Capitolo
1
Un’amara
salvezza
“Io so cosa vuol
dire non tornare.
A traverso il
filo spinato
ho visto il sole
scendere e morire;
ho sentito
lacerarmi la carne
le parole del
vecchio poeta:
«Possono i soli
cadere e tornare:
a noi, quando la
breve luce è spenta,
una notte
infinita è da dormire».”
Primo Levi, Il tramonto di
Fossoli
Immagine dal film “Schindler’s
List”
Gonzaga
(campo di transito Dulag 152), 19 dicembre 1944
Hermann
sedeva sulla poltrona. Le gambe accavallate e il secondo bicchiere di vodka in
mano. Aveva già indossato la sua divisa da SS-Obersturmführer, intuendo che
qualcosa da lì a poco sarebbe accaduto. Il silenzio di quella notte propagava
nell’aria un triste presagio di morte che s’insinuava in tutto il suo essere.
Gli faceva paura il silenzio negli ultimi tempi poiché lo costringeva a fare i
conti con se stesso, a fare a pugni con l’uomo che era diventato: un debole a
causa di una donna, a causa di un’ebrea. E lei dormiva ancora, completamente
nuda, semicoperta dal lenzuolo bianco che esaltava il colore olivastro della
sua pelle e il colore nero dei suoi capelli. Dormiva beatamente, rannicchiata
su se stessa, nella sua acerba e strafottente bellezza che, per l’ennesima
notte, lo aveva sedotto e vinto. La odiava per lo stesso motivo per cui
l’amava. Tra le braccia di Sarah metteva a nudo la sua vulnerabilità,
ritrovandosi fragile nel suo bisogno di dipendere da un altro. Era un qualcosa
che lo tormentava ma che, allo stesso tempo, gli dava piacere e non poteva fare
a meno di ricercarlo ancora. Viveva ormai dimentico delle vere ragioni per le
quali si trovava a Fossoli, delle sue responsabilità, del suo grado, del suo
progetto di ascesa militare, dei suoi ideali di superiorità ariana, aspettando
un’altra notte per aggrovigliarsi nei fili di una passione malata e della sua
esistenza in subbuglio, per lasciarsi morire tra le pieghe di quelle lenzuola.
Sarah
allungò la mano, credendo di trovarlo ancora al suo fianco e si sdraiò,
emettendo un lieve gemito. Poi sedette e, stringendo forte al petto il
lenzuolo, lo fissò lungamente con espressione disfatta. Hermann aveva il potere
di farle toccare il cielo con un dito e, subito dopo, farla risprofondare nel
baratro della solitudine, tra le ombre dell’incertezza. Il legame che le
garantiva la sopravvivenza si era trasformato in un amore senza il quale non
poteva vivere. Lo amava pur sapendo che tutto ciò fosse sbagliato e
irrazionale, folle e immorale, non corrisposto e senza futuro e a
confermarglielo erano quegli occhi verdi che sembravano guardarla di nuovo con
disprezzo.
“Che
succede?” gli domandò con un fil di voce, scorgendo nel suo sguardo fiero e
sprezzante un velo di paura.
“Rivestiti,
che ho un brutto presentimento!” rispose Hermann, riprendendo quel suo tono
autoritario.
“L’ultima
volta che lo hai detto il campo è stato quasi distrutto[1]”,
fece Sarah atterrita mentre il tenente si alzò di scatto.
“Non
controbattere e sbrigati!” disse per poi dirigersi verso la piccola finestra.
Spostò
la tendina: attraverso i vetri bagnati dal freddo, tutto sembrava normale e
tranquillo, avvolto da un sottile velo bianco che gli richiamava alla mente
profumi e ricordi degli inverni in Germania, fino a quando l’eco di una
sparatoria[2]
non squarciò feroce il silenzio e frenò i suoi pensieri, ormai già approdati a
un passato tanto vicino per gli anni trascorsi quanto lontano per come li
percepiva. Vide le due sentinelle cadere uccise e la neve sotto i loro corpi
tingersi velocemente di sangue e i partigiani, un numero smisurato, correre
verso il campo di transito. Con respiro affannoso, caricò in fretta la pistola
e la ripose nella fondina sul fianco, voltandosi e rivolgendo lo sguardo a
Sarah che adesso era in piedi sull’uscio della porta, tremante di paura nel suo
cappotto di due taglie più grande. Anche lui aveva paura. Le andò incontro, con
la fulminea e tormentata decisione che, qualsiasi cosa fosse successa quella
notte, ne avrebbe fatta l’occasione giusta per metterla in salvo per salvare se
stesso. Facendola scappare dal campo avrebbe ritrovato se stesso, liberandosi
da ciò che in realtà amore non era. Era forse ossessione, evasione per
sopravvivere a quel latente senso di colpa per le crudeltà viste e inferte, un
diversivo alla solitudine di una realtà quotidiana stravolta da un incarico militare
diverso in una terra straniera, un gioco fomentato dall’inconscio fascino del
proibito, pensò.
E
fuori lo scenario si presentò apocalittico: i partigiani, furenti e armati fino
ai denti, avevano attaccato in contemporanea i tre presidi della Guardia
nazionale repubblicana, della Brigata nera e del campo di transito mentre i
fascisti, i tedeschi e i prigionieri correvano disorientati per quell’attacco
imprevisto e urlavano, chi per dare ordini, chi per paura, accompagnati
dall’incessante sottofondo di spari ed esplosioni. Sarah piangeva sommessamente
aggrappata al braccio di Hermann che si guardava attorno confuso tra il bisogno
di proteggerla e il desiderio di reagire all’attacco nemico. Le prese il viso
tra le mani e, con un bacio, le rubò l’ultima lacrima. Nessuno avrebbe fatto
caso a loro.
“Sarah,
ascoltami”, disse, costringendola a guardarlo negli occhi, “adesso dovrai
scappare.”
La
ragazza, stravolta da paura e tristezza, dissentì con il capo e abbassò lo
sguardo e, prima che Hermann potesse controbattere spazientito e arrabbiato, si
ritrovarono con tre mitra puntati contro. Il tenente rivolse un rapido sguardo
ai partigiani, che si guardarono tra di loro interdetti da quell’insolita
scena, per poi ritornare a Sarah.
“Quando
questa maledetta notte sarà finita”, riprese con tono più calmo e persuasivo,
“ci saranno ritorsioni contro i prigionieri e, se mi uccideranno, chi ti
proteggerà? Devi scappare, Sarah.”
“Insieme…
Scappiamo insieme… Lascia tutto e vieni via con me”, fece la ragazza concitatamente,
tenendosi forte alle sue braccia.
“Non
capisci?” continuò, scuotendola un po’. “Io non posso tradire la mia patria, la
divisa che indosso, gli ideali di una vita intera.”
“Ed
io cosa sono stata per te?” A questa domanda, seria e rotta da deboli
singhiozzi, rimase per la prima volta senza una risposta pronta e Sarah diede
al silenzio un’interpretazione che la illudesse ancora.
Una
forte esplosione li riportò alla realtà e ricordò loro la minacciosa presenza
dei tre partigiani. Uno di loro si avvicinò di più a Hermann e con il mitra gli
premette forte sulla mostrina da colletto fino a farlo inginocchiare dolorante.
Alzò
le braccia in segno di resa mentre Sarah iniziò a urlare disperata, supplicando
i partigiani: “No, vi prego! Non fategli del male, mi ha salvato la vita!”
In
un simile frangente, il tenente avrebbe reagito tirando fuori la sua pistola e,
invece, restò immobile per proteggerla da un ulteriore pericolo e, in quella
posizione di sottomissione, capì di amarla veramente.
“è una prigioniera, portatela via!”
urlò.
L’amava
e adesso era disposto a lasciarla andare non per riprendere in mano la propria
vita ma per salvarla a lei. Poi un colpo alla nuca con il calcio del mitra e
tutto divenne buio. Per il forte shock, Sarah non proferì né un urlo né parola
alcuna e tutt’attorno i suoni e i rumori cominciarono a giungere alle sue
orecchie attutiti e ovattati. Tremante, sudata e ansimante, mentre la vista
perdeva nitidezza, permise a due mani di afferrarla con forza fino a condurla di
corsa fuori dal campo verso un’amara salvezza.
“Notte scura,
notte senza la sera,
notte impotente,
notte guerriera.
Per altre vie,
con le mani le mie
cerco le tue,
cerco noi due.”
Pierangelo
Bertoli & Tazenda, Spunta la luna dal monte