Vite in corso di _EverAfter_ (/viewuser.php?uid=543122)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cera che cola ***
Capitolo 2: *** Inchiostro blu ***
Capitolo 3: *** Quando suonano le campane ***
Capitolo 1 *** Cera che cola ***
[OiSuga ❖ Drabble]
Durante una partita Oikawa non si concedeva mai emozioni superflue.
Eppure l’indole maliziosa lo lasciò indugiare
ancora una volta sulla bocca sottile del corvo cenerino, che gli
apparve come la paraffina grezza d’una candela quando
iniziava a sciogliersi, cicatrizzandosi lungo la superficie liscia del
lume.
Cera che colava silenziosamente, lasciando un segno
indelebile.
Lo sguardo cioccolato si assottigliò, le
labbra s’arricciarono in un’espressione
corrucciata, seppur sedotta dai frizzanti bisbigli che Sugawara alitava
sul timpano del numero dieci, dall’altro lato della rete.
Chissà quei sussurri cosa stavano dicendo.
Oikawa sorrise; sarebbe stato davvero eccitante sapere
cos’avesse da mormorargli quella bocca quando non era
più impegnata a tesser trame per la vittoria.
✿◉●•◦
Cantuccio di Ever
Brevissima
OiSuga,
ma ci ho messo comunque un po' di tempo per scrivere qualcosa di
decente.
Spero possa piacervi, a presto!
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Capitolo 2 *** Inchiostro blu ***
[IwaAka ❖ Flash-fic]
Bokuto è in forma smagliante. Quella è
stata la sua sesta diagonale e la ferrea difesa della Seijō non
è riuscita a frenare il suo istinto predatorio, che sembra
più infervorato del solito.
Iwaizumi osserva il campo, non prestando
attenzione alcuna al compagno d’infanzia, che
gl’intima con un sottaciuto gesto a chi andrà la
prossima alzata. Lo sguardo olivigno scorre veloce sulla rete,
soffermandosi sul capitano del Fukurōdani che, caldeggiato dal suo
dirompente egocentrismo, fissa il cartellone segnapunti che annuncia il
break.
Stringe impercettibilmente la mandibola, in un gesto
eclissato ai compagni di squadra: per quanto freddo ed impassibile,
Iwaizumi non riesce a scrollarsi di dosso l'irragionevole apprensione
di dover competere con Bokuto, che gli appare come una bestia famelica
pronta a inghiottirlo.
— Non c’è bisogno
d’aver paura.
Il ragazzo si volta, scontrandosi con le iridi
oceaniche del vicecapitano del Fukurōdani. Akaashi lo fissa, e in
quello sguardo Iwaizumi scruta la stessa inquietudine che sembra
spremergli i polmoni, vietandogli di respirare.
— Non ce l’ho. —
È una bugia e lo sa. Il suo temperamento spavaldo ed
estroverso è foggiato da un arrogante orgoglio, che trova
sempre un modo per affiorare sul suo volto all’apparenza
distaccato.
Akaashi gli concede un contegnoso sorriso.
— Non c’è neanche bisogno di mentire.
Iwaizumi s’ammutolisce, mentre lo vede
concentrarsi sulla titanica figura d’Oikawa.
Nell’istante tra il fischio di battuta e la mano di Bokuto in
procinto d’impattare contro la palla, lo schiacciatore
s’abbandona alla realtà più palese: la
sua impotenza nei confronti dell’asso di Tokyo è
la stessa che Akaashi nutre verso il capitano dell’Aoba
Jōsai, nonostante l’aria impassibile che s’annida
sul suo volto stoico.
Se ne stanno lì, come due facsimili
– doppioni dei talentuosi capitani – spalla contro
spalla, separati solo dalla rete. I plausi che provengono dagli spalti
gridano dei nomi che non sono i loro, ma nessuno dei due batte
più ciglio per quel copione vissuto ormai troppe volte.
— Come si riconosce una copia da un
originale? — È strano che sia proprio il setter a
chiederlo, lui ch’è così alieno dai
discorsi.
Bokuto colpisce la superficie del pallone. Lo
schiacciatore replica: — Immagino dall’inchiostro
blu della firma.
Akaashi sorride.
Comunque finirà quella partita,
entrambi sanno già di aver perso.
✠
Cinque anni dopo
Iwaizumi scruta il ragazzo steso sul lettino
d’ospedale. Ha il viso più consumato e i capelli
corvini gli ricadono scomposti sulla fronte sudaticcia. Gli occhi, che
al bel tempo parevano come balenanti creste d’onda sulla
battigia, sussurrano ciò che vorrebbero dirgli, se solo ne
avessero davvero il coraggio: lasciami
andare.
Non avrebbe mai pensato che potesse esser
così spaventoso, dire addio.
Akaashi gli afferra una mano, stringendola con
serenità. — Non aver paura.
— Non ho paura. — Iwaizumi
distoglie lo sguardo, ma la presa attorno alle dita del fidanzato si
serra, manifestando l’indole di quella puerile panzana.
— Non c’è bisogno
di mentire, ricordi?
Iwaizumi gli sfiora la fronte con le labbra, in un
gesto saturo di ciò che non sarà mai capace di
dirgli.
Comunque vada, tu sei stato il mio inchiostro blu.
Fine
✿◉●•◦
Cantuccio di Ever
Ed
eccoci alla fine di questa brevissima raccolta per il contest "Tre
incantesimi - contest fiume - solo Haikyuu e Harry Potter" di
Juriaka, che come sempre non posso fare a meno di ringraziare per le
splendide opportunità che mi concede.
Questa volta sono consapevole d'aver scelto una delle crack
più assurde del fandom, e credetemi quando vi dico che
scrivere questa storia mi ha davvero consumato il tempo, nel senso
letterale del termine. Premesso che, quando scrivo su una crack, ho sempre il
terrore dell'OOC, e spero davvero d'esser riuscita a mantenere entrambi
i personaggi IC.
La motivazione principale che mi ha spinta a scrivere di loro
è che non avevo mai pensato ad Iwaizumi e Akaashi come una
potenziale ship,
non m'era neanche mai venuto in mente d'accostarli. E adesso, beh.
Adesso li adoro, sicuramente scriverò altro su di loro
perché dopo questa storia li amo con tutta me stessa - Juri,
ancora una volta, non ti sarò mai troppo grata.
Mi è piaciuto davvero tantissimo scrivere questa storia, lo
confesso.
A prescindere dal risultato, sono contenta di aver avuto questa
incredibile opportunità.
A presto!
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Capitolo 3 *** Quando suonano le campane ***
[UshiTen ❖ One-shot]
Hunchback
of Notre-Dame!AU
Parigi 1462
Parigi si svegliò di
soprassalto, atterrita
dall’infernale
rantolo del Selle
Français dal sangue normanno. Il corsiero
dal
manto morello arrestò l’andatura sul lastricato di
leucitite scura, sbattendo pesantemente il pregiato ferro che rivestiva
lo zoccolo contro la pietra lavica della strada.
Sulla sella in cuoio, creazione
d’alta fattura di uno dei
maniscalchi più in voga della città, sedeva
tronfio nella
sua postura impeccabile l’Arcidiacono Tanji Frollo, il cui
sguardo grigio vagava con impassibile austerità sul corpo
senza
vita della giovane zingara scivolata sul pavé di Notre-Dame.
La
donna, sulla cui tempia scorreva solitario un rivolo di linfa
sanguigna, stringeva tra le braccia un paltò arruffato e
sudicio, così sozzo che l’uomo tentennò
qualche
istante prima di sottrarglielo con dubbia delicatezza.
L’Arcidiacono
sobbalzò un istante al primo,
inaspettato vagito; scoprì un lembo del malandato soprabito,
concedendosi
alla vista terrificante d’un omuncolo ch’appariva
più un feto partorito prima del tempo che un neonato: aveva
le
spalle ricurve, i capelli rossicci, gli occhi fuori dalle orbite e un
pallore mortale. A tutta quell’orribile commistione di
singolarità che non avrebbero mai dovuto accozzarsi insieme,
v’era una cacofonica sproporzione degli arti superiori, che
apparivano fin troppo lunghi rispetto alle gambe che non
s’erano
ancora perfettamente formate. Una medaglietta di bassa lega di bronzo
pendeva dal collo plissettato da un’epidermide raggrumata e
storpia: v’era scritto solamente Tendou. Per cui era
quello,
il
nome di quel cucciolo di mostro.
L’uomo si guardò
attorno con diffidente
circospezione, e
lo sguardo si posò con insana apprensione sul pozzo in
muratura
a pochi passi dal Portale di Sant’Anna, quello che affacciava
a
occidente rispetto alla monumentale facciata. Tanji godeva sovente
d’una volontà ferrea e incrollabile, eppure in
quell’istante la tentazione di spegnere quel non essere tra
gli
zampilli delle falde acquifere divenne così seducente da
convincerlo al primo, delirante passo. Il secondo e il terzo non
tardarono a giungere implacabili, fino a quando lo sguardo grigio e
affilato non si sporse a controllare quanto fosse profonda la
struttura.
Mai qualcosa gli parve così
semplice come in quel momento:
sarebbe bastato allungare la mano che stringeva il bozzolo di stoffa e
lasciare che le dita s’arrendessero al peso
dell’orrido
corpicino, macchiandosi dello stesso crimine di Pilato, ma
alleggerendosi d’un fardello che l’avrebbe
condannato per
tutta una vita. Il pollice un po’ raggrinzito fu il primo ad
allentare la presa, seguito dall’indice.
L’Arcidiacono era sempre stato
un votato ecclesiastico, oltre
che
un implacabile giudice. Non conosceva il senso della pietà,
né cosa fosse l’amore, persino nella sua
più
piccola e insignificante accezione. Era cresciuto in collegio, passando
il suo tempo a studiare e non concedendosi mai ad altri svaghi. Aveva
sempre dato prova d'essere un ragazzo piuttosto triste, taciturno e
poco avvezzo alle
mondanità. Non aveva mai avuto degli amici, e per lui le
uniche
compagne di vita furono le arti liberali, le lingue antiche e la
medicina, che non possedevano affatto i tratti delle giovani coetanee,
le quali spesso se ne stavano sulle rive della Senna a
civettare insieme
alle guardie reali.
Nonostante la sua vita potesse
facilmente accomunarsi a quella
più ascetica d’un qualsivoglia eremita, Tanji non
aveva
mai patito il gelo della solitudine, né
l’ingiustificata
paura dell’emarginazione: l’idea d’esser
un temuto
giudice, che aveva diritto di vita o di morte sui presunti colpevoli,
lo inorgogliva così tanto da rendere superfluo tutto il
resto.
Non sapeva proprio che farsene della propria umanità.
Tuttavia, non appena schiuse in parte il
dito più prossimo,
Tanji si ritrovò a fissare la parte superiore della
strombatura
del Portale di Sant’Anna, sulla quale dominava imperiosa la
Madonna seduta sul trono, che stringeva tra le braccia il Bambino. Non
seppe mai spiegarsene la ragione, ma qualcosa – simile
all’angelo che fermò la mano d’Abramo
–
interruppe l’insano proposito di liberarsi di quella
storpiatura,
che ancora una volta si diede al pianto, rassomigliante più
al
guaito d’una bestia selvaggia piuttosto che
all’infantile
gemito d’un bebè.
Lo fissò con rabbia,
imputando a lui la colpa per quel suo
vile
atto di meschinità che rischiava di degenerare in un
assassinio,
uno dei tanti che aveva condannato in passato.
— Non avreste mai commesso un
simile gesto —,
proruppe
infine una voce, che l’alto prelato non fece affatto fatica a
riconoscere.
— Come mai ne siete
così sicuro? —
sbottò e,
nonostante la sua voce fosse monocorde, non poté sottrarsi
al
vago senso d’inquietudine che pativa per la scelta appena
compiuta.
L’abate Ikkei Durand si sporse
dal portone
centrale,
arrestando il passo sotto al gonfalone del Giudizio Universale. I due
ecclesiastici non erano mai andati granché
d’accordo, ma
entrambi conoscevano e rispettavano profondamente le ragioni
dell’altro e l’importanza d’una vita
retta, condotta
con sani valori e principi inossidabili. Fu per questo motivo che il
cenobitico rispose, senza batter ciglio: — Non avreste mai
compiuto una tale empietà davanti alla Nostra Signora.
L’Arcidiacono aveva sempre
odiato il raffinato senno del
compagno
religioso, che piuttosto che pronunciarsi attraverso cariche influenti
e rinomate aveva scelto una vita più frugale,
all’ombra
dei placidi contrafforti della cattedrale gotica. Notre-Dame, a ben
guardare, appariva come la sua roccaforte, il luogo dal quale poter
esprimere al meglio la sua professione di fede. In questo era
decisamente meglio di lui, che in parte s’era smarrito nei
tendenziosi meandri della politica, ch’era la cugina
più
maliziosa della dottrina religiosa.
— Cosa devo fare? —
mormorò infine,
sconfitto dal
senso di colpa per aver lasciato che quella donna scivolasse malamente
sul pavimento della chiesa, lasciandolo in balia del suo disgraziato
contrappasso.
— Crescete il bambino come
vostro, —
sentenziò
infine Ikkei Durand con voce grave, — in questo modo sarete
in
grado d’espiare la vostra colpa.
Tanji non rispose, voltandosi ancora una
volta ad osservare il volto
zigrinato dell’infante, che aveva assottigliato lo sguardo
fino a
chiudere le palpebre. Soffermò l’iride arcigna sul
triste
fallimento della natura, chiedendosi come sarebbe stato vederlo
crescere, concedendogli in parte quell’affetto che sua madre
non
sarebbe più stata in grado di dargli. A ben pensarci, forse
quel
mostro era una prova a cui Dio voleva sottoporlo: l’occasione
che
gli stava concedendo per ragionar su cosa si provasse a prendersi cura
di qualcuno, lui che nella vita non aveva mai speso il suo tempo per
gli altri, votandosi alla sua erudizione.
— Molto bene, —
continuò poi,
— ma a patto che possa viver con voi, qui a Notre-Dame.
— Vivere qui? E dove?
— Il tono di voce
d’Ikkei
sembrò inasprirsi a causa della perplessità, ma
all’Arcidiacono parve non importare.
— Osservatelo, —
asserì con
austerità,
— è il frutto acerbo caduto prima del tempo.
Rinchiudetelo
nel campanile e lasciate che coltivi lì il suo talento,
ammesso
che ne possegga davvero uno.
— Ma sarà solo!
Tanji scrollò le spalle,
liberandosi dall’infausto
fardello che pendeva come una falce sulla sua nuca. — Siamo
tutti
soli, Ikkei.
✠
Parigi 1482
La favella del volgo sparlò
per anni sul presunto guardiano
mostruoso che spiava Parigi dall’oscurità del
campanile,
sul quale non s’era affacciato mai nessuno. Molti pensarono
che
un essere tanto deforme fosse impossibile riconoscerlo da
così
lontano, giacché sulla torre più alta della
cattedrale
v’erano a guardia i rigidi gargoyle di pietra,
ch’erano
anch’essi così orridi da poter essere facilmente
scambiati
per il campanaro. La gente comune, avvezza alle storie più
vivaci e alle superstizioni più maliziose, si
limitò a
chiamare quel ragazzo con l’epiteto di gobbo, il che era
assurdo,
poiché nessuno lo aveva mai davvero visto.
E così le signore, che
s’affrettavano a ritirare
le
baguette calde appena sfornate dal panettiere, ciarlavano assiduamente
su che razza di bestia vivesse a Notre-Dame; i bambini venivano
minacciati di fare i bravi perché altrimenti il gobbo li
avrebbe
presi e mangiati; i prelati entravano con reverenza e
s’affaticavano sulla navata centrale della cattedrale, non
alzando mai il capo verso le logge per paura di scontrarsi con lo
sguardo sanguigno d’una fiera infernale.
Ciò che non si sapeva
dell’inquietante mistero
veniva
avvolto dalle guglie affilate dell’austera cattedrale e si
perdeva tra i pilastri polistili e le bifore scure, laddove gli occhi
dei penitenti non accennavano a volgersi, un po’ per
rispettosa
devozione e un po’ per paura. Cosicché, dal
simmetrico
ridondare delle colonne del matroneo, risultava impossibile accorgersi
dello sguardo borgogna che sovente scivolava curioso lungo le navate,
poi verso le volte a crociera e giù verso l’abside
e il
coro.
Le iridi vermiglie approfittavano spesso
dello sparso via vai dei
fedeli, avvicinandosi a quella forma di vita che veniva definita umana,
ma di cui loro non avevano mai avuto granché memoria, se si
eccettuavano le sporadiche visite del maestro Tanji Frollo. La
targhetta di bronzo, ch’era ancora legata al collo un
po’ troppo allungato del giovane, portava due incisioni, una
più
sbiadita dell’altra: la prima – quella
più vecchia
– recava i caratteri Tendou,
e nonostante fosse il suo nome,
non
aveva mai sentito il precettore chiamarlo in quel modo; la seconda
indicava il giorno in cui era stato trovato orfano, ossia la domenica
successiva a quella di Pasqua, che veniva comunemente chiamata in albis
o, per i popolani, quasimodo.
Non gli fu mai spiegato che la locuzione
latinista in realtà possedeva un'accezione nascosta,
poiché
poteva anche significare “formato a metà,
deforme”.
Per il suo cheto vivere, non comprese la ragione per la quale il
maestro Tanji si rivolgesse a lui con una simile espressione, e neppure
gl’importò di venirne a conoscenza: Tendou,
cresciuto dai
sani quanto rigorosi insegnamenti dell’alto prelato, non
crebbe
mai covando in corpo la serpe dell’invidia, né fu
mai
irretito dal desìo dell’avara volpe. Era sempre
rimasto
all’ombra del campanile, in compagnia dei gargoyle di pietra
e
delle campane imponenti di bronzo, che coi rigidi batacchi di ferro
scandivano il tempo di Parigi e dei suoi abitanti.
Nonostante gli fosse stato detto
più e più volte
di non
affacciarsi sul cornicione dell'alta cuspide, Tendou
era un
acrobata eccezionale, con delle braccia così lunghe da non
manifestare alcuna difficoltà a scalare – seppur
di poco
– la gotica architettura della torre sopraelevata. Da
lì
riusciva a vedere tutta la città e, con essa, gli ignari
passanti che sostavano in piazza, perdendosi come piccole formiche
lungo le strade lastricate di laterizio. Tendou, la cui
deformità si scontrava a tenzone contro un’indole
entusiasta e piena di vita, li osservava con un fervore così
passionale e zelante che chiunque si fosse trovato ad incrociare quello
sguardo avrebbe potuto godere d’un oceano
d’emozioni
così lussureggianti da far impallidire i giardini privati di
Luigi XI[¹].
Nel carminio di quelle iridi
v’era molta più
felicità di quanta se ne potesse trovare in un ragazzo a cui
non
era mai stata concessa l’opportunità di varcare la
soglia
del grande Giudizio Universale[²].
L’esistenza di Tendou
–
ammesso che si potesse definire davvero così –
iniziava e
finiva lì dove riecheggiavano le campane. Il giovane le
suonava,
innamorato della loro vibrazione che s’esprimeva ogni volta
attraverso note differenti: con esse sfiorava la vita della gente che
non aveva mai conosciuto, gioendo per i matrimoni e piangendo ai
funerali. In quel tocco onesto e delicato, Tendou carezzava con i
rintocchi l’emotività delle persone, le loro
paure, i loro
desideri. Era lì con loro quando avevano più
bisogno di
lui, anche se nessuno ne era a conoscenza. Li osservava scorrere
insieme al tempo, e non s’incapricciò affatto per
incontrarli, giacché il maestro gli ripeteva spesso quanto
il
suo
aspetto potesse impaurirli. Il timore che quella sensazione di conforto
ch’era in grado di concedere loro trasmutasse in una
disperata
inquietudine, lo inibì così tanto da non
permettergli mai
di varcare l’uscio di Notre-Dame, rimanendo sempre estraneo
al
mondo e a chi lo abitava.
Così Tendou passava le sue
giornate a studiare la Bibbia, a
leggere libri, a lucidare vecchi manufatti ch’erano stati
dimenticati in quella soffitta, dove le uniche forme di vita
–
dopo di lui – erano i ragni che pendevano dai vecchi
architravi
in legno ormai marcio. Alcuni avrebbero potuto pensare che si
accontentasse di ciò che aveva, ma non era del tutto vero:
Tendou, più semplicemente, non sapeva ch’esistesse
di
meglio, né s’interrogava sulla remota idea che
potesse esserci una vita migliore della sua. Gli bastava attendere
paziente
l’arrivo del suo maestro affinché il volto gli
s’illuminasse dello stesso leale entusiasmo d’una
coda
d’un cane sbattuta qua e là per il ritorno del
proprio
padrone. Persino il colore dei suoi capelli rossi ricordava similmente
il manto d’un bastardino, il quale spesso
s’accoccolava
sulle scalinate in marmo della cattedrale per ricevere la sua
quotidiana razione di cibo e tenerezze.
Si chiese spesso quale fosse la
differenza tra lui e quella bestia;
congetturando che il suo aspetto fosse davvero così
ripugnante,
a lui sarebbe bastato esser trattato alla stregua del piccolo meticcio,
a cui veniva donato un po’ dell’affetto che la
gente si
portava dietro e che aveva d’avanzo per quelle sciocchezzuole
un
po’ frivole, come una carezza sotto al collo o un grattino
dietro
l’orecchio.
Tuttavia, quando si sforzava di parlarne
con l’Arcidiacono,
questi s’incupiva, assottigliando lo sguardo e grugnendo come
un
orso inferocito.
— Ne abbiamo già
parlato, — gli
ringhiava con
austera formalità, — non v’è
modo, per te, di
poter vivere in questo mondo.
Ma non appena il prelato si congedava,
fiducioso che quel litigio fosse
l’ultimo, Tendou se ne tornava sul loggiato esterno, quello
più alto e riparato dall’ampollosa torma
d’archi
rampanti scanalati. Lì, nascosto all’ombra delle
sempiterne colonne, continuava a fissare le persone, nutrendosi dei
loro sguardi e di quelle emozioni che non sarebbe mai stato in grado di
provare.
Un giorno, vagheggiando su come potesse
essere la grande piazza vista
dalla prospettiva di quelli più in basso, il ragazzo
osò
sporsi dal cornicione inferiore della facciata occidentale, celandosi
alla vista dei passanti grazie all’ombra della statua di
Santo
Stefano. Vagò con lo sguardo alla ricerca dei particolari
che,
dall’alto, non era mai riuscito a vedere: le spille di
bronzo, i
cappelli di paglia, i cesti di vimini, persino le toppe che coprivano i
gomiti delle giacche sporche di quelli meno abbienti.
L'occhiata vermiglia scorse poi, un
po’ più in
là
del grande piazzale, la presenza d’un gaio gruppo di
musicisti e
di ballerini che si dilettavano in danze all’apparenza
esotiche,
con il rimbombo sovrano dei tamburi e lo sbattere dei piedi sulla
pavimentazione grigia. Tendou, volgendo l'attenzione al punto
più
lontano, rimase interdetto alla vista d’un giovane ragazzo
vestito di stracci e dal cui orecchio pendeva un delicato ornamento
fatto d’una piccola piuma bianca: era bello, d’un
fascino
acerbo e virile al tempo stesso, con lo sguardo ambrato che, alla luce
del sole di mezzogiorno, gl’illuminava la carnagione
olivastra e
i capelli castani.
Chi fosse costui il campanaro proprio
non avrebbe saputo dirlo.
Ma in quello sguardo d’oro e
silenzioso v’era molta
più vita di quanta ne avesse mai trovata Tendou nella sua.
✠
Ushijima Agnès[³].
Così credeva
d’averlo sentito chiamare da uno dei
ragazzi
che strimpellava sulla logorata tavola armonica. Un nome bizzarro, che
di certo non s’amalgamava affatto col melodioso arpitano[⁴]
del
Forez, né con le parlate più chiuse
dell’entourage
di Parigi.
Comprese che faceva parte d’un
gruppo di zingari vagabondi,
che
sovente si prestavano a continui viaggi alla ricerca d’un
posto
che li ospitasse. Dall’accento marcato e un po’
cacofonico,
capì ch’erano i nomadi andalusi di cui gli aveva
parlato
il precettore, con quei loro modi disinvolti e spontanei a cui i
parigini
non erano granché avvezzi e che, per tale ragione,
apparivano
come il frutto marcio d’una società autarchica, la
quale
non si prestava facilmente a dogmi e dottrine.
Tendou li osservava ogni giorno dal
cornicione inferiore –
quello
sotto al grande rosone – dove si poteva osservare con minuzia
di
particolari ogni più insignificante dettaglio di quelle vite
in
corso, le stesse che l’Arcidiacono gli aveva impedito di
conoscere. Li fissava con singolare attenzione, con quei loro vestiti
sgargianti e i sorrisi bianchi; danzavano, cantavano e si dilettavano a
batter le mani come se fosse ogni giorno Pasqua, e
tutt’intorno
Parigi s’illuminava d’emozioni nuove, scevre dal
grigiume e
dalla severità che Notre-Dame sembrava imporre con la sua
rigida
solennità.
Quel giorno, tuttavia, era diverso dagli
altri. Tendou se n'era rimasto sul
loggiato superiore, vagando con lo sguardo alla ricerca del giovane
ragazzo dall’orecchino di piuma, chiedendosi come mai fosse
in
compagnia di altri due zingari. Erano tutti inginocchiati sul liscio
pavimento del sagrato, con le braccia incrociate e lo sguardo rivolto
al Portale del Giudizio Universale, laddove il campanaro scorse le
fattezze rigide e impassibili del suo maestro. Provò ad
affinare
l’udito, ma il continuo scampanellare delle sue compagne di
bronzo doveva avergli intorbidato l’efficienza
dell’orecchio, poiché brevi e privi di senso gli
apparivano i vagheggiamenti che uscivano dall’una o
dall’altra bocca.
— Non dovresti essere qui,
Tendou. — Si
voltò in
direzione della voce dell’abate Ikkei, che lo scrutava con
placida bonarietà mentre s’avvicinava a lui dal
corridoio
della fiancata destra. — Maestro Tanji potrebbe incupirsi.
Sai
com’è fatto.
— Lo so, — rispose
con sincerità il
ragazzo, — volevo capire cosa stesse accadendo.
Ikkei sorrise; conosceva abbastanza bene
Tendou da sapere quanto la sua
curiosità potesse esser fonte di problemi, specie
quand’era assecondata da una spontanea – seppur
puerile
– malizia, che lo irretiva a tal punto da lasciarlo in
balìa del più volgare dei pettegolezzi. Il
giovane,
dopotutto, cadeva giusto in quell’età
dov’era
più semplice credere ad una maldicenza che ad una
verità
più noiosa e priva di romanzate calunnie.
— Sono clandestini
—, s’era limitato a
dirgli il
presule, affiancandoglisi e osservando anch’egli la scena.
— Stanno richiedendo il diritto d’asilo.
— Diritto d’asilo?
Ikkei annuì. —
Chiedono la protezione di
Notre-Dame.
Tendou se ne stette cheto e
tornò con lo sguardo al ragazzo
di
nome Ushijima, rimasto in silenzio mentre gli altri due disquisivano
con l’Arcidiacono, la cui collera si riverberava negli occhi
cianotici che avevano perso gran parte della loro compostezza.
— È furibondo
—, mormorò
impensierito.
Conosceva bene la smorfia che sfregiava la pelle indolenzita del
maestro, la stessa che gli piombava in viso ad ogni ennesimo,
estenuante litigio. Per certi versi, v’era quasi affezionato.
Il ragazzo non riuscì a
sottrarsi ad un sorriso, che a ben
vedere forse appariva più come un ghigno silenzioso e
raccapricciante: Tendou adorava
il suo amato educatore, di
quell’attaccamento semplice e puro ch’era tipico
d’un
randagio, tuttavia v’era una piccola ombra di sé
che
gioiva nel vederlo perdere il suo decoro e mostrarsi agli occhi di
tutti per quello che era, la trasfigurazione deforme dell’ira
che
giaceva sotto le mentite spoglie d’un alto prelato. Il
campanaro
non sapeva spiegarsi se la natura di quell’impulso fosse
lecita,
oppure se fosse invece d’attribuire al risentimento che
segretamente covava nei confronti dell’Arcidiacono per averlo
sempre tenuto rinchiuso tra quelle mura. Dopotutto, per quanto estraneo
alla società, Tendou rimaneva pur sempre un ragazzo dalla
personalità scentrata e un po’ eccentrica, ma non
cattiva:
nutriva un gran bene per le persone, e capitava di rado che si
ritrovasse in parte a disprezzarle per non essersi mai accorte di lui.
Perso in quel labirintico flusso di
pensieri, non s’accorse
dello
sguardo d’ambra scura che lo stava fissando; perse un battito
nell’istante in cui comprese ch’era proprio quello
d’Ushijima, e s’affrettò ad abbassarsi
per sottrarsi
ai penetranti occhi nocciola, finendo per impattare le ginocchia contro
il pavimento marmoreo.
Mi ha visto.
Tendou non capì
perché iniziarono a tremargli le
mani,
né come mai il suo respiro si fosse improvvisamente fatto
più pesante, trasmutando in un affanno incontrollato. Ikkei
gli
si avvicinò preoccupato, scuotendolo per le spalle.
— Figliolo, va tutto bene?
— Mi ha visto, —
sbiascicò con gli occhi
spalancati, — quel ragazzo mi ha visto.
L’abate lo aiutò a
sedersi, premendogli la schiena
contro
la pietra della massiccia balaustra. — Non è
accaduto
niente di grave, Tendou.
Il giovane campanaro non aveva mai
incrociato altri occhi
all’infuori di quelli del suo maestro o d’Ikkei.
S’era ingenuamente convinto che lui, poiché
nessuno
s’era mai premurato d’incrociare il suo sguardo,
apparisse
al mondo come uno di quei mostri di cui cianciavano i racconti
popolari: un essere immateriale, che non aveva consistenza alcuna e che
quindi, per lecita conseguenza, non aveva ragion d’esistere.
— Mi ha visto, —
continuò, vittima
dell’angoscia e del panico, — dovrò
dirlo a Padron
Tanji.
— Non è il caso.
— Ma lui mi ha visto!
— Il tono di voce, che prima
aveva
tentato vagamente di controllare, si fece più pressante e
impaurito. — Se lo dicesse a tutti, allora verrebbero a
sapere di
me.
— E questo ti preoccupa?
— gli domandò
con tranquillità l’abate.
— Guardatemi! —
Tendou fece scorrere le dita sui
solchi
ch’intercorrevano tra una pietra e l’altra,
evitando
d’incrociare lo sguardo dell’ecclesiastico.
— Sono un
mostro. Cosa potrebbe mai accadere di buono, se qualcuno mi vedesse?
Ikkei rimase a fissare il giovane per
qualche istante, indugiando
– più che sulle sue orrende fattezze –
sulla smorfia
di dolore che aveva dipinta sulla bocca. Non riuscì a
trattenere
la pena nel vedere quel povero figlio ridotto ad un’ombra di
un
essere umano, spaventato da sé stesso e da ciò
che la
gente avrebbe mai potuto pensare di lui. Aveva passato molto tempo in
sua compagnia, tanto da sapere che grande animo possedesse e quale
nobiltà di sentimenti lo caratterizzasse, sebbene a volte
preferisse nascondere quella sua incertezza dietro un atteggiamento
apparentemente distaccato e freddo. Eppure, ciò che
all’abate sembrava palese come il sole allo zenit, al ragazzo
non
appariva affatto così chiaro, irretito dai continui litigi
con
l’Arcidiacono, che non perdeva mai occasione per fargli
notare
quanto il suo aspetto fosse spaventoso.
Portò una mano a carezzare i
capelli di ruggine che
scendevano
dal capo pallido e sudato, scuotendoli come fossero fili
d’erba.
— Tu non sei affatto un mostro, Tendou.
Era la verità, solo che il
campanaro non la conosceva
ancora.
Non v’era nulla di sbagliato nel suo aspetto, ma il mondo
sapeva
essere molto crudele, così spietato che Ikkei non era sicuro
che
il ragazzo fosse in grado di sopportare il dolore che avrebbe potuto
provare, nell’accorgersi dei volti incupiti e spaventati di
coloro
che aveva spiato per tutta una vita dal cornicione più alto
di
Notre-Dame.
Mentre lo aiutava ad alzarsi, il
diocesano si sporse dal parapetto del
loggiato, curioso anch’egli d’osservar la scena.
Lo sguardo d’Ushijima era
ancora lì, ma non
sembrava affatto spaventato.
✠
La Fête
des Fous[⁵]
era un’istituzione per tutto il
popolo
parigino. Cadeva sempre gli ultimi giorni di dicembre, ed era
l’unico momento dell’anno in cui era possibile
scordarsi
della propria patetica esistenza per concedersi al benessere
dell’edonismo più spietato, fatto di vino, musica,
donne.
La gente amava smarrirsi in quel clima
di perdizione, poiché
durante la Fête
des Fous tutto era concesso. Proprio tutto.
Era una ricorrenza ereditata dai Saturnali romani;
ma, al contrario
della sua parente più antica, questa di propiziatorio[⁶]
non
aveva
nulla: costituiva un modo per evadere da una realtà
insignificante e molesta, l’unica possibilità di
riscatto
d’un popolo che aveva ormai perso gran parte dei propri
valori
etici. C’era chi s’ostinava a credere che la festa
avesse
un che di religioso, ma i più arzilli – al
suddetto
commento – si limitavano a sputare via il vino che avevano in
bocca per sbiascicare alticci quanto fosse profana, a tratti quasi
eretica.
A supportare tale ipotesi,
v’era la certezza delle malefatte
che
spesso venivano commesse durante i giorni di baldoria: era capitato
più volte che qualcuno venisse ammazzato, altre che qualche
donna subisse violenza. Nei casi più gravi era accaduto che
più d’un bambino si perdesse nella folla per non
fare
ritorno.
La colpa veniva attribuita agli zingari
– il che era
illogico,
poiché loro non partecipavano mai alla suddetta celebrazione.
Quell’anno, tuttavia, fu
diverso. Il capitano della Guardia
Reale
s’era accordato coi due principali esponenti del clan
andaluso
per conceder loro di prendere parte ai festeggiamenti. Questi
ultimi, la mattina del ventisette dicembre, si presentarono davanti a
Notre-Dame, coi loro vivaci costumi e i sorrisi spensierati tipici di
chi s’era approfittato della vita per dissetarsi
d’ogni
goccetto ch’essa aveva da offrire.
Tendou li spiava come ogni anno dal cornicione sopra l’ogiva
del
portone più grande, accorto affinché nessuno
potesse
vederlo: non aveva accettato l’idea d’esser stato
notato da
uno di loro, soprattutto perché non aveva ancora trovato il
modo
di dirlo a Padron Tanji.
Ushijima era accanto ad un tendone color
carta da zucchero, intento ad
allestire le decorazioni che cadevano dai lunghi fili tra una lanterna
e l’altra, mentre tutt’intorno s’animava
di gente
vestita a festa: v’erano il fornaio, il maniscalco, il
custode
notturno, le donne del bordello e così tanti bambini da non
poterli contare tutti. C’era una moltitudine di giovani
innamorati, pettegole e quel gruppetto di calzolai che di solito si
presentavano in piazza solamente per riparare i mocassini guasti di
qualche squattrinato popolano.
La mattina del ventisette dicembre era
il momento più
importante
dei tre giorni di gozzoviglia, poiché v’era
l’elezione del Papa
dei Folli: tra i partecipanti, veniva
scelto
colui dalla fisiognomia[⁷]
più agghiacciante e fatto pontefice
per
un giorno. Era l’attimo più atteso, quello per il
quale
tutti s’affannavano in piazza, nella speranza di poter
trovarsi
abbastanza vicini al palco per godere dell’immensa bruttura
dei
fenomeni da baraccone che si prestavano a tale ignobile parata
–
che, se non fosse stato per i soggetti ch’ivi sfilavano, si
sarebbe potuta scambiare per una processione di penitenti.
Tendou, anch’egli vittima del
puerile interesse, si
ritrovò ben presto a qualche metro dal portone di
Sant’Anna, quello più vicino alla folla. Intento
com’era ad osservare il ridicolo teatrino, scivolò
all’altezza della strombatura, finendo per scontrarsi con il
rigido pavé dell’ingresso. Si coprì il
volto col
cappuccio, speranzoso che nessuno avesse notato la scena.
— Ehi, tu!
Il campanaro
s’immobilizzò, somigliando fedelmente
ai
gargoyle che gli avevano tenuto compagnia per tutti quegli anni.
— Se non sali adesso, verrai
escluso dalla competizione
—,
continuò l’uomo, afferrandolo per un braccio e
trascinandolo in prossimità dell’impalcatura.
Tendou se ne stette col capo chino,
preda del panico. Non sapeva cosa
fare, e si fece condurre passivamente sull’improvvisato
ponteggio
in legno, accanto agli altri concorrenti della competizione. Avrebbe
potuto fuggire, ma non lo fece; si comportò alla stregua di
alcune specie di passero che, consce di un imminente pericolo,
s’immobilizzavano senza porre l’ingegno ad una via
di fuga.
Il presentatore – uno degli
zingari andalusi – si
lanciò in vacue affermazioni atte solo a suscitare
l’ilarità generale dei presenti, iniziando a
togliere le
maschere che coprivano i volti di coloro che, in tutta Parigi, erano
considerati i più brutti. Quando si ritrovò di
fronte al
ragazzo, gli strappò via il cappuccio dalla testa e gli
prese
gli zigomi, accorgendosi l’istante dopo che ciò
che il
campanaro aveva addosso non era affatto una maschera.
— Quella è la sua
faccia —,
mormorò
spaventata una signora vicino al palco, portandosi le mani a coprirsi
la bocca.
Il disorientamento del pubblico
mutò presto in una crisi
d’isteria, che giunse al suo culmine nell’istante
in cui
uno dei borghesi più ubriachi lanciò un pomodoro
che
colpì Tendou sulla guancia. Un altro gli
scaraventò
addosso un secchio d’acqua ghiacciata, un altro ancora una
buccia
di banana, fino a percuoterlo con delle arance acerbe più
massicce dei sampietrini che infestavano il pavimento della piazza.
Tendou non provò dolore o
almeno non nel senso fisico della
sua
accezione. Era uno spasimo più angosciante e disperato, che
peggiorò nell’istante in cui sentì un
cappio
intorno al collo stringerlo e farlo cadere rovinosamente a terra.
— Un applauso per il Papa dei
Folli! —
gridò una
voce dalla platea, mentre il pubblico si dilettava a lanciargli contro
qualsiasi cosa fosse in grado di ferirlo. — Un applauso al
gobbo
di Notre-Dame!
Lo sguardo di Tendou
s’assottigliò nella speranza
di
trovare tra la folla qualcuno che fosse in grado d’aiutarlo.
Gli
occhi rossi, un po’ per il pigmento dell’iride che
li
caratterizzava e un po’ per il bruciore dovuto al succo degli
agrumi, vagò fino alle tribune dov’erano seduti
i
funzionari pubblici. Lì, seduto accanto agli altri giudici
dalla
tonaca nera, v’era il suo maestro.
— Padron Tanji! —
gridò, mentre
stringeva le
palpebre per paura d’esser colpito da una frustata.
—
Padron Tanji, aiutatemi!
L’alto prelato rimase a
fissarlo, ma non mosse un dito.
D’improvviso, al ragazzo divenne tutto palesemente chiaro: i
litigi che avevano avuto, gli avvertimenti sulla gente, lo sguardo
grigio costantemente iracondo, ogni cosa ch’era accaduta tra
loro
avrebbe dovuto essere un insegnamento, ma Tendou non ci aveva mai
davvero creduto. S’era fidato delle persone, e quello non era
altro che il ringraziamento per aver vegliato su di loro fin da quando
aveva memoria. Avrebbe voluto urlare,
arrabbiarsi, gridare il suo odio
a tutti quelli che lo stavano deridendo. Eppure rimase lì a
farsi buggerare, perché sentiva di doversi meritare una
punizione per esser stato così incautamente spontaneo da
concedere la propria fiducia a chi non l’aveva meritata.
D’un tratto, il frastuono
della folla cessò;
Tendou
schiuse una palpebra per osservare cosa fosse accaduto,
poiché
non avvertiva più le percosse inflitte dalla corda
né il
continuo sbattere degli oggetti lanciati dalla calca. Lì, a
pochi passi da lui, c’era Ushijima.
Trattenne il fiato, mortificato
all’idea che il loro primo
incontro accadesse proprio in quell’istante, e distolse lo
sguardo dagli occhi pietosi dello zingaro, che
s’appropinquò al suo fianco, sfiorandogli il
braccio
sporco di succo di pomodoro.
— Mi dispiace, — lo
sentì dire, con voce
profonda e calma, — deve averti fatto male.
Tendou non rispose, stringendo la
mandibola per evitare di prorompere
in un pianto nevrotico e baritonale, simile al rantolo d’una
bestia. Il giovane andaluso slacciò dalla caviglia un fodero
da
cui estrasse un piccolo coltello affilato, posizionandolo proprio sotto
la corda che continuava ad avvincere il collo del campanaro.
— Zingaro, fermati!
— sbottò la voce
imperiosa di
Tanji, alzatosi in piedi. — Fatti da parte. Non è
tuo
compito occuparti di lui.
Ushijima lo fissò senza
batter ciglio. Rimase inginocchiato
accanto al ragazzo, con lo sguardo ambrato in bilico tra lui e
l’alto funzionario che lo stava ammonendo; ma non sembrava
intimorito, al contrario. V’era una rabbia silenziosa e
inquietante nelle iridi nocciola, un sinistro disappunto che si
manifestò attraverso le dure parole che seguirono.
— Parlate di giustizia, poi
permettete cose come queste.
—
Il tono di voce del gitano rimbombò con solenne
maestosità tra i volti sgomenti del popolo, perdendosi per
le
vie deserte di Parigi. — Maltrattate lui, così
come avete
sempre maltrattato la mia gente.
Pronunciata quella sentenza, Ushijima
tagliò la corda
stretta intorno al collo di Tendou.
✠
Tendou non sapeva quanto commovente
potesse essere il tocco
d’una
carezza. Nella sua vita non era mai stato oggetto del contatto fisico,
che aveva sperimentato solo le poche volte in cui l’abate
Ikkei
gli aveva strofinato i capelli. Per cui non riuscì a
trattenere
l’immensa serenità che provò nel
sentire il
delicato palmo della mano di Ushijima, mentre con uno straccio lo
ripuliva dalle tristi offese della mattina passata.
Non appena ebbe slegato la corda che lo
imprigionava, lo zingaro fu
accusato di oltraggio alla legittima potestà, finendo per
essere
rincorso da più d’una decina di guardie reali, che
non
riuscirono a catturarlo prima che l’abate Ikkei gli gridasse
di
rintanarsi a Notre-Dame. Una volta lì,
l’ecclesiastico si
rifiutò di cederlo alle autorità, giustificando
il suo
vilipendio con la banale scusa che il ragazzo avesse chiesto il diritto
d’asilo – non che fosse vero, ma il curato era
sempre stato
convinto che una bugia detta a fin di bene non fosse poi un peccato
così imperdonabile.
L’Arcidiacono divenne furioso,
ma non addusse alcuna scusa
per
poterlo imprigionare, certo che il gitano avrebbe comunque cercato una
via di fuga prima del calar del sole.
— Mi dispiace —,
biascicò Tendou, mentre
su Parigi
s’adagiava il più scuro dei crepuscoli.
— Non
avresti dovuto metterti in mezzo. Guarda in che guaio ti sei cacciato.
Ushijima volse lo sguardo verso quello
del campanaro, che non era
ancora abituato a sentirsi osservato in quel modo. L’andaluso
aveva un carattere decisamente bizzarro e a tratti incoerente: sembrava
un ragazzo tranquillo e taciturno, eppure era stato l’unico
ad
intervenire nel momento in cui lui aveva avuto bisogno
d’aiuto.
Appariva come una persona che pensasse a molte, troppe cose.
Tendou,
sbirciando in quelle pozze d’ambra scura, riusciva a scorgere
un’insolita nobiltà d’animo e delle
convinzioni
inossidabili, le stesse che gli avevano permesso di trovare il coraggio
d’opporsi a Tanji e alle guardie reali.
— Ti stavano facendo del male,
— dedusse lo
zingaro, alzando le spalle, — ma senza che ce ne fosse la
ragione.
Persino il suo modo di parlare gli
appariva pittoresco; aveva una
profonda voce cavernosa, che cozzava terribilmente col volto rilassato
e olivastro, impreziosito da quei magnifici occhi tondi e ricolmi di
placida quiete. Ushijima, al suo pietoso sguardo di gobbo, appariva
come quel fascio di luce ch’incontrava
all’albeggiare,
mentre suonava le campane: sbucava timidamente da sopra i tegolati
sciamannati, scivolandogli in viso come la blandizia di Madre Natura
che sembrava volergli concedere il suo silenzioso buondì.
Ma la cosa che più sbalordiva
il campanaro era
l’assoluta
indifferenza che il gitano pareva nutrire nei confronti del suo
aspetto, sul quale non s’era pronunciato neppure con una
parola
di biasimo.
— Non hai paura di me?
— gli domandò
infine, mentre lo vedeva intento a fasciargli un braccio.
Ushijima sembrò non dare
troppo peso al quesito; si
limitò a scrollare il capo e ad affermare, con voce del
tutto
atona: — No.
— Non provi disgusto?
— No.
Il girovago non era un tipo di molte
parole, questo Tendou riusciva a
comprenderlo facilmente. Eppure, nonostante fosse consapevole di quella
sua singolarità, lui voleva parlargli. Voleva ascoltare la
voce
melodiosa e profonda, voleva raccontargli del campanile, di Parigi e di
tutto quello che uno zingaro andaluso non avrebbe mai potuto sapere
sulla città, sui suoi abitanti, persino sulle abitudini di
ognuno di loro. Tendou voleva renderlo partecipe della sua vita,
sebbene non fosse mai stata così piena d’avventure
come
avrebbe voluto.
Era forse l’infantile
capriccio d’un moccioso,
eppure
vedere Ushijima a pochi passi da lui, col volto rilassato e le spalle
poggiate contro un vecchio contrafforte di legno, rese Tendou
così felice d’ammutolirlo. Il gobbo, che di per
sé
non aveva mai conosciuto nessuno al quale poter donare il suo affetto,
si ritrovò a fissare lo sguardo melassa e la bocca sottile
dell’ospite, sperando che quell’istante non dovesse
finire
mai.
— Vuoi venire con me?
— gli chiese infine,
porgendogli una mano. — Voglio portarti in un posto.
Ushijima afferrò le dita
pallide e sottili che il campanaro
gli
aveva teso per aiutarlo ad alzarsi. S’avviarono per un
soppalco
polveroso e fitto di ragnatele; il gitano dovette abbassare la testa in
più luoghi per evitare di sbattere contro i vecchi
architravi
deteriorati dal tempo. Lasciò scorrere un braccio lungo una
sudicia tenda di iuta, sollevandola sopra la testa. La luce che gli
trafisse lo sguardo lo lasciò inebetito per qualche istante.
Avrebbe detto con assoluta certezza che si trattasse d’un
raggio
di sole, se non fosse stato per l’ora tarda.
Lì, davanti ai suoi occhi un
po’ diffidenti,
c’erano
le campane: quattro erano disposte una dietro l’altra, in
fila
ordinata, mentre le altre due sporgevano dalle giganti bifore del
campanile più alto.
— Queste sono Chambellan,
Guillaume, Pasquier e
Pugnèse[⁸].
— Tendou scivolò accanto a quelle più
vicine.
— Chambellan è la più piccola, poi ci
sono Pasquier
e Guillaume. Pugnèse è la più grande.
Ushijima alzò il capo verso
il paio di colossi di bronzo.
— E le altre due?
— Quella è
Jacqueline —,
continuò il
campanaro, con un sorriso dipinto sul volto affilato. — E poi
c’è Marie.
— Parli di loro come se
fossero vive —,
affermò lo
zingaro, affascinato dal giocondo alone di tenerezza con il quale il
ragazzo le chiamava per nome.
— In parte lo sono.
— Tendou osservò dal
basso il
gigantesco batacchio ferruginoso delle squille sopra le loro teste.
— O almeno per me. Ci sono molto affezionato.
— Non ti senti mai solo?
Sempre, avrebbe voluto rispondergli. Ma non lo fece,
ché la
sua
vita doveva apparirgli già misera così, senza
ch’egli vi mettesse dell’altro per sfumarla
d’un
infame pietà.
— A volte capita. Mi sforzo di
non pensarci.
— Potresti uscire di qui.
— Per andare dove?
Ushijima lo fissò, con uno
sguardo così profondo
da
richiamargli alla mente l’immagine d’un pozzo
d’acqua
scura. — Dovunque. Purché sia fuori.
Gli zingari non vivono bene circondati da muri di pietra. Tendou
aveva
sentito quella frase molte volte, ed era curioso che gli balzasse alla
mente proprio in quell’istante, mentre il giovane che aveva
di
fronte gli concedeva la vista d’una smorfia dalle fattezze
d’un blando sorriso.
— Oppure tu potresti rimanere
qui, — proruppe
infine il
campanaro, incerto, — nessuno ti darebbe più
fastidio.
— Potrei. — Ushijima si
voltò verso le
monofore
ogivali che affacciavano sulla piazza, perdendosi con lo sguardo verso
il cielo plumbeo e velato d’una sottile coltre di nebbia.
—
Ma un gitano non può privarsi della libertà per
vivere
tranquillo, o finirebbe col morire.
— Ma tu non sei come gli
altri! — Tendou non aveva
mai
avuto una conversazione così lunga con nessuno, per cui non
sapeva come ci si dovesse comportare in presenza di un’altra
persona. Tuttavia, il campanaro era certo che Ushijima rappresentasse
per lui ben più d’un
semplice
essere umano: era la linea di partenza per la sua vita,
l’inizio.
Non esistevano parole per poter definire quel
sentimento, il quale con lesto appiglio gli aveva ghermito il cuore,
che vittima dell’incantesimo più dolce aveva
cominciato a
battere non più per ignavia, ma per sincera gioia.
— Tu
sei diverso dagli altri zingari, perché loro sono malvagi!
Ushijima lo fissò per qualche
istante. Forse avrebbe dovuto
arrabbiarsi al suono di quelle considerazioni così
sprezzanti
verso il suo popolo, eppure le uniche parole che uscirono dalla sua
bocca socchiusa furono: — Chi ti ha detto queste cose?
Tendou chinò il capo,
colpevole. — Il mio padrone,
Tanji.
— Quindi è lui il
tuo padrone?
— Sì.
Ushijima godeva d’un dono che
Nostro Signore concedeva solo a
pochi adepti, la spontanea ferocia della sincerità che gli
permise d’affermare, senza batter ciglio: —
Quell’uomo è spregevole.
— Mi ha accolto quando nessuno
mi voleva. — Per
quanto le
loro anime fossero ormai votate al perpetuo litigio, Tendou aveva in
uggia chiunque osasse parlar male di colui che aveva sempre considerato
il suo affetto più prossimo. — Ha deciso di
prendersi cura
di me, nonostante fossi un mostro.
Al sentir pronunciare l’ultima
parola, il gitano
rilassò
lo sguardo accigliato e il volto si distese in un’espressione
del
tutto indecifrabile, che recava in sé le fattezze
d’una
placida calma appannata da un velo d’inquietudine.
— È lui che te
l’ha detto? —
domandò
infine rivolto al campanaro, con una voce così seria da
farlo
impallidire.
— Guardami. — Tendou
rise, ma d’una
letizia ipocrita
e disgraziata, vittima dello sguardo inquisitorio del suo ospite.
— Non ho bisogno che sia lui a dirmelo.
Ushijima non rispose; non gli piaceva
granché impicciarsi
degli
affari degli altri, specie perché era sempre stato uno
spirito
che, per indole, preferiva il raccoglimento della solitudine, la
tranquillità d’una vita monotona e senza
imprevisti.
Nonostante ciò, non si diede alcuna pena
nell’afferrare
saldamente la mano che gli stava davanti, fissandola con
un’intensità tale da rendere il volto del suo
anfitrione
paonazzo per la vergogna.
— Non la vedo —,
disse infine, con il solito tono
monocorde.
Tendou lo fissò dapprima
sorpreso, poi confuso. —
Cosa?
— La linea del mostro.
— Il gitano sorrise,
schiudendo le
perle adamantine che gli ornavano la bocca marcata. — Non la
vedo.
Il campanaro osservò la
propria mano per qualche istante,
perdendosi tra le righe che gli solcavano il palmo raggrinzito dalle
funi che tirava la mattina presto, le corde vocali responsabili dei
primi rintocchi di campana. Strinse le dita a pugno, distendendo la
bocca in un piccolo sberleffo.
— Forse hai sbagliato
—, rispose infine, e non si
sorprese
affatto degli occhi scuri che lo scrutavano e che gli parevano vogliosi
di confutare la sua tesi.
O forse ho semplicemente ragione. Era questo,
ciò che
sembravano volergli dire.
✠
Passò un mese.
Le guardie reali attorno alla cattedrale
non accennavano a diminuire
neppure col peggioramento del tempo, che divenne d’un rigido
freddo stringente. Tanji si recò solamente una volta a
visitare
il suo allievo, e nessuno seppe mai dire se l'avesse fatto per sincera
preoccupazione o se fosse stato solo un sotterfugio per potersi
accertare
della presenza del gitano. Una volta giunto in prossimità
del
campanile, il ragazzo che aveva sempre considerato alla stregua
d’un figlio gli sbarrò il passaggio, vietandogli
di
proseguire. Quel semplice gesto bastò per sancire il litigio
più brutale che avessero mai potuto avere.
— Quel ragazzo ti ha stregato,
non lo capisci?! —
gli
sbraitò contro, dimentico della sua austera compostezza.
—
Ti trascinerà con lui in una voragine di fuoco infernale!
— Voi cosa ne sapete di lui?
— Il campanaro
assottigliò lo sguardo, somigliando ad una di quelle fiere
citate dal Poeta[⁹].
— Per tutta la vita non avete fatto altro
che
dirmi che il mondo è un posto tetro e tenebroso, ma non ne
sono
più così sicuro.
Il ragazzo, ch’era
sì di buon cuore ma dotato
d’una
sottile ed aspra malizia, lasciò in sospeso la frase, certo
che
il suo senso più compiuto fosse già chiaro
all’Arcidiacono, che con fare grave sibilò:
— Sei
ormai stato irretito, hai perso il senno.
— No, — proruppe
Tendou, che in tanti anni non
s’era
mai azzardato ad alzare la voce col suo precettore, — non
sono
mai
stato così lucido come adesso.
— Di che stai parlando?
— Mi avete sempre detto che
sono un mostro, che non ho il
diritto
di vivere in mezzo alla gente normale. — Il giovane strinse i
pugni, accigliò lo sguardo rosso e penetrante. —
Beh,
Ushijima ha detto che non è vero, che non sono un essere
rivoltante e che…
— Ushijima? È
così che si chiama quel
figlio del
demonio? — urlò l’alto prelato, preda
dell’isteria. — Non ti è venuto in mente
che ti stia
usando? Perché mai uno come lui dovrebbe accettare la
compagnia
di uno come te?
Le parole sprezzanti e cariche
d’ira si scagliarono contro i
timpani del ragazzo, ferendolo come tanti piccoli spilli appuntiti.
Conosceva bene il punto di vista del suo maestro, ma sentirglielo
pronunciare alla stregua di una delle sue arringhe prima di sancire
l’impiccagione d’un condannato a morte, per Tendou
fu
decisamente più scioccante di qualsiasi altro battibecco.
Serrò la mandibola e frenò l’impulso
insano di
saltargli addosso, convenendo che la violenza non sarebbe stata in
grado di cambiare il punto di vista dell’Arcidiacono, che gli
voltò le spalle e s’avviò per la rampa
di scale.
— Quasimodo, — lo
sentì dire infine,
— vivi con serenità questi ultimi giorni con lui.
Tendou sgranò gli occhi,
osservandolo mentre se ne andava e
affrettandosi su per il loggiato esterno. Col fiato corto e il sudore
sulla fronte, il ragazzo s’avvicinò al volto
sereno
d’Ushijima, che osservava con tranquillità
l’orizzonte di Parigi e il cielo terso di quella mattina.
— Avete litigato —,
si limitò a dirgli.
— Immagino sia per colpa mia.
— No, non lo è.
— Il campanaro lo
fissò con
un bizzarro luccichio nello sguardo, l’indizio sottaciuto
alla
bell’emozione a cui s’era rifiutato
d’esporsi.
Eppure, quando Tendou guardava lo zingaro, lo faceva con un affetto
così singolare da far ingelosire la donna di Bath[¹⁰]
e i suoi
innamorati, giacché nelle iridi vermiglie banchettavano
solerti
quei sentimenti a cui non era mai stato in grado di dare un nome.
Locuzioni come passione e desiderio, per lui erano come le affabili
signore del Val d’Amore[¹¹],
coi loro vestiti succinti e
attraenti;
tuttavia, gli sguardi di quelle donne erano vacui, preda
dell’alcol e
dell’eccitazione per una notte che – forse
– non si
sarebbero neppure ricordate.
Tendou non conosceva l’amore, ma lo provava. Così
intensamente che si ritrovò presto a sfiorare con la mano
intirizzita dal freddo la guancia asciutta del giovane gitano, che non
parve affatto sorpreso dell’improvviso gesto.
— Perché stai
tremando? — gli
domandò serio,
mentre il campanaro s’accorgeva dei brividi che gli muovevano
le
dita.
— Ho paura.
— Di cosa?
Il giovane non rispose, mentre con
timida cautela avvicinava il viso a
quello dell’andaluso, sfiorando con le labbra la sua bocca
umettata e morbida, in un cenno che non aveva neppure
l’arroganza
di poter essere definito un bacio. Pose il capo sul torace
dell’ospite, strizzando le palpebre per evitare
d’irrompere
in un pianto collerico e spaventato. — Non voglio che ti
porti
via da me.
Ushijima comprese a chi si riferiva, ma
non osò replicare.
Era
certo che l’Arcidiacono avrebbe trovato un modo per
accalappiarlo
e metterlo alla gogna, ma lui non si pentiva affatto del crimine che
aveva commesso, giacché gli aveva mostrato il cammino per
arrivare a Tendou. Forse non sarebbe mai stato capace
d’ammetterlo con la stessa disarmante sincerità
con cui
era solito rivolgersi a lui, eppure si convinse che quella fosse la
decisione migliore da prendere: in quel modo, il ragazzo che aveva
imparato ad amare si sarebbe sentito meno solo, quando fosse giunto il
tempo di separarsi.
Il gitano fece scivolare delicatamente
le braccia lungo la schiena
cifotica del campanaro, chiedendosi cosa fosse quel nodo che sentiva
attanagliargli lo stomaco. Ushijima non aveva paura di morire, la falce
gli era passata accanto così tante volte che s’era
ormai
abituato a vedersela a fianco. Egli si dava pena per qualcosa
ch’esulava dal semplice concetto di trapasso, una morsa
serpentina e molesta che gli sussurrava all’orecchio che
Tendou
non sarebbe sopravvissuto al dolore di vederlo appeso ad una corda.
— Devi fuggire, — lo
sentì dire infine,
scostandosi da
lui, — se riuscissi a varcare il confine, lui non avrebbe
più l’autorità per condannarti.
— Non lo farò.
— Perché?
Ushijima fece un cenno col capo in
direzione della piazza. —
Ci
sono dieci uomini ad ogni porta. Alcuni sorvegliano persino gli archi
rampanti per evitare che io possa fuggire dal tetto.
Pronunciò quelle parole, e
mentre Tendou si lasciava andare
ancora una volta all’aleatoria disperazione della perdita
imminente,
l’andaluso lasciò che la mente sfuggisse al
controllo
dell’intelletto, formulando silenziosa ciò che
avrebbe
tanto voluto dirgli.
Voglio rimanere con te, fino alla fine.
✠
Tanji Frollo
s’accomiatò dai suoi doveri
d’alto
funzionario per un altro lungo mese, osservando con sottaciuta rabbia
Notre-Dame che s’ergeva come un gigante di fronte alla
balconata
in pietra del Palazzo di Giustizia.
L’alba del quattro marzo
– il giorno di S. Lucio
Martire
– l’Arcidiacono si presentò in piazza
vestito con la
tunica nera e il cappello che gli copriva la vetusta zazzera grigia.
Era scortato da un seguito di cinquanta soldati della guardia reale
più una ventina d’arcieri, giunti per sincerarsi
che il
gitano non fuggisse dai contrafforti dei loggiati più alti.
La sentenza che fu letta ad alta voce da
Tanji riferiva siffatte
parole: — In nome del Re, la Corte di Parigi ha deciso in tal
modo. Condanna Ushijima Agnès all’impiccagione per
il
reato di lesa potestà e oltraggio al pubblico ufficiale. In
merito a tale sentenza, la Corte ritira il diritto d’asilo.
A nulla valsero le proteste
dell’abate Ikkei, che venne
trattenuto contro la sua volontà per intralcio alla
giustizia
– ammesso che si potesse davvero definire tale il complotto
ordito per legittimare l’omicidio d’un innocente.
Ushijima era seduto sulla balaustra
scolpita in cima alla torre,
osservando la scena in compagnia dei silenti gargoyle. Rimase
impassibile persino alla
pronuncia dell’ordinanza, più
calmo di
quel che credeva. Tendou, al contrario, pareva afflitto da un incubo
orrendo: aveva le guance scarne e pallide, gli occhi più
gonfi
del solito e la bocca serrata in un’espressione oscena, come
uno
di quei penitenti negli schizzi delle agiografie ch’era
solito
legger la sera. Si sentiva in bilico tra la follia e il dolore, in quel
limbo ch’era solo per chi aveva amato e perduto. La sua
anima,
pulsante di rabbia e sgomento, sanguinava violenta al pensiero di
perdere colui a cui il cuore concesse i primi rintocchi
d’amore.
— Tendou, — si
sentì chiamare dalla voce
tranquilla dello zingaro, — stai di nuovo tremando.
— Lo so —, rispose
monosillabico, poi con bugiardo
dileggio
continuò: — Non trovi anche tu che faccia un
po’
freddo?
— Per niente. Il sole
è davvero caldo, oggi.
Era una di quelle constatazioni che lo
zingaro soleva fare,
così
semplice nella sua ovvietà da sorprenderlo ogni volta. Il
campanaro si lasciò andare ad una risata sguaiata, un
po’
maliziosa e un po’ avvilita, così perfettamente in
linea
con la sua contradditoria indole: era l’eco del suo cuore che
provava l’ebrezza della dicotomia, la felicità di
trovarsi
accanto alla persona amata e il dolore per la consapevolezza di doverla
perdere. Al centro di quella biforcatura c’era lui, Ushijima,
che
sembrava fissarlo con gli occhi più limpidi e la bocca
più rilassata. Avrebbe tanto voluto chiedergli come si
sentisse,
ma si forzò a non porgli quella domanda, poiché
la
realtà s’era già palesata dinnanzi ai
suoi occhi
borgogna.
— Sono entrati, —
disse infine
l’andaluso, mentre vedeva le guardie reali fare irruzione dal
portone del Giudizio
Universale, — quanto tempo ci vorrà, prima che
arrivino
qui?
— Quattro minuti —,
sentenziò Tendou, la
cui voce
aveva cominciato a tradire l’incrinatura del panico.
Il volto d’Ushijima
s’accese di quella smorfia che
nascondeva l’intento d’un sorriso. — Se
ci pensi,
quattro minuti sono davvero un sacco di tempo.
— Cosa vorresti fare?
— gli domandò il
campanaro, sedendosi al suo fianco.
— Niente. — Il
gitano chiuse gli occhi, lasciandosi
cullare
dalla leggera brezza del maestrale che gli arruffava i riflessi
castani. — Ho come la sensazione d’aver
già fatto
tutto.
— Non hai paura?
— Lo sai, questa domanda me la
poni un po’ troppo
spesso,
Tendou —, gli rispose Ushijima con un tono di voce
inspiegabilmente vivace, prima di tornar serio. L’andaluso
fissò l’immensità della
città dinnanzi a
sé, e mentre sentiva il rumore metallico dei parastinchi dei
soldati appressarsi alla porta in legno, si ritrovò a
sussurrare: — La vita è troppo breve per aver
paura.
È così breve che non si dovrebbe mai sprecar
tempo dietro
a un litigio, a un rancore o ad una guerra.
L’uscio che affacciava sul
campanile si spalancò,
i
soldati si sparsero tutt’intorno a lui, puntandogli contro le
lance. Gli afferrarono i polsi, costringendolo a seguirli, e a nulla
valsero le proteste accorate del campanaro, che si lasciò
scivolare sulle ginocchia contro la superficie ruvida della pietra,
mentre due guardie lo immobilizzavano.
Ushijima si voltò verso di
lui, celando allo sguardo
vermiglio
l’istinto più primordiale che
gl’intimava
all’orecchio di fuggire.
— La vita è breve,
Tendou. — Quelle
sarebbero state
le ultime parole che gli avrebbe mai rivolto. —
C’è
solamente il tempo per amare. E quel tempo dura solamente un istante[¹²].
Al suono di quel mormorio appena
accennato, il giovane campanaro
s’ammutolì, arrendendosi.
✠
Il patibolo era deserto. La gente andava
via via dissipandosi, mentre
il boia si trascinava dietro l’ennesimo rimorso per una vita
strappata troppo precocemente alla gioventù degli anni.
Tanji osservò
l’esecuzione dall’alto
della
cattedrale, ignaro che lo sguardo iracondo del gobbo fosse
già
su di lui. Tendou non aveva vissuto abbastanza a lungo da comprendere
cosa fosse la furia cieca, che giungeva nell’ora
più buia
a ghermirgli la mente, offuscandogliela come una coltre scura di pece.
Quel giorno non vi fu alcun litigio, tra
loro. Non appena il ragazzo
sentì la voce del padrone ridere satura di follia, il suo
sguardo si posò sul corpo rigido che pendeva dalla corda:
v’era un che di dignitoso in Ushijima, persino nel momento in
cui
il ragazzo si soffermò sulla corda intrecciata di spago che
abbracciava il collo niveo e tornito.
Tendou pianse, ma senza emettere alcun
suono; scivolò dietro
le spalle del suo maestro e spinse le mani grinzose contro la schiena
coperta dalla scura mantella, abbandonandosi alla malizia della
collera. Tanji cadde in avanti, perdendo l’equilibrio e
rotolando
per le scale; batté la testa contro un piedritto in marmo, e
non
si svegliò più, mentre il respiro lo abbandonava
e
l’oblio della morte gli ghermiva l’anima, macchiata
da
troppi peccati perché Dio potesse concedergli la grazia
d’incontrar Pietro[¹³].
Ignorando la natura di quel gesto
avventato, il campanaro scese con
rapidità le scale del campanile, riversandosi con foga sulla
piazza principale. Lì, ancora legato alla gomena che formava
il
cappio, v’era il corpo senza vita dell’uomo che
amava.
Camminò lentamente verso la
forca, fissando il giovane
gitano
dal basso e maledicendosi per non essere stato in grado di proteggere
l’unica persona che avesse mai provato ad aiutarlo,
mostrandogli
i mille volti che possedeva e che Tendou non avrebbe mai più
rivisto. Trattenne un singhiozzo, ma poi ne sopraggiunse un altro, poi
un altro ancora.
Con rabbia slegò il capestro
che teneva avvinta
l’epidermide irrigidita e pallida della gola
d’Ushijima,
lasciando che il peso di quel corpo senza vita gli piombasse addosso
come il più mefistofelico dei contrappassi. Lo strinse tra
le
braccia lunghe e tremolanti, mentre il raziocinio dell'omicidio si
dissipava rapido
nella mente, lasciando il posto al dolore e all’angoscia per
quel
giovane ragazzo di cui non avrebbe più visto lo sguardo,
né la smorfia che sfociava in un sorriso appena accennato.
Fu allora che Tendou gridò
con tutto il fiato che possedeva
in
corpo, mentre le sue lacrime bagnavano il volto rilassato del gitano,
scorrendo lungo il collo marchiato dal segno del canapo.
Urlò
per la disperazione di dover sopportare un dolore che non gli era mai
stato detto che potesse esistere e che il suo corpo, per quanto grande,
non era in grado di contenere. E urlò per quella tristezza
che
sentiva rubargli l’aria e annaspargli i sensi, mentre con le
lunghe dita callose sfiorava il volto d’Ushijima e pregava il
cielo che si svegliasse, ché lui quell’agonia non
riusciva
proprio a sopportarla.
— Per piacere, —
singhiozzò,
— per piacere non portarmelo via!
Per quanto benevolo, il Dio in cui tanto
aveva creduto non rispose a
nessuna delle sue suppliche, lasciandolo preda della sofferenza,
l’unica prova che ancora testimoniava che il ragazzo fosse
vivo:
dentro di sé, a poco a poco, sentiva la vita scivolare via,
e
gli occhi del gitano, il sorriso perlaceo, il volto rilassato, persino
la voce profonda erano ricordi preziosi che trasmutavano in pugnali
affilati che gli squarciavano la carne, lasciandolo in balia di
cicatrici che non si sarebbero mai più rimarginate.
Tendou pianse fin quando le lacrime
glielo concessero. Poi
s’abbandonò sul torace immobile
d’Ushijima,
attendendo paziente che la morte giungesse a prendere anche lui. Col
passare dei giorni il suo corpo si fece più pesante e la
mente
cominciò a vacillare. All’alba del quinto, Tendou
non
riuscì più a distinguere i contorni di
ciò che lo
circondava.
In lontananza, le campane di Notre-Dame
presero a suonare: era una
melodia leggera, che si perdeva nella brezza della primavera ormai alle
porte. Peccato che lui non sarebbe stato lì per vederla
sbocciare.
Il sesto giorno il ragazzo smise di
respirare e
s’addormentò. Le campane interruppero la triste
sinfonia.
Con l’ultimo rintocco, era
come se gli avessero detto addio.
✠
Il matrimonio di Tendou[¹⁴]
Tra tutte le carcasse del sotterraneo
Montfaucon, ve n’erano
due
del tutto singolari. Erano due scheletri bizzarramente abbracciati; il
primo era di un uomo: attaccate alle ossa sporgenti v’erano
ancora le vesti dai colori mangiati dal tempo ed una piuma appesa
all’orecchino, di così scarso valore che il boia
non aveva
neppure tentato di sottrargliela. Il secondo scheletro era quello che
stringeva tra le braccia il primo, ma non pareva possedere le fattezze
d’un comune essere umano. Aveva le braccia lunghe, il collo
incredibilmente sproporzionato, la colonna vertebrale storta e il
cranio sporgente.
Ciò che appariva bizzarro,
era che quello scheletro non
presentava alcuna frattura vertebrale alla nuca, cosa che rese evidente
il fatto che non fosse stato impiccato come tutte le altre salme che
lo circondavano, compresa quella che stringeva tra le braccia. Alla
luce di quella considerazione, risultava a tutti ovvio che
l’uomo
a cui appartenevano quelle ossa avesse scelto di trovarsi lì
di
sua spontanea volontà e di morire.
La curiosità prese il
sopravvento sulla bizzarra storia, e
tutti
s’iniziarono a chiedere a chi potesse mai appartenere quella
carogna, bramosi di sciogliere i mille dubbi che s’erano
creati
intorno alla surreale vicenda.
Tuttavia, quando lo si volle staccare
dalle spoglie che teneva ancora
strette tra le braccia, lo scheletro andò in polvere,
portando
con sé il segreto che gelosamente aveva custodito per tutti
quegli anni.
Fine
NOTE:
✿◉●•◦
Cantuccio di Ever
Fanciulle
e fanciulli - ammesso che ce ne siano!
Ci tengo a specificare un bel po' di cosette di questa storia, per cui
partirò da ciò che mi pare più
doveroso fare.
Vi chiedo scusa. Davvero, questa storia avrebbe meritato molto
più di così, ma per le esigenze del contest a cui
l'ho iscritta non potevo concederle più spazio, e credetemi
quando vi dico che mi sono davvero mangiata le mani. La coppia UshiTen è
una di quelle rare ship in cui mi sono sempre trovata molto in
difficoltà a scrivere, un po' per la caratterizzazione di
entrambi i personaggi - perché ammettiamolo, sono davvero di
difficile inquadratura - e un po' perché non ci ho mai messo
davvero la testa a capire cosa poter scrivere su di loro che piacesse in primis a me
stessa.
Mi scuso anche in anticipo se trovate che il mio Ushijima e il mio
Tendou siano OOC; trovandosi all'interno di un'AU e in un contesto
storico completamente differente da quello originale, per esigenze di
trama ho cercato di adattare al meglio i loro caratteri
all'ambientazione, sperando di non averli troppo sradicati dalla loro
indole originaria. Se così non fosse, mi dispiace.
Questa storia è nata da un esperimento, e come qualsiasi
esperimento che si rispetti si trova in fase di rodaggio; della serie,
o la va o la spacca, nonostante ammetto che sia comunque soddisfatta
del risultato.
Per quanto riguarda la trama, sia che abbiate visto il cartone animato Disney, sia che
abbiate guardato il musical di Riccardo Cocciante, sia che abbiate
letto semplicemente il libro, questa storia ricalca un po' tutte e tre
le vicende, ma rimane comunque molto ancorata a quelle del romanzo. Notre-Dame de Paris
è sempre stata una delle mie opere preferite, per cui sono
stata davvero molto emozionata di poterla prendere come canovaccio per
questa storia.
Ovviamente, essendo questa AU liberamente
ispirata alla vicenda descritta da Victor Hugo, non ho
preso in considerazione gli altri personaggi del romanzo, altrimenti
non mi sarebbero bastati dieci capitoli per delinearli tutti xD -
oltretutto qui Ushijima viene accusato di lesa potestà,
mentre nel romanzo Esmeralda viene condannata per il reato di
stregoneria.
Bene, se siete arrivate a leggere fin qui vi ringrazio davvero molto
per il tempo che avete dedicato per leggere questa "pseudo" storia e
spero di non avervi ammorbato troppo con questi insignificanti dettagli
- sono una tipa puntigliosa, perdonatemi! ^^"
A presto!
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