Un passo avanti.

di benedetta_02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si torna a casa. ***
Capitolo 2: *** Quanto vale una donna? ***
Capitolo 3: *** A tu per tu con la vita. ***
Capitolo 4: *** Bruchi e farfalle. ***
Capitolo 5: *** Verrò da te. ***
Capitolo 6: *** Troppo in fretta. ***
Capitolo 7: *** Conto alla rovescia. ***
Capitolo 8: *** Il dolce sapore della libertà. ***
Capitolo 9: *** Chi cerca, trova. ***
Capitolo 10: *** Colpire, non subire. ***
Capitolo 11: *** A senso unico. ***
Capitolo 12: *** Fischia il vento. ***
Capitolo 13: *** Solo nel modo in cui sei. ***
Capitolo 14: *** Dammi più coraggio. ***
Capitolo 15: *** Chi siamo e chi vorremmo essere. ***
Capitolo 16: *** Giovani per sempre. ***
Capitolo 17: *** Il resto è silenzio. ***
Capitolo 18: *** Il valore delle cose. ***
Capitolo 19: *** Che ci sei, adesso tu. ***
Capitolo 20: *** Restare a galla. ***
Capitolo 21: *** Una donna come me. ***
Capitolo 22: *** Fuori da noi. ***
Capitolo 23: *** Signor C. ***



Capitolo 1
*** Si torna a casa. ***


                                                                                                                                                                                                Torino, 25 Luglio 1945

 

È finita. Guardando gli ultimi scorci della mia città lacerata e distrutta, pensai per un attimo che era veramente finita. Ma per quelli come noi, non finisce mai. Avevo trascorso anni straordinari, liberata nelle montagne, dopo molti anni in una sorta di ascetismo indiretto (che poi asceta non lo sono mai stata), finalmente avevo preso coraggio, avevo raccolto gli ultimi stracci che mi erano rimasti ed ero riuscita a prendere la corriera di non so quale paese sperduto del nord Italia per raggiungere Torino, casa mia, e sperare che qualcuno mi riconosca. Ma ora, qui davanti alla stazione centrale di Torino, sono io che non riconosco la mia città. Case distrutte senza più nessuno sfarzo, Strade che precedentemente erano colme di auto che ora sono piene di cenere, cadaveri e macerie; ovunque si era persa quell'aria di gioia che incombeva su Torino qualche anno fa, prima della guerra, i tavolini che prima erano incorniciati da signori, ragazzi innamorati e bambini, ora sono vuoti. La guerra aveva scosso tutto, era stata come un terremoto fortissimo che si prende tutto senza permesso e non ti rida' più nulla indietro. Però il terremoto dura qualche attimo e poi ti lascia a piangere e a morire sul cadavere di una persona che sfortunatamente potrebbe essersi trovata sotto un tetto che da lì a poco sarebbe crollato oppure ti lascia da solo a guardare la tua casa dell'infanzia, la piazza dove ti sei innamorato per la prima volta, l'edicola dove hai comprato il tuo primo libro che ora non ci sono più, il terremoto è un minuto o massimo due e poi niente. La guerra però questo privilegio non te lo dà. La guerra, esattamente come il terremoto non ti da' una seconda possibilità, e anche la guerra ti lascia da solo con le tue macerie e i tuoi ultimi pezzi di una vita che ora non ti appartiene più, però purtroppo dura molto di più, la guerra non è un attimo, la guerra non è silenziosa, la guerra si prenderà tutto, anche i tuoi momenti e i tuoi segreti più intimi e lo fa lentamente. Ti prende ogni cosa, non ti lascia niente se non la disperazione, la tristezza e il dolore, la guerra non risparmia e ti rende partecipe della tua fine, ti costringe a guardare mentre ti portano via tuo marito perché si rifiuta di andare a combattere, mentre sparano tuo fratello perché ha deciso di procurarsi un giornale che non era possibile leggere, mentre torturano il tuo vicino di casa perché professava un'altra religione e mentre stuprano tua figlia, perché a loro va così, perché quel giorno non avevano niente da fare. La guerra ha fatto male e se mi sforzo riesco ancora a sentire le grida di aiuto e i pianti di tutte quelle persone che purtroppo un'altra opportunità non l'hanno avuta.

Mentre passeggio tra le strade della mia città, mi sembra di ricordare ogni cosa: l'odore del pane sfornato della signora Clara, il signor Marcello che vende i suoi giornali, la voce del signor Mario che cerca di convincermi a lasciar perdere questa storia dell'università perché dice che una ragazza come me non dovrebbe perdere tempo nello studio ma dovrebbe iniziare a pensare al matrimonio e per esempio iniziare a frequentare qualche ragazzo, come suo figlio Giovanni. La verità è che io e Giovanni eravamo molto amici, dal momento in cui i nostri padri erano amici da tanto e lavoravano insieme da più di 20 anni; ma Giovanni era diverso dagli altri uomini che ho incontrato nel corso della mia vita. Giovanni era dolce, sensibile e aveva sempre belle parole per me, ma non perché mi amasse, ma perché io ero la sua complice, perché io ero l'unica persona con cui lui riuscisse ad aprire le sue emozioni, ero l'unica persona con la quale Giovanni parlasse, e non erano parole di amore o almeno non nei miei riguardi. Io non ho mai giudicato Giovanni, quando io sono andata via, non ho avuto nemmeno la decenza di farglielo sapere, non volevo che soffrisse ancora e soprattutto non me lo avrebbe mai permesso, sebbene fosse molto aperto sotto alcuni punti di vista, Giovanni mi ripeteva in continuazione la solita frase "sei una donna Agata, stai al tuo posto e fai fare agli uomini le cose da uomini" o peggio ancora mi avrebbe detto che sarebbe stata la mia idea più sciocca, che dovevo essere pazza per fare una cosa del genere. Se ora mi dovesse vedere il signor Mario Giraudo, mi consegnerebbe ai fascisti o mi porterebbe da mio padre per sbandierare la vergogna di sua figlia.

Finalmente arrivai al convento delle suore che mi avevano impartito un'educazione, la scuola cristiana sebbene mi avesse insegnato indirettamente ad odiare la Chiesa e a smettere di credere in Dio, mi aveva insegnato anche a credere in me stessa, che le donne non sempre sono solo un sopramobile e che è possibile avere un cambio di rotta, così iniziai a studiare duramente e mio padre non so grazie a quale santo decise di iscrivermi alla scuola dei grandi, al liceo. Ma soprattutto devo ringraziare Suor Costanza che mi ha permesso di credere nelle mie capacità e mi ha ripetuto sempre che io in qualche modo valgo. Nel convento mi sentivo veramente a casa, mi piaceva la vita che si conduceva lì seppure io già a 10 anni non credessi più in un Dio che prometteva di darci amore e protezione. Dopo aver passato due anni nelle montagne, avevo bisogno dei giardini torinesi, avevo una grande voglia di passeggiare nei viali della mia città, riposare all'ombra del grande albero che ruota intorno al convento e di ascoltare il frinire delle cicale. Sento il bisogno di vita intorno a me, dopo tanti anni da sola e circondata dalla morte.

Bussai alla porta del convento nella speranza che qualcuno mi aprisse presto, nella speranza che qualcuno potesse darmi un tetto sulla testa, nella speranza di ritrovare Suor Costanza ad abbracciarmi, nella speranza che la guerra non mi avesse distrutto anche quel piccolo angolo di paradiso che sognavo nella montagna, nella speranza che qualcuno mi possa riconoscere e nella speranza che la mia casa, che il mondo sappia ancora accogliermi. La mia più grande paura è proprio quella che probabilmente Suor Costanza non ci sia più, che al suo posto possa trovare una nuova suora, forse potrebbe essere scappata durante la guerra, forse potrebbe essere morta di vecchiaia o peggio, forse potrebbe essere morta a causa di chi la guerra la stava facendo. Questo pensiero mi trafigge il cuore, e per un attimo penso a tutte le volte in cui Suor Costanza ha creduto in me o quando ero spaventata da quello che stesse accadendo per le strade, lei era il mio porto sicuro, era il mio faro splendente in una notte buia e tempestosa in mare aperto, e se lei mi diceva che tutto sarebbe finito bene, io per un momento ci credevo veramente. All'improvviso la porta si aprì bruscamente, il cigolio di quel portone in ferro non era cambiato a distanza di anni, e come pensai ad aprirmi non fu Suor Costanza ma una delle tante nuove suore giovani, anonime e silenziose, una di quelle che probabilmente è stata costretta a diventare suora o non aveva molta altra scelta.

"La posso aiutare? "la suoretta non era italiana, aveva un accento diverso, probabilmente francese, probabilmente viveva al confine. Le mie gambe iniziarono a tremare, le mie mani a sudare e potetti sentire l'ansia e la preoccupazione mangiarmi dall'interno. Io dovevo sapere se lei fosse ancora viva, io necessitavo sapere se la mia suora fosse ancora qui ad aspettare la sua bambina. Ma temevo la risposta, in cuor mio, io lo sapevo che Suor Costanza non mi avrebbe aspettata, non mi avrebbe cercata perché non sapeva come trovarmi, perché esattamente come Giovanni, io la avevo lasciata qui a marcire e a morire mentre io me ne ero andata.

"Buongiorno, cerco Suor Costanza, sono Agata Giordano, sicuramente si ricorderà di me "tentai di dirlo con una voce apparentemente normale, ma era chiaro che fossi sull'orlo di una crisi emotiva e non avrei retto oltre se non mi avesse risposto immediatamente.

"Si sì, certo Suor Costanza, la madre superiora, gliela chiamo immediatamente, nel mentre vuole appoggiare la sua borsa e vuole entrare?". Finalmente un sospiro di sollievo. Senza nemmeno rendermene conto iniziai a piangere come una bambina, un sorriso mi solcava il volto e io non ricordavo più come si sorridesse, pensavo che ormai ridere e sorridere fosse un privilegio di pochi, che io ero stata segnata dal non potere sorridere più. Avevo voglia di prendere quella suoretta francese e abbracciarla e baciarla, quasi come se fosse stata la mia salvatrice, come se in qualche modo questa ragazzina mi avesse riportata sul sentiero di casa mia.

Quando la suoretta si allontanò per chiamare Suor Costanza, quel peso che mi ero portata addosso fino a quel momento, finalmente stava pian piano andando via. Mi sentivo come se il destino avesse deciso di riportarmi sulla strada più giusta per me, e non vedevo l'ora di poter dire tutto questo alla mia suora anche se lei mi avrebbe rimproverata come sempre dicendomi che il destino o il fato non esistono, ma esiste solo il disegno divino, e pur di poter stare ancora con lei, io la avrei assecondata.

Quando riuscii a scorgere Suor Costanza dietro le colonne del chiostro, iniziai a piangere nuovamente e quando lei mi vide, inizialmente non mi riconobbe ma le bastò toccare i miei ormai corti capelli castani ma che prima mi arrivavano fino al sedere e guardare nei miei occhi color nocciola che lei aveva sempre amato, per poter capire che la sua bambina era tornata a casa. Mi diede uno di quegli abbracci che ricordi per tutta la vita, iniziò a piangere insieme a me, e non riuscimmo più a staccarci, non avremmo potuto, entrambe sentivamo la necessità di colmare quei vuoti che io avevo lasciato per due anni interi, che io per colpa della mio essere così caparbia, avevo rischiato di non poter più abbracciare Suor Costanza, una madre, un'insegnate, una colonna portante. I convenevoli durarono a lungo, ma proprio mentre ci staccammo, Suor Costanza mi piantò uno dei suoi ceffoni più duri diritto sulla guancia sinistra. Io la guardai impietrita e i il suo sguardo divenne immediatamente rigido e aveva la fronte corrugata.

"Si può sapere dove sei stata esattamente per tutto questo tempo? Sei fuggita, chissà con chi, chissà dove. Sei stata la mia costante preoccupazione e mentre i tuoi genitori ti davano per morta, io speravo che tu fossi ancora qui su questo mondo. Se ti eri innamorata e volevi scappare, potevi dirlo Agata, ti avremmo aiutata come sempre."

"Suor Costanza, mi creda, è stato molto di più di una semplice fuga romantica, magari lo fosse stato. È una storia difficile e lunga da raccontare, ho affrontato un viaggio interminabile, sto tornando da Bologna sa, però ora posso rioccuparmi della mia vita, posso sperare che finalmente tutto ritorni come prima, posso immaginare una vita nuova, lontana dai dispiaceri. E se sono qui, è per chiederle di ospitarmi per un po', ho bisogno di ritrovare la mia pace lontano dalla mia famiglia, lontano dagli occhi severi di mio padre, lontano dagli sguardi assassini di mia madre, lontano dalle battutacce di mia sorella. In più suor Costanza, penso di aver bisogno di cure mediche, di cibo e di dormire un po'".

Immediatamente Suor Costanza si irrigidì, mi diede la mano e mi fece sedere su una panca nel giardino del chiostro, mi strinse forte la mano e mi guardò negli occhi, quegli occhi che non avevo mai dimenticato, quegli occhi sicuri che però in quel momento non lo erano molto.

"Agata, la guerra è stata straziante, ogni giorno arrivava una notizia diversa, non sapevo più a chi credere. Quando finalmente è arrivata la notizia che la guerra fosse finita, pensavo che stessi sognando, pensavo che non fosse possibile, che era solo un'allucinazione, non credevo fosse possibile che terminasse mai. Ma è arrivata. E sei arrivata anche tu, che sei il dono più lucente di Dio. Torino è devastata, ma si è sempre ripresa, e lo farà anche questa volta." Tirò su con il naso, una lacrima le percorse tutta la guancia fino ad arrivare al collo, abbassò la testa, mi baciò la mano e con l'altra mi accarezzava i capelli, poi rialzò lo sguardo. "Angelo mio, io non so dove tu sia stata per tutto questo tempo, spero che tu sia stata al sicuro, sia stata lontana da tutto questo inferno, spero che tu sia andata a Napoli e che tu abbia preso un bel piroscafo per raggiungere l'America. Ma nel frattempo, qui noi ci spegnavamo ogni minuto un po' di più, chi aveva la pelle abbastanza spessa riusciva a sopravvivere, chi no moriva di fame, di freddo, di solitudine, di una malattia o peggio ancora chi non riusciva più a sopportarlo, si metteva una corda al collo e si lasciava morire". Si fece immediatamente il segno della croce, mise le mani in preghiera e inizio a parlare velocemente e sottovoce. Non mi sono mai capacitata della forza innata di quella donna, era speciale.

"E lei? "dissi io interrompendo la sua preghiera "Lei come ha fatto?"

"Io ho Lui, Bimba, io ho Dio con me"

"Suor Costanza, la ammiro sa, io non so come riesca ad affidarsi ad un Dio che ci ha dato questo, che ci ha dato la guerra e ci ha ucciso le persone accanto a noi"

Suor Costanza mi piantò l'ennesimo schiaffone sulla guancia, ma poi mi riprese le mani.

"Bimba, Dio non fa niente per caso, Dio non punisce, Lui insegna. Tutto questo non l'ha fatto Dio, l'ha fatto l'uomo. In più c'è una cosa che dovrei dirti." Poi si fermò, mi guardò e mi diede una carezza proprio dove qualche secondo prima mi aveva picchiata e riprese "Quando tu sei andata via, tua sorella Emilia, per la prima volta è venuta qui da me, all'inizio per accusarmi, perché credeva che fosse colpa mia se tu fossi scappata; ma poi è tornata, per chiedermi aiuto, per aiutare la vostra famiglia, per far sì che tu saresti tornata a casa. Ma tu non tornavi mai, io non sapevo cosa raccontare loro. Un giorno tua madre si presentò sulla mia porta in lacrime e iniziò a gridare e a piangere forte, quando disse « Leone è morto ». Tuo padre è stato vittima di una brutta malattia che pian piano se l'è portato via. "Fece una pausa. "Tua madre non ha retto. L'hanno trovata morta sulle sponde di un fiume, si era buttata nelle acque gelide di notte. Probabilmente non era più in sé".

Non piansi, non feci uscire nulla da quegli occhi, mi ero ripromessa che non avrei più pianto, che il tempo del dolore fosse finito. Se mio padre è morto, è stata la malattia ad ucciderlo, sono cose che possono capitare. E mia madre se ha deciso di togliersi la vita per un uomo, ha dimostrato quello che è, una persona che non riesce a camminare con le proprie gambe, senza essere sorretta un uomo.

"E mia sorella dove si trova?"

"Tua sorella è in Francia, si è sposata un annetto fa e ora ha una splendida bambina. Emilia è riuscita a ricostruirsi una vita e una famiglia, è stata capace di rialzarsi dalle sue macerie e ha ritrovato la forza ed il coraggio di andare avanti. E ora lo devi fare anche tu".

Mia sorella è cambiata, lo sento dalle parole di Suor Costanza. La principessa di casa, ora è diventata la regina di un'altra casa e ora lei ha la sua principessa. Mia sorella deve sapere, mia sorella deve conoscere la verità, mia sorella merita di sapere dov'è stata sua sorella per tutto questo tempo, che cosa ha fatto, con chi è stata e soprattutto perché ha preso una scelta così azzardata. Io necessito di sentire ancora il calore del corpo esile di mia sorella, io ho bisogno di sentire la sua voce e la sua risata, ho bisogno di toccare i suoi lunghi capelli e ho bisogno di sentirle dire che ora andrà tutto bene. Voglio poter andare sulla tomba dei miei genitori con lei, dargli un ultimo saluto e far vedere loro che Agata ed Emilia Giordano sono cresciute, sono due donne forti ora e sono state in grado di cambiare la propria vita.

Proprio mentre questi pensieri mi attraversavano la mente, diedi un ultimo sorriso a Suor Costanza e lei mi abbracciò per un'ultima volta, ordinò alla suoretta francese di accompagnarmi nella mia stanza e mi disse che ora ci sarebbe stata lei ad occuparsi di me. Suor Costanza lei è sempre stata qui con me. Sempre.

Appena entrai nella stanza del convento, mi sentii finalmente a casa, fin quando non vidi una ragazza alta e magra, con gli occhi verdissimi e i capelli rossi fuoco che teneva in braccio un bambino, probabilmente di due o tre anni. Gli stava cantando una canzoncina, quelle ninna nanna che ricordi anche quando sei adulto e non vedi l'ora di poter cantare ai tuoi figli. Quando lei si accorse di me, poggiò il bambino sul letto e spostò indietro i capelli che prima aveva sul viso.

"Scusa non pensavo che c'era qualcuno "Un altro accento, ancora una volta. Ma non era come quello della suoretta francese, era diverso, era più caldo. "Milena sono", disse poi.

"Ciao Milena. Sono Agata, sono un'amica di Suor Costanza, questo bimbo è tuo?"

"Si, è mio figlio"

"Scusami se te lo chiedo, ma tu non sei italiana?"

"Non sono italiana? Solo perché non ho fatto la scuola e non parlo come te vuol dire che non sono italiana? Sono siciliana, di Caltanisetta. E se quella per te non è Italia, peggiu pi tia."

Prese il bambino e andò di sotto. Per un attimo mi resi conto che io in Sicilia non c'ero mai andata e nemmeno lo sapevo com'era fatta la Sicilia, ma qualcuno diceva che era bellissima, anche se i Siciliani non avevano voglia di cambiare. Io questo ancora non lo so, ma se Milena ha lasciato la sua terra per venire nella fredda Torino, un motivo ci deve essere. Ma chi è Milena?

 

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Capitolo 2
*** Quanto vale una donna? ***


«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.»
(, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Milano, 26 gennaio 1955)
Torino, 14 giugno 1943
Tutto era iniziato nel 1940, quando venne dichiarata l’entrata in guerra dell’Italia. Ricordo perfettamente quel giorno, la gente andava nella piazza principale di Torino ad acclamare al Duce, tra cui mio padre, il padre di Giovanni, Mario Giraudo e il figlio più grande della professoressa Elena Dalmasso, la mia professoressa di latino e greco al liceo. Anche lei era convinta che Mussolini stesse facendo il necessario. Tutto nel mio ambito familiare mi stava riconducendo a lui, all’uomo che mi aveva portato via l’adolescenza, visto che avevo appena 16 anni quando scoppiò la guerra. In quel momento io ero con Giovanni e la mia amica Ginevra Pellegrino, con noi c’era anche Giorgia Giraudo, la sorella più piccola di Giovanni, ma lei non parlava mai, pensava che i nostri argomenti fossero troppo da grandi, che lei non avrebbe potuto capirli abbastanza, perché ancora pensava ad altro. Giovanni era visibilmente preoccupato, perché lui in università aveva sentito cose preoccupanti da alcuni ragazzi che volevano insorgere. Io, fino a quel momento, non sapevo nemmeno cosa fosse un’insurrezione, ma feci finta di capire perché non volevo fare brutta figura con Giovanni e Ginevra, anche se Ginevra ne sapeva meno di me, visto che lei era arrivata fino alla quinta elementare. Ginevra era la figlia più piccola di una famiglia di braccianti napoletani scappati al nord in cerca di fortuna, ma che hanno trovato soltanto la guerra e che ora lavorano in una fabbrica. Ginevra dice sempre che non le interessa se deve lavorare nel panificio della signora Clara, perché lei una possibilità ce l’ha, mentre tutti quelli che sono rimasti a Napoli non hanno speranze. Lei è forte anche se non lo sa, perché sa di essere presa di mira in quanto napoletana e perché non sa parlare bene l’italiano corretto, ma non le interessa, perché oltre a sapere che Napoli non offre niente, lei sa che Napoli è piena di gente genuina, che sa cos’è il rispetto e l’amore. Una volta mi disse “Nella tua Torino ve lo dovrebbero insegnare l’amore “e aveva ragione.
Era la mattina dell’8 giugno 1943, quando stavo per completare il mio terzo liceo classico ed iniziare l'esame finale. Per la prima volta ero veramente soddisfatta di me stessa perché io, a differenza di tante ragazze della mia età, potevo andare a scuola. Nemmeno mia madre è mai andata a scuola, perché suo padre non lo riteneva necessario, infatti mio nonno dice sempre che è essenziale che gli uomini studino e si affermino nel mondo del lavoro, mentre è necessario che noi donne impariamo il galateo, come occuparsi della casa e come cucinare. Che poi non ho mai inteso pienamente l’utilità di imparare a cucinare o imparare a pulire se in casa nostra c’è una donna che lo fa già per noi. Di fatto mia madre trascorre le giornate sulla sua sedia in vimini a guardare oltre le finestre. Sempre ben vestita, sempre truccata, sempre acconciata e sempre con le unghie placcate di rosso. Mia madre è una donna discreta, elegante e composta, lei non esce mai di casa se non in compagnia di mio padre, manda la signora Flavia, la nostra domestica, a fare le compere. Io da bambina invidiavo mia madre, però non sono mai riuscita a scorgere oltre quel suo sguardo duro, non ricordo un momento in cui si sia spesa per raccontarci una storia o un momento in cui si sia prestata nel farci una carezza, a quello ci pensava mio padre. Infatti, mio padre sebbene venisse descritto come un uomo severo e duro, ed effettivamente lo era, prestava sempre tenerezza nei nostri riguardi e diceva sempre che io e mia sorella Emilia eravamo la cosa più bella che gli fosse capitata nella vita. Mio padre era un professore universitario presso l’Università di Torino, come il padre di Giovanni. Loro due erano amici fin da ragazzini, hanno proseguito gli studi insieme e hanno deciso di intraprendere la stessa carriera, per poi sposarsi e decidere di andare a vivere nella stessa città e comprare una casa uno accanto all’altro, per questo motivo io e Giovanni siamo legati fin dalla tenera età. Ed è proprio Giovanni che sono andata a cercare non appena terminate le mie lezioni, perché Giovanni era l’unico che riuscissi a capire e lui era l’unico che riuscisse a capire me. Quando Giovanni mi guarda negli occhi, immediatamente tutto appare più limpido. Io nascondevo un suo segreto, un segreto che nessuno avrebbe potuto sapere, né tantomeno suo padre che sicuramente lo avrebbe picchiato fino ad ucciderlo. Questo poter mantenere un suo segreto, mi faceva sentire importante, perché voleva significare che io per lui conto. Giovanni era convinto, come tutti, che il fascismo fosse necessario in quel periodo, ma io credo che non lo pensasse perché credeva che fosse veramente così, io credo che Giovanni dicesse tutte quelle cose positive sul fascismo, solo perché gli è stato insegnato così, perché sebbene all’università si sia ritrovato ad ascoltare altre voci, era estremamente attaccato alle parole di suo padre, di mio padre, del suo professore, e di chiunque abbia avuto voce in capitolo in quel periodo.
Finalmente quando lo trovai seduto ad un tavolino di un bar vicino l’università, provai ad avvicinarmi a lui e alla sua cerchia di amici, con i quali io non avevo mai avuto nulla a che fare. All’improvviso ricordai le parole di mio padre “non avvicinarti mai ad un bar da sola, potrebbe essere sconveniente”, e anche Giovanni me lo diceva continuamente, anche lui credeva che non fosse il caso che mi avvicinassi senza di lui ad un bar, specialmente quando ci sono degli uomini, perché mio padre e Giovanni dicevano che gli uomini hanno degli istinti che non possono fermare, è normale. È normale, dicevano. Io non lo so cosa fosse normale sinceramente, ma io non ci vedevo nulla di male che una ragazza si avvicinasse a parlare con dei ragazzi al bar, con Giovanni non c’erano problemi, con gli altri si. Allora decisi che ci sarei andata lo stesso al bar a chiamare Giovanni, perchè io non sto facendo niente di male, pensai. Attraversai la strada che divideva il marciapiede dal bar e mi avvicinai a Giovanni, io non dissi niente, fin quando tutti rimasero in silenzio e Giovanni mi guardò esterrefatto, si alzò in piedi di scatto, mi prese con forza da un braccio e mi portò lontano da lì, strattonandomi.
“Ma si può sapere che problemi hai Agata?”
Inizialmente pensai che stesse scherzando, che non stesse dicendo veramente a me, e gli sorrisi e feci per abbracciarlo ma lui mi prese dalle braccia e mi tenne stretta.
“Agata, non lo ripeto più, dimmi che cosa ci fai qui e come ti è venuto in mente di fare una cosa simile.”
“Ma fare cosa scusa?”
“Non fare la stupida, sei molto meglio di così. Intanto, come ti sei permessa di venire qui senza il mio permesso? E poi tu lo sai che io ho una vita oltre a te, si?”, poi lasciò la presa e si strofinò la mano sugli occhi e con l’altra teneva gli occhiali appannati, mi guardò per un attimo, si rimise gli occhiali e riprese con una voce più tranquilla “Mi dispiace Agata, ma io non posso farci niente. Io lo dico per te, vuoi che ti prendano per una prostituta? O peggio, vuoi che pensino che io vada con le prostitute?”.
Prostitute. Ho sempre riflettuto su questa parola, ma non mi sono mai soffermata per capirne il pieno significato, però Emilia mi diceva sempre che era una brutta cosa, e che se a qualcuno piaceva stare con le prostitute non gli piaceva veramente, era solo per passare il tempo, perché nessuno se le sposava le prostitute.
Mi sentii immediatamente tradita da Giovanni, perché sebbene io non sapessi che cosa significasse questa parola, Emilia diceva che era una cosa terribile e io mi fidavo ciecamente di Emilia. Me ne andai senza permettergli di continuare ad insultarmi e lui non fece nulla per farmi restare.
Avevo bisogno di Ginevra, lo sapevo. Ginevra era sincera, lei non aveva mai studiato tutte quelle cose che avevo studiato io, ma lei sapeva più di me sul mondo reale. Entrai nel panificio della signora Clara, e lei era lì che metteva in ordine le ultime cose prima della pausa pranzo. Ginevra odiava quando io entravo nel negozio senza il suo permesso, non voleva che “la padrona”, come la chiamava lei, e tutte le sue colleghe potessero pensare che era ancora una ragazzina in cerca dell’amichetta e io allora la aspettavo fuori. Però facevo in modo che mi vedesse, per farle capire che io ero lì. Quando lei mi vide, venne da me direttamente, mi offrì un pezzo di pane e chiuse il negozio.
“Ginevra ti posso chiedere una cosa?”
“Dimmi Agatù”
“Cos’è una prostituta?”
Ginevra mi guardò un attimo negli occhi, poi scoppiò a ridere e ci poggiammo alla staccionata di ferro vicino la caserma.
“Agatù tu un mezzo futuro lo tieni, mi spieghi pecchè lo vuoi sapere?”
“Perché oggi ho litigato con Giovanni. Mi ha detto che sarei sembrata una prostituta se mi fossi avvicinata al bar da sola.”
“Ehh Agatù cosa vuoi che ti dico, un pochino tiene ragione, tu vai sola sola ad un bar mmiézzo a ommen, è normale Agatù.”
“Si va bene. Ammesso che io stia sbagliando nel pensare che non ci sia niente di male, perché prostituta?”
“Perché‘e zoccol questo fanno, stanno con tanti uomini, e si fanno pagare, tu si accusì?”
“No, non sono così”
“ E allora Agatù”
Nonostante la spiegazione un po’ precaria di Ginevra ma sicuramente migliore di quella di mia sorella, io ancora non riuscivo a vedere una connessione tra l’essere una prostituta e andare in un bar senza un uomo. Ora che sapevo il reale significato di questa parola, non avrei più potuto chiederlo a Suor Costanza perché sarebbe svenuta nel sentirmi chiedere una cosa del genere, ma sapevo anche che non era corretto il modo in cui mi aveva trattata Giovanni, e sapevo che avrei dovuto spiegarlo a mia sorella, per vitare che un giorno faccia una figuraccia tipo la mia. Io ammiravo questo modo di fare di Ginevra, un po’ ero gelosa di lei. Una volta, lei mi disse che in realtà il suo nome vero è Filomena, però visto che non le piaceva più, ha deciso che ormai è una torinese e quindi la devono chiamare tutti Ginevra, e anche la sua famiglia è d’accordo. Mi piacerebbe tanto avere una famiglia come la sua, dove non importa chi sei o cosa fai, ma l’affetto non mancherà mai.
“Ma lo sai che Gennaro, mi disse che stanno partendo delle squadre di non so cosa per liberarci”
“Squadre di cosa?”
“Ehh Agatù questo non o sacc, però so che vogliono accir’ a Mussolini, io ci credo.”
“Ma Gennaro che ne sa?”
“Penso che gliel’hanno detto al Partito, mo non te lo so dire sicuro però.”
Si fermò un attimo, si tocco la coda e volse lo sguardo verso la caserma, poi si avvicinò a me.
“Io se Gennaro parte, parto”
“Ma sei pazza Gì, ma che dici”
E pecchè Agatù? Dove sta il problema? Gennaro, i miei fratelli e la mia famiglia lo odiano a quello. Se Gennaro parte, io parto”
“Ginevra non dire sciocchezze. Nemmeno a me il fascismo piace, ma di certo non vado da nessuna parte, per uccidere nessuno”
“Ci vuoi venire al Partito?”
“Me ne devo andare Gi”
Ginevra mi prese da un braccio, mi tirò verso di lei, mi abbracciò forte e mi sorrise.
“Agatù, vienici con me, non lo ascoltare tuo padre, fai quello che vuoi. Ti prego, Agatù”
“No Gi, io non tradisco nessuno, io a differenza tua , ho tutto quello che voglio, perché mio padre si ammazza di lavoro per rendermi felice e io non gli provocherò un dolore simile”
“Pecchè i miei genitori non lavorano Agatù?”e se ne andò.
Già, i suoi genitori non lavorano? Per un attimo pensai a quanto doveva essere difficile la vita per Ginevra, mi resi conto di quanto io potessi essere stata egoista, di come non abbia fatto caso al suo dolore, che mentre io mi pensavo di prendermi cura della piccola emigrata ignorante, era lei che si prendeva cura di me, era lei che mi faceva da scudo contro le ingiustizie del mondo. Io le avevo sputato in faccia le mie lamentele da bambina viziata, senza curarmi di come lei potesse stare, di come lei avrebbe potuto attraversare questo periodo così difficile. Mi rendo conto di come Ginevra sia coraggiosa, però lei non si rende conto che io non sono coraggiosa quanto lei per poter accettare quello che mi ha chiesto. L’unica cosa che io e Ginevra abbiamo veramente in comune è l’odio per il fascismo e l’odio per chi dirige questa baracca, solo che io sono solo brava a teorizzare, lei invece è capace di entrare nella fabbrica del fratello e scioperare con loro, rischiando anche le percosse della polizia. Lei dice perché fondamentalmente non ha niente da perdere. Per una volta, anche io voglio avere nulla perdere.
Proprio nel momento in cui pensai che in una giornata avevo perso entrambi i miei due migliori amici, perché con una ero stata troppo dura e con l’altro troppo morbido, vedo Giovanni avvicinarsi verso di me, con la testa abbassata, le mani nelle tasche dei pantaloni e i capelli ricci che venivano mossi dal vento. Io ho sempre pensato che Giovanni fosse il ragazzo più bello del mondo, e quando suo padre mi diceva che fosse il caso di iniziare a pensare al nostro matrimonio, io guardavo lui e lui mi guardava ridendo, e allora io ridevo, ma io non ci trovavo nulla da ridere, perché io Giovanni Giraudo lo avrei sposato davvero. Si mise accanto a me, poggio la schiena contro la staccionata, prese dalla tasca della giacca una sigaretta, la mise in bocca e l’accese. Iniziò a gustarsi la sua solita sigaretta, mentre aveva messo un braccio intorno al mio collo, come soleva fare. Mentre inalava il fumo, io lo guardavo insospettita, dato che non riuscivo a capire questo suo cambio di atteggiamento. Giovanni è sempre stato imperscrutabile, doveva essere lui a raccontare i suoi problemi altrimenti non ci sarebbe mai arrivato nessuno. Io e Giovanni eravamo così, nel nostro silenzio riuscivamo a fare le conversazioni più belle, quelle in cui scoprivamo di più uno dell’altro.
“Mi dispiace Agata, non volevo che finisse in quel modo.”
“Giovanni, io mi auguro che tu ti renda conto di quello che mi hai fatto. Mi sono sentita ferita, stracciata, illusa, attaccata. Da te poi.”
Giovanni mi guardò con i suoi grandi occhi, buttò la sigaretta ormai finita tirando un sospiro, e semplicemente mi abbracciò, in un modo così forte che per un attimo mi mancò il respiro, mentre lui poggiava il mento sulla mia testa, e ripeteva in continuazione “scusa”.
In quel momento riconobbi il mio amico, il mio amico di sempre, quello che veniva al mare con me a Genova tutte le estati, quello con cui inventavamo storie bellissime, quello con cui dividevo ogni pomeriggio la mia merenda, anche se io stavo morendo di fame, quello che mi aiutava a capire il greco e ad amare la filosofia, quello che mi scriveva le lettere quando andava in Francia ad imparare il francese. Era lui il mio migliore amico. All’improvviso, pensai alle parole dure di Ginevra, “Perché i miei non lavorano?”, quelle parole che mi rimasero impresse nella mente, e per un momento pensai che forse i genitori e i fratelli di Ginevra, lavoravano più dei nostri. E allora lì compresi cosa era più giusto fare.
“Giovanni.”
“Dimmi Agata”
“Io voglio fare il Partito.”

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Capitolo 3
*** A tu per tu con la vita. ***


 

Torino, 27 luglio 1945

Cammino inquieta per le strade della mia città, sforzandomi di ricordare almeno un po’la struttura di Torino prima della guerra. La guerra ha segnato per sempre la città, come tutto il mio Paese, e inevitabilmente ha segnato anche me, come tutti i miei connazionali. Se ripenso ai momenti prima della guerra, ho immagini limpide, chiare e felici. Ho le carezze di mio padre, gli abbracci di Giovanni, ho le corse con Ginevra, ho le lezioni con la professoressa Dalmasso, ho la risata di Emilia e i piatti caldi di Suor Costanza. Ho momenti indimenticabili, ho ricordi che ogni persona che ha condotto un’esistenza allegra ha. Però se ripenso ai momenti durante la guerra, ho immagini buie, feroci e malinconiche. Ho le orecchie che mi fanno male per via dei bombardamenti, ho le grida dei miei compagni, ho le ginocchia sbucciate quando si cade in montagna, ho l’odore della polvere da sparo che si annida nel mio naso e ho le lacrime di tutte quelle persone che invece di essere al freddo in una montagna, avrebbero preferito essere in compagnia dei propri cari, magari accanto ad un camino. Invece, adesso, tento di immaginare i momenti che potrebbero far parte della mia memoria fra qualche anno, dopo la guerra. Ma non riesco ad immaginare nulla, la guerra non mi ha dato l’opportunità di ricostruirmi una memoria, non riesco più a fidarmi del mio futuro, perché generalmente dopo aver passato attimi terribili, le persone credono che non possa succedere qualcosa di peggio, ma io questa fortuna non la ho. Io penso che quello che è successo sia stato il peggio, ma ci ha dimostrato che le tragedie accadono all’improvviso, ed è dall’alba dei tempi che i popoli sono in perenne contrasto tra loro, quindi il che implica, che come è potuto accadere per noi adesso, e come è capitato ai nostri predecessori, accadrà ancora, e ancora, e ancora.

Ma l’unica cosa che mi consola in qualche modo, è che non sono rimasta ferma a guardare, che potrò raccontare a chi verrà dopo di me che io ho provato a dare un contributo alla causa. E nonostante io sia una persona che non si è mai data fiducia, per una volta posso dire di essere stata coraggiosa, perché la paura e il dolore ti portano su strade che non avevi mai immaginato di poter percorrere, ma capisci che a volte servono solo le scarpe giuste.

Guardare Torino ora e provare a ricordare com’è stata prima, fa male. In ogni angolo di questa città ricordo un momento splendido, ed è per questo che aspetterò che si ricomponga mattone per mattone. Perché le cose belle, anche se distrutte, rimangono belle per tutta la vita, e Torino è una di queste.

La cosa che più mi tocca in questo momento è provare a ricomporre ogni pezzo della mia vita precedente, anche se c’è chi dice che chi ha visto la morte negli occhi non potrà più vivere pienamente. Se non riuscirò più a recuperare quella che ero prima, tenterò di ricominciare da quella che è partita nel ’43, quella che per un attimo ha abbandonato le vesti da ragazzina ed ha indossato le vesti di una donna. Ricomincerò da quella ragazza di 19 anni che voleva soltanto intraprendere la strada universitaria e continuare dove suo padre le avrebbe lasciato posto. Mio padre. Ancora ricordo le sue ultime parole prima che andassi via; furono “Agata Giordano sei la vergogna di questa famiglia”. La famiglia. A me ora cosa resta di quella famiglia che avevo tanto tradito? Assolutamente nulla, ma se è andata in questo modo probabilmente un motivo ci deve essere, per me adesso è complicato anche provare a pormi delle domande, perché non riuscirei più a trovare delle risposte esatte, delle risposte che combacino con quello che io sto cercando. Se mio padre fosse ancora vivo non mi avrebbe mai fatta ritornare a casa, anzi mi avrebbe sputata addosso non appena mi avrebbe vista, di conseguenza non mi avrebbe più pagato gli studi universitari e non sarei mai riuscita a conseguire la laurea o se comunque fossi riuscita a trovare un modo per lavorare e studiare, mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote, perché mio padre può essere la persona più amorevole dell’intero universo, ma non appena viene toccato il suo osso, diventa un cane rabbioso. Mia madre, come allora, non avrebbe fatto niente per difendermi, e tantomeno non avrebbe detto nulla per farmi sentire una brutta persona, perché questo è quello che sapeva fare mia madre: stare zitta. Mia sorella, invece, davanti a mio padre sarebbe stata d’accordo con lui, perché anche lei aveva bisogno di quel posto all’università e quando Emilia vuole qualcosa, riesce ad essere una persona manipolabile e fragile, sebbene in cuor suo sa che sta commettendo un errore, però in privato mi avrebbe abbracciata e mi avrebbe detto che tutto sarebbe andato per il verso giusto, mi avrebbe detto che i Giordano non falliscono mai.

Ma io una Giordano ormai non credo di esserlo più, non mi resta niente di quel cognome anonimo che mi è stato attaccato involontariamente al momento della mia nascita. Ho perso il nome della mia famiglia, nel momento in cui ho perso la mia famiglia, però un cognome non si può cambiare, quindi da ora non sarò più Agata Giordano, ma sarò semplicemente Agata. Farò esattamente come ha fatto Ginevra, quando da un giorno all’altro ha deciso che Filomena le stava stretto, quando ha detto che ci sono posti e posti per i nomi e Filomena non era più adatto per Torino, le serviva un nome signorile. E allora scelse Ginevra, perché diceva che era la sua città preferita, che lei prima o poi si sarebbe sposata con un bell’uomo ricco di Torino e sarebbe andata a vivere in Svizzera, a Ginevra per la precisione, perché così oltre ad avere un nome signorile avrebbe avuto un cognome degno di un signore torinese. A me Ginevra manca ogni momento di più, mi manca la sua pelle scura, unica nel suo genere. Mi mancano i suoi occhioni grandi e neri, mi manca la sua bocca piccola e perennemente aperta, perché Ginevra non smetteva un attimo di parlare. Mi manca il suo modo di chiamarmi “Agatù”, mi manca il suo dialetto che non è mai riuscita ad eliminare completamente e allora l’ho imparato anche io, così per lei non era un imbarazzo. Mi mancano i suoi progetti di vita, mi mancano i suoi sogni e le sue parabole sul Partito del fratello e mi manca passare il tempo con lei sulla staccionata in ferro, di fronte la caserma. Ginevra era innamorata persa di Giovanni, diceva che uno così a Napoli non c’era, che emanava bellezza da ogni angolo del suo corpo. La verità è che inconsapevolmente, tutte eravamo innamorate di Giovanni, perché era la rappresentazione di tutto quello che un uomo doveva essere. L’ultima volta che ho visto Ginevra è stata quando sono salita su quel treno per Bologna con Rocco Rinaldi, un ragazzo che faceva il Partito a Torino, pensavamo che il sogno di riuscire a cambiare le cose lo avremmo coronato insieme ma in realtà lei è stata spedita ad Aosta, e mi pare che sia partita qualche giorno dopo di me. Non ci siamo scambiate nemmeno una lettera da quel giorno, ma io Ginevra Pellegrino non l’ho dimenticata. Oggi, mi piacerebbe ritrovare quell’amica che mi ha accompagnata durante la mia adolescenza ed indirettamente ha contribuito nel farmi diventare una donna. Non voglio pensare neanche per un attimo che Ginevra sia morta, lei ha la corazza dura, nessuno sarebbe riuscito a farle del male.

Come Ginevra, mi piacerebbe riuscire a rincontrare Giovanni e nonostante io possa immaginare che non mi avrebbe mai perdonata per averlo lasciato da solo, io so che alla fine, dopo aver fumato qualche sigaretta, mi avrebbe abbracciata. Perché Giovanni non era severo, non riusciva ad esserlo, sebbene fosse irascibile, era anche capace di riconoscere i suoi sbagli e i suoi difetti, ed era questa la cosa che più mi piaceva di lui. Io amavo Giovanni, non potevo fare a meno della sua presenza, era una costante per me. Ma anche la sua assenza mi ha insegnato a crescere, mi ha fatto capire che io non dipendo da un uomo, che se ho bisogno di qualcosa, sono capace di procurarmelo da sola. E la consapevolezza di questo è stato il regalo più grande che lui indirettamente è riuscito a donarmi. Io non so che fine abbia fatto il mio Giovanni, sicuramente si sarà laureato perché lui era il migliore in questo, probabilmente il padre lo avrà costretto a sposare la figlia di qualche grande banchiere di Torino o comunque con qualcuno dell’alta borghesia torinese, perché il padre non avrebbe mai accettato altro. Suo padre, un po’ come il mio, sperava che un giorno io e lui saremmo riusciti ad unirci nel matrimonio, ma nessuno dei due si era preoccupato di chiederci cos’era che avremmo voluto noi due, due anime costrette a vivere la vita che i nostri genitori avevano scelto per noi, fin dal giorno della nostra nascita. Probabilmente adesso Giovanni farà un lavoro degno del suo nome, avrà una splendida famiglia, ma tutte queste sono solo mie ipotesi, perché la vita ha dimostrato essere imprevedibile, ma quello che so con certezza e sicurezza è che Giovanni non è felice. Io custodirò il suo segreto fino alla tomba, perché questo segreto è come se ancora fossimo uniti da qualcosa, come se il filo che unisce le nostre vite ancora non si sia spezzato.

Un’altra persona che ho necessità di vedere è mia sorella Emilia, perché sono sicura che seppure l’ultima volta sia stata lei a sbattermi la porta di casa in faccia, ancora mi stia cercando. Altrimenti, non sarebbe mai andata da Suor Costanza per chiederle di me, a convincerla nell’iniziare a cercarmi. Emilia odiava Suor Costanza, diceva che voleva sostituirsi al ruolo di nostra madre, ma Emilia non ha mai saputo che per me lei era mia madre, la madre che fondamentalmente non ho mai avuto. Emilia si è avvicinata ad una persona che odiava pur di riuscire a ritrovarmi, pur di riuscire a scoprire che fine terribile potesse aver fatto quella disgraziata di sua sorella. La cosa che più riusciva a rasserenarmi è che io sapevo dove fosse Emilia, io sapevo che era in Francia e anche se la Francia è enorme, è già un inizio mentre di Ginevra e Giovanni io non sapevo nulla, non sapevo neanche se fossero morti oppure no.

Proprio mentre i miei pensieri mi assalivano, mi si avvicinò cautamente Suor Costanza poggiandomi una mano sulla spalla e sorridendomi.

“Agata, cosa ti preoccupa?”

“Lei crede che riuscirò a trovare Emilia, Giovanna e Ginevra?”

Suor Costanza si sedette con fatica di fianco a me su quella panca in pietra nel giardino del convento. Era evidente che Suor Costanza stesse invecchiando, si notava dal modo in cui camminava, dai segni del tempo che erano sempre più visibili sul suo viso e dal suo essere spesso molto stanca, ma nonostante la vecchiaia che si avvicinava, Suor Costanza era sempre forte e sorridente, e io spero di poter essere come lei non appena diventerò vecchia.

“Piccolina, il mondo è cambiato. Non è semplice trovare delle persone di cui ora come ora si sa poco, ma le innovazioni serviranno a qualcosa no? Servono ad accorciare le distanze, se ti sforzi, riuscirai a trovare tutti Agata”.

“Ma da dove dovrei iniziare Suor Costanza? Come ha detto anche lei, io non so nulla di nessuno dei tre da ormai due anni, non so dove o con chi vivono e soprattutto non so nemmeno se siano morti, feriti o vivi”.

Una lacrima mi scese improvvisamente, ho cercato di accantonare il pensiero della morte per un attimo, ma non ci sono riuscita, perché io spero che loro siano ancora vivi, ma dopo aver avuto uno stretto contatto con la morte, la si può immaginare in ogni sfaccettatura e la si teme molto di più, perché diventa reale e non più qualcosa di astratto. Suor Costanza mi pulì la guancia e mi sorrise.

“Si è vero, tu non sai niente di loro, ma sai che Emilia è viva, è in Francia e soprattutto è felice. Tesoro, Emilia ha speso ogni giorno per un anno intero cercandoti. Veniva da me ogni mattina e ogni sera nella speranza di trovarti o sperando che io sapessi qualcosa di più, ma io non sapevo nulla ed era terribile doverle dire ogni volta di no e vederla andar via sbattendo la porta “mi prese la mano e proseguì “Emilia ha continuato a cercarti, mentre i tuoi genitori pensavano fossi morta, mentre la guerra diventava sempre più dura, lei non ha sprecato un solo giorno”.

“E poi? Perché ha smesso?”

“Perché era senza forze, nessuno credeva più in lei, stava combattendo una guerra da sola contro i mulini a vento. Allora, ha dedicato la sua vita nell’occuparsi di tuo padre morente e far sì che tua madre non facesse sciocchezze, veniva qui in cappella a pregare ogni giorno, ma poi ha incontrato un uomo e non appena tua madre si è spenta, lei si è sposata, ha avuto una bimba e poi è andata via. “

Non riesco a credere che Emilia veramente abbia fatto così tanto per me. Anche se mi voleva bene, non aveva mai fatto carte false per me e soprattutto non aveva mai palesato il suo affetto con grandi gesti. Però in mia assenza si era occupata della nostra famiglia e sperava che io sarei tornata da un momento all’altro, ma sono certa che se fosse riuscita a riportarmi a casa non mi avrebbe mai dato la soddisfazione di farmi sapere che lei si era spesa così tanto per una cosa del genere.

“Io devo trovare mia sorella, magari lei poi riuscirà a ricondurmi a Giovanni”.

“Agata, fai quello che ritieni più giusto, io non so da dove potresti partire però”.

“Lei per caso sa come si chiamava suo marito? Magari sa chi li ha uniti nel sacro vincolo del matrimonio?”.

“Su questo possiamo lavorarci, ma adesso devi anche poter pensare a te stessa Agata. Sei tornata dopo così tanto, non ti sei riposata un attimo da quel momento e non mi hai raccontato cosa hai fatto a Bologna”.

“Suor Costanza, le prometto che le racconterò tutto, ma adesso fa troppo male provare a parlarle di quello che mi è successo, è ancora troppo presto per me. Per quanto riguarda me stessa, le prometto anche che ritornerò ad essere la Agata felice che ha conosciuto ma ho bisogno di ritrovare le persone più care per me prima”

“Agata, ci riuscirai. Sei una donna adesso, sei forte, puoi tutto se lo vuoi” Mi accarezzò e i capelli e mentre provava ad alzarsi mi diede un baciò sulla fronte “Ricordati chi sei Agata”.

Ricordati chi sei. E chi sono io? Non lo so più chi sono io, cos’ero e cosa sarò, ma non è questo il momento adatto per preoccuparsi della propria identità, per fare quello che ho fatto durante questo tempo ho dovuto rinunciare anche alla mia identità reale, ed è stato un po’ come scrollarsi tutte quelle responsabilità e quei pesi che appartenevano ad Agata e provare ad essere solo libera. Mentre il tramonto diventava sempre più arancio e la notte stava per scendere su Torino, presi le scale che mi conducevano alla stanza che dividevo con Milena.

Io e Milena non ci siamo scambiate una parola dal momento in cui io la ho accusata di non essere italiana e l’ho giudicata involontariamente. Ma io di questa ragazza con la quale condividevo le mie notti insonni, io per i pensieri e lei per le urla di suo figlio capriccioso, conoscevo pochissimo se non nulla. Sapevo che aveva più o meno la mia età, sapevo che era siciliana e che aveva un bambino. Spesso cantava una canzoncina in siciliano, come una ninna nanna, prima partiva sottovoce ma senza neanche accorgersene diventava sempre più forte, e io mi incantavo nel sentirla cantare, e penso che lei lo sapesse che a me piaceva perché non la cambiava mai.

Ed ora, poggiata sul davanzale della finestra con i suoi capelli rossi raccolti in una treccia, indossando solo una vestaglia bianca era assorta nei suoi problemi.

“Ciao Milena”.

Sobbalzò non appena mi sentì parlare, non si accorse nemmeno del mio arrivo, senza nemmeno muoversi dalla posizione in cui era alzò una mano e mi fece un mezzo sorriso.

“E Salvatore? Dov’è?”

“Sta con le suore” scese dalla finestra, si sedette sul letto e mi invitò a sedermi accanto a lei, e io feci quanto ordinato. “Mi devi dire qualcosa?”

Milena era sfacciata, non aveva paura del giudizio degli altri, non le interessava se qualcuno le diceva qualcosa di non gradito, lei poteva sputarti veleno in quel momento ma poi il giorno dopo avrebbe fatto come se non fosse successo niente, come se un litigio non ci fosse mai stato.

“No. Ti devo dire qualcosa?”

Chi ni pensi ri “scusa Mile””

“Scusa Mile”

mo possiamo fari i amiche

Iniziò a ridere e mi cinse la vita con le braccia per abbracciarmi e io poggiai la testa sulla sua abbracciandola.

Semu femmine sule Agatina”poi si staccò “chi facisti pi tuttu chistu tempu? Suor Costanza mi ha detto che si sparita

“Ho dato una svolta alla mia vita Mile, ho fatto tante cose ma ho anche rischiato la vita”.

“Pure io ho rischiato la vita. Se mi dici che hai fatto, ti dicu chi fici iu

La guardai per un attimo, poi rivolsi lo sguardo verso lo scorcio di quella Torino distrutta che si poteva vedere dalla finestra del convento, poi abbassai la testa e me la misi tra le mani, poi tirai un sospiro.

“Sono stata tra le montagne Mile. Mi sono aggregata ad una brigata e sono partita con loro per liberare l’Italia dal nemico. Mi sono interessata di politica, i miei compagni mi spiegavano quali fossero i problemi degli operai in quel periodo e mi raccontavano cosa stesse succedendo in Unione Sovietica e perché lì si stesse bene e qui no. Sono cresciuta tanto e ho conosciuto il dolore, sarei potuta rimanere qui con i miei amici, la mia famiglia e con Suor Costanza, avrei evitato dispiaceri a tutti ma sapevo che non era giusto, che qualcuno doveva farlo. Sono stata una partigiana Milè. E non me ne pento neanche un momento”.

Milena mi guardò a lungo, come se cercasse di elaborare nel suo cervello tutto quello che le avevo detto finora, come se provasse ad immaginarmi con un fucile in mano, fin quando non mi sorrise.

“sempri megghiu i mia”e si alzò come se per lei la conversazione fosse finita lì, come se non avesse più niente da dire, prese un lavoro di cucito che aveva interrotto, si sedette sull’altro letto e continuò come se niente fosse.

“E tu? Tu che hai fatto?”

Fece finta di non sentirmi, continuò a torturarsi le dita con quell’uncinetto, e allora andai di fronte a lei e le alzai la testa, ma lei la abbassò di nuovo, poi le toccai una mano, ma lei alzò bruscamente la testa e gettò via quel lavoro e mi guardò male.

“Milena cos’hai? Ti ho chiesto soltanto che hai fatto tutto questo tempo esattamente come hai fatto tu con me”

fici a zoccola”Mi guardò duramente immobile mentre una lacrime le rigava il viso. Io provai ad abbracciarla, ma lei mi scansò poi si alzò in piedi, e camminava avanti e indietro con le mani sui fianchi e poi si fermò.

Nun mi serve chi ti dispiaci, l’ho voluto fare “

Milena era un prostituta. Ma lei lo era veramente, lo faceva per vivere, non era un appellativo che le avevano dato perché era una ragazza che parlava al bar con altri ragazzi. Questo era il suo lavoro.

“E poi?”

“ E poi sono venuta qua”Tirò su con il naso “Suor Costanza mi aiutò. Staiu cercando travagghiu. Ma unu vìeru.

“Ma perché hai deciso di prostituirti?”

picchì a Sicilia nun ti aiuta. E quinni ti devi aiutari tu.

Riprovai ad abbracciarla, ma questa volta si lasciò abbracciare e iniziò a piangere interrottamente, perfino con i singhiozzi e io la lasciai fare, perché so cosa vuol dire accumulare dolore e sofferenza da troppo tempo per poi esplodere come un vulcano. Milena ha bisogno di affetto ed amicizia, e fin tanto che lei si lascerà aiutare, io sarò qui per lei. Agata ricomincerà da qui.

Tegnu nu figghiu

“Milena io non ti giudico, non mi permetterei mai. Ora ci sono io per te.”

“E iu aiuto a tia”

Le sorrisi e finalmente anche lei riuscì a sorridermi, non pensavo che quella donna acida potesse mai starmi simpatica, ma un’altra cosa che la guerra ti insegna è che le persone sono imprevedibili e che non si smette mai di conoscerle e io lo sapevo bene.

“Però mi devi fare un favore Agatina”.

“Dimmi”.

Imparami l'italianu”.

Certo Milè, te lo insegno l’italiano.

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Capitolo 4
*** Bruchi e farfalle. ***


                                 
 
Torino, 23 luglio 1943
Mi capitava di pensare molto spesso a quello che stesse accadendo intorno a me in questi giorni così duri, mentre gli abitanti di Torino conducevano una vita apparentemente normale, il 9 luglio quelli che venivano definiti gli “Alleati”entrarono in Sicilia, e pian piano riuscirono ad occupare diverse città del Sud e cercavano di salire verso Nord per ripetere le medesime azioni. Proprio ieri la settima Armata ovvero gli statunitensi, riuscirono a superare le deboli difese italiane e presero la città di Palermo,e ora si stavano dirigendo verso Messina. Nel frattempo, Mussolini stava perdendo consensi, e proprio domani si terrà un consiglio per discutere di questa cosa. Mentre io dovevo nascondere una gioia e una serenità non indifferente, mio padre era amareggiato come molti altri Italiani, non riusciva più a stare tranquillo, non dormiva neanche il necessario e mangiava poco. Era ovviamente preoccupato per il destino incerto che avrebbe accolto l’Italia da lì a qualche giorno. Anche il Signor Mario stava vivendo giorni inquieti, li vedevo discutere davanti un caffè almeno una volta al giorno, erano entrambi irrequieti e la motivazione del loro turbamento doveva essere lo stesso. Inoltre, mio padre aveva ripreso ad alzare il gomito, colmava i buchi allo stomaco con il gin, passava molto tempo nei luoghi del dopolavoro, spesso tardava a casa o non tornava nemmeno, passando la notte fuori, chissà dove, e quando tornava era ubriaco. Ormai stava diventando un’ abitudine e io ed Emilia conoscevamo la storia a memoria. Tornava tardi, sempre dopo l’ora di cena, la signora Flavia lo invitava a sedersi per consumare il suo piatto ormai freddo, ma lui andava direttamente nella stanza accanto doveva conservava la sua scorta di alcolici, ne beveva generosi sorsi, poi tornava in cucina, e ci invitava ad andare a dormire e lui prendeva la mamma per portarla nella loro stanza. Ma quello che io ed Emilia sentivamo durante la notte, erano soltanto urla, pianti e rumori duri contro le pareti. Io e lei non ne avevamo mai parlato, ma entrambe sapevamo cosa stesse succedendo, cosa stesse subendo nostra madre, ma non avevamo il coraggio di affrontare nostro padre poiché temevamo la stessa lezione o non avevamo la forza di parlarne con nostra madre, perché lei non parlava, lei non ci calcolava nemmeno. Era diventata un fantasma che si muoveva tra le stanze della casa alla ricerca di qualcosa, ma neanche lei sapeva cosa stesse cercando. Durante il giorno, veniva a prenderci la Signora Margherita, la mamma di Giovanni e ci portava a casa sua. Ma la maggior parte del tempo, io lo passavo in compagnia di Suor Costanza al convento, la aiutavo nelle faccende e passavamo molto tempo insieme. Invece, quando suor Costanza aveva degli impegni io, Emilia, Giovanni e Giorgia ci stendevamo nel giardino di casa Giraudo e parlavamo di qualunque cosa, dei sogni futuri, del tempo che passa, degli amori, dei libri. Il giardino di casa Giraudo e il convento erano diventati il mio posto nel mondo, quei luoghi in cui ti senti viva e te stessa almeno per poche ore. Ma poi arrivava il momento di tornare a casa, la mia prigione e il mio luogo del dispiacere. Io ed Emilia avevamo preso il vizio di andare a dormire non appena sentivamo la porta principale aprirsi, perché sapevamo chi si nascondesse dietro quella porta : nostro padre. Nostro padre, ormai un padre che non riconoscevamo più, un padre che aveva dimenticato come fosse essere un padre. Erano finiti i tempi delle carezze, degli abbracci e delle parole confortanti, ma erano iniziati i momenti delle notti terribili, delle grida di nostra madre e dell’odore alcolico di papà. Una notte, la situazione divenne davvero tragica; Emilia scese le scale per prendere un bicchiere di acqua, fin quando non vide nostra madre rotolare giù per le scale, con del sangue in volto, graffi sulle braccia e lividi su ogni angolo del corpo. Per un momento Emilia pensò che fosse morta, ma poi la vide iniziare ad ansimare e a piangere e vide nostro padre che la tirava da un braccio per riportarla su. Tutto davanti gli occhi di una ragazza di 20 anni. Tutto davanti a sua figlia. Emilia iniziò a piangere e a gridare, così Flavia la prese e tentò di spostarla da quella scena terribile, ma era come se Emilia fosse immobilizzata e attaccata al pavimento. Io, ero sulle scale a guardare tutta la scena e l’unica cosa che riuscii a fare era ascoltare Flavia che mi diceva di preparare le borse per qualche giorno per noi due. E così feci. Mentre preparavo le borse, non riuscivo a togliermi dalla mente mia madre stesa a terra come un cadavere, mio padre che come una bestia tentava di tirarla su e gli occhi di Emilia terrorizzati. E che nonostante noi fossimo le vittime, stavamo scappando come due ladre, come due colpevoli che cercano un luogo sicuro per non essere scoperte. Diedi tutto quello che serviva ad Emilia, e la signora Flavia ci portò fuori di casa, per accompagnarci a casa della signora Giraudo. Ad aprirci fu proprio la signora Margherita. Flavia e Margherita si guardarono come due complici.
“Di nuovo?”la signora Margherita non era preoccupata e tantomeno scioccata nel vedere le sue vicine di casa in piena notte sull’uscio di casa sua. Probabilmente lei sapeva già tutto. Forse la signora Flavia la aveva avvisata quando la situazione era diventata assidua.
“Non so più cosa fare”Flavia tentò di parlare a bassa voce, ma era evidente che volesse urlare, forse non ci riusciva più da tempo.
La signora Margherita ci prese le borse e chiamò Giovanni che probabilmente stava dormendo, perché quando arrivò sulla porta non aveva gli occhiali e i capelli erano tutti arruffati. Erano belli anche così. Giovanni mi guardò per un momento fisso negli occhi, poi mi abbracciò e con l’altro braccio prese anche Emilia, poi sospirò e ci accompagnò nella stanza di Giorgia.
 Passammo diverse notti in casa Giraudo, la signora Margherita era sempre attenta a noi, era disponibile, gentile ed era veramente innamorata del signor Mario, che a volte non faceva nemmeno caso a noi, che probabilmente non era neanche d’accordo nel farci stare lì, perché troppo amico di mio padre.
Le giornate estive trascorrevano velocemente in compagnia dei fratelli Giraudo e ogni tanto di mia sorella, perché lei aveva una specie di fidanzato ma i nostri genitori non lo sapevano, perché lei diceva che la avrebbero costretta a sposarsi. A lei piaceva, ma non così tanto da passarci tutta la vita insieme. Emilia mi diceva sempre che lo aveva conosciuto per caso in biblioteca mentre stava leggendo il “Canzoniere” di Petrarca quando lui le abbassò il libro e le disse che era veramente splendida e che però non riusciva a vederla se teneva il libro davanti il viso, da quel momento iniziarono a vedersi più spesso. Emilia mi raccontò che fu lei a baciarlo per prima, anche se non si doveva fare, però lui non riusciva a prendere l’iniziativa. Emilia era veramente felice da quando stava insieme a questo ragazzo, che però io non avevo mai visto ma riuscivo ad immaginarlo dai racconti di mia sorella.  Ma nonostante per un attimo, riuscii a dimenticare la situazione tragica che inondava casa mia e vivevo spensierata in compagnia delle persone alle quali tenevo di più, non potevo smettere di pensare a Ginevra.
Dopo l’ultima discussione avvenuta un mese prima io e lei non avevamo più parlato. Io andavo spesso davanti la panetteria, ma lei non mi guardava nemmeno. Un giorno riuscii a fermarla e le chiesi perché non mi parlasse più, lei mi guardò male e continuò a camminare e io cercai di chiamarla ripetutamente, fin quando non corsi dietro di lei e la presi per un braccio, ma lei si girò di scatto infastidita e mi disse che dovevo smetterla di starle dietro perché non mi riconosceva più, e che non aveva senso essere amica di una persona che non si conosce. La verità è che lei era ancora arrabbiata perché le avevo detto quelle cose l’ultima volta, ma non sa che mi sono pentita, che avevo ripensato a tutto quello che mi aveva detto e che finalmente mi ero decisa nel seguirla, ovunque lei decidesse di andare, io sarei stata accanto a lei, perché per me lei era sullo stesso piano di Emilia. Lei non era un’amica come lo erano le mie compagne di scuola, lei era mia sorella. Ma questa sorella adesso mi stava rinnegando, e aveva ragione.
Invece, Giovanni non la prese bene quando gli dissi che avevo scelto di frequentare il Partito, che poi lui mi spiegò che era il partito comunista, e i comunisti erano il male. Giovanni mi diceva sempre che i comunisti non avevano voglia di fare niente, parlavano e basta. Andavano contro quelli che erano la nostra gente. Inoltre, mi disse che non poteva coprirmi se avessi scelto di fare una cosa del genere, perché sarebbe stato irrispettoso nei confronti di mio padre. Allora decisi che non ci sarei andata a quelle riunioni del Partito, ma solo perché non volevo che Giovanni si preoccupasse inutilmente, o peggio ancora iniziasse a pedinarmi e a controllarmi più di quanto già facesse. Ma la verità è che riuscii a scoprire dove fosse il luogo in cui si riunivano i comunisti, alla vecchia sede di un sindacato. Bastò seguire Gennaro, il fratello di Ginevra, per poterlo scoprire perché lui dopo il lavoro andava sempre lì. Infatti, il mio intuito non mi ingannò, e lì trovai diversi uomini seduti che ascoltavano un ragazzo barbuto parlare su un vecchio barile. Tra quelle teste prettamente maschili, riuscii a scorgere una lunga treccia e un vestito nero, ero sicura fosse lei, e ancora una volta mi resi conto della forza innata di questa ragazza. L’unica farfalla in un gruppo di bruchi. Questo era Ginevra lì. Era l’unica donna presente a quella riunione, ma a lei non interessava, perché Ginevra è così. Perché Ginevra non si è mai curata troppo di essere diversa, non le è mai importato veramente. E ancora una volta, mi aveva dimostrato quanto fosse capace di andare contro l’ordinario. Se l’avesse vista un uomo della mia vita lì, la avrebbe presa per una svergognata, ma Ginevra lo sapeva chi erano le svergognate e lei sapeva anche che se fosse dovuta diventare una svergognata per fare una cosa giusta, sarebbe stato giusto così.
Oggi sento terribilmente la mancanza di Ginevra, ora ad ascoltare queste notizie che il Sud sta per essere completamente libero, avrei voluto lei affianco a me. Lei sicuramente mi avrebbe stretto la mano, mi avrebbe sorriso e mi avrebbe detto “Hai visto Agatù?”.
Ginevra non piaceva a nessuno della mia famiglia, mio padre diceva che non era abbastanza per me, diceva che c’erano brave ragazze della nostra stessa classe sociale con le quali sarei andata d’accordo comunque. Ma la verità è che io le odiavo quelle ragazze, facevo con loro brevi conversazioni di circostanza alle feste, ma niente di più, invece con Ginevra parlavamo di tutto, io le insegnavo qualcosa sulla scuola, sul galateo e sulle feste, e lei mi insegnava come tirare fuori gli artigli se fosse necessario, come affrontare il mondo. Emilia invece diceva che era ridicola, che era sempre sporca e che era una ladra, perché le avevano detto che i napoletani erano così, erano tutti gli stessi per lei. Ma io sapevo che non fosse vero. Sapevo dai racconti di Ginevra che i napoletani erano brave persone, che non tutti potevano vivere in maniera agiata e che esistevano molti problemi, ma questo non faceva di loro brutta gente. Anche Giovanni credeva a queste dicerie, ma diceva che Ginevra era diversa perché stava a contatto con noi. Giovanni era d’accordo con me, me lo ripeteva spesso anche se davanti agli altri non lo avrebbe mai ammesso. Ma la verità è che su questo avevo sviluppato una forte imitazione di Ginevra, a me non interessava cosa pensavano gli altri di lei, a me piaceva indipendentemente da dove provenisse. Perché Ginevra era speciale, Ginevra era il mio alter ego, eravamo come in simbiosi e insieme riuscivamo a completarci.
Torino, 26 luglio 1943
È successo. La sfiducia a Mussolini è stata data. Nonostante le pessime reazioni di tutti, io ero veramente felice, per una volta dopo tanto ero di nuovo fiduciosa nel mio Paese. Giovanni era rintanato in casa da quando è uscita la notizia, non voleva parlare con nessuno, tantomeno con me perché lui sapeva quale sarebbe stata la mia reazione. Allora io andai da lui, sperando di poter trovare di nuovo un volto amico. Bussai alla porta della sua camera da letto, quella camera che per anni è stata per noi il nostro posto magico. Lui aprì la porta e fece per chiuderla ma io riuscii a bloccarla e ad entrare comunque mentre lui ormai consapevole che non mi avrebbe fermata andò a poggiarsi sul letto, io mi misi accanto a lui e tentati di prendergli la mano, ma la ritrasse immediatamente.
“Giovanni, mi spieghi cosa c’è che non va?”
“C’è che abbiamo finito. C’è che nessuno più spera in lui. E ora? Ora cosa succederà?”
“Succederà che la guerra finirà presto. Succederà qualcosa di splendido, ritorneremo ad essere felici Giova”.
“Agata io ero felice. Io sono sempre stato felice.”
“No Giova. Tu non eri felice, tu vivevi in balia di quello che poteva succedere da un momento all’altro. Tu come me non eri più tranquillo neanche di camminare per le strade, di andare in università, di uscire tranquillamente. Non lo eri, fingevi di esserlo per far star tranquillo tuo padre, ma non lo eri. Io lo so. Io ti conosco.”
“No. Tu non mi conosci.”e si alzò sbattendo un pugno sulla scrivania sotto la finestra “Tu che cosa ne sai Agata? Tu di me sai solo quello che ti fa comodo sapere. Non ti interessa davvero conoscermi, non lo vuoi, perché altrimenti ora mi capiresti.”
“Giova, io so moltissimo di te. So cosa ti rende felice e cosa ti rende triste. So riconoscere i tuoi momenti più bui e i tuoi momenti più allegri. So che cosa ti piace e cosa non ti piace. So cosa starai per dire ancora prima che tu apra la bocca. Io so tutto, so anche ogni tuo pensiero più intimo. Ma non perché io sia una maga o cose del genere, ma perché me lo hai detto tu, anche quando non dici niente.”
Giovanni mi guardò per qualche istante, poi guardò oltre la finestra, prese la sedia della scrivania e la mise di fronte a me, sedendosi.
“Agata, tu vivi in un mondo che non è reale. Non puoi aspettarti che la vita vera sia come quella che leggi nei libri, la vita è un’altra, e anche se tu dici di conoscermi in realtà non è così. Perché tu guardi tutto con un filtro soggettivo, speri che le persone siano diverse da come te le immagini, e allora inizi a crearti un personaggio di ognuno di noi. Ma non è così.”poi si fermò, mi prese una mano e ricominciò “La guerra non è finita. La guerra è soltanto iniziata. Ma tu speri che non sia vero, speri che tutto ritorni a quando eri una bambina, ma non puoi andare avanti così. Smettila di vivere nei tuoi sogni. Apri gli occhi Agata.”
Rimasi ad osservarlo per qualche momento. Non era vero. Io sapevo che non era così, io guardavo tutto in modo fin troppo oggettivo, non vivevo di sogni, ma vivevo di speranze. La speranza che un giorno potessi tornare ad essere felice, ma non è una cosa che sarebbe potuta accadere in maniera immediata, lo sapevo. Ma lui sapeva anche distruggermi quelle speranze che mi creavo, perché la vita gli aveva insegnato a vedere tutto in modo troppo cinico, ma Giovanni è stato cambiato dai fatti, perché in realtà ha paura.
“Sposami Giovanni. Sposami e andiamo via di qua.”
“No.”mi lasciò le mani, e andò indietro con la schiena togliendosi gli occhiali.
“Perché no?”
“Perché io non ti amo. E questo lo sai benissimo anche tu.”
“E allora? Non è necessario l’amore per sposarsi adesso. Andiamo via, andiamo in America e viviamo la vita che abbiamo sempre desiderato.”
“Agata ho detto di no.”
Rimasi in silenzio per un po’, poi andai via e uscii di casa. Mi diressi verso la sede del vecchio sindacato e trovai un posto per sedermi. Era colmo di persone. Persone che speravano un cambiamento e che in qualche modo lo avrebbero ottenuto.
“Io non ci sto più.”era un ragazzo giovane che parlava, lo stesso che vidi quella volta quando stavo spiando Ginevra. “Compagni, questo non è un traguardo. Questa non è la fine. Siamo solo a metà dell’opera, ma non possiamo restare fermi a guardare mentre ci portano via anche l’ultima speranza di libertà. Si, di libertà. Perché adesso è di questo che si parla. Non possiamo fermarci proprio ora, se ci uniamo e lottiamo porteremo i risultati a casa, ma se continuiamo a farci sfruttare e a sopperire alle volontà di un regime che di patriottico non ha nulla, allora non otterremo nulla. Lo dobbiamo stravolgere questo sistema, compagni!”
Tutti iniziarono ad urlare a e ad acclamarlo, ma lui non si sentiva speciale per quello che aveva detto, non si sentiva un leader, ma sorrideva perché vedeva nei volti di questi uomini una voglia di cambiare, una voglia di liberarsi. Tra tutti quegli uomini vidi ancora una volta dei lunghi capelli scuri, ancora una volta vidi Ginevra. Lei non aveva mai smesso di andare lì, lei non aveva avuto paura, ma aveva combattuto lo stesso, anche senza di me. Mi sentii una stupida, in quel momento compresi che era giusto che anche io avrei dovuto  fare qualcosa per loro. Improvvisamente Ginevra si alzò in piedi e prese il posto del ragazzo che parlava.
“Io non sono di qua. Sono del sud. Io la conosco la miseria, e quando sono venuta qua speravo che fosse finita. Invece no. Perché mi dissero che se sei povero, povero lo resti per tutta la vita.”
Le brillavano gli occhi, anche se ancora a stento, Ginevra aveva imparato qualche parola nuova in italiano, nonostante il suo accento ancora molto marcato. Ancora una volta il suo coraggio si era palesato, ancora una volta Ginevra aveva dimostrato di essere forte.
“Io non ci credo a quelle parole. Io ci spero che le cose possono cambiare, ci dobbiamo ribellare, io voglio gridare se necessario”
Nonostante il suo discorso incitante, gli uomini bisbigliavano fra di loro, ridevano di lei, parlavano sottovoce.
“Io penso che se ci uniamo, possiamo fare una rivoluzione. Ma di quelle vere, non ci dobbiamo far calpestare, ma dobbiamo alzare la testa e farci sentire.”
All’improvviso un uomo si alzò in piedi. “Senti, io apprezzo che vuoi cambiare e tutte quelle cose. Ma sei comunque una donna, ma che vuoi fare?”e tutti iniziarono a ridere ed applaudire quell’uomo. Ma Ginevra non si fermò.
“Io voglio cambiare anche questo. Io tengo più coraggio di voi, io non mi fermo. Io sono donna è vero. Ma sono pure una sfruttata, sono pure un’operaia, sono pure una che torna a casa e non lo sa se mangerà, sono pure una che si è rotta le palle di questi fascisti.”poi si fermò, guardò suo fratello Gennaro e poi quell’uomo che la aveva attaccata. “Io sono pronta a morire se serve. E voi?”
“Io si”mi alzai in piedi dall’ultima fila, non so cosa mi spinse a pronunciare quelle due parole, ma so che mi venne immediatamente da sorridere e anche Ginevra, dopo tanto tempo mi sorrideva. Mia sorella era tornata a sorridermi. Perché ancora una volta il nostro nemico ci aveva fatte ricongiungere. Tutti gli occhi si puntarono su di me, ma per una volta non provavo imbarazzo o vergogna, ero solo felice che Ginevra mi aveva perdonata, ero felice che per una volta stessi facendo quello che era giusto. Ginevra mi venne incontro e mi abbracciò, mi mancavano i suoi abbracci. Mi tenne stretta fin quando il ragazzo con la barbetta che stava conducendo la riunione non la dichiarò terminata.
“Hai visto che mi sono imparata la tua lingua Agatù.”
“ Gi, è anche la tua. Lo è sempre stata.”
“Vieni che ti faccio conoscere a Rocco.”
Rocco Rinaldi era il ragazzo con la barbetta che aveva organizzato tutto. Era giovane, aveva solo 25 anni, ma era già sicuro di quello che volesse fare. Rocco a differenza di molti altri ragazzi che conoscevo, sapeva cosa fosse la povertà, infatti suo padre lavorava in una fabbrica a Torino, ma poi venne ammazzato durante uno sciopero. Allora Rocco, essendo l’unico uomo di casa doveva prendere le redini della situazione e iniziò a badare a sua madre, alle sorelle e a portare i soldi a casa. Rocco divenne adulto senza neanche accorgersene, ed è proprio lui che aveva trovato Gennaro, il fratello di Ginevra, per fargli capire cosa fosse più giusto fare e decise di far arrivare questo messaggio anche ad altri ragazzi che erano costretti a lavorare duramente pur essendo sfruttati. Ed era Rocco, che grazie ad altri contatti con alcune città italiane stava organizzando questo progetto di liberazione, e così era riuscito a coinvolgere qualcuno che la pensava esattamente come lui.
“Rocco, questa è Agata, un’ amica mia, pure lei vuole fare quello che vogliamo fare noi.”
Rocco mi sorrise immediatamente e mi diede la mano. Mi scrutò bene a lungo.
“Ma sei sicura?”
“Si che è sicura.”Ginevra non mi diede neanche il tempo di parlare, forse perché era eccitata che io finalmente avessi preso una decisione o forse temeva che pensandoci avrei potuto cambiare idea.
“Va bene se è sicura. Spero solo che non sia esaltata come te Gi.”
“No no, sono molto più tranquilla.”Finalmente riuscii a proferire parola, anche se lo sguardo di Rocco continuava ad essere poco sicuro, forse mi giudicava dal mio abbigliamento o dal mio modo di essere, sebbene non mi conoscesse per niente, forse sospettava che non avrei retto, che avrei spifferato tutto o che forse sarei morta prima ancora di iniziare. Ed è lecito che lo pensi, d’altronde non ho fatto altro che lamentarmi da quando conosco Ginevra. A differenza sua non ho mai preso una reale decisione prima di allora, e questo mi spaventava perché neanche io sapevo a cosa stessi andando incontro.
“Non va bene essere nemmeno troppo tranquilli, sai.”Dopo di che, Rocco venne chiamato da Gennaro e se ne andò. Allora Ginevra mi abbracciò di nuovo e ci sedemmo sulle sedie ormai vuote.
“Ma come mai hai cambiato idea Agatù?”
“Mi sono fatta un esame di coscienza. Ho capito che bisognava agire, che in qualche modo centravo anche io, ed era il caso che anche io mi alzassi le maniche.”
Ginevra sorrise, stava aspettando quelle parole dal primo momento in cui mi vide.
“E tuo padre?”
“Non mi interessa più.”
“E Giovanni?”
“Non mi interessa neanche di lui. Non siamo mica sposati.”
“Brava Agatù. Ma tanto glielo devi dire prima o poi, almeno quando partiamo.”
“Partiamo?”
“Eh si Agatù. Certo che partiamo.”
“E dove andiamo?”
“Ancora questo non lo so. Ma Rocco dice che è l’unico modo”
“Va bene. Poi allora glielo dirò.”
“Me lo devi promettere Agatù. Promettimi che non te ne vai più.”
“No Gi. Non ti lascio più.”

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Capitolo 5
*** Verrò da te. ***





Torino, 15 agosto 1945
Ora è ufficialmente finita. Io e Suor Costanza stavamo discutendo su cosa preparare per cena, quando Milena arrivò correndo verso di noi con Salvatore in braccio.
“è finita, è finita.”
“Ma che è finita Milè?”Io, quanto Suor Costanza, non riuscivo a capire bene cosa volesse intendere Milena con quel “è finita”. Avevamo la mente occupata da altri pensieri, ma improvvisamente ritornai lucida e iniziai a piangere come una bambina.
“La guerra è finita.”Non potevo crederci, era veramente finito tutto.
“Ma va, dai ragazze, la guerra è finita già da tempo. Siete voi che ancora non avete metabolizzato il tutto.”.
“No, Suor Costanza sta volta è finita tutta.”
“Suor Costanza ha ragione Milena. In seguito agli attacchi degli Alleati sulle due centrali giapponesi, quest’ultimi hanno dichiarato la resa.”
Suor Costanza mi sorrise e mi abbracciò forte, mi accarezzò i capelli ma io non riuscivo a smettere di piangere, era troppo bello per poter essere vero, ormai non pensavo fosse più possibile. Milena si unì al nostro abbraccio, e per farmi tranquillizzare mi ripeteva nell’orecchio “è finita”. Ormai le volevo bene come una sorella e quel bambino era una gioia per il convento, era la luce in fondo al tunnel. Sebbene a volte mi venisse da pensare che io mi ero affezionata alla figura di Milena solo perché in qualche modo mi ricordasse Ginevra, immediatamente quei pensieri sparivano. Erano entrambe due donne forti e coraggiose, chi per un motivo e chi per un altro, ma erano diverse, nella loro somiglianza c’era qualcosa che le rendeva ben distinte l’una dall’altra. Entrambe sono scappate da un sud che non ha potuto offrir loro nulla, ma sono arrivate in una terra che non gli appartiene con la speranza di poter cambiare, e forse adesso ci riusciranno.
Se adesso avessi potuto vedere Ginevra, lei sarebbe venuta da me soltanto per venirmi a dire che aveva sempre avuto ragione lei, che tutto quello che abbiamo fatto ha avuto un senso. E io, ancora una volta le avrei dato ragione. Io credo che Ginevra avrebbe adorato Milena, inizialmente la avrebbe criticata per il suo mestiere, ma poi si sarebbe affezionata a lei, perché sapeva voler bene alle persone indistintamente da loro essere, era nella natura di Ginevra.
Milena ed io, in una ventina di giorni siamo riuscite ad instaurare un rapporto di complicità. Lei mi raccontava sempre qualcosa della sua Sicilia ed era evidente che le mancasse, ma sapeva anche che se fosse ritornata indietro, avrebbe dovuto rinunciare alla libertà che ora le appartiene. Io, come promesso, avevo iniziato ad insegnarle qualcosa di italiano. Non è stato difficile, perché nonostante Milena non abbia mai frequentato la scuola e sia analfabeta, in qualche modo aveva una forza di volontà non indifferente. In 10 giorni era capace di fare quello che io avevo imparato in 6 mesi di scuola. Chiaramente non è necessario che conosca la storia antica, la letteratura, il latino o il greco, l’importante per lei è che parli come me. Io apprezzo che Milena mi veda come un modello da imitare, ma vorrei che riuscisse a vedere oltre la me che mostro a tutti, vorrei che Milena si rendesse conto che non sono poi così tanto speciale come sembro, che ci sono ragazze della mia età che in questo momento stanno facendo molto di più di quello che sto facendo io adesso. Ora, probabilmente, le mie compagne di classe al liceo staranno studiando per diventare professoresse, maestre, infermiere, mentre io sono già indietro di due anni. E non è scritto da nessuna parte che io possa ricominciare da zero o riappropriarmi del mio passato. Sto vivendo in bilico tra due sfere : ricominciare da zero o ripartire da dove ho lasciato.
Spesso sono tentata dal voler ricominciare da zero, vale a dire cambiare nome, cambiare città, cambiare amici e cambiare aspettative. Riuscire ad abbandonare le vesti di Agata, per poter essere la donna che realmente mi piacerebbe essere. Ma questo significherebbe rinunciare a Giovanni, rinunciare ad Emilia e rinunciare a Ginevra. E io non lo so se sono pronta a ricostruirmi una nuova vita senza di loro, senza le persone che mi hanno resa quella che sono.
Altrimenti potrei ripartire da dove la Agata Giordano di 19 anni ha lasciato le redini, da quel 14 settembre 1943 quando presi la scelta di voler rivoluzionare tutta la mia esistenza. Sicuramente è la scelta con il cammino più tortuoso, quella più complicata, quella con meno certezze, quella con più dolori. Ma sicuramente quella con più consapevolezza.
Torino, 24 Ottobre 1945
Ormai erano passati 3 mesi dal mio ritorno a Torino e l’ordine sembrava ristabilirsi con calma. L’amicizia tra me e Milena stava crescendo sempre di più, Milena stava riuscendo ad imparare l’italiano con grande facilità. Per lei è come se avesse un talento innato per le lingue, infatti sta iniziando ad imparare da autodidatta il francese, ogni tanto chiedendo revisione dei suoi scritti a me o a Suor Costanza che il francese lo parlavamo abbastanza bene, e seppure con qualche errore di forma, Milena sta iniziando a capire la struttura della lingua. Adesso, si era messa in testa che dove imparare l’inglese e nonostante io dell’inglese sapessi poco e niente, decisi che la avrei aiutata, solo per renderla felice. Ovviamente le lezioni di inglese proseguirono con scarsi risultati viste le mie poche capacità nella lingua e allora non so come, Milena riuscii a trovare un gruppo di ragazzi che si riunivano due volte a settimana per imparare l’inglese. Io non volevo frenare la sua eccitazione, ma era chiaro che in qualche modo dovessimo pagare il corso e il lavoro scarseggiava. Infatti io e Milena non eravamo riuscite a trovarne uno, neanche io che avevo il diploma. Era difficile essere donne, ma era ancora più difficile essere donne in un periodo come quello, mentre il 18 ottobre venivano processati i criminali nazisti a Norimberga, il 21 ottobre in Francia, le donne potevano votare. Invece noi eravamo ancora qui, alla ricerca disperata di un lavoro qualunque. Ancora sottomesse, ancora costrette a vivere a misura di uomo.
E allora fu proprio in quel momento mentre mi preparavo per uscire con Milena per andare a questo corso di inglese che arrivò nella nostra stanza spalancando la porta, con un sorriso a 32 denti spiaccicato sul volto.
“Indovina Agatina.”
“Che devo indovinare?”
“Lo trovai.”
“Che cosa?”
“Un lavoro.”
“Non ci credo, sono così felice per te.” La abbracciai immediatamente, Milena era riuscita a raggiungere il suo obiettivo. Quando ha iniziato il suo viaggio per raggiungere Torino, lei voleva soltanto arrivare qui, mettersi a lavorare, garantire un futuro a suo figlio e vivere felice. Pian piano Milena stava riuscendo a costruirsi una nuova vita, ad essere felice dopo tanto tempo, e proprio in quel momento compresi che dovevo abbandonare la speranza di poter rivedere mia sorella ed i miei amici, che per una volta dovevo far in modo che fossi felice io. Vedere quella luce che era scoccata negli occhi di Milena mi aveva fatto riacquistare la speranza nell’avvenire, nel cambiamento, in me stessa.
“E dove lo hai trovato?”
“Ad una fabbrica per cucire. Che io quello so fare.”
Milena aveva trovato lavoro in un’ industria tessile e forse era arrivato il momento che anche io iniziassi a trovare qualche posto di lavoro in qualche fabbrica, che non era il momento di iniziare a sperare nell’università o vantarmi che io avessi un titolo di studio, adesso dovevo solo rimboccarmi le maniche e accontentarmi di quello che la vita era capace di offrirmi.
“Sono felicissima Milè. Adesso anche io inizio a cercare qualcosa da fare, così non disturbo più Suor Costanza e inizio a guadagnare qualcosa.”
“Certo Agatì. Ce la feci io che vengo dal nulla, pensa tu che puoi fare. Si ma mo ti devi sbrigare che dobbiamo andare al corso.”
“Si si, sono pronta sto arrivando. Comincia a scendere che arrivo.”
Mentre mi guardavo allo specchio, non mi riconoscevo più. Ero diversa, ero una donna adesso. Tutto questo mi risuonava nella mente come una dolce melodia, come la musica della mia speranza che si stava per riaccendere, solo al pensiero che potessi avere un’altra opportunità era per me una specie di sogno che pensavo non potesse realizzarsi mai. Perché con il tempo si impara che la vita è così : imprevedibile, sciocca, meravigliosa e bastarda al punto giusto. La vita è come un palco dove ognuno di noi ha un ruolo però a differenza delle opere teatrali non abbiamo un copione e sta a noi scegliere se essere i protagonisti o delle mere comparse. Essendo stata una comparsa per troppo tempo ora scelgo di essere la protagonista della mia vita. Perché nessuno può capire e può provare le stesse sensazioni che provo io, perché nessuno è in grado di essere me quanto me stessa.
I miei pensieri vennero interrotti dalla voce di Milena che mi chiamava dalla fine delle scale e invitandomi a muovermi, presi la borsa e scesi le scale. Lì c’erano Suor Costanza con Salvatore in braccio e Milena in uno splendido vestito rosa e un cappellino dello stesso colore. Era bellissima. Nonostante lei giurasse di provenire dalla Magna Grecia, Milena aveva qualcosa che non apparteneva alla calura siciliana. Aveva la carnagione chiara, gli occhi verdissimi e i capelli rossi. Una bellezza singolare ed inusuale anche per una ragazza del Settentrione. Erano tutte felicissime di vedermi, perché era la prima volta che uscivo dal convento per un interesse o per un impegno, visto che le mie fughe dal convento erano rilegate ai miei monologhi interiori e alle mie passeggiate curative. Il sorriso nel volto di Suor Costanza è il regalo più bello che lei potesse farmi, posso quasi comprendere il suo dolore in questi anni. In questi anni in cui la sua bambina allegra era scomparsa nel nulla per altro in periodo bellico. Posso immaginare i suoi pensieri, le sue notti insonni, la sua apprensione. Ma ora non la avrei più lasciata, mi sono ripromessa una volta arrivata che non sarei più andata via, che non sarei più scappata da nessuna parte.
Milena mi prese per una mano e mi portò fuori di casa. Per arrivare al luogo prestabilito per il corso, dovevamo attraversare molti angoli di Torino che mi sembrava di aver dimenticato. Mentre conversavo del più e del meno con Milena, mi sentii un forte peso sul petto, quasi come se non riuscissi più a respirare, non riuscivo a capacitarmi di questa improvvisa angoscia. Quando ad un tratto alzai gli occhi da un punto qualunque e la vidi. Casa mia. Improvvisamente quel peso divenne sempre più pesante, le ginocchia iniziarono a cedere, i muscoli della faccia erano come impietriti e dei forti lacrimoni presero a scendermi dagli occhi. Non riuscivo a tornare indietro verso il convento ma non riuscivo neanche a proseguire per la strada, era come se fossi immobilizzata sulla strada, come se niente potesse spostarmi da lì.
Milena che era più avanti, si girò notando la mia assenza e mi chiamò più volte ma rendendosi conto che fossi sul punto di cedere venne di corsa verso di me, riuscendo a prendermi.
“Agatina ma che c’hai?”
“Que… quel..quella è..”
“Quella?”
“Quella è… quella era…casa…mia.”e alzai l’indice in direzione della casetta. Le luci all’interno erano accese e sperai con tutto il mio cuore che l’ombra che si muoveva avanti ed indietro per quello che doveva essere il soggiorno fosse Emilia. Le lacrime ripresero a scendere e questa volta accompagnate da un tremore e dai singhiozzi. Quella casa che stava diventando imprecisa tra le immagini dei miei ricordi, ora stava riaffiorando limpida, la mia casa non si era mia spostata di un centimetro, ma io non ho pensato neanche per un momento di tornarci. Non so quale forza mi prese in quel momento, ma trovai il coraggio di aprire il cancelletto che divideva la strada dal piccolo uscio di casa, di entrare e bussare alla porta. Milena mi aspettava dall’altra parte della strada, vicino gli alberi.
La grande porta in legno di quercia lentamente si stava per aprire, le mie mani iniziarono a tremare, sapevo che c’era Emilia dietro questa porta, ne ero sicura. Credo che fosse successo tutto in una manciata di secondi, ma per me dal momento in cui bussai al momento in cui la persona che era dietro la porta di ingresso si palesasse , sarà passata un’eternità. Quando ero pronta a mostrarmi sicura e irriverente nei confronti di mia sorella, ecco apparire un uomo. Un uomo sulla 40, con grandi occhi chiari, capelli nerissimi e con un completo blu.
“La posso aiutare?”Accento francese, come sospettavo, il marito di Emilia.
“Emh, in realtà si. Starei cercando Emilia Giordano.”
Lui mi guardò a lungo dalla testa ai piedi, forse aveva capito chi fossi, forse aveva notato una certa somiglianza fra sua moglie e questa donna che si trovava davanti inconsapevole che fosse sua cognata. Per un momento, la speranza di ritrovare Emilia era diventata realtà, avevo finalmente raggiunto il mio fine più grande : mia sorella.
“Posso sapere perché?”
“Perché è mia sorella. Sono stata via per molto tempo, e sono appena tornata, mi piacerebbe poterla vedere.”
Prima che l’uomo potesse parlare, una donna bionda con i capelli arricciati, si avvicinò e poggiò una mano sulla sua spalla. Nuovamente le mie speranze cessarono, capii che era stato inutile, che ora altre persone abitavano la mia casa, e che Emilia era sempre più lontana.
“C’è qualche problema?”La signora bionda parlò e io avrei voluto soltanto che non si fosse mai avvicinata.
“No no, la signorina sarebbe l’altra padrona di questa casa, stava cercando la signorina Emilia, ma a quanto pare non sa che non vive più qui da ormai un anno.”
“Voi conoscete Emilia?”
“Certo, lei è la padrona, è la nostra affittuaria, ancora non abbiamo acquistato la casa.”
“Per caso vi ha lasciato un indirizzo o un recapito telefonico?”
“Si, abbiamo un numero, ma non so se sia ancora utilizzabile.”
“Posso chiedervi di darmi il numero?”
“Non mi sembra il caso, per quanto ne sappiamo lei potrebbe essere chiunque.”La signora riprese a parlare “Chi ci assicura che li sia sicuramente sua sorella?”
“Io.”Milena parlò dalla strada “Sto nel convento dove passarono tutta la loro infanzia ed adolescenza le due sorelle, state sicuri che questa ragazza è buona e vera, vuole soltanto ritrovare sua sorella.”
“Va bene. Un attimo che lo cerco e glielo scrivo su un pezzetto di carta.”L’uomo si convinse e si rintanò con la moglie all’interno della casa, chiudendo la porta. Io e Milena restammo sull’uscio per una decina di minuti senza parlare fin quando l’uomo non uscì porgendomi un pezzo di carta.
“Buona fortuna.”e richiuse la porta.
Lo avevo. Possedevo il numero di mia sorella. Finalmente sapevo cosa fare.
“Ma non ci andiamo al corso?”
“Si Milè, andiamo dai.”
Durante il tragitto che restava, io e Milena non proferimmo una parola, quello che era appena successo era come una scena alquanto surreale, una scena che non pensavo potesse accadere, una scena che pensavo quasi di aver sognato.
Quando arrivai all’interno di quella stanza buia, c’era un sacco di gente. Donne, uomini, ragazzi, bambini, anziani. Tutti lì per la stessa ragione, riuscire ad imparare qualcosa di nuovo. La donna che insegnava era una donna proprio come noi, ed era italiana proprio come noi, però conosceva bene l’inglese perché lei era originaria di una famiglia emigrata in Canada e poi per amore è ritornata in Italia. Chissà se ogni tanto rimpiange di aver abbandonato il suo posto magico per ritornare qui. Per un uomo.
Durante tutta la lezione Milena era attentissima, precisa e faceva domande in continuazione. Io, invece, ero immersa nelle mie preoccupazioni e nei pensieri, la mia paura costante era cosa avrei detto ad Emilia non appena avrei avuto l’opportunità di parlare al telefono con lei, che cosa avrei potuto raccontarle, che giustificazione avrei potuto darle. Avrebbe iniziato una ramanzina interminabile, avrebbe detto che era una cosa ovvia che avrei combinato casini, che me lo aveva detto di non fare sciocchezze. O peggio, se non mi avesse più voluta vedere? A cosa sarebbe servito tutto questo struggimento?
Milena mi toccò una coscia come per svegliarmi da un sogno e chiamandomi ad alta voce, per avvisarmi che la lezione era terminata ed io non avevo ascoltato una parola. Quando mi alzai per recuperare la mia giacca, mi sentii toccare una spalla e quando mi voltai non potetti credere alla mia vista : Rocco Rinaldi.
“Agata.”
“Rocco.”
Lasciai la giacca a terra e lo abbracciai con tutta la forza che avevo in corpo.
“Come stai?”
“Come sto io? Tu come stai? Ma io pensavo che ti avessero preso, io pensavo che fossi morto, Lila era distrutta.”
“No no, sono stato torturato, questo è vero. Ma poi ce l’ho fatta. Agata, sono scappato. Tu ce l’hai fatta, guardati come sei raggiante.”
“Rocco sono distrutta, non pensavo che potesse essere così dura.”
“Mi dispiace, ma prova a trarre insegnamento da questo. Pensa che se hai affrontato tutto quello, puoi affrontare tutto il resto. E Lila come sta?”
“Lila era disperata, pensava di averti perso per sempre. Ha tentato di uccidersi ma sono riuscita a fermarla. L’ultima volta che l’ho vista è stata al momento della partenza da Bologna, stava andando verso Roma, era tristissima.”
“La mia Rossellina…”
“Vai a cercarla Rocco.”
“Sarebbe inutile, non la troverei mai.”
“Fidati, a volte le persone puoi trovarle dove non avresti mai pensato di cercare.”
“Me ne ricorderò. E gli altri?”
“Gli altri sono tornati da dove sono partiti, esattamente come me e Rossella. Ci siamo abbracciati tutti e poi ci siamo detti addio. Come avrebbe fatto chiunque al posto nostro.”
“Io non li vedo da molto prima di te, di certo non eravamo in vacanza però mi mancano. Ho saputo di Michele…”
Tirai un sospiro e feci di tutto per evitare di piangere ancora. Michele. Avevo cercato di rimuovere completamente l’immagine di Michele dalla mia mente. Michele, il bello Michele, o per tutti Sandokan.
“Eh già.”
“Vallo a cercare Agata.”
“No Rocco. Michele a differenza di Rossella è morto. Niente resta di lui.”
“Anche di me pensavate che fossi morto.”
“Michele è morto davvero.”girai la testa a sinistra, cercando di far risalire le lacrime ma era troppo tardi “Sto già cercando troppe persone Rocco, sarebbe da stupidi iniziare a cercare anche una persona morta.”
“Chi cerchi?”
“Emilia, mia sorella.”
“Hai trovato qualcosa?”
“Un numero di telefono.”
“Hai trovato tanto.”
“Sto cercando anche Giovanni, il mio migliore amico.”
“Lo conosco?”
“No. E poi sto cercando Ginevra.”
“Ginevra Pellegrino?”
“Si.”
“Agata, io vivo con Gennaro.”
“ E allora?”
Mi prese le mani e mi sorrise.
“Gennaro lo sa dov’è Ginevra.”
Ginevra non è morta.
 

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Capitolo 6
*** Troppo in fretta. ***


Torino, 15 agosto 1943
Nonostante la guerra, la mia famiglia e la famiglia Giraudo non si privavano dell’estate al mare alle Cinque Terre. Quando ero bambina le nostre famiglie avevano acquistato una splendida residenza estiva proprio nei pressi delle Cinque Terre, e ogni tanto trascorrevamo qualche fine settimana a Genova. Per me il periodo estivo era il periodo più bello, perché lontana dalla frenetica Torino finalmente riuscivo a rilassarmi e a divertirmi. Io, mia sorella e i fratelli Giraudo non avevamo fatto amicizia con nessun ragazzino che era in villeggiatura lì, eravamo gelosi che uno di noi potesse stringere un’amicizia con qualcun altro. Anche quando a quindici anni conobbi uno splendido ragazzo francese, che purtroppo poi non trovai più, io volevo soltanto trascorrere il tempo con Giovanni, Emilia e Giorgia. Ma la realtà è che io volevo semplicemente stare sulla spiaggia con Giovanni, fare il bagno al mare, prendere un gelato con lui e stenderci sull’amaca in giardino ed ascoltarlo recitare le poesie. Io penso che Giovanni non sia mai stato veramente al corrente di tutto quello che io provavo per lui, che provavo per lui da quando ero una bambina. Le vacanze estive per me erano il mio momento di fuga, e ogni volta che dovevamo andar via, in me cresceva sempre una malinconia  solo al pensiero che ci sarebbe voluto un altro anno per arrivare il tempo delle gioie e del sole. Fondamentalmente perché io non avessi molti amici, amici veri intendo. Avevo solo ed esclusivamente Giovanni Giraudo, che avevo la fortuna di avere con me in vacanza. Quando Ginevra entrò nella mia vita, era sempre un dispiacere lasciarla a Torino il primo di agosto, avrei tanto voluto portarla con me in vacanza, ma sapevo che i miei genitori non me lo avrebbero mai permesso, ma purtroppo sapevo che lei non poteva andare in vacanza da nessuna parte, la sua famiglia lavorava tutto il tempo e probabilmente avrebbe potuto far qualcosa solo il giorno di ferragosto ma non è che a Torino ci sia un granchè da fare il 15 agosto. Ed oggi, me ne rendo conto. Anche il tempo delle vacanze estive è finito. Mio padre di punto in bianco ha scelto che la famiglia Giordano non sarebbe più andata in vacanza alle Cinque Terre e nonostante la signora Margherita aveva chiesto a mio padre se io ed Emilia saremmo volute andare comunque con loro, mio padre senza nemmeno chiederci niente, aveva deciso che non avevamo voglia , che avremmo preferito restare a casa con lui e la mamma. Quindi la mia estate del ’43 si svolse principalmente con Suor Costanza e con il Partito. Stavo diventando sempre più brava anche con loro, iniziai a comprendere e ad immedesimarmi con quelle molteplici personalità che si incontravano nel Partito. Iniziai a studiare “Il Capitale” di Marx, a discuterlo con dei ragazzi che frequentavano l’università che erano molto vicini alla linea, loro lo spiegavano anche agli altri operai e a persone come Ginevra che faceva più fatica a capirlo. Rocco no, Rocco non era stato capace di spiegarmi la teoria, ma lui l’aveva capita fin da subito. Rocco mi spiegava la parte pratica ma io, a differenza di Ginevra che aveva imparato subito, facevo più fatica a comprenderlo. Non riuscivo a maneggiare un coltello come faceva lei, non riuscivo a tenere in maniera dritta il fucile e tantomeno riuscivo a premere il grilletto, mentre Ginevra era già una maestra. Rocco li chiamava “meccanismi di difesa”, la verità è che io non ho mai avuto bisogno di difendermi, neanche con le parole, perché c’era già chi lo faceva per me. Una signorina non avrebbe mai potuto dire nulla che non fosse necessario o permettersi di alzare la voce, quindi tantomeno picchiare qualcuno. Ma ora che queste persone mi avevano svegliata dal mio lungo sonno, dovevo solo metabolizzare cosa stesse succedendo e capire perché non fossi capace di sparare o colpire qualcuno. Rocco diceva che se entro la fine del mese non avessi ancora imparato non mi avrebbe mai potuto far partire con gli altri, ma sarei dovuta restare in città e aiutarli da qui, Ginevra mi diceva che non sarebbe cambiato nulla, ma avrei contribuito lo stesso alla causa. La verità è che io stavo facendo tutto questo per lei e non mi sarei arresa fin quando non sarei stata capace di uccidere qualcuno. Io, fino a quel momento, ero stata la prima promotrice della non-violenza e della pace, ed io proprio adesso stavo imparando come uccidere un altro essere umano, stavo imparando a fare quella cosa che io ho sempre criticato. Non riuscivo a farmi schifo, non riuscivo a smettere di crederci perché ero consapevole che tutto quello che stavo facendo, lo stavo facendo solo ed esclusivamente per Ginevra.
Quel giorno alle 18:00 avevo un altro incontro con i ragazzi del partito, solo quelli che sarebbero dovuti partire. Quindi mentre uscivo di casa mentendo alla mia famiglia, come ogni volta che avevo un incontro con loro, pensai a tutto quello che sarebbe potuto succedere da lì a poco, che se fosse realmente necessario imparare a sparare e a difenderci cosa sarebbe potuto succederci, un’altra guerra magari, più dura di quella che stiamo già vivendo forse. E la cosa che più mi spaventa è che questa volta ci sono dentro anche io. Non riuscivo più a pensare a nient’altro, non riuscivo più a parlare, piangevo in continuazione e mi si leggeva in faccia la sofferenza. Ero diventata un essere che camminava inconsapevole di dove stesse andando. Ero diventata una bandierina di stoffa che viene mossa dal vento un po’ a proprio piacimento.
Rocco ripeteva sempre che nella nostra guerra il nemico non si accerchia, si annienta. I tedeschi definivano Torino la “terra di nessuno”, ma per noi era molto più di questo, per noi Torino in quel momento era terra di lotta, era terra per combattere e la cosa che andava a nostro vantaggio è che i tedeschi non sapevano che noi stessimo combattendo, non sapevano che eravamo quasi pronti ad attaccare. Noi li avremmo attaccati a sorpresa proprio dove il loro schieramento di difesa sarebbe stato più forte, generalmente si tende ad attaccare dove il nemico si sente più debole, noi no. Noi avremmo attaccato il loro punto più forte, dove erano pronti a ricevere i pugni più duri. Questo perché i loro soldati ormai erano abituati a compiere sempre le medesime azioni, sempre a muoversi nello stesso modo e soprattutto noi sapevamo quale sarebbe stata la loro prossima mossa, loro non sapevano nemmeno che noi stessimo agendo ed inoltre avevamo fatto un giuramento che anche sotto tortura nessuno di noi avrebbe parlato, nessuno di noi avrebbe tradito. Tradire. Io non avevo mai tradito nessuno, e nessuno aveva tradito me fino a quel momento. Non sapevo neanche cosa fosse un tradimento, però in quel attimo mi apparve chiaro. Se avessi parlato, se avessi detto qualcosa su quello che stavamo facendo o mi avrebbero ucciso i tedeschi o mi avrebbero ucciso loro. Io ero pronta a morire?
Stavamo progettando un attentato, il mio primo attentato. Inizialmente, Rocco non volevamo prendermi in considerazione perché mi riteneva ancora insicura e non pronta per queste cose, ma Ginevra gli aveva detto che io ero prontissima e non avrei avuto problemi, e che se non mi avesse permesso di farlo, neanche lei lo avrebbe fatto e Rocco aveva bisogno di Ginevra. Mentre noi eravamo seduti un po’a caso in quella stanza, Ginevra e Rocco si misero vicini, parlarono un po’ tra di loro e si avvicinò anche Gennaro , quando Rocco sbuffò e si allontanò. Ma Ginevra andò da lui per abbracciarlo, gli disse qualcosa nell’orecchio e ritornarono vicini poggiati alla scrivania.
“Il progetto è molto semplice nella sua complessità.”aveva detto Rocco “Non  abbiamo niente che ci garantisca l’accensione della bomba al momento giusto e la sicurezza degli attentatori. Ma abbiamo l’esplosivo e la capsula detonante.”
“Però la bomba dovrà esplodere di giorno, nell’albergo “Genova” dove alloggiano le SS e non si può usare la miccia” disse Ginevra intromettendosi.
Ma lei dove le aveva imparate tutte queste cose?
“Anche se Luigi è abile nel creare esplosivi, non è capace in questo caso. Se ricordate tempo fa un compagno di Milano ci diede delle istruzioni, ci disse di prendere acido corrosivo, una provetta di vetro e una gomma speciale.”Rocco si fermò un istante preoccupato e Ginevra più sicura proseguì “L’acido corrode lentamente la gomma fino a quando non arriverà ad una miscela composta da clorato di potassa, zolfo e zucchero.”
Improvvisamente Rocco si alzò e uscì fuori, Ginevra lo guardò fin quando non andò fuori e riprese “Dobbiamo procurare la gomma e l’acido, e dobbiamo provare prima di farlo veramente. La gomma la andremo a comprare io ed Agata.”
Tutti mi guardarono straniti e anche la mia espressione facciale non credo fosse delle più rasserenanti, visto che era la prima volta che sentivo parlare di questa storia ma Ginevra mi stava rendendo una sua complice come se questo piano lo avessimo architettato insieme, come se avessimo deciso insieme di far saltare all’aria un albergo.
“Perché devo farlo io?”
“Ho detto che lo faremo insieme.”
“E ma io non lo voglio fare.”
“E invece lo farai.”Ginevra mi guardò male e alzò la voce scandendo bene le parole “Lo fai pure tu.”
“Va bene, se devo.”
“Si, devi, perché l’acquisto della gomma richiede una certa delicatezza, non possiamo mica prenderne una qualsiasi.”
“Prendete dei preservativi.”Rocco sbucò da dietro la porta e mi diede uno sguardo di conforto “Andate in farmacia e prendete dei preservativi. Saranno della dimensione giusta.”
“No” mi alzai di scatto io “Questo è troppo.”
Rocco mi prese da un braccio e mi fermò “Fiorellì ma che hai pensato? Servono per l’ordigno.”
“Ho capito, ma non posso andare in una farmacia a comprare dei preservativi. Sono una femmina.”
“Non eri tu che giocavi a fare l’alternativa? E ora vai in farmacia con Ginevra e prendi i preservativi.”
Allentò la presa e mi diede dei soldi in mano, fin quando Ginevra non riprese la parola “Non bastano quei soldi, Rocco. Ci servono quelli di qualità, quelli prima della guerra, ci dobbiamo spendere un pochino perché altrimenti non possiamo fare le prove.”
Rocco mi mise altri soldi nelle mani e poi andò di nuovo fuori.
Ginevra si avvicinò a me e prese i soldi dalle mani, dichiarando la riunione terminata e che ci saremo rivisti domani sempre alla stessa ora per iniziare a fare le prove, perché non avevamo nulla da perdere. Non attesi nemmeno un attimo e me ne andai fuori, guardai a lungo verso il cielo, riflettendo se quella fosse la scelta più giusta da fare, se quella non fosse stata la dimostrazione che forse stessi sbagliando qualcosa.
“Agata.”
Era Rocco. Stava fumando poggiato al garage di fianco alla sede, tolse le mani dal pantalone, la mise nella tasca interna della giacca come se stesse cercando qualcosa e prese il pacchetto delle sue sigarette, ne estrasse una e me la porse mentre con l’altra mano faceva cenno di avvicinarmi.
“No, non posso.”
“Agata, mi offendo.”
“Non l’ho mai fatto.”
“C’è sempre una prima volta, o sbaglio?”
Mi avvicinai lentamente a lui, con uno scatto celerissimo presi la sigaretta che teneva tra le dita e mi fece accendere, feci un lungo tiro che provocò immediatamente una tosse. Lui iniziò a ridere come se lo spettacolo fosse divertente.
“Lo vedi? Non posso, mi sento male se lo faccio.”
“Ma dai, capita a tutti la prima volta. È normale, non sei tu la strana.”
“Ah si? Anche a te?”
“Si, anche a me.”
Mi guardò a lungo negli occhi, poi senza accorgermene stavo continuando a fumare quella maledetta sigaretta anche se mentre parlavo con lui non avevo tossito. Magia, pensai.
“Agata, io ti parlerò molto semplicemente. Tu lo vuoi fare davvero?”
“Si, io lo voglio fare.”
“Guarda che dopo che entri, non puoi più uscire.”
“Rocco, lo so.”
“Tu sei speciale Agata. Sei tenera, sei bella, sei intelligente e sei ricca. Cosa ci fai qui?”
“Qui mi sento come se io non fossi io. Qui respiro piano, qui anche se in silenzio sono felice, qui mi sento l’unica al mondo, qui mi sento bene.”
“Agata, purtroppo questo non è uno sfizio o un capriccio che puoi togliere ad occhi chiusi. Facciamo sul serio, qui facciamo saltare in aria alberghi, facciamo esplodere bombe, uccidiamo persone e ci facciamo uccidere se è necessario. Tu sei sicura di riuscire a sopportare tutto questo?”
“Si.”
“Ma dove lo hai trovato questo coraggio?”
“Non lo so nemmeno io.”
“Vai a prenderli quei preservativi.”
“Va bene, ci vado.”
Poi mi accarezzò i capelli, mi poggiò una mano sulla guancia sorridendomi, poi ad un tratto quel sorriso si spense e mi poggiò l’altra mano sull’altra guancia, avvicinandosi.
“Tu mi piaci, Agata.”
Rimasi per un attimo impietrita, non sapevo cosa dire e allora mi spostai da lì e me ne andai.
Finalmente quando arrivai a casa, consumai molto velocemente la mia cena e corsi in camera mia. Stavo stesa nel letto continuando a ripetere le parole di Rocco Rinaldi “Tu mi piaci, Agata.”. Ormai era un continuo, non riuscivo a pensare ad altro, pensavo alle sue mani grandi che per un attimo hanno tenuto il mio viso, riesco ancora a sentire il calore delle sue mani se mi sforzo; alle sue spalle larghe e immaginavo come si ci potesse sentire ad essere accolte in quelle spalle, come si ci potesse sentire protette e al sicuro; alla sua barbetta pungente ma che gli incorniciava il viso rendendolo bellissimo e ad i suoi grandi occhi neri, neri come il carbone. Per un attimo cercai di rimuovere l’immagine di Rocco dai miei pensieri e provai ad eliminare quelle 4 parole che mi aveva detto quella sera “Tu mi piaci, Agata.”. Nessuno mi aveva mai detto che gli piacessi, certe volte mi fermavo a riflettere se mai potesse arrivare il mio momento di essere felice con un ragazzo, ma la verità che la mia vista è sempre stata offuscata dall’immagine nitida di Giovanni. Ora, che Giovanni era lontano da me, io stavo iniziando a guardare oltre di lui e per la prima volta ho visto un uomo splendido, un uomo che nascondeva la notte nei suoi occhi, quegli occhi che adesso sarei stata capace di guardare per molto tempo.
All’improvviso sentii picchiettare contro il vetro della finestra, e quando mi affacciai, non riuscii a credere ai miei occhi. Rocco era veramente lì. Quelle scene che potevo vedere solo nella mia immaginazione o potevo leggere solo nei libri, si stavano realizzando. Ma non gli sorrisi. Non perché non volessi ma perché non riuscivo a fidarmi degli uomini, perché pensavo che potesse prendermi in giro. Ginevra mi diceva sempre che gli uomini si approfittano spesso di ingenue e sciocche ragazze, e lei mi dice sempre che in questi casi si riconosce una vera donna da una mezza femmina. Io questi discorsi di Ginevra non li ho mai capiti però. Se sono gli uomini ad approfittarsi delle ragazze, perché dovrebbe essere colpa della ragazza se ci ha creduto? Magari era innamorata, o magari lui sembrava davvero sincero, o magari ci potrebbero essere altri moltissimi motivi ignoti.
“Che ci fai qui?”
“Te ne sei andata senza dirmi niente.”
Quanto è bello, anche ora con la luce della luna che gli illumina solo metà volto.
“Cosa devo dirti?”
“Io ti piaccio, Agata?”
“Vai via. Se ti vede mio padre ammazza sia me che te.”
“Rispondimi Agata.”
“Si, mi piaci ma ora devi andare via. Non scherzo.”
“Che hai detto? Ti piaccio?”
“No…si…cioè..”
“Agata sei bellissima.”
Sorrisi per un instante.
“Si.”
“Si cosa?”
“Anche tu mi piaci.”
Non ci credevo che sarei mai riuscita a dirlo. Rocco Rinaldi mi piaceva veramente sebbene non lo conoscessi per niente.
“Scendi.”
“No non posso.”
“Dai Agata scendi, non passa nessuno di qua e tuo padre starà già dormendo.”
“Va bene. Ma per un minuto.”
Presi una giacchetta che era poggiata sulla sedia e misi le scarpe, mi guardai per un attimo allo specchio e mi resi conto immediatamente della sciocchezza che stessi facendo, ma ero incredibilmente felice per reagire. Silenziosamente scesi le scale e aprii il portone di casa, lasciandolo socchiuso, nella speranza che al mio ritorno, mio padre non mi stesse aspettando dietro la porta per picchiarmi. Attraversai la strada dove c’era Rocco.
“Ma tu sei pazzo. Che ci fai qui?”
“Ho girato e girato per Torino, non ho cenato perché dovevo sapere che cosa ne pensassi tu di quello che ti avevo detto.”
“Ma come mi hai trovata?”
“Ginevra.”
“Giusto Ginevra.”
Mi mise le braccia intorno alla vita e io non sapendo cosa fare lasciai le mie a penzoloni.
“Agata sei bellissima.”
“Me lo hai già detto.”
“Allora…Agata sei splendida.”
“Grazie.”
“Agata non farti mai scoraggiare da nessuno. Sei una ragazza eccezionale, sei forte ma ancora devi scoprirlo, non curarti di cosa la gente possa pensare di te, perché decidi tu come cammini, decidi tu chi deve accarezzarti, decidi tu chi ti dorme affianco, decidi tu se cambiare o no. Decidi tu come va il vento.”
Poi si avvicinò a me e mi baciò. Fu un attimo. Ma mi sembrò tutta la vita. Il mio primo bacio. Avevo appena dato il primo bacio ad un uomo che non conoscevo nemmeno, che non amavo, che non fosse tra i candidati per sposarmi. Ma mi piacque quel bacio. E anche quello che mi diede dopo. E dopo. E dopo. Non riusciva a smettere di baciarmi e io non riuscivo a smettere di ricevere i suoi baci. Finalmente dalla posizione inerme in cui ero, poggiai le mie mani sulle sue braccia, e lui mi strinse più forte e iniziai a baciarlo anche io, ci baciammo per qualche minuto fin quando, non si staccò e mi sorrise. Io lo abbracciai, poggiando la testa sul suo petto. Mi sentivo come quando si beve un bicchiere di troppo, mi sentivo frastornata, ma felice. Ero ubriaca di lui.
“Ho già deciso.”Dissi dal nulla.
“Cosa?”
“Ho già deciso come tirerà il vento.”
 
 

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Capitolo 7
*** Conto alla rovescia. ***



Torino, 25 ottobre 1945
In un mondo dove le certezze non sono più certezze ma solo mere ipotesi, finalmente stavo ricominciando a riacquistare la speranza. Quella speranza che pensavo di aver perso, quella speranza che mi era stata rubata, complice delle ingiustizie della vita. Finalmente non mi sento più una prigioniera ma solo libera di agire come meglio credo, inizio a percepire nuove sensazioni, e il passato sta cadendo in un baratro sempre più profondo facendo spazio ad un presente sempre più limpido. Finalmente Emilia e Ginevra erano tornate sul mio cammino, anche se loro ancora questo non lo sapevano e io non avrei aspettato neanche un attimo. Ho già aspettato tanto. Quella mattina avevo accompagnato Milena a lavoro, ed era splendido vederla felice e sorridente. Non aveva smesso di parlare di questo benedetto lavoro per tutta la notte, e infatti non dormimmo per tutta la notte. Lei per l’eccitazione del primo giorno di lavoro e io perché i miei pensieri stavano facendo a gara su quale fosse il più rilevante. Emilia. Ginevra. Rocco. Tutti erano ripiombati nella mia vita in uno schiocco di dita, senza che io me ne accorgessi. Tutto era successo così velocemente che non sapevo se ritenermi fortunata o sfortunata. Dopo aver lasciato Milena davanti la fabbrica, andai verso Via Carlo Alberto per incontrare Rocco. Mi aveva chiesto se avessi voluto passare la giornata con lui e poi verso pranzo sarebbe arrivato Gennaro e così avremmo parlato di Ginevra.
 
Mentre cammino tranquilla per la strada ripenso a tutti gli episodi splendidi e tristissimi che mi sono successi durante il mio periodo di resistenza, il periodo più bello ma anche più incerto della mia vita. Incredibilmente, non sto più girando le spalle al mio periodo da partigiana, non appena ho incontrato Rocco, sono riuscita a risentire quella ebrezza che provai non appena scesa dal treno alla stazione in un paesino montuoso vicino Bologna, senza certezze, senza sicurezze sul domani. Ma ero felice, perché in fondo ero insieme ad altre persone che stavano provando le mie stesse sensazioni, ero insieme ad una donna che voleva cambiare la situazione esattamente come me, Rossella. La verità è che Rossella mi aveva lasciato un indirizzo quando mi ha abbandonato alla stazione e mi ha detto che ogni qual volta che avessi avuto una delle mie solite crisi interiori le avrei dovuto scrivere una lettera. E così fu. Io e Rosella avemmo corrispondenze epistolari per molto tempo. Per tutto quel periodo di incertezza e inquietudine, le parole confortanti di Rossella mi davano la forza di non smettere di sognare, di non smettere di sognare la vita che avevamo tanto immaginato e che finalmente eravamo riuscite ad avere. Lei aveva ripreso a fare l’attrice, me lo scrisse nella prima lettera che  mandò. Rossella a differenza mia, aveva una famiglia che la stava aspettando a casa, Rossella mandava regolarmente lettere alla sua famiglia e ai suoi amici, ogni volta che vedevamo Sara detta Anna, cioè la nostra staffetta, Rossella riusciva di nuovo ad essere felice, perché sapeva che era venuta per portare le lettere ed altre cose che ci sarebbero servite. Ma a Rossella servivano solo le lettere. Solo quelle. E io non avevo nemmeno quelle. Oggi, se potessi tornare indietro, avrei voluto che anche la mia famiglia mi avesse mandato una lettera, che anche Suor Costanza, Giovanni avessero potuto spedirmi una lettera, anche solo per salutarmi. Io, Rossella che all’epoca chiamavo Lila e Anna, che non sapevo si potesse chiamare Sara, passavamo momenti bellissimi insieme. Quel poco tempo che potevamo passare insieme, era meraviglioso. E quando Anna ripartiva, io e Lila tornavamo ad essere le uniche due donne in un gruppo di soli uomini, ma sebbene all’inizio fosse molto difficile passare tutto il tempo con loro, dormire con loro, lavarsi con loro, dopo un po’ capisci che è il male minore. Io ho voluto un gran bene ad ognuno di loro, e anche se non conoscessi la vera identità, in quella circostanza non era nemmeno importante. Durante il periodo passato lì, ho scoperto che era  più facile aprirsi con persone con cui non si ha nulla a che fare, piuttosto che con persone vicine. L’incontro con Rocco il giorno prima, mi aveva fatto riaffiorare il ricordo più dolce che io avessi di quel periodo, Michele. Michele mio. Il mio Michele che si sono portati via. E quando scoprii che Michele era stato preso e giustiziato, compresi quanto potesse vero che era giusto non affezionarsi a nessuno in un momento come quello. Ma la morte di Michele mi spinse a diventare più spietata, ora non era più soltanto una guerra di liberazione, era diventata una guerra per vendicare il mio angelo. Ti ho vendicato amore mio.
Adesso, arrivata sotto casa di Rocco Rinaldi mi viene da chiedermi “a cosa è servito?”, Michele non è più con me.
Rocco mi disse di salire dalle scale e io feci quanto ordinato. Quando vidi quella stanza che condivideva con Gennaro Pellegrino, mi resi conto quanto potesse essere stato difficile anche per lui ricominciare da zero. Mi invitò a sedermi al tavolino.
“Caffè?”
“Caffè.”
Torino, 25 Agosto 1943
Io e Rocco non ci eravamo più visti da quel bacio appassionato sotto casa mia, quando dopo l’attentato all’albergo mi chiese di vederci. A casa sua. Io accettai. Appena mi vide, non mi diede neanche il tempo di togliere la giacca che mi afferrò e iniziò a baciarmi, a baciarmi fino a togliermi il fiato. Mi sentii inebriata dal suo profumo, mi sentivo protetta da tutte le ingiustizie e dagli inganni. Non mi sentivo più giudicata, per un momento una persona si stava prendendo cura di me, anche senza rendersene conto. Mi sentivo un qualcosa di speciale per lui. Senza nemmeno staccarci da quel bacio, lui mi sfilò la giacca e il cappello, e si levò la camicia. Compresi immediatamente quali fossero le sue intenzioni ed istintivamente mi staccai da lui.
“Qualcosa non va?”
“Io non so cosa ti sei messo in testa, ma io non ci sto.”
“Dai, Agata. Non fare la sciocca, tu mi piaci davvero. Vieni qua”
“Rocco, anche tu mi piaci, ma non fino a questo punto. Non ti amo e non mi pare che siamo sposati.”
“Agata”si avvicinò, mi mise una mano sui capelli “I tempi sono cambiati. Rilassati”e poggiò le sue calde labbra sulle mie.
Riprese a spogliarsi e fece lo stesso con me, fin quando non rotolammo sul pavimento. Ed è successo. Fu un misto di dolore e piacere, sebbene in cuor mio sapessi che non fosse la cosa giusta da fare, mi lasciai trasportare da lui. Rocco Rinaldi era stato il mio primo tutto. Era piombato nella mia vita dal nulla, e me la aveva stravolta. Da perfetto sconosciuto che era, è diventato il mio amore. Restammo stesi sul pavimento della sua cucina per un po’fin quando lui non si alzò e si rivestì. Io non sapendo che fare lo imitai.
“Ora si è fatto tardi Agata, torna a casa o tuo padre si preoccuperà.”
“Quando ci rivediamo?”
“Non lo so.”
E me ne andai.
 
Torino, 25 ottobre 1945
Mi porse la tazzina di caffè e la bevvi in un solo sorso.
“Come stai Agata?”
“Sto. E tu?”
“Decisamente meglio. Mi manca Rossella però.”
“Perdere un amore non è mai semplice, credimi ne so qualcosa. Ti senti come se stessi diventando pazzo, come se non ti interessasse più se vivere o morire. Vorresti rinunciare a tutti i sogni, spezzare chi per un motivo o l’altro te lo ha portato via.”
“Michele?”
“Michele.”
“Agata, io sono convinto che Michele sia vivo. Non fare l’indifferente solo perché hai paura di soffrire ancora, così stai solo peggio.”
“Io vorrei urlare e soffocare. Sbatto ogni giorno la testa contro un muro e piango. Vorrei solo respirare il suo profumo per un momento, ma non posso. Raccolgo i cocci di una vita che non c’è mai stata. Non me lo aspettavo neanche io, avevamo progettato una vita insieme ed invece è arrivata quella maledetta notizia.”
“Hai detto bene, è solo una notizia. Tu non lo hai visto il cadavere di Michele. “
“Michele è morto, me lo sento .”
“Agata, smettila.”
“Ti ho detto che è morto. Ora basta.”
“Va bene, come vuoi. Resta il fatto che Rossella è viva. Rossella è diversa da tutte le donne con cui sono stato, lei mi ha fatto capire che stessi perdendo tempo, che era arrivato il momento di affezionarmi davvero a qualcuna. Rossella è stata l’unica, Rossella è stato il mio sole che splendeva solo per me, era il mio unico punto di riferimento. Per sempre resterà il mio grande amore, la prima e un’unica che io abbia mai amato. Questo era, differente da tutte le altre ragazzine con cui sono stato prima, Rosella è l’unica che io non abbia preso in giro.”
“Come me?”
“Come?”
“Come hai preso in giro me?”
“Agata…mi dispiace. Non pensavo che ancora ci pensassi.”
“Tranquillo, è una storia vecchia.”
 
Torino, 1 settembre 1943
Eravamo pronti per partire. Rocco non mi aveva più cercata. Forse perché era impegnato per la partenza, e nel frattempo io ero diventata abile con la pistola e avevo quasi imparato a progettare una bomba. Quando decise di riunirci tutti nella sede, mi sentii eccitata. Ero felice ed amareggiata della partenza. Ancora non avevo detto nulla alla mia famiglia, a Giovanni o a Suor Costanza. Stava accadendo tutto così in fretta. Mi sembrava ieri che mi fossi unita lì per il bene di Ginevra. Ginevra,che invece era molto tranquilla. Lei e suo fratello avevano già avvisato la loro famiglia, e seppure distrutti per la scelta dei figli, non avevano battuto ciglio. Ma la verità è che io ero felice principalmente perché avrei rivisto Rocco dopo l’ultima volta in cui abbiamo fatto l’amore. Quei ricordi non sono più andati via dalla mia mente, ogni giorno anche per errore, chiudevo gli occhi e pensavo a lui e a quegli attimi magici insieme a lui. Avevo deciso di non raccontare niente a nessuno, neanche a Ginevra. Volevo custodire quel momento per sempre, soltanto fra me e lui, sperando che ne possa vivere altri molto più belli. Arrivata lì insieme a Ginevra, lui era fuori con una cartina in mano e discuteva con altri ragazzi, quando alzò lo sguardo verso di noi, ci sorrise e alzò una mano, ma il suo sguardo si abbassò immediatamente. La riunione non durò molto, ci aveva spiegato semplicemente come muoverci, dove erano custodite le cose da portare in viaggio e quelle che ci sarebbero servite lì, quando saremmo andati a prenderle e soprattutto quando saremmo partiti. Io sarei andata a Bologna. Ginevra ancora non lo sapeva. Anche Rocco sarebbe andato a Bologna e quando lo scoprii, pensai che lo aveva fatto apposta per restare insieme a me.
Era fuori che fumava e parlava con Gennaro. Quando mi avvicinai, lui mi guardò e poi disse qualcosa a Gennaro ridendo, infatti Gennaro si girò a guardarmi e  riprese a ridere più forte. Gli diede una pacca sulla spalla e se ne andò.
“Allora partiamo insieme?”
“Si ma non perché lo ho deciso io.”Mi sentii immediatamente una stupida nell’avergli fatto quella domanda, ma non riuscii a capire perché di improvviso i suoi toni con me erano cambiati.
“E tu dove volevi andare?”
“Ma a me non interessa dove vado e tantomeno con chi, non sto mica andando in vacanza.”
“Va bene. Hai ragione.”ripresi fiato “Senti, volevo parlare di quello che è successo tra noi.”
“Che è successo?”
“Ma che dici?”
“No, Agata. Tu che stai dicendo, io non lo so che cosa hai pensato, ma a priori sappi che per me non è lo stesso.”
“Ma non sai nemmeno che cosa ho pensato.”
“E dimmelo. Cosa hai pensato?”
“Beh, ho pensato che adesso sei il mio fidanzato adesso. Ho pensato che prima di partire potremmo fare qualcosa, non lo so, uscire per esempio.”
Si mise a ridere “Agata, sei proprio una bambina. Io non sono il tuo fidanzato, va bene? Non mettere in giro questa voce.”
“Ma allora perché mi hai baciato quella sera? Perché sei venuto sotto casa mia? Perché mi hai detto quelle belle parole? Perché hai voluto fare l’amore con me?”
“Non lo so Agata, per divertirmi credo. Io da te non voglio niente, pensa a partire e smettila.”
E se ne andò. Mi lasciò lì da sola impalata. All’improvviso, Ginevra che aveva sentito tutto, mi abbracciò e io iniziai a piangere.
Si na scem’Agatù.”
“Lo so Gi.”
“Gli uomini sotto tutti uguali. Io te lo avevo detto.”
“Si ma pensavo che Rocco…”
“E pensavi male Agatù. Sono tutti uguali. Rocco, mio fratello, Giovanni.”
“Mi ero innamorata.”
“No Agatù, è l’impressione. Ti ha imbrogliata. Non basta così poco per farti innamorare.”
“Tu dici?”
“Fidati.”
“Mi fido.”
 
Torino, 25 ottobre 1945
Continuai a guardare oltre la finestra della casa di Rocco. Il freddo stava iniziando ad arrivare su Torino, la bella stagione era stata portata via dal vento gelido e la notte arrivava prima.
Allora l’attesa di Gennaro, diventava sempre più struggente. Nonostante tutto il male che mi aveva provocato, ero riuscita a perdonare Rocco durante il periodo trascorso insieme, lui aveva finalmente conosciuto l’amore e io pure. E ce lo avevano portato via. Eravamo uniti da quel dolore comune che era la guerra e la sofferenza per una persona amata. Solo Rocco sa quante volte durante la notte, mi svegliassi per via degli incubi in cerca del sole. La montagna in inverno era difficile, ma siamo sopravvissuti e questo è quello che conta adesso.
 Avevo trascorso una piacevole giornata in compagnia di Rocco, avevamo ripercorso insieme i momenti più felici passati insieme, quelli più tristi facendo scappare anche qualche lacrimuccia ogni tanto, quelli più pericolosi come quella volta che per poco non ci avevano catturato tutti. Lui mi ha raccontato cosa gli è successo quando lo hanno catturato, di come lo hanno torturato, picchiato, seviziato e nonostante sapesse che sarebbe potuto morire da un momento all’altro, lui non ha mai parlato. Non ha mai detto dove passavamo la notte, dove ci rifugiavamo nei momenti più duri, dove Anna veniva a portarci le cose, dove avremmo attaccato, dove erano previsti i prossimi spostamenti. Niente. Non ha detto nulla. Io non so se al suo posto avrei scelto la fedeltà alla linea o la mia vita. Questo mi fa capire che probabilmente così tanto coraggiosa poi non lo sono mai stata. Ancora una volta Rocco Rinaldi era riuscito a farmi dubitare di me stessa. Inoltre, Rocco mi ha raccontato come sia riuscito a scappare e come sia ritornato a Torino, come sia riuscito a nascondersi e il momento in cui ha scoperto che avevamo vinto. Ha detto che tutti i giornali, tutte le radio parlavano di noi, di quello che avevamo fatto e di come avevamo vinto. Come Torino fosse in festa. Come la gente fosse felice che avessimo preso la scelta di rischiare la nostra vita per il loro bene. Poi, mi disse che adesso aveva progetti più grandi e più importanti. Stava imparando l’inglese, perché aveva intenzione di raggiungere l’America, voleva andare lì, iniziare a lavorare lì e costruirsi una vita, una famiglia. Ma disse anche che vedermi, gli ha fatto ricordare Rossella, che ha pensato solo a se stesso per tutto questo tempo, dimenticandosi dell’unica donna della sua vita. Adesso era intenzionato a trovarla, sposarla e partire per l’America con lei. Nonostante tutto, ero felice per lui. Finalmente anche lui aveva ripreso a vivere, piuttosto che a sopravvivere.
“Rocco, sono tornato.”Gennaro varcò la soglia e quando mi vide rimase senza fiato e cadde sulle ginocchia. Io mi avvicinai per abbracciarlo e l’unica cosa che riuscì a fare fu abbracciarmi le gambe. Quando si alzò, mi diede un vero abbraccio.
“Sei viva, Agatù.”Agatù. Da quanto tempo non lo sentivo più “E dove l’hai trovata?”rivolse lo sguardo verso Rocco.
“L’ho trovata ieri sera per caso a lezione di inglese.”Rocco si intromise e ci fece sedere tutti, preparando un altro caffè.
Piccerè come stai?”
“Diciamo che sto bene, e tu come stai?”
“Ora sto bene pure io. Quando sono tornato pensavo di essere solo. Ma ho trovato stu scem che mi aspettava. E mo che fai?”
“Cerco lavoro.”
“Se vuoi, vedo se c’è qualche fabbrica che cerca operai.”Si intromise Rocco.
“Magari.”risposi io emozionata.
Ma che stej ricenn? Agatuzza con il diploma va a lavorare nella fabbrica?”
“Eh sai Gennaro, dalla fine della guerra non è nemmeno importante che tipo di scuola hai fatto o se la hai fatta. A nessuno interessa.”
“Mamma mia Agatù. Mi dispiace davvero.”
“Ma stai tranquillo. Comunque volevo chiederti una cosa.”
“Dimmi.”
Ripresi fiato per un attimo, cercando di non piangere e cercando di non crollare.
“Sto cercando Ginevra. Rocco mi ha detto che tu sai dov’è.”
“Si. Lo so.”
“Dimmi dov’è. Ti prego.”
“So solo che è in Svizzera. Ha mandato una lettera mamma e papà quando è arrivata lì e poi basta. Comunque se mamma ha conservato la lettera, c’è l’indirizzo.”
“Non ci posso credere. Grazie. Grazie. Grazie.”
Iniziai a piangere senza freni, Rocco e Gennaro mi guardavano sorridendo. Finalmente ero riuscita ad avere notizie anche su Gin, ero quasi incredula che tutto questo stesse accadendo veramente, se fosse stato un sogno, sicuramente non avrei voluto svegliarmi. Né ora e né mai. Mi alzai di scatto e l’unica cosa che ricordo è che caddi a terra. Ricordai soltanto le voci ovattate di Rocco e Gennaro che gridavano aiuto e urlavano il mio nome. Poi il vuoto.
Quando mi risvegliai la prima cosa che vidi fu il viso sorridente di Milena. La doveva aver avvisata Rocco. Quando tentai di alzare la schiena contro la testata in ferro di quel letto, mi resi conto di essere in un ospedale, circondate da altre persone. Intorno a me c’erano Suor Costanza, Rocco, Gennaro e Milena con Salvatore. Ma fu Milena la prima a parlarmi.
“Mi facisti prendere un collasso.”e poi mi lasciò un bacio sulla fronte, si sedette accanto a me e mi prese la mano.
All’improvviso arrivò un’infermiera tutta sorridente.
“Mi scusi, si sa qualcosa? Come mai è caduta? Qualcosa non va?”Suor Costanza era visibilmente preoccupata e fin troppo agitata.
“No i valori sono buoni, non è stato niente di grave.”Poi continuò a guardarmi sorridendo “I signori possono uscire?”
“Perché?”Rocco improvvisamente apparve più turbato di Suor Costanza.
“La prego. Faccia come ho detto.”
E Rocco e Gennaro lasciarono la stanza senza discutere ulteriormente.
“Signorina Giordano, da quanto tempo non ha le mestruazioni?”
“Da un po’, penso qualche mese. Perché?”
Tutt'è bbonu e binirittu ( augurio tipico siciliano)”Milena iniziò a sorridere e improvvisamente anche Suor Costanza sorrise e inizò a piangere.
“Signorina, lei aspetta un bambino di 7 mesi.”
“Sta scherzando?”
“No, non sto scherzando.”
“Ma avrei visto la pancia.”
“Signorina, in caso di malnutrizione o di donne troppo magre a volte la pancia è minima. Anzi a causa del suo scarso peso, avrebbe potuto rischiare un aborto spontaneo, invece sta bene. Si ritenga fortunata.”
“Mi sta dicendo che sono prossima al parto?”
“Praticamente si, signorina. Auguri.”e se ne andò.
Tutti intorno a me erano felici, e parlavano già di nomi, sesso del bambino, fiocchi, carrozzine. Ma io volevo solo piangere. Io lo sapevo di chi era quel bambino. Era il suo ultimo regalo.
Grazie Miche.

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Capitolo 8
*** Il dolce sapore della libertà. ***


Torino, 7 settembre 1943
 
Ci siamo. Domani saremmo partiti alla volta di Bologna. Ginevra era stata affiancata ad un’altra brigata, sarebbe andata ad Aosta e sarebbe partita dopo di me. Mi sentivo una sciocca, io che avevo fatto tutto questo per lei, adesso ci stavano dividendo. Adesso in un angolo della mia stanza sono accasciata sul pavimento, immobile, disperata e sola. Ancora non avevo detto nulla ai miei genitori, perché non avevo il coraggio di farlo. Alcune brigate erano già partite, e domani avrebbero iniziato, mentre noi stavamo aspettando il via. Secondo quanto aveva detto Rocco noi avremmo potuto iniziare intorno il 14 di settembre, ma dovevamo partire prima per iniziare a conoscere le persone di quella zona, gli altri compagni e le staffette. Ero terrorizzata, era la prima volta che mi allontanavo da casa senza la mia famiglia o senza una persona che conoscessi da tanto. Stavo andando in un luogo sconosciuto, a fare cose sconosciute, con una persona che era fondamentalmente sconosciuta. Più precisamente stavo andando con una persona che pensavo di conoscere, che però in realtà si è rivelata un mostro, un essere infimo. Una persona che mi aveva spezzato il cuore. Nonostante tutto il male che mi aveva provocato, non smettevo di pensare a lui e a quello che era successo. Io ero convinta di essere innamorata di lui, anche se Ginevra mi aveva detto che non era vero. Io sentivo di amarlo, e avrei fatto qualunque cosa pur di poter passare ancora del tempo con lui. In fondo, ero felice di partire insieme a Rocco, magari sarei riuscita a farlo innamorare di me. Nessuno può rimanere da solo. Neanche lui. Tutti hanno bisogno di qualcun altro, specialmente nei momenti difficili. 
 
 
“Scendi sotto che è pronta la cena.”
 
 
Ad interrompere i miei pensieri fu Emilia. Emilia era riuscita a perdonare nostro padre per tutto quello che aveva fatto alla mamma e tutto il dolore che aveva causato anche a noi. Era venuto come un cagnolino bastonato da noi ad implorarci di perdonarlo, e lo facemmo. Emilia davvero. Io per farlo tacere ed evitare che continuasse a ridicolizzarsi ulteriormente. Adesso, Emilia era diventata la sua spalla, gli stava sempre dietro, si interessava del suo lavoro, gli portava il giornale, gli preparava il caffè. Cose che prima ero solita fare anche io, ma che adesso non avevo più voglia di fare. Ma nonostante io non mi curassi di lui e non facessi neanche caso alla sua presenza, le sue premure nei miei confronti non cessarono. Ma non gli credevo più. Per me le sue carezze erano schiaffi, le sue belle parole erano parolacce. Per me, mio padre era diventato un estraneo, era diventato tutti quegli uomini che lui ci aveva sempre consigliato di evitare. E ora guarda un po’ chi evito.
 
 
“Si, ora scendo.”
 
“Sbrigati. Lo sai che a papà scoccia aspettarti.”
 
“Non mi interessa più di tanto sai.”
 
Mi tirai in piedi e mentre mi dirigevo verso le scale che portavano al piano di sotto, mi girai a guardare la mia stanza. Quella che per 19 anni ho condiviso con mia sorella, quella stanza che mi ha regalato tanti bei attimi e tanti ricordi indimenticabili. Tutto era rimasto esattamente identico a quando è stata preparata per la nascita di Emilia vent’anni fa. Nulla fuori posto, con i nostri letti al centro della stanza, la scrivania piantata al muro con moltissimi fogli al di sopra, l’armadio di fianco colmo di vestiti che non avrei più utilizzato, la libreria piena di libri che mi hanno resa quella che sono, libri a cui avrei dovuto dire addio da lì a poco. Tutto in questa stanza, mi stava implorando di rimanere ancora lì, ma ormai era troppo tardi. Scesi le scale e ad accogliermi ci fu mio padre seduto come sempre capotavola ancora vestito con giacca e cravatta dalla mattina con uno sorriso in volto. Un sorriso falso, ovviamente. Al suo fianco mia madre come sempre immobilizzata nella sua sedia, inerme e con quell’espressione spenta. Di fronte a lui sedeva Emilia, già preparata per la notte, che parlava con Flavia della cena, e la mia sedia vuota di fronte la mamma. Quella sedia che sarebbe rimasta vuota per molto tempo, ma loro questo ancora non lo sapevano.  
 
“Finalmente ci sei anche tu, bimba”Quanto era falso. Odiavo questo suo modo di fare, di essere così apprensivo. Quello che aveva fatto era imperdonabile, non mi avrebbe mai comprata in nessun modo.
 
 
“Come sempre fa tardi.”Emilia era diventata una iena da quando aveva perdonato papà. Era sempre stata superba, ma mai come ora.
 
“Stavo preparando delle cose.”
 
 
“Non devi giustificarti.”
 
“Ma a quanto pare devo delle spiegazioni ad Emilia.”
 
“Tu le giustificazione le devi solo a me e a tua madre, e ora non te le abbiamo chieste.”
 
La cena si svolse nel silenzio più assoluto, come ogni volta. La mamma che girava la forchetta avanti ed indietro nel piatto senza toccare nulla. Era da un po’ che aveva smesso di mangiare, in realtà lei non è mai stata una buona forchetta, ma ora aveva smesso anche solo di assaggiare le pietanze di Flavia. Sembrava che nessuno ci avessi fatto caso, ma io si.
 
“Allora Agata, sei pronta per l’università?”Mio padre decise di troncare il silenzio con quella domanda. E adesso?
 
“Io credo di non volerci andare all’università.”
 
“Che cosa?”mio padre posò la forchetta sul tavolo, levandosi il tovagliolo dalle ginocchia e guardandomi stranito “Ma sei tu che hai deciso di voler andare all’università, per me potevi benissimo restare a casa ad aiutare Flavia ed imparare qualcosa da signorina. Ma tu no. Sempre con questi libri. Pensavo lo volessi.”
 
“E ora non lo voglio più.”
 
“Va bene dai, troveremo qualcos’altro. Puoi restare a casa.”
 
“Non voglio neanche restare a casa.”
 
“Agata e allora che vuoi fare? Ti vuoi sposare?”
 
“Questo lo decido io quando farlo.”
 
“Agata dimmi cosa vuoi fare allora. Così non ne usciamo più.”
 
“Lo so io che devo fare.”
 
“Si Agata che fatica però, così non è possibile. Qualcosa lo dovrai pur fare, non puoi stare a casa tutto il tempo. Ti annoierai, io lo dico per te.”
 
“Tu lo dici per me? Tu ora sai cos’è giusto per me? Smettila papà.”
 
“Signorina, abbassa i toni.”
 
“No, non li abbasso perché sono stanca di questa sceneggiata. Io so già cosa fare, parto domani stesso. Io vado a combattere papà. Io vado a liberare il mio Paese da questa merda che ci avete dato. Compreso tu.”
 
“Che cosa hai detto?”
 
“Hai capito bene.”
 
“No fammelo risentire.”
 
“Io vado a combattere.”
 
E mi arrivò uno schiaffone diritto in faccia, poi mi spinse a terra e iniziò a tirarmi calci. Fin quando la signora Flavia ed Emilia non riuscirono a fermarlo.
 
“Tu non vai da nessuna parte. Io sono tuo padre io decido per te. Tu non tradirai la tua famiglia. A costo che ti ammazzo io.”
 
“A me non importa niente di te. Io parto che tu voglia, o no.”
 
E riprese a prendermi a calci. Nella pancia. Nella schiena. In quel momento non riuscii più a capire nulla. Sentivo che gli occhi mi si stessero appannando sempre più velocemente e che da un momento all’altro potessi perdere sangue da qualunque parte del corpo. Ma fortunatamente Emilia riuscì a fermarlo. Di nuovo.
 
“E tu così pensi di sopravvivere lì? Facendoti ammazzare?”
 
Non ero capace nemmeno più di rispondergli. Non ce la facevo. E quindi lo lasciai parlare.
 
“Vai. Svergognata che non sei altro. Vai a tradire la famiglia che ti ha dato tutto. Vai, fatti ammazzare. Non ti piangerò sicuramente, nemmeno ci vengo sulla tua tomba, anzi ci sputo. Anzi fai una cosa, prenditi le tue cose e vattene.”
 
“Ma papà…”Emilia cercò di farlo ragionare ma fu tutto inutile.
 
“Tu lo sapevi?”
 
“Papà io non sapevo nulla. Altrimenti non glielo avrei mai permesso.”
 
“Emilia dimmi la verità.”
 
“Papà te lo giuro. Io non ti farei mai una cosa del genere.”
 
Poi li vidi abbracciarsi, dopo qualche minuto mia madre si alzò in piedi.
 
“Tuo padre ha detto di andare via da questa casa.”Mia madre aveva parlato. Mia madre dopo tempo mi aveva parlato di nuovo. Mio madre aveva parlato per dirmi di andare via.
 
Lentamente riuscii ad alzarmi da terra, guardai per l’ultima volta quella che doveva essere la mia famiglia e tentai di salire le scale senza cadere. Presi il minimo indispensabile e lo misi in una borsa. Diedi un ultimo saluto a quella stanza e scesi di nuovo le scale dirigendomi verso la porta di ingresso. Stavo lasciando casa mia, per sempre.
 
“Vai traditrice, e non permetterti a tornare. Per te questa non è più casa tua. Agata Giordano, sei la vergogna di questa famiglia.”
 
Emilia mi aprì la porta, facendomi segno di uscire e io tentai di abbracciarla ma lei mi scansò.
 
“Questo non lo dovevi fare Agata.”e chiuse la porta.
 
Mentre camminavo per la mia città, le lacrime inondavano il mio volto, ero veramente andata via. Ero sola e avevo paura. Ora avevo bisogno di chiedere aiuto al cielo, perché non avevo più nessuna risposta certa, non avevo più nessuno dalla mia parte. Ero stata lasciata sola anche dall’uomo che mi aveva messa al mondo, camminando sui sentieri più scuri e più duri, adesso stavo solo cercando volti amici e sorrisi veri. Non sapevo dove andare. Dove avrei passato la notte. Improvvisamente, mi venne l’illuminazione. Ginevra. Andai istintivamente a casa sua. E ad aprirmi la porta di casa fu suo padre, che immediatamente mi chiese chi fossi e riconoscendo la mia voce Ginevra si avvicinò alla porta.
 
“Agatù.”Si mise una mano alla bocca, e poi si avvicinò a me “Ma che hai combinato? Chi ti ha ridotto così?”
 
“Mio padre.”
 
“Gliel’hai detto?”
 
“Si.”e mi abbracciò. Gli abbracci di Ginevra erano il mio porto sicuro, sentivo i brividi ogni volta che lei si prendeva tra le sue braccia i miei pesi. Nonostante sapessi che io e lei eravamo molte diverse, Ginevra è sempre stata più simile a me di chiunque altro.
 
“Glielo dovevi dire Agatù.”
 
“Posso stare qua per stanotte?”
 
Guardò i suoi genitori che fecero cenno di “sì”con la testa e poi mi disse lo stesso a me.
 
“Noi però non siamo ricchi come te Agatù, noi qua dormiamo tutti insieme.”
 
“Non c’è problema.”
 
“Va bene dai mo non ci pensare Agatù. Vieni a mangiare.”
 
“No, veramente non mi va. Voglio solo stendermi.”
 
“Va bene come vuoi. Vatti a dare una sciacquata. Vedi che se esci di casa, in fondo al corridoio c’è il bagno comune. Vedi se ci sta qualcuno, altrimenti entra.”
 
“Va bene, grazie.”
 
Non avevo mai visto un bagno comune, come si fa a condividere un solo bagno con tutta quella gente? Già per noi era difficile condividerne uno, ed eravamo in 4. Aspettai che una signora uscii dal bagno, ed entrai. Restai per qualche minuto a piangere seduta sul gabinetto. Mi sembrava tutto un incubo. Ma ero sicura che mio padre avrebbe reagito malissimo, di certo non pensavo così male. Ma sono stata una sciocca a sperare che mio padre mi avrebbe trattata come un essere umano. Quando sentii bussare forte alla porta e sentii una voce pregandomi di muovermi, mi alzai di scatto e mi guardai allo specchio. Avevo lividi per tutto il viso. Sembravo un mostro. Cosa avrei detto a tutti?
 
Uscii da quel bagno, lasciando il posto al ragazzo che stava aspettando e andai diritta in casa di Ginevra. Ginevra mi fece posto sul suo letto. Mi diede un bacio sulla fronte e mi abbracciò.
 
“Dormi Agatù, che domani devi partire.”
 
Già, devo partire.
 
Torino, 8 settembre 1943
 
Eccomi qua. Davanti la stazione di Torino. La stazione è piena di ragazzi, uomini e donne che stanno partendo. Ognuno di loro insieme ai loro familiari, con i propri amici, fidanzati, mogli, fidanzate, figli. Ed io ero qui. Senza la mia famiglia, senza Giovanni, senza Suor Costanza. C’era Ginevra con me, che mi teneva la mano da quando eravamo uscite di casa e ogni metro che ci avvicinavamo alla stazione me la stringeva sempre più forte. E ora qui davanti alla piattaforma del treno, mi veniva da piangere. Ginevra mi teneva sempre la mano, ed ero sicura che non me la avrebbe lasciata fino a quando non sarei salita sul treno. Quando arrivò Rocco, in compagnia di Gennaro e degli altri ragazzi con cui avevo parlato una mezza volta da quando li conoscevo, l’ansia e la pressione iniziò a salire a dismisura. Avrei voluto soltanto prendere tutto e scappare via, magari con Ginevra. Mollare tutto e non pensarci più. Ma oramai era tardi per i ripensamenti.
 
“Ma che ti hanno fatto in faccia?”Rocco mi prese con una mano il viso, girandolo verso destra e poi verso sinistra.
 
“Ehh, è caduta.”Ginevra tentò di coprirmi in qualche modo, ma era chiaro che fosse una bugia.
 
“Va bene dai. Iniziamo benissimo.”
 
“Ma qual è il tuo problema?”
 
“Agata, calmati.”
 
“No, non mi calmo. Per te c’è sempre qualcosa di sbagliato in me. Adesso mi hai veramente rotto.”
 
“Va bene Agata, scusami. Basta che la smetti di lamentarti.”e si accese una sigaretta.
 
“Dammene una.”
 
“Che cosa?”
 
“Dammi una sigaretta.”
 
“Per soffocare di nuovo?”
 
“Si per soffocare di nuovo. Dammi questa maledetta sigaretta.”
 
Me la diede e mi fece accendere. Mi poggia alla colonna dove erano poggiate le sedioline in plastica dove sedevano i passeggeri in attesa di partire. Ero straziata, spezzata e vuota. Non avevo più nulla da offrire, ma ero pronta a fare questo salto nel vuoto. Mentre inalavo il fumo, lo sentivo percorrermi la gola e arrivare fino a giù per poi risalire e vederlo uscire dalla mia bocca. In quel momento pensai che mi ero affidata per troppo tempo agli altri, e che per una volta dovevo essere la mia forza. Perché io sono l’unica amica che io posso avere, sono l’unico amore di cui innamorarmi, io sono l’unica mia colonna portante.
 
Improvvisamente sentii una voce annunciare che il treno per Bologna stava per arrivare al binario 2. Gettai la sigaretta ancora a metà a terra e la calpestai. Rocco mi rivolse uno sguardo sicuro e poi mi mise un braccio intorno al collo.
 
“Ci siamo.”
 
Ginevra venne verso di me, stava piangendo. Era la prima volta che la vedevo piangere, e quella scena fece piangere anche me. Avevo retto per troppo tempo, ci unimmo in un abbraccio straziante, piangendo come due bambine alle quali si è rotta una bambola, e ogni volta che sentivamo il rumore del treno sempre più vicino, ci stringevamo sempre più forte.
 
“Abbi cura di te Gi.”
 
“In bocca al lupo Agatù. Fatti valere.”
 
Salimmo sul treno, Rocco mi aiutò a poggiare il piede sul primo scalino visto che ero ancora dolorante. Avevamo tutto. Biglietti, vestiti sufficienti, cibo, e soprattutto documenti falsi. Ci sedemmo ai nostri posti, e nel mentre continuai a guardare Ginevra dal finestrino che continuava a piangere.
 
Amica mia, sii fiera di me.
 
Il treno partì, e io e Rocco eravamo entrambi impazienti di arrivare, entrambi impauriti di quello che ci sarebbe potuto succedere.
 
“Ora devi scegliere il tuo nome di battaglia.”
 
“Che devo scegliere?”
 
“Eh si, il tuo nome da partigiana. Non puoi mica dire che ti chiami Agata.”
 
“Ah no?”
 
“Ma no. Io da oggi sarò Molotov.”
 
“Molotov?”
 
“Molotov.”
 
“E perché?”
 
“Ma questo non si chiede.”
 
“Va bene. Come vuoi.”
 
“Allora?”
 
“Allora cosa?”
 
“Come ti chiamerai?”
 
“Ma non lo so non ci ho pensato.”
 
“Va bene. Quando ci hai pensato, dimmelo.”
 
Guardai il tempo e i luoghi scorrere dal mio finestrino. Non basta neanche un raggio di sole a farmi sentire meglio, non voglio neanche fermarmi, ma ho un dolore che mi sta lacerando da dentro. La testa aveva iniziato a vagare tra i pensieri, la vita mi aveva allontanato dai miei affetti per iniziare un nuovo capitolo. Adesso non riesco neanche a piangere, penso di aver pianto così tanto da aver consumato tutte le lacrime a disposizione. Mi girai verso il sedile su cui era accasciato Rocco, e lo vidi dormire come un ghiro. Era quasi tenero mentre dormiva, era bellissimo. Continuava ad essere splendido ai miei occhi, seppure tutto il dolore che mi aveva provocato.
 
“Che fai? Mi guardi?”
 
Immediatamente mi girai dal lato del finestrino e lo sentii ridere.
 
“Non fa niente, puoi continuare. Mi piace quando mi guardano.”
 
Hai vinto di nuovo tu.
 
Bologna, 9 settembre 1943
 
Finalmente arrivammo. La stazione di Bologna ci aveva accolto con uno splendido panorama. Immediatamente usciti da lì, io e Rocco restammo a guardare la città per un po’, era bellissima. Rocco estrasse un fogliettino dalla borsa e c’era un indirizzo “Via Ugo Bassi, 12.”
 
“Andiamo.”Rocco mi prese la mano ed iniziò a guardarsi intorno per cercare di trovare la strada che probabilmente portava a quell’indirizzo.
 
“Dove stiamo andando?”
 
“Prendi questo foglietto e chiedi indicazioni su questa strada a qualcuno.”
 
“Perché lo devo fare io?”
 
“Perché sei una ragazza, non sospetterebbero mai di te.”
 
Andai da un signore per chiedere informazioni su quella via, nascondendo con il dito il numero civico. Non era sicuro. Se fosse stata la sede del Partito qui a Bologna e il signore fosse stato fascista, avrei soltanto compromesso la nostra situazione. Il signore molto educatamente, dopo avermi scrutata dalla testa ai piedi, mi spiegò abbastanza chiaramente il modo più semplice per arrivare in quella strada. Allora lo ringraziai e tornai da Rocco che mi stava aspettando seduto su un muretto fuori dalla stazione. Appena mi vide, scattò in piedi.
 
“Allora?”
 
“Non è difficile arrivarci da qui, seguimi.”Sta volta fui io a prenderlo per mano. Questa volta ero io ad avere il comando. Camminando per le strade di Bologna mi sentii quasi meravigliata, come se non avessi mai visto qualcosa di più bello, sentivo che io qui sarei cambiata. Come avrei voluto che Ginevra fosse stata qui. Arrivati lì davanti, trovammo una porta in legno e Rocco bussò due volte.
 
“Chi è?”
 
“Torino.”
 
Un tipo magrissimo e alto, con la faccia scavata e bianchissima ci aprì la porta. Aveva gli occhi scurissimi e piccoli, i capelli neri tutti arruffati ed era vestito con una camicia, un pantalone nero e una giacca pesante.
 
“Benvenuti compagni. Io sono Crusca.”
 
Ci fece segno di entrare e Rocco sorridente diede la mano al tipo che ci aveva aperto la porta “Piacere, Molotov.”
 
Il tipo sorrise “E tu?”rivolgendosi a me.
 
E io? E che ne so.
 
“Io in realtà ancora non ho scelto il mio nome.
 
“Hai la faccia da Alba. Vi piace Alba?”Tutti fecero cenno di sì con la testa e anche Rocco dopo rispose di sì.
 
“Aggiudicato.”
 
“Ma come aggiudicato?”
 
“Ma sì, l’importante è che non sia il tuo vero nome.”
 
Ora sono Alba.
 
“Vi serve qualcosa dal centro prima di partire?”
 
“Si a me servirebbero un paio di pacchetti di sigarette.”Rocco subito prese la borsa per dare i soldi al ragazzo, ma lui glieli rimise in tasca.
 
“Prendile anche a me.”
 
Rocco mi guardò immediatamente stranito “E tu da quando fumi?”
 
“Da adesso.”
 
Il tipo sorrise e riprese a parlare“Venite compagni, che vi presento gli altri.”
 
“Io sono Lupo”Lupo era un ragazzo più giovane di noi, poteva avere massimo 17 anni. Era più alto di me, abbastanza magro. Capelli castani, occhi chiari e gli occhiali da vista. Lupo era vestito esattamente come tutti gli altri in quella stanza, compreso Rocco. Giacca pesante, pantaloni scuri, camicia, e poi c’era anche chi portava il maglione sulla camicia.
 
Io e Rocco ci presentammo dandogli la mano e sorridendo esattamente come facemmo con tutti.
 
“Io sono Harlem.”Harlem era un più grande di noi, doveva avere tantissima esperienza alle spalle. Anche lui più alto di me, di corporatura normale, capelli brizzolati e occhi scuri. La cosa che più mi piaceva di Harlem era il suo accento emiliano molto marcato, dava quel senso di appartenenza che in quel momento mi mancava.
 
 
“Io sono Terùn”Terùn aveva quel non so che di insolito. Accento prettamente napoletano, come quello di Ginevra, che dava chiare spiegazioni sul suo soprannome. Terùn era anche lui alto, magro, i capelli scuri ma con qualche sfumatura chiara se esposti alla luce e gli occhi azzurrissimi, come il cielo.
 
“Io sono Lila.” Bellissima. Questa fu la prima cosa che pensai appena la vidi. Bellissima. Lila emanava splendore da ogni parte del suo corpo. Aveva dei lunghi riccioli neri che le percorrevano la schiena, e degli occhi verdi da togliere il fiato, la pelle olivastra ed un piccolo neo al lato del labbro superiore. Ma la cosa che più mi stupì di Lila fu il suo abbigliamento. Lila portava i pantaloni. “Siamo le due donne di questa brigata. Facciamo vedere chi comanda. E togliti sto vestito.”
 
Già mi piaceva.
 
“Io sono Sandokan”Sandokan. Era così bello da togliere il fiato. Anche lui aveva la pelle scura, gli occhi nerissimi, i capelli scuri e ricci e delle bellissime labbra piene. Anche lui era alto e magro, ma si riusciva scorgere il suo fisico da sotto i vestiti. Rimasi per un po’a guardarlo e non volevo staccare la presa.
 
 
“Ma che fai? Ti sei incantata?”improvvisamente tornai lucida quando mi parlò.
 
“Eh?”
 
“Non sei molto sveglia eh.”
 
“Nono, è il sonno.”
 
“Si e se ti prende un sonno così quando siamo in montagna che fai?”
 
“In montagna?”
 
“Eh si, dove volevi andare? Al mare?”
 
“No ma…”
 
“Ma che dici? Senti mi hai già stufato.”
 
“Ma non ho detto nulla.”
 
“No no, hai detto troppo invece, fidati.”
 
Sandokan, già ti odio.
 
 

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Capitolo 9
*** Chi cerca, trova. ***


Torino, 31 dicembre 1945
L’ultimo giorno dell’anno. A me, la fine dell’anno ha sempre messo una specie di angoscia, era come la fine di un’era. Alcuni anni ero felice che si concludesse, altri meno. Ma in ogni caso la fine dell’anno ti costringeva a mettere il punto ad un capitolo della tua vita, per iniziare la stesura di un altro. E anche se non avevi idee o l’inchiostro terminava, dovevi trovare la capacità di recuperare le idee ed acquistare un nuovo inchiostro. Mio figlio era nato il 27 dicembre 1945, alle ore 15:46 in una giornata nevosa. Un parto doloroso e un travaglio di 8 ore con contrazioni irregolari e brevi, ma alla fine del calvario, non riesco ancora a descrivere il momento in cui l’ostetrica mi mise tra le braccia quel fagottino di 2.5 kg. In quel momento ero veramente felice dopo tanto tempo. Michele Giordano era venuto al mondo per rendermi di nuovo serena. Adesso, ero finalmente ritornata a casa e già aiutavo Suor Costanza con i preparativi per la cena. Guardare Salvatore, il figlio di Milena, che giocava con quella creatura ancora inerme era uno spettacolo splendido. Milena diceva che i bambini sono il dono più puro di Dio, e prima di far nascere mio figlio pensavo che Milena stesse soltanto esagerando. Ma quando senti l’odore di tuo figlio per la prima volta, capisci che quello è l’odore che vorresti sentire per tutta la vita. Quando guardi gli occhietti minuscoli di tuo figlio per la prima volta, vorresti che quegli occhietti guardassero te per sempre. E quando tuo figlio per la prima volta ti stringe il dito con quella manina, speri che non smetterà mai di stringerti. Ecco cosa vuol dire essere madre. Ora sono una madre. Mi sono giurata dal primo momento in cui l’ho visto, che Michele Giordano avrebbe avuto la mamma migliore del mondo, una mamma vera. Non come quella che ho avuto io, se si può definire una madre. Milena mi chiese molte volte perché avessi deciso di chiamarlo Michele. In realtà lei non poteva saperlo ma la verità è che in fondo quel bambino era anche suo, e in qualunque parte di cielo lui fosse, volevo che quel bambino avesse qualcosa che rappresentasse suo padre. E credo che sarebbe stato un bravissimo papà.
 
“Dai Agatina, siediti, che ti metti a fare ste cose?”
 
“No Milè, voglio essere utile anche io.”
 
“Ma no che ti senti male poi. Siediti e tieniti la creatura vicino.”
 
“Ma non sono malata Milè, posso fare qualunque cosa. Dai che affetto il pane.”
 
Milena poggiò lo strofinaccio sul davanzale della finestra sopra il lavandino, e mentre io prendevo il coltello dal cassetto e la cesta per posare il pane, lei si avvicinò a me e mi abbracciò da dietro.
 
“Agatina, ti voglio bene.”
 
“Anche io ti voglio bene.” Mi girai e le diedi un vero abbraccio.
 
Milena era una persona meravigliosa. Lavorava tutto il giorno in quella fabbrica, aveva iniziato a parlare con Rocco di sindacati, scioperi e quant’altro. E adesso, oltre a studiare l’italiano, che ormai parlava abbastanza bene, e le altre lingue, aveva iniziato a studiare anche la storia, la matematica più complessa e si interessava di politica. Quando io compravo i miei romanzi, lei mi chiedeva sempre se poi glieli potevo prestare così si esercitava nella lettura e se avevamo finito i libri da leggere lei li ricominciava a leggere da capo. Costringeva Suor Costanza a comprare i giornali ogni giorno, e doveva anche stare attenta a quali comprava perché Rocco le aveva detto che non tutti dicevano la verità, alcuni volevano soltanto imbrogliare il lettore. E lei ci credeva. Quando le chiesi perché si fosse interessata improvvisamente a tutte queste cose, lei mi rispose che le cose che non si conoscono fanno paura, però quando poi si scoprono si può trovare il modo per sconfiggere le paure. Era fantastica, una vera forza della natura.
 
“Sai Agatì, quando ho avuto Salvatore ero sola, c’era solo una signora con me che non era nemmeno una che sapeva far nascere un bambino. Salvatore è nato in casa e la mia paura più grande non era che potevo morire io, ma che poteva morire lui. In quel momento capii che dovevo cambiare questa situazione, che mio figlio doveva crescere bene, non come me. Ho raccolto soldi abbastanza e me ne sono venuta qua.” Si asciugò una lacrima che le era scesa dall’occhio sinistro “Io pensavo che sarei rimasta da sola per sempre, ma poi ho trovato Suor Costanza che già ha fatto tanto, ma tu sei stata veramente il mio faro.”
 
“E tu il mio.”
 
“Io lo so che vuol dire crescere un figlio da sola, io nemmeno lo so chi è il padre di Salvatore, ma per questo mi dovevo abbattere? E no, ho imparato a fare anche il padre, e se Salvatore è contento, allora sono contenta pure io.”
 
“Milè mio figlio un papà ce l’ha. Solo che non è più qua.”
 
“E dov’è? In un ‘altra città? In un altro Paese?”
 
“No, è morto. Era in brigata con me, si chiamava Michele Ricci. Me l’hanno ammazzato i tedeschi.”
 
Vituzza mo, quantu mi dispiace”e mi abbracciò di nuovo “Sarebbe stato contento.”
 
“Si. Sarebbe stato un bravo papà, se si è preso cura di me nonostante fossi un’estranea, pensa per suo figlio cosa avrebbe fatto.”
 
“E tu mo devi cercare di farlo vivere dentro di te.”
 
“Si, ci sto provando.”
 
La cena iniziò verso le 20:00. C’erano tutte le persone importanti per me. Suor Costanza, Milena, il piccolo Salvatore, Rocco, Gennaro e la famiglia Pellegrino, e poi c’era lui, il mio bambino. Sapere che un pezzo di Michele era incastonato nel piccolo mi rendeva più tranquilla, sapevo che lui mi stesse osservando mentre allattavo suo figlio, quando lo cambiavo, quando lo coccolavo. Michele in quel momento era seduto con noi a tavola. Michele era con me.
 
La cena trascorse tranquillamente. Io, Rocco e Gennaro parlavamo dei momenti passati. Milena faceva continuamente domande. Parlammo di politica, del passato, dei momenti felici, e di quelli tristi, di attualità, anche della guerra. Finalmente, sentivo di aver riacquistato quell’ebbrezza che avevo perso da tanto. Ormai vivevo solo per il piccolo Michele. Dal primo momento in cui l’ho guardato per la prima volta, mi è entrato dentro e non poteva più andare via, sentivo che adesso avevo bisogno solo di lui per provare ad andare avanti, adesso con una vita nuova vicino a me, sapevo che i pensieri sulla morte erano lontani, lontanissimi. Avrei voluto soltanto vederlo felice, come Milena voleva vedere felice suo figlio. Sarò con lui quando dirà per la prima volta “mamma”, quando inizierà a camminare, quando gli spunterà il primo dentino, quando andrà per la prima volta a scuola, quando avrà il suo primo amico, quando inizierà a creare i suoi sogni, quando mi confesserà di essersi innamorato, quando andrà all’università, quando vorrà andare via per cambiare aria e quando troverà la ragazza giusta per potersi sposare. Anche quando sarà un uomo bello e forte, voglio che mio figlio sappia quale sarà la strada di casa, e qualunque scelta di vita prenderà, la mamma sarà sempre sulla porta di casa ad attenderlo. Voglio essere per mio figlio quel genitore che mio padre e mia madre non hanno saputo essere.
 
Quando Rocco ci avvisò che era quasi mezzanotte presi mio figlio e me lo tenni stretto stretto per non farlo spaventare durante gli spari di Capodanno. 3…2…1… Buon anno amore mio, benvenuto nel 1946.
 
Torino, 5 gennaio 1946
Stavo seduta sulla solita panca in pietra nel chiostro del convento ad assaporare e gustarmi una sigaretta. Dopo la nascita di Michele avevo ricominciato a fumare e nonostante Suor Costanza cercò in tutti i modi di farmi capire che facesse male, io non prestai attenzione nemmeno per sbaglio alle sue parole. Era uno di quegli sfizi che mi ero concessa per ricominciare la mia vita, e Milena respirando il fumo passivo che le sputavo vicino anche per errore, iniziò ad accompagnarmi talvolta con la sigaretta. Il momento della sigaretta per me e Milena era il momento di pace, per un piccolo lasso di tempo eravamo libere di ritornare delle ragazzine trasgressive e non più donne impegnate e mamme stressate. Milena continuava a lavorare alla fabbrica tessile ma io decisi che non potevo più girarmi i pollici e adesso che avevo Michele dovevo migliorarmi e non potevo continuare a fare la ragazzina. Allora presi una decisione che cambiò radicalmente la mia vita. Decisi di andare all’università, Suor Costanza si era offerta di aiutarmi con le tasse e tutte le altre spese, anche Milena aveva detto che se avessi avuto bisogno di soldi, lei me li avrebbe dati. Milena era più entusiasta di me per questa notizia, perché diceva che io avrei dato voce ai suoi pensieri e sarei potuta diventare chi ho sempre sognato. Anche Rocco e Gennaro erano felici di questa notizia, dicevano che avrei dato speranza a tutte quelle persone che purtroppo non potevano studiare e chi per forza di cose ha dovuto abbandonare gli studi. Chi mi ruotava intorno mi vedeva come una specie di paladina che si sarebbe laureata solo per rappresentare chi non poteva più farlo, per essere il megafono delle ingiustizie della società e in fondo questa riconoscenza mi piaceva anche, ma la verità è che io decisi di farlo sia per il bene di Michelino e sia per un riscatto personale, per vendetta. Per mio padre, per dimostrare a me stessa che aveva torto lui e che io sono capace di tanto. Infatti, non appena all’università sentirono il mio cognome che mi era stato scomodo per molto tempo, ma che ora mi stava ritornando utile, mi guardarono tutti con un occhio di riguardo. Ero pur sempre l’orfana Giordano. Ero pur sempre la figlia di un noto professore che aveva lavorato per anni in quell’Università contribuendo al futuro degli studenti usciti da lì, contribuendo a creare una borghesia sempre più feroce e potente. E bravo papà.
 
Terminata la mia sigaretta andai proprio in Università per ritirare alcuni libri che avevo chiesto in Biblioteca. Torino stava riacquistando quella bellezza che gli era stata tolta, la gente aveva ricominciato ad uscire, a sedersi nei bar, ad ammirare le vetrine e il lavoro pian piano sembrava stesse tornando. La gente non aveva più paura. Si era inteso che se non ci fossimo rimboccati le maniche saremmo rimasti in quello stato per moltissimo tempo, ed era arrivato il momento di reagire. Quando entrai in Università, potetti intendere con facilità l’espressione incredula delle persone nel vedermi lì, nel vedere una donna con i pantaloni entrare in un Università prestigiosa come quella. Ma mi piaceva avere tutti quegli occhi addosso in fondo, quindi lasciai perdere, non provai imbarazzo. Se avessero avuto veramente qualcosa da ridire, sarebbero venuti da me e mi avrebbero chiesto che cosa ci facessi lì o mi avrebbero cacciata fuori, invece no. E allora non vedevo dove fosse il problema, di pettegolezzi e chiacchiere non è mai morto nessuno. Entrai in biblioteca, presi i libri, e andai fuori ancora con gli occhi attaccati ai libri per controllare se fossero in buone condizioni.
 
“E allora è proprio vero che sei tornata.” Una voce familiare mi entrò nelle orecchie, ed ebbi quasi paura a sollevare lo sguardo e scoprire chi fosse il mio interlocutore, ma lo feci. Eccola. Giorgia Giraudo. Quanto era cresciuta. Adesso anche lei era diventata una donna bella come sua madre.
 
“Giorgia, quanto tempo è passato.”
 
Ci salutammo con un abbraccio.
 
“Sei diventata proprio bella sai.”
 
“Grazie Agata, anche tu stai molto bene.”
 
“Che ci fai qua?”
 
“Eh io qua ci studio, ero venuta per vedere quando avessi il primo esame.”
 
“E cosa studi?”
 
“Giurisprudenza.”
 
“Che bello, io mi sono iscritta da poco, ero venuta per prendere dei libri così che fossi pronta anche io per gli esami visto che sono un po’ in ritardo.”
 
“Vuoi qualcosa?” disse, indicando il bar di fronte l’Università.
 
“No no, vado di fretta.”
 
“Dai un caffè soltanto, non ti vedo da tantissimo.”
 
Acconsentii alla sua richiesta e ci sedemmo al tavolino del bar. Quello stesso bar dove 3 anni prima Giovanni, suo fratello, mi aveva fatto la predica per essermi avvicinata senza il suo consenso. Giovanni, ecco un altro segno del destino, Giorgia poteva sapere dove fosse suo fratello. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa ne avrebbe pensato lui che ora io, la sua migliore amica, e Giorgia, la sua sorellina, eravamo sedute proprio lì. Ma non eravamo le uniche, c’erano anche altre ragazze sedute ai tavolini, rilassate e felici, senza nessun timore. Qualcosa nell’aria stava cambiando, ed io ero pronta ad accogliere questo cambiamento. Ordinammo due caffè e Giorgia si accese una sigaretta, e io feci lo stesso.
 
“Allora, Agata, è proprio vera la storia che hai liberato l’Italia?”
 
“In realtà da sola non avrei potuto fare granché ma diciamo di sì. Ho contribuito anche io.”
 
“E ti è piaciuto?”
 
“Diciamo che non è stato facile, anzi è stata dura. Ma il momento di appagamento quando abbiamo scoperto di aver vinto è stato indescrivibile.”
 
Giorgia mi sorrise e ci portarono il caffè.
 
“Io invece ho finito la scuola e mi sono iscritta all’università, ma sai che sono l’unica ragazza nel mio corso?”
 
“Davvero? E come la stai vivendo?”
 
“Mah, diciamo bene. Le battute all’inizio non sono state facili da affrontare, ma poi ho capito che non mi importa più di tanto, anzi io studio anche per questo, per cambiare questa cosa. “
 
Ma sto parlando con la stessa Giorgia Giraudo che avevo lasciato 3 anni fa?
 
“Sei brava Giorgi.”
 
“Grazie Agata, anche tu sei stata coraggiosa. Emilia mi ha raccontato come hanno reagito i tuoi genitori, mia mamma si era anche offerta di cercarti ma mio padre gliel’ha impedito.”
 
“Anche Giovanni lo sapeva?”
 
“Si, anche lui.”
 
“E come la ha presa?”
 
 
“Beh, all’inizio male, ma più che altro perché non gli avevi detto nulla, poi ha iniziato ad ammirarti. Diceva che eri stata forte, che eri ambiziosa anche se imprudente, però forte.”
 
“Non ho smesso un attimo di pensarlo.”
 
“Anche lui non ha smesso un attimo di pensarti, parlava continuamente di te, anche se mio padre si infastidiva sempre. Non perché ti odiasse, ma era troppo affezionato a tuo padre. Sai che Giovanni mi ha raccontato quella cosa.”
 
“Ah sì?”
 
“Si. Gli ho detto che con me sarebbe stato al sicuro, che non avrei detto niente a nostro padre.”
 
“E adesso dov’è? Come sta?”
 
Giorgia poggiò le mani sul tavolino, poi stese un braccio verso di me e mi prese la mano. Abbassò la testa e prese fiato.
 
“Non sai niente?”
 
“No. Cosa devo sapere?” Giorgia continuava a fissarmi senza darmi una risposta. Sentivo la preoccupazione battermi contro il petto, la gola stava iniziando a bruciarmi ancor prima che lei proferisse parola. Non ero pronta a questo, non ero pronta sentire quelle parole.
 
“Giorgia rispondimi.”
 
“Giovanni…è morto.”
 
Sentii le parole strozzarsi, il fiato mancare e le gambe tremare. Mi gettai con la schiena sullo schienale della sedia, mi poggiai una mano sulla fronte e iniziai a piangere, e Giorgia mi imitò. Mi ricomposi immediatamente visto che avevo attirato l’attenzione di quelle persone sedute intorno a noi.
 
“Come…come è morto?”
 
Giorgia si asciugò le lacrime, bevve il bicchiere d’acqua tutto ad un sorso come si fa con un bicchiere di scotch quando sei a terra, estrasse dalla borsa un’altra sigaretta e con le mani tremolanti cercò di accenderla più volte, fin quando non ci riuscì. Poi cercò di darsi un contegno, e sbuffando il fumo iniziò il racconto mentre in sottofondo la radio suonava “Non dimenticar le mie parole” di Emilio Livi e Trio Lescano.
 
“Mio padre lo aveva costretto a fidanzarsi con una ragazza dell’alta borghesia, se non erro suo padre era il proprietario di una fabbrica. Nadia era bella, simpatica ed anche intelligente, e Giovanni le piaceva, e stava imparando ad amarlo. Ma come anche tu sai, lui non la amava, non poteva amarla. Anche se si sforzava, non ci riusciva.”
 
“Quando è successo?”
 
“Quando eravamo alle Cinque Terre, mio padre li aveva invitati a casa nostra per passar le vacanze. Mio padre e il suo avevano già deciso tutto, quella che sembrava una visita estiva, in realtà era una festa di fidanzamento. Quando tornammo a Torino, Giovanni era venuto a cercarti, ma non ti trovò a casa. Emilia non gli dava retta e penso abbia girato come una trottola tutta la città, fin quando non arrivò la notizia della tua partenza. Era arrabbiato, proprio nel momento in cui lui aveva più bisogno di te, tu non c’eri. Nel novembre 1943, Nadia è diventata la signora Giraudo e il 5 luglio 1944 è nata la mia splendida nipotina Maria, Giovanni è rimasto subito folgorato da quella bambina, era l’unica cosa che lo spingeva ad essere felice di quella vita che il destino gli aveva dato. Ma non è bastato. Il 7 Febbraio del 1945, Giovanni, mio fratello, si è tolto la vita. Era una domenica mattina, Nadia era andata con la bambina a messa e Giovanni lamentava un forte mal di testa e allora restò a casa. Quando Nadia è tornata a casa, lo ha trovato con una corda al collo penzolante nel bagno. Le aveva lasciato una lettera, in cui le raccontava tutta la verità, ma Nadia non lo disse mai a nessuno, solo a me. Se Nadia avesse mostrato una lettera in cui Giovanni le confessava di essere omosessuale, mio padre sarebbe morto dietro di lui e non voleva causare ulteriore dolore alla mia famiglia. Nadia lo ama ancora, nonostante tutto. Mi dispiace tanto di quella ragazza e di quella bambina rimasta per sempre senza un padre.”
 
Rimasi a fissarla per un lasso di tempo sufficientemente lungo, ero senza parole. Questo segreto così intimo di Giovanni, lo aveva portato alla morte. E io, l’unica con la quale riuscisse ad essere sé stesso senza vergogna e senza paura, lo avevo lasciato da solo, proprio quando suo padre stava decidendo le sorti del suo destino. Proprio quando suo padre, anche se inconsapevole, gli stava preparando il letto di morte.
 
“È colpa mia.”
 
“Ma che dici Agata?”
 
“Non lo dovevo abbandonare.”
 
“Agata, non devi colpevolizzarti di niente. Giovanni non sarebbe stato felice a prescindere con Nadia, tu non avresti potuto fare niente per fermarlo. Niente. Lo avrebbe fatto comunque.”
 
“No Giorgia, perché ha preferito morire piuttosto che affrontare la verità?”


“Agata, mio padre lo avrebbe ucciso se avesse scoperto questa cosa.”
 
“Poteva sopportare.”
 
“Lo sai anche tu che era troppo per lui.”
 
“Io devo andare via.” presi la giacca e la borsa e feci per alzarmi.
 
“Aspetta.” Giorgia mi prese un braccio e mi guardò negli occhi “Vuoi incontrare Nadia?”
 
“No, non posso.”
 
“Agata, Giovanni lo vorrebbe.”
 
“E cosa dovrei dirle? “Ciao sono la donna che sapeva tutto dall’inizio e che tuo marito ormai morto ha cercato continuamente”? Questo dovrei dirle? No, Gio mi dispiace.”
 
“Lui le aveva parlato anche di te, lei sa già chi sei, lei anche sperava di poterti rivedere un giorno.”
 
“Ci devo pensare Gio. Adesso, vado, anche io ho un figlio e ha bisogno di sua madre. Ciao.”
 
“Ciao Agata.”
 
E me ne andai da quel bar e mi accesi una sigaretta mentre mi dirigevo verso casa. Perché? Perché stava accadendo adesso? Ora che finalmente avevo riacquistato quella certezza che mi mancava. Non avevo più chiamato Emilia da quando avevo scoperto del bambino e non ero intenzionata ad affrontare un viaggio in Svizzera incinta. Però avevo custodito quel foglietto strappato con il numero di Emilia e la lettera con l’indirizzo di Ginevra che Gennaro aveva chiesto ai suoi genitori e che poi aveva dato a me. Non li avevo utilizzati, però quell’insieme di lettere e numeri non erano stati spostati dal cassetto dove tengo l’intimo, dove ero sicura che nessuno avrebbe messo le mani. Ormai vicino il convento decisi di non fermarmi, ormai c’era una cosa che dovevo fare.
 
Davanti il cimitero mi sentivo inadatta, come se ci fosse qualcosa in me che non andava più bene, che era rotto, anzi distrutto. Come quando mi ritrovai davanti la casa della mia infanzia e della mia adolescenza, mi sentii come se fossi incollata al terreno e facessi fatica a muovermi. Feci l’ultimo tiro dalla terza sigaretta che avevo acceso durante il tragitto e che avevo consumato fino al filtro, come se non volessi sprecare nemmeno un millimetro di quell’involucro di tabacco.
 
“Signorina, le serve aiuto?” Mi si avvicinò un signore anziano, probabilmente doveva essere il custode.
 
“Si, cerco la cappella Giordano.”
 
“Si, venga con me.”
 
Camminavo dietro quell’uomo mezzo zoppo, senza sapere cosa effettivamente stessi facendo lì. L’uomo si accasciò alla base della porta della cappella dove c’era una scatolina, che a sua volta nascondeva una chiave. L’uomo aprì la porta della cappella con quella chiave e mi fece segno di entrare. L’odore nauseabondo delle candele e dei fiori mi fece quasi svenire, la prima cosa che feci fu toccare le tombe dei miei nonni, poi guardando in basso, eccola. La tomba di mio padre.
 
                                  Leone Giordano
                Torino, 11 luglio 1898-Torino, 23 novembre 1943
    Ottimo docente, marito e padre affettuoso, amico sincero.
 
 
Tutti quegli aggettivi che erano stati incollati sulla tomba di mio padre mi risuonavano in testa come delle bugie, come se chi avesse scelto di dargli questo privilegio di essere una brava persona in punto di morte non fosse esattamente come lui. Non mi scese una lacrima, non ci riuscii, ero schifata piuttosto. Ma guardando più giù, trovai quella di mia madre.
 
 
                          Priscilla Ferrero in Giordano
         Bordeaux, 13 aprile 1906- Torino, 30 dicembre 1944
                                   Moglie devota.
 
 
Anche sulla sua tomba mia madre era riuscita a farsi sminuire da mio padre. “Moglie devota”, però d’altronde è la verità. Così devota da togliersi la vita pur di non stare senza di lui.
 
Non riuscii più a sopportare quella pagliacciata che avevano architettato per la morte dei miei genitori, infatti uscii di corsa andando dal signore che mi aveva condotto davanti la cappella della mia famiglia e gli chiesi se mi potesse accompagnare davanti la tomba d Giovanni Giraudo. E lui acconsentì. Tornammo indietro verso l’ingresso del cimitero, e poi proseguimmo per una scalinata che spaccava in due il cimitero, in seguito andammo a sinistra ed eccola lì. La cappella Giraudo. Improvvisamente dei lacrimoni iniziarono a scendermi dagli occhi, ma cercai di contenermi ma appena la vidi, non ce la feci più. Mi accasciai sulla sua tomba come una disperata e piansi senza ritegno come se fossi sola al mondo, come se non avessi più nessuno.
 
                          Giovanni Francesco Giraudo
         Genova, 16 marzo 1922- Torino, 7 febbraio 1945
   Marito fedele, padre premuroso, figlio diligente ed amico gentile
 
Ecco. Questo recitava il suo epitaffio. Nessuno di loro sapeva come fosse effettivamente Giovanni. Giovanni era molto di più di 4 aggettivi indefiniti espressi un pezzo di pietra. Anche se tu non sei più qui con me, posso sentire la tua mano sfiorarmi il viso ed abbracciarmi. Giovanni mio, non meritavi di finire così. Avrei rinunciato alla mia felicità per te, perché ti volevo bene più di quanto ne volessi a me stessa. Avrei rinunciato agli occhi di chiunque pur di poter guardare ancora i tuoi. Se tu fossi ancora qui con me, mi avresti detto di smetterla di piangere, perché io posso continuare a vivere anche senza di te, e io ovviamente non ti avrei mai creduto, ma mi avresti stretta forte e lì avrei capito. Giovanni non mi avrebbe lasciata, neanche da morto.
 
Gli diedi un ultimo saluto prima che il sole iniziasse a scendere su Torino. Mentre mi dirigevo verso casa, mi sentivo ferita come se la vita mi avesse pugnalata alla schiena, come se tutto questo dolore poi alla fine dei conti me lo meritassi, come se mi stesse punendo per qualcosa che inconsciamente avessi fatto. Mi sentivo una discepola di un Dio che non mi voleva più, come se anche il cielo mi avesse rifiutata. Ma ripensando al mio bambino pensai che forse le mie erano preoccupazioni infondate, che in fondo la mia vita qualcosa di bello me lo avesse regalato, che le manine del mio bimbo vanno oltre le ingiustizie del mondo, contro queste inutili guerre. Quando tenevo in braccio il piccolo Michele mi sentivo invincibile, come se mi avessero potuto arrecare tutti i danni che avrebbero voluto, ma non mi avrebbero fatto niente.
 
Andai con calma nel convento ed entrai nella cucina dove avevo sentito le voci di Suor Costanza e Milena, senza neanche guardarle gridai un “ciao” e poggiai la borsa e la giacca sull’appendiabiti.
 
“Ma tu non mi volevi dire nulla del bambino?”
 
Non ebbi il coraggio di voltarmi ed essere sicura di chi avesse parlato. Pensavo che fosse tutto un grande sogno, quasi impossibile e surreale. Quasi come se quella voce me la fossi immaginata. Restai immobile con il volto verso il muro. Sentii il rumore dei tacchi avvicinarsi verso di me, fin quando non vidi una mano affusolata, con unghie placcate di rosa tenue e una fede al dito passarmi davanti gli occhi posare un cappello blu sull’appendiabiti.
 
“Emilia.” Sussurrai.
 
“Girati.” Aveva una voce dura, quasi nervosa.
 
 
Lentamente mi girai, tenendo gli occhi chiusi e quando finalmente ero sicura di aver compiuto un mezzo giro, li aprii. Ed eccola lì che teneva il mio bambino in braccio e mi guardava con il suo solito sguardo interdetto.
 
“Che ci fai qui?”

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Capitolo 10
*** Colpire, non subire. ***


Bologna, 20 settembre 1943
Finalmente anche noi eravamo pronti per andare in montagna per aiutare i compagni che già erano lì. Mi avevano procurato vestiti più adatti, avevo indossato dei pantaloni neri, Crusca aveva detto che erano suoi ed erano molto pesanti, sarebbero andati benissimo per il freddo che avremmo subito in montagna, invece Terùn mi diede un paio delle sue camicie che avrei dovuto indossare nelle giornate più fresche mentre durante il freddo avrei dovuto mettere un maglione bello pesante che per fortuna avevo portato da Torino dato il freddo invernale che avevamo lì, fortunatamente il giaccone che avevo portato andava bene sebbene me lo avessero modificato con dell’imbottitura e delle tasche interne che dovevano servirci per nascondere delle cose. Rossella, invece mi aveva regalato dei calzettoni. L’unica cosa che dovetti comprare furono degli scarponi per affrontare la neve. Alcune cose le lasciammo qui ed altre le portammo con noi, poi ci sarebbe stata Anna, la nostra staffetta che era anche la fidanzata di Crusca, che ci avrebbe portato le cose quando ci sarebbero servite.
 
Crusca aveva distribuito ad ognuno di noi una stella rossa fatta di stoffa e aveva detto che io e Lila le avremmo dovute cucire alle giacche, ma mentre Lila in 10 minuti era capace di cucirne due, io in 10 minuti non ero stata capace neanche di inserire il filo rosso nel buchino dell’ago.
 
“Dammi qua” Lila mi tirò dalle mani l’ago e il filo e in un secondo riuscì ad infilarlo, fare il nodino e me lo restituì.
 
“Grazie.” Tentai di imitare i suoi movimenti, ma mentre lei faceva tutto con una velocità ed una naturalezza incredibile, io non ero capace neanche di tenere in mano l’ago senza farmi male. Quando lei se ne accorse, si avvicinò a me e mise le sue mani sulle mie.
 
“Guarda. Gira il giaccone, prendi la manica e metti la stella qui. Poi, prendi l’ago e tienilo come una penna, con il pollice e l’indice, con l’ago inizi a perforare un angolo qualunque della stella, fino ad arrivare al nodino del filo. Poi giri la manica, e prosegui vicino all’altro che hai fatto ora, poi rigiri la manica e continui così fin quando non hai finito tutto il contorno.”
 
“Grazie. Tu come hai imparato?”
 
“Mia madre.”
 
 
“Mia madre non mi ha mai insegnato una cosa del genere, penso che neanche lei lo sapesse fare.”
 
“Ma da quale pianeta vieni?”
 
“Da Torino.”
 
“Mh, e quando ti si bucava un vestito, chi te lo aggiustava?”
 
“O lo buttavamo oppure la signora Flavia. Era lei che si prendeva cura della casa, della cucina e di noi.”
 
“Ahh, ora ho capito che tipo di persona sei tu, sei una ricca che gioca a fare la povera.”
 
“No.”
 
“Ah no? Guarda che io non so niente di te e tantomeno mi interessa, però sappi che io qui ci sono perché ci credo veramente, perché la mia famiglia ha sofferto, perché la mia città è distrutta, perché mio fratello è stato ammazzato dai fascisti in Spagna, perché io quando ero piccola come ninna nanna avevo “Bandiera rossa”. La mia è politica, non un gioco.”
 
“Io non lo so perché tutti pensiate che io sia ricca. Io provengo da una famiglia come tante altre di Torino, sicuramente mio padre guadagna abbastanza, ma il che non fa di me una brutta persona.”
 
Lila poggiò la giacca, e incrocio le mani portandosele al mento
 
“Ora ti spiego perché sei una brutta persona. Perché per colpa delle persone, che come tuo padre, hanno sostenuto un folle, abbiamo avuto questa guerra. Se i miei fratelli sono stati costretti ad andare a combattere, se mio padre ha dovuto rinunciare a tutto per servire un paese che in realtà non gli stava dando nulla, se io e mia madre siamo state costrette a lavorare come due animali per portare a casa qualcosa, se io ho rinunciato ai miei sogni è anche colpa di tuo padre.” e riprese a cucire quella stella.
 
“Lo so che è anche colpa sua. E ti dirò di più” Lila alzò la testa e ripresi “Mio padre, il suo amico di infanzia e il mio migliore amico erano i più fedeli sostenitori del folle. Ma ora ti faccio riflettere, se io sono qua adesso, secondo te mio padre è felice?”
 
“Non ho detto questo.”
 
“Rispondi. Secondo te mio padre è felice?”
 
“Ma ovviamente no che non lo è. Ma quando, anzi se, torni a casa il tuo papino ti aspetterà, il mio non so nemmeno se tornerà vivo o se tornerò io viva.”
 
“Quando gliel’ho detto, mi ha ammazzata di botte, mi ha costretta a prendere le mie cose e con la complicità della mia famiglia, mi ha sbattuta fuori di casa. Ho passato la notte a casa della mia migliore amica Ginevra che è partita come me, solo che lei e la sua famiglia vengono sfruttate come te e come la tua famiglia. Non sono io la brutta persona, ma mio padre. Ma io questo lo sapevo già.”
 
“Mi dispiace, non potevo sapere tutto questo.”
 
“Non ti preoccupare.”
 
“Alba, perché allora hai scelto di partire?”
 
 
“Perché io ho sempre odiato il fascismo, ho sempre odiato le ingiustizie, ma ora si è arrivati a troppo. Voglio liberare il mio Paese dall’invasore, voglio evitare ancora dispiaceri alla povera gente.”
 
“Ma tu lo sai che puoi rischiare anche la vita?”
 
“Si, lo so. Ma ora non mi spaventa più, preferisco morire che continuare a vivere così. Che vita è questa?”
 
“Non lo so, Alba, non lo so.”
 
“Di dove sei tu?”
 
“Roma. Amo la mia città, ma adesso non la riconosco più.”
 
“La stessa cosa io. Torino mi sembra addormentata.”
 
“Alba, siamo le uniche due donne fra tutti questi uomini, non dobbiamo mai farci calpestare. Mai. Da nessuno. Noi valiamo esattamente quanto ognuno di loro, non saranno un paio di tette a farci sentire diverse, dimostragli che quando vuoi sai essere più coraggiosa di loro e più razionale di loro. Non farti prendere dalle emozioni, mai, ti schiacciano subito. Colpire, non subire. Non te lo dimenticare.”
 
Colpire. Non subire. Sarebbe stato molto complicato, specialmente per i precedenti con Rocco, sebbene potessi tentare di sembrare diversa agli occhi degli altri, e avessi già Lila dalla mia parte, per lui sarei stata sempre quella bambina che lo supplicava di amarla e che aveva paura di sparare. Come avrei potuto dire a Lila che ho paura? Mi avrebbe vista come una debole, non mi avrebbe più parlata e non mi avrebbe più considerata.
 
Quando Crusca ci chiamò per iniziare a salire su quel furgone che era venuto a prenderci, potetti sentire il vento tra le foglie quasi come se volesse raccontare i silenzi che quella sera stava raccogliendo. Improvvisamente, l’eccitazione iniziale si placò e tutti quanti apparimmo terrorizzati ed incerti sul futuro. Rocco aveva fumato 4 sigarette da quando il furgone era arrivato, Terùn aveva la gamba destra che gli tremava e la sinistra che sbatteva contro il fondo del furgone sul quale eravamo seduti, Harlem e Sandokan parlavano tranquilli come se per loro non fosse stata la prima volta, Lupo invece pianse. Era la prima volta che vedevo piangere un uomo, nella mia famiglia avevano sempre detto che un uomo che piange è un uomo debole, un uomo che non merita nemmeno di essere definito un uomo e mi fece un effetto strano. Lila accorgendosi delle lacrime di Lupo, si avvicinò per abbracciarlo e consolarlo.
 
“Ma cosa non capite del non avere coinvolgimenti emotivi fra compagni? Mettetevi in testa che potrebbe morire chiunque; e poi che facciamo? Piangiamo?” Sandokan riuscì immediatamente a rovinare quel bellissimo gesto di Lila. Lui faceva sempre così, ogni qual volta noi parlavamo delle nostre vite private, ridevamo tra di noi o semplicemente se si accorgeva che due persone stavano diventando più unite, come me e Lila, aveva sempre qualcosa da ridire.
 
“Ma tu devi sempre rompere le palle?” rispose Lila non curandosi di essere stata troppo esplicita.
 
“Bella, stai calma, che se voglio ti uccido con le mie stesse mani.”
 
“E provaci.”
 
“Lila, non mi provocare.”
 
“Ti ho detto uccidimi.”
 
Vidi Sandokan torturarsi le mani, stava sfregando le unghie della mano sinistre sulle nocche della mano destra che teneva chiusa in pugno.
 
“Lo vedi? Non hai le palle.”
 
 Lila mi rivolse uno sguardo di complicità, come se volesse farmi capire che lei era capace di distruggerli tutti se solo avesse voluto. Io avrei voluto soltanto che Lila la smettesse di provocarlo, perché era chiaro che Sandokan la avrebbe colpita veramente da lì a qualche istante. Ma per fortuna, si intromise Crusca che era ancora giù dal furgone e aveva aspettato la sua fidanzata Anna che finalmente era arrivata.
 
“Compagni, lei è la mia fidanzata Anna, sarà la staffetta. Cioè lei ci porterà tutto quello che ci serve e noi le daremo quello che deve portare in città. Lei rischia tanto quanto noi, quindi non abusate della sua posizione.” La guardò per un attimo sorridendola.
 
Anna era tenerissima. Portava dei corti capelli biondi, occhi chiari, magra e abbastanza bassina. Insieme erano molto strani, ma sembrava che si amassero tantissimo, si poteva facilmente intendere dagli sguardi che si lanciavano.
 
“Anna, Lila ed Alba si incontreranno ogni settimana, diciamo ogni 10 giorni, in un posto che poi vi dirò e ogni qual volta che ci sposteremo, lei deve sapere dove stiamo andando. Va bene?”
 
Io e Lila facemmo cenno di “sì” con la testa, ma non osammo dire nulla, mentre lei ci sorrideva, Lila mi stringeva la mano e tentammo un sorriso anche noi.
 
“Crusca ma scherzi?” Harlem si intromise nel discorso.
 
“No, perché?”
 
“Sono due femmine. Tra cui una borghesotta.”
 
“Hai detto bene, sono due femmine. Basterà loro fare un po’ le sceme e far finta di sedurre le guardie, per poi colpire quando necessario. Nessuno sospetta delle femmine.”
 
“Possiamo sparare in caso?” Lila azzardò con quella domanda e tutti si girarono verso di lei guardandola in maniera strana.
 
“Dovete sparare.”
 
“Va bene.”
 
Crusca diede un lungo ed appassionato bacio ad Anna ed io guardai istintivamente Rocco che a sua volta mi guardò, poi mi sorrise ma distolse immediatamente lo sguardo.
 
 
Monte Cimone, 30 ottobre 1943
 
Eravamo da più di un mese in montagna, la situazione stava diventando sempre più dura. Per ora eravamo tutti vivi. Io e Lila stavamo diventando sempre più unite, e passando quella mezz’ora a settimana in compagnia di Anna, avevamo scoperto che anche lei era molto simpatica. Lila diceva che Anna sarebbe dovuta partire con noi, che avremmo fatto un fantastico trio.
 
Ancora non avevo sparato. Crusca mi aveva chiesto di preparare una bomba ma Sandokan e Terùn non volevano lasciarmelo fare, perché pensavano non fossi capace. Ma Rocco garantì per me, mi dissero che avrei dovuto preparare una bomba carta e mi spiegarono che la bomba è composta solitamente da un cartoccio in carta da imballaggio, sagomato a cilindro, riempito con polvere da sparo, chiuso ad una estremità e dotato all'altra estremità di una miccia, che fa da innesco e la cui lunghezza regola il ritardo nell'esplosione. Iniziai a prepararla con molta calma, sebbene in cuor mio sapessi che dovevo sbrigarmi, non era come la bomba che avevamo visto fare con Ginevra, questa non la potevamo provare, questa doveva funzionare e basta. Allora, Crusca mi diceva come dovevo muovermi e mi spiegava ogni passaggio passo passo e io contemporaneamente ad ascoltarlo, avevo gli occhi puntati sull’ordigno in preparazione e le mani che tremavano.
 
“Rilassati” Sandokan mi prese dai polsi e mi guardò negli occhi “Devi stare calma, non puoi sbagliare se lo ascolti. Ma se sei agitata fai cazzate. Quindi respira.” Tirai un sospiro e lui cominciò ad allentare la presa dai polsi, e iniziò ad annuire con la testa “Adesso butta indietro la testa e continua a respirare normalmente.” Feci quanto ordinato “Brava. Bravissima. Adesso, immagina di essere sola, ascolta solo la voce di Crusca. Siete solo tu e lui. Prepara la bomba e andiamola a lanciare in quel cazzo di accampamento.” E mi lasciò i polsi.
 
Allora tutti iniziarono a fissarmi e potetti sentire i loro respiri farsi sempre più pesanti. Crusca riprese a spiegarmi tutti i passaggi e man mano che lui andava avanti, la bomba diventava sempre più completa ed io diventavo sempre più veloce. Ero più tranquilla, non sudavo più e il mio respiro era regolare.
 
“Finita.”Urlò Crusca “Dai, ora sei capace di farne altre?”
 
“Si, ci riprovo.”
 
“Va bene dai, compagni, tutti a lavoro. Facciamone più che possiamo.”
 
Tutti avevano iniziato a costruire la propria bomba, e Crusca passava avanti ed indietro tra di noi per controllare che non stessimo commettendo errori. Lila era velocissima e mi convinsi che non fu la prima volta che stava preparando una bomba come quella. Anche Sandokan ed Harlem non ebbero problemi, mentre Terùn e Rocco ero sicura non la avessero mai fatta perché entrambi prima lo avevano detto ma procedettero comunque senza freni, bastò loro guardarla fare a me per capire il meccanismo, mentre io e Lupo ancora andavamo tenuti sotto controllo ma per fortuna non commettemmo nessun errore.
 
Era ora.
 
 
Mettemmo le bombe nelle tasche delle giacche, stando attenti a non farci saltare in aria, ci munimmo di fucili e andammo dove Anna ci aveva detto che i tedeschi si sarebbero accampati per la notte prima di ritornare in città, speravano di attaccarci, ma noi avevamo già pronto il contrattacco. Durante il tragitto, non smettemmo per un attimo di stare con il fucile puntato verso il vuoto, di guardarci le spalle e personalmente non riuscii a smettere di sudare freddo. Stava diventando pericoloso. Avevamo sempre attaccato da lontano, avevamo spedito bombe in città, ma mai così vicini a loro. Mai così vicini da rischiare di morire. Il nostro punto a favore fu la notte, e pensammo che come fosse difficile per noi vedere, lo sarebbe stato anche per loro, e che mentre loro stavano dormendo beati inconsapevoli di quello che gli sarebbe successo, noi li avremmo fatti esplodere, proprio come facemmo a Torino con quell’albergo pieno di tedeschi.
 
 Dopo una lunga camminata, eravamo arrivati all’accampamento. Nessuno a sorvegliare. Mi parse immediatamente strano, e d’istinto mi avvicinai per controllare meglio ma proprio mentre mi stavo avvicinando all’accampamento, Rocco riuscì ad afferrarmi dalla giacca e mi tirò verso di loro.
 
“Ma sei impazzita?”
 
 
“Non c’è nessuno come guardia. Non mi sembra normale.”
 
“Ma che dici?”
 
“Rocco...”
 
“Shh, non mi chiamare così.”
 
“Molotov, non c’è nessuno a sorvegliare, mi sembra strano, non vorrei che avessero preparato tutto per fotterci.”
 
“Come dici?” Crusca si avvicinò a noi.
 
“Non c’è nessuno a sorvegliare, è strano. Chiunque metterebbe almeno un uomo a sorvegliare l’accampamento, anche noi ne teniamo due a turno. Sarebbe da idioti non farlo, secondo me stanno cercando di fotterci.”
 
“Alba ha ragione. Non vorrei che lo sanno.” Sandokan si intromise, per la prima volta mi stava dando ragione.
 
 
“Compagni, loro non ci aspettano. Non possono saperlo, se lo avessero scoperto avrebbero potuto saperlo solo torturando Anna ed Anna è viva e vegeta. E in ogni caso non avrebbe parlato.” Crusca cercò di calmarci.
 
“E tu ne sei sicuro che la tua donna non abbia parlato?” Terùn tentò di dirlo, ma Crusca lo afferrò per il colletto della camicia, scuotendolo, ma per fortuna riuscimmo a staccarli.
 
“Io mi fido di Anna. Alba, hai fatto un buon ragionamento, ma non allontanarti più da sola e non è questo il caso in cui vale il tuo ragionamento, perché non ci sta fottendo nessuno, fidatevi di me come io mi fido di Anna. Loro non lo sanno che noi siamo qui e non sanno che noi sappiamo che domani avrebbero attaccato noi ed è proprio per questo che dormono tutti come ghiri. Conosciamo le loro mosse, se nessuno tradisce, siamo tranquilli.”
 
Cercammo di stare più tranquilli, Lila mi prese la mano e mi disse “Andiamo” sottovoce, quasi come se mi stesse raccontando un segreto che nessuno poteva sentire.
 
Estraemmo tutte bombe dalle giacche, mentre Lupo e Rocco facevano da guardia con i fucili puntati verso il nulla. Lila ed Harlem, ne presero un paio e prepararono gli accendini per accenderli, dopo di che iniziarono a camminare velocemente verso l’accampamento, a seguirli ci fummo io e Terùn, con altre 4 bombe. Lila prese l’accendino e accese la miccia, si alzò in piedi e la lanciò più in lontano che potette, in una velocità indescrivibile, noi la imitammo. Nel giro di pochi secondi avevamo finito le bombe che avevamo portato nei paraggi dell’accampamento e Harlem ci urlò di correre veloci verso gli altri che erano più distanti ed aspettare l’esplosione, che cominciassimo a vedersi le prime fiamme e rifare lo stesso da capo. Improvvisamente, mentre stavo correndo veloce per evitare di essere coinvolta nell’incendio, sentii un boato, e istintivamente mi voltai ma Lila mi tirò e mi urlò di continuare a correre e così feci. Poi lo scoppio, un caldo pervase tutta l’aerea e cademmo a terra, fortunatamente abbastanza lontani dall’accampamento ma nemmeno troppo vicini agli altri. L’incendio divampò. Missione compiuta. Ancora a terra guardavo le fiamme che si facevano sempre più alte. Ero soddisfatta. Lila mi diede un braccio per aiutarmi ad alzarmi e tornammo dagli altri.
 
“Bravi compagni.” Crusca ci diede una pacca sulla spalla a tutti e nel buio più totale cercammo il posto che avevamo detto ad Anna e quando finalmente lo trovammo, Crusca ritenne fosse meglio spostarci un po’ più interni al bosco perché lì eravamo troppo esposti.
 
 Quando trovammo il nostro posto, poggiammo le nostre cose, ed iniziammo a preparare un fuoco dato il freddo. Una volta che la fiammella era diventata un grande fuoco gli altri si misero comodi. Quella notte toccava a me e Lila fare le guardie, ma Lila aveva la temperatura un po’ alta e diceva che non se la sentiva proprio a passare la notte sveglia.
 
“Ma fammi sentire se sei calda.” Sandokan decise di controllare se stesse mentendo o meno.
 
“Non ti fidi?”
 
“No.”
 
Sandokan le passò il dorso della mano sulla fronte, sulle guance e sotto il mento, poi riprovò con le labbra, sempre sulla fronte, sulle guance e sotto il mento. Sandokan diceva che le labbra mantengono sempre la nostra temperatura, a differenza delle mani che potrebbero essere troppo fredde o troppo calde.
 
“Si, scotta davvero.”
 
“Cazzo.” Crusca imprecò, e lo fece di nuovo, e di nuovo. Potetti sentirlo bestemmiare ed imprecare almeno per 5 minuti buoni. Riuscii a comprendere la sua disperazione, se fosse stata male chi la avrebbe curata? E anche se Anna avesse portato le medicine ci sarebbe voluto troppo tempo, e non poteva lasciarla là a morire, qualcuno doveva rimanere con lei, ma sarebbe stato troppo rischioso.
 
“Per stanotte posso badare io a lei.” Rocco cercò di rendersi utile, sebbene io sapessi che lui non aveva nessuna conoscenza in campo medico. Probabilmente voleva soltanto provarci con lei.
 
“Va bene, fai come vuoi.” Crusca era troppo preoccupato per pensare a chi volesse giocare a fare il medico di Lila.
 
“Si e chi fa da guardia?” Sandokan risollevò il problema.
 
“Lo farà da sola Alba.”
 
“Ma tu devi essere completamente folle. Vuoi farci ammazzare tutti?” Sandokan si sollevò in piedi andando verso la direzione di Crusca “Ma hai capito di chi stai parlando?”
 
 
“Senti Sandokan, non me ne frega niente di chi fa la guardia stanotte.”
 
“Ma come cazzo ragioni? Non ha mica il colera, non ha niente, ha solo una febbre, non sta morendo. Non ha senso che ti disperi.”
 
“Senti, fallo tu visto che stai rompendo le palle.”
 
“Io?”
 
“Si fallo tu. Su forza.”
 
Sandokan prese il fucile da terra senza smettere di guardare male Crusca, che sembrava non curarsi delle brutte occhiate di Sandokan, lui voleva solo assicurarsi che nessuno si sentisse male ancora.
 
Io e Sandokan ci sedemmo vicini a loro, ma abbastanza lontani da avere tutto il campo libero. Dormivano tutti. Eccetto Lila che si lamentava, Rocco cercava di aiutarla e ovviamente noi due che stavamo facendo da guardia.
 
Sandokan non mi aveva parlata da quando avevamo iniziato a controllare, non mi aveva nemmeno degnata di uno sguardo. Trovava più interessante giocare con un sasso.
 
“Grazie.”
 
Lui fece finta di non sentirmi continuando a muovere quel sasso avanti ed indietro.
 
“Grazie.”
 
Questa volta mi guardò, ma tornò immediatamente a giocare con il sasso.
 
“Ho detto grazie.”
 
“Ho capito. Ma se non ti rispondo vuol dire che non ti voglio rispondere.”
 
“Ma perché mi odi?”
 
“Io non odio nessuno, se non i fascisti e i padroni.”
 
“Tu mi odi.”
 
“Ma se nemmeno ti conosco come faccio ad odiarti. Molto semplicemente, a me di te non me ne frega niente.”
 
“E perché?”
 
“Hai rotto il cazzo.”
 
“Perché non te ne frega niente di me?”
 
“Ma perché non me ne frega niente di nessuno di voi. Io prima di questo momento, non sapevo nemmeno della vostra esistenza, perché adesso dovrebbe interessarmi di voi?”
 
“Perché ora siamo uniti da qualcosa.”
 
“No non siamo uniti da niente.”
 
“Invece sì. Questa non è la mia battaglia o la tua. Ma la nostra.”
 
Mi guardò, poi si stese sulla roccia sulla quale era seduto e mise le braccia incrociate dietro il collo. Avevo capito che non aveva nessuna intenzione di parlare, quindi mi poggiai alla mia roccia continuando ad osservare il nulla.
 
“Non voglio affezionarmi a nessuno di voi.” Aveva parlato. Mi aveva rivolto la parola finalmente.
 
“Perché?”
 
“Perché potremmo morire anche fra 5  minuti. Immagina. Ora tu e Lila non siete più compagne, ma siete amiche. Se domani Lila venisse rapita, torturata o direttamente uccisa. Tu come staresti?”
 
“Male, mi sembra ovvio.”
 
“Appunto. Io non voglio stare più male a causa di fascisti o tedeschi, insomma di quelle merde, quindi evito direttamente di crearmi dei rapporti. Inutili, tra l’altro.”
 
 
“Ma io starei male per ognuno di voi. Anche per te, e io e te non siamo niente.”
 
“Perché sei troppo emotiva. Devi solo essere più cinica.”
 
“Perché sei qui?”
 
“Tu perché sei qui?”
 
“Perché voglio che il mio paese venga liberato dal nemico.”
 
“Come tutti.”
 
“Lila ha motivi più personali.”
 
“Che non voglio sapere.”
 
“Non te li avrei detti.”
 
Lo sentii ridere e nonostante non lo stessi più guardando, mi sentii i suoi occhi addosso. Poi si tirò su e si avvicinò a me.
 
“Mio padre è morto in guerra. Mio fratello lo hanno ammazzato durante uno sciopero. Mia sorella è stata stuprata dai fascisti e poi annegata. Mia madre si è puntata una pistola alla tempia perché non riusciva più a reggere questo dolore.” Ma stava veramente parlando con me? “Ero rimasto da solo. Non avevo più nessuno. Allora ho fatto una scelta. Ho lasciato l’università e mi sono detto ‘prima che ammazzano pure me, vediamo se riesco ad ammazzarli prima io’. Mi sono messo in contatto con dei ragazzi del partito comunista e sono riuscito a partire.”
 
“Mi dispiace.”
 
“Io sono qui perché voglio che le famiglie di questi bastardi, passino un minimo di quello che ho dovuto subire io. Un minimo.”
 
Non sapevo cosa rispondergli. Di fronte ad una confessione così forte cosa avrei dovuto dirgli? Quello che è successo a me è una sciocchezza a confronto. Mi sentii piccolissima, non potevo immaginare che mentre io mi lamentavo di quelle sciocchezze o mentre vivevo una vita, tutto sommato, serena, c’era chi veramente stava passando un Inferno. Già per me Ginevra era il peggio che una persona potesse passare. Ginevra quanto mi mancava, chissà lei cosa stava facendo.
 
“Ma ora fai conto che non ti ho detto nulla.”
 
“A volte fa bene parlare. Buttare tutto fuori.”
 
“No, ti ho solo intenerito e ora se muoio ci stai male.”
 
Mi venne immediatamente da ridere, e anche lui mi seguii ridendo.
 
“Giuro solennemente che se dovessi morire, non piangerò per te.”
 
“Non so come stia facendo a scherzare sulla morte.”
 
“Perché quando la vivi davvero non ti sembra più qualcosa di lontano, ma la senti sempre più vicina e quindi cerchi di allontanarla in qualche modo. Ecco cos’è che lega tutti noi.”
 
“Che cosa?”
 
“La morte.”
 
Ci guardammo a lungo negli occhi, e io lentamente provai ad avvicinare il mio viso verso il suo, lui non cambiò la sua espressione quindi pensai che anche lui non stesse aspettando altro che un mio bacio. Volevo baciarlo. E visto che lui continuava a rimanere fermo lì, lo avrei fatto io. Eccoci qui, riesco a sentire il suo respiro sempre più vicino. I nostri nasi si toccano. Gli metto una mano sul collo e mi avvicino di quei pochi centimetri che dividono le nostre bocche, quando lui mi afferrò le guance stringendole con le mani e spingendomi verso dietro.
 
“Ma che cazzo fai?”
 
“Scu…scusa.”
 
“Lo vedi. Troppo coinvolgimento emotivo. Vedi di stare lì. Che è meglio.”
 
“Scusami.”
 
“Se hai bisogno della museruola, dillo ad Anna che vede se te la può portare.”
 
Ed andò a posarsi sulla sua roccia. In quel momento mi vennero in mente le parole di Lila. Colpire, non subire. Mi alzai e gli puntai il dito contro.
 
“Senti, io non so che tipo di problemi tu possa avere. Ma questo non ti giustifica nel trattarmi male, o trattare male chiunque. Se hai qualche rabbia repressa vedi di sfogarla in qualche modo. La scusa dell’orfanello non ti farà guadagnare punti in fatto di comprensione, qui ognuno di noi ha un problema diverso ed una preoccupazione diversa. Ognuno di noi vorrebbe solo essere a casa con chi più ama, nessuno sta giocando. Nessuno. Quindi smettila con questo atteggiamento.” Presi il fucile e glielo puntai contro “O il primo che sparerò sarai tu.”
 
“Non fare la pazza e posa questo fucile.”
 
“Che fai? Hai paura?”
 
“Posalo.”
 
“Non prendo ordini da te.”
 
“Spara allora.”
 
Caricai e glielo puntai sul petto.
 
“Non fare cazzate.”
 
“E tu non fare lo stronzo.”
 
“Non farò lo stronzo. Ma ora posa questo fucile.”
 
Misi il fucile dove era prima e me ne andai alla mia roccia, sorridendo. Potevo ancora leggere la paura nei suoi occhi. Non avrei mai sparato. Non avrei mai avuto il coraggio di sparare ad un compagno, ma questo lui non lo sapeva.
 
Alba 1-Sandokan 0.

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Capitolo 11
*** A senso unico. ***


Torino, 5 gennaio 1945
 
“Emilia.” Sussurrai.
 
“Girati.” Aveva una voce dura, quasi nervosa.
 
Lentamente mi girai, tenendo gli occhi chiusi e quando finalmente ero sicura di aver compiuto un mezzo giro, li aprii. Ed eccola lì che teneva il mio bambino in braccio e mi guardava con il suo solito sguardo interdetto.
 
“Che ci fai qui?”
 
“Non sei contenta di vedermi?”
 
“Ti ho fatto una domanda.”
 
“La chiamai io.” Milena si intromise nella nostra conversazione. Raccontò di come cercando delle mutande pulite nel mio cassetto trovò il numero di Emilia e si ricordò del giorno in cui eravamo andate nella nostra vecchia casa nella speranza di trovarla lì. Spiegò che non voleva più vedermi triste, quindi pensò che fosse giusto riunirci, e che se non lo avessi fatto io entro un tot di tempo, lo avrebbe fatto lei. E così fu.
 
Non riuscii ad arrabbiarmi con Milena, alla fine lei lo aveva fatto solo per il mio bene, ma la presenza di Emilia lì, mi metteva una specie di pressione. Adesso con i capelli pettinati come una gran signora, truccata lievemente quasi come se non volesse scomparire sotto veli di cipria, e uno splendido completo di giacca e gonna pastello, mi guardava come se fossi un’estranea.
 
“Andiamo in giardino.” Le presi la mano e la portai fuori. Se avesse voluto farmi la predica, non volevo che mi facesse apparire come una decerebrata davanti a Milena e Suor Costanza.
 
Ci sedemmo sulla solita panchina. Lei si sedette con una delicatezza immane, incrociando le gambe una sopra l’altra e le mani intrecciate sulle cosce. Si guardava intorno come se fosse in un luogo sconosciuto, come se fosse su un altro pianeta. Poi guardò me con un’aria strana, come se anche io le sembrassi sconosciuta, come se anche io provenissi da un altro pianeta. Stanca del suo sguardo omicida, estratti una sigaretta dal pacchetto e la accesi.
 
“Che fai? Oltre ad indossare i pantaloni, adesso fumi pure?” Ecco qua. Aveva lanciato il suo disappunto come si fa con un sassolino messo in una fionda.
 
“Sì. E devo ammettere che mi piace. I pantaloni sono molto comodi e le sigarette mi fanno stare bene.”
 
“Contenta tu.”
 
“Mi dispiace Emi.”
 
Mi guardò a lungo, poi si mise i capelli dietro le orecchie facendo vedere i lunghi orecchini che indossava. Mi prese una mano e la strinse.
 
“Ti ho cercata ovunque. Speravo di poterti fermare, di poterti riportare a casa, e di convincere papà a perdonarti.”
 
“Ora sono qui.”
 
“Ora è tardi Agata. Papà era malato ancor prima che tu partissi.  Tumore. Non aveva detto niente a nessuno, nemmeno al Signor Giraudo. Ha rifiutato le cure mediche, ha lasciato che la malattia se lo mangiasse, finché non è morto.”
 
 “Sono stata al cimitero prima. Ho visto le tombe di entrambi.”
 
“Ho cercato di stare il più vicina possibile alla mamma, ma tu lo sai com’era lei. Non si è mai fatta aiutare, aveva iniziato a fare cose strane, io e Flavia eravamo esasperate. Poi la tragedia è avvenuta nella notte.”
 
“Non ti devi colpevolizzare di nulla Emilia. Sono stata anche sulla tomba di Giovanni.”
 
“Oddio. Se il funerale di mamma e papà è stato tragico. Quello di Giovanni è stato 10 volte peggio, avresti dovuto vedere Giorgia e la signora Margherita, erano disperate. Per non parlare della vedova e di quella povera creatura. Un’ immagine che non riesco a rimuovere.”
 
“Non potrò mai perdonarmi di non essere stata accanto a lui, e soprattutto di essermi persa il funerale. Ma basta parlare di questo dimmi di te.”
 
“Cosa vuoi che ti dica? Il ragazzino della biblioteca poi è diventato un uomo, era stanco di dover fare le cose di nascosto, e poco prima che papà morisse gli chiese la mia mano. Ma fece le cose per bene, prima di andare da papà, eravamo in un salone in centro che ballavamo sulle note di “Tu, solamente tu” di Alfredo Clerici e mi sussurrò all’orecchio “Emilia Giordano sei la donna più bella del mondo intero” poi si inginocchiò e mi fece la proposta, e ovviamente accettai. Anche papà era felice, aveva una buona famiglia, un buon lavoro, e allora ci sposammo e quasi subito rimasi incinta e poi nacque la piccola Lisa. Lui ebbe una proposta di lavoro in Francia, a Lione, e andammo.”
 
“Hai rinunciato agli studi quindi?”
 
“Agata, sono una donna alla fine dei conti. Non fa niente, io bene o male l’uomo l’ho trovato, pensa a quelle poverette, come la tua amica terrona, che sono sole e senza niente.”
 
“Eh già.”
 
“E tuo marito? E il piccolo Michele? Dai raccontami anche tu.”
 
“Niente di che. Non è stato semplice affrontare il freddo, la fame. Ho imparato a sparare, ho ucciso per sopravvivere e come vedi ho iniziato a fumare.”
 
“Ma no, meno so di questa storia e meglio è. Intendo dov’è ora tuo marito, il papà di Michele.”
 
“Emilia, io non sono sposata.”
 
Emilia mi prese immediatamente entrambe le mani e rendendosi conto che non avessi la fede, si mise una mano sugli occhi come quando appena sveglio cerchi di riprenderti dal sonno. Poi mi riguardò, come per essere sicura che non stesse sognando. E successivamente mi guardò con uno sguardo malinconico come per dire “poverina la mia sorellina”.
 
“E allora Michele di chi è?”
 
“Michele è figlio di un ragazzo che era con me in montagna, quando sono partita, eravamo entrambi partigiani ed eravamo entrambi in brigata.”
 
“E dove sarebbe questo mascalzone ora?”
 
“Il mascalzone è morto.”
 
“Cosa?” Emilia si portò una mano alla bocca, come se volesse rimangiarsi tutto quello che aveva detto.
 
“Lo hanno ucciso i tedeschi, poco prima che finisse tutto tra le altre cose.”
 
“Tesoro mio, mi dispiace tantissimo.”
 
“Fa niente. Adesso sto bene, mio figlio riesce a farmi stare bene anche solo guardandomi.”
 
Emilia mi sorrise : “So cosa si prova. Certo è difficile crescere un figlio da sole, ma è pur sempre una gioia.”
 
“Quando parti?”
 
“Domani stesso, è stata giusto una visita.”
 
“Magari lasciami un indirizzo che quando non ho esami all’università e so a chi lasciare Michele, vengo a trovarti per qualche giorno.”
 
“Agata, in realtà sono venuta anche per farti una proposta.”
 
“Dimmi.”
 
“Perché non vieni a stare da me in Francia? Lì si vive molto meglio di qui, in fondo tu il francese lo conosci. Potrai continuare l’università lì, Michele andrebbe nelle migliori scuole. Puoi iniziare una vita migliore.”
 
“Ma io qui vivo bene.”
 
“Agata.” Mi accarezzò i capelli “Ma che vita è questa? Una vita di stenti, una vita a penzoloni, una vita che ti è stata spezzata a metà. Puoi dimenticare il peggio, puoi evitare di vivere con una suora e una mezza prostituta e puoi venire a vivere con me, puoi iniziare una nuova vita.”
 
“Emilia, io apprezzo il tuo interesse nei miei riguardi. Ma io qui sto bene, il tempo di finire l’università e inizio a sistemarmi per conto mio.”
 
“Fai come meglio credi. Non è mai stato semplice convincerti. Ma adesso non ragionare per orgoglio, pensaci bene, potrebbe essere una grande opportunità. La Francia è molto diversa da questa Italia rotta Agata. Io lì posso votare, ma ti rendi conto?”
 
“Lo so Emi, lo so.”
 
“Adesso io devo raggiungere il mio albergo, domani mattina ci vediamo?”
 
“Si, certo.”
 
E se ne andò. Ancora una volta mia sorella era riuscita a farmi sentire come qualcosa che valesse poco. Ancora una volta aveva sbandierato le sue incredibili novità e voleva che elemosinassi aiuto da lei. In fondo, Emilia non è mai stata troppo diversa da mio padre. Però le volevo bene, era riuscita a crearsi una bella famiglia, aveva trovato un buon marito. Ma in una società ancora troppo ferma alle radici che i nostri antenati avevano piantato bene nel terreno, le donne nuove venivano plasmate a piacimento dagli uomini che ruotavano intorno a loro. I tratti femminili e la delicatezza di un viso lucente, venivano nascoste dalle peculiarità tipiche di un uomo, iniziavano a mettere nelle loro teste idee che non appartenevano loro. Diventavano tutte quante delle bamboline manovrate dagli uomini, come se ogni mattina il marito, il padre, il fratello consegnasse loro un copione pieno di battute da imparare a memoria. Era come una propaganda del genere maschile veicolata mediante le voci dolci delle donne.
 
Sebbene, qualche donna avesse già intuito questo senso di prigionia che gli uomini creavano e avevano deciso di staccarsi anche a costo di rimanere sole, erano ancora moltissime quelle che rimanevano bloccate nella gabbia del maschilismo e del patriarcato. Emilia era una di quelle, aveva subito così tanto le parole di mio padre, tanto da farle diventare proprie. Per questo io ammiravo Ginevra, Rossella ed adesso ammiro Milena. Perché loro tre erano tre donne nuove, tre donne che avevano avuto il coraggio di dire no, anche a costo di rinunciare a qualcosa ma per aspirare a qualcosa di più grande.
 
Il mattino seguente trascorsi poche ore con Emilia prima di accompagnarla alla stazione del treno, quella stessa stazione dalla quale io ero partita e tornata, e dove lei aveva fatto il biglietto di sola andata.
 
“Promettimi che ci penserai seriamente Agata.”
 
“Si, te lo prometto. Ma nel frattempo dammi il tuo indirizzo così verrò a trovarti.”
 
Prese un pezzo di carta e scrisse il suo indirizzo.
 
“Ecco qua. Rue St. Jean n°38, non puoi sbagliare perché di fianco il nostro palazzo c’è La maison de Chamanier, ed è ancora tutta in stile gotico, l’unica.”
 
“Va bene, me ne ricorderò.”
 
“Vieni qui. Abbracciami.”
 
Ci tenemmo strette in un abbraccio per molto tempo, dovevamo darci tutti quegli abbracci che non avevamo potuto darci in tutto quel periodo. In fondo, Emilia mi era mancata tantissimo e nonostante fossi stata io a lamentarmi della sua assenza e avessi scelto di cercarla, era stata lei a venire da me per prima. Ancora una volta Emilia era un passo avanti a me, ma adesso necessitavo io di stare un passo avanti a lei, un passo avanti a tutto. Le avrei dimostrato che la sua sorellina adesso è diventata una donna, le avrei dimostrato che nonostante non avessi un uomo al mio fianco sarei stata capace di provvedere a me stessa e a mio figlio comunque, le avrei dimostrato che la laurea servisse a qualcosa, specialmente in un mondo in cui l’istruzione fosse ancora in mano degli uomini, e di pochissime donne.
 
“Io vado, altrimenti perdo il treno.”
 
“Buon viaggio e telefona appena arrivi.”
 
“Certo. Ciao sorellina.”
 
“Ciao Emilia.”
 
 
Torino, 7 febbraio 1946
 
 
Oggi è passato un anno esatto dalla morte di Giovanni. E allora decisi di recarmi presso la dimora Giraudo per dimostrare che nonostante tutto il male che indirettamente avessi potuto causare a Giovanni, io gli volevo un gran bene, che il suo ricordo non si spegnerà mai dentro di me. Indossai un vestito nero, scelsi di optare per un vestito piuttosto che per i pantaloni per evitare che il Signor Giraudo commentasse il mio abbigliamento poco ortodosso, perché anche se non ero tenuta a considerarlo, io dovevo tener conto anche del giudizio del signor Mario. Presi la carrozzina e misi dentro mio figlio e uscii dal convento, che ormai era la mia casa.
 
Nel frattempo avevo dato il mio primo esame in università e nonostante avessi studiato da sola, riuscii comunque a passarlo con discreti risultati. Ero comunque soddisfatta del mio andamento fino a quel momento, ma in generale ero soddisfatta della mia vita, seppur ordinaria. La mattina mi occupavo del bambino di Milena e lo accompagnavo a scuola, preparavo mio figlio, cucinavo il pranzo con Suor Costanza, nel pomeriggio mi dedicavo ai miei studi e successivamente insieme a Milena ci occupavamo della cena, durante la sera Milena studiava le sue cose ed io leggevo qualche libro o ascoltavo qualcosa alla radio, talvolta andavamo alle riunioni del partito con Rocco e Gennaro, non mi ero mai staccata veramente dall’idea, sentivo necessario che continuassi a fare propaganda, specialmente ora che stavamo ricevendo molti consensi. Anche in università le idee politiche stavano iniziando a spostarsi dall’altro lato, e non mi sentivo più sola.
 
Davanti casa Giraudo esitai per un momento prima di bussare, poi presi coraggio e lo feci. Ad aprirmi per fortuna fu Giorgia che mi accolse con uno splendido sorriso.
 
“Agata, vieni qua.” Mi tirò verso di lei per abbracciarmi.  “Come stai?”
 
“Bene, tu?”
 
“Eh insomma, oggi non è una giornata semplice.”
 
“Lo so, sono venuta di proposito oggi in modo tale da dimostrare alla tua famiglia che io sono comunque vicina a voi.”
 
“Entra.” Mi fece entrare in casa e rimasi incredibilmente stupita, la casa era rimasta tale e quale a quando io avevo abbandonato la città.  “Mamma, vieni, guarda chi c’è.”
 
Sentii il rumore dei tacchi della signora Margherita farsi sempre più vicino a noi, d’improvviso sbucò dalla porta del corridoio e nel vedermi rimase così basita che il vaso che teneva tra le mani, le cadde diritto a terra, rompendosi in mille pezzi. Istintivamente mi chinai a raccogliere i cocci prima che qualcuno potesse farsi male mentre Giorgia cercava di calmare Michele che iniziò a piangere spaventato dal rumore del vaso che si spaccava a terra. La signora Margherita rimase ferma a fissarmi e quando mi sollevai per posare i cocci sul tavolino dove era posizionata la radio, lei mi strinse forte.
 
“Agata non sei morta. Agata non sei morta. Agata non sei morta.”
 
“No, Signora Margherita, non sono morta.”
 
Si staccò, tenendo le mani sulle mie spalle e mi sorrise. Iniziò a guardarmi il viso e le mani.
 
“Vieni, siediti. Raccontami.”
 
“Mamma è tardi, dovremmo andare in Chiesa.” Giorgia fermò l’entusiasmo della Signora Margherita per ricordarle che comunque quel giorno era l’anniversario della morte di suo figlio, infatti lo sguardo della Signora Margherita si incupì immediatamente. Poi mi prese la mano.
 
“Tu vieni?”
 
“Non lo so. Ho anche il bambino. Poi c’è suo marito, non vorrei essere sconveniente.”
 
“Ma che dici, anzi sarà molto felice di vederti. “  Poi andò a chiamare suo marito che si stava ancora preparando, mentre io notai immediatamente che sul tavolino accanto al divano erano poggiate delle foto incorniciate. Mi avvicinai e ne presi una : una foto di famiglia. La felicità nei volti di ognuno di loro era vera, era sincera. Ne presi un’altra : Giorgia e Giovanni da bambini. Si abbracciavano, anche il loro affetto era vero, sebbene la differenza di età, il loro legame era indistruttibile. Ne presi un’altra ancora : Giovanni nel giardino della casa al mare. Era splendido, lui sull’amaca con la sigaretta in bocca e un libro in mano, un classico di Giovanni. Poi la foto che stavo cercando : Giovanni e Nadia al loro matrimonio. Lei era veramente bella come aveva detto Giorgia e lui era veramente infelice come aveva detto Giorgia. Mano nella mano, lei sorridente, si poteva quasi leggere l’agitazione di quel giorno nei suoi occhi e lui con le labbra serrate, gli occhi spenti ed annoiati. Quasi come se le stesse facendo un favore.
 
“Quella lì è la mia nipotina, è la piccola Maria.” Mi si avvicinò immediatamente Giorgia che teneva ancora in braccio Michele “Le somiglia molto, vero?”
 
“Si.”
 
Improvvisamente, i coniugi Giraudo varcarono la soglia del soggiorno dove io, Giorgia e Michele eravamo. Nel vedermi il signor Mario non potette nascondere un’ espressione scioccata, ma a differenza della moglie che teneva un’espressione quanto meno sorpresa ma felice nel vedermi lì, lui era solo infastidito.
 
“Si ricorda di me signor Mario?”
 
“E come dimenticare la piccola Giordano.”
 
Si avvicinò a me e io istintivamente tentai di abbracciarlo, ma lui si limitò ad allungare la mano, forse era anche troppo e io gliela strinsi.
 
“Quello è tuo figlio?”
 
“Si.”
 
Diede una carezza sulla testa al piccolo Michele.
 
“Spero che almeno gli hai dato il nome di tuo padre.”
 
Eccoci qua.
 
“No, ho preferito un altro nome.”
 
“Non sarebbe stata questione di preferenza avresti dovuto soltanto fare quello che si doveva. Per rispetto.”
 
“Rispetto?”
 
“Si, rispetto.”
 
“Perché mio padre è stato rispettoso nei miei confronti quando mi ha sbattuta fuori di casa come una ladra?”
 
“Agata.” La signora Margherita mi richiamò come per avvertirmi di smetterla. Ma avevo appena iniziato.
 
“Tuo padre non ti ha fatto mai mancare niente. Tu ti sei approfittata della sua gentilezza e ci hai giocato sopra, sei stata una sconsiderata, questo sei stata. Dovevi solo fare la brava figlia, ma quanto pare ti è venuto fin troppo difficile.”
 
“Io la brava figlia l’ho fatta per troppo tempo.”
 
“Non si smette mai di essere bravi figli. Mai. Abbi almeno un po’ di rispetto per i tuoi genitori che Dio ha scelto di portare con sé.”
 
“Ma che sta dicendo signor Mario?”
 
“Va bene. Ci incontriamo in Chiesa, io e Agata andiamo a piedi.” Giorgia mise Michele nella carrozzina e tentò di smorzare quell’aria di disagio che io e il signor Mario avevamo creato.
 
 
“Perché anche questa qui viene alla commemorazione di mio figlio?”
 
“Si. Vengo anche io. Mi spiace se lei mi detesta, ma suo figlio mi voleva bene e io altrettanto. Quindi non vedo dove sia il problema. Giorgia andiamo.”
 
“Giorgia non muoverti.” Il padre le ordinò di fermarsi, e lei anche se tentata di seguirmi, temeva la reazione di suo padre.
 
Nel frattempo la signora Margherita terrorizzata, si era posata sul divano ma anche abbastanza vicina al telefono, forse per chiamare aiuto in caso la situazione si fosse fatta pericolosa.
 
 “Sentimi bene cara Agata. Io non so con chi pensi di parlare, ma se tu oserai mettere un piede in quella Chiesa, io ti rovino. Capito?”
 
“Ci provi.”
 
“Adesso basta.” Urlò la signora Margherita scattando in piedi. “Agata, non rispondere così ad una persona adulta, il rispetto è la prima cosa importante.” Poi puntò un dito contro il marito “E tu, non puoi impedire ad Agata di venire in Chiesa, perché Agata e Giovanni sono stati grandissimi amici, Giovanni le voleva bene quasi quanto ne volesse a sua sorella Giorgia. Permettile di piangere nostro figlio in maniera decorosa.” Poi andò di fianco alla figlia “Se Giovanni fosse ancora qui sarebbe deluso da entrambi.” E andò nell’altra stanza.
 
Il signor Mario prese un bicchiere dal carrellino degli alcolici e lo lanciò contro il muro rompendolo. Poi si diresse verso la stanza in cui si era rintanata sua moglie.
 
“Andiamo?” Giorgia mi invitò a seguirla ed uscimmo di casa dirigendoci verso la Chiesa.
 
“Mio padre non è cattivo e non ti odia. Lui è fatto così, ci tiene agli affetti e non accetta che una persona lasci la sua famiglia così, ma non può comprendere la tua scelta perché lui crede in idee diverse dalle tue.”
 
Non la risposi, non avevo voglia di sprecare fiato inutilmente. Lei avrebbe difeso suo padre a priori, come era giusto che fosse.
 
Arrivate in Chiesa, io mi misi alle ultime panche e lei si diresse verso le prime. La messa proseguì normalmente, ma non iniziò fin quando non arrivarono Mario e Margherita. Una volta usciti sperai che nessuno mi riconoscesse o mi fermasse, ma proprio mentre stavo andando via , sentii una mano posarsi sulla mia spalla.  Era una donna, più o meno della mia età, che teneva in braccio una bambina che poteva avere massimo un anno e mezzo.
 
“Ci conosciamo?”
 
Prima che lei parlasse, la bambina si girò e vidi i suoi occhi. Gli occhi di Giovanni. Era Nadia.
 
“No, io sono Nadia Rossi.”
 
“Piacere, Agata Giordano.” Feci finta di niente.
 
“Lui è tuo figlio?”
 
“Si, si chiama Michele, e questa splendida bimba deve essere la tua.” Toccai la guancia della piccola bambina. Della sua bambina.
 
“Si, si chiama Maria.” Lo sapevo già.  “Io so che probabilmente io ti stia spaventando, che tu di me non sai niente. Ma di te io ho sempre sentito storie interessanti. Mio suocero diceva che eri una disgraziata, però mio marito ha sempre detto che sei stata la persona migliore che si potesse incontrare nella vita.”
 
“E chi sarebbe tuo marito?”
 
“Non lo hai ancora capito? Giovanni.”
 
Feci finta di meravigliarmi “Non sapevo nulla, scusami.”
 
“Tranquilla. Ti va se un giorno di questi andiamo a prendere un tè?”
 
Un tè? Ma veramente? “Certamente.”
 
Cercai di liquidarla immediatamente, e andai a salutare Giorgia e la signora Margherita per poi andare via di lì.
 
Io sapevo che Nadia non mi aveva chiesto di vederci solo per cortesia, ero convinta che Nadia volesse qualcosa da me, volesse sapere qualcosa di più su suo marito probabilmente, ma dato che io Giovanni non lo vedevo da molto prima di lei non so come sarei potuta esserle utile.
 
Il signor Mario incarnava alla perfezione lo stereotipo dell’uomo che avrei voluto evitare da quel momento in poi, non ero per niente felice di averlo rincontrato, andare in contrasto con lui era un po’ come litigare con mio padre, anzi decisamente meglio, perché non rischiavo le mazzate. La signora Margherita era pur sempre una donna di un certo spessore, sebbene lei non avesse avuto il privilegio di studiare, era una donna molto intelligente e sapeva un sacco di cose. Lei e il signor Mario avevano sempre viaggiato in giro per il mondo, erano aperti a molti diversi scenari di vita e a diverse culture. Ma alla fine quando tornavano a Torino, le loro vere personalità emergevano. Seppure molto avanzata per il tempo, la signora Margherita era comunque sottomessa da suo marito.
 
Dovevo dare una svolta a questa situazione, non ero più d’accordo con questo sistema che ci imponeva di essere figlie, mogli, sorelle, fidanzate ma ci faceva dimenticare di essere donne. Il sostantivo “femmina” era visto come qualcosa di poca rilevanza, come qualcosa da utilizzare e poi gettare. Il nome “Donna” non era più un nome comune di persona, ma era stato invertito nell’immaginario comune degli uomini come nome comune di cosa, ed io ero stanca di essere una cosa. Era necessario attuare un cambio di rotta, anche un’altra rivoluzione se fosse servito. Ma da sola non avrei potuto fare nulla.
 
Ginevra, sto venendo a prenderti.

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Capitolo 12
*** Fischia il vento. ***


Monte Cusna, 25 Dicembre 1943
 
Era il primo Natale che passavo lontano dalla mia famiglia. La situazione stava diventando sempre più complicata, il freddo stava diventando sempre più rigido e l’approvvigionamento scarseggiava. Anna faceva quel che poteva, ma noi eravamo troppi per le riserve di cibo, a volte c’era chi cedeva la sua razione di cibo ad un altro compagno che stava peggio, oppure si faceva il digiuno. Se le porzioni erano minime, bisogna dividerle fra di noi, e se si era intelligente bisognava essere capaci di conservarsele per la prossima volta, perché può darsi che la volta successiva il cibo avrebbe potuto essere di meno, o non ci sarebbe potuto essere proprio.
 
 Generalmente, gli uomini cedevano il loro pasto a me o a Lila, ma lei mi aveva detto di non accettarlo mai, che non avevamo bisogno di essere protette da loro. E quindi per puro orgoglio, passavamo giornate intere senza mangiare, se Lila sembrava apparentemente star bene, io stavo iniziando a soffrire la fame. Sentivo lo stomaco ribellarsi, come se ci fossero stati moltissimi animaletti che mordevano contro le pareti interne dello stomaco e che con il passare del tempo questi animaletti si spostarono per tutto il corpo.
 
Io, che già ero minuta, stavo diventando pasto per gli avvoltoi, ma Lila mi diceva di resistere, di mangiare solo quello che riuscivamo a prendere e di non accettare niente da loro. Dovevamo essere noi ad aiutarli, dovevamo essere noi ad offrire il cibo a loro.
 
Quel Natale fu il Natale più strano della mia vita, a sera inoltrata ce ne stavamo intorno al fuoco a canticchiare qualche canzone. Lila se ne stava in un angolino a scrivere una lettera. Per una volta, eravamo tranquilli. Eravamo tranquilli perché sapevamo che i tedeschi sarebbero stati in un qualunque caffè in centro città o comunque non avrebbero mai passato un Natale come lo stavamo passando noi. Ci eravamo rintanati in una vecchia casa che avevamo trovato tra le montagne. Era vuota. Probabilmente era stata abbandonata prima della guerra. Era una casa piccola, di sole due stanze. Ma per fortuna c’era un camino. Non potevamo più stare all’esterno, la neve diventava sempre più fitta e il freddo stava diventando insopportabile. Con la legna che trovammo, tentammo di accendere un fuoco e per fortuna ci riuscimmo.
 
“Ma voi ve lo immaginavate un Natale così?” Lupo tentò di far smettere di cantare Harlem e Crusca perché nessuno riusciva più a sopportarli.
 
“Non è molto diverso dai soliti.” Rocco rispose con un’aria quasi angosciante, ma veritiera.
 
Ognuno di loro non viveva in una condizione molto migliore di quella, l’unica cosa che era cambiata era l’assenza dei cari. Io, invece, sentivo terribilmente la mancanza della mia famiglia, di Ginevra, di Giovanni. Il Natale dell’anno prima, seppur già con la guerra che devastava la città, era stato sicuramente un Natale migliore. Ricordo che la mattina venni svegliata dalla signora Flavia che aveva preparato una colazione coi fiocchi. Terminata la colazione, mi andai a lavare e vestire ed uscii di corsa di casa recandomi in convento per dare gli auguri di un sereno Natale a Suor Costanza, per poi rimanere alla messa. In seguito, andai a casa Giraudo dove avremmo fatto il pranzo di Natale. Trascorrendo il tempo con Giovanni, poi verso il tardo pomeriggio uscimmo per andare da Ginevra. E passammo il tempo insieme.
 
Mi mancava il tempo con loro, avrei voluto mandare una lettera a Giovanni, ma non riuscii a trovare il coraggio necessario per spiegargli tutta la situazione, garantirgli che stavo bene e dirgli che presto sarei tornata, ma lo avrebbe saputo anche lui che sarebbe stata una bugia. La verità è che io non lo sapevo quando sarei tornata, se sarei tornata. Eravamo in uno stato fermo, non sapevamo come muoverci, cosa fare.
 
“Ma voi quando pensate che finirà?” Tentai di fare una domanda sufficientemente sciocca, infatti provocai le risate di alcuni ma anche i silenzi riflessivi di altri.
 
“Ti sei già stancata?” Terùn provò a rispondere con un’aria ironica per far sì che la mia domanda non risulti come una domanda inutile.
 
“Di certo puoi far tutto tranne che annoiarti.” Lila si avvicinò a noi e anche lei cercò di far finta che la mia domanda fosse stata lecita e non inutile, rispondendo per me, onde evitare che possa dire qualcos’altro di irrilevante. “Però non è facile, ammettiamolo. Diciamo che è dura per tutti, non credo che qualcuno di noi si stia divertendo.”
 
“Io sì.” Sandokan si portò le gambe al petto e la braccia incrociate sulle ginocchia, guardando Lila con un’aria di sfida. “Io quando vedo un tedesco morto sono felice. Quando faccio saltare in aria un carro armato mi diverto. Tu no?”
 
“Sì. Ma in momenti come questi vorrei solo la mia famiglia. Come tutti. Non ha senso che tu faccia quello diverso per ricevere consensi da parte di qualcuno. Da chi poi? Io ti consiglio di rilassarti e smetterla di fare così, perché sappi che ti vorremmo uccidere tutti se potessimo.”
 
Crusca le tirò uno schiaffetto sulla gamba, ma lei fece finta di niente e si stese a terra, poggiando la testa sulle mie gambe incrociate.
 
Sandokan rimase per un momento con la testa abbassata, poi mi guardò come per consigliarmi di far tacere una volta per sempre la mia amichetta. Ma la verità è che se non ci fosse stata Lila a parlare per ognuno di noi, saremmo finiti per spararci a vicenda.
 
“Il problema è che io non ho nessuno che mi aspetta a casa. Quindi o un Natale qui al freddo con dei perfetti sconosciuti, o in una casa vuota, da solo, sinceramente non mi cambia.”
 
Tutti restammo a guardarlo per un attimo. Lila non provò mai disagio nell’avergli detto quelle cose, anzi non si sentiva nemmeno in colpa di averlo fatto parlare. Finalmente si sapeva qualcosa di lui, finalmente lo sentivamo parlare con una voce normale e non dura, provocatoria. Crusca gli mise una mano sulla spalla, come segno di affetto fraterno, ma lui gli tolse la mano e andò fuori, probabilmente per fumare. Harlem e Terùn lo seguirono. E all’interno restammo io, Lila che era messa ancora su di me, Rocco seduto contro il muro, Lupo al suo fianco con una gamba stesa e l’altra tirata piegata e Crusca seduto su una sedia in vimini vicino al fuoco.
 
“Io questo non lo sopporto.” Lila riprese la parola, aveva un tono più duro. “Si crede il migliore di tutti, crede di essere il più bravo, il più forte, il più disciplinato. Sputa sentenze su ognuno di noi senza che nessuno glielo chieda e si permette di dare giudizi sull’operato di tutti. Si deve dare una calmata, altrimenti lo uccido con le mie stesse mani.”
 
“Ma non è che niente niente, ti piace?” Lupo espresse la sua considerazione sotto forma di scherzo, e infatti Crusca si mise a ridere e anche Rocco sorrise dietro loro. Ma servì solo per far imbestialire Lila ulteriormente.
 
“Ma voi che concezione avete dell’amore?” Lila si sollevò e li guardò male “Su, forza rispondete, cos’è per voi l’amore.”
 
“Per me, l’amore è Anna che mi sveglia al mattino porgendomi il caffè e mi lascia un bacio sulle labbra. Per me, l’amore è guardare gli occhi di Anna e desiderare che mi guardino per tutta la vita. Per me, l’amore è il sorriso di Anna quando faccio una battuta sciocca e mi auguro che sorrida per me ancora un milione di volte.” Crusca rispose tutto ad un fiato, come se non vedesse l’ora di pronunciare quelle parole e potetti scorgere una lacrima rigargli il viso.
 
Trovai dolcissima quella confessione che Crusca fece a noi. Anna doveva essere una ragazza fortunata, Crusca la amava veramente, lui avrebbe fatto carte false per lei, e avrebbe ucciso per poterla proteggere. E da quel poco che avevo capito di Anna nelle brevi conversazioni che avevamo quando ci incontravamo è che anche Crusca era molto fortunata nell’ avere Anna con sé, anche lei lo amava moltissimo e anche lei sarebbe stata disposta a tutto per lui.
 
“Io non lo so cosa sia l’amore. Non credo di essere mai stato innamorato, ma l’amore deve essere qualcosa di splendido, mi auguro che un giorno possa avere l’onore di innamorarmi e poterlo gridare al mondo.” Lupo era un bravo ragazzo, sebbene la sua giovane età, sapeva chiaramente cosa volesse dalla vita. Aveva scelto di abbandonare la scuola per unirsi nella lotta, aveva già chiaro a cosa stesse andando incontro ma questo per lui non fu un problema. Pensai, che nonostante fosse più piccolo di me, lui era molto più maturo. Anche sotto questo punto di vista, Lupo sapeva chiaramente di volersi innamorare e sapeva che prototipo di amore volesse, anche se avesse dovuto aspettare cent’anni, non si sarebbe mai voluto accontentare.
 
 
“Voi siete due scemi.” Intervenne Rocco, portandosi la sigaretta alla bocca.
 
“E perché?” Lila lo guardò quasi schifata attendendo che risponda alla sua domanda.
 
“Perché l’amore non esiste. L’amore è un’invenzione dell’uomo per non morire solo.”
 
“Ma che stai dicendo? Tu sei mai stato innamorato?”
 
“No, ma per scelta. Tante ragazze mi hanno amato.” Poi mi guardò per un momento, fece un tiro alla sigaretta e proseguì “Ma io non ho mai voluto amare nessuna di loro. Facciamo i seri. Dovremmo riscrivere anni e anni di letteratura, che da sempre parla di tragedie quando parla dell'amore. Gente che si ammazza, che vive vite infelici, che finisce per odiarsi. L'unico posto in cui questo sentimento funziona è nei film e in alcuni libri, che nessuno vuole più vedere o leggere.”
 
“Ti sbagli.” Lila era pronta ad attaccarlo, lo sapevo. Lo si leggeva nei suoi occhi. “La verità è che tu hai paura di amare, hai paura di soffrire per amore. Hai paura di poter affezionarti così tanto ad una persona, di passare del tempo reale con lei, di baciarla davanti a tutti e di farci l’amore, e non dell’inutile sesso da quattro soldi.”
 
“Ma se nemmeno mi conosci.”
 
“No, invece ti conosco benissimo. Io i bastardi come te li conosco benissimo.” Era pronta a rincarare la dose “La verità è che hai avuto una brutta vita, una brutta infanzia ed una brutta adolescenza. Tuo padre riempiva di botte tua madre e lo sapevi che era ingiusto, ma non sei mai riuscito a fermarlo perché le palle non le hai mai avute. Anzi, un uomo non lo sei mai stato. Fammi indovinare, da ragazzino eri solo un bambino un po’ più alto e a differenza dei tuoi coetanei eri secchissimo, per questo sei stato oggetto di scherno e allora hai cercato di sfogare questa frustrazione con le donne. Ma qualunque cosa sia cerca di smetterla di fare l’uomo di mondo che si scopa le ragazze e poi le lascia da sole, perché questo non ti rende un uomo, ma solo un pezzo di merda.”
 
Lila si poggiò sulle mie gambe di nuovo, guardando un punto fisso nel vuoto e con le braccia incrociate sul petto. Aveva detto tutto senza nemmeno pensarci, doveva aver passato anche lei tutto quello che avevo passato io. Anche lei aveva conosciuto il suo Rocco che le aveva promesso amore e poi la aveva umiliata e lasciata da sola. Lila era riuscita a dar voce ai miei pensieri, Lila era riuscita a dire a Rocco tutto quello che io fino a quel momento non avevo avuto il coraggio di dirgli.
 
Poi si alzò di scatto e disse che lei andava a dormire nell’altra stanza, perché parlavamo e le davamo fastidio, ma penso che fosse solo una bugia. Nel mentre sulla porta c’erano gli altri che erano usciti e che però pur di godersi lo spettacolo, avevano evitato di farsi sentire per non interromperla.
 
“Te l’ha fatta la strigliata, ah?” Harlem tirò uno schiaffo molto debole sulla faccia di Rocco che nel frattempo teneva uno sguardo truce. Però quando lei si era alzata per andar via da quella stanza, vidi lo sguardo di Rocco. Non era arrabbiato con lei, anzi. Aveva uno sguardo di ammirazione nei suoi confronti, perché sapeva che in un modo o nell’altro lei aveva ragione.
 
“Lila deve sempre dire la sua, altrimenti non è contenta.” Terùn parlò e tutti fecero delle espressioni accondiscendenti, come per fargli capire che avesse ragione.
 
“Però è forte, quella lì non la butti a terra con poco.” Anche Lupo espresse la sua impressione riguardo le continue prediche di Lila.
“Si, Lila è una forte. Menomale che ci sono delle donne come lei al mondo.” Crusca intervenne, ancora una volta stava tessendo le sue lodi. Era come se fosse la sua pupilla, come se Lila potesse dire quello che voleva tanto non avrebbe subito nulla, mentre noi altri potevamo solo imparare da lei.
 
“Ma quale menomale. Ma tu te le immagini se tutte le donne fossero come lei? O le spari o ti sparano loro a te. “   Terùn riprese ancora una volta la parola.
 
“Però meglio di quelle bomboniere sempre perfette, sempre accondiscendenti. ‘Si, amore’, ‘Va bene amore’. Dopo un po’ ti viene voglia di uccidere anche loro.” Anche Sandokan espresse la sua opinione al riguardo, e anche se indirettamente, stava difendendo Lila.
 
Mi sentivo in minoranza, senza Lila al mio fianco, ero da sola in un branco di uomini giudiziosi. C’era chi pensasse fosse giusto avere una donna come Lila, una donna capace di pensare con la propria testa, una donna capace di affrontare ogni situazione, una donna che non ha paura di nulla. D’altro canto, c’era anche chi pensasse fosse meglio avere una donna che parli solo quando richiesto, che sappia stare al suo posto, che una donna brava non si comporterebbe come lei. Per la prima volta, compresi le parole di Lila e di Ginevra, quelle parole di cambiamento. Sebbene Ginevra fosse ancora radicata in una cultura diversa dalla sua, già aveva iniziato a comprendere le parole d’ordine di una donna nuova. Io, invece, ipnotizzata dalle parole degli uomini-padroni che mi ruotavano intorno, l’ho capito troppo tardi. A tutte le volte che mi sono morsa la lingua pur di non rispondere, a tutte le volte che mi sono maledetta di aver pensato brutte cose su un uomo, a tutte le volte che non mi sono sconcertata nel vedere un uomo per strada che picchiava la propria donna, a tutte le volte che ho cambiato vestito perché avevo paura de giudizio di mio padre, a tutte le volte che ho rinunciato a qualcosa perché non mi sentivo abbastanza, a tutte le volte che mi sono lasciata convincere di valere di meno di un uomo. Io non valgo di meno.
 
“Ma non vi fate un po’ schifo?” Non so cosa mi spinse ad alzare la voce dopo tanto tempo. Infatti, smisero di ridere e parlare e mi guardarono con degli occhi perplessi. Specialmente Rocco che raramente mi aveva sentita ribattere. E anche Sandokan mi guardò con un ‘aria preoccupata, perché lui mi aveva già sentita alzare la voce.
 
“Dovremmo?” Terùn rispose, quasi sconcertato.
 
“Si, dovreste. State parlando di Lila come un alieno. Come qualcosa di inusuale. Lila è diversa, ed è felice di essere diversa. Per non parlare di come state parlando delle donne, come se aveste un grande banchetto e potete scegliere quale pietanza più vi piace. Fate schifo. Questo fate. Ora vado da Lila, che è meglio.”
 
Mi alzai, prendendo la giacca ed estraendo una sigaretta, andai fuori per fumarla e in seguito raggiungere Lila per dormire.
 
“Lo sai perché sei meglio di Lila?” Non ebbi nemmeno il bisogno di girarmi, seppi riconoscere la sua voce anche da lontano ormai. Un sorriso soddisfatto mi spuntò senza ragione e senza neanche girarmi gli risposi.
 
“No, perché?”
 
“Perché tu sai dosare la parole. Tu sai quando è giusto parlare e quando rimanere in silenzio.” Mi si avvicinò e si accese una sigaretta anche lui. Anche se qualcosa mi spingesse ad odiarlo, alla fine non ci riuscivo, Sandokan celava dolcezza sotto quello sguardo crudele.
 
“Che discorso di merda.”
 
“No è vero. E non per screditare le donne eh.”
 
Mi vide ridere e si unì alla mia risata.
 
“E allora cos’è?”
 
“Per me, è sinonimo di intelligenza. Chi parla senza freni, credendo di essere sempre nel giusto, talvolta è nel torto e nemmeno lo sa. Come fa Lila a volte. Lila è furba e non è stupida, soffre e si vede. Ma a volta parla senza ritegno, ed è offensiva. Tu no.”
 
“Ed io come sono?”
 
“Tu sei posata, si vede che vieni da una buona famiglia.”
 
“Ci risiamo.”
 
Ancora una volta ci unimmo in una risata.
 
“Non scherzo.”
 
“Spiegati.”
 
“Nel senso che sai che il modo in cui vengono trattate le donne è sbagliato, ma non fai la paladina della giustizia tendendo a diventare insopportabile. Hai le tue ragioni, le esprimi bene e con decoro. Sai far riflettere sugli errori e sai far pensare sulle varie problematiche che persistono, ma delle quali non ce ne accorgiamo.”
 
“Che studi?”
 
“Come?”
 
“Che studi all’università?”
 
“Filosofia.”
 
“Si vede.”
 
“Da cosa?”
 
“Hai la mente più aperta rispetto agli altri. Teorizzi, rifletti e spieghi.”
 
“E tu che studi?”
 
“Avrei dovuto iniziare quest’anno ma sono qui. Comunque avrei voluto fare Lettere.”
 
“Quando torni allora continuerai.”
 
“Se torno.”
 
“Tornerai, fidati.”
 
Ci guardammo a lungo. Aveva degli occhi spettacolari. Non avevamo avuto una conversazione da soli dall’ultima volta in cui ho cercato di spararlo dopo che ho tentato di dargli un bacio. Come è facilmente intendibile, avevamo fatto finta entrambi che non fosse mai successo nulla, per il benessere comune e perché non avesse senso tenerci il broncio. Rimanemmo in silenzio per un po’.
 
 
“Io non ce la faccio più.” Disse così, e poi mi prese la testa e mi diede un bacio sulle labbra, un bacio lungo ma furtivo.  Io mi staccai immediatamente e gli tirai uno schiaffo dritto sulla guancia destra.
 
“Ma sei impazzita?” Mi urlò quelle tre parole ancora tenendosi una mano sulla guancia rossa.  
 
Io avevo un sorriso piantato in faccia, me lo sarei voluta godere tutto quel momento.
 
“Ma che cazzo fai? Troppo coinvolgimento emotivo. Se hai bisogno della museruola, dillo ad Anna.” Stavo ancora ridendo quando pronunciai quelle parole. “Ciao.” E andai all’interno.
 
Lo potetti sentire ridere mentre andavo via, lo sapeva che lo avevo fatto apposta, che anche se lo volevo quel bacio, non gli avrei mai permesso di prendersi gioco di me, come sapeva che non era finita lì.
Alba 2-Sandokan 0
 
Monte Prado, 12 febbraio 1944
La notizia ci giunse la notte del 31 gennaio. I fascisti e i tedeschi avevano catturato tutti i ragazzi del comando volontari per la libertà. Anna ci disse che erano in Piazza Maggiore, non si sa come sia successo, ma la piazza era completamente bloccata. I fascisti lo sapevano, avevano teso loro una trappola e ci erano cascati. Il colpo era riuscito. Inoltre, Anna ci disse però, che le nostre azioni stavano dando il coraggio a molti altri uomini della classe operaia ad alzare la testa, a ribellarsi nelle fabbriche e farsi reclutare come partigiani. Eravamo soddisfatti del nostro operato. Sebbene quella disfatta, eravamo riusciti ad uccidere dei tedeschi, a far saltare altre bombe, ma soprattutto e restare tutti uniti e tutti vivi. Ma il peggio stava per arrivare. Avevano bisogno di gente nel C.L.N, qualcuno di noi doveva staccarsi dal gruppo e andare in città. Crusca era già sicuro di partire, anche Lila, Lupo e Rocco avevano già deciso. Io ero indecisa, da una parte sentivo che sarebbe stato migliore lo stile di vita, ma sapevamo che in città avremmo agito in prima linea e saremmo stati molto più vicini ai tedeschi. Insomma, c’era una possibilità più alta di morire.
 
Non so come, ma Lila mi convinse. Stavo andando anche io a Bologna, e Sandokan si unì a noi. In montagna lasciammo Harlem e Terùn, che però sarebbero stati affiancati da altri ragazzi e quando sarebbe finito tutto sarebbero venuti anche loro in città. Adesso stava iniziando la guerra vera, una guerra fatta di colpi a sorpresa e audaci, di attacchi e di fughe anche in mezzo al centro di Bologna. Avevamo già pronto il primo colpo. Su questo carro che ci stava portando in città, eravamo tutti più preoccupati di prima. Saremmo stati in un vecchio appartamento nel centro non registrato. Crusca diceva che non ci avrebbe trovato nessuno, non avrebbero mai potuto. La verità è che così vicini al nemico eravamo tutti preoccupati ed impauriti, non avevamo più la certezza di rimanere vivi.
 
“Se dobbiamo morire, voglio che sappiate che sono stati dei mesi fantastici.” Lila ancora una volta riuscii a dare voce ai nostri pensieri, perché questo era quello che pensavamo tutti in quel momento. Stavamo pensando a come saremmo potuti morire. Nessuno ebbe il coraggio di risponderle, perché non sapevamo cosa risponderle.
 
“Non moriremo.” Crusca cercò di darci speranza in qualche modo, ma era impossibile credergli.
 
“Come fai ad esserne sicuro?” Lila continuò a rendere la situazione più complicata di quanto già lo fosse.
 
“Non ne sono sicuro, ma è necessario che stiamo vigili e non ci facciamo trasportare da questi pensieri, dobbiamo provare a sopravvivere in ogni momento. “
 
Lila si stese e iniziò a canticchiare. “Voglio vivere così, Col sole in fronte, E felice canto, Beatamente.”
 
E io continuai. “Voglio vivere e goder, L'aria del monte, Perché questo incanto, Non costa niente.”
 
“Non ci credo. Ferruccio Tagliavini? Ma veramente?” Rocco cercò di dirlo senza ridere, ma riuscii solo far ridere anche noi due e poi anche gli altri.
 
Finalmente, dopo giorni veramente duri, eravamo riusciti a ridere di nuovo. I nostri pensieri tristi si stavano allontanando per un attimo, chiaramente le nostre preoccupazioni erano rivolte anche a Terùn e ad Harlem che erano rimasti lì con persone delle quali non sapevano nulla.
 
Ognuno di noi aveva un motivo diverso per ritornare verso la città. Crusca voleva vedere più spesso Anna; Lila necessitava di vedere persone che non fossimo noi; Lupo era stanco del freddo troppo rigido della montagna; Rocco lo aveva fatto per restare vicino a Lila, visto che anche se lei non se ne era ancora accorta , lui le ronzava perennemente intorno; Io perché Lila era riuscita a convincermi; E Sandokan ovviamente non ce lo aveva detto.
 
Rocco , da quando Lila lo aveva umiliato, invece di evitarla e trattarla male, le stava perennemente intorno, si rendeva sempre disponibile nei suoi riguardi, le sorrideva sempre e le dava ragione qualunque cosa lei dicesse. Io tentai di dire a Lila, che forse lui si era innamorato di lei, ma lei mi rispose che una persona come Rocco non ha le capacità emotive di innamorarsi, è troppo egoista ed è una persona orribile.
 
Non avevo mai avuto il coraggio di raccontare a Lila cosa fosse successo tra me e Rocco, che una di quelle ragazze che lui aveva usato e poi buttato ero io. Non volevo che mi prendesse per una stupida che cade nel tranello di un povero fallito, come era solita chiamarlo lei. Ma la verità è che nonostante tutto il dolore che lui mi avesse causato, io ero ancora innamorata di lui ed ero anche un po’ invidiosa nel vederlo ammirare Lila e trattarla come una principessa. Io non so come avesse fatto ad innamorarsi di lei, se l’unica cosa che lei avesse fatto per lui fu trattarlo male, mentre io ero stata capace di palesargli il mio amore in tutte le sue sfaccettature. Adesso faceva solo male guardarlo mentre lui guardava lei, ma lei sembrò non fare molta attenzione ai suoi sguardi. Un giorno mi disse che in realtà se ne era accorta che lui la guardava, ma che forse voleva solo usarla come prossima preda, e  lei non glielo avrebbe mai permesso. Ma la realtà è che Rocco non la sta guardando come guardava me.
 
 
Finalmente arrivammo a Bologna, scendendo dal furgone mi sentii per un attimo l’ansia salirmi fino alla gola, come se volessi piangere da un momento all’altro ma non ci riuscissi. Lila mi prese la mano e andammo nella direzione che Crusca ci stava indicando. Non mi sentivo neanche tranquilla nel camminare come se niente fosse. Arrivati sotto il palazzo, salimmo uno alla volta. Il primo fu Crusca, poi fecero salire me e Lila e in seguito uno alla volta salirono gli altri tre.
 
La casa era molto piccola, aveva solo una stanza e un bagnetto. Ma sarebbe andata benissimo, tanto per quello che ci serviva. Essendo arrivati tardi e la mattina dopo avremmo già dovuto iniziare a combattere, gli altri si stesero subito sul pavimento per dormire. Rocco e Lila erano stesi vicini. Potetti vedere Rocco accarezzarle il viso e Lila levargli la mano e sollevarsi poggiando la schiena contro il muro.
 
Io mi alzai e mi sedetti sul balconcino per fumare ma non smisi di osservare quella scena a dir poco ridicola. Nel giro di pochi minuti, era Lila che gli accarezzava il viso, li vedevo mentre ridevano ed amoreggiavano come due ragazzini alle prime armi. Seppure non si scambiarono nessun bacio, ero gelosa di lei. Perché lei era riuscita a prendersi il suo cuore, e anche se a me diceva che di lui non le interessava nulla, adesso stava dimostrando il contrario. In quel gioco d’amore che stavano facendo mi sembravano due imbecilli, due sciocchi.
 
“Che fai? La guardona?” Ad oscurarmi la vista fu Sandokan, si sedette accanto a me dal lato della ringhiera e si accese la sigaretta. “Ma non è che ti piace Lila?”
 
“Ma che sta dicendo?”
 
“Allora ti piace Molotov.”
 
“Ma no.”
 
“Si, ti piace Molotov.”
 
“Ti ho detto di no.”
 
“Va bene, scusa.”
 
Lo guardai per un attimo, mentre aveva girato lo sguardo rivolgendolo alla città sottostante. Era bello, ma non come Rocco.
 
“La verità è che c’è stato qualcosa tra me e lui.”
 
Rivolse di nuovo lo sguardo verso di me “Racconti ora.”
 
“Niente da dire. Lui mi ha cercata, mi ha detto che gli piacevo. Mi sono sentita lusingata, e ho iniziato a capire cosa vuol dire essere guardata da un uomo, era la prima volta che un uomo mi guardava.” Feci una breve pausa “Venne sotto casa mia, mi baciò. Era la prima volta che baciavo un uomo. Poi qualche giorno dopo lo abbiamo fatto. Era la prima volta che lo facevo. Poi qualche giorno dopo lo vidi, andai da lui cercando di capire cosa fossimo, ma la verità è che mi ero fatta troppe illusioni e lui mi umiliò.”
 
“Sei una sciocca.”
 
“Lo so.”
 
“Però adesso basta Alba. Reagisci. Lui non ti vuole, si è capito. Forse non ti ha mai voluto.”
 
“E cosa dovrei fare?”
 
“Smettila di pensare a lui, sii felice per Lila piuttosto. Penso che lei gli piaccia sul serio.”
 
“Tu non sei confortante, sai?”
 
“Dico solo la verità.”
 
“Già, la verità. Va beh, io vado a dormire. Buonanotte.”
 
“Buonanotte Alba.”
 
Il mattino dopo ci svegliammo tutti molto presto. Ci cambiammo velocemente e scendemmo di sotto. Lila mi fermò sulle ultime scale che ci dividevano dal portone.
 
“Ti devo dire una cosa.”
 
“Dimmi LI.”
 
“Mi ha baciata.”
 
“E tu?”
 
“E io l’ho baciato. Forse ho sbagliato su di lui, non è così male come pensavo.”
 
“Lì, ti devo dire anche io una cosa.”
 
“Me la dici dopo, ora andiamo.”


Mi prese la mano e andammo verso gli altri che nel frattempo erano più avanti. Non potevo crederci, Rocco era stato capace di usare anche lei, era stato capace di illudere una personalità forte come quella di Lila. Per un attimo pensai che quel ragazzo aveva una specie di forza cattiva all’interno del suo corpo, come se fosse capace di arrecare del male alle persone senza nemmeno rendersene conto. La voglia di piangere in quel momento fu tanta, ma cercai di frenarmi date le circostanze.
 
Eravamo in Piazza Ravegnana, e quello che potevamo vedere era solo una città spezzata, come tutte le città del nostro Paese. In quel momento, mi resi conto che delle sciocchezze che mi passavano per la mente erano nulla in confronto a quello che stavamo vivendo in quel momento. Ristabilii il mio equilibrio interiore e proseguii insieme a loro, ero pronta adesso. Anche a morire.
 
“Siete pronti compagni?” Crusca imbracciò il fucile e senza nemmeno girarsi verso di noi, cercò di stabilire se fossimo ancora lì con lui.
 
Noi lo imitammo e io controllai se i coltelli che mi erano stati attaccati alle cosce che venivano nascosti dalla gonna non mi stessero tagliando la pelle, poi imbracciai il fucile e avanzammo senza più quella paura che c’era fino a qualche momento prima.
 
“Compagni, ancora fischia il vento.” Questa volta fu Sandokan a parlare.
 
Andiamo a riprenderci Bologna.
 

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Capitolo 13
*** Solo nel modo in cui sei. ***


Torino, 18 marzo 1946
Me ne stavo rinchiusa nella mia stanza a studiare ormai da un mese, non avevo voglia di parlare con nessuno o di vedere nessuno. Nemmeno Milena. Non perché fossi arrabbiata con lei o fossi nervosa con il mondo, semplicemente ero così focalizzata con lo studio che non mi interessava più niente di quello che stesse accadendo intorno. Il giorno successivo avrei avuto un importantissimo esame di Letteratura latina. Nonostante il mio cognome rilevante all’interno dell’Ateneo, avrei voluto comunque dimostrare di essere capace di farcela con le mie gambe e con le mie capacità.
 
Ero l’unica ragazza del mio corso, avevo avuto l’occasione di conoscere i miei colleghi durante il primo esame di Letteratura italiana, ma essendo stato un esame scritto non ho avuto l’opportunità di poter dialogare con qualcuno di loro. Li vedevo ridacchiare di me, parlare alle mie spalle, qualcuno tesseva le lodi di mio padre ed altri lo criticavano. Inventavano storie sul mio conto, qualcuno immaginava fossi scappata per amore, qualcun altro credeva avessi ucciso i miei genitori per l’eredità, altri ancora ci avevano azzeccato. Ma io per tutto il tempo non mi curai neanche un secondo di quei pettegolezzi da salotto che erano all’ordine del giorno nella borghesia torinese.
 
Continua a stringere un rapporto sempre più forte con Giorgia Giraudo, nonostante tutte le critiche di suo padre, lei continuava a vedere in me del bene, come sua madre. Mi avevano adottata come figlia e come sorella, e potermi sentire ancora in una famiglia per me era bellissimo. In assenza del signor Mario, trascorrevo le giornate in compagnia di Margherita e Giorgia. Io e Giorgia studiavamo e parlavamo del futuro, eravamo donne giovani e colte che volevano cambiare il mondo, ma che da sole non avrebbero potuto fare niente. La verità è che io mi ero avvicinata così tanto a lei e alla sua famiglia, perché in loro sentivo di avere vicino ancora Giovanni.
 
Delle volte, durante la notte, mi svegliavo all’improvviso perché sognavo Giovanni che mi indicava una strada e mi sorrideva. Era una strada ripida, una strada tortuosa ma che alla fine aveva una grande campagna aperta in cui c’era una casetta di legno ricoperta dalla neve, e splendeva sempre il sole. Io non sono mai stata una persona che credesse profondamente in questi sogni che apparentemente non avessero nessun senso, ma che secondo alcuni nascondevano simbolismi molto profondi.
 
Non avevo avuto nemmeno il coraggio di andare a far visita a Nadia. Non avevo il coraggio di entrare nella casa in cui il mio migliore amico si era tolto la vita. Non potevo guardare quel salotto e non immaginare lui seduto sopra il divano che beveva il caffè e che fumava la sua solita sigaretta. Non potevo vedere il giardino e non immaginare lui sdraiato sull’erba a leggere il giornale o il suo solito libro di poesie. Non potevo vedere la sua camera da letto e non immaginarlo mentre si infilava in un grande letto con Nadia. Non potevo guardare la stanza della bambina, con tutti i giocattoli sparsi e non immaginare lui che giocasse con sua figlia o che le leggesse delle storie, anche se lei non poteva capirlo. Non potevo. Non ce la avrei mai fatta a reggere così tanto. Così smisi di prendere in considerazione la proposta di Nadia.
 
Tutti questi pensieri affollavano il mio cervello, rimuovendo le cose veramente importanti. Non riuscivo a concentrarmi nello studio, non potevo focalizzarmi su una determinata cosa se nel frattempo la mente viaggiava in una direzione completamente opposta. Ogni volta che imparavo un capitolo, lo ripetevo, ma improvvisamente mi rendevo conto che dimenticavo passaggi, che quei passaggi erano stati ostruiti da altri pensieri completamente lontani dall’argomento che stavo studiando.
 
Sentii bussare alla porta ma ovviamente non diedi il permesso di entrare. Ma chi si celava dietro la porta decise di ignorare la mia preghiera di isolamento e aprì comunque la porta.
 
“Lo vuoi il caffè?” Era Milena con in mano una tazzina di caffè fumante.
 
Non riuscii a sgridarla per aver interrotto il mio studio, perché con lei non riuscivo ad essere scontrosa, era più forte di me. Allora le feci cenno di entrare e con una mano le indicai dove poggiare la tazzina, e lei eseguì le mie richieste sedendosi sul letto.
 
“Come va lo studio?”
 
“Male.”
 
“Perché?”
 
“Troppe cose per la testa, mi viene difficile.”
 
“Non è difficile. Devi solo ripetere a te stessa perché è importante che tu superi l’esame.”
 
“Ma non lo so.”
 
“Si che lo sai. Dai, dillo ad alta voce.”
 
“Ma boh…per Michele sicuramente.”
 
“Bene un motivo ragionevole, poi?”
 
“Per me stessa. Per la mia famiglia. Per le donne. Per i ragazzi che
non possono studiare.”
 
“E ti sembra poco?”
 
“Si, ma il problema è un altro.”
 
“Cioè?”
 
“Giovanni.”
 
“E allora continua a studiare per lui.”
 
Torino, 20 marzo 1946
 
Ero davanti la porta dell’aula che aspettavo il mio turno per dare l’esame orale. Ero convinta di aver studiato veramente poco, non ero riuscita a concentrarmi nemmeno grazie ai consigli pratici di Milena. Quell’episodio mi convinse a smetterla di crearmi problemi che non esistevano. A far prevalere le paranoie piuttosto che le tante cose reali che avrei potuto toccare con mano se solo lo avessi voluto. Ma lo volevo?
 
 “Giordano?” L’assistente uscì fuori e con una calma disarmante mi chiamò.
 
Io senza nemmeno rispondere mi avvicinai a lui e nel vedermi avvicinare mi guardò dalla testa ai piedi, facendomi segno di entrare prima di lui.
 
Il professore che avrebbe sostenuto il mio esame era Pietro Ronchi, uno dei più importanti docenti dell’Università di Torino. Era un uomo sulla cinquantina, abbastanza robusto e basso, sicuramente non di bell’aspetto, anzi incuteva abbastanza timore anche solo nel guardarlo. Ma ero un uomo estremamente colto, un amante della metrica e della letteratura latina. Se questo esame fosse andato veramente male, mi sarei bruciata ogni carta con lui.
 
Mi avvicinai alla cattedra dove era seduto il professore. Mi sedetti di fronte a lui, aprii la borsa ed estrassi il libretto.
 
“Agata Giordano…” Iniziò ad accarezzarsi i baffi e a guardare verso un punto immaginario.
 
“Si.”
 
“Parente del professore Leone Giordano?”
 
“Sono la figlia.”
 
“Le mie più sentite condoglianze per suo padre.”
 
“Grazie.”
 
“Ah, ha preso 27 allo scorso esame.”
 
“Si, non ero al meglio.”
 
“Allora alla figlia del Giordano facciamo una domanda semplicissima, su.”
 
Ecco qui, ci risiamo. In quel momento non ero più Agata Giordano, studentessa di Lettere del primo anno che veniva valutata per i suoi meriti e i suoi demeriti, ero semplicemente la figlia del professore Giordano, che veniva valutata in base alla preparazione di suo padre e al suo nome.
 
“Signorina Giordano, mi parli di Catullo.”
 
“Allora, si. Catullo. Celebre poeta romano, nacque a Verona da una famiglia molto agiata, fu data un’educazione severa e rigorosa, come in uso all’epoca nelle buone famiglie. Un po’ come nella mia.”
 
“Come scusi?”
 
“Niente, non si preoccupi.”
 
“Eviti considerazioni personali signorina Giordano. Mi parli della sua poetica.”
 
“La poetica di Catullo segna una nuova visione della poesia. La sua lirica dà, per la prima volta, voce all’individualità di una persona e al suo sentimento. Si tratta di una poesia soggettiva, che tralascia la letteratura come celebrazione dei valori collettivi della romanità.”
 
“Si spieghi meglio.”
 
“Secondo me, le passioni sono espresse in maniera vigorosa e immediata, con duro realismo. La spontaneità delle poesie d’amore e passione di Catullo non trova eguali, così come non ci sono altri casi di amore sentito con una valenza così personale.”
 
“Continua a fare considerazioni personali.”
 
“Ma è inevitabile professore.”
 
“Ma cosa sta dicendo?”
 
“Ma come può pretendere che le parli di Catullo senza esprimere una mia idea.”
 
“Ma nessuno le ha chiesto una sua idea. Nessuno la desidera la sua sciocca idea. Si limiti a ripetere la nozione che ha imparato.”
 
“Perché sono una donna?”
 
“Signorina Giordano, lei è una studentessa che deve ripetere quello che ha imparato senza soggettività e senza filtro critico.”
 
“Perché?”
 
“Perché è così che funziona. Ma suo padre non le ha insegnato nulla?”
 
“No.”
 
“Senta, finiamola qui. Le do 23, per rispetto di suo padre.”
 
23. Un voto che non era mio, ma di mio padre. Era questa l’università che mio padre e Giovanni ostentavano? Era questa la realtà con cui mi sarei dovuta confrontare per ancora altri anni? Le ingiustizie continuavano a persistere, e diventavano sempre più dure giorno dopo giorno. Ero vincolata in tutto. Come donna, come studentessa. Non ero una persona, ma ero numero, a loro non interessava nemmeno un po’ sapere come io fossi arrivata ad un determinato argomento, come fossi riuscita a ragionare su una questione. Non gliene importava. Il professore Ronchi, come mio padre, veniva pagato non per formare degli spiriti critici e delle menti aperte, ma tante piccole macchine che domani avrebbero ripetuto la loro lezione alle generazioni future, che avrebbero imparato quelle quattro cose stampate su un libro ed imprimerle per sempre nella propria testa, senza comprenderne il reale senso.
 
Ero delusa, ero delusa da tutto. Niente mi dava più serenità, ero semplicemente un numero fra tanti altri numeri, ero un oggetto di poco conto fra tanti altri oggetti di poco conto. A nessuno interessava davvero poter cambiare questa situazione così disastrosa, e mentre nel mondo il cambiamento stava avvenendo, l’Italia era ancora ferma. Mentre le donne del mondo si stavano mobilitando e si stavano ribellando per avere quei pochi diritti che gli spettano per natura, in Italia eravamo ferme. C’era bisogno di una rivoluzione.
 
Uscita dall’università trovai Milena con Salvatore e mio figlio in braccio ad aspettarmi.
 
“Non sei andata a lavorare?”
 
“No, oggi no. Tu davi l’esame e io andavo a lavorare?”
 
“Nemmeno fosse la laurea.”
 
“Com’è andata?”
 
“Eh, com’è andata. Ho preso 23.”
 
“E va beh, è buono.”
 
“Eh insomma Milè. Ci prendiamo un caffè?”
 
“Si, andiamo.”
 
Andammo al solito bar di fronte l’università, trasmetteva un’atmosfera tranquilla quel bar. Con la radio, le donne ben vestite che fumavano in compagnia di altre donne. Se quel bar dava l’impressione del cambiamento e dell’innovazione, sarebbe bastato andare nell’edificio di fronte per capire che ancora determinate radici non si sarebbero strappate così facilmente.  Ordinammo due caffè e Milena mi porse il bambino che immediatamente presi tra le braccia.
 
Michele diventava ogni giorno più bello, proprio come suo padre. Anche quando i pensieri negativi mi assalivano, mi bastava guardarlo per capire che i problemi della vita potevano essere azzerati dalla risata di un bambino. Avrebbe compiuto tre mesi fra sette giorni, ma a me sembrava ieri di averlo messo al mondo. Mio figlio stava crescendo così in fretta e io neanche me ne stavo accorgendo. Mi pervase immediatamente un senso di angoscia, un senso di solitudine. Riflettendo sul fatto che vederlo crescere così velocemente proprio sotto i miei occhi incrementava quella sensazione del tempo che passa e che non torna indietro. Ogni momento vissuto, non ci verrà mai restituito, che molte volte viviamo con una totale inconsapevolezza di quanto sia bello godersi l’attimo, di vivere senza preoccupazioni e senza angosce.
 
“Insomma mi racconti un po’ di questo esame?”
 
“Cosa vuoi sapere?”
 
“Cosa gli hai detto?”
 
“Mi ha fatto una domanda su Catullo.”
 
“ E chi è?”
 
“Un poeta latino.”
 
“Ah, mi fai leggere qualcosa di suo?”
 
“Si, quando torniamo a casa ti presto qualche libro.”
 
“E poi?”
 
“E poi che?”
 
“Dimmi qualcos’altro.”
 
“Milè il mio esame sarà durato in media 10 minuti. Ho detto qualcosa della sua vita, poi ho iniziato a parlare della poetica e ho divagato, ho iniziato a dire cosa ne pensassi io. Il professore si è innervosito e mi ha dato 23 per rispetto di mio padre.”
 
“Perché si è innervosito?”
 
“Perché diceva che non dovevo dire la mia opinione, che non interessava a nessuno.”
 
“Bastardo.”
 
“Milè dobbiamo cambiare le cose.”
 
“In che senso?”
 
“A te sta bene questo mondo? Questa società?”
 
“No, ma non capisco dove vuoi arrivare.”
 
“Se non ci sta bene, ci dobbiamo ribellare. Dobbiamo smetterla di stare con la testa abbassata, dobbiamo iniziare a reagire. Siamo donne stanche di essere trattate come schiave e come proprietà.”
 
“Agata quello che dici è giusto, ma non possiamo farlo solo io e te.”
 
“Lo so, ed è per questo che dobbiamo coinvolgere più donne possibili. Questa è la nostra opportunità per cambiare le cose Milè.”
 
“No no Agata, io questo spirito combattivo come il tuo non ce l’ho. Io non sfido i potenti, io ho paura Agata. Io sono scappata da un macello per una vita normale, mo concedimela.”
 
“Ti manca la Sicilia?”
 
“Tu che dici?”
 
“Vorresti mai tornarci?”
 
“No. Torino fa schifo, ma Caltanisetta di più. Mi manca l’allegria che c’era lì, lo spirito di gioia, ma nient’altro.”
 
“E…il tuo vecchio lavoro? Ti manca?”
 
“Ma sei impazzita?”
 
“Non me ne parli mai.”
 
“Perché è una cosa che voglio cancellare.”
 
“Raccontamelo, ti prego.”
 
“Cosa vuoi sapere?”
 
“Perché hai iniziato a fare questo lavoro?”
 
“Per soldi, ovviamente. Avevo sempre lavorato nei campi, vengo da una famiglia di braccianti, gente povera. Un uomo mi vide una volta e mi disse che la mia bellezza era sprecata per la terra e allora mi propose di fare la ballerina in un caffè notturno in città. Con il tempo ho capito quali fossero i passi che più piacevano ai clienti, uomini, chiaramente. E poi andando avanti ho capito che se avessi potuto sfruttare la mia bellezza e la mia audacia, avrei fatto più soldi. Allora mi licenziai e mi misi da sola in una stanza, lì ricevevo gli uomini.”
 
“Come hai fatto per iniziare?”
 
 
“Ho avvisato gli uomini che erano interessati a me al caffè, già nel primo pomeriggio ne ho avuti tre.”
 
“E la prima volta?”
 
“Pensavo di non farcela, pensavo che avrei mollato tutto. Ma poi quando lo vidi, mi venne quasi naturale, come se lo avessi fatto da tutta la vita.”
 
Continuammo a parlare della vecchia vita di Milena per moltissimo tempo, non riuscivo a smettere di ascoltarla e lei non riusciva a smettere di parlare, come se quelle cose non vedesse l’ora di raccontarle a qualcuno, come se stesse quasi scoppiando. Mi raccontò i casi più strani, uomini bellissimi, uomini sposati che tradivano le mogli, le paure che aveva quando lo faceva. Quando ha scoperto di essere incinta di Salvatore ha continuato a lavorare normalmente, anzi diceva che c’erano uomini a cui piaceva ancora di più farlo con una donna incinta e la sua tristezza stava nel sapere che fra uno di quegli uomini ci sarebbe potuto essere il padre di Salvatore.
 
Non riuscivo a togliermi dalla testa nessuno dei racconti di Milena, nemmeno se mi sforzassi. Improvvisamente, i pensieri di Giovanni vennero offuscati dalle tragiche vicende di Milena. Dagli albori della sua carriera da prostituta, dall’imbarazzo che provava le prime volte, dalle violenze che ha dovuto subire e dalla necessità di soldi che diventava sempre più importante. Lei lo sapeva fare ed era consapevole di saperlo fare bene, ma si era giurata che avrebbe dovuto smettere. Per suo figlio. Sentii la necessità di iniziare a scrivere sulla carta tutto quello che Milena mi aveva raccontato, sentii il bisogno di riversare quelle parole a caso in frasi concrete unite fra loro. Sentivo il bisogno di scrivere la sua storia.
 
Torino, 27 Marzo 1946
La stesura della storia di Milena stava diventando un pensiero assiduo, incessante. Quando prendevo la penna sentivo di non riuscire a smettere, sentivo che ero in dovere di farlo, ero in dovere di dar voce alle oscenità che quella povera ragazza aveva dovuto subire. Condannata per essere bella, condannata per essere povera. Il prezzo da pagare le si era rivelato troppo alto, ma lo aveva scoperto troppo tardi per smettere. Quel bambino fu il suo “salvatore”, le diede la forza di dire basta, le diede il coraggio di andare via. Milena continuava a soffrire e si vedeva.
 
Avevo deciso, Milena meritava il suo finale d’oro. Continuai a scrivere la sua storia, ma articolandola meglio, partendo dall’inizio della sua giovinezza, dal periodo al caffè e dai momenti in cui la hanno spinta a prostituirsi. Decisi di strutturare la sua storia in più parti, di arricchirla di particolari che solo lei avrebbe saputo darmi e quando saremmo riuscite a trovare il suo lieto fine, glielo avrei mostrato e regalato. Se lo meritava veramente.
 
Ma nel frastuono di quelle giornate infinte avevo dimenticato un’altra persona importante. Ginevra. Mi ero ripromessa che sarei andata a cercarla, mi ero ripromessa che non avrei perso un altro giorno. Ma visto che da cosa nasce cosa poi ho accantonato anche questo pensiero così importante.
 
“Suor Costanza, mi serve un favore.”
 
“Dimmi tesoro.”
 
“Mi servono dei soldi.”
 
“Ancora soldi?”
 
“Si, so che le sto chiedendo tanto e che lei sta già facendo moltissimo per me, ma è veramente importante.”
 
Suor Costanza poggiò lo strofinaccio sul lavandino e mi si avvicinò.
 
“Che devi fare?”
 
“Devo partire.”
 
“Eh no signorina. Non se ne parla. Tu non scappi un’altra volta.”
 
“Suor Costanza questa volta torno, glielo prometto.”
 
“Non me lo garantisce nessuno.” Si sedette su una delle tante sedie messe intorno al tavolo della cucina “Dove devi andare?”
 
“In Svizzera.”

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Capitolo 14
*** Dammi più coraggio. ***


Bologna, 3 marzo 1944
 
La situazione era ancora stabile. Non avevamo vinto ma sentivo che la guerriglia urbana fosse più gratificante di quella in montagna, dato che hai più mezzi, conosci il campo d’azione e non rischi l’ipotermia. Noi sei eravamo diventati un bel gruppo, piano piano stavamo imparando a conoscerci, provenivano tutti da un passato politico alle spalle, erano tutti comunisti. Ed io, che conoscevo solo che quello che i giornali di mio padre dicevano e soprattutto quello che mio padre, la professoressa Dalmasso e le istituzioni volevano che io sapessi, mi sentii quasi inadatta tra di loro. Io, che fino a qualche anno prima, nemmeno sapevo cosa fossero i comunisti e fondamentalmente non lo sapevo nemmeno adesso, sapevo soltanto che andavano evitati come la peste. Lila dice che in Unione Sovietica le donne non vengono trattate come veniamo trattate noi, che lì sono esattamente come gli uomini, se non meglio.
 
“Ma Marx non puoi mica leggerlo così.” Lila sembrava conoscere moltissime cose, lei mi aveva giurato di essere arrivata fino alla quinta elementare ma era impossibile. Lila era intelligente, colta, sapeva e parlava solo di quello che sapeva. Del resto, diceva: ‘le cose che non so le lascio dire a chi le sa’.
 
 
“E come lo dovrei leggere Marx? Ma tu hai capito quanto è grosso “Il Capitale”?” Lupo tentò di far capire a Lila che lui non avrebbe avuto le capacità intellettuali per comprendere un mattone come quello.
 
 Lila e Lupo continuavano a parlare di politica e di libri, io stavo preparando il caffè e Rocco era poggiato accanto a me, mentre Crusca e Sandokan erano usciti presto quella mattina. Rocco aveva le braccia incrociate e fissava Lila come se stesse ammirando un Bernini. Continuavo ad essere gelosa di lei, avrei voluto che anche a me lui donasse uno di quei sguardi che riserva solo a lei.
 
“Ti piace Lila, eh?” Azzardai con quella domanda.
 
“Tanto.”
 
“Andiamo a fumare in terrazzo?”
 
“Si.”
 
Ci recammo verso il terrazzo muniti di sigarette ed accendino.
 
“Agata, Lila è meravigliosa. “
 
“Lo so, ma lei non è una che puoi prendere in giro facilmente.”
 
“Ancora con questa storia?”
 
Mi zittii.
 
“Lila è una forza della natura. Sa tantissime cose e sa come utilizzarle. Io penso che donne come lei nel mondo ce ne siano veramente poche, e sapere che posso averla io mi fa sentire quasi fortunato.”
 
“Tu non hai Lila.”
 
“Ancora no. Ma quando finirà tutto, io la voglio sposare.”
 
Quelle parole mi fecero male, mi trafissero il cuore. Lui aveva scelto lei. I miei vani tentavi di far innamorare Rocco di me non erano serviti a nulla.
 
“E lei lo vuole?”
 
“Ancora non lo sa. Non le ho detto niente.”
 
“Lila non è una che accetterebbe queste cose.”
 
“Se è per questo, aveva anche detto cose terribili sul mio conto, mi odiava. E guardaci ora. Ora lei mi bacia, mi accarezza e mi desidera.”
 
“Lila se ne accorgerebbe se la usassi.”
 
“Ma io non la sto usando Agata, voglio fare le cose sul serio con lei. Voglio amarla ogni giorno, voglio poterla guardare dormire ogni notte e voglio costruire una famiglia insieme a lei. Lila potrebbe cambiarmi, anzi, forse già lo sta facendo.”
 
Dicendo quelle parole iniziò a sorridere come un tonto. Si sentiva veramente una persona diversa quando era con lei, ma il lupo perde il pelo ma non il vizio. Lila era cambiata davvero nei suoi riguardi, ora lo baciava davanti a tutti e la notte potevo sentirli ridere e scambiarsi parole dolci. Non lo so se lei fosse innamorata di lui, se potesse davvero fidarsi di una persona come Rocco Rinaldi però adesso gli stava insegnando ad amare e lui stava imparando velocemente.
 
“Compagni venite qui.” La voce di Crusca mi risvegliò dai miei pensieri angoscianti, dai miei pensieri pieni di odio nei confronti di quella coppia inusuale. Ci avvicinammo alla stanza dove erano tutti gli altri.
 
“Non potete capire cosa è successo.”
 
Sandokan diede il giornale a Rocco che lo lesse con un espressione concentrata, Lila glielo strappò dalle mani per leggere e poi lo posò sul tavolo e lì lo presi io.
 
Disastro ferroviario a Balvano : l'incidente del convoglio 8017 é la più grave sciagura ferroviaria.
 
“Quando è successo?” Lila prese la parola.
 
“Stanotte. Non so cosa significhi. Si è deciso che si sarebbe trattato di cause naturali.” Crusca tentò di spiegare la situazione a tutti.
 
“Ma non ci credo.” Sandokan disse la sua opinione.
 
“Va bene compagni, ma ora non ci fossilizziamo su questo, torniamo al nostro lavoro.” Crusca ci fece ritornare con i piedi per terra.
 
Qualcosa si stava muovendo ma noi sembravamo ancora fermi al punto di partenza.
 
Io e Lila andammo nel bagno per cambiarci e scendere di sotto con gli altri.
 
“Io queste gonne non le sopporto.” Lila iniziò a parlare visto che io stavo muta.
 
“Dobbiamo metterle per forza qui. E poi sono di Anna, trattale bene.”
 
“Le tratterò benissimo. Senti…ma…Molotov ti ha detto qualcosa?”
 
“Riguardo?”
 
“Beh, la nostra storia.” La loro storia.
 
“No, non mi ha detto nulla.”
 
“Alba, io non riesco a fidarmi. Tutti quei discorsi che aveva fatto sull’amore… non lo so. Non mi fido proprio.”
 
“E fai bene.”
 
“Però mi piace, sai. Il suo modo di pensare, il suo modo di rapportarsi con me. Lo farà con tutte, non lo so.”
 
Improvvisamente scoppiai in lacrime, ero arrivata al limite della sopportazione. Sentire lui parlare di lei, sentire lei parlare di lui. Era uno strazio, mi sentivo come in una bolla di vetro dalla quale non fossi capace di uscire.
 
“Ma che ti è successo?” Lila tentò di abbracciarmi, ma io rimasi inerme nella mia posizione continuando a piangere, fin quando non mi sciacquai la faccia e cercai di tranquillizzarmi.
 
“Io sono stata una delle tante, Lì.”
 
“Non ti capisco.”
 
“Io sono una di quelle che Rocco ha usato e poi buttato.”
 
Lila mi guardò perplessa, quasi stranita.
 
“Chi è Rocco?”
 
“Rocco è Molotov.”
 
Lila ebbe immediatamente un’espressione più preoccupata, lei non poteva saperlo, ma era come se immediatamente si sentisse in colpa nei miei riguardi.
 
“Ne vuoi parlare?”
 
“E a che scopo? Lui ora ama te.”
 
 
“Alba, calmati. Capisci bene che se quello che dici è vero, sarà lui che avrà perso te, e anche me.”
 
Mi schiarii la voce “Me lo presentò una mia amica a Torino. Dopo una chiacchierata, mi rivelò che io gli piacessi ma io scappai. Poi si presentò sotto casa mia, mi disse un sacco di cose belle e poi mi diede un bacio. Il mio primo bacio Lì.”
 
“Mi dispiace tanto.”
 
“Ma non è finita qui. Qualche giorno dopo mi invitò a casa sua e mi convinse a fare l’amore con lui. E io lo feci, so che è stata una cosa incosciente, che dovevo aspettarmelo, ma in quel momento mi sembrava che lui mi amasse. Dopo una settimana io gli chiesi spiegazioni ma lui mi disse che era successo e basta, senza continuare.”
 
“Ma veramente?”
 
“Si Lì, te lo giuro.”
 
Lila si vestì rapidamente e indossò le scarpe. E poi uscì dal bagno.
 
“Adesso mi sente.”
 
“Lila ma dove vai?”
 
“Vieni sotto.”
 
Anche io mi vestii velocemente e uscii immediatamente di casa, correndo verso di lei che però sembrava indemoniata. Vedendoci uscire fuori dal palazzo, Rocco sorrise e Lila lo sorrise camminando più regolarmente. Ma a che gioco sta giocando, pensai. Poi proprio mentre lui si chinò su di lei per darle un bacio, lei gli piantò uno schiaffo dritto in faccia.
 
“Ma perché?”
 
“Perché? Mi chiedi anche perché? Fai schifo Molotov, anzi Rocco, se questo è il tuo vero nome.”
 
Rocco la prese da un braccio ma Lila teneva la presa, fin quando Crusca non li divise.
 
“Non mi devi più toccare, baciare, parlare. Non ti devi più avvicinare a me. Sei uguale a tutti quanti, sei un viscido. Ecco cosa sei.”
 
Rocco si lanciò immediatamente verso di lei cercando di baciarla ma lei riuscì a spostarlo, ma lui si gettò a terra avvinghiandosi alle sue gambe.
 
“Smettila di essere patetico e sollevati.”
 
“Lila io con te sono sincero, te lo giuro.”
 
“Ma chi ti crede? Io ho sbagliato a stare con te, ho sbagliato.”
 
“Ma che hai combinato?” Sandokan si avvicinò a me e sottovoce tentò di colpevolizzarmi per qualcosa che in realtà aveva fatto lei.
 
Rocco si rimise in piedi e prese le mani di Lila e la guardò negli occhi.
 
“Mi chiamo Rocco Rinaldi, sono nato a Torino il 5 maggio del 1918. Vengo da una famiglia di operai, ho tre sorelle e mio padre è morto durante uno sciopero. In quel momento ho capito cosa volessi fare nella vita, cioè lottare per i diritti degli operai. Prima di venire qui ero un semplice operaio di una fabbrica ed è vero. Giocavo con le donne. Ma adesso basta Lì, io ti voglio sposare.” Si mise in ginocchio tenendole le mani e Lila senza nemmeno accorgersene sorrise “Lila, finita questa merda, vuoi diventare mia moglie e restare con me per sempre?”
Lila continuava a sorridere e delle lacrime le scesero sul volto, poi mi guardò, ritrasse le mani e la sua espressione ritornò seria.
 
“No. Io uno come te non me lo sposerò né ora e né mai.”
 
Imbracciò il fucile e continuò per la sua strada seguita da Lupo e Crusca. Rocco rimase piantato a terra per un po’ fin quando non si alzò e si girò verso la direzione in cui eravamo io e Sandokan. Il suo sguardo divenne feroce, aveva capito. Caricò il fucile e venne correndo verso di me, con il fucile puntato.
 
“Io ti uccido!”
 
Sandokan si mise in mezzo, riuscendo ad evitare che facesse sciocchezze “Ma che cazzo fai? Ritorna in te. Prima te le scopi tutte e poi speri che una voglia stare con te ? Ma che ti passa per la testa?”
 
“Glielo hai raccontato pure a lui?”
 
“Si. E allora?” Risposi con un coraggio che non pensavo di avere.
 
“E allora? Tu hai messo idee in testa a Lila, mi hai distrutto.”
 
“Le cazzate le hai fatte prima tu, ora ne paghi le conseguenze.”
 
“Sentimi bene, perché non te lo ripeterò più. Io non ti voglio, non ti ho mai voluto, per me sei contata quanto tutte le altre ragazze con le quali ho fatto sesso, non l’amore, sesso. Non è significato niente, assolutamente nulla. Se potessi tornare indietro nemmeno lo rifarei sapendo tutti i guai che mi stai portando. Sei una pazza, Agata Giordano, ecco cosa sei.” E se ne andò.
 
Ecco quello che temevo potesse dirmi. È andata male, non solo per me, per tutti e tre. ‘Io non ti voglio, non ti ho mai voluto’. Lapidario, proprio come una pietra che ti viene lanciata sul petto, sul cuore. Sicuro di sé, come sempre, indifferente alle mie lacrime che stessero per scendere, indifferente alla ferita che mi stava facendo. Sono caduta nel ruolo di quelle che si fanno scopare dagli uomini ma che poi si dimenticano. Le lacrime cominciano a bagnarmi le guance, la gola inizia a bruciarmi. Gli auguro di trovare una vera pazza, di quelle sadiche, che lo facciano stare male per tutta la vita. Perché non sono stata all’altezza delle sue necessità? Perché non sono riuscita ad essere tranquilla, frivola, misteriosa ed anche un po’ cattiva, come Lila, da tenerlo legato a me? Provai a pensare a tutti gli epiteti peggiori che avessi potuto utilizzare per definirlo, ma ancora una volta, non ero capace. Le lacrime diventano come un fiume in piena, accompagnate dai singhiozzi. Sandokan che ancora era destabilizzato dalla situazione in cui si era ritrovato mi abbracciò molto delicatamente e poggiò il mento sulla mia testa e io, in quel momento, non riuscii a non fare altro se non a concedermi alle sue braccia.
 
“Lo vedi perché non è buono avere dei coinvolgimenti emotivi.”
 
Mi fece ridere, come ci riuscisse non lo so, ma quel ragazzo burbero che avevo tentato di sparare, aveva una ricchezza interiore che era unica nel suo genere.
 
“E poi Agata è un bel nome.”
 
Restammo abbracciati per un po’. Poi mi staccò da lui, fece passare la sua mano tra i miei capelli osservando il movimento lento che compiva la mano. Poi la posò sulla mia guancia e mi guardò.
 
“Passerà” disse.
 
Se lo dici tu, mi fido.
 
Bologna, 12 marzo 1944
 
Ci avevano detto che ora eravamo diventati dei GAP. Io non sapevo nemmeno che cosa significasse quella parola, per me era il buio più totale e pare che Crusca fosse diventato il capo della nostra zona, ma per noi lo era già. Era preparato, era disciplinato, era rassicurante, non era mai agitato o arrabbiato, almeno non fin quando veniva toccata Anna. I gappisti conducono spesso una doppia vita, svolgendo un impiego ordinario per camuffare l'attività clandestina. Infatti, io e Lila dovevamo indossare una gonna per evitare di essere notate tra le altre donne, dovemmo posare il fucile di giorno e tenere una pistola nel doppio fondo della borsetta e dei coltelli legati alle cosce quando necessario. Gli uomini, invece, iniziarono a lavorare in una fabbrica ma più che altro per animare le coscienze politiche delle persone, infatti non rimanevano nella stessa fabbrica per più di un mese. Il compito dei GAP è tra i più pericolosi tra i partigiani, e noi siamo tra i più colpiti dalla repressione nazista e fascista. Il potere nazifascista è diventato dilaniante, si è manifestato anche in Italia nella deportazione e nello sterminio razziali, nella rappresaglia indiscriminata, nelle stragi. Noi attacchiamo sempre mezzi e uomini del nemico, ma non facciamo mai esplodere vetture ferroviarie o autobus pieni di cittadini, non ci facciamo mai scudo di cittadini innocenti. Ed oggi sarebbe toccato a me.
Il mio compito era semplice: sedurre un uomo. Un ufficiale tedesco, per la precisione. Mi avevano detto cosa fare punto per punto, non avrei potuto fare di testa mia perché sarebbe successo un guaio. Mi preparavo in bagno come se stessi andando a battere, mi sentivo disagiata, mi sentivo non conforme. Lila mi preparava i capelli mentre io cercavo di truccarmi con quel poco che avevamo.
 
“Sei agitata?”
 
“Eh si.”
 
“Rilassati, quanto prima lo spari.”
 
Mi girai di scatto guardando Lila negli occhi e in quel momento entrò anche Anna.
 
“Tutto bene? Ci sei?” Anna era stata mandata per controllare se la situazione fosse sotto controllo.
 
“Entra e chiudi.” Lila ordinò ad Anna cosa fare senza nemmeno darle il permesso di ribattere.
 
“Io non ho mai sparato.”
 
“Alba, in un momento di panico ti viene naturale.”
 
“E poi questo è lo scopo dell’azione, no?” Anna che si era seduta sul bidet, si intromise nella nostra discussione. Le guardai per un attimo e poi mi rigirai verso lo specchio continuando a truccarmi e Lila riprese a sistemarmi i capelli.
 
“Per voi è facile.”
 
“Alba, non è facile per nessuno. Io pensavo di svenire la prima volta che ho sparato.” Lila cercò di tranquillizzarmi.
 
“Esatto, poi hai quel senso di colpa che ti pervade, ma sai che lo hai fatto per difenderti, che se non avessi sparato prima tu, lo avrebbe fatto di certo lui. Sai che andava fatto.” Anche Anna provò a consolarmi in qualche modo, ma era inutile, mi continuavo a sentire strana.
 
“Vi volete sbrigare!” Crusca iniziò a bussare alla porta del bagno e noi uscimmo. Quando gli altri mi videro conciata in quelle condizioni rimasero quasi a bocca aperta.
 
“Quanto ti prendi?” Sandokan tentò di fare il simpatico ma mi stava solo infastidendo maggiormente.
 
Mi sedetti sulla sedia di fronte alla sua e mi accesi una sigaretta. “Non lo voglio più fare.” Dissi.
 
“Che cosa?” Crusca si avvicinò di scatto.
 
“No, Crusca, non ce la posso fare. Fallo fare ad Anna o a Lila. Per favore.”
 
“No Alba, questo lo devi fare tu.”
 
Mi tremavano le mani, mi sentivo ridicola in quelle vesti, misi in discussione anche il da farsi.
 
“Alba.” Sandokan si chinò verso di me e mi prese le mani “Alba, guardami.” Alzai lo sguardo ma le lacrime continuavano a scendere, avevo imparato a piangere in maniera silenziosa, lui mi asciugò il viso e riprese “Noi non ti lasceremo mai sola. Saremo nel caffè due tavoli più in là di te, saremo dietro l’angolo quando lo porterai fuori, saremo con te sempre. Non permetteremo che ti possa fare del male, mai.”
 
“Sandokan ha ragione, non permetteremo che possa succederti qualcosa.” Lila si intromise.
 
“Va bene Alba?” Crusca mi accarezzò la testa e io feci cenno di sì con la testa, feci l’ultimo tirò alla sigaretta e poi mi alzai per andare in scena, seguita dai miei compagni.
 
Camminavo per le strade di Bologna sentendomi un essere strano. Le mie gambe nude facevano scalpore in un’epoca piena di pregiudizi. Sentivo gli occhi degli uomini arrapati addosso e gli occhi delle donne invidiose e frustrate giudicarmi senza limite. Me lo meritavo, pensai. Se ora mi avesse vista Giovanni, avrebbe detto che era un classico Giordano, volere dimostrare così tanto qualcosa fino ad ottenerla veramente, seppure io non fossi come volevo far vedere alla gente. Ed ora io, Agata Giordano, la figlia del professore, la damina di Torino, stavo camminando mezza nuda come una svergognata in tarda serata per le strade di Bologna per uccidere un ufficiale tedesco. Se lo avessi raccontato qualche anno fa, nessuno ci avrebbe creduto. Prima di oltrepassare la strada per raggiungere il bar, volsi uno sguardo ai miei amici che a loro volta mi guardarono e iniziarono a parlare tra di loro. Anna e Rocco stavano venendo a braccetto verso di me. Avevo capito, loro mi avrebbero osservata all’interno e gli altri fuori.
 
Passai la strada ed entrai nel caffè, suonava “Dammi del tu”e il caffè era colmo di uomini, solo uomini, e poche donne che erano vestite esattamente come me, però loro quel lavoro ambiguo lo facevano davvero, a differenza mia. Lo avvistai subito e senza troppi giri di parole mi misi ad un tavolino accanto a quello dove era messo lui. Era un uomo alto, possente, muscoloso e bastardo. In quel momento, quella adrenalina che avevo perso nel bagno con le altre ragazze, ricomparve. Avevo voglia di prenderlo e ucciderlo con le mie stesse mani, ma non una morte veloce e quasi indolore, volevo che soffrisse, volevo che fosse lenta.
 
 Ordinai un gin, come se io avessi mai bevuto un alcolico in vita mia e sapessi quale fosse il migliore. Iniziai a scrutarlo e a capire come fare per avvicinarmi a lui, ma bastò accendere una sigaretta, accavallare le gambe, fare l’indifferente e sorseggiare il mio drink per fare in modo che sia lui ad avvicinarsi a me.
 
“Italiana?” Parlava l’italiano discretamente, ma con quell’accento fastidioso tipico tedesco .
 
“Non si vede?” Ridacchiai come una scema ma sembrava gli piacesse.
 
Lo invitai ad avvicinarsi e mi chinai sul suo orecchio “Scommetto che in Germania delle donne così non ci sono.” E mi ricomposi continuando a bere il mio gin, che per la cronaca mi stava uccidendo. Mi sentii soddisfatta della mia finta supposizione, la sua espressione faceva intendere molto chiaramente che mi desiderasse dal primo momento in cui mi aveva adocchiata.
 
“Signorina, sa in cosa sono brave le donne del mio Paese?”
 
“No, in cosa?”
 
“Fare sesso.”
 
“Ma com’è volgare.”
 
“Dico la verità.”
 
“Siamo molto brave anche noi.”
 
“Ah si?”
 
“Eh già. Peccato che gli uomini un po’ di meno.”
 
“No, invece da noi gli uomini sono più bravi delle donne.”
 
“Sciocchezze.”
 
“Io dico solo la verità.”
 
“No, non le credo.”
 
“Ma le dico di sì.”
 
Spensi la sigaretta, calai tutto ad un sorso quel poco di gin che era rimasto e mi chinai su di lui. “Me lo dimostri allora.”
 
Prima che potessi spostarmi lui mi diede un bacio e sebbene il mio ribrezzo, dovetti cedere a quel bacio forzatamente. Mi prese la mano e mi accompagnò fino alla porta, nel frattempo io guardai Rocco ed Anna che non avevano smesso un momento di osservarmi.
 
Usciti fuori, mi prese di forza e mi strattonò contro il muro della parte posteriore del caffè. Non è così che doveva andare, pensai. Senza nemmeno darmi il tempo di comprendere cosa stesse succedendo mi bloccò i polsi, tenendomi ben serrata al muro. Continuava a baciarmi ma io tenni le labbra strette, adesso non c’era più bisogno di fingere. Sentivo la voce di Lila urlarmi nel cervello ‘ spara cazzo, Alba, spara adesso’. Ma non ci riuscii. Non riuscii a prendere la pistola che era nella borsa ormai a terra e non riuscivo neanche a prendere quella che lui teneva alla cinta. Ora mi violenterà, pensai. Allora non so quale forza interiore mi spinse a gridare aiuto oltre dimenarmi ed ansimare. Ma mi arrivò uno schiaffo pesante in faccia e delle frasi in tedesco mi risuonavano in testa. Adesso è finita. Adesso mi ammazza. Ma proprio mentre sentii il rumore della cintura che si slacciava, vidi qualcuno tirargli qualcosa in testa. Era Sandokan.
 
Istintivamente lo abbracciai fortissimo, quasi come se non volessi più lasciarlo andare.
 
“Come stai?”
 
“Adesso bene.”
 
“Dai prendi la borsa che andiamo.”
 
Ma il peggio accadde. Vidi l’ufficiale iniziare a picchiare ferocemente Sandokan. Un pugno, poi due, poi tre. Fin quando non cadde a terra e lì iniziarono i calci. Uno, due, tre, quattro. Potetti sentire le sue ossa spezzarsi. Sandokan, ti prego non mi lasciare proprio ora. Cercai qualcosa nella borsa per poter aiutare il mio amico o per poter uccidere quell’uomo in qualche modo. Sentii un peso forte sulla testa, le mani iniziarono a tremare e dalla fronte sudavo freddo. Ero ufficialmente nel panico. Il peggio stava succedendo. Cosa fai? Non reagisci? Caccia fuori le palle Agata. Lo dovevi uccidere prima. Lo sapevi sarebbe finita così. Dovevano darti ascolto. Muoviti Agata. Quindi? Fai qualcosa. Salva Sandokan Agata. Trova qualcosa per ucciderlo. Agata, sbrigati. Agata devi essere più veloce.
 
All’improvviso silenzio, uno sparo e poi silenzio. Il peggio era capitato. Vidi correre verso di me Lila ed Anna che piangevano come due bambine ed io mi unii al loro pianto abbracciandole.
 
Crusca prese la pistola che era caduta a terra e la consegnò a Rocco, che era impietrito nel vedere un morto così vicino a lui. Anna e Lila si staccarono e rivolsi lo sguardo dove era appena successo il macello. Non potevo crederci.
 
“Grazie Alba.” Sandokan venne lentamente verso di me e mi abbracciò. “Mi hai salvato la vita.”
 
“Si adesso dobbiamo scappare però.”
 
Crusca ci ricordò perché fossimo andati lì all’inizio. Per uccidere l’ufficiale. E ci eravamo riusciti. Ci ero riuscita. Ma quello che mi spinse ad uccidere quell’ufficiale non fu più l’odio profondo per il nemico, ma il bene sincero che provavo per Sandokan.

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Capitolo 15
*** Chi siamo e chi vorremmo essere. ***


Torino, 1° aprile 1946
Finalmente io e Suor Costanza eravamo riuscite a raccogliere i soldi necessari per permettermi di partire alla volta di Ginevra. Speravo con tutto il cuore che non si fosse rivelato un viaggio a vuoto, un viaggio senza un significato apparente. Speravo che sarebbe stato un viaggio produttivo e soprattutto che sarei stata capace di riportare a casa Ginevra, di riportarla a Torino. Aveva smesso persino di scrivere alla sua famiglia e nonostante tutto il bene che ci siamo volute, non mi ha mai nemmeno cercata nella speranza di trovarmi. Cominciavo a pensare che forse, esattamente come me, lei si era fatte delle nuove amiche, più simili a lei, di un mondo uguale al suo. Mentre io avevo trovato Rossella e Milena, ma che fondamentalmente erano delle copie più scialbe di Ginevra.


Visto che non potevo averla con me, cercavo in tutte le persone qualcosa che me la ricordassero, così da sentire meno la sua mancanza. Ma era solo più frustrante. Mi ricordava dove lei potesse essere, cosa stesse facendo, con chi fosse. Era la mia amica perfetta, e per quanto io cercassi di rimpiazzarla con qualcuno, sapevo in cuor mio che non avrei mai trovato nessuno esattamente come lei.
 
Ora ferma alla stazione di Torino seduta su quelle panchine che qualche anno fa mi hanno portato via dalla mia città, attendo una nuova avventura. Mi veniva da pensare che forse i guai non me li cercassi io, ma fossero loro a venire da me. Come se io avessi il compito di aggiustare tutti i casini del mondo, come se la vita mi mettesse alla prova, come se mi volesse dire ‘vediamo quanto resisti’. Ma io non lo so quanto tempo avrei resistito oltre. Quelle sigarette che avevo ricominciato a rollare per sfizio, per passare il tempo, per cura, stavano diventando un vero e proprio vizio. Ero capace di fumarne tre o quattro di fila per quanto fossi stressata. Ancora circolavano delle sigarette di contrabbando provenienti dall’America, ma io non ci ero mai cascata, sebbene fossero sicuramente di una qualità migliore, non volevo altri guai. Anche adesso che potrei semplicemente bere un caffè o mettere qualunque cosa nello stomaco, mi viene voglia di fumare. E basta. Io, che leggendo “La Coscienza di Zeno” mi venivano in mente solo critiche alle persone che spendevano soldi inutilmente e si danneggiavano la salute. Che ipocrita che sono stata.
 
Il treno per Ginevra sarebbe arrivato a momenti, sarebbe partito da Torino alle 06:42, poi avremmo fatto un cambio a Milano di qualche minuto e poi saremmo ripartiti subito per poi arrivare a Ginevra alle 16:00. Poi ci avrei messo una ventina di minuti a piedi dalla stazione al mio ostello e poi avrei dovuto trovare soltanto casa di Ginevra. Avevo l’indirizzo e il numero civico, nient’altro. Proprio quando ragionavo su quale fosse il metodo più semplice per ritrovarla, arrivò il treno. Salii e mi sedetti al mio posto dove erano seduti solo una signora anziana e un uomo sulla trentina.
 
 
“Buongiorno.” Tentai di far notare a quelle persone che io fossi appena entrata lì. La signora mi sorrise e l’uomo che era immerso nel suo giornale, molto semplicemente sollevò di poco il cappello e fece un mezzo sorriso.
 
“Gradisce il posto dal finestrino?” La signora anziana era molto gentile, sentivo che sarebbe stata una grande compagna di viaggio.
 
“Si, la ringrazio.” E mi sedetti.
 
“Dov’è che va, signorina?” La signora anziana decise di intraprendere una conversazione convenzionale, e sebbene odiassi conversare per circostanza, in quel momento credetti fosse necessario per far in modo di non annoiarmi.
 
“Ginevra, Svizzera. Lei?”
 
“No no, io mi fermo a Milano.”
 
“È salita qui?”
 
“Si, qui a Torino. Ero venuta per salutare mio figlio.”
 
“Ah capisco.”
 
“E lei come mai va a Ginevra?”
 
“Vado a trovare un’amica.”
 
“Ah, bene.”
 
 
La situazione stava diventando leggermente imbarazzante. Gli argomenti erano terminati di già e io che non ero una persona che amava chiacchierare così, ovviamente non avevo più nient’altro di cui parlare.
 
L’uomo mi porse il giornale come invito a leggerlo.
 
“No, la ringrazio.” Dissi io di getto. L’uomo poggiò il giornale con delicatezza sotto il suo cappotto, poi tolse il cappello e lo posò di sopra. In seguito, girò il volto verso il finestrino e si mise a guardare verso fuori il paesaggio che velocemente scompariva.
 
“Noto con piacere che indossa i pantaloni.” L’uomo senza neppure rivolgermi uno sguardo aveva già dato il suo giudizio. Un classico.
 
“Dice a me?”
 
“Eh a chi altrimenti? Di certo non alla signora.”
 
“Ah. Ma prima che lei dica qualunque cosa e dia qualunque giudizio. A me piacciono, sono comodi e cerchiamo di abbattere questa convinzione che le donne debbano indossare solo vestiti e gonne.”
 
“Lei è un po’ scorbutica signorina.” Poi sorrise. “Lei vive già nel futuro.”
 
“Che cosa?”
 
“Lei è una donna del futuro.”
 
“Non la capisco.”
 
“Sebbene siamo già nel 1946, lei è come se già vivesse nel 1956, ma si rende conto?”
 
“Perché porto i pantaloni? In realtà si portavano già ai tempi di Caterina de Medici.”
 
“Si, anche per questo. Ma lei è sicura nel rispondere, non ha paura. Lei non è sottomessa. Sa, anche dove sono stato io per tanto tempo le donne sono già così, sono già nel futuro.”
 
“Quindi…a lei non importa come mi vesto?”
 
“No. A lei interessa come vesto io?”
 
“No ma è diverso.”
 
“No, non lo è. Non è nemmeno sposata.”
 
Ritrassi subito la mano.
 
“No, non lo sono.”
 
“Una scelta?”
 
“Non proprio.”
 
“E che fa nella vita?”
 
“Frequento l’università di Torino, studio Lettere.”
 
“Cioè mi faccia capire. Lei, donna, frequenta l’università?”
 
“Si, ma non sono l’unica.”
 
“Ma è borghese?”
 
“Diciamo di sì”
 
“Ah, ora mi spiego un paio di cose.”
 
“Lei ha detto che viene da un posto dove le donne sono già nel futuro, vale a dire?”
 
“L’America ovviamente.”
 
“Lei vive in America?”
 
“Ora non più, per questioni di lavoro sono tornato in Italia. Ma quando posso torno sempre.”
 
“Lei ha realizzato il suo sogno americano?”
 
“Si, più o meno sì.”
 
“Io non ho mai aspirato all’America, l’ho vista come una cosa più grande di me.”
 
“Si fidi di me, è molto più piccola di quanto possa sembrare. E poi, lei con questo carattere può andare dove vuole, anzi le dirò di più. Ad un certo punto, sarà l’America a venirla a cercare.”
 
“Ma a me tutto sommato l’Italia piace.”
 
“Eh come si dice: la patria è patria.”
 
Continuammo a parlare dell’America, dell’Italia e di quanto fosse bello poter ricominciare a viaggiare adesso. Come l’America avesse così tanto da donare alle persone, come l’America non ha lasciato indietro nessuno, nemmeno gli italiani. Di come lui si fosse innamorato dell’America, come non riusciva più a sopportare la sofferenza che si vivesse in Italia, di come avesse bisogno ancora di sognare ed amare. E adesso, che aveva avuto una buona opportunità qui, si rende conto di come i sogni della giovinezza possano svanire da un momento all’altro. Ma nonostante questo, non ha nessuno rimpianto. Non si pente di aver dovuto abbandonare l’America per l’Italia, ma non si pente nemmeno di esserci andato.
 
 Senza nemmeno accorgermene io e il Signor C., come potevo scorgere dalla cucitura della sua giacca, non avevamo smesso un attimo di parlare. Quell’uomo era diverso da tutti quelli che ho incontrato nella mia vita, era anche diverso da Michele. Era sicuramente un bell’uomo, ma questo gli faceva da cornice se c’è da considerare tutte le altre peculiarità che dimostrava parola dopo parola. Era intelligente, colto, simpatico. Aveva una mente aperta, non aveva problemi a confrontarsi con il diverso, non riteneva fosse giusto come noi donne venissimo trattate ogni singolo giorno, della condanna che ci era stata data dal giorno della nostra nascita e che poi sarebbe diventata un omicidio dal giorno del nostro matrimonio. Non ebbi il coraggio di dirgli del bambino, non volevo che mi guardasse poi tanto diversa da quella che fossi, che mi fossi omologata a tutte le altre mie coetanee. Per una volta un uomo mi apprezzava veramente.
 
Scendemmo alla stazione di Milano e salutai la signora anziana che era seduta accanto a me. Poi prima di andare sull’altro treno decisi di fermarmi a fumare una sigaretta. Avevo perso di vista il Signor C. fin quando non lo vidi avvicinarsi verso di me con uno splendido sorriso in volto.
 
“Fuma pure? Ma lei viene direttamente dai ’60 allora.”
 
“Lei non sa cosa dice.” Tentai un mezzo sorriso.
 
“Prima ho sentito che andrà a Ginevra.”
 
“Si, devo andare da un’amica.”
 
“Ho sentito anche questo.”
 
“E lei dove va?”
 
“Lo vuole sentire un brutto scherzo del destino?”
 
“Dica.”
 
“Domani devo prendere un treno da qui per andare a Ginevra, ma adesso devo fermarmi a Milano. Sa, faccio l’azionista di borsa.”
 
“E dov’è lo scherzo?”
 
“Mi sarebbe piaciuto proseguire il viaggio con lei, continuare a parlare, e poi magari una volta arrivati lì, avrei potuto invitarla a cena.”
 
“Senta…”
 
“No, non dica nulla. Mi dica solo che stanotte si fermerà a Milano e domani prenderà il treno con me.”
 
Mi venne immediatamente da sorridere. “Lei è folle. Non posso, mi spiace.”
 
“È fidanzata?”
 
“No, non voglio io.”
 
“La prego, non mi faccia questo.”
 
“Mi dispiace.” Gettai la sigaretta a terra, presi la valigia e andai in direzione del binario. Mi girai un attimo per guardarlo e lui era ancora piantato lì ad osservarmi.
 
“Ci ripensi.” Urlò.
 
Scossi la testa e salii sul treno. Mi sedetti dal lato del finestrino e mi alzai sporgendomi dalla parte superiore del finestrino che era aperta, per guardarlo ancora. Lui mi vide. E mentre il treno era in partenza, ancora lentamente, lui inizio a correre verso di me, cercando di reggere la velocità del treno.
 
“Ma che fa? Ma è impazzito?”
 
“Si, penso di sì.”
 
“La smetta potrebbe farsi male.”
 
“Non mi importa.”
 
“Ma che vuole?”
 
“Io devo rivederla.”
 
“Va bene.” Un sorriso mi si fermò sulle labbra.
 
“Devo sapere il suo nome prima.”
 
“Mi chiamo Agata. Agata Giordano.”
 
“Ciao Agata.” Sorrise anche lui.
 
Il treno iniziò ad andare troppo veloce per far sì che lui riuscisse a reggere la velocità del treno. Un uomo mi aveva riconsiderata dopo tanto. Ma ero io che non potevo più amare, non ero più capace. Non avrei potuto tradire Michele così. Michele era la prima cosa importante per me, sapere che me lo hanno strappato è ancora peggio. Gli ho giurato amore eterno, e così farò. E poi c’è il bambino. Ormai il mio momento di amare è finito. In quel momento un sonno profondo prese il sopravvento sui pensieri. E a risvegliarmi fu la signora di fronte, avvertendomi che sarei dovuta scendere alla prossima stazione. 
 
Scesi dal treno, e uscii dalla stazione. Ginevra era bellissima. Non era la prima volta che andavo lì, c’ero già stata con la mia famiglia ma rimasi comunque folgorata dalla bellezza di quella città. La gente era in un altro livello in quella città, viveva una vita completamente diversa dalla mia. La guerra sembrava non avesse nemmeno toccato lontanamente la Svizzera, sembrava come se quel terrore che noi italiani abbiamo vissuto per molto tempo, loro la avessero superata o meglio, mai vissuta. Quel treno delle 06:42 mi aveva trasportata in un altro mondo, distanze enormi sembravano dividermi da quella disperazione che vivevo a Torino, mi sentivo da sola ma era bello. Avevo gli occhi che luccicavano tanto dalla bellezza che avevo davanti. Ora capisco cosa Ginevra provasse per questa città, se adesso fosse stata davvero felice.
 
Continuavo a camminare con un’espressione meravigliata in volto, ma finalmente arrivai all’ostello. Di certo non era un grande hotel ma era l’unica che potevo permettermi in quel momento, e se mi avesse riportato da Ginevra, sarebbe bastato. Chiesi indicazioni al personale per portarmi nella mia stanza, e fortunatamente il mio francese non mi aveva tradita nemmeno per un attimo. Posai le cose sul letto di quella misera stanza ed uscii immediatamente da quel posto per iniziare a trovare la strada che avevo scritto su quella lettera.
 
“Salut, pouvez-vous me dire où est cette rue ? (Salve, sa dirmi dove posso trovare questa strada?)” Chiesi indicazioni ad una signora che si trovava lì vicino e lei in un modo molto gentile, mi spiegò molto chiaramente dove potessi trovarla, e si offrì anche di accompagnarmi ma rifiutai. Dovevo farcela da sola questa volta.
 
Iniziai ad incamminarmi dopo aver ringraziato quella signora tanto gentile e dopo un po’ di errori e aver chiesto altre informazioni ai passanti man mano che mi avvicinavo alla strada, ci avrò messo una mezz’ora. Fino a quando non arrivai davanti al palazzo che portava il numero civico della lettera inviata da Ginevra alla sua famiglia. La porta era aperta e allora entrai in quel maestoso palazzo, iniziando dal primo piano a controllare il nome su tutte le porte, ma man mano che salivo non riuscivo ancora a trovare il cognome di Ginevra, per un attimo pensai di aver sbagliato tutto o che se ne fosse andata. E poi eccolo lì. ‘Barbieri-Pellegrino’. Si era sposata.
Prima di bussare ci pensai un paio di volte, ma dopo aver esitato per troppo tempo, bussai. Quando sentii dei passi che si avvicinavano alla porta mi sentii il cuore in gola. La stessa sensazione che provai quando bussai alla mia vecchia casa nella speranza di trovare Emilia. E se anche in quel caso, non fossi riuscita a trovarla? Ma poi la porta lentamente si aprì e la vidi. Era lei. Ma era diversa.
 
Aveva un’espressione più triste, più angosciata. Però il suo abbigliamento era cambiato, adesso anche lei indossava dei vestiti di un certo calibro, non aveva più quell’aria sciatta che aveva a Torino. Adesso aveva i capelli più corti, ondulati ed ordinati. Le unghie smaltate e aveva un profumo buono. Il corridoio alle sue spalle annunciava un presagio della sua condizione economica adesso. Era ricca. Ma la cosa che più mi stupì fu il livido nero che aveva a lato dell’occhio sinistro.
 
“Gì.”
 
Non disse niente, continuò a guardarmi con quello sguardo assente, come se non fosse stupita nel vedermi lì. E poi mi abbracciò forte e io senza dire parole inutili ricambiai il suo abbraccio stringendola più forte. Una lacrima mi stava rigando il viso quando lei si staccò da me.
 
“Entra, che ti offro qualcosa.”
 
Entrai in quella casa, ed il mio presagio era giusto, aveva una bella casa, degna del nome di una persona ricca o quanto meno che stesse bene economicamente. Ce l’aveva fatta. Entrate in cucina mi fece accomodare e mi porse una tazza da tè, che si premurò di riempire con dell’acqua calda direttamente del bollitore e poi inserì una bustina di tè e rifece l’azione con la sua tazza. Si sedette ed iniziò a sorseggiare il suo tè, senza dire una parola. Non mi guardava nemmeno.
 
“Gì.”
 
Alzò lo sguardo.
 
“Tutto bene?”
 
“Si, perché?”
 
“Ti vedo strana.”
 
“No, sto bene.”
 
“Ma quel livido.”
 
Si portò una mano sul livido cercando di coprirlo con i capelli
“Niente, sono caduta dalle scale. Ma sei venuta qui per questo?”
 
“No, ma sei impazzita?”
 
“E allora.”
 
Ginevra sapeva ucciderti con le sue parole ma sapeva anche curarti. Ma in quel momento non riuscii a comprendere che cosa stesse facendo con me.
 
“Com’è andata quando sei partita?”
 
“Come mi hai trovata?”
 
“Gì ma non sei felice di vedermi?”
 
“Certo.” Lo disse in maniera spenta, come se lo avesse detto perché andava detto. “Allora, mi rispondi?”
 
“Gennaro e i tuoi genitori mi hanno dato il tuo indirizzo, so che non li stai scrivendo più.”
 
“Non mi va.”
 
“Ma perché Gì?”
 
Restò in silenzio.
 
“Ho visto che ti sei sposata.”
 
E iniziò a piangere come se le avessi detto la cosa più triste del mondo, tentai di prenderle le mani anche se ancora non capivo per quale motivo avesse iniziato a piangere in maniera esagerata, ma lei ritrasse le mani per poi sbatterle sul tavolo. Poi si calmò.
 
“Gì, mi vuoi dire che hai?”
 
“Si, mi sono sposata.”
 
“E non sei contenta?”
 
“No.”
 
“Perché?”
 
“Perché gli uomini fanno tutti schifo.”
 
“Che è successo?”
 
Tirò un sospiro, poi mi guardò bene negli occhi e poi abbassò lo sguardo.
 
“Mi sono sposata poco dopo essere tornata dal periodo in montagna. È stato brutto Agata, stavo uscendo pazza. Sentivo delle voci, vedevo ombre, avevo allucinazioni, facevo tante cose strane. Mi dovevano chiudere in un manicomio, ma poi ho incontrato questo medico di Pordenone che si è preso cura di me. Ho iniziato ad amarlo e lui ha iniziato ad amare me e allora ci siamo sposati subito.”
 
“Perché non mi hai detto nulla?”
 
 
“Non lo abbiamo voluto dire a nessuno.”
 
“Capisco. E cosa c’è di brutto in questo, scusami? Non riesco a seguirti Gì.”
 
“Lui aveva promesso di amarmi Agata, mi aveva promesso tutto il bene. Mi aveva resa ricca, felice, e mi aveva portato qui. Lui non ha faticato nel trovare un buon lavoro in una clinica e quando gli ho chiesto se io dovessi lavorare per campare, lo sai che ha fatto?”
 
“Dimmi.”
 
“Si è messo a ridere, trovava divertente che io mi volessi trovare un lavoro.”
 
“E tu non lo sopporti per questo Gì?”
 
“Magari Agata. Stiamo cercando di avere un figlio, ma io non esco incinta, Agata. Dice che io sono malata, che è colpa mia. Io non ce la faccio più. Poi dopo che mi scopa, mi picchia per punirmi. Gli uomini sono così, ti parlano di amore e poi ti trattano male, prima ti comprano e poi ti buttano nell’immondizia. Piango sempre quando lo facciamo, mi sto ferma e zitta, non provo più piacere come le prime volte ma solo dolore e sofferenza. Gli uomini sono tutti gli stessi, non cambieranno mai.”
 
“Gì ma perché non me l’hai detto?”
 
“E che ti dovevo dire?”
 
“Per questo non mi hai mai scritta? Ma io ti avrei aiutata.”
 
“Ah mi avresti aiutata? E come? Fammi sentire.”
 
“Ti avrei riportata a Torino. Ma fai ancora in tempo, torna a casa Gì. Se qui non sei felice, non devi restarci.”
 
“Ma che cazzate vai dicendo?” Si alzò in piedi urlando e puntandomi un dito contro.  “Io sono comunque sua moglie, io ho un ruolo in questa casa. Non sono mica una donna da quattro soldi, io ho una dignità Agata, ma che ti pensi?”
“Ma che dici Gì? E vorresti continuare a vivere così?”
 
“Si, l’ho giurato davanti a Dio. Quando il bambino arriverà, vedrai che la smetterà di picchiarmi, nel frattempo sopporto.”
 
“Si nel frattempo sopporti. Nel frattempo quello ti ammazza Gì.”
 
“E tu? Tu fammi sentire che bella vita che fai, nemmeno la fede al dito hai. Alla tua età poi.”
 
“Io sono tornata subito. Vivo in convento con una ragazza siciliana. Ho un bambino.”
 
“Ma che stai dicendo?”
 
“Si. Si chiama Michele, è nato a dicembre.”
 
“E il papà di questo bambino?”
 
“È morto.”
 
“Ma che dici?”
 
“Eh, è la verità.”
 
“Ma perché non mi hai chiamata?”
 
“Potrei farti la stessa domanda.”
 
Mi prese la mano “Mi dispiace Agatù.”
 
Agatù. Da quanto tempo non sentivo più questa parola. Quanto mi era mancata.
 
“Fa niente, sto imparando ad accettarlo.”
 
“E ora dove lavori?”
 
“Non lavoro.”
 
“E come campi, scusa?”
 
 
“Sto andando all’università, mi sta pagando tutto Suor Costanza. Lo faccio per garantire un futuro a Michelino.”
 
Mi lasciò la mano e mi guardò con un’espressione quasi schifata. Poi prese le tazze e le mise nel lavandino, iniziando a lavarle, dandomi le spalle.
 
“Lasciale perdere ste fesserie Agatù. Trovati un marito ricco e vedi che Michele un futuro lo avrà. Ma che ci vuoi fare con quest’università, siamo donne, accettiamo la realtà.”
 
“Ma guarda che non è la prima volta che una donna si iscrive all’università. E poi le cose stanno cambiando, da qui a quando mi laureo io, sai come sarà cambiata la vita, saranno i ’50 Gì.”
 
Si girò verso di me “Siamo donne, per noi non cambierà mai niente nemmeno nei ’90.”
 
“Ma perché dici così?”
 
“Ho imparato che è la verità. Mo basta con quelle storielle che ci raccontavamo sulla libertà a 15 anni Agatù, mo la realtà va affrontata. Io mi auguro che tu il cambiamento lo puoi fare, ma io so come finirà la mia vita e mi va bene così.”
 
“Gì ma che ti hanno fatto?”
 
“Niente.”
 
“Sto scrivendo un libro Gì.”
 
Mi guardò meravigliata. “Brava.”
 
“Parla di una prostituta, di una vera.”
 
“E allora non lo venderai mai.”
 
“Perché?”
 
“Perché di quelle non ne vuole sentire parlare nessuno. Ti rovini solo la carriera, lascia stare.”
 
“No, penso che lo finirò. Mi piace come sta venendo, voglio dare un modo per far capire alle persone cosa vuol dire soffrire.”
 
“Io lo so cosa vuol dire soffrire, ma non mi metto a scrivere libri Agatù.”
 
“Ma è diverso.”
 
“Vabbù, mo vattene. Sono stanca.”
 
“Ci vediamo domani?”
 
“No, vattene e non tornare più.”
 
“Ma perché Gì?”
 
“Perché sei felice Agatù, stai a Torino, fai quello che devi fare. Basta che sei felice e fai felice tuo figlio. “
 
“Ma io voglio starti vicino.”
 
“Agatù io ho un marito, c’è lui che sta vicino a me.”
 
“Io non posso starmene con le mani in mano sapendo che tu qui non stai bene.”
 
“Io qui sto benissimo.”
 
“Ma se prima mi hai detto che…”
 
“Prima non ti ho detto nulla. E dillo alla mia famiglia che sto benissimo. Il mondo non lo possiamo cambiare più Agatù. Se ci riesci da sola, poi chiamami.”
 
“Ciao Gì.”
 
“Ciao Agatù.”
 
Istintivamente la abbracciai forte, ma lei mi abbracciò in maniera lieve, come se stesse abbracciando una persona sconosciuta e me ne andai.
 
 
Avevo deciso che il giorno successivo avrei preso il treno per tornare a Torino, io lì non avevo più nulla da fare. Ginevra era stata cambiata dal tempo, dagli eventi, dalle persone. Non riuscivo a capacitarmi come potessi accettare tutto questo, come se Dio mi spingesse verso una direzione ma la gente appariva per pochi minuti e poi in qualche modo riusciva a farmi capire che di me non voleva saperne più niente. Prima Emilia che mi guardava con sconforto per la brutta fine che avesse fatto sua sorella, poi la morte di Giovanni e l’astio di suo padre nei miei confronti, e adesso Ginevra. Avrei voluto abbracciarla per ore, dirle che adesso ci sarei stata io con lei. Perché in fondo lei ha sempre odiato il rancore, ha sempre amato la vita e voleva la gioia anche ora, anche se non lo diceva più, aveva bisogno di colore nella sua vita pitturata di grigio da quest’uomo che era arrivato. Le avrei dato anche le stelle se fosse servito, perché in fondo Ginevra era ancora buona, dolce, bella, vera, genuina. Ginevra aveva ancora il sogno di poter cambiare le cose, ma adesso era alienata da quella realtà in cui si era ritrovata, senza rendersene conto che le avrebbe potuto far male. Ginevra per me è tutto, Ginevra è Ginevra, e lo sarà per sempre.

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Capitolo 16
*** Giovani per sempre. ***




Bologna, 16 aprile 1944
Era un martedì sera e noi ce ne stavamo rintanati in quell’appartamento minuscolo a cenare, parlare, fumare e ridere. Dopo tanto tempo avevamo ricominciato a ridere tutti, tranne Rocco che sembrava ancora distrutto da come Lila avesse deciso di troncare la loro relazione. E lei non stava meglio. Erano parecchie sere che Lila si rifiutava di mangiare e Rocco che ormai viveva solo per lei, non vendendola a tavola, improvvisamente decideva che non aveva più fame. Mi sentii in colpa per tutto quello che avevo raccontato a Lila, ma Sandokan mi diceva sempre quello che ho fatto è giusto, perché almeno Lila non si sarebbe messa in una storia tossica.  Ma io ora non so più fin quanto potesse essere tossica. Io mi sono fatta illudere dalle sue parole, ma con lei era diverso, era cambiato, era un uomo nuovo.  Se io non mi fossi messa in mezzo, probabilmente ora loro due sarebbero felici.
 
Nel frattempo noi continuavamo a cenare e a ridere. Stavo veramente bene in quel contesto, circondata da persone che stavano passando la mia stessa situazione, avevamo tutti la necessità di star bene per un momento, e questi attimi di divertimento per noi erano veramente importanti. Riuscivamo a dimenticare almeno per un secondo quella tristezza e quello strazio che c’era fuori da quella casa. Un paio di case più avanti potevano dei nazisti che stavano preparando un piano per ucciderci, ma sembrava non ci importasse.
 
Sandokan si alzò e andò al grammofono e partì “Mille lire al mese”. Lui iniziò a muoversi e a cantare. Sembrava rasserenato. Poi mi prese la mano e mi sollevò spingendomi verso di lui.
 
“Balliamo?” Mi disse Sandokan.
 
Ormai non ballavo più da tanto, pensavo di non ricordarmi più come si facesse. Ma i nostri piedi iniziarono a muoversi senza controllo, come se fosse stata una cosa del tutto naturale. Come se lui fosse stato il mio compagno di danza da tutta la vita. Iniziammo a muoverci e Crusca ed Anna ci imitarono, mentre Lupo andò a chiamare Lila per portarla a ballare in quella stanza piena di musica e lei accettò. Vidi lo sguardo di Lila per un attimo tranquillo, mentre ballava con Lupo. Era ritornata la Lila che avevo conosciuto all’inizio. Bella, felice, e affamata di vita e di divertimento. Aveva dimenticato la proposta di Rocco, aveva dimenticato quella scenata, stava ballando ed era raggiante. Rocco entrò nella stanza e si sedette su una sedia, accendendosi una sigaretta e continuava a fissare quei sei scemi che ballavano nella cucina di un minuscolo appartamento, come se fossero ad una serata di gala.
 
 
“Se potessi avere mille lire al mese…” Sandokan si avvicinò al mio orecchio iniziando a canticchiare la canzone insieme alla voce che proveniva dal grammofono.
 
“Senza esagerare, sarei certa di trovare tutta la felicità.” E io proseguii a cantare dietro di lui, mentre mi sorrideva e mi teneva stretta stretta a lui. Come se avesse il terrore che da un momento all’altro potessi scappare dalla sua presa. Ma non avrei avuto nessuna intenzione di staccarmi, non in quel momento.
 
“L’hai trovata la felicità?” Continuava a sussurrarmi quelle frasi all’orecchio ma io feci finta di non capire. Poi rendendosi conto del mio improvviso imbarazzo, continuando a sorridermi e mi fece fare un giro.
 
“Una mogliettina, giovane e carina, tale e quale come te.” Continuava a canticchiarmi quella canzoncina nell’orecchio. E adesso mi stava veramente mettendo in imbarazzo.
 
Continuai a ballare come se niente fosse. Vedevo Lila e Lupo che ballavano come due bambini alle giostre, mentre Anna e Crusca erano veramente affiatati, anche mentre ballavano riuscivano a dimostrare il loro amore, e poi posai gli occhi su Rocco, che stava piangendo. Per un attimo pensai che fosse per colpa mia se lui avesse preso così male la situazione. Ma poi mi resi conto che io non avevo fatto niente di male, che tutte le sciagure che stava vivendo in un modo o nell’altro se le era causato da solo. Lila meritava di sapere la verità, e se lui la amasse come dice avrebbe compreso la scelta di Lila.
 
Mentre i miei pensieri diventavano sempre più pesanti man mano che osservavo Rocco, Sandokan mi prese il volto e mi invitò a guardarlo, e io obbedii. Lui si avvicinò al mio viso e per un momento sperai che mi baciasse. I nostri nasi si toccarono e la sua espressione divenne seria, ero pronta. Avrei accolto le sue labbra come se fosse l’unica cosa che stessi aspettando, non avrei desiderato altro. Sandokan girò gli occhi verso sinistra e si rese conto che tutti ci stavano fissando, avevamo gli occhi maliziosi del resto della banda puntati addosso e io non riuscii a fare altro se non ridere e staccarmi da lui. Ancora una volta non eravamo riusciti a darci un vero bacio, quel bacio che mi aveva lasciato di sfuggita l’ultima volta non potevo definirlo il nostro primo bacio. Avrei voluto che fosse speciale, avrei voluto che ce lo fossimo ricordati per sempre. Quando anche da vecchi, con mogli, mariti e figli, avrei voluto ricordarmi un suo bacio imponente. Un bacio dato bene. Avrei voluto essere da sola con lui, che mi accarezzasse lentamente i capelli, che mi dicesse qualcosa di bello e poi mi prendesse lentamente il viso per avvicinarlo al suo e baciarmi. E io avrei ricambiato sicuramente il suo bacio.
 
Ritornammo tutti al tavolo e proseguimmo a bere, fumare, e chiacchierare.
 
“Ma sapete che ieri è morto Giovanni Gentile?” Crusca tentò di iniziare una conversazione un po’ più improntata alla causa.
 
“Si sì, ma sono stati i gappisti?” Lila tentò una domanda abbastanza ovvia, ma era troppo imbarazzata da Rocco che continuava a fissarla.
 
“Si, siamo stati noi.” E Crusca capendo la situazione, invece di rimproverarla per non aver seguito le notizie, la assecondò.
 
Poi tornammo a parlare di cose a caso, Anna e Crusca iniziarono a raccontarci come si erano conosciuti. Anna era figlia di un importante mecenate milanese trasferitosi a Bologna per questioni lavorative e Crusca lavorava in una fabbrica vicino casa sua.  La prima volta che si incontrarono Anna stava rientrando a casa in compagnia del suo fidanzato dell’epoca che avrebbe dovuto sposare, ma vide Crusca uscire dalla fabbrica e ne rimase folgorata e lui la stessa cosa. Così da quel giorno Anna si fece trovare sempre di fuori di casa a quell’ora e lui continuava a passare davanti casa sua facendo finta di non aver capito cosa stesse facendo, e non voleva nemmeno importunarla dato il suo anello al dito.  Fino a quando non prese coraggio e le disse tutto quello che provava per lei, ma subito dopo cercò di giustificare le sue parole ma lei, mentre ancora lui provava a scusarsi, lo baciò. Dopo di che iniziarono a vedersi di nascosto ogni giorno, quando poi lei decise di dire tutto alla sua famiglia e al suo fidanzato che ovviamente non la presero bene e non le permisero più di uscire se non in presenza di un componente della famiglia o del promesso sposo, ma lei decise di andare contro tutti e nella notte andò via lasciando solo un biglietto e andando a vivere con Crusca.
 
“Forse è stata la cosa più folle che potessi fare” Disse Anna prendendo la mano del suo ragazzo “Ma sono felice, davvero tanto.”
 
E si guardarono per un po’negli occhi, fin quando Crusca non prese un cofanetto dalla tasca posteriore del pantalone e si mise in ginocchio di fronte a lei.
 
“Tu sei la cosa migliore che mi potesse capitare nella vita, sei l’aria che respiro, sei tutte le parole che dico, sei l’acqua che bevo e sei essenziale per la mia vita.”
 
 
 
Anna iniziò a ridere e piangere di gioia, mentre tutti continuavamo a sorridere ma comunque scioccati per quello che stesse facendo Crusca. Poi lui aprì il cofanetto e come pensavamo era un anello.
 
“Ma che fai?” Anna non poteva credere ai suoi occhi, era un vero anello. Non era così emozionata da tanto, nemmeno quando il ragazzo che le aveva imposto il padre le fece la proposta.
 
“Anna, nessuno è come te, nessuno. Nemmeno il destino ci ha fatto separare, perché il nostro amore vivrà per sempre, nessuno potrà darmi la gioia che mi dai tu. Sei sempre stata tu, anche quando non lo sapevamo. La mia vita è iniziata quando ti ho vista a braccetto con il tuo fidanzato quella volta. E so, che questo anello non è come quello che ti diede lui, ma il mio anello è stato comprato con amore, affetto e rispetto. Anna, mi vuoi sposare?”
 
Anna iniziò a piangere ancora più forte e si accasciò a terra per abbracciarlo e lo baciò.
 
“Si, ti voglio sposare.”
 
“E allora brindiamo.” Sandokan arrivò con uno spumante dall’altra parte della stanza.
 
“Ma tu lo sapevi?” Lo scrutai profondamente come se lo stessi interrogando.
 
“Certo che lo sapevo, lo abbiamo comprato insieme.”
 
Mi sentivo felice per Anna. Si vedeva lontano dieci miglia che loro due erano veramente innamorati, trasmettevano sensazioni ed emozioni positive in tutti noi. Il passato di Anna non era così rilevante per Crusca, per lui era di fondamentale importanza quello che Anna avesse fatto per rimanere al suo fianco. In un mondo che ci stava uccidendo giorno dopo giorno, questo loro amore così profondo e forte dava un sospiro di sollievo. Ci convinceva che se era possibile amare ancora nonostante tutto, allora la fine non era così vicina. In fondo eravamo prigionieri liberi ancora di amare. Liberi di guardarci ancora negli occhi e provare ad amarci.
 
Tutti eravamo felici per loro due, iniziammo a bere lo spumante e a festeggiarli. Anche Rocco che aveva tenuto il broncio per tutta la serata e per tutti i giorni precedenti, adesso finalmente aveva ricominciato a ridere. Solo Lila aveva un’espressione spenta e triste, infatti mentre tutti ridevamo ed eravamo in festa, lei se ne andò di scatto fuori di casa sbattendo la porta. Io posai immediatamente il bicchiere e mi diressi verso la porta ma sentii tirarmi il braccio e mi voltai. Era Rocco.
 
“Fai andare me, tu hai già fatto abbastanza.” Rocco mi diede uno sguardo assassino e la sua presa divenne più forte, ma con forza gli staccai la mano.
 
“No. Lei ha bisogno di un’amica ora, non di una persona che la faccia sentire ancora peggio. Ci penso io.”
 
Li guardai e avevano tutti delle facce preoccupate, anche Anna e Crusca che fino a qualche secondo prima erano felicissimi. Proseguii verso la porta e uscii fuori anche io. Mentre mi lasciavo la porta alle spalle, sentii un colpo contro la porta e potetti sentire la voce di Rocco urlare ed imprecare. Scesi le scale come se non avessi sentito nulla e non appena uscita dal palazzo la trovai seduta sulla panchina dall’altra parte della strada mentre fumava e guardava un punto inesistente nel cielo. Oltrepassai la strada e mi sedetti alla panchina, ma lei sembrò nemmeno accorgersene della mia presenza.
 
“Se la luna sapesse di essere ammirata ogni notte, continuerebbe a splendere per noi?” Lila mi fece quella domanda alquanto ambigua ma cercai di assecondarla.
 
“Suppongo di sì.”
 
Mi guardò “Secondo me no.”
 
“Perché?”
 
“Perché se sapesse di essere così bella, non si concederebbe a tutti incondizionatamente, deciderebbe solo una persona che la ama veramente e splenderebbe solo per lui. Anche se è consapevole che sono troppo lontani per potersi amare alla stessa maniera, lei continuerebbe a fargli vedere la sua lucentezza, per farlo felice. Mi capisci?”
 
“Si, Lila ti capisco.”
 
“Rocco aveva ragione.”
 
“In che senso?”
 
“L’amore non esiste.” E gettò la sigaretta a terra, portandosi le mani sulla testa.
 
“Non è vero Lì. L’amore esiste, basta trovare la persona che sia disposta a condividere il suo cuore con te.”
 
“E tu credi che lo troveremo mai?”
 
“Certo Lì. Rocco te lo sto già porgendo.”
 
Fece una breve risata “Rocco mi ha preso il cuore e me lo ha inondato di bugie.”
 
“Sta provando a cambiare Lì.”
 
“Le persone come Rocco non cambieranno mai.”
 
“Non si sa mai. Per amore si può cambiare. Vedi Anna, ha rinunciato a tutta la ricchezza e l’affetto familiare per amore di Crusca.”
 
“Anna è stata fortunata.”
 
“Puoi averla anche tu questa fortuna.”
 
Improvvisamente Anna si avvicinò a noi e noi le facemmo spazio sulla panchina. Prese la mano di Lila e gliela baciò.
 
“Cos’hai stella?” Anna aveva un modo di essere così dolce e tenera che non riuscivi ad arrabbiarti con lei.
 
Lila la guardò per un momento. “Mi sono innamorata della persona più bastarda di questo pianeta.”
 
Anna le sorrise e mi guardò con uno sguardo complice, io presi l’altra mano di Lila e lei me la strinse forte. Anna le mise una ciocca dei suoi riccioli dietro l’orecchio e iniziò ad accarezzarle il viso.
 
“Sicuramente tu ed Alba lo conoscete molto di più di me, ma per quello che ho potuto capire di lui, è certo che ti ama, profondamente. Io capisco che è difficile, che lui avrà commesso sicuramente degli errori in passato, ma prova a cancellarli. Prova a fargli capire che tu gli dai una chance, senza correre e senza aspettarsi nulla. Solo per comprendere se veramente sta provando a cambiare, rendilo una persona nuova, Lila.”
 
Lila ci guardò e ci abbracciò forte ed iniziammo a ridere.
 
“Vi voglio bene ragazze.” Lila ci palesò tutto il suo affetto e noi senza dire niente, la abbracciammo ancora più forte. Eravamo donne costrette a subire, a marcire ma che avevamo tanta voglia di cambiare. In questa notte di martedì eravamo lì abbracciate con la consapevolezza che tutto questo sarebbe potuto finire da un momento all’altro. Eravamo donne che stavamo inseguendo una nuova possibilità di vita, eravamo unite da un’idea che ci avrebbe aperto numerose strade, mentre gli altri morivano e soffrivano, noi cercavamo di vivere almeno un po’, perché la guerra non è stata una nostra scelta e sapevamo che non potevamo lasciar correre senza agire. Provavamo a dare coraggio e forza. Eravamo delle eroine. E se eravamo unite da una vera e genuina amicizia è perché eravamo riuscite a comprendere che se in una eravamo brave, unite eravamo bravissime.
 
“Devi parlargli Lì.” Anna le lasciò la mano, spingendola a salire ed affrontarlo.
 
“Sono d’accordo con Anna, vai.” Anche io provai a convincerla.
 
Lila ci riprese le mani e si alzò, e noi due la seguimmo oltre la strada, su per le scale e quando finalmente eravamo dietro la porta, Lila fece un sospiro e poi ci guardò di nuovo. Ci lasciò le mani e bussò due volte. Sandokan ci aprì, oltre di lui c’era Crusca seduto alla sedia ma che vedendoci arrivare si alzò di scatto. Rocco e Lupo erano poggiati al muro con delle facce preoccupate. Noi entrammo lentamente, facemmo andare Lila avanti e io mi spostai al lato della cucina, Anna andò sulle gambe di Crusca che nel frattempo si era riseduto alla sedia e Lupo venne verso noi, mentre Lila andava nella direzione di Rocco, che era fermo al muro.
 
“Sentimi bene Rocco, perché non lo ripeterò più. Mi sono innamorata di te, il perché onestamente non lo so, forse perché in tutta questa merda tu riuscivi a farmi sognare. Mi parlavi di amore, mi dicevi cose sincere e anche quando avevo tantissime cose da fare io non riuscivo a pensare a nient’altro che a te. Io non so cosa fare adesso, perché quello che hai fatto prima di conoscermi è stato veramente brutto. “Poi gli prese il viso con le mani accarezzandolo e si avvicinò a lui che le poggiò le mani sulla vita “Ma io ci ho creduto in noi, ci ho creduto veramente. E anche se dovrei odiarti, io non ce la faccio. Voglio che tu mi prometta, qui davanti a tutti, che tu sei pronto a cambiare e provare ad amare solo ed esclusivamente me.”
 
Rocco le sorrise e lei ricambiò il suo sorriso. Poi alzò gli occhi verso di noi.
 
“Te lo prometto Lì. Te lo prometterei anche davanti a Dio.”
 
Lila iniziò a piangere e a sorridere contemporaneamente e lo baciò. Finalmente il loro equilibrio si era ristabilito. Anna e Crusca davanti a quella scena così bella si baciarono ricordando loro ai primi momenti della loro relazione. Ero contenta che tutti stessero vivendo il loro momento di felicità. Tutti meno che me. Guardai Sandokan e lui si girò a guardarmi e mi sorrise. Poi venne nella mia direzione e mi mise una mano intorno al collo e mi diede un bacio sulla testa.
 
“Tutto qui?” Tentai di fargli capire cosa volessi io e lui mi lanciò uno sguardo stranito, poi mi strinse più forte.
 
“Si Alba, siamo partiti male io e te. Voglio ricominciare dall’inizio, voglio che funzioni. Andiamo piano.”
 
Mi venne immediatamente da sorridere. Ma allora questo cosa voleva dire? Gli piacevo? Stava iniziando a provare qualcosa per me? Ed io? Mi stava bene così, stavo iniziando a conoscere il vero Sandokan solo in quel momento. Stavo iniziando a provare un bene sincero per lui, che andava ben oltre il bene che provavo per Lupo o Crusca. Di certo non ero innamorata.
 
 
“Ragazzi, vorrei che questo momento esistesse per sempre, vorrei rimanere giovane per sempre. Vi voglio bene.” Lupo venne verso di noi e ci unimmo tutti in un unico abbraccio. Adesso eravamo oltre quella retorica di non stabilire affetti fra di noi, era successo tutto all’improvviso ma a noi stava bene così. Ora eravamo una grande famiglia, pronti a supportarci l’unì con gli altri. Non avremmo potuto fare a meno di nessuno. E pensare come eravamo partiti. Avevo ragione io. C’era una cosa che ci univa più di qualunque altra cosa, la morte. E solo uniti e con il bene incondizionato che provavamo saremmo riusciti a sconfiggerla. Adesso avevo una famiglia, e non rimpiansi nemmeno per un attimo quella che avevo lasciato a Torino.
 
Bologna, 28 aprile 1944
 
Era una mattina qualunque e mi era stato detto che sarei dovuta andare urgentemente alla fabbrica dove lavoravano i ragazzi in quel periodo. Arrivata lì trovai Crusca fuori che stava fumando e senza dare troppo nell’occhio mi avvicinai cautamente a lui come se io quella persona non la avessi mai vista in vita mia. Mi misi vicina a lui poggiata al muro e mi accesi una sigaretta. Crusca senza nemmeno guardarmi iniziò a parlare.
 
“Abbiamo un ordine.”
 
“Cioè?”
 
“Far saltare la stazione radio.”
 
“Quale stazione radio?”
 
“Quella che disturba Radio Libera. So solo che è vicina al fiume.”
 
Continuai a far finta di guardare il vuoto e spensi la sigaretta con la suola del tacco e me ne andai come se quella conversazione non fosse mai esistita. Attraversai tutta la città a piedi per arrivare a casa. Nel frattempo quella casa era diventata un deposito di armi ed esplosivo. Pensai a quello che facevo a Torino prima di tutto questo e se mai avessi solo immaginato di poter fare questa fine, ma adesso ne ero convinta senza più nessun dubbio, anche perché ormai non potevo più tornare indietro anche se avessi voluto rinunciare, ora stavo imparando tutti i meccanismi ed ora dovevo imparare anche a sabotare una radio. Arrivata a casa mi lasciai la porta chiusa alle spalle e con quest’ultime mi poggiai contro il muro lasciandomi cadere a terra, fin quando Anna e Lila mi videro.
 
“Allora?” Anna fu la prima ad avvicinarsi.
 
“Che ti ha detto?” Anche Lila si avvicinò a me che ero buttata a terra.
 
“Dobbiamo sabotare una radio.”
 
Adesso ero completamente stesa sul pavimento gelido, mi portai una mano sul petto mentre fissavo la muffa sul soffitto. Ora iniziano i veri giorni della guerra. Una guerra fatta di colpi improvvisi, di attacchi alle spalle, di fughe nel centro città, davanti la caserma se fosse servito. L’omicidio dell’ufficiale tedesco era solo un piccolo assaggio di quello che ci sarebbe aspettato. Questa volta ci aspettava una stazione radio, per essere più chiari, una stazione radio che disturbava la voce di un’altra stazione radio che proveniva da chissà dove. E doveva essere distrutta per forza. Mi tirai in piedi.
 
“Crusca ha detto che è vicino il fiume. Andiamo a vedere.”
 
Lila ed Anna presero borse, giacche e cappelli ed uscimmo di casa. I nostri abbigliamenti dovevano essere del tutto normali, come qualunque altra ragazza della nostra età. Mentre ci dirigevamo nella zona in cui Crusca ci spiegato fosse la stazione radio, non avevamo ancora ben chiaro un modo, che fosse intelligente, per fare la ritirata. Era già difficile stabilire se ci fosse abbastanza tempo per piazzare le bombe e l’esplosivo. Finalmente arrivammo, ci poggiammo vicino un palo della luce e io e Lila iniziammo a fumare come se niente fosse, come se fossimo di passaggio.
 
“Il posto è isolato.” Anna fu la prima a dire qualcosa.
 
“Non è un vantaggio.” Dissi io, sicuramente ci avrebbero notato più facilmente. “Non è difficile portare esplosivo, armi e munizioni.”
 
Lila senza nemmeno parlare fece cenno con la testa verso il palazzo. C’era una sentinella. Andava uccisa assolutamente, avrebbe potuto avvisare gli altri oppure ucciderci per primo.
 
“Ce ne saranno sicuramente altri dentro.” Lila tentò un’ipotesi.
 
Stava diventando ancora più complicato di quanto potessimo pensare, non potevamo fantasticare o dare ipotesi a crudo. Dovevamo esserne certe, ma non saremmo potute entrare. Mi sentivo un vuoto dentro e mi sentivo come se fossi già morta, secondo le nostre previsioni sarebbe stato quasi impossibile uscire vivi da lì. I nostri pensieri vennero interrotti da alcuni rumori, era la gente. Ormai era quasi impossibile trovare delle persone camminare tranquillamente per le strade, c’era sempre il pericolo delle retate, e non tutti erano armati come noi. Infatti, nel sentire quei rumori Anna aprì la borsa pronta a prendere la pistola, io misi una mano sotto la gonna come se stessi per afferrare il coltello e anche Lila aveva una pistola nella tasca interna della giacca. Ma era solo una coppia che schiamazzava. La paura è passata.
 
“Dai torniamo a casa, qui non c’è granché da fare.” Lila spense la sigaretta e iniziò a dirigersi verso la strada di casa ed io e Anna la seguimmo.
 
“Mi piacerebbe immaginare la guerra come un lontano ricordo.” Anna tentò di parlare.
 
“Magari.” Anche Lila fu d’accordo con la sua affermazione.
 
“Ma pensate quando finirà. Saremo liberi di parlare liberamente, di viaggiare, studiare quello che ci pare, di sposarci.” Io cercai di rasserenarle.
 
Loro due sorrisero e Anna riprese la parola. “A proposito di sposarsi, io e Lila ti raccontiamo sempre tutto, ma tu zero.”
 
“E che cosa vi dovrei dire? Io non ho nessuno.”
 
Lila ed Anna si fermarono ed iniziarono a ridere. “Si va beh. Si vede lontano mille miglia che tra te e Sandokan gatta ci cova. “
 
Io sbarrai gli occhi “Ma che dite?”
 
“Ma perché devi mentire?” Disse Lila continuando a ridere.
 
“Non c’è mai stato nulla fra me e lui.”
 
“Ma va Alba che non ti crede nessuno.” Continuò ad insistere Anna, mentre non smetteva di ridere con Lila e in qualche modo cercava di far ridere anche me. E ci riuscì. Poi presi le loro mani, facendole fermare.
 
“Io ve lo dico, ma dovete tacere.”
 
“Ma ti pare?” Disse Lila bramosa della mia confessione.
 
“Infatti, a chi dovremmo dirlo pur volendo?” Anche Anna mi garantì il suo silenzio.
 
“Mi ha chiesto di provarci, ma di fare le cose con calma. Di fare come se ci fossimo conosciuti ora.”
 
Mi guardarono con degli occhi felicissime e mi abbracciavano iniziando a strillare senza capire una singola parola di quello che avessero detto.
 
Ritornate a casa li trovammo tutti e quattro seduti intorno al tavolo che fumavano e parlavano, ma quando ci videro entrare si zittirono e Rocco ci prese le sedie.
 
“Allora?” Il primo a voler sapere cosa avessimo scoperto fu proprio Lupo.
 
“Allora è isolato, quindi siamo più facilmente beccabili e c’è una sentinella fuori.” Lila sputò la verità senza pensarci due volte.
 
“Cazzo.” Crusca batté un pugno sul tavolo.
 
Rocco stava mangiando le pellicine intorno alle unghie come segno di nervosismo “Idee?”
 
Tutti guardarono me come se avessi sicuramente un piano. Ed effettivamente a qualcosa avevo pensato.
 
“Prendetemi la pianta della città.” Mi tolsi la giacca e mi accesi una sigaretta mentre Lupo mi porse la piantina della città di Bologna. Feci un tiro alla sigaretta e puntai un dito sulla piantina.
 
“Ci ritireremo salendo per il Canale delle Moline. Vi parlerò molto sinceramente, il rischio di essere beccati c’è, ma dobbiamo correre il rischio. Non vedo altre soluzioni, perché se scendiamo ci saranno le merde ad aspettarci e alle spalle avremmo le caserme. Dobbiamo passare tutta la notte fuori città perché Bologna verrà messa a ferro e fuoco dopo questa azione, dobbiamo sbarazzarci delle armi. Il giorno dopo possiamo provare a rientrare. Ovviamente, se qualcuno ha un’idea migliore, è ben accetta.” Mi gettai sulla sedia.
 
“Per me è perfetta.” Disse Sandokan sorridendomi e io gli ricambiai il sorriso. Vedere Lila ed Anna ridere sotto i baffi era uno spettacolo meraviglioso.
 
“E se ci aspettano verso giù?” Lupo fece una domanda intelligente.
 
“Spariamo.” Disse Lila.
 
“Quanti potrebbero essere?” Questa volta fu Crusca a fare la domanda.
 
“Penso su una cinquantina, massimo cento. Non di più.” Dissi con voce sicura.
 
“Stiamo andando a suicidarci in sostanza.” Disse Lupo.
 
“Prenderemo più armi possibili e più munizioni.”  Cercai di tranquillizzarlo.
 
“Per me va bene.” Crusca emise la sentenza, se andava bene per lui, si sarebbe fatto così senza se e senza ma. “Quindi siamo tutti d’accordo?”
 
Tutti annuirono fermamente, l’unico che era un po’ in bilico era ancora Lupo.
 
“Lupo?” Crusca lo chiamò all’attenzione.
 
“Ho altra scelta?”
 
“No.”
 
“E allora.”
 
Bene, si era deciso. Avremmo usato il mio piano, me ne sarei occupata io quella volta ovviamente grazie al sostegno di Crusca. L’esito sarebbe dipeso da me.
 
“Brava Alba, bella strategia.” Crusca mi diede un colpo sulla spalla.
 
“Sono fiero di te.” Sandokan mi prese la mano e me la baciò.
 
Era fiero di me.

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Capitolo 17
*** Il resto è silenzio. ***


 
 
25 aprile 1946
Era passato un bel po’ di tempo da quando ero tornata dalla Svizzera. L’incontro con Ginevra mi aveva destabilizzata moltissimo, mi resi conto di non conoscere più la persona che mi aveva resa quella che ero. Ginevra mi aveva formata, plasmata e resa una donna forte e coraggiosa, ma sinceramente adesso non so più chi lei sia diventata. Una persona vuota e spenta, di certo una moglie esemplare, ma non felice. La visione di Ginevra spezzata e priva di gioia, mi aveva fatto capire come fosse difficile per lei rendersi conto che quella non era la vita che aveva sempre desiderato. Come già a 21 anni avesse messo fine alla sua vita, come se fosse già morta, e l’omicida anche se indirettamente, era suo marito. Anche se mi dispiaceva per lei, non riuscivo a giustificarla. Pensai che se avesse voluto, sarebbe potuta venir via con me, ricominciare a vivere, esattamente come avevo fatto io. Ginevra era diventata lo stereotipo della donna dei nostri tempi. Usata, stracciata, picchiata, uccisa. Era sottomessa, non poteva più dare la sua opinione. Ero sicura che nemmeno rispondesse a tono a suo marito, e se veramente era pazza come diceva lei, suo marito non stava contribuendo a guarirla.
 
Io però compresi che la fine di Ginevra non la volevo fare, che io per fortuna ero ancora in tempo. Potevo ancora cambiare la mia esistenza. In un mondo che ci costringeva ad essere delle donne esemplari, essere come me o come Milena era un gesto rivoluzionario. E io quella rivoluzione la avrei voluta fare veramente. Perché i tempi stavano cambiando davvero, non dovevamo essere per forza costrette a sposare un uomo che non amavamo per compiacere alla nostra famiglia, non dovevamo necessariamente privarci dell’istruzione, non dovevamo essere delle mamme e mogli. Potevamo essere donne, a modo nostro e secondo il nostro criterio. Perché l’unico giudice dovevamo essere noi stesse. Infatti, sebbene fossi rinchiusa in convento da settimane, non smettevo di studiare per l’università, di imparare l’inglese, di interessarmi alla politica. E ovviamente, non smettevo di dedicare la mia vita a mio figlio. Avrei voluto insegnare a Michele cosa significasse essere uomini civili, uomini che avessero rispetto per le donne e non le giudicasse. Avrei voluto garantirgli un futuro felice, un futuro fatto di calma. Avrei voluto che mio figlio vivesse in un mondo diverso. E ci sarei riuscita. Ad ogni costo.
 
Avevo ripreso anche a riscrivere quelle pagine sulla storia di Milena anche se lei ancora non aveva capito nulla. In realtà, non era esattamente come avevo detto a Ginevra. Non era un vero e proprio libro, non ero una scrittrice. Non potevo pretendere che quelle pagine messe insieme creassero un libro degno del suo nome. Però, avrei voluto far sentire importante Milena, mettere su carta tutte le sue storie, i suoi segreti più intimi che raccontava solo ed esclusivamente a me e i suoi pensieri, le sue sensazioni.
 
Ogni parola che Milena proferiva dalla sua bocca, ogni particolare aggiunto ed ogni lacrima che emanava nel raccontare quegli eventi erano di fondamentale importanza per la stesura della storia. Milena era inconsapevole che mi stesse rendendo una persona migliore, che lei mi stava facendo vivere la sua vita e per la prima volta ero veramente in sintonia con una persona.
 
Le mie preoccupazioni erano rivolte anche e soprattutto all’anniversario della fine dell’invasione nazista in Italia. Era passato un anno da quando Crusca era venuto da noi che stavamo ancora dormendo ad urlarci, con un giornale in mano, che la guerra contro il nemico era ufficialmente finita, che avevamo vinto noi. Ora, ripensando a quel momento, non ero poi così tanto felice come allora. Mi mancava Michele, anche in quel momento così felice io ero certa che Michele sarebbe stato emozionatissimo nel sapere che ce l’avevamo fatta, ma lui non c’era. Non c’era nemmeno Rocco. Ed io e Lila, seppure colme di gioia e serenità, non smettevamo di dedicare la fine di quello strazio ai nostri amori. Il mio amore per Michele non poteva svanire nel vento, non poteva terminare con la sua morte. Avrei potuto cercare le carezze di altri uomini, ma ho preferito rimanere legata a lui nonostante tutto, il suo amore resterà vivo in me. Io avrei amato per tutti e due.
 
 
Questo mi fece ripensare a quell’uomo che conobbi nel treno, sebbene mi interessasse e mi piacesse almeno un po’, sapevo che non potevo più legarmi a nessuno, non avrei potuto. Poi dovevo pensare a mio figlio e anche se fossi tentata di rimanere con lui a Milano e proseguire la nostra conoscenza, capii che le mie priorità erano diventate altre. E comunque non mi aveva più mai cercata e sinceramente, ero più felice così. Se si fosse presentato al convento avrei dovuto dare inutili spiegazioni a Suor Costanza e Milena e mi sarebbe dispiaciuto anche costringerlo ad andar via. Quell’incontro così inusuale doveva restare un ricordo, un altro episodio che avrei custodito nella mia memoria.
 
“Agatina, salutiamo.” I miei pensieri vennero interrotti da Milena che entrò in camera con una cesta di panni puliti. Si poggiò sul suo letto. “Dai, alzati, e aiutami a piegarli.”
 
Mi sollevai dal mio letto e mi misi di fronte a lei, eravamo divise solo dalla cesta in vimini. Milena iniziò a piegare i vestiti con una certa cura, in fondo questo era diventato il suo lavoro. Era stata spostata dal reparto delle macchine, per passare al reparto della stiratura. Adesso stirava camice, e doveva piegarle bene altrimenti avrebbero fatto le pieghe e le varie aziende che le acquistavano si sarebbero lamentate. Diceva che era molto meglio questo nuovo impego, era più rilassante e anche se doveva essere veloce e farne il più possibile, era sicuramente meno stancante dell’altro.
 
“Come stai Agatì?”
 
“Come?”
 
“Eh, non parliamo più da tanto.”
 
“Sto.”
 
“Stai? E che vuol dire?”
 
“Non sto né bene e né male. Sto.”
 
“Ma sempre per quella tua amica?”
 
“Anche. Ho conosciuto un uomo Milè.”
 
Chi facisti?” Milena sbarrò gli occhi e abbandonò i suoi panni per dedicarsi solo ed unicamente al mio racconto.
 
“Ma niente di serio, nemmeno so come si chiama. Non te lo volevo neanche dire in realtà.”
 
“Ma è di Torino?”
 
“No, viaggia in lungo e in largo. L’ho conosciuto in treno, abbiamo parlato e alla fine arrivati a Milano mi ha chiesto di rimanere con lui per la notte.”
 
“Agatì e che avete fatto?”
 
“Niente, ho rifiutato.”
 
“Ma tu sei pazza.”
 
“Ma quello che volevo dirti non era questo.”
 
“E che mi dovevi dire?”
 
 
 
 Mi risistemai più comoda sul letto, le sorrisi e le presi entrambe le mani. “Quest’uomo mi ha raccontato tante cose meravigliose. Lui ha vissuto tanti anni in America e mi ha detto tante cose.”
 
Milena continuava a guardarmi stranita, come se non riuscisse a capire che cosa volessi intendere con quelle parole. “Tipo? Che ti disse?”
 
“Mi ha detto che in America le donne non sono sottomesse come noi, che lì lavorano tutti quanti e tutti vengono trattati allo stesso modo. Lì studiano, lavorano e si divertono.”
 
“E ma io questo già lo sapevo, non ti capisco Agatì.”
 
“E se ce ne andassimo anche noi in America?”
 
Milena mi guardò scioccata ma sorridente. “Ma che dici?”
 
“Non sto scherzando. Pensaci, lì possiamo veramente ricominciare da capo. Possiamo realizzare il sogno americano. Quell’uomo mi diceva che l’America è piena di italiani e che l’importante è che lavorino. Possiamo essere donne diverse, dobbiamo farlo per noi. E per garantire un futuro a Salvatore e Michele.”
 
“Agatì tu sogni davvero. Io sono venuta dalla Sicilia fino a qui per cercare qualcosa di nuovo. Torino per me è già l’America. Tu forse non puoi capire ma io qui sto più che bene.”
 
“E non vuoi migliorarti ancora?”
 
“Agatì chi troppo vuole, nulla stringe.”
 
“Ma rifletti un attimo. Lo sappiamo entrambe che lì non c’è paragone rispetto a Torino. Io qui mi sento soffocare. Io devo andare via, e avrei voluto che venissi anche tu.”
 
“Ma vattene da tua sorella in Francia se non ce la fai più:”
 
“No Milè, devo essere libera.”
 
Milena si alzò in piedi e cominciò ad andare avanti ed indietro per la stanza, come era solita fare quando era agitata. Poi si fermò e guardò per un po’ fuori la finestra, poi si girò verso di me.
 
“Ma anche se volessi venire con te, e non sto dicendo che lo farò. Come li troviamo i soldi?”
 
“Ma non dobbiamo partire adesso. Io mi devo laureare, e nel frattempo iniziamo a mettere qualcosa da parte. Anche Rocco dovrà partire, andremo con lui.”
 
“Non lo so Agata, mi sembra una follia.”
 
“Ma quando sei venuta qui, qualcuno ti aveva garantito la felicità?”
 
“No, ma che centra?”
 
“Centra. Perché se sei quella che sei, è perché te lo sei meritato, perché sei stata capace di crearti da sola, senza il bisogno di nessuno. Sei stata spinta dall’amore di tuo figlio e dal bene che vuoi per lui. Ma tu pensaci, io e te in America e i nostri figli che cresceranno come due veri Americani, non avranno problemi di nessun tipo Milè.”
 
Milena mi guardò per un po’, poi una lacrima le rigò il viso. “Va bene.”
 
“Va bene?”
 
“Si, va bene.”
 
La abbracciai fortissimo, finalmente ero riuscita a convincerla. Iniziammo a ridere senza nessuna ragione, le volevo bene. Avevo bisogno di lei e lei aveva bisogno di me, anche se non lo sapevamo, eravamo perfettamente complementari. Avevamo qualcosa che riuscisse a renderci perfette insieme, ed adesso stavamo realizzando la vita che avevamo scelto di vivere, volevamo affrontare tutti i rischi, volevamo essere felici.
 
“4 anni. 4 anni e andiamo via.” Le dissi io accarezzandole i capelli.
 
“Però nel frattempo, non dobbiamo dirlo a nessuno.”
 
“No, nessuno.”
 
 
Torino, 2 giugno 1946
 
Stava succedendo qualcosa di fantastico. Noi, donne eravamo state invitate a votare insieme agli uomini. Finalmente ci avevano riconosciuto questo diritto che per me era soltanto un sogno lontanissimo. Lessi su qualche giornale che era stato indetto un referendum per decidere se mantenere la monarchia o instaurare la Repubblica. E io non avevo nessun dubbio. Inoltre dovevamo votare per l’Assemblea Costituente. In quel momento mi resi conto che il mondo non si era mai veramente fermato, che anche se io non me ne ero accorta le situazioni stavano cambiando e finalmente potevamo partecipare attivamente alla scelta del nostro Paese anche noi donne.
 
Mentre mi stavo preparando per andare a votare per la prima volta, nella camera Milena che era più emozionata di me.
 
“Ma tu chi voti?”
 
“Il voto è segreto Milè.”
 
“E dai, dimmelo.”
 
“Repubblica ovviamente.”
 
“Anche io.”
 
“Brava.”
 
Poi sentimmo bussare alla porta della stanza. Era Rocco.
 
“Che ci fai tu qui?” Disse Milena cercando di coprirsi.
 
“Sono venuto a prendervi per andare alle urne. E poi dovrei chiederti un favore Agata.”
 
Indossai la giacca e lo guardai insospettita. “Dimmi.”
 
“Te lo dico strada facendo, andiamo. C’è Gennaro sotto che ci aspetta.”
 
Non avevo la più pallida idea su quello che Rocco voleva chiedermi. Non so come io avrei potuto essergli utile, sinceramente. Probabilmente gli servivo per qualche volantinaggio in università, ma sapeva che non avrei corso quel rischio così facilmente. Scendendo le scale cercai di guardarlo più volte, ma lui non fece caso alle mie occhiate. Ma che cosa voleva? Arrivati al pian terreno, salutammo i bambini. Salvatore aveva deciso di non andare a scuola quel giorno e la mamma aveva acconsentito e io andai dal mio piccolo Michele. Adesso lo vedevo cresciuto tantissimo, prendeva confidenza con tutto intorno a lui, guardava tutto in maniera più interessata, era capace di star seduto ed iniziava a interagire con i primi giocattoli. I suoi vocalizzi ora erano delle sillabe e sembrava facesse dei monologhi che lo divertivano alle volte. Però il suo sonno stava diventando anche sempre più leggero, anche un semplice fascio di luce lo infastidisce, e le mie nottate in bianco stanno iniziando. Lo salutai per l’ultima volta e mi diressi verso gli altri.
 
“Beh allora voi due cosa votate?” Milena era così agitata che non riusciva a pensare ad altro.
 
Rocco e Gennaro si guardarono per un po’e poi sorrisero. “Repubblica chiaramente, ma possiamo votare Monarchia? Piuttosto voi due cosa votate all’Assemblea costituente?” Disse Rocco mentre continuava a fumare.
 
“Partito Comunista.” Disse Milena fieramente.
 
“E tu, Agata?” Rocco mi lanciò un’occhiata.
 
Io lo osservai per un po’poi gli feci una faccia come se volessi prenderlo in giro. “Democrazia Cristiana.”
 
Tutti si fermarono e mi guardarono allibiti. “Ma veramente?” Gennaro era quello più preoccupato di tutti.
 
“Ma vi pare?” Li tranquillizzai immediatamente.
 
“Ma poi Ginevra l’hai incontrata?” Eccola lì. Lanciata come una pietra. Me la dovevo aspettare questa domanda, era pur sempre suo fratello.
 
“Si.” Mi limitai a dire.
 
“E come sta?” Gennaro stava diventando abbastanza insistente.
 
“Bene.”
 
“Ma come vive? Che fa?”
 
La mia faccia divenne agitata ed immediatamente mi sentii la bocca impastata, non sapevo cosa dire. Ma per fortuna Milena, comprendendo il mio disagio, prese Gennaro da un braccio, convincendolo che in una vetrina lì vicino ci fosse una cosa veramente interessante, portandolo via. Finalmente il mio respiro si fece più regolare. Mi si avvicinò Rocco che mi offrì una sigaretta ma io gli mostrai le mie, per fargli capire che le avevo e le sue non mi servivano. Poi la accesi e iniziai a fumarla.
 
“Ricordo quella volta che nella sede di Bologna hai detto a Crusca di prenderti le sigarette. Ero scioccato.”
 
Sorrisi, se lo ricordava ancora. “Ti ho scioccato più volte, dì la verità.”
 
“Beh, si. Sei stata una rivelazione, quando ti ho conosciuto la prima volta pensavo fossi una figlia di papà interessata solo a giocare un po’, pensavo non avresti retto nemmeno la preparazione. Ma sei arrivata fino in fondo, sei cresciuta, sei stata brava lì. E ne sei uscita vincitrice. Ti fa onore.”
 
“Ma quale onore.”
 
“Pensa Michelino come sarà orgoglioso di avere una mamma come te. Come sta?”
 
“Sta bene, cresce bene. È un bel bambino. Sarebbe felice di vederlo.”
 
“Anche lui sarebbe orgoglioso di te, in fondo lo è sempre stato. Forse è sempre stato l’unico che ha creduto in te.”
 
“Si, credo di sì. Mi voleva bene, questo sicuramente.”
 
“Ti manca?”
 
“Ogni secondo.”
 
“Ho sentito Crusca l’altro giorno. Gli hanno consegnato il certificato di morte, non avendo famiglia, lo hanno dato al capo brigata. È morto davvero. Se vuoi dico a Crusca di spedirtelo.”
 
“Si, lo vorrei.”
 
“Mi dispiace Agata.”
 
“Ma io me lo sentivo che lui fosse morto, me lo sentivo nel cuore. Questo mi volevi chiedere?”
 
“No, in effetti, volevo chiederti un’altra cosa.”
 
“Dimmi.”
 
“Puoi venire con me a Roma?”
 
“Quando?”
 
“Anche domani.”
 
“Domani?”
 
“Sì Agata lo so che non c’è preavviso, ma ho resistito troppo a lungo. Io me ne devo andare da Torino, e non me ne vado se prima non ho parlato con Rossella. Se tu sai dov’è, dimmelo.”
 
“Ma se lei non ti ha cercato, vuol dire che forse si è convinta che tu sia morto. Metti caso ha una famiglia, è sposata, ha figli. Non puoi rovinarle un equilibrio così.”
 
“Agata, non ho mai creduto nell’amore. Mai, credevo che niente potesse far battere il cuore. Ora so cosa vuol dire amare e soffrire per amore, e fa schifo. Non voglio più starci male, voglio credere nel lieto fine, voglio credere in me e Rossella. Voglio sposarla, voglio comprare una bella casa, voglio avere tanti bambini. Voglio vederla invecchiare e morire con lei.”
 
Non aveva mai smesso di amarla, non aveva mai pensato un solo momento di ritornare a fare la vita di prima, usare le donne e lasciarle a loro stesse dopo aver consumato del sesso schifoso. Era sicuro di quello che voleva e voleva lei. La avrebbe cercata anche senza di me, non si sarebbe mai scordato di lei, mai.
 
“So dove vive.”
 
“Davvero?”
 
“Sì, ci spediamo lettere regolarmente.”
“Andiamo. Ti prego Agata.”
 
“Va bene, andiamo, ma io non ho soldi.”
 
“A quello ci penso io.”
 
“Va bene.”
 
Arrivati al seggio elettorale, sentivo le mie mani tremare. Facemmo andare avanti Rocco e Gennaro e poi un uomo ci invitò ad avvicinarci.
 
“Ah la signorina Agata Giordano.” Era il professore Pietro Ronchi.
 
“Salve professore.”
 
“Immagino che lei sia soddisfatta di questa novità.”

“Ovviamente.”
 
Mi guardò esterrefatto, non poteva credere come fosse possibile che la figlia di un così rispettabile professore, fosse così strana. Voleva vestirsi con questi pantaloni, voleva cambiare il mondo. Andava eliminata, pensò. Ma era troppo tardi.
 
Andai alle urne, misi la X sulla voce ‘Repubblica’ e feci la medesima azione con l’Assemblea Costituente.
 
Uscii immediatamente, salutai il professore con fare strafottente e andai dagli altri fuori. Io e Milena ritornammo verso casa e iniziammo a pensare a quello che sarebbe potuto succedere se avesse vinto la Repubblica, anche se ci credevamo veramente poco, era impossibile. In fondo, l’Italia non era cambiata così tanto. Eravamo ancora fermamente convinte di partire per l’America e lo avremmo fatto.
 
Roma, 3 giugno 1946
 
Io e Rocco eravamo arrivati a Roma da nemmeno mezz’ora e già eravamo eccitati. Mentre Torino era spenta, era grigia e stanca, Roma sembrava essersi ripresa molto velocemente, non oso immaginare quanto tempo ci avessero messo per rialzarsi, però lo avevano fatto. Avevamo preso il treno da Torino alle 8 del mattino e eravamo arrivati a Roma intorno alle 12:46. Camminavamo avanti ed indietro ma non lo sapevamo nemmeno noi dove stessimo andando.
 
“Ma la lettera la hai portata?” Rocco era spazientito, e si stava stancando di camminare a vuoto perché se a Torino ancora eravamo costretti a portare le giacche, Roma era stata assaltata dal tepore estivo.
 
“Sì che la ho portata. Chiediamo indicazioni?”
 
“Dillo fra un’ora, mi raccomando.” Mi strappò la lettera dalle mani e mi disse di chiedere informazioni ad un passante. Mi sembrava di essere tornata al mio primo arrivo a Bologna, Rocco che non sa aspettare e mi obbliga a fare cose che io non voglio fare.
 
“Ma tu non sai parlare?”
 
“Agata, sei una rompina però eh.” Andò da un signore per chiedere quale fosse la strada che dovevamo prendere per raggiungere l’indirizzo scritto sulla lettera. Poi ritornò verso di me.
 
“Allora, Marco Polo, ce la facciamo a trovare questa strada?”
 
“Simpaticissima. Comunque sì, penso di aver capito. Andiamo.”
 
Camminammo circa per 20 minuti sotto un sole tremendo, se avessi potuto ucciderlo lo avrei fatto senza pensarci due volte. Finalmente arrivammo sotto casa di Rossella e mi fermai.
 
“Che fai?”
 
“Vai tu, io che vengo a fare?”
 
“Agata, vieni.”
 
“Rocco dovete parlare voi due. Non io, tu e lei. Non ha senso.”
 
“Agata, devi venire. Io non posso farcela solo.”
 
Esitai un momento iniziando a pensarci su, fin quando scocciata andai verso di lui e mi sorrise.  Prima di bussare ci guardammo attentamente negli occhi, potevamo ancora andar via se avessimo voluto. Poi Rocco mi fece un cenno con il capo e io bussai. Quando aprirono la porta Rocco si nascoste dietro e io inarcai un sopracciglio. Ma che stava facendo?
 
“Desidera?” Era una signora sulla quarantina, doveva essere sua madre.
 
“Rossella.”
 
“Lei è?”
 
“Una sua amica, ai tempi della guerra.”
 
“Te la chiamo.”
 
“Grazie.”
 
La signora si allontanò verso un’altra stanza per andare a chiamare Lila e io ne approfittai per capire cosa stesse facendo.
 
“Che fai?”
 
“Mi nascondo.”
 
“Perché?”
 
“Devo prendere coraggio.”
 
“No tu devi prendere le mazzate, da parte mia.”
 
Poi continuai a guardare quel corridoio vuoto fin quando non sbucò Lila con la testa abbassata ricolma dei suoi soliti riccioli lunghi. Aveva un vestito fino alle ginocchia celeste ed era scalza. Quando alzò lo sguardò e mi vide, si fermò nel mezzo del corridoio. Per poi correre verso di me e abbracciarmi. Iniziò a riempirmi di baci e io non riuscii a fare nulla se non ridere. Era veramente lei, quanto mi era mancata la mia Lila.
 
“Alba, ma sei proprio tu? Non sto sognando?”
 
“Si, sono proprio io.”
 
“Ma guarda come sei bella. Entra.”
 
“Aspetta prima devo dirti una cosa.”
 
“Mi devo preoccupare?”
 
La guardai per un po’e lei non continuava a non capire, fin quando non feci un cenno con la mano a Rocco, come segno di avvicinarsi. Lo vidi respirare a lungo e deglutire.
 
“Alba, ma che sta succedendo?”
 
Ed ecco che Rocco si mise accanto a me. Lila rimase inerme nella sua posizione, continuando a fissarlo. Una lacrima le rigò la guancia e lentamente le lacrime si moltiplicarono. Ma lei rimase composta. Poi emise un grido e si gettò sulle ginocchia, portandosi la testa tra le mani. Immediatamente mi avvicinai a lei e la abbracciai. Mentre lei continuava a piangere.
 
“È vivo.” Mi sussurrò queste due parole almeno venti volte, non riusciva a credere ai sui occhi, non la giudicavo. Se io mi fossi trovata davanti Michele in carne ed ossa, avrei reagito allo stesso modo se non peggio. Poi dopo un po’ si alzò e si mise più vicina a lui e gli toccò il naso.
 
“Non sei una fantasma.”
 
“No.”
 
“Sei vivo. Sei vero.”
 
“Si.”
 
Senza dire più nulla, si avvinghiò al suo collo ed iniziò a baciarlo senza pudore, senza curarsi che c’era un’altra persona lì o il resto della sua famiglia in casa. Ma non mi scioccai, ero solo felice per loro due che erano riusciti a ritrovarsi. Poi Lila mi abbracciò forte.
 
“Me lo hai riportato tu?”
 
Guardai Rocco che finalmente aveva un’espressione serena in volto.
 
“No. Ha fatto tutto da solo. Io ho solo gestito la parte burocratica, diciamo così.”
 
 
Mi abbracciò di nuovo e poi prese la mano di Rocco e ci invitò in casa per conoscere la sua famiglia. Lila ci presentò a sua madre, suo padre, i suoi nonni e i suoi fratelli. Era una famiglia enorme. Molti di più della famiglia di Ginevra. Ci fermammo a cena da loro anche perché non avevamo molto di meglio.
 
“Signor Davoli, io voglio sposare sua figlia.” Rocco interruppe quell’armonia con quella dichiarazione. Tutti non osammo dire una parola, stavamo aspettando una risposta da suo padre. Anche Rossella che non riusciva a frenare l’agitazione e l’emozione, temeva comunque cosa ne pensasse suo padre.
 
“Ragazzo, tu lavori, ti impegni e hai dimostrato di tenere a mia figlia.” Prese la mano di Lila “Se vi amate come dite, è giusto che vi sposiate. Hai la mia benedizione.”
 
Lila abbracciò immediatamente suo padre e baciò Rocco nuovamente, poi lui si mise in ginocchio ed estrasse l’anellino dalla tasca della giacca.
 
“Rossella Davoli, Lila Davoli, o semplicemente amore mio. Ti amo. E voglio amarti ogni giorno, fino alla mia morte. Vuoi diventare mia moglie?”
 
“Sì, lo voglio.”
 
E Lila prese l’anello indossandolo e dopo averlo ammirato per un po’, lo baciò.
 
Era proprio vero, ciò che è destinato a te, in un modo o nell’altro troverà sempre il modo di raggiungerti. Nonostante le delusioni, nonostante gli schiaffi, nonostante i dolori Rossella e Rocco avevano trovato la loro pace insieme, erano riusciti ad amarsi anche con i venti avversi. E non avrebbero voluto nient’altro se non stare insieme.

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Capitolo 18
*** Il valore delle cose. ***


Bologna, 3 maggio 1944
 
Era il giorno del colpo. Era notte fonda, era completamente buio, non riuscivamo a vedere nulla. Camminavamo tutti vicini, lentamente, ma facevamo fatica a vedere dove stessimo andando. L’unica cosa a far luce era il colore delle stelle, per fortuna il tempo stava cambiando a causa della bella stagione, e il cielo era più aperto. Anna aveva preso le armi e le aveva trasportate in un luogo segnato, Crusca aveva deciso che lei doveva restarne fuori. Non potevamo sbagliare, dovevamo avere fiducia sul nostro intuito, sbagliare strada sarebbe significato soltanto perdere tempo. E non potevamo perdere tempo, avremmo mandato tutto all’aria in pochi secondi.
 
“Vedo il primo segnale.” Sussurrò Lila che aveva riconosciuto i primi segni di Anna “E ora?”
 
“E adesso andiamo avanti.” Crusca ci invitò a seguirlo. E io mi misi accanto a lui.
 
 
“Cercate la latta di benzina. State attenti, non fate rumore.” Dissi io sicura. E tutti cominciarono a guardarsi intorno, per quanti si fosse potuto vedere.
 
“Trovata!” Fu Rocco a trovarla.
 
Perdemmo almeno 20 minuti alla ricerca di tre sassi belli grandi per poi ritornare dove avevamo lasciato la latta di benzina e provare a proseguire sui nostri passi.
 
“E se durante il giorno hanno spostato la latta? Non troveremo mai l’esplosivo.” Sandokan fece una buona intuizione, poi proseguì più avanti, fin quando non riuscì a percepire con il tatto il cespuglio, poi continuò a muoversi verso di esso e fu capace di sentire i sassi.
 
“Ecco. Trovato.” Si chinò in avanti e prese un pacco ricoperto di carta. “Alba vieni qui.”
 
Cercai di orientarmi secondo il suono della sua voce. Mi sentivo cieca, non sapevo dove stessi andando, se stessi facendo la cosa giusta. Mi diede in mano quel pacco e mentre io lo tenevo lui sollevò la carta.
 
“Sono le armi.” Mi guardò per un istante e senza dare troppo nell’occhio cercò di attirare l’attenzione di tutti per fargli capire che avevamo trovato le armi. Passai il pacco delle armi a Lupo che lo teneva come se in mano avesse un bambino appena nato.
 
Sandokan tornò a lavorare sul cespuglio e pian piano mi porgeva altri pacchi sempre meno pesanti, fin quando non mi diede anche l’ultimo.


“Questo è l’esplosivo. Attenta, non dovrebbe essere innescato, ma non farti saltare in aria.” Mi disse Sandokan accarezzandomi i capelli e io mi limitai ad annuire. Mentre lui tornò sul suo lavoro nei cespugli ed estrasse altre armi e tutti ci affrettammo a prenderle. Poi prese la carta che ricopriva tutto e ci fece una grande palla e la lanciò tra i cespugli.
 
“Piano, non fare rumore.” Crusca lo rimproverò.
 
Poi Crusca prese tutto e distribuì in maniera equa a tutti noi armi, esplosivo, detonatori e micce.
 
Improvvisamente sentimmo un rombo di motore più lontano, era come se tentassero di accendere un’auto ma non ci riuscissero.
 
“Cazzo.” Questa volta fu Lila ad imprecare.
 
“Ma questi non dormono mai?” Lupo stava iniziando a spaventarsi.
 
Sentimmo il rumore del motore farsi sempre più regolare e all’improvviso riuscimmo a scorgere le luci dei fanali anteriori dell’auto, ci spostammo velocemente tra i cespugli. Per quel frangente di tempo non osammo muoverci, parlare e qualcuno ebbe paura anche ad emettere un respiro. Ci vedemmo quella maledetta macchina passarci davanti ma sembrò non far caso a noi. Cercammo di uscire da quei cespugli molto lentamente, ma era difficile non far rumore con tutta quella roba addosso. Non riuscivamo più a vedere la stazione radio, ma sapevamo con certezza che era un po’ più avanti, bastava camminare ancora un po’.
 
Era ancora notte fonda, stavamo ancora camminando abbassati tra l’erba impregnata di pioggia, intorno alla colonna del palazzo mi sembrò di vedere delle ombre e allora chiusi gli occhi. Li riaprii e le ombre erano sparite, allora cercai di continuare a camminare avanti accanto a Crusca e mi girai un attimo per controllare la situazione. Rocco e Lupo ci coprivano le spalle da dietro mentre Sandokan aveva uno sguardo truce, come se fosse pronto ad attaccare da un momento all’altro, invece Lila si stava sistemando i capelli con un elastico in un modo disordinato e decisi di imitarla. D’improvviso la luce di un accendino illuminò il volto della sentinella che stava accendendo una sigaretta.
 
“Giù!” Crusca ci ordinò di buttarci a terra.
 
Sentii la mano di Sandokan cercare la mia nel buio e io gliela strinsi forte finché non sentii male. Tremava. Aveva paura.
 
All’improvviso potemmo sentire il rumore della porta aprirsi e delle voci indistinte provenire dall’interno del palazzo. Alzai lo sguardo e lo vidi entrare e chiudersi la porta alle spalle.
 
“Ora!” Urlai io.
 
Iniziai a correre affiancata da Crusca e seguita da tutti i miei compagni. Avevamo il fucile in mano ed eravamo pronti a tutto. Crusca e Rocco si lanciarono contro la porta, rompendola ed entrando. Trovammo quattro uomini intorno ad un tavolo e la sentinella con il fucile puntato contro di noi. Me ne volevo occupare io. Alzai il fucile contro quella sentinella. E gli altri senza nulla da dire mi fecero fare, occupandosi degli altri quattro mentre Lupo e Lila salirono per occuparsi della stazione radio. Continuavamo a tenere i fucili puntati e guardavo negli occhi quel bastardo che a sua volta mi puntava il fucile contro. D’improvviso vedemmo Lila e Lupo scendere piano con i fucili puntati e continuarono a camminare lentamente verso la porta che prima avevamo distrutto.
 
“Via.” Lila urlò quel segnò di ritirata e noi disorientati come non mai iniziammo a correre dietro loro. Iniziarono a sparare a casaccio verso di noi, ma per fortuna anche noi riuscimmo a difenderci mentre scappavamo.
 
“Non ci vedo, cazzo, non ci vedo.” Urlò Lupo mentre continuavamo a correre senza fermarci. Mi sentivo morire.
 
“Nessuno vede, muoviti.” Rocco rincarò la dose.
 
Stavamo correndo a vuoto verso un punto a caso, non stavamo più seguendo le mie istruzioni. Andai verso Crusca.
 
“Dovevamo andare dall’altra parte. Dovevamo ucciderli.” Ringhiai io all’orecchio di Crusca.
 
“Zitta. Devi stare zitta. Non uccidiamo nessuno se non serve, abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Ora corri e stai zitta.” Rispose Crusca girando appena la testa senza smettere di correre.
 
“Ma che hai?” Venne verso di me Sandokan prendendomi la mano e continuando a correre.
 
“Dovevamo ucciderli e basta.” Risposi io, ormai senza fiato.
 
“Ma può darsi che non hanno dato nessun allarme. Lo sapevano che avevano una bomba nel palazzo, dovevano pensare ad altro. Non avrebbero fatto in tempo a dare l’allarme.”
 
“Sandokan, lo sai anche tu che non è vero. E se ora ci stanno aspettando? Stiamo andando nella direzione sbagliata.” Non riuscivo a tenere a freno la lingua “Cazzo, ascoltatemi una buona volta!” Urlai io.
 
Crusca venne verso di me prendendomi dal colletto della camicia e tirandomi su. “Basta, ce la facciamo.” E mi rigettò a terra.
 
Ma non riuscì neanche a voltarsi che vedemmo venirci incontro dei fanali.
 
“Giù. Giù.” Urlò Crusca.
 
Sentimmo il frastuono provenire dalla stazione radio e delle urla. Era esplosa. Ma adesso vidi le luci venire verso di noi.
 
“Ve lo avevo detto, cazzo, ve lo avevo detto.” Dissi io.
 
“Via da qui.” Gridò Lila. Poi balzò in piedi e iniziò a correre verso avanti. Ma prima di seguire quel suo gesto folle, esitammo un attimo fino a quando non sentimmo un colpo di fucile e Rocco iniziò a correre velocemente nella direzione di Lila.
 
“Io vado.” E mi alzai anche io. Fin quando non mi resi conto che tutti mi stavano seguendo. Per fortuna Lila, stava bene.
 
“Ce la faremo?” Mi disse Lupo.
 
“Non lo so. Non so più niente.” Risposi io in maniera agitata. “Inutile nascondersi.” Ed iniziai a sparare a caso verso una folla di gente indefinita. Uno, due, tre colpi. Poi potetti sentire anche gli altri sparare all’impazzata. Mi girai e vidi Lupo fermo.
 
“Tutto bene?”
 
“Andiamo via. Andiamocene via.” Urlò Lupo spaventato.
 
“Spara Lupo. Spara.”
 
La calma aveva ceduto il posto all’irritazione e alla paura. MI succedeva sempre, anche in circostanze non pericolose come quelle. Non sapevo più che cosa fare, molto semplicemente stavamo continuando a sprecare colpi a vuoto e a riceverne altrettanti, per fortuna a vuoto. Capii che era il momento di agire. Mi accasciai a terra e presi la bomba che avevo addosso, poi mi tirai su e la lanciai verso dove provenivano gli spari, rischiando anche di prenderne uno. Poi sentii l’esplosione. E anche Lila e Rocco mi imitarono.
 
“Ora corriamo.” Urlai io. Presi la mano di Lupo che era troppo spaventato per reagire e lo portai con me verso la strada che tutti avevamo scelto di prendere. Continuammo a correre come pazzi, fino a quando il rumore degli spari erano abbastanza lontani.
 
“Fermiamoci un minuto.” Dissi io, respirando molto velocemente. “Riprendiamo fiato.”
 
Sandokan venne verso di me e mi abbracciò forte e io ricambiai il suo abbraccio. Vidi Crusca prendere Lupo per abbracciarlo e tranquillizzarlo e un po’ più in là c’erano Rocco e Lila che si baciavano come se si dovessero vedere da dieci anni. Il peggio è passato, pensai. Forse ce l’abbiamo fatta, pensai. Ma all’improvviso vidi delle luci avvicinarsi verso di noi, mi gettai a terra nell’erba e iniziai a muovermi a carponi e gli altri fecero lo stesso. Iniziai a sparare a caso, poi mi sollevai.
 
“Via. Adesso via.” Urlai io. Mentre Crusca mi teneva una spalla.
 
“Siamo intrappolati Alba.” Disse Crusca e all’improvviso sentimmo Rocco urlare e lamentarsi cadendo a terra, Lila corse verso di lui ma poi caricò ed iniziò a sparare in quella direzione supportata da Lupo. Mi accasciai su Rocco cercando di tenerlo sveglio, ma mi invitarono a sparare.
 
“Prendete Rocco e portatelo via. Lasciatemi qualche caricatore.” Disse Crusca.
 
“Che cosa?” Disse Sandokan.
 
“Fai come ti ho detto. Andate tu e Lila. Gli altri restate qui con me.” Ordinò Crusca e Sandokan e Lila obbedirono. Continuammo a sparare per un po’, fino a quando non mi sentii un colpo profondo nel polpaccio. Ricordò solo un dolore atroce, potetti sentire il sangue caldo scivolarmi fino ad arrivare al piede. Emisi un grido e la voce ovattata di Lupo chiamarmi. Seppure la vista mi stava ingannando, cercai di affidarmi a me stessa. Presi il fazzoletto dalla tasca della giacca, alzai il pantalone e trovai il buco che aveva lasciato il proettile e lo coprii con il fazzoletto di stoffa, legandolo fortissimo. In seguito, tentai di alzarmi con le mani, ma il tempo di sollevarmi in piedi e caddi nuovamente a terra. Poi buio.
 
                                                  *
 
Bologna, 5 maggio 1946
 
Quando mi svegliai, mi trovai in un letto ferma, come se per un attimo avessi perso la funzione degli arti inferiori. Ecco qua, rimarrò disabile a vita, pensai. Ma per fortuna, nel giro di qualche secondo, sentii il dolore lancinante nel posto dove mi avevano sparato e mi venne istintivamente da toccare lì, ma emisi un urlo.
 
“Sei sveglia.” Venne Lila verso da me abbracciandomi. Dietro di lei c’erano quasi tutti. Lila continuò ad abbracciarmi per un po’ ma io non ebbi nemmeno la forza di metterle un braccio intorno al collo. Continuavo a guardare il soffitto.
 
“Che è successo? Rocco dov’è?” Chiesi io.
 
Si posizionarono tutti intorno al letto. Avevo Crusca e Lupo di fronte a me e Lila al mio fianco. Tentai di sollevarmi provando a far peso sul gomito, ma Crusca venne verso di me alzandomi il cuscino e Lila tentò di sollevarmi con l’aiuto di Lupo. Allora vidi entrare dalla porta Anna e Sandokan che rimasero impiantati sul pavimento quando mi videro sveglia. Anna sollevò immediatamente il lenzuolo per medicarmi la ferita, e non appena toccò la cicatrice, emisi un altro grido. Allora mi aggrappai al materasso come se volessi staccarmi le unghie.
 
“Fai piano.” Lila rimproverò Anna, mentre mi passava delle stoffe imbevute di acqua calda sulla fronte.
 
Sandokan era ancora sulla porta e non aveva osato avvicinarsi. Poi Anna invitò tutti ad uscire da quella stanza e che solo dopo cena mi avrebbero potuto salutare perché ancora non ero del tutto stabile. Anna finì il suo lavoro e poi prese una sedia e si mise accanto a Lila.
 
“Allora? Come ti senti?” Mi chiese Anna.
 
“Stanca.” Dissi con una sola emissione di fiato.
 
“Va beh, è normale.”
 
“Raccontatemi tutto. Voglio sapere ogni cosa.”
 
“Cosa vuoi sapere?” Mi domandò Lila continuando ad accarezzarmi il braccio.
 
“Tutto. Dal momento in cui sono caduta a terra. Che è successo?”
 
Anna e Lila si guardarono per un momento.
 
“Vai tu.” Disse Anna. “Io non ce la faccio.”
 
“Allora.” Lila prese fiato ed iniziò. “Noi abbiamo preso Molotov e siamo andati verso casa. Sandokan se lo era caricato sulle spalle, temevo che potesse cedere da un momento all’altro, ti lascio immaginare le mie sensazioni in quel momento. Arrivammo in fretta e furia a casa ed Anna medicò subito la spalla di Rocco. Si svegliò quasi immediatamente. Invece tu sei arrivata e Crusca ti teneva come se fossi morta. Abbiamo temuto il peggio. Anna ha medicato anche te e per fortuna la tua respirazione era regolare ed eri viva.”
 
“Quando mi è arrivato sotto mano quel tuo corpicino inerme ero senza parole. Ma come hai avuto la lucidità di metterti il fazzoletto?” Disse Anna con le lacrime agli occhi.
 
“Non lo so.” Risposi io.
 
Lila riprese a raccontare. “Poi dopo successe il peggio. Non ti svegliavi, ma respiravi e il tuo battito c’era. Non capivamo come fosse possibile. Sandokan si rifiutò di mangiare e di stare con noi, si era messo qui e stava qua con te. Ore ed ore. Fin quando, ieri, non ci siamo messi a discutere della tua situazione nell’altra stanza, Anna suppose che tu fossi morta cerebralmente, ma erano solo supposizioni tra di noi. Sandokan sentì e mise le mani intorno al collo di Anna, riuscimmo a staccarlo fortunatamente e ti lascio immaginare come sia finita tra Crusca e Sandokan. Ma poi ti sei svegliata, e ora sei qui.”
 
“Che ha fatto Sandokan?” Dissi io.
 
“Te l’ho detto. Ha sentito tutto il nostro discorso ed è venuto camminando veloce verso di noi stringendole il collo, tentammo di tirarlo via ma Crusca dovette tirargli un pugno per fargli mollare la presa. Cercammo di farlo ragionare, di fargli accettare che tu non potresti tornare, ma lui urlava solo ‘Vivrà, vedrete che vivrà’.”
 
“E aveva ragione.” Fece eco Anna sorridendomi.
 
“E Rocco? Come sta?” Chiesi io.
 
“Sta bene, abbastanza.” Rispose Lila.
 
“Sono tornati Harlem e Terùn. Avevamo bisogno di gente in vostra assenza.” Disse Anna.
 
Ma ero concentrata su altro, non mi interessavano le loro parole amichevoli o i fatti che raccontavano su come Sandokan abbia quasi soffocato una mia amica per me o molto semplicemente a causa di uno scatto di ira.
 
“Ma dove siamo?” Chiesi io interrompendo i loro discorsi.
 
“A casa.” Disse Anna guardandosi intorno.  “A casa nuova.” Si corresse.
 
“E perché?”
 
“Perché non era più sicuro restare lì. Ci hanno trovato questa casa che non è nemmeno registrata, siamo sempre a Bologna, tranquilla. Ma questa è più bella, è più grande.”
 
“Vuoi che facciamo venire Sandokan?” Mi chiese Lila.
 
“Fate come volete.”
 
Si alzarono contemporaneamente. Lila mi strinse forte la mano e me la baciò invece Anna mi stampò un bacio sulla fronte, poi mi diedero la buonanotte ed uscirono.
 
Come era potuto succedere? Per la prima volta, avevo veramente preso la morte a ballare e lei mi aveva lasciata cadere. Ma per fortuna sono riuscita a rialzarmi da sola. E se fossi morta? Come sarebbero andate le cose? Qualcuno avrebbe mai pianto per me? Chi lo avrebbe detto alla mia famiglia? A Giovanni? A Ginevra? Ginevra, mi mancava tantissimo. Lei sicuramente avrebbe saputo come fare per evitare una cosa del genere, o se fosse stata al mio posto sarebbe stata capace di gestire meglio la situazione, ancora una volta non mi ero dimostrata alla sua altezza.
 
Alzai gli occhi e vidi che sul tavolino di fianco al letto c’era un pacchetto di sigarette, qualcuno doveva averlo dimenticato lì. Era ancora sigillato, lo aprii, ne presi una e anche se con fatica, presi i fiammiferi lì accanto e la accesi. La pace che si prova quando si fuma sigaretta dopo tanto stress è inspiegabile. Ero Tranquilla finalmente.
 
“Hai apprezzato il mio regalo?” Era Sandokan sulla porta. Non feci nulla, non mi spostai e non gli dissi nulla. Non avevo le forze. Lui chiuse la porta alle sue spalle si sedette sulla sedia e mi sorrise.
 
“Ho comprato quel pacchetto perché sapevo che prima o poi lo avresti aperto e fumato. “
 
“Che hai fatto?” Gli dissi io senza cambiare la mia espressione.
 
“In che senso?”
 
“Che hai fatto ad Anna?”
 
Mi guardò smarrito, poi mi spostò le lenzuola di dosso ed iniziò ad accarezzarmi il ventre, come si fa con le donne incinte. Accarezzava avanti ed indietro, sopra e sotto. Poi con il dito disegnava dei cerchietti e giocava con l’ombelico. Dopo mi guardò per un attimo e poi si accasciò sulla mia pancia, iniziando a piangere. Non dissi nulla. Non feci niente. Continuai a guardarlo piangere e a fumare la mia sigaretta.
 
“Ti ho fatto una domanda.” Dissi con un tono pieno di rabbia.
 
Si sollevò, si asciugò gli occhi e si accese una sigaretta. “Mi dispiace Alba. Ma ero esausto. Stavo qui, su questa sedia notte e giorno, nella speranza di vederti aprire gli occhi. Non dormivo, non mangiavo, se non era necessario non andavo nemmeno in bagno. Poi Molotov si era svegliato subito e questo mi angosciava. Dovevo vederti sveglia. Quando ti ho vista arrivare in quel modo, mi sono sentito morto. Me la sono presa subito con Crusca e Lupo che non hanno fatto nulla per evitarlo, ma poi ho cercato di capire. Ma quelle parole sono state come una spada che mi perforasse.”
 
“Non è una giustificazione.”
 
“Lo so e ti chiedo scusa. Non dovevo hai ragione, sarebbe stato meglio se quel proiettile lo avessi preso io.”
 
“Stai zitto.”
 
“No è la verità.”
 
“Dovevamo ucciderli.”
 
“Lo so, Alba. Avevi ragione.”
 
“Tu come stai?”
 
“Ora bene.” Mi prese una mano e iniziò ad accarezzarmela. “Mi sei mancata.”
 
“Anche tu.”
 
“Senti Alba. Io non lo so se siamo solo dei burattini di Dio, o se il mondo sta cercando di farci capire qualcosa. Ma ti ho vista quasi morta ed è stata una scena terribile. Avrei voluto guardarti negli occhi e dirti che io mi sarei occupato di te comunque sarebbe andata. Ma tu quei maledetti occhi non li aprivi. Questa tragedia mi ha fatto capire una cosa però.” Esitò un momento, poi continuò “Sei il sangue che pulsa nelle mie vene, sei l’aria che mi rende capace di respirare. Quando tutti pensavano che fossi morta, io credevo che da lì a poco sarei morto dietro di te, che non avrei retto. Siamo prigionieri, è vero. Ma io, quando ti abbraccio, quando  ti accarezzo mi sento libero. Io non lo so questo cosa significhi, ma io so cosa vuol dire una persona che si ama, e fa male. Io ho provato di nuovo quella sensazione. Io non lo so se è amore, forse è ancora troppo presto per dirlo. Se lo vuoi, io sono pronto a rimanere al tuo fianco però. Questo l’ho capito.”
 
Gli sorrisi e lui mi ricambiò il sorriso. “Se riuscissi ad avvicinarmi a te ora ti bacerei.”
 
“Non c’è problema.”
 
E si chinò su di me, lasciandomi un profondo bacio sulle labbra. Ricambiai il suo bacio senza pensarci due volte. Questo era il nostro primo bacio, uno vero. Sentivo la sua lingua giocare nella mia bocca e la mia apprezzare quel suo bacio passionale. Con una mano mi teneva la nuca e l’altra la teneva poggiata sulla spalla, mentre io non riuscivo nemmeno a muovere le mie. Sentivo male ovunque, ancora di più quando lui mi offrì le sue labbra. Ma ecco cosa ho capito io invece, voler qualcosa così tanto anche da soffrire un po’.

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Capitolo 19
*** Che ci sei, adesso tu. ***


Torino, 21 marzo 1951
 
Quel 21 marzo 1951 poteva apparire come un qualunque mercoledì comune. Ma aveva qualcosa di completamente diverso, era il mio compleanno. Quell’anno compievo 26 anni, e tra le altre cose era anche l’anno in cui mi sarei laureata. Infatti quella mattina avrei portato la tesi completata al mio professore Elio Marini, professore che ha deciso di seguirmi fino alla laurea. Forse è uno dei pochi uomini che ha sempre confidato nelle mie capacità e nella mia conoscenza. Non ha mai dubitato un attimo che io mollassi o facessi qualunque sciocchezza, diceva che io avrei portato avanti quell’ideale di donna innovativa che il mondo necessitava.
 
Infatti, il mondo stava cambiando. Nell’arco di cinque miseri anni, ho visto un nuovo futuro passarmi sotto gli occhi. Le persone stanno cambiando, la moda sta cambiando, la musica sta cambiando, la politica sta cambiando, il cinema sta cambiando, i giornali stanno cambiando. Tutto si muta, ma niente si ferma. Anche noi stavamo cambiando, seppure non ce ne accorgevamo. Milena più di tutte. Adesso era diventata caporeparto delle stiratrici, non aveva mai voluto abbandonare quel suo posto precario, che però la rendeva sufficientemente felice e soddisfatta di se stessa. Non aveva abbandonato neanche la politica, infatti continuava ad andare regolarmente alle riunioni del partito che stava ricevendo sempre più consensi, e Milena non aveva paura di far sentire la sua voce in fabbrica ogni qual volta fosse necessario. Era stata capace di imparare l’italiano più complesso, seppure con quel suo accento siciliano abbastanza marcato che però la rendeva simpatica. Aveva imparato l’inglese ed il francese e lo masticava bene. Ma la novità che mi sconvolse più di tutte, è che Milena adesso, portava i pantaloni, proprio come me. Ma non eravamo le uniche, erano moltissime le donne che ora come ora si era abbandonate alla comodità del pantalone non curandosi del possibile giudizio maschile.
 
Anche i nostri bambini stavano crescendo. Salvatore aveva compiuto 10 anni un mese prima, adesso frequentava la scuola primaria, era felice di andarci e diceva che da grande lui avrebbe voluto fare l’archeologo. Era un bambino sveglio, attento, furbo e questo gli faceva onore. Mentre il mio piccolo Michele, che adesso aveva 5 anni, era alla fine del suo percorso nella casa dei bambini e a settembre anche lui si sarebbe iscritto alla scuola primaria proprio come Salvatore. Era diventato un bravo ometto, anche lui era intelligente e diligente, molto sveglio anche lui e già mi chiedeva di insegnargli a leggere qualcosa, ma era ancora troppo complicato. La cosa che più mi frustrava era che mi chiedesse continuamente di suo padre e io non sapevo mai cosa rispondergli. Cosa avrei dovuto dirgli? Tuo padre non c’è più?
 
Invece, continuavo a sentire regolarmente mia sorella Emilia, che nel frattempo aveva avuto altre due bambine. Avevamo fatto conoscere le sue figlie con il piccolo Michele il Natale scorso e sembrava che avessero stretto un buon legame fin da subito senza complicazioni. Come ogni lettera e come ogni telefonata, anche quando abbiamo trascorso il Natale da lei in Francia, Emilia non ha perso tempo nell’invitarmi a rimanere da lei per un po’ per abituarmi, non ha mancato nel convincermi ad abbandonare l’università, ma come sempre io ho rifiutato. Era allibita che io potessi farcela da sola, ma in quel momento sembrava che ce la stessi facendo senza grossi intoppi e anche se non me lo avrebbe mai ammesso, si vedeva che mia sorella era troppo fiera di me.
 
Se le conversazioni con Emilia erano assidue, quelle con Ginevra erano rare se non inesistenti. E d’altra parte, ero sempre io a telefonarle. Ero riuscita ad ottenere il suo recapito telefonico grazie a Gennaro, perché era prossimo alle nozze e voleva invitare sua sorella al matrimonio, che ovviamente ha rifiutato. Così, Gennaro mi ha dato il numero nella speranza che io in qualche maniera ambigua potessi convincerla a tornare in Italia, ma ovviamente fu del tutto inutile. Continuai a chiamarla per evenienze speciali, come Natale, Pasqua, compleanni e via dicendo. Le nostre telefonate erano spente: i soliti convenevoli, lei che mi chiedeva se avessi novità, io che le chiedevo se fosse in arrivo un bambino e lei mi diceva che non c’era niente da fare, e i saluti. Perseverai nel chiamarla per un paio di anni, ma vedendo un muro da parte sua, compresi che non aveva poi così tanto senso darle fastidio in quel modo, così smisi. Se avesse avuto qualcosa da dirmi, conosceva bene il numero.
 
Purtroppo l’amicizia con Ginevra era naufragata ed affondata, l’avevo persa. Ma l’amicizia con Sara e Rossella, meglio conosciute come Anna e Lila, si risanò. Dopo la scappata a Roma con Rocco, riuscimmo a convincere Lila a trasferirsi a Torino e lei non ci pensò due volte. Nel frattempo, avevamo fatto una bella gita a Bologna per il matrimonio di Anna e Crusca che finalmente dopo aver messo qualche soldo in più da parte erano riusciti a coronare il loro sogno d’amore. Descrivere il vestito da sposa di Anna con le parole sarebbe anche poco, era semplicemente bellissima. Era un angelo che illuminava la navata della chiesa, era come se lasciasse un profumo di buono ogni passo che faceva. Ritornare a Bologna per il grande evento è stato quasi strano. Rivedere quella città dopo anni, in maniera diversa, mi ha fatto quasi credere che da quelle strade, che in quelle piazze non fosse mai accaduto nulla. Ma posso ancora percepire l’odore del sangue e della polvere da sparo, rimbombarmi nelle narici ed arrivarmi fino al cervello.
 
Dopo le nozze di Anna e Crusca, seguì il matrimonio tra Rocco e Rossella. Questa volta l’evento si svolse a Roma e ancora una volta, Rossella era riuscita ad essere impeccabile. Già di per sé, Rossella era capace di emanare bellezza semplicemente scuotendo i capelli in maniera del tutto naturale. Ma vederla dentro quel meraviglioso abito bianco, adornata da particolari che le facevano risplendere il viso, un trucco velato ma sicuramente d’effetto e quei capelli raccolti che le lasciavano il collo in bella vista, la rendevano ancora più bella, sarebbe stata una candidata perfetta per Miss Italia. Ma lo spettacolo più bello fu poter vedere Rocco Rinaldi finalmente sposato e devoto solo ed unicamente ad una donna. I suoi occhi erano illuminati da un amore sincero ed ero onestamente felice per loro due. Rossella e Rocco erano partiti immediatamente per l’America, Rocco lavorava in un magazzino di un negozio di abbigliamento e ovviamente continuava a fare politica. Invece, Rossella lavorava nello stesso negozio di Rocco ma come commessa, la sua bellezza non è passata inosservata nemmeno lì ma Rocco aveva imparato a conviverci, sapeva che lei aveva occhi solo ed esclusivamente per lui. Nonostante quel lavoro che aveva scelto, non aveva mai abbandonato il suo sogno di diventare un’attrice e sperava che lì ci sarebbe riuscita. Nel mentre, avevano avuto due splendidi bambini.
 
Ma per fortuna per il mio compleanno, ero riuscita a riunire tutti a Torino. C’erano tutti i miei amici di sempre ed Emilia con la sua nuova famiglia. Mi sentivo felice, ero felice che non avessi più troppe preoccupazioni e troppi pensieri per la testa. Ero rilassata e felice di essere tranquilla. Quella vita frenetica di prima non la rimpiangevo nemmeno per un attimo. Mi sentivo invincibile, sapevo che niente mi avrebbe potuto far soffrire.
 
“Buongiorno amore.” A svegliarmi quella mattina fu proprio Milena, che era entrata in camera con un vassoio in mano. “Buon compleanno.”
 
“Grazie Milè.”
 
“Sono 26 eh. Sei diventata vecchia ormai.”
 
“Ma no ancora ho tutta la vita davanti.” Bevvi il caffè che mi aveva portato Milena, ma non feci in tempo ad afferrare il pane con la marmellata che entrò correndo Michele e saltò sul letto.
 
“Buon compleanno mamma.” Mi abbracciò fortissimo, stringendomi le sue esili braccine intorno al collo.
 
“Grazie amore mio.”
 
“Ho un regalo per te.”
 
“Ah si? E vallo a prendere.” Michele saltò giù dal letto, correndo verso l’altra stanza.
 
Afferrai velocemente la fetta di pane e scesi immediatamente dal letto, iniziando a vestirmi in fretta e in furia.
 
“Ma già esci?” Mi disse Milena posando il vassoio sulla scrivania.
 
“Sì, stamattina devo andare in università. Devo consegnare la tesi.”
 
“Ce l’hai fatta alla fine.”
 
“Eh sì, ce l’ho fatta.” Mi guardai compiaciuta allo specchio mentre sistemavo il colletto della camicia rosa di raso che mi aveva regalato Emilia. Ce l’avevo fatta davvero, ero riuscita a realizzare quel sogno che avevo sempre desiderato. Mi stavo per laureare. Nel frattempo, l’università non era più un privilegio degli uomini e di un numero scarsissimo di donne fortunate, come me. Ma erano diventate tante le donne che avevano scelto di cambiare la propria vita iscrivendosi all’università, per me questa era una vera e propria rivoluzione.
 
 
“Quindi adesso possiamo partire davvero per l’America.” Mi disse Milena con uno sguardo sollevato.
 
L’America. Me ne ero quasi dimenticata di quel grande sogno che avevamo progettato insieme, che ero stata proprio io a proporle. Ma adesso, non lo sapevo più se volevo andare via da Torino, adesso che finalmente stavamo tutti cercando di voltare pagina dalla guerra, proprio ora che il cambiamento stava avvenendo anche qui. Ma come avrei potuto dirle che non mi andava più? Come avrei potuto abbattere tutti i progetti che lei aveva immaginato nella sua mente?
 
Mi voltai verso di lei e le sorrisi “Certo.”
 
Lei corse verso di me e mi abbracciò forte, fortunatamente a spezzare quel momento che avrei voluto finisse prima che lei riprendesse quel discorso, entrò correndo Michele con un foglio in mano.
 
“Tieni mamma.” E mi diede il foglio.
 
Presi il foglio, ed era un disegno. Era un qualunque disegno fatto da un qualunque bambino, ma nascondeva tutte le sofferenze di mio figlio. Era un foglio bianco con un cielo blu, un sole giallo al centro, una piccola casetta rossa al lato sinistro e al lato destro c’era una ragazza, che dovevo essere io, che teneva per mano un bambino che doveva essere lui e un po’ più distante un essere maschile colorato completamente di nero. Lo guardai e una lacrima mi scese dall’occhio.
 
“Mamma, non ti piace? Perché piangi?”
 
Mi sedetti sul letto e lo presi in braccio, iniziando ad accarezzargli i capelli.
 
“No amore mi piace. Ma ho una domanda, chi è questo signore tutto nero?”
 
“È il mio papà.” Come sospettavo. Tentai di non scoppiare a piangere come una pazza per non far stare male il piccolo Michele. Poi fu lui a riprendere a parlare. “L’ho fatto nero, perché il nero non mi piace. E non mi piace nemmeno il mio papà.”
 
Milena mi guardò disperata, nemmeno lei sapeva cosa fare. Dovevo parlargli. Per forza. Dovevo spiegarglielo nel modo più semplice possibile, in modo che non fraintendesse. Lo misi sul letto di fronte a me, in modo che mi potesse guardare e spostai il disegno sul comodino. Lanciai un’occhiata a Milena per farle capire che dovevo rimanere sola con lui e lei uscì fuori.
 
“Amore. La mamma ti deve dire una cosa che forse ti dispiacerà un po’.”
 
“Dimmi mamma.”
 
“Tuo papà non era cattivo, anzi.”
 
“E perché ci ha lasciati? Tutti i miei amichetti hanno un papà e una mamma e io ho solo una mamma.”
 
Alle parole così mature di mio figlio di 5 anni, iniziai a piangere disperatamente. Come avrei potuto dirglielo? Era più difficile di quanto potesse sembrare, ma Michele doveva saperlo. Non poteva più reggere questa situazione. Mi asciugai le lacrime e presi il coraggio necessario per poterglielo spiegare.
 
 
“Tuo papà era bravissimo con la mamma, lui non ci avrebbe mai lasciati, sai. Ma un giorno è successa una cosa brutta.”
 
“Che cosa è successo?”
 
“Insomma…come dire…la mamma, il papà ed altre persone stavano…stavano facendo un gioco.”
 
“Un gioco?”
 
“Si un gioco, molto brutto.”
 
“E perché avete fatto questo gioco se era brutto?”
 
“Perché era giusto che noi facessimo questo gioco, perché noi dovevamo salvare delle persone che non volevano giocarci, non era giusto che delle persone ci costringessero a giocare se noi non volevamo? Giusto?”
 
“Giusto.”
 
 
“E poi, un giorno, questi capi che avevano deciso il gioco, presero il papà che voleva far finire il gioco. Ma purtroppo papà non è riuscito a vincere.” Ripresi a piangere ma con un po’ di contegno. “E papà ha cercato in tutti i modi di farli perdere, ma lo hanno ucciso.”
 
“Davvero? E tu?”
 
“Io sono riuscita a vincere amore. Il tuo papà non era cattivo, i cattivi sono quelli che ce lo hanno portato via, lui era un eroe.”
 
“Wow. Mamma tu sei stata brava però.”
 
“Si, sono stata fortunata, amore.”
 
“Mi giuri che non ci giochi più a questi giochi brutti?” E mi diede il suo piccolo mignolino e io glielo afferrai con il mio, prendendo con l’altra mano la sua nuca, spingendolo verso di me.
 
“Te lo giuro, la mamma non ci gioca più.”
 
 
Restammo abbracciati tanto tempo. Mio figlio era nato già grande, sapeva già cosa fosse il dolore e io avrei voluto evitargli qualunque sofferenza, avrei voluto farlo stare bene. Milena entrò nella stanza, invitando Michele ad andare sotto a fare colazione con Salvatore. E io scoppiai in lacrime non appena lui uscì e Milena vedendomi in quelle condizioni corse da me sul letto e mi abbracciò, facendomi liberare da tutte le lacrime accumulate.
 
“Sei stata brava. Sei una brava mamma.” Mi disse sistemandomi i capelli che mi erano caduti sul volto.
 
“Milè io voglio che lui stia bene.”
 
“Con una mamma come te, starà bene certamente. Ma ora vai in università, Salvo e Michele li porto io.”
 
“Grazie Mì.” E la abbracciai di nuovo per poi continuare a sistemarmi a dovere. Quello che avevo fatto era inevitabile, prima o poi avrei dovuto prendere quel discorso, e forse è stato meglio che sia successo ora.
 
Scesi immediatamente le scale per raggiungere il piano inferiore, salutai per l’ultima volta Michele, Salvo e Milena, per poi uscire di fretta di casa. Ma prima di raggiungere l’Università, dovevo andare in un posto. In quel periodo avevo imparato ad apprezzare le piccole cose, come l’odore del caffè che fuoriusciva dai bar in centro al mattino, come la voce del giornalaio che si premura di conservarmi l’Unità ogni giorno, come le risate dei bambini al parco. Avevo lasciato che il cambiamento mi entrasse dentro e oramai era diventato parte integrante del mio essere, non sarei mai potuta tornare un passo indietro. Il mondo in qualche modo ha ascoltato le mie preghiere e le mie speranze, questo mi ha insegnato che talvolta lasciarsi abbattere dagli eventi è sbagliato, basta poco per poterci ridere su.
 
Una cosa è sicura, sentivo sempre che qualcosa mi mancasse. Mentre fisso il cielo blu, penso che il cielo continua ad accogliere ogni giorno il sole non curandosi delle nuvole e avrei voluto che anche tu, Michele mio, potessi godere questa vista meravigliosa. Sentivo che quello che mancava nella mia vita, eri proprio tu. Guardando le coppie ballare nei caffè pensavo che una di quelle coppie saremmo potuti essere io e te. E ora, ovunque tu sia, spero possa accettare il mio ballo, tu sappia ancora cingermi la vita e farmi girare sulle note di “Mille lire al mese”. Non ho mai smesso un attimo di pensarti, devo essere proprio una stupida agli occhi degli altri che mi invitano a trovare un uomo nuovo, ma come potrei? Come potrei cedere il tuo posto ad una persona del tutto inutile e senza valore? So che non saresti d’accordo nemmeno tu, chissà se un giorno riuscirai mai a rispondere a tutti i miei quesiti. Mi manchi amore della mia vita.
 
Arrivata al cimitero di Torino, mi fermai dalla fioraia lì vicino per prendere tre mazzetti: uno per Giovanni, uno per mamma e uno per papà. Per prima, andai nella cappella Giraudo, non avevo smesso un giorno di andare a trovare Giovanni. Ormai avevo inondato la sua tomba di fiori ed oggettini inutili, che però per noi avevano un senso. Non smettevo di accendere una sigaretta lì vicino, così che anche lui potesse inalare un po’ di fumo, così che potessimo fumare una sigaretta insieme. Guardare quella foto su quella lapide mi mette solo angoscia, mi sarebbe piaciuto che oggi ci fossi stato anche tu con me, a celebrare il mio compleanno. Eri sempre il primo a farmi gli auguri, a prepararmi delle sorprese speciali. E adesso guardaci, io guardo la tua foto impiantata su un pezzo di pietra senza nemmeno parlarti e tu nemmeno mi rispondi. Ti sembra giusto Giovà? Dico, ti sembra normale? Ma tu al mio posto cosa avresti fatto? Mi sedetti a terra, continuando ad accarezzare quella tomba.
 
“Ciao Giovà, mi manchi. Oggi è il mio compleanno ma questo tu già lo sai. Lo sai che oggi vado a consegnare la tesi? So che se fossi stato qui, mi avresti sicuramente accompagnata e nonostante avresti cercato di tranquillizzarmi in tutti i modi, quello veramente agitato saresti stato tu.” Risi per un po’. “Mi avresti detto di non avere paura, che il vento tira per tutti. Ma io ho adesso ho paura Giovà.” Rimasi a fissare la tomba attendendo un suo consiglio. Ma il consiglio non arrivò mai. Non mi sarebbe mai potuto arrivare. “Ciao Giovà.” Mi alzai lasciandomi alle spalle la porta della cappella. Le lacrime presero a scendere come una cascata, feci un bel respiro e continuai per la mia strada. Fin quando non arrivai alla cappella Giordano.
 
“Ciao mamma.” Posai i fiori sulla tomba di mia madre, forse stavamo avendo un vero rapporto solo adesso, più discorsi ora di quando era in vita.
 
Poi alzai gli occhi ed eccoci qui. Posai i fiori sulla tomba di mio padre e ripresi il mio soliloquio. “Ciao papà. Oggi consegno la tesi, sai. Spero tu sia soddisfatto lo stesso di me. Nonostante tutto. Michele ha voluto vedere le tue foto l’altro giorno, dice che sembri un attore. Mi dispiace, papà. Ma ho dovuto farlo. Lo so che non puoi capirmi, e non lo voglio, ma se puoi, perdonami. Perdona tua figlia, papà.”
 
Mi spostai da lì perché non riuscivo più a reggere così tante emozioni. Ero in vena di confessioni quel giorno, la verità è che la morte adesso, mi faceva ancora più paura. Ma se moriamo un motivo ci deve essere, ci deve essere per forza. Ma nel mentre che cerchiamo di scoprire il senso della vita, il senso del destino e il senso della morte, provo a non privarmi più di nulla, di fare tutto quello che sento. Chi muore lotta, ma lotta ancor di più chi gli sta intorno, nessuno è pronto nel vedere andar via una persona amata, nessuno è pronto ad accettare le scelte di un presunto Dio.  La verità è che io questo circolo ancora non l’ho capito, com’è possibile ridere con una persona un giorno e il giorno dopo non poterla nemmeno più guardare. Mamma, papà, Giovanni, Michele. Tutti. Non ci sono più. Fino a qualche tempo fa conversavo con loro, ridevo con loro, mangiavo con loro, dormivo con loro e adesso restano solo un ricordo quasi annebbiato. Se me ne rendo solo adesso, è perché io sono così, che il mio sport preferito è arrivare sempre tardi in certe situazioni, quando ormai i momenti sono solo dei ricordi, ma tutto nella mia memoria, nella mia stanza, sulla mia pelle mi ricorda della loro esistenza. Spero che ora possiate riposare bene.
 
Mi avvio per uscire dal cimitero e trovo Giorgia Giraudo. Due chiacchiere giusto per non sembrare due incivili e poi via. Anche lei non smetteva una mattina di andare a trovare suo fratello al cimitero. Giorgia nonostante si fosse sposata con un borghese di Torino, non aveva smesso di frequentare l’università, non gli aveva permesso di decidere per lei sotto questo punto di vista. E io, in fondo, ero fiera di lei, perché sapevo che era anche un po’ a causa mia. Giorgia l’avevo formata io, i pomeriggio studio ervano diventati dei veri e propri corsi di forza femminile. Io era la sua mentore e lei era la mentore delle sue amiche che vivevano solo per la necessità di trovare un marito e di metter su famiglia. Diventare delle mogliettine ricche di borghesi in carriera, andare alle serate mondane ogni qualvolta fosse necessario per integrarsi nella élite della società, avere i posti privati al teatro anche se di opere liriche ne capivano ben poco, crescere i figli in maniera passiva educando le femmine ad essere mogli e figlie esemplari e gli uomini ad essere dei bastardi cinici. Metteranno le corna ai mariti solo per puro svago e passeranno la vita intera ad essere delle ombre sfocate di mariti, fratelli e padri. E nonostante alcune di noi avessero già deciso che via prendere, altre ancora erano rimaste ferme sulla strada di casa.
 
Proseguii per l’università, andando al solito bar lì di fronte per bere il solito caffè macchiato prima delle lezioni o degli esami, ma questa volta era diverso. Ormai ero diventata di casa, tutti i ragazzo che lavoravano lì mi conoscevano alla perfezione. Mi avevano vista cambiare e crescere, avevano assistito a tutti i miei traguardi e alla mia felicità dopo un esame andato benissimo, e a tutti i miei crolli emotivi.  Entrata nell’ateneo, mi diressi direttamente nell’ufficio del professore Marini, bussai alla porta e non appena sentii un ‘avanti’, spalancai la porta.
 
“Uh, la signorina Giordano, prego.” Disse lui risistemandosi sulla sedia.
 
Chiusi la porta e andai a posizionarmi sulla sedia dall’altra parte della scrivania. “Ho finito la tesi.”
 
“Ottimo. Vogliamo vederla?”
 
“Sì.” Estrassi dalla borsa dei fogli volanti e cercai di risistemarli in ordine.
 
“Ma una cartellina, signorina? No eh?”
 
“Eh mi scusi, ha ragione.” Dopo aver sistemato anche l’ultimo foglio, glielo consegnai, osservandolo mentre leggeva attento. Continuava a leggere pagina dopo pagina in maniera attenta, sembrava si fosse immerso pienamente nella lettura della mia tesi, spero gli piaccia. Poi risistemò i foglio e li posò sulla scrivania. E Mi guardò a lungo prima di proferire parola.
 
“Lei scrive veramente bene, signorina Giordano.”
 
“Grazie professore.” Dissi io sorridendo compiaciuta.
 
“No davvero, lei ha talento. Ha una buona ortografia, un lessico forbito. Il linguaggio è chiaro, diretto. Niente da dire veramente. Per non parlare della tematica.”
 
“So che è azzardato, ma lei mi aveva detto che era d’accordo.”
 
“Si, non si preoccupi. Ci uccideranno, ma almeno proviamo a svecchiare un po’ questa università. Ha scelto il titolo?”
 
“Eh si, ma è scandaloso tanto quanto la tesi in sé.”
 
“Dica.”
 
“La poetica di Saffo: la risposta alla sfida del cambiamento.”
 
“I miei più sinceri complimenti signorina. Lei è pronta per sostenere la discussione.”
 
“La ringrazio.”
 
“Ha già un’idea per il futuro?”
 
“Beh, certo.”
 
“Vale a dire?”
 
“Ehm, vorrei intraprendere la carriera accademica, o in extremis nei licei.”
 
Si mise composto sulla sua grande sedia in pelle marrone, poggiò i gomiti sulla scrivania portandosi le mani incrociate sotto il mento, quasi come se volesse reggere il capo. Mi guardava insospettito, quasi preoccupato, come se da un momento all’altro mi avrebbe detto qualcosa di terribile. E così fu.
 
“Signorina non si offenda, ma io ritengo che lei stia un po’ fantasticando. Seppure siamo di comune accordo sul fatto che il mondo, l’Italia, si stia evolvendo verso un futuro, certamente con una nota positiva, io credo che le università italiane non siano ancora pronte a questo.”
 
“Si spieghi meglio.” Lo osservavo un po’ confusa, non riuscivo a comprendere appieno le sue parole.
 
 
“Lei è sicuramente una studentessa eccellente. Ha una mente veramente brillante, è intraprendente, coraggiosa, una donna forte. Ma sta facendo il passo più lungo della gamba, ancora il mondo universitario è legato agli uomini.”
 
“Ma non dobbiamo fare il cambiamento?”
 
“Sì signorina dobbiamo cambiare, ma piano. Le volevo proporre di tentare il concorso come maestra, per creare nuove menti eccezionali come la sua. Sarebbe certamente più indicato per lei.”
 
“Ma se tante volte lei mi ha ripetuto che io sono molto meglio di tantissimi miei colleghi uomini.”
 
“Sì, ma non dipende certamente da me.”
 
Rimasi zittita, non sapevo cosa rispondergli. Quel cambiamento che avevo tanto aspettato, mi si stava ritorcendo ancora una volta contro. Sono stata un’ingenua nel poter credere che finalmente anche la mia possibilità fosse arrivata, ma il vero cambiamento era ancora troppo lontano. Aveva ragione Milena, dovevamo andare via in America. Non volevo più accontentarmi di un futuro mediocre, volevo essere gratificata per tutti i meriti che le altre persone mi attribuivano. Dio ne abbiamo ancora per molto?
 
Salutai il professore ed uscii immediatamente fuori dal suo ufficio e da quell'università. Mi aveva comunicato che tra un mese e mezzo esatto avrei sostenuto la discussione per la laurea. Ero pronta, ma non più felice come prima, anzi ero solo arrabbiata.
 
Quella mattina sarei dovuta andare a prendere Emilia e la sua famiglia alla stazione e così feci non appena uscita dall’università. Arrivata in stazione vidi subito Emilia, suo marito Federico e le sue bambine, Marianna che più cresceva e più somigliava a sua madre, la piccola Claudia e la minuscola Andreina di nemmeno 5 mesi, era solo un fagottino ancora. Corsi immediatamente verso Emilia e la abbracciai forte.
 
“Buon compleanno sorellina.”
 
“Grazie Emilia. Dai, dammi queste valigie.”
 
“Auguri zia” Le bambine si avvinghiarono alle mie gambe e io mi abbassai per abbracciarle, poi presi in braccio Andreina e me la coccolai per bene.
 
“Dai, andiamo a casa. Che gli altri devono essere già arrivati.”
 
Arrivati a casa, come ben pensai, ad aspettarmi trovai tutti. C’erano Milena e Suor Costanza a cucinare. Rossella e Rocco con i piccoli Carlo e Vittorio che giocavano con Michele e Salvo in giardino, e in giardino Anna, Crusca, Lupo, Harlem e Terùn. Ma appena mi videro arrivare applaudirono forte e iniziarono ad intonare la canzoncina “Tanti auguri a te”. Io mi misi immediatamente a ridere dando un grazie generale a tutti e presentando Emilia.
 
“Ma ho una domanda per Rocco e Rossella, la nave ci ha messo così poco?”Dissi io togliendomi la giacca e accendendomi una sigaretta.
 
“Eh sii, tu vivi ancora nel passato Alba.” Mi disse Lupo spingendomi il braccio verso avanti.
 
Tutti si misero a ridere, ma io continuavo a non capire.
 
“No Alba, abbiamo preso l’aereo. Non puoi capire, una paura terribile. Ma ci hanno detto che era più facile e più veloce.” Mi disse Rossella, continuando a ridere.
 
“L’aereo?” Disse Milena invitandoci a sedere a tavola.
 
“Eh si l’aereo Milè.” Disse Rocco ridendo.
 
“La cosa più emozionante che ho preso io è stato l’ascensore.” Disse Milena continuando a ridere.
 
“Ma tu sai che da poco abbiamo acquistato una diavoleria.” Disse Lila posizionandosi il tovagliolo sulle ginocchia.
 
“Che cosa?” Disse Anna stranita.
 
“Ma lasciatela perdere che dice stupidaggini. Abbiamo comprato un televisore, ci serviva.” Disse Rocco iniziando a tagliare la carne.
 
“You are joking?” Disse Lila guardandolo male.
 
“Eh no qua dovete parlare in italiano.” Disse Lupo.
 
“Ma infatti, cos’è sto televisore?” Disse Crusca.
 
“Amore, televisore non è inglese.” Disse Anna ridendo e prendendogli le mani.
 
“Il televisore è la radio dei ricchi. Praticamente è uguale, dovevamo vedere le immagini perché soltanto il suono non ci bastava. Poi per quello che ci è costato.” Disse Lila continuando a lamentarsi.
 
“Va beh Lila sei nel futuro mettila così.” Dissi io continuando a sfotterla.
 
Continuammo a ridere per tutto il pranzo, mi mancava tantissimo passare del tempo con tutti i loro e per la prima volta anche Emilia rideva insieme ai miei amici, per la prima volta le piacevano. Quell’insicurezza che avevo appena uscita dall’università era scomparsa, adesso ero davvero felice come quando passavamo le serate a bere e conversare del più e del meno durante la resistenza. Era bellissimo ancora una volta bevevamo, fumavamo, mangiavamo, conversavamo di cose serie e di sciocchezze e soprattutto ridevamo. Ognuno con le proprie vite, ognuno proprio con le proprie nuove strade, ognuno con i propri sogni e le proprie ambizioni. Ma nonostante potessimo apparire completamente lontani, in realtà eravamo molto vicino. In mezzo a questo grande mondo, c’eravamo noi che riuscivamo sempre a trovare la forza di rivederci e ridere. Ma continuava a mancare qualcuno. Mi alzai in piedi con il bicchiere di vino.
 
“Vorrei dedicare questa giornata a qualcuno.”
 
Tutti alzarono il bicchiere verso di me.
 
“Vorrei dedicare questo giorno a Michele.”
 
“A me mamma?” Disse il piccolo Michelino. E tutti risero con una nota di tristezza velata.
 
“Si anche a te amore mio. Ma anche ad un altro Michele, che purtroppo oggi non può essere qui con noi, ma sono certa che avrebbe amato una cosa del genere. Lui è con noi anche se non c’è fisicamente. A Michele.”
 
“A Michele.” Ripeterono tutti in coro.
 

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Capitolo 20
*** Restare a galla. ***


Bologna, 7 giugno 1944
Era da qualche giorno che riflettevo sulle grandi conquiste che vittoriosamente stavamo portando a casa. Anche se non noi in prima persona, tutta la barricata comune contro il nemico stava vincendo in qualche modo, ma non potevamo illuderci da quelle poche briciole che avevamo ottenuto, serviva l’azione. Il primo giugno gli alleati conquistarono Sora e Frosinone, il tre conquistarono Velletri e Valmontone, il 4, finalmente presero Roma.
 
Tentare di descrivere l’emozione di Lila in quel preciso istante in cui ricevemmo la notizia, è al quanto difficile. Aveva un’espressione mista alla felicità e alla commozione. Era sicuramente senza parole, visto che continuava a fissarci inerme, simile ad una statua del periodo ellenico, ma nella sua staticità esprime sensazioni dinamiche singolari. Avrei potuto comprendere quella sensazione di stupore e serenità, solo quando anche la mia Torino sarebbe stata veramente libera, quando la mia famiglia e i miei amici non avrebbero più sofferto. Quando avrei potuto riabbracciare Ginevra. Ma contemporaneamente a queste sensazioni di angoscia, condividevo la felicità con Lila. Se lo meritava.
 
Era passato un mese dal mio primo incidente sul campo e dal mio primo vero bacio con Sandokan. Non avevamo ancora avuto il coraggio di dirlo agli altri dato l’imbarazzo generale e il timore di come gli altri avessero potuto prendere la notizia, come se improvvisamente il nostro battaglione fosse diventato un centro di incontri per giovani ragazzi senza moglie o marito, data la nostra età. Ci eravamo limitati a dei furtivi e casti baci, non osavo provocarlo, non era giusto, sapevo che non ero ancora pronta per dargli quello che avrei dovuto dargli.
 
Era troppo snervante il mio pentimento per quello che era successo con Rocco, mi ero ripromessa che non avrei più ceduto la mia ormai svanita purezza a chiunque. Ma avrei vissuto la prima volta con Sandokan come se fosse stata la mia prima volta in assoluto, quella che veramente avrà delle ripercussioni positive nel mio essere donna e nel mio futuro soprattutto.
 
Ovviamente non avevo mai avuto il coraggio per poter confessare tutti i miei pensieri più intimi a Sandokan, ma ogni tanto, di notte, ne parlavo con Anna e Lila. Loro mi dicevano che era assolutamente normale fantasticare un po’, però l’importante è che non mi illudessi di alcune sciocchezze che mi diceva Sandokan. In fondo gli uomini sono tutti uguali, dicevano.
 
“A cosa pensi?” Sandokan si avvicinò a me che ero seduta sul balcone, cingendomi le spalle.
 
‘Avrà captato i miei pensieri?’ Pensai.
 
“Penso un po’ a tutto. A tutti.” Risposi io senza voltare lo sguardo verso di lui, continuando ad ammirare uno splendido panorama notturno di una Bologna silenziosa e stanca.
 
Ogni tanto venivamo svegliati da qualche bombardamento in piena notte, dai rumori di aerei che volavano vicinissimi o da sirene che suonavano ripetutamente, anche a vuoto a volta e che ci costringevano a correre nel buio nel seminterrato protetto del palazzo. Ma da qualche notte questo non stava più accadendo e un po’ mi lasciava perplessa.
 
“Ti manca la tua famiglia?” Sandokan lanciò quella domanda come si lancia una pietra in mare tentando di farla rimbalzare e facendo emergere tante altre domande che non avresti voluto porti.
 
“In realtà no.” Risposi io di getto, senza pensarci due volte. “Mi manca mia sorella, Giovanni, il mio amico di infanzia e Ginevra, la mia migliore amica.”
 
 
Sandokan scivolò velocemente al mio fianco ritirando le gambe e portandosi le ginocchia all’altezza del petto per poggiare il suo mento. Poi voltò la testa nella mia direzione e mi guardò per un po’ come se avessi qualcosa di particolare in faccia che dovesse essere guardata necessariamente.
 
“Parlami di lei.”domandò Sandokan continuando a non distogliere lo sguardo da me.
 
“Di Ginevra?”chiesi io insospettita.
 
“Si, parlami di lei. È la prima volta che ti sento nominarla.”
 
“Ginevra è magica. È come poche. Anzi, nessuno è come lei. Ginevra ha un ingegno innato, è capace di cose che non puoi neanche immaginare. Io credo che lei abbia una marcia in più, penso che sia fantastica. Ecco com’è, fantastica.”
 
“Fantastica?” rispose Sandokan continuando a non smettere di guardarmi.
 
 
“Si, fantastica. è semplicemente la parte migliore di me, non saprei come fare senza di lei, anzi, ti dirò di più. Io senza di lei non sono nulla.”
 
“Secondo me, invece ti sottovaluti troppo. Guardati adesso. Sei senza questa Ginevra, e mi pare che tu te la stia cavando alla grande. Stai facendo cose che nemmeno nell’anticamera del tuo cervello pensavi potessi essere capace di fare. Si cresce, ci si distacca dagli affetti e si comprende che l’unica forza che può guidare la tua vita, devi essere tu.”
 
Sandokan aveva sempre la frase giusta per ogni occasione, sapeva sempre cosa dire, anche quando non conosceva o aveva poche conoscenze riguardo un argomento. Era la prima persona che probabilmente credeva in me, era sicuro che sarei stata capace di grandi cose, che avrei potuto contare solo ed esclusivamente sulle mie forze.
 
Mi abbracciò e mi diede un bacio all’angolo della bocca, poi gli misi una mano intorno alla nuca e gli diedi un bacio vero e passionale. Lui continuò a baciarmi, e poggiò le mani sui miei fianchi e sentii le sue mani scendere verso il mio sedere ed istintivamente mi ritrassi indietro, abbandonando quel momento magico.
 
“Scusami.” Sandokan alzò le mani in segno di resa ed accennò una risata, e mi lasciò un altro bacio sulla guancia, alzandosi.
 
“Tranquillo. Purtroppo ancora non me la sento.”Dissi io cercando di giustificarmi e di non metterlo troppo in imbarazzo.
 
“Non devi darmi spiegazioni Agata, quando sarai pronta, lo faremo. Non c’è  fretta.”
 
Invece a me sembrava che tutto stesse accadendo con una fretta inarrestabile, mi sentivo come messa in mezzo a due fuochi. Non sapevo come poter uscire da quella posizione di stallo: continuare ad aspettare o cedermi a lui. Volevo che accadesse qualcosa con Sandokan, non sapevo se potesse essere un gesto di amore, o semplicemente pura curiosità. Ma d’altra parte, ero convinta che se le cose non fossero andate nel verso giusto, avrei soltanto sofferto come avevo fatto con Rocco, se non peggio. Ero pronta ad accettare tutte le conseguenze?
 
Mi alzai anche io, decidendo di prepararmi una buona tazza di latte caldo. La signora Margherita ci diceva sempre che era un buon rimedio contro l’insonnia, lei quando era incinta di Giovanni e non riusciva a prendere sonno, ne calava sempre a litri. Presi l’ultima bottiglia di latte a disposizione dal frigo e lo inserii nel pentolino. Posizionai il pentolino sulla fiamma e approfittai dell’attesa per accendere una sigaretta.
 
 Mentre fumavo e aspettavo che il latte si riscaldasse abbastanza, osservavo Lupo dormire nella brandina in cucina. Era ancora un bambino, ma aveva coraggio da vendere. Io non so cosa spingesse Lupo a continuare una battaglia fatta di morte e sangue, piuttosto che vivere la sua vita da adolescente. Avrei potuto fare la stessa domanda a me stessa, ma la verità è che la mia è stata una scelta di puro egoismo, mentre lui ci credeva veramente nelle cose che continuava a fare inesorabilmente.
 
Oltre la porta spalancata che divideva le due stanze della casa, potevo vedere Rocco e Lila dormire abbracciati su una brandina che sarebbe stata scomoda anche per una persona. A terra c’erano Sandokan, Crusca, Harlem e Terùn che dormivano come dei cuccioli. Era la prima volta che li vedevo così. Invece sul mio letto c’era Anna, infatti lo condividevamo ormai da un sacco di tempo.
 
Mi girai di scatto verso la cucina, ritornando ad occuparmi del mio latte che ormai era arrivato alla temperatura giusta.
 
“Mettici dei pezzi del pane raffermo se hai fame, vedrai che è buono.”Sentii Lila toccarmi le spalle e mettersi accanto a me.
 
“No è solo per l’insonnia.” Risposi io sorridendole.
 
“Ma è una leggenda che il latte caldo funzioni per l’insonnia. Se sono i pensieri a non farti dormire, non funzionerà niente. Fidati.”
 
“E tu quali pensieri hai ?”Dissi io, iniziando a bere il mio latte dalla tazza.
 
“Nessun pensiero. Molotov russa.”
 
All’improvviso sentimmo dei rumori piacevoli, come della musica, provenire dalla strada. Ci affacciamo dal balcone sedendoci sulle sedie che erano sul terrazzo, visto che avevamo capito che sarebbe stata una lunga nottata. La canzone era “Mille lire al mese”, ma ancora non avevamo ben capito da dove provenisse quella musica.
 
 
“Ti ricordi quando Sandokan mise questa canzone al grammofono?” Disse Lila, osservando il parchetto sotto casa.
 
“Certo. Mi aveva presa a ballare e mi canticchiava questa canzone nelle orecchie, come se volesse raccontarmi un segreto. Penso che da quel momento sia scattato qualcosa.”
 
“Io ricordo che le cose con Molotov andavano malissimo e io non volevo parlargli. Lupo mi prese a ballare e per un attimo, ripresi a vivere, ripresi a conoscere la felicità tanto ambita.  Ma poi feci pace con Molotov e stavo ancora meglio.” Lila aveva gli occhi che le brillavano, parlava di questi eventi come se fossero frammenti di un libro.
 
“Siamo cambiate tanto da quando siamo arrivate qui.” Dissi io senza smettere di sorseggiare il mio latte bollente.
 
“Ah tu sicuramente. Finalmente hai smesso di comportarti come la regina d’Inghilterra.”
 
Mi fece ridere, ero riuscita a sostituire, almeno in parte la figura amichevole di Ginevra con quella di Lila.
 
“Ma tu non hai mai paura?”Chiesi io, anche un po’ ingenuamente.
 
Lila iniziò a ridere fra se e se, poi estrasse una sigaretta dal portasigarette in alluminio e se la posizionò accuratamente alla bocca, iniziando a fumarla. “Io ho sempre paura Alba. Soprattutto in queste serate così tranquille. Quando tutto sembra andare nel verso giusto, quando non sento il rumore delle bombe, quando non percepisco il pericolo e quando sento della musica in strada, io ho paura. Sono terrorizzata. Sento che può succedere qualcosa da un momento all’altro.”
 
“E come riesci a gestire con tanta tranquillità questa angoscia?”
 
“Sangue freddo Alba. Io credo che sia l’unico modo per poter sopravvivere. Siamo come neve al sole, dobbiamo solo essere capaci di far durare l’inverno un po’ più a lungo.”
 
“Io non penso di esserne capace. Penso che da un momento all’altro potrei crollare e lasciarvi da soli.”
 
“Alba, sei stata trafitta da un proiettile. Sei stata quasi violentata da un bastardo nazista. Tu sei quella che forse ne ha passate di più. Eppure sei ancora qui viva. Qui con noi. Siamo in una notte di venerdì qui, a non dormire come tutti e a parlare. Questa non la reputi fortuna?”
 
“Sì. Ma secondo torneremo a sognare?”
 
“Certo che torneremo a sognare Alba, dobbiamo solo fare di più. Per noi, ma soprattutto per i nostri figli e per chi verrà dopo.”
 
“La guerra, la carestia, non sono scene che vorrei far vedere a mio figlio, non vorrei che dovesse soffrire per colpa di gente scellerata.”
 
“Appunto. L’importante è non smettere mai di crederci, impegnandoci ogni giorno un po di più e pensare che tutti questi pezzi di merda devono restituirci tutti i minuti che ci hanno portato via. Per riuscirci, dobbiamo ragionare come se te fossi anche io, e viceversa.”
 
“Tu un sogno lo hai?”
 
“Certo. Fare l’attrice, andare via da qui. Andare in America.”
 
“In America?”
 
“Sì, voglio andare via. Voglio vivere anche io il mio sogno americano.”
 
“Il sogno americano...sciocchezze.”
 
“Si va beh, non dirmi che tu un sogno non lo hai.”
 
“Beh, in realtà il mio unico sogno è essere libera. Ma dopo che sarà finito tutto, dopo che sarò libera, non saprò più cosa fare.”
 
“Acquisita la libertà, puoi fare tutto quello che vuoi Alba. Vedi, è questo il bello. Tu puoi essere libera, ovunque sceglierai di andare, qualunque scelta farai. All’università,  a ballare in un caffè, in America. Tu puoi camminare a testa alta, a priori da chi sceglierai di amare. Una donna, come un uomo, deve solo essere se stessa. Puoi essere spensierata nei tuoi pieni 20 anni e devi essere matura per i 30, perché sono fasi che ti aiuteranno a comprendere tantissime cose. Puoi piangere per amore, ma solo per capire quello che non vuoi. Ti auguro di trovare un’amica che ti stia sempre accanto e che tu possa ritrovare una famiglia presente, e se non la troverai devi essere talmente forte da capire che puoi farcela benissimo da sola. Puoi sentirti sempre bella, in gonna, in sottana o anche in un paio di pantaloni, l’importante è che tu ti senta a tuo agio. Puoi decidere che fare una volta finito tutto: sposarti con Sandokan o con qualunque altro uomo, puoi continuare a studiare, puoi lavorare, puoi avere figli o non averne affatto. Puoi scegliere chi amare e puoi fare l’amore senza sentirti una puttana o sbagliata. Puoi scegliere che tutte queste ferite che stai accumulando possano distruggerti o possano darti la forza di ricominciare. Puoi rinascere dal male. Devi essere libera come l’aria Alba, devi essere sempre fedele a te stessa e a tutte le donne, devi fregartene dei giudizi, devi essere coraggiosa ed impavida. Non devi mai tradire te stessa o accontentarti o arrenderti. Devi essere più forte della violenza, solo così si vive.”
 
Guardavo Lila che pronunciava quelle parole una dietro l’altra come se si trattasse di una poesia o di un pezzo estrapolato da un libro. Adesso avevo capito. Tutte le sofferenze che avevo subito e che avrei continuato a patire nel corso della mia vita, per quanto potessero essere radicate nella mia mente e per sempre posizionate come cicatrici sul mio corpo, prima o poi si impara a convincervi e a farle diventare i nostri maggiori punti di forza. Rinascere dalle ceneri, come la fenice. Quella rappresentava la libertà. Scegliere ciò che secondo noi potrebbe farci stare bene, anche a costo di andare contro tutto e tutti. In quel momento, capii che volevo il movimento e non un vivere quieto e ordinario, volevo emozionarmi, mettermi in pericolo. Non volevo diventare come mia madre, destinata ad una mera esistenza, destinata ad essere l’ombra un po’ più sciatta ed aggobbita di mio padre. Non volevo essere la professoressa Dalmasso, servitrice di uno stato che non le prometteva nulla e non le garantiva nessuna libertà se non il poter insegnare cose insignificanti a degli studenti che una volta usciti da quelle 4 mure, non avranno capito niente di quello che si è imparato a scuola.
 
Non volevo essere come tutte le realtà femminili che mi circondavano, non volevo essere una madre, una moglie ma volevo essere una donna fiera, volevo essere una donna che poteva contare sulle proprie forze e poteva essere partecipe della vita sociale.
 
Abbracciai Lila che continuava a guardarmi mentre le prime lacrime si accingevano a scendere dalle mie pupille. Aveva un profumo buono, un profumo di una persona che sapeva voler bene alla gente. Lila sapeva cosa fosse il vero dolore ed era capace di trasmettere questo dolore alle altre persone per poterlo trasformare in coraggio. Questa metamorfosi Lila la aveva attuata grazie a sua madre , le aveva fatto comprendere che la libertà era una cosa utile alle donne ma all’intera umanità.

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Capitolo 21
*** Una donna come me. ***


Torino, 25 aprile 1951
 
Come ogni anno ritorna puntuale questa famigerata data. Il 25 aprile. Ormai non riuscivo più a provare le stesse sensazioni che provavo i primi anni. Non ero più eccitata, soddisfatta e fiera come lo ero all’inizio, adesso avevo quasi rilegato in un angolo semivuoto del mio cervello quel periodo tanto angosciante e avevo tenuto stretti a me solo i ricordi che meritassero di essere ricordati. Come i ricordi con i miei amici, i ricordi con Michele e i ricordi di quella mia inconsapevole gravidanza. Adesso, per me il 25 aprile rappresentava una data come tante altre. Sebbene, mi luccicassero comunque gli occhi mentre ripensavo ai momenti di gloria, avevo capito che ora ero una madre, dovevo iniziare a pensare al lavoro. L’età del gioco selvaggio era finita.
 
Io che avevo sempre temuto di diventare una donna come tante altre. Una donna anonima, imbacuccata da vestiti sfarzosi e gioielli, che parla sempre delle solite sciocchezze. Temevo che gli anni della gioventù, in cui ero semplicemente libera, giovane e rilassata fossero finiti con la nascita di Michele. Ma non me ne pento. Una volta avrei detto che piuttosto che vivere per sempre invecchiando, vorrei morire giovane. Ma ora se morire invecchiando vuol dire gustarmi il mio bambino fino all’ultimo respiro, lo farò.
 
Non bisogna mai smettere di credere in se stesse, non bisogna mai finire di lottare. Ma con calma, in modo che nessuno si faccia male. Ecco cos’è l’amore per me ora. Fare la cosa giusta evitando che qualcuno possa farsi male o possa soffrire, che mio figlio possa rimetterci in qualche modo.
Ormai era passata una settimana esatta che avevo sostenuto la discussione di laurea. Ero andata benissimo. 108 su 110. Penso che mio padre sarebbe stato fiero di me anche se non lo avrebbe mai ammesso pubblicamente, ma avrebbe accolto tutti i complimenti sul mio conto. Alla mia seduta di laurea avevo tenuto che ci fossero tutti quanti, e come sospettavo rispettarono la mia richiesta tranne Rocco e Lila, poiché l’America non è dietro l’angolo.
 
 La mia tesi aveva riscosso tanto successo quante le critiche a riguardo. Erano personaggi della vita accademica torinese a non avere idea di quello che stessi dicendo, personaggi che mio padre portava su un piatto d’argento. Saffo, eroina della emancipazione femminile, dei diritti umani, dell’omosessualità. E nemmeno lo sapeva. Eppure lei continuava a scrivere, inconsapevole che un giorno sarebbe diventata la regina dell’eresia, la poetessa più pazza della storia. Ma io, come tanti altri pronti al cambiamento, la amavamo.
 
Io, come lei, avevo continuato a scrivere la mia opera. Seppure Milena aveva smesso di parlarmi delle sue esperienze da prostituta, il mio libro procedeva a gonfie vele. Avevo metabolizzato ogni sua parola, ogni suo pensiero più intimo, ogni sua paura e ogni sua gioia. Fin quando finalmente era finito. Milena aveva finito il suo ciclo. Ora era una donna vera, una donna a 360°, era riuscita a formarsi da sola, aveva un figlio che cresceva bene e lei era altrettanto preparata alla vita. Anche se lei questo ancora non lo aveva capito. Se ripenso alla Milena che avevo conosciuto anni prima, quando ero ritornata nella mia città impaurita da tutto, anche da un fruscio di foglie che mi sembrava inusuale, mi sembra una sconosciuta. Quella Milena che involontariamente avevo insultato solo perché meridionale, quella Milena che ho visto piangere, urlare, dimenarsi ma anche sorridere, commuoversi, divertirsi. Anche se ho avuto bisogno di anni per capirlo, Milena era diventata la mia perfetta metà. Milena aveva preso il posto di Emilia, di Giovanni, di Ginevra, di Lila. Eravamo io e lei, come mi disse lei un tempo, ‘semu fimmine sule’. Ed aveva ragione, eravamo e siamo donne sole, ma insieme siamo più forti di una qualunque famiglia.
 
Io e la ragazza dalle sottovesti strappate e i lunghi ricci rossi, siamo diventate una famiglia, certamente inusuale, ma pur sempre una famiglia che sa volersi bene più di qualunque altra. Ed ora che la sua storia era completa, io volevo che tutti conoscessero la bella persona che è Milena. Lei meritava un lieto fine col botto, volevo rendere un libro quella quattro pagine buttate lì a caso. Volevo che tutta Torino, tutta l’Italia, anzi tutto il mondo sapesse le disgrazie che un essere umano può patire ma allo stesso tempo trovare il coraggio di alzare la testa, dire basta e provare a cambiare vita. Perché non sempre la famiglia Toscano dei Malavoglia è destinata a vendere solo lupini. La vita è infatti una dura lotta per la sopravvivenza, e quindi per la sopraffazione: un meccanismo crudele che schiaccia i deboli e permette ai forti di vincere. Ma chi ha detto che deve finire così?
 
“Posso?” Milena bussò alla porta mezza aperta della camera che ormai condividevo con Michele, mentre già aveva poggiato un piede all’interno.
 
Io che ero poggiata al davanzale della finestra le feci un cenno con la mano di avvicinarsi.
 
“Come stai?” Mi disse lei sedendosi sul davanzale dietro le tende, continuando a fissarmi.
 
“Meh, così così.” Risposi io guardandola con un’aria di tranquillità.
 
“Ma che hai Agatì? Sei così da qualche giorno. È la data che ti mette ansia o angoscia?” Disse lei, sollevandosi e poggiandomi una mano sul braccio destro.
 
“Ma no. È sempre la stessa cosa Milè, lo sai.”
Milena ritrasse la mano ed incrociò le braccia sul petto, rimettendosi seduta. Poi poggiò le mani sul freddo davanzale in marmo bianco, accavallando le gambe e continuando a guardarmi. Poi sospirò, un po’ come si fa in una situazione di imbarazzo.
 
“Vieni qua.” Mi tirò il braccio e mi fece sedere accanto a lei.
“Io posso immaginare nemmeno un decimo di quello che puoi provare, anzi credo che nessuno possa capirti se non chi c’è passato. Ma capisci quello che sto per dirti: le persone aiutano le persone , Agatì. Se tu rimani da sola, se tu passi tutto il tuo tempo chiusa in te stessa, nelle tue paure e nel tuo passato, tu non volterai mai veramente pagina. I tuoi amici sono tutti bravi e simpatici per carità, ma vuoi provare a non soffrire ancora per Michele? E allora fatti nuovi amici, e allora esci ancora. Vuoi smettere di soffrire per Giovanni? Non vedere più la sua famiglia. Vuoi smettere di soffrire per Ginevra? Non chiamarla più. Tutte queste persone, in un modo o nell’altro hanno scelto di andar via, tu non puoi biasimarti. Sei triste, sei stanca, devi rialzarti da questa situazione di stallo Agatì. Io ho paura che tu possa fare un brutto scherzo.”
 
“Mi sta chiedendo di dimenticarli? Di dimenticare Michele?”
 
“Le persone non si dimenticano Agata, io ti sto chiedendo di guardare avanti, di provare a fare un passo avanti verso la nuova vita che ti aspetti. Parli sempre di fare il cambiamento, di attuare un innovazione. Ma come pretendi di cambiare, se in primis non cambi tu?”
 
“Hai ragione Milè, ma è più semplice a dirsi che a farsi.”
 
“Ci hai mai provato?”
 
“No, non ho mai provato.”
 
“E allora?”
 
“E cosa dovrei fare?”
 
“Esci, stai lontana dai posti che possono ricordarti queste persone, incontra gente nuova, fai nuove cose.”
 
“Grazie Milè.”
 
“E per cosa?”
 
Mi abbracciò tenendomi stretta come se temesse che da un momento all’altro sarei scappata come una gazzella. Milena non aveva la minima idea del progetto che avevo in mente per lei, per noi.
 
“Agatì, un’altra cosa. Ma tu sei proprio sicura di non voler andare in America?”
 
Avevo avuto il coraggio di dirglielo, sebbene la mia indecisione sia stata lunga. Non avevo la minima idea su quale fosse la cosa migliore da fare ma alla fine dei conti decisi che era meglio restare, rimanere, non andare da nessuna parte e farlo partire da qui il cambiamento tanto atteso. In fondo, Torino era la mia città.
 
“No Milè, te l’ho già spiegato. Non ha senso. Fondamentalmente siamo senza una lira, Salvatore e Michele mi sembra si trovino bene qui, io sto cercando il modo per fare il concorso e in più questa cosa che bisogna necessariamente sposarsi con un cittadino americano per vivere in America, non è che mi piace più di tanto. E poi tu ti ci vedi sposata? Adesso? Con un uomo che nemmeno ami. Ma non se ne parla proprio. Pensiamo a lavorare un po’ di più, pensiamo a mettere qualche soldo da parte e ci prendiamo un appartamento in centro, io e te. Così lasciamo questo convento una volta per sempre.”
 
“Anche se ho dei ricordi meravigliosi qui dentro. E Suor Costanza mi mancherà.”
 
“Ma è qui che si palesa la nostra indipendenza economica, innanzitutto, ma anche personale.”
 
“Ma si. Hai ragione, poi in fabbrica ora guadagno molto di più, con la politica mi trovo molto bene, anche se sto Togliatti a me non la racconta giusta.”
 
“Ma si ma dagli il tempo, non sono nemmeno 10 anni che è segretario.”Dissi io spingendole la spalla verso dietro e ridendo.
 
“Eh, ma ti dirò.” Mi rispose lei di botto.
 
“Senti Milena devo dirti una cosa.”
 
“Non mettermi paura, dimmi.”Disse portandosi una mano al petto.
 
“No tranquilla, non dovresti preoccuparti.”
 
“Cioè?”
 
“Milena io ho scritto un libro.”
 
Milena senza dire una parola sorrise e mi abbracciò fortissimo.
 
“Brava Agatina, brava Agatina. Sono così fiera di te. Sono sicura che sarà un succ..”
 
“Su di te.” Le dissi io interrompendola.
 
Milena si staccò lentamente da me tenendomi ancora le mani su entrambe le spalle, e continuando a guardarmi con uno sguardo palesemente preoccupato. Rimanemmo in silenzio per un po’, fin quando non decise di scuotere la testa come se dovesse riprendersi da un brutto sogno e si poggiò le mani sulle cosce, strofinandole avanti ed indietro.
 
“Su chi Agata?” Disse lei, alzando lentamente il capo e scandendo piano le parole in modo che mi rimanessero impresse in testa.
 
“Su di te.” Ripetetti io, alzandomi verso la scrivania per cercare nei vari cassetti il ‘manoscritto’ della sua storia, quando finalmente lo trovai, mi avvicinai lentamente verso di lei con tutti quei fogli in mano, mentre lei continuava a guardarmi esterrefatta tendendomi una mano. Le posai il manoscritto tra le mani e lei iniziò a leggere le prime pagine. Il libro era come una specie di storia inventata. Inizialmente avrei voluto strutturarla come delle lettere o come un diario segreto, ma mi resi conto che sarebbe stato un po’ noioso e non sarebbe mai diventato il “Pamela” di Richardson, e allora decisi di fare una vera e propria trama. Una storia nella storia, con uno scenario ben chiaro e definito, uno sfondo realistico ma con una vena di finzione, ma la reale protagonista dell’opera doveva essere lei, doveva rimanere una donna, che iniziava la storia da sola con delle convinzioni, ma finiva sempre da sola ma soddisfatta della donna che era.
Questo volevo dal mio libro, volevo spingere le ragazze a farcela, volevo far capire loro che se ce l’aveva potuta fare una donna come Milena che aveva sofferto e che era partita dal nulla, possiamo farlo anche noi borghesi.
 
Lasciai Milena leggere quelle pagine per un po’. Non lesse tutto il libro ma soltanto il primo capitolo, quello centrale e quello finale. Milena era convinta che sarebbero bastati quei 3 per capire se valeva la pena leggerlo o no. Leggendo le ultime pagine dell’ultimo capitolo, vidi una lacrima scendere dall’occhio sinistro di Milena. Poi lo chiuse e me lo riconsegnò. Continuava a guardarmi allibita, poi mi abbracciò di scatto continuando a piangere ininterrottamente con singhiozzi.
 
“Ti è piaciuto?”
 
“Sì, Agatì. Ma ti devo fare una domanda.”
 
“Dimmi.”
 
“Chi è Filomena?”
 
“Una vecchia amica.”
 
In fondo questa storia era anche un po’ di Ginevra, era il finale alternativo che avevo progettato per lei. Era la storia che avevo in mente per lei, per la mia amica speciale, che però non siamo mai state capaci di attuare. Questo libro lo dedicavo a Milena e a Ginevra, ma con due scopi diversi. A Milena, che la nostra amicizia possa durare negli anni. A Ginevra, per dirti grazie e addio.
 
Avevo finalmente siglato la fine della nostra amicizia con la stesura di quel libro e ne avevo realmente bisogno, sentivo una necessita incostante di staccarmi definitivamente da lei. Sentivo che come in passato lei mi facesse bene indirettamente, adesso lei mi stava distruggendo. Aveva ragione Milena, dovevo andare avanti e fare questo passo avanti.
 
Decisi di portare il libro al professor Marini, che da anni era il mio più grande ammiratore ed il mio più grande mentore. Come avevo fatto per anni, entrai in quell’università, salii le scale che portavano al suo covo e bussai alla porta del suo ufficio.

”Signorina Giordano, già le manca l’università?”Disse lui inalando da quel sigaro maleodorante.
 
“No professore, sono qui per chiederle un consiglio.”
 
“Paterno o accademico?”
 
“Entrambi.” Gli consegnai il manoscritto e lui lo prese immediatamente fra le mani, guardandolo con attenzione.
 
“Lei non smette un giorno di stupirmi signorina. Ha un titolo?”
 
“Veramente ancora no. Quanto ci mette a leggerlo?”
 
Iniziò a sfogliarlo continuando a fumare, poi lo chiuse e posò gli occhi su di me “Un’ora, massimo due.”
 
“Allora ripasso più tardi.”Dissi io alzandomi e tendendogli la mano in attesa che me la stringa.
 
Lui si alzò dalla sedia, spense quel sigaro che una volta spento emanava ancora più puzza e mi tesa la mano stringendomela.
 
“Lei è ambiziosa e questo le fa onore. Ma la avverto ,se il libro fa schifo, non fingerò.”
 
“Com’è giusto che sia.”
 
Ripresi la mia giornata normalmente. Cercando lavoro da istitutrice in attesa dei concorsi, badando a mio figlio e iniziando a fargli capire qualcosa della scuola primaria, e insegnando a leggere e scrivere alcuni operai che frequentavano il partito. Mi sentivo bene nel farlo. Alla sera, ci stavamo finalmente mettendo a tavola e proprio mentre Suor Costanza stava iniziando a recitare la consueta preghiera con l’altra suora, squillò il telefono e Milena si alzò per andare a rispondere.
 
“In questi ultimi anni questo convento ha perso anche la religiosità.” Disse Suor Costanza con tono lamentoso.
 
“Agata è per te, è il professore Marini.” Disse Milena affacciandosi appena nella cucina.
 
Mi alzai di scatto, sistemandomi bene come se dovessi incontrarlo di persona. Attesi un attimo prima di prendere la cornetta, dovevo metabolizzare quello che stesse accadendo. Se avessi avuto la benedizione del professor Marini, il mio libro sarebbe stato certamente pubblicato dal migliore editore di Torino, e me lo avrebbe finanziato lui. Avevo bisogno del suo consenso.
 
“Pronto professor Marini. Sono Giordano.”
 
“Signorina ma lei deve essere completamente pazza.”
 
Ecco qua.
 
“Mi dispiace professore, sono consapevole che possa essere un libro molto crudo, molto nudo anzi. Sicuramente non tratta di tematiche usuali, ma sentivo la necessità di farla, la rilegherò come prima esperienza.”
 
“Signorina ma cosa sta dicendo? Proprio perché è pazza che a me piace. Questo libro è l’elogio della vergogna, della violenza carnale, della passione e dell’erotismo malato. Questo libro merita di essere letto da tutti, specialmente da quei 4 benpensanti e damerini che sono rimasti in circolazione.”
 
“Ma è serio?”
 
“Mai stato più serio di così. Lei conosce Giulio Einaudi?”
 
“Certo che lo conosco, è uno degli editori migliori di Torino. Anzi del Piemonte.”
 
“Lui è un mio caro amico, ed era anche amico di tuo padre, eravamo tutti al circolo. Domani mattina andiamo, non preoccuparti.”
 
“Domani mattina?”
 
“Sì, domani mattina. Passo a prenderti io. Sta iniziando il suo cambiamento signorina Giordano.”
 
E attaccò. Rimasi spiazzata. Avevo immaginato molte volte questo momento, ma mai avrei immaginato che sarebbe potuta andare veramente così. Mio padre mi diceva sempre che bisogna sperare nel meglio, aspettandosi il peggio. Eh papà, hai visto che poi alla fine torno sempre da te.
 
“Che ha detto?” L’irrequietezza di Milena era simbolo di una profonda eccitazione e curiosità.
 
“Ha detto che domani mattina andiamo dall’editore.”
Milena mi abbracciò ancora fortissimo, non potevo crederci nemmeno io. Il mio nome, Agata Giordano, sarebbe apparso in tutte le librerie di Italia. Agata Giordano stava cambiando.
 
Torino, 25 giugno 1951
 
Il mio libro era nelle librerie già un mese esatto. “Una donna come me”era tra i libri più venduti del periodo, uomini e donne, ragazzi e ragazze erano affascinati dal mio libro, ma più che altro erano incuriositi di leggere una cosa simile. Ma non mi importava, il mio libro vendeva e non poco. Io e Milena vivevamo già da una settimana in un appartamento in affitto nel centro di Torino. Non era grandissimo ma era tutto quello che volevamo in quel momento. Con l’uscita del mio libro mobilitai tutti quanti. Mia sorella Emilia, non perse tempo ad arrivare a Torino per festeggiare la sorellina ambiziosa che in qualche modo ce l’aveva fatta. Lila e Rocco lessero di me nel giornale italiano per caso e Lila promise che quanto prima sarebbe venuta in Italia per prenderne una copia, ma glielo avrei spedito io quanto prima. Anna e Crusca mi chiamarono almeno una volta al giorno per aggiornarmi delle considerazioni in merito, ma anche le buone recensioni sui giornali mi rendevano fiera.
 
E proprio quel giorno il professore mi aveva preparato un convegno con i più rilevanti intellettuali, studiosi, scrittori, critici, professori, mecenati, era il mio grande passo in società. Io, il signor Giulio Einaudi e il professor Marini dietro quella grande scrivania, di fronte a quelle sedie che stavano iniziando a riempirsi, sembravamo minuscoli. Gli sguardi truci e severi delle persone, le conversazioni a voce bassa, chi rileggeva le alcuni parti del mio libro che aveva commosso, sconvolto e fatto sognare. Chi la avrebbe avuta vinta fra di loro? Qual era la fazione più numerosa?
 
“Ringrazio tutti per essere venuti qui.”Il primo a prendere la parola fu il professore, come da consueto. Anche nei convegni universitari era sempre il primo a parlare, perché diceva di essere bravo nel richiamare l’attenzione. “Oggi siamo qui, non per accusare o celebrare una donna. Siamo qui per ammirare il coraggio di una persona. Uomo o donna che sia. Siamo qui per capire che il mondo si evolve e che ci sono persone che hanno il coraggio di ammetterlo. Hanno il coraggio di dire ‘si stiamo cambiando, ben venga’. Allora che cosa dobbiamo fare miei cari colleghi? Dobbiamo continuare a nuotare controcorrente o iniziamo a prendere l’onda come viene?” Poi si fermò un momento, mi posò una mano sulla spalla e mi guardò sorridendo e io gli ricambiai il sorriso. “Io me la ricordo questa donna. Io la ricordo quando era piccolissima e ronzava al circolo in cerca di libri e voleva a tutti i costi odorare il rum perché innamorata dell’odore. Chi è di Torino, e credo la maggior parte, ricorderà sicuramente questa peste. Io la ricordo andare in contrapposizione con le nostre figlie e con sua sorella, ma anche con suo padre. Io lo avevo capito da anni che questa ragazza avesse qualcosa di completamente diverso dalle altre. Era una donna nuova. Quando l’ho vista entrare in quell’aula enorme, composta da soli uomini, la avevo riconosciuta subito. Non poteva che essere lei. Quando mi si è avvicinata per la prima volta, ne ho avuto la certezza. E ora se Leone Giordano potesse vedere di che stoffa è fatta sua figlia, verrebbe da noi colleghi e la vanterebbe come ha sempre fatto. Agata Giordano, non solo porta il cognome di suo padre, Agata Giordano ha la stessa tenacia, la stessa forza e la stessa voglia di vivere di Leone, anzi di più. ”
 
Tutti applaudirono e il professor Marini si ricompose al suo posto e successivamente si alzò il signor Einaudi che tesse le lodi di mio padre e dando piccole lezioni editoria. Nel mentre io mi avvicinai al professore.

”E lei quando voleva dirmelo?”
 
“Cosa?”
 
“Che mi conosce da tutta la vita.”
 
“Agata, tu per me sei sempre stata la figlia che non ho mai avuto, poi i rapporti con tuo padre si sono persi e quando ti ho rivista, per me è stato come rivedere mia figlia.”
 
Gli sorrisi e gli presi una mano, stringendola.
 
“Anche lei per me è un padre, professore.”
 
Quel momento di intimità inaspettata venne bruscamente interrotta da un critico, che si alzò chiedendo di poter dire una cosa.
 
“Io sono Paolo Simari, sono piemontese ma non di Torino, quindi non ho avuto il piacere di vedere la signorina Giordano crescere, ma conosco di nome suo padre. Ora, aldilà dell’albero genealogico della ragazza e della sua infanzia, io vorrei concentrarmi sul libro. Sicuramente è scritto bene, c’è una bella forma e l’italiano è giusto. Ma signorina, le pare il caso? Io, come molti altri, crediamo che questo libro sia un’offesa alla decenza. Nemmeno D’Annunzio, che è stato da sempre nella storia della letteratura etichettato come un ‘pervertito’ è mai stato così truce, basti pensare alla sua Pioggia del Pineto. Allude a delle considerazioni senza mai apparire volgare o schifoso. Ma lei signorina ha scritto cose veramente vergognose, cioè chi crede di voler impressionare parlando di violenze carnali? Lei pensa di sconvolgere il mondo se mi racconta di una poco di buono che viene pagata per fare quello che fa ed è felice, perché non mi venga a raccontare che una prostituta soffre, è una scelta signorina Giordano. Una scelta. L’unica cosa che personalmente trovo sconvolgente è che questa donna creda di poter vivere da sola, di poter campare da sola. Questo è quello che penso del suo libro signorina Giordano, torni a scrivere quando avrà una maturità diversa.”
 
Ero sul punto di scoppiare. Vedevo Milena infondo alla stanza guardarlo impietrita con le lacrime agli occhi, non poteva credere che una persona la avesse definita in quel modo, non poteva credere fino a che punto l’ignoranza delle persone potesse arrivare ma lo avevamo appena scoperto tutti insieme. Si era creato un brusio fastidioso nella stanza, mentre il critico Paolo Simari se ne stava poggiato con aria fiera sulla sua sedia attendendo il mio contrattacco, ma il professore riuscì a farmi calmare. Ma mentre il professore si stava alzando per rispondere alle accuse infondate del critico, un uomo dalle ultime file parlò e mentre io stavo alzando la testa per vedere il mio prossimo aguzzino in faccia, lui si alzò. Non ci potevo credere.
 
“Io ho letto il libro della signorina Giordano, e devo ammettere che non sono un grande amante del genere. Ma questo libro mi ha coinvolto, non mi vergogno nel dire che mi ha commosso, che mi ha emozionato e in alcuni punti mi ha fatto anche ridere. Credo sia un libro pronto a 360°, credo sia il libro perfetto per quest’epoca. Le donne vogliono cambiare, le donne sono stanche di essere soprammobili, sono stanche di essere usate e gettate. Questo libro è un inno e la Bibbia per tutte le donne stuprate, violate, zittite, sfruttate, picchiate o non valorizzate. Attraverso la voce tremante di Filomena, la signorina Giordano si è fatta il megafono di tutte le donne. Il consiglio che voglio dare io a lei invece, signor Simari, è che se parla con la stessa maturità con cui scrive, io le consiglio di smettere di scrivere. E basta.”
 
Grazie Signor C.
 

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Capitolo 22
*** Fuori da noi. ***


Bologna, 13 Dicembre 1944
 
Sotto Natale la guerra mi sembrava sempre più dura, non per questioni religiose o etiche, anzi più il tempo andava avanti e più la guerra diventava straziante e più rimanevo ferma sulle mie posizioni alquanto anticonformiste in merito a quei discorsi. Sebbene cercassi di dare coraggio a tutti quanti, nonostante fossi visibilmente stanca di tutto, ero rammaricata. Mi mancava casa mia, il calore di un fuoco, le compere per i regali di Natale, il cenone e soprattutto un amico pronto a confortarmi. Sicuramente avevo trovato persone più care di una vera famiglia, ma l’odore di casa era una mancanza che non riuscivo più a sostenere.
 
Rispetto all’anno precedente, quest’anno, il Natale era molto più scarso, l’Italia stava crollando. Non sapevamo più se ce la avremmo fatta, se ci avrebbero preso prima, se ci avrebbero seviziato, torturato o ucciso e non sapevamo nemmeno se saremmo arrivati tutti sani e salvi alla fine della gara. Ormai questo era diventata, una gara crudele dove non poteva finire con un pareggio, doveva esserci un vinto e doveva esserci un vincitore. In quel momento non eravamo in grado di poter capire il punteggio, non sapevamo nemmeno se ci fosse qualcuno sugli spalti ad acclamarci per come stessimo giocando.
 
La maggior parte delle famiglie italiane era ridotta alla fame, infatti il cibo era sempre di più un privilegio di pochi, perlopiù per i ricchi, mentre i poveri dovevano arrangiarsi con il poco che erano in grado di procurarsi, altrimenti sarebbero morti di fame. Nel frattempo, nelle prigioni, nei campi di lavoro, nei campi diretti dai nazisti la gente continuava a morire senza un’apparente motivo, pativa la fame, il freddo, le condizioni igieniche erano ridotte al minimo. Proprio per questo si scatenarono numerose epidemie di malattie abbastanza contagiose, come il tifo. Il nostro terrore era che potessimo prenderlo anche noi, ma era da un po’ che non ci muovevamo più con molta tranquillità.
 
“Come abbiamo intenzione di fare?”Sentii la voce di Rocco provenire dalla cucina, mentre io e Lila ci stavamo spazzolando i capelli in bagno.

”Non lo so, siamo messi abbastanza male”Crusca esitò un momento, lo vidi stringere con il pollici e l’indice della mano destro le sue tempie. Era esausto.
 
“Ma qual è il problema principale?” Disse Terùn accedendosi una sigaretta.
 
“Che non abbiamo più un cazzo!” Disse Crusca sbattendo le mani sul tavolo, facendolo quasi traballare.
 
Stava sudando. Le sue mani ,ancora poggiate su quel tavolo di legno finto, tremavano. Era stanco e non aveva vergogna nel mostrarlo a tutti noi. Era come se indirettamente Crusca ci stesse chiedendo soccorso, ma nessuno di noi era in grado di agire in maniera semplice e veloce come solo lui sapeva fare. Ma se non avremmo fatto qualcosa, sarebbe stato il primo a cadere e se Crusca cade, cadiamo tutti.
 
Mi sistemai la giacca color panna sulle spalle, facendo un semplice risvoltino ai polsi per stare più comoda, poi uscii velocemente dal bagno. Presi il coltello che era sul tavolo, e strappai lo scotch da pacchi dalle mani di Sandokan per attaccare il coltello alla mia coscia.
 
“Dimmi cosa devo fare e io la faccio.” Porsi la mani verso Crusca come se stessimo per stipulare un accordo.
 
Crusca si spostò i capelli sudati che gli cadevano sulla fronte e mi guardò per un attimo in maniera sconcertata. Poi si guardò intorno come se volesse meditare un secondo sulla proposta che gli avevo appena fatto. Aveva capito che avrei voluto prendere le redini solo per quel giorno, per farlo stare tranquillo. Crusca sospirò profondamente, come se non avesse altra scelta. Mi prese la mano e me la strinse.
 
“Va bene. Vai al Partito. Con discrezione, devi dire che ti manda Valente. Ti daranno armi, munizioni, bomba carta. Tutto quello che serve insomma.” Disse Crusca senza smettere di tenermi la mano. Poi me la lasciò.
 
“Io vengo con te.” Disse Sandokan infilandosi una pistola nella parte posteriore del pantalone.
 
“No. Vado da sola. Ce la faccio.” Replicai io, avviandomi verso la porta prima che potessero fermarmi di nuovo.
 
Ma prima che potetti afferrare la maniglia per uscire di casa, sentii due mani grandi bloccarmi le spalle e da lì le sentii scendere sulle braccia per arrivare ai polsi, bloccandomeli. Ero sicura che fosse Sandokan, non c’era nemmeno bisogno che mi girassi per confermarlo. Sapevo che voleva proteggermi, ma invece di intenerirmi, quel gesto mi fece solo innervosire. Mi girai di scatto urlando senza freni.
 
“Basta. Basta. Basta.”Continuai a ripetere questa parola urlando, ero stanca e avevo bisogno di sfogare la mia rabbia repressa.
 
“Tu la devi smettere!”Urlai contro Sandokan puntandogli il dito contro “Non sono una bambina che ha bisogno di essere protetta. Ho la bellezza di 20 anni, sono abbastanza adulta da poter decidere da sola cosa è meglio fare. Devi smetterla di starmi sempre intorno come una guardia, so badare benissimo a me stessa da sola. Se volevi un’anima stracciata da difendere, trovati un’altra.”
 
Me ne andai verso l’esterno, sbattendo la porta alle mie spalle. Cercai di camminare velocemente onde evitare che qualcuno potesse seguirmi per farmi calmare perché quello che mi serviva era proprio la rabbia in corpo. Camminai per la strada senza una meta, non sapevo dove stessi andando. Sapevo solo che avevo bisogno di camminare, e ripensando a come avevo reagito tirai ripetutamente pugni contro il muro, come se avessi perso il controllo. Vidi il sangue scendere dalle nocche ormai distrutte, ma nonostante le lacrime per il dolore stessero scendendo, lì per lì non fui capace di sentire nessuna sofferenza, avevo troppa adrenalina in corpo. Ero come neve al sole, non sapevo che destino avrei avuto, ma ero sicura dell’amore di Sandokan e nonostante questo io continuavo a trattarlo male.
 
Emisi un urlo atroce, per poi rimanere a bocca aperta con la mano sinistra poggiata sulle nocche scartavetrate della mano destra. Persi la lucidità, mi poggiai contro il muro con tutte le spalle, avevo gli occhi dei passanti addosso, ma non ero capace nemmeno di guardare un punto fisso. Lentamente scivolai lungo la parete per poi cadere a terra, con le ginocchia poggiate al petto. Iniziai a piangere, per la rabbia, per il dolore, per la tristezza, per il freddo, per la fame. Non lo so per cosa stessi piangendo, ma lo feci.
 
Poi iniziai a dimenarmi senza motivo a terra, come se stessi combattendo contro qualche nemico immaginario, e poi ripresi a piangere e ad urlare. Ero stanca. Presi il coltello che avevo legato alla coscia e me lo passai tra le mani che ancora sanguinavano. Osservavo la lama lucente ed affilata. Potevo quasi specchiarmi in quella lama così limpida, i miei occhi lucidi riflettevano come il sole sulle onde del mare.
Poi senza pensarci due volte, con un movimento quasi inesistente all’occhio umano, me lo infilzai nella coscia sinistra. Emisi un ulteriore urlo. Ma questa volta qualcuno si curò di me. Vidi un uomo avvicinarsi a me. Estrassi il coltello dalla coscia come se lo togliessi da un pezzo di carne appena tolto dalla brace e vidi l’uomo prendere immediatamente un tovagliolo di pezza e poggiarlo sulla ferita ,che mi ero causata senza motivo, per fermare il flusso. Poi gli porsi il coltello insanguinato e lo guardai come se avessi visto un cadavere.
 
“Uccidimi.”Gli dissi con un filo di voce.
 
“Come ti chiami?” Disse lui, come se non gli importasse cosa stessi dicendo.
 
“Uccidimi. Mettimi questo coltello nella pancia.” Continuai io che ormai stavo per svenire.
 
“Andiamo a casa mia.” Disse lui prendendomi di forza come se avesse in braccio un morto.
 
Poi ricordo solo di essermi addormentata e di essermi risvegliata in una casa che era fin troppo decorata per essere la nostra, aveva persino l’albero di Natale vicino ad un camino. Girai il capo per osservare tutta la stanza e vicino alla finestra vidi una nuvola di fumo e un uomo vestito fin troppo elegante per essere un compagno. Mi tirai su in quel divano blu per mettermi seduta, ma appena feci peso sulle braccia sentii il dolore provenire dalla coscia e gemetti. Vidi l’uomo girarsi di scatto e venire verso di me.
 
“Come stai? Fammi vedere la ferita.” Disse l’uomo mettendosi seduto accanto a me sul divano e mettendo una mano alla fine della gonna.
 
Lo osservai stranita, come quasi a non ricordare se con quel tizio fosse successo qualcosa che gli aveva dato l’autorizzazione a sollevarmi la gonna. Lui notò la mia espressione stranita.
 
“Posso?” Mi disse lui rendendosi conto del mio imbarazzo ed io annuii.
 
Mi sollevò la gonna delicatamente quasi come se potesse temere di farmi male. Continuava a guardarmi in una maniera dolce e amichevole, non era cattivo, si vedeva. Ormai avevo imparato a riconoscere le caratteristiche principali di ogni persona, anche solo guardandola. Sollevò piano la garza che, suppongo, mi aveva messo lui.
 
“Ancora è buona. Ma appena ritorni a casa, controllala.” Mi disse lui riabbassandomi la gonna e guardandomi negli occhi.
 
“Che ore sono?”Chiesi io che ormai avevo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
 
“Non troppo tardi per andare via.” Disse lui sorridendomi.
Adesso iniziavo a spaventarmi.
 
“No, seriamente. Sto vagando da stamattina, sono sicura che i miei...i miei...genitori siano in pensiero per me.”Dissi la prima cosa che mi passò per la testa e sono sicura di aver fatto bene.
 
“Permettimi di chiacchierare un po’.” Disse lui, accomodandosi al posto di prima, accanto a me.
 
“Ho altra scelta?”Chiesi io, quasi impaurita.
 
“Non credo.” Disse lui ridendo e riempendosi un bicchiere di vetro pieno di un liquido giallastro e poi ne riempì un altro. Potevo fidarmi?
 
“Scotch?” Mi chiese lui porgendomi il bicchiere. ‘Ma si.’ Pensai.
 
“Allora, signorina suicida, mi dica qualcosa di lei.” Disse lui, ridendo, e sorseggiando il suo drink.
 
“Cosa vuole che le dica?”
 
“Per cominciare, mi piacerebbe attribuire un nome a questo bel viso.”
 
“Eccoci, ci siamo, come sospettavo, un altro marpione. Alba, piacere.”Allungai la mano verso di lui, me la baciò.
“Ma assolutamente. Non mi permetterei mai. Ha un nome veramente bello. E' un nome latino che significa 'bianca'.Una persona che nutre molta speranza nel futuro e nella vita in generale; è gentile, ubbidiente e fiduciosa, cosa che la fa risultare un po' immatura, ma altre sì ricca di fascino a cui molte persone non sapranno resistere.”
 
“Lei ha inventato ora queste cose, vero?”
 
“No. Sono un appassionato della psiche e delle caratteristiche umane. Non a caso, sono uno psicologo. Piacere, Ivano Reggiani. Romano di nascita, Bolognese di adozione.”
 
“Psicologo eh? Fa lo strizzacervelli. Mi analizzi allora.”
 
“Ti ho analizzata da subito. Da quando ti ho vista con quel coltello conficcato nella pelle, con il viso completamente bianco e le labbra di un rosso acceso simile a delle ciliege. Stava tremando e le lacrime erano mischiate al sudore, aveva paura di quello che stava facendo, per questo ho deciso di aiutarla. Ma perché signorina? Perché un gesto così? Non so se si ricorda, ma lei mi ha chiesto di ucciderla.”
 
Me lo ricordavo. Lo ricordavo eccome. Non potevo più gestire questa situazione, non ero capace. Ero diventata una semplice pedina del sistema anche io. Io, che avevo fatto tanto per non farmi scoprire. Avrei voluto dirgli tutto, raccontare a questo perfetto sconosciuto tutte le mie turbe, le mie preoccupazioni, i miei mostri. Ma come avrei potuto? Poteva essere chiunque, e anche se questa esperienza sia sta devastante, una cosa me la aveva insegnata. Non fidarsi di nessuno. Mai e poi mai. Anche il più sincero degli amici, avrebbe potuto consegnarti alle autorità tedesche e saresti diventata carne da macello.
 
“Problemi vari che sono tramutati in questo. La guerra di certo non aiuta. Gli incubi, l’ansia, ma immagino che lei possa capirmi.” La prova del nove. La sua risposta avrebbe fatto intendere tanto su di lui.
 
Diede l’ultimo sorso al suo bicchiere di scotch e riprese a parlare “Immagino, immagino. Le dico una cosa. Io questa tortura la sto vivendo da vicino. Prima ero nei campi di prigionia a “studiare”l’uomo e il cervello umano con altri “studiosi”. Ma erano veri macellai, arrivavano cose in quei laboratori che lei nemmeno immagina. Per fortuna, non ho dovuto torcere un capello a nessuno in quei campi. Anzi, mi piaceva tanto una ragazza. Penso non avesse più di 16 anni, ma era bella, non avevo mai osato avvicinarmi a lei, avrei messo nei guai entrambi. Avevo imparato il suo numero a memoria. 039472. Ma un giorno 039472 sparì dal campo. Ero dispiaciuto nel non poterla vedere più, ma io sapevo cosa le fosse successo, e in qualche modo con la sua morte centro anche io.”
 
“E ora cosa sta facendo?”
 
“Sopravvivo. Continuo a collaborare con i tedeschi. Mussolini si è rivelato per quello che è sempre stato, ma che l’Italia non ha mai capito.”
 
“Va ancora nei campi di prigionia?”
 
“Sì. Nei campi di lavoro. Infatti, ora è come se fossi in vacanza. Cerco di ascoltare di nascosto i bambini, le donne incinte o comunque un po’tutti. Si scoprono delle storie incredibili, quelle persone hanno bisogno di parlare, di far uscire tutto fuori.”
 
“Ma non le fa neanche un po’rabbia tutto questo?”
 
“Certo che mi fa rabbia. Mi fa schifo, tristezza. Ma devo vivere, il mio lavoro lo so fare,ed anche bene. Ma ci dobbiamo accontentare.”
 
“Non bisogna mai accontentarsi. Ma apprezzo il suo disappunto.”
 
Mi sorrise. E io gli contraccambiai il sorriso, abbassando leggermente il capo dato il mio imbarazzo.
 
“Sei bella Alba.”
 
Alzai lo sguardo, arrossendo sulle guance. “Grazie.”
 
Si avvicinò leggermente a me, mi tolse il bicchiere dalle mani e lo poggiò sul tavolino di fronte il divano. Mi prese le mani ed iniziò ad accarezzarmi le nocche rovinate dal sangue.
 
“Alba, posso chiederti se vuoi uscire a cena con me?”
 
“Ma siamo nel bel mezzo di una guerra.”
 
“E allora? Viviamo ora, prima che domani sia troppo tardi.”
 
“Non lo so...”
 
“Dimmi di sì Alba e mi renderai un uomo felice. Domani sera. Al Palace. Ore 20. Dimmi di si.”
 
“Non posso.”
 
“Questo lo vedremo.” Stava sorridendo. Come facevo a dirlo agli altri? Come facevo a dirlo a Sandokan? Cazzo, gli altri. Cazzo, le armi.
 
Mi alzai di scatto, cercai le mie cose, ma mi resi subito conto che non avevo abbastanza forze per muovermi ancora. Lui mi prese da un braccio e mi porse la mia giacca.
 
“Ti porto in macchina a casa.”
 
“Che cosa? No, no. È meglio di no.”
 
“Perché?”
 
“Perché...perché...perché io sono povera, e mi vergogno.”
 
“Ma su dai, andiamo”
 
Ci infilammo nella sua macchina e proseguimmo poco più giù di casa mia, quando arrivammo speravo che già tutti loro dormissero. Scesi dalla macchina, ma Ivano spense i motori e mi si avvicinò.
 
“Alba.” Disse prendendomi le mani e proseguendo “Tu non hai idea della fortuna che ho avuto oggi nell’incontrarti. Mi sai di una persona buona e che soffre anche troppo. Permettimi di aiutarti e di conoscerti bene.”
 
“Ivano, io sono fidanzata.”
 
Mi guardò le mani. “Ma non hai l’anello.”
 
“Lo so. Ancora non è nulla di ufficiale, ma stiamo insieme. “
 
“Io fino a quando non vedrò una fede nuziale, non mollerò. Ti prego, concedimi un solo appuntamento. Vivi Alba.”
 
“Buonanotte Ivano. E grazie per tutto.”Dissi io iniziando ad entrare nel portone di casa.
 
“Domani alle 20 sarò qui giù, ti aspetterò dovessi odiarti. Buonanotte.” Disse infilandosi nell’auto.
 
Mi venne da ridere. Quello che avevo vissuto oggi era una storia che se la avessi raccontata a chiunque non ci avrebbe mai creduto. Io nemmeno lo avrei fatto. Salendo le scale del palazzo, mi sentii di nuovo una ragazza della mia età che vive i suoi 20 anni, corteggiata da un bel ragazzo. Ivano era un bellissimo uomo: capelli corti scuri, occhi nerissimi, occhiali da vista, baffetto che lo rende quasi un duro, alto e magro ma al punto giusto. Se non ci fosse stato Sandokan, lo avrei notato sicuro.
 
Entrai in casa e come ben sospettavo, trovai tutti svegli. Anna e Lila mi vennero incontro immediatamente per abbracciarmi. Mentre gli altri mi guardarono scioccati. Scommetto che erano più preoccupati per le armi che per che fine avessi fatto.
 
“Dove sono le armi?”Rocco venne verso di me immediatamente. Guardando la mia espressione da cagnolino bastonato, iniziò a ridere e a ridere e a ridere sempre più forte. Prese un piatto che era sul tavolo e lo lanciò vicino a me, distruggendolo in mille pezzi.
 
“Dove cazzo sono le armi Agata?”Questa volta venne verso di me però urlando e stringendomi le braccia. Ma Crusca e Lupo riuscirono a staccarlo. E Lila lo prese per mano, portandolo nell’altra stanza.
 
“Cosa hai fatto alla mano?” Mi chiese Harlem, prendendola nella sua per guardarla più da vicino.
 
“Niente.”Dissi io, per non far preoccupare Sandokan che era poggiato al balcone da quando ero entrata ma non aveva osato avvicinarsi.
 
“Va beh, questa giornata è andata. Non abbiamo risolto nulla. L’importante è che tu sia a casa. Viva. Domani se ne parla. Io vado a dormire. Buonanotte.”Disse Crusca con un tono stanco, quasi come se non avesse nè la forza e tanto meno la voglia di sentirci litigare.
 
Tutti lo seguirono a ruota. Dovevano essere svegli da chissà quanto. Avevo fatto preoccupare tutti inutilmente. In realtà ero in buone mani. Al pensiero di Ivano che si prende cura di me, mi viene spontaneo accennare un mezzo sorriso. Che sfortunatamente Sandokan, che era ancora poggiato lì e che continuava a fissarmi, notò. Feci finta di non vederlo e cercai di andare verso il mio letto passandogli davanti ma lui mi afferrò dal braccio e mi trascinò fuori sul terrazzo.
 
“Ora tu mi dici cosa hai fatto oggi. Nocche sfregiate, occhi stanchi, ritardo stranissimo. Cos’altro Alba? Eh?” Mi disse Sandokan urlando. Era arrabbiato ed aveva ragione.
 
Per rincarare la dose, sollevai la gonna e gli mostrai la ferita. “Mi sono infilzata un coltello nella coscia. Mi sono frenata. Volevo uccidermi. Ma non ho avuto le palle.”
 
Sandokan rimase allibito e rimase a fissare la ferita ma non ebbe il coraggio di toccarla. Solo al pensiero che fossi potuta morire per causa mia, lui si stava lacerando dentro. Era profondamente innamorato di me, ma io ancora non lo avevo capito del tutto. Lui mi prese la testa e me la spinse contro il suo petto, poggiandomi le mani sui capelli ed iniziando ad accarezzarmi i capelli. Io gli avvolsi le braccia intorno al petto. Mi era mancato.
 
“Alba. Io non sono il prototipo del ragazzo modello, ma se tu me lo farai fare a modo mio, saprò essere il fidanzato che ogni ragazza vorrebbe. Ma tu devi giurarmi, che non proverai più a fare una cosa del genere. Mai più, Alba.”
 
“Devo dirti una cosa importante Sandokan”
 
“Dimmi.”
 
“Oggi mi ha salvato un uomo. Mi ha portato a casa sua, mi ha curata, si è preoccupato per me. Abbiamo parlato un po’. Ovviamente non gli ho detto nulla, ma ho potuto evincere che lui è una brava persona. E domani ci esco a cena.”
 
Sandokan si staccò immediatamente da me. “Tu che cosa fai?”
 
“Esco a cena con lui. È un amico. Me lo ha chiesto e gli ho detto di sì.”
 
“Lo vedi Alba? Stare con te è come stare sulle montagne russe, per un momento siamo altissimi, penso che siamo pronti per vivere una vita normale, in una normalissima casetta con dei problemi normali, come la canzone che ti dedicai quella sera, che se non ti ricordi è Mille Lire Al Mese. E un attimo dopo, siamo a terra, abbiamo quasi paura di risalire perché nonostante conosciamo l’ebbrezza dell’essere su, conosciamo anche il dolore e la paura di una brusca discesa. Ora tu dimmi Alba, la nostra relazione ti annoia? Cercare di arrivare alla fine di una guerra per sposarti secondo te è noioso?”
 
“Senti, prima cosa non scendere nel vittimismo perché mi da fastidio e lo sai. Seconda cosa, io non capisco perché te la prendi tanto, non ti ho mica detto che ci siamo baciati o chissà cosa sia successo. Terzo, a me dispiace Sandokan ma io sono così, io non voglio più catene, non voglio più gente che mi dice cosa fare, io ora voglio solo essere libera e mi dispiace se pensi che io sia uno stupido gioco pericoloso per bambini, ma se hai paura dell’altezza e della velocità, sulle montagne russe non puoi salire.”
 
“Alba ma ti senti quando parli? Questo non ti ha invitato a cena per essere un tuo amico. Questo vuole mettersi con te o nel peggiore dei casi vuole portarti a letto e basta. Apri gli occhi e smettila. E poi io sono sicuro che tu lo fai solo per darmi fastidio e non perché ti piace davvero. Abbi un po’ di dignità, scema che non sei altro.”
 
“Come scusa?”
 
“ Abbi un po’ di dignità, scema che non sei altro. Lo ripeto all’infinito se serve.”
 
“Non considerarti più impegnato da ora in poi.”
 
“Ah perché lo ero?”
 
Colpo basso Sandokan. 

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Capitolo 23
*** Signor C. ***


Torino, 25 giugno 1951
 
“Salve Signor C.”
 
Andai direttamente verso di lui non appena finita quella sceneggiata che avevamo creato in quella sala convegni dell’hotel.
 
Il professore Marini aveva organizzato anche un rinfresco e una cena per il mio debutto nei circoli borghesi della città e ovviamente tutti i personaggi presenti alla presentazione della critica erano invitati a restare e così fu, fuorché Simari che si sentì umiliato.
 
Il Signor C. non perse tempo a restare e nonostante la sua uscita da paladino della giustizia durante il convegno, non ebbe il coraggio di venirmi a parlare, ma lo vidi per tutto il rinfresco fissarmi e sorridermi , anche quando conversava con qualche personaggio illustre con il rischio di apparire disinteressato e beffardo. Al mio arrivo inaspettato, sobbalzò solo sentendomi parlare e quando si girò lentamente per essere sicuro di aver sentito bene, mi regalò un sorriso a 32 denti. Che bel sorriso, Signor C.
 
“Signorina Giordano.” Mi prese la mano e me la baciò continuando a guardarmi negli occhi.
 
“Se non le dispiace, le vorrei fare qualche domanda. Così eh, di routine, ad esempio: Chi è lei?”Dissi io con fare ironico per non sembrare troppo scortese.
 
“Leonardo Conti, piacere.” Ridendo, mi porse la mano.
 
Finalmente riuscivo a dare un nome a quella immagine dislocata nei miei pensieri. Nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che lo avevo visto, non era cambiato moltissimo, anzi era migliorato. Il suo corpo e il suo viso erano perfettamente in armonia e i suoi occhi color ghiaccio erano capaci di farmi sentire una ragazzina alle prime armi.
 
“Ciao Leonardo Conti. Domanda numero due.”
 
“Ciao Agata Giordano. Mi dica.”
 
“Come mi ha trovato? E che cosa ci fa un’azionista di borsa qui?”
 
“Il suo libro è in ogni libreria italiana. Passeggiavo tranquillamente per Milano, fin quando non ho visto il suo viso esposto in una vetrina e mi sono innamorato per la seconda volta. Così tramite amici che lavorano nel suo stesso campo, ho scoperto di questo evento e poi il suo libro mi è piaciuto.”
 
“Lei è un abile adulatore.”
 
“E lei è un abile scrittrice.”
 
Sorrisi come se mi avesse detto che fossi la donna più bella del mondo, ma non mi sarebbe importato. Un uomo mi aveva scelta perché ero brava nel fare qualcosa, perché mi trovava intelligente.
 
“Rimane a cena?”Dissi io con tranquillità.
 
“Vorrei, davvero mi piacerebbe tanto, ma devo ritornare a Milano.”
 
“Ci stiamo separando di nuovo Signor Conti?” Dissi io con un velo di tristezza.
 
Lui mi prese le mani e se le avvicinò alle labbra per baciarle e poi mi guardò negli occhi. “No. Ti ho già persa una volta per uno sciocco scherzo del destino, adesso sono stato io a dirigere il destino e non ho nessuna intenzione di lasciarla andare via ancora una volta.”
 
“E allora che facciamo Leonardo?”
 
“Ti invito a cena. Al “Sol”. Il prossimo sabato. Non prendere impegni. Potrei offendermi.”

”Ci sto.”
 
E mi diede un bacio sulla guancia, andando via come se avesse un impegno inderogabile 2 minuti più tardi. Quell’uomo non faceva altro che scappare. Ma io ne ero sempre più affascinata.
 
Nonostante la felice apparizione dell’uomo che da pochi minuti avevo imparato si chiamasse Leonardo Conti, ero serena. Ero fiera di me stessa come lo ero stata poche volte nella mia vita. Avevo creato uno squadrone di giovani donne dedite alla lotta femminista, avevo portato una figura femminile fragile e la avevo fatta diventare un’eroina.
 
Tuttavia, sono consapevole mio malgrado, che molte donne nonostante abbiano letto il mio romanzo non abbiano avuto la forza di dire no al loro carnefice o al loro padre-padrone. O che alcune siano state uccise o massacrate proprio perché erano state beccate a leggere il mio libro. Ero diventata lo scandalo di Italia e avevo diviso la nazione in due fazioni: Chi leggeva il mio libro e lo amava e chi leggeva il mio libro e lo odiava.
 
Ero diventata di dominio pubblico. Ormai tutto quello che facevo e dicevo era sotto gli occhi di tutti, anche se molte volte le mie parole venivano travisate da qualche giornalista bisognoso di fama.
 
Mio figlio era stato preso d’assedio da giornalisti e da docenti troppo curiosi. Veniva preso di mira dai bambini delle mamme che mi odiavano, qualcuno era arrivato a dire che io, sua madre, facevo i bambini con tutti e poi li vendevo. E un bambino di 5 anni, cosa ne può capire? Ad oggi abbiamo già cambiato due scuole.
 
Ma c’è anche la parte bella. Sono invitata da molti giornali di rilievo e da tante emittenti televisive serie, il mio libro è su tutte le vetrine delle librerie e persino un grande magazzino, ha usato “Una donna come me”come slogan della sua ultima collezione di pantaloni femminili facendo riferimento a me e al mio libro, ovviamente pagandomi i diritti.
 
E anche questo mi rende grata di quello che sono diventata. Vengo retribuita bene, tra i diritti, le vendite, le interviste, i convegni sono riuscita ad acquistare quell’appartamento che tanto desideravo con Milena, sono riuscita a far andare Salvatore e Michele nelle migliori scuole di Torino e vivo una vita che già conoscevo ma che non pensavo mi sarei riguadagnata così.
 
Milena è soddisfatta quanto me di tutto quello che sta succedendo nelle nostre vite, anche se da solita pessimista quale è, dice sempre di non vivere come se stessimo nuotando nell’oro, perché prima o poi la ricchezza svanisce e le persone che rimangono senza un soldo poi non sanno più farne abbastanza.
 
Nonostante io le ripetessi di stare tranquilla, ero consapevole che aveva ragione. Nemmeno quando vivevo ancora a casa con i miei genitori, avevo avuto così tanto denaro fra le mani. Non avevo limiti, ad oggi avrei potuto comprare un auto o una barca e il giorno dopo non me en sarei pentita, ma sapevo che la ricchezza è effimera e prima di scadere in una retorica quasi borghese, avrei preferito iniziare a mettere i soldi da parte per il piccolo Michele, per la sua carriera universitaria se mai vorrà intraprenderla o per qualunque cosa lui abbia mai bisogno.
 
La cena di quella sera si svolse in maniera tranquilla e naturale. Non volevo cambiare la mia indole solo perché avevo avuto un brusco e veloce cambiamento sociale. Io ero venuta dalla borghesia, sono passata per la povertà, ho riconosciuto il successo e l’ho afferrato per ritornare in alto, ma posso sembrare cadere di nuovo giù.
 
Mi adeguerò se necessario, ho deciso che voglio trasformare questa mia passione per la lettura in un lavoro. Con l’appoggio del professor Marini, ormai un padre severo ma buono, so che posso riuscire a fare ogni cosa che voglio.
 
Torino, 1 luglio 1951
 
La mia camera semibuia tappezzata da una carta da parati orribile scelta da Milena è il mio nascondiglio segreto ormai da una settimana. Non esco mai dal mio covo, se non per andare in bagno. Questa solitudine mi ricorda i periodi della guerra, o quando ero da sola non appena arrivata a Torino dopo due anni. Sto provando a scrivere di nuovo, per trovare uno scopo nella vita, ma finora i miei sforzi sono stati vani.
 
Proprio sopra la scrivania c’è un enorme quadro di mia madre che mi guarda con il suo sguardo languido e malinconico quasi critico. Come se mi stesse giudicando, mentre scrivo di tutto su quel mio quaderno e i raggi di sole filtrano direttamente dalle veneziane al foglio.
 
Sento il rumore della radio nell’altra parte della stanza, suona “Parlami d’amore Mariù”, mente Teresa, la donna che ci pulisce la casa di pomeriggio, intona la canzone in una maniera mediocre ma non fastidiosa. Sebbene l’estate sia appena iniziata. Torino è stata presa di mira da un caldo, un caldo torrido quasi secco. Quel caldo che ti fa mancare quasi il respiro. I bambini sono stati mandati in vacanza in montagna, insieme ai figli di Emilia. Quindi quando Milena lavora o è fuori casa, la maggior parte delle volte, io rimango da sola.
 
A me piace stare da sola, in questa casa si respire un’aria tranquilla, quasi mite. Ma nel mio io c’è di tutto tranne che la calma. Non so definire se io stia bene o male e il che mi spaventa. Ma basta ricordarmi quello che è successo una settimana prima per far ritornare in me la serenità. Ma questa serenità a cui aspiro fortemente si rivelerà poi una semplice cosa effimera.
 
Questa sera ho un incontro con Leonardo Conti. Ero quasi tentata da lasciar perdere, di non far nulla. Ma poi mi sono fermata a pensare e mi sono chiesta “Da quanto tempo non ti senti donna?”. E la cosa più tragica è che non sono riuscita a trovare una risposta esatta, una risposta che mi facesse pensare all’ultima volta che ho avuto un rapporto reale con un uomo. Così evitai di farmi inutili paranoie, evitai di rovinare tutto come ero abituata a fare. Decisi di prendermi cura di quest’uomo sincero e vero, decisi di provare ad amare ancora una volta.
 
Leonardo è una persona buona e sincera. Non mi sembra uno di cui non potersi fidare, credo di poter ricominciare la mia vita da lui. Dal mio libro. Posso riprovare a vivere adesso. Questo pensiero mi portò immediatamente un’ispirazione che dovetti trascrivere tutte le mie emozioni contrastanti e cercare un filo conduttore del mio prossimo libro.
 
Una volta Virgilio, nelle sue Bucoliche, scrisse “Amor vincit omnia et nos cedamus amori”. Che letteralmente sta a significare “L’amore vince su tutto, e noi ci arrendiamo all’amore”. Non poteva essere più preciso il mio vecchio amico Virgilio. Per quanto possiamo provare ad evitarlo, possiamo provare a farne a meno, a convincerci che non ci serve, che non è necessario, ognuno di noi ha il bisogno di abbandonarsi ad un sentimento puro come l’amore. Io lo ho provato ed ho sofferto. Ma adesso, voglio ritentare. Voglio riprovare ad arrendermi all’amore e voglio che l’amore mi faccia sua.
 
Il momento dell’appuntamento era arrivato e decisi di indossare un vestito nero, un po’ stretto ma che non risultava volgare. Leonardo è una persona di gran classe , non la avrebbe presa benissimo. Legai i capelli in uno chignon un po’spettinato ed evitai di truccarmi per essere il più semplice possibile. Scesi le scale di casa e ad attendermi come ogni sera c’era Milena, che vedendomi agghindata come una vera diva dei film americani rimase sbigottita.
 
“Madre mia” Esordì con i suoi soliti modi di fare esagerati che però ti fanno sempre sbucare un sorriso inevitabile.
 
“Allora?Che ne pensi? Troppo volgare? Troppo succinto? I capelli? Stanno bene? Che dici?”
 
“Ma allora ci piace veramente sto Signor Conti.”
 
Accennai un sorriso e la abbracciai forte quasi come se la pregassi di non lasciarmi andare a quell’appuntamento. Io un vero appuntamento non lo avevo mai avuto. Con Michele non avrei mai preteso di ottenere una cena a lume di candele, ma neanche prima, seppur corteggiata da qualche figlio dell’alta borghesia torinese, qualcuno aveva mai osato andare da mio padre a chiedere se la figlioletta fosse disposta ad uscire con uno di loro.
 
Mi incamminai verso la porta di uscita, mi lasciai il grande portone di casa alle spalle e mi preparai a percorrere quella grande scalinata che mi divideva dall’uscita del palazzo. Dopo tanto tempo ero di nuovo terrorizzata. Ma questa volta in termini positivi. Ero elettrizzata di poter concedermi del tempo per me stessa, avere del tempo da passare in compagnia di un uomo che non fosse un amico. Di un uomo che finalmente mi guardasse come se fossi la donna più bella del mondo e che riservasse alcune attenzioni solo per me. Presi coraggio e finalmente arrivai al termine di quella lunga scala. Percorsi gli ultimi metri che mi separavano dal portone e finalmente lo vidi. Leonardo era fuori dalla sua auto parcheggiata dall’altra estremità della carreggiata, indossava uno splendido completo blu e una camicia bianca, fumava una sigaretta e il lampione gli illuminava solo parte del viso. Era bello. In quel momento sembrava un attore, era quasi in posa, come se sapesse che la gente lo avrebbe osservato o addirittura qualcuno lo avesse fotografato.
 
Mi incamminai verso la sua macchina e lui non appena si accorse di me, mise via quella sua espressione sovrappensiero che ritenevo fosse molto affascinante. Gettò via la sigaretta e mi regalò uno dei più bei sorrisi che un uomo può donare alla propria donna, e io non ero neppure la sua donna. Si infilò nell’auto subito dopo che io feci lo stesso dal lato passeggero, sapeva perfettamente che non avrei mai voluto che mi aprisse la portiera.
 
“Sei decisamente in ritardo, Agata.”esorti lui provocandomi con una nota di ironia.
 
“Sei particolarmente affascinante quando fumi la tua sigaretta sovrappensiero.”
 
Mi guardò sorridendomi. “Sorvoliamo su questo ritardo.”
 
La cena trascorse ovviamente in maniera piacevole. Sembrò quasi come la prima volta che parlammo in treno. Sembrava quasi come se nessuno dei due volessimo far terminare quella cena, era inspiegabile il senso di appartenenza che nutrivo per quest’uomo e che senza nessuna ragione mi spingeva ad avere una sete sempre più incessante di lui. Riuscivamo a trovare sempre più argomenti di discussione e anche se doveva esprimere dissenso nei miei riguardi, non lo faceva mai con maleducazione ma come un vero signore mi sorrideva e mi spiegava la sua idea. Questo era il tipo di amore che ho sempre voluto, ma continuo a vivere con la costante paura che un giorno questo bell’uomo possa trasformarsi in una fotocopia scadente di mio padre e del signor Mario.
 
“Io penso che dovremmo andare via perché siamo rimasti solo noi e i camerieri iniziano a guardarci molto male.” Disse lui sottovoce ridendo.
 
E allora ci alzammo e dopo aver pagato ci incamminammo verso l’uscita. Dopo qualche secondo di paralisi da parte di entrambi, Leonardo si avvicinò sempre di più alla mia bocca, avevo intuito che bramasse un mio bacio quasi quanto io bramassi le sue labbra, ma per me era troppo precario. Non era il contesto giusto e con leggerezza evitai che accadesse.
 
“Hai da fare questa notte?” Dissi io.
 
“Si, passare la serata con una splendida donna.”
 
“E allora lascia che questa donna ti faccia fare un tour guidato.”
 
Lo presi sotto braccio e dal Sol ci incamminammo verso le strade di Torino. Gli mostrai tappa per tappa tutte le cose più care della mia vita. La mia casa di infanzia e gli raccontai tutta la mia storia, dalla mia nascita fino alla partenza per Bologna. Passammo davanti casa Giraudo e gli raccontai di Giovanni, della nostra profonda amicizia e del legame che da sempre ci ha unito, gli ho raccontato della sua omosessualità e come questo lo abbia portato a preferire la morte piuttosto che combattere per essere felice. Passammo davanti la panetteria dove lavorava Ginevra e la staccionata di fronte la caserma dove solavamo passare le nostre giornate e della fine che lei abbia fatto, punita per essere sterile. Poi passammo dal convento, gli raccontai di Suor Costanza e di come questo posto sia stato il mio porto sicuro, come mi abbia portato fino a Milena e poi finalmente davanti al Partito.
 
“Da qui anni fa è cambiata la mia vita.”esitai un secondo, per rimandare indietro le lacrime, ma poi continuai “Feci tutto per rivalsa, adesso con una certa maturità me ne rendo conto. Ero un incosciente a mettere a repentaglio la mia intera esistenza solo per dimostrare alla gente che io ero una che poteva farcela. Però non posso pentirmene, perché oltre ad avermi regalato momenti meravigliosi e anche altri molto spaventosi, mi è servito per conoscermi. Io non sapevo chi fossi, mi vedevo come una ragazzina curiosa sempre alla ricerca di qualcosa di più, tendevo sempre a voler fare un passo avanti, e poi quando sono tornata, mi sono resa conto di aver costruito una donna che non ha ancora smesso di compiere il suo passo avanti. Quando ero lì ho conosciuto un uomo, Michele, ne ero perdutamente innamorata e lui lo era di me sebbene gli inizi non siano stati dei più rosei, ma poi me lo hanno ucciso, a due passi dalla vittoria. Io avrò sempre il suo ricordo vivo in me e finché ne avrò le forze sono sicura che lui continuerà a vivere grazie a me.”
 
“Hai detto delle cose bellissime.”
 
“Ma non è tutto.”
 
“Non avevo dubbi.”Disse accennando una risata.
 
“Michele vivrà anche grazie alla creatura che mi ha regalato prima che lui potesse anche solo saperlo. Ho un figlio, Leonardo. Io spero che per te questo non sia un problema, perché tu mi piaci davvero tanto ma è evidente che io ho delle priorità.”
 
“Problema? Agata ma cosa dici? Questo non fa che confermare che tu sei la donna più straordinaria che io abbia mai conosciuto in vita mia. “
 
“Adesso dovresti baciarmi.”
 
“Non aspettavo altro da quel giorno sul treno.”
 
E mi cinse la vita come se non volesse lasciarmi più andare, mi stampò un bacio appassionato dritto sulle labbra concedendomi anche qualche frivolezza da ragazzini, prese a baciarmi sempre con più insistenza, costringendomi a lasciarmi andare totalmente a lui. Mi baciò sul collo, sul petto, sul lobo, per poi ritornare sulle labbra coinvolgendomi nell’esplosione che stava avvenendo tra le nostre labbra. Ero sua e non desideravo altro. 

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