu forse per evasione
dalle angustie presenti che ad esso erano legate che riuscì ad afferrare il
ricordo che stava cercando.
Campo
di Fossoli, giugno 1944
Indugiando
sull’uscio della propria stanza ch’ella era indaffarata a rassettare, gli
piaceva osservarla di soppiatto per cogliere le espressioni del suo viso.
D’abitudine, labbra serrate e cipiglio di concentrazione accompagnavano le
movenze fluide di corpo fasciato da un colore che proprio non le donava, ma
stavolta aveva svestito la divisa da cameriera per indossare un abito floreale
con merletti ricamati da lui regalatole.
Seppur
visibilmente segnato dalla stanchezza, il viso le si era disteso in
un’espressione serena e la bocca dischiusa nel canto, mentre passava il panno
imbevuto di acqua e aceto sul comò.
“Ma
l’amore, no, l’amore mio non può disperdersi nel vento con le rose, tanto è
forte che non cederà, non sfiorirà.” Ella cantava con voce flebile e piacevole
all’ascolto e fissò per un attimo la rosa essiccata, dopo ch’ebbe rimesso il
vasetto al suo posto. “Io lo veglierò, io lo difenderò da tutte quelle insidie
velenose che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor.”
Ripose
gli altri oggetti sul comò, poi tornò alla rosa, toccandone con un dito lo
stelo che le era parso forse in procinto di staccarsi e un sorriso di tenerezza
gli nacque dentro, prima di tremare sulle labbra.
In
lui, si ridestò la voglia di giocare, ma non seppe manifestarla se non con uno
scherzo di cattivo gusto e, ostentando un tono di comando – ovvero, il proprio
–, le gridò: “Stillgestanden!”[1]
Sarah
sobbalzò e, seppur lo avesse riconosciuto incrociandone lo sguardo gioviale, irrigiditasi,
quasi non eseguì l’ordine fintamente impartitole, per poi giungere le mani al
petto ed esalare il suo nome in un muto sospiro di sollievo. E fu come richiamo
che lo attirò a lei.
Le
circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé, nascondendo in una
risatina l’incapacità di chiedere scusa. Ed era più lui a sentir il desiderio
di confortarla che Sarah ad aver bisogno di conforto in tale circostanza.
“Hai
una bella voce”, ruppe il silenzio, senza metterci troppa enfasi, ma suscitando
un reciproco sguardo d’intesa, “canti bene. Dove hai imparato?”
Un’ombra
di tristezza le attraversò il viso, eppure non si spense il suo lieve sorriso,
mentre gli diceva: “Sin da bambina, ho cantato nel coro della mia parrocchia,
finché non sono diventata apolide. Ho imparato lì.”
Nel
gesto di una carezza, le spostò una ciocca ribelle dietro l’orecchio ed ella
accolse, ricambiandolo, il suo sorriso come dono di conforto.
Aveva
sorriso Hermann, immaginandola nella cantoria, con il velo bianco a coprirle la
testa e gli spartiti musicali tra le mani, come avvolta da un’aura di angelico
candore, poi la voce della madre di Agnese lo riportò alla
realtà presente.
“Signor
Bonanni”, ripeté la donna ed egli trasalì, strappato al ricordo e alla visione
di Sarah, immemore del suo nuovo nome. “Don Carmine vi aspetta in canonica.”
“Di noi resteranno soltanto ricordi confusi,
pezzi di vetro.
Mi spegni le luci, se solo tieni gli occhi chiusi.
Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come
immagino Sarah ed Hermann nel 1947.
Capitolo 64
Un invito insistente
“No, non volgerti indietro, la vestale cammina adagio,
lenta, a sé davanti guardando sempre; no, non ritornare su ciò che hai fatto,
può essere morte.”
Alda Merini, A mia figlia
Il
motivetto continuava a ripetersi nella sua testa, senza che riuscisse a ricavarne
consolazione, bensì sentendosi sempre più intrappolato nella terra di nessuno
tra i ricordi del passato e l’oblio della realtà presente, mentre la madre di
Agnese gli faceva strada verso la canonica.
Da
quella sorta di limbo si liberò al pensiero di Sarah, sforzandosi di rientrare
in sé e nel ruolo del cugino ebreo austriaco per varcare la porta dietro la
quale si trovava la chiave che, infallibilmente, lo avrebbe ricondotto a lei.
La
lettera scritta di suo pugno ciondolava nella mano del giovane sacerdote,
ignaro, o forse consapevole, di aver custodito un tesoro inestimabile. Un solo
foglio, a dimostrazione che Sarah non doveva essersi dilungata molto sulle sue
vicissitudini, lasciando, più che altro, ai suoi cari le indicazioni su come
trovarla.
“Padre”,
esordì la donna con un misto di entusiasmo e soggezione, indietreggiando di un
passo, affinché foss’egli il protagonista, come difatti avvenne.
“Ah,
il cugino di Sarah!” Nell’esclamarlo gioiosamente, il sacerdote lo guardò al di
sopra degli occhiali che gli scivolavano sul naso per poi passare in fretta
dinanzi alla scrivania.
Dietro
di essa, sul lato destro, ora non più nascosta in un armadio, v’era la porta
che conduceva alla soffitta, dove don Franco azzardò l’ultimo disperato
tentativo di salvare i bambini dalla deportazione.
Profanate
dalla violenza, impregnate di urla nemiche e delle lacrime degli innocenti, le
pareti della canonica parevano riecheggiarne il ricordo. Immaginandolo in tal
slancio d’empatia non solo verso Sarah, esso fu suo.
“Vostra
cugina sta bene”, disse don Carmine ed enfatizzò nella voce un tono
rassicurante, avendo notato l’espressione sconvolta apparsagli in volto e presumendone
il motivo, “si trova a Castellammare, una città della provincia di Napoli.
Lavora nel bar di un vecchio amico di famiglia che le ha dato ospitalità.”
Sorridendogli
compassionevolmente, gli porse la lettera ed Hermann, fissandone la grafia,
l’accolse tra le dita. Senso di colpa ed euforia si concatenarono in un
turbinio di emozioni ed egli incespicò nei modi e nel linguaggio.
“Grazie”,
disse con voce sussurrante, contraendo le labbra in una smorfia nel tentativo
di ricambiare il sorriso, “allora io tornerei alla stazione per prendere il
prossimo treno per Napoli.”
Le
parole s’incrinarono, mentre, con la lettera stretta nella mano, indicava la
porta verso la quale un piede aveva già arretrato.
“Per
quanto ne so io, il prossimo treno per Napoli partirà domattina”, sentenziò don
Carmine con un’espressione di apprensione e stupore nel constatare l’insolito
comportamento, condannandolo ancora all’attesa.
Dietro
al perdurare di un sorriso stentato, Hermann nascose la delusione e, ripetendosi
in tono e movenze, si corresse, dicendo: “Allora prenderò una camera
nell’albergo che ho visto qui vicino e partirò domattina.”
Neanche
il tempo di finire la frase che una voce maschile si sovrappose alla sua,
inducendolo a voltarsi rapidamente verso l’uscio.
“Ma
non esiste proprio che il cugino di Sarah vada in albergo”, esordì l’uomo
categorico e, dagli abiti che indossava, Hermann riconobbe l’organaro, “potete
tranquillamente venire a casa nostra e restare per tutto il tempo di cui avete
bisogno.”
Nel
pronunciare le parole «casa nostra», aveva cinto il braccio intorno alle spalle
della madre di Agnese, amorevole gesto col quale gli rivelava esserne il
marito. Sicché l’uomo era anche il padre di Agnese.
Al
cenno di approvazione della donna che annuì col capo e sorrise lievemente,
Hermann ribatté con altrettanto sorriso, scuotendo però la testa in senso di
disapprovazione.
“Non
occorre che vi disturbiate”, disse, stavolta col piede fermo in terra, poiché
avanzare verso la porta avrebbe significato guardarli in faccia, accettare il
loro invito relazionarsi con i genitori di Agnese, “troverò un alloggio per
questa notte.”
Ma
l’uomo si ostinò nel voler offrirgli ospitalità, replicando: “Nessun disturbo. è un piacere poter fare qualcosa,
seppur indirettamente, per Sarah, dando ospitalità a suo cugino.”
“Questo
è davvero il minimo che possiamo fare per Sarah”, intervenne la moglie il cui
tono pacato colorì di delicatezza l’invito insistente, “tornati a Roma, non
abbiamo neanche avuto modo di ringraziarla di persona per essersi presa cura di
nostra figlia e degli altri bambini ch’erano con lei.”
Al
sentir pronunciare il suo nome con tal gratitudine, gli vibrò una corda segreta
del cuore e, al ricordo di lei che, per la sua indole premurosa, aveva sui più
piccoli un forte ascendente – ricordo che filtrava dagli occhi di chi l’aveva
conosciuta, serbandone la memoria –, s’immedesimò così tanto nella parte del
cugino ebreo austriaco, fino a credere di esserlo realmente.
E
fu in quel momento di smarrimento durato un sol attimo che si ritrovò ad
accettare l’invito dei genitori di Agnese.
“D’accordo”,
disse, mentre il sorriso appena accennato andava spegnendosi ad ogni sillaba
pronunciata, già conscio del proprio errore.
Mentre
la madre di Agnese era intenta a disporre gli addobbi floreali per la celebrazione
dell’indomani e suo marito aveva ripreso ad occuparsi dell’organo, Hermann,
aspettando che finissero, seduto sull’ultima panca della chiesa, non poté
resistere oltre e lesse la lettera di Sarah.
Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946
Miei
cari,
vi
scrivo guardando dalla mia finestra lo spettacolo del sole al tramonto che si specchia
sul mare tra le barche ormeggiate nel porto con il Vesuvio che fa da sfondo.
Quanto vorrei che foste qui con me!
Non
saprei da dove cominciare a raccontarvi gli accadimenti di questi ultimi
difficili anni, ma lo farò partendo dal mio oggi per darvi conforto.
Continua…
“«Amore, tu sei,
sei l’errore più cattivo che ho commesso nella vita.
Amore, tu sei,
sei lo sbaglio più fatale che ho commesso nella vita.
Amore, tu sei,
sei la prova che gli errori sono fatti per rifarli ancora.
Tu sei
la puttana che ha ridato un senso ai giorni miei.»”
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.
La mia vita s’affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.”
Pablo Neruda, Qui ti amo
Immagine dal film “Il club del libro e della torta di
bucce di patata di Guernsey”
Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946
Miei
cari,
vi
scrivo guardando dalla mia finestra lo spettacolo del sole al tramonto che si
specchia sul mare tra le barche ormeggiate nel porto con il Vesuvio che fa da
sfondo. Quanto vorrei che foste qui con me!
Non
saprei da dove cominciare a raccontarvi gli accadimenti di questi ultimi
difficili anni, ma lo farò partendo dal mio oggi per darvi conforto.
Sicura
che avreste approvato la mia scelta, ho deciso di trasferirmi nella città
natale del signor Gennaro che mi ha proposto di lavorare come cameriera al Gran
Cafè, dandomi anche ospitalità in un piccolo appartamento vicino alla Torre
dell’Orologio.
Non
sono sola. Con me abita Hannah, la figlia dei nostri vicini di casa che ho
ritrovato non appena sono tornata a Roma e che oramai è diventata come una
sorella. In questo momento, mi sta porgendo una tazza di tè caldo che ha
preparato anche per me.
Sono
molto grata. Come papà aveva previsto, il signor Gennaro ha saputo proteggere
la nostra casa e tutto ciò che ci apparteneva è tornato ad essere nostro. è davvero una persona tanto cara e,
assieme a sua moglie, si preoccupa affinché non mi manchi nulla. Qui tutti sono
oltremodo affabili e solari e mi fanno sentire in famiglia.
Nulla
mi è mai mancato in questi anni, anche quando mi trovavo nel campo di transito
a Fossoli, dove, lavorando come cameriera, mi sono guadagnata il necessario per
vivere dignitosamente e lì sono rimasta finché i partigiani non hanno liberato
una gran parte di noi.
Questi
mi hanno poi affidata ad una famiglia di antifascisti sull’Appennino modenese,
marito e moglie sulla sessantina, due persone squisite e disponibilissime che
tenevano già nascosta nel loro seminterrato una bambina ebrea milanese di
cinque anni dai grandi occhi scuri, bellissimi. Si chiamava Maria Luisa e con
lei sono rimasta fino alla fine della guerra.
Proprio
qualche settimana fa, con mia grande gioia e stupore, sono venuta a sapere
tramite corrispondenza che la piccola ha riabbracciato i suoi cari e spero e
prego che questo possa accadere presto anche a noi.
Di
tanto in tanto, dai vicoli della città si odono le voci di gente festante e
musica di tamburelli, talora per il ritorno di un soldato, altre volte per il
rimpatrio di un prigioniero di guerra e sempre il cuore si riapre alla speranza
per noi e per tutte quelle persone che ho incontrato lungo il mio tortuoso cammino
e che hanno saputo mitigarne le asperità facendomi sentire meno sola.
Intanto,
vi abbraccio forte col pensiero, affinché possa raggiungervi tutto il mio amore
ovunque voi siate.
Vostra,
Sarah
Mentre
leggeva la lettera di Sarah, Hermann poteva udirne la voce, delicata e
risoluta, e rivederla nei gesti, nello scrivere appoggiata a un tavolo dinanzi
alla finestra coi capelli lunghi a ombreggiare il foglio e nel sorridere
sospirando grata all’amica, e negli avvenimenti da lei raccontati, dal suo
ritorno a Roma, passando per la prigionia nel campo di Fossoli e nel
nascondiglio sull’Appennino modenese, sino alle scene di ricongiungimento alle
quali aveva assistito nella ridente provincia di Napoli.
Nelle
sue parole non v’erano velature d’odio né di sentimento di vendetta e del suo racconto
aveva filtrato gli accadimenti, smorzando al meglio le asperità del passato.
Le
sue erano parole di speranza e d’amore volte a proteggere i suoi cari e, tra le
righe del suo racconto, di lui non v’era neanche un accenno mistificato.
Sarah
s’era soffermata sulla premurosità di un tal signor Gennaro e di sua moglie,
sulla cordialità delle persone, sulla gentilezza della famiglia modenese e
persino sulla forma e il colore degli occhi di una bambina, omettendo però l’esperienza
di un amore a Fossoli.
Di
lui avrebbe potuto accennare, cambiandone il nome, la patria, il ruolo
all’interno del campo e, mentre il cervello s’arrovellava in tali congetture,
la paura che Sarah lo avesse dimenticato gli strinse il cuore in una morsa.
Si
piegò su se stesso, premendo i gomiti sulle ginocchia
e sulla fronte la lettera dove gli pareva ch’ella avesse lasciato impresso il
sigillo del suo profumo, dei suoi aneliti, del tocco delle sue mani.
Castellammare
di Stabia, 28 aprile 1946
Una
mano scorreva fluida sul foglio a scrivere per i suoi cari parole esprimenti
una più accomodante e consolatoria verità, mentre l’altra poggiata sopra ne
sosteneva un’estremità spiegazzandola leggermente.
A
distrarla, ispirandola a un tono carezzevole, v’erano il gioco di luci e ombre
al tramonto che penetrava dalla finestra aperta e l’andirivieni di Hannah alle
sue spalle che s’affaccendava vicino ai fornelli.
Fra
i tanti appellativi di cui godeva, Castellammare era denominata anche «la città
dei tramonti», vantando un panorama mozzafiato durante ogni tramonto, mai
uguale, sempre emozionante.
La
brezza di mare soffiò fra i capelli che ricadevano sul foglio, vento fresco
eppur piacevole che, assieme al ricordo, raggricciò i centimetri di pelle
scoperta, mentre s’apprestava a mutilare la sua verità su Fossoli. E tacque su
quanto fosse stato per lei scintilla di bene nel buio del male antisemita,
sofferenza e desiderio nei giorni e nelle notti altalenanti tra delusioni e
speranze, amore nell’odio, Hermann.